Romina Paula, Agosto (estratto)

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Romina Paula Agosto ROMANZO «Una scrittura visceralmente credibile: fatta di dubbi, di entusiasmi passeggeri e autoironia. Con un sorriso colpisce duramente e non perdona.» Revista Ñ

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Emilia si è trasferita a Buenos Aires già da parecchi anni e lì divide un appartamento con il fratello e il fidanzato. È innamorata, le piacciono la sua vita e il suo quartiere. Sembra felice. O forse no? Il dubbio s’insinua per colpa di una telefonata dei genitori di Andrea, una sua amica scomparsa cinque anni prima, che le chiedono di tornare a Esquel, suo paese natale in Patagonia, per partecipare a una cerimonia di commemorazione. Emilia parte, giunge a Esquel ma lì, ad attenderla alla stazione dei pullman, c’è la malinconia causata dal ricordo dell’amica scomparsa, da tutte le piccole sparizioni quotidiane che lei registra meticolosamente, da ciò che ormai appartiene al passato e non potrà mai più tornare: la famiglia, gli amici, l’ex fidanzato che si è rifatto una vita. Agosto è il racconto di un viaggio, non però il consueto viaggio iniziatico. Al contrario: in questo viaggio nulla inizia, nulla è sospinto verso il futuro, è il passato che ritorna per mettere in discussione un presente stabile ma insoddisfacente.

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milia si è trasferita a Buenos Aires già da parecchi anni e lì divide un appartamento con il fratello e il fidanzato. È

innamorata, le piacciono la sua vita e il suo quartiere. Sembra felice. O forse no?Il dubbio s’insinua per colpa di una telefonata dei genitori di Andrea, una sua amica scomparsa cinque anni prima, che le chiedono di tornare a Esquel, suo paese natale in Patagonia, per partecipare a una cerimonia di commemorazione.Emilia parte, giunge a Esquel ma lì, ad attenderla alla stazio-ne dei pullman, c’è la malinconia causata dal ricordo dell’amica scomparsa, da tutte le piccole sparizioni quotidiane che lei re-gistra meticolosamente, da ciò che ormai appartiene al passato e non potrà mai più tornare: la famiglia, gli amici, l’ex fidanzato che si è rifatto una vita.Agosto è il racconto di un viaggio, non però il consueto viag-gio iniziatico. Al contrario: in questo viaggio nulla inizia, nulla è sospinto verso il futuro, è il passato che ritorna per mettere in discussione un presente stabile ma insoddisfacente.

«Leggete Agosto perché è la voce di una generazione senza pre-tendere di rappresentarla, perché cattura come un romanzo giallo, perché ci rivolge delle domande a cui nessuno può esimersi dal ri-spondere.»

Revista Ñ

ISBN 978-88-8373-265-2

www.lanuovafrontiera.it

9 788883 732652

ISBN 978-88-8373-265-2

Romina Paula è nata a Buenos Aires nel 1979. Attrice, drammaturga e regista teatrale esor-

disce nel 2005 con il romanzo ¿Vos me querés a mí?, che riceve imme-diatamente il plauso della critica. Nel 2009 pubblica Agosto che con-ferma la sua come una delle voci più interessanti della letteratura argentina contemporanea. I suoi ultimi lavori sono opere teatrali: Fauna, El tiempo todo entero e Algo de ruido hace.

Violetta Colonnelli, nata a Roma nel 1986, è cresciuta tra l’Italia e l’Argentina. Dopo la laurea in Let-tere ha cominciato a occuparsi di traduzione dallo spagnolo e attual-mente collabora con diverse case editrici, tra cui Mondadori e Sur. Alla traduzione affianca l’attività di scouting e il lavoro in una stori-ca libreria di Roma.

€ 15,00

Paula Agosto

«Io non avevo tanto da dire, anzi niente, e non mi sono state fatte troppe domande. Con tutti quegli adulti, mi sono sentita figlia. Mi sono sentita autorizzata a starmene zitta, a non avere, per un po’, opi-nioni su niente; forse mi sarei anche potuta addormentare sul tavolo, o stendermi su due sedie, e nessuno se ne sarebbe accorto.»

Romina Paula Agosto

romanzo

«Una scrittura visceralmente credibile: fatta di dubbi,di entusiasmi passeggerie autoironia.Con un sorriso colpisceduramente e non perdona.» Revista Ñ

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Romina Paula Agosto

romanzo

Traduzione dallo spagnolo (Argentina)di Violetta Colonnelli

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Titolo originale: Agosto© Romina Paula, 2009© Editorial Entropía

© La Nuova Frontiera, 2014Via Pietro Giannone, 10 - 00195 RomaISBN 978-88-8373-265-2

Obra editada en el marco del Programa “Sur” de Apoyo a las Traducciones del Ministerio de Relaciones Exteriores, Comercio Internacional y Culto de la República Argentina.Opera pubblicata grazie al programma Sur di aiuto alle traduzioni del Ministerodegli Affari Esteri, Commercio Internazionale e Culto della Repubblica Argentina.

Progetto grafico di Flavio Dionisi

www.lanuovafrontiera.it

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La ragazza torna col volto da roditore, sfigurata dal non voler sapere cosa significa esser giovani.

Héctor Viel Temperley, Hospital Británico

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Vogliono disperdere le tue ceneri, una cosa del genere; vogliono disperderti.

Me lo ha detto ieri tuo padre quando ci siamo incontrati, mi ha raccontato il fatto dei cinque anni. In realtà già lo sapevo, ma forse non avevo realizzato che era scaduto il termine di legge. Be-vevamo vino bianco, chissà perché, forse per lo stupore. Non mi piace neanche il vino bianco. Siamo andati in un bar con i faretti dicroici e le pareti gialle, perché sì, era vicino e aveva il riscalda-mento acceso. Non abbiamo mangiato niente, era troppo presto per la cena, e troppo tardi per la merenda. E poi ci eravamo già decisi per il vino. Bianco. Quindi immaginati che botta. Il vino, le ceneri, le due cose insieme. Jorge mi dice che ora si può esumare il corpo, il tuo, che ormai possiamo esumarti, cioè, possiamo di-sporre di te. Visto che è scaduto il termine legale per l’esumazione ti possono tirare fuori da quella tomba anonima e disporre, di-sporre del tuo corpo. Mi dice che ti vogliono tirare fuori da lì per disperderti altrove, pare che ti vogliano disperdere da qualche parte, o seppellirti, non so, non ho capito molto bene, credo che neanche loro abbiano le idee molto chiare su cosa fare. Ci teneva a raccontarmelo di persona, a invitarmi a casa tua, per le spese del viaggio non c’è problema, non mi devo preoccupare se non ce la faccio, loro vogliono a tutti i costi che io sia lì, è importante che ci sia. Voleva coinvolgermi, comunicarmi la decisione, sapere cosa ne pensassi.

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Cinque anni, porca puttana, non ci posso credere, sono già pas-sati cinque anni. Certo che sì, certo che ho qualcosa da dire, ho molto da dire, un sacco di anni senza quasi parlarne, solo qualche parola con le stesse – poche – persone, certo che ho qualcosa da dire.

Cerco di parlare, tento di impormi, cerco di farmi forza con il vino, un lungo sorso di chablis per attirare l’attenzione di tuo padre, che guarda fuori dalla finestra, non ha fretta, è tranquillo, e proprio in quel momento mi prende un’emozione terribile, un’angoscia in-controllabile, non voglio piangere davanti a tuo padre, sembra così controllato, piangere davanti a lui, no. Non so se il vino bianco abbia contribuito, al tremolio, dico, perché ormai è da un pezzo che riesco a nominarti senza perdere la compostezza, riesco anche a parlare di ciò che è successo, di ciò che ti è successo, dire dopo la morte di e non più dopo il fatto di, che, lo sappiamo, è più ambiguo e si presta a confusione. O almeno non fa riferimento alla scompar-sa totale. Vedi? Anche adesso riesco a dire, a nominare, a scrivere queste cose senza commuovermi, solo che in quel momento lì, non so, povero tuo padre. Forse è stata anche la sorpresa, perché certo, ero contenta di incontrarlo, di vederlo, di avere notizie della tua famiglia, e non ero preparata, non ero pronta per niente di triste, o troppo triste, e quindi mi ha colto di sorpresa. E poi il vino, io il vino bianco non lo bevo mai. Così mi racconta della cremazione, mi chiede che ne pensi, gli interessa il mio parere, e insomma, io faccio uno sforzo, cerco di ricompormi, di controllare la mascella, la mandibola e gli dico, non so come, che sono d’accordo, che per me va bene qualsiasi cosa decidano di fare, perché in realtà tutti quei riti che hanno a che fare con la morte sono più per chi resta che per chi se ne è andato. E che se a loro sembrava meglio, se il cimitero per loro non aveva alcun valore, come posto da visitare, di riferimento, che lo facessero, che per me andava bene, anzi mi sembrava anche una buona conclusione, considerando che si sta-

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vano per compiere i cinque anni. Gli ho detto qualcosa del genere, ho parlato con veemenza, credo, per il vino, immagino, ho parlato con convinzione perché volevo proprio che non si accorgesse della mia tristezza. Spero di non aver esagerato. Dopo abbiamo brinda-to e per tranquillizzarmi, per raffreddare la situazione, ho cercato di ripercorrere mentalmente le puntate di Six Feet Under, pensa-vo alla naturalizzazione, alla morte come qualcosa di quotidiano, come stato di quiete. Ma è stato difficile, per qualche ragione non sono riuscita ad avere quella sensazione di quotidianità della fa-miglia Fisher. Poi abbiamo continuato a parlare di altre cose, mi sono ripresa, e dopo un po’ ci siamo salutati. Quando tuo padre mi ha abbracciato le mie ginocchia hanno cominciato a tremare e per poco non hanno ceduto di nuovo, come quel giorno. Mi sono commossa, se ne è accorto, anche lui era agitato.

All’inizio, non so in che ordine, sto annaffiando le piante in un giardino, sono a Esquel, è il giardino di casa mia a Esquel, di casa di mio padre, sovrapposto però a casa tua. Annaffio gli alberi ai lati, ricordo il loro ordine, albero dopo albero, e la sensazione di muovermi da un’ombra all’altra, dove cresce l’erba e dove no. L’eucalipto, la quercia, il pino, il pino con i suoi frutti a forma di rosette, le rose del pino, marroni, di legno, fiori di legno; lo spazio per il cancello, senza alberi, il terreno coltivato, l’orticello con i lamponi, che dà pochi frutti, l’albero dai rami pari, paralleli fin da terra, perfetti per arrampicarsi, e i suoi frutti gialli e arancioni, appiccicosi, sono i suoi fiori? L’abete, uguale a un pino però az-zurro, impossibile da scalare, e per questo un po’ anonimo, senza molta personalità, per noi che misuriamo gli alberi in relazione alla loro praticità. È tutto molto secco e non riesco a controllare bene il tubo dell’acqua, perché è grande, largo e la pressione è alta. È giallo?

Dopodiché sono all’università e qualcuno mi tocca la punta di

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un dente, uno degli incisivi, un pezzetto che sembra essere stacca-to, ed è così che mi si rompono tutti i denti, tutta la parte davanti cade in pezzi, come se fossero vetri. Mi rimangono frammenti di denti, appuntiti e aguzzi, come quelli di un roditore, però rotti. Sorpresa e dolore.

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Ultimamente sento rumore di topi in continuazione. Il che si traduce in: voglio cambiare casa, me ne voglio andare da qui. Ra-miro invece no. Ramiro dice che è una cavolata. Sostiene che in città i topi sono ovunque, che dobbiamo ringraziare che non sia un ratto e che la cosa si può risolvere semplicemente smettendo di tenere cibo nella dispensa. Intanto ogni volta che trovo un nuo-vo pacchetto smangiucchiato dai dentini della bestiola mi viene voglia di vomitare. E di andarmene, di trasferirmi. Ramiro dice che ogni volta che c’è un problema, per piccolo che sia, invece di pensare a come risolverlo io preferisco andarmene. Può darsi. Ma non vedo proprio soluzione a questo problema. E poi non è l’unico. Problema, intendo. D’altra parte quello che lui definisce fuggire forse è il mio spirito di conservazione. Per me l’invasione del topo non è altro che la conferma dello stato di abbandono in cui versa la casa, di quanto poco siamo presenti in questa casa (al-meno io), tanto da consentire l’avanzata di una cosa del genere, un altro essere. E se così non fosse, come si spiega che sia comparso solo ora e non, e mai negli ultimi anni? Non credo sia un caso. O forse sì, meglio, una sommatoria di casualità che configurano la storia del topo. Prima il sogno dei denti di roditore. Poi una sera, sulla strada di casa, alzo lo sguardo e vedo un topo correre sui cavi della corrente, come se fossero sentieri, con determinazione, sicurezza. Qualche giorno dopo ne trovo un altro, un altro topo in un altro quartiere, morto, rigido. È sul ciglio della strada, faccio

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due più due e sospetto che abbia preso la scossa e sia caduto così, stecchito, sul marciapiede, duro. E dopo, dall’autobus, vedo i ratti, questi sì, questi sì che sono giganti, li vedo circolare, andare da un edificio abbandonato a un cumulo di spazzatura, rubano qualcosa, da mangiare, vanno e vengono, molto veloci, elettrizzati, uno ha un pezzo di pane. Osservo come si moltiplicano sotto il mio sguardo, ce ne sono sempre di più e mi obbligano a pensare al roditore, al nostro. È uno? Sono di più? Magari una famiglia? Si fanno i fatti loro, o meglio fanno loro la nostra dispensa. Mi rassegno, voglio lasciargli la casa, non voglio ucciderlo, non voglio avvelenarlo, se muore nella mia cucina me ne vorrò andare comunque. Che schifo, ormai è andata, la frittata è fatta, il topo è lì, ormai ci siamo visti, ci siamo guardati negli occhi, non posso più ucciderlo o farlo uccide-re né tanto meno conviverci. La cucina è sua, mi arrendo. Cerco di ricordare in quale film fosse – Film Blu o Film Rosso? – che la tipa trovava un topo, o addirittura una mamma-topo con cuccioli di topo nella dispensa o dove lavava i panni, non ricordo, e gli faceva molta impressione. Quando vidi quell’episodio non avevo capito perché tante storie per dei piccoli topi. Mi pare che poi la protago-nista prendeva un gatto in prestito dal vicino e lo rinchiudeva nella stanza con i topi perché facesse il suo dovere e mi ricordo che era in grande difficoltà, perché forse tra lei e quella mamma-topo si era stabilito una specie di parallelismo. Questo era in Film Blu. Beh, se invece era Film Rosso, è lo stesso, l’identificazione tra il topo e lei, tutte ragazze tragiche, tutte donne che soffrono, tutte tragiche.

Non ci voglio più vivere qui. Ramiro dice di fare così, di prende-re un gatto. Se mi sono impietosita come una stupida e mi rifiuto di ammazzarlo o avvelenarlo, che lasci almeno che la natura faccia il suo corso, che il gatto faccia quello che sa fare, noi non vedre-mo niente, non ce ne accorgeremo neppure, forse il topo neanche viene, magari non torna se sente l’odore del gatto. Può darsi. E mi ha anche ricordato di quando entrarono i ladri a casa, lì a Esquel,

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anche in quell’occasione avevo proposto di trasferirci. Non me lo ricordavo, è stato tanto tempo fa, però è vero. Sì, per me quel senso di intrusione fu terribile, non per un fatto materiale, non mi ricordo neanche cosa rubarono, però mi ricordo, e questo ci ho messo tan-to a superarlo, che entrarono mentre stavamo dormendo, mentre eravamo lì, tutti e tre a casa, perché allora eravamo ancora in tre, papà non si era ancora risposato. Non chiusi occhio la notte dopo, né molte, molte altre notti ancora. In realtà non è che non dormis-si, mi svegliavo all’alba, sempre alla stessa ora. Andavo in salotto dov’era il videoregistratore, con i numeretti verdi che dicevano l’o-ra, quello non riuscirono a portarlo via, si vede che li disturbò un rumore, o qualcosa del genere, fatto sta che lo lasciarono e allora io mi svegliavo sempre alla stessa ora, nel panico, così, come se avessi un orologio interiore, mi alzavo e mi affacciavo sul corridoio che dava direttamente al salotto dove c’erano la televisione e il videore-gistratore. Controllavo che la luce verde del videoregistratore fosse visibile, se il percorso della luce dei numeri era quello di sempre, che conoscevo, o se era ostruito da qualcosa. Se era tutto a posto, eravamo al sicuro, almeno per quella notte. Se invece ci fosse stato qualcosa ad ostacolare la luce, o se semplicemente la luce non ci fosse stata, voleva dire che eravamo stati attaccati di nuovo. E così per tante notti, notte dopo notte, mentre mio padre e mio fratello dormivano senza accorgersi che io passeggiavo, che qualcuno cam-minava per casa, vegliava sul sonno, sul loro sonno. Non so quanto sia durato, ovviamente a loro non parlavo delle mie deambulazioni notturne, non gli ho mai detto niente, però insistevo perché cam-biassimo casa. Per me, allora, quella casa aveva ormai compiuto il suo ciclo: era da lì che mia madre era fuggita, era lì dove non era voluta stare con noi (né lì né da nessun’altra parte, adesso lo so, allora non mi era così chiaro) e, come se non bastasse, avevamo iniziato ad essere vulnerabili anche dall’esterno. Per me era più che sufficiente per dichiararla maledetta. Maledetto. L’appartamento.

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Un appartamento maledetto. Ma l’argomentazione di mio padre fu sempre più fredda e concreta della mia: dove cazzo volevo che an-dassimo? Efficace. E rovesciava il mio assunto: casa nostra a quel punto era più sicura di qualunque altra, di tutte le altre, perché la probabilità di essere presi d’assalto una seconda volta era una su mille, su milioni. Non so, non mi aveva convinto, ma non potevo far altro che ubbidire. Poi a un certo punto, non so quando, smisi di svegliarmi alle tre di mattina e basta, mi passò. Mio padre vive ancora lì. Immagino che le ragioni che io avevo per andarmene erano le stesse che aveva lui per restare. D’altra parte immagino che lui credesse veramente a quella statistica. Ramiro mi ricordava proprio questo, come quella volta avessi insistito tanto per andar-cene, ma poi mi era passata, semplicemente evaporata/svanita. È vero, ora non riesco a fare molto senza di lui, senza il suo consenso. Non posso vivere da sola. E nemmeno con Manuel. Credo che accetterò l’invito dei tuoi. Qualche giorno a casa, al sud, potrebbe farmi proprio bene. Nel frattempo, che il gatto faccia quello che deve fare. Io, dal canto mio, preferisco non esserci.

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Ferma prima a Liniers. La scelta del posto a sedere non è stata così male dopotutto, ha due vantaggi: è al piano di sopra, e più o meno al centro. Accanto a me, nessuno. Individuo subito l’unico piccolo problema, e cioè una specie di paraurti proprio sulla mia porzione di finestrino, che quindi delimita il finestrino, una por-zione di vetro, proprio davanti a me. Brutte notizie: la vista non sarà delle migliori. Concludo, però, a mio favore, che in termini di sicurezza non mi posso lamentare perché quel paraurti potrebbe attutire un eventuale colpo, nel caso fosse necessario, è un paraur-ti, almeno non è vetro. Mi riconcilio, così, con quella porzione di gomma e lamiera che c’è tra me e il paesaggio. L’uscita dalla città è un inferno, ci mettiamo un’ora dalla stazione degli autobus di Re-tiro a Liniers. Emilia da Retiro a Liniers, un altro film. In quell’ora Clemente, il nostro assistente di bordo, è impegnato a darci il ben-venuto, ci spiega che ci verrà servita una cena calda, un caffè, op-pure un whisky per il film e, poco prima di Bariloche, la colazione. A Clemente piacciono molto il suo lavoro e il microfono, è molto contento di poterci raccontare tutto ciò che ci racconta, e di farlo con un microfono. Clemente si muove velocemente tra i sedili e ci proibisce di andare al bagno per i bisogni solidi. Lo ripete. Dice: lo ripetiamo, niente bisogni solidi. La sola proibizione mi fa venire i crampi. Il sedile è spazioso, non ho nessuno accanto, l’autobus non è pieno, ci offrono del vino per la cena e del whisky per dopo, ma tutto ciò che all’inizio sembra così promettente si trasforma presto

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in un incubo. Clemente pensa di dover intrattenere i passeggeri per l’intera durata del viaggio, come se guardare dal finestrino non fosse abbastanza. Quando non parla al microfono, cammina tra i sedili e consegna, ritira o offre il refill di qualcosa, ci chiede se ab-biamo caldo, se abbiamo freddo, se va bene l’aria condizionata. Io provo a guardare fuori dal finestrino perché non mi parli, e invece mi invita a chiudere la tendina per le pietre. Pietre? Fuori non c’è altro che pianura, nemmeno una casa. Praticamente non c’è più il paesaggio. Provo, allora, a interessarmi al film, ormai iniziato da un pezzo, in cui un signore muscoloso deve fare da bambinaia a un gruppo di ragazzini biondissimi che non gli danno retta. Ha i biberon alla cintola come fossero granate. Non funziona. Non mi piace e non riesco a dormire. Clemente va e viene. Basta Clemente, basta, per favore. Qualche signore russa già. Mi rendo conto, non senza frustrazione, che il viaggio che avevo immaginato e deside-rato non ci sarà. Quell’idea che avevo di guardare dal finestrino e lasciarmi andare, lasciar correre i pensieri, non sarà realizzabile. Sono rinchiusa in una stanza con le ruote che puzza come una gab-bia di scimmie con Clemente che fa su e giù. E poi sono stanca ma non ho sonno.

Disubbidisco all’assistente di viaggio e apro un po’ la tendina. Vedo poco ma ho bisogno di distrarre la mia attenzione dal bam-binaio culturista. Voglio poter lasciare Buenos Aires per vedere cosa mi succede lì. Penso alla faccia di Manuel ai piedi dell’auto-bus, alla stazione, penso ai suoi jeans scoloriti, alle sue scarpe da ginnastica, ai ricci, a come mi ha guardato, a come ha aspettato che me ne andassi con le mani in tasca, ai dolcetti che mi ha infilato in tasca nell’ultimo abbraccio. Mi manca già, è una cosa che succe-de in quelle relazioni in cui si sta sempre insieme, l’altro diventa imprescindibile, organico, e la cosa non va mica tanto bene. Che il suo corpo sia – di fatto – così lontano dal mio, mi destabilizza, o almeno mi sconcerta. Ho perso l’abitudine, già, l’ho persa. Ho

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perso l’abitudine di stare da sola. Sola. Adesso, su quest’autobus, comincio a sentire una specie di astinenza da Manuel. Però: lo scel-go? Lo sceglierei adesso, iniziando daccapo? Adesso potrei deci-dere di non sceglierlo? L’ho scelto, ma ho mai scelto tutto questo in qualche momento? Com’è iniziata? Non mi ricordo quasi più com’è iniziata. Tramite Ramiro, sì. A una festa, certo. Dopo molte notti in bianco, di sicuro, e anche qualche pomeriggio passato a bere mate. All’inizio non mi diceva niente, non mi aveva colpito granché, ero ossessionata da un ragazzo dell’università e non vede-vo in Manolo, l’amico di mio fratello, nient’altro che un amico di mio fratello. Poi all’improvviso vengo a sapere, perché me lo dice mio fratello svogliatamente, quasi suo malgrado, che a quel ragazzo piaccio molto, a quel Manolo, quello riccio, che gli piaccio e che chiede spesso di me. La notizia mi sorprende e mi destabilizza: non mi ero accorta di piacergli, per niente, non ci avevo pensato, per niente, mai, nemmeno per un istante avevo visto in lui un possibile candidato. Mi devo essere ubriacata a una festa e ci siamo ritrovati a baciarci, dopo un concerto, vicino Banfield o Lanús, avevo vo-mitato, e lui si era preso cura di me e voleva continuare a baciarmi anche dopo aver vomitato, e siamo tornati in treno alla stazione Costitución una mattina di domenica, la mia guancia sul suo bave-ro, o sulla sciarpa, o tra il bavero e la sciarpa. Ricordo di non averci pensato tanto, sono rimasta a dormire con lui e non ci siamo più separati. Ormai da due anni, sono passati più o meno due anni da quella mattina e non mi sono mai posta questa domanda prima, né dopo né durante, semplicemente è andata così e io mi sono af-fezionata a poco a poco, fino ad affezionarmici del tutto, e non ci siamo più separati, da quei baci vicino al palco dopo quel concerto a Lanús. O a Banfield. Da quella sera in cui mi era piaciuto che si fosse preso cura del mio vomito, che avesse continuato a baciarmi e che mi avesse preso per mano andando alla stazione, con la borsa sulla spalla, la mia, per aiutarmi, che mi prendesse già per mano,

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come se fossimo fidanzati, come se se ne appropriasse, e io, ubriaca com’ero, lo lasciavo fare, perché mi sentivo così male ma anche così bene, anche per quello.

La mattina Clemente ci sveglia, non senza violenza, mettendo su un dvd di musica latina. Apro gli occhi e oltre alla Patagonia vedo Ricardo Montaner vestito di bianco tra le terrazze greche, molto bianche, mentre canta insieme a una ragazza mora vestita come una bambola che si pavoneggia su una spiaggia. Ricardo canta tra le barche, al tramonto, in interni pieni di suppellettili di terracotta. Clemente viene e va, diligente. È pettinato, si vede che ci ha per-so del tempo. Mi sbatte un vassoio sulle gambe mentre cerco di cancellare il solco che la cornice del finestrino mi ha lasciato sulla guancia. Ho la fronte umida e i capelli appiccicati. Il sudore del vetro è diventato acqua sulla mia fronte. Fuori, le montagne. Man-ca un’ora, più o meno, e saremo a Bariloche. Ho sognato qualcosa di strano, non so bene cosa ma mi tormenta. Qualche sensazione familiare, recuperata.

Quando scendo dall’autobus a Bariloche il vento del Nahuel Huapi mi scompiglia la frangetta e l’aria gelata mi stappa il naso, ancora pieno dell’odore delle persone. Palpo il freddo con i denti, apro la bocca, lo ingoio: ingoio un boccone d’aria del sud. Comin-cio a sentirmi bene. Adesso, da qui, da questa stazione, mentre aspetto il mio turno per riprendere la valigia, comincio già a sentire Manuel, i suoi pantaloni, i suo ricci, come qualcosa di più lontano/distante.

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Lunedì. Non so bene come districarmi/stare a casa tua, non so che fare. Cerco di muovermi per recuperare una certa familiari-tà: perlustro. La tua gatta non mi riconosce, mi guarda da lontano e se mi avvicino per provare ad accarezzarla mi morde. Quando dorme mi dà le spalle, me le dedica. Credo di meritarmelo, perché l’ho abbandonata, all’improvviso sono scomparsa così crudelmen-te, come se fosse sempre stata nient’altro che una tua appendice. Svuoto qualche posacenere; tua madre, ovviamente, mi ha detto di mettermi comoda, di fare quello che voglio, di sentirmi a casa. Però non è casa mia e non sono neanche sicura che sia mai stata la tua. Jorge mi lascia perfino usare il computer, pensa quanto è scosso, mi ha addirittura scritto la password su un fogliettino giallo, quelli che hanno la colla da una parte, per ricordare le cose, con la specifica richiesta di memorizzarla e distruggere immediatamente ogni traccia. Non so bene cosa fare, lo ringrazio per la generosi-tà e apprezzo – conoscendolo – la magnanimità del suo gesto, ma per ora preferisco la carta. Quel computer è talmente pieno che ho paura gli succeda qualcosa. Ha messo una felpa attorno al monitor, lo psicopatico, ci credi? Una felpa della ucla, ridicola, deve essere stata di qualcuno di voi, l’ha messa attorno al monitor per evitare che il gatto lo attacchi. Oggi ho fatto un giro tra le tue cose, ma così, praticamente amalinconica, ho fatto un giro tra le tue cose senza tristezza né occhi lucidi, rovistando, guardando un po’. Ho trovato quel cassetto pieno di foglietti e cosette che tieni lì, quello pieno di

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biglietti del cinema, inviti, letterine, cosette, migliaia di lettere mie, con delle cavolate, tante cavolate per iscritto, la ricostruzione di una storia della stupidità, praticamente, della sciocchezza, della creti-neria. E poi quaderni, tutti iniziati e mai finiti, con solo qualche cosa scritta, poche cose, con una scrittura nervosa. Pensieri buttati giù freneticamente, mi sono sembrati scritti sotto la spinta di emo-zioni forti, d’impulso, lo dico per la grafia, perché è la tua però un po’ diversa, non come quella di scuola, neanche come quella delle lettere, piena di cancellature, errori e pentimenti, tu che tornavi sui tuoi passi, sulle tue parole. Qui invece è scritto tutto di getto, senza voltarti indietro, come se non lo avessi neanche riletto, senza curarti degli errori. Scrivevi sensazioni o sogni, non so, cose. Ma a sorprendermi non è questo, ciò che scrivevi, tra l’altro qualcu-na delle situazioni che descrivi me la ricordo anche, credo che mi avessi raccontato qualcuno di quei sogni. La cosa strana è il tono, il come. È quella la cosa strana. Non parlavi così. E non scrivevi nemmeno così, non quando scrivevi a qualcuno, a me, per esempio. Sono righe piene di angoscia, di rabbia, quasi di odio, molto severe, nei tuoi confronti, nei confronti di tutto, ma soprattutto con te. Così severa con te stessa, mamma mia, che forza di volontà. Comunque è stato un ritrovamento abbastanza felice, voglio dire: è stato un bene. In effetti all’inizio mi è sembrato stranissimo e mi è presa un’angoscia tremenda, pensare di non averti conosciuto davvero, ma no, è un pensiero ridicolo, perché certo che ti ho conosciuto, chi meglio di me. E poi proprio questa cosa mi è piaciuta, che ci siano delle cose di te che non ho fatto in tempo a conoscere, mi è piaciuto, che non mi abbia dato tutto, o mostrato, che ci siano cose che hai tenuto per te. Guarda che alla fine ne sei uscita bene.

Ieri ho sognato di nuovo i personaggi di Six Feet Under, ma solo Nate, David e Ruth. Ruth mi ricorda molto Úrsula, e si vede che adesso nel mio inconscio addirittura si sovrappongono, perché nel mio sogno Ruth era Ruth ma era anche tua madre e i ragazzi era-

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no diventati i tuoi cugini. Eravamo a casa tua ed erano accesi gli irrigatori e io mi bagnavo, mi bagnavo sotto uno degli irrigatori e avevo un vestito con una fantasia a foglie verdi, simile ai vestiti finti che Fräulein María cuciva ai Von Trapp con le tende vecchie. Mi facevo il bagno sotto un irrigatore, ero felice. C’erano anche Nate e David, e pure Ruth/tua madre, ma lei era dentro casa, io lo sapevo e sentivo un affetto profondo per tutti. A quel punto non so chi, forse tu, mi chiedevi se mi piaceva qualcuno dei ragazzi ma Nate era impegnato, perché nel mio sogno infatti esisteva anche Brenda, tua madre parlava di lei e diceva che si era scopata non so quanti ragazzi e sì, credo che fossi tu a chiedermi se mi piaceva David. Sa-pevamo entrambe che era gay, ma io gli volevo così bene che sen-tivo che mi piaceva, e un po’ pure Nate. Che idiozia, che i perso-naggi entrino a far parte della tua vita, perché non erano nemmeno gli attori in questo caso, erano proprio i personaggi. Pero è così, i Fisher mi hanno sempre ricordato la tua famiglia, che ci posso fare.

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milia si è trasferita a Buenos Aires già da parecchi anni e lì divide un appartamento con il fratello e il fidanzato. È

innamorata, le piacciono la sua vita e il suo quartiere. Sembra felice. O forse no?Il dubbio s’insinua per colpa di una telefonata dei genitori di Andrea, una sua amica scomparsa cinque anni prima, che le chiedono di tornare a Esquel, suo paese natale in Patagonia, per partecipare a una cerimonia di commemorazione.Emilia parte, giunge a Esquel ma lì, ad attenderla alla stazio-ne dei pullman, c’è la malinconia causata dal ricordo dell’amica scomparsa, da tutte le piccole sparizioni quotidiane che lei re-gistra meticolosamente, da ciò che ormai appartiene al passato e non potrà mai più tornare: la famiglia, gli amici, l’ex fidanzato che si è rifatto una vita.Agosto è il racconto di un viaggio, non però il consueto viag-gio iniziatico. Al contrario: in questo viaggio nulla inizia, nulla è sospinto verso il futuro, è il passato che ritorna per mettere in discussione un presente stabile ma insoddisfacente.

«Leggete Agosto perché è la voce di una generazione senza pre-tendere di rappresentarla, perché cattura come un romanzo giallo, perché ci rivolge delle domande a cui nessuno può esimersi dal ri-spondere.»

Revista Ñ

ISBN 978-88-8373-265-2

www.lanuovafrontiera.it

9 788883 732652

ISBN 978-88-8373-265-2

Romina Paula è nata a Buenos Aires nel 1979. Attrice, drammaturga e regista teatrale esor-

disce nel 2005 con il romanzo ¿Vos me querés a mí?, che riceve imme-diatamente il plauso della critica. Nel 2009 pubblica Agosto che con-ferma la sua come una delle voci più interessanti della letteratura argentina contemporanea. I suoi ultimi lavori sono opere teatrali: Fauna, El tiempo todo entero e Algo de ruido hace.

Violetta Colonnelli, nata a Roma nel 1986, è cresciuta tra l’Italia e l’Argentina. Dopo la laurea in Let-tere ha cominciato a occuparsi di traduzione dallo spagnolo e attual-mente collabora con diverse case editrici, tra cui Mondadori e Sur. Alla traduzione affianca l’attività di scouting e il lavoro in una stori-ca libreria di Roma.

€ 15,00

Paula Agosto

«Io non avevo tanto da dire, anzi niente, e non mi sono state fatte troppe domande. Con tutti quegli adulti, mi sono sentita figlia. Mi sono sentita autorizzata a starmene zitta, a non avere, per un po’, opi-nioni su niente; forse mi sarei anche potuta addormentare sul tavolo, o stendermi su due sedie, e nessuno se ne sarebbe accorto.»

Romina Paula Agosto

romanzo

«Una scrittura visceralmente credibile: fatta di dubbi,di entusiasmi passeggerie autoironia.Con un sorriso colpisceduramente e non perdona.» Revista Ñ

E