Roma Tre News 3/2012

72
Periodico di Ateneo Anno XIV, n. 3 - 2012 In questo numero: Luca Aversano, Alfredo Breccia, Francesca Brezzi, Giuliana Calcani, Fabiola Gianotti, Jeffrey Goldfarb, Flavia Lattanzi, Maria Luisa Maniscalco, David Meghnagi, Zachary Metz, Giusi Nicolini, Riccardo Noury, Mario Panizza, Maria Rosaria Stabili, Cecilia Strada Scriverò pace sulle tue ali

description

Scriverò pace sulle tue ali

Transcript of Roma Tre News 3/2012

Periodico di Ateneo Anno XIV, n. 3 - 2012

In questo numero: Luca Aversano, Alfredo Breccia, Francesca Brezzi, Giuliana Calcani, Fabiola Gianotti, Jeffrey Goldfarb, Flavia Lattanzi, Maria Luisa Maniscalco, David Meghnagi, Zachary Metz, Giusi Nicolini, Riccardo Noury, Mario Panizza, Maria Rosaria Stabili, Cecilia Strada

Scriverò pacesulle tue ali

roma3news_n3_2012_STAMPA_roma_3_news_03_09.qxd 05/03/13 16:25 Pagina 1

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XIV, numero 3/2012

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(Professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Gaia Bottino, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo DiPaolo, Indra Galbo, Francesca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, MichelaMonferrini, Elisabetta Tosini

Hanno collaborato a questo numeroLuca Aversano (ricercatore e docente in Musicologia e Storia della musica),Alfredo Breccia (professore ordinario di Storia delle relazioni internazionali e diStoria dell’integrazione europea e direttore del Master in Educazione alla pa-ce: cooperazione internazionale, diritti umani e politiche dell’Unione Europea),Francesca Brezzi (docente di Filosofia morale, delegata del Rettore per le Pariopportunità), Giuliana Calcani (professore associato di Storia dell’archeolo-gia), Giancarlo Della Ventura (professore ordinario di Mineralogia), don PinoFanelli (assistente spirituale a Roma Tre - Facoltà di Economia), Gianpiero Ga-maleri (presidente Adisu Roma Tre), Jeffrey Goldfarb (Sociology Department,New School for Social Research, New York), Flavia Lattanzi (professore di Di-ritto internazionale e giudice al Tribunale penale internazionale per la ex-Iu-goslavia), Maria Luisa Maniscalco (professore ordinario di Sociologia e coordi-natore del Master in Peacekeeping & security studies), David Meghnagi (diret-tore del Master internazionale in Didattica della Shoah e membro della dele-gazione italiana presso la Task force for international cooperation on Holo-caust remembrance dell'OSCE), Zachary Metz (director, Peace building prac-tice - Consensus), Mario Panizza (direttore del dipartimento di Architettura),Stefano Perelli (studente Facoltà di Economia), Francesca Simeoni (studen-tessa CdL in Informazione, editoria e giornalismo), Matteo Spanò (studenteCdL in Informazione, editoria e giornalismo), Maria Rosaria Stabili (professoreordinario di Storia dell’America latina)

Immagini e fotoUmberto Battaglia©, Amal Chen©, Peter Dammann©, Brian Hanley, Scott Lan-gley©, Fabrizio Loiacono©, Zachary Metz, Mario Panizza, www.consensu-sgroup.com, www.emergency.it

Un ringraziamento speciale a Bia Simonassi che ha ideato e disegnato per noiil mind map sulla pace, pp. 36-37 (www.freeyourideas.net - http://treebook-gallery.blogspot.it - http://theprojectlabshow.blogspot.it/)

Progetto graficoMagda PaolilloConmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma06 64561102 - www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Impaginazione e stampaTipografia Gimax di Medei MassimilianoVia Valdambrini, 22 - 00058 Santa Marinella (RM) - tel. 0766 511644

In copertinaFoto editing di Francesco Martellini

Finito di stampare febbraio 2013

ISSN: 2279-9192

Registrazione Tribunale di Roma - n. 51/98 del 17/02/1998

SommarioEditoriale 3

Primo PianoArchitetture di pace 5Quando le pietre segnano il corso della storia:il Ponte di Mostar, il Muro di Berlino, il Vallo di Adrianodi Mario Panizza

Il diritto come forza di pace 9Il ruolo della giustizia penale internazionaledi Flavia Lattanzi

Nient’altro che la verità 14Riconciliazioni nazionali e costruzione della pace socialein America latinadi Maria Rosaria Stabili

Sudafrica: la commissione per la verità 17e la riconciliazionedi Gaia Bottino

Donne e beni comuni 18Le radici etiche del vivere quotidiano di Francesca Brezzi

«Di chi sono questi morti?» 21Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Linosa

Mettere le ali alla pace 22Le mille gru di Sadako Sasakidi Michela Monferrini

Peace and the social condition 23Seeking social justice and human dignitydi Jeffrey Goldfarb

Microscopes or macroscopes? 28Levels of engagement in peacebuildingdi Zachary Metz

Il suono della pace 31Il potere della musica, nella coincidenza del divino e dell’artedi Luca Aversano

El Sistema da Nobel 34La rivoluzione pacifica dell’educazione musicale pubblica di Michela Monferrini

Il bene più prezioso 38Problematiche per una gestione del territorio edelle sue risorsedi Giancarlo Della Ventura

L’Università per la pace 40Coscienza e conoscenza: il ruolo delle istituzioniaccademiche nella diffusione di una cultura di pacedi Giuliana Calcani

Le vie della pace 42L’impegno multidisciplinare di una educazione permanentealla pacedi Alfredo Breccia

Costruire la pace nel Mediterraneo 44Un progetto del Master in Peacekeeping & security studiesdi Maria Luisa Maniscalco

Un impegno che non conosce confini 46Thây: un monaco, un maestro, un uomodi Elisabetta Tosini

David Meghnagi / Abraham Yehoshua: dialoghi 47

Il bosone di Higgs e la nostra vita 49di Fabiola Gianotti

IncontriCecilia Strada. La cura 51di Federica Martellini

Riccardo Noury. Le emergenze dei diritti umani 55di Valentina Cavalletti

Ludovica Ioppolo. Il futuro tra memoria e impegno 58di Elisabetta Tosini

RubrichePopscene 61Ultim’ora da Laziodisu 62Non tutti sanno che… 63

RecensioniThe Lady 64L’omaggio di Besson all’eroina della democrazia birmanadi Francesca Gisotti

Anime di materia 65In mostra al Vittoriano lo scultore libico Ali Wak Wakdi Francesca Simeoni

Cesare deve morire 67Lo Shakespeare dei fratelli Taviani nella sezione dialta sicurezza di Rebibbiadi Stefano Perelli

Gasland 68Il fracking e le sue ripercussioni sul territoriodi Matteo Spanò

Un film per la pace 69Una rassegna per rifletteredi Francesca Gisotti

roma3news_n3_2012_STAMPA_roma_3_news_03_09.qxd 05/03/13 16:26 Pagina 2

«Scriverò pacesulle tue ali/intorno al mondovolerai/(…)(Sadako Sasaki)

In questo numerovi proponiamo iltema della pace.Abbiamo scelto unsimbolo di paceche viene da lonta-no: la gru di carta,una figura tradi-zionale realizzatacon la tecnica

dell’origami. In Giappone regalarla significa augu-rare pace e serenità. C’è un’antica credenza giap-ponese, secondo la quale se si riescono a fare millegru di carta, si può realizzare qualsiasi desiderio.Sadako Sasaki era una bella bambina di due anni emezzo, quando a poco meno di due chilometri dacasa sua esplose la bomba di Hiroshima. A undicianni ella scoprì di essersi ammalata di leucemia acausa delle radiazioni che l’avevano colpita. Deci-se allora di costruire mille gru di carta che potesse-ro portare la pace in tutto il mondo. A Sadako è de-dicata una statua che la raffigura mentre lancia unagru nel cielo e che è stata collocata nell’HiroshimaPeace Memorial. Sono passati molti anni dal sacri-ficio di Sadako Sasaki e la pace per molti non c’èancora.Che cosa significa pace? Equivale semplicementeall’assenza di guerra o è un concetto più esteso edequivale all’assenza di ogni formadi violenza nella società? JohanGaltung, un sociologo e matematiconorvegese che può essere considera-to come padre fondatore dei peacestudies contemporanei, elabora unadistinzione che aggiunge molto allanostra comprensione del mondo ri-spetto all’esercizio della violenza.Galtung (2000) distingue tra almenotre forme di violenza: a) la violenzadiretta, che causa danni fisici allepersone; b) la violenza strutturale,che deriva dalle disfunzioni delleistituzioni politiche nazionali e in-ternazionali; c) la violenza culturaleche comprende il razzismo, il sessi-smo, la denigrazione dell’altro e lasvalutazione dei punti di vista e dei

valori delle minoranze. Se il tasso di mortalità in-fantile in Italia nel 2012 è 3, mentre in Sierra Leo-ne è 77, questo è l’esito di una violenza strutturaleche dipende dalle istituzioni, non dai singoli attoripolitici o dai singoli cittadini. Lo schema di Gal-tung è semplice ma efficace, in quanto permette divedere la violenza anche laddove può assumereforme meno esplicite e pertanto invisibili. Se unuomo politico come Silvio Berlusconi durante unaconvention pone una domanda del tutto sconve-niente ad Angela Bruno – giovane donna managerdi Green Power – possiamo decidere di sorridere eammiccare insieme a lui, oppure possiamo vederela violenza culturale – ovvero il sessismo – che inquel momento viene esercitato. Per vedere la prati-ca della violenza in atto, basta usare un controfat-tuale di Teun Van Dijk: sarebbe pensabile che Lilli

Gruber in una convention ponesse un’analoga do-manda a Sergio Marchionne in relazione alle sueprestazioni sessuali? Evidentemente no. Possiamo qui proporre una concezione estesa del-la pace, che includa, secondo lo schema di Gal-tung, l’assenza di ogni forma di violenza fisica,

strutturale e culturale in una socie-tà. Parlare di pace significa darevoce ai pensieri e alle riflessionidel Mahatma Gandhi, di MartinLuther King, di Nelson Mandela,di Aung San Suu Kyi, di SimonWeil, di Aldo Capitini, di Tolstoy edi molti altri scrittori, filosofi, poe-ti, intellettuali, scienziati e artistiche di pace si sono occupati. Il Ma-hatma Gandhi soleva dire che«Non c’è strada che porti alla paceche non sia la pace, l’intelligenza ela verità». Così come non si puòspegnere il fuoco usando il fuoco,così non si può fermare la violenzaricorrendo all’uso di altra violenza.Gandhi, che è stato il padre spiri-tuale dell’India contemporanea, ha

Fare pace, essere pace di Anna Lisa Tota

Anna Lisa Tota

Il Mahatma Gandhi soleva dire che«Non c'è strada che porti alla pace che

non sia la pace, l'intelligenza e laverità». Così come non si può spegnereil fuoco usando il fuoco, così non si puòfermare la violenza ricorrendo all’uso

di altra violenza

Mohandas Karamchand Gandhi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 3

teorizzato il satyagraha, un movi-mento di resistenza all’oppressio-ne inglese tramite la disobbedien-za civile di massa, che ha condot-to l’India sulla strada dell’indi-pendenza. Il satyagraha si fondasulla verità (satya) e sulla nonvio-lenza (ahimsa). Gandhi sottolinea-va la differenza tra nonviolenza ecodardia o mancanza di forza ecoraggio. L’ahimsa richiede resi-stenza attiva alla violenza, quindiper praticarla richiede in primoluogo la capacità di usare la forzama l’esplicita rinuncia a farlo. Lapratica polit ica e spiri tuale diGandhi è stata ripresa in molti al-t r i paesi : penso ad esempio aAung San Suu Kyi, premio Nobelper la pace nel 1991 e alla sua pra-tica di resistenza nonviolenta in Birmania oppurea Thich Nhat Hanh, un maestro buddista vietnami-ta che oggi è considerato uno dei maggiori padrispirituali del pianeta. Thich Nhat Hanh, al quale èdedicato un articolo di questo numero, iniziò lasua opera molti anni fa durante la guerra in Viet-nam, fondando i piccoli corpi di pace che andava-no a soccorrere i feriti di ambo le fazioni. Moltigiovani dei piccoli corpi di pace morirono e si sa-crificarono nel tentativo di soccorrere i feriti siaamericani, sia vietnamiti. Sono passati molti annida allora e oggi il monaco buddista ha 87 anni epropone una rivisitazione del buddismo che coniu-ga nonviolenza come pratica attiva nel quotidiano emeditazione. Il titolo di questo editoriale si ispiraproprio al lavoro di Thich Nhat Hahn: non si trattasoltanto di avere o donare la pace (Dona nobis pa-cem è il titolo della bellissima musica di Mozart),ma di “essere pace”. In questo Thich Nhat Hanh ri-prende un grande insegnamento tradizionale deltaoismo, di cui mi è già capitato di scrivere in uneditoriale precedente: quello cheabbiamo dentro, troviamo fuori.Essere pace allude ad un percorsointeriore di pacificazione profondache avvicina lo stato di pace, vio-lenza e guerra al nostro modo diessere interiore. Pace o guerra nonsono stati del mondo che stanno làfuori, lontano e sui quali ci pare dinon poter praticare controllo alcu-no. Sono in primo luogo stati inte-riori che possiamo praticare e fre-quentare nel quotidiano, nelle rela-zioni professionali e affettive. Ciònon toglie che possiamo e dobbia-mo continuare a pensare e a occu-parci attivamente delle vicende chedal 15 marzo del 2011 sconvolgo-no la Siria. Ma c’è anche un altrolivello di responsabilità su cui ope-

rare, sul quale abbiamo un poterecompleto e di cui possiamo assu-mere interamente la responsabili-tà: è la pace dentro di noi. Insom-ma vorrei proporre una concezio-ne di pace non come variabile dis-creta (pace-guerra), ma come uncontinuum che va dalla pace comeesito della pratica quotidianadell’“essere pace” e della nonvio-lenza alla violenza estrema che siesplica nel caso delle azioni diguerra. Peraltro si tratta davverodi una variabile processuale. Nonci sono soltanto luoghi di pace e/oluoghi di guerra. Sì certo, in alcu-ne aree del mondo la densità delconflitto è tale che la pace diventaimpossibile per tutti. Ma ci sonoanche luoghi di guerra che per-

mangono nel tempo e nello spazio della presuntapace. Penso alla controversa vicenda del G8 di Ge-nova e ai terribili episodi di violenza che si sonoverificati dal 19 al 22 luglio del 2001 (l’assalto allascuola Diaz, le torture inflitte ai giovani fermatinella caserma Bolzaneto). Uno degli episodi più

sconvolgenti degli ultimi dieci anni della storia d’I-talia, in cui c’è stata la completa sospensione ditutti i diritti civili dei giovani no global oggetto diqueste violenze. Come possiamo estendere la prati-

ca della pace nel nostro paese?Riceviamo e volentieri pubbli-chiamo in queste pagine la letteraappassionata del neoeletto sinda-co di Lampedusa, che ci raccontasgomenta di aver dovuto ricevereventun corpi di persone annegatenel mare che circonda l’isola.Erano immigrati, cittadini delmondo in viaggio verso la pace.Mentre la Diaz è un caso eclatan-te di violenza fisica, la morte diquesti immigrati è un caso di vio-lenza strutturale, per ritornare alladistinzione proposta da Galtung.In questa lettera aperta, Giusi Ni-colini si chiede sgomenta: «quan-to deve essere grande il cimiterodella mia isola?» Appunto, quan-to deve essere grande?

4

Non si tratta soltanto di avere o donarela pace (Dona nobis pacem è il titolo della

bellissima musica di Mozart), ma di“essere pace”. In questo Thich Nhat

Hanh riprende un grande insegnamentotradizionale del taoismo: quello che

abbiamo dentro, troviamo fuori

Aung San Suu Kyi

Thich Nhat Hanh

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 4

Il giorno 9 novembresuccedono due eventi digrande significato e ri-lievo storico: nel 1989cade il Muro di Berlinoe nel 1993 viene distrut-to il Ponte di Mostar.Sono due opere architet-toniche di importanzamolto diversa. Il Murodi Berlino non ha infattialcun valore artistico,mentre ha una notevoleimportanza strategica

sia militare che politica; al contrario il Ponte di Mo-star, simbolo della città, è uno dei più interessantiesempi di costruzioni in muratura a campata unica delXVI secolo, ma non costituisce nessun limite strategi-co-militare. L’abbattimento di queste due costruzioniassume immediatamente nel mondo un significatomolto chiaro: con la demolizione del Muro di Berlinosi avvia la pacificazione all’interno di una città cheera stata dal 1961 il simbolo di una guerra molto du-ra, proseguita anche dopo la sua fine segnata dallaConferenza di Jalta del 1945, che separava due mondipolitici e militari, quello occidentale e quello dell’est;con il bombardamento del Ponte di Mostar si inaspri-

sce invece un conflitto interetnico, iniziato nel 1992che, fino ad allora, l’esistenza di quell’opera architet-tonica aveva contribuito a tenere lontano.Nella città di Mostar il fiume Neretva non rappresen-tava un vero e proprio limite e il Ponte era attraversa-to giornalmente da un gran numero di persone che,sebbene distribuite per composizione etnica, non vi-vevano la città come due settori separati. La presenzadel Ponte era il vero elemento di pace e rendeva pos-sibile la comunicazione fisica tra culture e religionidiverse. Musulmani e Croati avevano convissuto tran-quillamente. I primi occupavano la parte est, i secon-di quella ovest. Dopo l’aggressione dei Serbi, Croatie Musulmani iniziarono a combattersi tra di loro, incasa propria, nei luoghi che avevano condiviso pertanto tempo. Con le cannonate dei soldati croati la ca-pitale dell’Erzegovina rimane divisa in due e finisceun mondo che per secoli, fino alla Jugoslavia di Tito,aveva convissuto nel rispetto delle diversità.Il bombardamento del Ponte, un danno artistico e cul-turale immenso, “costruisce” la vera cesura all’inter-no della città, generando una barriera insormontabile,militarmente molto efficace. Finché era rimasto inpiedi, anche durante il periodo del conflitto, gli abi-tanti potevano passare, seppure a rischio di esserecolpiti, da una parte all’altra della città, mentre con lasua demolizione la popolazione musulmana rimane

Architetture di paceQuando le pietre segnano il corso della storia:il Ponte di Mostar, il Muro di Berlino, il Vallo di Adriano

di Mario Panizza

prim

o pi

ano

5

Mario Panizza

Il Ponte di Mostar ricostruito

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 5

imprigionata in una enclave priva di acqua potabiledalla quale è impossibile fuggire e soprattutto difen-dersi.«Quando crollò, il 9 novembre del 1993, la valle del-la Neretva si riempì di silenzio. I cannoni tacquero,muti davanti al ponte vecchio che non c’era più. Ilrimbombo si spense, poi tacquero pure i cecchini.Quelli dei bosniaci, che l’avevano costruito quattrosecoli prima. E quelli dei croati, che l’avevano tiratogiù a colpi di granate. L’intera Mostar si fermò. Tutti,intorno, capirono che qualcosa di terribile era acca-duto. Una lacerazione nella comunità, una ferita nonrimediabile. Non era caduto solo un ponte, ma unsimbolo grandioso di unione fra Oriente e Occidente.Senza di esso, la Bosnia stessa perdeva la ragione diesistere. Fu allora, nella luce del tramonto, che si vi-de una cosa inattesa. La parabola invisibile del vec-chio ponte ottomano, la sua linea perfetta a schienad’asino, sopravviveva al crollo del manufatto in pie-

tra. Rifiutava di cadere». (Paolo Rumiz, “La Repub-blica” 2 novembre 2003).La ricostruzione dello Stari Most (“vecchio ponte”,da cui prende il nome la città), dichiarato Patrimoniodell’umanità dall’Unesco, termina il 22 luglio 2004 erappresenta il segno tangibile di una pace che conmolta fatica si sta cercando di inseguire. Riprendeanche la tradizione dei tuffi nella Neretva, con i ra-gazzi che si sfidano gettandosi dal “vecchio ponte”:il 27 luglio si tiene addirittura una gara ufficiale. La“Jugoslavia delle diversità” non è tuttavia superata e

la distruzione del 9 novembre 1993 ha marcato unalacerazione che per essere ricomposta richiederà an-cora molto tempo. Solo quando le ferite saranno un

6

Il giorno 9 novembre succedono dueeventi di grande significato e rilievo

storico: nel 1989 cade il Muro di Berlinoe nel 1993 viene distrutto il Ponte di

Mostar. Con la demolizione del Muro diBerlino si avvia la pacificazione

all’interno di una città che era stata ilsimbolo di una guerra molto dura, cheseparava due mondi politici e militari;

con il bombardamento del Ponte diMostar si inasprisce invece un conflitto

interetnico che, fino ad allora, l’esistenzadi quell’opera architettonica aveva

contribuito a tenere lontano

Parti conservate del Muro di Berlino

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 6

ricordo remoto si potrà pensare di recuperare quellacoesistenza pacifica tra le diversità che ha fatto neisecoli la storia di Mostar.A Berlino non esisteva nessuna barriera fisica che di-videva la città: il limite è stato segnato nel 1961 daun muro molto aggressivo che, al contrario di comesi possa immaginare, non separava la città in dueparti, ma ne individuava una porzione all’interno diun territorio controllato militarmente da una potenzastraniera. La demolizione dell’opera edilizia (duemuri paralleli in cemento armato separati dal “corri-doio della morte”) modifica completamente l’assettourbano della città: quello che era periferia, soggetto acontrolli e a pericolo, ridiventa il centro storico. LaPorta di Brandeburgo è di nuovo il cuore fisico esimbolico di Berlino; intorno a essa cominciano asorgere architetture importanti e innovative, sia dalpunto di vista tecnologico che formale. In breve tem-po la capitale tedesca diventa il punto d’incontro del-la gioventù europea che arriva per studiare e per co-noscere quanto nel campo dell’arte e dell’architetturasi sta sperimentando. La città non è impreparata a vi-vere questo periodo di sviluppo, perché già da più diun decennio il Municipio ha avviato importanti pianidi sviluppo edilizio, proprio in previsione di una nonlontana ricomposizione della città. I progetti dell’I-BA coinvolgono i maggiori architetti in campo inter-nazionale, richiamando curiosi e studiosi a vederecome si procede nella ricostruzione dei lotti intera-mente devastati dalla guerra.Dal 9 novembre 1989 Berlino è un fiorire di cantieriarchitettonicamente importanti, che la trasformano inun “museo al vero”: girando sembra di attraversare

un repertorio di opere, raccolte in esposizione perma-nente. Non è solo l’architettura che emerge da questopanorama, ma anche l’arte in genere che, attraversogallerie contemporanee, si propone in alternativa alle

grandi esposizioni di New York e Parigi. Nelle piaz-ze che affacciano lungo l’Unter den Linden capita di 7

«Quando crollò, il 9 novembre del 1993, lavalle della Neretva si riempì di silenzio. Icannoni tacquero, muti davanti al ponte

vecchio che non c’era più. Il rimbombo sispense, poi tacquero pure i cecchini. Quelli

dei bosniaci, che l’avevano costruitoquattro secoli prima. E quelli dei croati,

che l’avevano tirato giù a colpi di granate.L’intera Mostar si fermò»

Il Vallo di Adriano

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 7

sentire prove d’orchestra e incontrarsi con tutte lepopolazioni del mondo. Il segno della pacificazione èdimostrato dalla coesistenza di opere tra loro moltodiverse che, come già detto, costruiscono un museostilisticamente ricco ed eclettico: gli edifici neoclas-sici di Schinkel sono immersi in un tessuto urbanodove l’architettura moderna e post-moderna si con-fronta con le sagome prepotenti dei blocchi di ispira-zione sovietica che disegnano il profilo dei grandiviali dell’ex Berlino est.

Molti anni prima, in un periodo dell’alto medioevoche è difficile stabilire con precisione, un altro Muroviene abbattuto nel corso di un periodo alquanto lun-go. È il Muro dell’imperatore Adriano, realizzato apartire dal 122, che segue da vicino la linea di confi-ne tra l’Inghilterra e la Scozia. La sua costruzioneimpegna circa dieci anni e porta alla fine a un’operalunga poco meno di 140 chilometri, alta tra 4 e 5 me-tri e profonda tra 2 e 3 metri.Il Muro serviva alla protezione della vulnerabile li-nea costiera della Cumbria nord occidentale e delNorthumberland, mediante un sistema regolare difortini e torri, posti rispettivamente a intervalli di unmiglio romano e di un terzo di miglio. Si è accertatoche, almeno in alcuni settori, i fortini e le torri eranoprotetti da due palizzate parallele che creavano uncordone difensivo. Il sistema proseguiva per almeno40 chilometri oltre il termine del Muro di Αdriano ealtri fortini, a circa 100 chilometri a sud, si trovavanonell’area di Ravenglass.Il Muro nasce quindi per difendersi e marcare con unlimite chiaro i confini. Questo accade quando la ca-pacità espansiva dell’impero è al termine ed è neces-sario frapporre una barriera verso i “barbari”. Il Mu-ro o Vallo non è tuttavia una semplice linea difensi-va: rappresenta un vero e proprio sistema urbanizza-to con accampamenti e fortificazioni ben strutturatesia per i militari che per i civili. Gli edifici più inte-ressanti dal punto di vista della tecnologia costruttivasono infatti i magazzini del grano, posti all’ingressodei forti e costruiti sollevati dal terreno, sempre ba-gnato, per consentire una costante ventilazione e unasicura protezione dalle incursioni dei topi. Anchequando devono difendersi, i Romani non dimentica-no di urbanizzare, lasciando segnali di un possibilesviluppo che alcune targhe, poste tra le rovine, rico-noscono ufficialmente. Con la fine dell’Impero, e du-rante la sua lunga agonia iniziata già nel IV secolo, ilMuro perde progressivamente la sua funzione difen-siva e si apre attraverso i molti varchi che rimettonoin comunicazione le regioni della Britannia non piùoccupate dall’esercito romano. Questo si sfalda e isuoi soldati non tornano a Roma. Sono ormai Britan-

ni: qui hanno la famiglia, lavorano e coltivano la ter-ra. Il Muro non è più uno strumento, anche se solosimbolico, di offesa bellica e, smantellato poco a po-co, diventa una preziosa cava di pietra per costruire ivillaggi che in epoca medievale sorgeranno lungo lalinea tracciata circa tre secoli prima da Adriano.Oggi, visitando la Cumbria e il Northumberland, levestigia romane sono molto rarefatte: per trovarle ènecessario andare a cercarle a Vindolandia o affidarsia mappe molto dettagliate che individuino resti unpo’ scomposti, alti quasi mai più di 120 centimetri. Incompenso si scopre che i piccoli villaggi che si incon-trano lungo la strada sono incredibilmente omogenei.Le case sono fatte delle stesse pietre e la loro disposi-zione non si discosta molto dal tracciato dell’anticoVallo. I sassi utilizzati per edificare il Muro, una voltaterminata l’occupazione militare, svolgono l’utilissi-mo compito di edificare case e costruire un panoramaperfettamente rispettoso dell’ambiente e delle risorsenaturali del posto. Ancora oggi il tracciato di Adrianocostituisce un segno di pace e soprattutto di cono-scenza: è utilizzato da camminatori o ciclisti che, av-viandosi per un percorso leggermente collinare, van-no da costa a costa scoprendo i resti dell’evoluta in-gegneria romana, immersa nei tipici paesaggi del ter-ritorio tra l’Inghilterra e la Scozia, ricco di verde, ani-mali e pozze d’acqua ampiamente rappresentato daivedutisti ottocenteschi.

Anche a Berlino il Muro demolito è un’ambita metaturistica, ma più per cogliere immagini-souvenir, fat-te di graffiti, che non per interpretare una storia che,ancora troppo recente, non va al di là della curiosità,per i più giovani, e della memoria di un periodo mol-to buio, per chi l’ha vissuto. Il Ponte di Mostar è inun’area ancora solo teoricamente pacificata: la suaarchitettura, anche se non più autentica ma ricostrui-ta, ha tuttavia la qualità della tradizione storica e, si-curamente, potrà servire a riunificare popoli che, ri-trovando i segni del loro passato, potranno tornare aconvivere e riconoscersi in un’opera patrimoniodell’intera umanità.

8

Con la fine dell’Impero romano, edurante la sua lunga agonia iniziata giànel IV secolo, il Vallo di Adriano perde

progressivamente la sua funzionedifensiva e si apre attraverso i molti

varchi che rimettono in comunicazionele regioni della Britannia non più

occupate dall’esercito romano. Il Muronon è più uno strumento di offesa bellicae, smantellato poco a poco, diventa unapreziosa cava di pietra per costruire i

villaggi che in epoca medievalesorgeranno lungo la linea tracciata circa

tre secoli prima da Adriano

La Porta di Brandeburgo è di nuovo ilcuore fisico e simbolico di Berlino;

intorno a essa cominciano a sorgerearchitetture importanti e innovative, sia

dal punto di vista tecnologico che formale

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 8

9

L’obiettivo perseguitodagli Stati con la crea-zione nel 1945 delleNazioni Unite era quel-lo di imporre la pace at-traverso il diritto (Kel-sen, Peace ThroughLaw, 1944). Ciò ha ac-quisito una ulteriore emaggiore valenza per ilfatto che il sistema sta-bilito nel Capo VII del-

la Carta delle Nazioni Unite di imporre la pace anchecon il ricorso a un esercito ONU non si è mai concre-tamente realizzato per l’opposizione dei membri per-manenti del Consiglio di sicurezza (C.d.S.) a metterele proprie forze armate a disposizione di un organi-smo militare che avrebbe dovuto operare in loco sot-to un comando unificato. Di fronte a questa opposizione insuperabile – di tutti imembri permanenti – all’esercito troppo ottimistica-mente pensato a San Francisco, il C.d.S. è riuscito aistituire e far funzionare a nome e per conto dell’Or-ganizzazione come tale, quale timido surrogato, sol-tanto le Forze di pace. Queste Forze sono armate inmodo leggero e inviate in loco soltanto con il consen-so del sovrano territoriale e non sono quindi in gradodi imporre la pace al di sopra e contro la volontà deibelligeranti, neppure nei casi in cui ricevano un man-dato più incisivo, come quello di peace-enforcement,che rappresenta una funzione più di polizia in situa-zioni di violenza sistematica e su larga scala che unEsercito in grado di imporsi a eserciti – di stati egruppi armati – organizzati e dotati di strumenti belli-ci spesso anche sofisticati. Dopo la caduta del Muro di Berlino, la via della paceattraverso il diritto è stata perseguita dal C.d.S. conmaggiore determinazione e fantasia nell’inventarsinuove misure coercivite non armate volte a questoobiettivo. Tra queste misure svolgono un ruolo partico-larmente significativo i due tribunali penali creati diret-tamente dal Consiglio e chiamati a determinare le re-sponsabilità individuali di pianificatori, istigatori, co-mandanti militari e politici, complici ed esecutori di at-ti di genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’uma-nità commessi in ex-Iugoslavia e in Ruanda. Dei due suddetti tribunali e della mia esperienza comegiudice ad litem prima del TPIR e poi del TPIY mi so-no già precedentemente occupata su questa rivista. Quimi limiterò a prenderli in considerazione, insieme aglialtri meccanismi internazionali a carattere penale creatisuccessivamente, sotto l’aspetto del contributo che laloro attività possa dare (o aver dato) al ristabilimento

della pace nelle due regioni rientranti nella loro compe-tenza e dunque anche alla pace internazionale. Gli altri tribunali penali sorti nel quadro dell’attivitàdelle Nazioni Unite per la repressione di crimini dirilevanza internazionale basano la loro ragione di es-sere, da una parte, sull’accertamento ad opera delC.d.S. della minaccia alla pace esistente in alcune re-gioni del mondo e, dall’altra, su un accordo interna-zionale fra l’Organizzazione e lo Stato coinvolto. Es-si hanno quindi un carattere ibrido, interno-interna-zionale, tanto nella composizione quanto nelle normeche applicano, essendo queste essenzialmente normeinternazionali sostanziali e processuali. Mi riferiscoqui al Tribunale speciale per la Sierra Leone istituitonel 2000 per la repressione dei crimini commessi inquel Paese durante il conflitto, il Tribunale sui gene-ris per il Libano, creato nel 2007 e che si occupa es-senzialmente dell’assassinio, nel febbraio 2005, diHariri e di altre 21 persone, gli special panels per icrimini commessi a Timor-est durante l’occupazioneindonesiana (1975-1999) e che hanno operato dal2000 al 2006, le Camere straordinarie di Cambogiaper i crimini commessi dai Khmer rossi tra il 1975 eil 1979, decise purtroppo solo nel 2003 e ancora infunzione tra mille difficoltà. È così che in alcuni Pae-si – Bosnia-Erzegovina, Kosovo – sono sorti tribuna-li essenzialmente interni a relativa partecipazione in-

ternazionale (di giudici e personale), che applicanoanch’essi direttamente norme internazionali in mate-ria di genocidio, crimini contro l’umanità, crimini diguerra contro accusati che il TPIY ha lasciato alla re-sponsbilità delle giurisdizioni locali.È dunque ormai radicata nella coscienza della comu-nità internazionale l’idea che una delle vie per rista-bilire la pace è quella della repressione a livello in-ternazionale dei crimini che, soprattuto nei conflitti

Il diritto come forza di paceIl ruolo della giustizia penale internazionale

di Flavia Lattanzi

È ormai radicata nella coscienza dellacomunità internazionale l’idea che unadelle vie per ristabilire la pace è quella

della repressione a livellointernazionale dei crimini che,soprattutto nei conflitti interni,

vengono commessi in modo sistematiconon solo contro i combattenti, ma

soprattutto contro la popolazione civilee in particolare contro la parte piùdebole di tale popolazione, anziani,

donne e bambini

Flavia Lattanzi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 9

interni, vengono commessi in modo sistematico nonsolo contro i combattenti anche se disarmati dell’unae dell’altra parte, ma altresì e soprattutto contro lapopolazione civile, in particolare contro la parte piùdebole di tale popolazione, anziani, donne e bambini.Infatti, negli statuti dei meccanismi sopra menzionatisi imputa ai suddetti crimini una minaccia per la pacee all’impunità dei responsabili un ostacolo al perse-guimento della riconciliazione.La comunità internazionale ha preso altresì coscienzadel fatto che la via migliore per la pace è quella dellaprevenzione delle violenze e degli stessi conflitti ar-mati. Tale obiettivo può essere efficacemente perse-guito da un tribunale internazionale a carattere per-manente e a competenza potenzialmente universalerispetto a situazioni future, piuttosto che da tribunalipenali straordinari creati ex post facto.

È così che nel 1998 è stato adottato in virtù di un ac-cordo fra Stati lo Statuto della Corte penale interna-zionale (CPI) per la repressione di crimini collegati omeno con conflitti armati, dunque anche per criminicontro l’umanità commessi in tempo di pace. Il TPIY ha emanato atti di accusa contro 161 imputa-

ti e spiccato altrettanti mandati di arresto, tutti ese-guiti. È noto che gli ultimi tre accusati a lungo lati-tanti, Karadzic, Mladic e Hadzic, sono anch’essi or-mai sotto processo davanti al Tribunale.Alla luce dell’esperienza che deriva a un giudice so-prattutto dalle testimonianze viva voce delle decine ecentinaia di testimoni e testimoni-vittime chiamati perogni singolo processo dal procuratore e dalla difesa,posso qui sostenere che la pace in ex-Iugoslavia tiene.Lì si è altresì intrapreso un difficile processo di ricon-ciliazione fra le tre comunità protagoniste del conflit-to, grazie anche all’attività del TPIY e nonostante lacomunità internazionale abbia perseguito la soluzioneambigua della nascita di nuovi Stati su base etnica cri-stallizzando così il risultato di un crimine, la puliziaetnica, che il Tribunale ha qualificato come genocidio.Questo Tribunale chiuderà i suoi battenti il 30 giugno2013, quattro processi restando però da completare inprima istanza insieme agli eventuali appelli relativiagli assolti o condannati entro quella data.La pace tiene anche in Ruanda, dove il processo diriconciliazione nazionale ha avuto uno sviluppo ve-ramente significativo, al quale ha contribuito decisa-mente il TPIR anche grazie alla stretta cooperazionegiudiziaria instaurata con le autorità locali e ai trasfe-rimenti alla giurisdizione locale di alcuni accusati edi alcuni dossiers processuali, che questo Tribunaleaveva elaborato senza però arrivare agli atti di accu-sa. Questo Tribunale, completati i processi contro 72accusati, ha chiuso i battenti il 30 giugno 2012, salvoper alcuni casi in appello. Peccato che esso non si sia

mai occupato dei crimini di cui sono sospettati, se-condo le inchieste condotte dal Procuratore, alcunifra gli insorti tutsi. Ma i risultati di tali inchieste nonsono mai arrivati davanti alle Camere.Gli Stati usciti dalla disintegrazione della ex-Iugosla-via, come anche il Ruanda, hanno ormai ricostruito erinnovato il loro sistema giudiziario grazie tanto al-l’assistenza internazionale che all’attività dei dueTribunali, i quali hanno anche contribuito alla forma-zione dei giudici locali, rendendoli così in grado diapplicare ai crimini di rilevanza internazionale nor-me internazionali. Gli speciali tribunali interni concaratteri di internazionalità operanti in Bosnia-Erze-

In ex-Iugoslavia si è intrapreso undifficile processo di riconciliazione fra

le tre comunità protagoniste delconflitto, grazie anche all’attività del

TPIY e nonostante la comunitàinternazionale abbia perseguito lasoluzione ambigua della nascita di

nuovi Stati su base etnicacristallizzando così il risultato di un

crimine, la pulizia etnica, che ilTribunale ha qualificato come

genocidio

La sede della corte penale internazionale, a L’Aja

10

Nel 1998 è stato adottato in virtù di unaccordo fra Stati lo Statuto della

Corte penale internazionale (CPI) perla repressione di crimini collegati omeno con conflitti armati, dunqueanche per crimini contro l’umanità

commessi in tempo di pace

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 10

11

govina e in Kosovo continuano validamente l’operadel TPIY. È di questi giorni la firma di un accordo dicooperazione per le inchieste fra le Procure della Bo-snia Erzegovina e della Serbia. Per i crimini delRuanda l’attività del Tribunale internazionale è stataaffiancata dalle procedure Gacaca, e cioè la giustiziaamministrata dai saggi del villaggio, secondo vec-chie consuetudini locali adattate alla nuova situazio-ne, procedure che, però, lasciano qualche dubbioquanto alla garanzia dei diritti della difesa. Il Ruandaha eliminato la pena di morte, e ciò al fine di poterchiedere il trasferimento dei restanti accusati ad ope-ra del TPIR o dei sospettati che hanno trovato rifugiopresso alcuni Stati (Italia compresa).

Anche in Sierra Leone si è ormai stabilizzato un pro-cesso di pacificazione nazionale fra i diversi gruppiprotagonisti della guerra civile terminata nel 2002grazie anche all’attività del Tribunale speciale che haconcluso i quattro processi in prima istanza e tre inappello. La popolazione locale ha avuto inoltre lasoddisfazione di vedere riconosciuta da questo Tribu-nale la responsabilità per complicità del Capo di unoStato straniero – l’ex-Presidente della Liberia – per igravi crimini di cui soprattutto i civili erano stati vit-time durante il conflitto (è terminato nel 2012 il pro-cesso in prima istanza contro Taylor, l’ex Presidenteliberiano, con una condanna a cinquanta anni di re-clusione per complicità nei crimini ). Nonostante l’intensa attività svolta dai panels specia-li per i crimini di Timor Est, i responsabili sono tut-

tora latitanti, poiché l’Indonesia, da cui quel Paese hadefinitivamente acquisito l’indipendenza nel 2002, siè rifiutata di consegnare i propri cittadini autori diquei crimini. Forse anche in ragione di questa giusti-zia in parte abortita, Timor Est è ancora lungi dall’a-ver trovato la via per una pacificazione. In Libano la situazione è tuttora critica, visto chequesto Paese è coinvolto nella delicata questioneisraelo-palestinese. Del resto, il Tribunale specialenon è riuscito per ora a fare arrestare nessun sospet-tato di quel massacro del 2005 o di altri fatti analoghidi sua competenza e un processo contro un imputatosarà a breve aperto, ma in contumacia.Nessun contributo hanno dato alla riconciliazione na-zionale né alla pace locale e internazionale le Camerestraordinarie per i crimini dei Khmer rossi, visto ilgrave ritardo con cui quelle Camere sono state istitui-te. Peraltro, nonostante la distanza temporale da queinefasti avvenimenti, esse fronteggiano molti ostacolinella loro attività, in ragione di interferenze politicheche dimostrano come la complicità con quel gruppodi criminali sia ancora forte nel Paese (e non è man-cata, purtroppo, la complicità anche di un giudice dinomina internazionale, come sembra emergere da unaquasi-inchiesta delle Nazioni Unite).Lo strumento internazionale di carattere penale chedovrebbe, come ho già rilevato, poter garantire almeglio una corretta amministrazione della giustiziapenale internazionale nel perseguimento dell’obietti-vo della pace è la CPI. Come vedremo, però, l’attivi-ta di questo Tribunale permanente e potenzionalmen-te universale presenta ancora tante ombre. Un ruolo positivo ha svolto la CPI nel processo dipacificazione nella Republlica democratica del Con-go, sostanzialmente realizzato su quasi tutto il terri-torio, con rinnovate gravi difficoltà in alcune zonecome i Kivus e l’Ituri, dove i grandi interessi che laricchezza in coltan, diamanti e oro suscita in alcuniStati, porta questi ad alimentare il conflitto piuttostoche a cooperare per spegnerlo. La Corte, attivata dal-lo stesso governo congolese nel 2004, si è occupatacon una certa efficienza dei crimini commessi in quelPaese. Due accusati sono stati giudicati in primaistanza in due diversi processi e l’uno è stato condan-nato a 14 anni di reclusione per il reclutamento forzato

Gli Stati usciti dalla disintegrazionedella ex-Iugoslavia, come anche il

Ruanda, hanno ormai ricostruito erinnovato il loro sistema giudiziario

grazie tanto all’assistenzainternazionale che all’attività dei due

Tribunali, i quali hanno anchecontribuito alla formazione dei giudici

locali, rendendoli così in grado diapplicare ai crimini di rilevanza

internazionale norme internazionali

Radovan Karadzic e Ratko Mladic a processo, 17 anni dopo la pulizia etnica in Bosnia Erzegovina

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 11

12 di fanciulli mentrel’altro è stato assol-to e posto in libertàin attesa della sen-tenza di appello suricorso del procu-ratore. È stato libe-rato anche un altrocongolese permancata conferma,a maggioranza,dell’atto di accusada parte della Ca-mera preliminare. Significativo appa-re, inoltre, che do-po che la CPI è sta-ta investita dalConsiglio di sicu-rezza della situazione di Darfur, il governo sudanesesia pervenuto a concludere un accordo di pace con lapiù importante delle forze ribelli e che esso abbia alcontempo istituito un tribunale speciale per i criminidi quella regione. Purtroppo, però, resta l’ombra oscu-ra del mandato di arresto emanato dalla CPI nei con-fronti del Capo dello Stato sudanese, ma non eseguitoper ragioni politiche che hanno trovato eco perfino nelquadro dell’Unione africana. La mancata esecuzionedi tale mandato, per via della mancata cooperazionedegli Stati, che continuano a ricevere le visite di quelCapo di Stato senza consegnarlo alla Corte, nonostan-te vi siano obbligati in quanto parti dello Statuto, hadato un pessimo segnale alle diverse parti a confronto,sicure che si possa godere dell’impunità. Ciò ha porta-to tanto a riaccendere la tensione fra esse che al ritor-no alle violenze. L’attività della Corte ha certamente dato uno stimoloanche al processo di pacificazione nazionale nella si-tuazione dell’Uganda, nonostante la non esecuzionedei mandati di arresto contro cinque leader delle for-ze ribelli del Nord del Paese, che sono tuttora in fuga(uno è deceduto) nei Paesi africani limitrofi al Norddel Paese. L’Uganda ha emanato una legge di amni-stia che si rivolge a tutti i ribelli che depongano le ar-mi e ciò ha contribuito alla reintegrazione dei “pescipiccoli” sospettati di crimini nella vita del Paese. Per quel che riguarda la Repubblica Centroafricanamerita qui rilievo il fatto che nel 2007 si era raggiun-to l’accordo con i ribelli proprio in connessione conl’apertura, tardiva (la situazione di violenza era statarinviata alla Corte dallo Stato in questione nel 2003),di un’inchiesta sui crimini commessi in quel Paesedurante la guerra civile e si è subito dopo assistito,secondo quanto risultava da alcuni rapporti delleONG, a una diminuzione delle violenze contro i civi-li. Purtroppo, l’accordo non ha trovato piena attua-zione e la tensione fra il regime al potere e i gruppiche ad esso si oppongono si è riaccesa. Del resto, laCorte ha impiegato altri due anni prima di emanareun atto di accusa e peraltro lo ha fatto contro uno so-lo dei sospettati dei crimini, che hanno invece visto

una larga parteci-pazione di affilia-ti tanto al gover-no al potere cheai ribelli. Una situazioneanaloga a quelladella Repubblicacentroafricana,ma forse ancorapiù grave, si è ve-rificata per i cri-mini della Costad’Avorio, Statoche aveva accet-tato ad hoc lacompetenza dellaCorte già nel2003. Ma solo

nell’ottobre 2011 la Corte ha deciso di aprire un’in-chiesta, dopo i ripetuti massacri di civili nello scon-tro fra il presidente sconfitto nelle elezioni del 2010,ma ancora al potere, e i sostenitori del Presidente ri-sultato vincitore e sostenuto internazionalmente.La CPI si occupa per la prima volta anche di criminicontro l’umanità non collegati con un conflitto arma-to e cioè delle violenze scoppiate in Kenya durante lacampagna elettorale del 2007. Sei kenioti sono com-parsi volontariamente davanti alla Corte, che ha con-fermato gli atti di accusa nei confronti di quattro diloro respingendone due. Due degli accusati sono can-didati alle prossime elezioni di quest’anno, ma lacampagna elettorale, nonostante i duri attacchi ver-bali alla Corte, si svolgono senza ricorso a violenze.Ciò significa che la determinazione della Corte nelperseguire anche politici di alto livello ha contribuitoa cercare la via della parola piuttosto che quella delleviolenze e delle armi.Molto complessa è la situazione della Libia portatadavanti alla CPI dal C.d.S. Questo Paese si rifiuta diconsegnare alla Corte i destinatari di un atto di accu-sa (uno dei figli di Gheddafi, Seif al Islam e il capodei servizi segreti libici Abdallah al Senussi), preten-dendo di avere la priorità nella competenza a giudi-carli e la Corte si è mostrata troppo cauta di fronte aqueste pretese. La situazione politica interna è infattiancora molto confusa e appare, anche alla luce dellafine di Gheddafi, ben lungi dal poter garantire pro-cessi interni equi e sicuri contro gli sconfitti. Mentre si sta per aprire un’inchiesta davanti alla CPIper i crimini nel Mali, Stato parte dello Statuto diRoma, nulla si sta facendo relativamente ai criminidell’attuale conflitto in Siria, la quale non è partedello Statuto, ma la cui situazione potrebbe essererinviata alla Corte dal C.d.S.: qui entra in gioco la se-lettività di questo organo delle Nazioni Unite.Purtroppo, la selettività che porta perfino la Corte aoccuparsi soprattutto di una parte del continente afri-cano, mentre il Nord Africa, il Medio Oriente, l’A-merica latina, l’Asia e perfino qualche Paese euro-peo, sono afflitti da una violenza sistematica, la man-

Nura Begovic e Hajra Catic, due donne bosniache, seguono in TV il processo a Karad-zic. Sullo sfondo le foto delle vittime del massacro di Srebrenica

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 12

13

cata cooperazione degli Stati alle inchieste del procu-ratore e all’esecuzione delle decisioni delle Camere,la cautela che la Corte assume rispetto alla non coo-perazione e la lentezza con cui essa opera, sono tuttifattori tesi a rendere l’impatto della sua attività suiprocessi di pace e di riconciliazione nazionale piutto-sto modesto. Ma forse è ancora presto per poter valu-tare a pieno l’efficacia della sua attività nel persegui-mento della pace internazionale.Una delle critiche più frequenti alla giustizia penaleinternazionale è che essa operi in modo selettivo tan-to rispetto alle situazioni che alle persone sospettatedi crimini. È certo che la non selettività rappresentaun elemento importante della realizzazione del finepressoché utopico di liberare l’umanità dal flagellodelle guerre internazionali e interne e dunque da vio-lazioni gravi e sistematiche dei diritti elementari dellapersona umana che a tali conflitti sempre si accompa-gnano. Varie possono essere le ragioni che portano ilC.d.S. a occuparsi di alcune situazioni drammatiche edi tacere su altre. Ci sono purtroppo ragioni politico-strategiche, ma anche ragioni contingenti dipendentidal momento storico, dall’eco che gli avvenimentitrovano nei media, ma soprattutto dall’esistenza di unaccordo a intervenire fra i membri permanenti delC.d.S. Tutto ciò non inficia, a mio avviso, la bontàdella decisione del Consiglio di far reprimere i gravicrimini nelle situazioni che ho menzionato.

Del resto, proprio la criticata selettività ha portato acercare altre vie, come l’istituzione di una corte per-manente. Quanto alla selettività rispetto alle personemesse sotto accusa, il fatto che la giustizia penale in-ternazionale raggiunga pochi rispetto ai tanti sospet-tati di gravi crimini non inficia, a mio avviso, il prin-cipio di imparzialità fra i sospettati: anzi, il fatto dioccuparsi soprattutto delle persone che portano lemaggiori resonsabilità («who bear the greatest re-sponsibility», secondo l’espressione usata dal C.d.S.)è una scelta fatta in nome proprio dell’imparzialitàche solo una giustizia distaccata dalle passioni deiluoghi dei crimini può assicurare, soprattutto allor-ché si tratti di giudicare pianificatori, organizzatori,istigatori, comandanti militari e politici, alcuni deiquali – proprio quelli posti al vertice della catena dicomando – godono dell’immunità dalla giurisdizionelocale e da quella di altri Stati. Del resto, è nell’es-senza stessa della giustizia penale internazionale, inparticolare di quella amministrata dai due Tribunali

ad hoc e dalla CPI, privi di un contatto fisico con iterritori teatro del conflitto, con i testimoni, con i so-spettati e con le vittime, di non potersi occupare ditutti quelli che siano sospettati di aver commesso cri-mini di rilevanza internazionale in una determinatasituazione (in Ruanda i sospettati sono ben1.000.000!). Resta alle giurisdizioni statali il compitodi assicurare una giustizia più capillare, non lascian-do impuniti neppure i cosiddetti “pesci piccoli”.Preso atto di questo limite della giustizia penale in-ternazionale, è d’uopo considerare che è molto im-portante, proprio ai fini del ristabilimento della pace,che questa giustizia operi in modo del tutto imparzia-le. Merita rilevare in proposito che tutti gli strumentiqui considerati applicano regole molto rigorose nelrispetto dei diritti della difesa e che offrono, quindi,le migliori garanzie di imparzialità. Ed è indubbioche, al di là degli standard dell’equo processo appli-cati dalle giurisdizioni internazionali, queste più diquelle statali possono porsi super partes nel perse-guire un Capo di Stato o di governo, un alto coman-dante militare, un “signore della guerra”.Da questa breve descrizione della giustizia penale in-ternazionale, l’obiettivo del ristabilimento e manteni-mento della pace che essa persegue appare più utopi-co che mai, come sembrano mostrare i conflitti incorso e i crimini che si commettono in Siria, in Mali,l’impunità per i crimini che entrambe le parti a con-fronto hanno commesso nel nord dell’Uganda e inLibia, i crimini che si continua no a commettere inDarfur e in Costa d’Avorio e nel contesto di altriconflitti ormai dimenticati dalla comunità internazio-nale e dai mass media, come quello nei Kivus o quel-lo colombiano, che mietono migliaia di vittime. Male utopie sono sempre state il motore per fare progre-dire l’umanità nelle conquiste per il suo benessere. Eforse, come spero di essere riuscita qui a mostrare,anche la giustizia penale internazionale dà un piccolocontributo a trasformare l’utopia in realtà.

Reazioni alla condanna dell’ex presidente liberiano Charles Tay-lor. Il Tribunale speciale delle Nazioni Unite per la Sierra Leonelo ha condannato a 50 anni di prigione per crimini di guerra econtro l’umanità; Taylor è accusato di aver appoggiato il FronteRivoluzionario Unito durante la guerra civile in cambio di “dia-manti insanguinati”. I ribelli sono responsabili di migliaia diomicidi, stupri e violenze: le vittime di quegli 11 anni di guerrasono state quasi 50.000.

Per i crimini del Ruanda l’attività delTribunale internazionale è stata

affiancata dalle procedure Gacaca, ecioè la giustizia amministrata dai saggi

del villaggio, secondo vecchieconsuetudini locali adattate alla nuova

situazione, procedure che, però,lasciano qualche dubbio quanto alla

garanzia dei diritti della difesa

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 13

14

Gli ultimi quarant’annidel Novecento latinoa-mericano sono stati se-gnati da colpi di statomilitari e conflitti arma-ti di durata e intensitàdiverse. Una pesantecontabilità di detenzio-ni, torture, morti, scom-parse forzate è stata de-nunciata dagli organi-smi internazionali edall’opinione pubblicamondiale. Dai primi an-

ni Ottanta si avviano, nella regione, graduali processidi ricostituzione dello Stato di Diritto. Il problemaetico e politico di come “amministrare” il lascito del-le violazioni dei diritti umani perpetrate nel periodoimmediatamente precedente è uno dei problemi prio-ritari più complessi dei nuovi governi rappresentati-vi. Infatti, in alcuni paesi, istituzioni, gruppi e perso-nalità politiche responsabili degli atti criminali, con-tinuano a occupare posti di rilievo sullo scenariopubblico e a gestire, anche nella fase della transizio-ne politica, considerevoli fette di potere in una “sor-prendente” continuità con il passato.La questione etica e politica di come affrontare leeredità di un passato repressivo diventa centrale nelladefinizione delle forme e dei modi che si voglionoadottare per la costruzione di uno Stato democraticoe nella scelta di adottare politiche economiche e so-ciali che sembrano imposte da un mondo ormai glo-balizzato.In alcuni paesi uno dei primi atti dei governi ditransizione è la formazione di commissioni d’inchie-sta ufficiali per accertare la verità sulle violazioni deidiritti umani consumatesi nel periodo precedente.Dal 1982, anno in cui si forma la prima in Bolivia,sino ad oggi, quasi tutti i paesi della regione creanole loro Comisiones de la Verdad y ReconciliaciónNacional (CVR). In alcuni di essi, come Cile, Guate-mala, Paraguay, Perù, si conta con il lavoro di piùcommissioni. Persino in Costarica e Messico, chepure non sono nel novero dei paesi che hanno speri-mentato discontinuità politiche violente, si formanocommissioni d’inchiesta per specifici episodi di re-pressione. Varia la loro origine giuridica e politica, icriteri con cui si scelgono le personalità che le com-pongono, la quantità e qualità delle attribuzioni. Tut-te, però, si configurano come organismi pubblici ex-tragiudiziari che, in un tempo definito al momentodella loro istituzione, hanno il compito di accertare leviolazioni dei diritti umani commessi nel passato re-

cente, custodirne le prove, individuarne i responsabi-li, riabilitare le vittime, rendere pubblico il loro lavo-ro attraverso la compilazione di una relazione finale.Tale relazione deve contenere anche raccomandazio-ni perché i gravi fatti indagati non possano ripetersinel futuro e deve suggerire misure di riparazione neiconfronti delle vittime. Obiettivo finale della ricercadella verità storica, morale e politica è la riconcilia-zione nazionale considerata fondamento della costru-zione dell’ordine democratico e della pace sociale.Conviene forse riflettere un momento sui concettiche, indipendentemente dal titolo, designano tutte lecommissioni d’inchiesta: verità e riconciliazione na-zionale. Concetti reiterati, quasi abusati e consumatida tutti gli attori politici e sociali delle transizioni la-tinoamericane e che provocano non poche divisioni econtrapposizioni nel dibattito politico.

Iniziamo dal termine verità. Di quale verità si tratta?Storica, morale o anche, per certi versi, giudiziaria,benché le competenze delle commissioni sianoespressamente extragiudiziarie? Si tratta di una verità“possibile”, socialmente costruita, che deve “ade-guarsi” alle esigenze della congiuntura? È una veritàdella memoria delle vittime, dei loro vissuti e soffe-renze e quindi essenzialmente una verità “riparatri-ce” come alcuni dei membri delle varie commissionisostengono? È una verità “negoziata”, “pattuita” infunzione della riconciliazione in società lacerate e incui le contrapposizioni sono tutte ancora irrisolte? Èuna verità che, in una congiuntura storica determina-ta, uomini e donne, con nome e cognome, con la lorobiografia e che incarnano i poteri di uno Stato, rico-noscono e assumono come fondamento per la costru-zione di una nuova identità, pubblica e collettiva?Non è certamente possibile operare distinzioni nettee, in realtà, tutte queste verità si sovrappongono o siconiugano in modo diverso nelle varie esperienze la-tinoamericane.L’oggetto della faticosa ricerca della verità sono leviolazioni dei Diritti Umani. Per quanto scontato e

Nient’altro che la veritàRiconciliazioni nazionali e costruzione della pace sociale in America Latina

di Maria Rosaria Stabili

Maria Rosaria Stabili

La questione etica e politica di comeaffrontare le eredità di un passatorepressivo diventa centrale nella

definizione delle forme e dei modi chesi vogliono adottare per la costruzionedi uno Stato democratico e nella scelta

di adottare politiche economiche esociali che sembrano imposte da un

mondo ormai globalizzato

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 14

15

banale possa apparire,ritengo importante ri-cordare che si tratta deidiritti “elementari”,“fondamentali” dellapersona e cioè del di-ritto alla vita e all’inte-grità fisica e morale.Un insieme, quindi, li-mitato che, in alcunicasi, è condito con unaspolverata di diritti ci-vili e politici. Gli altricosiddetti diritti di cit-tadinanza, quelli eco-nomici e sociali, la cuiconquista ha segnatobuona parte della storia del Novecento, anche diquello latinoamericano, rimangono, in sostanza, fuoridall’indagine. Sorge allora una domanda: è possibileparlare di transizioni democratiche e pace sociale, acavallo tra secondo e terzo millennio, quando questiultimi si tralasciano? Non è, questo, un arretramentostorico preoccupante?Il termine “riconciliazione”, invece, allude alla vo-lontà di raggiungere la pace sociale attraverso la co-struzione dello Stato di diritto, capace di offrire legaranzie politiche, sociali ed economiche a tutti i

suoi cittadini. Anche l’uso di questa parola contribui-sce a creare dubbi e tensioni tra l’opinione pubblicalatinoamericana, probabilmente in ragione del fattoche, in passato e in America Latina, è stata troppevolte sinonimo di amnistia e impunità. Anche qui gliinterrogativi sono molti. Com’è possibile che una so-cietà che ha vissuto contrapposizioni e lacerazioniviolente nel tessuto sociale possa riconciliarsi? Laverità accertata dei crimini, le misure di riparazionenei confronti delle vittime adottate dalle istituzionidello Stato sono elementi sufficienti a garantire la ri-conciliazione nazionale quando la giustizia non rie-sce a condannare i responsabili dei misfatti oppurequando essi non accettano di assumersi pubblica-

mente la responsabili-tà delle loro azioni enon chiedono perdo-no? L’uso di questoconcetto, che appartie-ne alla sfera religiosa,morale, individualenon è, a dire poco,problematico? InAmerica latina è statoe continua a essereutilizzato con troppafrequenza nella rifles-sione teorica e nellasfera dell’azione poli-tica come “necessità”e “dover essere” socia-

le. «Posso riconciliarmi soltanto con qualcuno che ri-conosce il dolore e i danni che ha provocato e chiedeperdono», afferma una vittima cilena del terrorismodi Stato durante il regime militare del generale Pino-chet. Forse la riconciliazione nazionale, pensata come uni-ca garanzia per la costruzione della pace sociale, èsoltanto speranza per un futuro lontano, realizzatadalle generazioni che non hanno vissuto personal-mente i fatti traumatici e quando tutti i loro autori sa-ranno morti e sepolti. Nel caso latinoamericano l’idea di fondare i processidi riconciliazione nazionale soltanto sulla base dellaverità ricostruita e riconosciuta ufficialmente non hariscontri nelle dinamiche concrete che continuano adessere pesantemente segnate da rancori e contrappo-sizioni acuite dalle profonde disuguaglianze sociali.Per tentare di spiegare le difficoltà dei processi di ri-conciliazione è forse utile fare riferimento a casi con-creti e le vicende peruviane offrono un terreno di ri-flessione utile.La spirale di orrori in cui il Perù entra nel 1980 eche si conclude nel 2000, ha tratti inediti. Sonovent’anni segnati da governi civili autoritari, lotteinterne e violazioni dei diritti umani che vedonouna pluralità di forze in campo variamente respon-sabili. Lo Stato da un lato e i gruppi sovversividall’altro (in modo particolare il Partito Comuni-sta peruviano-Sendero luminoso e, in misura mi-nore, il Movimento Rivoluzionario Túpac Amaru),rappresentano le forze principali contrapposte especularmente responsabili ma, tra gli interstizidella contrapposizione, s’insinuano gruppi e orga-nizzazioni che rendono ancor più fosco il quadrogenerale. È un pezzo di storia recente in cui ven-gono al pettine nodi irrisolti di più lungo periodo,aggravati dai tentativi di modernizzazione autori-taria dei vari governi in carica, peraltro misera-mente falliti. I metodi sono sempre gli stessi: se-questri, torture, violazioni, morte. Nel 2000, unoscandalo finanziario di grandi proporzioni vedecoinvolti i servizi di sicurezza, lo stesso Presidentedella Repubblica e spazza via i vertici del potere.Dopo appena due settimane dall’assumere il man-

Consegna al presidente Patricio Aylwin del rapporto finale della Commis-sione nazionale per la verità e la riconciliazione cilena, il 9 febbraio 1991

Di quale verità si tratta? Storica,morale o anche, per certi versi,

giudiziaria, benché le competenze dellecommissioni siano espressamente

extragiudiziarie? Si tratta di una verità“possibile”, socialmente costruita, chedeve “adeguarsi” alle esigenze della

congiuntura? È una verità dellamemoria delle vittime? È una verità“negoziata”, “pattuita” in funzione

della riconciliazione? Non è possibileoperare distinzioni nette e, in realtà,tutte queste verità si sovrappongono

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 15

16 dato, il Presidenteprovvisorio, ValentínPaniagua nomina, nelnovembre 2000, unaCommissione dellaVerità con il mandatourgente di fare chia-rezza sulle violazionidei diritti umani oc-corse tra il 1980 e il2000. La commissio-ne, riconfermata nel-l’agosto 2001 dalneoeletto PresidenteAlejandro Toledo colnome di “Commissio-ne della Verità e dellaRiconciliazione” presenta la sua relazione finale cheviene resa pubblica nell’agosto 2003.I dati che essa presenta sono impressionanti: circa70.000 morti; 4.600 fosse comuni; 215 massacri dicomunità indigene imputati a Sendero Luminoso epiù di 122 ad agenti dello Stato; mezzo milione di ri-

fugiati interni e un numero incalcolabile di vittimesopravvissute a ogni sorta di violenze e abusi. Ugual-mente impressionante è la distribuzione di responsa-bilità: il 46% è attribuito a Sendero Luminoso; il 30%alle Forze armate; il 24% alle ronde contadine, ai co-mitati di autodifesa e ai gruppi paramilitari. Il dannoeconomico didue decenni diconflitto armatointerno è stima-to in 26 miliardidi dollari dell’e-poca.Il Presidentedella Repubbli-ca Toledo di-chiara di avalla-re pienamente illavoro effettua-to dalla Com-missione, acco-glie le racco-m a n d a z i o n iproposte e de-creta immedia-tamente lo stan-

ziamento di quasi tremilioni di dollari perle riparazioni nei con-fronti delle vittime el’esecuzione di operesociali nelle zone piùcolpite dalla violenza.L’impegno dellaCommissione e le pa-role del Presidentedella Repubblica ali-mentano una speran-za di giustizia moltoforte. Tuttavia, Tole-do non dà seguito alcarattere vincolantedelle raccomandazio-

ni che ancora oggi sono ignorate dal mondo politicoe dalla società civile. La sostanziale mancata realiz-zazione delle raccomandazioni della Commissione edelle misure di riparazione da essa indicate, provo-cano una delusione profonda tra le vittime soprav-vissute e i familiari di quelle scomparse. La veritàsulle violazioni dei diritti umani insieme alla manca-ta punizione dei responsabili, molti dei quali conti-nuano a vivere impuniti a fianco delle loro vittime,acuisce la frustrazione e la rabbia di queste ultime.La società peruviana continua a essere spaccata: co-me scrive Mario Vargas Llosa, sotto una fragile esottile facciata di modernità e civiltà il Perù conti-nua a nascondere tutta la barbarie di un sistema rettodalla legge del più forte, dove gli istinti peggioriprevalgono sulla ragione e il razzismo, l’ignoranza ela brutalità senza limiti dominano sia i rapporti deipotenti nei confronti dei deboli, sia i rapporti tra ideboli. L’esercizio della giustizia e lo sviluppo ma-croeconomico continuano a favorire e proteggere iceti sociali privilegiati mentre quelli più fragili e so-prattutto la stragrande maggioranza della popolazio-ne indigena pagano il prezzo delle profonde disu-guaglianze economiche e sociali.

Circola voceche alcuni nu-clei del gruppog u e r r i g l i e r oSendero Lumi-noso si stianoricost i tuendoproprio nei luo-ghi in cui, neglianni Settantadel secolo scor-so, avevanomosso i primipassi. Insommariconciliazionee pace, in Perù,sono per oralontane dallaloro realizza-zione.

Forse la riconciliazione nazionale,pensata come unica garanzia per la

costruzione della pace sociale, èsoltanto speranza per un futuro

lontano, realizzata dalle generazioniche non hanno vissuto personalmente i

fatti traumatici e quando tutti i loroautori saranno morti e sepolti

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 16

17

«Quale beneficioscaturisce dalla ve-ri tà? Come puòaiutare a saperedove e come i pro-pri cari sono statiuccisi o seppelli-ti?» Winnie Man-dela, ex mogliedello storico leaderdell’African Natio-nal Congress e pri-mo presidente nerosudafricano dopole elezioni dell’a-

prile 1994, pronunciò queste parole, che subitofecero il giro del mondo, nel marzo 2010.L’attività della Commissione per la verità e lariconciliazione, istituita con il Promotion ofnational unity and reconciliation Act del 26 lu-glio 1995, non fu quella di rispondere al dram-ma della segregazione razziale in Sudafricacon altre persecuzioni nei confronti di coloroche avevano calpestato diritti umani inaliena-bili ma di dare l’opportunità alle vittime diconfrontarsi pacificamente con i loro carnefici.I processi infatti, non si proponevano di saperesolo chi fosse la vittima e chi il carnefice madi cercare di capire in tutte le sue sfaccettaturee in tutta la sua complessità, ciò che era suc-cesso, non solo per indagare il passato, ma so-prattutto per ricostruire il futuro.La Commissione si articolava in tre sottocomi-tati indipendenti che collaboravano strettamen-te:• Il sottocomitato delle violazioni dei diritti

dell’uomo che aveva il compito di trovare levittime sottoposte a torture, i desaparecidos,persone uccise durante i conflitti politici osottoposte a gravi maltrattamenti e di orga-nizzare incontri pubblici durante i quali levittime parlavano delle violazioni subite;momenti fondamentali perché permettevanoalle vittime di recuperare la loro dignità. Gliincontri venivano ripresi dalla televisione etrasmessi in diretta dalla radio, in tutte le lin-gue ufficiali parlate in Sudafrica.

• Il sottocomitato per l’amnistia si occupavadei processi e aveva il compito specifico diesaminare le richieste di amnistia per le graviviolazioni dei diritti dell’uomo; il requisito

necessario per poter chiedere l’amnistia daparte dei colpevoli, era quello di dichiararetutto ciò che si era commesso e assumersidelle responsabilità definite e precise. Il col-pevole doveva riferire in modo specifico diogni persona uccisa o torturata e spesso ac-cadeva che venisse interrogato dalla personasopravvissuta alle sue torture. In tribunale solitamente, l’accusato ha sem-pre la tendenza a proteggersi e a non rivelarela verità sulle azioni compiute. Nel processoper l’amnistia invece, dire la verità permette-va all’accusato di evitare la condanna.

• Il sottocomitato addetto alla riparazione e al-la riabilitazione aveva il compito specifico diesaminare i casi di ciascuna vittima e di de-cidere le misure adeguate di risarcimento eriabilitazione. A volte si trattava di cure me-diche per risolvere le conseguenze delle tor-ture alle quali gli individui erano stati sotto-posti e che non erano mai state curate; altrevolte si trattava di permettere alle persone diriprendere gli studi interrotti o di trovare loroun lavoro; altre chiedevano di poter intitolareuna strada o una scuola in memoria di unapersona cara scomparsa. Si voleva così forni-re alle vittime l’aiuto necessario per garanti-re che il processo della Commissione per laverità e la riconciliazione ricostruisse la lorodignità e per formulare proposte politichesulla riabilitazione e la guarigione dei super-stiti e delle loro famiglie.

La Commissione per la verità e la riconcilia-zione espletò un enorme mole di lavoro: tra il1996 e il 1998 vennero ascoltate oltre 20.000persone e la sua attività ebbe una grande riso-nanza, monopolizzando per quasi due annil’attenzione dell’opinione pubblica e dei mezzidi comunicazione.L’opinione prevalente in Sudafrica è che pro-prio grazie all’operato della Commissione, èstato possibile fondare e consolidare la demo-crazia: la Commissione infatti, ha dato voce achi non l’aveva mai avuta, ha portato sotto losguardo del mondo gli orrori dell’apartheid, halenito le ferite della nazione.La Commissione mirava alla riconciliazionema attraverso il perseguimento di una giustiziafondata sulla verità, la chiave di volta del si-stema sociale. Su di essa infatti, riposano lagiustizia e la pace.

Sudafrica: la Commissione per la veritàe la riconciliazionedi Gaia Bottino

Gaia Bottino

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 17

18

«Noi vogliamo ottenereuna pace duratura attra-verso la sostituzioneprogressiva dell’arbitra-to alle guerre, che cau-sano da tempo la cresci-ta delle tasse e sonocausa di rovina per tuttele nazioni. Se ci affide-remo alle donne – poi-ché è ad esse che è affi-data la prima educazio-ne dei bambini e sequesti vengono cresciutinella stima dei grandi

valori intellettuali e morali – noi avremo la speranzadi poter ottenere nel corso di qualche generazione unreale perfezionamento dell’umanità».Così nel lontano 1905 in un testo di donne impegnatenelle battaglie sociali (ma anche le suffragette inquegli anni portavano in primo piano tematiche anti-militariste e pacifiste) si metteva già a fuoco un temache genericamente possiamo porre sotto il segno“donne e pace”, tema che rappresenta un filo rossotalvolta presente nella grande Storia, più spesso sot-terraneo e da ricercare con cura.Per il primo aspetto si potrebbe instaurare un ipoteti-co dialogo con quelle grandi figure di donne – di dif-ferenti paesi e di competenze diverse – che hanno ri-cevuto il premio Nobel per la pace, premio che dal1905 – ottenuto da Jane Adams, grande educatriceamericana – via via fino ai nostri giorni ha portato al-l’attenzione del mondo figure come Wangari Maa-thaï (Kenya), Shirin Ebadi (Iran), Jody Williams(Usa), Rigoberta Menchu Tum (Guatemala), AungSan Suu Kyi (Birmania) solo per ricordarne alcune,fino al 2011 che ha visto riconosciute nel loro impe-gno la presidente liberiana Ellen Johnson Sirleaf, lasua compatriota Leymah Gbowee, attivista pacifista,e Tawakkol Karman, giornalista yemenita fortementecoinvolta nella lotta per i diritti umani. Giustamenteè stato detto da Thorbjoern Jagland, presidente delComitato per il Nobel, che il premio rappresenta unriconoscimento per la «lotta non violenta in favoredella sicurezza delle donne e del diritto a partecipareal processo di pace».Ma a questo corrisponde la microstoria o meglio lanecessità di ricercare quelle iniziative, riflessioni eazioni, presenze carsiche, che hanno come fine ulti-mo non solo la pace, ma un vivere migliore per tutti(fini che dovrebbero coincidere). Ritengo infatti che il tema della pace o della guerranon cada dal cielo all’improvviso e che non sia sem-

plicemente un argomento di politica estera, ma rap-presenti l’esito di un processo culturale in cui lenuove generazioni (da qui l’importanza dell’univer-sità) sono chiamate ad intervenire in prima persona.Ci aiuta un famoso libro di Virginia Woolf, Le treghinee, che schiude una vastità di riflessioni: «Ilmodo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra nonè di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi,ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi.Non è di entrare nella vostra associazione, ma di ri-manere fuori pur condividendone il fine. E il fine è ilmedesimo: affermare il diritto di tutti – di tutti gliuomini e di tutte le donne – a vedere nella propriapersona i grandi principi della Giustizia, dell’Ugua-glianza e della Libertà». Questo testo, scritto nel1938, quando si avvertivano venti di guerra, è quindiin consonanza con i movimenti di donne che conpassione rifiutavano la logica della violenza, comeabbiamo letto nella citazione iniziale. Virginia Woolf– come è noto – alla richiesta di offrire un contribu-to ad una associazione maschile per la pace risponde(paradossalmente) in maniera negativa ritendendoche le tre ghinee vadano spese per rendere le donneautonome e libere: la prima servirà per la costruzionedi un college femminile, la seconda per sostenereun’associazione in difesa delle donne che lavorano,ed infine la terza ghinea per tutelare la cultura e ga-rantire la libertà di pensiero, perché solo la totaleemancipazione delle donne contribuirà a prevenire laguerra.

Noi in questa occasione vogliamo raccogliere l’invi-to di Woolf e segnalare alcuni percorsi (ecofemmini-smo, beni comuni) del pensiero femminile che si fapratica, prassi concreta per il raggiungimento di unasocietà migliore perché giusta e pacifica. Ma è prassiche deriva da una riflessione, come il femminismoha mostrato, che rivendichi una apertura e un rico-

Donne e beni comuni Le radici etiche del vivere quotidiano

di Francesca Brezzi

Francesca Brezzi

«Noi vogliamo ottenere una paceduratura attraverso la sostituzione

progressiva dell’arbitrato alle guerre(…) che sono causa di rovina per tuttele nazioni. Se ci affideremo alle donne,poiché è ad esse che è affidata la prima

educazione dei bambini e se questivengono cresciuti nella stima dei

grandi valori intellettuali e morali, noiavremo la speranza di poter ottenerenel corso di qualche generazione un

reale perfezionamento dell’umanità»

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 18

19

noscimento delle differenze, un pensiero che si co-stituisce nella relazionalità, in uno scambio di parole,gesti, significati da compiersi insieme, pensiero de-strutturante e ricostruttivo, critico e creativo al con-tempo: un progetto critico che mette in discussione leforme di discriminazione e di esclusione che i saperipatriarcali perpetuano e insieme un progetto creativo,che apre spazi alternativi all’autorappresentazione eautodeterminazione intellettuale delle donne. Pensa-re quindi non più quale mero esercizio concettuale odi passiva ripetizione di riflessioni altrui, in quantol’esperienza – comportamenti, azioni, passioni –sconvolge gli ordini di giudizio già esistenti e domi-nanti. Il discorso radicato nell’esperienza può avereuna forza di trasformazione e la parola femministapuò avere effetti politici, come adesso vedremo.Un ambito che costituisce in qualche misura la cornice

più generale del tema che qui abbozziamo è rappre-sentato dalla cosiddetta “prospettiva di genere”, appli-cata al settore “pace e sicurezza”, cioè in situazioni diconflitto, dimensione che si è affermata negli ultimianni come uno degli aspetti più innovativi e caratteriz-zanti del settore della cooperazione internazionale (ericordiamo come Roma Tre fin dalla sua creazione ab-bia istituito un Master in Peacekeeping).Come afferma una esperta della tematica quale LuisaDel Turco tale approccio si dipana sia nella attenzione

alle sofferenze delle donne nelle situazioni di conflittoarmato, ma soprattutto introducendo «la considerazio-ne del loro ruolo attivo nella promozione della pace,dando luogo ad una vasta produzione di programmi epolitiche che promuovono, oltre ad azioni specifichedi protezione e assistenza, la partecipazione delle don-ne ai tavoli negoziali e nei processi decisionali e la lo-ro introduzione stabile nei ruoli del personale impie-gato nell’ambito delle attuali missioni internazionali».Ne è derivato un forte sviluppo sul piano normativo:lo ius in bello, particolarmente per le previsioni ri-guardanti la protezione dei non combattenti (in mag-gioranza donne),circa l’assistenza umanitaria e so-prattutto per la repressione di crimini specifici (tracui lo stupro di guerra); lo ius contra bellum, soprat-tutto per quanto riguarda le modalità di interventoche prevedono un’azione integrata a più livelli, com-prensiva di attività informali e di lungo termine incui più spesso sono coinvolte le donne.Apparentemente lontana da questo settore, ma a no-stro parere paradigmatico esempio di prassi innovati-ve – produttive di pace, in cui le donne sono prota-goniste – è la riflessione e poi le pratiche conse-guenti intorno ai “beni comuni”. Anche in questo ca-so è significativo ricordare una interlocutrice moltointeressante, Elinor Ostrom, premio Nobel (2009)per l’economia, premio significativo per tanti motivi(anche se nel nostro paese non si è data la necessariarisonanza). Significativo ed epocale, innanzituttoche sia stato assegnato per la prima volta ad una don-na, in secondo luogo perché si è premiata la visioneinterdisciplinare di Ostrom che auspica la necessitàdi cooperazione fra le diverse discipline, nella visio-ne di integrare piani analitici diversi. Infine e soprat-tutto Elinor Ostrom ha individuato con autorevolez-za l’esistenza di una terza via tra Stato e mercato,che si oppone sia a una concezione privatistica deibeni (sfruttamento eccessivo) che ad una pubblicisti-

Il tema della pace o della guerra noncade dal cielo all'improvviso e non è

semplicemente un argomento dipolitica estera, ma rappresenta l'esito

di un processo culturale in cui le nuovegenerazioni (da qui l’importanzadell’università) sono chiamate ad

intervenire in prima persona

Wangari Maathaï (Kenya), Shirin Ebadi (Iran), Jody Williams (USA), Rigoberta Menchu Tum (Guatemala), Aung San Suu Kyi (Birma-nia), Ellen Johnson Sirleaf (Liberia), Leymah Gbowee (Liberia), e Tawakkol Karman (Yemen). Donne premi Nobel per la pace

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 19

20

ca, che dà luogo a costi amministrativi troppo eleva-ti. La studiosa propone di considerare il bene comu-ne come res communis omnium e non come res nul-lius, dove il nucleo pratico e pragmatico è l’esistenzadi una comunità l’appartenenza alla quale imponeagli individui certi diritti di sfruttamento del bene co-mune (i cosiddetti diritti a livello individuale o ope-razionali), ma anche determinati doveri (i cosiddettidiritti a livello collettivo o di amministrazione) diprovvedere alla sua gestione. Sempre in questa prospettiva finalizzata a realizzare lapace vanno lette le prassi concrete delle donne come imovimenti femminili per lo sviluppo, e la cooperazio-ne, riassumibili nell’ecofemminismo: ricordiamo solole battaglie per l’acqua pubblica di Vandana Shiva, lemanifestazioni per la salvaguardia delle foreste dei po-poli dell’Amazzonia, per la terra nel Chiapas e nelBrasile etc. che sono alcuni esempi di beni comuni. Interessante ancora (e inaspettato forse) il movimen-

to delle teologhe femministe – in specie del sud delmondo – che oltre ad operare per la liberazione delledonne, esprimono teorizzazioni di grande valore, edisegnano una divinità più appagante le domandedella contemporaneità; pertanto propongono un Dioche risponde alle questioni nodali dell’umanità, qualipossono essere in primo luogo il bisogno di pane, pa-ce e giustizia, una Divinità che libera gli oppressi, eriportano in primo piano la tradizione della Sapienza,che esprime una spiritualità polisemica e feconda, in

quanto include anche prospettive culturali altre; spi-ritualità concepita non in contrapposizione a corpo-reità nel senso platonico, ma come forza integranteed essenziale della vita, più in profondità essa deveessere compresa, come azione di trasformazione del-la società, non dunque in senso ascetico, ma comeenergia, non come chiusura in se stessi, ma come vi-talità che opera nel sociale. La Sofia, dicono questeautrici, ha lottato, era presente nelle piazze, nellestrade, era partecipe e agiva, concretamente in favoredelle donne, dei bambini e della terra. In quest’ulti-ma affermazione emerge l’ecofemminismo, ossia l’a-more, la cura e la responsabilità per l’ambiente, re-sponsabilità tale che prima di compiere una certaazione si debba pensare alle conseguenze che questaavrà per almeno sette generazioni, e qui irrompe l’e-tica intergenerazionale di Jonas, non solo, ma è ne-cessario lasciar riposare la terra e farla germogliaredi nuovo, prestare attenzione alla gestazione, allagravidanza collettiva della Terra, dare tempo alla ter-ra stessa di ricreare. Le teologhe – infine – affermanoche non dobbiamo usare le metafore di lotta, di guer-ra, in maniera superficiale, perché queste hanno sem-pre una carica di aggressività, che può ingabbiare edeformare la spiritualità, ma dobbiamo provare a so-stituirle con altre, si deve inventare un simbolismonuovo, quello che dice resistenza, conoscenza attiva,paradosso, frontiera, cammino, processo: «il nostro(di donne) modo di vivere, pensare, amare e credereè spesso impregnato da queste espressioni, immagini,simboli e metafore. È pertanto arrivato il momento diproporle come alternativa alla spiritualità patriarcaledella lotta intesa come guerra» come sostiene Merce-des Navarro Puerto.Conclusivamente vorremmo sottolineare come svi-luppare un tema quale le donne e la pace ci ricondu-ca alle radici etiche del nostro vivere quotidiano, ra-dici fragili, da me altrove definite inquiete e proble-matiche, ma tali da mettere a tema le scelte concreteche il soggetto si trova ad affrontare. Si può dire chele questioni etiche sono questioni e inquietudini au-tobiografiche, problemi umani che hanno a che farecon la complessità della vita stessa, e la ricerca dellapace può essere colta come un mettersi alla ricerca esulle tracce delle dimensioni che ci aiutano a vivere,a trovare uno stile di vita per stare in pace con noistessi e con gli altri.

Il movimento delle teologhefemministe, oltre ad operare per la

liberazione delle donne, esprimeteorizzazioni di grande valore, e

disegna una divinità più appagante ledomande della contemporaneità;

pertanto propone un Dio che rispondealle questioni nodali dell’umanità,

quali possono essere in primo luogo ilbisogno di pane, pace e giustizia, una

Divinità che libera gli oppressi,riportando in primo piano la

tradizione della Sapienza

Vandana Shiva Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia 2009

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 20

2121

Sono il nuovo sin-daco delle isole diLampedusa e di Li-nosa. Eletta a mag-gio 2012, al 3 dinovembre mi sonostati consegnati già21 cadaveri di per-sone annegate men-tre tentavano diraggiungere Lam-pedusa e questa perme è una cosa in-

sopportabile. Per Lampedusa è un enorme far-dello di dolore. Abbiamo dovuto chiedere aiutoattraverso la Prefettura ai Sindaci della provinciaper poter dare una dignitosa sepoltura alle ultime11 salme, perché il Comune non aveva più loculidisponibili. Ne faremo altri, ma rivolgo a tuttiuna domanda: quanto deve essere grande il cimi-tero della mia isola? Non riesco a comprendere come una simile tra-gedia possa essere considerata normale, come sipossa rimuovere dalla vita quotidiana l’idea, peresempio, che 11 persone, tra cui 8 giovanissimedonne e due ragazzini di 11 e 13 anni, possanomorire tutti insieme, come sabato scorso, duranteun viaggio che avrebbe dovuto essere per loroinizio di una nuova vita. Ne sono stati salvati 76ma erano in 115, il numero dei morti è sempre digran lunga superio-re al numero deicorpi che il marerestituisce. Sonoindignata dall’as-suefazione chesembra avere con-tagiato tutti, sonoscandalizzata dalsilenzio dell’Euro-pa che ha appenaricevuto il Nobeldella Pace e che ta-ce di fronte ad unastrage che ha i nu-meri di una vera epropria guerra. So-no sempre più con-vinta che la politica

europea sull’immigrazione consideri questo tri-buto di vite umane un modo per calmierare iflussi, se non un deterrente. Ma se per questepersone il viaggio sui barconi è tuttora l’unicapossibilità di sperare, io credo che la loro mortein mare debba essere per l’Europa motivo di ver-gogna e disonore. In tutta questa tristissima pagina di storia chestiamo tutti scrivendo, l’unico motivo di orgo-glio ce lo offrono quotidianamente gli uominidello Stato italiano che salvano vite umane a 140miglia da Lampedusa, mentre come è successosabato scorso, i libici che erano a sole 30 migliadai naufraghi ed avrebbero dovuto accorrere conle velocissime motovedette che il nostro prece-dente governo ha regalato a Gheddafi, ha inveceignorato la richiesta di aiuto. Quelle motovedettevengono però efficacemente utilizzate per seque-strare i nostri pescherecci, anche quando pescanoal di fuori delle acque territoriali libiche. Tutti devono sapere che è Lampedusa, con i suoiabitanti, con le forze preposte al soccorso e al-l’accoglienza, che dà dignità di esseri umani aqueste persone, che dà dignità al nostro Paese eall’Europa intera. Se questi morti sono soltantonostri, allora io voglio ricevere i telegrammi dicondoglianze dopo ogni annegato che mi vieneconsegnato. Come se avesse la pelle bianca, co-me se fosse un figlio nostro annegato duranteuna vacanza.

Giusi Nicolini

«Di chi sono questi morti?»

Lettera aperta di Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa e Linosa

Giusi Nicolini

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 21

22

Se nasci il 7 gennaio 1943 aHiroshima, a un chilometroe settecento metri dal puntoin cui viene sganciata labomba atomica quando haidue anni e mezzo, se vienisbalzato fuori dalla tua ca-meretta attraverso la finestrae però sopravvivi, allora for-se l’unica tua passione, neglianni a venire, potrà esserel’atletica, la corsa. Forse cre-

sci soltanto col pensiero di correre via, di correre piùlontano possibile, più veloce possibile. Sadako Sasaki,la figlioletta del barbiere del quartiere di Kusonoki-cho, era sopravvissuta. Intorno a lei i feriti erano statiinnumerevoli; sua madre, per esempio, come molti, erarimasta accecata dalla grande luce dell’impatto e delladeflagrazione. Però proprio sua madre, stringendola asé, l’aveva trascinata in salvo senza vedere la pioggiadi cenere nera che cadeva loro intorno e le ricopriva;quella cenere radioattiva, velenosa, assassina. Ma la fa-miglia Sasaki in qualche modo ce l’aveva fatta, dopoun paio di anni il padre aveva persino rimesso in piedila bottega e l’attività, e Sadako era cresciuta sana, for-te, talmente sana e forte da poter coltivare la passioneper l’atletica. Era piccola: un metro e trenta per venti-sette chili, ma correva velocissima, più veloce di tuttele sue compagne; sette secondi e mezzo in cinquantametri. Si stava allenando per una gara di corsa anche il giornoin cui erano arrivate le vertigini, e un improvviso sve-nimento. Poi il gonfiore di una ghiandola sul collo, lemacchie rosse sulle gambe, la diagnosi che aveva det-to: leucemia. Labomba sganciataquando aveva pocopiù di due anni, orale esplodeva dentro,a undici; succedevaa molti, a troppi: conil tempo, l’atomicamoltiplicava le suevittime. Ricoveratain un ospedale dellasua città, Sadakoaveva ricevuto neiprimi tempi dellamalattia la visita diuna sua piccola ami-ca: Chizuko portavacon sé una figurinadi carta, un origami

in forma di gru (l’uccello che rappresenta una lunga vi-ta), e una storia di speranza, una leggenda alla qualecredere non sarebbe costata nulla. La credenza popola-re voleva che chi fosse riuscito a costruire mille gruutilizzando la tecnica dell’origami, avrebbe potutoesprimere qualunque desiderio, e quello si sarebbe dicerto realizzato. Sadako partiva da uno, un origami, eun pensiero: la bambina che già sapeva di essere unavittima dell’atomica, non avrebbe chiesto la guarigioneper sé, ma la pace per tutti.Secondo molti, per circa un anno, avrebbe costruito benoltre mille origami; secondo altri, si sarebbe invece fer-mata a poco più di seicento, ma il migliaio sarebbe co-munque stato raggiunto grazie all’aiuto dei suoi amici.Sadako morì nell’ottobre 1955, circondata da gru rea-lizzate con ogni tipo di carta – compreso il cartoncinodelle scatole dei medicinali –, e i suoi origami furono

seppelliti con lei. Amici e compagni di classe aprironosubito una raccolta fondi – nutrita soprattutto dalle do-nazioni provenienti da studenti di ogni luogo del Giap-pone – per la realizzazione della statua raffigurante Sa-dako nell’atto di lanciare una piccola gru verso il cielo,come nel tentativo di farle spiccare il volo. Oggi la sta-tua è considerata il monumento commemorativo di tut-ti i bambini morti a causa dell’atomica; si trova nell’-Hiroshima Peace Memorial, e una targa sottostante re-cita: «Questo è il tuo pianto. La nostra preghiera. Pacenel mondo». I visitatori che vi si recano assecondanol’usanza di lasciare ai piedi di Sadako una piccola gru

di carta e un mes-saggio di pace, e il6 agosto di ognianno in molti sidanno appunta-mento per lanciarein alto le gru, e far-le volare per un at-timo nel cielo diHiroshima. Le fi-gurine di carta al-lora si librano; so-no leggere e velo-ci, sono forse l’im-magine più fedeledi una piccolabambina che si al-leni per una garadi corsa.

Il monumento che rappresenta Sadako nell’atto di lanciare una gru, nell’Hiroshi-ma Peace Memorial

Mettere le ali alla pace Le mille gru di Sadako Sasaki

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Chi fosse riuscito a costruire mille gruusando la tecnica dell’origami avrebbepotuto esprimere qualunque desiderio

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 22

23

There are dilemmas thatare intrinsically built in-to the social fabric. Theform of social interac-tion in a field of humanendeavor makes con-flict and contradictioninevitable. I call this thesocial condition, the to-pic of my most recentresearch project. Thiscondition is nowheremore evident than whenwe pursue peace, avoi-ding violence, while

seeking social justice and human dignity. In this essay, I will explore peace and the social con-dition: first by compactly illuminating the social con-dition as a general problem and then demonstratingthat the pursuit of peace is a primary instance of thechallenges of the social condition, drawing upon me-mories of personal struggles. I will then examine Ba-rack Obama’s Nobel Peace Prize as it shows how astatesman can confront peace and the social condi-tion. It is a complex story, with apparent hypocrisy,alongside of political ideals and ethical resolve.

The social conditionThe form of social interaction that develops aroundthe pursuit of an ideal or an interest always closes so-me possibilities, as it opens others. The way we asso-ciate constrains as it enables. This is built into humansociety and is a specific part of the human condition,one that is too often ignored or oversimplified. Weare quite familiar with biological li-mits and possibilities, how the cycleof life and death disciplines our li-ves. But, we tend to ignore how theway we associate determines humanfate, which we can work to movearound, but cannot overcome. Con-sider some examples.It is obviously important for a demo-cratic society to provide equal op-portunity for all young people. Theless privileged should have the ad-vantages of a good education. Thisis certainly a most fundamental re-quirement for equal opportunity. Onthe other hand, it is just as certainthat a good society, democratic andotherwise, should encourage andenable parents to provide the best, to

present the world, as they know and appreciate it, totheir children: to read to them, to introduce them tothe fine arts and sciences, and to take them on intere-sting trips, both near and far. But not all parents cando this as effectively, some have the means, somedon’t. Democratic education and caring for one’sown children are in tension. The social bonds and in-teractions of citizenship and the social bonds and in-teractions of family are necessarily in tension. Thistension, in many variations, defines a significant di-mension of the social condition.

Another dimension of the social condition was illu-minated in a classic lecture, Politics as a Vocation,by Max Weber: the tension between what he calledthe “ethics of responsibility” versus the “ethics of ul-timate ends”. We can observe a popular iteration ofthis tension in the debate about Lincoln, the movie.In politics, there is always a tension between gettingthings done, as Weber would put it, responsibly, andbeing true to ones principles. Ideally the tension isbalanced, as it was portrayed in the film: Lincoln therealist enabled Thaddeus Stephens, the idealist, torealize his ends in less than idealistic ways. A wisepolitician, Weber maintained, has to know how to

balance, idealism with realism. Butthis tension goes beyond individualjudgment and political effective-ness. Establishing the social supportto realize ideals is necessary, but thecreation of such supports can makeit next to impossible for the ideals tobe realized. Making sure that educa-tional ideals are realized, for exam-ple, equal educational opportunity,requires measurement, but the act ofmeasurement can get in the way ofreal education. Making sure thatfunds distributed by an NGO to dis-aster victims can get in the way ofgetting the funds to the victims.Most generally, organizing to achie-ve some end establishes the condi-tions for those who have their parti-

Another dimension of the socialcondition was illuminated in a classiclecture, Politics as a Vocation, by MaxWeber: the tension between what hecalled the “ethics of responsibility”versus the “ethics of ultimate ends”

Jeffrey Goldfarb

Peace and the social condition Seeking social justice and human dignity

di Jeffrey Goldfarb

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 23

24 cular interests in the organization itself to pursuetheir interests. NGOs often provide for a comfortablestandard of living for their employees in impoveris-hed parts of the world, sometimes this gets in theway of realizing organizational ends. But this is not anew development: Robert Michels described this inthe early 20th century, as “the iron law of oligarchy.”I suggest that we think of this as a dilemma built intothe social order of things.One of the most fundamental manifestations of thesocial condition animates the work of Erving Goff-man. He explored the power of the Thomas theoremmore intensively than any other social theorist. Ifpeople define situations as real, they are real in theirconsequences. Goffman was particularly interestedin how in their expressive behavior people managedto define social reality.The dilemma arises when people disagree about thereality, are ambivalent about it, or even want to fleefrom it. A prime example is the concept and apparentreality of race. It’s a social construction, as everycollege freshman comes to know. It’s a fiction, but afiction that we cannot ignore, a fiction that we conti-nue to treat as real, becoming a social fact. To pre-tend it doesn’t matter, even as it does, is to flee fromenduring social problems. But attending to the pro-blems of race carefully has the unintended conse-quence of furthering its continued salience in sociallife. Recognize race and it continues to be real. Igno-re race, and it is likely that you will ignore its conti-nued negative effects. Controversies over affirmativeaction policies revolve around this dilemma of race.I worry when political actors pretend that the compli-cations of the social condition can be easily overco-me, following one formula or another, with negativepolitical consequences. This is what motivates me toexplore the topic, why I feelcompelled to do so. I am con-cerned that bad sociology alsopretends that these tensions areeasily resolved, often with atheoretical slight of hand. Wehave to confront complexity,and this is no more apparentthan when it comes to the issueof peace.

Peace and the Force of ArmsI remember struggling with theproblem of peace as a youngman. Subjected to the draft du-ring the Vietnam War era, beinga very early and precocious op-ponent to the war, I tried toconvince myself that I was apacifist. I read the writings ofGandhi and A.J. Muste. I loo-ked into the pacifist activitiesof the Fellowship of Reconci-liation. Although I realized thatmaking the claim of being a Je-

wish pacifist would be practically difficult, I wantedto explore possibilities. But in the end, I gave up, be-cause I could not convince myself that I would notfight against a Hitler, and I recognized then and seenow that there are many other instances where I can-not oppose violence as a matter of absolute convic-tion. Sometimes force has to be used against force,and ironically often this seems to be the only way tosupport the ideal of a just peace. Yet, tragically, ap-preciating this also undermines the ideal of peace.This dilemma inevitably repeats itself (somethingthat surrounds Obama’s peace prize and is at the cen-ter of his Nobel Lecture).More recently, I was not an enthusiastic supporter ofeither the first war in Iraq or the war in Afghani-stan. It was not clear to me that a military response toeither crisis was the appropriate one. But on the otherhand, I could not in good conscience oppose eitherwar. The slogan “No Blood for Oil” rang hollow.Those who claimed that these wars were absolutelywrong and were being fought for narrow material in-terest were unconvincing. America was attackedfrom bases that were protected and developed in theTaliban’s Afghanistan, and Saddam Hussein was in-deed a brutal dictator who worked to create a totali-tarian order, as Kanan Makiya, ably demonstrated inhis gripping book, The Republic of Fear, and Sad-dam did attack Kuwait. The perceived enemy in bothconflicts seemed to me to be a real one, and a mili-tary response was not clearly inappropriate.But, on the other hand, means do have a way of defi-ning political action whether or not the ends are ju-stified. The way the U.S. and its allies have foughtthese wars, the very fact that we responded to an at-tack with another attack and an invasion with anotherinvasion, and the way our allies have ruled, have un-

dermined the arguments for thewar. And indeed the way theGulf War was fought and thelessons that were drawn fromthe war cast into doubt its ini-tial justification, especially asthis was utilized for the GeorgeW. Bush’s war of aggression inIraq. War against domination,in the name of justice, has away of becoming a new form ofdomination, perpetuating moreinjustice.Yet, despite this, given the so-cial complexity, I am not a pa-cifist as a matter of principle,though I still wrestle with this. Inow realize that my personalquandary is part of a much lar-ger problem of the social condi-tion of peace. When I was ayoung man, I couldn’t commitmyself to pacifism, because Iappreciated that there were li-mits to non-violent resistance.

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 24

25

Now I see, also, the limitations of violence, drawn tothat position, not because of absolute conviction thatturning to violent means is always morally wrong,but for practical reasons. For in the military resistan-ce to fanaticism in Afghanistan and in the militaryresistance to tyranny in Iraq, the limitations of mili-tary action became apparent. Non-violence in factmay be more practical. This I came to know alsothrough personal experience, for, I was an eyewit-ness to, and a foreign activist in, the velvet revolu-tions in Central Europe in the 1980s.

Barack Obama and the Nobel Peace PrizeThe means have a way of determining the ends. Thisis the proposition, which has informed my self-re-flections, thus far, and the proposition informs myreview and analysis of President Obama’s NobelLecture as an exploration of the topic of peace andthe social condition. I think Obama confronted com-plexity of the social condition, though the situationof his winning the prize was both awkward andrightly controversial from a variety of differentpoints of view.Obama’s Peace Prize was exciting, strange and pro-vocative. There was political poetry and hope in it:the better part of America and its relationship withEurope and the world were being celebrated, as therewas the hope that the dark side of American hege-mony had passed. But there was also confusion:exactly why did Obama win the prize?

Obama’s critics saw in the prize confirmation thatObama was a cult figure, an eloquent player, butwith no substance, winning the Nobel Prize for Pea-ce before he accomplished anything on the globalstage. Even his supporters were not sure exactlywhat to make of it. I was more convinced than most,but I understood my argument approving of his win-ning the Nobel Prize, published in Poland’s leadingnewspaper, Gazeta Wyborcza, as a provocation.Clearly, even Obama understood that there was aproblem. As he noted in the opening of his lecture: «I would be remiss if I did not acknowledge the con-siderable controversy that your generous decisionhas generated. (Laughter.) In part, this is because Iam at the beginning, and not the end, of my labors onthe world stage. Compared to some of the giants ofhistory who’ve received this prize – Schweitzer andKing; Marshall and Mandela – my accomplishments

are slight». But he turned this to his advantage, at least in givinghis speech. The speech became an exploration of thecomplex relationship between war and peace, as heput it: «the instruments of war do have a role to playin preserving the peace. And yet this truth must coe-xist with another – that no matter how justified, warpromises human tragedy». He further reflected uponthe role of political leadership, particularly his. Itwas a speech about the social condition and peaceand his confrontation with this.Obama understood the larger issue. Although rightlyappreciated for his dissent from the geo-political andmilitary policies of his predecessor, and clearly morereluctant to engage in military aggression, less unila-teral in his orientation and deeply critical of the warin Iraq from the beginning, all good reasons to iden-tify him with peace, he was still the leader of the pre-mier military power in the world. «But perhaps the most profound issue surroundingmy receipt of this prize is the fact that I am the Com-mander-in-Chief of the military of a nation in themidst of two wars». The leader of the global hege-mon as the Nobel Peace Laureate – he understoodthat there is a problem and made this the topic of hislecture. The dilemmas as he saw them in his lecture:«I come here with an acute sense of the costs of ar-med conflict – filled with difficult questions aboutthe relationship between war and peace, and our ef-fort to replace one with the other».He reviewed arguments for just wars, as he recogni-zed that the need for such justification has been igno-red for much of human history. Central values heidentified were the fight for human rights and thestruggle against human degradation, and also theneed to minimize civilian causalities. But problemsresult. He observed: «And while it’s hard to conceiveof a cause more just than the defeat of the ThirdReich and the Axis powers, World War II was a con-flict in which the total number of civilians who diedexceeded the number of soldiers who perished».He noted that real enemies continue, even with thedemise of the totalitarian threats of the twentieth cen-tury: «The world may no longer shudder at the pro-spect of war between two nuclear superpowers, butproliferation may increase the risk of catastrophe.Terrorism has long been a tactic, but modern techno-logy allows a few small men with outsized rage tomurder innocents on a horrific scale».And he drew the tragic observation: «We must beginby acknowledging the hard truth: We will not eradi-cate violent conflict in our lifetimes. There will be ti-mes when nations – acting individually or in concert– will find the use of force not only necessary butmorally justified». Obama’s opponents accused him of making vacuouspromises in his first Presidential campaign. We hearin his lecture quite the opposite. He was confrontingthe central difficulty. The pursuit of peace often in-cludes the willingness to engage in military struggle,but that means peace, as an ideal, will, therefore, not

Sometimes force has to be used againstforce, and ironically often this seems tobe the only way to support the ideal of

a just peace. Yet, tragically,appreciating this also undermines the

ideal of peace. This dilemma inevitablyrepeats itself

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 25

26 be realized.Note: this paradox, inhis cogent account, isnot the result of somefundamental innateaggressive drive, andthere is no need to po-sit evil or sin as thecause of the paradox.Obama shows that weare locked into a di-lemma. Peace inclu-des the fight for rightsand dignity, but in en-gaging in the fight,peace can and often isundermined. Aggressi-ve and sinful drives donot explain this. It iswoven into the fabricof social interaction. But Obama’s response to thissuggests why his Nobel Prize may have had justifica-tion.

Meeting the challengeHe started with humility, trying to stand on theshoulders of giants: «I do not bring with me today adefinitive solution to the problems of war. What Ido know is that meeting these challenges will requi-re the same vision, hard work, and persistence ofthose men and women who acted so boldly decadesago [referring here to the United Nations and theUniversal Declaration of Human Rights]. And itwill require us to think in new ways about the no-tions of just war and the imperatives of a just pea-ce».The humility is based on his sense of who he is andhow he came to be delivering his lecture: «I makethis statement mindful of what Martin Luther KingJr. said in this same ceremony years ago: “Violencenever brings permanent peace. It solves no socialproblem: it merely creates new and more complica-ted ones”. As someone who stands here as a directconsequence of Dr. King’s life work, I am living te-stimony to the moral force of non-violence. I knowthere’s nothing weak – nothing passive – nothingnaïve – in the creed and lives of Gandhi and King». Yet, he also knows this is in tension with his pre-sent responsibilities: «But as a head of state swornto protect and defend my nation, I cannot be guidedby their examples alone. I face the world as it is,and cannot stand idle in the face of threats to theAmerican people. For make no mistake: Evil doesexist in the world. A non-violent movement couldnot have halted Hitler’s armies. Negotiations cannotconvince al Qaeda’s leaders to lay down their arms.To say that force may sometimes be necessary isnot a call to cynicism – it is a recognition of hi-story; the imperfections of man and the limits ofreason».Informed by President John F. Kennedy, he explo-

red the possibilitiesfor achieving peacenot through a radicalreform of human na-ture, but “a gradualevolution of humaninstitutions.” «To begin with, I be-lieve that all nations –strong and weak alike– must adhere to stan-dards that govern theuse of force. I – likeany head of state – re-serve the right to actunilaterally if neces-sary to defend my na-tion. Nevertheless, Iam convinced that ad-hering to standards,

international standards, strengthens those who do,and isolates and weakens those who don’t».In light of recent events, specifically: the failure toclose the prison at Guantanamo, the drone program,secret operations and the like, these words seem tostand as an indictment of Obama’s own policies. Ithink the remainder of the speech confirms this.Obama’s words stand as the basis of criticism of hisown deeds, as his deeds suggests possible answersto the criticism informed by his words.«Furthermore, America – in fact, no nation – caninsist that others follow the rules of the road if werefuse to follow them ourselves. For when we do-n’t, our actions appear arbitrary and undercut the le-gitimacy of future interventions, no matter how ju-stified».He understands that there have to be rules governing

the conduct of military force in order for that forceto have any chance to provide the basis of peace.Yet, he oversees and expands the unilateral use ofdrone warfare without clearly articulated and gene-rally agreed upon rules of this deadly military game. The Nobel Laureate Obama as critic of PresidentObama: «Where force is necessary, we have a mo-ral and strategic interest in binding ourselves tocertain rules of conduct. And even as we confront

Obama’s Peace Prize was exciting,strange and provocative. There was

political poetry and hope in it: the betterpart of America and its relationship with

Europe and the world were beingcelebrated, as there was the hope thatthe dark side of American hegemony

had passed. But there was alsoconfusion: exactly why did Obama win

the prize?

Barack Obama ritira il premio Nobel per la pace 2012

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 26

27

a vicious adversary that abides by no rules, I belie-ve the United States of America must remain astandard bearer in the conduct of war. That is whatmakes us different from those whom we fight.That is a source of our strength. That is why I pro-hibited torture. That is why I ordered the prison atGuantanamo Bay closed. And that is why I havereaffirmed America’s commitment to abide by theGeneva Conventions. We lose ourselves when wecompromise the very ideals that we fight to de-fend. And we honor – we honor those ideals byupholding them not when it’s easy, but when it ishard». But the Nobel Laureate would not be surprised bythe President’s actions as he observed: «Even tho-se of us with the best of intentions will at timesfail to right the wrongs before us.» He presentsguidance about how he should proceed, suggestingspecific ways that we can build a just and lastingpeace, with the different ways built upon a singlevision. He explained in detail his position but thensummarized: «Agreements among nations. Stronginstitutions. Support for human rights. Investmentsin development. All these are vital ingredients inbringing about the evolution that President Ken-nedy spoke about. And yet, I do not believe thatwe will have the will, the determination, the sta-ying power, to complete this work without some-thing more – and that’s the continued expansion ofour moral imagination; an insistence that there’ssomething irreducible that we all share». … if we lose that faith – if we dismiss it as silly ornaïve; if we divorce it from the decisions that wemake on issues of war and peace – then we losewhat’s best about humanity. We lose our sense ofpossibility. We lose our moral compass. Like generations have before us, we must reject thatfuture. As Dr. King said at this occasion so manyyears ago, «I refuse to accept despair as the final re-sponse to the ambiguities of history. I refuse to ac-cept the idea that the ‘isness’ of man’s present con-dition makes him morally incapable of reaching upfor the eternal ‘oughtness’ that forever confrontshim».Obama’s position is nuanced, thoughtful and politi-cal (in both the good and the bad sense). He identi-fies with radical peace advocates, those who pre-sent a principled opposition to violence, but as a re-sponsible politician he cannot live by their princi-ples alone. Thus, the tension between his statedideals and his policies. There are two ways of interpreting this. Either he isa hypocrite or a statesman. He is able to depictideals in his speech, and to declare commitment totheir pursuit, but he is also committed to dealingwith difficult realities in consequential ways in hisactions. How we judge the relationship betweenthe ideal and the reality is a matter of political opi-nion, more or less informed.Some are sure that Obama’s Peace Prize was unde-served and that his subsequent actions confirmed

this. Not only did he do little before he won the pri-ze. Subsequently, he has not acted as a Nobel PeaceLaureate should. He escalated the war in Afghani-stan. The U.S. drone program has been greatly ex-panding during his watch, without clear justifica-tion and without a public specification of its limits.And under his leadership the U.S. played a key rolein the war in Libya. In many ways, he has conti-nued Bush’s policies and directions.

Others will counter that Obama actually has hel-ped de-militarize American foreign policy, win-ding down two wars. He has publicly and clearlyaffirmed U.S. commitments to respect the GenevaAgreements and ended the American use of tortu-re, so called “enhanced interrogation.” And underObama’s leadership, American military engage-ments have been multilateral and debated in andsupported by the United Nations. This was note-worthy Libya, and is being repeated right now inMali. His policy of “leadership from behind”which is much ridiculed by his militaristic critics,certainly appears as a step in the direction of amore peaceful world order. The term refers to achange in the use of American force in the world.It suggests that the U.S. will not use military forceon its own without international support. Ratherthan imposing American will with America’s over-whelming power, he seeks to embed American po-wer within internationally legitimate concerted ac-tions.I actually appreciate both this support and criti-cism of Obama. Both are consistent with Obama’slecture. On the positive side, in a threateningworld, he has somehow managed to work for theideal of peace, but he has also fallen short of thevery ideals that he has publically embraced. Hislecture illuminates both the criticism and the ap-preciation, worthy of careful consideration by tho-se concerned with the issue of peace in our times.The commander in chief of the world’s most po-werful military force struggling with the dilemmasof the power at his disposal, an intriguing exerci-se, worthy of a Nobel Peace Prize Laureate, as heconfronts the social condition.

The leader of the global hegemon as theNobel Peace Laureate – Obama

understood that there is a problem andmade this the topic of his lecture. The

dilemmas as he saw them in his lecture:«I come here with an acute sense of the

costs of armed conflict – filled withdifficult questions about the relationshipbetween war and peace, and our effort

to replace one with the other»

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 27

28

«There’s a crack ineverything. That’s howthe light gets in»Leonard Cohen, An-them.Over the course of mycareer as a practitionerand researcher in thefield known as “peace-building”, I have wor-ked alongside thou-sands of people in con-flicted societies, inclu-ding in Iraq, Burma,

Lebanon, Israel and Palestine, Northern Ireland,Rwanda, the Balkans, and elsewhere. In this articleI explore a dilemma I see in the field, namely theincreasingly singular emphasis on grand narrativesof peace, known as “Peace Writ Large”. I fear thatthis frame, while valuable in many ways, may havethe unintended consequence of actually undermi-ning inquiry into and support for the powerful mi-cro interactions that occur in even the most polari-zed conflicts. I argue that we must not lose sight ofthe power embodied in “peace writ small”.Since the mid-1990s, approaches to theory-buil-ding, policy-making and intervention in conflict ha-ve increasingly emphasized macro, long-term socie-tal changes, first under the rubric of “conflict trans-formation” and now “peacebuilding”.

Building on Johann Galtung’s fundamental conceptof positive peace (meant to contrast with “negativepeace”, meaning the cessation of violence), “PeaceWrit Large” articulates an expansive vision, embra-cing human rights, environmental sensitivity, su-stainable development, gender equity, and othernormative and structural transformations. Andersonand Olsen define Peace Writ Large as comprisingchange «at the broader level of society as a whole»which addresses «political, economic, and socialgrievances that may be driving conflict». Lederach,integrates Peace Writ Large into his definition ofpeacebuilding, which is: «…a comprehensive con-

cept that encompasses, generates and sustains thefull array of processes, approaches and stages nee-ded to transform conflict toward more sustainable,peaceful relationships…Metaphorically, peace isseen not merely as a stage in time or a condition. Itis seen as a dynamic social construct».The focus in this article does not allow space for afull discussion of the rich dialogues and debates re-levant to peacebuilding or Peace Writ Large. Thatsaid, I note that in my own work I have found thatthis meta approach expands our tools of engage-ment and pushes us to move beyond official “TrackI” diplomacy and state-based mechanisms, to invol-ve civil society, youth, women, faith leaders andothers left out of traditional approaches to violentconflict. I have worked with university educatorsin Iraq, police in Northern Ireland, resistance lea-ders in Burma, human rights defenders in Maldives,Lebanese youth, international observers in the WestBank, development practitioners in Timor-Leste,and others, to support them in articulating andstrengthening their own roles in relation to peace. Ihave seen how a broad view of peacebuilding is cri-tical for deeply transforming intractable conflicts.However, I see that this trend also presents seriousproblems for theory and practice. Fundamentally,the problem comes down to what is being noticedand privileged in research and practice. As the lenswidens to embrace a grander narrative of peace,dynamics of conflict and violence appear even moremonolithic and without solutions. The fragile seamsand small spaces, in which people and institutionsdo take enormous risks to engage across conflict li-nes, are overlooked or disregarded. They are obscu-red like hairline cracks in a massive obelisk. Thesecracks represent micro peace capacities that mustbe noticed, analyzed, and strengthened. In fact, arecent report by a leading institution in the field ex-plicitly prescribes this approach: «Rather than focu-sing on micro-level interventions, a systems ap-proach to peace allows for macro-level planningand cumulative impact» (Alliance for Peacebuil-ding). My concern is that the increasing focus onPeace Writ Large actually leads us away from thevery sites that offer some of the most innovativeand powerful opportunities to change the dynamicsof intractable conflict. I suggest that this could beone of many reasons that observers write increa-singly of “incomplete” and “unconsolidated” peace.Therefore, I suggest we explore the power of thesmall in the context of the monolithic. Importantpreliminary research has already been done on theimpacts of “peace writ little”, defined as «a local or

Microscopes or macroscopes?Levels of engagement in peacebuilding

di Zachary Metz

“Peace Writ Large” articulates anexpansive vision, embracing human

rights, environmental sensitivity,sustainable development, gender equity,

and other normative and structuraltransformations

Zachary Metz

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 28

29

community level of sustainable peace…comingfrom work on more effective mechanisms for resol-ving interpersonal disputes, land conflicts…or poli-tical, cultural and/or ethnic tensions at a local le-vel» (CDA Reflecting on Peace Practice Program).However, I am here arguing for the need to look atan even more granular level of interaction, at whatmight be termed “peace writ small”.Several social theorists have worked to illuminatethe intrinsic power of the very small (Collins, Co-leman). Jeffrey Goldfarb is one sociologist whosework has influenced my own thinking and practice.Building on Goffman’s framework, Goldfarb de-scribes the often hidden political power of everydaysocial interaction. This power is particularly impor-tant in contexts of total institutions, authoritarianregimes, and, in my view, intractable conflict. Suchsettings are typified by monolithic and hegemonicconflict narratives. Goldfarb describes the overall framework as “thepolitics of small things”. He theorizes that everydaylife is a significant domain for politics. Concurringwith Foucault’s analysis, he notes that control, di-scipline and subversion are present and observablein everyday life. However, Goldfarb sees somethingthat Foucault missed: in such interactions, there arealso possibilities for change. Goldfarb explains that«The politics of small things happens when peoplemeet, speak and develop a capacity to act togetheron the basis of shared commitments, principles orideals. Through these contacts, they develop politi-cal power. This power is constituted in social inte-raction. It has its basis in the definition of the situa-tion, the power of people to define their social rea-lity. In the power of definition, alternatives are con-stituted to the existing order of things».

He further asserts that when this power involves the«meeting of equals, respectful of factual truth andopen to alternative interpretations of the problemsthey face», it has the capacity to democratize rela-tions and the social order. In my work, I have seenthat these are precisely the conditions for buildingpeace.

In illustrating the politics of small things, Goldfarboffers the example of a small group of people in anoppressive society sitting around a kitchen table,sharing frustrations, identifying “seams” in thesmothering fabric of the regime, and discussing co-ping strategies. Alternative interactions, not condo-ned within the intractable conflict, are acted out atthese tables. Therefore, these apparently mundaneinteractions become extraordinary sites in whichpeople can reach outside of the constraints of re-pression and conflict. If we peer into markets, thea-ters, hospitals, pubs, schools, and even militarycheckpoints, Goldfarb asserts that we may see that“…people make history in their social interac-tions…democracy is in the details.” (Goldfarb,2006:1) I have repeatedly found this to be the casein some of the world’s worst conflicts.

Microscopes in actionI conclude my discussion with an example of “pea-ce writ small” and the politics of small things in ac-

As the lens widens to embrace a grandernarrative of peace, dynamics of conflict

and violence appear even moremonolithic and without solutions.

Partita di pallavolo, dopo un evento di peacebuilding, Iraq

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 29

30

tion. In 2005, I led a training and dialogue on pea-cebuilding with a group of Iraqis involved in eco-nomic development. The participants shared somegoals, but the stratifications within the group werealso significant, and the group was reflective of Ira-q’s demographic diversity. The event focused on increasing community partici-pation in economic and political development. Onehallmark of the facilitating methodology I used inthis initiative is allowing participants a great deal offreedom during the process. Small groups engaged,discussed, and planned action. Participants movedfreely from group to group, often appearing to exitthe formal process altogether. People drank tea,smoked in the garden, and shared food. To a greatdegree, they met as equals. Much of the interaction appeared totally unrelatedto the task. At one point, one of my Iraqi colleaguessuggested I should bring order back to the appa-rently chaotic process. I chose to not intervene.In the closing plenary, participants each reflectedon the experience, as they passed a symbolic item(a branch from an olive tree) around the circle.When the olive branch reached a young womanfrom the minority Turkoman community, she beganspeaking in the Turkoman language, rather than inArabic or Kurdish, the two official (and dominant)languages of the country. Suddenly, an older Sunni Arab man interruptedloudly, scolding her for not speaking in Arabic. Heshouted, «Iraqis speak Arabic! Why are you here ifyou are not a real Iraqi? Speak in Arabic!» Thisman came from Baquba, a city that had seen inten-se violence. As we had agreed to allow people toconclude in any language, I reminded him not tointerrupt. The woman quietly finished her com-ments.When the olive branch reached the man who hadinterrupted, he started to say the foundational Mus-lim blessing, often invoked at important moments:«Bismillah ir-Rahman ir-Rahim - In the name ofGod, most Gracious, Most Compassionate...» Afterseveral words, he faltered and stopped. Peopleprompted him with the next words of the blessing,

but he held up his hand for silence. Then he startedto weep, unable to complete his thoughts. He pas-sed the olive branch to the next participant. At the conclusion of the event, a participant com-plained that I had not really “taught” the groupabout democracy (one of their objectives). Sud-denly, the elderly man who had interrupted earlierspoke up again, disagreeing strongly with the criti-cism. He insisted that the group had, in fact, «trulypracticed democracy…because we were allowed tospeak in our Mother Tongue and say what we nee-ded to!» Others agreed, and the mood shifted to jo-yous celebration, unity and optimism, and awayfrom tension and polarization.I assert that this interaction was an example of thetransformative power of the politics of small thingsand peace writ small. In this experience, the grouptransgressed the stultifying intractable conflict nar-ratives. The historical pluralism in Iraq was re em-braced, and the ethnically divisive and anti-mino-rity narrative of the Baath party (and of the currentsectarian violence) was actively resisted. Thisgroup had met and spoken as equals, had developeda capacity to act, and ultimately had redefined thesituation. This group engaged alternatives, which ismiraculous in the context of intractable conflict.The man’s angry ethnocentrism, rooted in the in-tractable conflict narrative, had given way to tearsand a renewed sense of freedom and possibility. Anew narrative was enacted in that room, which, Ibelieve, has long-ranging and important consequen-ces for peace.

ConclusionWhile I remain passionately committed to the opti-mistic vision of Peace Writ Large, I increasingly al-so believe in the power of the small to help guidethe practice and study of peace building. A recentreport by the Alliance for Peacebuilding (2012) ar-gues that «Peacebuilding is on the cusp of a true re-volution». I concur, and I believe that the real revo-lution for the field will be in the details.Intergroup Conflict. New York: Oxford UniversityPress.

Zachary Metz con il primo ministro di Timor Est XananaGusmão a un summit nazionale

Differenti gruppi di irakeni celebrano il capodanno curdo

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 30

31

Dona nobis pacem: untesto liturgico musicatoda molti compositori,Mozart su tutti. Nellacoincidenza del divinoe dell’arte, non è forsela musica stessa a esse-re invocata? Non è for-se a quei suoni chechiediamo di rasserena-re i nostri affanni, disciogliere le nostre an-sie? Il potere della mu-sica, in tal senso, si ri-

conosce nella chiarezza lontana del mito e nel dispie-garsi del pensiero filosofico. Se Orfeo ammansiva lebelve al suono della cetra, la dottrina etico-educativadella Grecia antica attribuiva alla musica la nobilefunzione di ristorare l’animo degli uomini; in parti-colare, quella di placare gli effetti eccitanti dell’al-cool: «[…] s’introduce la musica quando il vino hastravolto il corpo e lo spirito di coloro che ne hannoabusato ed essa li riporta, per effetto dell’ordine edella misura che le sono propri, nel dritto cammino»(Pseudo Plutarco, De Musica). Proprio dal concettodi “misura” muove un’ulteriore linea d’intersezionetra la musica e la pace. Fin da Pitagora, infatti, lamusica non è mero fascino sensibile del suono, maanche ordine di rapporti matematici. L’armonia nascedalla sintesi positiva di elementi contrari, concordiadiscors, equilibrio di tensioni contrapposte e di inter-valli numericamente diversi. La composizione musi-cale in sé non è poi altro che combinazione di ele-menti disparati, un processo temporale al cui terminesi viene a costituire un’identità nuova che pacifica ilcontrasto delle singole identità originarie degli ele-menti, appunto, “composti”.Fin qui le affinità di natura,per così dire, ontologica trala musica e la pace. Se, perparlare ancora in termini fi-losofici, ci spostiamo sulpiano fenomenologico, ilventaglio delle composizio-ni dedicate al tema dellapace risulta molto ampio earticolato. Restringiamoqui lo sguardo alla musicad’arte, o “classica” che dirsi voglia, attraverso un bre-ve percorso antologico,esemplificativo delle varieprospettive da cui i compo-

sitori hanno guardato al soggetto. Punto di partenzaobbligato, la pace come valore universale: vale a di-re, la Nona Sinfonia di Beethoven, monumento sono-ro alla fratellanza, alla libertà, all’amicizia, al rispet-to tra gli uomini. L’opera del maestro tedesco è unmessaggio all’umanità intera, di là dal tempo e dallospazio. La melodia dell’Inno alla gioia, su testo diFriedrich Schiller, percorre una linea volutamentesemplice. Un temino facile, per gradi congiunti (tuttidevono poterlo intonare), che compare al termine diun itinerario sofferto attraverso il mistero della musi-ca e del mondo. Beethoven lo introduce in mododavvero affascinante, sussurrandolo nei bassi dell’or-chestra, come eco profonda di un luogo remoto. Pianpiano, la melodia dell’inno prende corpo e si avvici-

na sempre più all’ascoltatore, passando per le altresezioni dell’orchestra, che si aggiungono una dopol’altra al tessuto sinfonico, fino all’entusiasmo sono-ro del fortissimo. È vero che si tratta di una soluzio-ne non particolarmente originale dal punto di vistatecnico-compositivo: il raggiungimento di un acmeattraverso l’accumulazione graduale di masse stru-

mentali. Ma l’idea è straor-dinaria per forza icasticaed espressiva. Beethovencostruisce l’immagine diun canto lontano e leggeroche, al suo passaggio, ha ilpotere di attirare e portarecon sé tutti gli altri stru-menti dell’orchestra. Unamusica che coinvolge, cheaffratella, che trasporta: glistrumenti la odono e si uni-scono al canto, un singolocanto di pace che passa peri sentieri del “villaggio glo-bale” e convince, come per

Il suono della paceIl potere della musica, nella coincidenza del divino e dell’arte

di Luca Aversano

Luca Aversano

Il maestro Zhang Xian dirige l’Orchestra sinfonica di MilanoGiuseppe Verdi nell’esecuzione della Nona Sinfonia di Beetho-ven nel concerto di Capodanno 2013

Dal concetto di “misura” muoveun’ulteriore linea d’intersezione tra la

musica e la pace. Fin da Pitagora,infatti, la musica non è mero fascino

sensibile del suono, ma anche ordine dirapporti matematici. L’armonia nasce

dalla sintesi positiva di elementicontrari, concordia discors, equilibriodi tensioni contrapposte e di intervalli

numericamente diversi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 31

32 magia, tutti gli uomini a seguirlo,ad andare con lui. Quando poi, fi-nalmente, lo strumento si fa voceumana, non è il coro ad apparireper primo, bensì il recitativo delsolista. In altre parole, Beethovenvuol dirci che la pace come valorecollettivo nasce dal cuore dei sin-goli individui: non c’è pace pertutti, se non c’è pace nell’animo diognuno di noi.Lasciamo la grande utopia beetho-veniana, ma non la terra tedesca.Un’altra importante opera che hatrattato il tema della pace, in un momento terribiledella storia recente, è il Friedenstag di RichardStrauss, atto unico su libretto di Joseph Gregor (daun’idea di Stefan Zweig), rappresentato per la primavolta al Nationaltheater di Monaco nel 1938. Benpresto la censura nazista ne impedì la circolazione,per il significato e i valori antimilitaristici che l’ope-ra esprimeva. L’episodio storico richiamato (l’ultimogiorno della guerra dei Trent’anni) assume in Straussla forma di un evento simbolico. A differenza diquando accade nella Nona Sinfonia, in cui agli uomi-ni è data possibilità di innalzarsi e di costruire da séun mondo migliore, la pace che i protagonisti ritro-vano nell’ultima scena del dramma arriva qui dall’e-sterno: come in una fiaba, essa si realizza inopinata-mente, quasi per miracolo del cielo.

Anche nel melodramma italiano, come nel teatro mu-sicale tout court, il tema della pace assume rilievoassoluto. I compositori lo hanno affrontato da ango-lazioni diverse, declinandolo in forme molteplici.Ricorre l’idea di pace come sollievo dalle cure dellospirito, una condizione di quiete affettiva a cui i per-sonaggi, in preda a passioni irrefrenabili e infelici,anelano nostalgicamente. L’invocazione della pace,in questi casi, può affidarsi a oasi liriche di eccezio-nale bellezza, come quella di Leonora nella Forzadel destino di Giuseppe Verdi: «Pace, pace, mio dio,cruda sventura / m’astringe, ahimè, a languir; / comeil dì primo da tant’anni dura / profondo il mio sof-frir» (atto IV, scena VI). Verdi era d’altro canto in

grado di raffigurare con la stessa ef-ficacia, e con colori vivissimi, la po-tenza distruttrice della guerra, delcontrasto violento delle passioni.Per questo, nelle sue opere, la paceha spesso funzione chiaroscurale.Tra i tanti esempi possibili, vale lapena di ricordare la scena finale del-l’Aida: Amneris appare nel tempioin abito di lutto e, prostrata sullapietra che chiude il sotterraneo incui giacciono Aida e Radames, sistrugge in un’implorazione di pace.È l’esito disperato di un’opera che

mette in scena scontri durissimi tra popoli, eserciti,patria, amore, famiglia. La pace conclusiva non haqui natura consolatoria, ma rappresenta lo stato diconsumazione estrema del conflitto, il silenzio esau-sto della desolazione, quando non resta altro che lospettacolo della rovina e della morte.

Proprio la morte quale eremo di quiete eterna è un al-tro tema diffuso nella letteratura musicale, primaria-mente in ambito sacro. L’interpretazione mozartianadel testo del Requiem offre una visione della morteintesa come approdo pacificato dello spirito, dove lapaura lascia posto alla trasfigurazione delle passioni.Diversamente dal terrifico Requiem verdiano, l’operadi Mozart mostra la possibilità di un accogliente ri-storo. Come lo stesso compositore scriveva in unalettera al padre nell’aprile 1787: «Dato che la morte(ben riflettendo) è l’ultimo, vero fine della nostra vi-ta, da qualche anno sono entrato in tanta familiaritàcon questa sincera e carissima amica dell’uomo, chela sua immagine non solo non ha per me più nulla diterribile, bensì mi appare persino molto tranquilliz-zante e consolante! E ringrazio il mio Dio di avermidato la fortuna di avere l’opportunità (lei mi com-prende) di riconoscere in essa la chiave che apre laporta alla nostra autentica felicità». Anche la musica per banda annovera nel suo reperto-rio composizioni e marce espressamente dedicate aimotivi della pace. Per fare qualche esempio, la Paceeterna. Marcia funebre di Aldo De Biasi (1933); laPace europea: gran marcia militare, scritta da DavidDelle Cese e dedicata a «sua eccellenza il presidentedel consiglio dei ministri Sig. Francesco Crispi» (fi-ne XIX sec. ca.). Di celebrare, o comunque trattarelo stesso tema si occupano inoltre numerosi brani dimusica vocale (romanze da camera, cori, mottettiecc.), tra cui un Inno alla pace per baritono, coromaschile e pianoforte composto da Rossini nel 1850.

La pace come valore universale: vale adire, la Nona Sinfonia di Beethoven,monumento sonoro alla fratellanza,

alla libertà, all’amicizia, al rispetto tragli uomini. L’opera del maestro tedescoè un messaggio all’umanità intera, di là

dal tempo e dallo spazio

Beethoven costruisce l’immagine di uncanto lontano e leggero che, al suopassaggio, ha il potere di attirare e

portare con sé tutti gli altri strumentidell’orchestra. Una musica che

coinvolge, che affratella, che trasporta:gli strumenti la odono e si uniscono al

canto, un singolo canto di pace chepassa per i sentieri del “villaggio

globale” e convince, come per magia,tutti gli uomini a seguirlo, ad andare

con lui

Wolfgang Amadeus Mozart

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 32

33

Ma torniamo al melodramma, giacché va ricordataun’ulteriore modalità di rappresentazione musicaledella pace, che attraversa tutto il teatro ottocentesco:la pace come condizione ascetica, di distacco e allon-tanamento dal desiderio dei sensi. Un celebre arche-tipo dell’equivalenza simbolica tra pace e innocenzaè la scena di Casta diva, nel primo atto della Normadi Bellini. La sacerdotessa invoca la luna piena, bian-co riflesso di quella castità a cui lei stessa sarebbeconsacrata, ma che ha invece irrimediabilmente per-duto. Sullo sfondo, la pace ch’ella impone al suo po-polo, cui – per paura di perdere l’amato proconsolePollione - impedisce di muovere guerra ai Romani.Romani, tra l’altro, è il nome del Felice librettista, lacui penna ha consegnato alla storia i memorabili ver-si: «Casta Diva, che inargenti / Queste sacre antichepiante, / A noi volgi il bel sembiante / Senza nube esenza vel. // Tempra, o diva, / Tempra tu de’ cori ar-denti, / Tempra ancor lo zelo audace, / Spargi in terraquella pace / Che regnar tu fai nel ciel». Il temadell’ascetismo, dell’anelito alla pace come negazionedel desiderio sensuale sarà poi fondamentale nell’o-pera wagneriana, da Tannhäuser a Parsifal. Wagnerrisolve la questione in senso mistico-religioso, di unareligione intesa come amore del sacro.In conclusione è doveroso ricordare come il poteremagico-incantatorio della musica possa essere uti-lizzato non soltanto per placare e consolare, ma an-che con obiettivi contrari: per eccitare gli animi erappresentarne l’agitazione. Senza contare che, nel-la storia della musica, le immagini guerresche han-no importanza almeno pari alle rappresentazionidella pace. La letteratura è ricchissima di composi-zioni dedicate alla descrizione sonora delle batta-

glie. Un esempio celebre è La bataille de Marignandi Clément Janequin, composizione polifonica scrit-ta per celebrare la vittoria francese del 1515, che ri-produce una serie di suoni onomatopeici a imitazio-ne di quelli della guerra. Qualche secolo dopo, apartire dagli anni della rivoluzione francese, glieserciti marciavano preceduti e seguiti da strumentimusicali, portando in Europa il gusto per le bandemilitari e contribuendo alla diffusione della musicadi strada anche in ambito civile. Bellini e Wagnernon hanno scritto soltanto pezzi di ascetica contem-plazione, ma anche, rispettivamente, il coro Guer-ra, guerra (sempre nella Norma) e la cavalcata del-le Walkirie. D’altra parte, guerra e pace sono, nel nostro imma-ginario, due poli complementari, praticamente in-scindibili. E così, in musica, la serenità di Apollo sicontrappone e allo stesso tempo si accompagna, findalla mitologia greca, alle ebbrezze dionisiache. Avolte è persino difficile distinguere le due sfere.Pensate al giorno di Capodanno, quando – al risve-glio dal bacchico cenone – accendete la televisionealla ricerca di un po’ di quiete apollinea. Risuona-no, armonici e cullanti, i valzer viennesi degliStrauss. A fine concerto il celebre direttore di tur-no, insieme con i Wiener Philarmoniker, augura atutti gioia e felicità, invocando pace per i cittadinidel mondo. S’ode allora la Radetzky Marsch, nelsuo andamento facile e orecchiabile… tanto piace-vole da farci dimenticare come il brano celebri, inun’oleografia oggi tragicomica, le gesta militari(nel caso specifico il ritorno a Milano dopo i motidel 1848) di un temutissimo comandante d’armata,spietato repressore della libertà dei popoli.

Concerto di capodanno al teatro La Fenice di Venezia

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:47 Pagina 33

34

Cosa succederebbe se atutti, sin da piccoli, ve-nisse garantito il dirittoalla musica? Quantemani da pianista nonhanno mai incontratoun pianoforte? Quantibambini sono cresciutisenza poter esercitare –e forse nemmeno saperedi possedere – il loroorecchio assoluto? Lamusica ha un costo, lamusica non è per tutti;

diventa, il più delle volte, un’occasione mancata. Sipensi alle scuole, se non al privato: ma gli studentiitaliani conoscono le note? Assistono alle opere liri-che; studiano i testi dei libretti d’opera come le poe-sie di Ungaretti e Montale, Pascoli e Leopardi man-date a memoria sin dalle elementari? Non stupisca,allora, la candidatura al premio Nobel per la Pace diJosé Antonio Abreu, il politico venezuelano che nel1975 ha messo insieme le sue due passioni, i suoidue percorsi di studio – la musica e l’economia, dicui è stato anche docente accademico – in un proget-to che ha rivoluzionato la didattica della musica dap-prima in Venezuela e ora, a poco a poco, in tutto ilmondo. Lo ha chiamato El Sistema: una fondazione pubblicaattraverso la quale ai bambini e ragazzi provenientida qualunque livello sociale, da qualunque situazioneeconomica e familiare, è stato garantito l’insegna-mento della musica con diffusione capillare e acces-

so totalmente gratuito. Non è possibile sapere quantedita da pianista abbiano così trovato il loro pianofor-te, o quante orecchie abbiano scoperto di avere undono naturale e tra i più preziosi, ma si possono tut-tavia conoscere i numeri impressionanti del progetto,che segue o ha seguito oltre cento orchestre giovani-li, altrettante infantili e pre-infantili, trenta orchestresinfoniche e centinaia di migliaia di coristi che sivanno ad aggiungere a circa trecentocinquantamilamusicisti dislocati in ogni luogo del territorio vene-zuelano, e in ogni luogo raggiunto dal sostegno, dallestrutture e dai professionisti del Sistema. Grazie agliinvestimenti, prima statali (i più ingenti nella storiadel Sistema provengono dalla presidenza Chavez, an-che attraverso istituzione di strutture laterali, borse distudio e programmi governativi scolastici) e poi ban-

cari, si è potuto guardare alla musica come a una so-cietà ideale, come a un mezzo potentissimo di riscat-to sociale. Un’utopia? No, se la maggioranza dei ra-gazzi formati provenivano e provengono da quartieripoveri e malfamati, i barrios sudamericani; molti diloro hanno dichiarato che avrebbero probabilmente

El Sistema da NobelLa rivoluzione pacifica dell’educazione musicale pubblica

di Michela Monferrini

Michela Monferrini

Si pensi alle scuole, se non al privato:ma gli studenti italiani conoscono lenote? Assistono alle opere liriche;studiano i testi dei libretti d’opera

come le poesie di Ungaretti e Montale,Pascoli e Leopardi mandate a memoria

sin dalle elementari?

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 34

35

stretto un’arma, nellamano, se non gli fos-se invece stato con-segnato uno stru-mento musicale. So-no stati istruiti dalSistema direttorid’orchestra come ilgiovane e sempre piùnoto in Italia DiegoMatheuz (ha diretto,tra le altre, l’Orche-stra della Fenice diVenezia nel tradizio-nale concerto di Ca-podanno, nel 2012) oGustavo Dudamel,sotto la cui direzione ha debuttato nel 2007, nella

Carnegie Hall di New York, l’Orchestra SinfonicaSimón Bolívar che ha subito riscosso consensi inogni parte del mondo e che rappresenta a tutt’oggi ilfiore all’occhiello del Sistema. Gli entusiasmi internazionali hanno creato una rea-zione a catena tra i diversi Paesi, portando all’emula-zione del Sistema in Scozia, Inghilterra, Spagna, Sta-ti Uniti, India, sempre partendo dalle aree depresse eallargandosi poi a macchia d’olio. L’Italia ne è stataraggiunta soltanto di recente: nel 2010 Claudio Ab-bado, che si è spesso trovato in collaborazione conAbreu e la Simón Bolívar, ha dichiarato di voler por-tare El Sistema anche nel nostro Paese. Nel 2011, ilprogetto è partito grazie al lavoro congiunto di Fe-derculture e della Scuola di Musica di Fiesole (i cuipresidenti onorari sono proprio i maestri Abreu e Ab-bado) che hanno lanciato l’iniziativa subito raccoltadalle diverse regioni. Se nel 2010 Abbado esprimevail timore che tutto «si esaurisse nel solito convegno»,dopo pochi mesi già raccoglieva uno dei primi risul-tati concreti con FuturOrchestra, orchestra giovaniledi area lombarda, o con il progetto redatto dal LAMS(Laboratorio Arte Musica e Spettacolo) di Matera. Ilvantaggio – che deve ancora essere sfruttato – di por-tare un programma di educazione musicale in Italia

consiste nel fatto che sitratta di una nazione incui si va obbligatoria-mente, realmente ascuola: la difficoltà nonè allora quella di attrar-re i ragazzi, di strappar-li a contesti di povertàe delinquenza profonde(sebbene il disagio gio-vanile non conoscageografia e livello so-ciale), non è quella diavvicinare i ragazzi allamusica, ma di avvicina-re la musica ai ragazzi.Da questa base, proprio

dall’Italia, si stanno diffondendo nuovi progetti, se-condo i quali il Sistema dovrebbe non solo riguardarel’ambito musicale, ma le diverse discipline artistichein generale.El Sistema di Abreu potrebbe così, dopo quasi qua-rant’anni e il giro del mondo, tornare nei luoghi dellesue origini – laddove ancora vige la legge delle ban-de criminali, e il tasso di delinquenza è di molte vol-te superiore rispetto a quello degli stessi paesi suda-mericani limitrofi – in una forma diversa, ampliata,forse ancora più incisiva. È per questo che José An-tonio Abreu è stato candidato al premio Nobel per laPace, come chi cerca di contrastare la fame o le guer-re, lottando in fondo contro le stesse cose, per lostesso obiettivo.

Si è potuto guardare alla musica comea una società ideale, come a un mezzo

potentissimo di riscatto sociale.Un’utopia? No, se la maggioranza dei

ragazzi formati provenivano eprovengono da quartieri poveri e

malfamati, i barrios sudamericani;molti di loro hanno dichiarato cheavrebbero probabilmente stretto

un’arma, nella mano, se non gli fosseinvece stato consegnato uno strumento

musicale

Gustavo Dudamel con José Antonio Abreu

La storia di El Sistema in un film documentario del 2006 di PaulSmaczny

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 35

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 36

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 37

38

Negli ultimi anni èemersa nella societàuna nuova consapevo-lezza del rapporto tral’uomo e l’ambiente edè diventato sempre piùchiaro, spesso dopoeventi drammatici (ter-remoti, alluvioni, tsu-nami etc.), come la co-noscenza geologica delterritorio sia una condi-zione essenziale per lagestione sostenibile

dell’ambiente e per un suo corretto sviluppo infra-strutturale. Tematiche come i rischi naturali (adesempio il rischio sismico, idrogeologico, vulcani-co, geochimico), i cambiamenti climatici, la gestio-ne delle risorse idriche e dei rifiuti e la pianificazio-ne territoriale si stanno imponendo all’attenzionegenerale per le varie conseguenze che possono ave-re sulla nostra vita. Per fare un esempio attuale, ba-sti pensare al problema drammatico della mancanzadi acqua potabile in molti comuni del Lazio, in par-ticolare dell’area viterbese, per motivi legati allacattiva gestione dell’inquinamento da arsenico dellefalde idriche, problema che, anche se dovuto in granparte a cause naturali ed indipendenti dall’attivitàantropica, è stato ignorato per anni. Un altro esem-pio è il problema gravissimo della gestione crimina-le dei rifiuti urbani ed industriali, denunciato da an-ni su libri e giornali e mai affrontato con la dovutaserietà. In conseguenza di questo, l’inquinamento dasostanze tossiche del tipo più disparato nelle faldeacquifere, nei suoli e nell’aria, ha raggiunto livellitali, in molte zone del nostro paese, da rappresenta-re ormai un rischio in alcuni casi irreversibile, senon a prezzi altissimi di bonifica, per le generazioniattuali e future. Il rapporto tra uomo e natura è sempre stato conflit-tuale, perché mentre da una parte lo sviluppo dellasocietà e dell’economia è stato basato sull’uso mas-siccio e spesso indiscriminato delle risorse naturali(tra cui il suolo, che può essere definito una “risorsanon rinnovabile”), dall’altro lato l’uomo ha semprericonosciuto, anche se in modo spesso ipocrita, chelo sfruttamento del pianeta doveva seguire regolepiù rispettose dell’ambiente e delle sue risorse. Nel corso dei secoli, l’uomo ha realizzato profondetrasformazioni del territorio, riducendo gli spazi na-turali come le aree boschive, le zone umide, le areecollinari, le zone fluviali etc. al fine di estendere learee agricole e urbane. Lo sfruttamento e la sempre

maggiore sottrazione di suolo dal suo contesto natu-rale sta determinando cambiamenti radicali nel pae-saggio, nell’ambiente e negli ecosistemi. Nei paesiindustrializzati, la domanda crescente di suolo per leattività umane è legata principalmente allo sviluppodelle aree urbane e relative infrastrutture. Secondodati della European Environmental Agency (EEA),l’Europa è uno dei continenti più urbanizzati delpianeta, dove circa il 75% della popolazione vive inaree urbane e più di un quarto del territorio è ormai,direttamente o indirettamente destinato ad usi urba-ni. Si stima che entro i prossimi decenni tale propor-zione sia destinata a salire in modo significativo. Unpunto importante è il fatto che la crescita delle cittàeuropee, sempre secondo il rapporto EEA, non ècorrelata ad un aumento della popolazione: negli ul-timi decenni, a fronte di un incremento dell’esten-sione delle aree urbane pari al 20%, la popolazione èaumentata meno del 10%. La crescente domanda diurbanizzazione è quindi da collegare principalmentealle trasformazioni del sistema produttivo e sociale eal cambiamento degli stili di vita. Particolarmenterilevante in questo contesto è il fenomeno dell’urba-nizzazione delle aree costiere, per motivi essenzial-mente legati alle attività turistiche, in netto contrastocon le esigenze di tutela e protezione delle coste e

degli ecosistemi marini. Le conseguenze negativedella pressione urbana sul territorio, sono anche do-vute a cause indirette come l’aumento del fabbiso-gno energetico, la necessità di adeguare e ampliarele reti infrastrutturali, il traffico, l’esigenza di tratta-mento di maggiori quantitativi di rifiuti urbani e diacque reflue. Un ulteriore danno legato all’urbaniz-zazione intensiva è poi legato alla perdita della ri-sorsa “suolo permeabile”. Sebbene generalmentesottovalutata, questa perdita costituisce un forte ele-mento di perturbazione dell’equilibrio idrogeologicodel territorio, ed è causa di erosione accelerata delsuolo e, in alcuni casi, di gravi fenomeni di dissesto.Dall’VIII Rapporto ISPRA sulla Qualità dell’Am-biente Urbano del 2012 (vedi http://www.ispram-b i e n t e . g o v . i t / i t / p u b b l i c a z i o n i / s t a t o -

Il bene più preziosoProblematiche per una gestione sostenibile del territorio e delle sue risorse

di Giancarlo Della Ventura

Giancarlo Della Ventura

Il rapporto tra uomo e natura è semprestato conflittuale: da un lato l’uso

massiccio e indiscriminato delle risorsenaturali, dall'altro la consapevolezzache lo sfruttamento del pianeta debba

seguire regole più rispettosedell'ambiente

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 38

39

dellambiente/qualita-dellam-biente-urbano-viii-rapporto.-edizione-2012) emerge conchiarezza che le superficiimpermeabilizzate in Italiaaumentano secondo un trendcostante a causa dell’espan-sione edilizia urbana e dellarealizzazione di nuove infra-strutture.Una cattiva gestione del ter-ritorio, dovuta ad attivitàagricole sempre più intensi-ve, è all’origine di fenomenidi degrado del suolo comel’erosione accelerata, la per-dita di sostanza organica,l’eccessiva salinizzazioneed acidificazione. Fra lepratiche agricole che contri-buiscono maggiormente aldegrado del suolo vi sono lecolture intensive senza il ne-cessario apporto di sostanzaorganica, l’abuso di prodotti chimici e l’alterazioneartificiale e meccanizzata delle morfologie naturalidel territorio, il cui danno in termini economici edambientali non viene ancora quantificato. L’impo-verimento di sostanza organica nei suoli determinaanche un aumento della formazione di croste super-ficiali le quali, oltre che interagire negativamentecon la crescita delle piante, riducono drasticamentel’infiltrazione dell’acqua con aumento del ruscella-mento superficiale e quindi dei processi erosivi.Serie problematiche ambientali sono determinatedalle attività estrattive di prima e seconda catego-ria (miniere e cave) che rappresentano comunqueun importante settore dell’economia. Oltre all’im-patto locale e temporaneo, come l’inquinamentoacustico, dell’aria e dell’ambiente circostante, taliattività producono profonde e definitive modifichedel paesaggio, una perdita irreparabile di suolo,inquinamento delle falde acquifere e difficoltà le-gate al ripristino delle aree dismesse. Uno dei pro-blemi più gravi nelle zone minerarie è il cosiddet-to “drenaggio acido di miniera”, un fenomeno le-gato all’alterazione delle rocce mineralizzate cheavviene per interazione tra i minerali e l’acqua inambiente ossidante. Tale fenomeno, è fortementeamplificato nelle zone soggette ad attività estratti-va, dove può causare un diffuso inquinamento am-bientale da parte di metalli tossici, spesso contenu-ti anche in basse/bassissime concentrazioni nellaroccia madre.Gli effetti dei cambiamenti climatici rappresentanoormai la principale causa delle migrazioni di mas-sa. La perdita di aree coltivabili dovuta a desertifi-cazione, e lo sfruttamento intensivo delle risorsenaturali stanno avendo un impatto non solo am-bientale, ma anche sociale ed economico, creandomassicci flussi migratori e obbligando intere popo-

lazioni ad abbandonare ipropri territori: secondol’Alto Commissariato delleNazioni Unite entro il 2050si arriverà a 200/250 milio-ni di profughi per motivi‘ambientali’ che i paesi oc-cidentali si troveranno adaccogliere. La presenza dirisorse naturali è spesso lacausa di sanguinosi conflit-ti nei Paesi in via di svilup-po. Solo un’esigua mino-ranza della popolazione lo-cale gode dei vantaggi eco-nomici derivanti dallosfruttamento delle materieprime, mentre la stragrandemaggioranza degli abitantisubisce solo le conseguen-ze negative (espropriazionedi terreni, devastazioneambientale e degrado so-ciale) dell’uso del proprio

territorio. Gli esempi di questo stato di cose sonoinnumerevoli nel corso della storia e in tutti i conti-nenti. Tra gli esempi meno noti si potrebbe citare ilconflitto cino-tibetano la cui causa principale non èda ricercarsi in motivazioni politico-religiose, co-me troppo spesso si ritiene, ma molto più semplice-mente nel fatto che la gran parte delle risorse idri-che della Cina si trova sulle (o nelle) montagne ti-betane. La conoscenza dei fenomeni che agiscono sul suo-lo e delle dinamiche di utilizzo del territorio èquindi di fondamentale importanza per valutare letrasformazioni in atto e per intervenire nei proces-si di pianificazione. Tale conoscenza necessita didati omogenei e attendibili e di modelli correttiper l’analisi dei dati stessi. I dati possono essereoggi ottenuti, oltre che per mezzo di stazioni di ri-levamento, anche tramite immagini satellitari sem-pre più dettagliate e complete di informazioni,mentre le analisi vengono ormai comunemente ef-fettuate attraverso tecniche geo-spaziali 3D/4Dsempre più sofist icate (vedi ad esempiohttp://www.digital-earth.eu). La comunità geologi-ca ha oggi la grande opportunità, oltre che respon-sabilità, di diventare un operatore centrale nellagestione di queste problematiche. È auspicabileche i vari attori delle Scienze della Terra siano ca-paci di offrire un contributo alle nuove necessitàdella società, integrando le proprie competenze adaltre discipline scientifiche che si occupano delleproblematiche territoriali, come la geografia, l’ar-chitettura, l’ingegneria, la biologia e l’agraria, percreare una nuova concezione di “scienza del terri-torio e dell’ambiente” che tenga conto di tutti gliaspetti coinvolti nella salvaguardia di quel beneprezioso per la vita dell’uomo che è l’ambiente nelquale viviamo.

Secondo stime delle Nazioni Unite entro il 2050 si arriverà a200/250 milioni di profughi per motivi ambientali

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 39

40 L’Università per la paceCoscienza e conoscenza: il ruolo delle istituzioni accademichenella diffusione di una cultura di pace

di Giuliana Calcani

Il Centro Studi dell’Am-basciata degli Stati Unitia Roma, in collaborazio-ne con l’AESI (Euro-pean Association of Eu-ropean Studies) e il no-stro Ateneo, ha promossoun incontro di studi suThe importance of crosscultural dialogue in pea-ce building and the roleof University coopera-tion in post-conflict re-conciliation, lo scorso 18

ottobre presso la sede della stessa rappresentanza diplo-matica. La presenza a Roma di Nabil Oudeh, presidentee fondatore del Centre for Conflict Resolution Interna-tional (CCR, con sedi in USA e Canada) e mediatoreinternazionale con un’esperienza di oltre venti anni nelcampo della risoluzione dei conflitti, è stata la premessaper allargare il confronto di idee ad altre istituzioni chesi occupano della formazione di giovani professionistinella diffusione della cultura di pace. L’incontro è stato,quindi, anche un’occasione per presentare l’offerta for-mativa post lauream di Roma Tre, su questo tema spe-cifico, al pubblico presente su invito.

Com’è noto, di pace ci si occupa soprattutto quandonon c’è e non è un caso che i corsi di formazione e imaster dedicati a questo tema aumentino di numero eriscuotano un crescente successo proprio in questi ulti-mi anni. A Roma Tre l’offerta è ampia e prestigiosa,ma poiché viene impartita nelle diverse strutture didat-tiche, non è facile coglierne il valore d’insieme non so-lo dall’esterno, ma forse anche per noi interni all’Ate-neo. La didattica dei corsi di perfezionamento e deimaster prevede inoltre, oltre alle lezioni, anche l’orga-nizzazione di convegni, dibattiti, mostre e l’edizione dipubblicazioni. Insomma una quantità di iniziative chenell’insieme costituiscono una realtà davvero conside-revole sul tema della pace. Vediamo, in estrema sintesi,i capisaldi di questa realtà. Con la prospettiva dellescienze politiche, delle discipline storico-umanistiche edelle scienze della formazione, i corsi post lauream diRoma Tre coprono le diverse fasi di intervento nei pro-cessi di pace: dalla prevenzione alla risoluzione deiconflitti, dai fenomeni migratori alle politiche di inte-

grazione. Peacekeeping and security studies è il masterdiretto da Maria Luisa Maniscalco che forma profes-sionisti della gestione delle crisi civili e militari, men-tre alle professioni per la pace, come esigenza perma-nente da tutelare, si rivolge il master in Educazione al-la pace, cooperazione internazionale, diritti umani epolitiche dell’Unione Europea, diretto da AlfredoBreccia. Dei fenomeni spesso riflessi dalle aree in con-flitto, come la migrazione, si interessa il master in Poli-tiche dell’incontro e mediazione culturale in contestomigratorio. Pratiche dei saperi e dei diritti per unanuova cittadinanza, fondato da Maria Vittoria Tessitoree ora diretto da Giacomo Marramao. Sulla spinta deicrescenti fenomeni migratori, i processi di pacificazio-ne devono prevedere oggi anche l’integrazione dellecomunità di immigrati, presenti in tutti i Paesi dell’U-nione Europea. Perciò le politiche di inclusione socialerichiedono nuove professionalità e il master in Educa-zione interculturale: strategie per la valorizzazionedelle diversità, diretto da Francesco Susi, così come ilmaster diretto da Luigi Moccia in Cittadinanza euro-pea e integrazione euro-mediterranea. I beni e le atti-vità culturali come fattore di coesione e sviluppo, ri-spondono ad una delle esigenze prioritarie dei nostritempi, ovvero l’inclusione dei nuovi cittadini europeinei Paesi d’accoglienza come garanzia di pace e di svi-luppo socio-economico. Un accordo siglato tra ilCRUL ed il Ministero per i Beni e le Attività Culturalisu “I beni culturali per la pace e il dialogo tra i popoli”,consente a Roma Tre di attivare molte iniziative nelsettore dei beni culturali che è uno dei campi più spen-dibili nella cooperazione internazionale, così come nel-le strategie d’inclusione sociale. Nell’uno e nell’altrocaso l’Università, come luogo di creazione e di propa-gazione della cultura, scientifica e umanistica, è unodei principali canali di scambio e di relazione. Le azio-ni che anche il nostro Ateneo promuove sono quindi ri-volte alla formazione dei giovani, italiani ed esteri, cheseguono i corsi impartiti in sede o secondo la modalitàdell’e-learning. Ma consistono anche nella partecipa-zione a programmi d’intervento della Cooperazione al-lo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri e di altriorganismi internazionali con attività sul terreno e for-mazione locale. L’attuazione di interventi concreti –dal patrimonio culturale al settore dello sviluppo agra-rio, dalla progettazione architettonica e urbanistica aipiani di sviluppo scientifico e tecnologico – aiuta ildialogo tra le culture e favorisce quella conoscenza re-ciproca che è premessa indispensabile alla voglia di pa-ce. Ma è sempre più un dato di fatto che parlare di“post-conflict” oggi non ha senso se non per aree moltolimitate del Mediterraneo e del Medio Oriente e chespesso si è chiamati ad operare in situazioni di tensione

Giuliana Calcani

L’Università dovrebbe essere in grado didiffondere la cultura della pace comerisposta forte e attiva alle crisi, in ogni

settore disciplinare

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 40

41

permanente. Il ruolo più importante che l’Universitàpuò svolgere è anche quello di non cedere allo spaurac-chio dello scontro tra culture e mantenere accese le co-scienze e la ragione anche quando i sistemi politici edeconomici sono in guerra.

L’apertura a Roma Tre dell’Euro-Arab Institute for theDialogue between Cultures, presso il Centro di eccel-lenza Altiero Spinelli per l’Europa dei popoli e la pacenel mondo (CeAS), è un forte segnale in questa dire-zione. Inaugurato lo scorso 9 novembre, l’Istituto na-

sce con il sostegno della Fondazione Al-Babtain (“Pri-ze for Poetic Creativity”), per iniziativa del prof. Tou-hami Abdouli, Presidente dell’Istituto stesso, del prof.Luigi Moccia, Presidente del CeAS, e dell’on. GianniPittella, Vice Presidente vicario del Parlamento euro-peo, co-fondatore del Centro Studi per l’Europa delMediterraneo (Meseuro). Si sta facendo molto, ma non è mai abbastanza quandola posta in gioco è così alta. Accanto alla formazione dinuove professionalità richieste da un mondo che cam-bia e al potenziamento di settori tradizionalmente attivinel campo delle scienze politiche, l’Università dovreb-be essere in grado di diffondere la cultura della pacecome risposta forte e attiva alle crisi, in ogni settore di-sciplinare. L’intervento della formazione universitaria su questacondizione esistenziale dovrebbe essere quello di tra-sformare la pace da sentimento individuale a visionelarga sul presente e sul futuro dell’umanità.

Il ruolo più importante che l’Universitàpuò svolgere è anche quello di non

cedere allo spauracchio dello scontro traculture e mantenere accese le coscienze ela ragione anche quando i sistemi politici

ed economici sono in guerra

La video-installazione Torre della pace, realizzata da artisti contemporanei di varie nazionalità sul tema degli attacchi alle Torri gemelle diNew York, è stata interpretata musicalmente dalla DAMS Jazz Band in occasione del Roma Tre Film Festival 2012

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 41

42 Le vie della paceL’impegno multidisciplinare di un’educazione permanente alla pace

di Alfredo Breccia

Il primo decennio delsecolo XXI ha ripropo-sto drammaticamente laprofonda contraddizio-ne che da sempre laceral’intera umanità: da unlato, l’aspirazione aconquistare una paceautentica e duratura, dicui si fanno interpreti leNazioni Unite che han-no dedicato il decennio1995-2005 alla “educa-zione ai diritti umani”,

e il decennio 2001-2010 alla “cultura della pace”;dall’altro, l’esplosione di tensioni e di conflitti che,dopo il superamento del confronto Est-Ovest, hannoinvestito con successione travolgente i rapportiNord-Sud, offrendo un terreno fertile per lo sviluppodi una cultura dell’odio e della guerra e non di unacultura della solidarietà e della pace. Da questa con-traddizione scaturisce l’esigenza di dare un nuovo edeffettivo impulso ad uno sviluppo equilibrato e glo-bale delle relazioni umane. A tal fine, soltanto un’at-tenta riflessione sui problemi della pace consente dicogliere la profonda interconnessione fra tutte lequestioni che ancora oggi affliggono la comunità in-ternazionale. Le crisi non sono più causate da rivalitàstrategiche e ideologiche tra due blocchi contrappo-sti, ma da molteplici fenomeni che hanno ormai rag-giunto una diffusione planetaria: l’esplosione di con-flitti di matrice nazionalistica, etnica e religiosa conuna recrudescenza delle azioni terroristiche; i proble-mi del sottosviluppo, della fame, del degrado am-bientale e dell’emergenza acqua; i processi di transi-zione democratica e dell’emergenza umanitaria; losviluppo di flussi migratori accompagnati da fortitensioni per i problemi sollevati dall’integrazione so-cio-culturale. Questi fenomeni hanno coinvolto inmodo sempre più massiccio e indiscriminato le po-polazioni civili, determinando gravi situazioni di dis-locamento e di disconoscimento dei diritti umani. Lacomunità internazionale è stata, così, investita in mi-sura crescente da una serie di problemi nuovi e com-plessi, che possono essere affrontati adeguatamentesolo attraverso il concorso di forze e di competenzediverse. Di fronte a questo drammatico scenario, ciascuno dinoi avverte la propria impotenza, ma reclama conforza un impegno congiunto e solidale delle Istitu-zioni sia pubbliche che private. A questo fine, è ne-cessario creare le condizioni per tradurre le ricorrentimanifestazioni di intenti e le molteplici iniziative a

favore della cooperazione per la pace in un’azionepermanente e coordinata, capace di promuovere unaconcreta assunzione di responsabilità per la costru-zione di un mondo più giusto e solidale. Questa co-struzione non può essere affidata al caso fortuito, marichiede che ciascuno, qualunque sia il proprio credopolitico e religioso, si impegni ad agire per formarele coscienze alla cultura della pace. L’impegno edu-cativo deve essere concepito come un tutt’uno conl’azione per la pace e va risolto in una prospettiva dieducazione permanente, che deve investire tutti gliambiti formativi per finalizzarli al perseguimento deivalori della democrazia, della giustizia e della solida-rietà.

L’Istituzione universitaria si presenta come soggettostrategico nella politica di intervento sulle risorseumane, sia per affrontare il problema della pace se-condo le metodologie proprie della scienza, come lestesse Nazioni Unite hanno sollecitato fin dalla lorocostituzione, sia per promuovere iniziative volte aformare le coscienze alla cultura della pace attraver-so l’elaborazione di approcci innovativi, integrati eglobali.In questo contesto è maturata, nel 2001, la decisionedi istituire presso la nostra Università un master disecondo livello in Educazione alla pace: cooperazio-ne internazionale, diritti umani e politiche dell’Unio-ne Europea. L’obbiettivo è quello di promuovere unacultura della solidarietà e della pace nella società ci-vile, in particolare tra i giovani, e di contribuire effi-cacemente alla costruzione di “vie della pace”, attra-verso una vera e propria “strategia” che si sviluppasia sul piano formativo che su quello operativo.

Alfredo Breccia

Le crisi non sono più causate da rivalitàstrategiche e ideologiche tra due blocchi

contrapposti, ma da molteplicifenomeni: l’esplosione di conflitti di

matrice nazionalistica, etnica e religiosacon una recrudescenza delle azioni

terroristiche; i problemi delsottosviluppo, della fame, del degradoambientale e dell’emergenza acqua; iprocessi di transizione democratica; lo

sviluppo di flussi migratoriaccompagnati da forti tensioni per iproblemi sollevati dall’integrazione

socio-culturale

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 42

43

Sul piano formativo, il master si caratterizza per lasua impostazione “multidisciplinare” e si articola in:a) moduli di base, che mirano ad offrire gli strumentiindispensabili per cogliere le radici storiche e la na-tura delle trasformazioni in atto, e per rispondere allepressanti esigenze imposte dai processi di revisionedell’assetto europeo e mondiale, dai nuovi contestipolitici, economici e culturali della globalizzazione edagli sviluppi dell’integrazione europea; b) modulispecialistici, che mirano a favorire l’acquisizione dicompetenze specifiche per la realizzazione di proget-ti e di interventi operativi, avvalendosi anche dell’ap-porto di esperti e di operatori di istituzioni e di entipubblici e privati e di Organizzazioni governative enon governative, italiane ed estere; c) moduli opzio-nali, che si propongono di arricchire l’offerta forma-tiva attraverso la partecipazione a seminari e a “corsiresidenziali” attivati in collaborazione con organizza-zioni che operano nei settori di interesse del master,

in particolare con Amnesty International e con il Vo-lontariato Internazionale per lo Sviluppo (VIS). Que-sta collaborazione nasce dalla convinzione che unastrategia di pace può avere maggiori possibilità disuccesso, se si avvale dell’apporto sinergico, concor-dato e mirato della società civile in tutte le sue formeassociative. Il piano formativo del master si comple-ta, favorendo lo svolgimento di stage o tirocini pres-so istituzioni pubbliche o private o presso le ONG, inItalia o all’estero, e siconclude con l’elabora-zione di una tesi su un te-ma che ogni studente sce-glie nel proprio settore dispecializzazione.Sul piano operativo, ilmaster è impegnato asvolgere compiti di sensi-bilizzazione culturale, siacon la promozione di con-vegni e incontri di studioa livello nazionale e inter-nazionale, sia favorendol’inserimento dei proprilaureati, attraverso stage otirocini, nelle attività cheistituzioni pubbliche o pri-vate ed organizzazioninon governative svolgono,

in Italia o all’estero, nei diversi campi della coopera-zione internazionale per la pace e per la tutela dei di-ritti umani. Inoltre, la funzione formativa e profes-sionalizzante del master è stata fortemente valorizza-ta dalla Convenzione che la Provincia di Roma hastipulato con l’Università degli Studi Roma Tre.Questa Convenzione, oltre a sostenere e incoraggia-re la partecipazione di giovani laureati alle attivitàformative del master, gli ha affidato anche il compi-to di promuovere forme integrate di collaborazionesul piano culturale, scientifico, didattico e socialevolte a sviluppare, in modo permanente, una incisi-va ed estesa opera di sensibilizzazione nella societàcivile e a coinvolgere le diverse realtà locali nellarealizzazione di iniziative di respiro europeo e inter-nazionale.

Questa attività di sensibilizzazione si esprime anchecon la pubblicazione di una rivista scientifica dal ti-tolo Processi storici e Politiche di Pace / HistoricalProcesses and Peace Politics. La rivista si proponecome luogo di dibattito, riflessione ed approfondi-mento sui temi della pace, della cooperazione inter-nazionale, dei diritti umani e del dialogo intercultura-le, con particolare riferimento alla riflessione sulleradici storiche dei problemi che tuttora affliggono lacomunità internazionale. Lo studio dei processi stori-ci consente di affrontare i problemi di attualità conuna chiave di lettura che facilita la loro comprensio-ne, fuori da ogni interpretazione di parte o da valuta-zioni puramente contingenti. In questo modo si puòaffermare che «lo studio del passato serve a conqui-stare il presente».

Il master si propone, così,non solo di adempiere allasua funzione formativa eprofessionalizzante, maanche di partecipare con-cretamente al processo inatto di revisione o di rifon-dazione delle relazioni frai popoli per promuovereun mondo più giusto e so-lidale. Esso mira a perse-guire questo obbiettivo at-traverso una mobilitazionedi risorse culturali, moralie materiali, che offra a cia-scuno la possibilità di dareresponsabilmente il suocontributo alla costruzionedelle “vie della pace”.

È necessario creare le condizioni pertradurre le ricorrenti manifestazioni diintenti e le molteplici iniziative a favore

della cooperazione per la pace inun’azione permanente e coordinata,capace di promuovere una concretaassunzione di responsabilità per la

costruzione di un mondo più giusto esolidale

L’impegno educativo deve essereconcepito come un tutt'uno con l'azione

per la pace e va risolto in unaprospettiva di educazione permanente,

che deve investire tutti gli ambitiformativi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 43

44 Costruire la pace nel MediterraneoUn progetto del Master in Peacekeeping & security studies

di Maria Luisa Maniscalco

La dimensione umanadella pacificazione è unacomponente fondamen-tale dei processi di pace,ma in alcuni contesti è lapiù difficile da persegui-re. Non è semplice dopoconflitti interni violentie brutali muoversi dauna storia intrisa di odioe divisioni verso un fu-turo condiviso. I lascitidel passato possono es-sere difficili da superare

e il conflitto può riaccendersi in qualunque momento;per questo assistere la riconciliazione delle war-torn-societies è un compito e uno scopo che ha visto sem-pre più coinvolta la comunità internazionale nellacomplessità dei soggetti che vi operano: non solo Statie organizzazioni internazionali, ma anche organizza-zioni non governative, fondazioni, associazioni, uni-versità, gruppi religiosi e così via. La Libia nel quadro dei repentini cambiamenti avve-nuti recentemente in Nord Africa occupa un posto diparticolare importanza: ha guadagnato la libertà conuna guerra civile (e anche grazie all’intervento milita-re di alcuni paesi aderenti ad una coalition of the wil-ling), ha tenuto con successo le sue prime elezioni li-bere e ora è impegnata a costruire un nuovo futuro.Ma la fine del regime di Gheddafi ha lasciato perico-lose divisioni in un paese fragile e frammentato in cuile alleanze tribali sono più forti della lealtà al nuovoStato e in cui pressoché ogni famiglia è stata toccatada perdite e da eventi traumatici. Violenze nuove e re-centi hanno intrappolato consistenti fasce della popo-lazione in una spirale di paura e desiderio di rivalsa.Come ha affermato Mahmoud Jibril, leader del Natio-nal Forces Alliance, vincitore delle elezione del luglioscorso «una delle maggiori sfide della Libia è la capa-cità di perdonare e di riconciliarsi per il futuro». Il Na-tional Transitional Council libico, la General NationalConference e il governo ri-conoscendo l’esigenza di ri-conciliazione hanno già in-trapreso azioni in tal sensosia in maniera autonoma, siacon il supporto di organismiinternazionali quali UNSI-MIL e UNDP e di program-mi dell’Unione Europea.Molto resta però ancora dafare e la sfida non riguardasolo la Libia, ma interessa la

stabilità di un’area e quindi l’Europa nel suo insieme ein particolare il nostro paese, legato alla Libia da vin-coli storici e da responsabilità politiche, come ribaditonella “Dichiarazione di Tripoli” del 21 gennaio 2012. In questa fase anche la società civile in tutte le suemolteplici sfaccettature può offrire il suo contributo.Per questo motivo ho accolto con convinzione l’invitodell’associazione internazionale Ara Pacis Initiative amettere a punto e coordinare un piano di azione per lariconciliazione in Libia. Il know how teorico e di ricer-ca sul campo acquisito negli anni e riversato nelle atti-vità didattiche e di formazione per l’insegnamento diTeorie dei conflitti e processi di pace e del master inPeacekeeping & security studies, si è rivelato fonda-mentale nel disegnare la strategia di intervento in col-laborazione con gli esperti dell’Ara Pacis Initiative.

Il piano è stato preparato con un’indagine pilota (fi-nanziata dal Ministero degli Affari Esteri italiano)condotta in Libia in due fasi (ottobre e dicembre 2012)al fine di identificare le priorità, di verificare la fattibi-lità del progetto e di costruire una rete di collaborazio-ni sul terreno. Le interviste e i contatti con i decisionmakers e gli operatori provenienti da ogni settore dellasocietà (compresi i leader tribali e religiosi, delle mili-zie, gruppi della società civile, associazioni delle vitti-me, donne, giovani) hanno fatto riscontrare la pienadisponibilità alla collaborazione e una forte sottolinea-

tura circa l’opportunità dicoinvolgere individui e orga-nizzazioni non identificabiliattraverso affiliazioni politi-che o religiose. Le informa-zioni raccolte ci hanno rin-forzato nella convinzioneche nei contesti lacerati dadivisioni e conflitti un inter-vento assolutamente ‘terzo’,quale può essere quello gui-dato da un’istituzione uni-

Maria Luisa Maniscalco

Assistere la riconciliazione delle war-torn-societies è un compito e uno scopo

che ha visto sempre più coinvolta lacomunità internazionale nella

complessità dei soggetti che vi operano:non solo Stati e organizzazioni

internazionali, ma anche organizzazioninon governative, fondazioni,

associazioni, università, gruppi religiosi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 44

45

versitaria, e dedi-cato all’accresci-mento della cultu-ra e del dialogotrova agevolmenteascolto.Dai colloqui sonoemerse come parti-colarmente signifi-cative alcune esi-genze: il bisognodi un progetto dimemoria per levittime della rivo-luzione e dei lun-ghi anni del regi-me; la necessità di diffondere una cultura della ricon-ciliazione anche attraverso un sistema di informazionelibero; la richiesta di formazione nelle metodologiedella conflict transformation. Tutti i nostri interlocuto-ri hanno convenuto sulla necessità di iniziare il piùpresto possibile l’implementazione delle misure dis-cusse e condivise. A tal fine hanno considerato appro-

priata la decisione di creare nel novembre 2012 unportale (www.thelibyainitiative.com) in tre lingue (ita-liano, inglese, arabo) per gli scambi di informazioni intempo reale tra i partner italiani e libici del progetto etra quanti fossero comunque interessati a partecipare.Sulla base di quanto emerso dall’indagine pilota, è sta-to elaborato un progetto di intervento, dedicato alla di-mensione umana della pace, che intende utilizzare leleve della produzione culturale e artistica per promuo-vere la riconciliazione sociale, la democratizzazione, idiritti umani e il dialogo interculturale. Il progetto sisnoda attorno a tre cardini: a) sostegno e rafforzamen-to di media per la riconciliazione; b) azioni collettiveper la memoria e la raccolta di storia orale; c) trainingper il consolidamento della fiducia, trasformazione delconflitto e nuovi orizzonti.Il primo punto si basa sulla convinzione che un siste-ma di informazione radicato in principi di inclusionee in standard condivisi di indipendenza e obiettivitàsia una condizione indispensabile per la riconcilia-zione sociale. È noto infatti come in numerosi casi i“media dell’odio” si sono trasformati in veri e propri

strumenti di mor-te, accompagnan-do e supportandole dinamiche vio-lente di conflitticome quelli inRwanda e nella exJugoslavia. L’in-tervento intendeformare un gior-nalismo per la ri-conciliazione e so-stenere citizenjournalists e foto-reporter che aspi-rano a raccontare

una Libia diversa e impegnata nella pacificazione. Lacostruzione di una piattaforma per la condivisionedelle informazioni via web e telefono cellulare sup-porterà l’iniziativa. Il secondo punto riconosce il po-tere della narrativa nel mobilitare le persone attornoad uno scopo comune e incoraggia, con la collabora-zione dei colleghi di università libiche, lo sviluppo diun nuovo quadro narrativo, nell’intento di comporre i“frammenti” di esperienze in un mosaico condiviso.Il nuovo “racconto” sarà affidato nella sua diffusioneanche alla comunicazione emozionale dell’arte. Ilterzo intende formare una nuova generazione di ope-ratori libici della dimensione umana attraverso meto-dologie di trasformazione del conflitto e la condivi-sione di esperienze e testimonianze al fine di pro-muovere una cultura politica del perdono e della ri-conciliazione. Essere ascoltati e condividere espe-rienze traumatiche rappresenta un’esigenza difficil-mente negoziabile e un primo passo verso una nor-malizzazione della vita quotidiana. Nell’elaborazione del progetto è stata data particola-re attenzione ai meccanismi sociali radicati nelle so-cietà arabo-islamiche quali per esempio la metodolo-

gia di composizione dei conflitti (as sulh) e di ricon-ciliazione (musahala) come pure alla tradizione dicantastorie (el hakawati). L’azione in Libia prevedela partecipazione delle università di Bengasi, di Mi-srata, di Sebha e di Tripoli, dell’associazione libicaAl Mubadara Libya Assalam, della testata Libya He-rald e della casa editrice Al Kalema e dovrebbe ini-ziare nella tarda primavera. In ogni modo, la proget-tazione di questo intervento per l’indagine pilota sulcampo e per i contatti che sono stati avviati ha costi-tuito già di per sé un’esperienza ricca di significatosia sul piano scientifico che su quello umano.

In Libia la fine del regime di Gheddafiha lasciato pericolose divisioni in unpaese fragile e frammentato in cui lealleanze tribali sono più forti della

lealtà al nuovo Stato e in cui pressochéogni famiglia è stata toccata da perdite

e da eventi traumatici

Il portale The Lybia Iniziative

Ho accolto con convinzione l’invitodell’associazione internazionale AraPacis Initiative a mettere a punto e

coordinare un piano di azione per lariconciliazione in Libia. Il know how

teorico e di ricerca acquisito sul campo eriversato nelle attività didattiche e di

formazione per l’insegnamento di Teoriedei conflitti e processi di pace e delmaster in Peacekeeping & SecurityStudies, si è rivelato fondamentale

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 45

46

Plum Village (Bordeaux). Dalpoggio di fronte si scorge ilcastello di Eleonora d’Aquita-nia, dove nacque RiccardoCuor di Leone. Non lontano larocca medievale di Duras,paese natio del padre di Mar-guerite, scrittrice di storie am-bientate nell’Indocina colo-niale, ora Vietnam. Il destinovuole che un piccolo popolovietnamita risalga ogni giorno

quelle colline in silenzioso corteo.Avvolti nel saio marrone, visi lieti e assorti, praticanotra i vigneti bordolesi la “meditazione camminata”. Aguidarli è Thây (maestro), il monaco più anziano. A luifanno capo quattro cascinali divenuti monasteri buddi-sti di tradizione zen, dove soggiornano molti laici, an-che cristiani, in cerca di quiete.Minuto, magro, dai lineamenti aspri, ma pronti a schiu-dersi nel più disarmante dei sorrisi. Occhi neri, vivacis-simi e saettanti sotto la testa rasata. I movimenti lenti,di chi è in perenne stato contemplativo, confermanoche non c’è niente di più vero per questo monaco bud-dhista che da mezzo secolo si batte contro la guerra.Thich Nhat Hanh, 87 anni, è tra i maggiori maestri spi-rituali del nostro tempo, ma è stato anche un formida-bile guerriero della pace, avendo messo in pratica ilprecetto buddista della compassione in modo integrale,a 360 gradi, guardando alla sofferenza senza distinzio-ni ideologiche.A 16 anni entra come novizio nel monastero zen TuHieu, nella città imperiale di Hue, Vietnam centrale.Da subito si impegna nella ricerca per comprendere leradici stesse del buddhismo. Scrive articoli su rivistenazionali per far sapere che il cambiamento socialepuò essere fondato sull’impegno, la re-sponsabilità e l’amore. Pratica con rigo-re la via della presenza mentale nellavita quotidiana, e dimostra che la sag-gezza millenaria del buddhismo puòdare un contributo importante al cam-biamento sociale, partendo dalla tra-sformazione di se stessi. È il 1964, il Vietnam è devastato dallaguerra e i “Piccoli corpi di pace”, creatidal maestro, soccorrono le vittime dientrambi i fronti, morendo sotto i bom-bardamenti. Thây decise che quella tra-gedia doveva concludersi e volò a NewYork.«Questo gentile monaco buddhista viet-namita, è un umanista dalle immense

capacità intellettuali. Le sue idee per la pace, se fosseroapplicate, costruirebbero un monumento all’ecumeni-smo, alla fratellanza mondiale, a tutta l’umanità». Cosìvenne definito da Martin Luther King che lo proposeper il Premio Nobel per la pace, proprio in quegli anni.A New York incontrò il sottosegretario alla Difesa Ro-bert McNamara, che si disse «molto turbato» (si dimi-se dopo poco). In Vietnam, però, si continuava a mori-re. Il maestro creò una Delegazione buddhista per lapace e la guidò ai negoziati di Parigi fino agli accordidel ’73. Dopo la caduta di Saigon (1975), si impegnòper i profughi (boat people) dal Vietnam, e nelle sue vi-site negli USA portò avanti ritiri di consapevolezza peri veterani della guerra. I nuovi padroni comunisti, però,non gradirono, per lui fu l’esilio e i suoi libri furonovietati in patria.

Nel gennaio del 2005, dopo 39 anni di esilio, Thây ri-torna in Vietnam per una visita di tre mesi su invito delgoverno. È accompagnato da 100 monaci e 90 laiciprovenienti da diversi paesi. In occasione del Capodan-no Lunare, parla alle migliaia di persone riuniti neltempio Phap Van, a Saigon, sottolineando come, per 39anni, sia stato una cellula espulsa dal proprio corpo.Dopo l’11 settembre, agli americani che gremivano laRiverside Church di Manhattan, rivolge il suo invito anon cedere alla rabbia. Il fulcro del pensiero di Thich Nhat Hanh risiede nellacapacità di dialogare, piena di silenzi e risonanze inte-riori: tra le singole persone, all’interno della propria

casa, con i genitori e i figli, con i co-niugi e i compagni. Lì risiedono le ra-dici della pace, in quella comprensioneintima che non sempre sappiamo ap-plicare al nostro microcosmo. Per que-sto, nei suoi insegnamenti, il piccolo eil grande non sono mai separabili, siparla sempre del mondo e delle rela-zioni di tutti i suoi frammenti, a partiredall’invisibile, da ciò che non sappia-mo cogliere, perché oberati o “sordi”.È nel 1983, a Bordeaux, in Francia,che nasce “Plum Village”, il monaste-ro e centro di pratica per laici di tuttoil mondo, dove Thây tuttora vive eprosegue il suo impegno che non co-nosce confini.

Un impegno che non conosce confini Thây: un monaco, un maestro, un uomo

di Elisabetta Tosini

Elisabetta Tosini

Thich Nhat Hanh

Thich Nhat Hanh, 87 anni, è tra imaggiori maestri spirituali del nostro

tempo, ma è stato anche unformidabile guerriero della pace

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 46

47

Abraham Yehoshua.Dopo la guerra deisei giorni, non è piùpossibile separare deltutto fisicamente idue popoli. Israelianie palestinesi reste-ranno legati, anchese nascerà uno Statopalestinese ed io ri-tengo che nascerà

con la conseguente creazione di confini politici frai due Stati. Si tratta di un aspetto particolarmentecomplicato… del contenzioso israeliano palestine-se, soprattutto per quel che riguarda l’assetto dellacittà vecchia di Gerusalemme… Ci vorrà molto la-voro, molta saggezza, molta intelligenza… e vo-lontà. Proviamo a immaginare Roma e Parigi nellastessa via… David Meghnagi. Qualcosa di più che Roma e Pa-rigi insieme, nel senso che il confine, in questopaese, è come se passasse per il quartiere latino. Èfacile dare consigli, quando il confine non passaper “Notre Dame” e “Chatelet”, “Piazza di Spagnae Via del Corso, quando insieme lo Stato ebraico eil futuro Stato palestinese, sono grandi quanto laSicilia, la distanza che separa il Mar Mediterraneodal fiume Giordano è di poche decine di chilome-tri, il territorio su cui dovrà nascere lo stato pale-stinese è grande quanto la provincia di Viterbo, isobborghi orientali di Tel Aviv, si affacciano suiconfini…A.Y. … È la sfida di questo luogo, una grande sfi-da… Se avrà successo sarà un evento grandioso.Se non avrà successo, sarà un disastro per tutti. D.M. Mi hai detto prima che l’argomento ha ispi-rato un tuo nuovo libro sui rapporti tra Occidente eOriente…A.Y. … Siamo in un luogo d’incontro non romanticoalla Lorenz o di tipo orientalistico, ma di sostanza: un“super Occidente” e Oriente, con tutti i suoi proble-mi. Abbiamo da un lato l’occidente più autentico,scienza, democrazia, corte suprema, liberalismo,giornali liberi, high tech, tutto ciò il super occidente,abbiamo una Silycon Valley come a Los Angeles inCalifornia, super con formazione d’internet. Sottoquest’aspetto Israele è un paese occidentale. Allostesso tempo abbiamo il partito Shas, gli ebrei orien-tali con i loro problemi… D.M. Anche un “super oriente”, il mondo arabo conla sua cultura e la sua storia, gli ebrei di origine orien-tali all’interno di una società di tipo occidentale…

A.Y. Certo anche un“super oriente”. L’o-riente arabo, palesti-nese, il mondo arabo,cui si unisce il nostrooriente, l’oriente cheviene dal popoloebraico. C’è un occi-dente per eccellenza,dal punto di vistadell’assetto democra-tico, del sistema giuridico, del liberalismo, delviaggiare e dell’edonismo. D’altro canto qui c’è unoriente arabo con i suoi grandi problemi, che nonha sperimentato sino in fondo liberalismo e demo-crazia. La civiltà araba tuttora fatica a integrare iprincipi della democrazia. Occidente e Oriente quis’incontrano… I popoli europei che si affaccianosul Mediterraneo, devono aiutarci affinché que-st’esperimento non fallisca. Se l’esperimento fal-lisse, sarebbe una catastrofe. Ne va del futuro stes-so delle civiltà mediterranee che sono frutto d’in-contri di questo genere. Per loro è importante chequest’incontro si realizzi. Dovete aiutare gli arabie noi, perché una tale prospettiva si affermi.

Il brano riprodotto è la parte conclusiva di una lun-ga conversazione con Abraham Yehoshua nell’ago-sto del 2000 per un documentario su Gerusalemmerealizzato con Claudia Hassan (Gerusalemme cittàdi specchi: la città santa; la città contesa, AbrahamYehoshua e Gerusalemme, Rai Sat). Con Yehoshua girai in lungo e in largo la sua cittànatale. Insieme sostammo nei luoghi della sua in-fanzia, dove mezzo secolo prima sorgeva un alberosotto il quale lo scrittore passava ore in cerca d’i-spirazione. Eravamo passati per la casa in cui ave-va abitato da ragazzo. Lì vicino sorgeva una tipo-grafia di Reuven Massi, un editore che aveva persoil figlio nella guerra del 1948-49. Il fatto che Ye-hoshua ricordi la morte di quel giovane, che avevaconosciuto e con cui aveva forse giocato, ha un va-lore di richiamo che non può essere eluso. Con Yehoshua avevo sostato nelle vie in cui aveva-no vissuto Martin Buber, Scholem e Agnon. Osser-vando dalle colline circostanti, la città nuova equella vecchia. Girando per le strette viuzze dellacittà vecchia, solcate millenni orsono dai profeti as-setati di giustizia, che hanno contribuito a rivolu-zionare la morale e l’etica del mondo intero. A Ge-rusalemme le pietre hanno un cuore che palpita echiede ascolto.

David Meghnagi /Abraham Yehoshua: dialoghi,

agosto 2000

Abraham Yehoshua David Meghnagi

roma3news_n3_2012_STAMPA_roma_3_news_03_09.qxd 05/03/13 16:26 Pagina 47

48L’infanzia di Yehoshua si era svolta a Gerusalemmein un mondo piccolo e accerchiato da un mare ara-bo ostile. Il padre parlava perfettamente l’arabo,una lingua che lo scrittore ha cominciato a scopriremolto dopo, introducendo delle parole nei suoi ro-manzi. La mia infanzia si era svolta dentro quelmare, in un paese arabo, la Libia, che ho definitiva-mente abbandonato dopo un sanguinoso pogromnel giugno 1967. Il terzo in ventidue anni. Primac’erano state le persecuzioni fasciste, le deportazio-ni nel campo di Giado per le popolazioni ebraichedella Cirenaica, dove in molti morirono. L’arabo loparlavo quotidianamente per strada e in casa insie-me all’italiano e al dialetto ebraico tripolino. Di-pendeva dall’età delle persone e dalla loro apparte-nenza culturale e religiosa. Per strada e a scuola,Israele non poteva essere nominato. Il suo nome eracancellato dalle carte geografiche e la burocraziaspendeva molte ore della sua giornata lavorativaper purgare i giornali stranieri di ogni riferimentoallo Stato ebraico. I giornali esteri arrivavano alpubblico con le pagine tagliate dalla censura. Lapagine mancanti ci ricordavano quel che ci sarebbepotuto accadere se gli equilibri precari su cui pog-giava la nostra sicurezza fisica fossero venuti me-no. Conoscevo l’ebraico biblico e l’aramaico anticoper averli studiati e questo mi permetteva di viag-giare attraverso le lingue semite ed europee. Ilviaggio attraverso lingue diverse era per me un’oasidi libertà. Le differenze di cultura e di appartenenzanon erano una barriera, ma un’opportunità.Con Yehoshua mi ero visto per la prima volta, moltianni prima a Buenos Aires, a un congresso di psi-coanalisi, dove avevo tenuto una sessione sullenuove forme di antisemitismo. Due anni dopo ilnostro incontro a Gerusalemme, lo scrittore è statoospite di Roma Tre, dove ha fatto lezione per unmese intero. Per il nostro Ateneo fu un’esperienza

indimenticabile. I temi che avevo concordato, ave-vano una grande valenza etica e politica, nessunodei problemi era stato evitato: l’immagine dell’ara-bo e le sue trasformazioni nella letteratura israelia-na; le ragioni e i torti; l’angoscia quotidiana e l’in-sicurezza prodotta dal terrorismo sulla vita degliisraeliani; il dramma dei profughi palestinesi, cuiper decenni gli Stati arabi impedirono di ricostruirsiuna vita per trasformarli in uno strumento di guerrapermanente contro Israele; la fuga in massa degliebrei dai paesi arabi; la questione di Gerusalemme;la ricerca di un compromesso politico; il ruolodell’Europa nella regione; il pericolo del fonda-mentalismo e del terrorismo islamici; l’antisemiti-smo più antico e quello più recente; la necessità ditenere viva la speranza in un futuro diverso.La domanda che ci eravamo posti e che avremmovoluto approfondire con la comunità scientifica diRoma Tre, era come tutti questi problemi appariva-no riflessi nell’arte e nella letteratura. La scelta della letteratura come strumento di me-diazione aveva una valenza terapeutica, di dram-matizzazione e di abreazione. Obbligava a ripensa-re i luoghi comuni in cui è avvolto il dibattito sulVicino Oriente, per non parlare delle derive antise-mite che mettono in discussione il diritto all’esi-stenza di Israele. Non era in discussione il dirittoalla critica, che è il sale della democrazia. Ma imodi in cui era, in molti casi, formulata, le equa-zioni simboliche sottese ed esplicite. Indugiare su un testo letterario o su una poesia, ob-bligava a pensare. Il concentrarsi sul come appari-vano riflessi nella letteratura, i drammi della regio-ne mediorientale, le angosce e le paure delle perso-ne singole, era un atto di libertà e di responsabilitàcondivise. Obbligava a pensare prima di interveni-re, a curare le proprie parole malate, come si cura-no le persone quando non stanno bene.

Gerusalemme

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 48

Il CERN è il più grosso laboratorio al mondo per la fi-sica delle particelle, è un centro di eccellenza in cui dacinquant’anni a questa parte si fa ricerca fondamentalecoronata da molte scoperte e da premi Nobel (anche afisici italiani, come Carlo Rubbia nel 1984). È un cen-tro in cui gli obiettivi scientifici richiedono lo sviluppodi tecnologie innovative di punta in molti campi, tec-nologie che vengono poi trasferite alla società a van-taggio della vita di tutti i giorni. Un esempio famosis-simo è il Web, che fu introdotto all’inizio degli anniNovanta al CERN per facilitare lo scambio di infor-mazioni fra i fisici coinvolti negli esperimenti e che daallora ha cambiato il modo in cui la società accede alleinformazioni. Il CERN è anche un posto in cui si for-mano i giovani, gli scienziati di domani ma anche stu-denti di scuole superiori, attraverso un grande numerodi iniziative. Ed è un posto molto speciale per unire ipopoli attraverso la collaborazione di più di 10.000scienziati che vengono da circa 60 paesi di tutto ilmondo.(…) La fisica delle particelle agli acceleratori, in particola-re all’acceleratore più potente che abbiamo oggi,l’LHC, ci permette di studiare, scrutare e sondare lamateria a livello dei quark, quindi su scale di un mi-liardesimo di miliardesimo di metro. E questo studiodell’“infinitamente piccolo” ci permette anche di capi-re “l’infinitamente grande”, cioè la struttura e l’evolu-zione dell’universo. L’universo ebbe origine 14 miliar-di di anni fa da un grande scoppio iniziale, il cosiddet-to Big Bang, e all’inizio era governato dalle leggi del-la fisica delle particelle elementari. Quindi lo studio inlaboratorio delle particelle e delle loro interazioni cipermette di riprodurre le condizioni iniziali dell’uni-verso. Col tempo poi l’universo si è espanso e raffred-dato e le macrostrutture (stelle, galassie) si sono for-mate dando luogo all’universo che conosciamo oggi.(…)L’acceleratore più potente, i rivelatori più sofisticati ele strutture di calcolo più avanzate in fisica delle parti-celle sono stati concepiti, sviluppati, costruiti e sonoora in operazione nell’ambito del progetto LHC. Que-st’ultimo è senz’altro uno dei progetti scientifici piùambiziosi di tutti i tempi. Ha richiesto l’introduzionedi concetti nuovi e tecnologie di punta in molti campi,dalla criogenia, alle tecniche di vuoto, ai materiali su-perconduttori, all’elettronica etc. e vent’anni di sforzidella comunità scientifica internazionale.Che cosa è l’LHC? È un tunnel sotterraneo a forma dianello di circonferenza 27 chilometri situato nellacampagna tra la Svizzera e la Francia. L’LHC è loca-lizzato 100 metri sotto terra. Il sito principale delCERN sorge vicino l’aeroporto di Ginevra. Due fasci

di protoni vengono fatti circolare in senso opposto inquesto anello, sono accelerati fino a velocità prossimaa quella della luce e poi vengono portati in collisionein quattro punti dove, in quattro enormi caverne sot-terranee, sono stati installati quattro grossi apparatisperimentali che registrano i prodotti delle collisioni.Si chiamano ATLAS, CMS, LHCB e ALICE. ATLASe CMS sono i più grossi e sono quelli che hanno por-tato alla scoperta del bosone di Higgs; in particolare ilgruppo di Roma Tre partecipa all’esperimento AT-LAS.(…)L’LHC ha cominciato a operare nel marzo del 2010,quando l’acceleratore ha prodotto le prime collisioni difasci di protoni ad energie senza precedenti (…). Da al-lora l’acceleratore e gli esperimenti hanno funzionatoin maniera eccellente e al di là delle previsioni più otti-mistiche, nonostante la complessità senza precedenti diquesti strumenti. Abbiamo registrato un gran numerodi dati, abbiamo “riscoperto” tutte le particelle del Mo-dello Standard che già conoscevamo e ne abbiamo mi-surato le proprietà e le forze in un nuovo regime dienergia. Abbiamo anche cercato nuove particelle e fe-nomeni nuovi, non abbiamo trovato nulla finora al di làdi quanto previsto dal Modello Standard, e abbiamoquindi potuto eliminare alcune teorie di nuova fisica lecui previsioni non sono state osservate. E, soprattutto,nel luglio di quest’anno, gli esperimenti ATLAS eCMS hanno annunciato la scoperta di una particellache ha tutte le caratteristiche del bosone di Higgs, unaparticella pesante, con massa circa 130 volte quella delprotone. Qual è l’importanza di questa scoperta? Fino al 4 luglio scorso non conoscevamo l’origine del-le masse delle particelle elementari, cioè perché il fo-tone non ha massa ed è pura energia, mentre le parti-celle W e Z hanno una massa pari a 100 volte quelladel protone; perché la particella elementare più massi-va scoperta finora, il quark top, ha una massa simile aquella di un atomo d’oro, mentre l’elettrone ha unamassa circa 350.000 volte più piccola. Nel ModelloStandard, le particelle elementari acquistano massagrazie ad un meccanismo che fu introdotto nel 1964da alcuni fisici, fra cui Peter Higgs. Al momento del Big Bang, circa 14 miliardi di annifa, le particelle non avevano massa, erano tutte puraenergia e si muovevano nell’universo alla velocità del-la luce. L’universo era permeato da una specie di “ete-re”, il campo di Higgs, che c’era ma era come se nonci fosse, perché le particelle non lo vedevano. Ad uncerto punto, quando la temperatura dell’universo èscesa sotto un certo valore e questo è successo un cen-tesimo di miliardesimo di secondo dopo il Big Bang,il campo di Higgs è per così dire entrato in funzione

Il bosone di Higgs e la nostra vitaStralci della prolusione tenuta da Fabiola Gianotti, ricercatrice presso il CERN di Ginevrae coordinatrice dell’esperimento ATLAS, in occasione della cerimonia di inaugurazionedell’Anno Accademico 2012-2013

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 49

50 (…) passando da uno stato di etere innocuo ad uno sta-to più consistente, immaginatevi una specie di “melas-sa”. A quel punto le particelle che prima di allora se neandavano in giro nell’etere alla velocità della luce,tranquille e indisturbate, hanno cominciato a sentire lapresenza di questo nuovo mezzo. Ora immaginate chele particelle siano come piccole biglie, alcune perfetta-mente lisce altre più rugose. Le particelle lisce conti-nuano a passare attraverso la melassa senza accorger-sene, quelle più rugose appiccicano la melassa, si in-grossano e vengono rallentate. Hanno acquistato unamassa. Questo è, in parole povere e scientificamentenon rigorose, il meccanismo di Higgs. Le particelle ac-quistano massa attraverso l’interazione con il campo diHiggs: più forte è l’interazione, più massive sono leparticelle. L’idea è geniale e molto elegante; il proble-ma è che una delle conseguenze di questo meccanismoè l’esistenza di un’ulteriore particella, chiamata bosonedi Higgs, che è stata cercata invano per quasi cin-quant’anni anni da acceleratori di tutto il mondo, senzasuccesso, almeno fino al 4 luglio scorso. Apro una pic-cola parentesi. Sono sicura che qualcuno di voi si stiachiedendo perché il bosone di Higgs e le masse delleparticelle siano così importanti. Dopotutto l’impatto diquesti bei concetti sulla vita di tutti i giorni è nullo. Ilproblema è che se le particelle elementari non avesseroesattamente le masse che hanno noi non esisteremmo.Infatti il protone potrebbe decadere, se il protone deca-desse non ci sarebbero gli atomi e gli elementi chimici,noi non saremmo quello che siamo, l’universo non sa-rebbe quello che è. Magari esisterebbe, ma in formacompletamente diversa. Noi siamo quello che siamoperché le particelle elementari hanno esattamente lemasse che hanno. Il problema è che fino al 4 luglio nonsapevamo se il meccanismo che dà origine a questemasse fosse corretto. Oggi sappiamo che lo è.(…) Qual è l’impatto del bosone di Higgs sulla nostra vi-ta? Il bosone di Higgs cambierà la nostra vita?Io credo che il bosone di Higgs abbia già cambiato lanostra vita. Infatti per scoprirlo abbiamo dovuto svi-luppare tec-nologie dipunta in mol-tissimi setto-ri, come hogià accennatoall’inizio, chesono state poitrasferite adaltri campi.(…) Vorrei ri-cordarvi cheal mondo esi-stono 30.000acceleratoridi particelle e17.000 diquesti, quindipiù della me-tà, sono uti-

lizzati per applicazioni in campo medico, per esem-pio per il trattamento dei tumori. Questi acceleratoriusati in medicina sono stati sviluppati su tecnologiesviluppate al CERN o in laboratori simili, con il con-tributo di Istituti come l’INFN e di molte Universitàitaliane e straniere. Un altro esempio: uno degli scan-ner più usati oggi è la cosiddetta PET, Positron Emis-sion Tomography, il cui concetto è basato su stru-mentazione sviluppata al CERN.L’Italia ha dato contributi molto significativi a questeimprese scientifiche e tecnologiche. L’Italia è uno deipaesi fondatori del CERN, in particolare grazie alla vi-sione di Edoardo Amaldi, e conta due fra i DirettoriGenerali del laboratorio, Carlo Rubbia e LucianoMaiani. L’INFN continua una grande tradizione in fi-sica delle particelle e una scuola di altissimo valoreche risale a Enrico Fermi e al gruppo di via Panisper-na. L’INFN ha contribuito alla realizzazione di LHCcon circa 600 fisici, dipendenti dell’Ente o Universita-ri associati, con molte idee e tecnologia, trascinando inquest’avventura anche l’industria italiana.È quindi con grande rincrescimento che assistiamo alleconseguenze nefaste dei tagli alla ricerca di base nel no-stro Paese. Il loro impatto è soprattutto sui giovani e sulloro futuro. L’aumento dilagante del precariato costrin-ge i nostri giovani a emigrare all’estero. Trascorrere unperiodo all’estero è un’esperienza molto arricchente checonsiglierei a tutti. Ma deve esserci la possibilità di tor-nare in Italia per coloro che desiderano fare ricerca nelnostro Paese. Il flusso non deve essere in una sola dire-zione. I tagli alla ricerca fanno scappare i giovani, im-pediscono alle Università e all’INFN di partecipare aprogetti di punta, rendono l’Italia sempre meno attraen-te per (giovani) ricercatori stranieri e di conseguenza ri-schiano di estinguere una Scuola di altissime tradizioni. In Italia le Scuole (con la S maiuscola), dall’arte al-l’artigianato alla ricerca scientifica, sono importan-tissime per il prestigio e il successo (anche economi-co) del nostro Paese. Le nostre Scuole si basano suun patrimonio storico di grandi tradizioni e si tra-mandano e rinnovano di generazione in generazione

attraversol’insegna-mento di“ g r a n d imaestri” el’esistenzadi un am-biente riccoe stimolan-te. In que-sto conte-sto, perdereanche unasola gene-razione dig i o v a n ipuò portarea conse-guenze ir-reparabili. Fabiola Gianotti all’inaugurazione dell’Anno Accademico 2012-2013. Foto di Fabrizio Loiacono ©

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 50

51

Cito dal giuramento di Ippocrate: «Consapevoledell’importanza e della solennità dell’atto checompio e dell’impegno che assumo, giuro: di eser-citare la medicina in libertà e indipendenza digiudizio e di comportamento rifuggendo da ogniindebito condizionamento; (…) di curare ogni pa-ziente con eguale scrupolo e impegno, prescinden-do da etnia, religione, nazionalità, condizione so-ciale e ideologia politica e promuovendo l’elimina-zione di ogni forma di discriminazione in camposanitario». Esercitare la professione medica in unluogo di conflitto o in qualche modo di frontiera èpiù difficile che in un ospedale europeo? Implicadi mettere in campo più profondamente i principidella deontologia professionale?Lavorare in contesti di guerra è senza dubbio piùcomplesso per tanti motivi, a partire ovviamente dal-la scarsità di risorse: qui possono capitare situazioniin cui per ogni paziente hai cinque medici, speciali-sti, pronti a prendersi cura di tutti gli aspetti; là inve-ce ti trovi in frangenti in cui un solo medico deveprendersi cura di cinquanta pazienti. Oltre a questoovviamente in una zona di guerra lavorare sulla base

dei principi di neutralità e indipendenza è fondamen-tale sia per poter assistere al meglio tutti quanti, siaper garantire la sicurezza dei medici stessi. Perchénel momento in cui sei percepito, o rischi di esserepercepito, come una delle parti in conflitto o comequalcuno che sostiene una delle parti in conflitto,chiaramente rischi di diventare anche tu un bersaglio.A questo bisogna stare particolarmente attenti. Per quanto riguarda Emergency ci fu un episodio chemi colpì con forza nel 2010, quando avemmo un pro-blema con le forze di sicurezza afghane e le truppedell’ISAF (International Security Assistance Force,missione di supporto al governo dell’Afghanistanche opera sulla base di una risoluzione dell’ONU,NdR) entrarono nel nostro ospedale, trattenendo al-cuni nostri colleghi per otto giorni con delle accuseridicole, prima di rilasciarli con tante scuse. In Italiasi scatenò un dibattito in cui c’era chi si stupiva cheEmergency in Afghanistan curasse anche i talebani.In una trasmissione radiofonica mi si rinfacciò, pro-vocatoriamente, che noi avremmo curato anche le SSnel 1944. E ovviamente è così. Noi avremmo curatoassolutamente tutti. I nostri medici si comportano in

La curaIntervista a Cecilia Strada, presidente di Emergency

di Federica Martellini

inco

ntri

Cecilia Strada è laureata in Sociologia con una tesi antropologica sulle don-ne afghane.Per quindici anni è stata volontaria di Emergency, l'associazione umanitariaitaliana, fondata nel 1994 da Gino Strada, Teresa Sarti e Carlo Garbagnati.Per due anni ha lavorato nell'ufficio che si occupa delle missioni estere diEmergency, e dal 2009 ne è presidente. È stata, per l'ONG, in Afghanistan,Cambogia, Iraq, Sudan, Sierra Leone e Palestina.Obiettivi di Emergency sono offrire cure mediche e chirurgiche gratuite e dialta qualità alle vittime della guerra e della povertà e promuovere una cultu-ra di pace, solidarietà e rispetto dei diritti umani. Dal 2006 Emergency èpartner ufficiale del Dipartimento della Pubblica informazione dell'ONU.

Il centro "Salam" di cardiochirurgia gestito da Emergency a Karthum, in Sudan. Il centro occupa un'area di 12 mila metri quadri coperti,su un lotto di terreno di circa 40 mila metri quadri sulle rive del Nilo azzurro

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 51

52 Afghanistan esattamentenello stesso modo in cuisi comportano nei propripaesi di origine. In Italiapuò succedere che, adesempio, un boss mafiosovenga ricoverato in ospe-dale e nessuno si sogne-rebbe mai di negargli lecure. È chiaro che la giu-stizia fa il suo corso e imagistrati fanno il lorodovere ma il dovere delmedico non è certo quellodi fare il giudice, e tanto-meno il boia. Quando pe-rò si parla di un altro pae-se questo principio base,che sta nel giuramento diIppocrate ma anche nellaconvenzione di Ginevra,nel diritto internazionalee nelle leggi dell’umanitàe del buon senso, di colposcompare e si muovonoaccuse per il fatto di avercurato anche i nemici,ignorando il fatto che i medici non sono nemici dinessuno. Fino a qualche decennio fa c’erano i corrispon-denti di guerra. Oggi leggiamo i loro reportagecome documenti storici, che ci raccontano la sto-ria attraverso le storie che hanno incontrato. Al-cuni sono diventati degli straordinari testimoni dipace, penso a Tiziano Terzani ad esempio. Nelpresente invece mi pare che più che i giornalistisiano proprio i medici e il personale sanitario cheoperano nelle zone di conflitto ad essere i testimo-ni più efficaci di vicende che, proprio perché vistetroppo a lungo in televisione, spesso non ottengo-no più l’attenzione, e nemmeno la commozione, dichi le guarda da lontano. Che guerre vedete? Chestorie incrociate nel vostro lavoro? Effettivamente noi siamo nati nel 1994 con, da subi-to, una forte vocazione alla testimonianza. Soprattut-to negli ultimi anni poi c’è il problema di intere aereedi conflitto che vengono completamente ignorate daimedia oppure in cui i giornalisti non riescono ad arri-vare per ragioni di sicurezza. A questo si collega ilfenomeno dei giornalisti embedded, che viaggiano alseguito delle truppe e che a loro volta determinanouna ancora più forte insicurezza per i giornalisti freelance, perché chiaramente, quando nelle zone di con-flitto i giornalisti cominciano ad essere percepiti co-me quelli che stanno insieme all’esercito, diventa ri-schioso per tutti. Noi per tanti anni, dal 2003 al luglio dell’anno scorsoabbiamo avuto anche un quotidiano on line che si oc-cupava proprio di questo: di raccontare le storie dallaparte delle vittime. Purtroppo lo abbiamo dovutochiudere per motivi economici. E ci manca questo

fatto di non poter rac-contare di più le storieche incontriamo, che so-no storie devastanti, per-ché ogni ragazzino chesalta su una mina o chesi trova sotto un bombar-damento o che viene co-involto in un attentato èuna storia devastante,ma che sono anche storiebelle: penso ad esempioa tutte le nostre collegheafghane che lavoranocon noi, che hanno rice-vuto formazione, un la-voro e che adesso sonodiventate ostetriche o in-fermiere. Sono storie didonne e di famiglie checi credono e che ce lafanno a costruire una vi-ta diversa per sé e per leproprie figlie. Ecco an-che nelle zone di guerraci possono essere storiecosì. E d’altro canto noi

vediamo storie di conflitto tutti i giorni, anche in Ita-lia: vediamo e curiamo migranti regolari o irregolariche lavorano come schiavi nell’agricoltura, in condi-zioni di lavoro che io pensavo esistessero ormai sola-mente nei film degli anni Cinquanta, situazioni al li-mite della sopravvivenza, in cui i diritti sono negaticostantemente.

Un’altra guerra nella quale cerchiamo di stare dallaparte delle vittime è quella contro i poveri: noi adesempio incontriamo sempre più cittadini italiani checi chiedono una mano per pagare il ticket.A questo proposito in Italia Emergency gestiscedei poliambulatori in Sicilia e in Veneto e da pocoanche degli ambulatori itineranti. Che valore haquesto tipo di servizio in un paese dove il dirittoalla salute è o dovrebbe essere garantito a tuttigratuitamente? Pensi che il vostro possa essere in

In una trasmissione radiofonica mi sirinfacciò, provocatoriamente, che noiavremmo curato anche le SS nel 1944.

E ovviamente è così. Noi avremmocurato assolutamente tutti. I nostri

medici si comportano in Afghanistanesattamente nello stesso modo in cui sicomportano nei propri paesi di origine.

La giustizia fa il suo corso e imagistrati fanno il loro dovere ma il

dovere del medico non è certo quello difare il giudice

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 52

53

qualche modo un model-lo anche per la sanitàpubblica?L’articolo 32 della nostracarta costituzionale preve-de che la salute debba es-sere tutelata e che la Re-pubblica debba garantirecure gratuite agli indigenti,però poi di fatto ci sonodei grandi buchi neri. Cisono tantissime personeche per una serie di motivinon riescono ad accederealle cure gratuite. A voltesi tratta della mancanza diconoscenza dei propri diritti oppure, pensando aglistranieri, di problemi linguistici e di mediazione cul-turale oppure di problemi logistici e pratici. Quelliche lavorano nelle campagne, lontani dalle città, siritrovano di fatto ad essere ostaggi del caporalato, inposti in cui non ci sono mezzi di trasporto pubblici.Arrivare all’ambulatorio del medico della mutua, chemagari chiude alle 4 del pomeriggio, in questi casidiventa quasi impossibile. Ecco gli stranieri hannostorie di questo genere. Poi ci sono gli italiani: se-condo il Censis 9 milioni di italiani non si sono potu-ti permettere il ticket lo scorso anno. Alcuni hannoproblemi a pagare il rimborso dei materiali che vienerichiesto anche agli esenti per reddito. Altri hannoproblemi di liste di attesa: noi l’anno scorso ci siamotrovati a fare ecografie morfologiche a ragazze italia-ne, a Palermo, perché c’erano liste di attesa di mesi equesto invece è un esame che va fatto in un momentoben preciso.

Quindi voi collaborate anche con la sanità pubbli-ca?Assolutamente sì. L’idea del programma Italia è esat-tamente questa: non di sostituirsi ma di sostenere lasanità pubblica, ad esempio facendo orientamentosociosanitario, spiegando a tutti quelli che ne hannodiritto come si fa ad entrare nel sistema sanitario na-zionale e accompagnandoli nel percorso di cura, aiu-tandoli a prenotare gli esami. In questi casi si trattadi un meccanismo di aiuto all’inserimento nel pub-blico. Per tutti gli altri invece, penso ad esempio agliirregolari, si tratta di curarli. Loro nel pubblico nonpossono entrare perché hanno paura.Dal 2007 Emergency gestisce un centro di cardio-chirurgia in Sudan, una struttura altamente spe-cializzata che rappresenta un caso raro, credo, nelcontinente africano. Da molte parti si è criticataquesta vostra scelta sostenendo la tesi che in paesidove mancano le cure mediche di base avrebbepoco senso una struttura di questo tipo. Ce ne po-tresti spiegare le ragioni?Innanzitutto vorrei dire che la cardiochirurgia per noinon è un’alternativa alle cure di base ma è un passo

ulteriore. Noi abbiamocentri pediatrici in SierraLeone, nel campo profughidi Mayo in Sudan e nellaRepubblica centrafricana.Le cure di base e la pedia-tria già la facciamo. Con lacardiochirurgia abbiamodeciso di fare un passo inpiù che ha due motivazio-ni. La prima è clinica: nonlo diciamo noi ma l’Orga-nizzazione mondiale dellasanità, ci sono 18 milionidi persone in Africa affetteda febbre reumatica, questi

sono la maggior parte dei casi che curiamo. Sonopersone giovani. Ci sono circa 300 mila morti all’an-no per patologie da febbre reumatica e non ci sonostrutture gratuite e personale formato per risponderea questi bisogni, proprio perché ci si è concentrati fi-no ad oggi su altre cose: sulla diarrea, sulla malaria,sull’HIV, le patologie dei paesi poveri, che ci sonoovviamente, ma che non esauriscono le patologiepresenti in Africa. Non è che in Africa non si muoiadi tumore o di malattie cardiovascolari. E questo mi porta alla seconda motivazione, che è ditipo culturale. Noi prendiamo molto sul serio il fattoche i diritti devono essere di tutti, altrimenti non so-no più diritti ma diventano privilegi e quindi non ca-piamo perché i progressi della scienza medica, adesempio nelle terapie antitumorali o nella cardiochi-rurgia, debbano essere disponibili in Africa soltantoper chi è molto ricco e può permettersi di andare inun centro privato in Nigeria, dove ti chiedono 20 mi-la dollari per un intervento, oppure di farsi curare neimigliori centri in Europa o in America. Se mio figlioche ha tre anni avesse bisogno di un intervento car-diaco, io vorrei che avesse la possibilità di averlo.Non mi accontenterei di un medico che mi dice chepuò curargli soltanto la malaria e che devo arrender-mi al fatto che morirà. Nessuno di noi lo accettereb-be e allora perché dovrebbe accettarlo una madreafricana? Per noi quindi l’aver portato la cardiochi-rurgia in Africa è un segnale culturale molto forte.Abbiamo invitato i ministri della salute di tanti statiafricani: molti rimangono stupiti del fatto che anchein Africa si possa fare. Il nostro messaggio è che nonsolo si può fare, di più: si deve fare. Bisogna portare,ovunque sia possibile, l’eccellenza medica ed esatta-mente lo stesso tipo di terapie che vorremmo per inostri figli se ne avessero bisogno. Altrimenti stiamofacendo solo della carità.Oltre a questo c’è l’aspetto della formazione, che èmolto importante: poter portare della formazionespecializzata in Africa, significa lasciare risorse sulterritorio e aiutare ad arginare la fuga dei cervelli.Leggevo qualcosa sul fatto che ci sono più medicisierraleonesi a Birmingham che in tutta la SierraLeone: chi ha la possibilità di studiare all’estero poinon torna più. Perché un medico specializzato che ha

I medici non sono nemici di nessuno

Centro chirurgico per vittime di guerra a Lashkar-Gah, inAfghanistan

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 53

54 studiato in Inghilterra poi dovrebbe tornare nel pro-prio Paese e lavorare in un dispensario col pavimentodi terra battuta distribuendo antibiotici in scadenza?Per questo creare delle strutture che siano in grado difare alta formazione del personale nazionale, nei pae-si di origine, e poi dargli la possibilità di lavorare lì,significa coltivare delle risorse per il futuro.

Proprio una storia legata al centro Salam di Kar-thum è stata raccontata in un documentario di KiefDavidson, Open Heart, coprodotto dell’emittente te-levisiva franco-tedesca ARTE. Open Heart è statonominato qualche giorno fa per gli 85esimi Aca-demy Awards. Ci parli della storia che racconta?È una cosa che ci ha fatto molto piacere. Questo re-gista, che noi non conoscevamo, stava girando per ilRwanda dove ha incontrato questi otto bambini chestavano intraprendendo un viaggio verso il nostrocentro in Sudan per essere operati. Si è appassionatoalla storia, ci ha contattato dicendo che avrebbe volu-to mettere anche il nostro ospedale nel documentario.Alla fine il documentario è diventato il racconto diquesta storia, che è la storia di otto ragazzini, le cuifamiglie non avevano più speranza perché, come

troppe famiglie in Africa, si erano arrese al fatto checon una patologia cardiaca sei destinato a morire,perché non ci sono strutture che ti accolgono gratis.Poi hanno trovato noi e sono stati operati presso ilcentro. È incredibile vedere come un bambino rifiori-sca dopo un intervento di questo tipo. Sono sempredei pazienti estremamente complessi, perché spessoalla patologia si aggiunge la malnutrizione e a voltela malaria. Operiamo bambini di otto anni che pesa-no 11 chili. Questa è la norma. A due settimane dal-l’intervento alcuni sono irriconoscibili, completa-mente trasformati perché ricominciano a mangiare, acrescere.

A chi obietta che con quello che costa un interventodi cardiochirurgia si potrebbero curare tanti bambiniammalati di malaria, io dico che è giusto farsi delledomande, sono obiezioni che comprendo. Non seguomolto però chi comincia a parlare di costo-pazienteperché associare un costo alla vita delle persone perme è una china sbagliata. Perché allora si potrebbedire anche che un intervento di chirurgia di guerra suun bambino che è saltato su una mina costa di piùche non curare una polmonite. Ma allora cosa do-vremmo fare lasciar morire lui perché allo stesso co-sto si possono curare dieci polmoniti? No, si cura chiha bisogno, per il motivo per cui ne ha bisogno equando ne ha bisogno.Prima o poi mi piacerebbe avere i nostri critici, quelliin buona fede, in visita al nostro centro Salam a ve-dere qualcuno di questi ragazzini che poi ricominciaa correre e a giocare nel giardino dell’ospedale. Eccoquesto forse, più di mille parole mie, dà il senso delperché questo progetto si deve fare.

Uno degli ambulatori mobili di Emergency che prestano servizio per periodi definiti in aree a forte presenza di migranti, come le areeagricole, i campi nomadi o i campi profughi

Nelle zone di guerra si possonoincontrare anche storie belle: penso ad

esempio a tutte le nostre collegheafghane, che hanno ricevuto

formazione, un lavoro e che adessosono diventate ostetriche o infermiere.Sono storie di donne e di famiglie che

ci credono e che ce la fanno a costruireuna vita diversa per sé e per le proprie

figlie

I diritti devono essere di tutti,altrimenti non sono più diritti ma

diventano privilegi

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 54

55

Il nuovo anno si è aperto con i dati allarmanti sulconflitto siriano, forniti dall’Alto Commissariatodell’Onu per i diritti umani: 60.000 morti dal 15marzo 2011 ad oggi. Dalle pagine del blog di Am-nesty International e del Corriere della Sera, cu-rato da lei e dalla giornalista Monica Ricci Sar-gentini, viene lanciato l’allarme per innalzare il li-vello di attenzione dei media e dell’Occidente neiconfronti di questa drammatica guerra. Ci spiegale cause del conflitto e dell’apparente indifferenzadella politica internazionale? La rivolta della Siria ha un’origine analoga a quelladelle rivolte che all’inizio del 2011 hanno accesoquella parte di mondo che corrisponde all’Africa delNord e al Medioriente. Una rivolta che aveva comeparole d’ordine giustizia, fine della corruzione e finedella repressione e che si è sviluppata in larga parte eper molto tempo in forma pacifica, fino a quando,reagendo alla violenta risposta delle autorità gover-native, i protagonisti della rivolta hanno smesso dioffrire fiori ai soldati. Oggi ci troviamo di fronte auna situazione molto complessa e l’avvitarsi dellacrisi spiega solo in parte l’indifferenza della politicainternazionale. Alla base c’è una profonda divisioneall’interno del Consiglio di sicurezza, un’importanteresponsabilità della Russia e in secondo luogo dellaCina nell’aver impedito soluzioni possibili in tempiutili. In realtà le speranze di una composizione paci-fica di questo conflitto sono nulle, se non altro per-ché un’ipotesi negoziale presupporrebbe una volontàpolitica da entrambe le parti che oggi manca del tut-to. Peraltro bisogna pur ammettere che, in misura di-versa, le due parti dovrebbero stare di fronte a ungiudice internazionale piuttosto che sedere a un tavo-lo negoziale per la pace. L’Italia come si sta ponendo di fronte a questatragedia?L’Italia segue gli orientamenti della politica comunedell’UE e quindi ha dato alcuni segnali: dal riconosci-mento dell’opposizione alla dichiarazione di personanon grata nei confronti dell’ambasciatore della Cinain Italia. Per il resto ha la sua parte di responsabilitànell’aver lasciato incancrenire questa situazione.

Amnesty ha accolto con molta speranza il voto del20 dicembre 2012 dell’Assemblea generale delleNazioni Unite che ha approvato, con un’ampiamaggioranza, la risoluzione per una moratoriasull’uso della pena di morte. L’«obiettivo abolizio-nista» è davvero così vicino? Sì, oggi considero la pena di morte un’emergenza deidiritti umani molto circoscritta. La domanda vera in-fatti non è se verrà abolita ma quando verrà abolita.Se non arriveremo presto all’abolizione definitiva eformale, assisteremo di certo alla riduzione del feno-meno a una manciata di stati, come la Cina, l’Iran,l’Iraq, l’Arabia Saudita, che ancora per lungo temposi ostineranno a utilizzare la pena di morte.

Le posizioni dell’America non sono confortanti daquesto punto di vista: vede qualche margine dicambiamento per il futuro? Persino negli Stati Uniti ci sono segnali importanti diun ripensamento generale sull’uso della pena di mor-te: pur rimanendo costante il numero delle esecuzio-ni, che nel 2012 sono state 43 così come nel 2011, èaumentato il numero dei singoli stati abolizionisti, daquando anche il Connetticut si è pronunciato in talsenso; stanno diminuendo le condanne a morte inflit-

Le emergenze dei diritti umaniIntervista a Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia

di Valentina Cavalletti

La rivolta della Siria ha un’origineanaloga a quella delle rivolte cheall’inizio del 2011 hanno acceso

l’Africa del Nord e il Medioriente. Unarivolta che aveva come parole d’ordine

giustizia, fine della corruzione e finedella repressione e che si è sviluppatain larga parte e per molto tempo in

forma pacifica, fino a quando,reagendo alla violenta risposta delleautorità governative, i protagonistidella rivolta hanno smesso di offrire

fiori ai soldati

Riccardo Noury, 49 anni, fa parte di Amnesty International dal 1980. Autore o coau-tore di numerose pubblicazioni sui diritti umani, è attualmente portavoce e direttoredella comunicazione dell’associazione per l’Italia. Ha curato l’edizione italiana diPoesie da Guantánamo. La parola ai detenuti (EGA, 2008) che raccoglie 22 poesiescritte da 17 uomini tenuti prigionieri in isolamento e senza processo per anni nelcentro di detenzione degli Stati Uniti di Guantánamo. Cura due blog sui diritti umanisu Il fatto quotidiano.it e su Corriere della Sera.it.

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 55

56 te, cosa che com-porterà una forte,corrispondente,diminuzione del-le esecuzioni;l’opinione pub-blica mostra diessere disponibi-le a prendere inconsiderazionepene alternativerispetto alla con-danna a morte eparallelamente siriduce il consen-so verso la penacapitale, pur es-sendo sempre maggioritario. L’ultimo sondaggio del-la Gallup dà i favorevoli al 63%, una maggioranzache abbiamo persino in Paesi dove la pena di mortenon è prevista. Tuttavia, visto che la pena di mortesignifica vite umane che perdiamo, visto che si trattadi omicidi di stato, visto che ogni esecuzione è san-gue che si pone tra noi e questo traguardo, il livellodi guardia non si deve assolutamente abbassare.Lei ha curato la pubblicazione italiana delle poe-sie dei detenuti di Guantanamo. Come si può par-lare di giustizia in un sistema dove non ci sono ga-ranzie per chi sbaglia? Dopo la sentenza dell’8gennaio, con cui la Corte europea dei diritti del-l’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia pertrattamento inumano e degradante di 7 carceratidetenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello diPiacenza, non si può più fare a meno di guardarecon preoccupazione alla situazione delle carceri inItalia. Quali sono le questioni più urgenti da af-frontare per il nostro sistema carcerario? Collegando il tema della giustizia alla pena di morte,noi sappiamo che l’infallibilità non fa parte di questomondo, soprattutto nei giudizi. Lasciare pertantoquesto potere così assoluto di vita e di morte nellemani di una giustizia che di per sé è fallibile e che inalcuni paesi è arbitraria e completamente sfuggente aogni standard internazionale sui processi equi è unerrore grave. Questo è uno dei motivi, tra gli altri,per cui siamo per l’abolizione della pena di morte.Tornando a Guantanamo, oggi è l’undicesimo anni-versario della sua apertura: dentro ci sono ancora 166detenuti, molti dei quali con la prospettiva di nonuscirne perché trattenuti a tempo indeterminato.Guantanamo è diventato il simbolo visibile di untrattamento carcerario che è equivalente alla tortura. La sentenza della Corte europea per quanto riguardal’Italia è importante perché chiama il nostro Paesenon solo a darvi attuazione in tempi certi ma poneuna questione ancora più urgente e attuale: modifica-re le situazioni più gravi e palesi presenti all’internodegli istituti di pena italiani. Amnesty Internationalnon fa ricerca all’interno di questi istituti ma credoche, grazie a questa sentenza, questo problema abbiaraggiunto la visibilità che merita.

Quali sono – seesistono nelmondo – sistemipenitenziari daprendere a mo-dello per miglio-rare? I sistemida prendere amodello sonoquelli che rispet-tano gli standardinternazionali .Quando si parladi sistemi peni-tenziari, possia-mo far riferimen-to a principi me-

tagiuridici, come quelli sanciti dalle Costituzioni, chesottolineano come il senso della pena sia quello dellarieducazione più che della punizione; ma i principivincolanti sono quelli sanciti a livello internazionalesul trattamento dei detenuti, che prevedono pene de-tentive che rispettino la loro dignità. Quella di ade-guarsi pertanto non è un’opzione: oggi c’è anche unasentenza di un organo di giustizia europeo che ce loricorda. Obama chiuderà Guantanamo?Sulla base del luogo comune per cui nel secondomandato i Presidenti sono più liberi di agire rispet-to al primo, dovrei rispondere di sì. Ma poi ci sonosegnali di tipo diverso, che a ben guardare non cifanno ben sperare. Amnesty continua a chiedere alPresidente degli Stati Uniti di chiudere Guantana-mo e oggi aspetta che vengano rispettate le pro-messe fatte.

Quest’anno il Nobel per la Pace è stato assegnatoall’Unione Europea. Tra le motivazioni si legge:«L’Ue sta affrontando una difficile crisi econo-mica e forti tensioni sociali. Il Comitato per ilNobel vuole concentrarsi su quello che considerail più importante risultato dell’Ue: l’impegno co-ronato da successo per la pace, la riconciliazionee per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo distabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasfor-mare la gran parte d’Europa da un continente diguerra a un continente di pace». Cosa pensa diquesta scelta? Quali sono, se ci sono, i punti de-boli dell’Europa sotto il profilo della negazionedei diritti umani?Questo Nobel all’UE appare simile ai premi allacarriera che si danno ai registi. Accontentarsi diquesto premio, intendendolo come un riconosci-

Oggi considero la pena di morteun’emergenza dei diritti umani moltocircoscritta. La domanda vera infatti

non è se verrà abolita ma quando verràabolita

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 56

57

mento alle glorie del passato, non è sufficiente per-ché in Europa ci sono questioni aperte in tema didiritti umani che chiamano in causa in particolare ladiscriminazione profonda nei confronti delle mino-ranze, in particolare dei Rom e le politiche di chiu-sura nei confronti dell’asilo, che hanno fatto sì chenel corso degli ultimi anni si frapponessero piùostacoli e si investissero tanti soldi per respingerepiuttosto che per accogliere. L’Europa potrebbe tut-tavia considerare questo Nobel come uno stimoloper colmare le lacune del nostro continente nel ri-spetto dei diritti umani. Visto che anche Amnesty èun Nobel per la pace, possiamo dire che, quandonon si danno premi alla carriera o premi sulla fidu-cia, come quello ad Obama nel 2009, scegliendo or-ganizzazioni attive sul campo nell’ambito dei dirittiumani, lo apprezziamo senza dubbio di più.

Un tema molto caro ad Amnesty è quello dei di-ritti dei migranti. In Italia, lo sfruttamento degliimmigrati è un fenomeno collegato al racket e al-la criminalità organizzata, che opera in tutti isettori dell’economia, da quello dell’agricolturaa quello dell’edilizia. Anche nelle grandi città co-me Roma questo problema ha una forte ricadu-

ta: basta passeggiare per il centro storico e per levie dello shopping per rendersi conto della spar-tizione – a volte legalizzata – delle strade, allabase della cosiddetta economia del degrado. Co-me si può invertire la rotta, trasformando le no-stre città in laboratori di reale integrazione? Ri-portare al centro dell’interesse collettivo la vivi-bilità e la bellezza delle nostre città può restitui-re dignità anche agli immigrati vittime della spe-culazione delle reti criminali?La risposta è molto complessa. La prima responsa-bilità ricade senza dubbio sulle istituzioni che do-vrebbero lavorare per permettere ai migranti diuscire da questa tenaglia composta da criminalità ecriminalizzazione, attuando da un lato politiche diinclusione e dall’altro politiche che consentano l’e-mersione dall’illegalità. Per far questo occorre unamodifica legislativa molto semplice, cioè l’aboli-zione del reato di ingresso e di soggiorno irregolare,con percorsi per l’ingresso che superino la logicadelle quote, che sono insufficienti e hanno tempitroppo lunghi. Va anche sottolineato che c’è unaconvenienza generale nel far sì che questo fenome-no dilaghi nelle grandi città, fino a diventare un ele-mento dominante del nostro paesaggio. La conve-nienza è di tipo economico sia per chi sfrutta il la-voro dei migranti sia per i consumatori che accetta-no di comprare merci a minor prezzo ignorando tut-ti gli aspetti della filiera. Convengo sul fatto che c’èuna corrente sotterranea di tolleranza e acquiescen-za che alimenta il sistema e arriva a far diventarequesto paesaggio minaccioso, valicando alle volte illimite della sicurezza dei cittadini che deve pur es-sere garantita. È difficile considerare il decoro e l’e-stetica obiettivi a se stanti ma devono essere la con-seguenza di politiche virtuose in tema di dirittiumani e di eventuali campagne organizzate ad hocdalle associazioni di riferimento per sensibilizzarel’opinione pubblica.

È l’undicesimo anniversariodell’apertura di Guantanamo: dentroci sono ancora 166 detenuti, molti deiquali con la prospettiva di non uscirne

perché trattenuti a tempoindeterminato. Guantanamo è

diventato il simbolo visibile di untrattamento carcerario che è

equivalente alla tortura

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 57

58

Henri Bergson aveva parlato della memoria comedi un vero e proprio non-luogo, un altrove che av-volge costantemente il presente, ma che appartienea un’altra dimensione. A Roma in via IV Novem-bre, al civico 98, si erge una palazzina che da anniormai è diventata un non-luogo. Sede di “Libera.Associazione, nomi e numeri contro le mafie”,questo stabile fu confiscato alla mafia e da quelgiorno è diventato un posto in cui memoria e impe-gno si concretizzano. Qui ho incontrato LudovicaIoppolo che per Libera si occupa del settore For-mazione e ricerca.

Da quanto tempo lavori a Libera?Dal 2008, anche se durante il periodo universitariocollaboravo già con Libera attraverso la mia asso-ciazione studentesca. Appena laureata in Sociolo-gia mi hanno proposto di entrare nel settore Forma-zione, poi ho concluso il dottorato in Metodologiadella ricerca sociale.Il vostro obiettivo è sollecitare la società civilenella lotta contro la mafia e promuovere legalitàe giustizia, ma essere educatori sociali, oggi, co-sa vuol dire e soprattutto cosa comporta?Essere educatorisociali oggi èmolto complica-to. Le nostre so-cietà sono estre-mamente com-plesse, i ragazzisono bombardatida mille stimolie la comunica-zione rende tut-to più difficile,ma anche stimo-lante. Quella diLibera è sicura-mente una sfida

educativa a tutto tondo, perché identifichiamo lamafia non soltanto nei reati in senso stretto di cri-minalità organizzata, ma guardiamo a ciò che dimafioso c’è nelle nostre vite, nei nostri atteggia-menti, nei nostri rapporti di potere e nei nostri rap-porti interpersonali.

Qual è il vostro rapporto con gli studenti uni-versitari?In realtà essendo Libera una rete, le associazionistudentesche sono da sempre all’interno.Ma anche realtà come l’A.G.E.S.C.I., più giovanili,

hanno contri-buito alla co-struzione dellarete di Libera.Negli ultimi an-ni il settore si èrafforzato gra-zie ad alcuniatenei che han-no collaboratonel realizzaredei seminari chesi ripetono ognianno. A Torinoè sorto il primopresidio univer-

Il futuro tra memoria e impegnoIntervista a Ludovica Ioppolo di Libera Formazione

di Elisabetta Tosini

Ludovica Ioppolo è ricercatrice e sociologa. Si occupa di formazione,università e ricerca per “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro lemafie”. Ha conseguito il dottorato in Ricerca applicata alle scienze so-ciali presso l’Università La Sapienza di Roma.È coautrice con Francesca della Ratta e Giuseppe Ricotta di Con i loroocchi. L’immaginario mafioso tra i giovani, Edizioni Gruppo Abele(2012) e con Martina Panzarasa di Al nostro posto. Donne che resistonoalle mafie, Transeuropa Edizioni (2012).

Quella di Libera è sicuramente unasfida educativa a tutto tondo, perchéidentifichiamo la mafia non soltanto

nei reati in senso stretto di criminalitàorganizzata, ma guardiamo a ciò che dimafioso c’è nelle nostre vite, nei nostriatteggiamenti, nei nostri rapporti di

potere e nei nostri rapportiinterpersonali

Don Luigi Ciotti, ispiratore e fondatore di Libera

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 58

59

sitario chiamatoUniLibera e incontemporaneacon La Sapienzasono partiti i pri-mi seminari sullacomunicaz ioneanti-mafia: un la-boratorio di gior-nalismo in colla-borazione con Li-bera informazio-ne.Grazie all’interesse degli studenti, siamo riusciti adampliare i rapporti con i docenti.Negli ultimi anni abbiamo siglato numerosi proto-colli di intesa in diversi atenei. Si va dai seminari,ai corsi di alta formazione – a Cosenza e a Padova– fino ad arrivare al master in Analisi, prevenzionee contrasto della criminalità organizzata a Pisa. Ab-biamo anche un master a Bologna sui beni confi-scati e ne sta per partire un altro a Napoli. Negli ul-timi anni abbiamo anche ampliato il settore dellaRicerca. Io mi occupo di un progetto sulla perce-zione del fenomeno mafioso tra gli studenti dellescuole superiori. Cerchiamo di analizzare l’influen-za delle attività educative antimafia, sulle cono-scenze che i ragazzi hanno e sui loro atteggiamenti.E i risultati?I ragazzi conoscono meglio i mafiosi dei protago-nisti dell’antimafia. Non conoscono Pio La Torre oPeppino Impastato, ma sono informati su Riina eProvenzano. Si è quindi deciso di riflettere sullamediatizzazione del personaggio mafioso e sul-l’importanza di rappresentare chi lotta contro lamafia.L’idea del progetto dove nasce?In realtà questo progetto nasce dal Centro di studied iniziative culturali Pio La Torre, da un’inchiestasvolta diversi anni fa in Sicilia, in cui emerse chegli studenti erano disposti a chiedere aiuto ai ma-fiosi pur di trovare lavoro. Noi abbiamo voluto in-serire questa proposta formativa nel nostro proget-to, approfondendo alcuni aspetti fondamentali.All’inchiesta di Pio La Torre, abbiamo apportatoalcune modifiche in base a ciò che volevamo ana-lizzare. Di fatto si innesca quella che noi definiamouna “ricerca mobilitante”: sentendosi ignoranti sul-l’argomento decidono di informarsi.Parliamo del recupero dei beni confiscati allamafia, come questa palazzina…Fino al 1995, quando nasce Libera, era in vigoreuna legge del 1982, proposta da Pio la Torre, cheprevedeva solo il sequestro e la confisca dei beni.Parte di questi beni restavano inutilizzati o andava-no in rovina, inoltre i tempi per l’assegnazione era-no lunghissimi. Libera diede vita a una proposta dilegge, che prevedeva l’uso sociale dei beni. Non èpossibile venderli o darli in affitto a privati, ma so-lo usarli per scopi sociali; possono essere lasciatiin mano alle istituzioni per essere trasformati in

scuole o caser-me, oppure datealle realtà delNo Profit delterzo settore. Èda qui che nascel’idea delle coo-perative autono-me. La primacooperativa inassoluto è statala Placido Riz-zotto, nata sui

terreni di Riina e Provenzano.

Il momento più emozionante del vostro lavoro?Sicuramente quando nasce una nuova cooperativa.Ogni volta che questi ragazzi hanno la possibilitàdi lavorare sulla propria terra, in zone difficili, ègrazie a una legge nata da una raccolta di un milio-

Fino al 1995 era in vigore una legge del1982 che prevedeva solo il sequestro ela confisca dei beni dei mafiosi. Partedi questi beni restavano inutilizzati o

andavano in rovina, inoltre i tempi perl’assegnazione erano lunghissimi.

Libera diede vita a una proposta dilegge, che prevedeva l’uso sociale dei

beni. Non è possibile venderli o darli inaffitto a privati, ma solo usarli per

scopi sociali

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 59

60 ne di firme. Noi diciamo: è l’antimafia che si man-gia, che diventa concretezza.Nel 2012 il Global Journal vi ha inserito nellecento migliori ONG del mondo, cosa ha signifi-cato?Noi siamo una delle poche realtà in Italia che, negliultimi anni, ha visto la partecipazione crescere, an-ziché diminuire. Ci ispiriamo a un principio chenon è più quello della legalità, l’obiettivo è la giu-stizia sociale. Dobbiamo essere corresponsabili.Dobbiamo essere attivi. Dobbiamo essere un’espe-rienza positiva. La classifica del Global Journal, inquesto senso, è un grande riconoscimento.

Le principali difficoltà riscontrate nelle vostrecollaborazioni?Le difficoltà sicuramente ci sono, però in realtà so-no la nostra forza. Uno dei grandi meriti di donCiotti è quello di aver creato non un’associazione,ma una rete. Ovviamente una rete comporta diffi-coltà, nel realizzarla e nel mantenerla. Ma è pro-prio questo che ci rende più forti, perché tuttoquello che si fa nella rete rende vero il progettocomplessivo, che è quello della giustizia sociale,non solo dell’antimafia.Come nasce il settore dell’università e della ri-cerca?Insieme alla memoriae ai beni confiscati, lascuola era uno dei trepilastri iniziali diazioni di Libera neiprimi anni di vita. Ilsettore universitarioche si è sviluppato èservito a rafforzare larete e la conoscenza, ipunti forti di Libera.Cosa mi dice dellavostra nuova campa-gna?Questa campagna sichiama “Riparte il fu-turo. Contro la corru-zione”. É la prosecu-zione di ciò che abbia-mo organizzato un an-no fa. In quell’occa-sione raccogliemmo

un milione di cartoline che consegnammo a Napo-litano. Questa, oggi, è di fatto la nuova frontiera,non perché le mafie siano più deboli, ma perché ilproblema è che le organizzazioni criminali conti-nuano a rigenerarsi anche grazie alle zone di conti-guità e di corruzione. Abbiamo anche voluto rivol-gerci alla classe politica, chiedendo di mettersi ingioco e di impegnarsi fino in fondo a favore dellatrasparenza e per cambiare la legge sulla corruzio-ne. Una lunga serie di impegni quindi.I risultati a oggi?Il risultato è che moltissimi candidati alle politichestanno già aderendo. Andando sul sito www.ripar-teilfuturo.it, si possono trovare gli aggiornamentiin diretta.Cos’è la memoria per Libera?È il punto di partenza di tutto. Libera nasce dopo lestragi di Capaci e di Via D’Amelio. In quel periodoci fu una forte reazione della società civile, peròmancava un coordinamento nazionale tra i vari mo-vimenti. Libera nasce dall’impegno di don Ciotti,ma anche di Giancarlo Caselli e di Saveria Antio-chia, familiare di una vittima. Si è partiti dalla co-struzione di una rete di parenti delle vittime e dal-l’instaurazione della giornata nazionale della me-moria il 21 marzo.La memoria è quello da cui tutto parte, ma non èniente se non si coniuga con l’impegno; le due pa-role non possono essere scisse e neanche in Libera. Don Ciotti chi è?È una persona incredibilmente attenta, che tienemoltissimo ai giovani e sottolinea sempre che biso-gna dar loro spazio. Don Ciotti spesso viene vistocome Libera stessa, ma in realtà lui ci tiene a sotto-lineare che il fulcro è l’individualità. All’interno diLibera si valorizzano le competenze di ciascuno. Inquesto sta la forza della rete, mentre la forza di donCiotti è Libera.

Prodotti coltivati sulle terre confiscate alla mafia

La memoria è il punto di partenza ditutto. Libera nasce dopo le stragi di

Capaci e di Via D’Amelio,dall’impegno di don Ciotti, ma anche

di Giancarlo Caselli e di SaveriaAntiochia. In quel periodo ci fu una

forte reazione della società civile, peròmancava un coordinamento nazionale

tra i vari movimenti

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 60

61

PopsceneZero Dark Thirty: la guerra al terrore dentro di noi di Kathryn Bigelow

di Ugo Attisani

Appena uscito nelle sale ci-nematografiche americane, edi prossima uscita anche inquelle italiane, il nuovo filmdi Kathryn Bigelow, primadonna ad aver ricevuto ilpremio Oscar come migliorregista, ricostruisce nel me-desimo stile quasi documen-taristico del suo precedenteThe Hurt Locker, la decen-nale caccia all’uomo scate-

nata dai servizi segreti americani all’indomani degliattentati del 11 settembre 2001 contro colui che neera stato unanimemente ritenuto responsabile, losceicco saudita Osama Bin Laden. Inizialmente ilprogetto della Bigelow e dello sceneggiatore MarkBoal era quello di raccontare la battaglia di Tora Bo-ra, avvenuta in Afghanistan nel 2001, in cui l’eserci-to americano e le forze tribali afghane avevano stret-to d’assedio, all’interno del fitto sistema di cavernein cui si erano rifugiati, i combattenti talebani e du-rante il quale si ritiene fosse sfuggito alla catturaproprio Bin Laden; a cambiare il tema e la prospetti-va del film è stata l’uccisione del capo di Al Qaedaad opera di una squadra di Navy Seals, le forze spe-ciali d’assalto dell’esercito americano, avvenuta il 2maggio 2011 ad Abbottabad in Pakistan. Nell’arco temporale che va dagli attentati del 2001alla cattura del terrorista che ne è stato il mandante,in questa “decade di guerra”, così come l’ha definitanel discorso di inaugurazione del suo secondo man-dato il presidente degli StatiUniti Barack Obama, sono rac-chiusi gli interrogativi più in-quietanti sul valore dei principisui cui si regge la civiltà occi-dentale, sul prezzo che si deveo si è disposti a pagare per pro-teggerli e sul prezzo che trop-po spesso si impone al restodel mondo per affermarli. Inquesto la Bigelow, adottandoun approccio estremamenterealistico e con un punto di vi-sta “dal basso”, non risparmialo spettatore, mettendo in sce-na le torture praticate ai prigio-nieri nei black site della CIAper ricavare le informazioninecessarie all’individuazionedel luogo in cui si nascondevaBin Laden, e insinuando il

dubbio che, per quanto atroci e tremende, esse sianoeffettivamente servite al loro scopo. L’analista dellaCIA Maya, interpretata da Jessica Chastain, protago-nista del film, è un personaggio senza storia, senzaun passato e senza legami, uno strumento, al con-tempo narrativo e reale, per mettere in scena la ri-cerca di un nemico e di una verità, di una giustifica-zione al terrore in cui gli Stati Uniti sono precipitatiall’indomani del 11 settembre e in cui hanno preci-pitato milioni di vite in altri paesi, quasi una gemel-la, se possibile ancor più minimalista, dell’agenteCarrie Mathison, interpretata da Claire Danes nellapluripremiata serie tv Homeland. Il film però, aguardarlo più attentamente e senza per forza concen-trarsi sulle polemiche che lo hanno accompagnato inpatria riguardo all’accesso ad informazioni riservatedei servizi segreti e ad un presunto sostegno all’uti-lizzo della tortura, racconta anche una storia, tipica-mente americana, di una donna alle prese con il pro-prio lavoro e che per portarlo a termine, quasi in pa-rallelo alle numerose sospensioni della civiltà e del-la democrazia che il popolo americano ha subito du-rante questi anni di guerra, è disposta a perdere gra-dualmente la propria umanità. In questa spirale di-scendente delle vicende della protagonista, se da unlato è facile vedere l’elogio dell’individuo che, con-tro tutti, con la sua perseveranza e dedizione allacausa riesce ad ottenere un successo che per moltisembrava insperato, dall’altro sembra quasi insinua-re il dubbio che “la più grande caccia all’uomo dellastoria”, come suggerisce la tagline del film, sia statain realtà la caccia a un fantasma, i cui contorni e la

cui importanza sembrano di-ventare man mano più incerticol passare del tempo, tantoquanto l’ossessione, invece,sembra diventare sempre piùdivorante per la protagonista.E allora, così come il disagiodell’artificiere interpretato daJeremy Renner in The HurtLocker davanti allo scaffale diun supermercato, lontano dalcampo di battaglia, lasciava lospettatore con lo sgradevoledubbio che per lui la guerrafosse diventata una condizionedi vita irrinunciabile, non pos-siamo non chiederci se le lacri-me di Maya alla fine del filmsiano di gioia per il ritorno acasa o di tristezza per la perdi-ta di una ragione di vita.

Ugo Attisani

rubr

iche

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 61

62

Il nostro Ateneo, comenoto, sviluppa iniziativemolto importanti nelcampo musicale comeil Coro Polifonicodell’Università degliStudi Roma Tre, attivofin dal 1999 e RomaTre Orchestra, nata nel2005, allo scopo di con-tribuire a diffondere lacultura musicale tra lenuove generazioni, inparticolare all’interno

del mondo accademico e di introdurre gli studenti al-la pratica musicale. Entrambe le iniziative godono,tra l’altro, del patrocinio di Laziodisu, nell’ambitodel sostegno che l’ente accorda, in funzione di unaconcezione del diritto allo studio capace di valorizza-re anche performance culturali e artistiche degli stu-denti. Nel febbraio 2008 è nata poi a Roma Tre laDams Jazz Band, formazione musicale studentesca,costituita in seno alle Discipline delle Arti, della Mu-sica e dello Spettacolo. Recentemente, il 12 novembre scorso, il Coro Polifo-nico di Roma Tre, accompagnato dall’ Orchestra Ro-ma Sinfonica, è stato protagonista di una prestigiosae commovente manifestazione svoltasi alla Cameradei Deputati, con il patrocinio di Laziodisu. L’occa-sione è stata la Giornata del ricordo dei Caduti mili-

tari e civili nelle missioni internazionali di pace e inparticolare la solenne cerimonia di commemorazionedei caduti nella strage di Nassiriya del 12 novembre2003. L’idea di un concerto alla Camera per celebrare il sa-crificio dei martiri di Nassiriya e di tutti i caduti ita-liani, suggerita da una toccante lettera inviata al Pre-sidente Gianfranco Fini dal figlio del Vice Brigadieredei Carabinieri, Domenico Intravia, caduto nell’at-tentato terroristico in terra irakena, è stata accoltacon slancio dall’Ufficio di Presidenza della Camera esuccessivamente dal Rettorato dell’Ateneo Roma Trenella consapevolezza che l’aula di Montecitorio siauno dei luoghi simbolo della solidarietà e della coe-sione nazionale e che il linguaggio musicale riesca araggiungere più di ogni altro mezzo le sfere più pro-fonde dell’animo umano. E lo spirito di commemorazione dei caduti, per lo piùgiovani, non poteva essere meglio rappresentato dauna formazione musicale, quale appunto il Corodell’Università degli Studi Roma Tre, composto pre-valentemente da giovani, studenti, ex studenti e per-sonale amministrativo e bibliotecario.In un clima di forti emozioni e di commozione, dataanche la presenza del Ministro della Difesa Giam-paolo Di Paola, del Rettore Guido Fabiani, di nume-rosi militari e, soprattutto, dei familiari dei caduti, ilCoro e l’Orchestra hanno eseguito, dopo il salutodel Presidente Fini e l’Inno di Mameli, la Messa daRequiem KV 626 per soli, coro e orchestra di W.A.

Mozart, sotto la dire-zione del MaestroMaria Isabella Am-brosini. L’organizza-zione della manife-stazione è stata cura-ta dalla SegreteriaGenerale della Ca-mera, Ufficio pubbli-cazioni e relazionicon il pubblico, diret-to dalla dott.ssa Con-suelo Amato. L’ese-cuzione è stata con-clusa da un lungo ecommosso applausodei presenti. L’eventoè stato trasmesso indiretta sulla webtv esul canale satellitaredi Montecitorio non-ché sulla rete temati-ca Rai5.

Ultim’ora da LaziodisuIl Coro polifonico di Roma Tre alla Camera dei deputatiper commemorare i caduti di Nassiriya

di Gianpiero Gamaleri

Gianpiero Gamaleri

Foto di Umberto Battaglia ©

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 62

63

La fede, intesa comeapertura verso una di-mensione trascendenteche fa da orizzonte disenso al nostro viveree agire quotidiano,sembra proprio che siastata bandita dalla no-stra “società liquida”. «Mentre nel passatoera possibile ricono-scere un tessuto cultu-rale unitario, larga-mente accolto nel suo

richiamo ai contenuti della fede e ai valori da essaispirati, oggi non sembra più essere così in grandisettori della società, a motivo di una profonda crisidi fede che ha toccato molte persone». Sono paroleche Benedetto XVI ha usato nella sua Lettera apo-stolica per l’Anno della fede che è iniziato l’11 ot-tobre 2012.Anche nel suo rapporto con il mondo della culturae della scienza la fede è spesso giudicata comeun’intrusa o una presenza scomoda che è megliotenere a distanza perché non essendo “verificabile”non è attendibile. «La fede (così) si trova ad esseresottoposta più che nel passato a una serie di inter-

rogativi che provengono da una mutata mentalitàche, particolarmente oggi, riduce l’ambito dellecertezze razionali a quello delle conquiste scienti-fiche e tecnologiche… In effetti tra fede e scienzanon c’è un conflitto perché ambedue, anche se pervie diverse, tendono alla verità» (Benedetto XVI).La fede offre a tutti, credenti e non, la prospettivadi un cammino che valorizzando tutte le conoscen-ze umane porta gradualmente alla piena conoscen-za della verità. «La stessa ragione dell’uomo, portainsita l’esigenza di ciò che vale e permane sempre.Tale esigenza costituisce un invito permanente, in-scritto nel cuore umano, a mettersi in cammino pertrovare Colui che non cercheremmo se non ci fossegià venuto incontro» (Benedetto XVI).Una delle prime iniziative proposte nell’Anno del-la Fede dall’ufficio di pastorale universitaria delVicariato di Roma è stato il pellegrinaggio ad Assi-si dello scorso 10 novembre, che ha visto la parte-cipazione di circa 4000 studenti di tutti gli ateneiromani. L’inno del pellegrinaggio (Credo) è stato compostoda don Pino Fanelli, assistente spirituale alla Fa-coltà di Economia di Roma Tre, ed è stato il leit-motiv della giornata. Le altre iniziative programmate possono essere vi-ste sul sito: www.universitas2000.org.

don Pino Fanelli

Non tutti sanno che…L’Anno della Fede, un’opportunità per il mondo accademico

di don Pino Fanelli

Biglietteria universitaria: progetto Lo spettacolo per i giovani

A gennaio, è stato presentato Lo spettacolo per i giovani, iniziativa che promuove la biglietteria last mi-nute e i botteghini universitari: un progetto promosso dall’Assessorato all’educazione, famiglia e giova-ni in accordo con AGIS ANEC Lazio e le tre università statali della città (La Sapienza, Tor Vergata e Ro-ma Tre) nell’ambito del secondo Piano Locale Giovani – Città Metropolitane di Roma Capitale cofinan-ziato dal fondo statale per le politiche giovanili del Ministero della gioventù, attraverso ANCI.

La Biglietteria teatrale di Roma Tre, riservata agli studenti universitari, propone biglietti teatrali, per ol-tre cinquanta teatri romani, a costi ridotti fino al 50%. Sono inoltre previste agevolazioni anche per i do-centi e il personale tecnico-amministrativo dell'Ateneo. Gli studenti e il personale di Roma Tre il lunedìe il martedì possono acquistare biglietti per il Cinema Adriano a soli 3 euro.

Il botteghino universitario è realizzato dall'AGIS Lazio in collaborazione con la Regione Lazio, la Pro-vincia di Roma e il Comune di Roma ed in coordinamento con le Università di La Sapienza, Tor Vergatae Roma Tre.

Per informazioniBiglietteria teatrale Roma TreVia Ostiense, 139tel. 06 57332243 - [email protected] - http://www.uniroma3.it/page.php?page=sicslunedì - martedì - mercoledì 10.00-15.00; giovedì 10.00-13.00

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 63

64 The LadyL’omaggio di Besson all’eroina della democrazia birmana

di Francesca Gisotti

Quando si parla di paceci sono delle figure cheimmediatamente ci ven-gono alla mente, tantoforte e dirompente è sta-ta la loro capacità di im-porsi nell’immaginariocollettivo. Si tratta diuomini e donne che concoraggio e determina-zione hanno deciso diintraprendere il percor-so della lotta non vio-lenta per l’affermazione

dei diritti umani, laddove questi rappresentano ancoraun traguardo lontano dall’essere raggiunto. Tra i voltiche spontaneamente associamo a tale ideale c’è senzadubbio quello dolce e dignitoso di Aung San SuuKyi. La storia di questa piccola grande donna, pro-motrice di un movimento di democratizzazione nellaBirmania oppressa dalla dittatura militare, è al centrodell’ultimo film del regista francese Luc Besson: TheLady. Un titolo semplice ma al tempo stesso potente,proprio come lo è stata Suu, un’orchidea d’acciaio(così l’ha ribattezzata il Time), in un Paese dove bel-lezza e tragedia convivono ancora oggi drammatica-mente. Ed è proprio su questo binomio, di vita e mor-te, speranza e oppressione, che si gioca tutto il film diBesson, un’opera che, con accuratezza di dettagli eapprofondimento psicologico, racconta la vicendadella rivoluzionaria gentile partendo dal lontano1947. È questo l’anno in cui untragico evento segna il corso ditutta la sua esistenza: l’uccisionedel padre, il generale Aung San,eroe dell’indipendenza birmana.Quarant’anni dopo spetterà pro-prio a lei dover raccogliere quel-la dolorosa eredità. Ecco allorala straordinarietà della vita diSuu che, dopo una quotidianitàcostruita in Inghilterra, comemoglie di un professore univer-sitario e madre di due giovaniadolescenti, metterà in secondopiano il proprio percorso indivi-duale in nome di un obiettivopiù alto: la difesa di un interopopolo. Ritornata a Rangoon, inseguito alla malattia della ma-dre, Suu viene scelta dalla pro-pria gente per guidare la rinasci-ta del Paese e contrastare il regi-

me militare che sta reprimendo nel sangue ogni for-ma di opposizione. Laddove la violenza non riesce adestirpare il consenso popolare ottenuto dalla nuovaeroina della democrazia, per i militari al potere l’uni-ca soluzione sembra essere quella di blindarla all’in-terno della propria casa. Gli arresti domiciliari si pro-trarranno per oltre 14 anni. Ma non saranno 14 annivani, dato che il messaggio di Suu, si diffonderà conforza fin dentro le zone più impervie della Birmania,raggiungendo infine anche quell’Occidente del mon-do troppo spesso cieco di fronte alla sofferenza deipopoli “lontani”. Sarà quello stesso Occidente a con-ferirle nel 1991, il premio Nobel per la pace, ma thelady dovrà aspettare fino al 13 novembre del 2010per recuperare anche la libertà di poter uscire dal ter-ritorio birmano (in caso di espatrio, le sarebbe statoinfatti impedito di ritornare a casa). Grazie alla magi-strale interpretazione di Michelle Yeoh (già interpretedi Memorie di una geisha), l’opera di Besson ci faconoscere gli aspetti più intimi e privati di questa fi-gura eccezionale. Una combattente forte e coraggiosama, allo stesso tempo, anche una madre ed una mo-glie, costretta a vivere lontano dalla propria famiglia.Una donna costantemente chiamata a prendere delledecisioni dolorose, con la consapevolezza che questeavrebbero condizionato, non solo le proprie sorti, maquelle di un’intera nazione. Un’incessante tensioneemotiva attraversa tutta la pellicola, che non scademai nel patetico o nel sentimentalismo, restituendo,con realistica crudezza, l’immagine di un popolomartoriato ma ancor capace di sperare. Grazie all’uso

del flashback, quasi spiazzante,Besson si muove con disinvol-tura su diversi livelli spazio-temporali, con quella forzaespressiva ed intensità registicache gli sono propri. Una nota dimerito va anche ad un ottimoDavid Thewlis, qui nei pannidel marito della San Suu Kyi.Per lui Besson ha costruito unpersonaggio pieno di sfumature.Un uomo capace di sostenere labattaglia della propria moglie,accettandone la lontananza an-che nel momento della malattia.Purtroppo se ne è andato senzaaver potuto assistere alla realiz-zazione, il 1° aprile del 2012,del grande sogno di Aung SanSuu Kyi: la conquista di un seg-gio nel parlamento del suo ama-tissimo Paese.

di Francesca Gisotti

rece

nsio

ni

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 64

65

Nel ventre del Vittoria-no, tra i cimeli di unaguerra passata e oggettidi epoca risorgimentale,c’è la testimonianza diuna guerra recente. Sot-to l’imponente colonna-to, dove il milite ignotoci ricorda il sacrificio diun milione di soldati ca-duti per la nostra nazio-ne, uno scultore descri-ve la guerra della suanazione: la Libia. Ma

che sia del 2011, che sia di un passato più o meno re-moto, la guerra fa della morte e del male i suoi capi-saldi. E Ali Wak Wak, artista e scultore libico, che havissuto sulla propria pelle i disastri del suo paese, haraccolto gli elementi negativi generati dalla guerra, liha assemblati nelle sue sculture e ha fatto della suaopera un mezzo di comunicazione di pace e di rina-scita.

Questo è l’oggetto della mostra di arte bellica intito-lata Anime di Materia, la Libia di Ali Wak Wak, alComplesso del Vittoriano dal 16 gennaio al 28 feb-braio 2013. Ali Wak Wak, classe 1947, è il più im-portante scultore libico contemporaneo. In un primomomento si dedicava alla scultura del legno ma, conla rivoluzione del 17 febbraio, la materia disponibilein grandi quantità diventano i residuati bellici, l’arti-sta decide, allora, di utilizzare questi oggetti per di-

mostrare come sia possibile costruire partendo dalladistruzione. Dall’aprile 2011, due mesi dopo la rivol-ta libica, Ali Wak Wak, inizia a restituire anima allamateria: elmetti, armi da fuoco e munizioni diventa-no sculture antropomorfe e zoomorfe. Le armi cheGheddafi utilizzava contro il suo popolo, vengonotrasformate in opere d’arte e lanciano un messaggioforte: continuare e ricominciare. La mostra Anime diMateria, la Libia di Ali Wak Wak costituisce un’ante-prima mondiale: è la prima volta, infatti, che un arti-sta libico riesce ad esporre le proprie opere fuori dal-la sua nazione. E le opere di Ali Wak Wak esconodalla Libia, con una «materia nuova, con un’animanuova, un sangue nuovo», come ha dichiarato l’arti-sta. All’interno della mostra si incontrano animali epersone, soldati grandi e piccoli e le opere, incasto-nate nel sottofondo musicale sincopato, strappano unsorriso amaro all’osservatore. La curatrice della mo-stra, Elena Croci, descrive così l’essenza dell’arte diAli Wak Wak che, attraverso una trentina di sculture,sceglie di rappresentare le immagini della guerra e«cerca di ricreare la vita dalla morte attraverso i restidi mezzi e armi trovati sul fronte; bossoli, fucili, mi-tragliatori. Tutto il suo lavoro è incentrato sulla rina-scita dopo la distruzione, come ricostruire un Paese,noi stessi, attraverso lo stesso materiale che ha cau-sato la morte dei nostri simili. Come questa stessamateria, non modificata ma solo plasmata attraversogli occhi dell’artista può riprendere vita e divenire unqualcosa di diverso, di bello, un messaggio di fiducianel futuro».Lo scopo della mostra, quindi, è quello di raccontare

Anime di materia In mostra al Vittoriano lo scultore libico Ali Wak Wak

di Francesca Simeoni

Francesca Simeoni

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 65

66

e percepire l’arte in modo differente: l’arte comestrumento di meta-comunicazione che permette diraccontare anche le peggiori tragedie con leggerezza,disincanto. I materiali bellici, vengono plasmati inuna forma nuova, combinati e rielaborati rispetto alla

forma per la quale erano stati creati e suscitano sba-lordimento, indignazione, un senso di straniamento,dal quale scaturisce la riflessione. Una mostra che vasentita, oltre che guardata, un esempio di cosa possasignificare l’unione di arte e politica, di libera ispira-zione e di impegno civile. Un esempio di come l’artepossa rappresentare un aiuto concreto per il cambia-mento, in un dopo Gheddafi caratterizzato da una no-vità: la libertà di espressione. La Libia, nazione in

lento miglioramento, si avvia gradualmente verso unfuturo stato di felicità. Per Ali Wak Wak la felicità,oggi, è rappresentata da «la sicurezza, la tranquillitàdei cittadini e la libertà di opinione», e «una Costitu-zione, che tuteli tutto e tutti». Probabilmente in un

paese come la Libia, un cantiere in via di ricostruzio-ne, con progetti che sorgono ovunque, il messaggiodell’autore è semplice, ed è rivolto ad una speranzanel futuro: che il suo diventi un paese finalmente“saldato”, come le saldature delle sue opere.

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 66

67

Cesare deve morireLo Shakespeare dei fratelli Taviani, nella sezione di alta sicurezza di Rebibbia

di Stefano Perelli

Si potrebbe dire che unclassico della letteraturaè un’opera che si prestaad un’infinità di inter-pretazioni. Paolo e Vit-torio Taviani con la lorocinepresa ne hanno datauna al Giulio Cesare diShakespeare che è, sen-za mezzi termini, straor-dinaria. Il loro Cesare deve mo-rire, rimane profonda-mente fedele all’anima

shakespiriana, riuscendo a compiere al contempoun’ulteriore difficile decontestualizzazione della tra-gedia, portandola nella sezione di alta sicurezza delcarcere di Rebibbia a Roma. Il pretesto da cui parte ilfilm è proprio la selezione degli aspiranti attori per illaboratorio teatrale nel carcere: nel provino i detenutisi presentano, enunciano le proprie generalità e la pe-na che stanno scontando. La rappresentazione inizia aprendere corpo giorno dopo giorno tra gli angustispazi delle celle, nei corridoi, e negli stretti spazi co-muni per l’ora d’aria, dove si consumerà l’assassiniopiù celebre della storia. La scelta del bianco e neroper tutte le sequenze all’interno del carcere rimarcaun’atmosfera claustrofobicadove i decenni sembrano nontrascorrere mai, mentre il co-lore torna a vibrare solo nellesequenze all’interno del tea-tro: l’arte può far rinascereanche chi si è macchiato digravissimi delitti. E di questoi fratelli Taviani sono pro-fondamente convinti.C’è stata una precisa volontàdegli autori di far parlare ipersonaggi con il dialettod’origine di ciascun attore,così da ottenere una simbiositotale tra attore e personag-gio. Cesare (Giovanni Arcu-ri) parla un romanesco rega-le e solenne, Decio (JuanDario Bonetti) ha il cadenza-re esotico dell’oriundo italo-argentino, Trebonio (Vincen-zo Gallo) è siciliano, Cassio(Cosimo Rega) parla napole-tano, così come Bruto (Sal-vatore Striano), che a tratti

sembra un Masaniello oscuro e violento, un eroe chevuole salvare la repubblica dal potere incontrollatodel singolo. La potenza del suono vernacolare è mi-cidiale, tanto da potenziare e stravolgere allo stessotempo la sacralità della tragedia: «Cesare ‘a da mu-rì», «’A ggiustizia nunn’è nu scannatoio» oppure,«Io so’ Cesare, chi è che me cerca?». I personaggiacquistano così un’espressività e una drammaticitàtutta nuova, dando un’interpretazione di Shakespeareche parte dal basso, dal popolo, dalla galera. Al di là della bravura degli attori (ed innegabilmen-te alcuni lo sono davvero), quei detenuti/attori co-noscono perfettamente le tragedie di Shakespeare:magari non le hanno mai lette ma, di sicuro, le han-no vissute da sempre. Si sentono perfettamente a lo-ro agio sul palco e davanti alla cinepresa perché co-noscono in prima persona quei sentimenti: provanolo stesso conflitto interiore di Bruto, la stessa ambi-guità di Cassio, la stessa disperazione di chi paga leconseguenze delle proprie azioni. Sanno bene cosavogliano dire “uomo d’onore”, “traditore”, “ami-co”. Essi stessi hanno realmente tolto la vita a qual-cuno, proprio come faranno nei panni dei congiura-ti, con un minaccioso: «stai attento Cesare!». Im-magino che Roberto Saviano non avrebbe difficoltàa tracciare proprio qui un’analogia tra i congiuratied il clan di camorra che decide di eliminare il ver-

tice perché mangia troppo eda solo.Quello dei fratelli Taviani èun messaggio molto com-plesso da inviare e da rece-pire soprattutto in un Paesecome il nostro perché se daun lato la sicurezza dellepersone è quotidianamentemessa in pericolo, dall’altrolato, c’è un’emergenza car-ceraria ed un sistema che simostra completamente in-capace di adempiere allasua missione di rieducare ereinserire il reo.Il film è stato molto ap-prezzato dalla critica sia inItalia che all’estero: finoraè stato premiato con cinqueDavid di Donatello e dueNastri d’argento, un altroimportantissimo riconosci-mento è arrivato al Festivaldi Berlino 2012 con unGoldener Bär.

Stefano Perelli

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 67

68

Con il termine frackingci si riferisce alla praticadella trivellazione, in par-ticolare allo sfruttamentodella pressione di un flui-do, in genere acqua, al fi-ne di creare e propagareuna fratturazione nel sot-tosuolo, indispensabileper l’estrazione di gas na-turali. Gasland, docu-mentario del 2010 direttoda Josh Fox, si basa pro-prio su queste tecniche di

estrazione e sulle conseguenti ripercussioni ambientali.Gasland, che è stato uno dei cinque documentari candi-dati agli Oscar 2011, è tratto dalla storia vera della cam-pagna di Marcellus Shale, che si schierò contro le tri-vellazioni per i pozzi di gas in Pennsylvania. Una multi-nazionale insiste per acquistare il terreno su cui viveJosh, nel quale egli è cresciuto, un piccolo angolo di pa-radiso in Pennsylvania. Dopo aver rifiutato una cospi-cua somma di denaro (circa 100.000 dollari), Fox deci-de di approfondire la questione e intraprende un lungoviaggio che lo porta ad attraversare Texas e Colorado,Utah e Wyoming. Armato di telecamera e sulle orme diMichael Moore, Josh inizia a raccogliere testimonianzeaprendosi dinanzi un quadro alquanto sconcertante,quadro dipinto lentamente racconto dopo racconto, dipersona in persona. I rappresen-tanti delle grandi industrie pro-nunciano belle parole riguardo ilfuturo del continente. L’Americaha una riserva naturale di gas pro-prio sotto i suoi piedi, perché mainon dovrebbe sfruttarla ed esseredel tutto indipendente? Detta così,risulta un’affermazione inattacca-bile. Le cose però stanno diversa-mente. Nel suo viaggio versoovest Fox incontra paesaggi sur-reali che nel giro di pochi giornihanno visto cancellati secoli distoria naturale, rocce e disteseverdeggianti, pascoli e corsi d’ac-qua sostituiti e modificati da poz-zi e trivelle: prima decine, poicentinaia, poi migliaia. Josh inter-vista gli abitanti di quei luoghi iquali convivono da anni con que-sta realtà, chiede loro cosa è cam-biato, chiede loro di raccontare levicende personali, in quei rari casi

dove il silenzio non è stato comprato con i soldi delleimprese petrolifere. La realtà con la quale Josh è co-stretto a scontrarsi è allarmante: famiglie che non pos-sono più farsi la doccia perché dai rubinetti esce acquanera, altre costrette ad utilizzare delle cisterne riempitecon acqua del supermercato, e, come se non bastasse,vengono mostrate case che rischiano di saltare in ariada un momento all’altro, perché, paradosso dei para-dossi, l’acqua che esce dal rubinetto è altamente in-fiammabile e prende fuoco con la minima scintilla. Si,proprio quell’acqua che è stata dichiarata potabile da-gli inviati delle multinazionali incaricati di portareavanti delle analisi sull’impatto ambientale delle tri-vellazioni. Fox documenta storie di cancro, storie dipersone che accusano la totale perdita del gusto edell’olfatto, addirittura morti umane ed animali dovutead intossicamento. Il regista riesce, per vie traverse, areperire una lista di componenti chimiche che vengo-no mescolate all’acqua iniettata nel sottosuolo, ve nesono numerose, dai nomi incomprensibili ai più e dal-le conseguenze nefaste sulla salute e sull’ambiente. Lagente ha paura di parlare, documenta Fox. Tutti abbia-mo un prezzo, ma questo viene messo in discussionequando in gioco c’è il nostro futuro. Il fiume Delawa-re ad esempio costituisce in America una tra le prima-rie fonti d’acqua potabile, interessando lo stato di NewYork, la Pennsylvania e il New Jersey. Negli ultimianni ci sono stati moltissimi ritrovamenti di pesci mor-ti e le analisi dell’acqua hanno evidenziato la presenza

di sostanze nocive utilizzate pro-prio nella pratica del fracking.Fox si interroga sulla rapidità disviluppo di questo processo, an-cora reversibile certo, ma delquale in pochi si vogliono pren-dere carico. Gasland raccontaquesta storia e ci interroga per107 minuti usando lo stile asciut-to del documentario, tra spezzonidi telegiornali, interviste a testi-moni ed interventi in prima per-sona, senza contare riprese fretto-lose, angoli strani e un costantemovimento sussultorio dellamacchina da presa. A tutto questosi aggiunge poi la carica emotivadi una lotta personale per la ricer-ca della verità; lotta che negli ul-timi minuti di documentario,Josh ci ricorda essere tutt’altroche individuale perché il suogiardino contaminato domani po-trebbe essere il nostro.

GaslandIl fracking e le sue ripercussioni sul territorio

di Matteo Spanò

Matteo Spanò

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 68

69

Senza dubbio in Italianon mancano i festivalcinematografici. Neesistono di tutti i tipi,da quelli dedicati alletematiche di gender, aquelli incentrati su que-stioni ambientali e ter-ritoriali. Spesso questecompetizioni artistichesi trasformano in occa-sioni per parlare d’al-tro, spesso l’oggettofilmico è solo il punto

di partenza per discorsi di più ampia portata. In taleimmenso panorama c’è una rassegna che meritaparticolare attenzione, sia per le finalità che si pro-pone, sia per la rapidità con cui è riuscita a svilup-parsi ben oltre i confini nazionali. Parliamo del fe-stival Un Film per la Pace, nato nel 2006 da un’i-dea dell’antropologo e direttore artistico EnricoCammarata e organizzato dalla Provincia di Gori-zia, dal Comune di Medea, dalla Windcloak FilmProduction, con il sostegno della Fondazione Cassadi Risparmio di Gorizia e il contributo del DAMSdi Udine e della Mediateca di Gorizia “Ugo Casira-ghi”. Come deducibile dal nome, il perno attorno acui ruota l’intero evento è il concetto di pace, chenegli anni è stato sviluppato dai registi partecipantisotto molteplici aspetti, dando spesso luogo ad in-terpretazioni originali ed inedite. A valutare le ope-re, accanto alla giuria tecnica,c’è quella costituita dai ragazzi,selezionati all’interno di scuole,università e forum giovanili. Aloro l’arduo compito di visiona-re e scegliere i film più merite-voli, o meglio quelli che più in-cisivamente hanno rappresenta-to l’idea di pace. Ecco allorache, nella prima edizione, avincere è stato il documentarioDanilo Dolci, memoria e utopiadi Alberto Castiglione. Candi-dato ripetutamente al Nobel perla pace, Dolci è stato il princi-pale promotore di un rinnova-mento culturale e sociale nellaSicilia degli anni Cinquanta.Denominato non a caso, ilGandhi italiano, la sua lotta nonviolenta si è perpetuata per ol-tre vent’anni, che l’hanno visto

protagonista sia nell’azione di denuncia dell’attivitàmafiosa, sia nella richiesta d’attenzione da partedelle istituzioni verso le situazioni più degradate emiserabili della regione. Per lui pace significava so-prattutto coinvolgimento attivo della cittadinanzanella realtà territoriale, attraverso quel “metodomaieutico”, a lui attribuito, che era già sinonimo dirinnovamento e rivitalizzazione dei rapporti umanie sociali. La vittoria di questo lungometraggio è sta-ta importante non solo per ricordare una figura tan-to centrale nella storia italiana, ma anche per testi-moniare l’attenzione delle nuove generazioni versouna figura del passato la cui azione è tutt’oggi ap-prezzata e ritenuta fonte d’ispirazione ed insegna-mento. Nel corso degli anni, il festival, inizialmentea carattere nazionale, ha assunto dimensioni ben piùampie, con la partecipazione al concorso di pellico-le provenienti da tutto il mondo. Un anno di svolta,a tal proposito, è stato sicuramente il 2010 quando,per la prima volta, sono state esaminate e giudicateopere provenienti da tutti e 5 i continenti. In que-st’edizione a vincere è stato il documentario AgentOrange: 30 Years Later di John Trinh. L’opera rac-conta la drammatica vicenda delle vittime dell’a-gent orange, un terribile erbicida usato dall’esercitostatunitense, durante la guerra del Vietnam, per di-struggere i cespugli dietro cui si nascondevano isoldati vietnamiti. Le conseguenze di tale avvelena-mento dell’ambiente sono tutt’ora gravissime con lamorte di moltissime persone e la nascita di bambinideformati o gravemente malati. La questione am-

bientale e i pericoli derivantidall’industrializzazione selvag-gia sono al centro delle rifles-sioni del festival che, proprio apartire dal 2010, ha introdottoun premio speciale, “MigliorFilm Acqua Bene di Tutti”. Trai lavori più significativi che sisono aggiudicati questo ricono-scimento ricordiamo Acqua epace di Emanuela Gasbarroni,vincitore dell’edizione 2011.L’opera è composta da 4 docu-mentari, incentrati su 4 binomifondamentali per la vita del Pia-neta: acqua e pace, acqua e con-servazione, acqua e salute, ac-qua ed ecosistemi. La tesi pro-posta è che la pace nell’area delmediterraneo sia sempre più an-corata ad una politica di salva-guardia delle risorse idriche,

Un film per la paceUna rassegna per riflettere

di Francesca Gisotti

Francesca Gisotti

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 69

70 laddove un loro sfruttamento indiscriminato può es-sere invece una delle principali cause di guerre. Persollecitare riflessioni sulle possibili azioni di con-trasto all’esplosione di conflitti sanguinosi fra i po-poli, a partire dal 2011, è stato inoltre istituito unpremio speciale sul tema del disarmo. Il primo filmad essere premiato è stato WARdisease della registaMarie Magescas. Si tratta di un documentario di po-co più di 8 minuti che, attraverso il montaggio ser-rato di immagini, presenta in maniera molto incisi-va le due facce dell’umanità: quella capace di gran-di gesti d’amore e solidarietà e quella che, al con-trario, si è macchiata dei peggiori abbomini. A testi-monianza della particolare rilevanza di cui si è vo-luto investire questo tema, c’è stata la decisione diproiettare e premiare il film vincitore in uno deiluoghi più rappresentativi della cultura internazio-nale: il British Museum di Londra. L’evento è statoarricchito anche da numerosi interventi di speciali-sti e studiosi della materia che hanno aperto un dia-logo destinato a proseguire ben oltre i limiti tempo-rali del festival. E arriviamo all’ultima edizione,conclusasi il 2 e 3 luglio scorsi. Le due giornatehanno rappresentato solo un tassello del lungo per-corso di selezione che ha visto coinvolte numerosescuole italiane. Già il 22 marzo, con largo anticiporispetto alla manifestazione ufficiale, è stato pre-miato il film americano Carbon for water, vincitoredella sezione “Acqua Bene di Tutti”. La scelta di ta-le data non è stata casuale, coincidendo infatti conla giornata mondiale dell’acqua indetta dall’Onu.Per la premiazione delle altre pellicole si è dovutoinvece aspettare il 3 luglio dopo che, nella giornata

del 2, c’era stata la proiezione dei film finalisti el’incontro degli autori con il pubblico. Ad aggiudi-carsi il primo premio è stato il film italiano Life inItaly Is Ok di Gianfranco Marino, vincitore ex ae-quo con Fluffy Pink Bunnies, una coproduzioneEgitto-Tuvalu, di Ava Lanche. La pellicola nostranaè un documentario sulla condizione di emigranti,stranieri e nuovi poveri in Italia. Prodotto da Emer-gency, in collaborazione con lab8, il film presentadiversi punti di vista sul nostro Paese. Ecco allorache, per Gloria, una paziente nigeriana del Poliam-bulatorio di Palermo, “life in Italy is ok”, mentrenelle parole di un disoccupato italiano affiora l’in-capacità di riconoscersi nella propria realtà nazio-nale. Filo conduttore delle varie esperienze raccon-tate è il sostegno ricevuto dai volontari di Emer-gency, spesso unica ancora di salvezza in un oceanodi indifferenza istituzionale e sociale. Le altre pelli-cole premiate sono state: Il Sole tramonta a mezza-notte di Christian Canderan (miglior film finalista)e Hermeneutics di Alexei Dmitriev (miglior film suldisarmo). Anche nell’ultima edizione , inoltre, è sta-ta coinvolta una delle istituzioni universitarie piùprestigiose del mondo: l’Università di Cambridge.Grazie alla collaborazione dell’Associazione “LaDante” di Cambridge, il 21 settembre (giornata in-ternazionale della pace) sono stati proiettati pressoil prestigioso istituto le opere premiate ed è statoassegnato un ulteriore premio, quello per il “Mi-glior Film Cortometraggio Consigliato alle Scuole”che è stato conquistato dalla pellicola Bambini inesilio saharawi rifugiati, figli di rifugiati di FiorellaBendoni.

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 70

71

roma3news_n3_2012_F_roma_3_news_03_09.qxd 04/03/13 14:48 Pagina 71

Università degli Studi Roma Tre - via Ostiense, 159 - www.uniroma3.it

InFM

roma3news_n3_2012_STAMPA_roma_3_news_03_09.qxd 05/03/13 16:26 Pagina 72