Roma Tre News 3/2013

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Periodico di Ateneo Anno XV, n. 3 - 2013 EDUCARE ALLA LIBERTÀ

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Educare alla libertà

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Periodico di AteneoU Anno XV, n. 3 - 2013

EDUCAREALLA LIBERTÀ

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Sommario

Periodico dell’Università degli Studi Roma TreAnno XV, numero 3/2013

Direttore responsabileAnna Lisa Tota(professore straordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi)

CaporedattoreAlessandra Ciarletti

Vicecaporedattore e segreteria di redazioneFederica Martellini [email protected]

RedazioneUgo Attisani, Valentina Cavalletti, Gessica Cuscunà, Paolo Di Paolo, France-sca Gisotti, Elisabetta Garuccio Norrito, Michela Monferrini, Giulia PietralungaCosentino, Francesca Simeoni

Hanno collaborato a questo numeroGiuditta Alessandrini (professore ordinario di Pedagogia sociale e del lavoro),Merete Amann Gainotti (professore ordinario di Psicologia dello sviluppo e diPsicologia dell’educazione), Francesca Brezzi (professore senior di Filosofiamorale), Francesca Cantù (prorettore vicario Università degli Studi Roma Tre),Carla Di Donato (dottore di ricerca in Teatro e arti dello spettacolo, UniversitàRoma Tre e Université La Sorbonne Nouvelle/Paris III), Massimiliano Fiorucci(professore associato di Pedagogia interculturale), Sveva Magaraggia (ricerca-tore a tempo determinato Dipartimento di Filosofia, comunicazione e spetta-colo), Vincenzo Mannino (prorettore con delega alle elazioni internazionali Uni-versità degli Studi Roma Tre), Roberto Maragliano (professore ordinario diTecnologie dell’istruzione e dell’apprendimento), Massimo Margottini (delega-to del rettore alle politiche di orientamento), Enrico Menduni (professore ordi-nario di Media digitali: televisione, video, internet), Chiara Meta (dottoressa diricerca in Scienze dell’educazione), Mario Panizza (rettore Università degliStudi Roma Tre), Gilberto Scaramuzzo (ricercatore Teatro e educazione), ClaraTornar (professore ordinario di Pedagogia sperimentale - coordinatrice delCentro di studi montessoriani), Carmelo Ursino (commissario straordinario La-zioAdisu), Benedetto Vertecchi (professore ordinario di Pedagogia sperimen-tale), Centro di ascolto psicologico - Divisione politiche per gli studenti

Immagini e fotoArchivio fotografico del Centro di studi montessoriani dell’Università RomaTre, Archivio FDLM Fondazione Don Lorenzo Milani - www.donlorenzomilani.it,Enrico Cano©, Mimesis Lab - Università Roma Tre, Pino Musi©, Beat Pfändler©,Bia Simonassi© (treebookgallery.blogspot.com)

Ringraziamo Bia Simonassi (treebookgallery.blogspot.com) che ha realizzatoper noi il mind map pubblicato alle pp. 34-35

Progetto graficoMagda Paolillo, Conmedia s.r.l. - Piazza San Calisto, 9 - Roma - 06 64561102- www.conmedia.itIl progetto grafico della copertina è di Tommaso D’Errico

Impaginazione e stampaStilgrafica s.r.l. Roma - tel. 0643588200

In copertina Lezione di tecnologia, 1958, foto Frighi, Archivio FDLM Fondazione Don Lo-renzo Milani

Finito di stampare settembre 2014

ISSN: 2279-9192

Registrazione Tribunale di Roman. 51/98 del 17/02/1998

Editoriale 3

Primo PianoLa scuola che forma 5Lo spazio architettonico come valore educativodi Mario Panizza

Educare all’Europa 8Il ruolo della scuola nell’immaginario socialedi Francesca Cantù

La vocazione internazionale dell’università 12Lo spazio europeo dell’istruzione superioredi Vincenzo Mannino

Una crescita intelligente, sostenibile e solidale 15Il rilievo strategico dell’orientamentodi Massimo Margottini

L’autoeducazione del “potenziale umano” 18L’attualità e l’internazionalità del modello Montessoridi Clara Tornar

L’educazione internazionale dei bambini 21Il pensiero di Jean Piagetdi Merete Amann Gainotti

La cultura è uno strumento di liberazione 23La pedagogia degli oppressi di Paulo Freiredi Massimiliano Fiorucci

Un medium del Novecento 26Il ruolo della televisione pubblica nei processi educatividi Enrico Menduni

Collettività e connettivitàLe leve dell’apprendimento digitale 29di Roberto Maragliano

C’è bisogno di ricerca 32Cambiare la valutazione in ingressodi Benedetto Vertecchi

Prospettive di placement 34Diritto all’apprendimento e all’occupabilitàdi Giuditta Alessandrini

La poetica dell’educare 38La parola chiave è condivisionedi Gilberto Scaramuzzo

Una stanza tutta per noiVenti anni di rigoroso lavoro 41di Sveva Magaraggia

Idoli di bontà 43Il genere come norma nella storia dell’educazionedi Chiara Meta

«To be a man, to be a real man» 45La ricerca contemporanea di Gurdjieffper il risveglio dell’uomo nella sua integralitàdi Carla Di Donato

Francisco Varela: conoscere la conoscenza 47di Francesca Gisotti

Alcuni fondatori dell’Università degli Studi Roma Tre 48

IncontriMario Botta. Solo la bellezza potrà salvare il mondo 56di Alessandra Ciarletti

Adele Corradi. «A chiunque abbia fattola quinta elementare» 58di Michela Monferrini

Silvia Calandrelli. Rai Educationale la formazione continua 61di Alessandra Ciarletti

RubrichePalladium 64Ultim’ora da Laziodisu 65Non tutti sanno che… 66

DocumentiNell’educazione un tesoro 68di Jacques Delors

RecensioniThe women’s table 70Un monumento per le studentesse di Yaledi Francesca Gisotti

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In un passo successivodi questo famoso dis-corso presentato all’U-NESCO, Jacques De-lors afferma che l’edu-cazione è la via princi-

pale per raggiungere ideali di pace, libertà e giusti-zia sociale. I tipi di educazione che egli menzionasono quattro: imparare a conoscere, imparare a fare,imparare a vivere insieme e imparare a essere. Se-condo Delors, un’educazione che si limiti a svilup-pare uno solo di questi aspetti, è inadeguata per losviluppo armonioso e completo di un essere umano.

In questo numero ci occupiamo di scuola, di educa-zione e, pertanto, ci occupiamo anche di libertà e dipace. Educare alla libertà è il titolo scelto in omag-gio alla grande tradizione italiana di Maria Montes-sori e di don Lorenzo Milani, ma anche alla tradi-zione antroposofica di Rudolf Steiner, ai lavori diPaulo Freire e di Jean Piaget.“Educare alla libertà” significa, ad esempio, ricono-scere al singolo essere umano la libertà di esserecome è. In una bellissima frase Michaela Glöcklerdice ad un bambino: «Ich freue mich darüber, dassdu genau so bist, wie du bist» (sono felice che tu siaproprio come sei). Senza giudizio, senza valutazio-ne. Non c’è un ideale esterno, al quale normativa-mente il bambino si deve conformare, come unasorta di righello dell’anima con cui “raddrizzare” lapiantina che si ostina a crescere “storta”.Gli educatori, i “maestri” accompagnano maieutica-mente i bambini e le bambine lungo un percorso diacquisizione progressiva della consapevolezza, lun-go un percorso di autoeducazione. Il concetto di au-toapprendimento risulta centrale in molte delle pro-spettive qui menzionate, in quanto via possibile perconiugare le competenze del sapere con quelle dellavita. Se apprendere infatti significa “fare esperien-za”, come insegnare qualcosa all’altro, se non ac-compagnandolo in un percorso di cui egli stesso siafautore?Le competenze della vita (imparare a vivere insie-me, imparare a essere) acquisiscono un’importanzapari alle competenze del conoscere e del fare. Macosa significa imparare ad essere? A Cartesio chescriveva «cogito ergo sum», Rudolf Steiner rispon-

deva: «se penso, non sono». Il pensiero nell’antro-posofia riguarda la rappresentazione e, come tale,non riguarda il mondo dell’essere. Imparare ad es-sere significa, in tale prospettiva, imparare a nonpensare la realtà, ma “a esserla”, cioè a fondersi conessa. Una qualità che i bambini sembrano avere in-nata, ma che va perduta nel processo di transizioneall’età adulta e che pertanto un’educazione volta al-la libertà potrebbe aiutare a recuperare con consa-pevolezza. Ma dove e in che modo nelle nostrescuole e nelle nostre università insegniamo ai bam-bini e ai giovani ad essere e a vivere insieme? Qualisono i curricula, dove queste qualità vengono colti-vate? All’università la tentazione di dire che “spettaai percorsi scolastici precedenti” è forte e suona as-sai rassicurante, ma è legittima?

In che misura noi professori abbiamo imparato a es-sere e a vivere insieme? E come possiamo insegnar-lo? I confini sicuri delle nostre discipline ci permet-tono di insegnare materie che, se non felicementefecondate dai saperi della vita, possono produrre co-noscenze sterili. Imparare a conoscere è certamentefondamentale, ma come insegnare il resto? E cosadire dei saperi pratici? Già in altre occasioni abbia-mo sottolineato, sulle pagine di questo giornale, co-me il saper fare sia tutt’uno con il saper conoscere.Tuttavia i saperi delle mani, i saperi del corpo sonostati espulsi dalle fabbriche contemporanee della co-noscenza. Sono divenuti saperi di serie b, relegatiad altri percorsi formativi. Questo processo di per sénon sarebbe negativo, se a questi percorsi formativipratici non fosse stato attribuito “minor valore”. Sitratta di quel ben noto processo di classificazionedei saperi che ha legittimato una distinzione nettatra coloro che sanno e coloro che “sanno fare”. Ilcontadino filosofo, l’idraulico ingegnere o il panet-tiere botanico ci sembrano felici utopie o, perlome-no, eccezioni poco praticabili. Invece, come auspicaGilles Clément, il futuro sembra orientarsi verso imonaci giardinieri, cioè verso coloro che di fronte

La scuola che “abbiamo a cuore”di Anna Lisa Tota

In questo numero ci occupiamodi scuola, di educazione e, pertanto,ci occupiamo anche di libertà e di pace

«L’educazione si colloca al centro dello sviluppo sia della persona sia della comu-nità; il suo compito è quello di consentire a ciascuno di sviluppare pienamente ipropri talenti e di realizzare le proprie potenzialità creative, compresa la respon-sabilità per la propria vita e il conseguimento dei propri fini personali». (da Nel-l’educazione un tesoro, Rapporto della Commissione internazionale per l’educa-zione del XXI Secolo, Jacques Delors).

Anna Lisa Tota

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al miracolo della natura potranno applicare un “sa-pere fare” coniugato ad un sapere conoscere e ad unsaper essere. In tale futuro non ci sarà posto per dis-erbanti che aumentino la produttività delle piantinedi pomodori mettendo a rischio l’ecosistema e la sa-lute delle altre specie vegetali, animali, perché chiusa i diserbanti avrà studiato anche chimica, medici-na e filosofia e saprà ben riconoscere le sostanzeche impiega e i loro effetti sull’ecosistema.È dalla sintesi di tutti i saperi ricordati da Delorsche può scaturire un tipo di azione sociale in cui ilprofitto e l’etica pubblica siano due facce della stes-sa medaglia, senza apparire come due aspetti im-possibili da coniugare. Il problema non è più quellodella “quadratura del cerchio”, perché il cerchio ègià di per sé anche un quadrato.

Un altro tema ricorrente nel dibattito sulla scuola èquello della reciprocità di ogni processo educativo.“Chi educa chi?” è un Leitmotiv ricorrente: siamonoi “maestri” ad educare i bambini e le bambineche ci vengono affidate o l’autoeducazione è reci-proca? Quanto siamo disposti a riconoscere e adammettere che i nostri studenti ci accompagnano inun processo di autoeducazione? Certo questa è unaposizione che mette in gioco, che toglie sicurezza eche può suscitare timore. Essa mette in discussione

la barriera protettiva del ruolo, ma al contempo per-mette alla persona “studente” di incontrare la perso-na “professore”. Permette un dialogo di reciprocorispetto, permette uno scambio, nel quale il saperconoscere è intrecciato e intessuto con il saper fare,con il saper essere e con il saper vivere insieme. Èuna posizione di equilibrio faticosamente ricercatoe rinnovato in ogni momento, dove in un gioco sot-tile e complesso si ricompone la complessità delleforze che governano la condizione umana, dovel’autorità non ha più basi legittimate a priori dal-l’appartenenza ad un ruolo e lascia il posto ad unaben più solida autorevolezza fondata sul carisma esullo spessore morale riconosciuto alla persona. Ilproblema di un processo educativo affidato all’au-torevolezza è che essa si rinnova di volta in volta inun patto di stima reciproca, rispetto e libertà chenon può essere dato per scontato una volta per tutte.L’autorità è una proprietà stabilmente inscritta nelruolo e come tale ascritta per colui o colei che looccupa. L’autorevolezza invece è una qualità che siacquisisce “sul campo”, nel corso di successive in-terazioni sociali. L’autorevolezza in tal senso apread un rapporto pedagogico sempre in divenire, l’au-torità preclude la strada della libertà sia per chi lapratica, sia per chi la subisce.La questione del potere connesso ai processi di edu-cazione è stata al centro della riflessione di don Lo-renzo Milani. Nel 1967 con Lettera a una professo-ressa egli avvia una riflessione critica profonda sul

ruolo dei processi educativi, sulle funzioni dellascuola dell’obbligo, sull’importanza di parlare “cor-rettamente” la lingua italiana:

«Del resto bisognerebbe intendersi su cosa sia lalingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poiseguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristal-lizzano per poter sfottere chi non parla come loro.O per bocciarlo. (…) Quando Gianni era piccino,chiamava la radio “lalla”. E il babbo serio: “non sidice lalla, si dice aradio”. Ora, se è possibile, è beneche Gianni impari a dire radio. La vostra lingua po-trebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cac-ciarlo dalla scuola. “Tutti i cittadini sono ugualisenza distinzione di lingua”. … L’ha detto la Costi-tuzione pensando a lui». (Milani 1967, p. 19).

Don Lorenzo Milani svelò alle famiglie italiane al-cune delle incongruenze più profonde dell’istituzio-ne scuola, così com’era concepita dalla mentalitàborghese: perché mai gli alunni si sarebbero dovutirallegrare quando c’era vacanza? Di quali alunni sistava parlando? In quegli anni, quando non si anda-va a scuola, bisognava mungere le mucche nellastalla, aiutare nei campi. Ogni giorno di chiusuradella scuola, lungi dall’essere “vacanza”, era ungiorno di lavoro durissimo per giovani, poco piùche bambini. Era un giorno in meno d’istruzione.Quando la scuola funziona, andarci è una gioia, nonuna costrizione. Milani ha in mente una scuola cheriesca a trasmettere la passione per lo studio, l’inte-resse e l’amore per quello che si fa. Non una scuoladel “si deve”, ma una scuola del “si può” e del “sivuole”. Come dimenticare la sua appassionata de-nuncia contro una scuola dell’obbligo che si per-mette di bocciare:

«Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il no-me. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spessoa lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamatescuola, ai ragazzi che “respingete”. Ci respingete neicampi e nelle fabbriche e ci dimenticate».

I campi e le fabbriche di cui parla don Lorenzo Mi-lani appartengono al passato e l’Italia di oggi è pro-fondamente cambiata. Quelli che bocciamo noi do-ve finiscono?

Rudolf Steiner

Ma cosa significa imparare ad essere?A Cartesio che scriveva «cogito ergo sum»,

Rudolf Steiner rispondeva:«se penso, non sono»

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Negli edifici per servizie attrezzature pubbli-che l’insieme delle do-tazioni deve essereconcepito come il natu-rale complemento diquanto serve anche allacittà. I musei, le biblio-teche, i teatri offrono,sempre più, ambienti diuso promiscuo, rivoltiai diretti fruitori, maanche agli utenti chesolo occasionalmente siavvicinano. Nei musei

gli spazi destinati all’accoglienza prevedono puntidi ristoro aperti a tutti, collegati alla libreria e all’a-rea per lo shopping; i teatri sono progettati con fo-yer a separazioni progressive dove, a seconda dellenecessità, chi assiste allo spettacolo è l’unico utenteoppure, fuori dell’orario di rappresentazione, i co-muni passanti possono invadere quei luoghi, talvol-ta di margine, non destinati a funzioni specifiche.Anche la scuola, seppure in misura minore, è sog-getta a questo tipo di “occupazione” dall’esterno;anche se con una certa riluttanza, non può non con-cedere ambienti, funzioni e servizi. La decisione diaprirsi all’esterno non è però solo ideologica e poli-tica da parte degli insegnanti; essa dipende dall’im-postazione tipologica dell’edificio. Questa può es-sere infatti molto condizionante, limitando i margi-ni di apertura e di collegamento con la città.

Ogni progetto di scuola deriva da un preciso model-lo educativo e da una specifica realtà urbana. Per in-terpretarne il valore e la qualità architettonica si de-ve partire pertanto dalla combinazione tra il rappor-to con la città e il riferimento al tipo edilizio, che in-quadrano i due principali termini di lettura: chiari-scono la ricchezza del progetto e orientano, in primaapprossimazione, i riferimenti culturali ispiratori.

A partire dall’impianto scolastico ottocentesco, ri-volto soprattutto alla determinazione di un ordineinterno dove le aule erano allineate lungo un corri-doio, lasciando al dialogo con la città facciate atten-

te a descrivere il valore dell’istituzione, la scuolarazionalista ha definito con precisione i due termini– rapporto con la città e tipo edilizio – sia sotto l’a-spetto culturale sia sotto quello metodologico, rap-presentandone le effettive coordinate progettuali.Chiare sono le premesse urbanistiche e altrettantochiari sono i principi che guidano l’impostazionedell’impianto edilizio. Nella città razionalista, strut-turata per quartieri autosufficienti, dove le funzionisono separate e riconoscibili, la scuola è distinta per

La scuola che formaLo spazio architettonico come valore educativodi Mario Panizza

Mario Panizza

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Walter Gropius, Edwin Maxwell Fry, Scuola secondaria-centro sociale, Impington (Inghilterra), 1939

Ogni progetto di scuola derivada un preciso modello educativoe da una specifica realtà urbana.

Per interpretarne il valore e la qualitàarchitettonica si deve partire

dalla combinazione tra il rapportocon la città e il riferimento al tipo

edilizio, che inquadrano i due principalitermini di lettura: chiariscono

la ricchezza del progetto e orientanoi riferimenti culturali ispiratori

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ordine e grado, dimensionata in base alle aggrega-zioni urbane: minime, medie e massime – isolato,quartiere e città –. Sono grandezze riconducibili a

tempi di percorrenza e quindi idonee a determinare,secondo l’età dell’allievo, il numero, il tipo di scuo-la necessario. La relazione con la città è però solodimensionale, poiché la forma della scuola è del

tutto indipendentedal sistema urbanocircostante. Essa,per quanto è possi-bile, è circondata dauna fascia di verdeche le attribuiscel’immagine di unmicrocosmo desti-nato all’educazione,isolata e separata fi-sicamente dal restodella città.Nella scuola razio-nalista la tipologiatrae origine da unaprecisa priorità fun-zionale, dove l’aula,che identifica l’uni-tà compositiva, co-struisce di fatto, at-

traverso il sistema di aggregazione, più o menocomplesso, la forma dell’edificio. L’insieme delleaule e il sistema dei percorsi configurano l’impiantoplanimetrico e rendono esplicite le parti funzionali,dichiarate all’esterno da precisi riferimenti formali.Il riconoscimento della scuola non è affidato allasua immagine sintetica, ma all’insieme equilibratodelle parti, tutte ben connotate, riconducibili a ele-menti semplici che dichiarano il sistema compositi-vo e funzionale dell’intero impianto.

Danys Lasdum, Lindsey Alexander Drake, Scuola primaria a Holfield (Inghilterra), 1955

Mario Botta, Scuola secondaria, Morbio inferiore (Canton Ticino), 1977

La volontà di inserire la scuolanel contesto urbano e di integrarlaformalmente con il resto della città

segna il superamento del modello e dellanormativa razionalista. La scuolasi trasforma da oasi e paradiso

del fanciullo in uno dei poli della cittàin evoluzione: si apre all’esternoe determina condizioni elastiche

di cambiamento

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La volontà di inserire la scuola nel contesto urbanoe di integrarla formalmente con il resto della cittàsegna il superamento del modello e della normativarazionalista. La scuola si trasforma da oasi e paradi-so del fanciullo in uno dei poli della città in evolu-zione; si apre all’esterno e determina condizionielastiche di cambiamento. Ogni opera architettoni-ca, e soprattutto quella per i servizi pubblici, diven-ta un potenziale polo aggregatore che integra e ren-de morfologicamente partecipi anche parti di cittàprofondamente diverse. Ogni intervento rappresentaun’occasione per definire il disegno e la forma dellacittà sia nelle zone consolidate sia nelle aree dovela crescita informale ha impedito la costituzione diun sistema urbano. Prende corpo un nuovo modellodi scuola che tende al riordino delle aree urbanizza-te. Soprattutto in quelle centrali essa diventa unodei poli principali, sistema guida rivolto alla razio-nalizzazione del tessuto cittadino, luogo non piùastratto, avulso dalla realtà sociale, ma legato allecondizioni del posto.Naturalmente per la scuola il problema non è solourbanistico, di equilibrio formale e funzionale tra leparti della città, ma anche specifico, direttamenterivolto al sistema educativo. I due motivi di caratte-re urbanistico e pedagogico si fondono pertanto inun unico obiettivo: la scuola chiusa, estranea allacittà, è sostituita da un sistema didatticamente atti-vo e stimolante e soprattutto più economico nelquadro generale dei servizi sociali, con la spinta,che proviene dall’interno della struttura scolastica,al rinnovamento del sistema educativo.La pedagogia moderna vuole infatti, sempre più,fondere in una unica operazione globale la funzionedidattica e la funzione educativa ed esclude che es-se siano patrimonio esclusivo della scuola e soprat-tutto che si svolgano interamente nell’aula. La radi-calizzazione di queste teorie ha portato, addirittura,

anche alla formulazione di ipotesi, ormai abbando-nate, che prevedevano la distruzione della scuola edichiaravano l’inutilità degli edifici scolastici, inquanto solo nella comunità era possibile trovare lavera struttura educativa.Naturalmente la condivisione dei servizi con la cittàcircostante è maggiore quanto più è elevato il gradoscolastico. Per tale ragione i licei, soprattutto quelli

di grandi dimensioni che si rifanno al modello dellascuola secondaria superiore tedesca, possono offrireuna serie di servizi aggiuntivi quali la piscina, l’au-ditorio, la palestra, la biblioteca. Queste strutture,se opportunamente compartimentate, favorisconoun uso differenziato e, soprattutto, rendono possibi-le un orario di apertura dilatato. Questa opportunitàcresce ulteriormente se gli ambienti non sono di ti-po specialistico, permettendo una sufficiente flessi-bilità di utilizzazione. L’esempio più evidente è rap-presentato dalla palestra che può essere concepita intermini solo sportivi, costruita con gli spalti comeun palazzetto dello sport, oppure, in termini menoagonistici e più sociali, offrirsi per assemblee o

spettacoli tipo reci-te o square dance.Per l’edilizia univer-sitaria la condivisio-ne dei servizi è an-cora più semplice ediretta in quanto ladestinazione dell’of-ferta non è esclusi-va, ma aperta a unpubblico esterno,che, in alcune occa-sioni, può anche es-sere prevalente. Pertale ragione gli am-bienti di disimpegnodevono essere ampiper accogliere unnumero alto di fre-quentatori e favorirequell’interscambiotra docenti, studentied esterni, indispen-sabile per lo svilup-po della cultura e deirisultati scientifici.

Hubert Bennet, John Bancroft, Scuola secondaria superiore, Pimlico, Londra, 1970

Per l’edilizia universitaria lacondivisione dei servizi è ancora piùsemplice e diretta in quanto la

destinazione dell’offerta non è esclusiva,ma aperta a un pubblico esterno. Pertale ragione gli ambienti di disimpegnodevono essere ampi per accogliere e

favorire quell’interscambio tra docenti,studenti ed esterni, indispensabile per lo

sviluppo della cultura

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Il 2014 si presenta co-me un anno crucialeper interrogarsi su qua-li siano o possano esse-re riconosciuti comedati costitutivi dellacultura europea, baseimprescindibile diquell’identità dell’Eu-ropa, che oggi rappre-senta uno dei temi piùaccesi nel dibattito sul-l’avvenire dell’UnioneEuropea e sul valoredella nuova cittadinan-

za generata dai processi d’integrazione. In quest’an-no, infatti, ricorre il centenario della Prima GuerraMondiale: una guerra terribile, dalla mai prima im-maginata forza distruttiva, che segnò una crisi pro-fonda nella coscienza europea, chiamata a doverfronteggiare dopo poco più di un trentennio ancheuna seconda guerra fratricida, estesa al mondo inte-ro. In quelle drammatiche vicende sembrarono nau-fragare quegli ideali di civiltà che, pure tra millecontraddizioni, erano cresciuti insieme con la mo-dernità del nostro continente.

In questo stesso anno ricorrono anche i venticinqueanni dalla caduta del muro di Berlino con l’epocaleriassorbimento dell’aspra frattura tra l’Europa Oc-cidentale e l’Europa Orientale, che aveva caratte-rizzato l’epoca della guerra fredda e il confronto inarmi tra due sistemi ideologici irriconciliabili. Og-gi, con l’allargamento a 28 Stati membri si è ac-centuata la fisionomia multiculturale e multilinguedell’Unione europea, ma sono anche cresciute lepaure di dover integrare popoli in condizioni digrande lontananza dal modello culturale europeofortemente occidentale e occidentalizzato (ad es. laTurchia, che ripropone il problema della presenzadell’Islam entro i confini europei: 53 milioni diaderenti nell’Europa geografica, 17 milioni nell’U-nione Europea).

Le elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo,appena avvenute nel mese di aprile, hanno rappre-sentato un segnale contraddittorio con l’affacciarsinella rappresentanza istituzionale di un folto gruppodi euroscettici. L’attuale semestre di presidenza ita-liana del Consiglio d’Europa vuole autodefinirsi me-diante il rilancio della visione intensa e partecipatadei Padri fondatori (1958), ma anche con l’eserciziodi una difficile mediazione per rendere più flessibiliquei vincoli di bilancio, che nell’attuale crisi socio-economica tendono a soffocare la visione dell’Euro-pa come patria comune.

Dagli Anni Novanta del secolo scorso la Commis-sione europea si è resa conto con intensità crescen-te della necessità improrogabile di elaborare unapolitica culturale comunitaria al servizio della co-struzione di un’identità europea condivisa: que-st’ultima, condizione imprescindibile per unire conun vincolo virtuoso tre aspetti ineludibili per la vi-ta dell’UE quali la coesione sociale, l’integrazionepolitica ed economica, il sistema di governance (ela sua legittimazione). Molti critici sottolineanocome deficit democratico del sistema l’assenza diun vero popolo europeo, che però allo stato attualenon può formarsi a prescindere da un forte proget-to educativo, che conformi le giovani generazioni auna visione dell’Europa pluralistica e cosmopolitain grado di superare lo schema consolidato e uni-voco dello Stato-nazione e l’esasperazione del na-zionalismo, che vede la nazione come luogo unico,esclusivo ed escludente di formazione ed espres-sione di una coscienza identitaria collettiva. Perqueste ragioni, nell’ottica dei decisori politici diBruxelles le Università sono diventate un asse por-tante delle politiche culturali comunitarie e l’ambi-zioso programma di finanziamento della ricercascientifica europea, nei suoi aspetti di base e di tra-sferimento tecnologico, denominato Horizon 2020,vede in quelle stesse Università un luogo strategicoper la salvaguardia e la promozione del patrimonioculturale europeo secondo canoni formativi e d’in-tervento profondamente innovativi e partecipati. Il

programma Erasmus, affermatosi ormai come lostrumento classico per promuovere e sostenere lamobilità degli studenti e dei docenti all’interno deisistemi universitari europei diventando, così, lostrumento istituzionale più usato per lo scambio diesperienze formative e linguistiche, ha subito di-verse trasformazioni per adattarsi al progrediredell’intensità e del peso della formazione interuni-versitaria europea. Nella sua ultima versione, Era-smus Plus, è stato posto principalmente al servizio

Educare all’EuropaIl ruolo della scuola nell’immaginario socialedi Francesca Cantù

Francesca Cantù

Molti critici sottolineano come deficitdemocratico del sistema l’assenzadi un vero popolo europeo, che peròallo stato attuale non può formarsia prescindere da un forte progettoeducativo, che conformi le giovani

generazioni a una visione dell’Europapluralistica e cosmopolita in gradodi superare lo schema consolidatoe univoco dello Stato-nazione

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della realizzazione di titoli di studio doppi o con-giunti erogati da due o più Università, superandolo schema degli accordi bilaterali privilegiati persostituirlo con reti di Università europee costituite-si in consorzio. Appartenendo alle Università in re-te, gli studenti possono ormai compiere il loro per-corso formativo in più sedi sperimentando nellarealtà dei vari insegnamenti disciplinari e metodo-logici, delle diverse istituzioni universitarie e deidifferenti paesi che cosa possa significare vivere inquella che, nello sviluppo del Processo di Bologna,è stata definita come l’European Higher EducationArea (Dichiarazione di Budapest, 2010), il cui fu-turo sarà discusso nel prossimo mese di novembrein un’importante Conferenza internazionale(http://www.ehea.info).

Tra le discipline, che possono vantare una finalizza-zione importante per la costruzione dell’Europa nelpresente e nel prossimo futuro, accanto al diritto, al-l’economia, alle scienze politiche e sociali, allo stu-dio delle relazioni internazionali, alle lingue stra-niere e alle materie scientifiche e tecnologiche, cen’è sicuramente una, apparentemente priva di effi-cacia strumentale immediata, eppure centrale per laformazione di un’identità europea e per l’educazio-ne ad un’Europa dialogante, tollerante, democratica

e comunitaria. È la storia d’Europa: disciplina com-plessa, ricchissima, illuminante, ma anche dramma-tica, contraddittoria, talvolta tragica, spesso proble-matica, ma irrinunciabile per conoscere da dove

viene, dove si trova, dove vorrà andare il nostrocontinente e, più specificatamente, l’Unione euro-pea nella configurazione plurale dei suoi popoli,delle sue lingue, delle sue culture, della sua civiltà.

Sebbene dell’esistenza di un vasto territorio geo-grafico, dai confini imprecisati e variabili, chiama-

Una carta d’Europa del 1700, nella quale si distingue fra “Moscovia Europa” e “Moscovia Asiatica” e fra “Turchia Europa” e “TurchiaAsiatica”. Guillaume Delisle, L’Europe dressée sur les observations de Mrs de l’Académie royale des Sciences et quelques autres: etsur les mémoires les plus recens / par G. De L’Isle, A Paris, chéz l’auteur, 1700 (Bibliothèque nationale de France, Paris, Collectiond’Anville; 00154)

Le Università sono diventate un asseportante delle politiche culturali

comunitarie e l’ambizioso programmadi finanziamento della ricerca

scientifica europea, nei suoi aspettidi base e di trasferimento tecnologico,denominato Horizon 2020,vede nelleUniversità un luogo strategico

per la salvaguardia e la promozionedel patrimonio culturale europeo

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to Europa, contrapposto alle altre due parti delmondo, Asia e Libia (Africa) e spesso identificatocon la Grecia (Erodoto), fossero già avvertiti gliautori dell’Antichità, l’idea d’Europa a cui oggi noifacciamo riferimento nasce e si afferma nell’età

moderna con la respublica litterarum degli umani-sti, la scienza politica di Machiavelli, la provocato-ria scoperta dell’alterità radicale rappresentata dalNuovo Mondo (America). Nella concatenazione diquesti eventi e di queste realtà si articola la rispo-sta all’interrogativo così ben formulato dallo stori-co italiano Federico Chabod: «Quando il nome Eu-ropa cominciò a designare non solo un complessogeografico, sì anche un complesso storico; non so-lo un determinato fattore fisico, sì anche un deter-minante fattore morale, politico, religioso, artisticodella vita dell’umanità? E quali furono le caratteri-stiche con cui l’Europa si discoprì, moralmente, aisuoi figli; quali, cioè, i lineamenti morali che le fu-rono attribuiti, come propri di essa e di essa sola?».Se l’italiano di Chabod può suonare, oggi un po’desueto, non è superato il significato concreto esimbolico dell’interrogativo da lui formulato nellesue lezioni universitarie romane tra il 1946 e il1952, di fronte alla tragica memoria di milioni dimorti, alle macerie e alle lacerazioni profonde la-sciate dalla Seconda Guerra Mondiale. E non è nétrascurabile né accessorio il fatto che la generazio-ne di coloro che oggi l’Europa Unita considera isuoi padri fondatori sia stata coinvolta e abbia vis-suto la tragedia dello scontro ideologico tra il tota-litarismo nazi-fascista (da cui nacque anche laShoah) e le democrazie liberali. Educare all’Euro-pa significa ancora conservare la memoria di que-gli interrogativi e di quelle origini.

Le storie d’Europa, che hanno variamente formula-to queste problematiche e variamente vi hanno ri-sposto, si sono susseguite molteplici nella storio-grafia del Novecento: da quella del belga Pirenne aquella del francese Febvre, a quella dell’italiano

Chabod e dell’in-glese Davies, percitarne soltanto al-cune, che costitui-scono oggi altret-tanti classici puntidi riferimento. Ep-pure sorprende i lfatto che la storiadell’Europa (edell’idea di Europa)sia entrata solo re-centemente, con lasua denominazionespecifica, fra le di-scipline storiche in-segnate all’Univer-sità. La storia costi-tuisce, in realtà, unfattore determinan-te dell’immaginariosociale di un popo-lo, di una nazione,di uno Stato; maanche di una comu-nità transnazionale(o postnazionale) esovrastatuale qualequella costituita daisoggetti apparte-

nenti all’Unione europea, che proprio nel senti-mento di una storia e di una identità culturale con-divisa possono superare il problema di appartenerea un’Europa tuttora frammentata politicamente epriva di un vero demos (popolo). Problema crucia-le, quest’ultimo, perché senza demos non può es-serci democrazia.

Tra le diverse risposte che le istituzioni universita-rie europee hanno dato al problema di educareall’Europa mediante uno specifico percorso forma-tivo basato sulla costruzione di una nuova consape-volezza di appartenere a una storia e a una cultura

«Irgendwann fällt jede Mauer». Prima o poi ogni muro cade. Un graffito sul Muro di Berlino. L’immaginefa parte di una galleria di foto scattate nel 1989, alla vigilia della caduta del Muro - di cui quest’anno ricor-re il 25° anniversario - dall’allora studente diciassettenne Frederick Ramm©

La storia costituisce un fattoredeterminante dell’immaginario socialedi un popolo, ma anche di una comunitàtransnazionale e sovrastatuale quale

quella costituita dai soggetti appartenentiall’Unione europea, che proprio

nel sentimento di una storia e di unaidentità culturale condivisa possonosuperare il problema di appartenerea un’Europa tuttora frammentata

politicamente e priva di un vero demos

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fondate su valori comuni e condivisi nonché dinuove competenze professionali spendibili in con-testo europeo, sostenute da una cultura storica ap-profondita e sicura, ne vorrei mettere qui in evi-denza una, che mi sembra di particolare interessesia in generale sia per l’Università Roma Tre. Essaconsiste nell’attivazione di una Laurea Magistralecongiunta in Storia europea (Joint Master in Euro-pean Studies), regolata da un Consortium Agree-ment nato in seno a UNICA (l’Unione delle Uni-versità delle Capitali Europee), che riunisce in unarete formativa sette Università appartenenti a cin-que capitali: Vienna (Università di Vienna), Berli-no (Freie Universität e Humboldt-Universität),Londra (King’s College), Dublino (University Col-lege), Roma (Tor Vergata e Roma Tre), a cui si ag-giungono in qualità di membri associati l’Universi-tà di Tallin e l’Università di Paris VII-Diderot. Ilprogramma degli studi si fonda sull’analisi compa-rata della storia europea e prevede una formazioneavanzata sia dal punto di vista della didattica comedella ricerca in grado di dare a studenti qualificati,selezionati secondo le regole interne di ciascunaUniversità, competenze analitiche e interpretativerispetto alla storia economica, sociale, culturale,intellettuale, religiosa dell’Europa. Sono privile-giate le tematiche della storia della violenza e deiconflitti, della storia coloniale e post-coloniale,della storia della costruzione dello Stato e della na-zione, delle relazioni internazionali e transculturali,delle migrazioni. Gli studenti vengono formatiall’uso critico, teorico e metodologico, del compa-rativismo storico, all’utilizzazione delle fonti pri-marie e alla pratica delle lingue straniere; devonoacquisire la capacità d’individuare i temi-chiavedel dibattito storiografico e saper presentare le pro-prie conclusioni e i propri approfondimenti con

originalità e rigore; devono, infine, acquisire le co-noscenze necessarie, gli strumenti scientifici e imetodi appropriati per sviluppare individualmente,implementare e valutare i modi efficaci di accosta-re e risolvere le questioni scientifiche. Nel lavorodi tesi devono dimostrare di aver raggiunto cono-

scenze approfondite, comprensione critica e auto-revole capacità d’interpretare i differenti aspettidella storia europea e di condurre in proprio ricer-che originali e fondate analisi e riflessioni critiche.Gli studenti devono conseguire nelle Universitàpartner da 30 a 60 crediti dei 120 necessari per ot-tenere il titolo di studio italiano e quello delle Uni-versità consorziate in cui hanno svolto parte dellaloro formazione.

A Roma Tre la Lau-rea Magistrale inStoria europea è in-cardinata nella Lau-rea Magistrale inStoria e società,presso il Diparti-mento di StudiUmanistici. L’annoaccademico 2013-2014 è stato quellodi prima attivazionee ha visto venire afrequentare i nostricorsi due studentidella Humboldt-Universität di Berli-no, la più prestigio-sa Università privatadella Germania, conun ottimo risultatopersonale. Posta nel-le mani di giovanimotivati l’Europacontinua ad essereun’affascinante av-ventura.

Horizon 2020 è un ambizioso programma di finanziamento della ricerca scientifica europea

Roma Tre ha attivato una LaureaMagistrale congiunta in Storia europea(Joint Master in European Studies),che riunisce sette Università

appartenenti a cinque capitali: Vienna(Università di Vienna), Berlino(Freie Universität e Humboldt-

Universität), Londra (King’s College),Dublino (University College),

Roma (Tor Vergata e Roma Tre),a cui si aggiungono in qualitàdi membri associati l’Universitàdi Tallin e l’Università di Paris

VII-Diderot

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La più antica universitàdel mondo, lo Studiumdi Bologna, è nata comeorganizzazione libera elaica di studenti cheprovenivano da tuttaEuropa. Essi, dopo ave-re completato gli studi,ritornavano nel Paese diorigine ed esprimevanonegli studi successivi,nell’attività professio-nale, quelle comuni co-noscenze e quelle uni-versali esigenze che

avevano imparato a riconoscere, rispettare ed amareattraverso il confronto con i loro colleghi e con i do-centi.Dominava l’aspirazione a un sapere senza confini ela dimensione internazionale qualificava gli studi:nella loro proiezione strettamente culturale e inquella professionale. Ciò vale anche oggi, perché laglobalizzazione si fonda su una rete di interrelazio-ni sovranazionali e l’università ha il compito di do-tare gli studenti delle conoscenze - di base e specia-listiche - indispensabili per essere cittadini delmondo. Deve produrre e trasmettere una conoscen-za solida, ma, nello stesso tempo, flessibile e idoneaa essere spesa senza confini.L’università ha avvertito in Europa queste esigenzee nella parte conclusiva del secondo millennio hasaputo rilanciare la propria originaria vocazione di-dattica a dimensione internazionale, dandole vocecon la Dichiarazione di Bologna del 1999, quando29 ministri europei dell’istruzione hanno assuntol’impegno solenne di realizzare lo “spazio europeodell’istruzione superiore”. Non è stata una sceltaestemporanea, ma la conclusione coerente di unaserie di precedenti decisioni: a cominciare dalla re-dazione della Magna Charta Universitatum del1988, in occasione del 900° anniversario dalla fon-dazione dell’Università di Bologna. Con essa si eraenunciata la volontà di incoraggiare il rafforzamen-to dei legami tra le istituzioni universitarie europeee contemporaneamente la loro apertura al mondoextra-europeo. La Magna Charta aveva chiaramen-te indicato nell’istruzione superiore l’elemento dipiù forte impatto per l’avvenire dell’umanità, evi-denziando quali valori fondamentali dell’insegna-mento universitario, l’autonomia, la stretta e impre-scindibile connessione della didattica con la ricerca,la libertà dei docenti e la trasmissione di una cono-scenza priva di limiti geografici e/o politici.La Dichiarazione di Bologna, però, si è posta in li-nea di continuità anche con quanto si era affermatonel precedente di Lisbona (1997): con l’esigenza di

pervenire in Europa al riconoscimento mutuo dei ti-toli di studio, alla loro armonizzazione e spendibili-tà in un mercato del lavoro internazionale, secondoun cliché sviluppato dalla successiva Dichiarazionedella Sorbona (1998), con la decisione di omoge-neizzare gli studi universitari in due cicli: uno diprimo e uno di secondo livello, utilizzando i creditisecondo il sistema ECTS (European Credit Trans-fer and Accumulation System), articolando gli studiin semestri, creando programmi di studio diversifi-cati e multidisciplinari rispetto a quelli più tradizio-nali, favorendo l’approfondimento delle conoscenzelinguistiche e delle nuove tecnologie informatiche.Sono questi i presupposti che hanno prodotto in Eu-ropa lo spazio europeo dell’istruzione superiore, de-stinato ad assumere sempre maggiore evidenza giàall’inizio del terzo millennio: grazie alla consolida-zione del Programma Erasmus e alla fissazione dinuovi e ambiziosi obiettivi in una serie di incontrisusseguitisi a cadenza biennale. Ne è derivato il ri-conoscimento, a Praga (2001), dell’istruzione supe-riore come bene pubblico e del diritto all’apprendi-

mento permanente (secondo una prospettiva fattapropria dal Parlamento e dal Consiglio Europeo nel2006 con la creazione del Life-Long Learning Pro-gramme); la riaffermazione, a Berlino (2003), di unindissolubile collegamento fra didattica di alto li-vello e ricerca, la configurazione stabile del Dotto-rato come terzo ciclo dei curricula didattici univer-sitari; l’invito a sviluppare programmi di sostegnoper i meno abbienti.La vocazione internazionale dell’università vieneormai percepita come un ineliminabile pilastro del-la sua funzione didattica e varie evidenze lo confer-mano in modo inequivocabile.Innanzi tutto, la realizzazione di una convergenzadei cicli di studio e dei titoli. Il primo ciclo è indica-to con il nome bachelor e ha una durata triennale,mentre il secondo è denominato master e ha una du-rata biennale. Il terzo ciclo coincide con il Dottora-

La vocazione internazionale dell’universitàLo spazio europeo dell’istruzione superioredi Vincenzo Mannino

Vincenzo Mannino

La globalizzazione si fonda su una retedi interrelazioni sovranazionali

e l’università ha il compito di dotaregli studenti delle conoscenze - di basee specialistiche - indispensabiliper essere cittadini del mondo.Deve produrre e trasmettereuna conoscenza solida,

ma, nello stesso tempo, flessibilee idonea a essere spesa senza confini

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to. Il cosiddetto 3+2 consente l’inserimento nelmondo del lavoro già alla fine del primo ciclo di stu-di. Il terzo ciclo ha lo scopo di accrescere la compe-titività dei singoli e dei Paesi nel mercato globale.In secondo luogo, l’introduzione generalizzata delsistema dei crediti, basato sul sistema ECTS. Essoconsente la descrizione dei programmi distudio: nella sostanza, sulla valutazionedel carico di lavoro richiesto allo studen-te per raggiungere gli obiettivi di un cor-so di studi. Il sistema ECTS è facilmenteesportabile. Si rivela uno strumento assaiincisivo per l’abbattimento delle barrierenazionali e il riconoscimento mutuo deititoli. Facilita non poco la mobilità deglistudenti, con il riconoscimento degli stu-di compiuti in università diverse da quel-le di origine.Accanto al Programma Erasmus, l’inter-nazionalizzazione della didattica ha tro-vato una formidabile spinta nel Program-ma Leonardo da Vinci, allo scopo di ren-dere possibile un primo avviamento allaprofessione in un contesto internaziona-le, e nel Programma Tempus, finalizzatoa sostenere lo scambio di studenti tra ipaesi UE e quelli confinanti.La dimensione internazionale della di-dattica è stata inoltre favorita dalla diffu-sione degli accordi inter-universitari peril rilascio di titoli congiunti, doppi emultipli, ma anche dalla pratica dellacertificazione della qualità degli studinei vari Paesi allo scopo di monitorare laqualità della didattica a tutti i suoi livel-li, come essenziale strumento in mano alle universi-tà per conquistarsi una buona reputazione. Que-st’ultima, infatti, rappresenta un elemento decisivonella competitività globale. La reputazione è la vera“moneta” dell’istruzione superiore e, perciò, neces-sita anche di certificazioni esterne ed oggettive.Roma Tre ha aderito in modo convinto al processostorico fin qui sintetizzato. Ha accettato la sfidadell’internazionalizzazione della propria offerta di-dattica, proponendo diverse attività di counseling,di tutoring, di ri-orientamento, in una dimensionenon più solo domestica. Ha introdotto forme di di-dattica-tirocinio attivo inusuali per l’Italia, comequelle della clinic of law. Offre un’ampia rosa dicorsi in lingua inglese e in altre lingue, distribuitilungo l’asse europeo Laurea triennale-Laurea Magi-strale-Dottorato, ma anche interi corsi e curriculavolti al rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli.Tutti i corsi si caratterizzano per l’adozione del si-stema ECTS e gli studi si svolgono stabilmente insemestri, secondo l’organizzazione più diffusa deicalendari accademici delle università di altri paesi,per favorire ulteriormente gli scambi degli studenti.Nonostante questo sforzo, confortato nella sua posi-tività dal crescente appeal dell’Ateneo e dal recenteingresso nella classifica Times Higher Educationche valuta le 100 migliori università del mondo conmeno di 50 anni d’attività, Roma Tre - come del re-sto la netta maggioranza delle università italiane -non compare o ha un posto solo residuale nelle

classifiche generali delle migliori università delmondo. In queste classifiche la valutazione della di-dattica nella sua proiezione internazionale ha unruolo tutt’altro che secondario. Perciò, anche semolto si potrebbe discutere sul ruolo e il modusoperandi delle agenzie, non si può negare che esse

forniscono una fotografia di cui è utile tenere conto.Certamente nelle scelte in materia di didattica: tantopiù che l’apertura internazionale della didattica avrànei prossimi anni un peso crescente nella distribu-zione delle risorse pubbliche, come dimostra il do-cumento di programmazione triennale 2013-2015del MIUR, dove si prospetta l’attribuzione di un30% del Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO)delle Università al grado di internazionalizzazionedei singoli atenei italiani.

Dobbiamo di conseguenza chiederci se e come l’in-ternazionalizzazione della didattica incide sulle per-formances di Roma Tre muovendo da alcuni dati dipiù immediata percezione.È innegabile che un elemento di criticità sia rappre-sentato dalla misura decrescente delle risorse pub-bliche destinate in questi ultimi anni al sistema uni-versitario italiano. Questo insufficiente impegno fi-nanziario ha prodotto esiti nefasti, ma ha avuto ef-fetti indubbiamente negativi per un ateneo giovanecome Roma Tre, che avrebbe avuto bisogno di in-

L’ingresso di alcuni studenti nella Natio Germanica Bononiae, il collegio di stu-denti tedeschi a Bologna; miniatura del 1497

La vocazione internazionaledell’università viene ormai percepitacome un ineliminabile pilastro dellasua funzione didattica e varie evidenzelo confermano in modo inequivocabile

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vestimenti più adeguati a stimolarne la crescita: an-che rispetto alle politiche per l’internazionalizza-zione della didattica. Bisogna sperare in un’inver-sione di tendenza a livello nazionale. Tuttavia, nonsi può restare fermi. Bisogna avere coraggio e com-piere uno sforzo di fantasia, realizzando alcuni in-terventi lungo l’asse rappresentato dalla capacità diconiugare il rafforzamento della mobilità docente estudentesca internazionale: sia in entrata, che inuscita. In questa prospettiva, alcuni interventi siprefigurano particolarmente promettenti: la stipuladi convenzioni che consentano il superamento deidiffusi punti critici nell’accoglienza (riconoscimen-to del titolo di studio conseguito fuori dell’Italia,permessi di soggiorno, assicurazione-assistenza sa-nitaria, alloggio etc.); la creazione presso tutti i Di-partimenti, di una stabile e diffusa struttura di sup-porto ad hoc, affidandone la gestione a studenti conle adeguate conoscenze linguistiche e delle proble-matiche studentesche, con compiti di accoglienza,da ricompensare con l’attribuzione di crediti forma-tivi; favorire l’iscrizione di studenti stranieri ai‘corsi singoli’; l’aumento consistente degli insegna-menti in lingua inglese e l’attivazione di interi corsidi studio in lingua inglese, aperti a studenti italianie di altri paesi; il potenziamento dell’offerta di corsida parte del Centro linguistico di Ateneo; l’offerta(anche a seguito di accordi con le strutture di gover-no territoriali) alle comunità di immigrati a Roma,spesso in possesso di titoli accademici non imme-diatamente riconoscibili, dell’opportunità di iscri-

versi a Roma Tre per ottenere un titolo accademicoitaliano; il forte stimolo alla partecipazione di Ro-ma Tre alle azioni previste dal programma Era-smus+, destinato ad avare un ruolo chiave nei pro-grammi europei per l’istruzione; l’elaborazione diun regolamento generale di mobilità-studenti Era-

smus; il coinvolgimento delle università partnercon cui più intensi sono gli scambi in termini dicrediti riconosciuti agli studenti in mobilità, per ladefinizione di ‘pacchetti di crediti’ collegati a curri-cula precostituiti e riconducibili a diversi semestri;l’estensione del numero dei percorsi didattici voltial rilascio di titoli congiunti, doppi e multipli, anchesfruttando le opportunità aperte dal recente bando

Erasmus+, dai bandi dell’Università italo-francese, etc.; l’attrazione di docenti-ricerca-tori di alto e riconosciuto livello internaziona-le, che operino in strutture all’estero, ancheoffrendo un certo numero di posizioni dedica-te di visiting professor come volano per l’av-vio di nuovi rapporti di collaborazione didat-tica e scientifica con istituzioni ai vertici delranking internazionale; l’ampliamento dellarete di collaborazioni internazionali con queipaesi emergenti le cui politiche si caratteriz-zino per il sostegno ai propri studenti che vo-gliano iniziare o completare il loro percorsodi studi in paesi con più consolidate e qualifi-cate tradizioni come l’Italia; l’organizzazio-ne, in collaborazione con le Camere di Com-mercio, con il Ministero delle Attività produt-tive e con il Ministero degli Affari esteri, diMaster di primo e secondo livello per dotaredelle necessarie conoscenze gli studenti chevogliano avviare iniziative imprenditoriali inItalia e all’estero.Molto altro, ovviamente, si potrà e dovrà pro-gettare e realizzare. Una cosa, comunque, de-ve essere chiara. L’Europa ha fissato l’obietti-vo che almeno il 20% dei laureati dovrà avereavuto nel 2020 un’esperienza di mobilità al-l’estero per studio o per formazione (Lova-nio, 2009). La strategia della mobilità per unmigliore apprendimento si consoliderà comeuno dei pilastri dell’internazionalizzazione ditutta l’istruzione superiore (Bucarest 2012).Roma Tre deve dotarsi di tutti gli strumentiper rispondere a questa ‘sfida’ epocale.

La dimensione internazionaledella didattica è stata inoltre favorita

dalla diffusione degli accordiinter-universitari per il rilascio di titolicongiunti, doppi e multipli, ma anchedalla pratica della certificazione dellaqualità degli studi nei vari Paesi alloscopo di monitorare la qualità della

didattica a tutti i livelli, come essenzialestrumento in mano alle università perconquistarsi una ‘buona reputazione’

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L’orientamento univer-sitario, nella sua artico-lazione di orientamentoin ingresso, in itinere ein uscita, ha assuntonegli ultimi decenni unruolo sempre più im-portante all’internodelle politiche di svi-luppo degli Atenei.A fondamento del nuo-vo quadro d’impegni sipuò collocare il dise-gno strategico dell’Eu-ropa e dei suoi stati

membri di promuovere uno sviluppo economico esociale centrato sulla “società della conoscenza”che si pone gli obiettivi di «promuovere una cresci-ta intelligente, sostenibile e inclusiva, trovare il mo-do di creare nuovi posti di lavoro e offrire un orien-tamento alle nostre società» (Manuel Barroso,2010, Europa2020). E questo implica, in primo luo-go, adeguati livelli d’istruzione e formazione dellapopolazione in una prospettiva di life long learning,un mercato del lavoro in grado di valorizzare piena-mente le risorse umane, una produzione in grado dicompetere sui mercati internazionali nel rispettodelle persone e dell’ambiente, un’equa distribuzio-ne della ricchezza.In tale direzione dapprima la cosiddetta Strategia diLisbona del 2000 e quindi, a distanza di un decennio,la nuova strategia Europa2020 propone un articolatoquadro di obiettivi per promuovere una crescita intel-ligente, sostenibile e solidale. In primo piano, l’in-nalzamento dei livelli d’istruzione secondaria e ter-ziaria dei giovani con un significativo incremento deitassi di occupazione e riduzione del pernicioso feno-meno del drop out e al tempo stesso una quota mag-giore di adulti lavoratori in formazione.Com’è noto, il nostro paese, proprio su questi indi-catori, ce lo ricorda annualmente il rapporto Educa-tion at a glance, si colloca in fondo alle classifichedei paesi OCSE. Ciò che colpisce maggiormente èil basso numero di laureati e il costante calo d’im-matricolazioni universitarie degli ultimi anni non fache acuire il dato. E neppure sembrano convincere igiovani, più di tanto, quei messaggi rassicuranti chemostrano come, nel medio e lungo periodo, a unmaggior livello di qualificazione corrisponda mag-giore probabilità di occupazione e miglior reddito(Esiti occupazionali dei laureati, AlmaLaurea,2014). Altri dati sembrano colpire di più: il numerocrescente di giovani laureati e dottori di ricerca chelascia il nostro Paese per cercare migliori opportu-nità. Nel 2013 il 31% dei nostri laureati in ingegne-ria ha trovato lavoro all’estero. E, com’è noto, la

laurea in Ingegneria è quella che registra da tempotra i più alti livelli di occupabilità. Il fenomeno nons’inquadra neppure, purtroppo, in un virtuoso esem-pio di mobilità professionale perché deve essere let-to insieme al dato che mostra come, nel nostro Pae-se, solo il 3,3% degli occupati lavora nei settori piùinnovativi, percentuale sotto la media europea e,ancor più preoccupante, arretra annualmente di uno0,3% a fronte di un incremento in Europa dello 0,9.Il fenomeno si presenta naturalmente molto com-plesso perché da una parte richiama l’educationalmismatch e lo skill mismatch ossia un disallinea-mento tra domanda e offerta che riguarda sia i titolidi studio sia le competenze professionali e dall’altrola natura di un sistema produttivo che non sembrain grado di crescere nella direzione richiesta percompetere sugli attuali mercati.

Quindi, se è vero che spesso il mondo del lavoro la-menta una congenita difficoltà del nostro sistemaformativo a generare livelli di qualificazione pro-fessionale direttamente spendibili sul mercato dellavoro, è altrettanto vero che il nostro sistema pro-duttivo sembra incapace di valorizzare, in una pro-spettiva di crescita e innovazione, il potenziale dirisorse umane di cui disporrebbe. Potenziale che,come si diceva sopra, trova invece collocazione al-trove, con un bilancio nettamente in negativo tra“intelligenza” esportata e quella importata. Ne con-segue che, nell’ultimo decennio, nelle nostre impre-se, si è andata costantemente riducendo la percen-tuale di nuovi assunti con un elevato livello di spe-cializzazione. «Ciò può essere dovuto alla scarsapropensione all’innovazione di cui soffrono leaziende italiane e al basso livello d’istruzione degliimprenditori italiani. Infatti, la propensione ad assu-mere laureati cresce significativamente in relazione

Una crescita intelligente, sostenibile e solidaleIl rilievo strategico dell’orientamentodi Massimo Margottini

Massimo Margottini

L’attuale mondo del lavoro sembracaratterizzato da attività professionalisempre meno definite e prevedibilie le transizioni lavorative risultanoessere sempre più frequenti e difficili.Nell’era dell’informazione è sempre più

richiesta l’iniziativa personalee l’adattabilità professionale, ovvero

quell’insieme complessodi atteggiamenti ed abilità

che riguardano l’ottimismo, lapropensione a pensare e a pianificareil proprio futuro professionale

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alla dimensione delle imprese e alloro grado di internazionalizzazionee innovatività» (Giovanni Solimine,Senza sapere. Il costo dell’ignoran-za in Italia, Bari, Laterza, 2014).Quindi quando parliamo di rilievostrategico dell’orientamento dobbia-mo intenderne un duplice ruolo:quello di contribuire alla armoniz-zazione dei rapporti tra sistemi for-mativi e mondo del lavoro e quellodi promuovere azioni e servizi disupporto al progetto professionale epersonale degli individui.Non c’è dubbio infatti che di frontealle caratteristiche mutevoli delmercato del lavoro, alla esigenza diflessibilità che produce talvolta dif-fusi fenomeni di precarizzazione,sia necessario rispondere sia attra-verso adeguate forme di tutela sia rafforzando nellepersone la capacità di interpretare il cambiamentocome opportunità piuttosto che subirne gli effetti.Anche sul piano della ricerca diversi sono stati glistudiosi che si sono occupati di elaborare ed analiz-zare nuovi modelli di orientamento che potessero ri-spondere meglio ai nuovi contesti professionali. Diparticolare interesse risulta il costrutto della careeradaptability di cui Marc Savickas è tra i principaliautori. Savickas definisce l’adattabilità professionalecome «la propensione ad affrontare in modo adegua-to i compiti evolutivi per prepararsi e partecipare alruolo lavorativo e ad adattarsi alle richieste imprevi-ste dovute ai cambiamenti del mondo del lavoro edelle condizioni lavorative. Riguarda la gestione deicompiti professionali e delle transizioni di ruolo che

gli individui si trovano ad affrontare e quindi le stra-tegie di coping che utilizzano per fronteggiare questicambiamenti, ovvero il processo attraverso il qualegli individui costruiscono attivamente la loro vitaprofessionale affrontando i cambiamenti e tenendoconto del contesto sociale in cui sono inseriti».L’attuale mondo del lavoro sembra caratterizzato daattività professionali sempre meno definite e preve-dibili e le transizioni lavorative risultano esseresempre più frequenti e difficili. Nell’era dell’infor-mazione, seguendo Savickas, è sempre più richiestal’iniziativa personale e l’adattabilità professionale,

ovvero quell’insieme complesso diatteggiamenti ed abilità che riguar-dano l’ottimismo, la propensione apensare e a pianificare il proprio fu-turo professionale, la tendenza adadattarsi alle situazioni e alle richie-ste impreviste, la curiosità e l’esplo-razione professionale, unite ad unsenso di autoefficacia nei confrontidelle proprie capacità e possibilità.Secondo Savickas l’adattabilità pro-fessionale si realizza sviluppando leseguenti dimensioni: la preoccupa-zione verso il futuro, con un atteg-giamento orientato ed ottimista ver-so il futuro cercando di pianificarlomettendo insieme passato, presentee futuro; il controllo professionale,ovvero la convinzione a pensare ilfuturo come controllabile con impe-

gno alla perseveranza; la curiosità professionale,ossia assumendo un atteggiamento proattivo neiconfronti dell’ambiente e sviluppando comporta-menti adattivi; la fiducia nelle proprie capacità, ov-vero la propensione a nutrire fiducia in se stessi enelle proprie capacità per affrontare sfide e superaregli ostacoli; la cooperazione, ovvero mostrando at-teggiamenti di apertura nei confronti degli altri,condividendo e agendo per il bene proprio e altrui.Un individuo adattabile è un individuo in grado dimodificare una serie di elementi personali – cono-scenze, abilità, disposizioni, comportamenti – pervenire incontro alle richieste della situazione in cuiè inserito. La capacità di adattarsi ad una situazionein via di cambiamento, come lo sono la società ed ilmondo del lavoro odierni, è determinata principal-mente da differenze individuali nella predisposizio-ne ad assumere un comportamento attivo rispettoalle situazioni che si vivono. Elevati livelli di adat-tabilità sono associati ad una personalità di tipoproattivo, ad elevati livelli di locus of control inter-no, di ottimismo, di persistenza, di capacità di co-ping e problem solving e di capacità di iniziativa,apertura mentale e ricerca di opportunità.Le teorie e le pratiche dell’orientamento si muovo-no proprio nella direzione di fornire in un processocontinuo, che parte sin dalla scuola, occasioni perconseguire quelle competenze orientative necessa-rie a progettare il proprio futuro dandosi obiettivirealistici, monitorare e sostenere anche sul pianomotivazionale il processo che porta al consegui-mento degli obiettivi fissati, compiere scelte consa-pevoli nei momenti di snodo della propria vita per-sonale e professionale.Sempre su questa strada, il Consiglio europeo, condue importanti risoluzioni (2004, 2008), ha raffor-zato la concezione dell’orientamento in prospettivalife long learning. Con tale impostazione si rimarcail rilievo strategico dell’orientamento sia in funzio-ne individuale, per favorire lo sviluppo di atteggia-menti proattivi nella costruzione dei percorsi for-mativi e professionali personali, promuovere l’in-clusione sociale, la parità di genere e la cittadinanzaattiva, sia a livello sociale con una molteplicità diobiettivi da quello più generale di contribuire alla

Secondo Savickas l’adattabilitàprofessionale si realizza sviluppando

le seguenti dimensioni:la preoccupazione verso il futuro,con un atteggiamento orientato

ed ottimista, il controllo professionale,la curiosità professionale, la fiducianelle proprie capacità, ovvero

mostrando atteggiamenti di aperturanei confronti degli altri, condividendoe agendo per il bene proprio e altrui

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realizzazione dei piani dell’Unione europea in ma-teria di sviluppo economico a quello più specificodi migliorare l’efficienza degli investimenti nellaistruzione e formazione professionale potenziandolo sviluppo del capitale umano e della forza lavoro,l’efficienza del mercato del lavoro e della mobilitàprofessionale e geografica.Al tempo stesso però, si deve constatare che neglistati membri la tradizione e lo stato attuale delleconcezioni, delle pratiche e dei servizi riferibiliall’orientamento è molto eterogenea e con diversogrado di efficacia. Ed è proprio in ragione del rilie-vo strategico che all’orientamento è attribuito che sirende necessario sviluppare politiche integrate e direte intorno a quattro principali linee di azione:- favorire l’acquisizione della capacità di orienta-mento nell’arco della vita, azione che sottolinea ilrilievo dell’orientamento nei percorsi formativi daquelli scolastici a quelli di inserimento professiona-le e che implica da un lato il tema della formazionespecifica di insegnanti e operatori dei servizi diorientamento e dall’altro il rilievo di metodologiedidattiche in grado di promuovere lo sviluppo dicompetenze chiave (in particolare: Imparare ad im-parare; Competenze sociali e civiche; Spirito di ini-ziativa e imprenditorialità; Consapevolezza edespressione culturale) che risultano ancora piuttostotrascurate all’interno della scuola, dell’università epiù in generale nei percorsi di istruzione formale;- facilitare l’accesso di tutti i cittadini ai servizi diorientamento, azione che si propone di migliorare,da un lato, la visibilità e conoscenza dei servizi at-traverso adeguate forme di informazione e comuni-cazione e, dall’altra, rendere accessibili gli stessiservizi alle categorie svantaggiate e con bisognispecifici;- rafforzare la garanzia di qualità dei servizi diorientamento, qualità da perseguire almeno su trepiani: quello dell’obiettività dell’informazione edella consulenza sui percorsi professionali in ade-renza ai differenti bisogni degli utenti, quello dellaqualificazione del personale impegnato nei servizi equello dell’individuazione di standard qualitativisui quali definire obiettivi, risultati da perseguire,metodi e processi;- incoraggiare il coordinamento e la cooperazionedei vari soggetti a livello nazionale,regionale e locale, azione che sotto-linea la necessità di sviluppare poli-tiche integrate e di rete sullo svilup-po dei servizi di orientamento ai di-versi livelli: scolastico, universita-rio, professionale, rivolto a fascedeboli o soggetti con bisogni parti-colari, ognuno dei quali ha dato ori-gine, nel passato, ad un proprio si-stema differenziato. Tale integrazio-ne richiede lo sviluppo, a livello na-zionale e locale, di efficaci forme dicoordinamento tra i diversi attoricoinvolti.E proprio in questa direzione devo-no essere interpretate le Linee gui-da del sistema nazionale sull’orien-tamento permanente che la Confe-

renza unificata Stato e Regioni ha approvato nel di-cembre 2013 cui sono seguite, a breve distanza ditempo, quelle del MIUR che ne contestualizzano leazioni all’interno del sistema scolastico e universi-tario.Gli impegni per l’orientamento, in ambito naziona-le, si concentrano su tre obiettivi fondamentali:

contrastare il disagio formativo, favorire e sostenerel’occupabilità, promuovere l’inclusione sociale.Ma, l’aspetto più rilevante è dato dalla continua sot-tolineatura di un impegno integrato e condiviso deidiversi attori per realizzare un modello sistemico edevitare sovrapposizioni se non proprio vere e pro-prie contraddizioni all’interno del sistema stesso.Questo implica, naturalmente, una governance mul-tilivello (territoriale e nazionale) in cui «ciascunsoggetto si riconosce partner corresponsabile di unastrategia che, coinvolgendo sia il livello politicoistituzionale sia quello tecnico operativo, valorizzila programmazione e la realizzazione di interventidi orientamento integrati, continui e rispondenti aibisogni della persona».Le Università sono chiamate a dare un rilevantecontributo proprio in quanto soggetti d’intermedia-zione tra domanda ed offerta di lavoro proprio aquei livelli richiesti per consentire un salto di quali-tà da parte nostro sistema produttivo.Nei prossimi mesi, a cominciare dall’attuazione delPiano Garanzia Giovani, anche le Università con ilMondo del lavoro, Regioni, autonomie locali e partisociali saranno chiamate a dare consistenza ed effi-cacia all’applicazione del Piano attuativo, che pre-vede l’impegno di ingenti risorse economiche (1,5miliardi di euro) proprio per promuovere azioni ef-ficaci a sostegno dell’occupazione favorendo una

corretta informazione, nuove oppor-tunità di formazione professionale,stage e tirocini, l’apprendistato esupporto all’imprenditorialità, per igiovani tra i 15 e 29 anni.Per dare consistenza nel tempo alleopportunità aperte dal Piano garan-zia Giovani è necessario che leazioni di orientamento, poste allabase del programma attuativo, sianoimprontate a promuovere proprioquei comportamenti proattivi e di fi-ducia che sono alla base di una buo-na adattabilità professionale, senzaperò dimenticare che alla flessibilitàsi devono associare politiche capacidi dare sicurezza, proprio nella dire-zione di quella flexicurity così caraalle politiche europee per il lavoro.

Un individuo adattabile è un individuoin grado di modificare una seriedi elementi personali – conoscenze,abilità, disposizioni, comportamenti –per venire incontro alle richieste della

situazione in cui è inserito

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Maria Montessori rap-presenta uno dei raricasi di donne che, nelpanorama scientifico difine Ottocento e inizioNovecento, raggiunse-ro una notorietà a livel-lo internazionale. Pri-ma donna in Italia asvolgere la professionedi medico, prima a ot-tenere la libera docenzain Antropologia peda-gogica, combattente alservizio di cause diffi-

cili e nobili, ha costruito una pedagogia che, fin dalsuo apparire all’inizio del nuovo secolo, si è straor-dinariamente diffusa in paesi e in culture anche lon-tane da quella europea.Frequentando come assistente volontaria l’Istitutodi psichiatria della Regia Università di Roma, lagiovane dottoressa aveva condiviso fin dai primianni di attività professionale il clima di fiducia nelpotere sociale della scienza, che in quegli anni di fi-ne secolo contraddistingueva l’approccio del Positi-vismo ancora vivo nelle Facoltà scientifiche nel no-stro paese. Proprio attraverso il contatto con quel-l’ambiente particolarmente prestigioso e aperto allenuove frontiere della ricerca inizieranno a prenderecorpo le sue indagini per lo sviluppo di un “metodomedico-pedagogico” volto al recupero dei bambinifrenastenici, oggetto dei suoi primi interessi in cam-po educativo.Due anni di esperimenti, successivamente estesi aibambini “normodotati”, le consentiranno di delinea-

re le basi teoriche ed operative di un modello edu-cativo che si propone di fornire risposte specificheai bisogni psicologici dell’infanzia. Ma di una“nuova” infanzia, all’interno della quale il bambinoè visto come soggetto protagonista del proprio svi-luppo e dotato di grandi potenzialità creative.Il Metodo della Pedagogia Scientifica, pubblicatonel 1909, viene conosciuto nel giro di un decennio

pressoché in tutto il mondo: nel 1912 é tradotto ininglese e pubblicato negli Stati Uniti (con introdu-zione del prof. H. W. Holmes, della Harvard Uni-versity); dello stesso anno è la traduzione francese(pubblicata sotto gli auspici dell’Istituto J. J. Rous-seau e con la prefazione di P. Bovet); del 1913 leedizioni tedesca, polacca e russa; e tra il 1914 e1917 escono le edizioni irlandese (con presentazio-ne curata da due studiosi del Trinity College di Du-blino), spagnola (con presentazione di J. Palau Ve-ra), giapponese, romena, olandese e danese.È l’inizio di un vasto movimento d’interesse interna-

zionale che, seppure conalterne vicende (specieper quel che riguarda ilnostro paese) non si èspento nel corso degli an-ni: secondo una stimacomplessiva, sono circa22.000 le scuole Montes-sori esistenti nel mondo,ed oltre 110 i paesi deicinque continenti nei qua-li esse hanno trovato dif-fusione.

Per comprendere l’attua-lità del modello pedago-gico di Maria Montessoridobbiamo innanzituttoconsiderarne le principalipremesse: la fiducia ripo-sta nelle potenzialità

L’autoeducazione del “potenziale umano”L’attualità e l’internazionalità del modello Montessoridi Clara Tornar

Clara Tornar

Le principali premesse del modellopedagogico di Maria Montessori sonola fiducia riposta nelle potenzialitàd’apprendimento dell’infanzia

e l’individuazione di criteri scientificiper l’organizzazione di un ambiented’apprendimento appropriatoa rispondere ai bisogni espressinelle diverse fasi dello sviluppo

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d’apprendimento dell’infanzia e l’individuazione dicriteri scientifici per l’organizzazione di un ambien-te d’apprendimento appropriato a rispondere ai bi-sogni espressi nelle diverse fasi dello sviluppo.Il bambino che si manifesta all’osservazione dellapedagogista è un soggetto attivo, dotato di una po-tente spinta motivazionale che gli consente - se ade-guatamente sostenuto dall’ambiente con cui intera-gisce - di apprendere con impegno ed entusiasmodifficilmente uguagliabili dall’adulto. Sotto taleaspetto, Montessori ha offerto un importante contri-buto alla definizione di un nuovo profilo psicologi-co del bambino, ricco di interessanti elementi pre-cursori rispetto a consapevolezze soltanto successi-vamente acquisite dalla ricerca in campo psicologi-co. Ad esempio, che la mente del bambino sia com-pletamente diversa da quella dell’adulto, che lo svi-luppo si evolva secondo una serie di stadi corri-spondenti a cambiamenti significativi, che esso siaattraversato da particolari “periodi sensitivi” nelcorso dei quali la mente appare particolarmente dis-ponibile a certi tipi di acquisizioni.È sulla base di questa concezione dell’infanzia chela studiosa costruisce la propria denuncia nei con-fronti di quegli interventi nei quali l’adulto si sosti-tuisce al bambino sottraendo spazio alla sua attività.Considerato non più un semplice recettore di stimo-li o un passivo esecutore di attività preordinate, maun attivo costruttore della propria conoscenza, que-st’ultimo diviene il vero protagonista del processoeducativo. Sul piano pedagogico, ciò corrispondealla offerta di strumenti adatti a favorire la costru-zione delle conoscenze, piuttosto che nell’interveni-re indicando direttamente la strada da percorrere ole modalità con cui gli ostacoli incontrati possonoessere superati. Scopo dell’insegnamento, scriveràin l’Autoeducazione, «non dovrà essere quello difar imparare le cose al bambino», bensì quello di«mantenere sempre viva quella luce in lui che sichiama intelligenza».

In tale ottica, gli obiettivi che contraddistinguonol’ambiente d’apprendimento montessoriano sono:promuovere le capacità di autonomia attraverso unaorganizzazione razionale degli stimoli;favorire l’autoapprendimento fornendo al soggettoche apprende le chiavi per esercitare il controllo deipropri processi;promuovere lo sviluppo delle potenzia1ità indivi-duali dando la possibilità di esercitare la propria at-tività sulla base di una libera scelta;garantire una stretta corrispondenza tra capacità e

materiali d’apprendimento, in base alla quale ilbambino sia posto sempre di fronte a stimoli e com-piti d’apprendimento adeguati ai suoi bisogni disviluppo.

Nella “Casa dei Bambini”, come è denominata lascuola dell’infanzia ad approccio montessoriano,l’organizzazione dell’ambiente è improntata allavalorizzazione dei processi sensoriali e motori allabase dello sviluppo cognitivo nell’infanzia, condot-ta attraverso materiali e mezzi “scientificamente de-terminati”, senza porre limite alle curiosità esplora-tive del bambino. Nel passaggio alla scuola elemen-tare, il bisogno di esplorazione infantile si manife-sta come vera e propria “fame di cultura”, sostenutadalla potenza dell’immaginazione e dalla capacitàdi astrazione e ragionamento tipiche del passaggioalla nuova fase evolutiva. Ne consegue l’afferma-zione dell’importanza di una “educazione dilatatri-ce”, in grado di prospettare gli orizzonti “sconfina-ti” della conoscenza, capace di colpire l’immagina-zione del bambino e di suscitare il suo entusiasmopiù profondo: «Il segreto di un buon insegnamentoè di considerare l’intelligenza del bambino come uncampo fertile in cui si possono gettare delle semen-ti, perché germoglino al calore fiammeggiante dellafantasia», scriverà la studiosa in Come educare ilpotenziale umano. L’educazione “cosmica” sarà lasua risposta alle esigenze formative dei soggetti inquesta fascia d’età: non più discipline artificiosa-mente distinte, ma una progressiva scoperta delmondo come occasione per esplorare i molteplicicampi del sapere.

Una scuola Montessori di Francoforte (1956)

Il bambino che si manifestaall’osservazione della pedagogistaè un soggetto attivo, dotato di unapotente spinta motivazionale che gliconsente - se adeguatamente sostenutodall’ambiente con cui interagisce - diapprendere con impegno ed entusiasmodifficilmente uguagliabili dall’adulto

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Le acquisizioni della ricerca psicopedagogica e di-dattica consentono oggi di analizzare con maggiorconsapevolezza il carattere di attualità del modellomontessoriano e di coglierne gli elementi precursoririspetto ad istanze che, per molti versi, soltanto intempi successivi a quelli in cui la pedagogista è vis-suta si sono affacciate nel dibattito pedagogico. Inquesta chiave è possibile esaminare i principali ap-porti che tale modello è in grado di recare alla qua-lità del processo educativo: lo stretto legame trascienza e pedagogia e il rispetto per l’infanzia, chesono alla base del suo approccio pedagogico, insie-me all’attenzione prestata alla qualità dell’ambienteeducativo e alla qualità dei processi che vi si svol-gono, sono elementi che presentano spunti di rifles-sione di notevole interesse in relazione alle esigen-ze educative del nostro tempo.Obiettivo prioritario della pedagogia montessorianaè promuovere lo sviluppo dell’autonomia, facoltàche il bambino viene messo in condizione di eserci-tare organizzando per lui un ambiente d’apprendi-mento nel quale possa essere libero di scegliere iltipo di esperienza da condurre e nel quale possaesercitare un autocontrollo della propria attività at-traverso la manipolazione di materiali scientifici ela possibilità di cimentarsi con compiti d’apprendi-mento adeguati ai suoi bisogni di sviluppo.In relazione a tale aspetto, è opportuno richiamarel’attenzione che il dibattito attuale rivolge alla ne-cessità di promuovere nella scuola lo sviluppo diquei processi cognitivi e socio-affettivi che mettonol’individuo in grado di saper gestire il proprio ap-prendimento e di impossessarsi di quelle competen-ze chiave che lo metteranno in grado di affrontare,in una prospettiva di lifelong learning, i compiti ele situazioni che gli si presenteranno in ogni campo.Il modello Montessori appare improntato all’esi-genza prioritaria di favorire proprio il consegui-mento di questo tipo di competenze trasversali:l’autonomia, la capacità decisionale, la capacità di

autocontrollo, il rispetto per le regole sociali in unclima di libertà. Si tratta, di obiettivi che rispondo-no a una esigenza imprescindibile della scuola at-tuale, in vista della promozione della capacità diimparare a imparare, efficacemente espressa nelmotto del bambino montessoriano, «aiutami a fareda solo», che è anche sintesi e allo stesso tempo nu-cleo centrale della pedagogia montessoriana.

Non sempre la pedagogia di Maria Montessori èstata compresa. Ciò è vero in particolare per l’Italia,dove ha scontato la colpa di essere andata controcorrente rispetto alla cultura pedagogica dominante,e per certi versi anche quella di aver precorso i tem-pi affrontando questioni oggi cruciali, preannuncia-te con straordinaria sensibilità. Per esempio la ne-cessità di promuovere le cosiddette “competenzeper la vita” come l’autonomia e la capacita di con-trollo dei propri processi, l’attenzione posta alla va-lorizzazione delle potenzialità d’apprendimento in-dividuali, alla interculturalità, alla gestione non di-rettiva dell’insegnamento: problematiche alle qualifornisce un contributo che si contraddistingue an-che per la sua capacità di fornire le metodologie egli strumenti atti ad affrontarle operativamente.Oggi che andiamo scoprendo la straordinaria attua-lità di questo modello educativo dobbiamo prendereatto della suo scarso successo nel nostro paese. Ildato di una sempre maggiore diffusione di scuoleMontessori all’estero non corrisponde alla realtà

italiana, come mo-strano i dati di una ri-levazione condottadal Centro di studimontessoriani del Di-partimento di Scienzedella formazione (idati possono essereconsultati on line:www.montessori.uni-roma3.it). È un fattosu cui riflettere, nonsolo in vista del con-seguimento di una au-spicabile pluralitàdell’offerta formativa,ma anche in vista diun obiettivo di accre-scimento della qualitàdel processo educati-vo, a cui questo mo-dello pedagogico po-trebbe recare un con-tributo rilevante.

Una scuola Montessori olandese, anni Venti del Novecento

Scopo dell’insegnamento, scriveràin l’Autoeducazione, «non dovrà

essere quello di far imparare le coseal bambino», bensì quello di

«mantenere sempre viva quella lucein lui che si chiama intelligenza»

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In questo breve contri-buto si intende ricorda-re un lato meno cono-sciuto dell’attivitàscientifica e sociale diJean Piaget (1896-1980), studioso e ricer-catore in psicologiadello sviluppo di famamondiale e fondatoredell’epistemologia ge-netica, ossia l’impegnoda lui profuso nel pe-riodo tra la prima e laseconda guerra mon-

diale nel campo dell’educazione e più specificata-mente dell’educazione internazionale, un argomen-to quanto mai attuale nei nostri giorni.Nel 1929 venne offerto a Piaget, che insegnava edera direttore delle ricerche nell’Institut Jean-Jac-ques Rousseau di Ginevra, di ricoprire, oltre ai suoinumerosi incarichi accademici, anche il posto di di-rettore del Bureau International de l’Education(BIE), con sede anch’esso a Ginevra.Ginevra è da sempre stata una città a vocazione inter-nazionale e, in quegli stessi anni, era anche sede dellaSociété des Nations, un organismo creato nel 1925,dopo la fine della prima guerra mondiale, con l’obiet-tivo fondamentale di promuovere il dialogo e la paceattraverso l’educazione per cui dispiegò la sua azionein molteplici direzioni, dalla politica alla diplomazia,all’economia, dalla sanità all’educazione.Negli anni Trenta, la Société des Nations fece espli-cita richiesta a Jean Piage di organizzare e di pro-muovere dei corsi di formazione destinati agli inse-gnanti di ogni ordine e grado (dai maestri elementa-ri ai docenti universitari), ai funzionari e agli ispet-tori dei Ministeri dell’istruzione pubblica, sul tema:“Come fare conoscere La Société des Nations e svi-luppare lo spirito di cooperazione internazionale”.In risposta a tale richiesta Piaget, nella sua veste didirettore del BIE, fece personalmente, e in seguitopubblicò (Piaget, 1930a, 1930b, 1931a, 1931b,1932, 1934) una serie di Conferenze, ben note agliaddetti ai lavori di lingua francese, ma purtropponon tradotte in italiano. In questi scritti Piaget ela-bora una visione teorica e generale dell’uomo inter-nazionale capace di adeguarsi alle interconnessionimolteplici del mondo contemporaneo.In modo originale avanza una serie di riflessioni edi considerazioni sui rapporti tra i meccanismi dellosviluppo psicologico, al cui studio aveva comincia-to a dedicarsi intensamente presso l’Institut Jean-Jacques Rousseau di Ginevra e che proprio neglianni tra le due guerre avrebbe portato alla pubblica-zione di testi fondamentali che lo resero in breve

tempo famoso nella comunità scientifica internazio-nale, e l’auspicabile traguardo educativo di un esse-re umano capace di autentico spirito di relazione edi reciprocità su scala internazionale, indispensabilegaranzia di dialogo e di pace in un mondo e in un’e-poca in cui le interconnessioni e le interdipendenzetra gli uomini e tra le nazioni erano divenute sem-pre più rapide ed estese su dimensione planetaria. Ilciclo di Conferenze si chiuderà tuttavia con un in-tervento di Piaget dal tono pessimista (siamo ormainel 1934) Une éducation à la paix est-elle possibi-le? (È possibile una educazione alla pace?).

A questo punto può essere interessante dare unosguardo in Italia e stabilire un parallelismo con al-cuni eventi che si verificavano nello stesso periodo.Il nostro Paese era in pieno periodo fascista e, nel1923, la riforma del filosofo Giovanni Gentile, che ri-copriva la carica di Ministro dell’istruzione pubblica,soppresse l’insegnamento della psicologia in tutte lescuole secondarie comprese le scuole di pedagogia (oistituti magistrali) sostituendolo con un programma diletture di testi filosofici e pedagogici e causando unallontanamento della psicologia dalla cultura italianain senso lato (Luccio, 1978). Basti pensare che allacaduta del fascismo vi erano solo due cattedre di psi-cologia rimaste in Italia, quella di Ponzo a Roma equella di Gemelli all’Università cattolica di Milano.È in questo frangente che emerge la grande figuradi Maria Montessori, che non è una psicologa, mauna eminente educatrice, la quale, proprio in quelperiodo e a più riprese, interviene sul tema del’edu-cazione alla pace ed è di estremo interesse ricordareche Maria Montessori e Jean Piaget si sono trovatipiù volte, nel 1932 a Nizza, e nel 1934, a Roma, apartecipare agli stessi convegni sul tema dell’edu-cazione alla pace (Amann Gainotti, 2004).Nel 1934 l’educazione secondo Maria Montessoriviene bandita in Italia da Mussolini e la studiosa la-scia l’Italia per farvi ritorno soltanto alla fine dellaseconda guerra mondiale. Mentre Jean Piaget se netorna a Ginevra dove prosegue la sua brillante car-riera scientifica.

Tornando invece a Piaget e alle sue Conferenze pergli insegnanti davanti alla Société des Nations.Come si può dunque “formare” lo spirito interna-zionale? Quali sono i principi di base che dovrebbe-ro guidare l’educazione internazionale?La risposta di Piaget è collegata alla scoperta che de-riva dai suoi studi osservativi ed empirici sull’infan-zia, condotti a partire dal 1920, che i bambini tendo-no ad evolversi naturalmente da una posizione socio-cognitiva che egli chiama “egocentrica” ad una ca-pacità crescente di decentrarsi dal proprio punto divista per coordinarsi progressivamente con le pro-

L’educazione internazionale dei bambiniIl pensiero di Jean Piagetdi Merete Amann Gainotti

Merete Amann Gainotti

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spettive degli altri. È possibile dimostrare ciò osser-vando, per esempio, come cambino le modalità delgioco col crescere dell’età: i bambini un po’ piùgrandi manifestano spontaneamente la capacità dielaborare in comune delle regole e di rispettare le re-gole cui attenersi, senza alcuna imposizione esterna.L’educazione allo spirito internazionale per risulta-re efficace, dovrà dunque assecondare e valorizzarequesta generale tendenza del processo evolutivo delbambino. Sintetizzando il pensiero di Piaget, po-tremmo dire che l’educazione deve soprattutto agirenelle seguenti direzioni:

- l’educazione internazionale deve dare concretezzaall’esperienza del bambino:«Si è molto parlato di un insegnamento della solida-rietà (…) Ma le migliori lezioni resteranno letteramorta se non si basano sull’esperienza stessa, cosìcome capire le leggi della fisica è impossibile senzamanipolazione di un materiale concreto. Ora è neces-sario che il bambino rifaccia lui stesso l’esperienzadella solidarietà, poiché le esperienze degli altri -nell’ambito spirituale ancora più che nell’ambito ma-teriale - non hanno mai istruito nessuno (…)»Non basta dunque parlare in classe delle istituzioniinternazionali, e neanche la pur pregevole iniziativadi stimolare i contatti tra scuole di nazionalità diffe-renti è sufficiente. I grandi ideali di solidarietà e digiustizia, spiega Piaget, devono essere vissuti primadi essere oggetto di riflessione «(... doivent etre vé-cus avant d’être objet de réflexion (…)»;

- l’educazione internazionale deve allargare il ven-taglio degli interscambi e delle esperienze, ed inse-gnare a sormontare le barriere poste al contatto conl’altro, dall’abitudine, dai pregiudizi, dalla mentali-tà e dalla diversità dell’altro;

«(…) Si capisce quale debba essere lo sforzo dellapedagogia per mettere gli individui nello stato d’a-nimo necessario per capire gli altri, quando l’insie-me dei fattori affettivi e delle tradizioni collettivefanno pressione sul loro pensiero e impediscono lo-ro di ragionare con obiettività».

Per concludere, nei suoi testi e nelle sue considera-zioni sull’educazione internazionale, Piaget poneesplicitamente l’esigenza di una forma mentale rin-novata, in grado di coordinare i differenti punti divista che interagiscono sulla scena mondiale e disottrarsi alla rigidità di schemi di pensiero propridell’egocentrismo delle collettività nazionali – poi-ché «nous sommes tous des individus déjà formés,pour ne pas dire déformés, par nos différentes men-talités collectives» (siamo tutti degli individui giàformati, per non dire deformati dalla nostre diversementalità collettive).Dalla sua carica di direttore del BIE e di interprete,nel campo dell’educazione, dello spirito e delle fi-nalità della Società delle Nazioni, Piaget identificanei nazionalismi degli anni Trenta la forma politicae mentale nello stesso tempo di questo egocentri-smo pericoloso, ostacolo alla pace e al dialogo tra ipopoli su scala mondiale.A tale proposito è utile segnalare un’ultima citazio-ne di Piaget: «Il compito di un bambino svizzeronon è di farsi una mentalità planetaria o mondialeche egli applicherebbe alla meno peggio sulla sua,ma é di collocare il suo punto di vista tra gli altripossibili e di comprendere il piccolo tedesco, il pic-colo francese etc., tanto bene quanto se stesso. Equesta messa in relazione dei punti di vista, che noichiamiamo cooperazione, in opposizione alla lorouniformizzazione o alla ricerca utopica di un puntodi vista assoluto. Ora, questa comprensione recipro-ca è affare di educazione intellettuale, quanto dieducazione morale. Vi è dunque un’educazione dellasolidarietà intellettuale che è importante perseguiree di cui bisogna studiare i requisiti psicologici».È l’auspicio che formulava Piaget negli anni 1930-1934 poco prima dello scoppio della seconda guerramondiale. Non si può fare a meno di pensare quantosiano attuali queste sue considerazioni sull’educa-zione internazionale adesso che i bambini europeicrescono in una Europa composta da 28 nazioni eche la metà della popolazione scolastica di moltescuole proviene da varie nazioni europee oltre cheda nazioni extra europee.Come ultima annotazione vorrei aggiungere che nel1951, Piaget pubblica, insieme ad A. M. Weil, unarticolo dal titolo Le développement chez l’enfantde l’idée de patrie et des relations avec l’étranger(lo sviluppo nel bambino dell’idea di patria e di re-lazioni con l’estero) in cui gli autori affrontano lesuddette problematiche con una ricerca empirica.L’articolo è diventato famosissimo ed è il punto dipartenza di tutte le ricerche attuali in psicologia sul-le nozioni e rappresentazioni infantili di altre nazio-ni e altri popoli, compreso quelle che vengono con-dotte dal mio gruppo di ricerca nell’ambito delle at-tività del laboratorio di “Educazione e formazioneall’Europa” nel Dipartimento di Scienze della for-mazione dell’Università Roma Tre.Jean Piaget

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Si può considerare an-cora attuale la pedago-gia di Freire? Il suo me-todo educativo può con-tribuire alla chiarifica-zione dei problemi edu-cativi nelle odierne so-cietà consumistiche e

globalizzate? Perché continuare a leggere Freire?Era esattamente questo il titolo della prefazione diMoacir Gadotti alla nuova edizione italiana de La pe-dagogia degli oppressi apparsa nel 2002 a distanzadi più di trent’anni dalla prima edizione del 1971 cu-rata e introdotta da Laura Bimbi (Mondadori, 1971).Oggi la domanda di Moacir Gadotti rimane ancoravalida: è necessario leggere e/o rileggere Freire per-ché sono ancora tante le forme di oppressione (più omeno evidenti) presenti nelle nostre società e Freireci ricorda che l’educazione, la cultura, la scienza so-no prima di tutto uno strumento di liberazione.Non è possibile in questa sede individuare tutte leforme di oppressione presenti nella nostra societàma sicuramente possono essere individuate alcunecategorie di soggetti oppressi: coloro che sono inpossesso di deboli livelli di istruzione e che non so-no in grado di effettuare scelte del tutto libere econsapevoli, i migranti che si vedono costretti adaccettare e a svolgere i cosiddetti lavori delle 5P(precari, pesanti, poco pagati, penalizzati social-mente, pericolosi) in un quadro generale di integra-zione “subalterna”, le donne che a parità di titoli distudio guadagnano meno degli uomini e solo rara-mente riescono a raggiungere posizioni apicali, igiovani e i precari e così via.Qualche dato sull’istruzione può aiutare a megliodefinire la questione. Se si considera la popolazioneitaliana di 15 anni e oltre, come evidenzia il CEN-SIS, sulla base di dati ISTAT, nel suo 46° Rapporto2012, si ha che il 22,5% è senza titolo alcuno o conla sola licenza elementare e il 31,9% con il solo di-ploma di scuola secondaria di primo grado. Com-plessivamente il 54,4% degli italiani in età superioreai 15 anni dispone al massimo della licenza mediainferiore: il possesso esclusivo di questo titolo distudio attesta una condizione non altrimenti defini-bile se non in termini di analfabetismo moderno, nelsenso che i soggetti che ne sono afflitti non dispon-gono delle conoscenze e delle competenze necessa-rie per far fronte alla complessità della vita di oggi.

Una situazione così grave non caratterizza solamen-te la scuola. Se si considera il numero di quanti sonoin possesso di un titolo di studio universitario, l’Ita-lia nel 2012 si colloca in fondo alle classifiche euro-pee. Nella fascia d’età 25-34 anni la quota di laurea-ti è del 21%: dato che vede l’Italia al penultimo po-sto tra i 34 Paesi Ocse, davanti solo alla Turchia

(17%). La media OCSE è del 38%. Se si prende inconsiderazione la fascia d’età 25-64 anni, l’Italia èal 15% di laureati, come il Portogallo e solo davantialla Turchia (13%). La media OCSE è del 32% e lasituazione per l’Italia si va addirittura aggravando.Gli iscritti all’Università sono passati da 338.000 a280.000: negli ultimi dieci anni l’Università italiana,come ha sottolineato efficacemente il CUN, ha per-so complessivamente 58.000 iscritti e cioè un terzodi coloro che si iscrivevano nell’a.a. 2003/2004.Vi è poi un dato ancora più preoccupante: nel 2009,in Italia, risultavano fuori dal circuito formativo elavorativo poco più di 2 milioni di giovani: il21,2% della popolazione tra i 15 e i 29 anni. I co-siddetti Neet (Not in Education, Employment orTraining) – né al lavoro, né a scuola, né in forma-zione professionale – nel 2008 erano il 19,2% afronte di un valore medio per i Paesi UE aderentiall’OCSE del 12,2%. Nel 2013, secondo l’ISTAT, ildato si è ulteriormente aggravato ed è ora del23,9%. È un quadro talmente drammatico da non ri-chiedere d’essere ulteriormente commentato, senzavoler neppure considerare il fondamentale settoredella formazione professionale che presenta una si-tuazione che si caratterizza per un elevato grado dicomplessità e problematicità.Un ultimo dato riguarda la popolazione adulta equello che viene definito analfabetismo funzionale:i cittadini italiani si collocano in fondo alla classifi-ca sui saperi essenziali per orientarsi nella societàdel terzo millennio. Nell’ultima classifica stilata

La cultura è uno strumento di liberazioneLa pedagogia degli oppressi di Paulo Freiredi Massimiliano Fiorucci

«Pensare la storia come possibilità significa riconoscere l’educazione come possi-bilità. Significa riconoscere che, anche se l’educazione non può fare tutto da sola,può però certo raggiungere qualche risultato. La sua forza sta nella sua debolez-za» Paulo Freire, La pedagogia degli oppressi

Massimiliano Fiorucci

L’opera di Paulo Freire si caratterizzacome una visione pedagogica

complessiva: una sorta di pedagogiadell’uomo e del dialogo densa di aspetti

e di riferimenti antropologici,sociologici e filosofici

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dall’Ocse (l’Organizzazione per lacooperazione e lo sviluppo econo-mico), e recentemente resa pub-blica dall’Isfol, sulle competenzeprincipali degli adulti il nostroPaese figura all’ultimo posto. Cicollochiamo in fondo alla classica- ultimi tra 24 paesi - per compe-tenze in lettura e al penultimo po-sto sia per competenze in mate-matica sia per capacità di risolve-re problemi in ambienti ricchi ditecnologia, come quelli delle so-cietà moderne.L’esistenza di un sistema sociale eformativo come quello italiano –che ancora opera una distribuzionedifferenziata delle conoscenze sul-la base di fattori di ordine sociale,di genere, territoriale e di naziona-lità – contraddice l’autorappresentazione che la no-stra società ha di sé stessa come di una società mo-derna che a tutti fornirebbe le stesse opportunità divita e di lavoro. Si tratta in altri termini di una socie-tà ancora fortemente divisa in oppressori e oppressi.Cosa può dirci allora oggi Paulo Freire?L’opera di Paulo Freire si caratterizza come una vi-sione pedagogica complessiva: una sorta di pedago-gia dell’uomo e del dialogo densa di aspetti e di ri-ferimenti antropologici, sociologici e filosofici.Freire, infatti, fu un alfabetizzatore ed educatoredegli adulti non solo in Brasile, ma anche in Cile enell’Africa delle ex colonie portoghesi, mentre allostesso tempo teneva contatti con Università e altreistituzioni educative nordamericane, svizzere e an-che italiane. Anche in conseguenza di questi ele-menti vi è chi ne ha parlato come di un vero e pro-prio “educatore del mondo” (Tagliavia, 2011). Tra itanti riferimenti del pensiero freireano vi sono ilpersonalismo cristiano del filosofo francese Jacques

Maritain (1882-1973) – un’influenza che appartienesoprattutto alla prima fase della sua elaborazione; leteorie sul linguaggio dello psicologo culturale so-vietico Lev Semenovic Vygotskij (1896-1934) –con particolare riferimento alla parte del lavoro spe-cificamente dedicata al Metodo Paulo Freire; la teo-ria dell’egemonia e della subalternità del filosofo epolitico italiano Antonio Gramsci (1891-1937), che

peraltro avvicina il pedagogistabrasiliano alla corrente degli studipost-coloniali.Paulo Freire, nel quadro delle pe-dagogie del Novecento, rappresen-ta senza dubbio uno degli autoriche possono essere definiti comepensatori critici. L’importante pe-dagogista brasiliano, infatti, du-rante tutta la sua attività scientificae militante individua due conce-zioni dell’educazione tra loro con-trapposte: l’educazione “deposita-ria” (termine con cui viene tradot-to il portoghese bancária) e l’edu-cazione “problematizzante”. L’unaconserva e conferma, l’altra pro-duce consapevolezza critica ed è ilpresupposto della liberazione. L’e-ducazione, infatti, diventa per

Paulo Freire un percorso di liberazione.Freire scrive la sua opera principale, La pedagogiadegli oppressi, nel 1968. Egli è un testimone signifi-cativo dell’America Latina degli anni ’60: un conte-sto oggetto di molti mutamenti politici e di svolte au-toritarie che a volte portarono, come nel caso delBrasile nel 1964, a violente dittature militari. Freire,dopo aver partecipato come educatore all’ISEB (Isti-tuto Superiore di Educazione Brasiliana) e a varieiniziative di alfabetizzazione delle popolazioni rurali,fu costretto all’esilio: visse dapprima in Cile, dovepubblicò La pedagogia degli oppressi e altre operefondamentali della sua produzione – tra cui L’educa-zione come pratica della libertà – e poi in Svizzera.L’educazione depositaria, secondo Freire, è un mo-dello di educazione direttiva e ingiusta, in cui l’edu-catore educa e gli educandi sono educati, l’educato-re sa e gli educandi non sanno, l’educatore parla egli educandi ascoltano docilmente. L’educazioneproblematizzante, al contrario, «è intenzionalità,perché risposta a ciò che la coscienza profondamen-te è, e quindi rifiuta i comunicati e rende essenzial-mente vera la comunicazione… In questo senso, l’e-ducazione liberatrice, problematizzante, non può es-sere l’atto di depositare, o di narrare, o di trasferire,o di trasmettere conoscenze e valori agli educandi,semplici, pazienti, come succede nell’educazionedepositaria, bensì un atto di conoscenza» (Freire,2002, pp. 67-68). Questa concezione dialogica del-l’educazione e dell’atto di insegnare, fondamentalenel pensiero freiriano, verrà ripresa anche in uno de-gli ultimi scritti del pedagogista brasiliano, Pedago-gia dell’autonomia, interamente dedicato al temadella formazione docente, in cui egli afferma che«chi insegna, nell’atto di insegnare apprende, e chiapprende nell’atto di farlo, insegna» (Freire, 2004,p.21). E ancora: «insegnare, apprendere e ricercarehanno a che fare con questi due momenti del ciclognoseologico: quello in cui si insegna e si apprendela conoscenza già esistente, e quello in cui si lavoraall’elaborazione della conoscenza che ancora nonesiste. La «do-discenza» – la docenza-discenza – ela ricerca finiscono così con l’essere pratiche essen-ziali – e inseparabili – di questi momenti del ciclognoseologico» (Ivi, p.25).

Freire individua due concezionidell’educazione tra loro contrapposte:

l’educazione “depositaria”(termine con cui viene tradotto

il portoghese bancária) e l’educazione“problematizzante”. L’una conserva

e conferma, l’altra produceconsapevolezza critica

ed è il presupposto della liberazione.L’educazione, diventa un percorso

di liberazione

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Le tematiche principali affrontateda Freire nel volume La pedago-gia degli oppressi riguardano l’in-terpretazione della realtà come di-namica di oppressione/liberazione,la concezione problematizzantedell’educazione, il concetto di dia-logo e di anti-dialogo, gli aspettimetodologici del processo di alfa-betizzazione. Quest’ultimo vieneritenuto centrale non solo comemetodo “scientifico” per impararea leggere e a scrivere, ma anchecome condizione prioritaria per lapartecipazione politica, e la conse-guente liberazione, dell’oppresso.La dialettica oppresso/oppressorerichiama, come evidenzia esplici-tamente Freire stesso, la dialetticahegeliana servo/signore: l’oppres-so, per Freire come per Hegel, ac-quistando la propria umanità con il processo di libe-razione, restituisce umanità anche al proprio op-pressore, liberandolo. Le due fonti principali delpensiero di Freire sono dunque il personalismo cri-

stiano di J. Maritain e il marxismo (la realtà comedialettica oppressori/oppressi e l’educazione comestrumento di trasformazione della realtà).Per quanto riguarda, in particolare, il metodo PauloFreire, esso si basa sulle “parole generatrici” e sui“quadri-situazione”. Queste due strategie permetto-no di focalizzare l’attenzione su un tema che per-mette dapprima un processo di “coscientizzazione”,da parte dell’analfabeta, della sua condizione di op-presso – tramite la discussione su temi suscitati daun dibattito: la casa, la salute, il lavoro, la natura, iprocessi culturali, ecc. – e in seguito il processo discrittura e di alfabetizzazione, che conduce a ciòche Freire chiama “liberazione”. La liberazione nonavviene mai in solitudine: è tutta la comunità del“circolo di cultura” che insieme si libera, prenden-do coscienza dei meccanismi ingiusti della società.Il contributo di Freire è connesso, inoltre, con le te-matiche dell’educazione interculturale in quanto ilsuo approccio pedagogico può definirsi “decostrut-tivo”: esso tende, appunto, a decostruire miti, pre-giudizi, schemi mentali – sulla superiorità dei ric-chi sui poveri, dei bianchi sui neri, dei leader politi-ci sulle masse – che si sono diffusi in profondità inmolti Paesi del Sud del mondo colonizzati dall’Oc-cidente. Inoltre, è molto importante il concetto di“cultura” come sforzo creatore continuo dell’uomo,che mai si staticizza in un blocco monolitico ed è in

costante mutamento e movimento. «L’invasioneculturale è la penetrazione degli invasori nel conte-sto culturale degli invasi, senza rispetto verso lepotenzialità dell’essere, che essa condiziona, quan-do essi impongono la loro visione del mondo e fre-nano la creatività, inibendo l’espansione degli inva-si» (Freire, 2002, p.149). Per contro, “nella sintesiculturale, che è l’opposto dell’invasione culturale,gli “attori” non arrivano al popolo come invasori,mentre nell’invasione culturale gli attori entranodal loro mondo in quello degli invasi, portandoviun contenuto tematico per l’azione ricavato dai lorocriteri di valore e dalla loro ideologia. Nella sintesiculturale gli attori, anche se arrivano da un “altromondo”, arrivano per conoscerlo col popolo e nonper “insegnare”, o trasmettere, o consegnare qual-cosa al popolo (Ivi, p.180). Tutto ciò è affermato da

Freire nella convinzione che «ogni azione culturaleè sempre una forma sistematica e deliberata diazione che incide sulla struttura sociale, ora nelsenso di mantenerla com’è, ora nel senso di trasfor-marla… L’azione culturale, o è al servizio della do-minazione (cosciente o incosciente da parte deisuoi agenti) o è al servizio della liberazione degliuomini» (Ivi, p.179).

Paulo Freire

L’educazione depositaria, secondoFreire, è un modello di educazionedirettiva e ingiusta, in cui l’educatoreeduca e gli educandi sono educati,

l’educatore sa e gli educandi non sanno,l’educatore parla e gli educandi

ascoltano docilmente

Nella Pedagogia dell’autonomia,interamente dedicato al tema dellaformazione docente, Freire affermache «chi insegna, nell’atto di insegnareapprende, e chi apprende nell’atto

di farlo, insegna». E ancora: «insegnare,apprendere e ricercare hanno a che fare

con questi due momenti del ciclognoseologico: quello in cui si insegna e siapprende la conoscenza già esistente, equello in cui si lavora all’elaborazionedella conoscenza che ancora non esiste»

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La tv è la sorella dellaradio, e anche il servi-zio pubblico è nato conla radio. Da essa dob-biamo partire se vo-gliamo capire la tv.Quando nacque la ra-dio (nel nostro sensomoderno di broadca-sting, cioè di trasmis-sione circolare), neiprimi anni Venti, negliStati Uniti si affermòun modello imprendi-toriale e commerciale:

la fruizione della radio è gratuita, l’attività radiofo-nica (produzione e diffusione di programmi) è fi-nanziata prima dalla vendita degli apparecchi, poidalla pubblicità, e permette all’imprenditore di rea-lizzare un profitto.Questa esigenza di profitto richiede di convocaremasse crescenti di spettatori davanti all’apparec-chio radio: più ampia sarà la platea, più elevate letariffe della pubblicità. La programmazione deveessere quindi fortemente improntata all’intratteni-mento leggero, mettendo in ombra tutto ciò chepuò risultare “noioso”.In Europa fu scelta un’altra strada. La radio sarà unservizio pubblico, svolto in regime di monopolioda aziende parastatali, con fini educativi, e finan-ziato dagli ascoltatori tramite il canone, oltre cheda aiuti dello Stato. L’inventore di questa formula

fu John Reith, un uomo politico conservatore bri-tannico, scozzese, direttore di una vacillante com-pagnia radiofonica privata, la BBC, British Broad-casting Company. Fu Reith a coniare il trinomioche costituisce la missione del servizio pubblico:educare, informare, intrattenere. Educare, informa-re, intrattenere: in rigoroso ordine di apparizione. Ilservizio pubblico sarà affidato ad nuovo ente para-statale, che si chiamerà sempre BBC ma come Bri-

tish Broadcasting Corporation. Che Reith andrà adirigere.La scelta del servizio pubblico fu ammantata dimotivazioni etiche, ma era l’unica possibile in Eu-ropa; infatti fu adottata da quasi tutti i paesi, com-presi quelli retti da regimi autoritari, come era allo-ra l’Italia. In nessun paese europeo - allora - vi sa-rebbero state le condizioni di mercato per far vive-re la radiofonia. Una missione, ma anche una sceltaobbligata.

Il servizio pubblico, quando opera in regime di mo-nopolio, non ha bisogno di sedurre l’ascoltatorecon l’intrattenimento, né di misurare quantitativa-mente l’ascolto, perché non ci sono tariffe pubbli-citarie. Un programma colto e ritenuto utile allaformazione del pubblico può convocare pochiascoltatori, che non hanno il diritto di scegliere, maciò non è ritenuto determinante: è solo un parame-tro di cui tener conto insieme ad altri.La televisione, che è figlia del secondo dopoguer-ra, è un servizio erogato dagli stessi enti parastatalieuropei, o dalle stesse imprese private americane,che trasmettevano la radio, e prosegue la dicotomiatra Europa e America.Una televisione andragogica. In cui un gruppo diintellettuali, diretti da “uomini di fiducia” del go-verno, decidono quello che è bene per il popolo.“L’uomo di fiducia” è il titolo dell’autobiografiadel dominus della tv italiana, Ettore Bernabei. Unadieta equilibrata fra cultura e sano intrattenimento,tra divulgazione culturale e spettacolo. La grigliadei programmi è chiamata in Italia “palinsesto”.Un termine che testimonia della buona cultura clas-sica dei dirigenti, ma anche delle continue cancel-lature e riscritture dovute a pressioni, censure, au-tocensure di origine politica.Il presupposto della tv pubblica è il monopolio. Glispettatori possono spegnere l’apparecchio, ma non

Un medium del NovecentoIl ruolo della televisione pubblica nei processi educatividi Enrico Menduni

In realtà la funzione educativadella televisione non stava nella suasostituzione all’istituzione scolastica,quanto piuttosto nella sua capacità

di offrire stili di vita nuovi,che indirettamente sollecitavanoalla mobilità sociale, proponendouna socializzazione anticipatrice di

un benessere ancora non generalizzato

Enrico Menduni

La tv è sempre stata più orientataall’intrattenimento della radio.

L’avvento delle tv private non è statala calata dei barbari, e comunquei “barbari” hanno trovato le porte

aperte da un modello di intrattenimentogià popolare. La vera domanda,piuttosto, è se sia ancora presentela funzione educativa, in forma

di socializzazione anticipatrice, svoltadalla tv italiana nella sua storia

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scegliere un programma come potrebbero scegliereun film al cinema, perché il fornitore è unico.La televisione in Italia comincia le sue trasmissioninel 1954. L’Italia è ancora un paese di analfabeti. Ilcensimento del 1951 ci mostra un tasso di analfa-betismo che dall’1% del Trentino-Alto Adige arri-va al 32% della Calabria. Un preoccupante 12,9%di media. Il nuovo medium, la televisione, mostrase stessa come un’agenzia di alfabetizzazione.Tra il 1959 e il 1968 la Rai trasmette un program-ma che si chiama Non è mai troppo tardi, è dedica-to agli analfabeti, ed è condotto da un maestro ele-mentare, Alberto Manzi. Un’icona della tv italiana,presentata anche da una fiction televisiva in duepuntate, dal sapore agiografico, trasmessa da RaiUno nel febbraio del 2014.In realtà il ruolo di Manzi è stato diverso, più limi-tato. Diventò il monumento vivente alla funzioneeducativa della tv soltanto moltodopo la sua trasmissione, che allo-ra incontrò un “successo modera-to” (Aldo Grasso). Non esiste al-cuna pubblicazione dell’epoca, uf-ficiale o non, ministeriale o RAI,che permetta di ricostruire esatta-mente quanti allievi presero la li-cenza elementare grazie a Non èmai troppo tardi e, più in generale,il suo impatto sugli analfabeti: cer-to ebbe una funzione profonda-mente rassicurante per la classe di-rigente italiana, che voleva essererassicurata sul carattere andragogi-co della tv.In realtà la funzione educativa del-la televisione non stava nella suasostituzione all’istituzione scola-

stica, quanto piuttosto nella sua capacità di offrirestili di vita nuovi, che indirettamente sollecitavanoalla mobilità sociale, proponendo una socializza-

zione anticipatrice di un benessere ancora non ge-neralizzato.Le tesi più accreditate nella Rai degli anni Sessantasono quelle di Wilbur Schramm (Mass Media and

National Developement, Stanford,Stanford University Press, 1964)per il quale i media nel loro com-plesso e la televisione in particola-re sono “grandi moltiplicatori”,che permettono l’apertura di socie-tà chiuse e arcaiche essenzialmenteattraverso il confronto con altrerealtà più aperte e moderne, pre-sentate come seducenti e attrattive.Queste tesi, educative più che sco-lastiche, furono in Italia fatte pro-prie da Sabino Acquaviva, dallaFondazione Olivetti e da France-sco Alberoni.Conviene anche riflettere sul fattoche, dopo la guerra, la radio italia-na era stata ricostruita dalle mace-rie del fascismo guardando all’e-

Alberto Manzi in Non e ̀mai troppo tardi

La televisione non esprime piùlo spirito del tempo, anche se resistonograndi cerimonie mediali e momentiperiodici nei quali il paese si ritrovadavanti alla tv per seguire eventi

e competizioni, come quelle elettorali

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sempio inglese della BBC. La televisione invece fucreata con numerosi viaggi di studio di dirigentiRai negli Stati Uniti, in cui ebbero come guida ungiovane e disinvolto italo-americano che lavoravanel programma italiano della Voice of America, laradio del Dipartimento di Stato Usa, Mike Bon-giorno. Mike è presente nella prima giornata dallatelevisione italiana (il 3 gennaio 1954) con una suarubrica, “Arrivi e partenze”, dedicata alle persona-lità internazionali che arrivano in Italia, magari perlavorare alla “Hollywood sul Tevere” e agli italianiche partono (registi, romanzieri etc.). Un classicodella mediazione interculturale. Bongiorno pratica-mente non lascerà mai lo schermo e la vera iconadella Tv italiana sarà lui, molto lontano dal model-lo Manzi che ci rimanda, semmai, al suo collegadel libro “Cuore”.La tv è sempre stata più orientata all’intratteni-mento della radio. L’avvento delle tv private non èstata la calata dei barbari, e comunque i “barbari”hanno trovato le porte aperte, o almeno socchiuse,da un modello di intrattenimento già popolare. Lavera domanda, piuttosto, è se sia ancora presentela funzione educativa, in forma di socializzazioneanticipatrice, svolta dalla tv italiana nella sua sto-

ria. Certo questa funzione non si è arrestata conl’avvento delle private e poi del cosiddetto “duo-polio” Rai-Fininvest (poi Mediaset), con altrettan-ta sicurezza si può affermare che essa non è piùoperante. Se essa continua a interessare una largafetta della popolazione e c’è ancora un’Italia pigra

che tende a seguire i consigli che le vengono dalteleschermo, è altrettanto vero che i giovani l’han-no abbandonata o la ascoltano come un’abitudine,piuttosto che come una maestra, buona o cattivache sia. La televisione non esprime più lo spiritodel tempo, anche se resistono grandi cerimoniemediali e momenti periodici nei quali il paese siritrova davanti alla tv per seguire eventi e compe-tizioni, come quelle elettorali. Tuttavia invano cer-

cheremmo una fun-zione educativa esocializzante diffu-sa, anche se esistonoprogrammi, momen-ti, episodi in cui es-sa continua ad averetale funzione, maga-ri non proprio daiprogrammi dell’e-mittente pubblica. Èun paradosso cheuna trasmissioneche si chiama “Ser-vizio pubblico” nonne faccia, a rigore,parte essendo diffu-sa da una rete nazio-nale privata. ComeLa 7. Né la si trovanella interessantevarietà di canali te-matici, specialistici,di nicchia, spessomigliori dei lorocorrispondenti gene-ral is t i ma sicura-mente senza l’ambi-zione di rappresen-tare tutta la società.Dov’è lo spirito deltempo? Dobbiamocercarlo dalle partidi Internet, soprat-tutto nella sua com-ponente di socialnetworking. La tvrimane un mediumdel Novecento.

Mike Bongiorno ai suoi esordi nella tv italiana

Dov’è lo spirito del tempo?Dobbiamo cercarlo dalle partidi Internet, soprattutto nella suacomponente di social networking.

La tv rimane un medium del Novecento

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Me lo ricordo bene, enon sono certo l’unicoa farlo, anche se ormainoi si appartiene ad unaspecie in estinzione: leprime volte che scrive-vo al computer, io chevenivo da anni e annidi composizione amacchina, cercavo conla mano e la testa, ve-dendo avvicinarsi la fi-ne della riga, una qual-che leva per andare acapo. Insomma, il resi-

duo di quel mondo e soprattutto di quel modo tuttomeccanico di concepire e praticare la scrittura m’e-ra rimasto dentro. In seguito, nuovi automatismivennero ad inscriversi sui precedenti, al punto cheora, se mi si chiedesse ora di battere un testo a mac-china, farei una gran brutta figura.Va riconosciuto, comunque, queste faccende metto-no in gioco qualcosa di più e di diverso rispetto afatti puramente tecnici.Piaccia o no il digitale e la rete stanno cambiando ilnostro rapporto con la scrittura: le procurano nuovispazi e figure, ma intervengono anche in profonditàcontribuendo a ristrutturare l’ambiente stesso entroil quale troviamo, riceviamo, produciamo comuni-cazione tramite segni.Nessuno potrebbe negare che apertura, mobilità edelasticità siano tratti costitutivi dell’orizzonte socia-le e mentale di chi ricorre, oggi, alla scrittura né oc-corre grande acume filosofico per riconoscere chequelle non appartengono al bagaglio delle idee fortidella cultura industriale e meccanica.

Altra questione è se le pedagogie di settore oggi piùdiffuse, quelle spontanee della vita d’ogni giorno equelle “riservate” della scuola e dell’accademia,siano all’altezza della metamorfosi tecnologiche eculturali intervenute. Comunque, da quel che si di-ce, e soprattutto da come luttuosamente lo si fa, il

raggiungimento di un simile obiettivo sembra esse-re ancora molto lontano. Si accetta che possa essereutile dare ai giovani consapevolezza di come fun-zionano determinati meccanismi della scrittura digi-tale ma si fa molta difficoltà a riconoscere e far lororiconoscere il portato concettuale di quei meccani-smi. Perché? Dove stanno le resistenze? Nelle men-ti o nelle istituzioni? Sia qui che là, non c’è dubbio.

Del resto, sarebbe da ingenui pensare che il passag-gio al nuovo modo ambiente educativo possa avve-nire in armonia. Molte impalcature sono destinate acadere, se davvero si va nella direzione del cambia-mento, e con esse non poche abitudini e maniere dipensare svanirebbero, senza lasciare traccia alcunadi sé e rischiando addirittura di diventare preistoriauna volta scomparsi gli ultimi testimoni delle storiedel mondo di prima, cioè noi. Normale che si regi-strino reazioni, e pure aggressive, da parte degli in-teressati.Ad una economia della scrittura costruita sulla po-vertà dello spazio, sulla fatica realizzativa e, soprat-tutto, sulle dimensioni individuali della produzionesi va sostituendo una che sembra proiettare i suoiadepti in direzioni opposte. Chi è nato dentro questanuova economia non coglie la qualità del cambia-mento intervenuto e trova dunque naturale l’univer-so contemporaneo della scrittura, chi invece ha co-nosciuto e considerato naturale l’universo prece-dente non può non vedere nel nuovo elementi di ar-tificialità e costrizione. Loro e noi, insomma. I prei-storici titubanti sulla soglia del nuovo tempo, noi, eloro che ci sono nati dentro. Di qui le resistenze,nostre, che proponiamo pedagogie scadute e vor-remmo che non lo fossero, e loro, che sentono quel-le pedagogie del tutto aliene rispetto a quel che or-mai è il loro mondo. Cosa ben più grave, siamo tuttiugualmente vittime di un conflitto, che rischia di di-ventare insanabile, fra la pedagogia informale dellascrittura, quella che cresce autonomamente e mas-sicciamente fuori delle istituzioni pedagogiche, e lapedagogia formale di tali istituzioni, che stenta a fa-re i conti con le novità e che, anche per il peso chesubisce dall’impianto istituzionale, non riesce e tal-volta nemmeno vuole darsi un diverso assetto.

Collettività e connettivitàLe leve dell’apprendimento digitaledi Roberto Maragliano

Roberto Maragliano

Piaccia o no il digitale e la rete stannocambiando il nostro rapporto

con la scrittura: le procurano nuovispazi e figure, ma intervengono anche

in profondità contribuendo aristrutturare l’ambiente stesso entro

il quale troviamo, riceviamo,produciamo comunicazione tramite segni

Indubbiamente la rete è uno spaziodi esercizio dell’apprendimento.Basti pensare ai social network.Ci si sta per curiosità, ma anche

per condividere esperienza, riceveree dare conoscenza, il tutto in una logica

collettiva e connettiva

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Del resto, si tratta di passare da un ordine mentale eoperativo costruito, ad esempio, attorno al divietodella copiatura o all’economia della cancellatura aduno in cui questi vincoli sono caduti e ciò che adessi si collega passa dall’essere inteso come disva-lore ad esserlo come valore.

Questo è il compito che ci attende. E le posizioni incampo, da parte dell’educatore che vorremmo im-pegnato ad affrontarlo, non sono che tre: quella dichi rifiuta l’impegno perché lo giudica infondato (lacultura è una cosa, il rumore è altro), quella di chilo accetta e lo piega all’esigenza di mantenere leconcettualizzazioni del modo precedendo aggior-nandone solo alcuni aspetti di superficie e quella dichi fa suo questo programma, cercando di orientar-ne l’attuazione attraverso la messa a punto di nuovetrame concettuali. Non è una novità. Uno afferma“niente motorino”, uno vuole “prima la bicicletta” euno si dice “va be’, subito il motorino ma con unadeguato corredo di sicurezze e precauzioni”: il pri-mo non dà cittadinanza, il secondo fa finta di con-cederla, il terzo si impegna a farla maturare. Que-sto, almeno, è quanto io penso.Vi chiederete a questo punto se non ho sbagliato ar-gomento. Dovevo trattare di e-learning e invece misono dilungato sui temi dello scrivere, aggiungen-doci pure la questione del motore. No, non ho de-viato. Lo capite subito se nei brani che avete lettofin qui provate a sostituire al termine “scrittura” e isuoi derivati il termine “apprendimento” con tutti isuoi derivati. Il discorso regge ancora.Perché indubbiamente la rete è uno spazio di eserci-zio dell’apprendimento. Basti pensare ai social net-work. Ci si sta per curiosità, ma anche per condivi-dere esperienza, ricevere e dare conoscenza, il tuttoin una logica collettiva e connettiva. Anche lì si ap-prende dalle cose, in ultima istanza, ma solo perchégli altri le mediano: insomma si trae succo dagliesiti ma anche e soprattutto dalle dinamiche del-l’apprendimento altrui. Comunque si apprende, in

modalità del tutto informali, quasi anarchiche. Lo sifa, appunto, dentro la diversità, il movimento, il ru-more, la confusione, tutti elementi che nella logicadi prima sarebbero barriere, ma che lì fungono dacornici per l’attivazione dei filtri con cui seleziona-re e fissare attivamente dei contenuti. Come c’è il

social writing dei wiki, cioè unadimensione partecipata della scrit-tura digitale che non ha pari neglispazi della scrittura fisica, allostesso modo c’è un social lear-ning, cioè un’esperienza tipicadell’universo digitale che solo inparte il mondo fisico è in grado diricalcare. Il tutto sotto l’insegnadell’apertura, della mobilità, del-l’elasticità.Di qui, io credo, dovremmo muo-vere, chiedendoci in che misuraquest’altra dimensione e soprattut-to quest’altra logica dell’apprende-re, poco conosciute fin qui, ma og-gi molto praticate negli spazi ester-ni delle istituzioni, e non solo peril diletto o il consumo, possano ri-entrare ed essere positivamente ac-colte dentro strutture, come le sco-lastiche e universitarie, abituate epoggiare i loro principi di identitàe i loro impianti organizzativi sulladimensione e la logica dell’inse-

gnamento e su apprendimenti formali in tutto e pertutto dipendenti da quell’insegnamento.Una volta data la risposta positiva, occorrerà checonvinciamo noi stessi di quanto sia riduttivo pen-sare di risolvere tutto con un semplice cambio diveicolo. Certo, all’inizio di un’esperienza di e-lear-ning il problema che generalmente ci poniamo è co-me riprodurre lì i meccanismi cui siamo avvezzi:

andremo dunque alla ricerca di cosa mettere al po-sto delle lezioni (ad esempio dei video), cosa al po-sto di una parte dei manuali cartacei (e avremo glioggetti didattici multimediali), cosa al posto delleprove di esame (i test, no?), cosa al posto del dialo-go docente/studente (dei forum potrebbero risultareutili). L’orizzonte mentale ed operativo che prevale,in questa fase, non andrebbe oltre le dimensionidell’e-teaching e non sarebbe infrequente che chi visi impegni, docente o studente, vada alla ricerca di

Questa è, al 2 di aprile alle ore 13, la home page del blog #PARLIAMONE del Laborato-rio di tecnologie audiovisive (Dipartimento di Scienze della formazione): http://LTAonli-ne.wordpress.com

Come c’è il social writing dei wiki, cioèuna dimensione partecipata

della scrittura digitale che non ha parinegli spazi della scrittura fisica, allostesso modo c’è un social learning,

cioè un’esperienza tipica dell’universodigitale che solo in parte il mondo fisico

è in grado di ricalcare.Il tutto sotto l’insegna dell’apertura,

della mobilità, dell’elasticità

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ciò che non c’è, né ci potrebbe es-sere, come facevo io con la levamancante del mio primo computer.In altri termini, in simili contestiprevale, dell’e-learning, quantoesso avrebbe in meno rispetto al-l’insegnamento fisico (del resto,ciò che effettivamente gli manca èproprio la fisicità dell’insegna-mento fisico) mentre resta nel-l’ombra proprio ciò che avrebbe inpiù e di diverso rispetto alla situa-zione di prima, vale a dire la pos-sibilità di accogliere e promuovereapprendimenti attivi e partecipati,e di modulare e modellare l’impe-gno didattico su tali dinamiche.Appurato che quella leva non c’è,ed elaborato il lutto, potremmo se-riamente decidere se investireenergie, mentali e culturali e orga-nizzative, sull’impresa. Si trattaallora di accettare che vengano po-sti in discussione molti dei presup-posti del nostro insegnare e far ap-prendere. Come per la scrittura,passando al contesto nuovo è ne-cessario aprirsi alle prospettive dimutamento di spazi, modelli, stili, dinamiche, e al-l’idea che non solo gli oggetti ma anche i soggettiin scena assumano tratti di flessibilità e reciprocaintercambiabilità.Nel digitale si apprende dall’apprendimento dell’al-tro, e questo vale anche per il docente; lì il contenu-to dell’apprendimento assume forme aperte, dove ilegami tra i nodi sono più significativi dei nodistessi, e questo tocca il problema della riarticolazio-ne dei saperi; lì, ancora, l’esito delle dinamiche diapprendimento/insegnamento è comunque un pro-dotto collettivo e connettivo, e questo segna unagrosso elemento di sfida per la didattica.Si può dunque decidere, in ambito universitario, dinon aprire questa partita, perché la si considera per-dente per l’identità (o la dignità) dell’istituzione. Po-sizione legittima, ma, io credo, rischiosissima. Anchese si è fermamente convinti che la rete sia il luogodel massimo smarrimento e della massima distrazio-ne, non si può sfuggire al dato di fatto che i giovani egli adulti che contattano le università già oggi sonosegnati e sempre più lo saranno domani da quel tipodi esperienza e da quel modo di concepire e praticarela conoscenza. Una difesa orgogliosa e rigida delleattuali modalità dell’insegnare metterebbe a repenta-glio la sopravvivenza stessa dell’istituzione.Dunque, la via sembrerebbe segnata. Naturalmentela si può percorrere in tempi e modi diversi, peresempio sostenendo prima esperienze di e-teachinge poi facendo maturare al loro interno soluzioni piùavanzate in direzione reticolare, oppure sintoniz-zandosi subito e direttamente su questa secondaprospettiva.In ogni caso è importante che non se ne faccia unproblema esclusivo di macchine, e che si eviti dirappresentare il passaggio come una subordinazionedi scelte umane a opzioni tecnologiche.

Scelte umane (e pedagogiche) e opzioni tecnologi-che sono un tutt’uno, da che esiste l’individuo chescrive, e che scrive per l’altro.È questo uno dei principi cui fa riferimento l’impe-gno di ricerca, comunicazione e formazione del La-boratorio di Tecnologie Audiovisive, attivo dal 1990nell’area educativa dell’Università Roma Tre e im-pegnato dal 1999 in esperienze di didattica di rete(la figura 1 riproduce l’home page attuale del blogdel Laboratorio). Tra i prodotti più recenti del grup-po c’è la mappa riprodotta nella figura 2: una rap-presentazione tridimensionale dello spazio entro ilquale individuare la collocazione di ipotetiche prati-che di e-learning di stampo diverso, da quelle cheanche sul piano istituzionale intendono ricalcare leofferte e le strutture esistenti (le si troverà più vicineall’angolo della Riproduzione) a quelle che più se ne

allontanano (situandosi più vicine all’angolo oppo-sto della Produzione). Va da sé che le esperienze na-zionali delle Università telematiche figurerannomolto vicine a R mentre quelle internazionali delMOOCs se ne discosteranno, andando a trovare col-locazione nella metà dell’asse più vicina a P.

Rappresentazione tridimensionale dello spazio entro il quale collocare un’esperienza die-learning. Tre sono gli assi organizzativi, corrispondenti a scelte in termini di qualitàdelle attrezzature soprattutto software, di articolazione dei contenuti, di modelli per l’ap-prendimento e l’insegnamento. Ancora tre sono i tipi di competenze richiesti a docenti estudenti, precisamente di tecnica, enciclopedia, esperienza. Due risultano essere le matri-ci, a seconda che ci si orienti a ricalcare ordinamenti esistenti (Riproduzione) o a speri-mentarne di nuovi (Produzione). L’immagine è realizzata da Andrea Patassini, del Labo-ratorio di tecnologie audiovisive

Nel digitale si apprendedall’apprendimento dell’altro, e questovale anche per il docente; lì il contenutodell’apprendimento assume formeaperte, dove i legami tra i nodi sonopiù significativi dei nodi stessi,e questo tocca il problema

della riarticolazione dei saperi

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Se il dibattito sulle pro-ve d’ammissione all’u-niversità non fosse vi-ziato da un’eccessivaattenzione ad alcuniaspetti contingenti, etenesse in considera-zione una più ampiaprospettiva temporale,si potrebbe giungere aconclusioni molto di-verse da quelle che sisentono, spesso osses-sivamente, ripetere e,soprattutto, si capireb-

be meglio qual è il nesso che collega la valutazioneper passaggio dalla scuola secondaria all’universitàallo sviluppo complessivo dei sistemi educativi. Sa-rebbe, infatti, possibile ricostruire il cambiamentointervenuto da situazioni nelle quali, per lo scarsonumero di allievi coinvolti, ma anche, e soprattutto,per la loro appartenenza sociale, la valutazione nonaveva una funzione di particolare rilievo, limitando-si per lo più a fungere da elemento regolatore delladidattica, alle condizioni attuali, nelle quali certepratiche valutative hanno un rilievo centrale nellosviluppo di un percorso di studi e conseguenze sullecondizioni successive di esistenza degli allievi.I sistemi educativi contemporanei (mi riferisco aipaesi europei e a quelli che altrove ne hanno ripresola cultura) sono riconducili a due principali tradi-zioni. La prima risale alla Riforma religiosa avviatada Lutero con l’affissione, il 31 ottobre del 1517,delle sue 95 tesi alla porta della Cattedrale di Wit-tenberg. Può sembrare strano, e per molti versi lo è,che si indichi non solo l’anno, ma anche il mese e ilgiorno in cui ha preso avvio un fenomeno così com-plesso, che per raggiungere le dimensioni che oggilo caratterizzano ha impiegato circa mezzo millen-nio. Il fatto è che, al di là degli aspetti religiosi, laRiforma rompeva una concezione della cultura del-le popolazioni alla quale era estranea l’idea del pos-sesso diffuso di un repertorio di competenze simbo-liche. Richiamando il popolo cristiano a rifletteresenza intermediari sul messaggio delle Scritture,Lutero apriva, per un verso, un contrasto con laChiesa di Roma, dall’altro poneva un’esigenza, percosì dire, tecnica, quella di saper leggere.Improvvisamente, l’apprendimento formale diventa-va, nell’Europa riformata, un aspetto non rinunciabi-le nel profilo delle popolazioni. La valutazione assu-meva rilevanza soprattutto perché funzionale allosviluppo di una proposta didattica rivolta a tutti, sen-za differenze di status o di censo. Ciò non comporta-va, tuttavia, che la valutazione assumesse il ruolo so-ciale che è venuta acquisendo successivamente e che,

per molti versi, possiede ancora. Se l’acquisizione dicompetenze alfabetiche di base costituiva una condi-zione che doveva essere uniformemente posseduta, iprocessi di differenziazione sociale potevano conti-nuare a svilupparsi per altre vie, come, in effetti, èavvenuto dove si è affermata la Riforma. La valuta-zione ha incominciato ad assumere la rilevanza cheoggi le si riconosce quando almeno parte della diffe-renziazione sociale si è caratterizzata per il possessodi un cultura formale di qualche consistenza, a co-minciare, ovviamente, dalle competenze alfabetiche.È un fenomeno che non si è verificato in modo sin-crono, ma si è manifestato in concomitanza o all’in-terno di altri cambiamenti significativi nelle condi-zioni di vita delle popolazioni. Per esempio, sarebbe

difficile immaginare la razionalizzazione intervenutanell’organizzazione di alcuni stati europei nel Sette-cento senza supporre l’esistenza di una cultura distri-buita in parti della popolazione di qualche consisten-za, così come i progressi dell’industrializzazionehanno richiesto che il profilo dei lavoratori non si li-mitasse soltanto alla forza fisica e alla capacità dieseguire compiti su base esclusivamente sapienziale.Da un punto di vista sociale e valutativo, il quadro siè complicato quando si è incominciato a ragionaredi educazione formale non solo per l’esigenza cheoccorreva soddisfare (immateriale nel caso della Ri-forma, materiale negli altri), ma nell’ambito di unadiversa visione dei diritti e dei doveri delle persone:l’educazione ha assunto rilevanza politica, e la valu-tazione è diventata strumento perché le scelte effet-tuate non fossero solo enunciati privi di conseguen-ze. Così, per esempio, uno dei principi della Rivolu-zione francese è consistito nell’affermare il dirittoall’istruzione. Ma, se l’istruzione era un diritto, enon solo un modo per soddisfare questa o quell’esi-genza, come stabilire fino a che punto tale dirittodovesse estendersi? Per salvarsi l’anima bastava sa-per leggere le Scritture, ma per partecipare alla vitasociale esprimendo al meglio le proprie capacitàquanto si sarebbe dovuto proseguire negli studi?È significativo che a questi interrogativi sia statadata per lo più una risposta indiretta. Per restare inFrancia, in piena età napoleonica incominciavano a

C’è bisogno di ricercaCambiare la valutazione d’ingressodi Benedetto Vertecchi

Benedetto Vertecchi

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Le università hanno la responsabilità dinon aver definito autonomamente inche modo assolvere al loro compitovalutativo, ma di averlo affidato a

società di servizio che per lo più si sonolimitate a replicare le prove partendo da

alcuni modelli internazionali

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sollevarsi polemiche circa la certificazione deglistudi secondari. Alcune delle domande che l’opinio-ne pubblica si poneva non erano apprezzabilmentediverse da quelle che oggi si continuano a porre, ecioè se il sistema degli esami non finisca per favori-re una apprendimento ripetitivo e privo di spessorecritico, se gli allievi non finissero per impegnarsisolo in ciò che sarebbe stato verificato agli esami ein funzione del modo in cui tale verifica si sapevache sarebbe avvenuta e così via. Quel che sorprendenon è che si potessero porre simili domande, mache fossero poste in un contesto in cui solo una fra-zione minima della popolazione potenziale conclu-deva il percorso degli studi secondari.L’asprezza del dibattito sugli esami che in molti pae-si si è manifestata già nel corso dell’Ottocento, se ap-parentemente si collegava a enunciati educativi ma-gniloquenti, era molto più realisticamente da collega-re a una funzione di moderazione della mobilità so-ciale. Attraverso gli esami conclusivi della scuola se-condaria si poteva disciplinare l’accesso alle univer-sità, e di conseguenza all’assunzione di ruoli socialidi livello elevato. È nota la polemica che si trovò acontrastare Horace Mann come segretario del Boardof Education nello Stato del Massachusetts attorno al1840. La questione riguardava la qualità degli studi ele posizioni che si opponevano erano le stesse chehanno continuato a proporsi successivamente, e cioèse la crescita del numero degli allievi delle scuole se-condarie non fosse causa del decadimento degli stu-di. Quel che è interessante notare, perché rappresentail punto critico nel dibattito sugli esami, è che non cisi chiedeva (e si continua a non chiedersi) perché de-terminati esiti non corrispondono alle attese, ma solose non corrispondono. La differenza è sostanziale. Seci si pone la prima domanda, si intende capire i pro-cessi e le trasformazioni che sono in atto al loro in-terno, ma se ci si limita a costatare se vi sia corri-spondenza tra risultati attesi e risultati osservati ilcriterio di giudizio è sottratto all’analisi delle condi-zioni nelle quali ha operato l’educazione.Vale la pena di osservare che nel corso del Novecen-to il confronto sugli esami finali della scuola secon-daria è stato il principale tema di contrapposizionetra conservatorismo e innovazione nei sistemi scola-stici. Non che la questione si sia presentata nei termi-ni politici ora indicati. Si è, invece, per lo più am-mantata di considerazioni metodologiche e tecniche.Anzi, proprio da tali considerazioni ha avuto origineil precisarsi della sistematica valutativa che ha datoluogo al precisarsi, nell’ambito della conoscenzaeducativa, di una disciplina autonoma (la docimolo-gia). Dopo la Prima Guerra Mondiale in molti paesi(non in Italia, dove si esprimevano gli intenti malthu-siani della riforma Gentile) si verificò una rapidissi-ma crescita della popolazione delle scuole seconda-rie. Un aspetto comune era che dappertutto gli esamiche concludevano quel livello degli studi (comunquefossero denominati: Abitur, baccalauréat, GeneralCertificate of Education eccetera) avevano assuntouna grande rilevanza. Molti si chiedevano quale fidu-cia potesse aversi nei confronti dei risultati: la siste-matica valutativa prima menzionata ebbe origineproprio da una serie di ricerche promosse per dare ri-sposta a tale interrogativo. Contemporaneamente si

incominciava a profilare quella necessità di compara-re gli esiti dei sistema educativi (nei quali il passag-gio tra il livello secondario e quello terziario costitui-sce uno snodo fondamentale) che si sarebbe nel se-guito manifestata in modi sempre più pressanti.L’ulteriore crescita delle quote di popolazione scola-rizzata dopo la Seconda Guerra Mondiale ha sposta-to l’asse dell’attenzione dalla certificazione deglistudi secondari all’ammissione all’università. Neipaesi industrializzati larga parte della popolazione inuscita dalle scuole secondarie tendeva a proseguiregli studi nelle università (o in strutture terziarie).Ancora una volta, la questione degli esami diventa-va il punto di partenza per un nuovo sviluppo dellaricerca educativa. Alla fine degli anni quaranta unimportante congresso dell’American EducationalResearch Association (Aera) decideva di introdurrecriteri comuni per l’ammissione alle università. Ilcompito di predisporre la piattaforma teorica per ta-le operazione fu affidato a una commissione coordi-nata da Benjamin Bloom, uno studioso che ha avutoun ruolo di primo piano nello sviluppo della ricercaeducativa della seconda metà del Novecento. Il rap-porto prodotto da Bloom conteneva l’indicazionedegli obiettivi che si sarebbero dovuti accertare perl’ammissione all’università. Quel rapporto ha avutoun grande merito, quello di aver tentato di sottrarrealla casualità e alle mode contingenti i criteri di giu-dizio, ma anche il limite di aver accreditato soluzio-ni strumentali che, specialmente in paesi come l’Ita-lia, nei quali manca una tradizione autonoma di ri-cerca valutativa, hanno finito con l’essere considera-te le uniche possibili. Le università italiane quandosi sono trovate di fronte a una richiesta di accessoalla quale non erano in grado di rispondere hannofatto ricorso alla soluzione più banale, che era quelladi riprodurre le prove che nell’immaginario colletti-vo corrispondevano alle pratiche più diffuse al di làdell’Atlantico. Le università hanno la responsabilitàdi non aver definito autonomamente in che modo as-solvere al loro compito valutativo, ma di averlo affi-dato a società di servizio che per lo più si sono limi-tate a replicare le prove partendo da alcuni modelliinternazionali. Sarebbe stato necessario impegnarsinella ricerca, ma si è preferito seguire la via più fa-cile, senza considerare che i cambiamenti in attonella conoscenza e della metodologia stavano inve-stendo anche la valutazione. Oggi abbiamo logiche estrumentari arcaici: non sarebbe il caso di guardarsiintorno e di tentare, anche in Italia, nuove vie?

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Il diritto all’apprendi-mento é correlato si-gnificativamente – se-condo gli indirizzi eu-ropei – al diritto di cit-tadinanza e si “espan-de” nell’intero arco divita della persona co-me diritto a vedere ri-conosciute e valorizza-te le competenze for-mali (i titoli consegui-ti) e non formali (l’e-sperienza). È questonodo che acquista un

valore centrale come istanza di giustizia sociale econtrasto alle disuguaglianze in quanto diritto al-l’occupabilità. Nelle Università accanto ai compitidella ricerca e della docenza, si sta radicando oggila terza missione, cioè il trasferimento e la diffu-sione della conoscenza in stretto rapporto con ilterritorio (il tessuto produttivo, la pubblica ammi-nistrazione, i corpi intermedi). L’investimento nelraggiungimento delle competenze è – dunque –uno strumento di sviluppo del capitale umano. Macome scorgere la situazione del paese rispetto allosviluppo di questo capitale? Dalle indagini di setto-re (OCSE) emerge che l’Italia è penalizzata per leprospettive di investimento in capitale umano allaluce del divario con altri paesi che presentano quo-te di occupati di formazione terziaria (laurea magi-strale) in misura maggiore che il nostro. In altri ter-mini siamo un paese a rischio competitivo e con unbasso livello di qualificazione del capitale umanorispetto alla media dei paesi UE (37,5% contro il19,5%). La debolezza della richiesta di personequalificate nel mondo del lavoro è legata da noi aduna specializzazione produttiva in settori a tecnolo-gia matura, e, soprattutto, alla piccola dimensionedelle imprese.

Secondo l’Employment Outlook dell’OCSE (luglio2013) sono due le preoccupanti caratteristiche delmercato del lavoro italiano (cfr. anche la tavola se-guente):• la disoccupazione è destinata a crescere anche

nel corso del 2014, quando toccherà il 12,6%, incontrasto con le previsioni della media OCSEche prospetta per la fine del 2014 un lieve mi-glioramento dall’attuale 8% al 7,8%. In cinqueanni il tasso di disoccupazione in Italia è raddop-piato, passando dal 6,2% del 2007 al 12,2% delgiugno 2013;

• mentre il tasso di occupazione più “anziana” con-tinua a crescere, il tasso di disoccupazione giova-nile sale in maniera preoccupante, per effetto del-

la mancata nuova occupazione e dei licenziamen-ti dei lavoratori precari. Il tasso di disoccupazio-ne tra i 15 e i 24 anni è passato nello stesso perio-do dal 35,4% al 37,5%. Il 52,9% dei giovani fra i15 e i 24 anni è occupato a tempo determinato.

Per far fronte a questa situazione dal 1° gennaio2014 verrà istituita in via sperimentale presso ilMinistero del Lavoro una “struttura di missione”per dare attuazione agli obiettivi fissati a livelloeuropeo dal piano c.d. Garanzia per i giovani(Youth Guarantee) di cui alla Raccomandazionedel Consiglio dell’Unione Europea del 22 aprile2013 (l’obiettivo in estrema sintesi: garantire agliunder 25, entro quattro mesi dal termine degli studio dalla perdita di un impiego, una buona offerta dilavoro, un corso di perfezionamento, un contrattodi apprendistato o un tirocinio di qualità).

3. Le politiche di Roma TreIl quadro normativo in riferimento al tema del pla-cement universitario nasce dalla Legge 30 ed ilD.L. 276 (art. 1, comma 2, lettera l), secondo cui leuniversità sono tra i soggetti da includere nel regi-me autorizzatorio o di accreditamento per gli in-termediari pubblici. Si ricorda anche che il D.lgs.276/03, art. 6, comma 1, (Regimi particolari di au-torizzazioni) autorizza «allo svolgimento delle atti-vità di intermediazione le università pubbliche eprivate, comprese le fondazioni universitarie che

hanno come oggetto l’alta formazione con specifi-co riferimento alle problematiche del mercato dellavoro». L’occupabilità – insomma – é parte inte-grante della qualità dell’offerta curricolare di unAteneo: secondo la Legge 01/09, art. 4, il 7% delFFO é descrivibile come “quota premiale”. L’Indi-catore A5 è la percentuale di laureati occupati atre anni dal conseguimento del titolo. Ciò significache ogni Ateneo è valutato anche per il livello dioccupabilità che riesce a generare nei suoi laureati.Negli ultimi anni, un notevole impulso è stato datodalla partecipazione dell’Ateneo ad alcuni progetti(Fixo, Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up) chehanno permesso di acquisire risorse finanziarie eKnow how per un costante sviluppo dei servizi e di

Prospettive di placementDiritto all’apprendimento e all’occupabilitàdi Giuditta Alessandrini

Giuditta Alessandrini

Nelle Università accanto ai compitidella ricerca e della docenza,

si sta radicando oggi la terza missione,cioè il trasferimento e la diffusionedella conoscenza in stretto rapporto

con il territorio

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attivare inoltre, attraverso tirocini retribuiti, occa-sioni di inserimento professionale per i giovani lau-reati. In particolare, la partecipazione ai bandi re-gionali, con l’avvio del Progetto SOUL in partners-hip con La Sapienza, ha reso possibile la realizza-zione di alcuni ambienti informatici che oggi con-

sentono ai nostri studenti di partecipare al matchingdiretto con le imprese. A tale scopo la piattaformaJobsoul favorisce l’incontro fra i laureati in cerca dioccupazione e le imprese registrate ed è inoltre ingrado, grazie agli ultimi aggiornamenti, di gestireper intero il processo di attivazione, svolgimento erendicontazione dei tirocini (www.jobsoul.it). I piùrecenti aggiornamenti della piattaforma hanno con-sentito inoltre di sviluppare una versione di Ateneodel portale jobsoul attraverso la quale assolvere intempi rapidi agli obblighi di pubblicazione dei cur-ricula dei laureati. Nel 2010 è stato dato avvio alprogetto biennale Start Up, progetto finanziato dallaRegione Lazio Per lo svolgimento delle attività ilnostro Ateneo si è costituito in ATS con i partner“La Sapienza Università di Roma” e “IRFI – Istitu-to di Formazione della Camera di Commercio”. Unplauso in particolare come buona pratica del nostroateneo allo sviluppo e il rafforzamento di reti dirapporti interni a cui si è dedicato l’ufficio job pla-cement grazie ai nuovi servizi attivati.Un altro punto di forza di Roma tre é l’attività dicollaborazione con AlmaLaurea, attiva già dal2004. AlmaLaureaha ceduto comples-sivamente 450.000curricula ad azien-de italiane e stra-niere (54.000 nomi-nativi in questi anniprovenienti dal no-stro Ateneo). Inol-tre, tutti i CV sonoresi disponibili inlingua inglese con-sentendo così lamassima visibilitàall’estero dei curri-cula dei laureati .Inoltre, il 47% deilaureati dell’Ateneoha utilizzato i servi-zi disponibili sul si-

to di AlmaLaurea (aggiornamento del curriculum,invio della propria candidatura ad annunci di lavo-ro presenti in bacheca. Vedasi: www.almalaurea.it).Un altro punto di interesse negli ultimi due anni, ilprogramma “Formazione e Innovazione per l’Oc-cupazione FIxO Scuola & Università” promossodal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali erealizzato grazie all’’assistenza tecnica di Italia La-voro. FIxO è un programma di durata triennale (di-cembre 2011/dicembre 2013). Attraverso il raffor-zamento e la qualificazione dei servizi di place-ment sono state sviluppate attività mirate all’occu-pabilità di giovani laureati e favorire la diminuzio-ne dei tempi di transizione dal sistema della istru-zione e formazione a quello del lavoro.L’Ateneo Roma tre ha inoltre dato via all’aperturadel Centro per l’Impiego Provinciale in via Ostien-se 169. La Provincia di Roma in collaborazionecon SOUL ha offerto in questo modo ai nostri lau-reati, laureandi e ai giovani presenti sul territorioper motivi di studio, la possibilità di avere a dispo-sizione un ulteriore punto di riferimento per con-frontarsi con il mondo del lavoro e soprattutto perstabilire un primo contatto con le imprese. Il siste-ma universitario italiano certamente può essere uti-le, ma da solo non porterà alla soluzione dei pro-blemi relativi alla presenza di un sistema produtti-vo che non riesce adeguatamente ad innovarsi e adinvestire nei settori portanti dell’economia. Lascarsa diffusione dell’apprendistato di alta forma-zione – soprattutto nel centro Sud – tra le aziende,nonostante gli incentivi, evidenzia il disinteressedelle imprese a profili professionali di alto livello.Molta strada occorre percorrere per generare formedi collaborazione innovative tra università ed im-presa che giungano anche a dar vita a spin off estart up valorizzando profili ad alta qualificazionecome i dottori di ricerca ed i ricercatori. Ciò che éessenziale é generare una nuova cultura della part-nership tra mondo produttivo ed Atenei tesa a svi-luppare concreti percorsi di integrazione su percor-si formativi che valorizzino forme di apprendimen-to immersivo e partecipativo del giovane laureatonei contesti produttivi anche incentivando l’orien-tamento all’imprenditorialità.

Negli ultimi anni, un notevole impulsoè stato dato dalla partecipazione

dell’Ateneo ad alcuni progetti (Fixo,Un ponte rosa, Soul, TIPO, Start-up)che hanno permesso di acquisire risorsefinanziarie e Know how per un costantesviluppo dei servizi e di attivare inoltre,attraverso tirocini retribuiti, occasioni

di inserimento professionaleper i giovani laureati

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Non c’è nulla di origi-nale nel congiungerel’arte poetica all’edu-cazione: nella Greciaantica queste due realtàerano già saldamentelegate.Eppure, forse, un riflet-tere nuovo, e non deltutto scontato, si puòaprire se si guarda dauna segnata angolazioneai due fattori che com-pongono il binomio.Si può, infatti, guarda-

re a chi svolge l’azione educativa (un insegnante,un educatore, un formatore) come a qualcuno cheesercita una poetica, e provare a descrivere quel chesi riesce a vedere guardando da quella prospettiva.Questo modo di ripensare il legame che unisce lapoesia e l’educazione può prendere avvio dalla ri-lettura di una pagina nota di Aristotele – Poetica 4.1448 b4 ss. –, quella in cui l’autore rivela perchél’essere umano è in grado di fare poesia, e presentauna serie di cause tutte naturali che si possono sin-tetizzare come segue:

a) l’essere umano tra tutti gli animali eccelle per laqualità del suo fare mimesis (è, cioè, il miglioretra gli animali per il modo in cui sa rendersi simi-le a qualcuno o a qualcosa; come è anche il mi-gliore nel trovare e nel costruire le somiglianze);

b) il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesicafin dall’infanzia (si pensi a quel giocare delbambino in cui egli fa come se fosse la mamma,la maestra…), e si procura attra-verso di essa gli apprendimentie le comprensioni fondamentali;

c) tutti traggono piacere osservan-do o ascoltando le mimesis pro-dotte dagli altri (anche se questerivelano situazioni che nella vitareale ci farebbero orrore) perchéattraverso il godimento di que-ste opere si può apprendere ecomprendere, e questo è ciò chepiace all’essere umano.

La riflessione che Aristotele propo-ne intorno al fare poesia dell’uomosi articola, dunque, attraverso treconcetti chiave: mimesis, apprende-re/comprendere, piacere.Se proviamo a passare dal pianoteorico a quello dell’agire pratico,ci accorgiamo immediatamente di

come questi tre concetti rivelino tre nodi fondamen-tali e problematici dell’agire educativo.Guardiamo, dunque, all’operare di un insegnante:possiamo pensare alla sua lezione come a una mi-mesis (una sorta di opera d’arte che rappresentaqualcosa che si vuole venga compreso) creata magi-stralmente grazie alla sua capacità mimesica (quellacapacità che consente all’insegnante di trovare, per

esempio, le parole adatte per spiegare un concetto);possiamo pensare ai suoi studenti come eccellentiascoltatori mimesici in grado, attraverso questostesso dinamismo (mimesis), di apprendere e com-prendere la lezione presentata dall’insegnante (diassimilarla); e possiamo pensare alla lezione che livede coinvolti come la celebrazione di un atto pia-cevole (qualunque sia il tema trattato, anche il piùumanamente atroce) perché attraverso questa comu-nione si produce un processo di apprendimento e di

comprensione, che è quel che l’es-sere umano naturalmente ricerca.Intorno ai tre concetti chiave pro-posti da Aristotele – piacere, ap-prendere/comprendere, mimesis –sembra ruotare la crisi che segnaoggi il mondo dell’educativo. Ascuola si fatica a provare piaceredurante le lezioni (questo può vale-re sia per gli insegnanti sia per glistudenti); il processo dell’ap pren -dere/comprendere appare alquantoproblematico e spesso non soddi-sfacente; sembra, inoltre, sussistereuna sottovalutazione (una profondaignoranza della rilevanza?) del di-namismo che esprime la terza paro-la chiave: mimesis.E se proprio in questa ultima sotto-valutazione risiedessero le causedella crisi educativa attuale? Se,

La poetica dell’educareLa parola chiave è condivisionedi Gilberto Scaramuzzo

Gilberto Scaramuzzo

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A scuola si fatica a provare piaceredurante le lezioni (questo può valere

sia per gli insegnantisia per gli studenti); il processo

dell’apprendere/comprendere apparealquanto problematico e spesso

non soddisfacente; sembra sussistereuna sottovalutazione

(una profonda ignoranzadella rilevanza?) del dinamismo cheesprime la terza parola chiave: mimesis

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cioè, a causare l’ineffi-cacia (così come l’effi-cacia) di tante azionieducative, fosse pro-prio la dis-attenzione(oppure l’attenzione)al fatto che l’appren-dere e il comprenderehanno una natura mi-mesica, e che questacostituisce il procedi-mento naturale in cuiessi si realizzano?

Proviamo dunque a ri-valutare mimesis rileg-gendo le cause natura-li indicate da Aristote-le per giustificare ilfare poesia umano.

L’essere umano tra tut-ti gli animali eccelleper la qualità del suofare mimesis

Aristotele qui – nella Poetica – propone una defini-zione di essere umano che non ha avuto, nella rifles-sione che in Occidente si è sviluppata intorno al pro-blema dell’educare, la stessa fortuna di un’altra defi-nizione di essere umano presentata dallo stesso auto-re nella Politica – l’uomo è un animale razionale –.La definizione della Poetica – che riconosce l’esse-re umano come animale mimesico per eccellenza –non pone l’essere umano in contrapposizione congli altri animali, come, invece, evidentemente faquella della Politica – affermando la razionalità co-me esclusivo possesso umano –, ma ne rivela sol-tanto una misteriosa perfezione.Che succederebbe se nel processo che fa di un bam-bino un adulto educato ci si prendesse cura della suanatura mimesica oltre che della sua natura razionale?Su un’antropologia mimesica, una volta rivalutata esviluppata in sinergia con quella razionale, potrebbeanche fondarsi un’altra qualità della convivenza tragli esseri umani? E quella dell’essere umano con glialtri esseri?

Sarebbe questa una ri-fondazione che potrebbe dona-re all’agire educativo un respiro vasto, che vada benoltre quanto può essere contenuto dall’esempio relati-vo all’insegnante a cui abbiamo accennato poc’anzi?Ri-fondare la riflessione educativa su un homo ricono-sciuto come mimesico, oltre che razionale, può creareprospettive ricche di implicazioni positive per il pro-cesso dell’apprendere/comprendere che si realizza in

ambito scolastico; ma può fare anche molto di più:può aprire prospettive per una ri-qualificazione del re-lazionarsi umano con l’altro da sé (sia esso un altroumano o altro dall’umano): una riqualificazione cheabbia come principio e come fine il com-prendere.

Il cucciolo dell’uomo inizia l’attività mimesica findall’infanzia, e si procura attraverso di essa gli ap-prendimenti e le comprensioni fondamentali

Qui Aristotele ci consente di capire in manierasemplice che cosa sia fare mimesis. L’attività mi-mesica è quel giocare che mettono in atto i bambinidi oggi, così come quelli di ieri, quando fanno co-me se fossero la mamma, un leopardo, un aereo,un’onda del mare… Fare la mimesis di qualcuno, odi qualcosa, può essere definito come il rendersi si-mile a quel qualcuno o a quel qualcosa (cf. Plato-ne, Repubblica, 3. 313 c ss.); l’attività mimesica ciappare come un processo di apertura dell’essercidel bambino, cosicché l’altro da sé si voglia in luicome lui per se stesso lo vuole. Un misterioso faree farsi fare dalla realtà che si rappresenta (basti

Poesia e mimesis, Libreria Arion, via Veneto, Roma. Mimesis Lab

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Che succederebbe se nel processoche fa di un bambino un adulto

educato ci si prendesse cura della suanatura mimesica

oltre che della sua natura razionale?

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pensare al bambino che gioca a essere un cavallo:in questo suo agire, quanto le caratteristiche cheappartengono al cavallo sono a fondamento del suomodellarsi? Eppure egli, in qualche modo, guidaquesta sua espressione…); un misterioso agire, dicui parlano molti artisti e filosofi quando descrivo-no l’atto creativo, in cui mentre si agisce si è ancheagiti: un atto che sembra essere assieme volontarioe necessario. Potremmo riconoscere la mimesis co-me una certa intensità nel ri-vivere la realtà che si

va esprimendo, un vivere – questo – che comportail rendersi intimamente e originalmente simili al-l’altro che, attraverso l’atto mimesico, si viene amanifestare.Non sarà soltanto dovuto al caso che molti ex-stu-denti dichiarano, a distanza di anni dagli insegna-menti ricevuti, di aver dimenticato quasi tutto quelche i loro insegnanti volevano che essi apprendes-sero durante il percorso scolastico (e per cui al tem-po si erano ricevute anche buone valutazioni). Men-tre affermano di ricordare quegli insegnamenti chefurono comunicati a loro vivi, da un’insegnate cheaveva la capacità di vivere con passione (potremmoquasi dire: un insegnante che aveva la capacità difarsi intenzionalmente e intimamente simile a) quelche stava insegnando; oppure quelli in cui si erastati guidati, da un insegnante che evidentementeconosceva profondamente la poetica dell’apprende-re/comprendere, a ricercare in proprio una qualitàvera e viva di incontro con l’oggetto di studio.

Tutti traggono piacere osservando o ascoltando lemimesis prodotte dagli altri (anche se queste rive-lano situazioni che nella vita reale ci farebbero or-rore) perché attraverso il godimento di queste operesi può apprendere e comprendere, e questo è ciòche piace all’essere umano.

Questa ulteriore causa naturale che Aristotele utiliz-za per giustificare il perché del fare poesia umano,ci conduce a riflettere su qualcosa di fondamentaleper ri-pensare l’azione educativa: l’essere umano ri-cerca l’apprendere e il comprendere perché in que-sta attività trae piacere. Non c’è, dunque, nulla daforzare o da deviare affinché uno studente che fre-

quenta la scuola si direzioni naturalmente verso ilcomprendere; ma c’è, piuttosto, un dinamismo (cheogni insegnante, o educatore, deve pre-occuparsi diconoscere a fondo) da servire appropriatamente, edè proprio quello stesso dinamismo che Aristotele hariconosciuto essere presente in maniera eccellente –rispetto agli altri animali – nell’animale-umano.Così come, da bambino, l’essere umano prova pia-cere quando ri-conosce facendone la mimesis questao quella persona (la madre, la maestra…), questo oquel personaggio (un mostro dei cartoni, l’Uomoragno…), questa o quella realtà (un cavallo, un’on-da…); così crescendo egli può intensificare questopiacere, finalizzato al comprendere, estendendo lamimesis (il proprio farsi simile) dalle cose che col-piscono i suoi sensi, o la sua fantasia, a qualunqueconcetto, o a qualunque opera dell’ingegno umano,che disvela una più complessa realtà, anche pura-mente teorica o astratta.Ri-pensare al ruolo giocato dalla mimesis nella di-namica educativa potrebbe aprire la via a un’educa-zione che possa ri-conoscersi come poetica?Un’educazione, cioè, in cui chi insegna (o chi, aqualunque titolo, svolga un’azione educativa) sifaccia egli stesso, attualmente, a immagine e somi-glianza di quel che attualmente comunica; e chi èinsegnato (o, più in generale, educato) venga sup-portato a crescere nella sua intenzionalità di ri-vive-re in sé quel che viene scelto come materiale da ap-prendere/comprendere.Quali giovamenti potrebbe portare alla convivenzaun’educazione che rivaluti appropriatamente la na-tura mimesica umana?Da alcuni anni il MimesiLab – Laboratorio di Peda-gogia dell’Espressione del Dipartimento di Scienzedella formazione ha attivato una serie di sperimen-tazioni.Queste si sono realizzate in scuole (un progetto par-ticolarmente ricco è stato realizzato presso l’Istituto

Comprensivo “Daniele Manin” di Roma, dove sonostati coinvolti bambini e insegnanti di tutte le classi,dalla scuola dell’infanzia alla scuola media, e gliadulti stranieri che frequentano il CTP); in ospedali;in centri per rifugiati e in altre realtà sociali del ter-ritorio; in musei e in istituti culturali.I risultati sembrano evidenziare le prospettive edifi-canti che un’educazione poetica potrebbe aprire perla convivenza tutta.Il rendersi simile all’altro per comprenderlo – queldinamismo che è il proprio dell’atto mimesico –sembra essere qualcosa che è bene allenare con cu-ra in un momento complesso (e, forse, triste) comequello attuale: questa attività potrebbe, infatti, for-nire coordinate utili a ridonare bellezza e giustiziaal vivere dell’uomo con l’uomo.

La riflessione che Aristotele proponeintorno al fare poesia dell’uomosi articola, dunque, attraversotre concetti chiave: mimesis,

apprendere/comprendere, piacere

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Ri-fondare la riflessione educativasu un homo riconosciuto comemimesico, oltre che razionale,può creare prospettive ricche

di implicazioni positive per il processodell’apprendere/comprendere

che si realizza in ambito scolastico;può aprire prospettive per unari-qualificazione del relazionarsi

umano con l’altro da sé,una riqualificazione che abbiacome principio e come fine

il com-prendere

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Comunemente si diceche il sapere delle don-ne sia un sapere legatoall’esperienza, un sa-pere quindi che maturae si sviluppa a partiredalle proprie esperien-ze di vita, mentre quel-lo maschile sia un sa-pere teorico, che abbiaun diverso radicamentonelle esperienze di vitaquotidiana.Una tra le principalicause di questa diffe-

renza sta nel fatto che sino a poco tempo fa le don-ne non avevano accesso alle università, al sapereteorico – soltanto nel 1874 venne permesso l’ac-cesso delle donne alle università. Le donne hannocolmato questa ingiustizia attraverso le esperienzee l’autodisciplina. Virginia Woolf, nel suo magnifi-co saggio Una stanza tutta per sé, pubblicato nel1929 mette in luce le motivazioni che hanno spintogli uomini a costruire un mondo che escludesse ledonne dalla sfera pubblica. I numerosi trattati sul-l’inferiorità delle donne scritti nel recente passatohanno la funzione di sancire la superiorità maschi-le, di cementare quella fiduciain se stessi necessaria per sentir-si adatti alla vita. Il modo piùrapido per aumentare questa fi-ducia, dice la Woolf, è quello dipensare gli altri come inferiori.«Perciò è così importante, perun patriarca il quale deve con-quistare, il quale deve governa-re, la possibilità di sentire chemoltissime persone, la metà del-la razza umana infatti, sono pernatura inferiori a lui. Anzi, deveessere questa una delle fontiprincipali del suo potere».Oggi, in un orizzonte sociale incui si iscrivono all’universitàpiù donne che uomini, dobbia-mo chiederci come queste me-morie di genere si rispecchinonella produzione dei saperi.Sempre più anche gli uoministanno imparando a tenere contodella propria differenza sessua-le, si sono ormai accorti della scomodità della posi-zione di neutro, di «prototipo unico della specieumana», per usare le parole di Lea Melandri. Cer-cano nella controparte femminile, non solo unafunzione di «specchio magico e delizioso in cui si

rifletteva la figura dell’uomo, raddoppiata», bensìun polo di dialogo capace di critica costruttiva.Infatti, in questi ultimi anni alcuni gruppi di donnee uomini si confrontano su cosa significhi essereesseri sessuati e produrre sapere, fare politica ecostruire relazioni. Si interrogano a partire, ad

esempio, dal linguaggio, cercando di sottrarreall’oblio dell’ovvietà e del senso comune paroleche hanno assunto nel tempo significati stereotipa-ti e inflessibili. Ri-articolano parole non solo peresprimersi in modi diversi, bensì anche per dareforme diverse agli orizzonti simbolici, per provarea nominare, spiegare, delimitare le relazioni socia-li con enunciati diversi, per sovvertire le formazio-ni discorsive di Foucaultiana memoria. Per, in al-tre parole, rivoluzionare le strutture simboliche nel

loro insieme.Un sapere deve essere in gradodi tenere conto delle differenzeche ci contraddistinguono, so-prattutto oggi, in una società incui le istituzioni e i processieconomico-sociali che determi-navano la tradizionale divisionedi genere si stanno sgretolan-do – penso ad esempio al mer-cato del lavoro che non è piùcapace di produrre un malebreadwinner, unica e sufficientefonte di reddito per tutta la fa-miglia – e con esse anche leforme del maschile e del fem-minile delle passate generazioni- penso ad esempio alle identitàmaschili che non si possono piùcostruire prevalentemente attor-no alla sfera pubblica, incapacedi fornire sufficiente spazio diriconoscimento.La crisi sociale che sta caratte-

rizzando la nostra contemporaneità potrebbe esserl’occasione per provare a ridefinire i nostri para-digmi e per iniziare a ricostruire delle relazioni so-ciali capaci di mettere in luce le somiglianze piut-tosto che le differenze. Il maschio bianco, etero-

Una stanza tutta per noiVenti anni di rigoroso lavorodi Sveva Magaraggia

Sveva Magaraggia

Il maschio bianco, eterosessualee normodotato ha scoperto

di essere parziale tanto quantolo sono le donne, o i maschinon bianchi, non eterosessuali

e non normodotati

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sessuale e normodotato ha scoperto di essere par-ziale tanto quanto lo sono le donne, o i maschi non

bianchi, non eterosessuali enon normodotati. E se l’occul-tamento simbolico dietro cui siè celato il sapere del maschilesi sta svelando, allora possia-mo supporre che le dinamichedi potere stiano mutando. In-fatti, il silenzio è l’espressionestessa del potere: che sia ilbianco quando si parla di et-nie, l’età adulta quando si dis-cute di età o la maschilità inambito di genere, il polo piùforte in questi binomi è sem-pre rimasto taciuto, neutro, in-visibile. Non è un caso che al-cuni dei progressi compiutinella democratizzazione deirapporti sociali siano stati ot-tenuti proprio quando questecategorie cruciali sono stateproblematizzate, articolate erese visibili.La sfida sta proprio nell’indi-viduare similitudini nelle parzialità, punti in comu-ne piuttosto che differenze tra uomini e donne epartire da qui per costruire un sapere che non abbiala fallace velleità di essere universale, ma che aneliad essere plurale e che comporti una ricerca dinuove forme di universalità che siano concrete, si-tuate e corporee.Sappiamo che per trasformare il senso comune e lesue rappresentazioni serve un confronto discorsivofra le rappresentazioni della realtà offerte da cer-chie sociali diverse. La forma che assume il nucleocentrale del senso comune dipende dall’esito deiconflitti e delle negoziazioni che si realizzano traqueste visioni. Quando una rappresentazione ha lameglio sulle altre si trasforma in assunto di fondodella cultura, acquisisce un carattere prescrittivo el’intero processo dialettico viene dimenticato. È inquesto campo di battaglia simbolico, in cui la postain gioco è l’ovvietà, che stanno dialogando nuoveforme del sapere. Sappiamo anche che i media so-no un luogo di articolazione di discorsi pubblici ca-paci di trascendere i confini delle singole cerchie e

che giocano un ruolo cruciale per l’affermazione diun particolare senso comune.I fronti su cui agire sono quindi molteplici; partia-mo da queste consapevolezze e con umiltà provia-mo a costruire un sapere inclusivo e realmente capa-ce sia di costruire una progressiva ridefinizione deiparametri che strutturano il nostro orizzonte sia diaccogliere e dare voce ai policromi modi di cono-scere legati ai vissuti e alle esperienze individuali.Un esempio concreto di questo percorso è rappre-sentato dai recenti dibattiti sulla violenza maschilecontro le donne. Il dialogo tra i generi su queste te-matiche sta trasformando radicalmente i paradigmidi questo discorso, e sta permettendo di indagare laviolenza maschile non come un’emergenza che ri-guarda alcuni gruppi devianti, bensì come una for-ma strutturale esistente nelle relazioni tra uomini edonne «che è incorporata nel linguaggio, nella divi-sione sessista del lavoro, nelle tradizioni religiose

patriarcali, nei sistemi politicie nelle strutture materiali esimboliche più profonde», co-me sostengono Barbara Mapel-li e Marco Deriu.Questo dialogo tra saperi ses-suati sta permettendo, quindi,di definire la violenza maschi-le non come violenza origina-ria che abbisogna della culturaper essere sconfitta, bensì co-me radicata nella cultura: co-me una conferma esacerbata diun ordine culturale.È grazie alla creazione di spazidi dialogo tra i generi, nonchéal prezioso lavoro svolto dalledonne a partire dai primi movi-menti femministi, che si è po-tuto interrogare la violenza co-me una questione culturaleprofonda. Partire dall’analisidei nostri diversi posiziona-menti di fronte al mondo,

dall’assunzione quindi di uno sguardo riflessivo ecritico, è la condizione indispensabile per lo svilup-po di una consapevolezza sociale che renda esplici-te le diverse forme di complicità, di tolleranza e di

giustificazione che tutti e tutte noi mettiamo incampo nella nostra vita quotidiana.Sarebbe una vittoria per la nostra civiltà poter fe-steggiare i 150 anni dell’ammissione delle donnenelle accademie italiane non solo registrando lascomparsa della segregazione verticale, bensì ancheregistrando una rifondazione profonda dei saperi.Abbiamo dinanzi a noi venti anni di oneroso ma sti-molante lavoro!

La sfida sta proprio nell’individuaresimilitudini nelle parzialità,

punti in comune piuttosto che differenzetra uomini e donne e partire da quiper costruire un sapere che non abbiala fallace velleità di essere universale,

ma che aneli ad essere pluralee che comporti una ricerca di nuoveforme di universalità che sianoconcrete, situate e corporee

Sarebbe una vittoria per la nostraciviltà poter festeggiare i 150 annidell’ammissione delle donne

nelle accademie italiane registrandouna rifondazione profonda dei saperi

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Sonja Kovalewskaja, matematica e fisica russa, fula prima donna in Europa ad ottenere una cattedrauniversitaria (1889, Svezia)

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Idoli di bontà di Car-mela Covato raccoglie,in maniera rielaborata,temi e problemi affron-tati dall’autrice in unlungo arco di tempo eanalizza, da diverse an-golature, sia dal puntodi vista della storia delcostume educativo siaper quanto riguarda latradizione storiografi-ca, la questione relati-va all’«imperativo del-la bontà», che insieme

a quello della «docilità, dell’obbedienza, dell’obla-tività e del silenzio è stato inscritto nei dispositivipedagogici, religiosi e morali» destinati alle donneanche «in contesti storici e sociali assai lontani edifferenti».L’autrice si sofferma ad analizzare come quellostereotipo inteso come dispositivo di regole finaliz-zate a normare il comportamento individuale e col-lettivo di uomini e donne sulla base di connotazio-ni attribuite in modo prescrittivo all’identità ses-suale di appartenenza, non permetta minimamentedi sfiorare la varietà e complessità del mondo fem-minile. Piuttosto si tratta di una rappresentazioneastratta propria della cultura dominante (maschile),sempre tesa a «arginare i pericoli derivanti da unpossibile protagonismo delle donne fuori dalla sfe-ra della vita privata, percepito come possibile sov-vertimento degli assetti simbolici e delle gerarchiesociali ufficiali».In particolare nella storia del pensiero occidentale,nel passaggio tra Settecento e Ottocento, pur inpresenza di grandi mutamenti sociali e politici, co-me il declino dei valori della società dell’ancienrégime, lo svilupparsi, nelle sue molteplici manife-stazioni, di un pensiero illuminista fondato sullacritica del pregiudizio e della schiavitù, non si assi-ste, nell’immaginario collettivo a «un significativoribaltamento delle forme di disuguaglianza (politi-che, etiche, ed educative), implicite in un dimorfi-smo sessuale ancora basato su forme di determini-smo biologico, tese a giustificare l’inferiorità intel-lettuale delle donne e la fragilità intrinseca nellanatura femminile».Al di là del perdurare di una prassi educativa, chesi manifesta a livello sociale, familiare e istituzio-nale, in forme fortemente differenziate in base algenere di appartenenza sia nelle élites sia nei cetipopolari, «questa tendenza si esprime in una seriedi elaborazioni teoriche di tipo filosofico, giuridicoe religioso che concorrono alla costruzione di unaidea e di una rappresentazione del “femminile”, al-

la quale vengono concessi, solo “lumi smorzati”».L’educazione delle donne, e in particolare dellefanciulle, come l’autrice ripercorre attentamentenel secondo capitolo del libro, continuerà a lungoad essere improntata ad una rigida prescrittività.Seppure a partire dal XVIII secolo nell’ambito del-la trattatistica pedagogica emerga una nuova visio-ne di un universo infantile dotato di autonoma sog-gettività, in connessione anche con un nuovo pro-cesso di scolarizzazione infantile su scala di massa,numerose permangono le rappresentazioni di unabambina ideale destinata a svolgere un preciso ruo-lo normativo. Emblematiche da questo punto di vi-sta, come il testo riporta efficacemente, sono sia latrattatistica pedagogica minore rivolta alle fanciul-le per educarle al loro ruolo materno sia la produ-zione editoriale destinata specificatamente allebambine, particolarmente ricca nell’Italia dell’Ot-tocento, in cui «gli ammaestramenti morali e reli-giosi si legano a consigli riguardanti la cura dellacasa e l’igiene corporale».

Questa identificazione della donna con il suo ruolodi moglie e madre viene ampiamente indagata nelterzo capitolo del volume. Sono proprio il pensieroilluminista prima e il Romanticismo dopo, sottoli-nea bene l’autrice, a contribuire a dare «nuova lin-fa all’equazione fra natura e destino femminile,corpo e maternità».Ciò che affiora, a partire dall’i-deale di Rousseau, è l’esaltazione della necessitàdi una oblatività femminile dedotta dalla temutapericolosità di un potere femminile giocato sullaseduzione.Tale assetto educativo si ripercuote necessariamen-te sull’educazione sentimentale sia delle donne siadegli uomini. In particolare nella vicenda amorosadel primo amore, sottolinea l’autrice nel quarto ca-

Idoli di bontàIl genere come norma nella storia dell’educazionedi Chiara Meta

Chiara Meta

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Nella storia del pensiero occidentale,nel passaggio fra Settecento

e Ottocento, pur in presenza di grandimutamenti sociali e politici,

non si assiste, nell’immaginariocollettivo, a «un significativoribaltamento delle forme

di disuguaglianza (politiche, eticheed educative), implicite

in un dimorfismo sessuale ancorabasato su forme di determinismo

biologico, tese a giustificare l’inferioritàintellettuale delle donne»

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pitolo, «che assume una valenza iniziatica», si mi-sura tutta la forza dei codici normativi e valorialiassimilati, in contrasto con la volontà autonoma diprogettazione esistenziale, soprattutto in quel tor-nante storico tra Sette e Ottocento che segna l’evo-luzione della famiglia da patriarcale e ancora lega-ta alla storia dei matrimoni combinati, a quella co-niugale intima, dove trova spazio una nuova rela-zione affettiva tra coniugi anche grazie al diffon-dersi del cosiddetto matrimonio d’inclinazione.Numerose sono, nella storia delle letteratura, nelladiaristica e nella saggistica del tempo, le testimo-nianze che documentano «il conflitto tra impulsidel cuore e convenzioni sociali, sui quali non solola riflessione psicoanalitica ma anche l’indaginestoriografica e antropologica si sono soffermate ne-gli ultimi decenni». Nella storia della modernitàeuropea poi «le modalità di costruzione del rappor-to fra autorità e potere, così come esse si sono ma-nifestate […] in una storia secolare delle relazionifamiliari sono state connesse all’istituto giuridicodella patria potestà che dall’antichità fino a tempirecenti, ha rigidamente regolato non solo la scenadella vita pubblica, ma anche gli interni della vitadomestica». Nonostante infatti gli eventi rivoluzio-nari del 1789 abbiano messo in discussione princi-pi e giurisdizioni secolari, «con il Codice Civilenapoleonico del 1804 (in gran parte recepito nelprimo Codice Civile emanato nell’Italia postunita-ria) viene disciplinato il matrimonio con un ripri-stino parziale di vecchie norme».La parte conclusiva del volume è dedicata all’anali-si del nesso tra una «mistica della femminilità» - se-condo la felice espressione che Betty Friedan nediede nel 1963 e intesa sia come funzione mitica daattribuire alla donna slegata dalla sua storia realesia come valore regolativo cui adeguarsi nelle rela-zioni familiari e sociali - e le implicazioni che sulpiano storiografico la codificazione di un ruoloastratto ma fortemente subalterno della donna hacomportato in termini di mancanza di un punto divista soggettivo e autonomo di guardare alla storiadel mondo, al fine di rintracciare la propria presen-za da parte delle donne. Anche se, va detto, grandi

sono stati i mutamenti metodologici verificatisi nelcorso del Novecento in termini di possibilità di mo-dificare l’idea stessa di memoria storica e che han-no permesso l’individuazione di nuovi terreni d’in-dagine storiografica. In particolare «la storia delledonne […] anche grazie agli impulsi provenientidal movimento femminista ha compiuto, nell’ulti-mo trentennio, un lungo cammino, caratterizzatodalla presenza di indirizzi di ricerca non sempreomogenei», come acutamente l’autrice sottolinea ri-portando le diverse posizioni di storiche: da G.Duby e M. Perrot, autori dell’importante Storia del-le donne, in cinque volumi editi da Laterza; a G.Bock, attenta a riconoscere la presenza del “genere”nella storia che permette una riconsiderazione della“storia generale”; a J. Scott, tra le prime storiche adaver indagato la questione del “genere” in modonon elusivo «nei confronti dei limiti o dei frainten-dimenti possibili in quella che si delineava comeun’avventura conoscitiva di grande rilievo cultura-le», e a L. Tilly che rimprovera a Scott una conce-zione troppo totalizzante dello statuto della storiadelle donne, anche se riconosce la valenza euristica

del concetto di gender teso a controbilanciare il de-terminismo biologico. Quello che comunque va sot-tolineato è che la storia delle donne resta «una“questione di confine” […] sia perché pone l’esi-genza di una interrelazione costante fra disciplinediverse sia perché solleva di fatto la necessità diuna critica radicale delle categorie dominanti inquelle scienze sociali che si sono a lungo basate suun’idea di neutralità ambigua e solo apparente esulla tendenza a relegare le donne in una dimensio-ne lontana dai confini della storia».

Buona o perversa? A partire dal lungo Ottocento, nella storia della cultu-ra occidentale, ogni nuova forma di protagonismo delle donne fuori dal-la sfera della vita privata viene percepita come possibile sovvertimentodegli assetti simbolici e delle gerarchie sociali in essi implicite. Sia larappresentazione di una femminilità silenziosamente sottomessa sial’immagine della donna peccatrice non ci permettono, tuttavia, nemme-no di sfiorare le identità reali ma solo l’immaginario della cultura domi-nante su di esse. Il volume intende prendere in esame i paradigmi peda-gogici e i modelli educativi nei quali il genere diviene norma ed è fre-quente il ricorso allo stereotipo della bontà e della ritiratezza come anti-doto all’emancipazione culturale e sociale.

Carmela Covato, Idoli di bontà. Il genere come norma nella storia del-l’educazione, Milano, Unicopli, 2014

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Sono il pensiero illuministaprima e il Romanticismo dopoa contribuire a dare «nuova linfaall’equazione fra natura e destinofemminile, corpo e maternità»

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Georgii IvanovichGurdjieff è un maestrospirituale greco-armenoche rimane ancora oggiuna figura per moltioscura. Egli ha formu-lato in Oriente, poi ap-plicato e trasmesso inOccidente, uno degliinsegnamenti spiritualicontemporanei piùcomplessi e penetranti.Gurdjieff nacque adAleksandropol da ma-dre armena e padre gre-

co (il padre era un ašowł: cantastorie e poeta). Daragazzo fu educato da insegnanti appartenenti allachiesa ortodossa e fu precocemente istruito alla vitareligiosa ed alla medicina. Convinto che la radicedella perenne conoscenza esoterica fosse ancorapreservato in qualche luogo, non proseguì sul sen-tiero teorico per andare alla ricerca delle rispostedefinitive: per circa vent’anni (1894-1912) perseguìla sua ricerca, alla scoperta dell’essenza delle anti-che tradizioni, con il gruppo dei cosiddetti “Cerca-tori di Verità”, soprattutto nel cuore dell’Asia Cen-trale ed in Medio Oriente. La sua formazione, cosìcome alcuni eventi significativi di questo periododella sua vita, sono riportati nel romanzo “autobio-grafico” Incontri con uomini straordinari. Nel 1912Gurdjieff comparve a Mosca con un insegnamentocompletamente sviluppato, ed iniziò ad organizzareintorno a sé gruppi di allievi, provenienti in granparte dall’intellighenzia, uno fra tutti, lo scrittorerusso Piotr Demianovich Ouspenskij, uno dei suoiprimi discepoli, nonché autore di opere di riferimen-to che hanno anticipato alcune delle questioni chia-ve del XX secolo in filosofia, psico-logia e religione.Gurdjieff era considerato da coloroche lo conobbero un maestro di vita,in grado di “risvegliare” gli uomini.Egli applicò in Occidente un model-lo integrale di conoscenza esoterica– o “ricerca contemporanea” – e la-sciò dietro di sé una scuola ed un in-segnamento che contiene una meto-dologia specifica per il risveglio del-la coscienza, appunto: la cosiddetta“Quarta Via” che, diversamente daglialtri tre percorsi spirituali – monaco,yogi, fachiro – per il risveglio del-l’uomo, non richiede l’allontanamen-to o l’isolamento dell’individuo dallasocietà. Con il termine coscienza

Gurdjieff intendeva qualcosa di ben più che non lasola consapevolezza e/o il funzionamento dellamente. Egli sostiene che la capacità di coscienzanecessita di una fusione armonica delle distinteenergie dei tre centri presenti nell’individuo – lamente, il sentimento ed il corpo – ed è solo questoche può consentire l’azione all’interno dell’uomo diquelle influenze superiori associate a nozioni tradi-zionali quali nous, buddhi o atman. Da questa pro-spettiva, l’uomo così com’è nella vita di tutti i gior-ni è un essere non completo che non opera nella suaintegralità in quanto i tre centri sono divisi ed asin-croni, egli vive guidato inconsciamente dal suocondizionamento automatico (automatismo) sotto ildominio di stimoli esterni, ovvero: in stato di son-no. L’uomo, perciò, nella sua condizione quotidiana(che può durare tutta la vita, se non viene risveglia-to) è in grado unicamente di re-agire, ma totalmen-te incapace di agire.

L’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo diGurdjieff aprì le sue porte nell’ottobre del 1922 inFrancia, a Fontainebleau - Avon, nei pressi di Pari-gi, nella sede di un ex monastero dei priori riadatta-to: lo Château du Prieuré des Basses-Loges.Lì si riunì, volontariamente, la comunità di uominie donne, perlopiù intellettuali, artisti, medici, scien-ziati, scrittori, archeologi, che riconosceva in Gur-dijeff il proprio maestro, realizzando concretamen-te, giorno dopo giorno, un lavoro per diventare ca-paci di vivere un’esistenza libera dagli automatismi,in cui la coscienza agisce quindi come strumento emetodo per tale liberazione, oltreché come scopo.«Il programma dell’Istituto per lo sviluppo armoni-co dell’uomo comporta numerose branche. […] Ilprogramma generale dei lavori comprende lo studiodel ritmo armonico, delle arti, dei mestieri e delle

lingue; parallelamente viene condot-to lo studio approfondito dell’uomoe dell’universo in tutte le sue rela-zioni, seguendo le conoscenze dellescienze europee e dell’antica scienzaorientale. […] Il programma si divi-de in […] sezioni: Teorica – Corsi eConferenze –; Pratica […]. Poi sisuddividono gli allievi – anche i po-tenziali – dell’Istituto in tre catego-rie; infine, si dà conto degli argo-menti delle conferenze previste nellaprima parte del 1924: esse hanno ca-denza settimanale, e, ogni quindicigiorni, sono tenute da M. Gurdjieff».Il lavoro quotidiano all’Istituto sisvolge lungo due assi, il primo costi-tuito dal lavoro fisico, attività manua-

«To be a man, to be a real man»La ricerca contemporanea di Gurdjieff per il risveglio dell’uomonella sua integralitàdi Carla Di Donato

Carla Di Donato

Georges Ivanovič Gurdjieff 45

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li, impegnative ed onerose, con compiti individualiprestabiliti, assegnati di giorno in giorno da Gurd-jieff stesso a ciascun membro, il secondo dalla prati-ca anch’essa quotidiana dei “Movimenti” (o DanzeSacre) da parte di tutti gli allievi che aveva come viae direzione, secondo la terminologia più tardi utiliz-zata da René Daumal, “l’azione cosciente”.Quest’ultimo versante perciò, si presenta a tutti glieffetti come una via del lavoro su se stessi dell’uo-mo, con le parole di Gurdjieff: dell’Uomo Reale(«To be a Man = To be a Real Man»).L’Istituto dunque, fu di fatto, potremmo dire, “unacomunità di uomini e donne che volontariamentepostisi sotto la guida di un maestro spirituale(Gurdjieff) lavorarono per diventare capaci di vive-re liberi dagli automatismi”. Essi lavorano sull’es-sere umano, che qui può svilupparsi nella sua inte-gralità. Un laboratorio di ricerca pratico sull’uomo,o meglio, dell’uomo su se stesso.Occorre mettere subito a fuoco la corretta prospetti-va storiografica che centri il territorio di pertinenzadi questa esperienza emblematica, oltre che storica,anche al fine di evitare di confonderla con una cor-rente new age, oggi di facile consumo.Nell’alveo dell’Istituto e della prima comunitàgurdjieffiana hanno un ruolo di spicco Alexandre eJeanne de Salzmann, entrambi con una biografiateatrale di grande rilievo (quella di Alexandre so-prattutto) precedente all’incontro con il maestro,avvenuto a Tiflis, in Georgia, nel 1919.Essi fecero parte del nucleo “storico” degli allievi diGurdijeff, furono tra i suoi collaboratori più stretti erappresentarono due figure fondamentali per la dif-fusione e per la trasmissione dell’insegnamento diGurdijeff: Alexandre Salzmann, attirando a sé il pri-mo allievo in Francia, il poeta surrealista René Dau-mal, Jeanne de Salzmann, dopo la morte del maritonel 1934, con l’attività svolta con il gruppo di Sè-vres (i coniugi Daumal, Philippe Lavastine, Henri eHenriette Tracol). Successivamente, alla morte diGurdjieff (1949), Jeanne assunse ufficialmente ilcompito di mantenere in vita e trasmettere l’ereditàdel pensiero spirituale e dell’insegnamento del mae-stro dedicandosi, tra l’altro, alla ricostituzione dellamemoria dei 39 “Movimenti” creati da Gurdjieff.Anima degli Istituti Gurdjieff nel mondo e fondatoredi quello di Parigi fino al 1990, anno della sua mor-

te, a 101 anni, fu grazie a Jeanne che il patrimoniospirituale di Gurdjieff ebbe un punto di riferimentoautorevole e fedele ed una guida sicura.Peter Brook, il regista inglese che, già famoso inGran Bretagna con regie shakespeariane di succes-so, si trasferì poi a Parigi, negli anni Settanta co-nobbe personalmente Jeanne e ne divenne allievo.Verso la fine degli anni Settanta, Madame de Salz-mann collaborò alla sceneggiatura ed alla realizza-zione del film di Brook, tratto dalla biografia diGurdijeff, Incontri con uomini straordinari.

La vera domanda è: “Chi sono Io?” Non importa ilmodo in cui lo chiedo, sono sempre ricondotto aquesto punto centrale: “Chi sono Io?”All’Istituto per lo sviluppo armonico dell’uomo, unodei 39 aforismi di Gurdjieff recita: «Qui non ci sonorussi, né inglesi, ebrei o cristiani, ma solo coloro cheperseguono un obiettivo: essere capaci di essere».

Ma Gurdjieff è ancora più chiaro: «L’uomo è un es-sere multiplo. Solitamente, parlando di noi stessi,diciamo “io”. Diciamo, “io” faccio questo, “io”penso quello, “io” voglio fare quell’altro. Ma è unerrore. […]ci sono centinaia, migliaia di piccoli“io”. […] In un certo momento agisce un “io”, ilmomento dopo un altro “io”».E dunque, a proposito dell’educazione al risvegliodell’essere umano integrale, spiega, in questo notoparallelo (vero) attore-(vero) uomo: «Per recitareoccorre innanzitutto essere un artista. Un uomo puòessere ritenuto un attore solo se è capace, per così

dire, di produrre la luce bianca. Un vero attore è co-lui che crea, che riesce a riprodurre integralmente isette colori dello spettro. […] Per essere un vero at-tore, bisogna essere un vero uomo. Un vero uomo,può essere un attore, e un vero attore può essere unuomo.Tutti dovrebbero cercare di essere attori. È una me-ta molto elevata. La meta di ogni religione, di ogniconoscenza, è di essere attori».Il teatro dunque, nel progetto spirituale-educativo diGurdjieff, è campo d’interesse principale per l’os-servazione, l’analisi e la messa a nudo dei processie dei fenomeni della vita “in stato di sonno” nonchésede privilegiata per affacciarsi sul ‘Mondo Reale’.Parallelamente, l’attore è il modello per l’educazio-ne dell’uomo integrale che risponde alla domandafondamentale, l’unica reale: “Chi sono Io?”.Questo discorso sull’attore, pronunciato in pubblicoda Gurdjieff a New York nel marzo 1924, nel perio-do di massima diffusione del suo insegnamentoin/all’Occidente, quali riflessioni e considerazionipuò indurre oggi, quasi un secolo più tardi, sul va-lore, il ruolo e la funzione sia dell’educazione allosviluppo armonico dell’essere umano sia del teatroe dell’attore?

Gurdjieff sulla terrazza dell’Istituto per lo Sviluppo Armonico del-l’Uomo allo Château du Prieuré di Fontainebleau-Avon, ottobre1922

La vera domanda è: “Chi sono Io?”Non importa il modo in cui lo chiedo,

sono sempre ricondotto a questo puntocentrale: “Chi sono Io?”

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È stato fra i più impor-tanti biologi del Nove-cento; autore, insiemeal suo maestro e colle-ga Humberto Matura-na, di uno dei testifondamentali per lostudio dei processi co-gnitivi: L’albero dellaconoscenza. Parliamodi Francisco Varela,fi losofo, oltre chescienziato, cileno, pre-maturamente scompar-so all’età di 55 anni.

Nato a Santiago del Cile, nel 1946, Varela studiamedicina e biologia, conseguendo un PhD in bio-logia presso l’Università di Harvard. Diventatobuddista tibetano nel 1970, dopo il colpo di statodi Pinochet, trascorre sette anni in esilio negli Sta-ti Uniti, per poi tornare nel proprio Paese e dedi-carsi all’insegnamento universitario. Nel 1984, in-sieme a Maturana, elabora il concetto di “auto-poiesi” che diventerà poi il fulcro di gran parte delsuo pensiero successivo. Secondo i due studiosi,ogni essere vivente è concepibile come un’unitàautonoma capace di conservare e preservare il pro-prio ciclo vitale e la propria organizzazione inter-na. Una posizione che va a scontrarsi con le tradi-zionali teorie della scienza di allora per le quali,invece, è l’ambiente a determinare le reazioni de-gli esseri viventi, secondo il classico schema in-put/output. Per Varela e Maturana, invece, sono isingoli sistemi a selezionare dalla realtà circostan-te gli stimoli e le informazioni necessarie ad inne-scare, di volta in volta, i propri cambiamenti strut-turali, secondo un processo che ne garantisca l’au-

tonomia interna. Tale osservazione risulterà il pun-to di partenza fondamentale per tentare di spiegarele dinamiche alla base del processo conoscitivo.Un processo che, partendo sempre e comunque dalsoggetto, implica una indissolubile autoriflessivi-tà. Conoscere significa infatti indagare il mondoesterno per poi interiorizzarlo e, attraverso l’alteri-tà, scoprire costantemente nuove possibilità del-l’essere in esso. «Ogni azione è conoscenza e ogniconoscenza è azione», ogni esperienza determinaun movimento di uscita dal proprio nucleo struttu-rale verso lo spazio definito dal linguaggio e dallacomunicazione. Una potenzialità che, se anchenon esclusiva dell’essere umano, in esso trova lasua massima espressione e applicazione. Ecco al-lora che, se il sistema nervoso opera secondo undeterminismo strutturale indipendente dall’am-biente, funzionando «come una rete chiusa di cam-biamenti di relazioni di attività fra i suoi compo-nenti»; la mente e la coscienza, che esistono innoi, ma che non sono localizzati in alcuna partespecifica, «appartengono al dominio di accoppia-mento sociale ed è lì che si realizza la loro dinami-ca». A dire cioè che solo attraverso il confronto, loscambio di informazione con altri esseri umani, lacondivisione di esperienze e l’acquisizione di de-terminati comportamenti sociali e conoscenze cul-turali, l’essere umano può trovare la sua completarealizzazione. Vivere e non semplicemente esiste-re, utilizzare il linguaggio non semplicemente percomprendere il mondo esterno ma per concepirsicome parti integranti di esso. Una convinzione checontiene in sé un imperativo categorico per ogniuomo: quello di abbandonare credenze e idiomifissati per sempre, aprendosi ad un’indagine dina-mica e alla ricerca di una prospettiva più ampia.Così ha vissuto Francisco Varela, affrontando l’e-

sistenza come un conti-nuo percorso di scoper-ta, con quel coinvolgi-mento in “ prima perso-na” che ha adottato an-che come metodologiabasilare per ogni inda-gine fenomenologica.Un approccio che, rifiu-tando mappe stabiliteaprioristicamente e inmaniera astratta, trovanell’esperienza diretta laconferma della costantecomunicazione fra “cer-vello/corpo/mondo” edella loro indissolubile,reciproca implicazione.

Francisco Varela: conoscere la conoscenzadi Francesca Gisotti

Francisco Varela47

Francesca Gisotti

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Bianca Maria Tedeschini LalliProf. Tedeschini Lalli, lei è stata il primo Rettoredel nostro Ateneo e ha svolto pertanto un ruolofondamentale nella nascita e nella crescita di Ro-ma Tre. Qual è stato il mandato intellettuale de-gli esordi?Il mandato di Roma Tre degli esordi è stato fonda-mentalmente un mandato politico-culturale nato inclima di riforma universitaria nazionale e alla lucedelle elaborazioni della Commissione d’Ateneo perla sperimentazione scientifica e didattica della Sa-pienza degli anni Ottanta. A questo si aggiungeva,indubbiamente, l’accordo universitario europeodall’89.

Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità delcontributo culturale e scientifico che Roma Treha saputo sviluppare?Il contributo ricevuto da molto di quanto si è ricorda-to e che si è tentato di trasmettere, è stato quello diun buon rapporto con il territorio (sia nella zona incui l’università si collocava, sia nella città di Roma).Buon rapporto che ha fortemente influito sulla fan-tasia e l’efficacia del nostro insediamento con, ov-viamente, il contributo culturale e scientifico appor-tato dalle nuova università.

Come è cambiato l’approccio degli studenti al-l’università?Non so dare una risposta a questa domanda, anchese, riferendomi ai primi sei anni dell’università dicui mi si chiede, so confermare in parte l’approcciodi accoglienza e collaborazione con i nostri studen-ti, di un’università a misura minore della nostra Al-ma Mater.

In questi anni il sistema universitario italiano ècambiato molto; tra le tante novità, oggi l’uni-versità si interfaccia in maniera dinamica con ilmondo del lavoro; sono cambiate le aspettativedegli studenti nei confronti dell’università ed ècambiato il modo di fare docenza. Quale ruolointravede per l’università di domani?Non tocca al primo Rettore di Roma Tre interveniresul ruolo intravedibile per l’università di domani. Èun argomento di cui si potrebbe dibattere.

Carlo MelograniProf. Melograni, lei è stato il primo preside del-la nostra Facoltà di Architettura, quindi è in-dubbio che lei abbia dato un grande contributoper la nascita e poi per la crescita del nostro

Ateneo. Quale è stato il mandato intellettualedegli esordi?Io sono stato molto fortunato perché allora la situa-zione generale era molto diversa. Intanto gli studen-ti al primo anno erano duecento, poi il secondoquattrocento e così via, perché io ho fatto il presidenei primi cinque anni dopo la fondazione della Fa-coltà e di anno in anno si attivava il corso successi-vo e quando sono andato via, erano ormai attivi tut-ti e cinque gli anni e c’erano mille studenti. Aveva-mo il numero chiuso di duecento, che era un nume-ro facilmente governabile.Eravamo un nucleo di persone che erano venute vo-lontariamente e le cose erano più facili. Noi ci sia-mo proposti, in particolare io, ma mi sembra un po’tutti, di costituire una Facoltà che formasse dei pro-fessionisti in grado di dare un contributo a miglio-rare le condizioni dell’abitare, nelle case, negli al-loggi, nei servizi, in particolare nella scuole, neiluoghi di lavoro e così via. Io credo che il compitodegli architetti sia quello appunto di - per quelloche possono naturalmente, nei limiti delle lorocompetenze - però di impegnarsi, di non dimentica-re l’impegno di contribuire a migliorare le condi-zioni di vita e, per quanto mi riguarda, le condizionidell’abitare appunto.

E invece più in generale, quali sono state le pecu-liarità del contributo culturale e scientifico cheRoma tre ha saputo sviluppare?Si identifica un po’ con quello che dicevo, e in quelperiodo oltretutto, sempre tra i vantaggi che ho avu-to in quel tempo, non c’erano le indicazioni che cisono adesso per rinnovare il corpo docente.

Quindi la situazione era un po’ più fluida sostan-zialmente…Era molto fluida. Poi siamo andati quasi sempred’accordo. Per quanto riguarda la sede sono andatoanche in minoranza, ma insomma questo fa partedella democrazia e bisogna sapersi adeguare al vo-lere della maggioranza. Per quanto riguarda le altredecisioni da prendere, c’è stata una grande concor-dia, dovuta proprio a quelle condizioni che dicevoprima. Persone di valore, romani, che insegnavanonelle altre sedi ce n’erano molte, naturalmente il lo-ro desiderio, di tutti, era quello di tornare a Romaad insegnare dopo essere stati fuori, c’era un po’l’imbarazzo della scelta e noi abbiamo veramente,nel complesso, potuto chiamare persone di notevolequalità.

E invece per quanto riguarda gli studenti, perchéin questi anni anche gli studenti sono cambiatimolto, o quanto meno è cambiato l’approccio el’attenzione che l’università nello specifico rivol-ge agli studenti...

Alcuni fondatoridell’Università degli Studi Roma Tre

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Io non conosco i cambiamenti. Ormai dal ’97 sonofuori dalla Facoltà e le cose sono molto cambiate;sono passati molti anni, più di 17 anni… Come sonocambiati gli studenti? 17 anni è il tempo di una ge-nerazione e non posso saperlo. Devo dire che abbia-mo sempre avuto, essendo una Facoltà così giovane,come principale obiettivo il miglioramento della di-dattica e gli studenti questo l’hanno sentito. Io ricor-do sempre, con grande gratitudine e una certa emo-zione anche, il giorno che sono andato via, gli stu-denti mi hanno, diciamo così, festeggiato, non sologli studenti, ma c’erano amici e c’era anche il corpodocenti. Ricordo in particolare uno studente, cheparlava anche a nome dei suoi colleghi, il quale dis-se che era rimasto colpito dal discorso che pochigiorni prima io avevo fatto per accogliere le matri-cole: forse le matricole non avevano capito tuttoquello che io dicevo, però avevano sentito che c’eraamore verso di loro. Ecco, io gli studenti li ho amatie questa è una cosa che credo che i giovani avverta-no subito quando sentono che c’è un professore, chemagari sta pure in cattedra, però che vuole loro benee cerca di dare quanto più aiuto sia possibile.

Assolutamente sì. Tornando di nuovo al generale,sappiamo che l’università è cambiata tanto, si in-terfaccia molto di più, per esempio, con il mondodel lavoro e di conseguenza appunto, come diceva-mo prima, è cambiato anche il rapporto con glistudenti. Ora, la sua è anche una prospettiva pri-vilegiata perché ha avuto una grande esperienzaall’interno dell’accademia e, come diceva poco fa,è da qualche anno uno spettatore privilegiato. Ec-co, all’interno di questo sistema che è molto cam-biato, quale ruolo intravede per l’università di do-mani?Non saprei dire. Non ho abbastanza conoscenzadella nuova situazione universitaria ed è ormaiqualche anno che non progetto più. Non mi sento ingrado di dare indicazioni per il futuro e l’unica cosache posso dire è che secondo me c’è da accentuareil più possibile il valore dell’impegno sociale del la-voro dell’architetto, perché quello è la chiave ancheper trovare consenso sufficiente nell’opinione pub-blica. Ecco, io la cosa che vorrei per il futuro è chel’università contribuisse molto a ristabilire un con-tatto, una concordia diciamo, tra le esigenze socialie il nostro lavoro, una corrispondenza diciamo tra leesigenze sociali e le domande della società a cui noisiamo in grado, responsabilmente, di rispondere.

Marco FontanaProf. Fontana, lei è stato uno dei protagonisti del-la nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qualè stato il mandato intellettuale degli esordi?Posso rispondere ricordando le motivazioni, gliideali e le aspettative che mi hanno portato nel 1992ad esercitare l’opzione per il trasferimento a RomaTre e ripercorrendo i primi passi della mia attivitànel nuovo Ateneo.

Ho seguito, sin dalla pubblicazione del decreto diistituzione, le fasi preparatorie su mandato del Di-partimento di Matematica “Guido Castelnuovo”. Intale ruolo ho avuto modo di sondare le intenzionidei colleghi matematici e poi di coordinare le loroopzioni e di partecipare alle riunioni preparatorieche si tenevano nella sala del Senato Accademicodella Sapienza.In presenza di grandi incognite e poche certezze, leopzioni dei matematici furono molto limitate in nu-mero ma di notevole livello scientifico, con compe-tenze variegate da coprire in modo minimale i prin-cipali settori della matematica e con motivazioni edidee convergenti su innovazione e qualità nella di-dattica e nella ricerca. Inoltre, il piccolo gruppo deifondatori matematici era molto coeso e ciò, nellafase iniziale, ha reso possibili decisioni rapide, mol-to innovative e di notevole impatto per la creazionedel nuovo Dipartimento.Essendo la componente matematica la più piccoladella Facoltà di Scienze, le nuove risorse furonomolto limitate e le chiamate, che furono possibili,furono fatte con criteri di estremo rigore e portaro-no a Roma Tre colleghi di assoluto livello interna-zionale, principalmente giovani. Personalmente, aldi fuori dell’attività di ricerca, ho dedicato tutte lemie energie agli “affari interni” ed in particolare al-l’organizzazione della didattica, ricoprendo per varimandati l’incarico di presidente dei Corsi di Studioin Matematica. Per noi matematici è stato un perio-do di grande impegno ideale.A parte una profondissima riorganizzazione e razio-nalizzazione dell’offerta didattica furono introdottigià nel primo biennio insegnamenti, e corsi di labo-ratorio, allora “innovativi” legati agli sviluppi edapplicazioni più recenti della matematica come laprobabilità, l’informatica, la teoria dei numeri e lacrittografia. Furono sperimentati ed introdotti nuovie più moderni canali di comunicazione con gli stu-denti, come la pubblicazione del fascicolo “Benve-nuto@Matematica” che conteneva, con una vestegrafica innovativa, informazioni tempestive e prati-che sull’offerta didattica, articoli divulgativi sulruolo e le applicazioni della matematica nella socie-tà, assieme ad una presentazione dei membri delDipartimento, della loro formazione e della loro at-tività scientifica. Furono subito introdotti a mate-matica, molti anni prima che ciò diventasse unaprassi a livello nazionale, i questionari di valutazio-ne dell’offerta didattica da parte degli studenti, chefurono molto utili per una migliore programmazio-ne dei corsi e furono di stimolo alla docenza. Fusperimentato con successo il servizio di tutoratosvolto dagli studenti seniores, cioè studenti sceltiprincipalmente tra i migliori studenti o laureandi iquali animavano (ed animano tutt’ora) classi di stu-dio assistito sotto la supervisione dei titolari deicorsi, abituando rapidamente gli studenti dei primianni all’importanza della frequenza regolare alle le-zioni e ad interagire con i docenti. Nei primi anniNovanta, fu istallato a matematica (nell’edificio diVia Segre) probabilmente il primo server all’internodell’Ateneo collegato alla rete internet, inizialmente

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per la gestione autonoma della posta elettronica (al-lora in fase pionieristica) e poi come portale del Di-partimento e dei corsi in matematica. Le grandi po-tenzialità del canale web anche a supporto della di-dattica furono utilizzate già a partire da quegli anni.Furono introdotte le gare di Matematica ed il con-corso legato alla immatricolazione gratuita per glistudenti particolarmente meritevoli, precedendo dimolti anni i provvedimenti ministeriali di promo-zione ed incentivazione delle lauree scientifiche.Venne attuato il trasferimento a Roma Tre (dallaSapienza) della sede delle selezioni per le Olimpia-di internazionali della Matematica rendendo il nuo-vo Ateneo un polo di attrazione dei migliori studen-ti della provincia di Roma, interessati alle disciplinescientifiche. Come può vedere, furono anni di gran-de innovazione e di grandissimo impegno che han-no tracciato la strada seguita negli anni successividall’area matematica nell’Ateneo Roma Tre.

Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità delcontributo culturale e scientifico che Roma Treha saputo sviluppare?Credo che la mia risposta alla domanda precedenteincluda in parte anche una risposta a questa questio-ne, almeno per quanto riguarda il settore della ma-tematica.Come ho detto sopra, per mia scelta e per le ragionisopra ricordate, ho incentrato la mia attività all’in-terno dell’area matematica. Quindi, non ho matura-to esperienze significative a livello centrale che mipermettano ora di esprimermi con adeguata cogni-zione di causa su aspetti più generali. Sicuramenteuno spirito pionieristico di grande partecipazione edi ricerca di innovazione diffuso in gran parte di co-loro che esercitarono l’opzione fu alla base dellanascita, dello sviluppo e dell’affermazione di que-sto Ateneo nell’area romana.

Come è cambiato l’approccio degli studenti al-l’università?Non mi sembra facile rispondere a questa domandain termini generali, in quanto le motivazioni edaspettative di ciascuno studente sono sempre statemolto variegate e del tutto personali, legate princi-palmente alla propria formazione, cultura ed estra-zione sociale. Probabilmente, negli ultimi anni sinota tra gli studenti, anche tra i più giovani, unamaggiore consapevolezza delle enormi difficoltànell’inserimento nel mondo del lavoro e della diffi-cilissima congiuntura economica. Da questa consa-pevolezza discendono reazioni molto differenti traloro come quella, probabilmente maggioritaria, diuna maggiore coscienza dell’importanza di una for-mazione di alta qualità e quella purtroppo negativaed opposta dell’abbandono degli studi universitari.

In questi anni il sistema universitario italiano ècambiato molto; tra le tante novità, oggi l’uni-versità si interfaccia in maniera dinamica con ilmondo del lavoro; sono cambiate le aspettativedegli studenti nei confronti dell’università ed ècambiato il modo di fare docenza. Quale ruolo

intravede per l’università di domani?Innanzitutto, ritengo che l’università debba rinno-varsi mantenendo però il suo ruolo fondamentalequale centro della formazione avanzata, della ricer-ca e dell’innovazione. Per questi scopi, che i paesi amaggiore sviluppo reputano di interesse strategico,mi auguro che lo Stato tornerà a scegliere di inve-stire in modo adeguato e selettivo. Ovviamente, glistrumenti per perseguire questo ruolo, le modalitàdi esercizio della docenza e quelle della divulgazio-ne e trasmissione del sapere dovranno rinnovarsicontinuamente per sfruttare pienamente i nuovistrumenti di comunicazione, di raccolta e gestionedati, e di insegnamento a distanza (e-learning). Sarànecessario puntare ad una maggiore integrazioneprincipalmente nell’ambito dell’UE sia dal punto divista della ricerca che della didattica, sviluppandoaccordi per diplomi congiunti tra più università divari paesi. Infine, un ruolo decisivo, che purtroppoancora oggi appare marginale, potrà essere svoltodall’università nell’attività di apprendimento ed ag-giornamento permanente (lifelong learning) che –come facilmente prevedibile – verrà richiesto informa sempre più ampia e continuativa da una so-cietà in rapido sviluppo non solo tecnologico.

Raffaele SimoneProf. Simone, lei è stato uno dei protagonisti del-la nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qualè stato il mandato intellettuale degli esordi?Non so se sono stato uno dei protagonisti. Sicura-mente fui tra i primissimi e, inoltre, contribuii aspingere la collega Tedeschini Lalli a presentare lasua candidatura a rettore, col risultato che Roma Tre(che agli inizi si chiamava Terza Università, comedel resto ancora la chiamano alcuni) ebbe la primacapostruttura donna. Il mandato era quello di sfolla-re La Sapienza, che del resto si comportò come nu-trice nei nostri confronti, anche se non fu affatto unanutrice affabile. Ci fissò un nome (che però nessunousò mai: Università Tiberina) e per diverso tempotrascurò (a non dir peggio) di trasferire la documen-tazione amministrativa del personale migrato. Allafine si scoprì che La Sapienza non era stata sfollata,ma che si era creata una formula di università im-prevista, che alla Sapienza cominciò a fare una con-correnza molto seria, che dura tuttora. Agli inizi nonc’era assolutamente niente, salvo un palazzotto inviale Marconi. La bravura della prima amministra-zione consistette per l’appunto nel creare una sedefisica (cosa che accadde in due o tre anni) e nell’im-piantarvi servizi, didattica, laboratori e così via.

Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità delcontributo culturale e scientifico che Roma Treha saputo sviluppare?Roma Tre ha sviluppato il moderno concetto di unacity university, o se preferisce di un’università citta-dina, risvegliando l’interesse del quadrante RomaSud (più di un milione di persone) che non avevano

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mai pensato di frequentare una scuola universitaria.Inoltre, senza neanche prevederlo, ha ridato vita aun quartiere abbandonato, ancorché percorso da unadelle due linee di metropolitana, che ha ora ripresoa esistere ed è diventato uno dei più vivaci della cit-tà. Dal punto di vista scientifico, si sono aggregati aRoma Tre numerosi studiosi e ricercatori di valore,vecchi e giovani, si sono create delle scuole, si sonoattratti stranieri (studenti e docenti), tutti attratti dalfatto di frequentare un’università non così affollatacome altre romane né così lontana dal consorzioumano. In vent’anni non è male per niente, anche se– si sa – per creare una tradizione universitaria im-portante ci vuole ben di più…

Come è cambiato l’approccio degli studenti al-l’università?Gli studenti sono aumentati di numero (anche se inItalia sono sempre troppo pochi in rapporto alle co-orti di età), ma purtroppo non di qualità. La culturagiovanile non è amica dello studio e dell’applica-zione a discipline difficili e un professore anticocome me verifica che ogni anno si scende un pic-colo gradino nella qualità dell’apprendimento. C’èpoco da digitalizzare la didattica: le teste sonospesso distratte e poco concentrate sulla qualità.Agisce su questo anche la triste consapevolezza,che questi giovani hanno, che il mondo del lavorooffre poco per loro. La struttura 3+2, politicamenteutile perché omogeneizza i corsi di quasi tutt’Euro-pa, è un disastro dal punto di vista dell’apprendi-mento. Un sapere complicato non si trasmette inmoduli distribuiti su tre anni. Le cose cambiano dimolto al livello magistrale, dove gli studenti sonoselezionati e già preparati, e naturalmente a quellodottorale, dove spesso si incontrano veri talenti,anche se sono convinto che al dottorato non si de-dichi sufficiente attenzione, né in Italia né nel no-stro Ateneo.

In questi anni il sistema universitario italiano ècambiato molto; tra le tante novità, oggi l’uni-versità si interfaccia in maniera dinamica con ilmondo del lavoro; sono cambiate le aspettativedegli studenti nei confronti dell’università ed ècambiato il modo di fare docenza. Quale ruolointravvede per l’università di domani?So di dire una cosa impopolare, ma sono convintoche le università italiane dovrebbero distinguersi inprimo livello (solo corsi triennali) e università com-prensive (tutti i corsi, incluso il dottorato). Dovreb-bero inoltre collegarsi col mondo del lavoro, ma insenso lato, non pensando come sempre si fa solo aingegneri, giuristi e architetti. Esistono anche glistorici dell’arte, gli archeologi, i filologi, i linguisti emille altre specialità avanzate. Il compito dell’uni-versità è non solo quello di identificare i luoghi incui queste specialità si possono impiegare, ma anchedi crearli o contribuire a crearli. Invece in Italia, co-me in molti altri posti, l’università è spesso vista co-me un’azienda che vive in quanto ha clienti. L’uni-versità è la casa dei saperi speciali, non una scuolapopolare; non ha l’obbligo di guadagnare, ma quello

di far quadrare i conti; ha l’obbligo di scoprire e for-mare le intelligenze. Come diceva Carlo Cattaneo,gestisce un capitale invisibile che non va nel bilan-cio, ma che contribuisce a formare il bilancio econo-mico e morale di un intero paese. Una parte delladepressione in cui l’Italia versa dipende dalla de-pressione in cui si trova la sua università.

Carlo Maria TravagliniQual è stato il mandato intellettuale e culturaledegli esordi di Roma Tre?La nostra università è stata voluta soprattutto daAntonio Ruberti che, quando era ministro, sulla ba-se della sua esperienza come rettore de La Sapien-za, ha sostenuto con molta decisione la costituzionedi una terza università a Roma. L’esperienza di TorVergata era stata molto faticosa e la capacità attrat-tiva di quell’Ateneo si è verificata solo in anni piùrecenti anche in relazione al consolidarsi dellastruttura edilizia.Nacque allora questo progetto di creare una nuovauniversità statale a Roma che doveva avere caratterigeneralisti con un orientamento particolare e il si-stema che fu adottato fu un sistema innovativo: ilsistema della gemmazione. Fu uno dei primi casi digemmazione di università. Non più quindi, comeera avvenuto con Tor Vergata, la creazione di un co-mitato ordinatore eletto dalle varie università infunzione delle Facoltà che dovevano essere istituitema era l’Ateneo madre che generava attraverso leopzioni dei docenti, la nuova università. Questo pergarantire un decollo più agevole della nuova strut-tura grazie, almeno in una fase iniziale, al collega-mento con una struttura ben consolidata che potevaaiutare il nuovo nato a muovere i primi passi.Fu anche deciso, da parte del governo, di trasforma-re l’ex Facoltà di Magistero della Sapienza in unanuova Facoltà di Lettere della costituenda universi-tà di Roma Tre.Nel giro di pochi mesi si avviò questo processo cheebbe all’inizio esiti non molto equilibrati. Nella fa-se di attivazione dell’Ateneo, nel novembre 1993,la situazione era molto variegata: erano previste so-lo le Facoltà di Lettere, Economia, Scienze politi-che, Giurisprudenza, Scienze e Ingegneria, mamentre per Economia, Ingegneria e Scienze ci fu unnumero rilevante di opzioni, nelle altre Facoltà nonci furono sostanzialmente adesioni per la nuovastruttura. Queste ultime partirono in una fase suc-cessiva quando le omologhe Facoltà de La Sapienzachiamarono dei colleghi ad hoc.Non fu un inizio facile perché si era in un periododifficile della vita economica del paese: il 1992 ful’anno di una grossa crisi economica, quindi un pe-riodo di tagli severi. La dotazione iniziale di RomaTre è stata debole rispetto al fatto che non c’era unprogramma concordato con l’amministrazione co-munale. Il ‘92 è stato poi anche l’anno del passag-gio dalla prima alla seconda repubblica: un annodelicato, a Roma ci fu una giunta indagata, lo scio-

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glimento del consiglio comunale, mancavano ancheinterlocutori politici per avere chiarezza su dove lo-calizzare l’Ateneo. L’ipotesi che era stata fatta daLa Sapienza era quella di un’articolazione su duearee: Ostiense e Santa Maria della Pietà, aree diver-sificate e distanti tra loro (all’epoca Santa Mariadella Pietà non era neanche ancora raggiungibiledalla linea ferroviaria). Invece gli organi di governodell’Ateneo si orientarono per concentrare l’inse-diamento dell’università sull’area dell’Ostiense. Sicercò di non considerare affatto esclusiva l’indica-zione venuta dal governo, e in parte anche dall’am-ministrazione comunale, di una concentrazione del-l’Università nell’area di San Paolo, che com’è notopresenta dei problemi perché in alcune parti è al disotto del livello del Tevere. Un progetto preliminareprevedeva infatti edifici a forma di palafitte.Il problema drammatico che il primo rettore dell’u-niversità si trovò ad affrontare, e lo fece con grandedeterminazione, fu quello di trovare delle sedi dovefar svolgere l’attività didattica. Tuttavia l’universi-tà, riattivando il dialogo con il comune, riuscì, at-traverso una serie di accordi di programma, ad atti-vare una politica di acquisti; ottenne gli edifici inconcessione dal comune con un canone modesto einsomma riuscì a decollare.

Qual è stata la peculiarità del contributo di Ro-ma Tre nella riqualificazione del territorio?Il vantaggio è stato quello di essere vicino al centrostorico. L’idea fu quella di non farsi rinchiudere nelValco San Paolo, ma di scegliere l’Ostiense in ge-nerale.L’università ha modificato l’area valorizzando unaserie di proprietà immobiliari, innescando una mol-teplicità di attività in questa zona, che invece cono-sceva processi anche di abbandono, in assenza di unintervento pubblico capace di risanarla. L’operazio-ne pubblica più importante da svolgersi in quest’a-rea è ancora bloccata da tanti anni: quella dei mer-cati generali. Laddove ci sono state innovazioniqueste sono dovute alla nostra università. Innova-zioni importanti si sono verificate anche nell’areadel Mattatoio, a Testaccio. Questa è un’area che do-vrebbe essere tutta risanata, ci sono tanti problemiaperti ma l’università ha impedito che diventasseuna grande speculazione.Io credo che su questo tema del rapporto tra univer-sità e città il nostro Ateneo dovrebbe continuare aimpegnarsi. È uno degli elementi che caratterizzanoil nostro modello di università, che non è un recin-to, neanche in senso figurato.Si è investito su questa scelta assumendo un atteg-giamento più dinamico, introducendo elementi diinnovazione rispetto ad una realtà consolidata e ne-cessariamente più rigida come La Sapienza.

Questo anche dal punto di vista scientifico?Anche dal punto di vista scientifico c’è stato più di-namismo, nella ricerca di rapporti con l’esterno adesempio. Certo c’è stato il fatto negativo del partirecon risorse inadeguate, ovviamente ci sono Facoltàche per loro struttura sono più leggere: le scienze

umane e sociali hanno un impatto meno pesantenell’investimento di strutture e laboratori rispetto aScienze o Ingegneria. La Sapienza su questo avevaanche una tradizione, una storia completamente di-versa, né abbiamo avuto una legge ad hoc di istitu-zione, di finanziamento pluriennale, come ha avutoTor Vergata. Siamo nati poveri e siamo purtroppocresciuti a tempi di vacche magre, è stata una lottasul piano delle risorse umane e tecnico-amministra-tive. Ora grazie al mutamento tecnologico tante co-se si possono apprendere dalla rete ma le risorse so-no indispensabili in ogni caso.Il dinamismo dell’università, la sua posizione, i ser-vizi, l’attenzione che ha rivolto agli studenti, la ca-pacità di interagire con l’esterno ha consentito al-l’università di crescere rapidamente.

Tornando agli studenti, questi anni di vita diRoma Tre sono stati anni in cui successive rifor-me universitarie hanno introdotto anche uncambiamento nell’approccio degli studenti all’u-niversità. Nella sua attività di docente ha avutomodo di riscontrarlo e come è cambiato secondolei l’approccio allo studio accademico degli stu-denti?Non vedo profondi cambiamenti. La riforma del 3più 2 non so quanto sia stata felice, soprattutto perle modalità con cui è stata realizzata, non come pro-getto unitario ma come una realizzazione prima deltre e poi, a distanza di tempo, del due. La realizza-zione del tre è avvenuta secondo me in un modoche è stato deleterio. Tutti coloro che insegnavanonel quadriennio hanno teso a introdurre la presenzadelle proprie discipline in forme più ridotte nel-l’ambito del triennio. Se si fosse fatto triennio ebiennio insieme questa pressione a voler riempir iltriennio di tanti esami si sarebbe potuta evitare.Questo ha avuto caratteristiche diverse da sede a se-de, però è stato un elemento sicuramente presente.Inoltre non c’è un continuum tra triennio e biennio,talvolta si perde tempo.Per la verità è vero che c’è stata una sperimentazio-ne importante però c’è stata una tendenza a irrigidi-re tutto il sistema. Questa macchina della program-mazione didattica è diventata una cosa estremamen-te complicata. L’attenzione che c’è stata, molto for-te, nei confronti degli studenti si è attenuata in parteanche a causa della mancanza di risorse sia finan-ziarie che personali.

In questi anni il sistema universitario è statochiamato a interagire in modo più attivo con ilmondo del lavoro. Quale prospettive intravede,quale ruolo per l’università da qui al prossimofuturo?È importante che l’università dialoghi con il mondodel lavoro. Attualmente l’università deve dare unaformazione di base. Ho molte riserve sul fatto chel’università debba essere orientata a una formazioneprofessionale. Ci sono servizi che l’università svol-ge in questo senso, ad esempio a livello di master.A livello di lauree triennali e magistrali ci sono deiprofili professionali che vengono costruiti con ap-

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proccio critico, offrendo strumenti analitici che per-mettono agli studenti di svolgere un lavoro checambia in continuazione.Il dialogo con il mondo del lavoro, con la società ècomunque molto importante. Ricordo con grandenostalgia la mia esperienza di studente, in particola-re la didattica di uno dei miei maestri che prevede-va nel suo corso, una volta alla settimana, incontricon esperti di alto profilo impegnati nella gestionedella politica economica finanziaria. Era un modoper dialogare con la realtà del paese, con i problemiche si andavano affrontando.In Facoltà, quando ero preside, abbiamo cercato diorganizzare job meeting per insegnare agli studenticome scrivere il curriculum, come dialogare con leimprese. E gli stage sono importanti in questo sen-so, forse non sempre sono valorizzati adeguata-mente.

Luigi MocciaProf. Moccia, lei è stato uno dei protagonisti del-la nascita e della crescita del nostro Ateneo. Qualè stato il mandato intellettuale degli esordi?Della crescita, forse; mentre per la nascita di RomaTre sono personalmente grato alle colleghe e ai col-leghi che mi hanno preceduto. Sono arrivato a Ro-ma Tre a fine 1996, dopo aver insegnato dapprimanell’Università di Perugia, poi nell’Università diMacerata, dove vinsi (come usava dire nel secoloscorso) la cattedra di Diritto privato comparato, nel1985, mantenendo sempre un collegamento con laFacoltà di Giurisprudenza di Roma “La Sapienza”,dove mi sono laureato e dove ho continuato, in se-guito, a svolgere per molti anni attività di ricerca. Aparte le tante altre esperienze di studio e di lavoroche, subito dopo la laurea, ho avuto modo di svol-gere: in Europa e fuori (dagli USA alla Cina). Dicoquesto per sottolineare, insieme con le mie molte-plici appartenenze accademiche (com’era normale aquei tempi), il fatto che l’arrivo a Roma Tre ha rap-presentato per me più che un approdo, un nuovoinizio, avendo alle spalle esperienze umane e pro-fessionali che mi hanno segnato e insegnato davve-ro molto.Ogni mandato che si rispetti, più che darselo, uno loriceve. A volte, per noi docenti, anche dai nostristudenti. Nel mio caso, insegnando corsi opzionalipoco frequentati, e in materie un po’ eccentriche(come Diritto comparato e Diritto europeo) che of-frivano occasione di guardare a orizzonti nuovi odiversi, è stato possibile avviare un dialogo con ipochi frequentanti che sceglievano di seguire queicorsi, motivati e curiosi di apprendere, con effettiche ogni volta sono stati di vantaggio reciproco e diaiuto a una migliore definizione di obiettivi sia diricerca che formativi.L’arrivo a Roma Tre è avvenuto in un momento pro-pizio. In un Ateneo nato ancora da poco e con di-mensioni ancora contenute, che permetteva di con-dividere, tra colleghe e colleghi, come pure con il

personale e la direzione amministrativa, entusiasmoe spirito d’iniziativa. La voglia di fare, di costruiree… di pensare fuori dagli schemi era assai contagio-sa. I tempi, d’altronde, lo richiedevano: già dal 1998(con la dichiarazione della Sorbona del maggio diquell’anno, all’origine del successivo Processo diBologna del 1999) era iniziata la grande stagionedella riforma degli ordinamenti didattici. In un cli-ma che era di forte sollecitazione e di sfida, che hacoinciso con la mia elezione alla presidenza dellaFacoltà di Scienze politiche (e successivi incarichinazionali), dandomi così l’opportunità di contribuiredirettamente al processo di cambiamento.Ciò detto, per quanto riguarda la mia personaleesperienza, il mandato che ho sempre pensato didover onorare, è stato quello di pensare all’univer-sità, più che come un contenitore, come un contenu-to di innovazione, cercando di resistere a ogni for-ma di “accademismo pseudo-scientifico”, come pu-re di centralismo burocratico, per aggiungere, ovepossibile, di mio, qualche elemento di praticità ecreatività, sul piano sia organizzativo che di visionedell’insieme.

Quali sono state, a suo giudizio, le peculiarità delcontributo culturale e scientifico che Roma Treha saputo sviluppare?Vorrei dire, innanzitutto, qualcosa della mia espe-rienza decennale come preside della Facoltà diScienze politiche (1988-1998). Parlando della miaFacoltà (anche per un omaggio doveroso, sebbeneun po’ nostalgico, a quel nome “Facoltà”, e almondo da esso evocato, che non vorrei sparisse pervia dell’abolizione del nome stesso), ritengo cheun contributo rilevante sia stato quello di interpre-tare e valorizzare in modo significativo il mix di-sciplinare degli studi politico-sociali, storici, giuri-dici, economico-statistici e linguistici. Ad esempio,con iniziative d’avanguardia, come quella del pri-mo master, in Italia, di studi sulla pace e la sicurez-za internazionale (“Peacekeeping and Security Stu-dies”, sin dall’inizio diretto e coordinato dalla col-lega Maria Luisa Maniscalco), nato da una colla-borazione con le istituzioni e le professionalità im-pegnate nelle operazioni sul campo, che ha apertola strada ad altre iniziative similari, nel nostro co-me in altri atenei italiani. Un altro aspetto qualifi-cante è stato quello, appunto, del collegamento conle realtà esterne. In particolare con il mondo istitu-zionale delle amministrazioni (centrali e periferi-che) e delle autonomie territoriali; dando vita amolteplici iniziative e attività finalizzate alla rea-lizzazione di quella che oggi si chiamerebbe la“terza missione”.Parlando più in generale dell’Ateneo, ritengo che lareputazione e la visibilità di Roma Tre si siano raf-forzate proprio sul piano di un diffuso e importanteradicamento nel territorio, traendone occasioni estrumenti di crescita, in termini sia di apporti scien-tifico-culturali che di acquisizione di risorse.Vorrei aggiungere che il contributo culturale escientifico che il nostro Ateneo ha saputo dare nelcorso degli anni è stato anche il risultato di un mo-

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dello organizzativo basato su un grado elevato diautonomia interna (al livello delle singole strutturee articolazioni). Un modello altresì calibrato su di-mensioni medio-grandi, tali da rendre compatibili,almeno tendenzialmente, i rapporti proporzionalitra componenti e strutture, risorse e obiettivi.

Come è cambiato l’approccio degli studenti al-l’università?Così com’è formulata, trovo arduo, per me, dareuna risposta alla domanda. Proporrei quindi di ro-vesciarla. In questi ultimi tempi, a partire dalle ri-forme prima evocate, è cambiato molto il quadro eil tipo di offerta formativa dell’università verso glistudenti; e, comunque, è cambiata l’università. Pen-so all’ampia scelta di corsi e percorsi, assieme allapossibilità di esperienze di studio in altri paesi eu-ropei (i programmi di mobilità Erasmus). Penso auna maggiore facilità, per uno studente oggi, di re-lazionarsi con il mondo intero. Penso, inoltre, allapossibilità di altre esperienze formative (i tirocini),e, soprattutto, all’offerta di corsi di specializzazionepost-laurea, di primo e secondo livello, fino ai corsidi dottorato. Tutti questi sono fattori che, mentreconcorrono a fare della formazione universitaria unasset strategico di crescita e sviluppo, pongono lostudente medio, per così dire, di fronte a delle sfideche richiedono una capacità di orientamento, unaspinta motivazionale, una propensione critica assaisuperiori che in passato.Dal mio osservatorio, mi pare di vedere che siamoin una fase di transizione; dove occorre lavorare perriallineare “domanda e offerta” di formazione. Nelsenso di contemperare le legittime aspettative di in-serimento nel mondo del lavoro, con altrettanto le-gittime esigenze di eccellenza che portino i nostristudenti a sfruttare al meglio i fattori e le opportuni-tà di cui detto sopra. In questo senso auspico chel’approccio degli studenti cambi, più di quanto nonsia in parte già avvenuto, nel senso di una maggioreconsapevolezza sul piano delle scelte e dell’impe-gno, per fare di questa loro esperienza di studi al li-vello universitario un vero modo di maturazionepersonale, di crescita culturale e di formazione pro-fessionale.

In questi anni il sistema universitario italiano ècambiato molto; tra le tante novità, oggi l’uni-versità si interfaccia in maniera dinamica con ilmondo del lavoro; sono cambiate le aspettativedegli studenti nei confronti dell’università ed ècambiato il modo di fare docenza. Quale ruolointravede per l’università di domani?Come ho cercato brevemente di dire prima, l’uni-versità è cambiata; ed è vero che le aspettative deglistudenti sono cambiate o sono in via di cambiamen-to. Gli studenti e l’università che li accoglie, inquanto comunità di cui gli studenti pure sono parte,devono interagire sulla base di altri registri che nonsia quello di un preteso efficientismo legato all’ideapseudo-aziendalistica del rapporto tra chi eroga“servizi” e chi ne fruisce come “utenza”. La forma-zione, nel senso anche di educazione come suo con-

tenuto sociale, civile e morale, in tanto ha valore dibene comune, in quanto è espressione di un impe-gno collettivo, di cui ogni componente della comu-nità universitaria nel suo complesso è e deve sentir-si parte attiva e responsabile.Se l’allusione ai nuovi modi d’insegnamento, con-tenuta nella domanda, riguarda in particolare l’usodelle tecnologie informatiche e di comunicazione adistanza, penso che l’impiego di questi strumentiavviene, oramai, a ritmi e livelli di diffusione tali dafarne un fenomeno inarrestabile di cambiamento.Per cui le università statali, pur continuando, anzi, amio avviso, dovendo continuare ad essere rette dalprincipio dell’insegnamento in presenza, dovrannotuttavia munirsi di dotazioni e strutture per un’of-ferta formativa telematica, indirizzata verso obietti-vi e ambiti selezionati, come ad esempio il recuperodi studenti fuori corso, oppure corsi di aggiorna-mento (lifelong learning).Il problema semmai è quello di non confondere ilmezzo con il fine; vale a dire, come ho già detto inprecedenza, di non fare dell’università (pubblica)un mero contenitore di innovazione, a scapito dellasua natura e funzione di luogo di ricerca ed elabora-zione di contenuti nuovi e innovativi.Venendo al ruolo del nostro Ateneo in un futuromolto prossimo, penso a due scenari, soprattutto.Quello dell’Europa unita, e quello delle sfide dellaglobalizzazione, in un ottica, di nuovo, europea.Entrambi strettamente coniugabili sul fronte delleattività formative e di ricerca, con una rilevanteproiezione esterna (territorio, istituzioni, mondoproduttivo e società civile).Le relazioni tra università, territorio, istituzioni na-zionali ed europee, che fino a qualche tempo fa po-tevano presentarsi come una semplice opzione, so-no divenute una scelta obbligata, un target specificodi una azione da potenziare e valorizzare, autono-mamente, rispetto alle relazioni internazionali. Ciòallo scopo di garantirsi sbocchi, in termini di acqui-sizioni di risorse e realizzazioni di attività, sul pia-no formativo e scientifico, capaci di rappresentare,a regime, un obiettivo di ulteriore qualificazione delnostro Ateneo. Le sfide della globalizzazione si gio-cano su vari piani di incidenza. Come viene benechiarito sulle pagine di un precedente numero diquesta rivista (da un contributo di Giacomo Marra-mao), il fallimento sia del modello assimilazionistache di quello multiculturale, denunciato anche daalcuni leader politici europei, pone il problema diuna “terza via” che l’Europa, il Consiglio d’Europae la Commissione europea in particolare, hanno de-ciso di imboccare con il progetto sperimentale diazione congiunta delle “città inter-culturali”. Pensoche, non solo Roma possa e debba partecipare aquesta importante iniziativa, ma che Roma Tre pos-sa e debba farsi artefice di iniziative e darsi unapropria agenda di lavoro incentrate sull’idea di uni-versità a vocazione interculturale, che, con pienaconsapevolezza delle implicazioni dei fenomeni mi-gratori e del dramma di popolazioni in fuga dallamiseria, dalla violenza e dalla guerra (Lampedusadocet), prepari le presenti e future generazioni nella

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prospettiva di una società aperta e inclusiva, capacedi fare delle diversità culturali, in particolare nell’a-rea euro-mediterranea, un valore aggiunto di svilup-po e di progresso civile.

Alfonso MiolaProf. Miola, lei è stato uno dei protagonisti dellanascita e della crescita del nostro Ateneo. Qual èstato il mandato intellettuale degli esordi?Ricordo perfettamente le riflessioni e le discussioniavvenute intorno all’estate del 1992 all’interno etra i vari Dipartimenti della Sapienza per definirele opzioni verso il nuovo Ateneo. Considerandoche il primo obiettivo posto dall’istituzione dellaterza università di Roma era il decongestionamentode La Sapienza, obiettivo previsto senza adeguaterisorse, posso dire che molti di noi che optarono laritenevano una “avventura”, una vera sfida per riu-scire a costruire un Ateneo compiutamente genera-lista sia nella didattica sia nella ricerca.Infatti il mandato culturale di quel momento risentìcertamente dei limiti istituzionali citati che ebberoinevitabilmente molte ripercussioni negative speciesul fronte della ricerca in tutti i settori scientificidiversi da quelli della Facoltà di Lettere, che venneistituita con il trasferimento da La Sapienza del-l’intera Facoltà di Magistero. Tuttavia, pur in que-sta anomala situazione asimmetrica di avvio, perun certo periodo di tempo noi docenti optanti ab-biamo portato con noi il nostro bagaglio di interes-si scientifici e un grande entusiasmo nella costru-zione di una nuova realtà. In questo senso unagrande opportunità nell’avventura.Gli anni di avvio, con il rettorato di Bianca MariaTedeschini Lalli (primo rettore donna in Italia), fu-rono connotati da molti interventi, assolutamenteriusciti, per la necessità di affermare l’esistenza di-dattica e scientifica della nuova università, con lavalorizzazione delle nuove realtà scientifiche di-verse da quella della Facoltà di Lettere e del pesodei Dipartimenti nella ricerca ma anche nel gover-no dell’Ateneo.Successivamente, dal 1998, con il rettorato di Gui-do Fabiani, si è avuto un grande sviluppo dell’inte-ra struttura dell’Ateneo che ha registrato una evi-dente e significativa capacità di crescita e di affer-mazione nonostante un susseguirsi di interventi le-gislativi, non sempre sufficientemente meditati, eun alternarsi di alti e bassi nelle risorse assegnateal sistema universitario.

Quali sono state, a suo giudizio, le peculiaritàdel contributo culturale e scientifico che RomaTre ha saputo sviluppare?L’attenzione posta dalla politica della ricerca, an-che attraverso le iniziative delle conferenze di Ate-neo sulla ricerca, ha consentito opportunità di svi-luppo di tutte le potenzialità scientifiche presentideterminando l’emergere di vere eccellenze in al-

cuni settori anche con significativi incrementi deifinanziamenti esterni ottenuti per la ricerca. Gliaspetti dell’internazionalizzazione insieme con lasensibilità per il rapporto con le realtà istituzionali,locali e regionali, e le realtà produttive del territo-rio hanno certamente rappresentato una specificitàdel nostro Ateneo.In questo senso mi piace ricordare, come emblema-tica della nostra presenza identitaria a Roma, l’ini-ziativa del Teatro Palladium che oggi è una realtàculturale e scientifica cittadina e non solo.

Come è cambiato l’approccio degli studenti al-l’università?Devo premettere che la mia visuale sugli studentiuniversitari è ovviamente quella di docente di unarealtà come quella di Ingegneria dove i cambia-menti di approccio sono stati meno evidenti essen-do relativamente meno variabili le motivazioni del-la scelta degli studi di Ingegneria.In generale mi pare evidente sottolineare come inquesti ultimi dieci anni di crisi economica, socialee del lavoro tutti i giovani siano alla “ricerca delfuturo”. Ciò richiede a noi docenti di garantire tuttala presenza e la dedizione possibili nelle nostre at-tività didattiche e nel rapporto con gli studenti perpoter offrire loro le migliori capacità di crescitadelle competenze e delle professionalità.In questa direzione voglio comunque rimarcare co-me Roma Tre continui a presentare un’offerta di-dattica e una struttura organizzativa in grado di fa-cilitare e semplificare l’approccio dei nostri stu-denti all’università.

In questi anni il sistema universitario italiano ècambiato molto; tra le tante novità, oggi l’uni-versità si interfaccia in maniera dinamica con ilmondo del lavoro; sono cambiate le aspettativedegli studenti nei confronti dell’università ed ècambiato il modo di fare docenza. Quale ruolointravede per l’università di domani?Come dicevo gli studenti hanno grandi aspettative.In molti casi, anche da noi a Roma Tre, gli studentitrovano risposte. Penso ai legami, ormai strutturali,con molte realtà produttive dove i nostri studentipossono trovare opportunità di esperienze lavorati-ve nel periodo dei previsti tirocini a cui, moltospesso, seguono contratti lavorativi. Ancora unavolta penso prevalentemente agli studenti di Inge-gneria. Ma devo esprimere un mio preciso convin-cimento maturato in questi venti anni di Roma Tre.I colleghi dei settori umanistici lamentano spessodi sentirsi esclusi da opportunità di accesso a pro-getti di ricerca così come a rapporti di collabora-zione con il mondo produttivo. Credo che si debbacambiare questo atteggiamento verso le opportuni-tà di accesso esistenti: in alcuni settori come quellodei beni culturali ciò già avviene con successo. Leopportunità ci sono per tutti i settori sia a livelloregionale, nazionale e internazionale come previstoanche dai bandi della Unione Europea.

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Prof. Botta, lei è un architetto di fama interna-zionale: ha realizzato opere importanti come ilMoMa di San Francisco, il Mart di Rovereto, laBiblioteca delle scienze dell’università Tsinghua,la Chiesa di Seriate, solo per citarne alcune, masoprattutto ha fatto della memoria il mandatoessenziale della sua creatività, ci spiega perché?L’architettura è una forma espressiva che parla delpresente. Il presente contempla la storia e la memo-ria del passato che hanno via via modellato lo spa-zio di vita dell’uomo.

Nella sua architettura la luce è un elemento es-senziale, partecipa alla definizione dei volumi.Eppure ho la sensazione che ci sia dell’altro: mipiacerebbe che lei ci raccontasse quella notazio-ne in più che riconosce alla luce.La luce è la vera generatrice dello spazio. Senza lu-ce non vi è percezione dello spazio. Partendo daquesta considerazione è evidente come il fatto ar-chitettonico si modella attraverso i materiali e legeometrie che sottolineano il trascorrere della lucelungo il quotidiano ciclo solare.

Mi ha molto colpita leggere che nella sua Acca-demia, si può essere ammessi anche senza esserein possesso di titoli scolastici consueti, ma dandoprova di formazione ed esperienze significativenei diversi ambiti applicativi dell’architettura.Il che pur essendo una sintesi eccellente di unavisione unitaria dei saperi pratici con quelli in-tellettuali, al tempo stesso è purtroppo rara espesso disconosciuta. Cosa l’ha portata a farne

un carattere denotativo della sua scuola?L’ammissione all’Accademia è subordinata al con-seguimento della maturità liceale ma viene conces-sa l’iscrizione, su presentazione di un “dossier”, neicasi in cui il candidato dimostri una particolare atti-tudine verso la disciplina. Nella mobilità che carat-terizza la vita degli studenti di oggi mi sembra chequesta apertura sia ragionevole.

La figura dell’architetto è fin dalle sue originiuna figura poliedrica: è al tempo stesso un tecni-co, un matematico e se vogliamo un poeta checon maestria e competenza applica le leggi dellafisica per dar forma a nuove prospettive di rela-zione. È per questo che nella sua scuola si inse-gna anche filosofia? È la via per un nuovo uma-nesimo?Siamo convinti che per rispondere alla complessitàe alla rapidità delle trasformazioni in atto, per gliarchitetti sia importante una formazione umanisticapiuttosto che una unicamente tecnica.Vorremmo offrire un curriculum in grado di eviden-ziare i problemi della disciplina piuttosto che le so-luzioni. Una scuola dove gli aspetti umanistici ri-sultano strutturali rispetto al processo progettuale.

Qual è la lezione più significativa che ha impara-to nella vita?Lavorare, lavorare, lavorare!

Viviamo in un’epoca sovrastata dalla tecnica,che con i suoi mezzi ci dà l’illusione del dono del-l’ubiquità e la presunzione di poter conoscere il

Solo la bellezza potrà salvare il mondoIntervista a Mario Bottadi Alessandra Ciarletti

Mario Botta nasce a Mendrisio, nel Canton Ticino nel 1943. Dopoun periodo d’apprendistato presso lo studio degli architetti Carlonie Camenisch a Lugano, frequenta il liceo artistico di Milano e pro-segue i suoi studi all’Istituto Universitario d’Architettura di Vene-zia, dove si laurea nel 1969 con i relatori Carlo Scarpa e GiuseppeMazzariol. Durante il periodo trascorso a Venezia, ha occasione diincontrare e lavorare per Le Corbusier e Louis I. Kahn.La sua attività professionale inizia nel 1970 a Lugano. Da sem-pre impegnato in un’intensa attività didattica, nel corso degli ul-timi anni si è attivato come ideatore e fondatore dell’Accademiadi architettura di Mendrisio. Il suo lavoro è stato premiato conimportanti riconoscimenti internazionali tra i quali il MeritAward for Excellence in Design by the AIA per il museo d’artemoderna a San Francisco, l’IAA Annual Prix 2005, InternationalAcademy of Architecture di Sofia per la torre Kyobo a Seul,l’International Architecture Award del Chicago Athenaeum Mu-seum of Architecture and Design e lo European Union Prize forCultural Heritage Europa Nostra per la ristrutturazione del Tea-tro La Scala di Milano.

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Mario Botta. Foto di Beat Pfändler©

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mondo senza mai affacciarci dalla finestra. Dettoin altre parole si fa molta architettura d’interni esempre meno interventi dedicati alla collettività.Eppure la storia ci insegna che è proprio dalrapporto fisico con lo spazio che l’uomo sviluppail proprio universo etico ed estetico di riferimen-to. Quali sono oggi le qualità fondamentali di unarchitetto?L’architetto è sempre chiamato ad interpretare lastoria, le aspirazioni, le speranze, talvolta perfino leillusioni del proprio tempo.

Secondo lei nella nostra società c’è ancora spazioper la bellezza?Nutro la convinzione che, come diceva Dostoevskij,«solo la bellezza potrà salvare il mondo».

MART museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Ro-vereto (1988/1992-2002). Fotografia Pino Musi©

Area ex-Appiani, Treviso, Italia (1990-2012). otografia Enrico Cano©

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Chiesa del Santo Volto, Torino, Italia (2001-2006). FotografiaEnrico Cano©

Cappella Granato, Zillertal, Austria (2011-2013). FotografiaEnrico Cano©

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La Scuola di Barbiana fu un’esperienza di insegna-mento avviata negli anni Cinquanta, in provincia diFirenze, da don Lorenzo Milani. La scuola era rivol-ta a giovani con difficoltà economiche o di altro ge-

nere, e non mancò di suscitare, presto, critiche natein seno all’ambiente cattolico e a quello laico. DonMilani rispose alle critiche scrivendo – assieme aisuoi ragazzi – la celebre Lettera a una professoressa.

Il 26 giugno 2012 la Facoltà di Lettere e Filosofiadell’Università Roma Tre ha organizzato e co-pro-mosso con il MIUR un convegno dal titolo «Salirea Barbiana: 45 anni dopo». Era stato pensato so-prattutto come incontro di alcune realtà scolasti-che, universitarie, territoriali (anche con disagiosociale), con Adele Corradi, quell’insegnante cui ilprimo arrivo a Barbiana, il 29 settembre del 1963,aveva cambiato tanto la vita da convincerla istinti-vamente a restar lì per anni, diventando dellaScuola una colonna e restandovi anche oltre lamorte di don Milani, avvenuta nel 1967.Nel febbraio precedente al convegno Adele Corradiha pubblicato il suo Non so se don Lorenzo (Feltri-nelli), diario ondivago – degli anni a Barbiana, dei“metodi” scolastici, della nascita della Lettera auna professoressa, che non si riferiva a lei, ma a lei

era stata dedicata – memoir a tessere, a frammenti,senza la pretesa della ritrattistica, ma anzi con ladelicatezza, il riserbo che contraddistinguono Cor-radi: «Si parla di lui» ha scritto riferendosi a don

Milani, «ma non se neracconta la storia. Chila volesse conosceredovrà rivolgersi altro-ve».

Abbiamo voluto in-contrare di nuovo Ade-le Corradi, interrogarlaancora sul passato enon solo, tra Barbianae “dopo Barbiana”.

Cos’è l’educazioneper Adele Corradi?Vorrei abolire questadomanda come vorreiabolire ogni forma dieducazione.

Cosa aveva di specia-le l’esperienza diBarbiana, cosa la cat-turò quando arrivò lìla prima volta?Mi riesce difficile se-parare i ricordi del pri-mo giorno da quellidei giorni successivi.Ricordo bene una car-

tina dell’Africa dove i Paesi che avevano ottenutol’indipendenza erano stati evidenziati in rosso, contonalità più scure quelli che l’avevano ottenuta perprimi, via via più chiare quanto più recenti eranole date.Nella mia scuola (era una scuola pubblica) si pen-sava di insegnare facendo lezioni frontali e interro-gazioni. Per dire ai miei scolari quel che dicevaquella cartina avrei dovuto costringerli ad ascolta-re più di una lezione frontale annoiandoli a mortesenza ottenere nessun risultato. Per memorizzareinfatti (era questo lo scopo che si voleva raggiun-gere) quel che io avrei detto sull’indipendenza deipaesi africani i ragazzi avrebbero dovuto impe-gnarsi a casa per un bel po’ di tempo con la consa-pevolezza sottintesa che, entro non più di un me-setto, avrebbero dimenticato ogni cosa.Con un’occhiata a quella cartina si capiva invece esi memorizzava tutto per sempre e il ragazzo o iragazzi che avevano raccolto le informazioni ne-cessarie e l’avevano fatta non si erano certamenteannoiati neanche un pochino.

«A chiunque abbia fatto la quinta elementare»Intervista ad Adele Corradidi Michela Monferrini

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Adele Corradi è stata insegnante a fianco di don Milani negli anni più difficili e avvincenti della Scuo-la di Barbiana. Ha seguito i suoi ragazzi e l’intero lavoro di redazione collettiva della Lettera a unaprofessoressa. Feltrinelli ha pubblicato Non so se don Lorenzo (2012).

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Ci sono ancora degli errori di giudizio legati al-la Scuola di Barbiana o crede che la filosofiadella Scuola e la figura di don Milani siano statecomprese?Se si facesse un bilancio ho il dubbio che si scopri-rebbe che la scuola e la figura di don Milani sonostate più spesso fraintese che intese.Non parlo del fraintendimento di tutti quelli chehanno giudicato e giudicano don Milani così rivolu-zionario, così “magico” da esser responsabile dellatrasformazione della scuola italiana da buona cheera prima di lui in una scuola senz’altro cattiva. Misembra un fraintendimento così grossolano che nonmerita che ci si perda tempo a contraddirlo.Che le idee di un maestro notoriamente esigentissi-mo e severo, inventore di una scuola nella qualeragazzi dagli undici ai quindici anni studiavanoastronomia e genetica, abbiano generato una scuo-la permissiva e cialtrona è ovviamente un’ipotesiche non sta in piedi.I fraintendimenti più gravi, secondo me, sonoquelli accompagnati dall’ammirazione.Quasi mai vengono messi in luce perché gli eloginon insospettiscono e così chi non conosce donMilani li prende per buoni.I primi a fraintendere furono gli studenti del ‘68.La critica alla scuola partita da Barbiana fu sfrut-tata per reclamare il “6 politico”. Le critiche a Pie-rino mosse dai ragazzi di Barbiana passarono sulleteste dei Pierini senza neppure sfiorarle. Cadderonel vuoto e nessuno le raccolse.Anche più gravi mi sembrano i fraintendimenti cari

alle gerarchie ecclesiastiche e ai cattolici di strettaosservanza. In questi ambienti si ama esaltare donMilani come prete obbedientissimo alla sua Chiesaperché don Milani si vantava di esserlo per difen-

dersi dalle critiche. Da morto occorre, come ho det-to, difenderlo soprattutto dagli elogi se si vuole ca-pire il suo pensiero, il suo operato e la sua storia.Ascoltando le gerarchie ecclesiastiche e i cattolicidi stretta osservanza non si riesce infatti a capire,per fare un esempio dei più banali, come mai unprete povero, che non guardava le donne perchéera addirittura misogino (lo dicono in tanti!), devo-to e obbediente, sia stato cacciato a trent’anni inuna parrocchia senza acqua, senza luce, senza tele-

Lezione sotto il pergolato, 1960, Ammannati, Archivio FDLM

Che le idee di un maestronotoriamente esigentissimo e severo,inventore di una scuola nella qualeragazzi dagli undici ai quindici annistudiavano astronomia e genetica,abbiano generato una scuola

permissiva e cialtrona è ovviamenteun’ipotesi che non sta in piedi.I fraintendimenti più gravi,

secondo me, sono quelli accompagnatidall’ammirazione

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fono e perfino senza strada. Per portare i suoi librilassù don Milani dovette infatti servirsi di un carrotrainato da buoi e senza ruote perché nessun veico-lo con le ruote sarebbe potuto arrivare alla casaparrocchiale. Ho sentito un giorno il segretario del

cardinale Florit dire che in questo fatto non c’eraniente di straordinario perché a tutti i preti giovanipoteva capitare di essere destinati a una parrocchiascomodissima se i parrocchiani avevano bisognodi un prete. Non ricordava, il segretario del Cardi-nale, che a Barbiana i parrocchiani erano diventaticosì pochi che era stato deciso che nessun pretepoteva essere sprecato per una parrocchia così.Sembrò poi adatto un prete santo, colto e intelli-gente che aveva saputo raccogliere intorno a sé tut-ti i giovani del paese dove era stato viceparroco.

L’approccio educativo e formativo di Barbianasarebbe adatto a una scuola sempre più multi-culturale come quella attuale?Dicendo che l’approccio educativo e formativo diBarbiana sarebbe adatto a una scuola multicultura-le si direbbe ben poco. La scuola di Barbiana eradi fatto una scuola multiculturale.Ho ascoltato a Barbiana due anarchici raccontare airagazzi la loro vita. Per me, che conoscevo gli anar-chici solo per sentito dire, ed era un dire a vanvera,furono una scoperta. Erano interessantissimi. E sefacessi l’elenco delle persone interessanti che hoascoltato parlare ai ragazzi lassù ci si troverebbe, inquell’elenco, credenti e non credenti, cattolici e

protestanti, uomi-ni politici e con-tadini, un disce-polo di Gandhi,un testimone diGeova e un pretecattolico cinese.Un giorno, men-tre si facevascuola, arrivò ungiovane keniota.Ci disse che loaveva indirizzatoa Barbiana unamico che donLorenzo conosce-va bene. Aveva lavaligia e si capìche aveva inten-zione di fermarsi.

Quando se ne andò scrisse che dormendo a Barbia-na gli era sembrato di dormire nella capanna delvillaggio dove viveva la sua famiglia. Si chiamavaDaniele. Lo ricordo impegnato a insegnar qualcosaa Marcello, il più piccino. I ragazzi più grandi sta-vano finendo di scrivere la Lettera a una professo-ressa. «Abbiamo fatto centro!» mi disse un giornodon Lorenzo, «Abbiamo fatto centro! La nostra Let-tera piace anche a Daniele!».È uscito dunque da quella scuola anche un libromulticulturale. Ho conosciuto un frate francescanoche lo leggeva ai Guarany.

La rete e i social network sarebbero uno stru-mento utile per riportare a scuola la metodolo-gia della scrittura collettiva sperimentata a Bar-biana?Ho fatto più volte, con i miei scolari, scrittura col-lettiva. L’ho fatta anche in una scuola in Spagnabenché conoscessi pochissimo lo spagnolo. A metoccava soprattutto il compito di dare la parola achi voleva parlare. E nessuno stava zitto. Prima o

poi parlano tutti. Bravi e ciuchi, timidi e sfrontati.È come dirigere un’ orchestra. Non mi riesce im-maginare un’ orchestra sparsa in rete.Quando facevo scuola a tempo pieno i ragazzi sce-glievano di fare scrittura collettiva nel pomeriggioperché le ore del pomeriggio erano le più faticosema con la scrittura collettiva passavano velocissime.In certi momenti, quando si cerca la parola più giu-sta per dire quello che si ha in testa, o la correzio-ne migliore per una frase che non ci contenta, latensione si tocca con mano. «Mi fuma la testa» midisse una volta una bambina.Mi è capitato di sentire il più bravo dire entusiasta:«È vero! È così!» per un suggerimento del ragazzopiù sprovveduto. Sono momenti magici.Non insegna solo a scrivere la scrittura collettiva.Insegna a discutere, insegna ad ascoltare attenta-mente e a riflettere su ogni proposta, su ogni dubbio.Non so dire se tutto questo può succedere in rete. Ioho novant’anni.

* Si ringraziano Adele Corradi per la disponibilità e genti-lezza estreme e Raimondo Michetti (Dipartimento di Studiumanistici, Università Roma Tre) per la collaborazione.

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Anche più gravi mi sembranoi fraintendimenti cari alle gerarchieecclesiastiche e ai cattolici di strettaosservanza. In questi ambienti si amaesaltare don Milani come preteobbedientissimo alla sua Chiesaperché don Milani si vantava

di esserlo per difendersi dalle critiche.Da morto occorre, come ho detto,difenderlo soprattutto dagli elogise si vuole capire il suo pensiero,il suo operato e la sua storia

I primi a fraintendere furonogli studenti del ‘68. La criticaalla scuola partita da Barbianafu sfruttata per reclamareil “6 politico”. Le critichea Pierino mosse dai ragazzi

di Barbiana passarono sulle testedei Pierini senza neppure sfiorarle.

Caddero nel vuoto e nessuno le raccolse

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Direttore lei dal 2011 dirige Rai educational, ilcanale che negli anni ha incarnato più degli altril’impegno formativo che la buona televisione in-dubbiamente svolge. Quando lei pensa alla tele-visione e pensa alla formazione, quali sono gliaspetti fondamentali che non debbono veniremeno?La RAI non è semplicemente un’azienda impegna-ta nel broadcasting televisivo, ma è anche – e direiin primo luogo – l’azienda concessionaria del ser-vizio pubblico radiotelevisivo. Questo significache una componente importante del nostro lavoro èe deve essere dedicata a produrre contenuti “di ser-vizio”, che rispondano a bisogni effettivi del Pae-se. E credo che il bisogno di cultura e di formazio-ne – e di una formazione di qualità – sia uno deibisogni più importanti del paese. Un bisogno il cuirilievo è ancor maggiore in un passaggio delicato edifficile come quello che stiamo affrontando, incui innovazioni radicali nel mondo del lavoro edella comunicazione si associano a una crisi eco-nomica di larga portata, dalla quale non è affattosemplice uscire. In questa situazione, la formazio-ne (intesa anche come long life learning e forma-zione informale) e la cultura rappresentano insie-me bisogni diffusi e risorse essenziali. RAI Educa-tional è lo strumento principale – anche se non l’u-nico – attraverso il quale la RAI cerca di risponde-re, e di rispondere al meglio, a questi bisogni. Maattenzione: lavorare nel campo della cultura e dellaformazione non significa produrre contenuti noiosio di nicchia. Al contrario, significa lavorare sullaqualità, sull’innovazione (e dunque su una comuni-

cazione non solo televisiva mafortemente crossmediale), sullacapacità di affascinare e dunquedi conquistare e conservare l’at-tenzione del pubblico (quello cheoggi è di moda chiamare storytel-ling, e che in italiano potremmorendere con l’espressione “forzanarrativa”), nonché su un fortecoordinamento con le altre istitu-zioni formative e con le maggioriistituzioni culturali del paese.Credo di poter dire che questiquattro aspetti – qualità, innova-zione, storytelling, collaborazio-ne – siano i più importanti nel va-lutare l’efficacia e l’importanzadel contributo che RAI Educatio-nal può dare alla crescita cultura-le e civile del paese.

Di recente Rai Scuola, il canalededicato al mondo dell’Univer-sità, della scuola e della ricercaha lanciato un nuovo program-

ma RAI Edu Scienza; ce ne può parlare?Più che di un singolo programma, si tratta di un’a-zione coordinata per rafforzare l’attenzione rivolta aun campo di centrale importanza: quello della cul-tura e della comunicazione scientifica. Si tratta diun settore nel quale il nostro Paese può vantare ec-cellenze internazionali di altissimo livello, ma nelquale purtroppo investiamo ancora troppo poco, eche è ancora troppo poco noto al grande pubblico.Si parla spesso di “analfabetismo” scientifico e tec-nologico: il termine è forse troppo estremo, ma se-gnala senz’altro un bisogno formativo specifico,che è importante contribuire a colmare. RAI Educa-tional si è sempre occupata di scienza, ma abbiamodeciso di cambiare passo: l’attenzione verso il mon-do della ricerca scientifica e tecnologica deve esse-re sistematica, finalizzata, basata su un progetto co-municativo di larga portata. Un progetto che, anchein questo caso, non coinvolge solo la televisione maanche la rete e l’insieme dei media digitali. È quelloche stiamo cercando di fare in questi mesi.

In base alla sua esperienza, cosa chiedono mag-giormente oggi i giovani, i cosiddetti nativi digi-tali, alla televisione?Non c’è dubbio che per le giovani generazioni ilruolo della televisione sia molto diverso da quellodel passato. Possiamo dire, certo con il rischio diqualche semplificazione, che oggi la televisionenon è più il medium principale e privilegiato: que-sto ruolo è sempre più spesso affidato alla rete. Mala televisione non scompare: non solo perché – purin un panorama mediatico più ricco – conserva co-

Rai Educational e la formazione continuaIntervista a Silvia Calandrellidi Alessandra Ciarletti

Silvia Calandrelli, direttore di Rai Educational, Rai Storia e Rai Scuola

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munque la sua importanza e la sua pervasività, maanche (e soprattutto) perché la televisione è ormaiessa stessa in rete, parte dell’universo comunicati-vo digitale. Dal broadcasting tradizionale si passacosì sempre più spesso ai contenuti on demand, edal programma televisivo considerato come unitàautonoma e autosufficiente si passa a una televisio-ne fortemente contaminata dai nuovi media, pre-sente sui social network: una televisione che diven-ta social TV e connected TV. Di questa vera e pro-pria rivoluzione, RAI Educational è e vuole esserenon solo parte, ma protagonista. E credo che cistiamo riuscendo: per dare solo qualche dato, i no-stri canali televisivi sono oggi di gran lunga quellicon maggior percentuale di utenza via web di tuttala programmazione RAI. La nostra presenza su so-cial network è decuplicata in due anni. E in aziendasiamo stati i primi a sperimentare strumenti come imagazine multimediali per tablet o gli e-book mul-timediali.

Numerosi sono i programmi culturali di RaiEdu inseriti nei palinsesti dei tre canali Rai. Duesono i canali digitali, Rai Scuola e Rai Storia,entrambi gratuiti. Perché proprio la storia e lascienza?Il canale RAI Storia risponde a un interesse diffuso– quello verso la storia del nostro paese – e in uncerto senso corrisponde a una funzione fondamen-tale del medium televisivo, perché la storia è primadi tutto narrazione fondata su fatti, documenti, in-terpretazioni. Nella storia, la dimensione narrativaè dunque essenziale. Ma il canale RAI Storia non èe non vuole essere solo un canale che racconta ilpassato: la storia rappresenta la più importante ri-sorsa che abbiamo a disposizione nell’interpretareil presente e progettare il futuro. E – pur utilizzan-do l’immensa ricchezza del materiale di repertoriodelle teche RAI – RAI Storia non è e non vuole es-

sere un canale “nostalgia”: è un canale impegnatonella rivisitazione del passato sempre in una pro-spettiva di riflessione, proiettata sulla nostra socie-tà e sulla sua evoluzione nel tempo. Quanto a RAIScuola, non si limita naturalmente al campo della

comunicazione scientifica ma cerca di individuareed esplorare l’insieme dei principali bisogni forma-tivi e culturali del paese, offrendo strumenti e con-tenuti che aiutino sia il sistema della formazioneformale (scuola e università) sia quello della for-mazione informale. Non è solo un canale per lescuole, anche se certo offre molti contenuti anche ainsegnanti, studenti e famiglie. Cerca ad esempiodi rispondere anche a bisogni formativi e culturalinuovi legati all’idea di cittadinanza consapevole.La stessa attenzione verso il mondo della ricercascientifica e tecnologica è una conseguenza di que-sta impostazione. Anche per questo stiamo riflet-tendo sulla possibilità di cambiare il nome e in par-te la fisionomia del canale, collegandolo ancor di

Zettel, di Muarizio Ferraris

Si parla spesso di “analfabetismo”scientifico e tecnologico: il termineè forse troppo estremo, ma segnalasenz’altro un bisogno formativo

specifico, che è importante contribuirea colmare. RAI Educational si è sempreoccupata di scienza, ma abbiamo decisodi cambiare passo: l’attenzione versoil mondo della ricerca scientifica

e tecnologica deve essere sistematica,finalizzata, basata su un progettocomunicativo di larga portata

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più all’idea di un apprendimento attivo e coinvol-gente, rivolto a tutti, e non solo a una formazione“scolastica” nel senso tradizionale del termine. Lapresenza sui canali generalisti si affianca a quellasu RAI Scuola e RAI Storia, e propone non solo icontenuti di maggior impegno e rilievo, ma anchecontenuti che possano fornire un’occasione di in-contro con il nostro lavoro, in televisione e in rete,portando gli spettatori a scoprire l’insieme dellaproduzione di RAI Educational.

Qual è secondo lei il programma del passato cheha meglio declinato il mandato culturale dellatelevisione pubblica? E quello di oggi?Beh, per quanto riguarda il passato è difficile nonfar riferimento a quello che è stato senz’altro ilprogramma simbolo dell’impegno della RAI nelcampo dell’educazione e della formazione: Non èmai troppo tardi, il programma del maestro Manzi.È un programma lontano nel tempo, ma la suaispirazione è ancora con noi: pensiamo ad esempioalla necessità di alfabetizzazione nel campo deinuovi media. Il mondo anglosassone parla a que-sto proposito di “information litteracy”, alfabetiz-zazione informatica: un settore che richiede ungrande impegno sia per sfruttare al meglio le pos-sibilità offerte dalle nuove tecnologie digitali, siaper evitare svantaggi e gap formativi, e colmarequelli che indubbiamente esistono. Quanto ai pro-grammi di oggi, è un po’ come chiedermi di sce-gliere fra diversi figli: ovviamente sono molto le-gata a tutti, e i progetti nuovi sono sempre quelliche in ogni momento impegnanodi più. Per questo, se dovessi ri-spondere oggi parlerei forse pro-prio del lavoro che stiamo facen-do nel campo delle scienze e del-la divulgazione scientifica. Masono molto legata anche al pro-getto Il tempo e la storia, uno deipiù impegnativi perché prevedetrasmissioni quotidiane e il lavo-ro – che va organizzato e gestito– di un comitato di storici fra ipiù noti e qualificati del nostropaese (e non solo, dato che ab-biamo anche alcuni membri nonitaliani). Per formazione, venen-do da studi filosofici, sono poimolto legata al nostro program-ma filosofico, Zettel, di MaurizioFerraris, che credo abbia dimo-strato – anche con il notevolesuccesso avuto in rete e sui socialnetwork – che si può parlare difilosofia in maniera affascinantee comprensibile, senza rinunciarealla qualità.

Quali sono le linee guida dei pro-getti per il futuro?Intendiamo rafforzare ancor dipiù l’attenzione verso la crossme-dialità, proponendo progetti chesiano sempre a cavallo fra televi-sione, mondo della rete e social

media. Lo faremo ad esempio in uno fra i progettipiù impegnativi che ci aspettano nel prossimo futu-ro, quello relativo alle celebrazioni della PrimaGuerra Mondiale. Un anniversario che affrontere-mo, in stretto collegamento con le altre televisionieuropee, attraverso una serie di appuntamenti quo-tidiani che permetteranno, giorno per giorno, di ri-percorrere i conflitto e le sue tappe, ma anche di ri-flettere a fondo sulle sue cause e sulle sue conse-guenze. Sarà l’occasione per sperimentare nuovi

format, allargare ad esempio la nostra produzionenel campo degli e-book multimediali, affacciarcispero in un campo completamente nuovo, quellodella cosiddetta augmented reality, la realtà aumen-tata. E naturalmente faremo lo stesso anche in altrisettori: abbiamo ad esempio altre novità in cantiereproprio nel campo della divulgazione scientifica edei nuovi media.

Il tempo e la storia

Non c’è dubbio che per le giovanigenerazioni il ruolo della televisionesia molto diverso da quello del passato.Possiamo dire, certo con il rischiodi qualche semplificazione, che oggila televisione non è più il medium

principale e privilegiato: questo ruoloè sempre più spesso affidato alla rete

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Roma Tre e il Teatro Palladium: una storia che hacompiuto dieci anni. Si potrebbe dire che questaesperienza rappresenta un po’ la cifra di un inter-vento fecondo dell’Ateneo nel contesto cittadino?Sì certamente. L’intervento di Roma Tre nella gestionee poi nella proprietà del Palladium ha segnato senzadubbio una virtuosa controtendenza nel destino di que-sto luogo rispetto a quello di altri analoghi edifici rea-lizzati, come il Palladium, negli anni Venti o nel dopo-guerra, che sono stati successivamente alterati o irri-mediabilmente compromessi da inappropriate trasfor-mazioni, adeguamenti di diversa natura, disinvolte ri-strutturazioni.Roma Tre ha, al contrario, promosso una conservazio-ne e valorizzazione della struttura originaria attraversoun restauro accorto e un piano articolato di eventi cul-turali rivolti alla città, al quartiere e alla comunità de-gli studenti e dei docenti. Il Palladium è riuscito così,tramite il contributo e il prestigio della FondazioneRomaEuropa e la preziosa collaborazione con il Co-mune, la Provincia di Roma e la Regione Lazio, a in-serirsi in questi anni in un circuito nazionale e interna-zionale di altissimo livello culturale.Essere riusciti a riscattare il Palladium dal degrado eda radicali trasformazioni funzionali dà il segno di co-me questa esperienza sia stata l’occasione per riquali-ficare una struttura pubblica attraverso l’adozione didifferenti soluzioni architettoniche e gestionali, capacidi cogliere le potenzialità di questo spazio.Così come in altre esperienze di recupero del patrimo-nio edilizio promosse dall’Ateneo (solo per citare le ul-time, l’ex Vasca Navale e l’ex Mattatoio, attuali sedidei Dipartimenti di Ingegneria e di Architettura), ancheper il Palladium sono state elaborate proposte proget-tuali riconoscibili a livello architettonico e fruibili a li-vello pubblico, capaci di utilizzare le strutture esistentivalorizzandone le specificità in rapporto alle nuovefunzioni. Nel caso del Palladium alla tutela e al recupe-ro degli edifici si è accompagnato un programma di in-tervento ampio e articolato che ha portato questi spazia essere nuovamente protagonisti della vita della città.Il Palladium è diventato, in qualche modo, una fine-stra dell’Ateneo verso la città (e viceversa), uno deglispazi in cui l’università esercita, nel senso più ampio,la propria funzione culturale e formativa, non solonell’ambito della comunità accade-mica ma verso una comunità piùampia, che è quella cittadina…Il rapporto con la città è da sempre tragli impegni più sentiti di Roma Treche ha investito sin dagli esordi, oltreche sulla didattica e sulla ricerca, sustrutture in qualche modo strategicheper lo sviluppo urbanistico e culturaledella città. Il Palladium è al centro diquesta politica e la sua programmazio-ne è stata sempre rivolta alla speri-mentazione con l’obiettivo di sostene-re e rendere concrete le relazioni tra

studenti e cittadini su temi culturalmente qualificati einnovativi. Il Teatro, con sempre maggiore continuità enon solo nei tempi delle rappresentazioni serali, saràimpegnato a proporre spettacoli di qualità, dibattitiscientifici, incontri con personalità, scambi di esperien-ze e a sostenere la formazione e la produzione teatrale,cinematografica e musicale, con particolare attenzionealle iniziative dei più giovani. Questa prospettiva inten-de rafforzare l’impegno culturale e sociale della comu-nità accademica di Roma Tre, rivolgendosi alla promo-zione di quelle opportunità educative e didattiche chesono la missione primaria dell’università.La crisi finanziaria, che ha imposto a molte Ammini-strazioni Pubbliche di comprimere la loro offerta diservizi, non riguarderà il Palladium, che rimane al cen-tro del nostro impegno formativo. Nei programmi diRoma Tre prevale infatti la convinzione che le “Sta-gioni del Palladium” debbano essere sempre più pienee che non si debba smarrire il livello qualitativo garan-tito in questi dieci anni. Il nostro Ateneo è determinatosu questo obiettivo e, oltre a confermare risorse impor-tanti, è impegnato a cercare contributi e sostegni ester-ni. È in corso una convenzione con la Regione Lazioper la costituzione di una scuola per il teatro.Qual è, dal punto di vista più specificamente didat-tico e formativo, la valenza di una risorsa come ilPalladium per Roma Tre?La disponibilità, anche a fini didattici, di uno strumen-to come il Teatro Palladium garantisce senza dubbioagli studenti di Roma Tre il conseguimento di specifi-che competenze professionali, irraggiungibili in altricontesti universitari, in particolare per quei settori for-mativi che si legano più direttamente alle disciplinedelle arti, della musica e dello spettacolo, settori neiquali l’Ateneo può vantare un’ampia e consolidata at-tività didattica e di ricerca e che rappresentano unarealtà di grande importanza nell’ambito di un territo-rio, come quello romano, che ospita così numeroseagenzie produttive nei settori dello spettacolo, del ci-nema e della comunicazione.Il Palladium rappresenta una straordinaria opportunitàper gli studenti delle discipline dello spettacolo, chepossono entrare in contatto con il vivo svolgersi del-l’attività di un teatro, assistere a prove aperte, vedereattori e musicisti al lavoro, confrontarsi con la ricerca

teatrale e musicale, assistere agli spetta-coli ottenendo così, in prospettiva, unnotevolissimo arricchimento del pro-prio percorso di apprendimento. In par-ticolar modo per tutte quelle attività ditaglio non esclusivamente teorico, mapiù marcatamente pratico-produttivo,che mirano a trasmettere anche le com-petenze “artigianali”, legate più diretta-mente al saper fare, il Palladium costi-tuisce un valore aggiunto ai percorsiformativi di Roma Tre.

www.uniroma3.it/page.php?page=palladium

PalladiumIl Teatro Palladium e Roma Tre: intervista al Rettore Mario Panizzaa cura di Federica Martellini

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“Torno Subito”, programma promosso dall’Asses-sorato alla Formazione, ricerca, scuola, universitàdella Regione Lazio e finanziato con risorse residuedel Fondo sociale europeo del POR Lazio 2007-2013, si è rivelato un grande successo.Il programma, alla prima edizione, gestito da Lazio-disu, ha impegnato 5.400.000 euro per finanziare afondo perduto progetti di formazione formale e in-formale e/o di work experience, per studenti univer-sitari o laureati, di età compresa tra i 18 e i 35 anni,residenti e/o domiciliati nel Lazio da almeno 6 me-si, ai quali viene data l’opportunità di realizzareun’esperienza di mobilità nazionale ed internazio-nale, della durata massima di 12 mesi, finalizzata alreimpiego delle competenze acquisite fuori regioneall’interno del territorio regionale, presso aziende,associazioni ed enti pubblici.La risposta da parte dei giovani è stata importante.Circa 800 progetti presentati, di cui circa 500 ver-ranno finanziati e così, a partire dal prossimo set-tembre, i ragazzi potranno partire per le destinazio-ni prescelte.“Torno Subito” ha l’obiettivo di sostenere la crescitaindividuale dei giovani favorendo percorsi di auto-nomia e partecipazione, di incentivare l’acquisizionedi competenze e relazioni in ambito nazionale ed in-ternazionale ed il loro impiego nel contesto regiona-le, di investire le nuove competenze e valorizzare lerisorse esistenti per lo sviluppo locale del Lazio.Il programma finanzia una borsa di lavoro (o di stu-dio) a copertura dei costi di vitto, alloggio e mobili-tà per il periodo di mobilità fuori regione (la cui en-tità varia a seconda della destinazione), l’eventualeacquisto di corsi di formazione, master, etc. fino adun massimo di 7.000 Euro, nonché per il periodo direimpiego delle competenze nel Lazio un’indennitàdi 400 euro mensili.Dando un po’ di numeri, lo staffdi assistenza tecnica di “TornoSubito”, operante presso gli ufficidi Laziodisu in Via De Lollis 22 aRoma, ha fornito a 545 ragazzi unservizio di assistenza tecnica per-sonalizzato ed ha erogato un ser-vizio informativo a circa 1300 ra-gazzi. Oltre 600 persone hannopartecipato all’evento di presenta-zione del Programma del 13 mar-zo 2014 e ben 80 enti e 300 gio-vani hanno partecipato a “A/R – IlBar Camp di Torno Subito” del 1aprile 2014. Lo staff del program-ma, al fine di promuovere l’inizia-tiva e coinvolgere le comunità lo-cali del Lazio, ha percorso oltre2000 kilometri nei 23 Eventi delTorno Subito Tour: Roma (CentroSperimentale di Cinematografia,

Municipi V, VII, Campus X di Tor Vergata, Universi-tà Roma Tre, Centro Culturale Tunisino) Rieti, Vi-terbo, Frosinone, Formia, Ostia, Maenza, Priverno,Cassino, Stimigliano, Guidonia Montecelio, PoggioMirteto, Civitavecchia, Frascati, Ladispoli, Paliano,Aprilia. Durante questi eventi, inoltre, si è fornitaassistenza tecnica a 393 ragazzi.Sono stati realizzati, infine, 72 incontri di presenta-zione del progetto con Comuni, Centri per l’impie-go, aziende del profit e del no profit, coinvolgendocirca 275 Enti, di cui 150 sono diventati partnerdell’iniziativa. Il sito www.tornosubito.laziodisu.ite la pagina facebook sono diventati strumenti infor-mativi importanti e luoghi di interazione continuacon i giovani interessati.“Torno Subito”, quindi, è un programma fortementeinnovativo e rappresenta la prima sperimentazioneconcreta avviata da una regione italiana di un “red-dito minimo al cittadino in formazione”; i ragazzi,infatti, non dovranno produrre nessuna rendiconta-zione delle spese sostenute (tranne che per l’acqui-sto eventuale di un corso di formazione) ma avran-no un reddito a disposizione per praticare l’autono-mia e la responsabilità.“Torno Subito” è’ un progetto in sperimentazione ein divenire. Questa prima edizione rappresenta unnumero zero su cui lavorare, aprirsi all’esterno, in-dividuando criticità e cose da correggere, cose buo-ne e meno buone, per progettare in modo semprepiù partecipato le prossime edizioni.Questo numero zero, inoltre, è anche l’occasione perraccontare le storie di andate e ritorno che si attive-ranno nei prossimi mesi, per confrontarsi con i ra-gazzi e con gli enti ospitanti per comprendere fino infondo il valore e le difficoltà di questa avventura. Si-curamente sarà un cammino, speriamo fruttuoso eutile per le giovani generazioni che abitano il Lazio.

Ultim’ora da LaziodisuTorno subito. Un fatto positivo per le giovani generazioni del Laziodi Carmelo Ursino

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Perché un Osservatorio di studi di genere tra lequattro principali università romane?Sarei tentata di rispondere: lo chiede l’Europa, enon sarebbe solo una battuta o una risposta evasivaperché con questa iniziativa recepiamo le indicazio-ni che provengono dall’Unione Europea, la qualeconsidera la promozione delle pari opportunità una

delle priorità dellapropria politica, darealizzare in ognicontesto e ci collo-chiamo sulla sciadi molte altre Uni-versità europee,per le quali si trattadi una prassi già datempo consolidata.

Come è nata que-sta idea e quali gliscopi?L’Osservatorio diStudi di genere, pa-rità e pari opportu-nità (GIO) è natonel 2009 ad operadelle delegate dei

Rettori alle pari opportunità delle Università RomaTre, La Sapienza, Tor Vergata e Roma Foro Italico,ed è stato recentemente rinnovato, con l’adesioneconvinta dei Rettori; l’obbiettivo principale consi-steva nel creare sinergie e proseguire un confronto apiù voci all’interno degli Atenei romani in relazioneagli studi e alle ricerche sulle problematiche di ge-nere; si voleva incentivare la riflessione e l’indaginesul pensiero femminile, sulla storia delle donne, sul-la presenza e rappresentanza femminile nella societàal fine di arricchire il dibattito in corso, organizzan-do incontri, seminari e convegni. Sottolineo con pia-cere che questo è stato il primo Osservatorio univer-sitario in Italia, al quale molti altri simili si sono ag-giunti, con nostra soddisfazione, perché si trattasempre di fecondare un ambito significativo dellanostra cultura universitaria.

Come vi ponete quindi nei confronti del sapereaccademico e delle “sue rigidità”?Innanzi tutto vorrei rilevare come in questi anni dicontinue trasformazioni dell’Università la presenzadell’Osservatorio può rappresentare un punto di rife-rimento importante non solo sulle tematiche attinen-ti le pari opportunità tra uomo e donna, ma altresìper focalizzare l’attenzione e la prassi all’effettivaparità tra persone, per combattere le discriminazionisociali e politiche, dal momento che ha fatto irruzio-ne il tema delle differenze di cultura, di etnia, di lin-gua e di religione. Quindi l’Osservatorio rappresenta

la risposta dell’Università alle sollecitazioni cheemergono nella realtà contemporanea. In secondoluogo, con esplicito richiamo alla trasversalità deglistudi di genere (a me piace affermare che essi sonoindisciplinati) l’Osservatorio realizza una collabora-zione interdisciplinare fra docenti ed esperti, di dif-ferenti discipline accademiche, articolando un con-fronto nelle diverse aree umanistiche e scientifiche,incrementando la costituzione di reti con associazio-ni, istituzioni, servizi pubblici e privati, finalizzateallo scambio e alla circolazione di informazioni e al-la progettazione di interventi comuni. Ne deriva ilcarattere di fecondo intreccio tra varie disciplinerealizzatosi nell’Osservatorio, che- ribadendo l’au-tonomia dei saperi- ha attuato e continuerà a propor-re una riflessione che eviti omologazioni, per giun-gere a una riformulazione del sapere dato. E l’Osser-vatorio si presenta quale laboratorio per rielaboraregli scopi e la funzione dell’alta formazione, inizian-do, quindi, una riflessione critica sul soggetto cono-scente, in particolare la donna e sul suo posto nelcontesto istituzionale contemporaneo.

Quali le iniziative?Sarebbe lungo rispondere, né del resto vorrei pro-porre un arido elenco, si trovano molte notizie sulnostro sito recentemente rinnovato grazie al contri-buto di Monica L’Erario, - l’indirizzo è:www.giobs.it -; vorrei tuttavia sottolineare comenelle nostre iniziative si sia cercato di tessere unasorta di tela di Penelope, volendo tuttavia osservarneil rovescio: se questa rappresenta in certo senso latradizione culturale in cui l’apporto femminile è as-sente, nascosto, misconosciuto o non riconosciutonella sua autorevolezza, esaminare la parte non visi-bile della tela sta a significare cogliere tanti fili in-garbugliati, anche molti nodi, ma scorgere altresìl’intreccio di fili diversi, segni e cifre di lavori incorso. Considerare il rovescio consente di apprezza-re un cantiere aperto, in cui si sono organizzati in-contri che spaziavano dalle tematiche economiche,lavoro, welfare femminili al sessismo e al poterediscriminatorio delle parole, per combattere gli ste-reotipi sulle donne nei media, dalla riflessione suDonne e scienza, alla filosofia interculturale conmolti eventi (la realizzazione di vari progetti europei“Tempus” in partenariato con Marocco Francia, re-lativi a Genere e cittadinanza fra le due rive del Me-diterraneo), e altresì molta attenzione si è prestataalla presenza delle donne nell’agorà politica, da noiesaminata da varie prospettive, non ultimo è statoaffrontato il tema della violenza contro le donne.

Dopo questo percorso quale il risultato?Possiamo con compiacimento affermare che questianni di vita dell’Osservatorio hanno rappresentatoun cammino di crescita di molte di noi ed anche

Non tutti sanno che...È stato rinnovato il protocollo dell’Osservatorio di studi di generetra le università romane: intervista a Francesca Brezzia cura della redazione

Francesca Brezzi

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Il Centro di ascolto psicologico di Roma TreAndrea, Lucia, Chiara e tanti altri studenti - ogni anno sempre più numerosi- arrivano alla Palazzina Rosa (così è chiamata familiarmente dagli studentidi Roma Tre la sede dove è collocato il Centro di Ascolto Psicologico) perchiedere un appuntamento.Nomi di finzione, ovviamente, perché la preoccupazione per la privacy è alcentro di tutto il lavoro degli psicoterapeuti che offrono colloqui di consul-tazione psicologica focalizzati alla risoluzione dei problemi che possononascere nell’incontro dei giovani con la vita universitaria. Più in generalel’équipe del Centro è disponibile all’ascolto di tutte le esperienze che fannoparte dell’arco di vita della generazione dei nostri studenti.Andrea arriva dicendo che non riesce più a studiare, ormai sono già sei me-si. Nel corso del colloquio emerge un suo stato d’animo di profondo avvili-mento rispetto al quale non riesce a reagire: una situazione che, prolungan-dosi, potrebbe configurare un rischio di inizio depressione.Avere la possibilità di ricorrere ad un Centro di ascolto psicologico consente ad Andrea, nel corso di quat-tro colloqui, una messa a fuoco delle vicende e delle percezioni che lo hanno indotto a nutrire dei dubbisulla validità della scelta del corso di studio fatta al momento dell’iscrizione. In virtù di questa nuova chia-rezza Andrea può ora riprendere in mano se stesso e le sue scelte.Sono già quattro mesi che Lucia soffre di crisi di panico: non sapeva a chi rivolgersi perché il suo medico dibase le aveva proposto una consultazione con uno psichiatra e lei non se la sentiva, covava nel fondo di sél’idea di poter essere malata se la soluzione doveva passare per una visita psichiatrica. L’aver scoperto l’esi-stenza del Centro le dà una possibilità diversa: è un luogo dedicato a persone come lei che non sono e non sisentono malate ma stanno attraversando un periodo difficile e hanno bisogno di un interlocutore che abbiadisponibilità e competenza nelle dinamiche di crisi della sua generazione. Qualcuno che sappia che alla suaetà Lucia non può più fare riferimento solo alla famiglia ma, nel contempo, non ha ancora acquisito l’espe-rienza necessaria a districarsi nell’offerta dei servizi sociali.La chat line, invece, si rivela particolarmente preziosa per poter entrare in contatto e, successivamente,aprire un dialogo e una consultazione psicologica soprattutto con gli studenti fuorisede i quali per motividi residenza o per mancanza di familiarità con l’ambiente hanno maggiori difficoltà a raggiungere il Cen-tro.Il sito web dedicato (http://host.uniroma3.it/ uffici/ascolto/) chiarisce tutte le modalità per entrare in con-tatto per prenotare un colloquio in modo che a ognuno venga assicurata puntualità e riservatezza dell’in-contro e contiene altresì un elenco dettagliato e aggiornato dei servizi di consultazione presenti a Roma enel Lazio.La sensibilità verso la dimensione della vita quotidiana degli studenti dentro l’università è stata d’altra par-te presente tra i docenti e i ricercatori fin dagli inizi della costituzione di Roma Tre testimoniata dal fattoche il Centro di ascolto psicologico (tra i primissimi in Italia) è nato pochi anni dopo la stessa nascita diRoma Tre sulla scia delle esperienze maturate da decenni negli Stati Uniti e diventate parte integrante diogni struttura universitaria d’oltreoceano già negli anni Quaranta e Cinquanta.Attualmente il Centro, oltre a collaborare con le attività dell’Ufficio orientamento, dell’Ufficio studenticon disabilità e gli altri servizi della Divisione politiche studenti, sta direzionando la propria ricerca versola progettazione di attività specificamente rivolte alla prevenzione dell’abbandono del percorso universita-rio degli studenti che hanno messo in discussione la scelta del corso di Laurea effettuato all’inizio: un pro-getto di ri-orientamento.

dell’Università. Guardando indietro siamo soddi-sfatte di aver dato vita a questa avventura, perché diun’avventura si tratta, con tutte le incognite, diffi-coltà, ma anche realizzazioni che un viaggio – più omeno avventuroso – comporta, avendo come busso-la unicamente la volontà di aprire spazi e luoghi asaperi, temi, contenuti e metodologie nuove, talvol-ta nate fuori dai circuiti consueti, ma necessaria-mente intrecciati con il pensiero nelle sue diversearticolazioni (umanistico, scientifico, economico).Ma si tratta di un pensiero da intendere quale sa-pienza incarnata, o meglio per ricordare HannahArendt, un pensiero appassionato, in cui pensare evivere si mostrano quale un prisma che unisce ra-gione e cuore, filosofia e storia, filosofia e politica.Tutte noi esercitiamo senz’altro il pensare e il com-prendere, ma cerchiamo una modalità espressiva

che concili in sé il rigore e la passione. Riteniamoche la riflessione teorica non sia mai puro eserciziospeculativo, ma adesione intensa del pensiero allavita, esigenza profonda dell’essere alla ricerca di ri-sposte vitali del quotidiano.E i nostri inquieti tempi richiedono forse un sovrap-più di attenzione e di risposte.Il Comitato scientificodell’Osservatorio: FrancescaBrezzi (delegata alle pari opportunità di Roma Tre)presidente; Marisa Ferrari Occhionero (delegata al-le pari opportunità e alle politiche di genere dellaSapienza Università di Roma); Elisabetta Stricklandsocia fondatrice, già delegata alle pari opportunitàdi Tor Vergata, vicepresidente del CUG); Lucia DeAnna (delegata alle pari opportunità Università Ro-ma Foro Italico); Laura Moschini, docente a RomaTre; Mariella Nocenzi, docente a La Sapienza.

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L’utopia dell’educazione• L’educazione è un mezzo prezioso e indispensa-bile che può consentire di raggiungere gli idealidi pace, libertà e giustizia sociale.

• L’educazione può svolgere un ruolo fondamenta-le nello sviluppo personale e sociale.

• L’educazione deve promuovere una forma piùprofonda ed armoniosa di sviluppo umano (ridu-cendo povertà, esclusione, ignoranza, oppressio-ne e guerra).

• L’educazione è un mezzo straordinario per lo svi-luppo personale e per la costruzione di rapportitra individui, gruppi e nazioni.

L’educazione e le giovani generazioni• L’educazione è anche un’espressione d’amoreper i bambini e i giovani, che dobbiamo sapereaccogliere nella società offrendo loro, senza alcu-na riserva, il posto che appartiene loro di diritto:un posto nel sistema educativo, ovviamente, maanche nella famiglia, nella comunità locale, enella nazione.

Le tensioni del XXI secolo• La tensione tra il globale e il locale• La tensione tra l’universale e l’individuale• La tensione tra tradizione e modernità• La tensione tra considerazioni a lungo termine ea breve termine

• La tensione tra il bisogno di competizione e lapreoccupazione dell’uguaglianza delle opportunità

• La tensione tra l’espressione straordinaria delleconoscenze e la capacità degli esseri umani di as-similarle

• La tensione tra spirituale e materiale

L’educazione tra crescita personalee sviluppo professionale• L’educazione si colloca al centro dello svilupposia della persona sia della comunità; il suo com-pito è quello di consentire a ciascuno di sviluppa-re pienamente i propri talenti e di realizzare leproprie potenzialità creative, compresa la respon-sabilità per la propria vita e il conseguimento deipropri fini personali.

Apprendere per tutta la vita• Imparare a vivere insieme• Imparare e conoscere• Imparare a fare• Imparare ad essere

Suggerimenti per il futuro• L’interdipendenza planetaria e la globalizzazionerappresentano dei fattori importanti nella vitacontemporanea. Essi richiedono una riflessioned’insieme, proietta ben oltre i campi dell’educa-zione e della cultura, sui ruoli e sulle strutturedelle organizzazioni internazionale.

• Il pericolo maggiore è che si apra un abisso trauna minoranza di individui capaci di trovare consuccesso la loro strada in questo nuovo mondoche si sta creando e la maggioranza cha ha lasensazione di trovarsi in balia degli eventi e dinon avere voce in capitolo nel futuro della socie-tà, insieme ai rischi di un regresso della democra-zia e del diffondersi della rivolta.

• Bisogna dirigere il mondo verso una maggiorecomprensione reciproca, una maggiore senso diresponsabilità e una maggiore solidarietà, attra-verso l’accettazione delle nostre differenze spiri-tuali e culturali. L’educazione, fornendo a tuttil’accesso al sapere, ha precisamente questo com-pito universale: aiutare gli uomini a capire ilmondo e a capire gli altri.

Dalla coesione socialealla partecipazione democratica • La politica educativa deve essere sufficientementediversificata e deve essere concepita in modo taleda non diventare un ulteriore fattore di esclusione.

• La socializzazione degli individui non deve esse-re in conflitto con lo sviluppo personale. Coniu-gare i pregi dell’integrazione con il rispetto deidiritti individuali.

• L’educazione da sola non basta, ma piò contri-buire ad incoraggiare il desiderio di vivere insie-me e favorire la coesione sociale.

• L’educazione all’esercizio consapevole e attivodei propri diritti e doveri di cittadino deve co-minciare dalla scuola.

• Per incrementare la partecipazione democratica ènecessario fornire punti di riferimento e aiuti perl’interpretazione, in modo da rinforzare le facoltàdi comprensione e di giudizio.

• È compito dell’educazione fornire a bambini edadulti le basi culturali che consentano loro, nei li-miti del possibile, di comprendere i cambiamentiche si verificano.

• I sistemi educativi devono rispondere alle molte-plici sfide della società dell’informazione, nellaprospettiva di un arricchimento continuo dei sa-peri e di un esercizio dei diritti e dei doveri delcittadino in maniera adeguata alle esigenze delnostro tempo.

Nell’educazione un tesoroJacques Delors. Estratto dal Rapporto all’UNESCOdella Commissione internazionale sull’educazione per il XXI secolo

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Dalla crescita economica allo sviluppoumano• Coniugare il nuovo modello di sviluppo con unmaggiore rispetto per la natura e la ristrutturazio-ne dei tempi della persona.

• Una verifica più ampia dello sviluppo che prendain considerazione tutti gli aspetti coinvolti.

• Creazione di nuovi legami tra politica educativae politica dello sviluppo rafforzando le basi delleconoscenze e delle abilità necessarie: incoraggia-mento dell’iniziativa, del lavoro di gruppo, svi-luppo delle risorse locali, del lavoro personale edello spirito imprenditoriale.

• Miglioramento dell’educazione di base.

I quattro pilastri dell’educazione• L’educazione nel corso della vita è basata su quat-tro pilastri: imparare a conoscere, imparare a fare,imparare a vivere insieme e imparare ad essere.

• Imparare a conoscere, combinando una conoscenzagenerale sufficientemente ampia con la possibilitàdi lavorare in profondità su un piccolo numero dimaterie. Questo significa anche imparare ad impa-rare, in modo tale da trarre beneficio dalle opportu-nità offerte dall’educazione nel corso della vita.

• Imparare a fare, allo scopo d’acquistare non sol-tanto un’abilità professionale, ma anche, più am-piamente, la competenza di affrontare molte si-tuazioni e di lavorare in gruppo. Ciò significa an-che imparare a fare nel contesto delle varie espe-rienze sociali e di lavoro offerte ai giovani, chepossono essere informali, come risultato del con-testo locale o nazionale, o formali, che implicanocorsi dove si alternano studio e lavoro.

• Imparare a vivere insieme, sviluppando una com-prensione degli altri ed un apprezzamento del-l’interdipendenza (realizzando progetti comuni eimparando a gestire i conflitti) in uno spirito dirispetto per i valori del pluralismo, della recipro-ca comprensione e della pace.

• Imparare ad essere, in modo tale da svilupparemeglio la propria personalità e da essere in gradodi agire con una crescente capacità di autonomia,di giudizio e di responsabilità personale. A taleriguardo, l’educazione non deve trascurare alcunaspetto del potenziale di una persona: memoria,ragionamento, senso estetico, capacità fisiche eabilità di comunicazione.

• I sistemi educativi formali tendono a sottolinea-re l’acquisizione delle conoscenze a detrimentodi altri tipi d’apprendimento; ma ora è di fonda-mentale importanza concepire l’educazione inuna maniera più globale. Una tale visione deveinformare e guidare le future riforme e politichescolastiche, in rapporto sia ai contenuti che haimetodi.

L’educazione per tutta la vita• Il concetto di educazione per tutta la vita è lachiave d’accesso al XXI secolo. Esso supera ladistinzione tradizionale tra educazione iniziale ededucazione permanente. Esso si collega con unaltro concetto spesso presentato, quello della so-cietà educativa.

• L’educazione permanente deve aprire possibilitàdi apprendimento a tutti.

• L’educazione per tutta la vita deve valorizzaretutte le opportunità che la società può offrire.

Jacques Delors, presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995, ha presieduto la “Commissione per l'educazione per il XXIsecolo" dell’UNESCO dal 1995 al 1998 69

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Pietra e acqua. Sonoquesti i due elementiscelti dall’architettoMaya Lin per la realiz-zazione del monumen-to che commemoral’ammissione delledonne all’Università diYale. The Women’s Ta-ble, questo il nome del-l’opera, è stata com-missionata all’artistanel 1989, dal PresideBenno Schmidt, in oc-casione del ventennaledella coeducazione. Al-

l’artista di origine cinese, nota per aver progettato ilVietnam Veterans Memorial a Washington Dc, a soli21 anni, è spettato l’arduo compito di lasciare unatraccia della presenza femminile all’interno di unodei più prestigiosi istituti d’America e, al tempostesso, di testimoniare un’assenza perpetuata troppoa lungo. Da qui la scelta di creare una scultura nonsolo da guardare, ma che richiedesse uno sforzo ul-teriore ai suoi osservatori, quello dell’interpretazio-ne. Nell’uso comune, un tavolo può assumere mol-teplici funzioni. La prima idea che viene in mente èquella di uno spazio fisico intorno a cui riunirsi, so-stegno ad una convivialità familiare nel momentodel pasto e della con-versazione quotidiana.Il tavolo è anche il luo-go intorno al quale ven-gono prese le decisioniistituzionali, tessute lesorti dei Paesi e deirapporti internazionali.Infine è, per eccellenza,un piano d’appoggioper attività culturali. Sudi esso si studia, si scri-ve, si alimenta una co-noscenza che richiedeconcentrazione, fatica,passione, spesso isola-mento. Quello della Linè un tavolo ellittico digranito verde che poggia su una base nera dellostesso materiale. Una presenza che, nella sua solidi-tà, richiama l’attenzione di chi si trova a passare peri viali dell’Università; migliaia di ragazzi che, annodopo anno, cercano di porre le basi per il propriofuturo. Ecco allora che tale passaggio viene richia-mato dall’acqua che incessantemente scorre lungo iltavolo, un fluire ininterrotto che sembra scandire iltempo di una delle istituzioni universitarie più anti-che degli Stati Uniti. Ma il valore simbolico dellascultura impone un’osservazione che va ben oltre la

superficie dell’immediatamente visibile, che impli-ca un coinvolgimento dello spettatore in profondità.Sotto l’increspatura dell’acqua, incisa sulla pietra,compare una spirale di numeri che attraversa l’inte-ro tavolo. Sono i numeri delle donne iscritte a Yale,anno per anno, dalla fondazione dell’Università, nel1701, fino al 1993, anno della conclusione dell’ope-ra. A partire dal centro corre una lunga serie di zero,interrotta solo dal numero 13 in corrispondenza del1873, data in cui si riteneva che le prime ragazzeavessero avuto accesso ai corsi post-lauream. Comesottolineato dal sito ufficiale di Yale, nuovi studihanno rivelato, invece, che le prime studentessedell’Istituto furono le sorelle Silliman, inscritte alcorso post-lauream di Belle Arti nel 1869 ( bisogne-rà attendere altri cento anni perché le prime donnepossano accedere ai corsi di laurea). Nonostantequesta incongruenza, The Women’s Table soddisfacomunque tutte le funzioni per cui era stato pensa-to. È sicuramente un punto di incontro, in quantoogni giorno cattura gli sguardi di giovani studentiprovenienti da tutto il mondo, quegli stessi che,probabilmente, si siederanno sulla sua base perscambiare due chiacchiere fra una lezione e l’altra.Ha un valore istituzionale, essendo stato commis-sionato dall’Istituto stesso per ricordare l’arduo per-corso intrapreso dalle donne per accedere al mondodell’istruzione. Ha soprattutto un valore culturale esimbolico. È l’espressione artistica di una battaglia

che ancora continua adessere combattuta, quel-la per una parità di dirit-ti che si realizzi in ogniambito della società, daquello formativo a quel-lo professionale. TheWomen’s Table è un’o-pera monumentale che,come sottolineato dallastessa Lin, ha in sé i ca-ratteri dell’antimonu-mentalità. La spirale,che la caratterizza, puòessere osservata in duesensi fra loro opposti.Dall’interno verso l’e-sterno, per prendere

consapevolezza del progressivo aumento delle don-ne iscritte a Yale e dell’enorme potenzialità che lestesse rappresentano per la vita culturale non solodegli Stati Uniti; dall’esterno verso l’interno persoffermarsi su tutti quegli zeri che hanno marcatoun’assenza ingiustificata e indelebile. Sono numeriche parlano, come non hanno potuto fare, per anni,quelle giovani studentesse a cui era lecito partecipa-re alle lezioni solo come silent listeners. Uditricinon parlanti a cui alla fine, dopo tanti anni, è statarestituita una voce.

The Women’s TableUn monumento per le studentesse di Yaledi Francesca Gisotti

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