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Rivista di Studi e Ricerche sulla

Criminalità Organizzata

Cross Vol.2 N°4 (2016) ISSN 2421-5635

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Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata

Cross Vol.2 N°4 (2016)

INDICE

Presentazione

QUESTO NUMERO (N.d.C) ............................................................................................................................... 1

La ricerca

L’ESPANSIONE DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA NELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA

AL NORD

di Alessandro Alessandri ..................................................................................................................................... 3

I “LIMITI” DEL REATO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO DI FRONTE ALLE “MAFIE

IN TRASFERTA”

di Alain Maria Dell’Osso .................................................................................................................................... 63

PARTECIPAZIONE E CONCORSO ESTERNO NEL REATO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO

MAFIOSO: UN CONFINE LIQUIDO

di Eleonora Montani ........................................................................................................................................... 82

REATI ASSOCIATIVI E RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI: SPUNTI A MARGINE

DI UNA RICERCA

di Francesca Chiara Bevilacqua .................................................................................................................. 116

GLI STRUMENTI DI CONTRASTO ALL’ECONOMIA MAFIOSA

di Simona Romanò ........................................................................................................................................... 155

Storia e Memoria

LA MAFIA NON PORTA VOTI

a cura di Sarah Mazzenzana ........................................................................................................................ 174

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Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata

Cross Vol.2 N°4 (2016)

Comitato scientifico

Fabio Basile, Nando dalla Chiesa, Alessandra Dino,

Ombretta Ingrascì, Monica Massari, Mariele Merlati, Stefania Pellegrini,

Christian Ponti, Virginio Rognoni, Rocco Sciarrone, Carlo Smuraglia,

Alberto Vannucci, Federico Varese

Redazione

Nando dalla Chiesa (direttore), Ombretta Ingrascì, Sarah Mazzenzana,

Mariele Merlati, Roberto Nicolini, Christian Ponti

Avvertenza: Le note bibliografiche sono redatte in conformità con gli usi delle discipline

di appartenenza degli autori

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Presentazione

1 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7980

QUESTO NUMERO

Si chiude un anno particolarmente intenso per CROSS. Per l’attività di ricerca svolta,

i progetti didattici collegati, gli scambi internazionali realizzati, l’impegno profuso

nella cosiddetta “terza missione” dell’università. E anche per la progressiva

costruzione dell’identità e dello spirito di questa Rivista alla quale si è cercato di

assicurare, con qualche inevitabile sfasatura dei tempi, il mantenimento della

annunciata periodicità trimestrale. Non era, quest’ultima, una scommessa facile.

Quattro numeri all’anno costituiscono comunque un impegno esigente, specie se si

punta a offrire al dibattito e alla ricerca una prospettiva multidisciplinare e

interdisciplinare, oltre che la compresenza su ogni fascicolo di studiosi di lungo (o

relativamente lungo) corso e di giovani e giovanissimi talenti. Si è riusciti a

rispettarlo anche in virtù di una formula flessibile, in grado di accogliere contributi

tra loro assai diversi non solo per disciplina ma anche per taglio discorsivo. E nel

frattempo si sono perseguiti gli obiettivi indicati sin dal primo numero. In primo

luogo garantire agli studi di criminalità organizzata un luogo regolare di

pubblicazione e di confronto quasi “in tempo reale”, essendo lo stesso rilievo sociale

della materia a chiedere una veloce trasmissione delle conoscenze acquisite dalla

ricerca. In secondo luogo garantire ai più giovani una sede “istituzionale” in cui

esporre i risultati dei propri lavori, e in cui sentirsi autorizzati a dare più spazio alle

acquisizioni scientifiche che a quelle che spesso possono apparire pure bardature

accademico-formali.

Questo quarto numero del 2016 viene dedicato in forma monografica alla

pubblicazione dei risultati di una ricerca appena conclusa da una équipe

dell’Università Bocconi guidata dal professor Alberto Alessandri. Si tratta di una

ricerca sulla espansione della criminalità organizzata nell’attività di impresa al

Nord, misurata alla luce dei procedimenti giudiziari aperti per il reato di

associazione mafiosa (ed eventuali altri reati concorrenti) presso la Procura della

Repubblica di Milano dal 2000 al 2015. Il suo obiettivo è di arricchire il dibattito di

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2 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7980

elementi quantitativi certi, sia pure riferiti alla sola prospettiva giudiziaria e a una

sola Procura (in ogni caso particolarmente attiva e collocata in un’area nevralgica

della penetrazione mafiosa). Un lavoro importante, che aiuta a ridefinire e a

precisare, a restituire il senso delle proporzioni e anche a porre problemi. La

presentazione generale svolta dal direttore della ricerca viene così integrata da

alcuni interventi teorici: di Alain Maria Dell’Osso sui limiti del reato di associazione

mafiosa davanti alla fattispecie delle “mafie in trasferta”; di Eleonora Montani sulla

controversa questione della partecipazione e del concorso esterno al reato di

associazione mafiosa; di Francesca Chiara Bevilacqua sulla responsabilità degli enti

(segnatamente le imprese) nello sviluppo dei reati di natura associativa; e infine di

di Simona Romanò sugli strumenti di contrasto all’economia mafiosa (con

particolare riguardo alle misure di prevenzione).

L’approccio manifestamente giuridico chiama comunque in causa anche le

prospettive sociologiche ed economiche, nello stesso “gioco” di aperture e di scambi

che porta a cooperare in questo numero monografico due atenei di impronta e

tradizioni disciplinari diverse.

Il numero è chiuso dalla consueta sezione “Storia e Memoria”, stavolta dedicata non

a un documento ufficiale di denuncia o di analisi del fenomeno mafioso ma a un

documento ufficiale di ispirazione opposta. Si tratta di alcuni passi della Relazione

conclusiva della Commissione parlamentare antimafia della XIV legislatura (2001-

2006), impegnata curiosamente –e con qualche narcisismo letterario- a demitizzare

il fenomeno mafioso e a sconfessare la “credenza” che esso abbia seriamente a che

fare con le dinamiche del voto e delle preferenze elettorali. Anche queste sono

pagine che lo studioso deve conservare nel suo archivio personale. Buon 2017 a tutti

i lettori.

N.d.C.

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La ricerca

3 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

L’ESPANSIONE DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

NELL’ATTIVITÀ D’IMPRESA AL NORD

Economia lecita e criminalità organizzata a Milano dal 2000 al 2015

Alberto Alessandri

Abstract

This research, conducted within the Department of Law of Bocconi University in Milan, aims to

empirically ascertain the actions implemented by the Office of the Public Prosecution and the Court

of Milan to counteract the Mafia’s infiltration in economic activities in the period from 2000 to 2015.

All the records pertaining to criminal proceedings opened (and accessible) in the relevant period -

and in relation to which preliminary investigations were closed - were consulted in their entirety.

The proceedings were then followed up until the Court of Cassation.

In addition, all the records and final decisions issued by the Tribunale di Prevenzione (Court for

preventive measures) of Milan during the above timeframe were also considered with particular

focus on preventive measures against assets.

Finally this research took account of the flows of proceedings involving Article 416-bis of the Italian

criminal code, as well as of the proceedings before the Court of Milan and before the Courts of Rome,

Napoli, Reggio Calabria and Palermo.

The information gathered from these records were finally processed by means of a specific software

in order to obtain the correlations and statistics deemed to be of greatest interest, in this case with

reference to the penetration in the economic and business sector.

Keywords: mafia; organised crime; ‘ndrangheta; economic activities; Northern Italia.

1. Presentazione

1.1 Il gruppo dei ricercatori e dei collaboratori

La ricerca è stata ideata e diretta da Alberto Alessandri, ordinario di diritto penale

presso l'Università Bocconi di Milano, ed è stata svolta all’interno del Dipartimento

di Studi Giuridici «Angelo Sraffa», con il patrocinio del Credi (Centro di studi europei

in diritto dell'impresa «Ariberto Mignoli»), fin che è stato attivo presso l’Università

Bocconi di Milano.

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La ricerca

4 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Il gruppo di ricerca è stato coordinato, nella fase esecutiva, dalla dottoressa Eleonora

Montani, docente di criminologia, con la collaborazione della prof.ssa Melissa

Miedico, associata di diritto penale, entrambe presso l'Università Bocconi, con il

supporto di Pietro Alessandri.

Fanno, o hanno fatto, parte del gruppo di ricerca: Francesca Bevilacqua (già Un.

Bocconi), Massimiliano Dova (Un. Milano Bicocca), Martina Giannozzi, Consuelo

Marini, Roberta Russo (Un. Bocconi), Eliana Reccia (Un. Bocconi), Antonio Sanson,

Giulia Sassaroli (già Un. Bocconi), Tommaso Trinchera (Un. Bocconi), Alain Dell’Osso

(Un. Cattolica di Milano), Simona Romanò (Un. Milano Bicocca).

Giada Gambadoro e Pietro Alessandri hanno compiuto una prima elaborazione dei

dati ricavati dai fascicoli processuali.

La professoressa Patrizia Farina, associata di Demografia nell’Università Bicocca di

Milano, ha svolto, in una seconda fase, una più approfondita analisi, con il supporto

del dottor Davide Del Sorbo.

Pietro Alessandri integralmente ha curato i grafici, le tabelle e l’elaborazione finale

dei dati.

Ha collaborato il Centro Nazionale di Prevenzione e Difesa sociale di Milano e, in

particolare, la dottoressa Camilla Beria.

È stato di grande aiuto il prof. Giovanni Fiandaca, Direttore del Dipartimento di Studi

Europei e della Integrazione Internazionale (Dems) dell'Università di Palermo.

Un importante, decisivo contributo è stato fornito da numerosi magistrati: l’ex

Presidente del Tribunale di Milano, dottoressa Livia Pomodoro, la coordinatrice

della Direzione Distrettuale Antimafia (DDA), dottoressa Ilda Boccassini, il dottor

Paolo Storari, la dottoressa Giuliana Merola, il dottor Fabio Roia, il dottor Alberto

Nosenzo, tutti del Tribunale di Milano, il Procuratore Capo di Roma, Giuseppe

Pignatone, il dottor Michele Prestipino, Procuratore aggiunto di Roma.

Un sentito ringraziamento è rivolto al Nucleo operativo della DIA di Milano, in

particolare al Col. Alfonso Di Vito.

Un essenziale contributo è stato poi fornito, nella fase di ricerca empirica, dagli

addetti agli uffici amministrativi presso la DDA di Milano, e in particolare dal dottor

Antonio Sciacchitano.

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Del pari essenziale è stato, per la ricostruzione dei flussi dei procedimenti, l’apporto

del dottor Aldo Caruso, responsabile dell’Ufficio Informatica e Statistica della

Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano.

Ancora, per l’elaborazione dei dati Istat, si ringraziano per la collaborazione la

dottoressa Giuseppina Muratore, il dottor Claudio Caterino e il dottor Franco

Turetta.

La ricerca è stata sostenuta dall’Università Bocconi di Milano, dalla Camera di

Commercio di Milano, da Assimpredil-Ance, dal Banco Popolare.

1.2 Le ragioni della ricerca

La ricerca parte dalla premessa costituita da una constatazione oggi da tutti

condivisa: la presenza della criminalità organizzata nel tessuto dell'economia del

Nord Italia.

Fino a pochi anni fa, solo alcuni studiosi e operatori del settore avvertivano e

segnalavano l'infiltrazione della mafia nell'economia del Nord.

Numerosi sociologi, penalisti e criminologi hanno svolto approfondite indagini sul

fenomeno e hanno constatato, avvalendosi dei risultati dell’attività di accertamento

compiuta dalla magistratura, l’affermarsi e il consolidarsi delle organizzazioni

criminali in luoghi diversi da quelli d’origine. È stata osservata e studiata l’avvenuta

migrazione di Cosa Nostra, ‘ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita nel Centro e

nel Nord Italia.

La magistratura, in numerose, complesse indagini e istruttorie, ha, inoltre, accertato

che tali consorterie mafiose si servono, talora, della collaborazione o dell’aiuto di

organizzazioni nuove, provenienti dall'estero, che operano nel territorio nazionale

anche in forma autonoma.

La gravità e pericolosità del fenomeno, passato ormai da infiltrazione a radicamento,

sono state oggetto per diverso tempo di una consapevolezza limitata ad alcuni

operatori del settore, poiché ha resistito a lungo la convinzione diffusa, e spesso

sostenuta anche da esponenti delle istituzioni, che la mafia fosse un problema

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esclusivamente meridionale, da affrontare solo sul terreno dell'ordine pubblico. In

ogni caso confinato nelle regioni del Sud.

Crediamo che oggi non vi sia nessuno che, in buona fede, possa sostenere una simile

opinione. Le indagini della magistratura, gli interventi delle forze dell'ordine, i

servizi giornalistici, l’ampia letteratura sociologica e la mole degli studi di ogni tipo

hanno ormai definitivamente sfatato il mito di una mafia (e con questo termine

intendiamo riferirci a tutte le organizzazioni «di tipo mafioso», come indica la

formula dell'articolo 416-bis c.p.) attiva e operante solo in una parte dell'Italia, nel

depresso e arretrato Mezzogiorno d’Italia.

Al contrario, sono sempre più evidenti le connessioni tra la criminalità organizzata

di stampo mafioso e l'attività imprenditoriale ed economica. Per un verso

l'organizzazione mafiosa si propone per, o impone di, svolgere servizi a favore delle

imprese del Nord, come mostra emblematicamente la vicenda dei rifiuti nel

territorio campano, e non solo; per altro verso, l'enorme quantità di denaro liquido

accumulato dalle varie organizzazioni criminali, principalmente la ‘ndrangheta,

quale profitto di attività illecite – primo fra tutti il traffico di stupefacenti -, ha

necessità di essere riciclato e reinvestito, per la parte che resta in Italia, in attività

economiche almeno all'apparenza lecite.

Le cronache più recenti mostrano un altro momento dinamico nel pericoloso

connubio tra la criminalità organizzata mafiosa e, questa volta, la politica o l’attività

delle istituzioni pubbliche: compaiono episodi di aiuto e sostegno tra le attività

corruttive (per assumere un tipo per tutte) e i servizi offerti dalla criminalità

organizzata anche in ambito internazionale. Si supera sovente il modello dello

scambio elettorale, pure da poco normativamente rivisto, per approdare a forme

operative di coinvolgimento ben più strette, di controllo di gangli essenziali nei

servizi pubblici, quale, ad esempio, la sanità, che offre cospicue occasioni di

condizionamento del potere amministrativo e di arricchimento.

Fin qui nulla di nuovo, anzi solo un riassunto, manchevole e impreciso, di un

fenomeno complesso e, come detto, variamente e ampiamente indagato.

D’altro canto, lo si precisa con chiarezza, l’intento della ricerca non è mai stato quello

di realizzare un altro studio da aggiungere a quelli già disponibili, alcuni di gran

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valore, che hanno offerto contributi per la valutazione sociologica, criminologica,

economica e storica del fenomeno del radicamento mafioso nel nord d’Italia.

Il punto di partenza e la prospettiva della ricerca sono stati diversi.

Dalla percezione della gravità del fenomeno e della sua capacità espansiva, discussa

e condivisa da alcuni docenti e ricercatori dell'Università Bocconi, è affiorata

l’opportunità di offrire un contributo empirico e quantitativo – con le precisazioni di

cui si dirà - alla conoscenza del fenomeno, che d'ora in poi sarà per semplicità

chiamato dell'«infiltrazione mafiosa al Nord».

Come già osservato, si dispone di una vasta e crescente letteratura, non solo sul

fenomeno mafioso in generale, ma anche più specificamente sull'infiltrazione e sulle

fasi successive. Vi sono stime delle dimensioni economiche, indagini sul territorio,

analisi sulle relazioni e sui rapporti tra i vari soggetti, network analysis, inchieste di

taglio giornalistico, alcune svolte con rigore di metodo.

A fronte di questo quadro di studi, l'impressione che è stata condivisa dal gruppo di

ricerca bocconiano è stata quella di un'ancora parziale incompletezza,

complessivamente considerata, dei dati a disposizione.

La scarsa conoscenza dei fenomeni, colti nella loro crudezza empirica, costituisce

peraltro un tratto purtroppo diffuso nello studio propedeutico delle scelte di

contrasto ai fenomeni criminali e all’uso del diritto penale: più in generale, alla

gestione delle cose pubbliche in Italia. Per limitarsi ai fatti che hanno rilievo

giuridico penale, tutti gli studiosi di questo settore sanno quanto poche siano le

statistiche; quelle ufficiali, dell’Istat o del Ministero di Giustizia, sono per lo più

orientate a fini specifici, di tipo organizzativo o di misurazione dell’efficienza. Per di

più, si tratta non poche volte di statistiche capricciosamente aggregate, con modelli

risalenti nel tempo o che addirittura non considerano aspetti rilevanti del fenomeno

da indagare.

È un male diffuso che costituisce il risultato della mancata considerazione

dell'importanza, assolutamente decisiva, della conoscenza empirico-criminologica

dei fenomeni che s'intenderebbe fronteggiare o combattere. La politica e per essa il

legislatore, quando intervengono, si accontentano di valutazioni approssimative,

delle sensazioni diffuse in alcuni ambienti, delle esigenze esternate, a vario titolo, da

gruppi o categorie. Si rinuncia, o si costringe a rinunciare togliendo le risorse

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indispensabili, al faticoso quanto prezioso lavoro della ricognizione, da diversi punti

di vista, del gruppo o della categoria di comportamenti economici e sociali che

costituiscono la sostanza del fenomeno da disciplinare o contenere.

È pacifico che la migliore conoscenza del fenomeno costituisca il primo

indispensabile passo per costruire barriere adeguate, strumenti di contrasto e, se

possibile, di neutralizzazione: allora un contributo alla rilevazione del fenomeno,

ricavato su basi oggettive, può avere un suo autonomo pregio, naturalmente non

risolutivo ma da affiancare alle altre fonti informative e alle successive analisi.

È nata quindi l'idea, anche sulla base dell'esperienza accumulata in occasione di una

precedente ricerca empirica in campo affatto diverso1, di rivolgere l'attenzione al

fenomeno dell'infiltrazione mafiosa al Nord da un osservatorio particolare,

circoscritto: vale a dire quello dell’attività della magistratura, inquirente e

giudicante, presso il Tribunale di Milano.

Si è deciso, in sintesi, di esaminare tutti i fascicoli processuali relativi all’arco

temporale, che va dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015, aperti dalla Procura della

Repubblica presso il Tribunale di Milano per il delitto previsto dall'articolo 416-bis

c.p. - «Associazioni di tipo mafioso anche straniere»2 -, ed eventuali altri reati

concorrenti, con attenzione specifica a quei fascicoli che contengono la

contestazione dell'art. 7 del d.l. n. 152 del 19913, poiché esso richiama appunto la

commissione di delitti «avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del

codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo

stesso articolo».

In una prima fase della ricerca, essa era limitata ai procedimenti dell’arco temporale

2000 – 2010. Sono poi sopravvenuti importanti provvedimenti che hanno reso

1 Alberto Alessandri (a cura di), Un'indagine empirica presso il tribunale di Milano: le false comunicazioni sociali, Giuffré, Milano, 2011. 2 Norma inserita dalla l. 646 del 1982 (c.d. Rognoni La Torre), più volta modificata, da ultimo con la l. 69 del 2015. 3 Art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 203, convertito, con modificazioni, nella l. 12 luglio 1991, n. 203: «1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante».

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La ricerca

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opportuno estendere l’indagine fino al 31 dicembre 2015. Ciò è stato possibile grazie

a un contributo specifico dell’Università Bocconi e, poi, dall’autofinanziamento.

Con la cortese e sollecita autorizzazione del Presidente del Tribunale di Milano,

prima la dottoressa Pomodoro e poi il dottor Bichi, e la costante collaborazione della

dottoressa Boccassini, si è aperto uno sterminato, quanto accidentato, campo di

ricerca. Ovviamente è stato possibile accedere solo a una parte dei fascicoli aperti

per l'articolo 416-bis c.p.: non sono stati accessibili quelli in corso d’indagine, coperti

dal segreto istruttorio. Si ha però motivo di ritenere che i procedimenti non

accessibili siano in numero modesto (fino al 2015).

All’insieme dei procedimenti avviati presso la Procura di Milano, nel periodo 2000

– 2015, è stato applicato un filtro. Nel senso che, per intuitive ragioni, sono stati

considerati tutti i procedimenti accessibili rispetto ai quali fosse stato emesso,

nell'arco temporale indicato, un provvedimento decisorio: o con l’esercizio

dell’azione penale, con la richiesta di rinvio a giudizio; oppure con la richiesta di

archiviazione.

Più in dettaglio, il campione oggetto della ricerca è costituito:

da tutti i fascicoli processuali (accessibili) aperti dalla Procura della

Repubblica presso il Tribunale di Milano, nel periodo dal 1° gennaio 2000 al

31 dicembre 2015, nei quali è stato all’origine contestato il delitto previsto

dall'art. 416-bis c.p.

o All'interno di questi fascicoli sono stati oggetto di rilevazione e di analisi

anche i reati contestati in concorso a quello previsto dall'art. 416-bis c.p.

o i reati diversi contestati a indagati presenti nello stesso fascicolo

processuale (ma non per l'ipotesi dell'art. 416-bis c.p.).

o È stata oggetto di analisi specifica la contestazione dell'aggravante di cui

all'art. 7 l. 201/1991, la quale ricorre quando un delitto è commesso

«avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice

penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste

dallo stesso articolo».

o Il totale dei procedimenti accessibili ed esaminati è 105.

o Nell’insieme dei procedimenti così individuati sono stati estratti e

analizzati tutti i procedimenti nei quali – nel periodo considerato - è stato

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emesso un provvedimento decisorio conclusivo delle indagini: a)

richiesta di archiviazione; oppure b) richiesta di rinvio a giudizio.

o Di questi, 58 sono stati archiviati; 10 avevano, al termine del periodo, una

richiesta di archiviazione ancora pendente; 37 sono stati definiti con

sentenza di primo grado, sempre nell’arco temporale indicato.

o Nel numero dei reati complessivamente contestati, pari a 4293, le

contestazioni dell’art. 416 bis c.p. sono 1251.

o Il numero degli indagati è pari a 2058 e, tra essi, gli indagati per 416 bis

c.p. sono 1251, il 60,79% del totale (grafico 1.1.3.A).

o Il numero dei reati contestati con l’aggravante di cui all’art. 7 è 327.

La ricerca ha inoltre considerato il sistema delle misure di prevenzione,

rilevando, nell’ambito delle misure di prevenzione patrimoniali antimafia,

quelle della confisca e dell’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad

attività economiche, ora disciplinate dagli artt. 23 e 34 del d. lgs. n. 159/2011

(Codice antimafia). L’arco temporale nel quale sono stati considerati i

provvedimenti, emessi dal Tribunale di Milano, Sezione Misure di

Prevenzione, è stato ancora quello dal 1° gennaio 2000 al 31 dicembre 2015.

o L’analisi è stata limitata ai soli provvedimenti definitivi non impugnabili.

o Per quel che attiene alla confisca, il campione è stato circoscritto ai

provvedimenti riguardanti «gli indiziati di appartenere ad associazioni

mafiose» o persone comunque collegate alle consorterie mafiose.

o Il campione finale è costituito da 67 provvedimenti di confisca.

Sono stati inoltre richiesti i dati, poi elaborati, concernenti i flussi dei

procedimenti penali, relativi al periodo 2000 – 2015, delle Procure distrettuali.

Per le ragioni già esposte, non avendo ottenuto i dati di tutte le procure

distrettuali, la ricerca ha concentrato la sua attenzione sulle procure – oltre che

di Milano – di Roma, Napoli, Reggio Calabria e Palermo. Non sempre è stato

possibile ottenere dati omogenei e comparabili: sul punto si rinvia alla

«Premessa» al paragrafo 4.

Tutte le informazioni ricavate dall'analisi dei fascicoli sono state fatte confluire su

un database.

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La ricerca

11 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Esso si divide in quattro sezioni:

- la prima è dedicata alla registrazione delle caratteristiche del procedimento

esaminato nella sua interezza, prendendo ad esempio in esame quali associazioni

siano coinvolte o con quali modalità di intimidazione abbiano operato;

- la seconda è dedicata alle persone che compaiono nei procedimenti esaminati e

comprende le caratteristiche proprie delle persone indagate (i dati anagrafici,

l’attività svolta, l’eventuale ruolo all’interno dell’associazione criminale, ecc.);

- la terza ha a oggetto la responsabilità degli enti ex d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231;

- la quarta riguarda l’iter processuale di ogni singolo reato contestato ai soggetti

coinvolti nel procedimento.

Per quel che attiene alla prima parte del database, un fascicolo d’indagine aperto

dalla Procura presso il Tribunale di Milano corrisponde ad una riga della "tabella

procedimento".

Per la seconda parte della rilevazione dati, quella inerente ciascun indagato, sono

state raccolte informazioni per ciascun soggetto al fine di poterne delineare un

profilo il più possibile completo.

Nella terza sezione sono state registrate le informazioni relative alle persone

giuridiche coinvolte nei procedimenti.

Nella quarta, infine, si è seguito e tracciato il percorso processuale di ogni capo

d'imputazione: dalla contestazione iniziale al giudizio definitivo in Cassazione, fino

all’irrevocabilità della sentenza di condanna (dove è stato possibile). Ne consegue,

pertanto, che la "tabella procedimento" rimanda alla "tabella soggetto" e dunque vi

sono tante righe quanti sono i soggetti coinvolti; la "tabella soggetto" rinvia poi alla

"tabella reato" e vi si troveranno tante righe quanti sono i reati contestati.

Preme rilevare che il lavoro d’indagine non si è limitato alla considerazione dei

numeri di registrazioni o alle sentenze.

I primi sono stati solo un punto di partenza per individuare i fascicoli processuali,

che sono stati consultati nella loro interezza e, per le parti d’interesse ai fini della

ricerca, scannerizzati integralmente, in modo da costituire una banca dati che sarà

messa a disposizione dei ricercatori.

È stata poi compiuta una lettura critica della documentazione raccolta, estraendo

dalla stessa i dati ritenuti significativi e riversandoli in una scheda elettronica

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La ricerca

12 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

appositamente (e faticosamente) predisposta, grazie anche al prezioso aiuto di

collaboratori con professionalità informatiche e statistiche.

È stata in seguito effettuata l’elaborazione dei dati così ottenuti, con l’ausilio di un

software specifico, che ha consentito di generare grafici, tabelle, istogrammi, in

modo di esporre analiticamente il contenuto – in termini quantitativi - dei fascicoli.

In coerenza con l'obiettivo della ricerca, sono stati privilegiati i dati relativi alle

attività economiche, intese in senso ampio. Questo sia per quanto riguarda i

procedimenti e i processi penali ordinari, ove particolare attenzione è stata riservata

all'attività dei soggetti coinvolti e all'ambito economico in cui, di volta in volta, ha

operato l'organizzazione criminale, quanto per i decreti emessi dal Tribunale di

Prevenzione. In quest’ultimo caso l'attenzione, come detto, è stata concentrata sulle

misure di natura patrimoniale e sui provvedimenti che hanno disposto

l'«amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche», ai sensi

dell’art. 34 del «Codice antimafia» (d. lgs. 159 del 2011).

Si precisa che tutte le qualificazioni, aggettivazioni, individuazioni sono ricavate

direttamente dai provvedimenti giudiziari. Il gruppo di ricerca non ha apportato

modifiche né ha compiuto interpretazioni autonome dei dati così come rilevati. Le

aggregazioni e le disaggregazioni sono state di natura puramente statistica.

In termini operativi, l'attività di ricerca empirica svolta sui fascicoli del Tribunale di

Milano è stata preceduta da numerosi altri passaggi.

Oltre alla raccolta e all'esame della bibliografia disponibile, sono state individuate e

selezionate le statistiche Istat ufficiali, relative alla criminalità, alla delittuosità e alle

condanne irrevocabili.

Era stato assunto il dato della criminalità e della delittuosità nazionale

rapportandolo a quello riguardante l’articolo 416-bis c.p. e, come mero punto di

riferimento di comportamenti criminali violenti, a quello dell'omicidio volontario.

Le statistiche Istat avevano inoltre offerto la possibilità di inserire anche il confronto

con gli omicidi volontari che sono stati rintracciati nelle denunce e in queste

qualificati di “tipo mafioso”.

L'indagine statistica era stata estesa ad alcune regioni, singolarmente considerate e

tra loro confrontate: la Lombardia, regione assunta quale particolarmente

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13 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

significativa per la conoscenza dell'infiltrazione mafiosa; Campania, Sicilia e

Calabria, quali regioni di radicamento originario delle organizzazioni criminali.

Si è usato il verbo all’imperfetto nel descrivere la predetta attività, poiché non è stato

possibile completare l’indagine sui dati Istat per tutto l’arco temporale considerato.

Anzi, essendo in corso un cambiamento radicale dell’elaborazione delle statistiche

da parte dell’Istat non è al momento possibile accedere a un complesso di dati

omogeneo e aggiornato riguardo alla criminalità e alla delittuosità. Pertanto, questa

parte della ricerca è stata purtroppo espunta dalla presente versione.

Sono state poi considerate le relazioni della Divisione Investigativa Antimafia (DIA),

ricavando da esse spunti interessanti ai fini della ricognizione del fenomeno

dell'infiltrazione mafiosa al Nord.

Negli ultimi mesi la ricerca è stata completata e aggiornata con la raccolta di nuove

informazioni e con il perfezionamento metodologico degli strumenti d’analisi.

Grazie alla collaborazione della DDA, è stato possibile completare l’analisi dei 105

procedimenti che costituiscono il campione esaminato. Il completamento è

consistito, in particolare, nella rilevazione dell’iter processuale completo delle

persone originariamente sottoposte a indagini.

Questa integrazione ha arricchito le analisi in precedenza elaborate, essendo state

acquisite informazioni che ora consentono di seguire i processi in tutti i gradi di

giudizio, fino all’irrevocabilità della sentenza.

In tal modo è stato completato, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo, il

c.d. imbuto che ricostruisce l’evoluzione del procedimento: dall’iscrizione nel

registro degli indagati fino all’esito del ricorso alla Corte di Cassazione.

Da un diverso, complementare punto di vista, è stata ridotta al minimo la

percentuale dei dati “non ricostruibili” e affinata l’analisi delle categorie generiche,

fornendo in questo modo un quadro più dettagliato possibile: ne è esempio

l’elaborazione riguardante l’attività professionale delle persone indagate per l’art.

416-bis c.p. Ci si è concentrati sui casi in cui le persone individui svolgevano attività

imprenditoriale.

Sono state, inoltre, elaborate le informazioni relative ai reati aggravati dall’art. 7 d.l.

152/1991. È dunque possibile ricostruire l’evoluzione e gli esiti dell’aggravante

dalla contestazione in sede d'indagini preliminari all’applicazione da parte del

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giudice, durante ogni fase del procedimento. Ciò consente di stabilire quali siano le

tipologie di reato e le categorie di soggetti riguardo alle quali l’aggravante del

metodo mafioso è stata contestata e applicata con maggior frequenza.

Le informazioni acquisite hanno permesso di realizzare numerose correlazioni, che

evidenziano, ad esempio: i rapporti tra i ruoli ricoperti all’interno dell’associazione

mafiosa dalle persone indagate, l’età e le attività professionali svolte o le ipotesi di

reato-scopo contestate in concorso con l’art. 416-bis c.p. e il tipo di organizzazione

criminale.

Tra gli approfondimenti volti a conoscere meglio il quadro generale delle indagini

sull’infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa, un prezioso apporto è stato fornito

dalle interviste che il gruppo di ricerca ha svolto con magistrati e forze dell’ordine.

Le interviste (semi-strutturate) sono avvenute con la dottoressa Ilda Boccassini,

procuratore aggiunto presso il Tribunale di Milano, coordinatrice della DDA (2

ottobre 2014); il dottor Paolo Storari, sostituto procuratore presso il Tribunale di

Milano(11 settembre 2014); la dottoressa Alessandra Dolci, sostituto procuratore

presso il Tribunale di Milano (20 ottobre 2014); la dottoressa Giuliana Merola, già

Presidente della Sezione Misure di Prevenzione presso il Tribunale di Milano (29

settembre 2014); la dottoressa Maria Luisa Balzarotti, giudice penale presso il

Tribunale di Milano (13 febbraio 2015); il dottor Fabio Roia, Presidente della

Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano (25 settembre 2014); il

dottor Alberto Nosenzo, al tempo dell’intervista giudice della Sezione Misure di

Prevenzione del Tribunale di Milano (30 settembre 2014); il dottor Giuseppe

Gennari, al tempo dell’intervista giudice per le indagini preliminari del Tribunale di

Milano (22 settembre 2014); il dottor Giuseppe Pignatone, procuratore della

Repubblica di Roma, e dottor Michele Prestipino, procuratore aggiunto presso il

Tribunale di Roma (29 gennaio 2015); il Tenente Colonnello Giovanni Sozzo,

Comandante del Reparto Anticrimine di Milano, Raggruppamento Operativo

Speciale Carabinieri (24 settembre 2014); il dottor Alessandro Giuliano, all’epoca

dell’intervista Dirigente della Squadra Mobile di Milano (25 settembre 2014); il

Colonnello Alfonso di Vito, Direzione Investigativa Antimafia, Capo centro operativo

di Milano e il Tenente Colonnello Michele Randolfi, dello stesso Centro (9 ottobre

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2014); il Tenente Colonnello Alessio Carparelli, Comandante del Nucleo

Investigativo di Milano (22 settembre 2014).

Ci si limita a osservare che tutti gli intervistati, seppure con diversità di accenti,

hanno riconosciuto nei risultati della ricerca un’immagine attendibile del fenomeno,

rispetto alla loro esperienza.

Tutti i ricercatori sono pienamente consapevoli della limitatezza – non fosse altro di

tipo territoriale - di assumere l’osservatorio indicato, ossia costituito dai

provvedimenti generati dall’attività d’indagine della DDA di Milano.

Se il territorio del distretto di Milano costituisce un ambito di grande interesse, per

la sua importanza economica e per la rete di imprese presenti, non vi è dubbio che

sarebbe stato opportuno estendere la ricerca agli altri distretti della Lombardia e,

più in generale, al Nord dell’Italia.

Le ragioni della limitazione sono banali.

Ben altre risorse, purtroppo non disponibili, sarebbero state necessarie per

allargare il campo di indagine ad altre regioni ugualmente significative, quali,

almeno la Liguria, il Piemonte e L’Emilia - Romagna.

Per completezza si aggiunge che tra gli obiettivi originari della ricerca vi era quello

di esaminare l’attività della Prefettura di Milano, nell’arco temporale assunto.

Sfortunatamente ciò non è stato possibile.

1.3 Alcune riflessioni conclusive Il gruppo di ricerca è consapevole che il lavoro realizzato costituisce soltanto un

parziale contributo alla conoscenza del fenomeno, essendo limitato dal fatto di

essere condotto sui provvedimenti giudiziari accessibili dell'Autorità Giudiziaria di

Milano, in un determinato arco temporale.

Ne deriva, ovviamente, che l'indagine ha riguardato fatti oggetto d’indagine o di

giudizio nel periodo 2000-2015, e che quindi si tratta di fatti compiuti, in grande

prevalenza, in anni precedenti, come mostra anche l'analisi dei tempi processuali.

La fotografia che emerge è quindi inesorabilmente datata e retrospettiva, ci offre

l'immagine – o tratti d’immagine - di fenomeni avvenuti nel passato, rispetto ai quali

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La ricerca

16 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

è possibile e plausibile che possono essere attualmente non più presenti con la

stessa intensità o frequenza o essere affiancati da altre forme di infiltrazione,

probabilmente più insidiose e minacciose.

Questa sfasatura temporale è diretta conseguenza di aver assunto come terreno

d'indagine quello costituito dai provvedimenti giudiziari, che vedono solo una parte

del fenomeno, quella finita sotto indagine e per la quale sono state raccolte prove

sufficienti al giudizio (salvo quanto si dirà per le misure di prevenzione).

L'attività della Magistratura costituisce però, a nostro avviso, una parte essenziale e

irrinunciabile per la conoscenza del fenomeno, anche perché l'analisi della stessa

consente di misurare l'entità e i risultati dell'attività di contrasto più avanzata e

penetrante. È impossibile, come ben sanno gli studiosi della "cifra oscura" dei reati,

ossia quelli che non emergono, stabilire un ipotetico confronto tra l'estensione reale

dell'infiltrazione mafiosa con quanto accertato giudizialmente o oggetto di

provvedimento di prevenzione. Di questo sono ben consapevoli i magistrati e le

forze dell'ordine, che sanno di vedere solo la punta del tradizionale iceberg, non solo

in termini quantitativi, ma anche quanto a ramificazione delle attività e

diversificazione delle stesse.

Il fatto, ad esempio, che pressoché la totalità delle attività economiche in cui è stata

accertata l'infiltrazione sia a basso contenuto tecnologico (come l'edilizia e lavori

connessi) non esclude per nulla che vi siano attività diverse, più raffinate, e

parimenti contaminate. Vi sono problemi di accertamento di notevole spessore,

poiché le attività di riciclaggio o le attività finanziarie sono assai meno visibili di

quelle tradizionali, fisiche e ingombranti. Al momento, se ne può intuire la presenza,

sia per l'esigenza di riciclare i proventi del traffico degli stupefacenti, sia perché

sovente affiorano notizie di condizionamenti e metodi mafiosi applicati per

infiltrarsi in gangli nevralgici della Pubblica Amministrazione, prediligendo,

ovviamente, quelli in cui transitano cospicue risorse economiche, come la sanità.

Ciò appare tanto più plausibile, specie riguardo all'immediato futuro, rilevando che

l'associazione assolutamente predominante - la 'ndrangheta - ha mostrato capacità

di adattamento che le ha consentito di aggredire i territori dell'hinterland milanese,

nei quali era presente fin dagli anni settanta, dimostrandosi pronta ad assumere

elasticamente forme diverse, adeguate all'ambiente, pur conservando tenaci legami,

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oltre che familiari, con le basi di origine in Calabria. Su questo punto, si è registrata

la convergenza di opinioni di tutti gli intervistati, magistrati e forze operative, che

hanno riconosciuto una capacità di trasformazione delle organizzazioni

'ndranghetiste in grado di adattarsi alle specifiche esigenze poste dalla natura

dell'attività e dall'ambiente. Senza peraltro rinunciare in nulla al complesso di

pseudo-valori che ha da sempre guidato l'organizzazione originaria.

Un cenno merita il ricorso, sempre più incisivo e diffuso, alle misure di prevenzione,

specie patrimoniali, mentre l'apporto della disciplina del d.lgs n. 231 del 2001, oltre

ad essere statisticamente irrilevante, è sovente giudicato infecondo4.

Si tocca qui un tema che dovrebbe essere ripreso e approfondito, sia per una verifica

degli sviluppi che si preannunciano sul versante giudiziario, sia per il tema delle

garanzie.

Dalle interviste ai magistrati5 è apparso chiaro che la via delle misure di prevenzione

è privilegiata in quei casi nei quali le prove raccolte non appaiono sufficienti, nella

strategia scelta dal Pubblico Ministero, a reggere in giudizio. Si ricorre, in questi casi,

all'ampio settore delle misure di prevenzione che esigono standard probatori assai

meno stringenti e ottengono il risultato, più celere, di neutralizzare persone e

soprattutto ricchezze, congelandole. Che poi queste siano rimesse in circolazione a

scopi sociali o produttivi è altro e ben più delicato tema.

È uno scenario che, a fronte di un risultato processuale raggiunto in tempi brevi,

pone indubbiamente alla comunità dei penalisti più di un motivo di preoccupata

riflessione quale conseguenza della compressione delle garanzie, accentuate dal

fatto che le misure di prevenzione stanno estendendo il loro campo anche al di fuori

della criminalità organizzata per raggiungere forme tipiche della criminalità

economica. Tema che ovviamente qui, come gli altri prima toccati, può essere solo

enunciato. Altri ne discuteranno.

Per finire queste brevi considerazioni, nelle reazioni dei magistrati intervistati dopo

la lettura della ricerca (seppure in un'edizione precedente), è stata unanime

l'opinione che la fattispecie descritta dall'art. 416-bis c.p. sia ancora uno strumento

utilissimo e sia quindi meglio non intervenire apportandovi modifiche. La norma

4 Così il dottor Paolo Storari, nell’intervista citata. 5 Così Alessandra Dolci, Paolo Storari, Alberto Nosenzo, Fabio Roia, nelle interviste citate.

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18 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

appare in grado di fronteggiare adeguatamente i nuovi fenomeni, rivelando una

felicità d'ispirazione originaria, mentre qualche perplessità è stata registrata solo

rispetto al meccanismo del concorso esterno.

Il gruppo di ricerca voleva fare di più e meglio.

Quello che si presenta oggi è il frutto di un lavoro faticoso, lungo, accidentato. Molte

sono state le pause forzate, in attesa di permessi, di dati, di risposte. Molte le

difficoltà ad avere le informazioni necessarie e talora queste difficoltà si sono

tradotte in una carenza di informazioni. Tutto ciò indipendentemente dalla

disponibilità personale degli interlocutori, ma per strozzature burocratiche o

limitatezze organizzative e di risorse.

Consapevole dei suoi limiti, l'elaborazione ora offerta alla comunità degli studiosi è

considerata dal gruppo di ricerca solo una fase dell'indagine, un work in progress,

che si vorrebbe poter integrare, arricchire e migliorare, oltre che eliminarne gli

inevitabili errori.

Ci si augura che i dati ora messi a disposizione possano essere di una qualche utilità

per la comunità dei ricercatori, anche per proseguire lungo il cammino che è stato

ora percorso.

2. I procedimenti penali

Tabella 1 – Persone sottoposte a indagini

Reati contestati Totale %

416-bis c.p. 1251 60,79%

- di cui concorrenti esterni 16 0,78%

Altri reati 807 39,21%

Totale 2058 100%

Le persone alle quali è stato contestato il concorso esterno nel reato di cui all’art.

416-bis c.p. costituiscono meno dell’1% del totale delle persone sottoposte a

indagini per 416-bis c.p.

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Grafico 1 – Reati contestati in concorso con l’art. 416-bis c.p.

Money Laundering: ricettazione, riciclaggio, reimpiego, trasferimento fraudolento di

valori;

Reati contro il patrimonio: rapina, truffa, danneggiamento, furto, incendio,

circonvenzione di incapace;

Reati economici: reati societari, reati fallimentari, frode fiscale, abusiva attività

finanziaria, frode finanziaria commessa da ufficiale della Guardia di Finanza;

Reati contro la P.A. e contro l’amministrazione della giustizia: abuso d’ufficio,

calunnia, turbata libertà degli incanti, esercizio arbitrario delle proprie ragioni, falsa

testimonianza, intralcio alla giustizia, procurata inosservanza di pena, resistenza a

pubblico ufficiale, rivelazione del segreto d’ufficio, simulazione di reato, violazione

della pubblica custodia di cose;

Reati contro l’economia pubblica: commercio d’opere d’arte contraffatte, illecita

concorrenza con minaccia o violenza, turbata libertà dell’industria e del commercio;

Reati contro la persona: minaccia, sequestro di persona, violenza o minaccia per

costringere a commettere un reato, accesso abusivo a un sistema informatico;

297

239

196 188

161147 147

10795

57 54

27 23 18 18 9

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Altri reati: favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, formazione di corpi

armati non diretti a commettere reati, occultamento di cadavere.

Tabella 2 – Ruolo nell’associazione delle persone rinviate a giudizio per l’art. 416-bis c.p.

Ruolo nell'associazione Persone rinviate a

giudizio per 416-bis c.p. %

Promotori, direttori, organizzatori 82 25%

Partecipi 231 72%

Concorrenti esterni 8 2%

Non ricostruibile 1 0,3%

Totale 322 100%

Grafico 2 - Qualifica professionale delle persone rinviate a giudizio per l’art. 416-bis c.p.

Si rileva che in uno dei processi più importanti (“Infinito”) un imputato assomma le

qualifiche di sanitario (di vertice) e politico.

158

75

23 19 10 5 3 3 3 3 3 2 2 2 2 1 1

69

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21 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Grafico 3 - Settori di attività nei quali operano imprenditori e mafiosi-imprenditori rinviati a giudizio

per l’art. 416-bis c.p.

Il grafico fa riferimento alle persone (“mafiosi imprenditori” e imprenditori) che

svolgono una o più attività.

Le indicazioni professionali qui utilizzate per individuare i settori di attività sono

diverse da quelle utilizzate nella classificazione delle attività economiche elaborata

da ISTAT, le quali comprendono, talvolta, diversi settori di attività.

Eccole di seguito:

Edilizia: Costruzioni - Lavori di costruzioni specializzati - Preparazione del cantiere

edile - Costruzione di edifici residenziali e non residenziali - Costruzione di strade e

autostrade - Altri lavori di costruzione e installazione - Raccolta di rifiuti pericolosi

solidi e non solidi - Trattamento e smaltimento di rifiuti pericolosi;

Servizi: Attività di servizi finanziari – Attività postali con obbligo di servizio

universale - Attività di registrazione sonora e di editoria musicale – Organizzazione

di convegni e fiere;

Bar e locali notturni: Discoteche, sale da ballo, night club e simili - Altre attività di

intrattenimento e di divertimento - Bar e altri esercizi simili senza cucina;

Altre attività commerciali: Fabbricazione di mobili - Lavorazione di pietre preziose

e semipreziose per gioielleria e per uso industriale - Trasporto di merci su strada -

Lotterie, scommesse, sale da gioco

1%

Ristorazione1%

Bar e locali notturni14%

Attività immobiliari

5%

Attività commerciali

8%

Servizi5%

Altro ambito6%

Ambito non ricostruibile

12%

Preparazione del cantiere e

movimento terra31%

Opere di urbanizzazione

4%

Demolizioni1%

Raccolta e smaltimento

rifiuti2%

Costruzioni residenziali e non

9%Costruzioni strade1%

Edilizia48%

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Commercio all'ingrosso di fiori e piante - Gestione di altri impianti sportivi n.c.a. -

Commercio al dettaglio di prodotti tessili in esercizi specializzati.

Si è qui preferita una classificazione più analitica.

Nel 2% dei casi, tra i quali sono compresi gli imputati delle più importanti indagini

degli ultimi anni, è descritta un’intensa attività di smaltimento abusivo dei rifiuti. La

commissione di reati ambientali, pur essendo menzionata tra gli scopi

dell’associazione mafiosa e talora analiticamente descritta in motivazione, non

compare però come oggetto di un’autonoma contestazione (in quanto trasmessa dal

giudice competente). Per questa ragione i reati ambientali (e con essi tutti gli altri

reati scopo che non sono oggetto di un autonomo capo d’imputazione) non

emergono nella parte della ricerca dedicata ai reati contestati in concorso con l’art.

416-bis c.p.

2.1 Osservazioni in merito al “mafioso imprenditore”

Per evitare l’insorgere di un bias statistico e quindi un pregiudizio culturale nei

confronti della categoria degli imprenditori tout court, si osserva che dagli atti

emerge una linea di confine abbastanza definita tra la figura del c.d. “mafioso

imprenditore” e quella del c.d. “imprenditore colluso”.

Il mafioso imprenditore non è originariamente un imprenditore, ma ne assume il

ruolo per realizzare i propri affari illegali. È, in altri termini, una persona dedita al

crimine, legato a un’associazione determinata, che, forte della propria posizione

all’interno della consorteria mafiosa e utilizzando le modalità tipiche della stessa,

entra nelle attività imprenditoriali allo scopo di perseguire interessi e utili per

l’associazione di appartenenza. Il mafioso imprenditore utilizza un capitale frutto di

un introito illegale per avviare un’attività imprenditoriale, che è illegale sin

dall’origine.

In prospettiva dinamica, applica “il modello di organizzazione mafioso” nella

gestione delle imprese; immette i capitali ottenuti illecitamente in un determinato

settore economico – edilizia, movimento terra, etc. – e gestisce imprese create ad

hoc per fornire utili all’associazione e ai suoi scopi.

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La ricerca

23 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

L’imprenditore colluso (processualmente qualificato come mafioso), invece, è

originariamente un imprenditore operante nella legalità. È colui che ha creato

un’impresa legale, finalizzata a ottenere utili legittimi ma, ad un certo punto della

sua attività, decide di incrementare i propri introiti venendo a patti con la

criminalità organizzata. Questo accordo non esclude che in precedenza la stessa

persona, nella gestione dell'impresa, fosse vittima della associazione mafiosa e

costretto, ad esempio, a pagare o a servirsi di determinate risorse: umane, di mezzi

o di servizi. Con l'accordo si crea un rapporto reciproco in cui l’imprenditore cerca

di ottenere maggiori utili dalla collusione con la consorteria mafiosa e l’associazione

si serve dell’appoggio dell’imprenditore per assicurarsi maggiori benefici. “I vertici

dei clan selezionano una schiera di imprenditori di riferimento ovvero di imprese di

cui l’associazione mafiosa diviene lo “sponsor”, nel senso che diventano i naturali

destinatari di tutte le attività economiche necessarie per procurare utili all’impresa

mafiosa”6.

Per di più è il mafioso imprenditore ad attorniarsi di imprenditori collusi (o mafiosi)

poiché solo tramite questi riesce a penetrare nel settore economico oggetto di

interesse.

Grafico 4 – Ruolo nell’associazione degli imprenditori e mafiosi-imprenditori rinviati a giudizio per

l’art. 416-bis c.p.

6 Così Antonio Guerriero, Profili penalistici e strumenti di intervento in tema di abusi nelle procedure degli appalti pubblici, in “Cass. pen.”, 1998, 12, 3444 ss.

28

4

67

89

1

185

0

20

40

60

80

100

Mafioso imprenditore Imprenditore

Promotori, direttori, organizzatori

Partecipi

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La ricerca

24 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Grafico 5 – Tipologia di associazione

Sul campione di 105 procedimenti, in 69 casi è stato possibile individuare la

tipologia di associazione coinvolta. Nei restanti 36 procedimenti non è stato

possibile registrare tale dato, perché, nella maggior parte dei casi, si tratta di

procedimenti che sono stati archiviati (quanto meno in relazione all’art. 416-bis

c.p.).

Collegamento tra più associazioni: nei procedimenti analizzati in cinque casi emerge

un collegamento tra più associazioni criminali. Compaiono, infatti, soprattutto in

fase di indagini, convergenze di interessi criminali e contatti tra più realtà

associative di stampo mafioso. Solo in un caso (proc. pen. n. 53981/2000 R.G.N.R.),

tuttavia, questi legami trovano un riscontro processuale con la richiesta di rinvio a

giudizio di soggetti appartenenti a diverse associazioni (nel particolare tra

‘ndrangheta e un’associazione straniera di matrice albanese).

'ndrangheta78%

Cosa nostra10%

Sacra Corona Unita3%

Altra associazione criminale 2%

'ndrangheta e Cosa nostra

3%

'ndrangheta e associazioni straniere

2%

Cosa nostra e Camorra1%

'ndrangheta, Cosa nostra, Camorra

1%Collegamento tra associazioni 7%

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La ricerca

25 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Grafico 6 - Modalità di intimidazione

Nell’ambito di uno stesso procedimento possono ricorrere contestualmente più

modalità di intimidazione.

Grafico 7 - Scopi dell’associazione (dati relativi al numero di procedimenti)

59

18 19

41 42

49

0

10

20

30

40

50

60

Furt

o

Imp

osi

zio

ne

di

sovr

app

rezz

i

Alt

re m

od

alit

à

Vio

len

za s

u c

ose

Vio

len

za s

u p

ers

on

e

Min

acci

a

No

n r

ico

stru

ibile

10

27

15

11

23

46

26

24

44

12

25

Illecita concorrenza con violenza o minaccia

Estorsione

Usura

Ricettazione

Riciclaggio

Reati in materia di stupefacenti

Altro reato

Concessioni/autorizzazioni/appalti/servizi pubblici

Gestione o controllo di attività economiche

Interferenza in consultazioni elettorali

Non ricostruibile

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26 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Grafico 8 - Persone sottoposte a indagini ex art. 416-bis c.p.

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27 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Tabella 5 – Iter criminis indagati ex art. 416-bis c.p.

Esiti Indagati art.

416-bis c.p.

Indagati per art. 416-bis c.p. 1251

Archiviazione 766

Richiesta di rinvio a giudizio 384

Separazione per rito alternativo (*) 42

Modifica dell’imputazione 1

Non ricostruibile (**) 58

Giudizio immediato 59

- assoluzione 2

- condanna 52

- pendenti 4

- non ricostruibile 1

Udienza preliminare 165

Rinvio a giudizio 143

Sentenza di non luogo a procedere 9

Separazione per rito alternativo 7

Pendenti in udienza preliminare 2

Non ricostruibile 4

Giudizio abbreviato 230

- assoluzione 18

- condanna 207

- non doversi procedere 4

- non ricostruibile 1

Rito ordinario 176

- condanna 71

- assoluzione 28

- non doversi procedere 1

- pendenti 2

- separazione 16

- non ricostruibile 58

Appello 256

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28 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Esiti Indagati art.

416-bis c.p.

- condanna 132

- assoluzione 11

- riforma parziale 104

- aumento della pena 32

- riduzione della pena 72

- sentenza di non doversi procedere 17

- pendente in appello 3

Ricorso in Cassazione 258

- rigetto (conferma della sentenza d’appello) 135

- inammissibilità del ricorso (c.s.) 51

- annullamento con rinvio 32

- annullamento senza rinvio 2

- riduzione della pena (***) 1

- pendente in Cassazione 6

- non ricostruibile 31

Sentenze irrevocabili 218

(*) soggetti per i quali non si dispone di altra informazione oltre alla richiesta di

separazione per rito alternativo.

(**) soggetti per i quali vi è solo la notizia di iscrizione nel registro degli indagati.

(***) per effetto dei rinvii al giudice di merito

2.2 Gli esiti relativi agli imputati per associazione a delinquere di tipo mafioso

Gli esiti del processo costituiscono il punto di riferimento essenziale della ricerca

utile a vagliare, in prima approssimazione e nella prospettiva scelta, il livello di

infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto sociale ed economico del Nord

Italia.

Nel periodo temporale preso in considerazione dalla ricerca, solo il 30,62% delle

persone indagate per l’art. 416-bis c.p. (383 su 1251) è stato giudicato con una

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sentenza di primo grado. Peraltro, l’ipotesi accusatoria, che si forma all’esito delle

indagini preliminari, trova un’ampia conferma in sentenza: l’85,94% degli imputati

per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. è stato condannato in primo grado.

Vi è un altro dato rilevante. La maggior parte degli imputati per associazione a

delinquere di stampo mafioso è stata giudicata in primo grado con rito alternativo

(75,26%): il solo rito abbreviato riguarda il 59,90% dei casi.

Ciò non stupisce se si considera, da un lato, il periodo in cui sono iniziate le indagini

più importanti e, dall’altro lato, il fatto che le sentenze di primo grado derivano

prevalentemente da procedimenti che sono stati più veloci in ragione del rito

alternativo.

Si è già rilevato che è possibile seguire il processo in tutti i gradi di giudizio o,

comunque, fino all’irrevocabilità della sentenza di condanna o assoluzione.

Come anticipato, le sentenze pronunciate all’esito della celebrazione di un rito

alternativo (abbreviato e immediato) costituiscono la maggioranza: il 75,26% delle

383 persone giudicate in primo grado.

Un’altra considerazione merita di essere svolta a proposito dei reati che gravitano

attorno all’associazione a delinquere di stampo mafioso.

Ad un primo sguardo spiccano i reati tipicamente collegati alla criminalità

organizzata: estorsione, usura, ricettazione, armi e stupefacenti.

Non mancano, tuttavia, contestazioni di reati più propriamente riconducibili alla

criminalità economica: riciclaggio, reimpiego, reati societari, fallimentari,

corruzione e turbativa degli incanti.

In relazione all’entità della pena inflitta per gli altri reati occorre tenere in

considerazione che è difficile tenere distinta la condanna alla pena per l’art. 416-bis

c.p. da quella per il reato in concorso. Per questa ragione le pene inflitte

costituiscono spesso il risultato di diversi reati in concorso.

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La ricerca

30 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

2.3 Entità delle pene

Tabella 4 - Media delle pene in base al ruolo nell’organizzazione in cui è contestato unicamente l’art.

416-bis c.p.

Riti alternativi Rito ordinario Appello Cassazione

Promotore,

direttore,

organizzatore

9 anni e 10 mesi 11 anni 10 anni 10 anni e 7 mesi

Partecipe 6 anni e 1 mese 7 anni e 7 mesi 6 anni e 7 mesi 7 anni

Concorrente

esterno 5 anni e 6 mesi - 7 anni 7 anni

A fini statistici gli ergastoli sono stati calcolati come equivalenti a 30 anni

Tabella 5 - Media delle pene in base al ruolo nell’organizzazione in cui è contestato l’art. 416-bis c.p.

in concorso con altri reati

Riti alternativi Rito ordinario Appello Cassazione

Promotore,

direttore,

organizzatore

14 anni e 5

mesi

17 anni e 5

mesi

14 anni e 5

mesi

13 anni e 6

mesi

Partecipe 9 anni e 10

mesi

14 anni e 6

mesi

10 anni e 6

mesi

10 anni e 3

mesi

Concorrente

esterno 9 anni 5 anni

7 anni e 10

mesi 7 anni e 8 mesi

Tabella 6 - Media delle pene in base al ruolo nell’organizzazione in cui è contestato l’art. 416-bis c.p.

in concorso con l’omicidio e reati contro l’incolumità individuale

Riti alternativi Rito ordinario Appello Cassazione

Promotore,

direttore,

organizzatore

23 anni e 10

mesi

17 anni e 6

mesi

15 anni e 7

mesi 9 anni e 11 mesi

Partecipe 18 anni e 10

mesi

18 anni e 4

mesi

13 anni e 4

mesi 12 anni e 7 mesi

Concorrente

esterno - - - -

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31 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

Tabella 7 - Media delle pene in base al ruolo nell’organizzazione in cui è contestato l’art. 416-bis c.p.

in concorso con reati tipici della criminalità organizzata, escluso l’omicidio: detenzione e porto

d’armi, estorsione, favoreggiamento, delitti di falso, reati contro il patrimonio, reati contro

l’economia pubblica, reati in materia di traffico di stupefacenti, ricettazione

Riti alternativi Rito ordinario Appello Cassazione

Promotore,

direttore,

organizzatore

12 anni e 7 mesi 17 anni e 2

mesi 14 anni 14 anni e 5 mesi

Partecipe 8 anni e 8 mesi 13 anni e 2

mesi 10 anni 9 anni e 11 mesi

Concorrente

esterno

12 anni e 1

mese -

11 anni e 1

mese 13 anni e 6 mesi

Tabella 8 - Media delle pene in base al ruolo nell’organizzazione in cui è contestato l’art. 416-bis c.p.

in concorso con i seguenti reati, esclusi i precedenti: corruzione, reati contro la pubblica

amministrazione, reati contro l’amministrazione della giustizia, reati economici, riciclaggio,

reimpiego e trasferimento fraudolento di valori

Riti alternativi Rito ordinario Appello Cassazione

Promotore,

direttore,

organizzatore

11 anni e 6 mesi 18 anni e 8

mesi 14 anni 14 anni

Partecipe 7 anni e 8 mesi 7 anni e 7 mesi 7 anni e 4 mesi 7 anni e 8 mesi

Concorrente

esterno 7 anni e 5 mesi 5 anni 6 anni e 7 mesi 6 anni e 6 mesi

2.4 Procedimenti con enti sottoposti a indagini ex d. lgs. 231/2001 La ricerca ha rivolto la propria attenzione anche alla componente societaria dei

procedimenti penali ex art. 416-bis c.p. Come noto, infatti, il processo penale a

partire dal 2001 può avere come protagonisti anche gli enti nell’interesse o a

vantaggio dei quali il reato sia stato commesso da parte delle persone fisiche loro

rappresentanti. Tra i cosiddetti "reati presupposti" per la responsabilità da reato

degli enti istituita con il d. lgs. 231/2001 compare anche l’associazione per

delinquere di tipo mafioso, introdotta nel catalogo delle fattispecie dapprima

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La ricerca

32 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

solamente nella sua versione transnazionale, nel 2006, e poi anche nella sua

versione ordinaria, nel 2009.

Se infatti l’art. 10 del d. lgs. 146/2006 aveva aperto la strada al discusso ingresso

delle fattispecie associative nel novero di quelle capaci di originare la responsabilità

degli enti, limitandolo – per quel che in questa sede interessa – all’ipotesi di cui

all’art. 416-bis c.p. quando caratterizzata dalla transnazionalità di cui all’art. 3 dello

stesso corpo normativo, è solo con la l. 94/2009 che i «delitti di criminalità

organizzata», inclusa la fattispecie di cui all’art. 416-bis c.p., fanno la loro comparsa

a tutti gli effetti nel d. lgs. 231/2001, art. 24-ter. Da notare che non è soltanto

l’associazione per delinquere di tipo mafioso ad essere ricompresa in tale articolo,

ma anche «i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto

articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo

stesso articolo», con una formulazione che ricalca quella dell’aggravante di cui all’art.

7 d.l. 152/1991.

Con questa premessa si può ora guardare ai dati raccolti dai ricercatori nell’esame

dei procedimenti campione.

Il numero di procedimenti che ha visto enti collettivi indagati è pari a 3 su un totale

di 105 esaminati, il 2,85% circa del totale una percentuale molto limitata dunque.

Considerando tuttavia la fascia temporale effettivamente rilevante7, la proporzione

è di 3 su 62 se si concentra l’attenzione sui procedimenti aperti dopo il 2006: la

percentuale passa in questo modo al 4,84 % circa, alzandosi leggermente ma

restando comunque contenuta.

Dalla lettura degli atti processuali di questi procedimenti, traspare spesso una certa

difficoltà, da parte dell'Autorità Giudiziaria, di conciliare il fatto punito dall'art. 416-

bis c.p. con il criterio di imputazione oggettivo che fonda la responsabilità di cui al d.

lgs. 231/2001, ossia il collegamento oggettivo con l'ente (art. 5). Lo sforzo

interpretativo riflette peraltro le perplessità dottrinali su tale inedito connubio.

Individuati i 3 procedimenti, indicati convenzionalmente con le lettere A (proc. pen.

46229/2008 R.G.N.R.), B (41849/2007 R.G.N.R.) e C (37625/2008 R.G.N.R.), il

7 Prendendo in considerazione a questo scopo l'anno di apertura del procedimento, nella necessaria consapevolezza dell'approssimazione del dato, dal momento che l'iscrizione originaria precedente al 2006 potrebbe essere stata aggiornata successivamente.

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La ricerca

33 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

numero complessivo di enti chiamati a rispondere in sede penale è risultato pari a

16, dei quali 13 concentrati nel procedimento A, 2 nel procedimento B, e 1 nel

procedimento C.

Il 94% di questi enti è costituito da società di capitali, mentre il restante 6% è

composto da società di persone.

Il tipo societario più frequente è la società a responsabilità limitata (s.r.l.), come

rappresentato nel grafico che segue, in coerenza all'ampia diffusione di s.r.l. nel

tessuto economico italiano.

Grafico 9 - Enti sottoposti a indagini ex d. lgs. 231/2001: tipi societari

Quanto all'attività svolta (non sempre ricostruibile), si segnala che il 50% delle

società indagate è attiva in campo edilizio, e il 17% nel movimento terra.

Le persone fisiche che hanno innescato la responsabilità di tali società sono di rango

apicale, nella metà dei casi con un ruolo ricoperto soltanto di fatto.

Di particolare interesse l'individuazione del reato presupposto della responsabilità

degli enti in discorso. Come evidenzia la tabella di seguito riportata, l'art. 24-ter d.

lgs. 231/2001, in riferimento all'associazione per delinquere di tipo mafioso ex art.

416-bis, concerne tutte le 16 società indagate. A quelle del procedimento B si

aggiunge però la contemporanea contestazione di cui all'art. 25 del medesimo

decreto, dedicato alle ipotesi di concussione e corruzione, con la peculiarità che il

1 1

14

0

2

4

6

8

10

12

14

16

S.a.s. S.p.A. S.r.l.

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34 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

reato presupposto delle persone fisiche, la corruzione nello specifico, è a queste (le

stesse imputate anche ex art. 416-bis) contestato con l’aggravante dell’art. 7 d.l.

152/1991 e che i due illeciti amministrativi ascritti alle società sono stati poi

unificati in sede di condanna dal vincolo della continuazione.

Tabella 9 - Enti sottoposti a indagini ex d. lgs. 231/2001: reato presupposto

Reato presupposto Proc. A Proc. B Proc. C

Delitti di criminalità organizzata 13 2 1

Concussione e corruzione 0 2 0

Solo nel procedimento A vi è stato il ricorso a misure cautelari, in particolare al

sequestro preventivo nei confronti di 11 società di denaro, quote societarie e per 5

di queste 11, anche di beni immobili.

Il medesimo procedimento A si è concluso peraltro con una sentenza di esclusione

della responsabilità per tutte le 13 società imputate, motivata in primo luogo

dall'impossibilità di collegare la commissione di un comportamento criminoso

nell'interesse o a vantaggio delle stesse, ai sensi dell'art. 5 d. lgs. 231/2001, con la

mera promozione della societas sceleris di cui alla fattispecie ex art. 416-bis

addebitata alle persone fisiche; in secondo luogo con l’analoga incompatibilità tra il

medesimo criterio dell’interesse o vantaggio e il «giudizio di strumentalità degli atti

imprenditoriali all’interesse dell’associazione a delinquere» (così la pronuncia)

insito nell’aggravante dell’art. 7 d.l. 152/1991, ritenuta sussistente per le persone

fisiche condannate per l’associazione mafiosa.

Il procedimento B e il procedimento C hanno visto invece la condanna delle società

imputate al pagamento di una sanzione pecuniaria, insieme nel procedimento B alla

confisca di beni immobili e di quote societarie.

La condanna della s.r.l. imputata nel procedimento B è stata pronunciata nonostante

che nel corso del processo ne fosse stata dichiarato il fallimento: la sentenza

dichiarativa di fallimento ha soltanto condotto l’organo giudicante ad evitare ogni

sanzione interdittiva e a concentrare la risposta punitiva su quella pecuniaria, sul

rilievo che l’attività sociale non sarebbe ripresa. Sulla scorta dell'orientamento di

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35 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

legittimità è stato infatti escluso che il fallimento possa equipararsi, con tutte le

conseguenze che ne derivano, alla morte del reo.

2.5 Reati aggravati dal metodo mafioso o commessi per agevolare

l'associazione mafiosa (art. 7 d.l. 152/1991) Un altro indicatore fondamentale della ricerca, per stabilire la capacità di

infiltrazione della criminalità mafiosa nel tessuto sociale ed economico, è

rappresentato dalla contestazione dell'aggravante di cui all'art. 7 del d.l. n. 152 del

1991, inerente i delitti commessi «avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo

416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni

previste dallo stesso articolo».

Le persone sottoposte ad indagini per reati aggravati dall'art. 7 sono 327: il 40,52%

del totale delle persone sottoposte ad indagini solo per altri reati. L'aggravante di

cui all'art. 7 ha trovato applicazione anche nei confronti di persone sottoposte ad

indagini per l'art. 416-bis c.p. In altri termini, l'aggravante del metodo mafioso è

applicata ai reati commessi da persone appartenenti all'associazione.

L'analisi qui di seguito riportata è stata condotta prendendo come punto di

riferimento i reati (e non le persone).

Rispetto alla contestazione dell'aggravante al momento della richiesta di rinvio a

giudizio (o della richiesta di giudizio immediato), la stessa è stata riconosciuta nella

sentenza di primo grado nel 93,27% dei casi. Si sono analizzate separatamente le

tipologie di reati in base alla presenza della contemporanea contestazione anche

dell’art. 416-bis c.p. (a) e dell’assenza dello stesso (b). La tipologia di reati ai quali è

stata più frequentemente applicata l'aggravante del metodo mafioso è costituita da

fattispecie che implicano la gestione degli interessi economici dell'associazione: nel

23,05% (a) e 16,67% (b) dei casi si tratta di ricettazione, riciclaggio, reimpiego e

trasferimento fraudolento di valori. Tale risultato è in controtendenza rispetto alla

frequenza con la quale detti reati sono stati commessi, specialmente se si confronta

questo dato con quello relativo ai reati in materia di sostanze stupefacenti. Mentre

questi ultimi sono statisticamente più frequenti, molto meno frequente è

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La ricerca

36 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

l'applicazione della circostanza di cui all'art. 7: solo il 7,43% (a) e 9,80% (b) dei casi

in cui è stata applicata dal giudice di primo grado riguarda reati in materia di

stupefacenti.

Sono ancora gli interessi economici a veicolare la commissione dei reati che più

frequentemente sono aggravati dall'art. 7. Oltre alle fattispecie contro il patrimonio

come estorsione e usura, che appartengono tradizionalmente alla categoria dei reati

"satellite" della criminalità mafiosa e che costituiscono rispettivamente il 12,00%

(a) / 24,18% (b) e il 7,05% (a) / 5,88% (b) dei casi in cui l'aggravante ha trovato

applicazione, i reati economici (abusiva attività finanziaria, bancarotta e reati

societari) aggravati dall'art. 7 sono il 6,86% (a) e 3,59% (b) del totale.

Il ricorso al metodo mafioso, oltre a incidere in modo rilevante sulla gestione degli

interessi economici della criminalità mafiosa, coinvolge anche l'ambito dei rapporti

con la pubblica amministrazione: nel 3,24% (a) e 2,94% (b) dei casi sono i reati di

corruzione ad essere aggravati dalla circostanza del metodo e dell'agevolazione

mafiosa.

L'analisi suggerisce l'immagine di organizzazioni criminali che gestiscono cospicui

interessi economici, spesso in forma imprenditoriale con le modalità descritte

dall'aggravante di cui all'art. 7.

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La ricerca

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Grafico 10 - Fasi di criminalizzazione

In indagini preliminari: 327

Riconoscimento in Cassazione: 94

Riconoscimento in appello: 165

Riconoscimento in primo grado: 305 - con rito alternativo: 259 - con rito ordinario: 46

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Grafico 11 - Tipologia di reati aggravati dall’art. 7 per gli indagati ai quali è contestato anche l’art.

416-bis c.p.

Grafico 12 - Tipologia di reati aggravati dall’art. 7 per gli indagati ai quali non è contestato l’art. 416-

bis c.p.

Altri reati4,38%

Corruzione3,05%

Delitti di falso1,90%

Detenzione e porto d'armi

15,05%

Estorsione12,00%

Favoreggiamento2,86%

Omicidio e reati contro

l'incolumità individuale

5,52%

Reati contro il patrimonio

4,19%

Reati contro l'economia

pubblica1,71%

Reati contro la P.A. e contro

l'amministrazione della giustizia

3,24%

Reati contro la persona1,71%

Reati economici6,86%

Reati in materia di traffico di stupefacenti

7,43%

Ricettazione, riciclaggio,

reimpiego e trasferimento fraudolento

23,05%

Usura7,05%

Altri reati0,98%

Associazione per delinquere

1,63%

Corruzione4,25% Delitti di falso

1,96%

Detenzione e porto d'armi6,86%

Estorsione24,18%

Favoreggiamento4,90%

Omicidio e reati contro l'incolumità

individuale2,94%

Reati contro il patrimonio

11,11%

Reati contro l'economia

pubblica1,31%

Reati contro la P.A. e contro

l'amministrazione della giustizia

2,94%

Reati contro la persona0,98%

Reati economici3,59%

Reati in materia di traffico di

stupefacenti9,80%

Ricettazione, riciclaggio, reimpiego

e trasferimento fraudolento

16,67%

Usura5,88%

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3. Misure di prevenzione

3.1 Confisca e amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività

economiche. Cenni all’evoluzione legislativa La ricerca ha riguardato anche l’applicazione delle misure di prevenzione

patrimoniali antimafia.

Le misure di prevenzione si applicano a soggetti considerati pericolosi, in assenza di

condanna e sono distinte in:

a) personali, quando limitano la libertà di agire del destinatario;

b) patrimoniali, quando intervengono sul patrimonio o restringono la libertà

d’iniziativa economica del proposto.

In coerenza con lo scopo della presente ricerca, l’indagine ha considerato solo le

misure patrimoniali e, in particolare, la confisca e l’amministrazione giudiziaria dei

beni connessi ad attività economiche.

Poiché la disciplina del sottosistema preventivo è stata più volte modificata, è forse

utile ripercorrere, in breve, gli snodi fondamentali dell’evoluzione legislativa. Tali

indicazioni sono anche necessarie per comprendere alcune delle scelte

metodologiche compiute.

Nonostante le numerose leggi che hanno regolato la materia in esame fin dal

diciannovesimo secolo, le misure preventive moderne si ricollegano alla l. n. 1423

del 1956, per effetto della quale la prevenzione è passata, in larga parte, dalla

competenza degli organi amministrativi e di polizia a quella degli organi giudiziari.

I destinatari delle misure di prevenzione, in base all’art. 1, l. n. 1423/1956, erano:

«1) coloro che debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che sono abitualmente

dediti ai traffici delittuosi;

2) coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi

di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attività delittuose;

3) coloro che per il loro comportamento debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto,

che sono dediti alla commissione di reati che offendono o mettono in pericolo

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l’integrità fisica o morale dei minorenni, la sanità, la sicurezza o la tranquillità

pubblica»8.

Nel testo legislativo erano previste le sole misure personali, vale a dire, l’avviso orale,

il foglio di via obbligatorio, la sorveglianza di pubblica sicurezza e il divieto o l’obbligo

di dimora.

Con la legge n. 575 del 1965, il sistema preventivo si è rivolto anche agli «indiziati di

appartenere ad associazione mafiosa», ai quali sono state applicate, con alcune

differenze di natura procedimentale, le misure previste dalla disciplina del 1956.

L’ambito delle persone che possono subire le misure previste dalla l. n. 575 del 1965

è stato successivamente ampliato con la legge n. 152 del 1975 (c.d. legge Reale), che,

all’art. 19, ha incluso, tra i destinatari della “prevenzione antimafia”, anche le

categorie di persone indicate dalla l. n. 1423, art. 1.

Le misure di prevenzione patrimoniali antimafia sono state invece introdotte con la

l. n. 646 del 1982 (Legge Rognoni-La Torre) che, modificando la disciplina del 1965

(art. 2-ter), ha previsto strumenti di tipo ablatorio, idonei a incidere anche sul

patrimonio degli indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, camorristiche o di

analogo tipo, comunque denominate.

Si tratta, in particolare,

del sequestro, «dei beni dei quali la persona nei cui confronti è stato iniziato il

procedimento [di prevenzione] risulta poter disporre, direttamente o indirettamente,

e che sulla base di sufficienti indizi, come la notevole sperequazione fra il tenore di vita

e l'entità dei redditi apparenti o dichiarati, si ha motivo di ritenere siano il frutto di

attività illecite o ne costituiscano il reimpiego»;

della misura definitiva della confisca «dei beni sequestrati dei quali non sia stata

dimostrata la legittima provenienza».

Dopo la riforma del 1982, sorgeva l’interrogativo se in forza dell’estensione dei

destinatari operata dalla legge del 1975, anche le misure patrimoniali potessero

essere applicate alle persone pericolose di cui all’art. 1, r.d. n. 1423.

8 La formula originaria, più volte modificata, prevedeva in verità altre categorie di persone pericolose, molte discusse, tra cui gli oziosi, i vagabondi e i proclivi a delinquere. La limitazione alle sole tre categorie elencate è avvenuta ad opera della l. n. 327 del 1988.

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La questione è stata risolta con l’art. 14 della l. n. 55/1990, che ha limitato

l’applicabilità delle misure patrimoniali soltanto ad alcune ipotesi di pericolosità

qualificata così definita:

a) indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, alla camorra o ad altre

associazioni, comunque localmente denominate, che perseguono finalità o agiscono

con metodi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso;

b) indiziati di appartenere ad associazioni finalizzate al traffico di stupefacenti;

c) persone che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi delle attività

previste dagli articoli 600, 601, 602, 629, 630, 644, 648-bis o 648-ter del codice

penale, ovvero quella di contrabbando.

Dopo il 1990 e, fino al 2008, la confisca poteva quindi applicarsi ai beni nella

disponibilità di persone sopra indicate, qualora si avesse motivo di ritenere che essi,

anche alla luce della sproporzione con il reddito dei detentori, fossero il frutto o il

reimpiego di attività illecite.

Con il d.l. n. 92/2008, convertito nella legge n. 125/2008, il novero dei destinatari

della confisca è stato esteso nuovamente, includendo anche i «soggetti indiziati di

uno dei reati previsti dall'articolo 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale», e

il requisito oggettivo della sproporzione si è trasformato, da mero indizio della

provenienza illecita dei beni, a presupposto dotato di autonomia.

Il d.l. n. 92 del2008 ha previsto la possibilità di applicare disgiuntamente misure di

prevenzione personali e patrimoniali. I presupposti soggettivi, inerenti la

pericolosità personale del proposto, conservano un ruolo di primaria importanza

nell’applicazione di sequestro e confisca.

Le misure di prevenzione sono ora disciplinate dal d.lgs. n. 159 del 6 settembre 2011

(c.d. Codice antimafia), agli art. 4 e ss.

Il decreto ha ampliato i destinatari delle misure, includendovi tutte le forme di

pericolosità, qualificata e comune, e ha sancito definitivamente la separazione tra

misure personali e patrimoniali.

La ricerca si occupata è inoltre della «sospensione temporanea dei beni connessi ad

attività economiche», introdotta nella l. n. 575/1964 (art. 3 quater) con il d.l. n. 306

del 1992, convertito in l. n. 356 del 1992.

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La misura è oggi prevista all’art. 34, d.lgs. n. 159/2011, con una diversa

denominazione («Amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività

economiche»), ma con una disciplina analoga a quella previgente.

La disposizione prevede che: «Quando ricorrono sufficienti elementi per ritenere che

il libero esercizio delle attività economiche (…) agevoli l'attività delle persone nei

confronti delle quali è stata proposta o applicata una misura di prevenzione, ovvero di

persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti previsti dagli articoli

416-bis, 629, 630, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale, il tribunale dispone

l'amministrazione giudiziaria dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per

lo svolgimento delle predette attività».

La misura è applicabile per un tempo limitato (fino a diciotto mesi), a seguito del

quale il Tribunale può disporre la revoca (con eventuale controllo giudiziario) o la

confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne

costituiscano il reimpiego.

3.2 I decreti analizzati

Nell’ambito della ricerca, sono state considerate le misure della confisca e

dell’amministrazione dei beni connessi ad attività economiche, attualmente

disciplinate dagli artt. 24 e 34, d.lgs. n. 159/2011.

Sono stati analizzati i provvedimenti giudiziali, ricavandone le informazioni più

importanti e registrandole sulla scheda elettronica predisposta dal gruppo di

ricerca.

Il campione dell’indagine è costituito dai decreti di applicazione della confisca dei

beni, emessi nell’ambito di procedimenti iscritti nel registro delle misure di

prevenzione, presso il Tribunale di Milano – Sezione misure di prevenzione, dal

2000 al 2015.

L’analisi è stata limitata ai soli provvedimenti definitivi non impugnabili.

Per l’anno 2015, nel momento in cui è stata effettuata la ricerca, nessun

provvedimento risultava definitivo.

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Quanto ai decreti di confisca, il campione è stato ristretto ai provvedimenti

riguardanti gli «indiziati di appartenere ad associazioni mafiose» o persone

comunque collegate alle consorterie mafiose.

Tale scelta è dipesa dalla necessità di escludere dall’indagine sulla confisca antimafia

i decreti emessi a carico di persone indiziate di aver commesso altri reati, persone

alle quali, come abbiamo visto, sono comunque applicabili le misure di prevenzione

previste dalla l. n. 575/1965 e, attualmente, dal d.lgs. n. 159/2011.

Il campione finale è costituito da 67 provvedimenti di confisca.

3.3 I proposti In questa sezione sono considerate le caratteristiche più rilevanti delle persone alle

quali è stata applicata la misura della confisca.

Tabella 10 - Numero dei decreti esaminati e dei proposti

Totale decreti Totale

proposti

Totale persone

destinatarie del decreto

67 80 76

Un decreto di confisca può avere come destinatari più persone.

Grafico 13 - Genere dei proposti

5%

95%

Donne

Uomini

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Grafico 14 - Distribuzione del numero dei proposti per anno di emissione dei decreti

Grafico 15 - Origine dei proposti: luogo di nascita (regioni)

3.4 Indici di pericolosità: presupposti soggettivi della misura

La presente sezione riguarda i presupposti soggettivi di applicazione della confisca.

Tali presupposti coincidono con gli indici di pericolosità delle persone proposte.

Tradizionalmente tali presupposti erano costituiti dall’applicazione della misura

personale o dal fatto che questa fosse in corso di esecuzione.

Dopo la previsione della possibilità di applicazione disgiunta delle misure personali

e patrimoniali (con d.l. n. 92/2008, convertito nella l. n. 125/2008), i presupposti

soggettivi consistono nella riferibilità dei beni alle persone cui potrebbe applicarsi

o è stata applicata una misura personale. In definitiva, nonostante la separazione tra

misure personali e patrimoniali, la pericolosità del soggetto che detiene il bene

conserva un ruolo di primaria importanza nelle motivazioni dei decreti di confisca.

L’analisi dei presupposti oggettivi (disponibilità, sproporzione, provenienza o

destinazione illecita dei beni) è stata eliminata in questa sede poiché il dato che ne

è derivato è, al contempo, di scarso valore e spurio. Da una parte, è stato a volte

8

46 7

12

42

6

3

0

6 7 6 57

0

5

10

15

2000 2001 2002 2003 2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014

Calabria63%

Lombardia13% Puglia

7%

Sicilia7%

Campania5%

Estero4%

Basilicata1%

Lazio1%

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difficile (e quindi incerto) distinguere nelle motivazioni dei decreti l’accertamento

riguardante la sproporzione e la provenienza o la destinazione illecita dei beni;

dall’altra, le variazioni sull’accertamento dei due presupposti sono influenzate dalle

modifiche normative.

Tabella 11 – Gli indici di pericolosità

Indici di pericolosità Proposti %

Totale proposti 80 100%

- di cui con collegamento con associazione

mafiosa

64 83%

- di cui con precedenti di polizia 15 19%

- di cui indagati o imputati in un

procedimento penale

56 73%

- di cui condannati in un procedimento

penale*

72 94%

Ad ogni proposto può essere ricondotto più di un indice di pericolosità. La

percentuale è calcolata sul totale dei proposti. Ad esempio: il 19% dei proposti ha

precedenti di polizia.

* In questa tabella e nelle successive per “condannato in un procedimento penale”,

si intende una persona che è stata condannata almeno nel primo grado di giudizio.

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3.8 Numero di proposti indagati o imputati in un procedimento penale per tipo

di reato contestato

Grafico 16 - Distribuzione per reato dei proposti indagati o imputati

Ogni proposto può essere indagato o imputato per più reati.

22

12

2

4

1

2

3

5

8

9

7

2

7

34

7

416 bis

Associazione per delinquere

Favoreggiamento

Delitti di falso

Illecita concorrenza con minaccia o violenza

Omicidio

Reati contro l'incolumità individuale

Estorsione

Truffa

Usura

Ricettazione

Riciclaggio

Detenzione e porto d'armi

Reati in materia di sostanze stupefacenti

Altro reato

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3.9. Numero di proposti condannati in un procedimento penale per tipo di

reato Grafico 17 – Distribuzione per reato dei proposti condannati

Ogni proposto può essere condannato per più reati.

3.10 Indizi di appartenenza ad associazione mafiosa (mero collegamento,

sottoposto ad indagini o imputato, condannato)

Tabella 12 – Gli indici di pericolosità: indizi di appartenenza per tipologia

Indici di pericolosità Proposti

Totale proposti 80

Collegamento con associazione mafiosa 64

Indagato o imputato per l’art. 416 bis c.p. 22

Condannato per l’art. 416 bis c.p. 17

Le percentuali sono calcolate sul numero totali dei proposti

17

22

2

1

8

7

4

5

6

9

10

9

17

4

21

50

1

3

1

27

416 bis

Associazione per delinquere

Corruzione

Favoreggiamento

Delitti di falso

Illecita concorrenza con minaccia o violenza

Omicidio

Reati contro l'incolumità individuale

Rapina

Estorsione

Truffa

Usura

Ricettazione

Riciclaggio

Detenzione e porto d'armi

Reati in materia di sostanze stupefacenti

Reati fallimentari

Frode fiscale

Trasferimento fraudolento di valori

Altro reato

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3.11 Indizi di appartenenza ad associazione mafiosa: tipo di associazione Grafico 18 – Gli indici di pericolosità: indizi di appartenenza per tipo di associazione

3.12 Collegamento con associazione mafiosa: luoghi di radicamento delle

famiglie mafiose

Immagine 1 – La distribuzione dei luoghi di radicamento emersi per i proposti con indizi di

collegamento con associazione mafiosa

103

48

2 21

20

1

16

10

10

20

30

40

50

60

Cosa nostra Camorra Ndrangheta Sacra Corona Unita Collegamento traassociazioni

Collegamento con associazione mafiosa Indagato o imputato per l'art. 416 bis c.p.

Condannato per l'art. 416 bis c.p.

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3.13 Indagati o imputati per l’art. 416-bis c.p.: luoghi di radicamento delle

famiglie mafiose

Immagine 2 – La distribuzione dei luoghi di radicamento emersi per i proposti indagati o imputati

per associazione mafiosa

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3.14. Condannati per l’art. 416 bis c.p.: luoghi di radicamento delle famiglie

mafiose

Immagine 3 – La distribuzione dei luoghi di radicamento emersi per i proposti condannati per

associazione mafiosa

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3.15 Beni sottoposti a confisca Il grafico indica le tipologie di beni confiscati ad ogni proposto. Ad esempio: i beni

immobili sono stati confiscati a 61 proposti.

Grafico 19 – Tipologie di beni per numero di proposti

Tabella 13 - Numero di beni confiscati

Tipo di beni N° confische %

Immobili 249 47%

Mobili registrati 57 11%

Azioni/quote societarie 52 10%

Aziende 44 8%

Rami d'azienda 4 1%

Conti correnti 119 23%

Totale beni 525 100%

La tabella indica il numero di beni confiscati per differenti tipologie e si riferisce

soltanto a beni dei quali, in base alle informazioni ricavabili dai decreti, si può

determinare la quantità. Sono, ad esempio, state escluse le sostanze stupefacenti.

61

30 3325

4

45

1 1

25

010203040506070

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3.16 L’amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche

Tabella 14 - Totale dei decreti e delle imprese proposte

Decreti Imprese proposte

6 7

Tabella 15 - Distribuzione delle imprese proposte per anno del decreto

Anno decreto Imprese proposte

2009-2010 2

2010-2011 4

2011-2012 1

Grafico 20 – Misure applicate alle imprese

7 7

3

00

1

2

3

4

5

6

7

8

Amministrazionegiudiziaria

Revoca Controllo giudiziario Confisca

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La ricerca

53 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7981

4. I flussi delle procure

4.1. Nota metodologica

I grafici si riferiscono ai c.d. flussi dei procedimenti penali, in cui è stato contestato

l’art. 416 bis c.p. e l’art. 7 l. 203/1991, transitati dal 2000 al 2015 nelle diverse

Procure Italiane interpellate.

In ragione dello scopo della ricerca e del suo ambito, si è rivolta l’attenzione alle

Procure di cinque sedi della Direzione Distrettuale Antimafia - territorialmente

competenti – ovvero di Milano, Roma, Napoli, Reggio Calabria e Palermo.

Per quanto riguarda i dati di Palermo è doverosa una precisazione metodologica. Si

è ritenuto, infatti, opportuno prevedere delle tabelle grafiche distinte per i due

periodi di riferimento 2000/2008 e 2009/2015.

La scelta è stata condizionata dalla diversità degli Uffici che hanno fornito i dati e

dalla loro conseguente eterogeneità. Infatti, mentre per il periodo compreso tra il 1

gennaio 2001 al 31 dicembre 2008 i dati sono stati forniti dalla Procura della

Repubblica presso il Tribunale di Palermo, i dati dal 1 gennaio 2009 al 30 dicembre

2015 sono stati elaborati dall’Ufficio del Giudice per le Indagini Preliminari di

Palermo.

Si segnala inoltre che alcuni dati inviati dalla Procura di Napoli non sono risultati

leggibili, in particolare in riferimento alle misure cautelari per il periodo 2011-2015

riguardo alla contestazione ex art. 416 bis c.p. e riguardo alla durata nella definizione

dei procedimenti che presentano l’aggravante di cui all’art. 7 l. 203/1991.

Occorre infine segnalare che nel periodo preso in esame la metodologia di

registrazione statistica di molte Procure è stata modificata dal passaggio al sistema

S.I.C.P., che ha progressivamente sostituito il sistema R.E.G.E. Questo avanzamento

informatico ha talora causato una fisiologica difformità, seppur lieve, nei dati

raccolti con tali diversi sistemi: ad esempio, presso la Procura della Repubblica del

Tribunale di Roma è stato utilizzato il sistema R.E.G.E. sino al 31/07/2015, sostituito

poi da S.I.C.P., che utilizza una scheda di registrazione più dettagliata.

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Si sottolinea ancora che le definizioni delle voci presentate nei grafici e nelle tabelle

successive derivano direttamente dal modello statistico utilizzato dalle Procure per

la registrazione dei dati.

Immagine 4 – Le popolazioni dei distretti di corte d’Appello (dati ISTAT)

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4.2. Art. 416-bis c.p. Grafico 21 – Andamenti dei procedimenti

Grafico 22 – Tassi dei procedimenti ogni 100.000 abitanti

27 4108 74

179225 234

3572

1247

2466

228 191

2859

1091

2553

24 47

821

23092

0

500

1000

1500

2000

2500

3000

3500

4000

Milano Roma Napoli Reggio Calabria Palermo

Pendenti all'inizio Sopravvenuti Esauriti Pendenti alla fine del periodo

0,40 0,07 2,2913,06

8,363,30 4,06

75,79

220,02

115,23

3,35 3,31

60,66

192,49

119,29

0,35 0,82

17,42

40,58

4,30

0

50

100

150

200

250

Milano Roma Napoli Reggio Calabria Palermo

Pendenti all'inizio Sopravvenuti

Esauriti Pendenti alla fine del periodo

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Grafico 23 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Milano

Grafico 24 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Roma

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

9,80%

Richiesta di giudizio immediato

8,16%

Passaggio ad altro modello0,41%

Riunione ad altro procedimento

18,37%

Tramissione per competenza

9,39%

Richiesta di archiviazione per

infondatezza29,39%

Richiesta di archiviazione per

mancanza di condizioni

20,41%

Richiesta di archiviazione per

essere ignoti gli autori del reato

2,04%

Richiesta di archiviazione per

altro motivo2,04%

Richiesta di archiviazione

53,88%

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

10,86%

Richiesta di giudizio immediato

3,17%

Passaggio ad altro modello5,43%

Riunione ad altro procedimento

27,60%

Tramissione per competenza

16,29%

Richiesta di archiviazione per

infondatezza20,81%

Richiesta di archiviazione per

mancanza di condizioni

14,93%

Richiesta di archiviazione per

essere ignoti gli autori del reato

0,90%

Richiesta di archiviazione

36,65%

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Grafico 25 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Milano

Grafico 26 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Reggio Calabria

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

19,47%

Richiesta di giudizio immediato

3,81%

Passaggio ad altro modello0,88%

Riunione ad altro procedimento

22,73%

Tramissione per competenza

3,50%

Richiesta di applicazione della pena su richiesta

0,57%

Richiesta di archiviazione per

infondatezza20,01%

Richiesta di archiviazione per

mancanza di condizioni

26,10%

Richiesta di archiviazione per

essere ignoti gli autori del reato

1,28%

Richiesta di archiviazione per

altro motivo1,65%

Richiesta di archiviazione

49,04%

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

19,41%

Richiesta di giudizio immediato

1,96%

Passaggio ad altro modello4,77%

Riunione ad altro procedimento

29,73%

Tramissione per competenza

5,24%

Richiesta di applicazione della pena su richiesta

0,23%

Richiesta di archiviazione per

infondatezza8,76%

Richiesta di archiviazione per

mancanza di condizioni

27,93%

Richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato

1,41%

Richiesta di archiviazione per

altro motivo0,55%

Richiesta di archiviazione

38,65%

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Grafico 27 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Palermo per il periodo 2000-

2008

Grafico 28 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Palermo per il periodo 2009-

2015

Tramissione per competenza

0,54%

Riuniti ad altro procedimento

45,74%

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

12,58%

Richiesta di giudizio immediato

0,07%

Richiesta di applicazione della pena su richiesta

1,35%

Richiesta di archiviazione per

mancanza di condizioni

35,99% Richiesta di archiviazione per

infondatezza2,91%

Richiesta di archiviazione per

altro motivo0,74%

Richiesta di archiviazione per

essere ignoti gli autori del reato

0,07%

Richiesta di archiviazione

39,72%

Riuniti ad altro procedimento

3,78%

Decreto di rinvio a giudizio

ordinario10,39%

Decreto di giudizio

immediato0,63%

Decreto di archiviazione per

mancanza di condizioni

43,62%

Decreto di archiviazion

e per infondatezz

a28,50%

Decreto di archiviazione per

altro motivo1,26%

Decreto di archiviazione per essere ignoti gli autori del reato

11,81%

Decreto di archiviazione

85,20%

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4.3. Osservazioni: applicazione della pena su richiesta delle parti art. 416 bis

c.p.

Nell’analisi dei flussi potrebbe destare qualche perplessità il dato relativo

all’applicazione dall’art. 444 c.p.p. alle persone indagate per il delitto di cui all’art.

416 bis c.p.

Non esiste, in verità, “incompatibilità normativa” tra la norma processuale e quella

sostanziale.

Partendo dall’art. 444 c.p.p., è il caso di ricordare che la disciplina previgente alla

modifica del 2003 (l. n. 134 del 12 giugno 2003) includeva nell’ambito di

applicazione del patteggiamento i reati puniti con reclusione non superiore ai due

anni, tenuto conto delle circostanze e della diminuzione di un terzo della pena

prevista dal rito. Dopo il 2003, con l’introduzione del c.d. patteggiamento allargato

si è elevato da due a cinque anni il limite quantitativo di pena detentiva che - sola o

congiunta a pena pecuniaria - può essere oggetto di accordo tra le parti (art. 444, co.

1 c.p.p.). Pur tuttavia, il comma 1 bis, dell’art. 444 c.p.p. esclude il patteggiamento

“allargato” in una serie di ipotesi, tra cui l’art. 416 bis c.p., per le quali il limite della

pena continua a essere di due anni9.

In relazione a tale fattispecie di reato, è opportuno evidenziare che nella disciplina

originaria la pena detentiva prevista per la partecipazione all’associazione era da tre

a sei anni. La legge n. 251 del 5 dicembre 2005 l’ha modificata da cinque a dieci. La

riforma operata con il c.d. pacchetto sicurezza del 2008 (l. n. 125 del 24 luglio 2008)

ha ulteriormente innalzato la cornice edittale nel minimo a sette anni e nel massimo

a dieci. Infine, con la l. n. 69 del 2015, la pena è stata portata da dieci a quindici anni

per i partecipi e da dodici a diciotto anni per «Coloro che promuovono, dirigono o

organizzano l’associazione».

9 La normativa vigente, anche a seguito delle modifiche intervenute dopo il 2003, prevede che: «Sono esclusi all'applicazione del comma 1 i procedimenti per i delitti di cui all'articolo 51, commi 3‐bis e 3‐quater, i procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600‐bis, 600‐ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600‐quater, secondo comma, 600‐quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600‐quinquies, nonché 609‐bis, 609‐ter, 609‐quater e 609‐octies del codice penale, nonché quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali e per tendenza, o recidivi ai sensi dell'articolo 99, quarto comma, del codice penale, qualora la pena superi due anni soli o congiunti a pena pecuniaria». É necessario ricordare che esiste un’interpretazione secondo la quale il limite dei due anni riguarderebbe soltanto i delinquenti abituali, professionali, per tendenza o i recidivi, mentre il divieto di applicazione del patteggiamento sarebbe assoluto per le ipotesi delittuose indicate dall’art. 444, co. 1 bis c.p.p.

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4.4. Art. 7 D.L. 152/1991 Grafico 29 – Andamenti dei procedimenti

Grafico 30 – Tassi dei procedimenti ogni 100.000 abitanti

9 10 0 48206331

7733

1962

213 266

5859

1579

2 75

1874

431

0

1000

2000

3000

4000

5000

6000

7000

8000

9000

Milano Roma Napoli Reggio Calabria

Pendenti all'inizio Sopravvenuti

Esauriti Pendenti alla fine del periodo

0,13 0,17 0,008,473,02 5,74

164,08

346,17

3,13 4,61

124,32

278,60

0,03 1,30

39,76

76,05

0

50

100

150

200

250

300

350

400

Milano Roma Napoli Reggio Calabria

Pendenti all'inizio Sopravvenuti

Esauriti Pendenti alla fine del periodo

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Grafico 31 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Milano

Grafico 32 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Roma

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

9,94%

Richiesta di giudizio immediato

6,73%

Passaggio ad altro modello6,09%

Riunione ad altro procedimento

23,40%

Tramissione per competenza

5,77%

Richiesta di archiviazione per infondatezza

18,91%

Richiesta di archiviazione per mancanza di

condizioni12,50%

Richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori

del reato16,03%

Richiesta di archiviazione per altro motivo

0,64%

Richiesta di archiviazione

48,08%

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

12,88%

Richiesta di giudizio immediato

3,29%

Passaggio ad altro modello7,95%

Riunione ad altro procedimento

20,82%

Tramissione per competenza

13,97%

Giudizio direttissimo0,27%

Richiesta di archiviazione per infondatezza

15,34%

Richiesta di archiviazione per mancanza di

condizioni16,99%

Richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori

del reato7,95%

Richiesta di archiviazione per altro motivo

0,55%

Richiesta di archiviazione

40,82%

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Grafico 33 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Napoli

Grafico 34 – Dati dei procedimenti della Procura della Repubblica di Reggio Calabria

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

23,37%

Richiesta di giudizio immediato

8,48%

Passaggio ad altro modello8,03%

Riunione ad altro procedimento

16,24%

Tramissione per competenza

4,54%

Richiesta di applicazione della pena su richiesta

0,24% Richiesta di archiviazione per infondatezza

7,27%

Richiesta di archiviazione per mancanza di condizioni

24,37%

Richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori

del reato6,47%

Richiesta di archiviazione per altro motivo

0,99%

Richiesta di archiviazione

39,11%

Richiesta di rinvio a giudizio ordinario

17,66%

Richiesta di giudizio immediato

2,15%

Passaggio ad altro modello8,22%

Riunione ad altro procedimento

23,18%

Tramissione per competenza

6,70%

Richiesta di applicazione della pena su richiesta

1,26%Richiesta di archiviazione

per infondatezza8,68%

Richiesta di archiviazione per mancanza di condizioni

23,14%

Richiesta di archiviazione per essere ignoti gli autori

del reato8,64%

Richiesta di archiviazione per altro motivo

0,38%

Richiesta di archiviazione

40,83%

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I “LIMITI” DEL REATO DI ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO

DI FRONTE ALLE “MAFIE IN TRASFERTA”

Alain Maria Dell’Osso

Abstract

Recently, in Northern Italy, came to light many small criminal groups affiliated to the huge criminal

organization known as ‘Ndrangheta. This organization certainly represents one of the most

important form of Mafia. The essay aims to clarify if it is correct to consider even the single small

group as “mafioso”. Such a label has extremely relevant consequences: in particular, it allows to

prosecute the group as an “associazione di tipo mafioso” under section 416-bis of the Italian Penal

Code.

Keywords: Organized crime; ‘ndrangheta; Characteristics of mafia; elements of the crime of

“associazione di tipo mafioso”; mafia local cells.

1. Vitalità dell’art. 416-bis c.p. ed evoluzioni del fenomeno

mafioso

Tra i vari - e noti - limiti delle legislazioni cd. d’emergenza sembra primeggiare, per

frequenza, la scarsa versatilità delle disposizioni: è assai raro, infatti, che previsioni

normative tarate su esigenze politico-criminali specifiche e fortemente legate a

precisi contesti socio-economici risultino, alla prova del tempo, in grado di vivere di

vita propria e di adattarsi al mutare delle situazioni. In tali casi, può accadere che i

precetti, divenuti desueti, siano archiviati nel compendio delle anticaglie del diritto

oppure, ed è l’epilogo meno auspicabile, che siano tenuti artificialmente in vita

mediante interpretazioni ortopediche che - con una singolare quanto censurabile

inversione logica - ritagliano i fatti sulle norme.

Il reato di associazione di tipo mafioso, pur innegabilmente riconducibile alla

categoria della legislazione d’emergenza1, non può certo essere tacciato di scarsa

1 Per tutti, anche per un puntuale riscontro dei caratteri tipici della legislazione d’emergenza: Franco Bricola, Premessa al commento della l. n. 646 del 1982, in “Leg. pen.”, 1983, p. 238.

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64 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7982

vitalità2 e non pare affatto che ciò derivi da prassi applicative disinvolte. Il dato

appare ancor più inusuale se si considera la forte impronta sociologica3

(evidentemente figlia del sentire del tempo) che permea la fattispecie. Non c’è

tuttavia di che rallegrarsi: il legislatore del 1982 deve condividere il merito del

duraturo “successo” con il perdurare (se non addirittura dilagare) delle associazioni

mafiose. Pare, cioè, che sia il fenomeno ad aver dismesso i panni dell’emergenzialità,

per assurgere a costante della criminalità italiana, e non solo la legge ad essere

riuscita a sopravvivere al proprio tempo.

Certo, rispetto ai primi anni ottanta, i caratteri della mafia sono mutati: è scemata la

violenta conflittualità con lo Stato, è sfumata la connotazione “territoriale” a

vantaggio di una maggiore diffusività, si sono modificati i rapporti con le attività

d’impresa, sono emerse le cd. nuove mafie, anche di origine straniera, e così via.

Sono, tuttavia, cambiamenti che non hanno inciso sulla sostanza dell’agire mafioso,

che non hanno, cioè, modificato il bersaglio della traiettoria disegnata dalla Legge

Rognoni-La Torre.

Appare opportuno impostare invece una riflessione sui limiti “attuali” della

fattispecie, appuntando l’attenzione proprio sulle sue capacità di adattarsi anche a

tali mutamenti: si tratta, cioè, di verificare, alla luce della casistica giurisprudenziale

analizzata nel corso della Ricerca, se la disposizione sia efficace anche nei confronti

dei nuovi fenomeni mafiosi (come già osservato, sicuramente lo è rispetto alle forme

tradizionali).

Pur in questa già circoscritta ottica, si schiudono numerose prospettive d’indagine,

tra queste se ne indagherà una: l’inquadramento giuridico delle articolazioni locali

delle mafie storiche in contesti non tradizionali. Il tema verte essenzialmente sulla

possibilità di riscontrare anche in tali casi (per fenomeni o ambienti sociali diversi

rispetto a quelli considerati dal legislatore del 1982) i caratteri tipici del metodo

mafioso.

2 Per Gaetano Insolera - Tommaso Guerini, Il problema del metodo nel delitto di associazione mafiosa,

in “Ius 17”, 2015, 1, p. 167: “l’associazione di tipo mafioso gode di ottima salute”. 3 Sul punto Giovanni Maria Flick, L’associazione a delinquere di tipo mafioso. Interrogativi e riflessioni sui problemi proposti dall’art. 416-bis c.p., in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1988, pp. 851 ss.; Mauro Ronco, L’art. 416-bis nella sua origine e nella sua attuale portata applicativa, in Bartolomeo Romano - Giovanni Tinebra, Il diritto penale della criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 2013, p. 139.

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Si badi: la questione non sembra da porre in astratto. É evidente che non vi sono

ostacoli, per così dire, a priori alla rintracciabilità dei connotati mafiosi anche “in

trasferta”, lontano dai luoghi di origine del fenomeno: il tema è, piuttosto, se, alla

luce della casistica, sia plausibile accertarne in concreto la sussistenza, senza dover

ricorrere a semplificazioni probatorie oppure a forzature del dato normativo. Senza

voler anticipare le conclusioni, si può fin d’ora rilevare come in un non trascurabile

numero di casi si è assistito a curvature di tal genere, operate, per lo più, attraverso

una rilettura al ribasso del metodo mafioso.

2. Il metodo mafioso: matrice sociologica, interpretazioni e prassi

applicative

Come noto, il concetto di mafia4 entra nel lessico del giurista dalla metà degli anni

sessanta, con l’introduzione della categoria degli “indiziati di appartenere ad

associazione mafiosa” tra i potenziali destinatari di misure di prevenzione, ai sensi

dell’art. 1 l. n. 575 del 19655. La novella, figlia dei lavori della Commissione

parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, non chiariva tuttavia

cosa si dovesse intendere per associazione mafiosa, sicché l’interpretazione fu

demandata alla giurisprudenza. Per assolvere a tale compito, venne naturale

appuntare l’attenzione proprio sull’osservazione del fenomeno mafioso in Sicilia: il

riferimento era, allora, un’organizzazione criminale storicamente consolidata,

radicata sul territorio, con velleità di controllo “parastatale” del contesto di

riferimento, riconoscibile dalla collettività e, per questo, temuta. Sulla scorta di tali

riscontri, negli anni, la Suprema Corte giunse a una definizione “stabile” di

consorteria mafiosa:

“ogni raggruppamento di persone che, con mezzi criminosi, si proponga di assumere

o mantenere il controllo di zona, gruppi o attività produttive attraverso

l’intimidazione sistematica e l’infiltrazione di propri membri in modo da creare una

4 Il termine risulta in uso sin dalla prima metà 1800. Sul punto: Salvatore Scarpino, Storia della mafia, Fenice, Milano, 1994, p. 17; Claudio Lo Monaco, A proposito della etimologia di mafia e mafioso, in “Lingua Nostra”, 1990, passim. 5 Per tutti: Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè, Milano, 2015, p. 17.

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situazione di assoggettamento e di omertà che renda impossibili o altamente difficili

le normali forme di intervento punitivo dello Stato”6.

L’approdo interpretativo fu ripreso dal legislatore del 1982, chiamato ad introdurre,

rapidamente, una fattispecie di reato dedicata alla criminalità mafiosa. Già da tempo

erano in discussione proposte di legge volte ad approntare strumenti specifici per il

contrasto ad una forma di delinquenza produttiva di elevato allarme sociale e

ritenuta da molti non riconducibile al modello di associazione per delinquere

previsto dal codice penale (o, comunque, non adeguatamente fronteggiabile

mediante quell’istituto)7; l’omicidio dell’onorevole La Torre - primo firmatario di

una delle proposte di legge allora in discussione - indusse a velocizzare i tempi,

superando alcuni dei nodi problematici che rallentavano l’approvazione della legge,

tra i quali, appunto, la definizione del metodo mafioso. Come testimoniano i lavori

delle Commissioni parlamentari, si pensò, allora, di prendere spunto proprio dagli

approdi ermeneutici ai quali era pervenuta la giurisprudenza in materia di misure

di prevenzione8.

I caratteri della mafia siciliana assursero, dunque, a connotati identificativi della

nozione generale di associazione mafiosa9. In altri termini: Cosa Nostra non fu solo

l’archetipo quanto, piuttosto, il riferimento per descrivere il fenomeno in sé.

La definizione normativa del metodo mafioso, dettata dal terzo comma dell’art. 416-

bis c.p., ruota - come risaputo - attorno all’elemento della forza d’intimidazione del

vincolo associativo; la capacità intimidatrice è cifra identificativa del sodalizio10, ne

caratterizza l’attività (in questo senso, come si vedrà, l’organizzazione se ne avvale)

e determina le situazioni di assoggettamento e omertà, strumentali al

perseguimento dei fini dell’associazione.

Moltissimo è stato scritto negli anni su questi temi: sarebbe un esercizio del tutto

sterile ripresentare in questa sede questioni note e articolate. Si tenterà, dunque, di

6 Cass. pen., sez. I, 12 novembre 1974, n. 1709, in “Giust. pen.”, 1976, III, p.152. 7 Franco Bricola, op. cit. p. 239; Giovanni Fiandaca, Commento all’art. 1 l. 646 del 1982, in “Leg. pen.”, 1983, p. 257. 8 Giovanni Fiandaca, op. cit., p. 259; Gabrio Forti (agg. Matteo Caputo), art. 416-bis, in Alberto Crespi - Gabrio Forti - Giuseppe Zuccalà, Commentario breve al codice penale, Cedam, Padova, 2208, p. 990. 9 In questi termini Luigi Fornari, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo di intimidazione” derivante da un contesto criminale?, in “Dir. pen. cont.”, 9 giugno 2016, pp. 6 ss. 10 Giovanni Maria Flick, op. cit., p. 855 parla di “punto qualificante saliente della nuova norma”.

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ridurne la complessità procedendo per cenni e limitandosi ai soli punti funzionali

allo svolgimento dell’indagine.

Prendendo le mosse dalla forza d’intimidazione del vincolo, conviene anzitutto

provare a chiarirne i contenuti: si è detto che essa consiste nella “quantità di paura

che una persona (fisica o giuridica) è in grado di suscitare nei terzi in considerazione

della sua predisposizione ad esercitare sanzioni o rappresaglie [... in una] fama tale

da porre i terzi in una condizione di assoggettamento e omertà”11; ancora, nell’

“intrinseca idoneità di un aggregato umano di incutere paura nei terzi in ragione del

già sperimentato esercizio della coazione”12. Tali definizioni legano correttamente

la capacità intimidatrice alla storia dell’associazione: l’attitudine a incutere timore è

una qualità ottenuta “sul campo”, in ragione dell’attività illecita esercitata da parte

del sodalizio.

Coglie allora perfettamente nel segno l’osservazione di chi ha ritenuto che dietro

un’associazione di tipo mafioso si collochi un “precedente sodalizio criminoso

indifferenziato”13; in tale prospettiva, non è cioè possibile che un nucleo criminale

di “nuova” formazione presenti da subito i tratti della consorteria mafiosa: a tal fine,

è necessario un periodo di “gavetta”, nel corso del quale far nascere e maturare -

attraverso la commissione di atti di violenza o minaccia - la fama criminale

necessaria per innescare la richiesta forza intimidatrice14. Ed è proprio una siffatta

fama che consente alle associazioni mafiose di “incutere timore per la loro stessa

esistenza”15 e giustifica la connotazione del sodalizio in termini di “attualità

criminosa”16.

Ne deriva che, una volta acquisita tale attitudine, non occorre un ricorso costante e

quotidiano ad atti d’intimidazione: a un certo punto, l’associazione mafiosa -

divenuta effettivamente tale - può, per così dire, vivere di rendita, contando sulla

percezione di timore ormai diffusa nella popolazione. Assoggettamento e omertà

11 Giuseppe Spagnolo, L’associazione di tipo mafioso, Cedam, Padova, 1997, p. 28. 12 Mauro Ronco, op. cit., p. 74. 13 Giuliano Turone, op. cit., p. 139. 14 In questi termini Gabrio Forti, op. cit., p. 991. 15 Giovannangelo De Francesco, Associazione per delinquere e associazione di tipo mafioso, in Digesto delle discipline penalistiche, Utet, Torino, 1987, p 309. 16 Giancarlo De Vero, Tutela penale dell’ordine pubblico. Itinerari ed esiti di una verifica dogmatica e politico-criminale, Giuffrè, Milano, 1988, p. 288; Gaetano Insolera, Diritto penale e criminalità organizzata, Il Mulino, Bologna, 1996, p. 72.

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divengono allora forme di reazione adattiva della società, meccanismi autodifensivi

tesi a evitare che l’uso della violenza riaffiori a proprio danno. Si determina, così,

una costante compressione della libertà di autodeterminazione dei consociati,

espressione della “frantumazione già avvenuta dell’ordine pubblico» e dell’«attuale

strumentalizzazione di tale rottura”17.

Tali considerazioni - le cui ricadute sul tema delle nuove mafie sono fin d’ora

evidenti - ci avvicinano ad un tema tradizionalmente dibattuto e oggi strettamente

legato alle problematiche oggetto del presente lavoro: la rilevanza di uno

sfruttamento (anche solo) meramente potenziale della capacità intimidatrice del

sodalizio; in altri termini, resta da capire “se sia necessario che l’associazione si sia

effettivamente avvalsa della forza di intimidazione ovvero se sia sufficiente che essa

si proponga di utilizzarla”18, pur non essendosene ancora servita.

Guardando al testo della disposizione, il riferimento è la locuzione «si avvalgono»

con la quale si descrive l’agire mafioso orientato alla realizzazione degli scopi (leciti

o illeciti) del sodalizio19.

Secondo una prima tesi, più risalente, l’espressione andrebbe interpretata alla luce

delle specifiche esigenze di tutela perseguite dalla legge Rognoni-La Torre, tra le

quali, in particolare, l’adozione di una fattispecie “a tutela anticipata”, tarata sulle

peculiarità del fenomeno mafioso e dai confini più estesi rispetto all’associazione

per delinquere. In questa prospettiva, ritenere necessaria l’attualità dell’esercizio

della forza intimidatrice costringerebbe a dover provare, oltre al vincolo tra gli

associati, la struttura organizzativa e il cosiddetto scopo sociale, anche l’esercizio

effettivo o attuale dell’intimidazione20. Le potenzialità applicative della previsione

ne sarebbero pregiudicate, a discapito delle intenzioni del legislatore storico. L’uso

della capacità di incutere timore diviene, allora, carattere dell’associazione, per così

dire, in action, modalità tipica della sua azione, come percepibile a livello sociale;

non necessaria, tuttavia, per la sua esistenza. Breve: l’associazione di tipo mafioso è

17 Mauro Ronco, op. cit., p. 62. 18 In questi termini: Giovannangelo De Francesco, op. cit., p. 308 ss.; Gaetano Insolera, op. cit., p. 73. 19 Giovanni Fiandaca, op. cit., p.231. Pur con qualche differenza, Guido Neppi Modona, L’associazione di tipo mafioso, in Studi in memoria di Giacomo Delitala, Giuffrè, Milano, 1984, pp. 897 ss.; Raffaele Bertoni, Prime considerazioni sulla legge antimafia, in “Cass. pen.”, 1983, p. 1017. 20 Pressoché testualmente da Giovanni Fiandaca, op. cit., p. 261.

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- in questa prospettiva - da considerare reato associativo puro; l’uso

dell’intimidazione atterrebbe al piano operativo, non a quello strutturale. Chi ha

autorevolmente sostenuto tale interpretazione metteva, tuttavia, fin da subito in

luce il rischio che, seguendo tale strada, la giurisprudenza avrebbe potuto, di fatto,

obliterare l’elemento della forza di intimidazione, relegandolo a mera clausola di

stile21; ancora, si avvertiva il pericolo di subordinare la sussistenza del reato ad un

mero processo alle intenzioni dei sodali.

Nella stessa direzione, seppur da una diversa prospettiva, si è sostenuto che

richiedere lo sfruttamento attuale della capacità di intimidazione significherebbe, in

qualche modo, esigere la prova del conseguimento dello scopo immediato del

sodalizio22. Ciò tanto più nei casi di organizzazioni talmente temute da potersi

permettere di non ricorrere in concreto - per il conseguimento, ad esempio, di un

appalto - all’effettivo uso della forza. Così, secondo l’interpretazione in esame, il

mancato esercizio di poteri intimidatori sterilizzerebbe l’intervento della fattispecie

proprio nelle situazioni più gravi. Per evitare il paradosso, bisognerebbe provare lo

sfruttamento della fama criminale dell’associazione dimostrando effettivamente che

questa è servita; che è risultata utile agli scopi dell’associazione (i.e. l’appalto è stato

ottenuto). Anche in quest’ottica, si restringerebbe, tuttavia, inopportunamente il

perimetro applicativo della fattispecie. Sarebbe allora preferibile accontentarsi della

mera intenzione di sfruttare le potenzialità intimidatorie del sodalizio.

Entrambe le posizioni accennate superano l’ostacolo derivante dalla coniugazione

all’indicativo presente del verbo avvalersi - immediatamente evocatrice di un’azione

in fieri e non di un’eventualità - ritenendo che il legislatore abbia inteso sottolineare

l’importanza della già maturata capacità intimidatrice dell’associazione, suscettibile

di essere utilizzata qualora dovesse servire23. Si avvalgono equivarrebbe a sono in

condizione di avvalersi.

21 Giovanni Fiandaca, op. cit., p. 262. 22 L’interpretazione “comporterebbe la necessità che l’associazione abbia effettivamente coartato la volontà dei destinatari, approssimandosi in tal modo alla realizzazione degli obiettivi finali che si proponeva di conseguire”. Così Giovannangelo De Francesco, op. cit., p. 312. 23 In questo senso Giovannangelo De Francesco, op. cit., p. 313; Antonio Ingroia, L’associazione di tipo mafioso, Giuffrè, Milano, 1993, p. 70.

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Di contro, si è obiettato che “la formulazione letterale non consente di prescindere

dall’esistenza della forza intimidatrice e dalla sua utilizzazione”24. E, passando alla

sostanza dell’illecito, che l’in sè dell’associazione sia da cogliere proprio nell’uso

della forza come tratto “coessenziale al vincolo associativo”25 ed espressione di

quest’ultimo. Più in dettaglio, “il fulcro dell’incriminazione si colloca in uno spazio

[...] riempito dalla ripetuta e generalizzata compressione dell’altrui libertà morale,

da una serie rilevante e consistente di violenze private, in mancanza delle quali esula

il presupposto della punibilità delle varie categorie di soggetti richiamati dall’art.

416-bis c.p.”26.

Secondo tale impostazione, l’associazione a delinquere sarebbe, dunque, reato

associativo a struttura mista: l’associarsi diventa punibile solo se si accompagna ad

un’esteriorizzazione effettiva delle sue potenzialità lesive, che consentono lo

sfruttamento della capacità intimidatrice del vincolo27.

A ben vedere, il dibattito sul punto è stato talvolta viziato dalla sovrapposizione di

due questioni diverse28: attualità dello sfruttamento della forza intimidatrice e

attualità degli atti di intimidazione.

Conviene, dunque, muovere da quella che appare come una corretta distinzione dei

piani del ragionamento.

Già si è osservato - e il punto è condiviso - come la forza di intimidazione rappresenti

una “qualità” dell’associazione conseguita mediante una storia di uso della violenza

con finalità, appunto, intimidatoria. La reiterazione nel passato di condotte lato

sensu violente attribuisce all’organizzazione quella caratura criminale dalla quale

discende la forza di intimidazione e la conseguente possibilità per il sodalizio di non

dover più ricorrere costantemente al compimento di atti di aggressiva

prevaricazione (perché nella collettività si sono già innescate quelle risposte

comportamentali di soggezione). Breve: la forza intimidatrice consente di

prescindere dall’attualità degli atti d’intimidazione (nulla vieta, ovviamente, che si

ripropongano nel presente e che si preveda che ricorreranno anche in futuro).

24 Giuseppe Spagnolo, op. cit., p. 74. Nello stesso senso Mauro Ronco, op. cit., p. 75. 25 Giovanni Maria Flick, op. cit., p. 855 parla di «punto qualificante saliente della nuova norma». 26 Giancarlo De Vero, op. cit., p. 290. 27 Giancarlo De Vero, op. cit., p. 290; Mauro Ronco, op. cit., p. 75. 28 Con estrema chiarezza Gaetano Insolera, op. cit., p. 77.

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In questa prospettiva, che le attività d’intimidazione possano essere anche solo

potenziali non significa che possa essere potenziale anche lo sfruttamento della

forza di intimidazione, anzi, proprio il contrario: intanto si può prescindere dal

ricorso alla violenza (o alla minaccia) proprio perché si sfrutta la forza di

intimidazione già conseguita dal sodalizio.

Ecco, allora, che i timori di un’applicazione recessiva della fattispecie proprio nei

casi di sodalizi più temibili e ormai slegati dall’uso della violenza o della minaccia29

sembrano svanire.

Sgombrato il campo dall’equivoco, sembra allora da privilegiare - seppur nei termini

che si diranno - la tesi del reato a struttura mista, unica in grado di dare corpo

all’incriminazione, cogliendo l’effettivo disvalore legato alle consorterie mafiose e le

immediate proiezioni lesive sulla libertà di autodeterminazione dei singoli.

Mette conto evidenziare come sia stata prospettata anche una tesi comunemente

definita intermedia30, volta, in sostanza, a sottolineare come sia irrilevante che il

sodalizio dia avvio all’esecuzione del programma criminoso: non serve, infatti, uno

sfruttamento attivo e mirato della forza di intimidazione, essendo, di contro,

sufficiente che esso sia inerziale (slegato, appunto, dagli obiettivi) ma, pur sempre,

attuale31.

Tale lettura, affatto condivisibile, appare un’opportuna specificazione della tesi della

struttura mista, piuttosto che espressione di una prospettiva autonoma. Nel ribadire

la necessità di un quid pluris rispetto alla mera associazione (elemento

caratterizzante la struttura mista), si precisa che esso debba consistere sempre nello

sfruttamento della forza di intimidazione; risulta, in tal senso, fuorviante,

l’alternativa talvolta proposta tra sfruttamento della capacità del vincolo e inizio del

programma criminoso. Il primo elemento è indefettibile: è ciò che connota l’essenza

della fattispecie; il secondo è, invece, davvero, potenziale, giacché l’esecuzione del

programma si colloca oltre la soglia di consumazione del reato.

Riassumendo: l’associazione mafiosa richiede un uso attuale della forza

d’intimidazione del vincolo.

29 Il riferimento è a Giovannangelo De Francesco, op. cit., 313. 30 Per una puntale analisi delle diverse tesi: Gabrio Forti (agg. Matteo Caputo), op. cit., pp. 992-993. 31 Così, in particolare, Giuliano Turone, op. cit., pp. 126 ss.

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Ciò posto, è agevole chiarire un altro aspetto talora frainteso: la portata del concetto

di mafia silente. Contrariamente a quanto affermato in talune pronunce

giurisprudenziali32, con tale locuzione non si può fare riferimento ad associazioni

che non abbiano ancora maturato un’autonoma capacità intimidatoria o che non

abbiano ancora - pur possedendola - iniziato a farne uso. In tali casi saremmo di

fronte ad associazioni non ancora mafiose, in questo senso solo potenzialmente tali.

Mafia silente può essere, allora, solo l’organizzazione che non compie atti violenti

poiché gode di una forza intimidatoria tale da poterne prescindere. Si deve trattare,

però, sempre di associazioni che sfruttano, sia pur implicitamente, il timore

innescato dalla propria fama criminale33. Esattamente, come l’impresa lecita che

sfrutti la potenza del proprio marchio senza dover (rectius: potendo ormai fare a

meno di) pubblicizzare la qualità dei prodotti34.

Perfettamente in linea con tale ricostruzione pare, allora, la posizione di recente

espressa dal Primo Presidente della Corte di Cassazione, nel decreto con il quale ha

ritenuto di non dover devolvere alle Sezioni Unite un contrasto sul tema in esame,

“secondo cui l’integrazione della fattispecie di associazione di tipo mafioso implica

che un sodalizio criminale sia in grado di sprigionare, per il sol fatto della sua

esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale,

effettiva ed obbiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà

di quanti vengano a contatto con i suoi componenti”35.

32 Per un’attenta ricostruzione e per i riferimenti giurisprudenziali, in particolare Costantino Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al Nord, in “Dir. pen. cont., Riv. trim.”, 2015, 1, p. 376; Id., I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, in “Dir. pen. cont.”, 3 ottobre 2015; Roberto Maria Sparagna, Metodo mafioso e c.d. mafia silente nei più recenti approdi giurisprudenziali, in “Dir. pen. cont.”, 10 novembre 2015. 33 In maniera del tutto condivisibile Giuseppe Spagnolo, op. cit., p. 29: “Si avvale dunque della forza di intimidazione del vincolo associativo chi chiede senza bisogno di minacciare esplicitamente, chi ottiene senza bisogno di chiedere, utilizzando la “cattiva fama” del sodalizio criminoso e la paura che incute il vincolo associativo”. 34 Davvero calzante, dunque, il parallelismo tra metodo mafioso e avviamento di un’impresa proposto in Giuliano Turone, op. cit., p. 128. 35 Primo Presidente della Corte di Cassazione, decreto del 28 aprile 2015. L’ordinanza di rimessione è Cass. pen., sez. II, ordinanza n. 815 del 25 marzo 2015, Nesci. Sul punto, Giuliano Turone, op. cit., p. 148; Costantino Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al Nord, cit, p. 376; Id., I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al nord: dicono di pensarla allo stesso modo, ma non è così, cit., dove si osserva, in relazione all’orientamento espresso dal Primo Presidente: “in termini teorici, esso si colloca nell'alveo di un robusto e condivisibile orientamento dottrinale che tende a configurare il delitto di associazione di tipo mafioso quale reato associativo “a struttura mista”, ossia bisognoso per il suo perfezionamento di un quid pluris rispetto al solo dato organizzativo pluripersonale, elemento aggiuntivo identificato, appunto, nel concreto riscontro di un dispiegarsi effettivo della forza di

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Come si vedrà, e come è stato acutamente osservato36, l’omesso coinvolgimento

delle Sezioni Unite ha rappresentato verosimilmente un’occasione mancata per fare

definitivamente chiarezza su un aspetto che - più o meno apertamente - costituisce

ancora oggetto di interpretazioni discordanti da parte della giurisprudenza. Si tratta

di un contrasto, per certi versi, occulto, giacché sono poche le pronunce che hanno

esplicitamente affermato la superfluità di un uso attuale della forza intimidatrice;

assai più numerose sono, tuttavia, le decisioni che, pur presentando ossequio

formale all’opinione maggioritaria - qui seguita -, hanno in concreto omesso

l’accertamento dell’effettivo manifestarsi della forza di intimidazione.

Tale varietà di posizioni sarà esaminata dalla specifica prospettiva del contrasto al

fenomeno della ‘ndrangheta al nord.

3. Infiltrazione della ‘ndrangheta in Lombardia: associazioni

mafiose autonome o articolazioni periferiche?

Senza pretese di invadere il campo degli studiosi delle organizzazioni criminali o di

ripercorrere, semplificando oltremodo gli esiti delle più significative inchieste

giudiziarie degli ultimi anni, si può tentare di abbozzare la linea di evoluzione

dell’infiltrazione ‘ndranghetista in Lombardia nei termini che seguono.

A partire dagli anni settanta, la ‘ndrangheta, tradizionalmente operante nel sud della

Calabria, ha iniziato a manifestarsi in Lombardia. É difficile pensare di isolare una

ragione di tale proiezione: è, infatti, verosimile che molti fattori abbiano contribuito

a determinare il fenomeno. Certamente, i flussi migratori degli anni precedenti

avevano prodotto il sorgere di cospicue “comunità” calabresi nell’hinterland

milanese, creando in tal modo l’humus per un’infiltrazione delle organizzazioni

criminali nelle nuove strutture sociali che si andavano formando; altrettanto

sicuramente hanno influito le attrattive rappresentate da un felice momento di

crescita economica che schiudeva importanti opportunità di investimento per i

proventi illeciti. E, in tal senso, come ben è stato evidenziato da talune recenti

intimidazione; con ciò segnando una marcata differenza dal modello di reato associativo “puro”, suscettibile di perfezionarsi alla sola presenza di un’organizzazione diretta a commettere reati”. 36 Costantino Visconti, I giudici di legittimità ancora alle prese con la “mafia silente” al nord, cit., p. 1.

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inchieste, l’imprenditoria lombarda si è dimostrata assai recettiva - e, in questo

senso, per nulla refrattaria - dinanzi alle occasioni di guadagno innescate

dall’afflusso dei capitali della ‘ndrangheta37. Breve: nel volgere di una decina d’anni,

la ‘ndrangheta ha iniziato a impadronirsi di numerosi esercizi commerciali e

imprese, fino a controllare intere aree dell’economia lombarda.

Da un punto di vista organizzativo, è emerso che la ’ndrangheta si sia articolata sul

territorio lombardo attraverso singole cellule, riunite in locali, vere e proprie

succursali dotate di autonoma organizzazione, pur - verrebbe da dire con lessico

societario - sottoposte alla direzione e al coordinamento delle sovrastrutture

calabresi rappresentate dalle Province (o Crimini), costituenti i tre “mandamenti-

chiave della mafia calabrese: quello della Tirrenica, quello della Jonica e quello del

Centro”38. Le inchieste giudiziarie hanno, peraltro, posto in luce i contrasti talvolta

insorti tra i singoli locali e le cosche “controllanti”; nonché, da ultimo, la costituzione

di una sorta di corpo intermedio, la Lombardia, destinato a fungere da organismo di

coordinamento dei singoli locali in territorio lombardo39. Tali recenti riscontri

hanno dunque definitivamente posto in discussione il tradizionale modello di analisi

della ‘ndrangheta quale struttura “parcellizzata” e priva di un impianto verticistico,

a vantaggio di un modello “unitario”40.

Tali cenni possono essere sufficienti a inquadrare, ai fini che qui interessano, il tema

e, cioè, la fissazione dei requisiti per considerare le singole cellule quali associazioni

mafiose autonome. La ‘ndrangheta costituisce associazione mafiosa, per così dire,

tipica: è espressamente contemplata come tale dall’art. 416-bis, co. 8, c.p.; nessun

dubbio, ancora, che le Province e i locali - intese nel senso sopra chiarito -

rappresentino a loro volta associazioni mafiose in sé rilevanti.

Assai più problematico è, invece, qualificare come associazioni mafiose le singole

cosche non ancora assurte a locali (o qualificarle come locali, se si vuole in tal modo

indicare un’associazione rilevante ai sensi dell’art. 416-bis c.p.).

37 Così, Direzione Nazionale Antimafia, Relazione annuale 2014, pp. 585 ss.; Rocco Sciarrone (a cura di), Mafie al nord. Strategie criminali e contesti locali, Donzelli, Roma, 2014, p. 13; Giuliano Turone, op. cit., p. 104. 38 Giuliano Turone, op. cit., p. 102. 39 I riferimenti sono, in particolare, all’inchiesta cd. Infinito: Cass. pen., Sez. VI, 5 giugno 2014, n. 30059 e Cass. pen., Sez. II, 26 maggio 2015, n. 36447. 40 Così Antonio Balsamo - Sandra Recchione, Mafie al nord, in “Dir. pen. cont.”, 18 ottobre 2013, p. 10.

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Approssimando, si possono individuare tre ipotesi di neoformazioni in astratto

rilevanti:

gruppi in grado di sfruttare un’autonoma forza di intimidazione, senza che

tuttavia ciò si sia già esternato e che si siano dunque prodotti fenomeni di

succubanza nella popolazione locale;

gruppi che, sfruttando la fama criminale della “casa madre”, sono riusciti ad

affermarsi in territori nuovi, destando soggezione e innescando omertà;

gruppi che hanno abbinato allo sfruttamento del marchio di “gruppo”

un’autonoma capacità intimidatoria, conquistandosi un attuale diffuso

riconoscimento nel contesto criminale locale e innescando comportamenti

difensivi nella cittadinanza.

Una piana applicazione delle conclusioni raggiunte nel paragrafo precedente porta

a ritenere i gruppi del primo tipo estranei al perimetro di applicazione della norma

in commento (suscettibili eventualmente di considerazione ai sensi dell’art. 416

c.p.); i secondi, una mera manifestazione locale dell’associazione di origine e non,

dunque, associazione a sé stante; e solo i terzi autonome associazioni mafiose.

Più in dettaglio, sulla prima categoria, si sono riscontrate significative divergenze

interpretative41. Come anticipato, la spinta ad accordare rilevanza a fenomeni di tal

genere ha comportato un recupero delle tesi che leggono l’associazione di tipo

mafioso come reato associativo puro; ed è stata proprio la ripresa giurisprudenziale

di tali interpretazioni a innescare il contrasto che ha portato al già citato decreto del

Primo Presidente della Cassazione. Secondo una felice formula di sintesi, “molte di

queste sentenze impiegano argomenti simili e soltanto alcune avanzano

ragionamenti originali”42 e pervengono al medesimo risultato di avallare un

accertamento a livello solo potenziale della forza di intimidazione.

41 Su questi temi, anche per un attento approfondimento del panorama giurisprudenziale, si veda

Fernanda Serraino, Associazioni ‘ndranghetiste di nuovo insediamento e problemi applicativi dell’art.

416 bis c.p., in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2016, pp. 264 ss. 42 Costantino Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al Nord, cit., p. 373.

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Tali pronunce lasciano trasparire tracce di quell’ “autoritarismo ben intenzionato”43

che ha talvolta caratterizzato l’approccio della giurisprudenza a questioni

interpretative dense di implicazioni concrete: si ha cioè l’impressione che non si

voglia correre il rischio di vanificare i risultati ottenuti sul piano investigativo e il

conseguente vantaggio di essere arrivati in anticipo, di aver cioè individuato e

isolato la cellula prima ancora che arrivasse a maturazione44. Il fine è nobile e i

benefici in termini di difesa sociale sono evidenti: essi non legittimano, tuttavia, una

mutazione ermeneutica del tipo criminoso. Si è già avuto modo di illustrare le

ragioni per le quali si ritiene di dover rimanere ancorati ad un’interpretazione della

fattispecie alla stregua di un reato a struttura mista, per il quale si richiede l’effettivo

sfruttamento della forza di intimidazione. É quindi appena il caso di ribadire come

non si possano condividere alcune delle argomentazioni più ricorrenti nelle

sentenze che seguono l’orientamento appena criticato.

Anzitutto, non sembra corretto fare leva sulla natura di reato di pericolo dell’art.

416-bis c.p.: come è stato efficacemente osservato, anche ad ammettere che

l’attribuzione di tale natura sia esatta (il che non sembra45), ciò non spiegherebbe

alcun effetto sugli elementi della fattispecie - quali la forza di intimidazione -,

destinati necessariamente a trovare concreta e attuale manifestazione ai fini della

sussistenza del reato46. Una cosa è dire che la consumazione del reato può anche non

implicare il danno all’interesse tutelato; altra è che possano anche non sussistere

tutti gli elementi del reato.

Ancora, è frutto di un equivoco - già segnalato - la pretesa di fondare il carattere

potenziale dello sfruttamento della forza intimidatoria sulla superfluità di un

sistematico ricorso ad atti di violenza (o, comunque, d’intimidazione): ammettere

che vi sia spazio per un’intimidazione tacita, che prescinda da un continuo uso della

forza (e che sfrutti, cioè, la fama criminale già acquisita) non significa riconoscere

43 L’espressione è di Domenico Pulitanò, Crisi della legalità e confronto con la giurisprudenza, in “Riv. it. dir. proc. pen.,” 2015, p. 53. Con specifico riferimento ai temi qui in esame: Gaetano Insolera, Guardando nel caleidoscopio, cit., p. 4. 44 Esattamente questa sembra la preoccupazione che sorregge il pensiero di Antonio Balsamo - Sandra Recchione, Mafie al nord, cit., pp. 19 ss. 45 Già si è detto che la creazione di soggezione e omertà rappresenta una lesione delle possibilità di autodeterminazione dei singoli e, anche in conseguenza, delle prerogative dell’ordine pubblico. In questo senso, in dottrina Mauro Ronco, op. cit., p. 62. 46 Così, Luigi Fornari, op. cit., p. 18.

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che si possa fare a meno tout court della prevaricazione. Nel primo caso, si tratteggia

una modalità di intimidazione; nel secondo, una carenza di intimidazione. Peraltro,

a fronte di gruppi di recente emersione, sembra assai arduo immaginare che

possano operare con modalità “silenti”: appare, cioè, in qualche modo

contraddittorio pensare che una neoformazione in espansione sia talmente forte da

poter già prescindere dalla commissione di singoli episodi di violenza e minaccia.

Ecco, allora, che in simili casi occorre maneggiare con estrema cautela il concetto di

mafia silente, atteso l’elevato rischio di applicazioni extra ordinem.

Infine, appare del pari non condivisibile l’equazione superfluità dei reati fine -

potenzialità del metodo mafioso: in linea con quanto si è in precedenza osservato,

tale ragionamento attacca un indiscutibile punto di debolezza dell’interpretazione

che equipara - nella prospettiva di un reato a struttura mista – lo sfruttamento della

forza di intimidazione e l’inizio del programma criminoso. Una volta chiarito che il

primo è elemento essenziale e solo il secondo può essere anche eventuale, ne deriva

che la superfluità del secondo non può spiegare alcun effetto sulle sorti del primo:

in altre parole, la struttura del reato non richiede che gli associati commettano

ulteriori illeciti o che raggiungano i loro obiettivi, pretende, invece, che si avvalgano

del metodo mafioso.

Pare, dunque, corretto negare l’inquadramento di gruppi criminali di tal genere alla

stregua di associazioni di tipo mafioso: in relazione ad essi, non sembra, cioè, si sia

ancora compiuto il processo di evoluzione da associazione semplice ad associazione

mafiosa, pur potendosene presagire gli imminenti sviluppi. In tali casi, potranno

allora trovare applicazione fattispecie diverse e si potrà, ovviamente, ricorrere

all’articolato armamentario delle misure di prevenzione.

Si badi: tale conclusione non sembra destinata a mutare neppure se la

giurisprudenza dovesse stabilizzarsi su posizioni estensive. Non pare, cioè, che la

law in action possa, in qualche modo, legittimare una scoloritura del fatto tipico. In

questo senso, allora, non convince fino in fondo l’impostazione della questione in

termini di riconoscibilità del rischio penale connesso alla nouvelle vague del metodo

mafioso47. Pur cristallizzata, una siffatta rilettura costituirebbe sempre una

47 In questa direzione Luigi Fornari, op. cit., 1 ss.

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slabbratura della tipicità, come tale inaccoglibile. Il rischio di seguire le categorie di

pensiero della giurisprudenza sovranazionale, incline, talvolta, a sovrapporre

prevedibilità, certezza e tipicità48, è di avallare anche tali aporie, ammettendo che si

possa riscrivere la fattispecie per il tramite di un’interpretazione pretoria

sufficientemente consolidata.

Venendo alla seconda tipologia di neoformazione rilevante (i.e. cellule che sfruttano

la fama criminale della casa madre, non avendone ancora maturata una propria), si

ha l’impressione che in questi casi non si ponga davvero un tema di applicabilità

dell’art. 416-bis c.p.: c’è sicuramente un’associazione di tipo mafioso alla quale

ricondurre le attività degli associati (al più nella forma del concorso esterno), il

punto è individuare quale. Tutto si riduce all’alternativa tra riconoscere autonoma

dignità di esistenza all’associazione locale (i.e. essa stessa costituisce associazione

mafiosa) oppure attrarla nell’ambito del sodalizio madre (i coloni sono meri affiliati

alla controllante): se così è, la questione risulta in qualche modo ridimensionata e

destinata - in astratto - ad avere ricadute principalmente su un piano processuale,

giacché, a seconda dei casi, muta il giudice competente49. Non sfugge, tuttavia, da un

lato, il comprensibile interesse a che i processi siano celebrati nei luoghi

d’infiltrazione, dove si sono svolte le indagini e dove sono state acquisite le prove;

dall’altro, che, una volta intrapresa la strada dell’associazione autonoma, e

configurata in tal modo l’imputazione, il mancato riscontro in giudizio degli elementi

del fatto (e, quindi, dell’autonoma forza d’intimidazione) preclude una sentenza di

condanna (in ipotesi, ottenibile contestando la partecipazione alla consorteria di

provenienza). Si comprende allora l’effettiva rilevanza pratica assunta dal tema.

É evidente che la sussistenza di profili di autonomia criminale in capo alla cellula

locale è questione talmente specifica da limitare gli spazi per soluzioni

predeterminate. Si può però rilevare la scarsa tenuta di alcune interpretazioni

offerte dalla giurisprudenza.

48 In questi termini, Massimo Donini, La responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge a formazione giudiziaria progressiva. Gli insegnamenti, e i limiti, della sentenza Contrada, (Corte Edu 14 aprile 2015, caso Contrada c. Italia, ric. 66655/13), in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2016, p. 365. 49 Sul fatto che si tratti eminentemente di un tema di competenza, Gaetano Insolera, Guardando nel caleidoscopio, cit., pp. 16 - 17.

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Così, non convince l’idea di un’autonoma forza d’intimidazione che derivi dalla mera

connessione all’associazione madre: una sorta di capacità intimidativa par ricochet.

Tale, censurabile, prospettiva ha indotto, da un lato, talune sentenze a ritenere che

il mero collegamento con l’organizzazione d’origine e la relativa riproposizione delle

modalità operative (struttura, metodi di affiliazione, doti, e così via) valgano già a

descrivere un pericolo per l’ordine pubblico, a prescindere dall’esplicazione della

forza intimidatrice50. Il ragionamento non tiene giacché si riduce in sostanza ad una

riproposizione della tesi della mera potenzialità dell’utilizzo del metodo mafioso. In

altri casi, si è sostenuto che l’affiliazione alla casa madre implicherebbe

necessariamente la mafiosità della controllata, non potendosi ammettere “l’idea di

una ‘ndrangheta cui possa inerire un metodo non mafioso”51. L’osservazione è

corretta; essa, tuttavia, non vale a dimostrare che la neoformazione si sia

emancipata dalla casa madre, potendo assurgere ad autonoma associazione mafiosa.

Ancora, a poco vale in quest’ottica la ricostruzione delle dinamiche interne -

evidentemente occulte - che concorrono a dimostrare la mafiosità del sodalizio: si

pensi agli intrecci con altri locali o con la Lombardia. Più in generale, tutte le

interpretazioni che puntano sulle connessioni con i gruppi storici sono destinate

fatalmente a non cogliere nel segno: attraverso tale via si potrà dimostrare la

mafiosità dei partecipi ma non l’esistenza di un’associazione autosufficiente, dotata,

cioè, d’intrinseca capacità di sopraffazione52. Anzi, la logica di una mafiosità derivata

sembra in qualche modo ostacolare proprio il riconoscimento di autonomia alla

cellula delocalizzata.

Il percorso deve essere, infatti, inverso: occorre, cioè, partire dalla percezione del

gruppo sul territorio e non dai rapporti con i luoghi (e le organizzazioni) d’origine.

La capacità d’intimidazione e il relativo sfruttamento configurano una proiezione

esterna del sodalizio, il suo modo di interfacciarsi con la comunità53: e non può

dunque essere accertato guardando agli interna corporis dell’associazione. Va

50 Così, Cass. pen., Sez. I, 10 gennaio 2012, n. 5888, in CED, Rv. 252418. 51 Cass. pen., Sez. V, 2015, n. 31666 (cd. Alba chiara). In dottrina: Roberto Maria Sparagna, op. cit., p. 5. 52 Mauro Ronco, op. cit., pp. 76 -77. 53 Costantino Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, cit. p. 381 parla di “ponti di collegamento con l’ambiente esterno”.

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dimostrato che il sodalizio si è radicato nel nuovo contesto di riferimento - che può

benissimo avere confini limitati54 - ed ha lì operato con metodo mafioso, anche

attraverso la commissione di reati. In altri termini, che sul territorio sia avvertito

come un gruppo dotato di propria caratura criminale e che da essa derivi la forza

d’intimidazione percepita all’esterno. In assenza di tali riscontri, si potrà ravvisare

esclusivamente un’articolazione locale della consorteria d’origine. Sono numerose

le pronunce giurisprudenziali che inquadrano correttamente il tema55, anche se

talvolta si assiste anche a censurabili slittamenti, per esempio quando si afferma che

l’autonoma esteriorizzazione del metodo mafioso è alternativa allo sfruttamento del

marchio di gruppo56.

Vi è poco da dire circa l’ultima categoria di gruppo delocalizzato: altro non è che

un’autonoma associazione gemmata da una precedente. Ad essa è pienamente

applicabile dunque la fattispecie di reato qui in esame.

Ripercorrendo le trame dell’analisi fin qui svolta, si ha l’impressione che il delitto di

associazione di tipo mafioso non presenti ancora dei veri e propri limiti, neppure

rispetto al fenomeno della mafia al nord (e, parrebbe, più in generale, anche a fronte

ad applicazioni davvero innovative: si pensi a Mafia Capitale e, in misura minore,

alle mafie cd. etniche). Esso, piuttosto, ha dei confini, che però valgono a

tratteggiarne la fisionomia: ne costituiscono, cioè, i tratti identitari, senza i quali si

perderebbe il senso stesso della specifica incriminazione. Ed è importante avvedersi

di tale distinzione proprio per evitare di cedere alla tentazione di oltrepassarli o di

ridefinirli, avvertendoli come troppo stretti: un siffatto travalicamento

54 In questo senso, Cass. pen., Sez. II, 24 aprile 2012, in CED, rv. 254031. 55 Così, Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2006, n. 19141, in CED, rv. 234403; Cass. pen., Sez. II, 15 maggio 2015, n. 25360 in CED, rv. 264120; Cass. pen., Sez. VI, 5 giugno 2014, n. 30059, in CED, rv. 262398. 56 Si veda Cass. pen., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147, in CED, rv. 264623: “Ai fini della configurabilità della natura mafiosa della diramazione di un'associazione di cui all'art. 416 bis cod. pen., costituita fuori dal territorio di origine di quest'ultima, è necessario che l'articolazione del sodalizio sia in grado di sprigionare, per il solo fatto della sua esistenza, una capacità di intimidazione non soltanto potenziale, ma attuale, effettiva ed obiettivamente riscontrabile, capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con i suoi componenti, la quale può, in concreto, promanare dalla diffusa consapevolezza del collegamento con l'associazione principale, oppure dall'esteriorizzazione “in loco” di condotte integranti gli elementi previsti dall'art. 416 bis, comma terzo, cod. pen.”.

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snaturerebbe la fattispecie57, nel solco di una progressiva processualizzazione (si

legga affievolimento) delle categorie sostanziali58.

57 Costantino Visconti, Mafie straniere e ‘ndrangheta al nord, cit. p. 379 parla di “programmatica

tentazione di alcuni settori della prassi applicativa di procedere, in nome di preoccupazioni

sostanzialistiche di tipo preventivo-repressivo, alla tipizzazione giurisprudenziale di un’autonoma

sotto-fattispecie criminosa con caratteristiche proprie”. 58 In questi termini Costantino Visconti, op. ult. cit., p. 380; Gaetano Insolera, Guardando nel caleidoscopio, cit., p. 18.

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PARTECIPAZIONE E CONCORSO ESTERNO NEL REATO DI

ASSOCIAZIONE DI TIPO MAFIOSO: UN CONFINE LIQUIDO

Eleonora Montani

Abstract

The article focuses on the categorization of the conducts carried out by all the subjects who act in the

so called “grey area”: conducts which lie between participation and joint liability as an external party.

In particular, the issue relates to the difficulty to determine the defined boundaries between the

“mafia” based conspiracy and the rules on the joint liability applied to the offence of conspiracy itself.

The perspective of the work will be extremely empirical, except for some systematic order premises.

A case study will be analyzed. Additionally, the results of an empirical research focused on the

evolution of the activity on art 416-bis c.p. in the proceedings before the Public Prosecutor and the

Court of Milan from 2000 to 2015 carried out by a group of University Bocconi will be presented and

discussed.

Keywords: organized crime; covin; white-collar crime; empirical study; economy

1. I confini del problema

Sempre più spesso assistiamo a un coinvolgimento nei processi per mafia di persone

che difficilmente possono essere ricondotte all’idealtipo del mafioso, come

tradizionalmente descritto dalle analisi socio-criminologiche e dai repertori

giurisprudenziali. Scorrendo le pagine degli atti giudiziari, incontriamo

professionisti che pongono stabilmente i loro talenti a disposizione dei sodalizi

criminosi, sino ad assumere, essi stessi, il ruolo di partecipi.

Nelle inchieste più recenti, in specie quelle che si sono sviluppate in aree geografiche

nelle quali la presenza di organizzazioni criminali non è tradizionale, il

coinvolgimento di pubblici funzionari e imprenditori si presenta funzionale

all’attività del sodalizio mafioso. Esso utilizza, accanto ai classici mezzi violenti,

pratiche corruttive, finalizzate all'infiltrazione nel sistema dell’economia, per

acquisire la gestione o il controllo di attività economiche, di concessioni,

autorizzazioni, appalti e servizi pubblici, per realizzare profitti o vantaggi. Il

collegamento con il mondo dell’imprenditoria serve alle organizzazioni criminali

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non soltanto per perseguire l’obiettivo di un arricchimento economico ma

costituisce uno strumento di consolidamento di quella rete sistemica di relazioni che

costituisce il “capitale sociale” delle mafie1.

Il confine tra la criminalità economica-finanziaria e quella organizzata di stampo

mafioso è molto più sfumato di un tempo, le condotte s'intersecano e i ruoli si

sovrappongono.

L’imprenditorialità mafiosa, senza rinunciare alla cifra peculiare dell’utilizzo dei

metodi mafiosi, nel momento in cui maneggia ricchezza entra in contatto con

ambienti disposti alla criminalità economica e, per interesse e osmosi, vi si avvicina

assumendone i tratti.

Questa mutazione genetica dei mafiosi portatori di caratteri ibridi, sempre più

vicini ai “criminali dal colletto bianco”, passa attraverso rapporti di cointeressenza

tra la logica mafiosa e la logica del profitto ad ogni costo, espressa da alcuni settori

imprenditoriali (ne vediamo un esempio nella vicenda che ha toccato il Gruppo

Perego, su cui ci soffermeremo nelle pagine seguenti). Nel medesimo contesto

affonda le radici quella sorta di alleanza inconfessata tra mafia e grandi imprese non

mafiose, e quella contiguità fra imprenditorialità mafiosa e criminalità dei colletti

bianchi, che garantisce al potere mafioso un’importante rete di relazioni con il

potere nazionale politico ed economico2.

Viene da chiedersi se la dinamica osservata è esemplificativa di un aumento dei

colletti bianchi disposti a fare affari con la criminalità organizzata o se sia in atto una

modifica del metodo mafioso, con conseguente mutamento del volto stesso del

mafioso.

Il problema lo si coglie anche nella difficile distinzione tra il partecipe (cioè

l’associato, soggetto interno alla societas sceleris), il quale è stabilmente e

organicamente inserito nell’associazione, svolgendovi un compito rilevante e il

concorrente esterno, il quale non è inserito stabilmente nell’associazione, ma

fornisce ad essa un contributo concreto, specifico, consapevole, volontario.

1 Rocco Sciarrone, Mafie vecchie e Mafie nuove, II ed., Donzelli, Roma 2009, p. 46 ss. 2 Orizzonti questi già individuati nei primi anni Ottanta dal sociologo Pino Arlacchi, La mafia imprenditrice: l'etica mafiosa e lo spirito del capitalismo, il Mulino, Bologna 1983; più di recente, dello stesso autore, La mafia imprenditrice: dalla Calabria al centro dell'inferno, il Saggiatore, Milano 2010. Ancora cfr. Nando Dalla Chiesa, Mafia e potere oggi, in “Democrazia e Diritto”, anno XXIV,1983, n.4.

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In questo scritto concentrerò la mia attenzione sull’inquadramento delle condotte

compiute da tutti quei soggetti che si muovono nella c.d. “area grigia”: condotte in

bilico tra la partecipazione e il concorso esterno, la cui qualificazione è resa ancor

più problematica dalla difficoltà di tracciare un sicuro confine tra la partecipazione

al reato di associazione di tipo mafioso e l’istituto del concorso esterno

all’associazione stessa.

La prospettiva adottata sarà squisitamente pratica, salvo alcune premesse di ordine

sistematico, volte a ricostruire i profili di partecipazione e concorso esterno

nell’associazione di tipo mafioso con il contributo della dottrina, della

giurisprudenza e della sociologia, premesse che, nell’economia del presente scritto,

saranno necessariamente sintetiche e ricognitive. Analizzerò un caso di studio, che

fornisce un esempio paradigmatico della labilità ed elasticità dei confini individuati.

Obbedienti al dettato di farsi schiavi dei fatti, discuterò alcuni dei risultati, sul punto,

di una ricerca empirica svolta da un gruppo ricerca dell’Università Bocconi, che ha

monitorato l’evoluzione dell'attività sull’art. 416 bis c.p. della Procura della

Repubblica e del Tribunale di Milano dal 2000 al 20153.

2. Confini liquidi

Il tema sarà indagato attraverso il prisma di un caso concreto, in cui la dicotomia

economia legale/economia criminale si concretizza, mostrando come, nei fatti,

devianza dell’organizzazione economico produttiva e produttività della devianza

realizzata con il valore aggiunto dell’organizzazione criminale finiscano spesso per

sovrapporsi4 (a Perego saranno contestati, oltre alla partecipazione in associazione

mafiosa di cui all’art. 416 bis c.p., diverse ipotesi di reati fallimentari e societari5).

3 Un rapporto della ricerca è pubblicato in questa Rivista. 4 Per la ricostruzione della dialettica tra ‘criminalità economica’ e ‘criminalità organizzata’ si rimanda a Carlo Enrico Paliero, Criminalità economica e criminalità organizzata: due paradigmi a confronto, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, Michele Barillaro (a cura di), Giuffrè, Milano, 2004, p. 141 ss. Più di recente si veda Costantino Visconti, Strategie di contrasto dell’inquinamento criminale dell’economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2014, p. 105 ss. 5 Si veda il capo di imputazione del procedimento “Infinito” (Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza N. 13255, 6 dicembre 2012 - dep. 03 giugno 2013), entro il quale sono confluiti i fatti di reato emersi nel corso del proc. pen. n. 47816/2008 (indagine “Tenacia”).

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Quando parliamo di criminalità d’impresa, da un lato, e di criminalità organizzata,

dall’altro lato, ci riferiamo a concetti che, dal punto di vista delle definizioni, si

presentano affatto dissimili. La distanza tradizionalmente avvertita tra queste due

realtà si è andata, però, assottigliando e questi due paradigmi, profondamente

diversi nelle caratteristiche strutturali, si sono nella realtà economica e sociale

progressivamente avvicinati, fino a diventare - per alcuni tratti - sovrapponibili6.

Sempre più spesso, accanto a “l’uomo d’affari rispettabile, che compie azioni illecite

o ai confini dell’illecito” troviamo “l’individuo già inserito nel mondo del crimine che

attraverso il mondo degli affari conquista potere”7. Le grandi organizzazioni

criminali si vanno infiltrando nel mondo degli affari, per cui si può arrivare “ad una

definizione di crimine organizzato come reato del colletto bianco”8. Attraverso lo

strumento della compartecipazione, spesso utilizzato nei confronti di aziende in

crisi, infatti, l’organizzazione mafiosa riesce a penetrare e controllare imprese che

sono nate e cresciute nella legalità (e che quindi sono dotate di una reputazione di

rispettabilità nel mercato), offrendo loro capitali freschi e contribuendo al

consolidamento, alla trasformazione e all’ampliamento delle realtà aziendali ed

imprenditoriali. Un’operazione di questo genere presenta vantaggi evidenti sia per

il sodalizio mafioso, sia per l’azienda in crisi, tanto più che il socio mafioso si rivela

particolarmente efficace nell’attività di recupero crediti, nel dissuadere i creditori

dal vantare i propri diritti, nel garantire la sicurezza nei cantieri e nell’assicurare

una posizione di vantaggio all’impresa partecipata nelle gare d’appalto9.

6 Carlo Enrico Paliero, Criminalità economica e criminalità organizzata: due paradigmi a confronto, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, cit., p. 143. 7 Giuseppe Di Gennaro e Cesare Pedrazzi (a cura di), Criminalità economica e pubblica opinione, Franco Angeli, Milano, 1982, p. 52. 8 Giuseppe Di Gennaro e Cesare Pedrazzi (a cura di), Criminalità economica e pubblica opinione, cit., p. 51 ss. In termini pressoché analoghi si esprime Carlo Enrico Paliero, Criminalità economica e criminalità organizzata: due paradigmi a confronto, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, op. loc. ult. cit. Ancora Ruggiero in un recente scritto per indicare la fluidità dei confini presenti tra economia lecita e illecita parla di “criminalità dei colletti sporchi”, Vincenzo Ruggiero, I crimini dell’economia. Una lettura criminologica del pensiero economico, Feltrinelli editore, Milano, 2013, p. 180. 9 Le sinergie tra l’impresa e l’associazione di tipo mafioso sono evidenti nel caso qui allo studio, laddove Perego si serve dei “calabrotti” per dissuadere i creditori dall’avanzare le loro legittime pretese o per assicurarsi lavori e vantaggi, cfr. Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza N. 13255/2012, cit., pp. 1000 e 1152.

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Le forme attuali di cointeressenza tra capitali criminali e capitale legale

ripropongono il tema della difficoltà di tracciare un identikit del “mafioso”. Sempre

più di frequente, infatti, emerge dalle indagini il coinvolgimento di soggetti diversi

del tipo tradizionale.

L’incrementata presenza dei colletti bianchi nell’area della criminalità mafiosa,

quindi, può essere intesa come risultato dell’evoluzione delle modalità operative

delle associazioni criminali e come tale destinata ad essere, semplicemente,

registrata dall’applicazione dell’art. 416 bis c.p.10.

Occorre tuttavia verificare se questa tendenza, che comporta nella prassi un

allargamento dei limiti di applicabilità della norma, sia supportata da

un’elaborazione giurisprudenziale univoca e stabile, capace di indicare le condizioni

per le quali si diventa – o, meglio, si è considerati - mafiosi. Se, infatti, questi limiti

sfumano, il risultato è che può venire a mancare, in coloro che tradizionalmente non

si riconoscono come criminali, la percezione di se stessi come “mafiosi”.

Questo tema s'inserisce nella dialettica fra “diritto legislativo” e “diritto

giurisprudenziale”11, che ha di recente registrato la significativa presa di posizione

10 Luigi Fornari, Il metodo mafioso: dall’effettività dei requisiti al “pericolo d’intimidazione” derivante da un contesto criminale? Di “mafia” in “mafia”, fino a “Mafia Capitale”, in “Dir. pen. cont.”, 9 giugno 2016, p. 3; Id., Il principio di tassatività alla prova della ‘lotta’ alla mafia: contiguità e metodo mafioso, in Trattato breve di diritto penale. Temi contemporanei, Per un manifesto del neoilluminismo penale, Giovanni Cocco (a cura di), Cedam, Padova, 2016, p. 285 ss. Sulle recenti pronunce in tema di concorso esterno si vedano, fra gli altri, Giovanni Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, in “Dir. pen. cont. – Riv. trim.”, 2012, p. 251 ss; Francesco Palazzo, La sentenza Contrada e i cortocircuiti della legalità, in “Dir. pen. proc.”, 2015, p. 1061 ss.; Vincenzo Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso esterno, in “Dir. pen. proc.”, 2015, p. 1025. 11 Sul tema tra gli altri si vedano Alberto Cadoppi, Il valore del precedente nel diritto penale. Uno studio sulla dimensione in action della legalità, Giappichelli Editore, Torino, 1999; Ombretta Di Giovine, Come la legalità europea sta riscrivendo quella nazionale, Dal primato delle leggi a quello dell’interpretazione, in “Dir. pen. cont.”, 2013, p. 159 ss.; Massimo Donini, Europeismo giudiziario e scienza penale. Della dogmatica classica alla giurisprudenza fonte, Giuffrè, Milano, 2011; Id., “Sistema” delle fonti penali e garanzie giurisdizionali in un’Europa coordinata dal potere giudiziario, in Garantias constitucionales y Derecho penal europeo, Santiago Mir Puig, Mirentxu Corcoy Bidasolo (dis.), Victor Gomez Martin (coord), Marcial Pons, Madrid, 2012, p. 179 ss; Id, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Giuffrè, Milano, 2004, cap. VI; Id., Il diritto giurisprudenziale penale, Collisioni vere e apparenti con la legalità e sanzioni dell’illecito interpretativo, in “Dir. pen. cont.”, 6 giugno 2016; Giovanni Fiandaca, Crisi della riserva di legge e disagio della democrazia rappresentativa nell’età del protagonismo giudiziale, in “Crim.”, 2011, p. 79; Id., Ermeneutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in L’interpretazione della legge alle soglie del XXI secolo, Antonio Palazzo (a cura di), Esi, Napoli, 2001, p. 299 ss; Id., Diritto penale giurisprudenziale e ruolo della Cassazione, in “Cass. pen.”, 2005, p. 1722 ss.; Id. (a cura di), Sistema penale in transizione e ruolo del diritto giurisprudenziale, Cedam, Padova, 1997; Alberto Gargani, Verso una ‘democrazia giudiziaria’? I poteri normativi del giudice tra principio di legalità e diritto europeo, in “Crim.”, 2011,

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della Corte di Strasburgo, la quale, in base all’art. 7 CEDU, richiede che “la legge

[definisca] chiaramente i reati e le pene che li reprimono”, ritenendo soddisfatta

l’idea di legalità (solo) laddove le decisioni giudiziarie sfavorevoli all’imputato siano

da lui prevedibili: a condizione, cioè, che “la persona sottoposta a giudizio [possa]

sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con

l’assistenza dell’interpretazione che ne viene data dai tribunali e, se del caso, dopo

aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene

attribuita una responsabilità penale e di quale pene è passibile per tali reati”12.

Emerge allora in tutta la sua concretezza la necessità di individuare negli

orientamenti giurisprudenziali in tema un solido fondamento così da assicurare

credibilità e tenuta del sistema normativo13.

p. 99; Carlo Federico Grosso, Il fascino discreto della conservazione (considerazioni in margine all’asserita crisi del principio di riserva di legge in materia penale), in “Crim.”, 2011, p. 125 ss.; Günter Hirsch, Verso uno stato dei giudici? A proposito del rapporto tra giudice e legislatore nell’attuale momento storico, in “Crim.”, 2007, p. 107 ss.; Gaetano Insolera, Qualche riflessione e una domanda sulla legalità penale nell’“epoca dei giudici”, in “Crim.”, 2012, p. 285 ss.; Sergio Moccia, Sulle precondizioni dell’ermeneutica giudiziale nello stato di diritto, in “Crim.”, 2012, 299 ss.; Francesco Palazzo, Legalità penale: considerazioni su trasformazione e complessità di un principio ‘fondamentale’, in Principio di legalità e diritti fondamentali, AA.VV., in “Quaderni fiorentini”, XXXVI, 2007, p. 1280; Vito Velluzzi, Due (brevi) note sul giudice penale e l’interpretazione, in “Crim.”, 2012, p. 305 ss.; Francesco Viganò, Riflessioni conclusive in tema di ‘diritto penale giurisprudenziale’, ‘partecipazione’ e ‘concorso esterno’, in I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, Lorenzo Picotti, Gabriele Fornasari, Francesco Viganò, Alessandro Melchionda (a cura di), Cedam, Padova, 2005, p. 280 ss; Nicolò Zanon, Su alcuni problemi attuali della riserva di legge in materia penale, in “Crim.”, 2012, p. 305 ss. 12 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, 21 ottobre 2013, ric. 4250/09, Del Rio Prada c. Spagna, par. 77-79. Sul medesimo tema la Corte Europea è tornata in Contrada c. Italia (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. IV, 14 aprile 2015, ric. n. 66655/13) ove oggetto del ricorso era il lamentato contrasto della Sentenza di condanna nei confronti di Bruno Contrada per fatti di concorso esterno in associazione di tipo mafioso con l’art. 7 CEDU. 13 In Contrada c. Italia (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. IV, 14 aprile 2015, ric. n. 66655/13) la Corte Europea si è limitata a rilevare che le condotte di “concorso esterno” prima della sentenza Demitry del 1994 non rientravano chiaramente nell’ambito della minaccia legale, con le conseguenze derivanti dal divieto di retroattività della norma (o dell’interpretazione giudiziale) più sfavorevole. La questione posta all’attenzione della Corte era infatti se all’epoca delle condotte addebitate a Contrada sussistesse una “sufficientemente chiara base legale” di incriminazione di esse a titolo di concorso in associazione di tipo mafioso. Preso atto del contrasto giurisprudenziale esistente sul punto la Corte ha affermato il difetto di prevedibilità per Contrada al momento in cui ha posto in essere le condotte per le quali è stato condannato della loro rilevanza penale a titolo di concorso esterno.

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3. Un tentativo di tipizzazione: matrice sociologica,

interpretazioni e prassi applicative

La questione che ci occupa è, all’evidenza, complessa: si tratta di una materia molto

delicata, nella quale è facile imbattersi in situazioni ove la linea di confine tra

partecipazione interna e concorso esterno non appare agevolmente definibile e la

stessa giurisprudenza è oscillante14.

Senza volere, né potere, in questa sede approfondire adeguatamente le questioni

che ci occupano, sia consentito un breve cenno al solo fine di evidenziarne la

complessità.

La condotta di partecipazione in un’associazione di tipo mafioso è prevista e punita

al comma 1 dell’art. 416 bis c.p. Un soggetto sarà ritenuto partecipe

dell’associazione, qualora risulti attivamente inserito nel tessuto organizzativo del

sodalizio e tale inserimento sia supportato dalla consapevolezza e dalla volontà di

fare effettivamente parte del sodalizio stesso; a questo si aggiunge la necessità che

il soggetto agente porti un contributo, sia pur minimo, ma non insignificante, alla

vita dell’organizzazione criminosa in vista del perseguimento dei suoi scopi.

Due gli elementi che da questa definizione emergono come necessari, perché la

condotta tipica di partecipazione possa ritenersi perfezionata: la prima,

corrispondente al modello c.d. organizzatorio, si configura quando il soggetto è

organicamente inserito nel sodalizio, così da assumervi un ruolo e una funzione; la

seconda, corrispondente al modello c.d. causale, consiste in un contributo causale

apprezzabile portato dal soggetto alla vita del sodalizio15.

14 È accaduto talvolta che in uno stesso procedimento penale la posizione dell’imputato sia stata valutata prima come partecipazione e poi come concorso esterno o viceversa. L’incertezza della giurisprudenza si è spesso manifestata con riferimento alla posizione giuridica di imprenditori accusati di collusione con le mafie, come nel caso dell’imprenditore brianzolo Ivano Perego che verrà esaminato nelle pagine successive. 15 La definizione è di Giovanni Fiandaca, Orientamenti della Cassazione in tema di partecipazione e concorso nell’associazione criminale, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, cit., p. 41. Per una ricognizione manualistica si rinvia a Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, III ed., Giuffrè, Milano, 2015, p. 386 ss. Si consideri inoltre che una parte della dottrina tende a fondere queste due componenti, ritenendo che la seconda non sia altro che una proiezione della prima; si veda in proposito Antonio Ingroia, Associazione per delinquere e criminalità organizzata. L’esperienza italiana, in Il crimine organizzato come fenomeno transnazionale, a cura di Vincenzo Militello, Letizia Paoli e Jörg Arnold, Giuffrè – Freiburg, Milano 2000, p. 242 ss.

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Per quanto concerne l’elemento soggettivo, esso è individuato nel dolo specifico che,

trattandosi di un reato a concorso necessario, si configura come la consapevolezza

reciproca di partecipare e di contribuire attivamente alla vita di un’associazione,

nella quale i singoli affiliati agiscono, facendo convergere le loro volontà verso la

realizzazione di un comune fine criminoso.

Ritroviamo iscritti i tratti essenziali della partecipazione ad associazioni di tipo

mafioso nella sentenza Mannino del 2005 ove si legge che “in tema di associazione

di tipo mafioso, la condotta di partecipazione è riferibile a colui che si trova in

rapporto di stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del

sodalizio, tale da implicare, più che uno ‘status’ di appartenenza, un ruolo dinamico

e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato ‘prende parte’ al fenomeno

associativo, rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini

criminosi”16.

Le Sezioni Unite, nella massima ora riportata, hanno rilevato la necessità che venga

ravvisata una “organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio”,

che deve comunque essere tale da implicare un “ruolo dinamico e funzionale”, con il

quale il soggetto si mette “a disposizione” del sodalizio.

Discende da questa ricostruzione la necessità di ancorare l’accertamento

dell’affectio societatis, a parametri concreti che vadano oltre la mera adesione

soggettiva.

Per altro verso, e come corollario della forma libera che caratterizza la condotta

partecipativa, la giurisprudenza non considera elemento costitutivo del reato il

ricorso a forme rituali di affiliazione: “la mancata legalizzazione - cioè l’atto formale

di inserimento nell’ambito dell’organizzazione criminosa - non esclude che il

partecipe sia di fatto in essa inserito e contribuisca con il suo comportamento alla

realizzazione dei fini dell’associazione. Infatti la legalizzazione costituisce il dato

formale, ed usuale, che denota l’inserimento organico dell’agente

nell’organizzazione criminosa, ma non impedisce di ritenere la partecipazione

all’organizzazione criminosa allorché l’agente, di fatto, sia inserito

16 Cass. SS.UU., 12 luglio 2005 (dep. 22 settembre 2005), Mannino, CED – 231670, in “Foro it.”, 2006, II, c. 86 con nota Giovanni Fiandaca e Costantino Visconti, Il patto di scambio politico –mafioso al vaglio delle Sezioni Unite; in “Dir. pen. e proc.”, 2006, p. 585 ss., con nota di Piergiorgio Morosini.

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nell’organizzazione”17. In assenza di un’affiliazione formale, quindi, per la

configurabilità della condotta associativa sarà necessario che sia riconoscibile

altrimenti una affectio societatis nel “partecipe di fatto” e che tale qualità sia

riconosciuta dagli altri membri del sodalizio.

In conclusione, la condotta del soggetto agente, complessivamente considerata,

deve essere qualificabile come fatto espressivo dell’affectio societatis e in termini

d'inserimento organico nella struttura dell’ente e, nel contempo, deve recare un

contributo causale più o meno rilevante, ma comunque apprezzabile, alla vita

dell’ente stesso18.

L’equilibrio di volta in volta creato dalla dialettica tra le due variabili sopra

evidenziate consente di definire i confini della partecipazione nell’associazione di

tipo mafioso nei seguenti termini: laddove, in presenza di un’adesione al sodalizio

come sopra delineata, la condotta del soggetto agente abbia carattere continuativo

e risponda agli interessi e alle finalità del sodalizio in assenza di un apprezzabile

movente autonomo, avremo un “partecipe”; viceversa, qualora la condotta abbia

carattere episodico e risponda prevalentemente a un movente o interesse autonomi,

propri del soggetto agente, in assenza di affectio societatis, avremo un “concorrente

esterno”19.

L’istituto del concorso esterno ha goduto di ampia fortuna in ragione

dell’opportunità, ravvisata sotto il profilo politico-criminale, di colpire con esso il

fenomeno della contiguità mafiosa20, riconoscibile nei comportamenti di coloro che,

17 Cass., 22 dicembre 1987, Aruta, CED-177303. 18 Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 404 ss. Per un quadro ricostruttivo dei diversi orientamenti in campo, che tiene conto della giurisprudenza sia antecedente che successiva alla Mannino, cfr. Giovanni Fiandaca, nota a Cass. 05 giugno 2013, Spagnolo, in “Foro it.”, 2014, II, c. 162 ss. 19 La sentenza Mannino, ponendo in risalto la proiezione dinamica del ruolo funzionale di componente organico e stabile di un sodalizio criminoso, prestando inoltre maggiore attenzione sul versante processuale della verifica probatoria ed esemplificando opportunamente alcuni degli indicatori fattuali di rilevanza della partecipazione, ha contribuito a definire il nucleo fondamentale della partecipazione eventuale in base alle conoscenze criminologiche e all’esperienza prasseologica cfr. ancora Costantino Visconti, La sentenza Andreotti: profili di interazione tra diritto sostanziale e accertamento probatorio, in “Crit. dir.”, 2000, p. 487 ss; Id., I reati associativi tra diritto vivente e il ruolo della dottrina, in I reati associativi: paradigmi concettuali e materiale probatorio. Un contributo all’analisi e alla critica del diritto vivente, cit., p. 143 ss. Si veda anche Francesco Viganò, Riflessioni conclusive in tema di ‘diritto penale giurisprudenziale’, ‘partecipazione’ e ‘concorso esterno’, ivi, p. 280 ss. 20 Con l’espressione “contiguità mafiosa” si fa riferimento in generale alle multiformi relazioni che intercorrono fra le organizzazioni criminali di tipo mafioso e l’ambiente sociale in cui esse operano.

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nell’ambito imprenditoriale, professionale, politico, giudiziario, pur essendo

estranei al sodalizio e non condividendone gli scopi, si siano resi disponibili - per

ragioni di interesse personale o per compromissione ambientale - a compiere atti

illeciti che ritornano a vantaggio dell’organizzazione criminale21.

Fuori dalle semplificazioni, imposte dagli scopi del presente contributo, la questione

della configurabilità del concorso esterno nei reati associativi è tutt’oggi al centro di

intensi dibattiti che si sono fatti più vivaci all’indomani della pronuncia della Corte

EDU sul caso Contrada. In estrema sintesi, vi è, da un lato, chi la afferma, ritenendo

punibile ex artt. 110 e 416 bis c.p. colui che, privo di affectio societatis, apporti un

contributo causale significativo alla vita del sodalizio criminoso22; dall’altro lato, chi

invece la considera incompatibile con la struttura del reato associativo, “atteso che

comunque l’elemento soggettivo ed oggettivo di ciascun apporto alla realizzazione

della fattispecie criminosa in questione, per essere rilevante ai fini dell’integrazione

Per un approfondimento si rinvia a Costantino Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, Giappichelli Editore, Torino, 2004; Alessandro Centonze, Giovanni Tinebra, Il concorso eventuale nell’associazione di tipo mafioso e la delimitazione delle aree di contiguità nell’esperienza giurisprudenziale, in Bartolomeo Romano, Giovanni Tinebra (a cura di), Il diritto penale della criminalità organizzata, Giuffrè, Milano, 2013, p. 171 ss. 21 Cfr Giovanni Fiandaca, Costantino Visconti, Il concorso esterno come persistente istituto “polemogeno”, in “Arch. Pen.”, 2012, p. 499 ss, p. 503: “… è un fatto incontestabile che la contestazione del concorso esterno, proprio in ragione della genericità e indeterminatezza insite nell’istituto, costituisce a cominciare dalla fase investigativa uno strumento duttile e servizievole, come tale molto funzionale allo svolgimento di indagini ad ampio spettro sulla cosiddetta zona grigia, cioè sulle reti di relazioni e collusioni che a tutt’oggi avvicinano in rapporti di stretta contiguità clan mafiosi ed esponenti di vario titolo delle classi dirigenti (politici, professionisti, imprenditori, ecc.)”. Vedi anche Giovanni Fiandaca, Il concorso “esterno” tra sociologia e diritto penale, in “Foro it.”, 2010, V, c. 176 ss; Vincenzo Maiello, Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Giappichelli Editore, Torino, 2014; Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 427 ss.; Costantino Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit. 22 La letteratura sul tema è sterminata, ci si limita a richiamare, in aggiunta ai testi già citati, per una prima rassegna critica e analitica delle differenti pronunce giurisprudenziali e degli orientamenti dottrinali Costantino Visconti, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa: profili dogmatici ed esigenze politico- criminali, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1995, p. 1303 ss. Successivamente per un quadro sintetico cfr. Angela Corvi, Partecipazione e concorso esterno: un’indagine sul diritto vivente, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2004, p. 242 ss.; Alessandra Palma, Il controverso istituto del concorso esterno nei reati associativi, in “Studium iuris”, 2006, p. 1449 ss. Per approfondimenti cfr. Antonio Cavaliere, Il concorso eventuale nel reato associativo. Le ipotesi delle associazioni per delinquere di tipo mafioso, Esi, Napoli, 2003; Giovannangelo De Francesco, Societas sceleris. Tecniche repressive delle associazioni criminali, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1992, p. 54 ss.; Id., Dogmatica e politica criminale nei rapporti tra concorso di persone ed interventi normativi contro il crimine organizzato, ivi, 1994, p. 1285 ss.; Costantino Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità penale, cit., p. 271 ss.

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della stessa, non può differire dagli elementi soggettivo ed oggettivo caratterizzanti

la partecipazione”23.

Alla luce di quattro interventi delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione24, la

giurisprudenza appare giunta a cogliere in via definitiva i tratti che distinguono la

partecipazione dal concorso esterno e, di conseguenza, ad ammettere la sicura

configurabilità del concorso esterno nei reati associativi: si avrà una condotta tipica

di partecipazione, qualora il soggetto sia inserito stabilmente nella struttura

organizzativa dell’associazione e abbia consapevolmente assunto un ruolo,

funzionale e finalizzato al perseguimento dei fini criminosi o, quanto meno, di un

settore di essi; si avrà, invece, una condotta atipica di concorso eventuale qualora il

soggetto, privo dell’affectio societatis e non essendo inserito nella struttura

organizzativa dell’ente, agisca dall’esterno con la consapevolezza e volontà di

fornire un contributo causalmente orientato alla conservazione o al rafforzamento

dell’associazione, nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo programma

criminoso25.

L’istituto del concorso esterno presenta, tuttavia, rilevanti criticità che la dottrina

non ha mancato di sottolineare e che emergono in tutta la loro concretezza nelle

23 Prima dell’intervento delle Sezioni Unite in senso contrario all’ammissibilità del concorso esterno Cass., 27 giugno 1994, ud. 18 maggio 1994, Clementi, CED-198329, in “Foro it.”, 1994, II, c. 560 ss., anche in “Cass. pen.”, con nota Cerase; successivamente alla decisione Demitry: Cass., 21 settembre 2000, Villecco, C.E.D. Cass n. 218330, in “Cass. pen.”, 2001, p. 2064 nota Francesco Mauro Iacoviello. Più di recente, sull’onda della pronuncia della Corte Europea caso Contrada: GIP Trib. Catania, 21 dicembre 2015 (dep. 12 febbraio 2016), n. 1077, Ciancio, in “Dir. pen. cont.”, 6 maggio 2016, con nota di Giuseppe Marino, Nuove incongruenze giurisprudenziali sul concorso esterno in associazione mafiosa: gli effetti della sentenza Contrada della Corte EDU. In dottrina, per l’esclusione della configurabilità del concorso nelle fattispecie associative, cfr. Giancarlo De Vero, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra incessante travaglio giurisprudenziale e perdurante afasia legislativa, in “Dir. pen. proc.”, 2003, p. 1325 ss.; Gaetano Insolera, Il concorso esterno nei delitti associativi: la ragione di Stato e gli inganni della dogmatica, in “Foro it.”, 1995, II, c. 429 ss.; Adelmo Manna, L’ammissibilità di un c.d. concorso “esterno” nei reati associativi, tra esigenze di politica criminale e principio di legalità, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1994, p. 1189 ss.; Vincenzo Bruno Muscatiello, Per una caratterizzazione semantica del concorso esterno, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 1999, p. 184 ss.; Francesco Siracusano, Il concorso esterno e le fattispecie associative, in “Cass. pen.”, 1993, p. 1870 ss. 24 Cass., SS.UU., 5 ottobre 1994 (dep. 28 dicembre 1994), Demitry, CED-199386, in “Cass. pen.”, 1995, p. 842 ss., con nota di Francesco Mauro Iacoviello; Cass., SS.UU., 27 settembre 1995 (dep. 14 dicembre 1995), Mannino, CED- 202904, in “Riv. pen.”, 1996, p. 33 ss.; Cass., SS.UU., 30 ottobre 2002 (dep. 21 maggio 2003), Carnevale, CED-224181, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2004, p. 322 ss., con nota di Gianluca Denora; Cass., SS.UU., 12 luglio 2005 (dep. 20 settembre 2005), Mannino, CED- 231670, in “Foro it.”, 2006, II, c. 80 ss., con nota di Giovanni Fiandaca e Costantino Visconti. 25 Cass. SS.UU., 12 luglio 2005 (dep. 22 settembre 2005), Mannino, CED – 231670, cit., e, nella manualistica, per tutti, Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 435.

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oscillazioni delle pronunce giurisprudenziali. D’altra parte il modello

d'incriminazione del concorso esterno è frutto dell’integrazione e combinazione per

opera di dottrina e giurisprudenza di due sfere normative affette, in partenza, da un

alto tasso di genericità: il concorso di persone nel reato art. 110 c.p. e la fattispecie

associativa di tipo mafioso art. 416 bis. L’impegno della giurisprudenza volto a

colmare le lacune evidenziate aggiungendo elementi di precisione alla fattispecie in

esame non è stato sufficiente a definire con sicurezza i confini dell’istituto.

Permangono, per i giudici, le difficoltà di attenersi con rigore ai principi di giudizio

imposti dalla già citata sentenza Mannino che richiede di accertare, con una verifica

causale ex post, il contributo dell’extraneus al funzionamento e al rafforzamento

dell’organizzazione criminale. Dinanzi alla costatazione dell’oggettiva difficoltà di

giungere a tale accertamento e all’alternativa di rinunciare a perseguire casi di pur

palese contiguità, questi sono portati spesso a ritenere sufficiente una mera idoneità

causale in una prospettiva ex ante26. Ancora, riguardo all’elemento soggettivo la

sentenza Mannino richiede un dolo di concorso tale per cui la volontà del

concorrente esterno dovrebbe ricomprendere la volontà di dirigere il proprio

contributo alla realizzazione anche parziale del programma associativo. Tuttavia

l’evidenza empirica mostra come la realtà sia diversa e il concorrente esterno sia

normalmente assai distante dal far propri i fini dell’associazione ma agisca

perseguendo il proprio egoistico interesse, al più con una logica di reciproci favori27.

Ulteriore profilo problematico è poi riconoscibile nella duttilità dell’istituto che

finisce per prestarsi ad uso strumentale espressivo di un disvalore politico o etico il

cui utilizzo è spesso condizionato dalla “precomprensione” del giudice circa il

disvalore sostanziale che rende meritevole di sanzione la condotta dell’extraneus28.

26 I rigorosi criteri fissati ai fini dell’accertamento ex post della valenza eziologica del contributo del concorrente hanno ricevuto un’adesione più formale che effettiva; nella prassi è prevalsa, infatti, la tendenza a presumere o a flessibilizzare il rapporto causale in risposta a preoccupazioni repressive valutate come preminenti rispetto alle istanze individualgarantistiche. Cfr Vincenzo Maiello, Concorso esterno in associazione mafiosa, in “Cass. pen.”, 2009, p. 1352 ss. 27 Giovanni Fiandaca, Costantino Visconti, Il concorso esterno come persistente istituto “polemogeno”, cit., p. 510 “a nostro avviso, ai fini della configurabilità di un dolo di contribuzione potrebbe anche bastare richiedere che l’estraneo presti volontariamente un contributo a un’organizzazione criminale, nel contempo essendo consapevole (senza che sia necessario volerlo in senso stretto) dell’effetto vantaggioso che ne consegue per l’organizzazione medesima”. 28 Si veda per tutti Giovanni Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, cit., p. 251 ss.; Giovanni Fiandaca, Costantino Visconti, Il concorso esterno come persistente istituto

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94 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7983

La complessa vicenda giurisprudenziale connessa alla tipizzazione delle condotte di

concorso eventuale nel reato associativo mafioso si è di recente arricchita con la

partecipazione al dibattito della Corte di Strasburgo29.

“polemogeno”, cit., p. 499 ss. Una conferma di questa lettura si ritrova nella progressiva concretizzazione dei principi generali in rapporto ai diversi “casi tipologici” di concorso cfr. Giovanni Fiandaca, Diritto penale giurisprudenziale e ruolo delle Cassazione, cit.; Id., Il concorso esterno: un istituto (ancora) senza pace, in “Leg. pen.”, 3/2012, p. 695. Esemplificative di quanto sopra tra le decisioni più recenti si possono richiamare: Cass., Sez. V, 13 ottobre 2015, n. 2653, Paron, in C.E.D. Cass., n. 265926; Cass., Sez. II, 30 aprile 2015, n. 34147, Agostino, in C.E.D. Cass., n. 264625; Cass., Sez. II, 10 dicembre 2014, n. 53675, Costantino, in C.E.D. Cass., n. 261620; Cass., Sez. V, 5 giugno 2913, n. 35100, Matacena, in C.E.D. Cass., n. 255765; Cass. Sez. V, 9 marzo 2012, Dell’Utri, in “Foro it.”, 2012, II, c. 565 ss., con nota Giovanni Fiandaca, Questioni ancora aperte in tema di concorso esterno, e di Giovannangelo De Francesco, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa torna alla ribalta del giudice di legittimità, in “Cass. pen.”, 2012, p. 2552; Cass., Sez. I, 10 luglio 2015, n. 49067, Impastato, in C.E.D. Cass., n. 265423. Ancora per una ricostruzione casistico giurisprudenziale recente si veda Annaelena Mencarelli, Il “concorso esterno”, nei reati associativi e i confini della responsabilità penale, in “Crit. dir.”, 2014, p. 259. 29 Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sez. IV, 14 aprile 2015, ric. n. 66655/13, Contrada c. Italia. In dottrina numerosi i contributi, si veda: Silvio Civello Conigliaro, La Corte EDU sul concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso: primissime osservazioni alla sentenza Contrada, nota a Corte EDU, sent. 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, in “Dir. pen. cont.”, 4 maggio 2015; Giovannangelo De Francesco, Brevi spunti sul caso Contrada, in “Cass. pen.”, 2016, p. 12 ss.; Luca Della Ragione, La Corte Edu sul concorso esterno nell’associazione di tipo mafioso, in “Riv. pen.”, 2015, p. 331; Ombretta Di Giovine, Antiformalismo interpretativo: il pollo di Russell e la stabilizzazione del precedente giurisprudenziale, in “Dir. pen. cont.”, 12 giugno 2015; Massimo Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. Responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, in “Riv. it. dir. proc. pen.”, 2016, p. 346; Id., Il diritto giurisprudenziale penale, cit.; Andreana Esposito, Prime riflessioni critiche sulla sentenza Cedu: “Contrada c. Italia”, in “Riv. pen.”, 2015, 681; Id., Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, in “Dir. pen. cont.”, 2015, 2, p. 26 ss.; Stefano Emanuele Giordano, Il concorso esterno al vaglio della Corte edu: prime riflessioni sulla sentenza Contrada c. Italia, in “Arch. Pen.”, 2, Maggio-Agosto 2015 (Web); Giovanni Grasso, Fabio Giuffrida, L’incidenza sul giudicato interno delle sentenze della Corte europea che accertano violazioni attinenti al diritto penale sostanziale, in “Dir. pen cont.”, 25 maggio 2015; Paola Maggio, Nella “revisione infinita” del processo Contrada i nodi irrisoluti dell’esecuzione delle sentenze Cedu e del concorso esterno nel reato associativo, in “Cass. pen.”, 2016, 9, p. 3432 ss; Vincenzo Maiello, Consulta e CEDU riconoscono la matrice giurisprudenziale del concorso interno, cit., 2015, p. 1019; Adelmo Manna, La sentenza Contrada ed i suoi effetti sull’ordinamento italiano: doppio vulnus alla legalità penale?, in “Dir. pen. cont.”, 4 ottobre 2016; Giuseppe Marino, La presunta violazione da parte dell’Italia del principio di legalità ex art. 7 Cedu: un discutibile approccio ermeneutico o un problema reale?, in “Dir. pen cont.”, 3 luglio 2015; Sofia Milone, La garanzia della legalità tra diritto penale e processo: come assicurare la prevedibilità di un diritto … imprevedibile? Alcuni caveat del caso Contrada, in www.lalegislazionepenale.eu, 7 gennaio 2016; Emanuele Nicosia, Il caso Contrada e il concorso esterno in associazione mafiosa davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in www.sidi-isil.org/sidiblog, 21 maggio 2015; Francesco Palazzo, La sentenza Contrada e i cortocircuiti della legalità, cit., p. 1061 ss.; Id., Legalità fra law in the books e law in action, in “Dir. pen. cont.”, 13 gennaio 2016; Domenico Pulitanò, Paradossi della legalità. Fra Strasburgo, ermeneutica e riserva di legge, in “Dir. pen. cont.”, 13 luglio 2015; Giovanni Tartaglia Polcini, Risarcimento Contrada: all’epoca il reato di concorso esterno non era chiaro e prevedibile, in “Guida dir.”, 2015, 24, p. 100; Anna Lucia Valvo, Nota alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Contrada c. Italia, in “Riv. cooper. giur. inter.”, 2015, 50, p. 103; Francesco Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte EDU, A proposito di C. app. Caltanissetta, sent. 18 novembre 2015 (dep. 17 marzo 2016), Pres. Romeo, Est. Tona, Ric. Contrada, in “Dir. pen cont.”, 26 aprile 2016.

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Come già accennato, la Corte EDU si è pronunciata nella vicenda che ha avuto ad

oggetto il ricorso di Bruno Contrada, funzionario di polizia, capo di gabinetto

dell’Alto Commissario per la lotta alla mafia e, infine, vicedirettore dei servizi segreti

civili, condannato per condotte di concorso esterno in associazione di stampo

mafioso commesse tra il 1979 e il 198830.

La Corte di Strasburgo ha osservato che la Corte d’Appello di Palermo,

pronunciandosi sull’applicabilità nel caso in esame dell’istituto del concorso esterno

in associazione di tipo mafioso, si era basata sulle sentenze Demitry del 1994,

Mannino del 1995, Carnevale del 2002 e Mannino del 2005, pronunce queste tutte

posteriori ai fatti ascritti al ricorrente. Da qui la considerazione che, all’epoca in cui

sono stati commessi i fatti (1979-1988), Contrada non era in grado di prevedere che

tali condotte avrebbero potuto essere considerate penalmente rilevanti a titolo di

“concorso esterno” e di rappresentarsi la possibilità di incorrere in una sanzione.

Tale difetto di prevedibilità ha portato la Corte europea a ritenere l’illegittimità della

condanna penale di Contrada per violazione dell’art. 7 CEDU.

Nella prospettiva europea, infatti, il principio di legalità del reato e della pena

richiede che, alla luce del dato normativo e della sua interpretazione

giurisprudenziale, il cittadino sia in grado di prevedere che la propria condotta sarà

giudicata penalmente rilevante e, altresì, a quali pene potrà essere condannato31.

30 Cass., Sez. VI, 10 maggio 2007 (dep. 8 gennaio 2008), Contrada, CED-238241-3. 31 Per una lettura critica della posizione espressa dalla Corte di Strasburgo si rinvia a Francesco Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte EDU, cit. L’Autore sottolinea come la decisione della Corte europea presenti alcuni tratti discutibili, laddove arresta la propria analisi alla soglia della prevedibilità in astratto non tenendo conto del ruolo professionale esercitato in concreto dall’imputato (un alto dirigente di polizia non poteva ragionevolmente dubitare, all’epoca dei fatti, che condotte come passare informazioni rilevanti ai capimafia in merito indagini in corso, con l’effetto per di più di permettere a questi stessi soggetti di sottrarsi a perquisizioni e arresti, costituissero fatti penalmente rilevanti). Ancora, “Su un piano più generale la decisione della Corte EDU pare muoversi in direzione diametralmente opposta rispetto a quell’orientamento assai diffuso presso la dottrina italiana in tema di interpretazione dell’articolo 5 c.p., secondo cui la presenza di un mero dubbio in capo all’imputato sulla possibile rilevanza penale della propria condotta varrebbe ad escludere la possibilità di invocare a suo favore l’ignoranza inevitabile della legge penale. L’esigenza di prevedere dell’an e del quantum della reazione penale esige, secondo la corte EDU, assai di più: e cioè che l’individuo possa avere chiara e precisa contezza di ciò che lo attende, sulla base della legge e della sua interpretazione ad opera della giurisprudenza”. Per una ricostruzione del principio di prevedibilità si rinvia a Francesco Viganò, Il principio di prevedibilità della decisione giudiziale in materia penale, in La crisi della legalità. Il “sistema vivente” delle fonti penali, Carlo Enrico Paliero, Sergio Moccia, Giovannangelo De Francesco, Gaetano Insolera, Marco Pelissero, Roberto Rampioni,

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La Corte d’Appello di Caltanissetta chiamata a pronunciarsi sulla richiesta di

revisione del processo Contrada32 a seguito della sentenza della Corte Europea ha

fornito una lettura soggettivamente orientata della “prevedibilità” del precetto. Per

i giudici della revisione, infatti, la condanna non deve essere revocata poiché era

riscontrabile la piena consapevolezza da parte di Contrada, in termini di coscienza

e volontà, del disvalore penale della condotta, a prescindere dalla cristallizzazione

della fattispecie di reato ad opera delle Sezioni Unite italiane. Se è vero, infatti, che

solo nel 1994 la sentenza Demitry aveva risolto i contrasti sulla rilevanza penale

della condotta concorsuale nel reato associativo “a un soggetto come Contrada,

funzionario di polizia attivo negli uffici investigativi, impegnato nel contrasto alla

criminalità organizzata, non potevano mancare elementi chiari e univoci per avere

consapevolezza del concorso esterno e della sanzionabilità in sede penale delle

condotte che offrivano contributo alle organizzazioni mafiose”. La chiave di lettura

proposta dai giudici della revisione offre una visione personalistica della

prevedibilità affine alla colpevolezza33. Si scontrano due letture differenti: da un

lato, per i giudici della Corte europea la violazione del principio d'irretroattività di

un'interpretazione estensiva in malam partem sarebbe derivata dalla mancata

garanzia per il funzionario del Sisde della prevedibilità oggettiva della fattispecie e

delle sue conseguenze sanzionatorie, dall’altro lato, per i giudici nostrani è proprio

la “qualifica soggettiva” del singolo condannato, tutore della legge e in grado, per ciò

stesso, a conoscere il precetto e a prevederne gli esiti a renderlo penalmente

responsabile. In questo dibattito si inserisce la voce di chi sottolinea come

Lucia Risicato, (a cura di), Atti del Convegno, Napoli, 7-8 novembre 2014, Esi, Napoli, 2016, 213 ss. e dottrina ivi richiamata. 32 L’istanza di revisione è per la verità formulata dai legali di Contrada nel contesto di un ricorso presentato prima che fosse pronunciata la sentenza europea. 33 C. app. Caltanissetta, sent. 18 novembre 2015 (dep. 17 marzo 2016), Pres. Romeo, Est. Tona, Ric. Contrada, in Dir. pen cont., 26 aprile 2016, con nota di Francesco Viganò, Il caso Contrada e i tormenti dei giudici italiani: sulle prime ricadute interne di una scomoda sentenza della Corte EDU. Si veda, inoltre, Paola Maggio, Nella “revisione infinita” del processo Contrada i nodi irrisoluti dell’esecuzione delle sentenze Cedu e del concorso esterno nel reato associativo, cit., p. 3432 ss; Francesco Palazzo, La sentenza Contrada e i cortocircuiti della legalità, cit., p. 1067. L’argomentazione adottata dalla Corte d’Appello di Caltanissetta richiama le argomentazioni proposte nella richiesta di ricorso alla Grande Chambre del governo italiano, si veda Maria Teresa Leacche, La sentenza della Corte EDU nel caso Contrada e l’attuazione nell’ordinamento interno del principio di legalità, in “Cass. pen.”, 2015, p. 4611ss.

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l’esaltazione della prevedibilità rischia di svilire il profilo della determinatezza della

fattispecie portando a distorsioni prasseologiche34 .

A conclusione del percorso volto a richiamare gli orientamenti giurisprudenziali in

tema di concorso esterno nel reato associativo, appare necessario un cenno al

complesso profilo di individuazione dei limiti di rilevanza della condotta posta in

essere da quei soggetti che popolano la c.d. “area grigia”, primi fra tutti gli

imprenditori.

Infatti, a fronte di raccomandazioni a non lasciarsi influenzare, nella ricostruzione

della rilevanza della condotta, dal tipo di autore, si assiste alla resistenza

condizionante di stereotipi che a lungo hanno impedito di percepire come criminali

alcuni comportamenti di “colletti bianchi”35.

La peculiarità del rapporto tra imprenditore e mafia è innegabile. La ricerca

sociologica, che si è dedicata al tema, ha distinto la figura dell’imprenditore

subordinato, assoggettato all’organizzazione criminale con l’intimidazione e la

coercizione, dall’imprenditore colluso, visto come colui che instaura con

l’organizzazione un rapporto sinallagmatico fondato su reciproci vantaggi36.

34 Donini sottolinea come la carenza di tipicità determini un diritto penale imprevedibile: “la sentenza Contrada della Corte Edu equivale ad un giudizio di insufficiente determinatezza/tipicità della norma prima del 1994. … Oggi, però, osservando ex post il perdurare annoso dell’incertezza definitoria del nucleo del concorso esterno, non possiamo continuare a non vedere o a dissimulare la violazione obiettiva del parametro della tipicità e della tassatività dei reati che è alla base del diritto alla conoscibilità della materia del divieto” Massimo Donini, Il caso Contrada e la Corte Edu. Responsabilità dello Stato per carenza di tassatività/tipicità di una legge penale retroattiva di formazione giudiziaria, cit., pp. 368-369; vd. anche Giovannangelo De Francesco, Brevi spunti sul caso Contrada, cit., p. 15 ss. 35 Si pensi alla sentenza relativa ai “Cavalieri del lavoro”, emessa dal Giudice Istruttore di Catania nel 1991, la quale, relativamente alla contiguità mafiosa di alcuni imprenditori catanesi, ha ritenuto che tale continuità non sarebbe penalmente perseguibile a norma dell’art. 416 bis c.p. in quanto essa sarebbe “imposta dall’esigenza di trovare soluzioni di non conflittualità con la mafia, posto che nello scontro frontale risulterebbe perdente sia il più modesto degli eserciti sia il più ricco titolare di grandi complessi aziendali”, Tribunale di Catania (G.I.), 28 marzo 1991, Amato + 64, in “Foro it.”, 1991, II, c. 472 con nota Giovanni Fiandaca, La contiguità mafiosa degli imprenditori tra rilevanza penale e stereotipo criminale. Sempre il Tribunale di Catania, sezione G.I.P., pronunciandosi in un caso che coinvolgeva un noto imprenditore del luogo, ha ritenuto che, a seguito della sentenza Contrada, non si possa più configurare, nel nostro ordinamento, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, GIP Trib. Catania, 21 dicembre 2015 (dep. 12 febbraio 2016), n. 1077, Ciancio, in “Dir. pen. cont.”, 6 maggio 2016, con nota di Giuseppe Marino, Nuove incongruenze giurisprudenziali sul concorso esterno in associazione mafiosa: gli effetti della sentenza Contrada della Corte EDU; la pronuncia sopra citata è stata annullata con rinvio da Cass., sez. V pen., sent. 14 settembre 2016 (dep. 12 ottobre 2016), n. 42996/16, Pres. Lapalorcia, Rel. De Marzo, Ric. p.m. in causa Ciancio, in “Dir. pen. cont.”, 18 ottobre 2016, con nota di Costantino Visconti, Nuove ricadute interne del caso Contrada: la cassazione annulla il non luogo a procedere nel caso Ciancio e rigetta il ricorso in executivis di Dell’Utri. 36 Per un approfondimento si veda Rocco Sciarrone, Il rapporto tra mafia e imprenditorialità in un’area della Calabria, in “Quaderni di sociologia”, vol. XXXVII, 1993, n. 5, p. 68 ss.; più in generale sul

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All’interno di quest’ultima categoria, poi, gli studiosi che si sono dedicati alla materia

individuano due ulteriori sottoinsiemi: gli imprenditori c.d. clienti e gli imprenditori

c.d. strumentali. I primi pongono in essere con l’organizzazione interazioni

reciprocamente vantaggiose, che vengono ad assumere un carattere permanente e

si svolgono nell'ambito di una particolare relazione clientelare consolidata e

continuativa; non è da escludere per questi soggetti una trasformazione in senso

mafioso delle loro imprese37. I secondi, a differenza degli imprenditori c.d. clienti,

creano con la mafia accordi limitati nel tempo e definiti nei contenuti, negoziando,

caso per caso, l’eventuale reiterazione del patto, secondo le esigenze contingenti.

Dottrina e giurisprudenza appaiono incerte quando sono chiamate a pronunciarsi

sull’inquadramento giuridico dell’imprenditore colluso con la mafia. Due i problemi

da risolvere: si dovrà, in primo luogo, stabilire dove si collochi, in termini giuridici,

la linea di confine tra contiguità compiacente e contiguità soggiacente e, in secondo

luogo, se e quando l’imprenditore colluso sia da considerare partecipe interno o

concorrente esterno nel reato associativo.

La giurisprudenza ricostruisce i parametri atti a distinguere l’imprenditore

subordinato dall’imprenditore colluso, sottolineando che il primo è quello che cede

all’imposizione dell’organizzazione e subisce un danno ingiusto, limitandosi

eventualmente a perseguire intese volte a limitare tale danno; mentre il secondo

costruisce, con il sodalizio, un rapporto sinallagmatico, tale da produrre vantaggi

ingiusti per entrambi i contraenti38.

tema Rocco Sciarrone (a cura di), Alleanze nell’ombra, Donzelli, Roma, 2011; Id., Mafie del Nord, Donzelli, Roma, 2014. Sui rapporti di collusione tra imprenditori e criminalità organizzata già Turone sottolineava: “Gli imprenditori collusi sono legati ai mafiosi mediante incentivi non solo materiali ma anche simbolici, che alimentano interazioni reciprocamente vantaggiose cementate da legami personali di fedeltà, e che consentono agli imprenditori di poter negoziare i termini della protezione. Inoltre, mentre gli imprenditori subordinati sono costretti ad orientare il proprio agire all’esterno in maniera statica, in quanto fortemente vincolati dalla presenza mafiosa, quelli collusi sviluppano all’esterno un tipo di azione più dinamica, sono più intraprendenti e rispondino con prontezza alle sollecitazioni provenienti dall’ambiente […]”, Giuliano Turone, Problematiche giuridiche attinenti alla dimensione economica delle associazioni mafiose, in “Quaderni del C.S.M.”, vol. 1, 1998, n. 99, p. 475. In giurisprudenza ritroviamo la distinzione tra contiguità compiacente, punibile e contiguità soggiacente, non punibile nella pronuncia della Cassazione, Sez. I pen., 05 gennaio 1999, Cabib, in “Foro it.”, 1999, II, c. 631 con nota Costantino Visconti, Imprenditori e camorra: l’”ineludibile coartazione” come criterio discretivo tra complici e vittime?. 37 Rocco Sciarrone, Il rapporto tra mafia e imprenditorialità, cit., pp. 85-89 passim. 38 Si veda Cass., Sez. I, 11 ottobre 2005 (dep. 20 dicembre 2005), D’Orio, CED-232963, in “Cass. pen.”, 2007, 1068 ss., con nota di G. Borrelli e, più di recente, Cass., Sez. VI, 18 aprile 2013 (dep. 15 luglio 2013), Orobello, n. 30346, CED-256740; Cass., Sez. I, 30 giugno 2010 (dep. 30 luglio 2010), Tallura,

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Le condotte degli imprenditori collusi appaiono, quindi, tali da costituire, secondo i

casi, condotta di partecipazione interna nel reato associativo di tipo mafioso ovvero

di concorso esterno nel medesimo. Infatti, le prestazioni più o meno frequenti a

favore del sodalizio mafioso in cui si esplica la condotta dell’imprenditore colluso

appaiono atte ad integrare un rilevante contributo alla vita dell’ente associativo.

In termini più concreti, se il quadro probatorio è tale da dimostrare la sussistenza in

capo all’imprenditore colluso dei requisiti dell’affectio societatis e della

compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio mafioso, con assunzione di

un preciso ruolo all’interno del medesimo, allora si potrà parlare di partecipazione

interna; viceversa, se il quadro probatorio è tale da dimostrare che l’imprenditore

colluso - pur instaurando con i soggetti mafiosi un patto di scambio produttivo di

ingiusti vantaggi reciproci - si mantiene esterno all’associazione mafiosa, allora si

dovrà parlare di concorso esterno39.

4. Un caso di studio: Ivano Perego

L’oscillazione della giurisprudenza e la fluidità della linea di confine tra

partecipazione interna e concorso esterno appaiono in tutta la loro empirica

attualità nel caso dell’imprenditore Ivano Perego, indagato nell’ambito

dell’inchiesta “Infinito” e condannato in primo grado come partecipe nel reato di

associazione di tipo mafioso. La contestazione è mutata in appello, poiché la Corte

ha ritenuto di riqualificare i fatti ascritti al Perego, condannandolo sulla scorta del

diverso istituto del concorso esterno in associazione mafiosa. La Cassazione che ne

è seguita ha preso posizione in ordine al profilo sollevato dalla Corte EDU nella

sentenza Contrada.

Questi, in sintesi, i fatti.

La Perego Strade s.r.l. era una società da lungo tempo presente nel mercato

lombardo, leader nel settore delle demolizioni, sbancamento terra, costruzione e

smaltimento rifiuti: un settore considerato a rischio d'infiltrazione mafiosa e nel

n. 30534, CED-248321; Cass., Sez. V, 1 ottobre 2008 (dep. 16 ottobre 2008), Samà, n. 39042, CED-242318. 39 Giuliano Turone, Il delitto di associazione mafiosa, cit., p. 512.

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quale - come ha accertato l’Autorità giudiziaria - la presenza di soggetti contigui

all’organizzazione mafiosa era tollerata nel settore per ragioni di opportunità. Nel

2008 la Società, che pure da un punto di vista industriale appariva solida (nelle carte

processuali si legge che all’epoca dei fatti aveva circa sessanta cantieri aperti),

entrava in una grave crisi di liquidità, con conseguente aumento dell’esposizione

debitoria40. Per far fronte alla situazione, resa ancor più grave dalla crisi economica

in atto, attraverso una serie di operazioni societarie, era costituita la Perego General

Constractor s.r.l., che diveniva l’azienda di riferimento del gruppo. Le indagini hanno

accertato che parte consistente del capitale della Perego General Constractor s.r.l.

era in mano a finanziarie atte a schermare la partecipazione di ingenti capitali

manovrati da uomini della ‘ndrangheta. Il salto di qualità operato da Perego è

evidente: egli richiedeva ai mafiosi di entrare in società, compartecipando

all’attività. Se il movente principale era l’esigenza di denaro, altrettanto rilevanti

sono apparse le altre risorse dei mafiosi, soprattutto la capacità di scoraggiare la

concorrenza, fornendo garanzie di accesso privilegiato ai lavori.

Alla fine del 2009 la Perego General Constractor s.r.l. falliva41.

4.1 La sentenza di primo grado: l’imprenditore è partecipe

Nelle carte processuali si legge che Salvatore Strangio, Pasquale Nocera, Rizeri Cua,

Andrea Pavone e Ivano Perego avevano costituito un nucleo organizzato e dotato di

stabilità, per penetrare nel tessuto imprenditoriale lombardo in modo sistematico e

radicale. La strategia del gruppo prevedeva, avvalendosi dell'intimidazione e

dell'autorevolezza mafiosa, oltre che di conoscenze politiche ed affaristiche e di

apporti di spregiudicati operatori del settore, l’acquisizione e la gestione di appalti,

in vista di una progressiva espansione sul mercato e del conseguimento di illeciti

guadagni. Tale attività si intrecciava con gli interessi e le attività della più vasta

organizzazione ‘ndranghetista di riferimento. La Perego e l’indotto lavorativo ad

40 Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza N. 13255/12, 6 dicembre 2012 (dep. 3 giugno 2013), p. 978 ss. 41 Per una più ampia ricostruzione sociologia della vicenda si rinvia a Luca Storti, Joselle Dagnes, Davide Pellegrino, Rocco Sciarrone, L’area grigia in Lombardia: imprenditori, politici, mafiosi, in Mafie del Nord, Rocco Sciarrone (a cura di), cit., pp. 133- 174.

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essa correlato costituivano un capitale fondamentale per l’intera associazione

‘ndranghetista stanziata ed operante in Lombardia, fungendo da importante

serbatoio per la “casa madre” calabrese42.

Due i profili di riflessione su cui il Tribunale si soffermava per inquadrare la

condotta dell’imprenditore brianzolo, dovendo verificare: in primo luogo, se ci si

trovasse dinanzi a un imprenditore vittima o a un imprenditore colluso; in secondo

luogo, se la condotta da lui tenuta fosse da ricondurre ad una partecipazione attiva

o se andasse inquadrata nel diverso istituto del concorso esterno in associazione

mafiosa.

Lo spazio entro il quale il Giudice di primo grado si muoveva per dirimere le due

questioni è disegnato da due massime riportate in sentenza: “in materia di

partecipazione ad associazione di stampo mafioso è ragionevole considerare

imprenditore colluso quello che è entrato in rapporto sinallagmatico con la cosca

tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore

nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso

nell’ottenere risorse, servizi o utilità; mentre è ragionevole ritenere imprenditore

vittima quello, che soggiogato dall’intimidazione, non tenta di venire a patti col

sodalizio, ma cede all’imposizione e subisce il relativo danno ingiusto, limitandosi a

perseguire un’intesa volta a limitare tale danno. Ne consegue che il criterio

distintivo tra le due figure è nel fatto che l’imprenditore colluso, a differenza di

quello vittima, ha consapevolmente rivolto a proprio profitto l’essere venuto in

relazione col sodalizio mafioso” e che “una volta provato il suddetto sinallagma

criminoso, la condotta dell’imprenditore colluso sarà configurabile come

partecipazione ovvero come concorso eventuale nel reato associativo, a seconda dei

casi e conformemente ai parametri stabiliti dalla giurisprudenza”43. Ancora: “Si avrà

partecipazione qualora il soggetto risulti inserito stabilmente nella struttura

42 È proprio Strangio che – nella conversazione con Polito del 20 aprile 2009 n. 435 illustra l’importanza di gestire bene le “commesse di lavoro”, che sono il vero patrimonio della Perego. Da questa intelligente gestione (“...se noi li dobbiamo gestire c’è qualcosa per tutti ...ma per gestirli ...si deve cambiare ...ci vuole cervello”) deve ricavarsi il tornaconto da distribuire a 150 famiglie della Calabria e di questo tutta la Calabria è informata, Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, 6 dicembre 2012 (dep. 3 giugno 2013), cit. 43 Cfr. da ultimo Casso S.U., n. 33748 del 12 luglio 2005, Mannino, riportata da Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 1043.

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102 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7983

organizzativa dell’associazione e risulti avervi consapevolmente assunto un ruolo

specifico, funzionale al perseguimento dei fini criminosi o di un settore di essi; si

avrà, invece, concorso eventuale qualora il soggetto - privo dell’affectio societatis e

non essendo inserito nella struttura organizzativa dell’ente - agisca dall’esterno con

la consapevolezza e volontà di fornire un contributo causale alla conservazione o al

rafforzamento dell’associazione, nonché alla realizzazione, anche parziale, del suo

programma criminoso”44.

Alla stregua dei richiamati principi, il Tribunale riteneva che Perego dovesse essere

identificato come “imprenditore colluso”. Il contributo da lui fornito appariva

consapevole, determinante e fortemente orientato alla realizzazione dei fini

perseguiti dall’associazione: egli era venuto a patti con l’organizzazione criminale e

traeva, a sua volta, vantaggi dal rapporto sinallagmatico con l’organizzazione.

Con il pieno ed incondizionato consenso dell’imprenditore, era una progressiva

compenetrazione della componente ‘ndranghetista (rappresentata da Strangio, da

Cua, da Nocera e da Pavone) all’interno della struttura societaria, la quale, sia con

riguardo alla detenzione delle quote, sia con riferimento all’esercizio di fatto dei

poteri decisionali, cadeva totalmente in mano ai “nuovi soci”45.

Perego, in particolare, considerava l’avvicendarsi dei “nuovi soci” una “fortuna”,

come avrebbe detto il 19 marzo 2009, dopo la messa in liquidazione di Perego

Strade s.r.l., a un tale Pietro46.

Al momento dell’ingresso nella Perego del duo Strangio/Pavone, infatti, la Perego -

come detto - aveva circa sessanta cantieri aperti, aveva acquisito importanti

subappalti (come quello dei lavori sulla statale Paullese) e aveva conseguito una

posizione di preminenza nel settore del movimento terra in Brianza. Il problema era,

dunque, la mancanza di liquidità e uno dei compiti affidati a Strangio sarebbe stato

44 Cass. n. 46552 del 2005 e n. 39042 del 2008, riportata da Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, loc. ult. cit. 45 La presenza di Strangio (e quella di soggetti a lui vicini, quali ad esempio Fortunato Startari, Pasquale Nocera, Cua Rizeri e Francesco Ietto) negli uffici delle società facenti capo alla famiglia Perego, a partire dall’ottobre 2008, trae apparente legittimazione dalla successiva formalizzazione, in data 3 novembre 2008, del rapporto in qualità di lavoratore dipendente di Strangio della stessa Perego General Contractor s.r.l., dalla costituzione in data 31 ottobre 2008 di S.A.D. Building con cui Strangio opererà proprio per conto di Perego General Contractor s.r.l., nonché dall’acquisizione, in forma fiduciaria, in data 12 dicembre 2008, del 7% delle quote di quest’ultima società, costituita, come si ricorderà, su iniziativa di Pavone il 19 settembre 2008. 46 Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 1044.

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103 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7983

proprio quello di tenere a bada i creditori47. Del resto che, in linea con il loro

spessore criminale, i “nuovi soci” svolgessero i compiti loro assegnati, compreso

quello di assicurare protezione sui cantieri con metodi violenti, si ricava dal

contenuto di una telefonata in cui Ivano Perego riceve, da un soggetto non

identificato, “la richiesta di mandargli due calabresi” perché deve farsi giustizia con

“uno di Lecco”. Perego, lungi dal dimostrarsi sorpreso, non esitava a rassicurare il

richiedente, dicendogli che avrebbe provveduto a interessare il suo “amico

Pasquale”, il suo “amico calabrese”, che, tra l’altro, era lì con lui quella stessa

mattina48. Va poi citata un’altra significativa affermazione di Ivano Perego registrata

nel sottofondo di una chiamata da lui diretta a Strangio e rivolta, in attesa della

risposta, alla persona presente alla telefonata, cui spiegava: “Adesso chiamo giù in

Calabria, Strangelo … famiglia Strangio … sai chi sono no?”. Le parole di Perego, oltre

ad evidenziare la consapevolezza del medesimo sul ruolo svolto da Strangio,

rimarcano come quest’ultimo, proprio per via del cognome, rappresentasse per

Perego una sorta di “biglietto da visita” o di “garanzia” da presentare ai vari

interlocutori49.

Ancora, Perego utilizzava sistematicamente Strangio non solo per ottenere

protezione, ma anche per accaparrarsi commesse e allontanare possibili

concorrenti nella fase delle trattative.

Egli appariva perfettamente conscio della presenza dei calabresi e del livello di

controllo che essi esercitavano nel movimento terra: a proposito di un lavoro da

47 È opportuno richiamare al riguardo proprio un passaggio della conversazione in cui Piscioneri, preoccupato per il fatto che d’ora in poi non potrà più far valere il credito che vanta nei confronti di Ivano Perego divenuto “intoccabile”, spiega all’interlocutore che le commesse non mancano perché l’imprenditore “fa lavorare mille camion”, ma poi non è in grado di pagare le prestazioni richieste. Lo stesso Strangio ribadisce, in un’altra conversazione, la funzione di protezione da lui esplicata rispetto ad “attacchi esterni” nei confronti della Perego, e fa capire che ciò è possibile perché ormai lui e la sua squadra hanno acquisito il pieno controllo dell’aerea di operatività (“Perego non sta pagando niente ... la situazione è questa ...perché lo sta facendo a casa nostra il lavoro … e i mezzi ... un’altra impresa qui ... gli hanno bruciato tutti i mezzi ... i mezzi di Perego sono dappertutto c'ha trentacinque cantieri (inc.) i mezzi suoi possono stare fuori ...fino ad oggi nessuno gli ha toccato niente ...”). Cfr. Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 978. 48 Progr. 9541 del 5 maggio 2009, perizia Baldo Cfr. Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 994. 49 Progr. 17653 del 12 giugno 2009, perizia Vazorni-Fiscella. Sul tema ancora, Pavone a Perego: “sai cosa Salvo ha fatto per noi perché, se oggi non c’è più nessuno che ti rompe i coglioni, che nessuno viene a bussare alla tua porta, c’è un motivo, no, non perché sei bello, ricco e famoso" (progr. 6032 del 9 aprile 2009, perizia Vazomi - Fiscella), Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 996.

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eseguire in territorio calabrese, infatti, si preoccupava di non invadere l’aerea di

competenza eventualmente riservata ad altri e interessava al riguardo Strangio.

Perego si poneva, inoltre, come anello di congiunzione con un mondo politico e

istituzionale che accetta regalie in cambio di favori50. In una conversazione

intervenuta con Pavone si compiaceva per il sistema di relazioni intessute con vari

personaggi politici e i due concludevano la conversazione, dicendo che con la

“scorta” dei “calabrotti alle spalle” non correranno il pericolo di finire “dentro un

pilone”.

Della vicinanza di costoro e dei loro metodi illegali Perego si avvaleva anche per

conseguire vantaggi personali, come era accaduto nell’episodio relativo

all’intervento richiesto ed effettuato da Strangio e Nocera nei confronti di Tirabassi

e Cutrera per ottenere, a favore di Perego, la consegna di una prestigiosa auto51.

È dunque evidente che dal nuovo assetto organizzativo e gestionale,

deliberatamente condiviso, Perego traeva notevoli vantaggi, perseguendo e

conseguendo fini che coincidevano esattamente con quelli dell’associazione

criminale. In questa prospettiva anche i progetti di accrescimento e di espansione

societaria e le iniziative imprenditoriali, volte a consentire alla ‘ndrangheta di

50 Numerosi sono i rapporti intrattenuti da Perego con politici, funzionari ed esponenti delle istituzioni ricostruiti in sentenza, cfr. Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 1045 ss. 51 Cfr. Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 995, ove è ricostruita la vicenda concernente la consegna dell’autovettura Porsche Cayenne. Emerge, invero, dalle telefonate intercorse il 9 aprile 2009 tra Strangio e Ivano Perego e da quanto spiegato da quest'ultimo in dibattimento, che il predetto aveva acquistato da Cutrera e da Tirabassi l’autovettura e, a fronte del cospicuo anticipo ad essi versato, i predetti non avevano provveduto alla consegna del veicolo. Perego aveva, dunque, contattato Strangio per sollecitarlo a prelevare insieme a Nocera i due venditori e a recarsi in banca con loro per ottenere quanto meno la restituzione della somma di denaro già versata: “li prelevi te e Pasquale, li prelevate, andate in banca con loro, circolare voglio eh! con i miei soldi non fanno cassa, va bene? Che andiamo a divertirci noi a Pasqua, va bene? Che è meglio... muoviti te e quell’altro, voglio indietro i miei soldi per mezzogiorno ...” - progr. 4937 del 9 aprile 2009, perizia Baldo). Strangio, in quella circostanza, non esita a sua volta a contestare a Perego l’insistenza, i toni perentori assunti nei suoi confronti e il fatto di aver affrontato al telefono la questione, tant'è che Perego, confermando a sua volta la cointeressenza dei predetti nella medesima realtà imprenditoriale, cerca di rabbonirlo, giustificando la richiesta col fatto che in fondo sono “soldi loro” (“Salvatore... i soldi nostri. I soldi nostri ... non è giusto che li regaliamo agli altri”). Nel contempo, tuttavia, Ivano Perego si rivela determinato a conseguire il suo obiettivo e insiste perché Strangio si decida quanto meno a mandargli “Pasquale” (Nocera n.d.r.) con il quale il giorno successivo si recherà dai due “fanfaroni”. Come assicurato da Strangio (“tranquillo, tranquillo, tranquillo, c’è qui Pasquale ... domani mattina Pasquale alle sette è qui in ufficio ...” - progr. 5157 del 9 aprile 2009 perizia Baldo) e come poi confermato in dibattimento dallo stesso Perego, l’incontro, al quale prenderà parte Nocera, si verificherà in un bar a Milano con Tirabassi e Cutrera e, a distanza di soli tre giorni, i due provvederanno a consegnare a Perego l’autovettura tanto desiderata.

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assumere partecipazioni economiche in altre società del settore, erano sostenute e

condivise da Perego, il cui contributo si rivelava imprescindibile.

Sotto il profilo psicologico, Perego si sentiva parte di quell’ambiente, di cui appariva

conoscere e condividere le logiche, come è dimostrato dalla determinazione con cui

avrebbe sostituito Rocco Cristello a Strangio, uomo considerato essere ancora “più

potente, un calabrese doc”.

L’allontanamento di Strangio non corrispondeva affatto alla volontà di Perego di

liberarsi della presenza della malavita all’interno della sua azienda, ma

rappresentava una mera successione fra padroni occulti52.

La vicenda descritta è emblematica della forza dell’associazione criminale e della

sua capacità di penetrazione nel tessuto sociale lombardo. “Una penetrazione in

Lombardia che […] è icasticamente rappresentata dalla figura di un giovane

imprenditore dal cognome a denominazione di origine controllata, ossia Ivano

Perego, cresciuto in una famiglia calvinisticamente improntata all’etica del sacrificio

e massimamente dedita al lavoro: egli non ha invero faticato ad adattarsi alla

mentalità ed agli stili comportamentali praticati da coloro ai quali aveva consentito

di entrare nell’azienda di famiglia, non essendone vittima bensì fieramente

complice”53.

Gli elementi sopra descritti inducevano il Tribunale a ritenere il contributo di Perego

continuativo e causalmente rilevante, accompagnato dall’affectio societatis, che

faceva di lui un partecipe in associazione mafiosa.

52 Indipendentemente, infatti, dall’inequivocabile tenore delle numerose telefonate di cui si è sin qui riferito (si pensi, a titolo di esempio, a quella in cui si fa espresso riferimento alla tutela apprestata dai “calabrotti”), l’allarme che desta in Perego la visita di uno sconosciuto sul cantiere e l’immediato ricorso ai nuovi amici calabresi sono parimenti indicativi della precisa consapevolezza in capo all’imprenditore del funzionamento dei meccanismi mafiosi e della volontà incondizionata di avvalersi dei sistemi di protezione ad essi correlati. D’altra parte, proprio il 22 settembre 2008, allorquando, nella compagine amministrativa e aziendale facente capo alla famiglia Perego, si registra quale unico formale cambiamento l’entrata in scena di Pavone - quindi ancor prima che si palesi l’effettiva presenza di Strangio - alcuni soggetti calabresi sono già informati del fatto che Ivano Perego è “diventato intoccabile” perché dei “platioti” avrebbero “detto di lasciarlo stare”. 53 Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 1152.

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4.2 La pronuncia della Corte d’Appello: l’imprenditore è concorrente esterno

La Corte d’Appello riesaminava la posizione di Perego. Oggetto di attenzione dei

Giudici di appello era la qualificazione della condotta di Perego, fatta dal Giudice di

prime cure, come partecipe nell’associazione.

Nell’esaminare i presupposti dell’agire da partecipe o da concorrente, la Corte

muoveva dalla considerazione che Perego si poneva quale interlocutore

dell’associazione ‘ndranghetista in veste di imprenditore colluso.

Il suo rapporto con il sodalizio si poneva su basi di reciproci vantaggi.

La sua consapevolezza è duplice: egli conosceva il programma di espansione

criminale della consorteria, voleva la sua realizzazione, perché riteneva che avrebbe

portato vantaggi e profitti anche per lui e le sue aziende, e, di conseguenza, vi

contribuiva con la messa a disposizione delle aziende del suo gruppo.

La conoscenza e l’accettazione del metodo mafioso che emerge dalle parole e dai

gesti di Perego appare in tutta la sua evidenza nel - già citato - episodio del cambio

di “protettore” con il passaggio da Salvatore Strangio a Rocco Cristello: Perego era

ben conscio che non era l’uomo, ma il sistema mafioso, a garantire la continuità dei

benefici che gli derivano dal patto sinallagmatico, che reitera all’occorrenza con un

“calabrese DOC”, ancora più potente di quelli che lo hanno preceduto.

Nella qualificazione di questa condotta, si ravvisavano tutti i requisiti del contributo

causale consapevole e rilevante ai fini del raggiungimento degli obiettivi del

sodalizio.

Tuttavia, non poteva altrettanto dirsi, secondo i Giudici di appello, per l’affectio

societatis, intesa - oggettivamente - come compenetrazione organica

nell’associazione criminale.

A parere della Corte, infatti, difettavano i presupposti di stabile organicità. Il

rapporto collusivo si poggiava su uno scambio reciproco con reciproci vantaggi,

mentre non vi era prova di un organico inserimento di Perego nel sodalizio. Ciò è

dimostrato dal fatto che Perego non aveva un ruolo definito nell’organigramma del

sodalizio, la sua non era una messa a disposizione permanente, come di chi è parte

integrante del gruppo. Egli non agiva secondo una logica propria del sodale, di

rispetto di regole predeterminate in funzione degli interessi della ‘ndrangheta.

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A Perego non erano impartiti ordini da eseguire o inflitte punizioni per violazioni

alle regole interne del sodalizio. A Perego si rivolgevano proposte da parte dei

membri del sodalizio, che egli valutava, e la valutazione era sempre in funzione del

profitto che dal patto sinallagmatico, di volta in volta rinnovato con diversi

esponenti del clan, poteva derivare per lui e per le sue aziende.

Pasquale Varca, capo della Locale di Erba, in una conversazione con gli Oppedisano,

qualificava come “collaborazione” il rapporto intrattenuto dalla ‘ndrangheta con

Perego54. Ancora Ietto, cugino di Strangio, precisava: “lui non sa che io so che lui è in

mezzo ... non è Perego però, è uno che deve rispondere come noi, anche se non è come

noi e non vuole rispondere come noi, è obbligato a rispondere come noi”55. Il

riferimento al fatto che la persona di cui si sta parlando non fosse Perego, ma “è uno

che deve rispondere come noi”, sottende l’implicita considerazione che la persona di

cui si sta parlando era un ‘ndranghetista, mentre Perego non lo era.

4.3 La Cassazione e la prevedibilità della rilevanza penale del fatto

La sentenza della Corte di Strasburgo sul caso Contrada veniva resa pubblica

proprio nei giorni in cui era in corso, davanti alla seconda sezione della Corte di

Cassazione, il giudizio di legittimità del processo “Infinito”, celebrato con il rito

ordinario. La difesa di Perego sollevava questione di legittimità costituzionale degli

artt. 110 e 416 bis c.p., nella parte in cui, “secondo l’interpretazione

giurisprudenziale in atto dominante”, incriminano il concorso esterno in

associazione mafiosa, “per asserito contrasto con l’articolo 25, comma 2, della

Costituzione e con gli articoli 117 della Costituzione e 7 della Convenzione EDU, per

violazione del principio di legalità”. Tale questione è stata dichiarata dalla Suprema

Corte manifestamente infondata.

54 La conversazione riportata si è svolta subito dopo l’incontro organizzato per dirimere i contrasti sorti tra i sodali in ordine alla gestione del Gruppo Perego con Salvatore Strangio in Calabria, incontro avvenuto alla presenza del capo-crimine Pelle, a bordo della Kia Carnival sulla quale viaggiavano Michele Oppedisano classe '69, Michele Oppedisano classe '70 e Pasquale Varca, alle ore 17.00 del 2 gennaio 2009 ed è stata intercettata nel corso delle indagini. È integralmente riportata in sentenza, cfr. Corte d’Appello di Milano, sez. I pen., Sentenza n. 5339, 28 giugno 2014 (dep. 25 settembre 2014), p. 723 ss. 55 Tribunale di Milano, sez. VIII pen., Sentenza n. 13255, cit., p. 962.

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La Corte di Cassazione, nel motivare la propria decisione, muove dalla premessa che

a fondamento dell’eccezione di costituzionalità sia stato posto dal ricorrente il

rilievo che la Corte EDU, nella sentenza del 14 aprile 2015, Contrada c. Italia, avrebbe

affermato che il “concorso esterno” nei reati associativi costituirebbe istituto di

creazione giurisprudenziale56. La Cassazione ha quindi precisato che la Corte di

Strasburgo, in realtà, non ha preso posizione sulla natura giuridica del concorso

esterno, avendo semplicemente affermato che “non è oggetto di contestazione tra le

parti il fatto che il concorso esterno in associazione di tipo mafioso costituisca un

reato di origine giurisprudenziale”, concludendo che, sotto il profilo tecnico

giuridico, “la punibilità del concorso eventuale di persona nel reato nasce, nel

rispetto del principio di legalità, sancito dall’articolo 1 c.p. e dall’articolo 25, co. 2

della Costituzione, dalla combinazione tra le singole norme penali incriminatrici

speciali che tipizzano reati monosoggettivi, e articolo 110 c.p., principio generale del

concorso di persona applicabile a qualunque tipo di reato”57.

Tale conclusione giungeva dopo che la Corte aveva puntualmente ricostruito,

attraverso una articolata analisi, le posizioni di dottrina e giurisprudenza, svolgendo

una lunga motivazione, volta a dimostrare la matrice legislativa del concorso

esterno in associazione mafiosa.

Forse altri avrebbero potuto essere i percorsi seguiti dalla Corte per giungere ad

affermare l’irrilevanza della sollevata questione nel caso qui esaminato. Percorsi che

avrebbero meglio garantito un confronto dialettico con la posizione espressa dalla

Corte di Strasburgo58.

In primo luogo, sotto il profilo cronologico, le condotte poste in essere da Perego

vengono collocate in arco temporale che si sviluppa approssimativamente dal 2008

(anno della comparsa di Salvatore Strangio nella compagine sociale) sino all’epoca

dell’arresto di Perego nel luglio 2010. I fatti dunque si collocano a circa 20 anni di

distanza da quelli contestati a Bruno Contrada e sono successivi alla pronuncia

56 Cass., Sez. II, sentenza n. 34147, 21 aprile 2015 (dep. 4 agosto 2015), Perego + 41 (processo “infinito” rito ordinario), p. 50. 57 Cass., Sez. II, sentenza n. 34147, 21 aprile 2015, cit., pp. 49-50 e p. 59. 58 Per una più ampia riflessione sulla dialettica tra la citata pronuncia della Corte Europea e la sentenza in esame della Cassazione si veda Andreana Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, cit.

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Demitry cui la Corte europea riconosce il merito di aver risolto i contrasti

giurisprudenziali in tema di ammissibilità del concorso esterno nel reato di cui

all’art. 416 bis.

Il solo dato temporale sarebbe stato sufficiente alla Corte di Cassazione, per ritenere

non riferibili alle vicende sottoposte al suo esame le acquisizioni giurisprudenziali

raggiunte dalla Corte Europea nel caso Contrada59.

Ancora, la Corte interna avrebbe potuto rilevare l'assoluta diversità tra le condotte

poste in essere da Perego e quelle imputate a Contrada. Perego, infatti, era stato

condannato addebitandogli di aver favorito l’ingresso di Strangio, esponente di un

clan ‘ndranghetista operativo in Lombardia, nelle società del Gruppo Perego e per

aver intrattenuto con l’organizzazione criminale rapporti di cointeressenza; di aver

richiesto l’intervento di quest’ultimo per tenere a bada i creditori e per condizionare

gare di appalto, inducendo imprenditori concorrenti a ritirare le offerte; di

intrattenere rapporti privilegiati con esponenti politici e pubblici funzionari, anche

a mezzo di regalie ed elargizioni di somme di denaro, affinché la Perego Strade fosse

favorita nei rapporti con la pubblica amministrazione; di dare direttive ai

dipendenti e di organizzare lo smaltimento illecito di rifiuti, anche tossici, derivanti

da bonifiche e demolizioni di edifici in discariche abusive. Fatti, questi, che appaiono

affatto differenti da quelli addebitati a Contrada sia per la diversità della posizione

rivestita, sia per la finalità e la materialità delle condotte stesse, tese

prevalentemente ad avvantaggiare le società di cui Perego era amministratore

delegato.

5. Evidenze empiriche sul concorso esterno a Milano

I dati raccolti nella ricerca che qui si commenta offrono un’evidenza empirica

significativa dei fatti indagati: a fronte di 105 processi di criminalità organizzata

celebrati nel capoluogo lombardo esaminati e di 1251 indagati per fatti di cui all’art.

416 bis c.p., solo a 16 soggetti è stato contestato il concorso esterno in associazione

59 Andreana Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, cit., p. 14.

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di tipo mafioso. Ciò significa, in termini percentuali, che le persone raggiunte da una

contestazione per concorso esterno nel reato di cui all’art. 416-bis c.p. costituiscono

meno dell’1% del totale delle persone sottoposte a indagini per tale ipotesi di reato.

L’incidenza dell’istituto oggetto dell’analisi appare, quindi, marginale in una

prospettiva di law in action, mentre tanto spazio occupa se volgiamo la nostra

attenzione alla prospettiva in the book.

Seguendo l’iter processuale, osserviamo che, delle 16 persone indagate, 13 vengono

rinviate a giudizio, con una media che si fa ben più significativa di quella relativa ai

soggetti a cui è stato contestato un diretto coinvolgimento nell’associazione (384

rinviati a giudizio per l’art. 416 bis c.p. su 1251 persone sottoposte a indagini).

Ancora, osservando le fasi di criminalizzazione, emerge un altro disallineamento.

Mentre per quanto concerne i soggetti rinviati a giudizio per l’art. 416 bis c.p., solo o

contestato in concorso con altri reati, abbiamo una percentuale di condanne in

primo grado molto elevata (96% nel caso di contestazione del solo art. 416 bis c.p. e

80,4% nel caso di contestazione di art. 416 bis c.p. associato ad altro reato -

percentuale ricavata conteggiando gli esiti di giudizio immediato, giudizio

abbreviato, rito ordinario), nei casi di contestazioni per concorso esterno

nell’associazioni le percentuali calano e, su 13 rinviati a giudizio, abbiamo come

esito una condanna in 9 casi, con una percentuale del 69%. Tale evidenza potrebbe

trovare una spiegazione nelle difficoltà di ordine probatorio riscontrate nella

ricostruzione dei profili rilevanti per la contestazione dei fatti di concorso esterno

nel reato associativo.

Tabella 1 - Fasi di criminalizzazione degli indagati per art. 416-bis c.p. con ruolo di concorrenti

esterni nell’associazione

Esiti Concorrenti esterni

Indagati per art. 416-bis c.p. 16

Archiviazione 3

Richiesta di rinvio a giudizio 13

Giudizio immediato 6

- di cui condanna 4

- pendenti 2

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La ricerca

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Udienza preliminare 3

Rinvio a giudizio 2

Separazione 1

Giudizio abbreviato 5

- di cui assoluzione 1

- di cui condanna 4

Rito ordinario 2

- di cui condanna 1

- di cui assoluzione 1

Appello 8

- di cui condanne 3

- di cui riforme parziali 5

- riduzione della pena 5

Ricorso in Cassazione 8

- di cui rigetto (conferma della sentenza

d’appello) 4

- annullamento con rinvio 1

- annullamento senza rinvio 2

- inammissibilità del ricorso 1

Sentenze irrevocabili 8

Un altro profilo di interesse riguarda i dati relativi ai singoli reati che sono stati

contestati in concorso insieme all’art. 416 bis c.p. a soggetti membri

dell’associazione e a concorrenti esterni. Nel selezionare le variabili rilevanti, infatti,

il gruppo di ricerca ha ritenuto meritevole di attenzione il dato che si riferisce alle

ipotesi di reato che, nei fatti, ricorrono in concorso con il reato di associazione di

tipo mafioso. Le ipotesi rilevate sono state: ricettazione, riciclaggio, reimpiego,

trasferimento fraudolento di valori; reati contro il patrimonio (rapina, truffa,

danneggiamento, furto, incendio, circonvenzione di incapace); reati economici

(reati societari, reati fallimentari, frode fiscale, abusiva attività finanziaria, frode

finanziaria commessa da ufficiale della Guardia di Finanza); reati contro la pubblica

amministrazione e contro l’amministrazione della giustizia (abuso d’ufficio,

calunnia, turbata libertà degli incanti, esercizio arbitrario delle proprie ragioni, falsa

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testimonianza, intralcio alla giustizia, procurata inosservanza di pena, resistenza a

pubblico ufficiale, rivelazione del segreto d’ufficio, simulazione di reato, violazione

della pubblica custodia di cose); reati contro l’economia pubblica (commercio

d’opere d’arte contraffatte, illecita concorrenza con minaccia o violenza, turbata

libertà dell’industria e del commercio); reati contro la persona (minaccia, sequestro

di persona, violenza o minaccia per costringere a commettere un reato, accesso

abusivo a un sistema informatico); e, da ultimo, altri reati emersi nella ricostruzione

del campione (favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, formazione di corpi

armati non diretti a commettere reati, occultamento di cadavere).

Ad un primo sguardo, spiccano i reati tipicamente collegati alla criminalità

organizzata: estorsione, usura, ricettazione, armi e stupefacenti. Non mancano,

tuttavia, contestazioni di reati più propriamente riconducibili alla criminalità

economica: riciclaggio, reimpiego, reati societari, fallimentari, corruzione e

turbativa degli incanti. Questi ultimi appaiono contestati in maniera statisticamente

molto rilevante a chi è inquadrato come concorrente esterno.

Tabella 2 – Corruzione: ruolo nell’associazioni di coloro i quali hanno una richiesta di rinvio a

giudizio anche per corruzione

Ruolo Frequenza

Promotori, direttori, organizzatori 3

Partecipe 6

Concorrente esterno 5

Grafico 1 - Qualifica professionale di coloro i quali hanno una richiesta di rinvio a giudizio anche per

corruzione

Mafioso imprenditore

29%

Solo attività criminale

29%Imprenditore

14%

Politico14%

Agente o ufficiale di P.S. o P.G.

14%

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Tabella 3 - Bancarotta fraudolenta: ruolo nell’associazioni di coloro che hanno una richiesta di

rinvio a giudizio anche per bancarotta fraudolenta

Ruolo Frequenza

Promotori, direttori, organizzatori 2

Partecipe 2

Concorrente esterno 4

Grafico 2 - Qualifica professionale di coloro i quali hanno una richiesta di rinvio a giudizio anche per bancarotta fraudolenta

6. Cenni conclusivi su un istituto “polemogico”

In conclusione, come è stato osservato da un autorevole Studioso, “il concorso

esterno nel reato associativo continua ad apparire un istituto giuridico ‘liquido’,

fluido, controverso, tormentato, divisivo: insomma, polemogico”60.

Facendo un passo indietro, perché lo sguardo possa abbracciare per intero

l’orizzonte entro il quale si è sviluppato il dibattito oggetto della presente analisi, si

ha l’impressione che i confini tra la partecipazione e il concorso esterno nel reato

associativo permangano incerti, nonostante le importanti pronunce

60 Giovanni Fiandaca, Il concorso esterno tra guerre di religione e laicità giuridica, cit., 2012, p. 251 ss.

Mafioso imprenditore

50%

Imprenditore50%

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giurisprudenziali e l’attenzione degli interpreti: la stabilizzazione della rule of law

appare un obiettivo tutt’altro che raggiunto61.

D’altra parte, è lo stesso fenomeno della contiguità alla mafia che presenta confini

così incerti e porosi da rendere spesso le decisioni giudiziali quantomeno

discutibili62.

Alla luce di quanto detto, lo strumento del concorso esterno in associazione mafiosa

ha forse fallito la sfida politico-criminale per la quale era stato sviluppato: la prevista

capacità di disciplinare il fenomeno della contiguità mafiosa, secondo criteri idonei

a rendere prevedibili gli esiti processuali, si è rivelata una chimera e non ha superato

il vaglio empirico.

Tornano alla mente le parole usate dal Procuratore Generale, dott. Iacoviello, nella

requisitoria del processo Dell’Utri, secondo cui “Nato dall’art. 416 bis c.p., ormai è

un reato autonomo. Un reato autonomo creato dalla giurisprudenza. Che prima lo

ha creato, usato e dilatato. E ora lo sta progressivamente restringendo fino a casi

marginali. In Cassazione sono ormai rare le condanne definitive per concorso

esterno. Dall’entusiasmo allo scetticismo. Ormai non ci si crede più”63.

Affermazione che, tra l’altro, trova conferma nell’evidenza empirica risultante

dall’indagine sopra richiamata, dalla quale emerge, come già evidenziato, che le

persone alle quali il concorso esterno è stato contestato costituiscono meno dell’1%

del totale degli indagati per associazione di tipo mafioso in 15 anni nella Procura di

Milano.

Il rilancio in chiave “sovranazionale” della vicenda Contrada ha forse il merito di

mettere ancora una volta in evidenza le anomalie dell’istituto, perennemente

sospeso tra disilluse richieste di individuazione legislativa dei requisiti e dei tipi di

comportamento che fanno da presupposto alle condotte punibili e l’evidenza

61 Cfr. Giovanni Fiandaca, Forse non in eterno, in “Il foglio”, 12 marzo 2016, p. 1 ss.; Id., Il concorso esterno: un istituto (ancora) senza pace, cit., p. 695 ss; Giovannangelo De Francesco, Il concorso esterno nell’associazione mafiosa torna alla ribalta del sindacato di legittimità, cit., p. 2552; Lucia Risicato, Il gioco delle parti. Crisi e trasfigurazione del concorso esterno, tra disincanto e ragionevoli dubbi, in “Leg. Pen.”, 2012, p. 714. 62 Costantino Visconti, Il concorso esterno tra diritto e processo. Aspettando il coraggio del legislatore, in “Quest. Giust.”, 2012, 3(3), pp. 21-30. 63 Francesco Mauro Iacoviello, Processo Dell’Utri, in “Dir. pen. cont.”, 12 marzo 2012, p. 17.

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criminologica nascente dalla difficoltà di ricondurre la multiformità delle condotte

di supporto esterno alle mafie entro categorie rigidamente prefissate64.

L’evoluzione del cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa mostra la

direzione di una nuova sfida in cui il Giudice, nazionale o sovranazionale che sia, è

chiamato a svolgere una funzione che è sempre più marcatamente normativa, di

costruzione del diritto: interpretazione del testo giuridico, la cui soluzione è

destinata a collocarsi ben oltre il singolo caso concreto da risolvere65.

64 Massimo Donini, Il caso Contrada, cit., p. 346. Si vedano anche Gaetano Insolera, Qualche risposta alle domande poste dal concorrente esterno dell’associazione mafiosa; Giovannangelo De Francesco, Concorso di persone, reati associativi, concorso nell’associazione: profili sistematici e linee di politica legislativa; Antonio Cavaliere, I reati associativi tra teoria, prassi e prospettive di riforma; Vincenzo Maiello, Concorso di persone nell’associazione mafiosa: la parola passi alla legge; Costantino Visconti, Sui modelli di incriminazione della contiguità alle organizzazioni criminali nel panorama europeo: appunti per un’auspicabile (ma improbabile?) riforma “possibile”; Giovanni Fiandaca, Il concorso “esterno” fra sociologia e diritto penale, in Scenari di mafia, Orizzonte criminologico e innovazioni normative, Giovanni Fiandaca, Costantino Visconti, Giappichelli Editore, Torino, 2010, p. 123 ss. 65 Andreana Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, cit., p. 2.

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REATI ASSOCIATIVI E RESPONSABILITÀ DEGLI ENTI:

SPUNTI A MARGINE DI UNA RICERCA

Francesca Chiara Bevilacqua

Abstract

Bocconi University’s research analyzed the criminal proceedings started with respect to the crime of

mafia-type association in Milan from 2000 to 2015. It also monitored the functioning of the

intersection between this crime, as per sec. 416-bis of the Criminal Code, and corporate criminal

liability, and found out that Milan’s Court has been making a very limited use of sec. 24-ter of law

decree 231/2001 so far. After some remarks on the confiscation of profits deriving from the crimes

of criminal association, the paper highlights that from a legal standpoint these crimes are hardly

compatible with the concept of “interest/advantage” requested by law decree 231/2001 in order to

establish the entity’s liability, and from a factual point of view that it’s difficult to assess the effects of

mafia’s penetration into companies, since the entities involved often look favored and strangled at

the same time.

Keywords: mafia-type association; ‘ndrangheta; infiltration; confiscation; law decree 231/2001

1. Introduzione

La ricerca qui presentata, sviluppata dall’Universita Bocconi, ha esaminato i dati

giudiziari sull’infiltrazione mafiosa nel Nord Italia. In particolare, e come piu

ampiamente descritto nei capitoli introduttivi, il fenomeno e stato indagato nella sua

manifestazione giudiziale seguendo l’evoluzione dei procedimenti aperti per la

fattispecie di cui all’art. 416‐bis c.p. nel capoluogo lombardo nell’arco del periodo

2000‐2015, attraverso la consultazione integrale dei fascicoli messi a disposizione

dagli uffici1. L’ampio materiale, esaminato e rielaborato dal gruppo di ricerca, ha

consentito una risposta preliminare a diversi interrogativi: quali siano, in base

1 Più precisamente, il campione esaminato è costituito dai procedimenti penali aperti per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p. che, secondo le risultanze del registro presso la Procura della Repubblica di Milano, avevano riportato tra il 1 gennaio 2000 e il 31 dicembre 2015 un provvedimento decisorio. Si rinvia alla presentazione del prof. Alberto Alessandri per la ricostruzione dettagliata del campione oggetto di indagine, pari complessivamente a 105 procedimenti. Gli esiti della prima fase di ricerca sono stati pubblicati nel sito www.penalecontemporaneo.it in data 15 dicembre 2014.

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all’esperienza giudiziaria, le associazioni mafiose maggiormente radicate nel

territorio lombardo, quali fattispecie siano piu frequentemente contestate accanto

all’associazione, quale sia il volto degli associati nel Nord Italia, temi tutti per i quali

si rinvia all’elaborazione statistica realizzata e ai capitoli di commento precedenti.

Tra i tanti aspetti considerati dall’indagine si colloca anche il discusso connubio tra

responsabilità degli enti e associazione per delinquere di tipo mafioso: e su questo che

si concentreranno queste note.

Nell’esame dei fascicoli, infatti, sono state considerate le indagini, oltre che sulle

persone fisiche, su quelle giuridiche. Come noto, la responsabilita da reato degli enti,

grazie alla l. 94/2009, che ha aggiunto l’art. 24‐ter al d. lgs. 231/2001, annovera tra

i reati presupposto anche l’associazione per delinquere di tipo mafioso.

2. L’intervento del 2006 sulla criminalità organizzata

transnazionale nel contesto dell’impostazione di fondo del d. lgs.

231/2001

L’ingresso dei reati associativi nel catalogo dei reati presupposto aveva avuto inizio

nel 2006, con la l. 146 sul crimine organizzato transnazionale: in base all’art. 10 di

tale legge, l’associazione per delinquere semplice, quella di tipo mafioso, quella

finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291‐quater d.p.r.

43/1973) e quella finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope (art.

74 d.p.r. 309/1990) ‐ qualora caratterizzate dalla transnazionalita di cui all’art. 3

della medesima l. 146/2006 ‐ possono dal 12 aprile 2006 (data di entrata in vigore

del provvedimento) generare la responsabilita amministrativa degli enti e condurre

a sanzioni pecuniarie (da quattrocento a mille quote) e interdittive (non inferiori a

un anno).

Nel 2006 si era dunque creato un quadro normativo anomalo, nel quale il reato

associativo non comportava conseguenze punitive dirette per l’ente, se non quando

fosse stato commesso in piu di uno Stato, o fosse stato commesso in uno Stato ma

parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo

fossero avvenute in un altro Stato, oppure fosse stato implicato un gruppo criminale

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organizzato impegnato in attivita criminali in piu di uno Stato, oppure ancora avesse

avuto effetti sostanziali in un altro Stato (così le lettere a, b, c e d dell’art. 3 l.

146/2006).

La situazione era anomala anche perche la responsabilita amministrativa dell’ente

dipendente da reato era sorta per colpire l’ente lecito che deviava in maniera

occasionale, mentre l’ente intrinsecamente illecito costituiva in quel contesto una

prospettiva quasi teorica e comunque di ultima istanza per il d. lgs. 231/2001, il

quale include ‐ forse piu per completezza ‐ una previsione per il caso in cui l’ente (o

una sua unita organizzativa) sia utilizzato stabilmente allo scopo unico o prevalente

di consentire o agevolare la commissione di reati. In questa ipotesi, infatti, ai sensi

dell’art. 16 co. 3 d. lgs. 231/2001, la sanzione per l’ente e quella dell’interdizione

definitiva, e non e possibile la strada alternativa di cui all’art. 17 (Riparazione delle

conseguenze del reato), volta ad evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive

grazie all’adozione di specifiche iniziative riparative intraprese dall’ente post

delictum.

Il legislatore delegato del 2001 si concentrava su di un’impresa immaginata come

autonomo centro decisionale anche ai fini penali, in grado cioe di fungere, secondo

diversi livelli di intensita , da motore stesso dell’illecito. In particolare, la relazione

ministeriale di allora dipingeva una scala fenomenica di gravita decrescente, con al

vertice proprio l’impresa intrinsecamente illecita, “il cui oggetto sia cioè proiettato

in modo specifico verso la commissione di reati (si pensi a società finanziate totalmente

con i proventi di attività delittuose delle organizzazioni criminali, che pertanto hanno

come unico fine quello di riciclare denaro sporco)”, cui era assimilata

“criminologicamente” l’impresa “in cui la società persegua come fine non esclusivo,

bensì solo prevalente, la commissione di reati”.

Anche a fronte degli specifici strumenti sovranazionali che il decreto ratificava,

queste due fenomenologie erano lasciate sullo sfondo, quasi come casi di scuola, e

l’articolato si concentrava su forme di illiceita d’impresa “più ordinari[e]”, lasciando

tuttavia lo spazio per eventuali ampliamenti al futuro. La scelta, spiegava infatti la

relazione, e stata quella “di non prendere in esame (se non marginalmente) tali

eventualità. Vero è, infatti, che il decreto prevede l'applicazione in via definitiva di

sanzioni interdittive all'ente il cui unico scopo consista nel consentire ovvero

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nell'agevolare la commissione di reati; tuttavia, considerata la tipologia dei reati

selezionati dagli strumenti ratificati, il caso si palesa di teorica più che di pratica

realizzabilità (peraltro, la circostanza che siffatti tipi di realtà criminale rimangano ai

margini dello schema di decreto legislativo nulla toglie al fatto che questo sia

congegnato secondo una struttura che ne consenta in futuro "integrazioni" in tale

direzione)”2.

Del resto, la legge del 2001 arrivava a collocare l’ente sulla scena punitiva grazie

all’idea, chissa se illusoria, di una sua sensibilita al rimprovero punitivo e di una

conseguente possibilita di recupero qualora episodicamente deviante. Il carrot-stick

approach3 che, su ispirazione nordamericana, intendeva animare il d. lgs. 231/2001,

mal si conciliava quindi con l’ipotesi di un ente integralmente illecito, saldamente

sulla strada dell’illegalita , sì che il reato associativo quale presupposto della

responsabilita da reato dell’ente risultava in quella sede un ossimoro.

La prospettiva specialpreventiva del decreto si arrestava solo di fronte ‐ ancora con

le parole della relazione ministeriale ‐ all’ente “ormai irrecuperabile ad una

prospettiva di legalità”: l’interdizione definitiva in quel caso rappresentava il logico

corollario per un soggetto “insensibil[e] a qualsiasi prospettiva di ri-organizzazione

in direzione di un rassicurante recupero di legalità”. L’articolato entrato in vigore

ormai piu di quindici anni fa aveva quindi lasciato fuori dalla lista dei reati

presupposto le fattispecie associative e si era limitato a prevedere la ricordata “pena

di morte” per l’ente mero strumento dell’agire delittuoso.

L’ente impiegato esclusivamente a fini criminosi sembrava anzi perdere quella

distintiva “politica aziendale” che muoveva il rimprovero nel caso di devianza

occasionale. Tant’e che il soggetto collettivo, che nel resto dell’articolato

direttamente “risponde”, “prova” (art. 6), addirittura “volontariamente” interviene

impedendo il compimento dell’azione o il verificarsi dell’evento (art. 26), all’art. 16

2 Così continuava la relazione: “Il contesto di attuazione degli obblighi internazionali in cui la legge

delega si inseriva, ha infatti indirizzato l'attenzione del delegante verso forme di patologia più

"ordinaria": tipiche cioè dell'operare economico, dove la funzionalizzazione criminosa di cui si diceva è

un fenomeno, se non impossibile, piuttosto raro, ed in cui la commissione di reati contro la pubblica

amministrazione o comunque lesivi dell'interesse patrimoniale di un soggetto pubblico (sia esso

nazionale oppure non) può discendere come effetto "collaterale" dalla proiezione della società

(sostanzialmente sana) verso una dimensione di profitto”. 3 Ex multis cfr. Cristina De Maglie, L’etica e il mercato, Giuffrè, Milano, 2002, p. 23 ss.

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co. 3 diventa soggetto del tutto passivo di un’azione altrui. Non e piu attore

dell’illecito o della dinamica processuale, ma e “stabilmente utilizzato”, si fa quindi

passivo, semplice instrumentum sceleris. Diviene un ausilio, che consente o agevola

la commissione di reati in relazione ai quali e prevista la sua responsabilita , ma

perdendo la sua autonoma capacita propulsiva, e meritando esclusivamente la

neutralizzazione4.

Sino alla primavera del 2006 quindi, per queste ragioni, l’associazione per

commettere delitti, nelle sue note caratteristiche di durata, programmazione e

organizzazione, esulava dalla responsabilita da reato degli enti. Questi potevano

incorrere nell’interdizione definitiva se stabilmente impiegati per la realizzazione

dei singoli reati presupposto fino a quel momento contemplati agli artt. 24 ss.

L’inserimento all’interno della l. 146/2006 di una previsione apposita di raccordo

con il d. lgs. 231/2001 e l’individuazione della cornice edittale per gli enti a fronte

di reati associativi transnazionali aveva interrotto questa quasi completa

separazione tra responsabilita degli enti e illiceita pervasiva, inserendo una distonia

rispetto alla mentalita del legislatore delegato e per di piu solamente in presenza di

transnazionalita . L’approdo peraltro discendeva in maniera diretta da istanze

sovranazionali, in particolare dalla Convenzione ONU contro il crimine organizzato

transnazionale5, e rispondeva forse anche a una tendenza che ha preso

gradatamente sempre piu corpo in materia di d. lgs. 231/2001, in base alla quale

quasi ogni nuovo intervento di parte speciale, interno o esterno al codice penale, si

abbina a un corrispondente intervento in termini di responsabilita dell’ente.

4 Concorde pare la magistratura, si veda l’intervista al dott. Paolo Storari dell’11 settembre 2014, p. 11, che così motiva il limitato ricorso al d. lgs. 231/2001: “La prima ragione è questa: allora io distinguerei: impresa marcia, non ci interessa la 231, la 231 è fatta per l’ente che delinque occasionalmente. In questo caso con l’impresa marcia è inutile la 231, sequestro preventivo, quote sociali, fallimento”. 5 La Convenzione, sottoscritta a Palermo nel 2000, prevedeva all’art. 10: “1. Ogni Stato Parte adotta misure necessarie, conformemente ai suoi principi giuridici, per determinare la responsabilità delle persone giuridiche che partecipano a reati gravi che coinvolgono un gruppo criminale organizzato e per i reati di cui agli artt. 5, 6, 8 e 23 della presente Convenzione. 2. Fatti salvi i principi giuridici dello Stato Parte, la responsabilità delle persone giuridiche può essere penale, civile o amministrativa. 3. Tale responsabilità è senza pregiudizio per la responsabilità penale delle persone fisiche che hanno commesso i reati. 4. Ogni Stato Parte si assicura, in particolare, che le persone giuridiche ritenute responsabili ai sensi del presente articolo siano soggette a sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive, di natura penale o non penale, comprese sanzioni pecuniarie”.

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Restava pero sullo sfondo la sensazione di una certa forzatura, che peraltro si

stemperava nella maggiore attenzione tributata almeno inizialmente da

commentatori e giurisprudenza al controverso concetto di transnazionalita 6.

L’accostamento tra responsabilita da reato degli enti e reati associativi rimaneva in

ogni caso problematico, quasi come se il connubio tra le due sfere potesse consistere

solo nel totale asservimento dell’impresa alle ragioni dell’associazione criminale,

imponendo fatalmente il collocamento dell’ipotesi in questione al confine ultimo

della responsabilita da reato degli enti, quello cioe che ammetteva unicamente

l’annientamento dell’ente collettivo, considerato senza possibilita di recupero.

3. Il definitivo approdo dei reati associativi nel corpo normativo

del 2001

Pochi anni piu tardi la l. 94/2009 uniformava l’approccio intervenendo direttamente

nel corpo del d. lgs. 231/2001 e prevedendo il nuovo art. 24‐ter.

L’articolo, rubricato delitti di criminalità organizzata, ha attratto diverse fattispecie

tra quelle capaci di generare la responsabilita dell’ente, suddividendole ai fini della

cornice edittale pecuniaria in due fasce di gravita : al primo comma l’associazione

per delinquere finalizzata alla commissione delle fattispecie inerenti la riduzione in

schiavitu e l’immigrazione di cui all’art. 416 co. 6 c.p., l’associazione anche straniera

di tipo mafioso, lo scambio elettorale politico‐mafioso, il sequestro di persona a

scopo di estorsione, l’associazione finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti o

psicotrope di cui all’art. 74 d.p.r. 309/1990, punite con la sanzione pecuniaria da 400

a 1000 quote. Al secondo comma la fascia comprensiva delle ipotesi di cui all’art.

416 c.p. esclusa quella di cui al co. 6, delle ipotesi di cui all’art. 407 co. 2 a) n. 5 c.p.p.

(ovverosia alcuni gravi delitti concernenti le armi, in primo luogo da guerra), punite

6 Cfr. in particolare al riguardo gli scritti di Annamaria Astrologo, Prime riflessioni sulla definizione di reato transnazionale nella l. n. 146/2006, in “Cassazione penale”, 2007, p. 1789; I reati transnazionali come presupposto della responsabilità degli enti. Un’analisi dell’art. 10 della legge 146/2006, in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2009, p. 71. In giurisprudenza cfr. ad es. il dibattito sull’accostamento tra associazione per delinquere e gruppo criminale organizzato transnazionale, sul quale nel 2013 sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass., SS. UU., 23 aprile 2013, n. 18374).

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con la sanzione pecuniaria da 300 a 800 quote. Per entrambe le fasce, infine,

un’identica cornice per l’applicazione di sanzioni interdittive di durata non inferiore

a un anno. Chiude il quadro la previsione, riportata qui ad abundantiam ma invero

superflua, circa l’applicazione dell’interdizione definitiva dall’esercizio dell’attivita ,

di cui al co. 4, per l’ente usato stabilmente allo scopo unico o prevalente di consentire

o agevolare la commissione dei reati in questione, in termini quindi analoghi a

quanto previsto piu generalmente dall’art. 16 co. 3.

Da notare, ancora, che nella prima fascia di cui al co. 1 dell’art. 24‐ter sono comprese

non solo le fattispecie ora specificamente menzionate, ma anche le fattispecie

delittuose commesse avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416‐bis c.p. ovvero

al fine di agevolare l’attivita delle associazioni previste dallo stesso articolo. La

previsione, che ricalca quella dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991, ha

un’evidente capacita espansiva della responsabilita degli enti collettivi e accomuna

nel trattamento sanzionatorio l’ipotesi in cui sia l’associazione mafiosa a coinvolgere

l’ente con l’ipotesi in cui sia invece un altro delitto, realizzato pero anche solo per

agevolare l’attivita di tale associazione, a coinvolgere l’ente: due scenari all’evidenza

differenti. E stato anzi sostenuto che proprio quest’ultima aggiunta avrebbe

comportato il superamento della concezione di un catalogo chiuso e tassativo dei

reati presupposto7, a favore di una potenzialita piu ampia e non rigorosa, impossibile

da descrivere compiutamente ex ante nella sua concreta portata. L’art. 24‐ter così

formulato si porrebbe quindi in evidente contrasto con il principio di tassativita .

In ogni caso, la l. 94/2009 aveva colmato la lacuna generata dalla l. 146/2006, ed

uniformato la prospettiva del legislatore degli enti rispetto alle fattispecie

associative.

Insieme ad altri gravi delitti, l’associazione per delinquere semplice, quella di tipo

mafioso e quella finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope

7 Domizia Badodi, sub art. 24-ter, in Enti e responsabilità da reato, Alberto Cadoppi, Giulio Garuti, Paolo Veneziani (a cura di), UTET, Torino, 2010, p. 315. Sulla difficoltà di cogliere l’esatta portata dell’art. 7, di individuare, se mai esistente, il tratto distintivo tra il metodo mafioso considerato dallo stesso art. 7 e quello di cui all’art. 416-bis c.p. e sull’uso giurisprudenziale dell’aggravante in questione al pari di una norma incriminatrice cfr. Eliana Reccia, L'aggravante ex art. 7 d.l. n. 152 del 13 maggio 1991: una sintesi di “inafferrabilità del penalmente rilevante”, in “Diritto penale contemporaneo”, 2015, p. 251.

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dall’agosto 2009 sono dunque reato presupposto della responsabilita degli enti,

anche quando non transnazionali.

Il legislatore ha quindi rotto gli indugi e esteso senza riserve al comparto associativo

la portata della responsabilita da reato degli enti, chiarendo il cambio di rotta

mediante un intervento nel corpo stesso dell’articolato del 2001.

4. Le immediate perplessità sollevate dall’inusitato connubio

La novita ha subito destato perplessita e critiche, data la sua capacita di evocare

scenari del tutto inediti.

E apparso sin da principio non immediato conciliare il criterio di imputazione

oggettivo della responsabilita all'ente, l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 d. lgs.

231, con una fattispecie che colpisce l'associarsi di tre o piu persone allo scopo di

commettere più delitti. In termini grezzi: come immaginare un'associazione

delittuosa diretta in maniera oggettiva all'interesse di una societa ? E se mai questo

scenario si verifica effettivamente, se cioe , ad esempio, l'amministratore delegato di

una societa si fa partecipe di una consorteria criminale proprio nell'interesse della

societa gestita, non si e forse dinnanzi a una situazione che implica

inderogabilmente l'interdizione definitiva dell'attivita sociale? C'era davvero

bisogno del societas delinquere potest per rispondere a questa ipotesi o non era forse

sufficiente considerare l'ente inscindibilmente intrecciato alla scena criminale come

cosa pericolosa, sulla quale intervenire con la confisca? E ancora, non sono piuttosto

i reati fine oggetto del programma criminoso a poter esplicitare la propria direzione

verso l'ente? Non si fa così del reato associativo un viatico verso un catalogo di delitti

presupposto onnicomprensivo?

A ben vedere il tema sembra presentare da un lato i contorni mai del tutto definiti

del fatto addebitato all’ente, dall’altro i contorni ancor piu delicati del fatto

associativo, sempre difficili da scindere da quelli dei relativi reati fine. Un insieme

evidentemente su di un crinale insidioso, nel quale e facile scivolare contro il rispetto

del principio di legalita .

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5. Responsabilità dell’ente per il reato associativo o per i reati

fine?

Un primo aspetto problematico affrontato da giurisprudenza e dottrina e stato

quello della potenza espansiva dell’abbinamento tra associazione per delinquere e

d. lgs. 231/2001: anche a fronte della complessita del connubio tra responsabilita

degli enti e reato associativo in se , di fatto attraverso la contestazione di ques'ultimo

sono stati attratti nell’orbita dei reati presupposto ‐ almeno nella concezione di certa

giurisprudenza ‐ tutti i delitti, senza limite alcuno, per il semplice fatto di essere reati

fine dell’associazione.

Piu di una pronuncia giurisprudenziale, in particolare, ha applicato ad esempio

misure in sede cautelare ex d. lgs. 231/2001, quali il sequestro preventivo finalizzato

alla confisca o il commissariamento giudiziale, a fronte non tanto della contestazione

dell'associazione per delinquere ex art. 24‐ter di per se , quanto dei reati fine di

questa, giungendo a includere di fatto nel catalogo dei reati presupposto fattispecie

penali tributarie, estranee al sistema 231, o alcuni reati ambientali prima del loro

ingresso nell'articolato del 20018.

Buona parte della dottrina ha subito replicato a questi orientamenti che il catalogo

chiuso del d. lgs. 231/2001 veniva in questo modo gravemente snaturato, sfruttando

l’inserimento nel 2009 della “macrofattispecie” di associazione per perseguire l'ente

in relazione a qualsivoglia delitto purche teleologicamente collegato al reato

associativo, anche se non annoverato nella lista di cui agli artt. 24 ss.9, e per

raggiungere esiti altrimenti impossibili, magari sulla scorta di desiderata da tempo

in discussione ma – a rigore – ancora nel panorama delle idee.

Di particolare rilievo la tesi espansiva rispetto ai reati fiscali: un filone

giurisprudenziale infatti e arrivato come noto a sostenere, grazie al passepartout del

reato associativo, la sequestrabilita dei profitti derivanti da fattispecie di frode

fiscale, ad oggi estranee al corpus del 2001, aggirando di fatto il disegno del

8 Cfr. Cass., sez. III, 20 aprile 2011, n. 15657, in “Le societa ”, 2011, p. 1075, n. Carlo Enrico Paliero. 9 Cfr. Marco Scoletta, Responsabilità dell'ente per associazione a delinquere e sequestro del profitto dei

reati fine, in “Le societa ”, 2013, p. 1260.

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legislatore che aveva inteso limitare ad altri reati la portata della responsabilita

amministrativa degli enti10.

Un intervento della Corte di Cassazione di circa due anni orsono in materia di reati

contro l’incolumita pubblica, nell’ambito delle articolate vicende dell’ILVA di

Taranto, era sembrato aver posto un argine netto al potenziale effetto estensivo. Con

la sentenza n. 3635 del 24 gennaio 2014, la Suprema Corte, infatti, aveva rimarcato

come “qualora si proceda per associazione per delinquere e per reati non previsti tra

quelli idonei a fondare la responsabilità dell’ente collettivo, la rilevanza di questi ultimi

non può essere indirettamente recuperata (…) per il loro carattere di delitti scopo del

reato associativo contestato”.

L’art. 416 c.p., ha opportunamente sottolineato la Corte, non puo fungere da

fattispecie aperta ed elastica, e rendere rilevanti per gli enti reati, quali in quel caso

le fattispecie di disastro innominato colposo e omissione di cautele atte a prevenire

infortuni sul lavoro, non considerati dal legislatore delegato. L’art. 24‐ter d. lgs.

231/2001 non puo quindi essere invocato per ribaltare il principio di tassativita

abbracciato dal sistema punitivo degli enti collettivi, magari per tacitare dei

lamentati vuoti di tutela in settori delicati quale quello della tutela dell’incolumita

pubblica.

La dottrina ha condiviso questo arresto giurisprudenziale: secondo quella che

sembra la lettura preferibile dell’impianto normativo, l’associazione in se e reato

presupposto, quali che siano i delitti fine di volta in volta rilevanti, ma questi invece

non possono per suo tramite assurgere a rango di autonome fattispecie

presupposto11, a meno che non siano gia autonomamente ricompresi nel relativo

catalogo.

10 In questo senso Cass., sez. VI, 10 gennaio 2013, n. 19051, in “Le societa ”, 2013, p. 1260, n. Marco

Scoletta. Nota inoltre l’impostazione espansionistica comunque abbracciata in tema di reati fiscali

dalle Sezioni Unite di Cassazione, a prescindere da qualunque addebito di natura associativa: cfr.

Cass., SS. UU., 5 marzo 2014 (c.c. 30 gennaio 2014), Gubert, sulla quale v. Roberta Russo, Il senso del

profitto: la confisca dei beni dell'ente per il reato tributario commesso dal legale rappresentante, in

“Archivio Penale”, 2014, p. 3. 11 In questo senso v. Carlo Piergallini, Responsabilità dell’ente e pena patrimoniale: la Cassazione fa opera nomofilattica, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2014, p. 998; Piero Silvestri, Questioni aperte in tema di profitto confiscabile nei confronti degli enti: la confiscabilità dei risparmi di spesa, la individuazione del profitto derivante dal reato associativo, in “Cassazione penale”, 2014, p. 1538. Cfr. però Sergio Beltrani, Responsabilità degli enti da associazione per delinquere (art. 416 c.p.):

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Questa impostazione sembrava aver posto la parola fine alla questione e aver

ricondotto il controverso innesto dei reati associativi nei ranghi del principio di

legalita .

Tuttavia queste acquisizioni sono state con una certa nonchalance superate da

alcune pronunce di legittimita successive, che hanno aggirato in realta l’ostacolo,

spostando il discorso sull’individuazione del profitto derivante dal reato di

associazione per delinquere. Alcune sentenze – tutte, va detto, rese in fase cautelare

– hanno infatti creduto di rispettare il dictum normativo ricollegando il sequestro

del profitto al reato associativo, rientrante a pieno titolo nell’elenco dei reati

presupposto ex d. lgs. 231/2001, ma hanno poi individuato tale profitto in quello dei

reati fine della fattispecie associativa, anche quando estranei al menzionato elenco,

sulla base del fatto che il profitto del reato associativo sarebbe quanto in realta

direttamente derivato dai reati fine.

6. La recente giurisprudenza: reati fine non inclusi nei reati

presupposto e individuazione del profitto del reato associativo

Il caso “tipico”, in sintesi, vede la magistratura inquirente teorizzare anche la

fattispecie associativa nel proprio impianto accusatorio, accanto ad un numero

nutrito di fattispecie, quali ad esempio quelle in materia tributaria, ad oggi estranee

al corpus del 2001. Nel corso delle indagini preliminari e disposto il sequestro

preventivo finalizzato alla confisca ex d. lgs. 231/2001 di un profitto che include un

quantum a ben vedere riferibile alle fattispecie tributarie contestate. Le societa

interessate dalla misura cautelare reale lamentano allora l’assenza di tali fattispecie

nel raggio della responsabilita da reato degli enti, e dunque asseriscono il conflitto

del provvedimento ablativo con il principio di legalita .

La giurisprudenza piu interessante ai nostri fini salva la misura cautelare

sostenendo che la stessa e disposta non gia in relazione ai reati “extra 231”, ma in

relazione al reato associativo, ricompreso nell’art. 24‐ter d. lgs. 231/2001, con la

una (non condivisibile) decisione di grande rilievo (commento a Cass. Pen., n. 3635, 24 gennaio 2014), in “La responsabilità amministrativa delle società e degli enti”, 2014, p. 222.

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precisazione pero che il profitto di tale reato presupposto e quello dei reati tributari,

i quali ‐ rientrando nel programma criminoso del sodalizio ‐ generano un utile a

pieno titolo ascrivibile al sodalizio stesso.

Una recente pronuncia della Suprema Corte12, muovendosi in simile schema e

discorrendo del sequestro di circa 97 milioni di euro a carico della societa Verbatim

Italia S.p.A., ha ritenuto inutile investire le Sezioni Unite del tema della confiscabilita

ai sensi del d. lgs. 231/2001 del profitto di reati fine di delitto associativo estranei al

catalogo dei reati presupposto della responsabilita dell’ente, dal momento che

l'orientamento contrario sarebbe stato confinato a poche pronunce, ormai superate.

In sintesi, nella sentenza del caso Verbatim, nel quale erano contestate l’associazione

per delinquere con l’aggravante transnazionale e gli artt. 5 e 8 d. lgs. 74/2000, la

Corte ha affermato, in maniera peraltro piuttosto circolare, che il delitto associativo

e in se capace di generare profitto, sequestrabile, nei termini e nei modi di legge, “in

via del tutto autonoma rispetto a quello prodotto dai reati fine”. Tale autonomo

profitto altro non sarebbe – tuttavia – che il “complesso dei vantaggi direttamente

conseguenti dall'insieme di questi ultimi, posto che l'istituzione della societas sceleris

è funzionale alla ripartizione degli utili derivanti dalla realizzazione del programma

criminoso”.

Si svela piu chiaramente l'orientamento della Corte nel passo successivo: in

sostanza, e il legame tra reato associativo e reati scopo a determinare “la possibilità

di imputare direttamente al reato associativo il profitto dei reati-fine”. Secondo i

supremi giudici, effettivamente sono questi a generare profitto, ma il reato

associativo non e costituito che per la spartizione dei benefici derivanti appunto

dalla messa in atto del programma criminoso. L'associazione di tipo mafioso

legittimerebbe ulteriormente questa conclusione (curioso pero che non di

associazione mafiosa si trattasse nella vicenda di specie), dal momento che puo dirsi

tale, ai sensi dell'art. 416‐bis c.p., quell'associazione i cui partecipi si avvalgono del

metodo mafioso per realizzare, tra l'altro, profitti o vantaggi ingiusti per se o per

altri. Di conseguenza, poiche gli associati – si legge – agiscono nella consapevolezza

del comune programma criminale e dei profitti che ne derivano, agiscono cioe

12 Cass., sez. III, 23 novembre 2015, n. 46162.

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consapevoli dei profitti che l'associazione perseguira , “soprattutto attraverso la

consumazione dei reati programmati”, i proventi che gli associati spartiranno, frutto

della commissione dei reati fine, possono ben dirsi profitto del reato associativo, fine

ultimo anzi della creazione del sodalizio, del quale tutti gli associati devono

rispondere.

Secondo una visione a consuntivo del “bilancio” dell'associazione, il profitto del

singolo reato fine non e destinato a recare vantaggio agli associati uti singuli, se non

nei limitati termini della “distribuzione degli utili” conseguenti dall'organizzazione,

e puo essere direttamente considerato come profitto del reato dell'associazione per

delinquere in se .

Un’impostazione pseudo‐economico‐aziendale sembra ispirare la pronuncia:

l'organizzazione criminale e vista nel suo essere impresa, pur se illecita, i cui diversi

affari si riconducono periodicamente ad uno, alla fine di ogni ciclo o “esercizio

sociale”, e delibera una distribuzione di utili che non esclude nessuno, dal promotore

al partecipe.

In sintesi, si va oltre il dettato del d. lgs. 231/2001, prescindendo dalla questione

della presenza o meno della singola fattispecie nel catalogo dei reati presupposto,

per spostarsi sul tema della confisca del profitto, della quale si estende in termini

consistenti la portata, identificando quale profitto del reato mezzo l’insieme dei

profitti dei singoli reati scopo.

Si va quindi oltre la logica della lista conchiusa e tassativa dei reati presupposto e si

va anche oltre il tema di quale estensione consenta la presenza in tale lista dei reati

associativi alla responsabilita da reato degli enti, per raggiungere l’obiettivo nella

fase cautelare agendo invece sul concetto di profitto del reato di associazione per

delinquere.

Si mette così in un angolo il problema del dubbio rispetto del principio di legalita ,

per raggiungere tuttavia un risultato di natura comunque afflittiva, agendo sulla

controversa nozione di profitto confiscabile.

Alcune sentenze precedenti si erano espresse in termini analoghi. Nella pronuncia

Scaglia del 2011 ad esempio, la Corte aveva affermato che profitto del reato di

associazione per delinquere e il complesso dei vantaggi direttamente conseguenti

dall’insieme dei reati fine, dai quali e del tutto autonomo e la cui esecuzione e

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agevolata dall’esistenza di una stabile struttura organizzata e dal comune progetto

delinquenziale13. Poiche dunque l’associazione e elemento agevolatore della

realizzazione dei reati fine, aveva sostenuto la Cassazione in termini invero piuttosto

sintetici, e corretto imputarle il beneficio derivante da questi.

Nel disegno del legislatore del d. lgs. 231/2001 l’ente, grazie alla forza che promana

dalla sua struttura organizzativa, puo rendersi motore propulsivo di illeciti e come

tale meritevole di sanzione punitiva. Nelle pronunce giurisprudenziali in rassegna

l’aggregazione criminale di cui alle fattispecie associative, in virtu proprio della sua

articolazione organizzativa, facilita la commissione dei reati fine, e mutua da questi

il proprio profitto. Quell’entita illecita che e l’associazione per delinquere diviene

così passibile della confisca di quanto le derivi per il tramite dei reati fine, i quali

rappresentano ‐ si potrebbe dire mutuando il lessico di ispirazione aziendale sopra

notato ‐ il suo “oggetto sociale”. Come illustra la pronuncia di legittimita n. 6507 nel

2015, pur relativa alle sole persone fisiche, con riferimento al profitto di

un’associazione per delinquere transnazionale finalizzata a reati tributari e

riciclaggio, ogni qual volta l’associazione per delinquere presenti “una

organizzazione stabile ed al contributo dei sodali corrisponda il riconoscimento di

utili, l’associazione può essere in sé considerata idonea a generare profitto illecito;

questo trova la sua fonte remota nei reati fine, ma si manifesta in concreto nelle utilità

percepite dai partecipi in relazione al contributo prestato”14. Dunque effettivamente

sono i singoli reati a monte a generare materialmente le entrate, ma queste si fanno

profitto divisibile solo per il tramite della sovrastruttura costituita dall’associazione

per delinquere. Il necessario passaggio dalle casse dell’associazione e dalle decisioni

dei suoi vertici rende dunque il profitto dei reati fine, pare di leggere nelle righe della

Suprema Corte, profitto proprio dell’associazione; ed anzi, proprio grazie a questo

passaggio le utilita generate diventano profitto in senso tecnico.

Il ragionamento appare all’evidenza discutibile per piu aspetti. Proprio le sentenze

in rassegna, del resto, affermano i principi descritti, ma censurano poi in piu casi il

giudice di merito per non aver distinto nel proprio computo quanto riconnesso nello

13 Cass., sez. III, 27 gennaio 2011 (dep. 17 febbraio 2011), n. 173, Scaglia, in www.penalecontemporaneo.it, con nota di Marco Panzarasa. 14 Cass., sez. II, 20 gennaio 2015, n. 6507.

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specifico all’associazione: un compito a dir poco arduo, per di piu quando – come

nella pronuncia da ultimo richiamata – l’imputazione concernente i reati fine sia nel

frattempo caduta15. Difatti, se il profitto proprio dell’associazione e quello dei reati

fine, com’e poi possibile discernere, all’interno di un quantum indistinto, la

componente dell’una e degli altri? Non e dato capire se occorrerebbe scorporare una

parte direttamente ascrivibile a quel contributo agevolatore proprio

dell’associazione criminale in se , o se invece il quantum tratto a monte dai reati fine

dovrebbe essere depurato, come fosse l’utile di un’impresa lecita, di qualche costo

(la “retribuzione” dell’apporto ai reati fine di terzi esterni all’associazione, ad

esempio) o altra componente negativa prima di farsi profitto associativo. Insomma,

l’accostamento tra logiche imprenditoriali lecite e associazione criminale non

persuade fino in fondo.

Ed e parimenti discutibile che quanto generato dai reati fine debba intendersi

sempre e comunque come profitto dell’associazione nel momento in cui questa

distribuisca gli “utili”: anche sotto questo profilo il parallelo con l’ente lecito non e

evidentemente, a partire dal piano fenomenologico, del tutto coerente con la realta

di un’entita criminale, le cui logiche non sono certo necessariamente attente e

proporzionali quanto quelle delle societa regolate dal codice civile.

Occorre tuttavia ricordare nuovamente e sottolineare che le sentenze richiamate,

con l’eccezione della n. 6507/2015, sono state pronunciate in sede cautelare, e sono

intervenute quindi in una fase necessariamente intermedia e parziale. Sara dunque

interessante verificare se e come gli spunti della Corte di Cassazione possano trovare

definitiva applicazione all’esito di un compiuto esame del merito delle relative

vicende: invero, la sola sentenza pronunciata fuori dalla fase cautelare ora ricordata

si e conclusa con l’affermazione dei consueti principi, seguita poi da un

contraddittorio annullamento con rinvio.

15 Si veda ad esempio il caso Edil Fiorentini S.r.l., nel quale la Cassazione da un lato ha affermato in sintonia con l’ordinanza di sequestro impugnata dalla ricorrente che “il reato associativo è un mezzo per perseguire la perpetrazione di altri reati a fine di un profitto, sicché già la condotta punita dall’art. 416 cod. pen. è produttiva di profitto, sicché può esser disposto il sequestro preventivo per equivalente a prescindere dalla concreta focalizzazione del profitto ricavabile dai reati fine”, dall’altro ha poi annullato con rinvio l’ordinanza cautelare poiché il Tribunale romano non aveva fornito indicazione alcuna al fine di individuare il profitto specificamente riferibile al reato associativo (Cass., sez. V, 25 febbraio 2016, n. 15205).

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7. Ancora sul profitto del reato associativo

Le riflessioni sul d. lgs. 231/2001 e sull’essenza del delitto associativo, come visto,

si intrecciano.

Esistono invero delle altre sentenze che, a proposito del profitto ricollegabile

all’associazione per delinquere, dichiarano apertamente che questa non genera in

se , autonomamente dai reati fine, vantaggi economici qualificabili come profitto,

poiche il mero fatto di associarsi non e “di per sé produttivo di ricchezze illecite”16.

Queste sentenze tengono quindi distinto il profitto dei reati fine, senza considerarlo

– per il tramite degli scopi dell’associazione e quindi della “distribuzione di utili” –

allo stesso tempo profitto del reato mezzo. Assunti come questi sono in grado di

paralizzare l’applicazione fortemente estensiva della responsabilita da reato degli

enti (specie considerando che spesso e proprio la confisca, o addirittura il sequestro

a questa finalizzato, la vera leva afflittiva del d. lgs. 231/2001).

Ma la piu parte delle pronunce continua invece ad insistere sulla tesi opposta. Ad

esempio un’altra sentenza di legittimita in tema del giugno 201517, di tenore analogo

alle pronunce Verbatim e 6507/2015, sostiene che il reato associativo e in se capace

di generare profitti illeciti, dal momento che gli associati, per il loro contributo al

regolare funzionamento del sodalizio criminoso, ricevono un’utilita dallo stesso. Cio

discende dal fatto che tra gli scopi dell’associazione per delinquere c’e proprio quello

di trarre vantaggi o profitti da attivita economiche lecite attraverso il metodo

mafioso. Dal momento che l’associazione, mafiosa o meno che sia, presenta

un’articolazione complessa (specialmente se transnazionale, come nel caso di

specie), e richiede percio un impiego permanente di risorse umane e professionali,

si presenta idonea a garantire un profitto illecito, redistribuendo ai propri associati

quanto introitato grazie ai singoli reati fine.

E il legame tra reato associativo e reati fine a rendere differente il fatto tipico dell’uno

da quello degli altri, e – come esplicita la norma sull’associazione di tipo mafioso –

gli associati si avvalgono del metodo di mafia proprio, inter alia, al fine di realizzare

16 Cass., sez. I, ud. 20 gennaio 2015 (dep. 20 febbraio 2015), n. 7860. 17 Cass., sez. III, 4 marzo 2015 (dep. 25 giugno 2015), n. 26721. La contestazione in questo caso prevedeva un’associazione per delinquere di carattere transnazionale finalizzata alla sottrazione di oli minerali al pagamento dell’accisa dovuta.

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vantaggi ingiusti per se o per altri. Ci si associa, in sintesi, al fine di suddividere gli

utili derivanti dai reati fine appartenenti al programma criminoso, che giovano alla

societas sceleris nel suo complesso, e direttamente ai singoli a seguito di apposita

distribuzione. Dunque profitto del reato associativo e l’insieme dei profitti dei

singoli reati fine, e la sua confisca per equivalente e possibile purche – nel caso in cui

si proceda anche per i reati fine – non si incorra in una duplicazione degli importi

confiscabili, vietata a fronte della natura sanzionatoria della confisca.

La Cassazione e naturalmente consapevole di muoversi su terreni insidiosi e attenta

a non moltiplicare la risposta sanzionatoria, certo anche sull’onda della

giurisprudenza sovranazionale.

In definitiva, se certo alcune osservazioni paiono ragionevoli, dal momento che parte

importante dell’utilita cui mira l’associato potra derivare di norma proprio dalla

messa in essere del programma criminoso del sodalizio illecito, al tempo stesso il

ragionamento della Suprema Corte non convince completamente, dal momento che

non e in grado di identificare un profitto che scaturisca effettivamente in maniera

indipendente dal mero associarsi.

E certo suggestiva la ricostruzione totalmente imprenditoriale dell’associazione per

delinquere, che introita i profitti dei singoli reati fine per poi distribuirli a tutti gli

associati: ma quest’associazione li distribuira effettivamente a tutti? Sotto quale

forma? Il parallelo insomma evoca come visto a piu riprese aporie difficili da

superare.

Infine, se l’associazione per delinquere e , come e , un fatto tipico a se stante, in

rapporto di autonomia dai singoli reati scopo, e possibile non riuscire a individuarne

uno specifico profitto, suo proprio, specialmente quanto animata da una criminalita

quanto meno in potenza violenta, ma appunto “da profitto”?

Il profitto proprio dell’associazione, si potrebbe allora ipotizzare, e forse da ricercare

in una sorta di aspettativa di utilita ed al contempo in un automatico conseguimento

di una maggiore forza legata all’appartenenza alla societas sceleris (ad esempio una

migliore posizione sul mercato, per stare in ambito economico‐imprenditoriale),

condizioni sicuramente possibili ma al tempo stesso molto difficilmente

quantificabili e dimostrabili. Peraltro, simili posizioni vantaggiose sembrerebbero

possibili specialmente se l’associazione, pur non attiva con specifici reati fine nel

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momento contingente, avesse comunque un minimo di storia alle spalle in tal senso.

Forse davvero e una quota del profitto dei singoli reati fine che andrebbe scomputata

ed ascritta al reato associativo, a fronte della sua capacita “facilitatrice”, nella sua

caratteristica organizzativa, della commissione di questi stessi reati.

Ora, non si intende certo sviluppare in questa sede un discorso in merito alla

confisca e alle torsioni e ai conflitti interpretativi cui e sottoposta in maniera

particolarmente frequente in questi anni18. Cio che pare invece emergere di utile allo

scopo di questo scritto e che l'associazione sembra faticare a trovare – ai fini della

confisca – un'autonoma identita , slegata dai propri reati fine. Il tema della corretta

interpretazione del d. lgs. 231/2001 finisce così per incrociare quello della corretta

individuazione del proprium dei delitti contro l’ordine pubblico in discorso. La

difficolta di individuare il volto concreto del profitto del fatto associativo di per se ,

svincolato dai diversi reati fine, feconda un’azione ancor piu ampia della

responsabilita da reato degli enti e fornisce una spinta propulsiva ancor piu forte

alla confisca, che da tempo conosce ormai un’inarrestabile progressione.

Questa sua inscindibilita dal proprio programma criminoso finisce per fondare una

lettura forzata anche del dettato del d. lgs. 231/2001, legittimando quella portata

espansiva del connubio tra responsabilita degli enti e reati associativi in discorso.

Gradatamente, grazie a sentenze come quelle citate, il sistema 231 si avvicina

sempre di piu a sistemi di responsabilita da reato come ad esempio quello francese,

nel quale ogni fattispecie e (almeno astrattamente, salve quindi le aporie del caso di

specie legate a categorie di illecito difficilmente coniugabili con una persona non

fisica) capace di generare il rimprovero dell'ente collettivo.

L'impressione tuttavia e che questa strada rischi di snaturare lo strumento del 2001

delle sue caratteristiche distintive, utilizzandolo come un ingrediente buono per

tutte le stagioni, ma svilendone così la forza propria.

18 Si vedano sull’evoluzione della confisca e del concetto di profitto, specialmente in ragione proprio dell’impianto normativo di cui al d. lgs. 231/2001, le riflessioni di Mario Romano, Confisca, responsabilità degli enti, reati tributari, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2015, p. 1674.

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8. Peculiarità dell’associazione mafiosa

E il caso di riprendere per un momento il ragionamento sul profitto del reato

associativo e considerare di nuovo l’ipotesi che il mero associarsi rappresenti una

sorta di aspettativa di utilita , o comunque consenta di per se un differente

posizionamento sullo scenario sociale e in particolare economico. Si coglie forse

questo profilo, infatti, in relazione a quell’orientamento giurisprudenziale che si

concentra sul proprium della sola associazione per delinquere di tipo mafioso.

La nota pronuncia della Corte di Cassazione a Sezioni Unite Iavarazzo del 201419

ritiene in buona sostanza ovvia la capacita dell’associazione mafiosa di generare di

per se sola profitto, proprio a fronte delle caratteristiche che la distinguono

dall’associazione per delinquere semplice, cioe dal metodo mafioso e dalla piu ampia

articolazione del disegno criminoso, che non attiene esclusivamente alla

commissione di reati. Il quid rilevante dell’associazione mafiosa nel pensiero della

Suprema Corte non e solo la distintiva forza di intimidazione: e qui invero chiamata

in gioco la mafia nella sua natura piu imprenditrice. Sono proprio, difatti, si legge

nella sentenza, “le più recenti dinamiche delle organizzazioni mafiose” a dimostrare

che queste sono in quanto tali produttive di ricchezze illecite, a fronte del loro

indugiare sulla presenza in attivita economiche e sul reimpiego nelle stesse di

proventi dei pregressi reati. Il co. 3 dell’art. 416‐bis c.p. esprime la “differenza

ontologica” dell’associazione mafiosa rispetto a quella semplice, alla luce della

descrizione ampia dei mezzi usati e dei fini perseguiti dalla stessa. E peraltro e

ancora lo stesso art. 416‐bis c.p. che, al co. 7, con la disposizione sulla confisca

obbligatoria delle cose che sono il prezzo il prodotto, il profitto o che ne

costituiscono l’impiego del reato associativo mafioso, a dimostrare che il legislatore

“presuppone che l’associazione in quanto tale sia produttiva di ricchezze illecite”.

Con cio si giunge al profilo piu rilevante anche a fronte della ricerca dell’Universita

Bocconi sull’infiltrazione mafiosa al Nord: se gli orientamenti citati sopra parevano

stentare a trovare una strada convincente a proposito della capacita del delitto

associativo semplice di generare profitto e di bastare da solo a consentire

l’applicazione del d. lgs. 231/2001, quando i reati fine non vi siano ricompresi, nel

19 Cass., SS. UU., 27 febbraio 2014 (dep. 13 giugno 2014, n. 25191), Iavarazzo, pubblicata inter alia in www.dirittopenalecontemporaneo.it, con note di Alessandra Galluccio e Nicolò Amore.

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caso dell’associazione mafiosa l’orientamento espresso nella sentenza Iavarazzo,

che riprende invero un ampio filone sul punto, sembra schiudere una prospettiva

maggiormente convincente, e soprattutto sembra capace di far intravvedere una

strada piu ragionevole ai fini della declinazione del connubio tra responsabilita degli

enti e societas sceleris.

Pare in altri termini d’un lato che l’art. 416‐bis c.p., nelle caratteristiche

fenomenologiche colte dal legislatore e poste (discutibilmente) alla base del fatto

tipico, colga invero una manifestazione associativa in atto, che gia si manifesta cioe

all’esterno20, schiudendo una concretezza maggiore ai meccanismi di apprensione

del profitto suo proprio. Dall’altro, pare che la sottolineatura della sua peculiare

proiezione finalistica, che include il versante economico‐imprenditoriale,

contribuisca altrettanto a rendere il discorso intorno alla confisca del profitto ed alla

stessa responsabilita degli enti ai sensi del d. lgs. 231/2001 meno ardito.

La capacita di generare profitti da declinare anche secondo logiche imprenditoriali

sembra forse rendere meno improbabile l’accostamento tra il corpo normativo del

2001 e l’art. 416‐bis c.p. Il tratto sempre piu marcatamente imprenditoriale delle

associazioni mafiose, la loro riconosciuta capacita di profitto in se , le rende cioe

meno estranee al sistema 231, o quanto meno alle realta economiche che quel

sistema ha di mira.

Il proprium del tipo mafioso rende invero gia in potenza le societa in qualche modo

legate alla consorteria criminale, prima ancora e a prescindere dalla realizzazione

dei reati scopo, (piu ) forti sul mercato, grazie alla semplice (e nota al pubblico degli

interessati, che si tratti di enti appaltatori o di concorrenti) esistenza di simile

legame, e forse per questo piu facilmente accostabili all’impianto preventivo‐

sanzionatorio della responsabilita amministrativa degli enti.

La “vicinanza” (per il momento ancora in termini del tutto atecnici) dell’ente lecito

all’associazione mafiosa proietta cioe su di esso una immediata forma di profitto, la

sua capacita di prevalere sul mercato, o comunque di imporsi con una maggiore

facilita sui concorrenti, sol che si presenti al pubblico in questa veste.

20 V. Luigi Fornari, Il metodo mafioso: dall'effettività dei requisiti al “pericolo d'intimidazione” derivante da un contesto criminale?, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 9 giugno 2016, p. 8.

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I fascicoli milanesi esaminati nella ricerca in commento, infatti, presentano

numerosi casi nei quali la semplice presenza sul mercato edilizio di societa

notoriamente connesse alla ‘ndrangheta aveva causato l’immediata autoesclusione

di imprese lecite concorrenti da intere aree geografiche, senza che fosse stato

necessario alcun intervento intimidatorio. Alcune imprese edili preferivano cioe

evitare completamente di operare in certe aree dell’hinterland milanese, perche

consapevoli che sarebbero state perdenti rispetto alla rivale legata alla mafia, e che

avrebbero comunque corso il rischio di trovarsi in situazioni a dir poco spiacevoli

(così ad es. il noto procedimento Cerberus, v. infra).

Nonostante questa intuizione, l’esperienza giurisprudenziale analizzata nell’ambito

della ricerca rivela anche a proposito dell’associazione mafiosa problematiche

distintive ulteriori nella combinazione reato associativo ‐ responsabilita dell’ente,

sia sul piano “logico”, sia su quello fenomenologico. Una pronuncia di merito nel caso

Valle e l’intero iter giudiziario della vicenda Cerberus manifestano queste due aree

di apparenti incongruenze, smentendo entro certi termini l’idea di una piu facile

conciliabilita dei due poli in discorso, reati associativi e responsabilita degli enti, in

caso di tipo mafioso.

9. Le aporie messe in luce dalla sentenza di I grado del

procedimento Valle

Per saggiare l’eventuale diversa compatibilita tra associazione mafiosa e

responsabilita degli enti, occorre invero riandare ai meccanismi che fondano

l’imputazione all’ente del reato commesso dal proprio esponente, e in particolare al

criterio di imputazione oggettivo di cui all’art. 5 d. lgs. 231/2001.

Come anticipato sopra, non e affatto scontato stabilire quando la partecipazione di

un esponente societario al sodalizio mafioso possa dirsi realizzata nell’interesse o a

vantaggio della societa , fondamentale criterio di imputazione del d. lgs. 231/2001.

Astrattamente si dovrebbe forse verificare che l’affiliazione di questi fosse avvenuta

ictu oculi (sposando la concezione oggettiva dell’interesse di cui all’art. 5 d. lgs.

231/2001) in vista quanto meno di un’aspettativa di beneficio per la societa , o,

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qualora l’appartenenza al sodalizio fosse un bagaglio che l’esponente recasse con se

possedendolo gia da prima del suo ingresso in societa , che appunto tale ingresso

nell’impresa rispondesse ad una finalita di beneficio (quanto meno anche) per

quest’ultima. Da questo punto di vista, qualora la specifica associazione avesse nei

suoi scopi il controllo di attivita economiche, questo percorso potrebbe apparire piu

semplice.

Secondo uno sviluppo giurisprudenziale che si va ad illustrare, tuttavia, i due poli –

interesse dell’ente e inserimento dell’ente stesso nell’associazione per delinquere –

sembrerebbero escludersi a vicenda.

Una pronuncia esaminata nell’ambito della ricerca sull’infiltrazione mafiosa al Nord

esprime infatti il disagio che si avverte, soprattutto sul piano logico e

dell’argomentazione giuridica, quando si cerchi di accertare il criterio di

imputazione oggettivo della responsabilita degli enti nelle ipotesi di contestazione

dell’art. 24‐ter d. lgs. 231/2001 dipendente dal reato ex art. 416‐bis c.p.

Anticipando quanto si dira piu in dettaglio oltre, l’ampia base di dati giudiziari

raccolta ha rivelato un numero molto scarso di procedimenti nei quali si sia fatto

ricorso all’armamentario del d. lgs. 231/2001. Tra questi, particolarmente

interessante la motivazione che ha sorretto l’esclusione di responsabilita per le

societa coinvolte in uno dei filoni del procedimento denominato convenzionalmente

“Valle”, relativo all’omonima famiglia ‘ndranghetista, unitamente alla famiglia

Lampada, proveniente dalla medesima area di Reggio Calabria e unita alla prima a

seguito, tra l’altro, della celebrazione di matrimoni tra gli esponenti dei due ceppi.

Il clan Valle – Lampada, attivo inizialmente a Vigevano e poi a Milano (in particolare

i Comuni di Bareggio, Cisliano), era come noto dedito alla commissione di delitti di

usura, riciclaggio, truffa ecc., nonche ad una serie di ulteriori attivita illecite

realizzate per lo piu nel contesto di iniziative imprenditoriali nei settori del gioco

d’azzardo (slot machine), della ristorazione e immobiliare.

Tredici le societa imputate ex art. 24‐ter d. lgs. 231/2001, dodici s.r.l. e una s.a.s., in

relazione al reato di associazione per delinquere di tipo mafioso commesso da

propri rappresentanti (spesso di fatto) membri delle famiglie Valle – Lampada.

Queste societa , infatti, impegnate nei settori d’impresa ricordati, vedevano per lo piu

soci ed amministratori di facciata, dietro ai quali si celavano i membri delle famiglie

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mafiose, che le usavano per portare avanti le proprie attivita illecite.

Il Tribunale di Milano con pronuncia del 2012 ha rilevato, all’esito del dibattimento,

le aporie dell’accostamento tra il criterio di imputazione dell’interesse o vantaggio e

il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso, a differenza di altri reati

parimenti ricompresi nel catalogo della fattispecie presupposto. Piu in particolare,

il Collegio ha affermato la difficolta di ritrovare quanto richiesto dall’art. 5 d. lgs.

231/2001, la finalizzazione cioe all’ente del reato presupposto (la motivazione parla

invero dei “comportamenti” o “condotte” che determinano l’illecito amministrativo

secondo l’art. 5), nella mera promozione o organizzazione della societas sceleris o

nella partecipazione ad essa, le quali non richiedono la realizzazione di alcun reato

fine ma si concretizzano nella semplice adesione e nella pronta disponibilita a dar

seguito al programma di questa. In altri termini, se il criterio di imputazione del d.

lgs. 231/2001 esige che il reato alla base della responsabilita amministrativa appaia

in maniera oggettiva volto al beneficio dell’ente21, la fattispecie associativa mafiosa,

in se e per se considerata, sembra raramente capace di una simile proiezione.

Ebbene, perche questo requisito sia soddisfatto, secondo il Tribunale di Milano, vi e

“la necessità della realizzazione, nel divenire della vita della "societas sceleris", di una

delle condotte contemplate” dalla disposizione in discorso22. In altri termini, sembra

dire l’organo giudicante, occorre un’estrinsecazione fattuale dell’associazione

criminale, l’effettiva messa in essere di una delle proprie attivita illecite, poiche

21 Secondo una lettura appunto oggettiva del criterio di imputazione dell’interesse - vantaggio, incentrata cioè sulla tensione che all’evidenza dirige il reato verso l’ente, contrapposta ad una lettura in chiave psicologica: ci si permette di rinviare per una più ampia illustrazione delle differenti prospettive a Francesca Chiara Bevilacqua, Responsabilità da reato ex d. lgs. 231/2001 e gruppi di società, Egea, Milano, 2010, p. 67 ss. 22 Pare utile riportare per esteso l’argomentazione in discorso: “Senonché, mentre per altre ipotesi di illecito amministrativo la condotta integrativa degli estremi di reato ben può coincidere, “in re ipsa”, con uno dei comportamenti contemplati dal citato art. 5, e dare luogo pertanto a responsabilità amministrativa (si pensi ad esempio all'illecito di indebita percezione in favore di una persona giuridica di erogazioni in danno dello Stato), difficilmente, di per sé, la promozione della “societas sceleris” - consistente nella realizzazione delle condotte propedeutiche alla sua “costituzione” -, l'organizzazione della medesima consistente nella realizzazione delle condotte propedeutiche al suo concreto funzionamento - e la partecipazione alla stessa - per la quale non è necessaria la realizzazione di atti che si annoverino tra i fini di essa, essendo sufficiente l'adesione alla stessa e la fattiva, concreta disponibilità a porre successivamente in essere quanto necessario per la sua perpetuazione - coincideranno con uno dei comportamenti delineati dal detto art. 5, andando in tal modo ad integrare gli estremi dell'illecito amministrativo derivante da reato, ma vi sarà la necessità della realizzazione, nel divenire della vita della “societas sceleris”, di una delle condotte contemplate da tale ultima disposizione” (p. 316 della pronuncia).

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altrimenti il semplice associarsi, la semplice, per quanto fattiva, disponibilita a

cooperare alla vita pratica dell’associazione in termini di effettiva perpetrazione di

reati fine, non raggiungono quel sostrato di concretezza necessario a soddisfare i

requisiti di fondazione della responsabilita dell’ente.

La forza apparentemente soltanto in potenza di cui dispone il fatto associativo di per

se solo considerato stride, in definitiva, con l’effettivita materiale che il Tribunale

milanese pare leggere nel requisito della commissione del reato presupposto

nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Quel quid in piu del tipo mafioso di cui si e detto

sopra, cioe il suo cogliere una manifestazione associativa in atto unitamente alla sua

prospettiva imprenditoriale, non sembra in altri termini bastare a fondare il

percorso di imputazione richiesto dall’articolato del 2001, che nel pensiero dei

giudici richiede un coefficiente piu terreno, immediatamente percepibile.

E forse quindi la difficolta di individuare un concreto beneficio dell’ente proprio

della mera associazione, intesa in termini statici, ad impedire nel pensiero dei giudici

del processo Valle il coinvolgimento delle molte societa imputate nella vicenda

punitiva. Quella stessa difficolta , a ben vedere, palesata da alcune delle sentenze

sopra menzionate nell’identificare la pur distinta nozione di profitto in relazione a

simile reato.

Di particolare interesse anche l’argomentazione conclusiva con la quale la sentenza

del 2012 ha corroborato le proprie determinazioni. Il Tribunale ha ravvisato una

contraddizione tra la contestazione da un lato degli illeciti amministrativi in capo

agli enti, dall’altro dell’aggravante di cui all’art. 7 d.l. 152/1991 in capo agli imputati

ex art 416‐bis c.p., dal momento che tale aggravante “comporta un giudizio di

strumentalità degli atti imprenditoriali all'interesse dell'associazione a delinquere e

dei loro componenti”, quasi come se tale strumentalita dell’impresa alla consorteria

mafiosa escludesse di per se la possibilita di un contemporaneo co‐interessamento

dell’ente, o anzi negasse completamente ogni possibile beneficio in capo ad esso23.

23 Si riporta anche in questo caso il passo per intero: “Conclusione questa vieppiù dimostrata dalle componenti di contraddittorietà insite nella contemporanea contestazione, nel presente procedimento effettuata, di illeciti amministrativi derivanti da reato, che per loro natura e per quel che si è sopra osservato devono essere consumati "nell'interesse o a vantaggio dell'ente", e dell'aggravante di cui all'art. 7 d.l. n. 152/1991, in questa sede ritenuta sempre sussistente per coloro che sono stati condannati per l'illecito di cui all'art. 416 bis c.p., che comporta un giudizio di strumentalità degli atti

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Una notazione, questa, che dimostra una volta di piu la delicatezza dell’innesto

dell’associazione per delinquere nell’universo della responsabilita da reato degli

enti. Il termine “strumentalità” rende invero l’idea di un ente del tutto asservito agli

scopi dell’associazione, puro mezzo deprivato di ogni altro e distinto afflato.

Un’espressione che avvicina a quell’instrumentum sceleris che nel suo piegarsi al

reato diviene ragionevole oggetto di confisca.

Indubbiamente l’aggravante mafiosa e sembrata in ogni caso ai giudici dipingere una

particolare pregnanza dell’assoggettamento all’associazione mafiosa dei tredici enti

coinvolti, così escludendo che potesse trattarsi di un caso invece di reciproche

cointeressenze tra i due universi.

Probabilmente, a livello fattuale, anche le dimensioni spesso estremamente

contenute, per quanto emerge dalla pronuncia, delle societa in discorso (in alcuni

casi legate ciascuna unicamente al singolo esercizio commerciale costituente il solo

oggetto sociale) hanno giocato un ruolo importante nell’esplicitazione di questo

senso di contraddittorieta da parte del Tribunale: generalmente non pare infatti che

queste societa schierassero molti dipendenti, tanto meno slegati dalla consorteria

criminale, ma tendenzialmente annoveravano solo teste di paglia compiacenti,

dietro alle quali si celavano nella proprieta e nella gestione gli esponenti delle

famiglie Valle e Lampada. Piu difficile sarebbe stato probabilmente il discorso nel

caso in cui le societa in questione avessero avuto dimensioni piu importanti, se non

altro per numero di addetti.

In ogni caso la pronuncia del Tribunale di Milano pare esemplificativa della

sensazione di perplessita che istintivamente genera l’accostamento tra reati

associativi e responsabilita degli enti, anche in caso di tipo mafioso.

imprenditoriali all'interesse dell'associazione a delinquere e dei loro componenti” (pag. 317 della sentenza).

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10. Gradi di infiltrazione mafiosa e opportunità dell’intervento ex

d. lgs. 231/2001

Gli ostacoli non sono pero di ordine esclusivamente logico, dal momento che sono le

dinamiche stesse dell’infiltrazione a poter cagionare una notevole impasse.

Si e detto sopra che la forza propria del tipo mafioso renderebbe piu semplice

l’argomentare rispetto al tipo associativo semplice, perche l’accostamento alle

associazioni mafiose determinerebbe per le imprese un vantaggio competitivo

pressoche automatico (per quanto sempre difficilmente misurabile

quantitativamente). Sarebbe pero semplicistico assegnare un’immediata condizione

di privilegio alle imprese “legate” alle consorterie mafiose. Occorre anzi interrogarsi

su quale tipo di “legame” possa fondare un rimprovero a carico di queste societa ai

sensi del d. lgs. 231/2001, se sia cioe o meno sufficiente l’appartenenza

all’associazione mafiosa di un qualsivoglia operatore della societa per ritrovare in

capo alla stessa l’interesse o quanto meno il vantaggio fondativi della responsabilita

da reato di associazione per delinquere di tipo mafioso. La presenza nel consiglio di

amministrazione di un affiliato alla ‘ndrangheta soddisfa cioe automaticamente un

rimprovero ex art. 24‐ter d. lgs. 231/2001 – 416‐bis c.p. per la societa interessata?

L’interrogativo e in altri termini a quali condizioni si possa ritenere che una societa

sia così cointeressata alle sorti della consorteria mafiosa da meritare un rimprovero

ai sensi del d. lgs. 231/2001.

Ogni velleita di definizione netta e vana, perche la realta dei fatti, come testimoniato

anche dai fascicoli consultati nell’ambito della ricerca, riporta una varieta di forme

e di gradi di infiltrazione mafiosa che rendono pressoche impossibile tracciare linee

di demarcazione precise tra societa “mafiose” e non. Al di la del completo

asservimento, vale a dire ad esempio della societa creata allo scopo esclusivo di

fungere da mera scatola per occultare e riciclare i proventi mafiosi e animata solo da

affiliati all’associazione criminale (come forse accadeva nel caso Valle), la presenza

delle consorterie in societa di origine lecita puo passare da vari livelli di

introduzione nel capitale sociale e nella forza lavoro delle imprese.

Come noto, spesso le associazioni criminali iniziano ad imporre l’assunzione di

alcuni soggetti alle dipendenze dell’ente lecito, per poi proseguire rilevando quote e

collocando proprio personale nelle funzioni gestorie, sino a relegare l’imprenditore

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originario ad un ruolo tutt’al piu di facciata, utile a presentare la societa in

determinati contesti con un volto all’apparenza pulito.

I gradi di intensita dell’intrusione della sfera illecita in quella lecita sono progressivi,

e difficilmente scomponibili secondo segmenti nettamente separati. Non solo, un

altro aspetto rende difficilissimo identificare l’impresa per la quale l’associazione

per delinquere di tipo mafioso rappresenti concretamente un reato presupposto nel

suo interesse o a suo vantaggio: spesso quella dell’infiltrazione si rivela una

parabola, l’impresa in origine lecita apre in alcuni casi le porte alla collaborazione

mafiosa per poi trovarsene gradatamente risucchiata ed infine vittima.

Esemplificativo in questo senso un altro dei procedimenti esaminati nel corso della

ricerca in commento.

11. Impresa avvantaggiata o vittima dell’associazione mafiosa? Il

caso Cerberus

Nel procedimento “Cerberus”, relativo alla presenza delle famiglie calabresi Barbaro

– Papalia nell’area del milanese gravitante attorno a Buccinasco, l’ormai celebre

“sodalizio” tra la societa Lavori Stradali s.r.l. e la cosca criminale ha trovato notevoli

ostacoli nell’evoluzione giudiziale, a causa in particolare della difficolta di

inquadrare in modo convincente il dominus delle societa di movimento terra entrato

in rapporti con la ‘ndrangheta, Maurizio Luraghi, come partecipe dell’associazione

mafiosa.

Come noto, il procedimento ha avuto alterne vicende, in primis con riferimento

all’effettiva presenza del tipo mafioso nell’operare delle attuali generazioni dei

Barbaro – Papalia, discendenti da quelle interessate dal procedimento “Nord Sud”.

In secondo luogo, quel che piu interessa in questa sede, l’oscillare del Luraghi e con

lui della Lavori Stradali s.r.l. dal ruolo di imprenditore colluso a quello di

imprenditore vittima dell’associazione criminale ha contribuito ad una vicenda

giudiziaria fatta di ripetuti annullamenti e rinvii dalla corte di legittimita a quella di

merito, tanto che la vicenda e tuttora in attesa (almeno con riguardo a parte

significativa degli imputati) di una pronuncia definitiva.

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L’imprenditore lombardo Luraghi si era prestato ad offrire – secondo l’accusa,

condivisa dalla pronuncia di I grado – il volto pulito agli affari dei mafiosi, ed aveva

intrapreso una collaborazione con questi che negli anni si era trasformata per la sua

consuetudine in una vera e propria partecipazione al sodalizio criminale. Luraghi

aveva manifestato di sua iniziativa la propria disponibilita ai Barbaro ‐ Papalia,

aderendo pienamente al meccanismo da costoro instaurato, di cui sfruttava i

vantaggi.

In un caso, ad esempio, era arrivato ad aumentare spontaneamente la mazzetta a

loro favore, sapendo che questi gli avrebbero percio garantito il lavoro su altri lotti

di terreno. Ancora, quando aveva avuto dei diverbi con un collega imprenditore per

un importo che questi non intendeva corrispondergli come avrebbe dovuto, i

Barbaro erano subito intervenuti, invitando quest’ultimo a trasmettere subito il

quantum.

Il I grado di giudizio l’aveva classificato di conseguenza come imprenditore colluso,

parte di un rapporto sinallagmatico con l’associazione criminale, da cui erano discesi

vantaggi per entrambe le parti. Per lunghi anni la Lavori Stradali aveva ottenuto

numerose e lucrose commesse grazie alle sue “amicizie”, senza doversi mai

realmente confrontare con la concorrenza.

Sin qui, dunque, in un caso simile, l’inquadramento del dominus della societa come

partecipe dell’associazione di cui all’art. 416‐bis c.p. in linea di principio potrebbe

fondare in maniera apparentemente ragionevole una responsabilita della societa

stessa in base al d. lgs. 231/2001. La societa beneficia in maniera chiara delle scelte

del proprio gestore e vede il suo legame con la consorteria crescere in frequenza e

forza, sì che immaginare un intervento ai sensi della legge del 2001 su questa societa ,

nata nella legalita e poi gradatamente corrotta, parrebbe sensato ed anzi

potenzialmente utile – se tempestivo e ben calibrato – a frenare l’espansione del

contagio, per permettere alle parti eventualmente ancora sane della societa un

recupero alle regole civili.

Il problema tuttavia e che Luraghi, come sottolineato dalla sua difesa, aveva allo

stesso tempo assunto i tratti della vittima: aveva sempre subito infatti, lui per primo,

l’imposizione del “sovrapprezzo” da parte dei Barbaro ‐ Papalia sui lavori svolti,

sapendo – come era solito dire – che a Buccinasco le cose non potevano che

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funzionare così 24. Ed anzi, quando in una occasione aveva osato prendere una

commessa senza coinvolgerli aveva subito importanti danneggiamenti ai macchinari

dei suoi cantieri25.

Non solo, all’esito di una consulenza tecnica di natura contabile, era emerso che gli

esborsi ripetutamente corrisposti negli anni ai Barbaro erano stati molto

consistenti. Secondo questa consulenza, acquisita agli atti del processo Cerberus da

un altro processo a carico di Luraghi e dei Barbaro per reati fiscali e fallimentari,

conseguente al fallimento della Lavori Stradali s.r.l., addirittura la societa non

sarebbe nemmeno fallita in assenza delle contribuzioni a beneficio degli esponenti

mafiosi. Ed e proprio questo uno degli elementi cardine emersi dall’istruttoria e

invero trascurati dai giudici di prime e seconde cure che ha condotto la Corte di

Cassazione nel 2015 ad annullare con rinvio la condanna quale partecipe

dell’imprenditore lombardo.

Secondo la Suprema Corte era emerso nei giudizi di merito che i Barbaro avevano

sfruttato e “spremuto” Luraghi e la Lavori Stradali sino al fallimento, e se deve

ritenersi possibile che anche l’associato sia vittima di atti di intimidazione, la

circostanza che questi ne sia il principale bersaglio mette in crisi la sua presunta

partecipazione al sodalizio mafioso.

Simili circostanze mettono evidentemente in crisi l’assunto di una partecipazione

all’associazione mafiosa del Luraghi, ed allo stesso tempo di una sua partecipazione

a favore della societa Lavori Stradali s.r.l., giunta poi alla decozione.

In attesa che la vicenda giudiziaria di Maurizio Luraghi trovi una pronuncia

definitiva, il ripetuto altalenarsi del suo ruolo, ora a monte e ora a valle della catena

criminale, testimonia inequivocabilmente le infinite e opache sfumature che spesso

contraddistinguono le imprese che entrano in rapporti con clan mafiosi, e la

difficolta quindi di procedere, anche volendo, secondo gli stilemi del d. lgs.

231/2001.

24 “Il governo del territorio ce l’hanno loro e se io voglio lavorare con la mia azienda e per i miei committenti devo far fare a loro i lavori di movimento terra, altrimenti subirei danneggiamenti ai cantieri”. 25 Teste in proposito nel processo la figlia dei coniugi Luraghi, Barbara, subentrata nell’impresa familiare: non volendo proseguire la gestione iniziata dal padre, di commistione con le forze mafiose, si trovava oggetto di ripetuti atti di intimidazione, spesso anche in prossimità delle udienze del processo.

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E evidente che qualora si accerti in giudizio che l’impresa ha dovuto concedere

pagamenti estorsivi, o si e sentita comunque sostanzialmente costretta a tollerare la

collaborazione con le consorterie criminali, diventa difficile affermare che questa

collaborazione sia avvenuta nel suo interesse. La societa passa gradualmente da una

situazione di privilegio sul mercato a quella di ente soffocato dai suoi stessi iniziali

sostenitori.

L’impresa probabilmente non e ne del tutto vittima ne del tutto carnefice in ipotesi

del genere, e non e quindi immediato comprendere (al netto della parallela difficolta

sull’accertamento del reato presupposto del suo rappresentante, base

imprescindibile dell’addebito ex d. lgs. 231/2001) se sia sensato rimproverarle

l’illecito ammnistrativo dipendente dal delitto di cui all’art. 416‐bis c.p.

12. La difficoltà di stabilire l’an e il quomodo dell’intervento

Le sfumature non sempre chiaramente distinte della penetrazione mafiosa

nell’impresa lecita rendono difficile stabilire se l’intervento con i mezzi previsti dal

d. lgs. 231/2001 sia possibile. Gia il primo tassello nel percorso di imputazione,

quello dell’interesse o vantaggio, e difatti messo in crisi dalle ambiguita che la prassi

dimostra.

Un altro aspetto pero rende incerto il percorso di attribuzione della responsabilita

amministrativa all’ente (genericamente) contiguo alla mafia. L’intervento ai sensi

della normativa del 2001 puo avere un impatto molto forte sugli enti e – com’e

comprensibile – le cornici edittali per i reati associativi sono ai sensi dell’art. 24‐ter

consistenti. E quindi necessario modulare attentamente l’eventuale utilizzo

dell’arsenale sanzionatorio o cautelare del d. lgs. 231/2001. Un problema che

affligge piu in generale tutti gli strumenti di contrasto all’infiltrazione mafiosa nel

tessuto economico e quello, tradizionalmente, di non annientare, dove possibile e

sensato, le strutture imprenditoriali, salvando quanto recuperabile e anzi – quando

ad esempio si intervenga con l’inserimento di un commissario giudiziale – curando

un ritorno all’utile o comunque non solo la conservazione ma anche il miglioramento

delle funzionalita aziendali.

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Da un lato e quindi molto delicato stabilire se l’impresa meriti effettivamente la

corresponsabilizzazione per il legame di uno o di alcuni dei suoi esponenti con le

consorterie mafiose, dall’altro occorre far tesoro dell’indicazione dell’art. 14 del d.

lgs. 231/2001 (“Le sanzioni interdittive hanno ad oggetto la specifica attività alla

quale si riferisce l'illecito dell'ente”), e mirare (auspicando che cio sia davvero sempre

possibile) la risposta afflittiva sull’area effettivamente interessata dal contagio

criminale.

Specialmente in caso di grandi imprese, o magari di imprese strutturate secondo piu

agenzie o articolazioni dislocate in aree territoriali diverse, e ben possibile infatti

che l’abbraccio della via illegale contraddistingua una porzione soltanto

dell’impresa, sì che sarebbe sproporzionato un rimprovero che si abbattesse invece

sull’impresa nel suo complesso (si pensi al caso della societa di spedizioni TNT, nel

quale la magistratura e invero intervenuta con il diverso strumento

dell’amministrazione giudiziaria ai sensi dell’art. 34 d. lgs. 159/2011, ma in cui e

stato possibile isolare la specifica agenzia delle molte presenti nel Paese interessata

dal contagio mafioso26).

Il problema dei terzi innocenti, a fronte delle gravita delle sanzioni possibili per gli

illeciti amministrativi derivanti da reati associativi, si fa particolarmente vivo. Così

vivo che forse si dovrebbe riflettere non solo sul quantum e sul quomodo della

sanzione, ma anche prima sull’an della stessa.

Si e ragionato sinora, sulla scorta dell’esempio del procedimento Cerberus, sul caso

di commissione del reato associativo da parte di un soggetto apicale della societa ,

anzi, nel caso di Luraghi, della vera e propria anima di una (relativamente) piccola

societa . Ma nel caso in cui le dimensioni societarie siano maggiori, e associato ex art.

416‐bis c.p. sia un unico lavoratore, di grado gerarchico in ipotesi non alto, si potra

ancora colpire sensatamente la societa ? Ci si domanda cioe se l’associazione (si badi,

non il singolo reato scopo) possa dirsi ancora nell’interesse o a vantaggio dell’ente o

se non occorra invece un numero minimo di lavoratori perche l’intervento punitivo

26 Cfr. sulla decisione della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano, Costantino Visconti, Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese (working paper), in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 28 gennaio 2012. A proposito dell’infiltrazione nella multinazionale TNT v. anche infra.

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sia ragionevole.

Un interrogativo non trascurabile potrebbe essere in altri termini se in caso di reato

associativo non sia forse piu corretto che il rimprovero scatti solo nel momento in

cui una pluralità di esponenti dell’ente sia almeno partecipe dell’associazione.

Specialmente in caso di soggetti sottoposti ai sensi dell’art. 5 co. 1 b) potrebbe

sembrare iniquo fondare una responsabilita severa come quella consentita dall’art.

24‐ter d. lgs. 231/2001 sull’affiliazione all’associazione delittuosa di un solo

lavoratore.

Sembrerebbe preferibile impiegare questo arsenale sanzionatorio solamente

qualora il grado di infiltrazione raggiunga una certa consistenza. Il parametro di

questa puo essere difficile da determinare. Da un lato potrebbe essere influenzato

dal numero di agenti necessario per l’associazione per delinquere ai sensi del codice

penale. Dall’altro questo potrebbe sembrare non adeguato in caso di enti di grandi

dimensioni, e potrebbe variare in proporzione alle dimensioni del singolo ente

considerato. Un altro parametro potrebbe essere quello del livello gerarchico degli

esponenti mafiosi all’interno dell’ente, immaginando naturalmente una pervasivita

maggiore in caso di azione al livello dei vertici.

Il contemperamento potrebbe ancora una volta venire da una valorizzazione dell’art.

14 che, pur con riferimento specifico alle sanzioni interdittive, sancisce un principio

che pare di piu ampio rilievo, vale a dire la necessita di colpire con la sanzione para‐

penale ex d. lgs. 231/2001 solamente le attivita cui l’illecito specificamente si

riferisce.

Come palesa, infatti, la legislazione antimafia di cui al d. lgs. 159/2011, l’obiettivo

dell’intervento giudiziario, ad esempio nel caso di amministrazione giudiziaria deve

essere certo quello del recupero alla legalita , e non necessariamente

dell’annientamento, ma addirittura anche il ritorno all’utile, dove possibile (si legge

all’art. 35 del codice antimafia che “l'amministratore giudiziario ha il compito di

provvedere alla custodia, alla conservazione e all'amministrazione dei beni sequestrati

nel corso dell'intero procedimento, anche al fine di incrementare, se possibile, la

redditività dei beni medesimi”).

La distinzione tuttavia tra le aree dell’impresa effettivamente suscettibili di recupero

e quelle completamente guaste puo , a sua volta, non essere semplice. Tra gli indici

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da tenere in considerazione si potrebbe includere il numero ed il ruolo degli

esponenti, rispetto al totale della specifica area interessata, appartenenti o

comunque imposti o inseriti dalla consorteria mafiosa; la frequenza degli episodi

devianti; l’entita delle cifre sporche impiegate a sostegno dell’area in questione ecc.

Ancora: potrebbe essere importante distinguere i casi a seconda del livello

gerarchico nella consorteria criminale dell’esponente societario. In altri termini,

potrebbe essere utile distinguere i casi nei quali esponenti societari fossero capi o

promotori dell’associazione mafiosa da quelli nei quali tali esponenti fossero

semplici partecipi nella consorteria criminale.

La commisurazione dell’intervento afflittivo sara in ogni caso delicata.

13. Gli esiti della ricerca

Volgendo ora lo sguardo ai dati complessivi della ricerca sull’infiltrazione al Nord,

solamente 3 procedimenti sui 105 esaminati hanno fatto ricorso al d. lgs. 231/2001,

una percentuale che non raggiunge il 3%. Il dato numerico pare restituire in maniera

netta le aporie di varia natura, logica, giuridica ed empirica, di cui si e detto sinora.

Certo la poverta numerica dipende anche molto dai tempi dell’introduzione dell’art.

24‐ter d. lgs. 231/2001, e prima dell’art. 10 l. 146/2006 per il crimine organizzato

transnazionale. Occorre considerare che l’ingresso dei reati associativi, almeno non

transnazionali, e avvenuto molto tardi (2009), rispetto all’orizzonte temporale

considerato (2000‐2015), e cio impedisce naturalmente ogni suo ipotetico

protagonismo nelle vicende giudiziarie esaminate e piu risalenti. Si tratta poi forse

di novita tali che richiedono una fase di adattamento, proprio per il loro carattere

inedito.

Considerando in ogni caso il numero dei procedimenti interessati dall’uso del d. lgs.

231/2001 sul totale, per semplicita , dei procedimenti aperti a partire dal primo

esordio dei reati associativi nel sistema della responsabilita degli enti, quello del

2006, la percentuale di ricorso alla responsabilita “da reato” si avvicina al 5%,

dimostrando comunque una notevole esiguita .

Probabilmente la difficolta di coniugare i parametri d’imputazione dell’interesse o

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vantaggio con l’insidiosita del contagio criminale da un lato, insieme alla molteplicita

di forme e di gradi dell’infiltrazione dall’altro, per cui e a volte impossibile stabilire

se una societa abbia piu beneficiato o patito la sua apertura alla mafia, hanno

impedito di provare la strada del d. lgs. 231/2001, per consentire invece l’operativita

di strumenti piu collaudati, come la confisca, o comunque di particolare efficacia e

di minor dispendio probatorio, come le misure di prevenzione (si vedano al riguardo

gli ulteriori commenti alla presente ricerca).

14. Un tentativo di conciliazione tra i due universi: la pronuncia

Caposaldo

Non sono pero mancati invero tentativi interessanti d’impiego del d. lgs. 231/2001

nei procedimenti milanesi esaminati. Ad esempio, nell’ambito del cd. procedimento

Caposaldo, il Tribunale di Milano con la sentenza del 24 maggio 2013 n. 2571 ha

ripreso alla lettera l’excursus svolto dal procedimento Valle, sopra ricordato, sulla

difficolta di verificazione del criterio di imputazione dell’interesse o vantaggio in

caso di associazione mafiosa, ma concludendo in maniera del tutto opposta.

Il Collegio ha cioe rilevato che la s.r.l. MFM, impegnata in attivita di autotrasporto per

conto terzi e logistica e imputata ex art. 24‐ter d. lgs. 231/2001, era stata creata da

Davide Flachi e altri appartenenti alla ‘ndrangheta al fine di operare con il gia sopra

menzionato colosso multinazionale TNT e offrire la possibilita a questo di servirsi

apparentemente, per alcune commesse, di un ente “regolare”.

In particolare, la societa MFM era stata generata appositamente in termini

all’apparenza leciti e formalmente ineccepibili (“una delle intenzioni dei reali gestori

era di creare una realtà sociale “pulita”, si legge nella pronuncia a p. 1950), ed erano

stati individuati a questo scopo quali proprietari e gestori ufficiali gli esponenti delle

nuove generazioni mafiose, vale a dire i figli incensurati degli storici appartenenti

alla ‘ndrangheta. Ma, pur nell’apparente liceita , l’ente era stato in tutto e per tutto

animato dai proprietari e gestori di fatto mafiosi (le vecchie generazioni), e non

aveva avuto altro fine se non quello di assicurarsi un ingresso agevolato nella societa

TNT. MFM doveva rappresentare un trampolino di lancio negli affari leciti per le

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nuove generazioni, basandosi sulla forza derivante dai legami con la criminalita

organizzata27.

Se dunque, ha affermato il Tribunale ripercorrendo le argomentazioni della sentenza

Valle, e generalmente difficile che la mera partecipazione al sodalizio mafioso

coincida “con uno dei contegni aventi la finalità indicata nell’articolo 5”, nel caso della

MFM s.r.l. erano invece ravvisabili atti specificamente rientranti tra quelli commessi

nell’interesse o vantaggio dell’ente stesso: in particolare, il suo fungere da testa

d’ariete dal volto pulito per entrare in lucrosi affari sopravanzando i concorrenti.

Pare cioe di capire che nel pensiero dei giudici lecito e illecito si fossero intersecati

nella vicenda Caposaldo fecondando una cointeressenza tra agire economico

imprenditoriale pulito e attivita criminali capace di sostenere il criterio di

imputazione oggettivo dell’art. 5 d. lgs. 231/2001.

Alla difesa della societa , che aveva rilevato l’assenza di qualunque prova di

estorsioni o di altri illeciti di concorrenza violenta o minacciosa posti in essere da

MFM ai danni dei propri concorrenti, sì da negare in concreto qualunque interesse o

vantaggio in capo a MFM dalla sua vicinanza al sodalizio mafioso, il Tribunale di

Milano ha risposto che era stato dimostrato nel processo che l’estromissione dei

concorrenti dal rapporto con TNT, la quale aveva scelto appunto MFM per

l’effettuazione di una serie di consegne, non era stata “l’esito di una contesa

imprenditoriale ed economica, ma era stata “il frutto di una vera e propria imposizione

in qualche modo avallata e persino sollecitata da un certo management della

committente [la stessa TNT]”.

Per il Tribunale di Milano il fatto che la societa , pur formalmente lecita, fosse in realta

“intrinsecamente mafiosa”, testa di ponte di un’importante multinazionale, e stato

sufficiente a fondare la responsabilita ex art. 24‐ter d. lgs. 231/2001. In altri termini

la sua essenza mafiosa le ha consentito, senza necessita di attuare alcuno specifico

reato fine, di ottenere gli incarichi di TNT. L’asservimento alla consorteria criminale

27 Così si legge a p. 1967 della sentenza: “In definitiva, la predetta società aveva rappresentato lo strumento precipuo attraverso il quale consacrare l’alleanza tra gli imputati appartenenti alla ‘ndrangheta assicurando l’acquisizione dei contratti con la TNT, offrendo alla multinazionale olandese una controparte “presentabile” e dalle caratteristiche non evidentemente delinquenziali risultando essere stata società intrinsecamente mafiosa nonché strumento indispensabile per l’esplicazione ed attuazione delle finalità dell’associazione”.

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e nato e si e sviluppato nel suo stesso interesse e vantaggio.

La pronuncia Caposaldo sembrerebbe quindi aver individuato un connubio

piuttosto convincente tra la mera partecipazione all’associazione per delinquere di

tipo mafioso, svincolata dall’estrinsecazione di reati fine, e il criterio d’imputazione

dell’interesse o vantaggio.

Ci si sarebbe attesi che alla luce di questa così stretta cointeressenza, concretizzatasi

nell’ottenimento delle commesse TNT, il Tribunale avrebbe applicato la sanzione piu

grave dell’interdizione definitiva. Al contrario, considerando che l’ente era stato poi

dichiarato fallito, il Tribunale ha optato per l’applicazione di una sanzione

pecuniaria (pari ad euro 120.000), poiche non era pronosticabile alcuna ulteriore

attivita sociale in capo alla fallita MFM.

Difficile dire, a fronte di questo epilogo, se MFM, una societa nata per mano mafiosa

e governata da mano mafiosa, meritasse solo la “condanna a morte” e fosse dunque

ascrivibile a quei casi limite che sin dal suo principio il d. lgs. 231/2001 aveva

inserito ai confini ultimi della propria applicazione. Forse MFM era un ente che

conservava una porzione di legalita , poiche – pare – otteneva sì gli incarichi grazie

alla sua venatura criminale, ma svolgeva poi comunque anche un’attivita sociale

lecita, vale a dire le consegne affidatele da TNT, anche se non necessariamente in

termini soddisfacenti.

Resta in conclusione il dubbio se il carattere “intrinsecamente mafios[o]” di MFM, al

di la dell’accertamento della sua decozione che la poneva fuori ormai dal mercato,

ne facesse un ente definitivamente irrecuperabile e meritevole solo di interdizione

definitiva, vale a dire di quell’epilogo considerato dal legislatore del 2001 per gli enti

collettivi stabilmente dediti alla commissione di illeciti gia all’art. 16 co. 3 o

legittimasse una sanzione meno radicale.

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15. Conclusioni

L’esiguita del campione utile ai fini del d. lgs. 231/2001 rende ogni considerazione

generale un azzardo. Tuttavia l’alto numero di imprenditori e “mafiosi imprenditori”

registrato (rispettivamente 23 e 75, su 383 persone rinviate a giudizio per il reato di

cui all’art. 416‐bis c.p.), come convenzionalmente definiti (v. legenda tab. 4.2.3. e tab.

4.2.6.), unitamente all’ampio numero di procedimenti che hanno individuato tra gli

scopi delle associazioni mafiose proprio le attivita economiche (lo scopo di gestione

o controllo di attivita economiche e stato registrato in 44 rilevazioni, v. tab. 4.6.1.)

testimoniano che il connubio tra criminalita organizzata e agire economico e certo

di rilievo, e che quindi il trapianto delle fattispecie associative nella responsabilita

da reato degli enti era quanto meno un esperimento dotato di una sua

ragionevolezza.

Non si puo infatti concludere che il trapianto sia del tutto fallito, e ancora forse

troppo presto per dirlo e col tempo e l’esperienza l’armamentario della

responsabilita “amministrativa” degli enti, con il suo carrot-stick approach, potrebbe

forse rivelarsi piu utile di quanto si direbbe ora.

Del resto, l’inserimento dell’art. 24‐ter nel d. lgs. 231/2001 ha se non altro obbligato

societa e associazioni di categoria a cimentarsi con la predisposizione di cautele

organizzative volte ad impedire o quanto meno prevenire la penetrazione mafiosa

nell’impresa.

Si tratta certo di un’opera non semplice, che spesso si risolve, inter alia, nel suggerire

agli enti di osservare le cautele richieste rispetto ai singoli reati fine oggetto del

programma associativo28, oppure comunque nelle precauzioni seguenti, gia

solitamente in uso ai fini della prevenzione di diverse altre categorie di reato (da

quelli contro la P.A. a quelli contro l’industria ai reati societari ecc.): imporre all’ente

particolare cautela nella scelta di collaboratori, consulenti e fornitori, attraverso, tra

l’altro, una marcata attenzione per la documentazione antimafia, le cc.dd. black-list

o comunque per l’utilizzo di autodichiarazioni dei diversi partner commerciali che

attestino l’assenza di provvedimenti giudiziari di qualunque natura derivanti dalla

“vicinanza” alla criminalita organizzata; imporre forme contrattuali sempre scritte,

28 Cfr. ad es. le Linee Guida di Confindustria sulla parte speciale del d. lgs. 231/2001, p. 100.

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validate ove esistente dalla funzione legale, e regolanti in ogni caso ogni aspetto

negoziale rilevante; imporre forme di pagamento, in entrata e in uscita, sempre

tracciate, appoggiate a intermediari finanziari e rispettose in ogni caso della

normativa antiriciclaggio; imporre infine una tenuta della contabilita scrupolosa e

regolare; imporre comportamenti corretti e trasparenti nei confronti dei

concorrenti del proprio settore di mercato.

Se tutto cio e benefico, resta indubbiamente arduo suggerire cautele organizzative

che possano concretamente evitare l’ingresso nell’ente di componenti mafiose o

l’avvicinamento di esponenti aziendali a sodalizi criminosi. C’e sempre il rischio

inoltre che si crei comunque una distanza tra quanto un modello di organizzazione,

gestione e controllo dichiara e quanto effettivamente pone in essere la “popolazione

aziendale”, specialmente a fronte dell’insidiosita e della prevaricazione

naturalmente insite nel fenomeno mafioso. Il dubbio sull’effettivita degli eventuali

protocolli organizzativi e quindi in questo caso particolarmente elevato.

Tutto cio schiude forse anche un’altra problematica: da tempo si e stigmatizzata la

difficolta di cogliere distintamente la componente oggettiva e quella soggettiva

dell’illecito amministrativo dell’ente. Se il fatto dell’ente pare sfuggire, a meno di non

sovrapporlo e confonderlo al coefficiente organizzativo anti‐reato, sfugge a maggior

di piu nel caso del reato associativo mafioso, dove – nel caso Caposaldo di cui si e

detto sopra – di fatto l’ente era stato addirittura creato per contribuire all’illecito

penale alla base della sua stessa responsabilita amministrativa, e quindi la sua stessa

esistenza era opera del fronte criminale.

Non solo, l’apparato del d. lgs. 231/2001 richiede anche un livello di garanzie molto

elevato, modellato com’e sull’universo penale, così che la sua applicazione non

consente certo alla magistratura la stessa praticita e rapidita che ammettono invece

strumenti come, ad esempio, l’amministrazione giudiziaria di cui all’art. 34 d. lgs.

159/201129, che peraltro non chiamano in gioco neppure problematiche complesse

29 Cfr. l’intervista del dott. Paolo Storari sopra citata, p. 11 ss.: “Di fronte a imprese non marce, l’alternativa che ci si pone è 231 o articolo 34. Allora la 231 ha, secondo me alcuni dati negativi: primo misura cautelare con contraddittorio (…) Cioè cosa me ne faccio io del previo contraddittorio, cioè capisci, il previo contraddittorio a questa gente qua (…). No. Non ha alcun senso, minore efficacia, io col 34 metto un mio amministratore nell’impresa. Lì non sempre è così e d’altronde dare una sanzione pecuniaria non è che sia molto utile. Allora queste due ragioni mi portano a preferire o il sistema del sequestro o il sistema dell’articolo 34. In queste vicende qua. Considera poi che spesso quello che capita

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come quelle dell’interesse o vantaggio rispetto al reato associativo.

In conclusione, se molti oggi appaiono gli strumenti di lotta alla criminalita

organizzata e alla sua infiltrazione nell’impresa lecita, la ricerca in commento indica

che lo strumento della responsabilita degli enti e allo stato molto poco usato, visto

con una certa diffidenza nella sua conciliabilita con il tipo mafioso, e certamente

denso di complicazioni applicative.

Non e escluso pero che con il passare degli anni la strada imboccata ad esempio nella

vicenda Caposaldo possa prendere maggiormente piede e che l’impratichirsi delle

stesse associazioni imprenditoriali nell’escogitare strumenti per prevenire e

arginare il contagio possa contribuire ad una certa diffusione di una cultura

aziendale attenta alle insidie delle sirene mafiose.

è il criterio dell’interesse, cioè l’ente che ha come presupposti il 416bis, il soggetto che commette il reato lo fa nell’interesse proprio o nell’interesse dell’ente. È dura far vedere che agisce nell’interesse dell’ente o a vantaggio dell’ente, questi strumentalizzano l’ente. Per cui c’è anche questo ostacolo direi criminologico che mi impedisce di fatto di usare tanto la 231. Queste sostanzialmente le ragioni”.

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GLI STRUMENTI DI CONTRASTO ALL’ECONOMIA MAFIOSA Il ruolo delle misure di prevenzione nell’esperienza milanese

Simona Romanò

Abstract

The essay analyzes the results of an empirical research on preventive measures imposed by the Court

of Milan in the last fifteen years (2000-2015) on persons suspected of being members of Mafia-type

organizations. Alongside quantitative aspects, it has been carried out a qualitative analysis of

confiscation measures against organized crime, through a study of the most significant cases.

Keywords: preventive measures; confiscation; organized crime

1. Uno sguardo d'insieme Le misure di prevenzione della confisca e dell'amministrazione giudiziaria dei beni

connessi ad attività economiche, attualmente disciplinate dagli artt. 24 e 34 del d.lgs.

n. 159 del 2011, appartengono al novero dei più incisivi strumenti di contrasto

all'economia mafiosa.

Quale sia il reale impatto di tali misure sulla ricchezza illecita prodotta dalla

criminalità organizzata costituisce, tuttavia, un aspetto scarsamente indagato non

solo sul piano quantitativo, ma soprattutto su quello qualitativo.

A parte le stime, più o meno precise e attendibili, vale la pena di analizzare più da

vicino le reali dimensioni del fenomeno. A tal fine sono stati analizzati i decreti di

confisca e di amministrazione giudiziaria pronunciati, in via definitiva, negli ultimi

quindici anni (2000-2015) dalla Sezione misure di prevenzione del Tribunale di

Milano nei confronti degli indiziati di appartenere a organizzazioni mafiose o

comunque di soggetti che presentavano legami con consorterie mafiose.

Si tratta di un campione costituito da 67 provvedimenti di confisca e 6

provvedimenti di amministrazione giudiziaria che hanno riguardato,

rispettivamente, 76 persone fisiche e 7 imprese.

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Una premessa appare indispensabile: obiettivo di questa analisi non è di

avventurarsi nella complessa e stratificata disciplina normativa delle misure di

prevenzione, che è già stata ampiamente indagata su più fronti1. Ciò che si intende

approfondire in questa sede è il versante empirico della ricchezza mafiosa. Un

versante ancora largamente coperto da zone d'ombra, specialmente nell'ambito di

un tessuto economico e sociale come quello lombardo, nel quale la consapevolezza

circa la capillarità dell'infiltrazione delle organizzazioni criminali mafiose è stata

acquisita solo in tempi relativamente recenti.

Accanto al resoconto numerico, si cercherà di gettare uno sguardo all'interno dei

casi più significativi e rilevanti.

1 Tra i molti: AA. VV., La legislazione penale in materia di criminalità organizzata, misure di

prevenzione ed armi, Vincenzo Maiello (a cura di), in Francesco Palazzo – Carlo Enrico Paliero (a cura

di), Trattato teorico pratico di diritto penale, Torino, 2015; AA. VV., Misure di prevenzione, a cura di

Sandro Furfaro, Torino, 2012; AA. VV., Le misure patrimoniali contro la criminalità organizzata.

Orientamenti di merito, Milano, 2010; AA. VV., Le misure patrimoniali antimafia. Interdisciplinarietà

e questioni di diritto penale, civile e amministrativo, a cura di Silvio Mazzarese – Andrea Aiello,

Milano, 2010; AA.VV., Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica (d.l. 23 maggio 2008, n. 92, conv.

in legge 24 luglio 2008, n. 125), a cura di Olivero Mazza, Francesco Viganò, Torino, 2008; AA.VV., Le

sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento

e prospettive di armonizzazione, a cura di Anna Maria Maugeri, Milano, 2008; Giovanni Abbattista -

Valeria Montaruli - Antonio Polignano, I reati associativi e gli strumenti di contrasto patrimoniale alla

criminalità organizzata, Torino, 2010; Alberto Alessandri, voce Confisca nel diritto penale, in Dig.

disc. pen., IV ed. Vol., Torino, 1989, vol. III, pp. 39 ss.; Giovanni Fiandaca, voce Misure di prevenzione

(profili sostanziali), in Dig. disc. pen., Torino, 1994, pp. 108 ss., Ettore Gallo, voce Misure di

prevenzione, in Enc. giur. Treccani, vol. XII, Roma, 1990; Vincenzo Maiello, La prevenzione

patrimoniale in trasformazione, in Dir. pen. proc., 2009, pp. 15 ss.; Anna Maria Maugeri, voce Misure

di prevenzione patrimoniali (l. 31 maggio 1965 n. 575, “Disposizioni contro la mafia”), in AA. VV.,

Commentario breve alla Legislazione speciale, a cura di Francesco Palazzo, Carlo Enrico Paliero,

Padova, 2007, pp. 1775 ss.; Sergio Moccia, La confisca quale mezzo di contrasto alla criminalità

organizzata, in Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale, a cura di Vincenzo

Patalano, Torino, 2003, pp. 350 ss.; Pasquale Vincenzo Molinari, voce Misure di prevenzione, in Enc.

dir., Agg., vol. II, Milano, 1998, pp. 550 ss.; Emanuele Nicosia, La confisca, le confische. Funzioni

politico criminali, natura giuridica e problemi ricostruttivo-applicativi, TORINO, 2012; Pietro

Nuvolone, voce Misure di prevenzione e misure di sicurezza, in Enc. dir., vol. XXVI, Varese, 1976, pp.

632 ss; Tullio Padovani, Misure di sicurezza, misure di prevenzione, Pisa, 2014; Giuseppe Pignatone,

Il modello italiano di contrasto ai patrimoni illeciti: strumenti penali, strumenti di prevenzione,

problematiche processuali. La recente riforma delle misure di prevenzione: criticità e prospettive di

applicazione, CSM, 27 gennaio2010; Bartolomeo Romano – Giovanni Tinebra (a cura di) Il diritto

penale della criminalità, Milano, 2013; Costantino Visconti, Contiguità alla mafia e responsabilità

penale, Torino, 2003.

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2. Il profilo criminale: chi sono i destinatari della confisca di

prevenzione Come già anticipato, il campione è stato circoscritto ai decreti di confisca di

prevenzione emessi nei confronti di «indiziati di appartenere ad associazioni

mafiose» o persone comunque collegate alle consorterie mafiose.

Un primo livello di analisi può essere condotto, raggruppando i dati raccolti in tre

diverse classi che danno rilievo al profilo soggettivo del destinatario della misura

(ossia anno e luogo di nascita, sesso, attività svolta), ai presupposti applicativi della

misura di prevenzione e, infine, ai beni sottratti.

La stragrande maggioranza dei soggetti nei cui confronti è stata applicata la misura

ablativa di prevenzione è costituita da uomini (95%) di età compresa tra i 25 anni e

i 76 anni. La ricchezza mafiosa, oltre ad essere quasi esclusivamente ‘maschile’, è in

gran parte detenuta (57%) da persone di età compresa tra i 36 e 50 anni al momento

di applicazione della misura. Per quanto, invece, riguarda l'origine geografica dei

destinatari delle misure di prevenzione patrimoniale, emerge la netta prevalenza di

persone di origine calabrese: il 63% di soggetti proposti è nato in Calabria.

Per quanto riguarda, invece, il dato riguardante l'attività svolta dai proposti emerge

la prevalenza di una ricchezza mafiosa che trova le proprie origini in attività

eminentemente criminali. Pur trattandosi di un dato di non facile lettura, poiché

ciascun soggetto può essere associato a più attività, nel 60% dei casi quest'ultima

può, sinteticamente, definirsi come ‘criminale’: un'etichetta di sintesi che include, in

modo inevitabilmente generico, qualsiasi attività delinquenziale. Ciò nonostante

assume particolare rilievo la presenza consolidata (16%) di una ricchezza mafiosa

derivante da attività di tipo imprenditoriale.

Vale la pena, inoltre, rilevare che, nella maggior parte dei casi, l'applicazione delle

misure di prevenzione patrimoniali è associata alla contestuale applicazione di

quelle personali2. In particolare, il 66% delle misure patrimoniali sono state

2 Si veda la Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo 1° luglio 2014 – 30 giugno 2015 (pubblicate a febbraio 2016), p. 229, nella quale «si conferma la percentuale più elevata per i procedimenti relativi a misure di prevenzione personali e patrimoniali 45%, rispetto ai procedimenti per misure personali 36% e misure patrimoniali 19%». I dati riportati si riferiscono alle richieste di misure di prevenzione iscritte, distinte per tipologia. Negli stessi termini anche la precedente relazione: «emerge una

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applicate congiuntamente a una misura preventiva personale; mentre nel restante

34% dei casi è stata applicata la sola confisca. Nel valutare questi dati di dati occorre

tener conto delle modifiche legislative intervenute a partire dal 20083 che, come

noto, hanno consentito di applicare autonomamente le misure di prevenzione

patrimoniali a prescindere dalla contestuale applicazione di una misura di

prevenzione personale.

Sul versante dei presupposti applicativi della misura è stato analizzato solo il profilo

soggettivo della pericolosità sociale delle persone proposte. Non è stato possibile

esaminare i requisiti oggettivi quali la disponibilità, la sproporzione, la provenienza

o la destinazione illecita del bene. Anche in ragione delle modifiche legislative degli

ultimi anni4, questi elementi non possono essere isolati.

Gli indici di pericolosità del soggetto proposto sono stati raggruppati nelle seguenti

categorie: la presenza di un collegamento con un’associazione mafiosa, la

sussistenza di precedenti di polizia e l’accertamento di un precedente procedimento

penale a carico del proposto, distinguendo a seconda che si tratti di persona

sottoposta ad indagini, di imputato oppure di condannato. Nei confronti di ciascun

proposto possono, evidentemente, essere stati accertati più elementi sintomatici di

pericolosità. Per questo motivo il dato percentuale è stato calcolato sulla totalità dei

soggetti destinatari della misura ablativa.

Il 94% dei proposti risultava, al momento del decreto di prevenzione, essere stato

condannato almeno in primo grado.

Il collegamento con un’associazione mafiosa è accertato con una frequenza pari

all’83%, mentre il 73% dei proposti era già stato indagato o imputato in un

procedimento penale ovvero essere già stato destinatario di misure di prevenzione

(19%). Se la percentuale è poi calcolata sul totale degli indici di pericolosità – e non

più sul totale dei proposti – si scopre che l’elemento sintomatico di pericolosità

percentuale del 29% di proposte di natura personale, 47% di proposte personali e patrimoniali, 24% di iscrizioni relative a proposte solo patrimoniali» Relazione annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo 1° luglio 2013 – 30 giugno 2014 (pubblicate a gennaio 2015), p. 265. 3 Introdotta dal d.l. n. 92 del 2008, convertito nella legge n. 125 del 2008. 4 Si pensi al requisito oggettivo della sproporzione trasformato da mero indizio della provenienza illecita dei beni a vero e proprio presupposto dotato di autonomia ai sensi del d.l. n. 92 del 2008, convertito nella legge n. 125 del 2008.

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maggiormente accertato è una precedente condanna penale a carico del soggetto

proposto (35%) ovvero il legame dello stesso con un’associazione di tipo mafioso

(31%).

Riguardo ai beni confiscati, nella maggior parte dei casi si tratta di beni immobili

(47%) e conti correnti (23%). In misura sensibilmente inferiore sono, invece, i beni

mobili registrati (11%) e le azioni o quote societarie (10%).

Anche se non è possibile compiere un confronto con il dato nazionale, che

comprende i beni sequestrati, confiscati e destinati, nell’ultima relazione del

Governo al Parlamento è stata evidenziata «una costante che si mantiene nel tempo:

gli immobili (44.053 nel 2011-2015) sono quasi sempre vicini alla metà (44,3%) dei

beni oggetto di indagine mentre i mobili registrati (20.251) che hanno avuto un

certo incremento nell'ultimo periodo, costituiscono la seconda tipologia per

quantità e raggiungono il 20,4%. Seguono poi i mobili (15.023), sopra al 15%,

mentre rimangono su percentuali inferiori i beni finanziari (12.525) e le aziende

(7.591)» 5.

3. Dove il processo penale non arriva: il ricorso alla confisca di

prevenzione Per cercare di tratteggiare un quadro più definito degli strumenti di contrasto

all'economia mafiosa, è utile analizzare, in maniera più approfondita, alcuni decreti

di confisca preventiva riguardo alle vicende più significative emerse nell’ambito

dell’intera ricerca. E ciò con particolare riguardo alle vicende che, nell’esperienza

giudiziaria milanese, hanno assunto rilievo non solo nel procedimento di

prevenzione, ma anche in quello penale. Specialmente nell'ultimo quinquennio

l'utilizzo degli strumenti propri della prevenzione patrimoniale trova riscontro

5 Tali dati emergono dal raffronto tra l’insieme di tutti i 148.056 beni presenti nella Banca dati e i 99.443 beni per i quali è stato emesso un provvedimento negli ultimi cinque anni (2011-2015). Relazione sulla consistenza, destinazione e utilizzo dei beni sequestrati o confiscati e sullo stato dei procedimenti di sequestro o confisca (Aggiornata al 30 settembre 2015) (Articolo 49, comma 1, del codice di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, Relazione al Parlamento ex L. 7 marzo 1996, n. 109), p. 19.

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nelle parallele indagini penali sull'infiltrazione della criminalità organizzata

nell'Italia settentrionale.

Un aspetto merita di essere evidenziato immediatamente: di regola, le misure di

prevenzione anticipano gli effetti della misura ablativa disposta nel parallelo

procedimento penale. In altri termini: anche se i beni erano già essere stati oggetto

di apprensione in sede penale, mediante applicazione di una misura cautelare o di

sicurezza a seguito di una condanna non ancora divenuta irrevocabile, è stata

disposta ugualmente la confisca di prevenzione senza dover così attendere la

definitiva sottrazione del bene in sede penale.

Il ricorso allo strumento preventivo patrimoniale sembra, dunque, rispondere a

esigenze di celerità: prima ancora che il procedimento penale approdi a una

sentenza penale irrevocabile in grado di stabilizzare gli effetti della misura di

sicurezza ablatoria, la confisca di prevenzione cristallizza istantaneamente

l'efficacia dello strumento di contrasto all'economia mafiosa.

Questo tratto distintivo dello strumento di prevenzione patrimoniale emerge,

emblematicamente, nel procedimento "Parco Sud"6, il quale ha come protagonista

una delle più rilevanti associazione a delinquere di stampo ‘ndranghetista attiva

nella zona sud-ovest della periferia milanese.

Come emerge dalla ricostruzione fattuale effettuata nel corso del procedimento

penale, tale associazione aveva, tra i propri scopi, quello di ottenere il controllo di

alcuni settori dell’edilizia lombarda e, in particolare, la gestione esclusiva

dell’attività di movimento terra. Quella che è tratteggiata nelle sentenze di condanna

di primo e secondo grado, è un'associazione dallo spiccato carattere

imprenditoriale.

Si tratta di un caso tipico di nuova mafia: l’impiego della forza del vincolo associativo

e il ricorso al metodo mafioso sono utilizzati non solo e non tanto per compiere

attività illecite (si pensi, al riguardo, alle classiche condotte di traffico di stupefacenti

e di armi; di sequestro di persona, di estorsione e di usura ai danni degli operatori

economici), quanto piuttosto per inserirsi nel tessuto economico lecito, collocandosi

6 Procedimento penale n. 41849 del 2007.

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in una posizione privilegiata ed esclusiva del mercato, sbaragliando la concorrenza,

imponendo il proprio monopolio di fatto e condizionando i prezzi.7

In particolare l’organizzazione, operando attraverso società gestite e controllate

direttamente, poteva imporsi nel settore edilizio non solo grazie alla fama criminale

acquisita sul territorio8, ma soprattutto in virtù di rapporti di vera e propria

collaborazione instaurati con imprenditori del settore. È così sottoscritta una stretta

alleanza tra economia lecita e consorteria mafiosa, che è in grado di produrre

vantaggi per entrambi.

Molteplici sono le forme e le modalità attraverso le quali si presenta questo

micidiale intreccio tra ‘ndrangheta e mondo imprenditoriale. Vi è l’imprenditore

che, nell'appartenere storicamente al sodalizio criminale, gestisce l’attività

economica per sostenere l'esistenza e lo sviluppo della cosca di appartenenza. Un

imprenditore che, pertanto, potremmo definire mafioso, perché nasce come tale ma

si trasforma, quanto meno all'apparenza, in uomo d'affari, senza rinunciare al suo

metodo come strumento per ottenere la supremazia concorrenziale.

Esistono, però, gradazioni molto diverse del binomio mafia-impresa: non è

infrequente la presenza di imprenditori che instaurano un rapporto di scambio

reciproco con l’organizzazione ‘ndranghetista.

Mentre la famiglia mafiosa può partecipare a iniziative imprenditoriali e gli

appartenenti all’associazione ricevono lavoro, l'imprenditore ottiene, da un lato,

"autorevolezza" basata sulla forza criminale nell’ambiente nel quale opera e,

dall'altro lato, una costante garanzia di protezione. La cosca si rende, infatti,

disponibile a compiere atti di intimidazione nei confronti di concorrenti, dei debitori

e di ogni altra persona che possa ostacolare l'espansione dell'imprenditoria mafiosa.

7 Trib. Milano, Sez. G.i.p., 20 ottobre 2010, p. 16. Si tenga conto che i prezzi richiesti dalle imprese mafiose per i lavori di movimento terra non erano maggiori di quelli proposti dalle imprese lecite. Le prime riuscivano, infatti, a mantenere un’offerta competitiva attraverso strumenti illeciti, quali lo smaltimento abusivo di materiali tossici o lo scarico della terra (nei casi di movimento terra) in luoghi non autorizzati. 8 L’impresa che intenda eseguire un intervento immobiliare nella zona dell’hinterland sud ovest di Milano “deve” affidare i lavori di movimenti terra alla famiglia […] e ciò al fine di evitare problemi sui cantieri. Nessuna minaccia, nessuna pressione viene esercitata perché tutte le parti interessate conoscono il sistema. Alcuni imprenditori accettano loro malgrado queste regole, altri stringono legami molto forti coi padroncini calabresi, convinti che possa derivarne loro un vantaggio. Trib. Milano, Sez. G.i.p., 20 ottobre 2010, p. 5.

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In questa "zona grigia" di imprenditori che si avvalgono di servizi dall'associazione

criminale, divenendone spesso anche vittime, vi sono anche coloro che si limitano

ad accettare la presenza del gruppo mafioso nel settore economico in cui operano,

subendone le richieste e le pressioni senza farne denuncia o abbandonare l’attività

svolta.

La reciproca interazione tra strumenti di contrasto alla ricchezza prodotta da questo

incontro tra mafia e impresa è ancora una volta fotografata dal procedimento "Parco

Sud".

A ottobre 2010 la condanna di primo grado nell'ambito del procedimento penale

disponeva la confisca di cui all'art. 416-bis, co. 7 c.p., sia la confisca-sanzione di cui

all'art. 24 ter d.lgs. 231/2001 dei beni immobili e delle quote societarie (già

sottoposti a sequestro preventivo) riferibili sia alle società gestite direttamente

dalla consorteria mafiosa, oltre a quelle gestite dagli imprenditori che con

l’organizzazione avevano intessuto una fitta rete di reciproci affari e interessi.

Solo qualche mese più tardi9, i decreti di prevenzione rendono immediatamente

stabili gli effetti di provvedimenti ablatori la cui definitività avrebbe richiesto lunghi

anni d'incerta attesa. I destinatari di tali misure di prevenzione sono

sostanzialmente i vertici dell’organizzazione ‘ndranghetista.

Allo stesso tempo, le società immobiliari, i cui soci occulti erano gli imprenditori che

avevano stipulato un accordo di reciproco scambio con la consorteria, sono state

sottoposte, sul finire del 200910, a sospensione temporanea dell’amministrazione

dei beni ai sensi dell’art. 3 quater l. 575/1965 (v. infra).

Il caso "Parco Sud" non descrive, tuttavia, l'intera realtà della confisca di

prevenzione.

Vi sono casi nei quali la misura preventiva ablativa ha inciso sulla ricchezza illecita

di persone che, solo a distanza di tempo, sono state sottoposte a procedimento

penale.

Ad esempio, nel caso "Infinito" l’applicazione della confisca di prevenzione ha

anticipato in maniera rilevante il procedimento penale esperito nei confronti dei

9 Trib. Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 1 dicembre 2010; Trib. Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 12 gennaio 2011. 10 Trib. Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 17 dicembre 2009 (revoca 26 maggio 2010).

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medesimi soggetti. Si tratta probabilmente di una scelta legata alla complessità delle

indagini che hanno riguardato un elevato numero di persone coinvolte nel più

importante procedimento penale nei confronti della 'ndrangheta in Lombardia.

È stata così dimostrata la presenza capillare e radicata di un’organizzazione mafiosa

di stampo ‘ndranghetistico sull'intero territorio lombardo11. Un'organizzazione

strutturata in singoli centri di poteri chiamati ‘locali’ i quali, riuniti in una struttura

di coordinamento denominata ‘La Lombardia’, si ponevano in relazione

direttamente con i vertici della medesima associazione in Calabria. L’attività

criminale svolta dal sodalizio criminale «varia[va] da quella tradizionale ed illecita

della detenzione di armi e dello smercio di sostanze stupefacenti, all’usura,

all’estorsione, a forme di inquinamento e penetrazione nell’economia (quali il

riciclaggio, l’intestazione fittizia di beni, l’abusivo esercizio di attività finanziaria)» 12.

Alcuni soggetti, il cui ruolo di vertice nei singoli ‘locali’ sarebbe stato accertato nel

processo penale, erano già stati raggiunti da provvedimenti ablativi di prevenzione

in epoca antecedente all’avvio del procedimento Infinito13. Il carattere mafioso dei

proposti è stato, dunque, confermato, dopo circa un decennio, dalle condanne

intervenute in sede penale.

Si potrebbe interpretare questa successiva e lenta conferma come un elemento di

legittimazione a posteriori del sistema delle misure di prevenzione: la rinuncia alle

garanzie del processo penale è bilanciata dalla rapida effettività. Ci si potrebbe

fermare qui, se non fosse che l'eventuale smentita successiva, attraverso il processo

penale, degli indizi di pericolosità posti a fondamento della confisca di prevenzione

non esplica effetti rispetto a quelli prodotti dalla misura ablatoria imposta dieci anni

prima.

Ma vi è un altro aspetto che merita di essere messo in rilievo in relazione alla reale

efficacia della misura preventiva adottata. Alla luce dei successivi sviluppi del

11 Il presente procedimento trae origine dalla complessa attività d’indagine denominata Infinito che portò, nel luglio del 2010, all’emissione di una serie di ordinanze di custodia cautelare in carcere a carico di più di un centinaio di indagati per associazione di tipo mafioso fino alla conferma definitiva, nel giugno del 2014, da parte della Corte di cassazione dell’esistenza di tale sodalizio mafioso (Cass. n. 30054/2014). 12 Trib. Milano, Sez. G.i.p., 20 giugno 2011, p. 24. 13 In particolare, le confische di prevenzione sono state disposte con i decreti nn. 165/2003 e 138/2004 mentre le prime pronunce di condanna, nei confronti dei medesimi soggetti destinatari delle misure preventive, per il delitto previsto dall’art. 416bis risalgono al 2010.

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procedimento penale, la confisca di prevenzione di determinati beni – soprattutto

immobili e conti correnti – non sembra aver indebolito né la consorteria mafiosa,

che è, al contrario, rimasta saldamente inserita all'interno del contesto criminale, né

tantomeno il ruolo apicale che i soggetti destinatari della confisca di prevenzione

ricoprivano all’interno dei ‘locali’.

Al contrario: dal procedimento penale emerge che alcuni beni, nonostante

l’avvenuta confisca di prevenzione, erano rimasti nella disponibilità degli

imputati14.

4. Bonificare l'economia lecita dalle infiltrazioni mafiose:

l’amministrazione giudiziaria Altro momento di indagine ha riguardato l’amministrazione giudiziaria dei beni

connessi ad attività economiche prevista dall’art. 34, comma 2, del d.lgs. n. 159 del

201115 ma sostanzialmente riconducibile alla disciplina della sospensione

temporanea dei beni connessi ad attività economiche già prevista dal d.l. n. 306 del

199216, che aveva introdotto l’art. 3 quater l. n. 575/1964.

Tale misura preventiva è applicabile ogniqualvolta l’esercizio di un’attività

economica, compresa quella imprenditoriale, abbia agevolato gli interessi del

consorzio mafioso. Ciò che viene in rilievo non è, dunque, l’origine o la provenienza

(illecita) del bene – come nel caso della misura ablativa – quanto piuttosto la

14 Come si legge nella pronuncia di condanna di primo grado il bene, nonostante l’avvenuta confisca di prevenzione risalente al 2004, è rimasto nella disponibilità del proposto/imputato. Trib. Milano, Sez. G.i.p, 19 novembre 2011, p. 920. 15 L’art. 34 codice antimafia prevede un compendio di strumenti ‘preventivi’ aventi ad oggetto la gestione di attività economiche/imprenditoriali: si passa da uno strumento di monitoraggio della gestione di attività imprenditoriali ‘potenzialmente’ agevolative di interessi mafiosi (che giustifica la richiesta di ulteriori indagini e verifiche secondo quanto previsto dal primo comma) a una misura incapacitativa di tale gestione mediante l’inserimento nella realtà imprenditoriale di un amministratore giudiziario (co. 2). 16 Il d.l. n. 306 del 1992, convertito in l. n. 356 del 1992 ha introdotto nella l. n. 575 del 1964 (art. 3 quater) la sospensione temporanea dei beni connessi ad attività economiche. La misura è oggi prevista all’art. 34, d.lgs. n. 159/2011, con una diversa denominazione («Amministrazione giudiziaria dei beni connessi ad attività economiche»), ma con una disciplina analoga a quella previgente.

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165 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7985

modalità di utilizzazione del bene stesso17, la cui gestione imprenditoriale deve aver

«agevol[ato] l'attività delle persone nei confronti delle quali è stata proposta o

applicata una misura di prevenzione, ovvero di persone sottoposte a procedimento

penale per taluno dei delitti previsti dagli articoli 416-bis, 629, 630, 644, 648-bis e 648-

ter del codice penale». In altri termini, si potrà ricorrere a tale strumento anche

qualora non sussistano le condizioni per l’applicazione di una misura di prevenzione

personale e, cionondimeno, vi siano sufficienti elementi per ritenere che il titolare o

l’amministratore dell’impresa abbia esercitato un’attività economica in modo da

favorire soggetti mafiosi nei cui confronti è stata richiesta (e non necessariamente

ottenuta) l’applicazione di una misura di prevenzione ovvero che sono stati indagati

per il delitto di cui dell’art. 416-bis c.p.

Si tratta di una misura che, fino a tempi recentissimi18, ha visto una scarsa

applicazione da parte della giurisprudenza. Nell’indagine condotta presso la Sezione

misure di prevenzione del Tribunale di Milano sono stati considerati i soli

provvedimenti definitivi che hanno riguardato la gestione di attività economiche

volte a favorire i soggetti mafiosi (rectius: i soggetti nei cui confronti è stata richiesta

o applicata una misura di prevenzione ovvero i soggetti indagati per il delitto di cui

all’art. 416-bis c.p.). Occorre, inoltre, precisare che, a differenza dell’analisi dei

decreti di applicazione della confisca dei beni, i provvedimenti sospensivi sono tutti

temporalmente collocati nel periodo 2009-201219.

Con riferimento al periodo analizzato, la sospensione temporanea è stata applicata

a sette entità imprenditoriali. In tutti i casi, le dinamiche gestionali delle attività

17 Fabio Licata, La sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni e la successiva confisca ex artt. 3 quater e 3 quinquies, l. n. 575/1965. L’agevolazione incolpevole delle attività mafiose tra prevenzione e sanzione, in La giustizia patrimoniale penale, Torino, 2011, 1088. 18 Giuseppe Pignatone, Mafia e corruzione: tra confische, commissariamenti e interdittive, in Dir. pen. cont., 24 settembre 2015, p. 4, secondo il quale l’amministrazione giudiziaria trova una maggiore applicazione rispetto al passato «probabilmente anche per le dimensioni delle attività economiche interessate, per la loro complessità organizzativa e per l’estraneità ai territori tradizionalmente mafiosi, che i soggetti titolari di quelle attività, pur in presenza della condizione dell’ “agevolazione ”, potessero essere essi stessi destinatari di misure di prevenzione personali o patrimoniali di carattere ablativo». 19 Non sono stati individuati provvedimenti nel periodo precedente 2000-2008 e in quello successivo 2013-2015 aventi ad oggetto attività imprenditoriali che abbiano agevolato, nei termini precedentemente precisati, consorterie mafiose.

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economiche originariamente ‘sane’ sono state contaminate da interessi

‘ndranghetistici.

Quanto ai caratteri delle imprese raggiunte dai provvedimenti sospensivi si

riscontra un'eterogeneità sia di settori in cui le stesse operano, sia di tipologie

societarie. Nella maggioranza dei casi si tratta di società di capitali che assumono la

forma della società a responsabilità limitata (4) o della società per azioni (2), mentre

in unico caso si tratta di una società in accomandita semplice. Le attività economiche

esercitate sono le più varie: bancaria, di gestione immobiliare, intermediazione

creditizia, gestione e noleggio di videogiochi, trasporti e servizi di sicurezza.

Sul diverso versante dei soggetti mafiosi agevolati, nella maggioranza dei casi si

tratta di soggetti indagati, nell’ambito di un procedimento penale, del delitto di

associazione mafiosa di cui all'art. 416-bis c.p., mentre in soli due casi20 si tratta di

soggetti nei cui confronti è stata richiesta l’applicazione di una misura di

prevenzione.

Vi è, tuttavia, un elemento comune ai provvedimenti incapacitativi esaminati: tutti i

decreti esaminati sono stati revocati allo scadere del termine senza necessità di

proroga21.

Secondo quanto disciplinato dall’art. 34 codice antimafia, una volta concluso il

periodo sospensivo, non superiore a sei mesi ed eventualmente prorogabile per un

periodo non superiore a dodici mesi, il Tribunale può disporre alternativamente la

revoca tout court dell’amministrazione giudiziaria, qualora le condizioni che hanno

determinato il pericolo d’infiltrazione siano venute meno, oppure la confisca di quei

beni che «si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il

reimpiego»22. Il Tribunale, con il provvedimento con cui è disposta la revoca della

misura, può disporre il controllo giudiziario quale obbligo informativo a carico del

20 Si tratta di due società operanti nel settore immobiliare e legate al procedimento “Parco Sud”, esaminato nel § 3. 21 Ad eccezione di un solo decreto sospensivo, sebbene il tempo intercorso tra la concessione della proroga e la successiva revoca sia stato pari a un mese. 22 Si tenga conto che la misura ablativa successiva a un provvedimento di amministrazione giudiziaria ex art. 34, comma 7, d. lgs. 159/2011 non coincide con la confisca di prevenzione prevista all’art. 24 codice antimafia e ciò, anzitutto, in considerazione dei soggetti destinatari del provvedimento. In questa ipotesi, non riscontrata nel campione d’indagine, infatti, è il soggetto che ha agevolato il consorzio mafioso che si vedrà privato dei beni funzionali all’esercizio dell’attività economica infiltrata ossia i beni rientranti nella disponibilità del terzo esercente all’attività economica agevolatrice.

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soggetto agevolante, per un periodo non inferiore a tre anni, riguardo agli atti

connessi alla vita imprenditoriale23.

L’‘esito revocatorio’ con cui si sono concluse tutte le procedure sospensive

esaminate non sembra, in realtà, sorprendere laddove si consideri la funzione

meramente cautelare24 perseguita dal sistema dell’amministrazione giudiziaria: un

intervento di tipo terapeutico volto a neutralizzare, in tempi relativamente brevi, la

contaminazione mafiosa dell’impresa lecita25, mediante l’inserimento nella gestione

dell'impresa di un soggetto estraneo quale è l’amministratore giudiziario26.

Più indicative appaiono, invece, le ragioni che, a distanza di pochi mesi dal

provvedimento sospensivo, hanno determinato la revoca.

In un unico caso27 l’esito revocatorio è dovuto alla sostanziale inattività della società

a fronte dello scioglimento e messa in liquidazione della stessa. Tale conclusione

infausta non è, peraltro, attribuibile alla procedura sospensiva quanto piuttosto ad

una diversa misura preventiva di tipo personale unita alle caratteristiche concrete

dell’attività imprenditoriale. Tale società a forte impronta personalistica, attiva nel

settore dei servizi di sicurezza industriale e commerciale, una volta privata del

soggetto titolare – destinatario della misura di prevenzione della sorveglianza

speciale di pubblica sicurezza – era di fatto svuotata da ogni attività. Si tratta, cioè,

23 Più precisamente il soggetto che ha la proprietà, l’uso o l’amministrazione dei beni, o parte di essi, dovrà comunicare: «gli atti di disposizione, di acquisto o di pagamento effettuati, gli atti di pagamento ricevuti, gli incarichi professionali, di amministrazione o di gestione fiduciaria ricevuti, e gli altri atti o contratti indicati dal tribunale, di valore non inferiore a euro 25.822,84 o del valore superiore stabilito dal tribunale in relazione al patrimonio e al reddito della persona». 24 «Una misura, quindi, destinata a svolgere nel sistema una funzione meramente cautelare e che si radica su un presupposto altrettanto specifico, quale è quello del carattere per così dire ausiliario che una certa attività economica si ritiene presenti rispetto alla realizzazione degli interessi mafiosi» Corte cost., 29 novembre 1995, n. 487, in Giust. Pen., 1996, p. 36; nello stesso senso si v. anche Cass., sez. V, 29 settembre 2007, P.F., inedita. 25 Costantino Visconti, Strategie di contrasto dell’inquinamento criminale dell’economia: il nodo dei rapporti tra mafie e imprese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, pp. 721 s. 26 In tutti i casi esaminati l’amministratore giudiziario ha sostituito l’organo gestorio della società sottoposta a provvedimento sospensivo. Più recentemente, in ordine a un diverso ruolo – di collaborazione con il management societario – svolto dall’amministratore giudiziario si veda Trib. Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 24 giugno 2016, in Dir. pen. cont., 11 luglio 2016, con nota di Costantino Visconti, Ancora una decisione innovativa del Tribunale di Milano sulla prevenzione antimafia nelle attività imprenditoriali. In particolare, l’A. osserva che si tratta di un’applicazione anticipatrice della nuova misura di tutoraggio prevista dalla riforma del Codice antimafia attualmente pendente in Senato (art. 34 bis A.C. 1039 ora d.d.l. n. 2134/S). 27 Si fa riferimento alla sospensione temporanea disposta, ex art 3 quater l. 575/1965, con decreto emesso in data 30.09.2011 dal Tribunale di Milano – Sezione Autonoma Misure di Prevenzione e poi revocata in data 21.03.2012 (decreto n. 111/2012).

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di un caso in cui la figura dell’agevolato coincide con colui che amministra l’attività

economica28. In realtà, tale provvedimento si colloca in una vicenda ben più ampia,

accertata con il procedimento penale n. 37625 del 2008 che si avrà modo di

analizzare più avanti.

Negli altri casi, invece, la misura preventiva dell’amministrazione giudiziaria

sembra aver determinato un ritorno della società nel circuito dell’economia legale.

In particolare, sembra possibile ricondurre la revoca del provvedimento

incapacitativo a due ordini di ragioni: o è l’impresa stessa che si è attivata per

eliminare la zona di ‘contaminazione’ mafiosa oppure l’attività economica esercitata

dall’impresa ha perso ogni attrattiva per l’organizzazione mafiosa e, solo in questi

ultimi casi, è stato disposto il controllo giudiziario.

Sotto il primo profilo, si tenga conto che gli elementi valutati dal giudice per disporre

la revoca della procedura sospensiva sono stati, anzitutto, l’allontanamento del

personale dirigente entrato in rapporti con i soggetti mafiosi e, in seconda battuta,

l’adozione di un nuovo modello di organizzazione e di gestione ai sensi del d. lgs.

231/2001. Tanto è bastato, ai giudici milanesi, per ritenere depurata l’attività

economica dalla contaminazione mafiosa.

Caso emblematico, sotto questo aspetto, risulta essere il procedimento penale n.

37625 del 2008 che ha accertato, in via definitiva29, un’imponente attività di

infiltrazione in Lombardia ad opera dell’impresa mafiosa. La consorteria mafiosa

fotografata in questo procedimento penale, infatti, presenta diverse ‘anime’: l’una

più tradizionale che opera nei classici settori della criminalità organizzata

(estorsioni e traffico di stupefacenti), l’altra più innovativa dal carattere economico-

imprenditoriale. Due sono i canali di infiltrazione nell’economia: attraverso la

progressiva assunzione di controllo di società sane oppure attraverso iniziative

economiche dirette.

28 «[…] nell’esperienza investigativa e giudiziaria è emerso più volte il caso di attività organizzate in forma societaria che siano amministrate – direttamente o indirettamente – da un soggetto indiziato mafioso e che agevolino la sua attività criminale ed in cui non possa applicarsi il sequestro dell’azienda o delle quote sociali, ex art. 2 ter, l. cit., perché non sussiste un sufficiente quadro indiziario sull’origine illecita dei beni o perché una parte delle quote sociali siano comunque riferibili a terzi estranei all’attività criminale» Fabio Licata, La sospensione temporanea dall’amministrazione dei beni e la successiva confisca ex artt. 3 quater e 3 quinquies, l. n. 575/1965, p. 1117. 29 L'impianto accusatorio originario ha retto fino alla Cassazione, che si è limitata ad annullare le condanne in relazione alla associazione finalizzata al traffico di stupefacenti (art. 74 d.p.r. 309/90).

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L'impresa mafiosa si infiltra, in particolare, in tre settori: il movimento terra, i

servizi di spedizione e l'installazione di videopoker. E proprio le società che operano

in questi ultimi due settori sono quelle che, pur avendo un’origine ‘sana’, hanno

sviluppato una relazione qualificata con il sodalizio mafioso, esercitando l’attività

economica in senso favorevole agli interessi del gruppo mafioso.

In tale situazione, la vicenda T.N.T. è di estremo interesse e, ancora una volta,

consente di confrontare il ricorso agli strumenti "classici" del diritto penale con il

sottosistema delle misure di prevenzione.

Anzitutto l'associazione mafiosa non era finalizzata alla commissione di delitti, bensì

allo svolgimento di un'attività imprenditoriale con le modalità tipiche della

criminalità organizzata. T.N.T. Italia, che faceva parte dell'omonimo gruppo

olandese, effettuava le spedizioni affidandosi a sub-vettori o ausiliari, attraverso un

contratto di franchising. Controllare le società o le cooperative che fornivano i

servizi di spedizione per conto di T.N.T. significava inserirsi in un ingente volume

d'affari garantito dalla rete preesistente e dalla già avviata attività delle filiali. Come

metteva in evidenza il G.u.p. «si noti bene che, in questo caso, non stiamo parlando

di un imprenditore che subisce la presenza imposta dai calabresi. Qui i responsabili

di T.N.T. sono sostanzialmente d'accordo nel dare lavoro in modo privilegiato agli

esponenti della 'ndrangheta».

E ancora si osserva: «la infiltrazione in T.N.T. è esemplare del modo di operare della

mafia imprenditrice. Prima si colonizza la struttura con uomini di fiducia [...] e poi si

crea il collegamento esterno. Quello della intimidazione e della imposizione, come

nel caso del movimento terra, non è l'unico modo con il quale la 'ndrangheta impone

la sua presenza nel tessuto economico. La grande, profonda forza di penetrazione -

in larga parte occulta - deriva da una ricca rete di soggetti contigui, estremamente

insospettabili, estranei alla vita quotidiana dell'associazione e alle sue attività più

visibilmente criminali, che sono però pronti ad offrire il loro servizio indispensabile

al momento giusto. E anche questo caratterizza l'associazione mafiosa, rispetto ad

ogni altro fenomeno associativo delinquenziale, rendendola così pericolosa e

potente. Il perimetro di delimitazione dell'associazione mafiosa va ben al di là delle

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sue componenti militanti, e si avvale di un'ampia fascia di contorno che rappresenta

il collettore osmotico con la c.d. società civile»30.

Proprio a proposito di questo intreccio tra economia lecita e criminalità organizzata,

lo strumento dell’amministrazione giudiziaria è stato utilizzato per bonificare

dall’infiltrazione mafiosa31. Nel 2011 il Tribunale di Milano, Sezione misure di

prevenzione, ha disposto la sospensione temporanea del colosso multinazionale

T.N.T., per un periodo di sei mesi, dall’amministrazione di alcune filiali milanesi. Un

provvedimento incapacitativo che è stato in seguito revocato a fronte di una serie di

rilevanti cambiamenti organizzativi e gestionali. Oltre alla rimozione dei vertici

aziendali che avevano agevolato gli interessi economici della 'ndrangheta, è stato

nominato un nuovo amministratore delegato. A ciò si è aggiunta l'adozione di un

nuovo modello organizzativo «particolarmente attento alla fase di selezione dei

fornitori addetti alla movimentazione ed alla distribuzione, cioè a quell'area che è

risultata maggiormente esposta alle intrusioni di tipo mafioso che sono alla base

della misura cautelare»32.

Attraverso modalità analoghe a quelle già descritte, la stessa associazione mafiosa

si è poi infiltrata anche nel settore economico della installazione e gestione dei

videopoker. Analogo è stato pure l'intervento del provvedimento incapacitativo, il

quale si basava su due elementi fondamentali: la risoluzione dei contratti per

l'installazione dei videopoker negli esercizi commerciali collusi e l'adozione di un

nuovo modello di organizzazione, gestione e di controllo ai sensi del d. lgs. 231 del

200133. In quest'ultimo caso vi era, tuttavia, un'importante caratteristica ulteriore:

è stato modificato lo stesso modello di business della società coinvolta.

Questi elementi sono stati considerati sufficienti dal Tribunale per disporre la

revoca dell'amministrazione giudiziaria.

Come noto, la revoca può essere affiancata dal controllo giudiziario. Nel campione

d’indagine, l’imposizione o meno di tale onere comunicativo sembra riconducibile

alle circostanze concrete in cui si trovava la società nel momento di emanazione del

30 Tribunale di Milano, sez. G.i.p., 13 marzo 2012, p. 270. 31 Costantino Visconti, Contro le mafie non solo confisca ma anche “bonifiche” giudiziarie per imprese infiltrate: l’esempio milanese (working paper), in Dir. pen. cont., 20 gennaio 2012. 32 Tribunale di Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 23 settembre 2011, p. 6. 33 Tribunale di Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 30 settembre 2011, p. 5 ss.

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decreto di revoca e che nulla avevano a che fare con la dimostrazione da parte dei

soggetti titolari dell’attività economica di voler eliminare la vicinanza (rectius:

l’agevolazione) tra la propria attività economica e l’organizzazione mafiosa.

Il controllo giudiziario, nei casi analizzati, è stato disposto nei confronti di tre

società, due delle quali esercenti servizi di gestione immobiliare. Come si legge nel

decreto che disponeva la sospensione temporanea dell’amministrazione dei beni,

tali società operavano agevolando una delle più rilevanti associazioni a delinquere

di stampo ‘ndranghetista, operante nella zona sud-ovest della periferia milanese ed

emersa nel, già citato, procedimento “Parco Sud” 34. I legali rappresentanti di queste

società avevano, infatti, occultato la partecipazione all’attività economica di soggetti

‘mafiosi’ (rectius: soggetti nei confronti dei quali era stata proposta una misura di

prevenzione), consentendo così all’intero consorzio mafioso di trarre ingenti profitti

dall’attività immobiliare.

Tale quadro persisteva anche al momento della revoca della procedura sospensiva

e ciononostante era comunque disposta la revoca in ragione dell’esaurirsi dell’unica

operazione in cui si era concretamente verificata la condotta agevolatrice degli

interessi del sodalizio mafioso. Inoltre, i beni attraverso i quali veniva esercitata tale

attività economica (una parte delle quote dell’immobile e del complesso aziendale)

erano stati, nel frattempo, oggetto di un sequestro nell’ambito del diverso

procedimento di prevenzione a carico dei soggetti mafiosi, soci occulti delle società

qui esaminate.

In estrema sintesi: la revoca sembra aver trovato le sue ragioni o in una concreta

attività posta in essere dall’ente – adozione di un nuovo modello di gestione ex

231/2001, allontanamento dei soggetti coinvolti etc. – al fine di rendere

impermeabile l’attività economica agli interessi mafiosi; oppure in ulteriori

circostanze – l’esaurirsi dell’unica operazione oggetto di infiltrazione mafiosa, il

sequestro dei beni nell’ambito di altri procedimenti preventivi, la messa in

liquidazione della società stessa – che avevano ridotto, pur non eliminando del tutto,

il ‘contatto’ tra impresa lecita e associazione mafiosa, giustificandone il controllo

giudiziario.

34 Per un esame più approfondito della vicenda si veda il § 3.

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Nel campione esaminato, nessuna procedura di amministrazione giudiziaria si è

conclusa con un decreto di confisca ai sensi dell’art. 34, comma 7, codice antimafia35.

Tale esito appare, infatti, del tutto eventuale laddove si tenga conto dei presupposti

applicativi della misura ablativa (la provenienza illecita dei beni dell’ente

agevolatore36) e dei presupposti dell’amministrazione giudiziaria (una società

originariamente ‘sana’ che solo successivamente è entrata in contatto con

l’organizzazione criminale, finendo con l’agevolare gli interessi mafiosi). In realtà,

l’unico caso in cui è stata formulata una richiesta di confisca successiva

all’amministrazione giudiziaria riguarda un noto istituto di credito. Nel caso di

specie, si trattava di una sospensione temporanea dell’amministrazione di rapporti

bancari accesi presso alcune filiali di aziende di credito milanesi37. I dirigenti di

queste filiali avevano, infatti, consentito alle imprese mafiose di ottenere consistenti

finanziamenti. Secondo i giudici «l’attività bancaria assume nell’attuale contesto

economico/finanziario, un ruolo di fondamentale supporto all’attività d’impresa,

sicché ben può ipotizzarsi in astratto una condotta di agevolazione da parte

dell’istituto di credito che si presti, al di fuori dei normali canoni e criteri di diligenza,

a finanziare attività (d’impresa) mafiose». Pur avendo accertato un’attività

agevolatrice dell’istituto di credito, i giudici hanno, tuttavia, escluso di poter

procedere alla confisca successiva alla procedura di sospensione temporanea ai

sensi dell’art. 3-quinquies l. n. 575 del 1965 (oggi trasfuso nell’art. 34, comma 7,

codice antimafia). Tale misura non poteva essere, infatti, disposta con riferimento ai

saldi attivi dei conti correnti oggetto di sospensione temporanea, poiché le somme

di denaro depositate non appartengono alla banca agevolante ma bensì alle società

intestatarie dei medesimi conti, ossia ai soggetti agevolati. Come chiarito dal

35 «Entro i quindici giorni antecedenti la data di scadenza dell'amministrazione giudiziaria dei beni o del sequestro, il tribunale, qualora non disponga il rinnovo del provvedimento, delibera in camera di consiglio, alla quale può essere chiamato a partecipare il giudice delegato, la revoca della misura disposta, ovvero la confisca dei beni che si ha motivo di ritenere siano il frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego. Per le impugnazioni contro i provvedimenti di revoca con controllo giudiziario e di confisca si applicano le disposizioni previste dall'articolo 27». 36 Occorre considerare che la confisca successiva a un provvedimento di amministrazione giudiziaria ex art. 34, comma 7, d. lgs. 159/2011 non coincide con la confisca di prevenzione prevista all’art. 24 codice antimafia e ciò, anzitutto, in considerazione dei soggetti destinatari del provvedimento. È, infatti, il soggetto che ha agevolato il consorzio mafioso che si vedrà privato dei beni funzionali all’esercizio dell’attività economica infiltrata. 37 Trib. Milano, Sez. misure di prevenzione, decr. 3 novembre 2010.

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La ricerca

173 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7985

Tribunale, nei confronti di quest’ultimi soggetti potrà essere al più disposta la

confisca di prevenzione di cui all’art. 2-ter l. n. 575 del 1965 (ora art. 24 codice

antimafia) avente ad oggetto il denaro presente sui conti correnti accesi presso

l’istituto di credito sottoposto a sospensione temporanea (ora amministrazione

giudiziaria).

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Storia e Memoria

174 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

LA MAFIA NON PORTA VOTI*

a cura di Sarah Mazzenzana

Abstract

The section “History and Memory” offers a selection of excerpts from the report issued by the

Antimafia Commission in 2006. This document distances itself from the papers beforehand proposed

to the readers as it supports the theory of the inexistence of the tie between mafia and politics.

Furthermore, additional excerpts by Giovanni Falcone and Carlo Alberto dalla Chiesa can be found in

the Review, giving the reader an overview about the authors’ different schools of thought.

Keywords: Antimafia Commission; mafia and politics; denial; 2006; collusion

All’interno della sezione “Storia e Memoria” di questo numero la Rivista propone

una selezione di brani tratti dalla Relazione conclusiva della Commissione

Parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o

similare, presieduta da Roberto Centaro durante la XIV Legislatura. Approvata il 18

gennaio 2006, la Relazione fu consegnata alle presidenze delle due Camere due

giorni dopo. Si tratta di un documento ufficiale che si discosta in maniera netta da

quelli precedentemente proposti in questa sezione. Un documento politico che

rinnega il legame tra politica nazionale e mafia, disconoscendo la natura politica di

quest’ultima. A complemento di questi brani riportiamo in fondo, a beneficio del

lettore, due significativi passi di orientamento contrario di Giovanni Falcone e di

Carlo Alberto dalla Chiesa.

*I brani che seguono sono tratti dalla Relazione conclusiva della Commissione Parlamentare

d'inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare istituita con legge 19

ottobre 2001, n. 386, approvata dalla Commissione nella seduta del 18 gennaio 2006 e trasmessa alle

Presidenze il 20 gennaio 2006, TOMO II, pp. 961-962, 965-968 e 972.

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Storia e Memoria

175 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

CAMERA DEI DEPUTATI SENATO DELLA REPUBBLICA

XIV LEGISLATURA

Doc. XXIII

n. 16

COMMISSIONE PARLAMENTARE D'INCHIESTA

SUL FENOMENO DELLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

MAFIOSA O SIMILARE

(istituita con legge 19 ottobre 2001, n. 386)

(composta dai senatori: Centaro, Presidente, Dalla Chiesa, Segretario; Ayala, Battaglia Giovanni, Bobbio, Boscetto, Brutti Massimo, Bucciero, Calvi, Girami, Crino, Curto, Ferrara, Fiorino, Gentile, Manzione, Marini, Maritati, Novi, Peruzzotti, Ruvolo, Thaler Ausserhofer, Veraldi, Vizzini, Zancan; e dai deputati: Ceremigna, Napoli Angela, Vice Presidenti; Parola, Segretario; Bertolini, Bova, Burlone, Cicala, Cristaldi, Diana, Drago, Fallica, Gambale, Grillo, Lazzari, Leoni, Lisi, Lumia, Minniti, Misuraca, Palma, Russo Spena, Santulli, Sinisi, Taglialatela, Taormina)

Relazione conclusiva

approvata dalla Commissione nella seduta del 18 gennaio 2006

(Relatore: senatore CENTARO)

Trasmessa alle Presidenze il 20 gennaio 2006

ai sensi dell'articolo 1 della legge 19 ottobre 2001, n. 386

TOMO II

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Storia e Memoria

176 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

7.2 Cosa Nostra e i suoi referenti politici

II problema dei rapporti tra la mafia ed esponenti della Democrazia Cristiana in

Sicilia costituisce una parte sostanziale del processo, indipendentemente dal ruolo

specifico della corrente andreottiana e da quello del senatore Andreotti medesimo.

La Corte d'Appello di Palermo ha rilevato: «Al di là della preferenza

tradizionalmente accordata dagli "uomini d'onore" al partito di maggioranza

relativa ovvero, più in generale, ai partiti di governo, appare, dunque, arduo

individuare un atteggiamento unitario di tutta la organizzazione mafiosa in

occasione delle consultazioni elettorali ed una conferma in tal senso si trae, altresì,

dalle dichiarazioni rese nella udienza del 29 luglio 1997 da Giovanni Brusca, dalle

quali si desumono significative indicazioni circa la precaria configurabilità di una

inclinazione comune degli affiliati a Cosa Nostra verso l'uno o l'altro partito ovvero

verso l'una o l'altra corrente di uno stesso partito, circa il prevalente peso delle

situazioni locali, circa il relativo recepimento da parte degli "uomini d'onore"

dell'ordine emanato dal Riina in vista delle elezioni politiche del 1987 e circa la, per

quanto rilevante, tutt'altro che soperchiante forza di condizionamento del voto

esercitata dalla organizzazione mafiosa».

Questa situazione fluida del consenso emerge come dato generale da tutte le

dichiarazioni dei collaboranti e possiede alla base due dati di ragione: l'interesse a

mantenere gli sperimentati rapporti locali; la reale incapacità mafiosa ad orientare

in profondità ed in quantità assai elevate il voto elettorale.

Il primo dei punti citati è dimostrato dalla resistenza oggettiva offerta da tutta la

struttura di Cosa Nostra ad accedere in modo disciplinato ed uniforme alla

indicazione del suo capo Salvatore Riina di spostare i consensi verso il Partito

Socialista in occasione delle elezioni politiche del 1987, come si rileva dalle

concordanti dichiarazioni di Marino Mannoia, Angelo Siino, Giovanni Brusca,

Antonino Giuffrè e Gioacchino Pennino.

Vale per tutti il Giuffrè: «...succirìu u fini i' munnu! Ma ora all'ultimo minuto, ognuno

faceva tutti i commenti di stu munnu: ma perché non si ci pensava prima, ma

perché...».

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Storia e Memoria

177 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

In sostanza esisteva una difficoltà a gestire i rapporti locali in modalità diversa da

quanto emergeva da situazioni storicamente sedimentate. Lo dimostra il fatto che

Cosa Nostra - dopo l'esperienza del 1987 – tornerà a muoversi nel 1989 per le

elezioni europee sul tracciato delle antiche relazioni.

Angelo Siino chiarisce perfettamente questo punto: «Ci fu un plebiscito per

Lima...tutta la parte della vecchia mafia che aveva votato sempre per Lima, continuò

a votare per Lima». Questo aspetto di fiducia personale, che lega gli esponenti di

Cosa Nostra ai loro referenti locali della politica, emerge anche nella vicenda di Vito

Ciancimino.

Mentre il collaborante Di Carlo ci offre uno spaccato secondo il quale Stefano

Bontade e lo stesso Bernardo Provenzano ritenevano Ciancimino «una palla al

piede» per i suoi contrasti con l'on. Lima e per la sua scarsa penetrazione politica,

Antonino Giuffrè ne illustra invece la sua credibilità all'interno dell'ambiente

mafioso corleonese orbitante intorno al Provenzano; credibilità legata allo

sperimentato rapporto con la compagine criminale:

«...perché era l'esponente politico, cioè la persona più in gamba che era in grado di

portare avanti discorsi politici nel nostro interesse, appositamente legato al

Provenzano da 20 anni e più avevano rapporti da sempre...Ciancimino essendo una

creatura corleonese, una creatura in modo particolare di Provenzano...gli hanno

affidato di portare il discorso politico ristretto...di Cosa Nostra».

La sostanziale incapacità di Cosa Nostra ad incidere significativamente sul voto è un

dato assai importante, emerso proprio nel processo di appello di Palermo; in

pesante controtendenza con le precedenti letture del fenomeno mafioso (tra le quali

anche talune notazioni del c.d. «maxiprocesso»), che ne accreditavano invece una

robusta forza di pressione elettorale.

Dalle risultanze dibattimentali sembra emergere che lo scarso impatto elettorale

delle determinazioni di Cosa Nostra evidenziatosi nel 1987 si fosse rivelato una

sorpresa anche per i mafiosi stessi, come si rileva - uno per tutti - dal contributo

informativo di Antonino Giuffrè: «...ci parieva ca nuatri eravamo i padroni del voto e

se ne escono, sì, hanno raddoppiato i voti però non è che abbiano, cioè da un 7-8%

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178 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

sono passati a un 13-15% grosso modo, mi pare che la cifra dovrebbe essere questa,

cioè è stata una situazione un pochino brutta..».

Anche Giovanni Brusca esprime un analogo concetto nel sostenere che Cosa Nostra

doveva uccidere l'on. Lima per mandare un reale messaggio al senatore Andreotti,

non potendo arrivare a punirlo con la sottrazione dei voti elettorali: «...perché se gli

avremmo tolto solo i voti, quindi non votare per la Democrazia Cristiana, noi non

saremmo riusciti a togliergli quella forza che lui aveva, perché i voti di mafia non

erano solo... cioè i voti della Democrazia Cristiana non erano solo voti di mafia,

c'erano voti di tante altre persone che facevano politica, più i voti di mafia. Quindi

se noi avremmo tolto solo i voti di mafia, non avremmo ottenuto quel risultato

che volevamo».

In sostanza le operazioni per spostare i voti nella campagna del 1987 dimostrarono,

attesi i risultati, che le velleità di Cosa Nostra erano frutto di un vero e proprio

dilettantismo politico:

«GIUFFRÈ: ... diciamo che di errori ne sono stati fatti proprio come si soleva dire, una

trasmissione alla televisione, "Dilettanti allo sbaraglio"...:

Purtroppo io ho sempre detto che erano, in modo particolare Riina, militarmente n.

1, politicamente purtroppo non lo possiamo dire, tra virgolette. Unn'era arrivato...».

La stessa incapacità reale veniva anche riscontrata nella candidatura dell'avv.

Raffaele Bevilacqua - organicamente inserito in Cosa Nostra - il quale, nonostante il

pesante supporto economico del Siino su incarico dell'on. Lima e l'appoggio di tutta

la mafia ennese, non venne eletto alle elezioni regionali del 1991.

Questi elementi informativi contenuti nelle dichiarazioni dei collaboranti venivano

riscontrate nell'analisi statistica dei risultati delle elezioni del 1987, come risulta

chiaramente nella sentenza della Corte d'Appello di Palermo:

«Per la Provincia di Palermo le elezioni del 1983, la Democrazia Cristiana alla

Camera ha avuto un totale di 275.177 pari al 40,9%; nelle successive elezioni del

1987 la Democrazia Cristiana ha avuto 280.020 voti con una percentuale del 40,3; il

Partito Socialista alla Camera nel 1983 ha avuto 75.211 pari ali'11,2%, nelle elezioni

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179 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

politiche dell'87 sempre alla Camera il Partito Socialista ha avuto 106.613 voti pari

al 15,4%».

Da questi dati la Corte poteva concludere: «L'analisi del dato, salvo il caso della

provincia di Caltanissetta, non autorizzava a ricollegare in modo palese il

decremento subito nel 1987 dalla D.C. e l'incremento conseguito nelle stesse

consultazioni elettorali dal P.S.I. e deponeva invece - secondo la Corte - a leggere

l'allargamento dei consensi del PSI come onda lunga del successo ottenuto su scala

nazionale dal medesimo gruppo politico per precise ragioni storiche».

Ne deriva finalmente una lettura dei fatti storici che affranca da uno dei miti più a

lungo e pervicacemente sostenuti sul preponderante potere mafioso nel decidere gli

esiti elettorali siciliani.

Come si evince dalle conclusioni stesse dei giudici di Palermo, la credenza in questo

mito ha costituito probabilmente uno dei punti della forza di attrazione di Cosa

Nostra nei confronti dei politici; essa – unita alla sottovalutazione del fenomeno

mafioso - chiudeva il cerchio di un'interazione delittuosa, che non mancava di

addurre al sodalizio criminale un potente contributo rafforzativo innanzitutto a

livello psicologico della motivazione dei singoli sodali, come si deduce dalle parole

di Giovanni Brusca:

«...in me stesso dissi: "Mizzica, qua a posto sono" cioè mi sono sentito importante,

perché in quel periodo io avevo 22, 23 anni. Al che dissi: "Qua se succede qualche

cosa e 'è la possibilità di potere intervenire, personaggi di un certo livello, quali a

livello dell'onorevole Andreotti, per potere eventualmente aggiustare o intervenire

in qualche problema"».

È evidente che tale continuativo rapporto interattivo e solidale della corrente

andreottiana non ha mancato di far considerare attratto nel «grande gioco» anche il

senatore Andreotti medesimo. Le ragioni di ciò e del distacco successivo e radicale

del senatore Andreotti dall'intrattenere rapporti con il sodalizio criminale fondano

larga parte del processo di appello di Palermo, alla cui lettura si rimanda per una

migliore comprensione analitica del ragionamento dei giudici. E, tuttavia, non ci si

può esimere dal rimarcare l'illogicità del ragionamento e delle sue fondamenta.

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180 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

Se, infatti, si muove da una contiguità politica, ancorché mediata, a fini di consenso

elettorale e governo del territorio, provata solo mediante le dichiarazioni dei

collaboratori di giustizia, non si comprende la svalutazione di tale fonte di prova

(ugualmente esistente) dopo un certo periodo.

Il solo riferimento a provvedimenti legislativi antimafia appare inadeguato giacché

essi non sono attribuibili al solo senatore Andreotti. Ritorna la chiave di lettura di

una decisione basata sul «contesto» prospettato dalla accusa e non su una

concatenazione di fatti debitamente ed obiettivamente dimostrati; tentazione cui

alcuni giudici non sanno sottrarsi ma tipica di una metodologia di giudizio orientata

da ragioni estranee al corretto modo di articolare la decisione.

Il dibattimento ha altresì dimostrato che i rapporti mafia-politica avevano una

connotazione principalmente localistica e che i rapporti degli «uomini d'onore» con

i politici non erano diretti tanto ad un partito o ad una corrente (Giuffrè: «...non è

che la corrente Lima abbia l'esclusività su Cosa Nostra a livello regionale, questo

no») ma piuttosto al singolo personaggio di riferimento in base alla sua

sperimentata «avvicinabilità».

Emerge un approccio essenzialmente pragmatico di Cosa Nostra alla politica, che è

bene sintetizzato in una dichiarazione di Giuseppe Pulvirenti resa al processo di

Palermo:

«... perché poi non è che avvicinavamo solo la Democrazia! Poi, per interessi nostri

nelle amministrazioni, avvicinavamo a chiunque sia, magari che era comunista.

Basta che si prendevano soldi. Questo non ha importanza».

Come chiarito nella premessa, gli obiettivi materiali di queste contiguità sono palesi

solo se si presta attenzione ai rilevanti interessi economici sottesi di cui ci parla

Angelo Siino:

«SIINO A.: In generale mafia-appalti, 30 miliardi. - PM: Di tangenti o di lavori 30

miliardi? - SIINO A.: No, no, 30 miliardi di tangenti, che di lavori! - PRESIDENTE: Cioè

dall'86 al 1991? - SIINO A.: Sì. Solo Salamone mi dava 200 milioni al mese. - PM:

Senta, e questi 30 miliardi di tangenti, li prendeva tutti Lima, oppure c’era una

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181 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

ripartizione? – SIINO A.: No, no, erano ripartiti. Praticamente Lima a un certo punto

si trovò in condizione di nascondere parte di queste cose, perché naturalmente

c'erano i mafiosi che facevano la parte del leone. Praticamente alle volte noi eravamo

diventati... - PM: La percentuale ci dica, la percentuale. - SIINO A.: La percentuale era

così divisa: 2% la mafia, 2% al gruppo andreottiano, lo 0,50% era per la

commissione provinciale di controllo».

Le motivazioni delle relazioni mafia-politica erano quindi assai ben definite in senso

localistico, chiare negli interessi economici sottesi e assai poco correlate con la

volontà di incidere ad alto livello nello scenario politico generale.

Peraltro, non emerge neppure dai processi una alta visione strategica di Cosa Nostra

sotto lo specifico profilo, tranne il confessato desiderio di mantenere costante la

stagnazione della politica antimafia.

Solo dopo il primo grado del maxi-processo sono emerse specifiche necessità

correlate all'aggiustamento dei processi, che tuttavia non consentono di qualificare

Cosa Nostra come un soggetto politico se non a fronte di posizioni meramente

intellettualistiche.

Del resto, anche le successive velleità di sostenere movimenti autonomisti

dimostrate dal vertice corleonese nei primi anni '90 si configureranno nell'ottica del

dilettantismo, di cui prima si è dato conto, promanando da antiche suggestioni

separatiste e da errate interpretazioni sulla caratura di taluni contatti, di cui si è

sommariamente cennato in premessa.

Sono assai significative le dichiarazioni del collaborante Cucuzza:

«...fino a quel periodo, votava quel partito perché non facesse niente, cioè, questo

era il problema, non che facesse qualcosa. In realtà, dagli anni... i primi anni '70 fino

ad arrivare al Maxi-Processo, non si può dire che la Democrazia abbia fatto qualcosa

di veramente notevole, perché se ripercorriamo tutta la storia, vediamo che gli

unici... prese di posizioni di elementi dello Stato sono state o quando,

spiacevolmente, muore una personalità dello Stato o quando Buscetta e Contorno...

PM NATOLI: ... "votavamo Democrazia Cristiana perché non si facesse nulla". –

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CUCUZZA S.: sì, perché non si facesse nulla, ecco, perché... - PM NATOLI: "non si

facesse nulla" contro chi, intanto? - CUCUZZA S.: contro Cosa Nostra. - PM NATOLI:

contro Cosa Nostra. - CUCUZZA S.: e nemmeno... nemmeno a favore perché ci bastava

già quello che avevamo, cioè, non... c'era la libertà di fare quello che volevamo, in

quel periodo, se si considera tutti gli omicidi e non c'era nessun provvedimento».

[….....]

Conclusioni

L'ottica interpretativa usata si è sforzata di rimanere ancorata ad una visione

obiettiva e fredda dello scenario criminale di riferimento, evitando non solo sterili

interpretazioni ideologiche di parte ma soprattutto le perturbazioni emotive di

talune fascinazioni cui va spesso soggetta l'analisi del contesto specifico, quasi che

le attività mafiose fossero espressione di una inarrestabile forza elementare

cosmica: la mafia - come giustamente ricordava il compianto dott. Falcone parlando

di Cosa Nostra - è un fenomeno umano e come tale ha avuto un inizio e avrà una fine.

Il compito delle istituzioni è solo quello di accelerare il più possibile e allo stesso

tempo governare il tramonto delle realtà mafiose, evitando che esse vengano

sostituite da fenomeni ancora più difficilmente contrastabili; come suggerisce

purtroppo non solo la progressiva incidenza dei gruppi criminali esteri sul nostro

territorio ma anche, in prospettiva, il viraggio gangsteristico del contesto criminale

in Stati ad avanzata economia, dove ad una criminalità organizzata storica si è

sostituito l'assai difficilmente governabile fenomeno delle bande giovanili che

esprimono tutte le potenzialità di controllo territoriale e di mercato illecito delle

antiche "mafie" unitamente a caratteristiche più marcate sotto il profilo della

violenza barbara.

L'analisi dei contributi offerti dalla letteratura esistente nel nostro Paese - in modo

speciale a livello pubblicistico di massa - e gli stessi lavori di audizione svolti dalla

Commissione dimostrano l'esistenza di molte confusioni terminologiche, che spesso

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183 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

non consentono di determinare con esattezza le differenze esistenti tra le condotte

criminose e le tipologie organizzative dei gruppi, costituendo quindi un elemento

negativo nella comprensione dei fenomeni e nell'elaborazione delle strategie di

contrasto.

La presente Relazione - facendo proprio il lessico delle istituzioni internazionali e la

giurisprudenziale consolidata delle più avanzate elaborazioni della Suprema Corte

di Cassazione - ritiene di avere svolto anche un'importante opera di chiarimento

dottrinale, nella certezza che solo una precisa analisi dei concetti ed un corretto

linguaggio standardizzato possano condurre ad una obiettiva determinazione dei

fini e dei mezzi della politica antimafia.

In vari capitoli della Relazione si è delineata la necessità di tornare a fare riferimento

a codici etici condivisi, strumento che - ritenuto un tempo frutto di visioni

eccessivamente intimistiche della società - si è invece prepotentemente riaffacciato

nei nostri tempi alla considerazione degli studiosi dei problemi di nation/state

building.

Analoghi concetti sono stati evocati anche sui modi per distinguere le «vittime

innocenti» e le «vittime colpevoli» della mafia in materia di estorsione e su come

progettare le politiche sociali in grado di produrre un decremento dell'omertà nei

confronti della pressione mafiosa e minimizzare il ricorso ai meccanismi corruttivi

specie nel contesto imprenditoriale.

La Commissione ritiene di dover sottolineare che l'adozione di codici etici

concretamente applicabili non deve essere viziata da una sorta di astrusità formale

nell'editazione di regole, che poi diverrebbero difficilmente gestibili nel reale:

l'autocontrollo delle strutture sociali a base volontaristica, che esprimono leve

potenti della vita pubblica - quali i partiti e i sindacati -, deve esprimersi in una

dimensione sostanziale più che nel tentativo di editare fragili barriere valide solo

come futile vessillo propagandistico di richiamo alla legalità.

Spesso, si è voluto giustamente paragonare il rapporto del politico con la mafia ad

un «patto diabolico», pur senza trarre le adeguate conseguenze ultime di tale

analogia.

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184 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

La struttura nota della presunta fenomenologia dei patti diabolici - come promana

dalla vasta e secolare letteratura in proposito - si basa sul tentativo di ottenere

poteri extra ordinem dalle entità evocate senza patirne alcun conseguente danno

immediato a fronte dell'esecuzione di complicati rituali che comunque sottolineano

sempre il rischio soggiacente per l'operatore di credersi immune e di rimanere

invece imbelle strumento di una volontà superiore solo in apparenza disponibile e

subordinata.

Nella letteratura moderna il Faust di Goethe illustra con somma chiarezza il

percorso di potenziale perdizione nel perseguire i favori di un Mefistofele, capace -

spesso solo in apparenza o per trascurabile dettaglio - di fornire tesori, conoscenza

e potenza ma che conduce inevitabilmente al delitto e alla disperazione.

Il patto di Faust possiede però un prodromo ben definito nella psicologia del

personaggio centrale: Faust è uno scettico estenuato, che ha già rinunciato a seguire

l'ordine naturale delle cose ancora prima della irruzione di Mefistofele e del

conseguente patto. Faust è già asservito al male quando nel suo delirio proclama che

«In principio era l'Azione»; cioè quando rinuncia a vedere il mondo come

espressione di un ordine e sostituisce all'essere stabile delle cose la prospettiva

dell'eterno cambiamento, della sete di potenza, della molteplice possibilità cui nulla

deve essere negato in termini esperienziali.

Non interessa per la nostra analogia cogliere il problema metafisico, che potrebbe

essere addirittura deviante; importa invece cogliere il paradigma di un soggetto che

- pensando in modo totalmente relativistico e a questa visione informando la sua

esistenza - non abbia poi remore formali idonee a contrastare la tentazione ultima

dell'esperienza del contatto - visto nel dominio dell'utile - con una realtà che pure

intellettualmente dovrebbe essere per lui riconoscibile come immediatamente

negativa.

In questo senso, si è inteso sottolineare in altre parti di questa Relazione come la

politica debba ritornare ad aspetti reali e ad una sfera servente delle prospettive

umane, dovendo l'uomo politico evitare di credere di «poter essere tutto», se non

intende imboccare un percorso inevitabilmente autodistruttivo nel concorso con un

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185 Cross Vol.2 N°4 (2016) - DOI: http://dx.doi.org/10.13130/cross-7986

«demonio-mafia» dotato di finalità sue proprie e dal quale è poi assolutamente

difficile liberarsi.

Come il demonio della teologia cristiana tende solo ad asserire il puro male - cioè

l'assenza totale di bene -, la mafia non intende assolutamente costruire niente o

partecipare a progetti creativi di alcuna natura: essa - come ha bene spiegato alla

Commissione il Procuratore della Repubblica di Caltanissetta dr. Messineo - si

prefigge solo di possedere e controllare gli strumenti umani che incontra sul

cammino per la propria opera essenzialmente parassitaria.

Queste sono le ragioni per le quali il rapporto mafioso, nonostante le suadenti

tentazioni iniziali, è autodistruttivo per il politico in re ipsa nel dominio della

completa perdita della sua libertà individuale, a prescindere dalle eventuali

conseguenze di carattere giudiziario.

Corre inoltre l'obbligo di percorrere ulteriormente il paragone analogico evocato,

sottolineando che come il demonio si dice vanti poteri preternaturali solleticando

l'allucinazione sensibile dei suoi devoti - che finiscono per credere ad inganni - così

la mafia vanta enormi capacità di influsso spesso inesistenti sulla pubblica opinione

- se non a livelli di profilo limitato - così come inequivocabilmente attestato dalle

dichiarazioni dei più credibili collaboratori di giustizia sulla reale scarsa incidenza

delle determinazioni di Salvatore Riina sui desiderati viraggi della politica siciliana;

di tali dichiarazioni e dei relativi riscontri di indagine si è dato ampio conto - sulla

base delle sentenze definitive - nell'analisi dei processi contro il sen. Andreotti.

Infine, come il demonio non riesce a creare una sua chiesa, cioè una comunità

organica che vive per uno scopo creativo, così la mafia non costruisce nuovi modelli

di società e si limita a vivere in un mondo settario ed umbratile, sfruttando da

parassita le risorse vitali della società esistente: in questa notazione esiste il limite

di chi ha voluto ipotizzare – dovendo poi riconoscere a distanza di anni e di

estenuanti investigazioni l'assenza di riscontri probatori credibili - l'esistenza di

grandi Sistemi Criminali alternativi, che tentavano di edificare uno Stato Mafioso in

Italia: alla Mafia basta che l'attività di contrasto sia insufficiente o comunque poco

incisiva e, come ogni parassita evoluto non tende alla morte dell'ospite ma anzi alla

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sua sopravvivenza - sia pure in condizioni di oggettivo danno e di indotta

arretratezza - per estendere indefinitamente nel tempo l'opera di drenaggio delle

risorse legali.

Ne risulta che l'antidoto sostanziale alla ricerca o alla tolleranza di relazioni

criminose o dubbie debba trovare innanzitutto una solida radice culturale ed

intellettuale nel ritorno ad una politica dei valori, senza che ciò voglia con tutta

chiarezza spostare in senso unicamente privatistico la necessità di una continua

vigilanza che i gruppi politici debbono effettuare al loro interno, specie nei confronti

di situazioni inerenti i comportamenti troppo disinvolti di personaggi che si

spostano con facilità da un settore all'altro della politica e che - pur soffondendo una

naturale diffidenza - sono appetibili ed appetiti perché gestori di un pacchetto di voti

fidelizzati.

Il rapporto mafia-politica, analizzato in concreto in diversi capitoli della Relazione

del 2003 e di questa, soffre ancora di approcci parziali, ideologicamente

condizionati e che minimizzano nel proprio campo enfatizzando nel campo avverso.

Così come l'ansia della conquista del potere e di abbattere l'avversario preclude ogni

valutazione su tutti i partecipanti alla coalizione. Si è assistito, anzi, e si assiste ad

una demonizzazione ripetuta, cui segue un oblio se non una santificazione in caso di

passaggio nel campo degli ispiratori della demonizzazione.

Ed, ancora, pensare di svolgere campagne elettorali basate solo sulla promessa di

legalità e trasparenza è sinceramente solo offensivo per il corpo elettorale nel suo

complesso e per la politica giacché esse sono patrimonio insostituibile di ogni forza

politica e premessa ineludibile per il governo da parte di chiunque. Ciò, tuttavia,

dimostra la persistenza di estremismi di stampo ideologico fondamentalista, di

giacobinismi. Attesta la persistenza dei professionisti, dei predicatori dell'antimafia,

incapaci di costruire nel confronto democratico e racchiusi nel loro recinto

ideologico.

Certifica, in buona sostanza, l'immaturità democratica, esplicitata nella

strumentalizzazione di un fenomeno che invece dovrebbe costituire un terreno di

incontro e di lotta comune.

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Nondimeno, sarebbe contrario ai doveri di verità e antitetico rispetto alle finalità

accertative della Commissione sottacere i numerosi casi, emersi nel corso delle

attività dell'inchiesta parlamentare, che evidenziano l'inappropriato esercizio della

giurisdizione.

Sullo sfondo dell'irrisolto contrasto tra obbligatorietà formale dell'azione penale ed

effettiva discrezionalità nell'individuazione, da parte dei magistrati del pubblico

ministero, delle indagini da trattare (prima delle altre o con maggiore dispiego di

energie), si stagliano i risultati assolutori o le reiterate archiviazioni che

contraddicono in modo dirompente le prospettazioni che l'accusa aveva ritenuto di

fondare su imponenti attività investigative.

Il doveroso contrasto alle varie e insidiose forme di contiguità mafiosa ha trovato

nella interpretazione giurisprudenziale del concorso esterno nel reato associativo

di tipo mafioso uno strumento insoddisfacente e caratterizzato da una

indeterminatezza incompatibile con i principi dello stato di diritto.

Inadeguate scelte organizzative degli uffici, talvolta arroccate nella tutela di rendite

di posizione dei singoli, hanno impedito la tempestività degli interventi cautelari del

giudice, determinando un inaccettabile scollamento temporale tra il momento

causativo dell'esigenza restrittiva e l'accoglimento della richiesta del pubblico

ministero, vanificando, di fatto, la funzione di protezione della società e della

genuinità del processo.

Comportamenti collusivi di appartenenti all'ordine giudiziario, unitamente a

contatti e frequentazioni dalla dubbia opportunità tra magistrati e soggetti indagati

o, addirittura, condannati per reati di tipo mafioso hanno gravemente nuociuto alla

complessiva credibilità della magistratura, soprattutto nelle zone ove elevata è la

capacità pervasiva e inquinante delle organizzazioni mafiose e più nitida dovrebbe

essere la distanza tra coloro che difendono la legalità e coloro che la violano.

Si impone, pertanto, una attenta e complessiva valutazione della idoneità del

sistema giudiziario ad assicurare un efficace contrasto al crimine organizzato.

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Un esame rigoroso e scevro da pregiudizi e strumentalizzazioni, che affronti le

criticità della giustizia in relazione ai vari temi che rappresentano condizioni

irrinunciabili della vita sociale moderna: la legalità, la sicurezza, il contrasto alla

micro e macro criminalità.

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“Le elezioni politiche del 1987 hanno peraltro messo in luce massicci spostamenti di voti nei seggi elettorali più significativi [...]. È evidente che è la mafia ad imporre le sue condizioni ai politici, e non viceversa [...]. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa nostra – per un’evidente convergenza di interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi”.

(Giovanni Falcone, Cose di Cosa Nostra, Milano, Rizzoli 1991.)

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“Io vorrei chiedere alla loro cortesia di osservare questa planimetria che ho organizzato con il mio collaboratore, capitano Russo, per avere una visione esatta dell’ubicazione attuale delle varie ‘famiglie’ [...]. Ogni cerchio rosso indica la presenza di una ‘famiglia’. Dalle ‘famiglie’, come loro vedono, si diramano determinati interessi [...]. Ora, con un esame di questo genere e con un riscontro, non so, degli appoggi anche elettorali, è facile desumere da che parte graviti una forza o l’altra”.

(Carlo Alberto dalla Chiesa, audizione in commissione parlamentare Antimafia, 4 novembre 1970)

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Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata

189 Cross Vol.2 N°4 (2016)

GLI AUTORI DI QUESTO NUMERO

Alberto Alessandri si è laureato in Giurisprudenza a Milano nel 1972; nel 1986, è

divenuto professore ordinario di Diritto Penale: ha insegnato a Camerino, Trieste,

Milano Statale; attualmente è docente in Bocconi; nel 1997 è nominato nella

Commissione Ministeriale per l'elaborazione del T.U. Finanza (Comm. Draghi) e poi

della commissione Mirone; è membro della commissione scientifica permanente

"Enrico De Nicola" per il diritto e la procedura civile e penale; fa parte della direzione

della rivista "Giurisprudenza Commerciale", Giuffré editore e della “Rivista

trimestrale di diritto penale dell’economia”, Cedam editore; è componente del

Comitato scientifico dell'Osservatorio “Giordano Dell'Amore”. Svolge la professione

di avvocato in Milano.

Alain Maria Dell’Osso è Assegnista di ricerca in Diritto penale presso l’Università

Cattolica di Milano, dove nel 2012 ha conseguito anche il titolo di Dottore di Ricerca

in Diritto penale. Si occupa di temi di diritto penale dell’economia e, in particolare,

del contrasto alla circolazione di capitali illeciti. Nel 2011 ha trascorso alcuni

mesi presso la Yale Law School - Lillian Goldman Law Library per sviluppare le

ricerche in tema di money laundering. Nel 2013 è stato insignito del

Premio Giorgio Ambrosoli, bandito dal Comune di Milano, per la tesi di dottorato.

Eleonora Montani si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università degli Studi di

Milano nel 1997. Nel 2009 ha conseguito il Master di II livello in Psicologia e

Psicopatologia Forense con indirizzo in Criminologia Clinica presso l’Università

Vita-Salute San Raffaele. Dal 2002, collabora con il Prof. Alberto Alessandri,

ordinario di Diritto Penale Commerciale, Università “L. Bocconi” di Milano e dall’a.a.

2009-2010 è Docente del Corso di Criminologia, nella medesima Università. È

Presidente di Organismo di Vigilanza e abilitata all'esercizio della professione di

Avvocato.

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Rivista di Studi e Ricerche sulla criminalità organizzata

190 Cross Vol.2 N°4 (2016)

Francesca Chiara Bevilacqua si è laureata in giurisprudenza presso l’Università

Bocconi e presso lo stesso ateneo ha conseguito il titolo di dottore di ricerca in

diritto dell’impresa. Si è occupata di attività didattica e scientifica in materia penale

d’impresa ed è autrice in particolare della monografia Responsabilità da reato ex

d.lgs. 231/2001 e gruppi di società, edita da Egea nel 2010. Svolge la professione di

avvocato in Milano.

Simona Romanò si è laureata in giurisprudenza nel 2014 presso l’Università degli

Studi di Milano-Bicocca, discutendo una tesi in diritto penale dal titolo “La frode e

l’infedeltà nella dichiarazione tributaria”, con votazione 110/110 e lode, relatore

chiar.ma prof.ssa Claudia Pecorella. Attualmente è dottoranda di diritto penale

presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca.

Sarah Mazzenzana ha conseguito presso l’Università degli Studi di Milano la laurea

magistrale in Scienze Politiche e di Governo nel 2012 discutendo una tesi dal titolo

“Criminalità organizzata transnazionale: l’ascesa della mafia russa”. Ha vissuto tre

anni a Berlino dove, nel 2014, ha svolto il Servizio di Volontariato Europeo presso

l’associazione Mafia? Nein Danke!. Dal 2015 collabora con l’Osservatorio sulla

Criminalità Organizzata (CROSS). Ha redatto il quarto rapporto trimestrale sulle

aree settentrionali per la Presidenza della Commissione Parlamentare d’inchiesta

sul fenomeno mafioso. Dal 2015 è cultrice della materia del corso di Organizzazioni

criminali globali. È membro della redazione della Rivista di Studi e Ricerche sulla

criminalità organizzata.