Rivista del Grande Oriente d’Italia n. 2/2009mutata – riproporre: oggi. Voglio ricordare – tra...

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HIRAM Rivista del Grande Oriente d’Italia n. 2/2009 EDITORIALE Costruttori di sogni possibili 3 Builders of Possible Dreams 11 Gustavo Raffi UNO SGUARDO SULLʼESOTERISMO ISLAMICO Premessa alla Sezione monografica 19 Antonio Panaino Per un’introduzione al sufismo 23 Daniele Guizzo Un rifacimento poetico massonico del pensatore persiano Zahiro ‘d-Dowle 49 Immanuel Kallistovič-Obrjuzov Il fantasma del re Salomone ne Le mille e una notte 57 Éric Phalippou Intorno a una recuperata citazione evangelica di Biruni 71 Gianroberto Scarcia Rudimenti di paleontologia cristologica: palme e ulivi, moracee, asini 77 Rudy Favaro Se (in Iran) 13 equivale a 19 85 Simone Cristoforetti Massoni o manichei? Immaginario etnografico sui Kafiri dell’Hindukush 95 Stefano Pellò • SEGNALAZIONI EDITORIALI 105 • RECENSIONI 111

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HIRAM

Rivista del Grande Oriente d’Italian. 2/2009

EDITORIALECostruttori di sogni possibili 3Builders of Possible Dreams 11

Gustavo Raffi

UNO SGUARDO SULLʼESOTERISMO ISLAMICOPremessa alla Sezione monografica 19

Antonio Panaino

Per un’introduzione al sufismo 23Daniele Guizzo

Un rifacimento poetico massonico del pensatore persiano Zahiro ‘d-Dowle 49Immanuel Kallistovič-Obrjuzov

Il fantasma del re Salomone ne Le mille e una notte 57Éric Phalippou

Intorno a una recuperata citazione evangelica di Biruni 71Gianroberto Scarcia

Rudimenti di paleontologia cristologica: palme e ulivi, moracee, asini77

Rudy Favaro

Se (in Iran) 13 equivale a 19 85Simone Cristoforetti

Massoni o manichei? Immaginario etnografico sui Kafiri dell’Hindukush95

Stefano Pellò

• SEGNALAZIONI EDITORIALI 105• RECENSIONI 111

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HIRAM viene diffusa su Internet nel sito del G.O.I.: www.grandeoriente.it

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CCoossttrruuttttoorrii ddii ssooggnnii ppoossssiibbiillii*

di GGuussttaavvoo RRaaffffiiGran Maestro del Grande Oriente d’Italia

(Palazzo Giustiniani)

EDITORIALE

Un antico segreto massonico

NNNNel suggestivo rituale della Catenad’Unione si fa esplicito riferi-mento ai Liberi Muratori come

ai custodi di un antico segreto: quello delgrande amore del Grande Architetto del-l’Universo per gli uomini. Ma i Liberi Mu-ratori sono, anche, i custodi di un altro – enon meno importante segreto – quello di“essere sognatori”. Sembra un segreto mi-nore: anzi, sembra quasi il segreto di Pulci-nella. Ma non è così. Sognare non è comunea tutti. Molte persone, infatti, non sognano.Non sognano perché glielo impediscono leansie, le nevrosi, le depressioni, le diffi-coltà, i disagi, i dolori, le tristezze, l’infeli-cità: o, più semplicemente, le vicende –talora insopportabili – della vita quoti-

diana. E, allora, le loro notti diventanocupe, pesanti, plumbee. E, al risveglio, sisentono più stanchi di quando si sono cori-cati: con il risultato che tutto diventa piùfaticoso e – quello che è peggio – grigio esenza speranza.

Non sognare può essere considerata lametafora di una vita senza colore, senzabrio, senza respiro: come le notti senzasogni. Può essere la metafora di una vitasenza ideali, senza fantasia, senza creati-vità, senza voglia di spendersi: per sé e pergli altri. In questo caso, diventa un lungotunnel oscuro dove i disagi si accumulanoai disagi e dove domina una solitudine cheben presto si trasforma in egoismo. Èl’egoismo di chi non è capace di slanci di-sinteressati, di chi abbraccia il meschinointeresse, la signoria del denaro, le sugge-

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* Allocuzione tenuta alla Gran Loggia 2009, Rimini, Palacongressi, 3-5 aprile.

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stioni del potere o il narcisismo più sfre-nato: in una parola, quelli che noi chia-miamo i “metalli”. Non è questa la vita checi piace! Non è questa la vita che vogliamovivere! Non è questa la vita dei Liberi Mu-ratori!

Poco importa,se – guardandociintorno – ci accor-giamo che questoè il modello impe-rante di vita: ilmodello che imass-media cer-cano di accredi-tare come l’unicopossibile. Poco im-porta se molti – in ogni parte del mondo esoprattutto in Occidente – si accontentanodi vivere una vita succube del consumismo,della pubblicità e del finto progresso. Pocoimporta se preferiscono i sogni televisivi –teleguidati – dove tutto è falso, posticcio,casuale e distraente. Poco importa – ancora– se molti annullano la loro dignità in follicorse verso un potere che è solo uno “spec-chietto per le allodole”.

La forza del sognoSognare significa “essere”. Non signi-

fica”avere”. Per questo, il sogno è statoconsiderato – a ragione – come l’altra fac-cia (forse quella più vera) dell’esistenza:quella a cui dobbiamo guardare. Quella sucui dobbiamo plasmare la nostra esistenza.Non a caso un grande scrittore spagnolodel Seicento – Calderon de la Barca – dicevache “la vita è un sogno e il sogno il sogno diun sogno”.

Certo, sognare – come d’altronde la vita– è impegnativo. Talora, infatti, il sognoproduce incubi. Di questi incubi ne ab-biamo avuti tanti: le guerre, le intolleranze,i totalitarismi, le persecuzioni religiose, i

razzismi e – insieme aloro – il disinteresse so-ciale, l’egoismo, il rifiutodi considerare l’altrocome, in tutto e pertutto simile a noi. Se noiguardiamo alla storiapassata e recente questiincubi si sono materia-lizzati in visioni d’orroreche ci turbano. Visionidove le segrete dell’In-

quisizione si sovrappongono alle celle deilager, dei gulag e degli infiniti luoghi dovel’Umanità sofferente si domanda se sta so-gnando l’inferno. Ma si sovrappone anchealle periferie degradate, ai bambini chemuoiono – ovunque nel mondo – per famee per sete, alle grida delle donne violentate,al silenzio di chi non può parlare, alla li-bertà impedita o ai diritti umani disattesi.

E anche in questo caso, chi vive questesituazioni – tanto estreme quanto dram-maticamente comuni – si domanda con an-goscia se sta vivendo un sogno spaventoso:un sogno da cui implora di uscire. Un sognoche vorrebbe dimenticare. Ma i sogni – isogni importanti – al pari degli incubi nonsi dimenticano: rimangono ben fissi nellanostra mente. E, ogni tanto, ritornano allamemoria e non dobbiamo cancellarli.

Così come non dobbiamo cancellaredalla nostra mente gli oscuri sogni del pas-sato che molti vogliono – seppur in forma

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mutata – riproporre: oggi. Voglio ricordare– tra i tanti – i fondamentalismi che insan-guinano il mondo e le mille forme di oscu-rantismo che si ripropongono comerisposta alle difficoltàdel presente. Sonosogni che vogliono, dinuovo, una Umanitàimpaurita, sottomessa,prona e tremante. Chevogliono seminare ildisordine e l’odio die-tro l’apparenza dellaricerca di una identità:che consiste in benaltro. Ma i Liberi Mu-ratori respingono que-sti sogni: non sono iloro sogni.

I sogni dei Liberi MuratoriNon sono questi i sogni che piacciono ai

Liberi Muratori. Non sono questi i sogniche i Liberi Muratori vogliono sognare. I Li-beri Muratori vogliono sognare un mondomigliore e più giusto: un mondo dove pos-sano coesistere etnie, idee, religioni, poli-tiche diverse. Questo è il loro mondo, ilmondo in cui credono. Il mondo che si èaperto dinnanzi ai loro occhi quando sonoentrati nella catena iniziatica che stringetutti coloro che – nel mondo – si sentonoFratelli. D’altronde che cos’è l’Iniziazionese non un sogno ad occhi aperti: un sognoche ci trasporta in una realtà dove le co-muni abitudini degli uomini non hanno cit-tadinanza e dove tutto “è giusto eperfetto?”

Una grande figura iniziatica – il magoProspero de La Tempesta di William Shake-speare – pronuncia una frase su cui nonpossiamo non riflettere: «siamo della so-

stanza di cui sonofatti i sogni, la nostrabreve vita è rac-chiusa da un sonno».In fondo è propriocosì e i Liberi Mura-tori lo sanno bene.La nostra vita, in-fatti, si può parago-nare ad un lungosogno in cui scam-biamo l’apparenzaper realtà o – forsemeglio – la realtà perapparenza: senza che

ce ne accorgiamo. E su questo dovremo ri-flettere di più, prima di imbarcarci in tanteinutili avventure. Ma Prospero – il magodietro cui si nasconde John Dee – non vuoledirci che dobbiamo contrapporre la realtàal sogno. Vuol dire che dobbiamo essere ca-paci di sognare nel modo giusto: in modoche i sogni possano diventare reali. O,quanto meno, possibili. Come ricorda Ba-chelard: “Il sogno ad occhi aperti non è unvuoto mentale. È piuttosto il dono di un’ora checonosce la pienezza dell’anima”.

Ma questa – a ben vedere – è l’essenzastessa dell’Esoterismo. Il giorno in cuisiamo stati iniziati non abbiamo forse ac-cettato di iniziare un lungo sogno? Unsogno che è diventato la nostra stessa vita!Era – ed è – un sogno che sembrava (e sem-bra) andare contro la realtà. Che sembraopporsi alle comuni realtà. Quelle che

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quando entriamo nel Tempio abbando-niamo – materialmente e spiritualmente –lasciando al di fuori il nostro habitus este-riore. Cambiamo “pelle”,linguaggio, postura. Le re-gole esteriori – come nelsogno – non hanno più va-lore e le gerarchie profanesi annullano davanti aquelle che dovrebbero es-sere dettate dal sapere,dalla saggezza e dalla ri-flessione. Tutto – nel Tem-pio – è pace, equilibrio earmonia: come nei sogni,nei sogni più belli. Quelliche ricordiamo con gioia:la stessa gioia che ci con-duce ad incontrarci – dopogiornate di lavoro defati-gante – con i Fratelli, tra-endo forza, alimentospirituale e piacere.

E altrettanta gioia e piacere la speri-mentiamo quando progrediamo nel lavoroiniziatico, la cui vera ricompensa non sonole forme esteriori – i famosi “pennacchi” –ma quella interiore basata sul sentimentodi essere diversi e migliori. È quel senti-mento profondo che ci fa capaci di vederela realtà in un altro modo. E questo modo è,ancora una volta, il sogno: il sogno della Li-bera Muratoria. Un sogno ad occhi apertida cui non si vorrebbe mai essere svegliati.Un sogno a cui abbiamo la fortuna di esserestati chiamati, ubbidendo ad una voce in-teriore a cui possiamo dare il nome di vo-cazione, ma che – più laicamente –vogliamo considerare una scelta: una scelta

radicale. Si è trattato di una scelta decisiva.Certo, qualcuno potrebbe obiettare che

non viviamo solo di Massoneria e per laMassoneria. Qualcuno – ea ragione – potrebbedire, anche, che non so-gniamo solamente e chenella vita questi sogninon hanno cittadinanza.Non è così. Noi non vi-viamo soltanto nei nostriTempli: è vero. Siamo nelmondo, nella società,nella realtà esteriore: inmezzo ai problemi, alledifficoltà, a necessità che– troppo spesso – cistringono in una morsadi ferro. E, talora, cifanno dimenticare di so-gnare. Ma se non so-

gniamo, dimentichiamoquello che siamo. E ci convinciamo che ilsogno della Libera Muratoria si arresta –quando terminiamo i nostri Lavori – sullasoglia del Tempio. Così, qualche volta, vi-viamo una doppia realtà. La realtà delsogno e quella della vita profana: con la suabanalità, i suoi sofismi giuridici, le sueforme, le sue norme, le sue gerarchie, i suoiinteressi.

In questo caso, bisogna ricordare le pa-role – sapienziali – del mago Prospero checi dice che siamo fatti della sostanza delsogno. Che ci dice che dobbiamo – ad ognicosto – rimanere sognatori: come nel Tem-pio. Perché i Liberi Muratori non possonoabdicare alla loro natura. Ma cosa vuol dire“essere sempre sognatori”?

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Essere sognatori rimanda – se vogliamoesprimerci visivamente – a cieli azzurri, aprati verdi, a boschi, a montagne innevate,ad aurore e a tramonti. Sono immagini dipace, di armonia, di fratellanza, di tolle-ranza, di disponibilità edi gioia che riempionol’animo e in cui pren-dono forma i nostri va-lori. Sono i valori in cuicrede la Libera Murato-ria Universale e cheprofessa il GrandeOriente d’Italia. Ma es-sere sognatori significafare di queste visioni losfondo della nostra vitae di proporla agli altri.Significa che dobbiamoconcretizzare questisogni trasformandoli nella realtà: nella re-altà sociale. Come hanno sempre cercato difare i Liberi Muratori. Sottrarsi a questocompito equivale a naufragare nel nulladelle buone intenzioni, o nel sentimentali-smo. O, ancora peggio, nel narcisismo di chipensa che la fortuna di poter sognare lo af-franchi da qualsiasi responsabilità e lo fac-cia felice e contento.

Bisogna dunque che il nostro sogno –quello della Libera Muratoria – divengaconcreto e palpabile: in noi stessi, nella so-cietà e nell’Ordine. Diceva Aristotele che“La speranza è il sogno di chi è sveglio”. Eaveva ragione. Per questo è necessario im-pegno, lavoro, coraggio, progettualità eperseveranza: come, d’altronde, dicono inostri Rituali. Come dice la nostra Tradi-zione: quella del Grande Oriente.

Sognare nella societàNon è un mistero che stiamo vivendo

momenti difficili: basta leggere i giornali eguardare la televisione per accorgersene.Quello che era la realtà per eccellenza –

ossia l’associa-zione tra libera-lismo e mercato– sta misera-mente naufra-gando in unacrisi senza pre-cedenti. Unacrisi che stamettendo in di-scussione glistessi standardconsumistici divita a cui era-

vamo abituati eche, bruscamente, ci ha svegliati non da unsogno qualsiasi ma dal “sonno della ra-gione”. Dire che dopo questa crisi – di cuinon si vede ancora la fine – il mondo saràdiverso è affermare una ovvietà e una ba-nalità. Indipendentemente dai suoi esiti, vada sé che bisognerà riconsiderare il modocon cui buona parte degli Stati hanno vis-suto sino ad ora: incuranti della realtà e di-mentichi dei bisogni altrui. Se questo nonavverrà le conseguenze potranno essereassai più disastrose di un generale abbas-samento del tenore di vita: come si dice.Tutte le crisi economiche portano con sépericolosi contraccolpi politici, istituzio-nali, sociali e culturali. Significa perdita difiducia nelle istituzioni, nella politica, negliuomini e nella possibilità di un progressoequitativo.

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Ci sarà il rischio che prenda piede – in-sieme alla disoccupazione e alla povertà –un diffuso disagio sociale che può aggra-vare la già esistente crisi di identità con ilrischio di trasformarlain aggressività. Unaaggressività che si ri-volgerà all’internoverso tutti coloro chesono eccentrici ri-spetto alla società (idiversi, in tutti i loroaspetti, per inten-derci) e all’esternoverso tutti coloro che– estranei alla nostra società – vi cercanouna soluzione ai loro problemi esistenziali(immigrati, etc.). A questo si aggiungerà ilrischio di una regressione culturale chepuò portare all’irrigidimento dottrinario, aforme reazionarie e alle tentazioni di undogmatico ritorno al passato. Può volerdire ripiombare in incubi di cui la storia delNovecento (e non solo del Novecento) hadato drammatici esempi.

A questa ipotetica (e non augurabile)prospettiva la Libera Muratoria non può ri-manere estranea. Senza scendere sul ter-reno della politica o della religione deve,tuttavia, far valere la potenza luminosa delsogno contro le tenebre degli incubi. Di-ceva Morrison: “Datemi un sogno in cui vivereperché la realtà mi sta uccidendo”.

Deve poter dare il suo contributo di ri-flessione, di esempio e di azione per inver-tire ogni negativa linea di tendenza. OgniLoggia, ogni Fratello e il Grande Oriente do-vranno impegnarsi a fondo – con gli stru-menti a loro disposizione – per riaffermare,

propagandare e testimoniare il propriosogno di libertà, di tolleranza e di frater-nità. Essere esoteristi non significa na-scondere la testa nella sabbia. Significa

lavorare per pro-gresso e il benes-sere dell’umanità.È, quindi, indi-spensabile impe-gnarsi a fondo perla solidarietà, peri diritti umani,per la cultura deldialogo e per unaintelligente multi-

culturalità. Ma tutto ciò non è altro cherendere possibili i nostri sogni, estenden-doli alla società tutta: in un momento in cuila società deve poter sognare e nel sognaretrovare rimedio ai propri mali.

I nostri antichi Maestri erano capaci –con mezzi modestissimi – di trasformare iloro sogni spirituali in gigantesche operearchitettoniche. Ora tocca a noi farlo. È ve-nuto il momento – in una società in cuinessuno più sembra capace di sognare –che i sognatori facciano sentire la lorovoce: una voce secolare, alta e forte che puòrisuonare con forza quando tutto tace. Nonè facile. Non porta successi immediati. Maè proprio nei momenti di maggiore tene-bre che la Luce può brillare.

Sognare nell’OrdineMa non solo alla società è giusto pen-

sare. Dobbiamo guardare anche a noi stessi:ai nostri sogni, soprattutto dopo questatornata elettorale che – è inutile negarlo –è stata pesante e combattuta sino al-

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l’estremo limite della decenza. Il che – dovenon si è scivolato nell’inutile, volgare esgradevole calunnia – è perfettamentecomprensibile e può essere consideratocome un segnale di vitalità del nostro Or-dine. A patto, ovvia-mente, che ora sipossa riprendere alavorare: senza astio,acrimonia, vendetteo altro. I Liberi Mura-tori sono sognatori:non sono né politiciné pirati. Per questo,la diversità di opi-nioni e di idee è sem-pre ben accetta sediventa il trampolinodi lancio per un futuro che deve esserestraordinario: come devono essere i sogni,i nostri sogni. Infatti, se vogliamo – comesi è detto – rendere i nostri sogni dei con-creti mattoni per la costruzione del Tem-pio dell’umanità è tempo di chiudere inutilipolemiche e di rimboccarsi le maniche.

Il lavoro che è stato fatto nel passato èsotto l’occhio di tutti. Nessuno può negareche ha cambiato, radicalmente, il nostroOrdine, rendendolo rispettato e rispetta-bile. Ora bisogna concludere questo lavoro,sanando anche le ferite che molti inter-venti anonimi di alcuni facinorosi hannoprovocato al nostro interno e, più grave-mente, all’esterno. Bisogna adoperarsitutti per una leale pacificazione – doverosatra avversari corretti – e per continuare arendere l’Ordine Massonico un effettivolievito iniziatico e un solido punto di rife-rimento per chi – nel sociale – guarda a noi

come a portatori di valori importanti edindiscutibili.

Con armonia, equilibrio e rinnovato en-tusiasmo dovremo quindi impegnarci afondo nel lavoro di Loggia che è il centro

della Vita Muratoria,valorizzando partico-larmente il Grado diMaestro che deve es-sere praticato al mas-simo in quanto sono iFratelli Maestri le co-lonne portanti dell’in-tero Grande Oriente.Sono i Maestri – sottola saggia guida dei loroVenerabili – che pos-

sono dare il ritmo ai nu-merosissimi Apprendisti che attendono daloro un esempio e uno stile. Che attendonodi poter sognare quello che si aspettano disognare e che rifiutano un modello di Li-bera Muratoria vecchio stile: lontana dalleloro menti e dai loro cuori. Noi vogliamo,invece, che la Libera Muratoria del domanisia – nella continuità con i suoi eterni prin-cipi – una grande scuola di vita, di libertà edi democrazia dove l’esperienza esotericasia uno straordinario valore aggiunto. Unvalore aggiunto che moltiplichi le capacitàindividuali, facendo di ogni Fratello un co-struttore di sogni. Ma non di sogni alla ma-niera di “Alice nel Paese delle Meraviglie”.Bensì di sogni concreti, possibili e palpabili.Sogni in cui l’approfondimento interiore siunisca alla solidarietà, alla disponibilità ealla presenza nella vita collettiva.

Ma per far questo dobbiamo migliorarel’organizzazione del Grande Oriente, ren-

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derla più efficace e più razionale. Dob-biamo modernizzarla nelle sue strutture erenderla più comunicativa in modo daesplicitare – agli occhi dell’opinione pub-blica – il nostro impegno.Dobbiamo, inoltre, po-tenziare le opere di soli-darietà che – da tempo econ commuovente e am-mirevole impegno – me-ravigliosi Fratelli portanoavanti. Il vero esoteristanon può che essere soli-dale con chi è più poveroe bisognoso: non solo diun aiuto concreto maanche di un sorriso. Sognare vuol dire sor-ridere. Non dobbiamo dimenticarlo.

Carissimi Fratelli, ospiti e amici questaGran Loggia non vuole essere la celebra-zione né di vittorie e tantomeno di scon-fitte. E neppure vuole essere il trionfo diuna vuota e banale retorica. Non è questolo stile dei Liberi Muratori.

Questa Gran Loggia vuole essere ungrande momento di unione da cui trarreenergie, entusiasmo e volontà per conti-

nuare – al meglio – sulla nostra strada. Unastrada che è quella che ci vede – da sempre– “costruttori di sogni possibili”. Questo èquello che desiderano tutti i Fratelli, questo

è quello che si perce-pisce frequentando ilavori di Loggia. Que-sto è quello che cer-cano tutti coloro chebussano, incessante-mente, alla porta dinostri Templi peravere la Luce. Ma laLuce non è che lasplendida metafora

di quel sogno chel’umanità vuole che sia realizzata e che sitraduce nella Fratellanza fra gli uomini,nella Uguaglianza con tutti gli uomini enella Libertà per tutti gli uomini. Questo èil sogno della nostra vita di Liberi Muratori.

D’altronde come scriveva Paolo Coelho– un grande scrittore che ha tradotto in let-teratura molti princípi dell’esoterismo – “Èproprio la possibilità di realizzare un sognoche rende la vita interessante”. E noi vo-gliamo che la nostra vita sia bella, utile,gioiosa, felice ma anche interessante.

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BBuuiillddeerrss ooff PPoossssiibbllee DDrreeaammss*

by GGuussttaavvoo RRaaffffiiGrand Master of Grande Oriente d’Italia

(Palazzo Giustiniani)

EDITORIAL

An ancient Masonic Secret

IIIIn the fascinating ritual of the Chainof Union, explicit reference is madeto Freemasons as repositories of an

ancient secret: the secret of great love ofthe Grand Architect of the Universe formen. However, Freemasons are also repo-sitories of another – and not less important– secret, the secret of “being dreamers”. Itlooks like a minor secret; it even seems likethe “secret de Polichinelle”. But this is notthe case. Dreaming is not common to all. Infact, many people do not dream. They donot dream because of their anxieties, neu-roses, depressions, difficulties, discomforts,pains, sadness, unhappiness, or just the

events – which are sometimes unbearable –of daily life. So their nights become dark,heavy, and gloomy. Upon waking up, theyfeel more tired than when they went tobed: the result is that everything becomesmore tiring and – even worse – grey, andhopeless.

Not dreaming may be considered as themetaphor of colourless life, with no liveli-ness, and no breath: just like dreamlessnights. It may be the metaphor of life withno ideals, imagination, creativity, or will todo things: for ourselves and the others. Inthis case, this becomes like a long dark tun-nel, where discomfort accumulates toother discomforts, and where solitude do-

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* Annual communication delivered on the occasion of the Grand Lodge 2009, Rimini, Palacongressi,3-5 april.

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minates and soon becomes egoism. This isegoism of those who are not able to haveunselfish feelings.The egoism ofthose who em-brace petty inte-rest, the rule ofmoney, charm ofpower, or unre-strained narcis-sism: in a word,what we call“metals”. This isnot the life welike! This is notthe life we wantto live! This is notFreemasons’ life!

It matters little, if – looking around – werealize that this is the prevailing life model:the model that mass-media try to give cre-dit to as the only possible one. It matterslittle if many – in any part of the world andespecially in the Western countries – willsettle for living a life dominated by consu-merism, advertising, and fictitious pro-gress. It matters little if they prefertelevision – remote-controlled – dreams,where everything is false, artificial, acci-dental, and distracting. It matters little –also – if many cancel their dignity in insaneraces towards a power that is just a “fool’sgold”.

The Strenght of DreamDreaming means “being”. It does not

mean ”having”. For this reason, dream hasbeen considered – rightly – as the other

face (maybe the most real one) of exi-stence: the face we have to look at and

shape our existence on.It is not by accidentthat a great Spanishseventeenth centurywriter – Calderon dela Barca – said that“life is a dream anddream is a dream of adream”.

Certainly, drea-ming – as living – ischallenging. In fact,sometimes dreamsproduce nightmares.

We have had many ofthese nightmares: wars, intolerance, tota-litarianisms, religious persecutions, ra-cisms, and – with them – socialindifference, egoism, and refusal to consi-der the others as completely similar to us.If we look at past and recent history, thesenightmares have materialized into horrorvisions troubling us. In these visions, thedungeons of Inquisition overlap with thecells of Nazi lagers, Soviet gulags, and en-dless places where suffering humanitywonders whether it is dreaming of the hell.They also overlap with degraded suburbs,children dying – everywhere in the world –of hunger and thirst, cries of raped women,silence of those who cannot speak, prohi-bited freedom, or disregarded humanrights.

Also in this case, people experiencingthese both extreme and dramatically com-mon situations wonder with anguish whe-ther they are in a dreadful dream: a dream

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from where they implore to come out. Adream they would like to forget. But dre-ams – important dreams – like nightmarescannot be forgotten: theyremain fixed in our mind.From time to time, theycome back to memory andwe should not erase them.As we should not erasefrom our mind the darkdreams of the past thatmany want to reintroducenow – though modified. Iwould like to mention –among many others – thefundamentalisms bringingbloodshed to the world,and the many forms of ob-scurantism reintroduced asa response to present diffi-culties. These dreamswant, again, that humanityis fearful, submissive, obe-dient, and trembling. Theywant to stir up chaos andhatred, pretending they arein search of their identity: which is some-thing totally different. Freemasons refusethese dreams: these are not their dreams.

Freemasons’ DreamsThese are not the dreams Freemasons

like. These are not the dreams Freemasonswant to dream of. Freemasons want todream of a better and fairer world: a worldwhere different ethnic groups, ideas, reli-gions, political ideals can exist together.This is their world; the world they believe

in; the world that opened up in front oftheir eyes when they entered the initiatorychain uniting all those who – in the world

– feel as Brethren. What isInitiation other than drea-ming with eyes open: adream taking us into a rea-lity where no commonhuman habits exist andeverything “is right andperfect”?

A great initiatory cha-racter – the magician Pro-spero in The Tempest byWilliam Shakespeare – saysa sentence we cannot avoidthinking about: “We aresuch stuff as dreams are madeon, and our little life is roun-ded with a sleep”. After all,this is true, and Freema-sons know it well. In fact,our life may be comparedwith a long dream, wherewe mistake appearance forreality, or – maybe better –

reality for appearance, but we do not rea-lize that. This is what we should thinkabout more, before embarking on manyuseless adventures. However, Prospero –the magician hiding John Dee – does notmean we should oppose reality to dreams.It means we should be able to dream right,so that dreams can become reality, or atleast possible. As Bachelard says: “Dreamingwith eyes open is not mental vacuity, but the giftof a time knowing the fullness of soul”.

If we look carefully, this is the essenceof Esotericism. On the day we were initia-

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ted, didn’t we accept initiating a longdream? That dream has become our life!That dream seemed (and seems) beingagainst reality, opposing common realitiesthat we abandon – materially and spiri-tually – upon entering the Temple, and weleave our exter-nal habitus out-side. We changeour “skin”, lan-guage, and po-sture. Externalrules – as in adream – have novalue and pro-fane hierarchiesare cancelled infront of thosethat should be based on knowledge, wi-sdom, and thought. Everything – in theTemple – is peace, equilibrium, and har-mony: as in dreams, in the most beautifuldreams we remember with joy. That samejoy leads us to meeting – after days of ti-ring work – our Brothers, receivingstrength, spiritual food, and pleasure fromthat.

We feel the same joy and pleasure whenwe progress in our initiation work, whosereal reward is not exterior – the famous“plumes” – but interior, based of feelingdifferent and better. Through that pro-found feeling, we are able to see reality inanother way. This way is, once again, thedream: the dream of Freemasonry, a dreamwith eyes open we would not want to bewoken up from. We have been lucky as wehave been called to this dream, followingan interior voice we can call vocation; but

we want to consider – from a more secularperspective – this vocation as a choice: a ra-dical choice. It was a decisive choice.

Certainly, some might say that we donot only live on Freemasonry and for Free-masonry. Some – rightly – may also say

that we do not onlydream and that thesedreams do not exist inlife. This is not thecase. We do not onlylive in our Temple: thisis true. We are in theworld, in society, in ex-ternal reality: sur-rounded by problems,difficulties, and needs

that – too often – clampus. Sometimes, they make us forget we aredreaming. But if we do not dream, we for-get what we are. We persuade ourselvesthat the dream of Freemasonry stops –when we finish our Works – on the thre-shold of the Temple. So, sometimes, we livein a double reality: the reality of dream andthe reality of profane life, with its banali-ties, its legal sophisms, its forms, rules, hie-rarchies, and interests.

In this case, we need to remember thatthe wise magician Prospero said that weare made of the substance of dream, whichtells us we have to remain dreamers, at allcosts, as in the Temple. Freemasons cannotabdicate their nature. What does “be al-ways dreamers” mean?

Being dreamers refers – if we want to vi-sually express ourselves – to blue skies,green meadows, forests, mountains cove-red with snow, dawns, and sunsets. These

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are pictures of peace, harmony, brother-hood, tolerance, willingness, and joy fillingour soul, where our values are shaped.These are the values Universal Freema-sonry believes in and the Grande Oriented’Italia practises. Being dreamers meansturning these vi-sions into thebackground of ourlife and proposingit to the others.This means thatwe have to concre-tize these dreamsand turn theminto reality, in so-cial reality, as theFreemasons havealways tried to do.Reneging on thistask means failing in the nowhere of goodintentions, or in sentimentalism, or evenworse in the narcissism of individuals thin-king that the luck of being able to dreamreleases them from any responsibilitiesand makes them happy.

Therefore, our dream – Freemasonrydream – must become real and tangible: inourselves, the society, and our Craft. Ari-stotle said that “Hope is the dream of thosewho are awake”. And he was right. For thisreason, commitment, work, courage, pro-ject-making, and perseverance are requi-red: as our Rituals say, as our Tradition, theTradition of the Grande Oriente d’Italiasays.

Dreaming of SocietyIt is not a mystery that we are living in

a difficult time: we just need to read newspapers and watch television to realise this.The previous reality par excellence – i.e.

the association between li-beralism and market – ismiserably failing in anunprecedented crisis.This crisis is challengingeven the consumptionlife standards we wereused to and has nowwoken us up, abruptly,not from any dream butfrom the “sleep of rea-son”. Saying that afterthis crisis – and we can-not see the end of it yet– the world will be diffe-

rent is saying something obvious andbanal. Independently form its outcomes, itis necessary to reconsider the way most ofthe national Governments have been livingup to now: indifferent to reality and for-getful of other people’s dreams. If this doesnot happen, the consequences may bemuch more disastrous than a general re-duction in the standard of living, as we say.Any economic crisis includes dangerouspolitical, institutional, social, and culturalrepercussions. It means losing trust in in-stitutions, politics, people, and the possibi-lity of an equitable progress.

There will be the risk that a widespreadsocial unease – together with unemploy-ment and poverty – takes root, exacerba-

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ting the existing crisis of identity with therisk of turning it into aggressiveness. Suchaggressive attitude will turn inwards,against all individuals who are eccentric inrelation to the so-ciety (i.e. the di-verse, in all theiraspects), and out-wards against all in-dividuals who – theoutsiders to our so-ciety – look for a so-lution to theirexistence problems(immigrants, etc.).This should beadded to the risk ofa cultural regres-sion, which may cause doctrine tightening,reactionary forms, and temptations of adogmatic step back to the past. It maymean plunging back into nightmares thehistory of the Twentieth century (and notonly of the Twentieth century) has givendramatic examples of.

Freemasonry cannot remain distantfrom this hypothetical (and not desirable)scenario. Without acting in the field of po-litics or religion, Freemasonry must exertthe bright power of dream against the dar-kness of nightmares. Morrison said: “Giveme a dream in which to live because the realityis killing me”.

Freemasonry must be able to give itscontribution of meditation, example, andaction to reverse any negative trend line.Each Lodge, every Brother, and the GrandeOriente must be dedicated – with their owntools – to reasserting, publicizing, and te-

stifying their dream of freedom, tolerance,and brotherhood. Being esotericists doesnot mean hiding the head under the sand.It means working for the progress and well

being of humankind. Itis, therefore, indispen-sable to work for soli-darity, human rights,culture of dialogue, andintelligent multicultu-ralism. This means en-suring that our dreamsbecome possible, ex-tending them to theentire society: at a timewhen the society musthave the opportunityto dream and find a re-

medy for its troubles in dreaming. Our ancient Masters were able –

through very modest systems – to turntheir spiritual dreams into gigantic archi-tectural works. It is now our turn to do it.The time has come – in a society where ap-parently nobody is able to dream – fordreamers to speak loud with their secular,loud, and strong voice, which is able toecho when everything is silent. It is noteasy. It does not bring to immediate suc-cesses. But the Light can shine in the dar-kest times.

Dreaming in the CraftIt is not only right to think of the so-

ciety. We also need to look at ourselves andour dreams, especially after the last elec-tions, which – needless to deny it – wereheavy and fought up to the extreme limit

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of decency. This is perfectly understanda-ble – when there is no useless, vulgar, andunpleasant slander – andcan be considered as a si-gnal of vitality in ourCraft. However, we shouldnow be able to restartworking, with no rancour,acrimony, revenges, orother. Freemasons aredreamers: we are not po-liticians or pirates. Forthis reason, the diversityof opinions and ideas is al-ways welcome, if it beco-mes like a springboard foran extraordinary future:as dreams, our dreams,should be. In facts, if wewant – as it was said –that our dreams becomebricks for building up theTemple of humanity, the time has come toend useless arguments and start working.

The work done in the past is evident toall. Nobody can deny that it has radicallychanged our Craft, which is now respectedand respectable. We now need to finish thiswork, and heal the wounds caused by manyanonymous contributions from some trou-blemakers internally and, more seriously,externally. We now need to work all toge-ther for loyal reconciliation – which is ne-cessary between fair opponents – and toensure that Freemasonry is effective ini-tiation yeast and a solid reference point forthose who – within the society – look at usas bearers of important and unquestiona-ble values.

With harmony, equilibrium, and rene-wed enthusiasm, we should work hard in

our Lodges, which arethe core of Freema-sonry Life, and givevalue to the MasterDegree, which needsto be practiced to thetop, as Master Bre-thren are the pillars ofthe Grande Oriente.Masters – wisely gui-ded by their VenerableMasters – can give thepace to the many Ap-prentices who expecttheir example andstyle, expect they candream and refuse anold style Freemasonrymodel: far from theirminds and hearts. On

the contrary, we want that future Freema-sonry is – in continuity with its eternalprinciples – a great school of life, freedom,and democracy, where the esoteric expe-rience is an extraordinary added value.This added value should multiply indivi-dual abilities, so that each Brother can be abuilder of dreams, but not dreams like“Alice in the Wonderland”. On the contrary,they should be real, possible, and toucha-ble dreams, in which inner analysis is com-bined with solidarity, willingness, andpresence in community life.

But to do this, we need to improve theorganization of the Grande Oriente, andmake it more effective and rational. Weneed to modernize it in its structures and

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ensure it is more communicative so thatour commitment becomes explicit to thepublic. We also need tostrengthen our solida-rity works that won-derful Brethren havesupported throughtime with emotionaland admirable com-mitment. A real esote-ric cannot but besympathetic with thepoor and needy: notonly through materialaid but also with asmile. Dreaming means smiling. We shouldnot forget that.

Dear Brethren, guests, and friends, thisCommunication is not meant to be the ce-lebration of victories or defeats. It is notmeant to be the triumph of void and trivialrhetoric. This is not the style of Freema-sons.

This Communication is meant to be agreat opportunity for being united and ta-king energy, enthusiasm, and willingness

to keep following our path in the best con-ditions. On this path, we have always been

“Builders of PossibleDreams”. This iswhat all Brethrendesire, this is whatwe feel when we at-tend Lodge works.This is what all thosewho continuouslyknock at the door ofour Temples look forto receive the Light.But the Light is justthe splendid meta-

phor of the dream that humanity wants toturn into reality and Brotherhood of men,Equality with all men, and Freedom for allmen. This is the dream of our life as Free-masons.

As Paolo Coelho – a great writer whohas translated many principles of exoteri-cism into literature – wrote “It is the possi-bility of making a dream come true that makeslife something interesting”. And we want thatour life is beautiful, useful, joyful, happy,but also interesting.

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PPrreemmeessssaa aallllaa SSeezziioonnee mmoonnooggrraaffiiccaa

di AAnnttoonniioo PPaannaaiinnooDirettore scientifico di Hiram

The present number of Hiram is dedicated to some aspects of the Islamic Esotericism,whose complexity deserves to be investigated as one of the most important spiritualcontributions of whole humanity. Also in the framework of the Masonic world it is, infact, particularly important to have better knowledge of the deep roots belonging to thisculture outside of any pseudo-judgment about a world that cannot be strictly connectedto some modern phenomena of intolerance and fundamentalism. The multiculturaldialogue should be doubtless based on real comprehension and respect, or it becomes adialogue between deafs. The heaven painted on the vault of our Temples must recall usthat nobody possesses the whole wisdom, and that we are asked to seriously hear also theothers and in particular to pay attention to their esoteric traditions.

IIIIgrandi e tragici eventi che stannosegnando la storia contemporaneahanno attratto intorno alla cultura

islamica una, sino a pochi anni or sono, im-prevedibile attenzione da parte dei media,spesso, purtroppo, quasi solo di caratterenegativo, al punto tale che, per esempio, untermine innocente come islamista, dinorma impiegato nelle nostre universitàper designare una categoria di studiosi, ov-vero gli specialisti dell’Islam, è stato rein-terpretato con il senso distorto di“terrorista islamico”. Tale rivoluzione se-mantica si è rivelata di per se stessa terro-ristica, giacché non è sembrato affattodecoroso per molti professionisti, nonché

per un’antichissima disciplina accademica,l’Islamistica per l’appunto, trovarsi di puntoin bianco nominalmente criminalizzati. Èstato un po’ come se i grec-isti od i latin-istifossero divenuti, per colpa del suffisso -ista,da un giorno all’altro, dei “terroristi greci”o “romani”. Tale scempio semantico mettein evidenza un fatto più ampio, ossia checiò che mal si conosce più facilmente puòessere frainteso, demonizzato in toto, riget-tato o fatto segno di critiche talora infon-date o semplicemente giustificate solo peruna sua corrente e non per altre.

Giacché, invece, il mondo islamico èstato protagonista a partire dalle sue ori-gini di movimenti e dottrine di carattere

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UNO SGUARDO SULLʼESOTERISMO ISLAMICO

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non solo politico-religioso, ma anche eso-terico-filosofico, producendo sintesi stra-ordinariamente importanti, anche per ilprogresso delle scienze, inparticolare in campi comela matematica, l’astrono-mia e l’astrologia (spessoinscindibili sino all’età mo-derna) o la medicina, ci èsembrato opportuno, al difuori di ogni emergenzia-lità, proporre una rifles-sione più circostanziata sutale cultura, o almeno sualcuni aspetti che po-tranno essere certamentedi particolare interesse peri lettori di Hiram. Le diversevie islamiche alla sapienza, soprattuttoquelle più esoteriche, hanno esercitatoenorme fascino sull’Occidente a partire datempi non sospetti ed hanno attratto il giu-stificato interesse di esoteristi come lostesso René Guénon, che, come tutti sanno,ad un certo punto abbraccerà il Sufismocome scelta non solo intellettuale ma comeprassi di vita.

La multiculturalità di cui tanto si parlanecessita innanzitutto di cultura, giacchésarebbe pernicioso, ed in molti casi si trattaproprio di quel che avviene, che a realiz-zarsi sia un incontro di “multignoranza”,ovvero di faziosità e sospetti reciproci, talida rendere impossibile ogni dialogo ragio-nevole. Nel senso del dialogo e della cono-scenza, il presente numero della nostrarivista propone un primo cammino attra-verso la complessa rete dell’esoterismoislamico, offrendo così alcuni spunti per ul-

teriori approfondimenti e per una rifles-sione scevra da preconcetti di qualsiasisegno.

Conoscere e meditare suquanto prodotto da movi-menti esoterici di indubbia le-vatura, a loro volta eredi, inalcuni aspetti del neoplatoni-smo e di tradizioni esoterichepiù antiche — non è un casoche alcune correnti persianeabbiano, per esempio, risen-tito della stessa cultura reli-giosa del Mazdeismo —significa allargare gli oriz-zonti e favorire quella civiltàdel dialogo e del rispetto che

noi propugnamo. Sarebbe, in-fatti, un peccato che proprio una delle vocidella moderna società civile più attente alledifferenze ed alla tolleranza multireligiosa,come la Libera Muratoria, non si interro-gasse intorno al patrimonio culturale diuna tradizione esoterica e spirituale, difatto, oggi presente anche nel nostro con-tinente. Lo stesso ruolo crescente della no-stra Obbedienza come veicolo di modernitàe di dialogo anche nel bacino del Mediter-raneo presuppone un’apertura intellet-tuale adeguata ai compiti storici che citoccano, ovvero favorire ovunque possibilel’incontro ed il rispetto tra diversi, la pacee la cooperazione, il diffondersi della lucerispetto alle tenebre dell’ignoranza, delfondamentalismo e della violenza. Le vocipiù originali e profonde della cultura isla-mica sono sempre state in sintonia con taliprincìpi e sarebbe un errore gravissimoconsiderare l’Islam come la bandiera legit-

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• 20 •UNO SGUARDO SULL’ESOTERISMO ISLAMICO

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tima di tutte le forme di intolleranza e illi-beralità emergenti nello scenario odierno.Troppo spesso, anche nel nostro milieu, unafacile generalizzazione porta ad attribuirealla cultura islamicadottrine che non leappartengono o aconsiderare alcuniesiti particolari comeil patrimonio fonda-tivo di tutta la suatradizione. In questosenso, una rifles-sione più attenta emeno preconcettadovrebbe aiutare acomprendere meglio e distinguere quelliche sono solo fenomeni storico-politici, piùo meno manipolabili da parte di élites inte-ressate alla destabilizzazione del mondo edall’acquisizione di un proprio potere, dadottrine e pratiche di notevole profonditàspirituale, degne del più profondo rispetto.

Aggiungiamo che l’Islam non è affattounitario, né per lingua né per cultura e cheil suo universo è complesso come quellodella tradizione cristiana; non siamo difronte ad un contesto privo di storia e di se-colari relazioni con le religioni e le filosofiepiù importanti dell’Occidente e del-l’Oriente antico e medievale. Né, peraltro,sono mancate voci di forte progresso ed in-novazione, che, senza negare le proprie ori-gini, hanno cercato un dialogo edun’emancipazione reale, soprattutto nelcaso delle donne ed in generale dei dirittiumani.

Il nostro scopo non era però quello diconcentrarci sul tema dell’Islam in rap-porto con la travagliata modernità, né suisuoi orizzonti politici e sociali, ma di man-

tenerci in un ambitoa noi più perti-nente, quello delpensiero esoterico.Gli articoli che se-guono, frutto dellavoro di un gruppodi studiosi, notispecialisti nel set-tore, alcuni deiquali per la prima

volta scrivono suuna testata della nostra Comunione, rap-presenta, quindi, una sfida, in parte giàvinta, che, allo stesso tempo, sottolinea laforza attuale del Grande Oriente come pa-lestra libera di confronto e di stimolo, a cuianche altre voci, che giammai sarebberostate in passato attente alla nostra dimen-sione, si aggiungono con entusiasmo edoriginalità.

Al di fuori della faziosità politica, delleincombenze del quotidiano e della notizia(spesso poco attenta alla complessità),della speculazione di parte in materia re-ligiosa, il presente contributo è un donorivolto a tutti coloro che vogliono allar-gare gli orizzonti, ricordando che la voltastellata dei nostri templi resta aperta pro-prio perché nessuno possiede tutta la ve-rità e che quanto viene da altredimensioni dello spirito richiede la nostrapiù sincera considerazione.

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• 21 •Premessa alla Sezione monografica, A. Panaino

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PPeerr uunn’’iinnttrroodduuzziioonnee aall SSuuffiissmmoo

di DDaanniieellee GGuuiizzzzoo(Università di Bologna – Università di Venezia)

This article is a brief introduction to the mystical side of Islam, i.e. Sufism. The firstpart is a historical summary of the origins and the early developments of Sufism. Thesecond deals with the tenets of Sufis and the organization of the Sufi mystic orders, knownas “tariqa”. In the last part an excerpt of Persian mystical poetry is given in Italiantranslation together with a short commentary.

00.. Che cos’è il Sufismo?

IIIIl termine Sufismo è entrato nel vo-cabolario scientifico e culturale eu-ropeo già con i pioneristici studi dei

primi orientalisti europei e, prima ancora,era “orecchiato” grazie ai reportages deiviaggiatori occidentali in terre d’Islam. DelSufismo ci si era fatti un’idea precisa, maanche molto diversa dalla realtà: essoavrebbe costituito il fulcro dell’umanesimomusulmano, un movimento irregolare cheben poco aveva a che spartire con lo sterileformalismo libresco dell’Islam ufficiale.Nonostante questo termine porti su di séun passato tanto discutibile, esso è tut-t’oggi largamente usato nella letteratura

scientifica e può essere una parola utile daassociare a svariati fenomeni sociali, cultu-rali, politici e, naturalmente, religiosi legatiai Sufi, cioè gli attori di tali fenomeni.

La parola che, in arabo, indica questi fe-nomeni è tasawwuf. Essa ha un’attestazionericorrente a partire dall’VIII sec., e viene,per solito, ricollegata a sūf ‘lana’, materialedi cui sarebbero state fatte le vesti deiprimi mistici. Altre etimologie, consideratemeno probabili, sono state proposte: dasafā’ ‘purezza’, che avrebbe caratterizzatola fede dei mistici; da suffa, la panca su cuierano soliti sedersi i compagni del Profeta(ahl al-suffa ‘la gente della panca’). Sufi, de-rivato dalla stessa radice, ne è il nomenagentis, ovvero colui che pratica il tasawwuf.

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In ambito islamico, col termine tasaw-wuf, si denotano le manifestazioni esoteri-che che, pur rispettando la leggeessoterica, ovvero la sharī’a, la larga viadella corretta condotta, imboccano al con-tempo la tarīqa, ovverolo stretto e difficoltosocammino esoterico checonduce a una realtàsuperiore. I Sufi stessihanno parlato di un tri-plice significato di ta-sawwuf — come ciricorda la studiosa An-nemarie Schimmel(1975: 16) — in accordocon la sharī’a, la tarīqa ela haqīqa, vale a dire laVerità. Si tratta di una purificazione che siarticola a diversi livelli: innanzitutto dallequalità infime e dal torpore dell’anima,quindi dalle catene delle umane qualità e,successivamente, una purificazione checonduce all’elezione al livello degli Attri-buti. I Sufi, quindi, sono ben lontani da ri-tenere superflua la sharī’a: è un percorsonecessario per rientrare nel progetto cheDio ha per l’umanità, ma non è sufficienteper coloro che vogliano elevarsi a verità piùalte, anche in questo mondo. Si potrebbeparlare, dunque, di un duplice percorso chei mistici musulmani intraprendono: uno“orizzontale”, o essoterico, che li acco-muna a tutti i musulmani, che è la sharī’a; euno “verticale”, o esoterico, che è la tarīqae che può condurli, qualora seguito neimodi corretti, verso la Verità. In altri ter-

mini, la sharī’a è necessaria all’uomo per li-mitare al-nafs al-’ammāra ‘l’anima che in-duce al male’, per frenare i suoi disordinatiistinti (come recita il Corano sura XII, 531:“Ma non voglio dichiararmi del tutto inno-

cente, ché l’anima ap-passionata spinge almale, a meno che ilmio Signore nonabbia pietà, e certo ilmio Signore è indul-gente e clemente”), eper portarlo allo sta-dio del al-nafs al-lawwāma ‘l’anima chebiasima’, la quale,con le proprie criti-

che, tiene a bada gliimpulsi dell’anima che induce al male,come nel Corano LXXV, 2: “Giuro perl’anima biasimatrice!”. Da qui si diparte ilsentiero della tarīqa: una volta purificatal’anima dalle passioni più vili essa, attra-verso numerose stazioni, può elevarsi finoa al-nafs al-mutma’inna ‘l’anima che è inpace (con Dio)’, come si legge nella suraLXXXIX, 27-30: “E tu, o anima tranquilla —ritorna al Tuo signore, piacente e piaciuta,— ed entra fra i Miei servi, — entra nel mioParadiso! —”. Il Sufi intraprende una viache lo porterà all’abbattimento della bar-riera tra conoscenza ed esperienza. Ciò puòavvenire solo attraverso un cammino ini-ziatico con diverse stazioni (maqāmāt) diconoscenza discorsiva (‘ilm), di gnosi(ma’rifa) e, infine, di annichilimento del sénell’Uno (fanā’).

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1 Citiamo sempre il Corano dalla traduzione di Alessandro Bausani, BUR, Milano, 19923.

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11.. Origini e prime manifestazioni del Sufismo

Sulle origini e sulle radici del Sufismo siè molto scritto e molto siè dibattuto. Nell’orien-talistica si sono indivi-duate due correnti dipensiero. Da una partechi ha sostenuto, e so-stiene, che il Sufismoavrebbe la propria ge-nesi sul piano geogra-fico, storico e sociale,ampiamente al di fuoridella culla dell’Islam. Sitrovano, indubbia-mente, consonanze, tal-volta straordinariamente precise, colmisticismo cristiano di area siriaca. Nellamistica sira è ben presente la corrente dellashitūta, dalla parola shatē ‘folle’, è nelle suecaratteristiche formali ed essenziali, moltosimile al movimento malāmatiyya delmondo musulmano, che vedeva nel bia-simo di sé stessi, rinunciando al proprioonore, la vera realizzazione dell’amore diDio. Nel libro siriaco Ktābā d-masqātā “Illibro dei grandi” si distinguono cristianigiusti (kēnē o zaddīqē) e cristiani perfetti(gemīrē), come si distingue una chiesa invi-sibile da una chiesa visibile. Queste sonocategorie che si ritrovano nel Sufismo, chevede nei Sufi la realizzazione suprema del-l’uomo, e che distingue un piano essoterico(zāhir) da un piano esoterico (bātin) dellareligione. La setta messaliana, inoltre, insi-steva sul valore della preghiera ripetuta,cosa che ha un’evidente affinità col ritualedel dhikr dei Sufi, la menzione di Dio al fine

di purificare l’anima (Molé 1992: 24-33).Ciononostante non si può in alcun

modo negare il fervore spirituale dei primiconvertiti all’Islam. Anzi,un esempio diretto di spi-ritualità individuale eascetica potrebbe esserestato dato dagli hunafā(sing. hanīf), vale a direarabi che avevano abban-donato il politeismo,prima della missione pro-fetica di Muhammad, ab-bracciando una fedemonoteistica di stampogiudaico, cristiano o,

molto spesso, non settario.Essi sono citati anche nel Corano comeesempio di monoteisti puri e originari: “Vidiranno ancora: ‘Diventate ebrei o cristianie sarete ben guidati!’ Ma tu rispondi: ‘No,noi siamo della Nazione d’Abramo, ch’eraun hanīf, e non già un pagano’” (sura II,135). Sarebbe parimenti difficile negare iprimi episodi di ascetismo suscitati e ispi-rati dal testo coranico il quale, in molti suoipunti, è latore di un puro afflato mistico.Resteranno sempre vividi nella mente enegli scritti dei Sufi di ogni tempo e di ogniluogo alcuni passaggi particolarmente si-gnificativi da un punto di vista esoterico.Fra questi il modello dell’esperienza esta-tica è certamente il mi’rāj, ovvero l’ascen-sione del Profeta in paradiso, di cui ilCorano ci offre un breve accenno, sul quale,però, la tradizione successiva ha costruitol’exemplum del movimento dell’anima versoil suo creatore: “Nel nome di Dio, clementemisericordioso! Gloria a Colui che rapì di

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notte il suo Servo dal Tempio Santo al Tem-pio Ultimo, dai benedetti precinti, per mo-strargli i Nostri Segni. In verità Egli èl’Ascoltante, il Veggente” (sura XVII, 1);“Nel nome di Dio,clemente miseri-cordioso! Per lastella, quando de-clina! — Il vostrocompagno nonerra, non s’in-ganna — e di suoimpulso non parla.— No, ch’è rivela-zione rivelata, —appresagli da unPotente di Forze —sagace, librantesi — alto sul sublime oriz-zonte! — Poi discese pèndulo nell’aria — es’avvicinò a due archi e meno ancora — erivelò al servo Suo quel che rivelò. — E nonsmentì la mente quel che vide — Volete voidunque discuter quel che vede? — Sì, ei giàLo vide ancora — presso il loto di al-Mun-tahà — presso al quale è il Giardino di al-Ma’wà — quando il loto era coperto comed’un velo. — E non deviò il suo sguardo,non vagò. — E certo ei vide, dei Segni delSignore, il supremo!” (sura LIII, 1-18).

Un altro passo coranico con un im-menso valore simbolico e sacrale, che pro-ietta il progetto divino per l’umanità in unorizzonte metastorico, è quello che ac-cenna al patto primordiale fra Dio e gli uo-mini, al giorno di alast: “E quando il tuoSignore trasse dai lombi dei figli d’Adamotutti i lor discendenti e li fece testimoniarecontro se stessi: “Non sono io, chiese, il vo-stro Signore? (a-lastu bi-rabbikum?)” Ed essi

risposero: “Sì, l’attestiamo!” E questo fa-cemmo perché non aveste poi a dire, ilGiorno della Resurrezione: “Noi tutto que-sto non lo sapevamo!”” (sura VII, 172). Il

fine del mistico è,quindi, il ritorno al-l’esperienza del giornodi alast, quando soloDio esisteva e condussefuori dagli abissi dellanon esistenza tutte legenerazioni future(Schimmel 1975: 24).

Di particolare forzasono i numerosi ac-cenni allo yawm al-mazīd ‘il giorno del

sovrappiù’ che Dio ha in serbo per i propriintimi. Un valore quasi mistico veniva datoanche alla preghiera supererogatoria not-turna (tahajjud), come conferma il seguenteversetto XVII, 79: “E parte della notte an-cora veglia in orazione volontaria, cheforse il Signore ti susciti a luogo di gloria”.

Il cuore dell’insegnamento islamicoconsiste nella dottrina del Dio unico, Dioche non ha associati che condividano la suaonnipotenza. L’Islam non conosce un dioincarnato: tutto si risolve tra Dio e ciascunuomo in quanto sua creatura. Il Profeta nonè oggetto di culto, perché sarebbe širk ‘po-liteismo’ o kufr ‘miscredenza’, anche se eglideve essere rispettato e imitato in quantoDio ha parlato per suo tramite e lo ha sceltocome Suo messaggero.

Il modo in cui è stato rivelato il Coranoè stato rivelato a Muhammad ed è digrande importanza per il Sufi: significa cheDio ha parlato all’uomo, e il più grande de-

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sidero dell’uomo è proprio quello di ascol-tare la sua voce. Il mistico deve quindi cer-care di sapere in qualemodo il fondatore dellasua fede fu così privile-giato da rimanere in co-stante rapporto con Dio,ed è obbligato quindi astudiare la vita del Pro-feta (Sīra), a compren-dere il suo codice dicondotta e a familiariz-zare con le tradizioni(hadīth). Così come nelcristianesimo Mariapartorì vergine il verboincarnato di Dio, così nell’Islam Muham-mad rappresenta il calice non incrostato dascienze mondane — il Profeta è descrittonel Corano come “analfabeta” — atto a tra-smettere la Verità in tutta la sua purezza(Schimmel 1975: 27). Muhammad è latoredella sharī’a, ma, al contempo, è il deposi-tario della conoscenza occulta della Rive-lazione che, secondo molte tradizioniconfermate sia dai sunniti che dagli sciiti,avrebbe trasmetto al cugino e genero ‘Ali.Muhammad e ‘Ali sono infatti a capo dellagenealogia spirituale dei maestri Sufi.

Sin dai primi giorni dell’Islām non man-carono seguaci che cercarono di imitare ilsuo esempio e di vivere rettamente al co-spetto di Dio, seguendolo nei ritiri di me-ditazione sul monte Hira, che sovrastava laMecca. Questi uomini si elevarono al rangodi awliyā’, vale a dire “amici” o “compagni”,termine che in seguito finirà per diventarepiù o meno sinonimo del nostro “santo”. Alcompagno del Profeta Abū Dharr al-Ghifārī

sono spesso attribuite tradizioni sulla po-vertà e sulla ricchezza spirituale che deriva

da Dio. Salmān al-Farisī, unliberto persiano accoltonella casa di Muhammad,è una figura iniziatica ed èanche il “santo patrono”dei piccoli artigiani.

Dall’ambiente dei com-pagni è stata adottata unatradizione del Profeta cheriguarda la triplice attitu-dine del musulmano al-l’Islam, all’īmān e all’ihsān:l’Islam, letteralmente, è lasottomissione completa e

volontaria alla volontà di Dio; l’īmān è lafede, che costituisce l’aspetto interiore del-l’Islam. Un muslim, un musulmano, non ènecessariamente un mu’min, un credente,ma un mu’min è sempre un muslim. L’ihsān,in ultimo, vale “adorare Dio come se lo sivedesse”, perché anche se l’uomo non vedeDio, Egli vede sempre l’uomo. L’interioriz-zazione dell’Islam parte, dunque, da questitre concetti (Schimmel 1975: 29; Scarabel2007: 37).

Il Sufismo delle origini è una dottrinaascetica caratterizzata da una pietà pratica,in un costante timore del giudizio divino,annunciato a più riprese nel Corano, cuiporre rimedio con una costante penitenzache, a differenza delle manifestazioni mi-stiche cristiane, per esempio, non arrivamai alla mortificazione del corpo, conser-vando quello spirito di moderazione e di ri-spetto per la creazione che caratterizzava ecaratterizza il musulmano. Sconosciuti,quindi, il celibato, l’astensione dal denaro

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lecito, le pratiche anacoretiche (se non perbrevi periodi) e i lunghi digiuni peniten-ziali (escluso, ovviamente, il sawm pre-scritto nel mese di Ramadan). Il primoSufismo è una personale ricerca della fontedella Verità, con unaparticolare attenzioneper l’osservanza del ri-tuale. Il Sufi era un po-vero (faqir) il quale,pur vivendo nelmondo, aspirava a bensuperiori livelli di re-altà da raggiungerecon un atteggiamentodi zuhd, che tradur-remmo in italiano con‘sobrietà’, ‘devozione’ e anche ‘ascesi’. Diqui la denominazione data ai primi misticimusulmani, zāhid.

22.. Il periodo formativo del Sufismo

Uno dei primi mistici “asceti” fu Hasanal-Basrī (m. 728). Egli costituisce una dellefigure emblematiche del periodo formativonon del solo Sufismo, ma del pensiero mu-sulmano in generale. Versato nelle scienzeteologiche (kalām) e giuridiche (fiqh), dellequali fu un pioniere, in ambito misticoHasan al-Basrī è continuatore del primoSufismo, insistendo sull’importanza dellapovertà e dell’austerità, nonché del timore(khawf) del castigo divino, punti di par-tenza per un’ascesi che, sola, può control-lare l’anima e le sue pulsioni chedistraggono l’uomo dal retto camminoverso Dio. Di qui un’attenzione particolare

anche al rispetto della sharī’a, che ha unruolo fondamentale sia per il comune cre-dente che per il mistico.

Nonostante l’esempio del Profeta el’idiosincrasia dell’Islam verso un asceti-

smo assoluto, in al-cuni primi Sufi,soprattutto in quellisegnati da una sto-ria di conversioneimprovvisa, si rilevauna certa tendenzaal celibato e all’ab-bandono di tutti ibeni del mondo. Uncelebre esempio èquello di Fudayl ibn

‘Iyād, temuto bandito del Khorasan (Iranorientale), allorché sentì la recitazione diun versetto del Corano si pentì della pro-pria vita e si recò a Kufa per studiare le tra-dizioni del Profeta. Non amava lacompagnia della gente e, per quanto spo-sato, considerava il matrimonio uno dei piùgrandi ostacoli sulla via per Dio e si narra diun suo sorriso alla morte di suo figlio, cheegli considerò come un segno della Graziadi Dio, espressa nell’alleviamento dellepene terrene del Suo servo.

Su questa stessa linea di povertà e diascetismo s’inserisce la figura di Ibrāhīmibn Adham (m. 790), denominato successi-vamente “la chiave delle scienze mistiche”.Nobile originario dell’oriente iranico (lacittà di Balkh, oggi nel nord dell’Afghani-stan), viaggiò a lungo in seguito alla suaconversione, procurandosi di che viverecon umili occupazioni. La sua vita di po-vertà è un simbolo di primaria importanza

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in quanto fu una scelta, e non dovuta a ne-cessità. Gli è attribuita la prima classifica-zione degli stadi dell’ascetismo(zuhd), la quale pare però, perl’età in cui visse, ancora ana-cronistica. Essa consiste nellarinuncia del mondo, nella ri-nuncia alla sensazione di feli-cità nell’aver conseguito larinuncia e, infine, nella fase incui il mondo è così poco impor-tante per l’asceta che nonguarda più a esso.

Contemporanea a questiasceti, ma più portata a un mi-sticismo erotizzante, è Rabī’aal-’Adawiyya (m. 801), la più po-polare delle “sante” mistiche dell’Islam. Lasua figura è di centrale importanza per glisviluppi ulteriori del Sufismo, in quantosviluppò, forse fra le prime, forme poetichemistiche e, sopratutto, introdusse il con-cetto di amore assoluto per Dio, non legato,quindi, alla promessa del paradiso o allaminaccia dell’inferno. Rabī’a afferma ancheche l’amore di Dio per l’uomo precede sem-pre l’amore di quest’ultimo per il suo Si-gnore. Il Corano, d’altra parte, presentaversetti che testimoniamo l’amore delCreatore per la creatura, non solo il suo sta-tus di Signore trascendente e di severo Giu-dice: “O voi che credete! Se qualcuno di voirinnega la sua religione, ebbene, Iddio su-sciterà uomini che Egli amerà come essiameranno Lui, umili coi credenti, fieri coimiscredenti, combattenti sulla via di Dio,impavidi di fronte a ogni biasimo; questa ègrazia che Dio dona a chi vuole, ché Dio èampio, saggio” (V, 54). Questo versetto è in-

fatti la base di tutta quella dottrina Sufi sul-l’amore (mahabba) che tanta eco avrà nella

forma classica del misticismoislamico e nelle sue rifrazioniletterarie, dirette e indirette.Riguardo all’amore disinteres-sato verso Dio, famoso èl’aneddoto che racconta dicome Rabī’a girasse per la cittàcon una torcia in una mano eun secchio d’acqua nell’altra.Quando le chiesero il perché diquesti due oggetti ella rispose:“Voglio incendiare il paradisoe spegnere l’inferno, così chequesti due veli scompaiano edivenga chiaro chi adora Dio

per puro amore, e non per paura dell’in-ferno o per la speranza del paradiso”(Schimmel 1975: 38-39; Scarabel 2007: 53-54).

Un altro maestro dell’epoca, conside-rato uno dei più grandi mistici dell’Islam, èDhū al-Nūn al-Misrī (m. 859), un egizianoprobabilmente originario della Nubia e difamiglia copta. Il suo vero nome sarebbestato al-Fayd, oppure al-Fayd AbūThawbān, mentre Dhū al-Nūn significa‘quello del pesce’, soprannome che, signi-ficativamente, è proprio di Giona, il profetaebreo inghiottito dalla balena. A Dhū al-Nūn è attribuita la conoscenza delle disci-pline alchemiche e la capacità di leggere igeroglifici. La sua biografia viene anche ar-ricchita di particolari probabilmente spuri,ma che rientrano nel cliché della conver-sione del mistico (Scarabel 2007: 43-44).Egli infatti sarebbe stato, come Fudayl ibn‘Iyād, un noto brigante. Pare invece che

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avesse studiato le scienze religiose e chefosse un trasmettitore delle tradizioni diMālik ibn Anās, il fondatore della scuolagiuridica malikita. Se-condo la tradizione Dhūal-Nūn fu il primo a for-mulare la teoria dellama’rifa, vale a dire dellaconoscenza gnostica,opposta al ‘ilm, la cono-scenza e l’apprendi-mento discorsivi, anchese, da quelle poche cita-zioni che ci restano dilui, questo caratteregnostico non emergechiaramente (Schimmel1975: 43-44).

Fra i più veneratisanti del Sufismo troviamo un mistico delnono secolo, Abū Yazīd di Bistam (m. 875).Per le espressioni teopaniche che caratte-rizzano i suoi detti, gli sono state spessoascritte influenze della mistica induista. Inrealtà Abū Yazīd fu uno dei primi mistici“inebriati” i quali nelle loro shatahāt, lette-ralmente ‘sbornie’, raggiungevano unostato di ebrezza che era conseguenza dellapresenza dell’essenza divina nel cuore. Aquesto punto l’essenza di Dio soverchiacompletamente il mistico, che si annichilae il suo essere si perde nell’Uno. Si possonoquindi comprendere certe affermazioniche lasciarono interdetti, se non inorriditi,molti suoi contemporanei: “Gloria a Me!Com’è grande la mia Maestà!”. Chiaro è chequi non è affatto il mistico ad elevarsi a di-vinità, bensì il mistico non è più, avendo ri-nunciato in quel momento alla sua

esistenza fenomenica per raggiungere l’an-nullamento (fanā) nell’essenza di Dio. AbūYazīd ha perseguito la via della rinuncia a

se stesso per giungere, almenoper un momento, allo stadiodell’unione con l’Uno, stato incui l’amato e l’amante sono lastessa cosa (Schimmel 1975: 47-50; Scarabel 2007: 45-46).

Il capofila dei Sufi di Bagh-dad, capitale del califfato abba-side, nonché uno dei perso-naggi fondamentali per leconfraternite mistiche che siformeranno nei secoli succes-sivi, fu Abū al-Qāsim al-Junayd(m. 910), il quale si iscrive nellavia dei discepoli di Hasan al-

Basrī. Egli inizialmente si oc-cupò delle scienze della trasmissione dellatradizione ma, in seguito, forse influenzatoda un ambiente familiare in cui figuravanoeminenti maestri mistici, fra i quali lo zioSarī al-Saqatī, intraprese il percorso delSufi. La sua concezione del tasawwuf, im-prontata a una seria e sobria analisi inte-riore che non lasciava spazio amanifestazioni estatiche come quelle diAbū Yazīd, è divenuto un modello di riferi-mento per il Sufismo delle regioni centralidell’Islam, che si riallacciano sempre a luinella loro genealogia spirituale (Schimmel1975: 57-58; Scarabel 2007: 46-48). Uno deimaggiori insegnamenti di al-Junayd fu, in-fatti, la superiorità della sobrietà (sahw)sull’intossicazione estatica (sukr). Ma se lavia intrapresa è diversa, la metà è la mede-sima, sia per al-Junayd che per Abū Yazīd.Al-Junayd è solo più attento nel non

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esporre, a chi non può coglierli, i misteridell’unità con Dio, perciò pare che nei suoiscritti fosse molto abile nellatecnica dell’allusione allaVerità (ishāra). Lo scopo delmistico è sempre raggiun-gere l’annullamento dellapropria individualità nel-l’Uno eterno. Ma il fanā’non è che un attimo, dopoil quale il Sufi torna co-sciente di sé, pur se nellaluce di Dio. Il fine ultimodel mistico è, quindi, ilbaqā’, ovvero la “perma-nenza” in Dio e l’annulla-mento definitivo del sé(Schimmel 1975: 58-59). Nelpensiero di al-Junayd, infatti,ha un ruolo centrale la riflessione sulgiorno di alast, che abbiamo ricordato comeuno dei motivi coranici che più hanno atti-rato l’attenzione dei mistici. La storia del-l’uomo deve essere quindi un percorso diricerca per “tornare nello stato in cui si tro-vava prima di esistere”, vale a dire prima diessere confinato in un’esistenza fenome-nica (Arberry 1986: 45-46).

Meno fortuna ebbe un più giovane con-temporaneo di al-Junayd, al-Hallāj, uno deipiù famosi mistici di tutti i tempi, e bennoto anche in Europa grazie agli studi con-dotti su di lui dall’islamista francese LouisMassignon. La sua fama è legata alla suacondanna a morte come blasfemo e alla suacrocifissione nel 922. Masignon tradussel’arduo libro Kitāb al-tawāsīm e raccolse ivari frammenti dell’opera di al-Hallāj. Hu-sayn ibn Mansūr al-Hallāj nacque nell’858

in un villaggio della regione iraniana delFārs, figlio, probabilmente, di un cardatore

di cotone (hallāj in arabo si-gnifica, appunto, ‘carda-tore’). Divenne abbastanzapresto discepolo di un mae-stro Sufi, Sahl al-Tustarī, cheseguirà a Basra. Successiva-mente si spostò a Baghdad,dove divenne discepolo di‘Amr al-Makkī e, probabil-mente, anche di al-Junayd.Dopo essersi sposato con lafiglia di un altro Sufi, il qualefu tra i primi ad accusarlo distregoneria e di eresia, in-traprese il pellegrinaggioalla Mecca, ove soggiornò

per un anno, imponendosiuna stretta ascesi. Tornato a Baghdad eavendo trovato una certa ostilità tra i mae-stri Sufi locali, al-Hallāj riprese a viaggiare,volgendosi verso oriente: l’India dapprima,quindi il Khorasan e il Turkestan, per poitornare nella capitale. Agli occhi degli am-bienti califfali di Baghdad le mete dei viaggidi al-Hallāj erano alquanto sospette inquanto coincidevano in larga parte con leroccaforti di movimenti estremisti, quali icarmati d’ispirazione sciita ismailita, checontrollavano larghe porzioni di territoriofra il Bahrayn e il Sindh. Dato il clima an-cora una volta per lui ostile, al-Hallāj compìper la seconda volta il pellegrinaggio allaMecca, risiedendovi per due anni. Al suo ri-torno a Baghdad il giurisperito Muhammadibn Dā’ūd lo accusò di blasfemia, incitandoaltri colleghi a fare lo stesso. Egli fu dun-que imprigionato nel 912 e, per quanto

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protetto da alcuni ambienti di corte, fra iquali la madre del califfo, fu infine giusti-ziato nel 922.

Il pretesto che consentì ai suoi nemicidi denunziarlo, fu il suodetto anā al-haqq “io sono ilVero”. Questa frase, decon-testualizzata, può sembrareuna vera e propria afferma-zione di panteismo, cosache ha spinto molti studiosidel secolo scorso ad acco-stare al-Hallāj alla misticainduista. In realtà il detto dial-Hallāj, come quello si-mile di Abū Yazīd che ab-biamo visto sopra, sonoperfettamente inseritinella spiritualità islamica.Questo punto, fondamentaleper la comprensione di molta parte dellamistica musulmana, risulta chiaro alla lucedel commentario al Corano del sesto imamsciita Ja’far al-Sādiq (m. 765), eponimodella scuola giuridica sciita ma, al con-tempo, personalità oggetto di grande ve-nerazione anche per i sunniti. Quando Diodice a Mosè “In verità, io sono il tuo Si-gnore!” (innī anā rabbuka, sura XX, 12), se-condo Ja’far al-Sādiq, Mosè si rese contoche solo Dio può usare l’espressione “sonoIo”, e fu sopraffatto da stupore (dahsh) e daannichilimento (fanā’). Quindi Mosè (nel-l’interpretazione dell’imam) disse: “Tu seiColui che è e che sarà eternamente e Mosènon ha posto accanto a te, né l’ardire diparlare, a meno che Tu non lo sostenga conla Tua permanenza (baqā’) e non gli forni-sca i Tuoi attributi”. Dio avrebbe replicato:

“Nessuno al di fuori di me può sostenere laMia parola, nessuno mi può rispondere, Iosono Colui che parla e Colui al quale si parla

e tu sei un mero fantasma (sha-bah) fra i due...” (Ernst 1984:10-11). Ja’far al-Sādiq qui cidice chiaramente che l’espe-rienza della parola divina sisvolge all’interno della co-scienza umana e che essa im-plica la scomparsa dell’iodell’uomo e la manifesta-zione della divina presenza.Quindi, quando al-Hallāj pro-nuncia “Io sono il Vero” oAbū Yazīd dice “Gloria aMe!”, essi avevano già persoqualsiasi loro dimensione fe-nomenica per lasciare spazio

all’essenza divina, nella qualesi erano annullati. Si noti anche che l’imamsciita ha usato due termini (baqā e fanā’)che faranno parte, fino ai nostri giorni, dellessico base del Sufismo.

Abū Yazīd e Al-Hallāj sono anche fra iprimi e maggiori esponenti della tendenzamalāmatī del Sufismo. Il termine deriva damalāma, che in arabo vale ‘biasimo’. Questacorrente si distingue, in sostanza, in unozelo spirituale che si esprimeva attraversoil biasimo di sé o nel compiere azioni cheattirassero il biasimo degli altri. I malāmatīevitavano qualsiasi dimostrazione este-riore di pietà o di retto comportamento,cose che essi consideravano una meraostentazione. Questo atteggiamento è tut-t’altro che limitato alla mistica musulmana,come abbiamo visto sopra per la correnteshitūta della mistica sira. Tuttavia possiamo

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dire che è un fenomeno che ha echi cora-nici, soprattutto nella sura V: 54: “Di’: “Ogente del Libro! Di che altro potete biasi-marci se non di credere in Dioe in quel che ha rivelato anoi, e in quel che ha rivelatoprima di noi? Per certo i piùdi voi sono perversi”. Proba-bilmente i malāmatī traevanospunto anche dal passoLXXV: 2, che abbiamo già ci-tato, e che riguarda l’animache biasima in ogni occa-sione della vita religiosa(Schimmel 1975: 86).

Nella malāmatiyya si indi-vidua una tendenza tradizio-nale, che consta soprattuttonel compiere pratiche supererogatorie insegreto, ma anche una sorta di deriva che èquella del qalandar. Gli appartenenti allatendenza qalandariyya erano dei mistici iti-neranti, dall’aspetto poco raccomandabile,poveri, caratterizzati da una certa noncu-ranza verso gli obblighi religiosi e, invece,una tendenza all’abuso di alcolici e di altresostanze. Concentrati nella zona dell’Iranorientale fino al XII secolo, dal XIII inizia-rono a diffondersi anche verso l’Anatolia,l’Egitto e, successivamente, verso l’Indiasettentrionale.

Un’altra figura importante per il Sufi-smo delle origini e per i semi teoretici chelascerà ai posteri è al-Hakīm al-Tirmidhī.Nacque e morì a Tirmidh, nell’odierno Uz-bekistan, in una famiglia di studiosi di tra-dizioni del Profeta. Conosceva il Corano amemoria e pare che abbia appreso il con-tenuto esoterico del Libro da al-Khidr, per-

sonaggio mitico il cui nome significa ‘ilverde’, spesso identificato col Profeta Elia,slegato da confini di tempo e di spazio. Al-

Tirmidhī è una pietra miliaredel Sufismo soprattutto perla sua opera Khatm al-awliyā’(Il sigillo dei santi), nellaquale affronta il rapportoche sussiste tra missioneprofetica (nubuwwa) e la“santità” (wilāya), questioneche sarà ripresa successiva-mente dal grande teosofoIbn al-’Arabī (Scarabel 2007:51-52). In sostanza, cosìcome Muhammad è stato ilsigillo dei profeti, e latore diun messaggio essoterico, vi

deve essere un sigillo dei santi, che garan-tisca il perpetuarsi della trasmissione delmessaggio esoterico.

33.. La maturità del Sufismo e la teosofia

Alle soglie del X e dell’XI secolo il Sufi-smo raggiunge la propria maturità. Sitratta di un momento particolare per ilmondo musulmano: il califfato abbaside èda tempo un’istituzione priva di potere,pressoché rappresentativa, e il potere ef-fettivo è controllato da casate di emiri e divisir, fintantoché un gruppo di turchi pro-venienti dall’Asia Centrale, i selgiuchidi,non imporranno il loro protettorato al ca-liffo di Baghdad, avocando a sé la gestionedell’impero e lasciando al califfo il ruolo digarante simbolico dell’islamicità delle isti-tuzioni. Si tratta di un periodo fondamen-

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tale per la formazione dell’Islam nella suadimensione classica. I selgiuchidi combat-tono ferocemente il pericolo ismailita chesi era concretizzato nell’anti-califfato fati-mide del Cairo e nel network di fortezze deicosiddetti “assassini” (inrealtà la corrente nizārīdell’ismailismo) in Iran.Oltre a intraprendere unacostante lotta armata, iselgiuchidi favoriscono lariformulazione e la siste-matizzazione del sunni-smo. Sotto il loro regno, ecol ruolo di mecenate delvisir Nizām al-Mulk, na-scono le Nizāmiyya, le prime madrasestrutturate nei modi che diverranno usualiin tutto il mondo musulmano e che sa-ranno altresì il modello delle prime uni-versità del medioevo occidentale (ScarciaAmoretti 1998: 78-80). Fra gli insegnatidella Nizāmiyya vi fu una delle più impor-tanti figure del pensiero islamico, in tuttele sue declinazioni, Abū Hāmid Muhammadal-Ghazālī. Nato a Tus, nell’oriente iranico,nel 1058, fu filosofo di primissima impor-tanza, in quanto portò la scuola filosoficaash’arita a una sintesi, una sorta di “credo”musulmano che vale anche per i musul-mani sunniti dei giorni nostri. Fu inoltreprofessore di giurisprudenza, della scuolashafiita, per quattro anni nella Nizāmiyyadi Baghdad. La sua vita fu segnata però dauna forte crisi d’identità, causata probabil-mente da un rigurgito di scetticismo dopoi lunghi anni trascorsi nello studio della fi-losofia e nella scrittura di opere confutato-rie rivolte agli “eretici” ismailiti. Nel 1095

rinunciò alla propria carriera accademicae si mise a viaggiare, dapprima versol’Egitto e la Siria, quindi, dopo aver com-piuto il pellegrinaggio alla Mecca, tornònella propria città natale di Tus. Al-Ghazālī

aveva avvertito il peri-colo che lo spirito dellalegge divina si cristal-lizzasse in una pura in-terpretazione letteraledella parola rivelata ein un mero formalismolegale. Si volse quindi alSufismo. Non si samolto sulle modalità

della sua conversione,ma le sue riflessioni mistiche sono stateraccolte nell’opera Ihyā’ al-’ulūm al-dīn “Larivivificazione delle scienze della reli-gione”. In questo libro egli cercò di dimo-strare come la vita di un credente nonpossa esaurirsi nel rispetto della sharī’a. Iprimi capitoli riguardano l’osservanzadelle prescrizioni di legge e su come com-portarsi nelle questioni di vita quotidiana(come mangiare, come bere, vantaggi esvantaggi del matrimonio ecc.). La partecentrale ha un contenuto più mistico e de-scrive le varie tappe di colui che intra-prende la Via: la povertà, l’astinenza, larinuncia, la pazienza, la gratitudine,l’amore e il desiderio. In questi capitolil’autore parla anche della sua esperienzasulla Via di Dio, che non ha raggiunto an-cora la fine, ma che lascia spazio a semprenuove profondità (Schimmel 1975: 92-95).

L’opera e la figura di al-Ghazālī sonofondamentali in quanto è attraverso di luiche il Sufismo ha trovato definitivo diritto

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di cittadinanza in seno all’Islam. Perquanto acerrimo avversario delle tendenzegnostiche e neoplatonizzanti degli ismai-liti, si accorse che il semplice os-sequio delle norme religiosenon poteva condurre il cre-dente a un percorso autenticoe sentito verso Dio. Il suo pen-siero è ben sintetizzato inqueste sue parole: “vivere at-traverso le verità della fede emettere alla prova quelle ve-rità attraverso il metodo espe-rienziale dei Sufi” (Schimmel1975: 96).

Nonostante questa via me-diana al Sufismo supportatada al-Ghazālī, la mistica mu-sulmana conobbe tra il XII e il XIII un pen-satore che rappresenta, quasi da solo, lalinea teosofica del Sufismo e che lasciòun’impronta indelebile nella storia. Il piùimportante esponente della teosofia isla-mica è senz’altro Ibn al-’Arabī. Il suo pen-siero ebbe un’influenza decisiva sia sullafilosofia che sul misticismo islamici. Nac-que a Murcia, nell’Andalusia musulmana,nel 1165 e morì a Damasco nel 1240. Studiòscienze religiose con vari maestri in Anda-lusia finché un giorno sentì una voce chegli disse “O Muhammad non è per questoche fosti creato”. Della veridicità di questarivelazione garante anche Averroè, amicodel padre, che lo incontrò dopo aver sen-tito voci sulla sua “illuminazione”. Nel 1200una visione gli disse di dirigersi a Oriente.Compì il pellegrinaggio alla Mecca nel1202, viaggiò in Egitto e in Anatolia per sta-bilirsi infine a Damasco nel 1223 dove inse-

gnò fino alla sua morte e dove tuttora esi-ste il suo sepolcro. Autore prolifico, ha la-sciato qualcosa come 700 scritti (450

sicuramente originali), fraopere minori e opere mag-giori. Di fondamentale im-portanze le sue ponderoseal-Futūhāt al makkiyya “Le il-luminazioni meccane” cheoccupano, nell’edizione piùmoderna, circa 17.000 pa-gine. Il punto più dibattutodel pensiero di Ibn al-’Arabīè la dottrina che successi-vamente sarà nota con ilnome di wahdat al-wujūd,ovvero ‘l’unicità dell’essere’o ‘l’unità dell’esistenza’.

L’espressione non è mai usata da Ibn al-’Arabī nei suoi scritti, ma essa è implicitanei suoi ragionamenti. Il termine wujūd èriferito a Dio come Ente Necessario, tuttociò che non è Dio ricava da Lui esistenzacome la terra ricava luce dal sole. Vediamodi enucleare questa dottrina nei suoi trattiprincipali (Arberry 1985: 79-80):

1Dio è l’Essere assoluto, l’unica fontedi ogni esistenza. 2L’universo ha quindi un essere rela-tivo: esso è eternamente esistentequando lo si consideri nella scienzadi Dio, e temporalmente inesistentequando lo si consideri esterno a Dio. 3Dio è al contempo trascendente eimmanente: trascendenza e imma-

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nenza sono i due aspetti della Realtàcosì come l’uomo la conosce.4Oltre che in Dio, l’essere esiste invirtù del volere divino.5Prima di venireall’esistenza le cosedel mondo sono ar-chetipi fissi nellaMente di Dio esono perciò tut-t’uno con l’Essenzae la Coscienza di-vine. Questi arche-tipi sono intermedifra l’Uno e il mondofenomenico.6Non si può parlare di unione con Dionel senso di divenire uno con Dio, sitratta della realizzazione di un fattopreesistente che il mistico è uno conDio.7Il principio creativo dell’universo èla Realtà (o Idea) di Muhammad,questo principio ha la sua manife-stazione più completa nell’Uomoperfetto. 8Ogni profeta è un logos di Dio. Tutti ilogoi sono riuniti nella Realtà di Mu-hammad. 9L’Uomo perfetto è una rappresenta-zione in scala ridotta della Realtà: è ilmicrocosmo in cui si riflettono tuttigli attributi perfetti del macroco-

smo. Egli è un’epifania del desiderioche Dio ha di essere conosciuto. Solol’Uomo perfetto conosce Dio, lo amae ne è riamato. Solo per l’Uomo per-fetto è stato fatto il mondo.

Esplicitiamo unpo’ questi punti: gliesseri altri da Diohanno solo un’esi-stenza relativa, nonesistono che tramiteDio. Sono manifesta-zioni dei nomi divini.Ogni creatura, inclusigli angeli, ne rappre-

sentano uno, solol’uomo li rappresenta tutti. E di qui il rac-conto coranico in cui Dio ordina agli angelidi prosternarsi di fronte ad Adamo, poichéquesti conosceva ciò che essi non conosce-vano.

La dottrina dell’uomo perfetto (al-insānal-kāmil) è un altro punto nodale del pen-siero di Ibn al-’Arabī. Gli uomini perfettisono coloro che vivono nella potenzialitàche fu posta in Adamo allorché Dio “inse-gnò ad Adamo i nomi di tutte le cose” (suraII, 31). I nomi insegnati ad Adamo rappre-sentano gli attributi di Dio, come la Vita, laCoscienza ecc. Realizzando in sé questinomi, gli esseri umani divengono immaginidi Dio e raggiungono lo scopo che Dio ebbenel creare l’universo.

Di conseguenza il mondo esiste fintan-toché l’uomo perfetto esiste. Importantecorollario alla teorizzazione dell’uomo per-fetto è la concezione del “santo” (walī) allaquale abbiamo accennato parlando di al-

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Tirmidhī. Secondo Ibn al-’Arabī i santi(awliyā’), o “amici di Dio”, sono coloro cheereditano la loro conoscenza e i loro stadidi esperienza mistica dai profeti, l’ultimodei quali è stato, com’ènoto, Muhammad. Ibn al-’Arabi ha affermato di es-sere il khātam al-awliyā’al-muhammadiyya ‘sigillodegli amici del Profeta Mu-hammad’, intendendo direcon questo che nessunodopo di lui avrebbe eredi-tato pienamente da Mu-hammad conoscenza estadi mistici. Ci sarebberostati altri santi dopo di lui,ma avrebbero ereditato solo parte delle ca-ratteristiche dell’onnicomprensivo mes-saggio del Profeta (Chittick: 1996).

Il pensiero di Ibn al-’Arabī, con la suacomplessità e la sua forza immaginativa, halasciato un solco profondo nella conce-zione del Sufismo, forse più che nell’ambitostrettamente filosofico. La creatura è lamanifestazione di Dio, Dio è l’essenza dellacreatura, l’assoluto da cui essa deriva. Nonè, si badi, panteismo: le creature non sonoidentiche a Dio, sono soltanto il riflesso deiSuoi attributi. Questa tesi secondo cui tuttociò che esiste riflette gli attributi di Dio, hacome diretta conseguenza la tolleranza neiconfronti delle altre religioni. Ibn al-’Arabīafferma che se tutte le creature sono ma-nifestazioni di Dio, gli uomini non possonoadorare che Lui, qualsiasi cosa essi adorino.Sul piano concreto la comprensione dei mi-stici verso le altre religioni contrasteràspesso con l’intransigenza degli ‘ulamā’.

44.. La Via del mistico: l’organizzazione delSufismo

Come abbiamo visto all’inizio tarīqa è la“Via mistica” che hacome meta la haqīqa, laVerità superiore. Pergiungervi non si puòche percorrere tutte letappe del cammino ini-ziatico (sulūk al-tarīqa).Verso il XII secolo, però,questo termine comin-cia ad assumere ancheun altro significato. Gliaspiranti alla Via au-mentano e si legano a un

maestro spirituale molto più che in pas-sato. Si costituiscono, quindi, grandi fami-glie spirituali, alcune delle quali sonosopravvissute fino ai nostri giorni. Il ter-mine viene reso nelle lingue occidentalicol termine ‘confraternita’, non troppocorrettamente, come nota Scarabel (2007:66-67). Un’affinità maggiore si può riscon-trare con le corporazioni di mestiere nellequali, sia in Oriente che in Occidente, sisvolgeva un’opera rituale e di meditazionespirituale.

La nascita delle confraternite non ècerto ex abrupto. Anche in epoche prece-denti si segnalavano episodi di gruppi diSufi che si ritiravano in periodi più o menolunghi di vita cenobitica. Ma tali gruppierano abbastanza liberi da regole e mobili.Nel Golfo Persico, nella zona di confinedegli odierni Iran e Iraq, i Sufi si raccoglie-vano in posti di frontiera chiamati ribāt.Nell’oriente iranico, in Khorasan, essi si

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raccoglievano in ostelli appartati, dettikhānaqā. Altri posti di raccolta erano ini-zialmente i luoghi di ritiro dei maestri spi-rituali, i khalwa ozāwiya. Tutti questitermini, successi-vamente, furonoimpiegati in modosempre più coe-rente e tecnico perindicare un con-vento di Sufi.

I motivi dell’au-mento esponen-ziale dei conventi edelle confraternite di Sufi intorno al XII se-colo sono plurimi. Scarabel (2007: 73) e Tri-mingham (1971: 8-9) sono concordi nelritenere che un impulso decisivo fu datodai selgiuchidi e dalla loro “restaurazione”sunnita nell’area centro orientale del mo-rente califfato e, successivamente, dagliayyubidi e dai mamelucchi nell’area siro-egiziana. Così come erano state “stataliz-zate” le madrase, i conventi Sufi potevanoessere un centro di controllo per impedireil dilagare di dottrine eterodosse. Il Sufismoera stato sempre visto con qualche so-spetto dagli ‘ulamā, dai dottori della legge,ma, dopo l’opera di assorbimento del mi-sticismo islamico nell’alveo dell’ortodossiadovuta ad al-Ghazālī, le pratiche dei mae-stri Sufi potevano essere un ottimo com-plemento spirituale alla religiositàlegalistica degli stessi ‘ulamā. Il diffondersidi conventi Sufi nelle zone periferiche delmondo musulmano fu anche decisivo per ilprocesso di islamizzazione di aree che finoad allora non erano state toccate che tan-

genzialmente dall’Islam: è il caso del-l’Africa subsahariana, dell’Asia Centrale edel subcontinente indiano.

Alcuni maestri inquesto periodo diven-nero direttori di verie propri centri mi-stici, con una pre-senza nella societàsempre più allargata,garantendosi in que-sto modo una nuovabase di reclutamento.Accadeva quindi cheun centro si polariz-

zasse attorno a una figura e divenisse unascuola designata con il nome di quel mae-stro e che perpetuava i suoi insegnamenti,i suoi esercizi mistici e il suo rituale. Ognitarīqa (plurale turuq), inoltre, era caratte-rizzata da una catena genealogica (silsila)che partiva dal maestro ed era continuatadai suoi successori in qualità di suoi eredispirituali (Trimingham 1971: 10-11). A suavolta il fondatore, o i suoi primi successori,rivendicavano l’appartenenza a una lineadi filiazione spirituale che discendeva dauno dei primi grandi Sufi delle origini. Inomi più citati sono quelli di al-Junayd, diDhū al-Nūn e Abū Yazīd Bistamī. Questelinee di trasmissione dell’influenza spiri-tuale, dette anche khirqa (letteralmente‘mantello’, dall’uso di consegnare un man-tello all’erede spirituale), risalgono ancoraoltre, giungendo ad ‘Alī, quindi al Profeta e,per suo tramite, all’Arcangelo Gabriele e aDio stesso.

Un altro cambiamento evidente nellaforma delle congregazioni Sufiche è il le-

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game che si crea al loro interno. Agli inizipredominava un sentimento di fratellanzaspirituale, rinsaldato da una comune devo-zione e una disciplina spirituale condivisa.Queste “compagnie diSufi”, come le chiamaTrimingham (1971: 14),cominciarono a divenirecollegi iniziatici all’epocadel definitivo trionfo delsunnismo sulle dinastiesciite (gli emiri buyidi aBaghdad e i Fatimidi inEgitto), e si stabilizza-rono durante il turbo-lento periodo Mongolo(la presa di Baghdad daparte delle truppe mon-gole data il 1258). Questi mutamenti con-portano alcune caratteristiche moltosignificative. Innanzitutto i Sufi mutuanodagli sciiti la bay’a, ovvero il giuramentodel patto di alleanza col maestro, come av-veniva fra gli imam sciiti. Un altro aspettointeressante è costituito dalle relazioni chesi intrecciano fra alcune turuq e la futuwwa,ovvero le organizzazioni di mestiere chespesso avevano un loro codice d’onore, nonnecessariamente un percorso di elevazionespirituale, ma sempre legate alla figura di‘Alī come “santo protettore”. Pare moltoprobabile, quindi, che questi fossero mezziper dissimulare un certo filo-aladismo, valea dire una particolare devozione nei con-fronti di ‘Alī e degli altri imam sciiti, in unperiodo in cui lo sciismo era in un’acutafase di sofferenza. In ogni caso da questoperiodo confraternite Sufi e gruppi di fu-tuwwa si legarono sempre più saldamente

attraverso l’armonizzazione di genealogie,di affiliazioni e di rituali. La maggior partedelle turuq erano e sono tutt’ora di saldoorientamento sunnita.

55.. Alcune delle maggiori con-fraternite

Presentiamo a questopunto un breve panoramasulle maggiori turuq delmondo musulmano.

QQāāddiirriiyyyyaa: deve la suafondazione al maestro epo-nimo ‘Abd al-Qādir al-Jīlānī(m. 1166), originario della

regione caspica del Gilān (Irannord-occidentale), nato in una famiglia didiscendenti del profeta. Già dalla nascita lasua biografia è segnata da vari prodigi, chelo accompagnano anche quando, all’età didiciott’anni, parte alla volta di Baghdad.Ma, per una visione di al-Khidr (moltospesso presente, come abbiamo visto, nellebiografie dei mistici) che gli dice di non en-trare in città, si volge verso le rovine del-l’antica capitale partica e sasanide,Seleucia-Ctesifonte (in arabo Madā’in ‘lecittà’). Dopo aver incontrato due maestriche furono fondamentali per la sua forma-zione, sia essoterica che esoterica, si mise apredicare con grande successo nellospiazzo dedicato alle riunioni all’esterno diBaghdad, convertendo e commuovendo divolta in volta centinaia di persone. Si diceche fosse anche un abile giurisperito, affe-rente alla scuola hanbalita. Egli quindi riu-niva in sé sia la sapienza islamica essoterica

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che quella esoterica. Ha probabilmentesvolto un’importante funzione di moraliz-zazione della società ed è tutt’ora tra i santipiù venerati del mondo isla-mico. La sua tomba, sullaquale il sovrano otto-mano Suleyman fece co-struire, agli inizi del 1500,un’imponente moschea, èun luogo di assidui pelle-grinaggi.

La sua tarīqa, una delleprime che abbiano avutouna strutturazione coe-rente, ha una silsila (ri-cordiamo, è la catena ditrasmissione spirituale) che risale ad al-Ju-nayd. Essa ha avuto una larga diffusione giàa partire dal XIII, prima in Siria, in Anato-lia, nello Yemen, nel Caucaso e in Asia Cen-trale. Dal XV secolo si espande in India, perarrivare poi fino alle isole indonesiane.Giunge nel XVIII secolo anche in Africa, so-prattutto nel Congo e in Tanzania (Trimin-gham 1971: 41-44; Scarabel 2007: 78-88).

RRiiffāā’’iiyyyyaa: il fondatore fu Abū al-’AbbāsAhmad al-Rifā’ī, della cui vita non si samolto. Pare che abbia ereditato una silsiladalla tradizione della sua famiglia e cheabbia passato tutta la vita nella città natiadi Batā’ih, nell’Iraq meridionale. La suatarīqa si sarebbe organizzata già durante lasua vita, a differenza della qādiriyya, adot-tando la disciplina e i rituali del fondatore.Già nel corso del XIII e del XIV secolo laconfraternita era diffusa dall’Egitto al Kho-rasan, essendo, al tempo la tarīqa più dif-fusa, perdendo in seguito terreno,progressivamente, nei confronti della qādi-

riyya. Nel XV secolo la confraternita si sta-bilì anche in India, dove gli appartenentialla tarīqa sono spesso mendicanti girova-

ghi, che appartengono allacaste basse, e che sonolegati anche a fenomenidi fachirismo (Trimin-gham 1971: 37-41; Scara-bel 2007: 88-91).

SShhāāddhhiilliiyyyyaa: deve ilsuo nome al fondatoreeponimo Abū al-Hasan‘Alī al-Shādhilī, nato inMarocco nel villaggio diGhumāra nel 1196. La

sua biografia è ricca,come negli altri casi, di eventi prodigiosiche confermano la sua condizione di santo.Viaggiò lungamente alla ricerca di un mae-stro spirituale, entrando anche a far partedella tarīqa rifā’iyya. Alla fine, su consigliodi un maestro cui si era avvicinato, si ritiròin meditazione in una grotta nell’odiernaTunisia. Per l’ostilità della popolazione lo-cale fu costretto a spostarsi, riparando inEgitto, e da dove compiva ogni anno il pel-legrinaggio alla Mecca. Morì in un villaggiodella costa del Mar Rosso nel 1258.

Abū al-Hasan non fu certamente unagrande figura intellettuale, ma tutte le altreturuq gli riconoscono un grande carismaspirituale e una grande integrità morale.Uno degli anelli fondamentali della catenadi trasmissione spirituale è al-Junayd, undato simbolico importante in quanto que-sta confraternita privilegia una realizza-zione operativa, pratica del Sufismo,piuttosto che concentrarsi esclusivamentealla parte speculativa. Non è caratterizzata

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da alcuna forma di devozione esteriore opopolare e insiste molto sul concetto di po-vertà (faqr), inteso come sforzo di purifica-zione interiore. La tarīqa è diffusaprincipalmente nel Norda-frica, dall’Egitto al Marocco,ma è progressivamente pe-netrata anche nella regionesubsahariana e nel Cornod’Africa (Trimingham 1971:47-50; Scarabel 2007: 91-96).

NNaaqqsshhbbaannddiiyyyyaa: il misticoeponimo della confrater-nita è Bahā al-dīn Naq-shband, nato nel 1318 neipressi di Bukhara, il qualefu l’organizzatore di unaVia che risale al maestroAbū Ya’qūb al-Hamdānī (m.1140) e al suo successore‘Abd al-Khālid al-Ghujdawānī (m. 1220). Ilsuolo ruolo è fondamentale per la l’inse-gnamento dello dhikr silenzioso, ovvero diuna menzione di Dio puramente mentale.Bahā al-dīn morì nel 1389 e fu sepolto nelvillaggio natio. Sulla sua tomba fu costruitoun santuario che è centro di devozioneininterrotta. La naqshbandiyya cominciò adiffondersi velocemente con il maestro‘Ubayd Allāh Ahrar (m. 1490) il quale, daicentri di Tashkent e di Samarcanda, inviòmissionari in vari regioni del mondo mu-sulmano: nell’Impero Ottomano, nel Cau-caso, nella zona di Herat e nell’Iranoccidentale e in Kurdistan. Un’ulterioreespansione nel XVIII secolo portò la naq-shbandiyya anche nel Turkestan orientalee in India. Questa tarīqa, che ebbe spesso le-gami molto stretti con le dinastie regnanti

in Asia Centrale, fu fondamentale per le-gare molti popoli di etnia e di lingua turci-che al sunnismo ortodosso, come nel casodei tatari (Trimingham 1971: 62-65; Scara-

bel 2007: 99-107).

66.. Il maestro e il discepolo:dottrine, pratiche e riti delSufismo

Un punto di fonda-mentale differenza tramisticismo islamico e,per esempio, misticismocristiano è la tradizioneche insiste sul fatto cheun aspirante Sufi, unmurīd, abbia necessaria-mente per guida un mae-

stro, detto shaykh nei paesi di lingua arabae pir nei paesi di lingua iranica e turcica,termini che significano ‘vecchio’. Lo shaykhè al contempo sia murshid, colui che guidanella Via, sia il garante della trasmissionespirituale dei “santi”, la baraka (letteral-mente ‘benedizione’), senza la quale è im-possibile aspirare ai più alti livelli diconoscenza della Verità. Il neo-adepto disolito passa un periodo di prova nellatarīqa, durante il quale gli vengono asse-gnati compiti di servizio nella sede stessadella confraternita. In questo modo il mae-stro può valutare le qualità e l’attitudinedel murīd. Questi deve sempre prestare unacieca fiducia nel suo maestro, anche se que-st’ultimo compisse gesti che potesseromettere in dubbio la sua “santità” (Scara-bel 2007: 141-147).

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L’iniziazione è il rito fondamentale nelSufismo. Esso in realtà esprime solo la pos-sibilità da parte del murīd di intraprendereun percorso di elevazione spirituale che at-traverserà varie tappe efatto, innanzitutto, delcontenimento dei propridesideri mondani. Ilmurīd esprime l’inten-zione (irāda) di abbando-nare gli impedimenti delmondo fisico e di rina-scere nel superamentodella semplice condi-zione umana. I passaggiessenziali dell’iniziazionesono tre:

1 Il talqīn, letteral-mente ‘suggerimento’ o ‘istruzione’, nellapratica Sufi è il momento in cui lo shaykhsussurra nell’orecchio dell’aspirante leSette Parole connesse con i sette stadi delcammino mistico. Queste parole sono: lāilāh illā Allāh ‘Non v’è dio se non Iddio’, cheè la professione di fede musulmana; yāAllāh ‘O Dio!’; yā Huwwa ‘O Colui che è’, yāHaqq ‘O Verità!’; yā Hayy ‘O Vivente!’; yāQayyūm ‘O Eterno!’; yā Qahhār ‘O Sover-chiante!’.

2 Lo akhdh al-’ahd, letteralmente ‘lapresa del patto’, che implica la succitatabay’a, ovvero il giuramento di fedeltà neiconfronti del maestro.

3 Il libs al-khirqa o akhdh al-khirqa èl’investitura dell’aspirante con l’abito Sufi.Vi è un sostegno coranico per l’investituracon l’abito, che si trova nella sura VII, 26:“O figli d’Adamo! Vi abbiam donato vesti

che copron le vostre vergogne, e piume; mail vestito della Pietà è di tutto questo mi-gliore; è questo uno dei Segni di Dio a chéessi riflettano”. La khirqa era comune nel-

l’oriente islamico, meno nelMaghreb. Le cerimonie eranopiù complesse in ambito ira-nico e in ambito turco. Essecomprendevano, oltre allakhirqa, anche altri paramenticome: i pantaloni (sirwāl), lacintura (hizām), il grembiule(pishtimāl), il copricapo (tāj).Questo tipo di iniziazione de-riva probabilmente da mo-delli adottati da ordini sciiti eda gruppi di futuwwa.

Il rituale di un ordine Sufi,invece, è una regola di vita attraverso laquale il murīd può sperare di purificare lapropria anima dai desideri mondani. Il ritoprincipale del Sufismo è lo dhikr, letteral-mente, ‘ricordo’ o ‘menzione’. Esso è costi-tuito dalla prima parte della testimonianzadi fede (non v’è dio all’infuori di Iddio) e dauno o più nomi di dio, fra i quali viene in-cluso anche huwwa, il pronome di terzapersona singolare, ‘Egli’. La ripetizione è disolito compiuta sgranando un rosario(tasbīh). Il rosario ha acquisito nel tempouna certa importanza cerimoniale, inquanto viene usato nei riti di iniziazione ein altre pratiche cultuali. Di solito è com-posto da 99 grani, che rappresentano inomi di Dio. Può essere composto di 33grani, da percorre con le dita per tre volte.Il modello del tasbih potrebbe essere stato ilrosario buddhista, in uso in Asia Centrale

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fin dal IV secolo, mentre il tasbih, a suavolta, potrebbe aver influenzato il cristia-nesimo nell’adozione della pratica del ro-sario.

Lo dhikr si appoggia, come sempre, suun dato coranico. Sononumerosi i versetti chepossono averla in qual-che modo ispirata, fraquesti: “Coloro che cre-dono, coloro cui si tran-quillizzano i cuori alricordo di Dio (non è colricordo di Dio che si tran-quillano i cuori?)” (XIII,28); “O voi che credete!Invocate Iddio, invoca-telo molto!” (XXXIII, 41).I primi Sufi avevano pro-babilmente trovato nellodhikr un metodo per esclu-dere le distrazioni e per avvicinarsi a Dio.Ciò, col tempo, è divenuto un modo perglorificare Dio attraverso la ripetizione ine-sausta del Suo nome, mediante una respi-razione ritmata. Per quanto, come nel casodella naqshbandiyya, esista lo dhikr mentale(lo dhikr khāfī, quello ad alta voce è dettodhikr jahrī), il controllo della respirazione èuna delle prime caratteristiche di questapratica, probabilmente non aliena da con-taminazioni con modalità di preghiera si-mili dei cristiani orientali. L’esercizioregolare dello dhikr consentirebbe quindil’immersione (istighrāq) in Dio. L’eserciziodello dhikr è comunitario, in quanto c’è bi-sogno della presenza dello shaykh o di suoidelegati perché venga eseguito corretta-mente e approvato.

Un’altra pratica diffusa in ambito Sufi, espesso contestata dagli ambienti della reli-gione legalistica, è il samā’, parola che let-teralmente significa ‘ascolto’, ma che nelleturuq indica un concerto spirituale, che

consta nella recitazione can-tata di poemi mistici atti a in-durre l’estasi. Il canto potevaessere un assolo dello shaykh,o di una persona da lui incari-cata, oppure corale. Questocanto suggerisce l’idea che lavoce umana sia lo strumentomusicale perfetto, in quantodiretta creazione di Dio (Scar-cia Amoretti 2001: 165-166).Probabilmente il canto eramolto spesso accompagnatoanche da varie forme didanza, una sopravvivenza

delle quali si ritrova, unica su-perstite, nella danza dei dervisci apparte-nenti alla turca tarīqa mawlawiyya(Trimingham 1971: 197-198).

Un altro elemento essenziale per il pro-gresso del discepolo sulla via è la khalwa, ilperiodo di isolamento, solitamente fuoricittà, che durava per un periodo limitato,tradizionalmente di quaranta giorni. Du-rante questo tempo il murīd doveva esserein stato di purità rituale e cibarsi solo dellostretto necessario per la sopravvivenza.Viene praticata con il permesso e la guidadel maestro. Può essere ripetuta più volte,ma non deve essere continua, altrimentiverrebbe ad assumere un carattere mona-stico estraneo all’Islam per definizione(una tradizione del Profeta recita: “Non c’èmonachesimo nell’Islam!”). Lo scopo della

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khalwa è quello di entrare a diretto contattocon Dio, liberi dalle tentazioni e dalle di-strazioni del mondo. La differenza con ilmondo cristiano è che, una volta terminataquesta pratica, il murīd siriimmerge nella società enella sua tarīqa, le qualipotranno tranne vantag-gio dal progresso spiri-tuale che ha compiuto(Scarabel 2007: 155-156).

77.. Il ruolo delle confraternitemistiche nella società

Le confraternite Sufi,nella loro strutturazioneclassica suesposta, diven-nero dei punti di riferi-mento spirituali, maanche economici e sociali. Molto spessouna famiglia si legava tradizionalmente auna tarīqa, al suo shaykh e al culto del santolocale, nello stessa maniera in cui era vin-colata dalla tradizione all’appartenenza auna data scuola giuridica. Naturalmente sipoteva cambiare tarīqa, in seguito a unagrazia ricevuta da un altro santo o per lafama acquistata da un’altra confraternita.

Da un punto di vista strettamente reli-gioso le confraternite, con la loro diffu-sione sempre più capillare, ricoprivano ilruolo che le pievi locali avevano in Europa.Le turuq erano in sostanza istituzioni dimediazione tra l’aspetto sciaraitico del-l’Islam e il dato più puramente spirituale,talvolta semplicemente devozionale, sup-plendo al contempo alla nota assenza di un

clero strutturato nella società musulmanasunnita. Gli ‘ulamā’, infatti, formati su unareligiosità legalistica nelle madrase, eranomolto distanti dalle esigenze spirituali e so-

ciali della gente, oltre alfatto che essi rappresen-tavano, nella stragrandemaggioranza dei casi,classi agiate e vere e pro-prie dinastie di giurispe-riti. Gli ambienti Sufinon escludevano affattole donne, le quali pote-vano organizzare circolifemminili (pare anche,in alcuni casi, con la ce-lebrazione del rituale delsamā’).

Le confraternite, le-gando insieme personeprovenienti da ambienti

diversi in un legame esoterico, divenneroun potere sociale vero e proprio. L’affilia-zione aveva anche risvolti meramente pra-tici, come per le gilde commerciali:l’affiliato in viaggio poteva chiedere ospi-talità e aiuto ai suoi confratelli. Non solo,ma attraverso la “carriera” in una tarīqa, le-gandosi a uno shaykh, il figlio, poniamo, diun contadino di un remoto villaggio potevapercorrere gran parte del mondo musul-mano in cerca di nuove opportunità di vita.

Stringendo molti individui in un fortepatto di fedeltà a un maestro, gli ordini Sufisi sono talora trovati a percorrere rottecontrarie al loro spirito autentico, metten-dosi in prima fila non solo nelle questionisociali, ma anche in quelle strettamentepolitiche e, talvolta, addirittura militari. La

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tarīqa poteva diventare un catalizzatoredello scontento popolare, oppure esserestrumento per un fine personale da partedi qualche shaykh o di qualche gruppo par-ticolarmente forte all’interno della confra-ternita. L’esempio piùeclatante è la tarīqa Sa-fawiyya, fondata nelXIII secolo ad Ardabildallo shaykh di proba-bile origine curda Safial-Din, la quale nel XVsecolo si trasformò inuna confraternita ar-mata ed espresse nel1501 il primo re delterritorio iraniano uni-ficato, Shāh Ismā’il. Nell’Impero Ottomanola tarīqa Bektashiyya era oggetto di partico-lari attenzioni, in primo luogo perché so-spettata di simpatie sciite (quindifilo-persiane), in secondo luogo perché adessa afferivano molti giannizzeri, ovverol’élite militare ottomana (Trimingham1971: 218-241).

Le confraternite furono inoltre prota-goniste di una forte azione politica e di re-sistenza nei confronti delle potenzecolonialiste, fondando dei veri e propri mo-vimenti di liberazione e di affermazionenazionale, spesso con connotazioni locali oregionalistiche. L’Italia ne è stata diretta-mente interessata in Libia, allorché l’ordinedella Sanūsiyya, guidato da MuhammadIdris, che era già stato nominato emirodella Cirenaica dai britannici nel 1917 si op-pose alla “Riconquista” della Libia lanciatada Mussolini nel 1922. Ma situazioni similisi erano verificate prima e dopo la guerra

di Libia: in Algeria è un membro della Qādi-riyya a organizzare l’opposizione ai fran-cesi; in Sudan il celebre movimento delMahdī, contro gli inglesi, nasce da ambientidella confraternita omonima Mahdiyya; in

Mali e in Senegal è dagliafferenti alla Tijāniyyache viene lanciato unjihād contro i francesi(Scarcia Amoretti 1998:176-181).

88.. Sufismo e letteratura: lapoesia persiana

La prosa e la poesiaarabe hanno grandi tradizioni di lettera-tura d’ispirazione mistica. Tra i tanti autoribasti citare l’egiziano Ibn al-Fārid (m.1294), il quale trascorse lunga parte dellasua vita alla Mecca e che in una sua qasīda(un componimento poetico lungo, compa-rabile alla canzone) lunga 700 versi, laNazm al-sulūk, “l’ordinamento del percorsoiniziatico” descrive le tappe che si percor-rono sulla via della perfezione spirituale(Scarabel 2007: 189-190).

La letteratura persiana, che ha nellapoesia classica la sua massima espressione,ha conosciuto una larghissima ispirazioneSufi, sia nel contenuto che nella forma. Ilmisticismo che permea le composizionipoetiche persiane è un fenomeno storico-culturale di un’importanza fondamentale,in quanto anche letterati non strettamenteSufi, come nel caso di Hāfez di Shirāz, siesprimeranno spesso attraverso topoi mi-stici, rendendo molto spesso impossibile –

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probabilmente a bella posta – distinguereuna poesia misticamente ispirata da uncomponimento che di mistico ha solo le“movenze”. Questa poetica diventerà unadelle cifre domi-nanti di altre tradi-zioni letterarie,informate sempre,se non suscitate, dalmodello persiano,come quella turca equella indo-musul-mana2.

Le forme dellapoesia mistica per-siana sono: il ma-snavi, un poema adistici rimati fra loro; la qaside, come ab-biamo già detto, è una specie di canzonemonorime; soprattutto il ghazal, componi-mento tipico della poesia persiana – para-gonabile a un nostro sonetto – il quale, inorigine, era un discorso amoroso (questo ilsignificato del termine arabo da cui deriva)con riferimenti bacchici, ma che ben pre-sto intreccia al lato mondano quello mi-stico. L’anelito spirituale non stravolge lastruttura e l’argomento “superficiale” delghazal, ma lo cifra in modo tale da essere undiscorso iniziatico nel quale l’Amato ha la amaiuscola, in quanto è Dio, e l’amante è ilmistico afflitto da una passione totaliz-zante che lo porta verso l’annullamento delsé (ovvero il fanā’).

La conoscenza del vocabolario simbo-lico della poesia mistica persiana è fonda-

mentale per una corretta comprensionedel testo. Consideriamo ora, a mo’ di esem-pio, i termini che indicano le parti delcorpo sia nel loro significato essoterico che

in quello esoterico. Ilvolto (rokh) è la mani-festazione della bel-lezza di Dio; ilricciolo (zolf) è la ma-nifestazione degli at-tributi divini; latreccia (gisu) è lastrada della ricercadella Verità; il so-pracciglio (abru) sonogli attributi di Dio

che ne velano l’es-senza; l’occhio (chashm) è la vista di Dio cheosserva i Suoi servi; il neo (khāl) rappre-senta l’Unità del mondo trascendente, cheè nera in quanto celata all’occhio del-l’uomo; il labbro (lab) sta per la capacità diDio dare la vita e di tenere l’uomo nell’esi-stenza.

Sanā’ī di Ghazna (m. intorno al 1141) èconsiderato il primo poeta mistico. Eglioltre a poesie panegiristiche scrisse il ma-snavī religioso Hadīqe al-Haqīqe “Il Giardinodella Verità”. Il simbolismo mistico fu poiraffinato e perfezionato da Farīd al-Dīn‘Attār di Nīshāpur (m. probabilmente in-torno al 1230). I suoi ghazal sembrano com-posti per essere cantati in riunionimistiche. Il suo afflato mistico di lega a unavena narrativa di pari forza che si spieganei suoi celebri masnavī: il Manteq al-Teyr “Il

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2 Per un’introduzione ai temi e alle forme della poesia persiana resta sempre valido A. Pa-gliaro-A. Bausani (1968) Letteratura persiana, Sansoni-Accademia, Firenze-Milano.

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discorso degli uccelli” narra del viaggio diun gruppo di uccelli che hanno deciso dicompiere un lungo epericolo cammino perfare del Simorgh (chia-ramente un simbolo diDio) il loro re; l’Elāhī-nāme “Il libro divino” èstrutturato come unlungo dialogo tra un ree i suoi sei figli incen-trato sul concetto dizuhd, cioè l’ascetismoe il distacco dalmondo. ‘Attār hascritto anche un’impor-tante opera in prosa, la Tazkerat al-Awliyā,una raccolta di biografie di Sufi, tra i qualitroviamo l’imam Ja’far al-Sādiq e al-Hallāj.

Il poeta Sufi più famoso, nonché fonda-tore di una tarīqa è Jalāl al-Dīn Rūmī (m.1253), nato nell’oriente dell’Iran ma trasfe-ritosi a Konya, nell’odierna Turchia. La suaopera più celebre, oltre alla raccolta diversi, è il Masnavī-ye Ma’navī, il Masnavī Spi-rituale, di oltre 26.000 versi e definito tal-volta come un Corano in lingua persiana.Esso consiste in un amplissimo commentodel Libro con numerosi riferimenti alle tra-dizioni del Profeta, alle vite dei santi, maanche a fiabe e a leggende diffuse a livelloletterario e a livello popolare.

Per dare un esempio di un classico gha-zal mistico persiano proponiamo la tradu-zione di un componimento di ‘Erāqī, unodei massimi esponenti del genere. Fakhr al-Dīn ‘Erāqī nacque nei pressi di Hamadan(Iran occidentale) nel 1213-14 e morì a Da-masco nel 1289. Ebbe un’educazione di alto

livello e conosceva a memoria il Corano. Dagiovane si unì a un gruppo di mistici er-

ranti (qalandar), viag-giando fino in India.Successivamente in-traprese il pellegri-naggio alla Mecca,incontrò Rūmī aKonya e studiò conSadr al-Dīn Qūnawī,uno dei principaliallievi di Ibn al-’Arabī. Il suo canzo-niere comprendepiù di 5.000 versi ed

è considerato damolti studiosi un maestro assoluto dellapoesia mistica persiana. Leggiamo quindiun suo componimento (dal Dīvān, a cura diNasrīn Mohtasham, Tehrān, 1372/1993-94,pag. 77-78).

Chi prese in mano coppa di vinodivenne gaudente ubriacone,

adoratore del vino.Chi ne bevve un sorso

abbandonato ha il cuore, laretta fede e la sapienza.Chi vide l’occhio dell’amico, colordel vino,

senza gustar vino s’è inebriato.Abboccò all’amo come un pesce

chi toccò la punta del suo ric-ciolo.L’armata dell’amore s’è lanciata algaloppo

e il cuore degl’innamorati èstato sconfitto.L’amante che s’è elevato dal mondo

subito si è seduto col suo amico.

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Ma chi non ha rimesso il piede aterra

pur con l’alta sua aspirazione, ècaduto in basso.Non pensa a sé o al mondocolui

sulla cui testa sia pio-vuto il vino dell’alast.E chi non si sia liberato disé

sulla via dell’amores’è perso.O ‘Erāqī! Rinuncia al tuoessere

per te è meglio ilnon-essere che l’essere!

In questo ghazal ritro-viamo alcuni topoi mistici che abbiamo in-contrato nel nostro breve camminoattraverso il mondo dei Sufi. Si sarà coltol’accenno al giorno dell’alast, del patto pri-mordiale, all’ottavo verso. Parimenti rico-noscibile è la cifratura suesposta: l’occhio

dell’amato è lo sguardo di Dio che non si di-stoglie mai dalla sua Creazione, ma che soloil mistico può incrociare a patto di intra-

prendere la Via. La testa delricciolo che prende all’amogli innamorati rappresenta lamanifestazione degli attri-buti divini che rapiscono ilSufi. Anche il vino del poe-metto non è certo da inten-dersi in senso letterale, è unametafora per l’esperienzaestatica che distrugge le cer-tezze della ragione umana eche costringe a mettersi indubbio. E, come dice alla fine‘Erāqī, chiunque abbia intra-

preso con devozione e conpurezza d’intenti la Via del Sufi, capisce chela cosa migliore che possa capitare è ri-nunciare all’essere (che è un essere appa-rente) per affondare nel non-essere (che èun non-essere apparente, in quanto èl’Unica Verità davvero Esistente).

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RRIIFFEERRIIMMEENNTTII BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIICCII

Arberry, A.J. (1986) Introduzione alla mistica dell’Islam, Marietti, Genova.Chittick, W.C. (1996) Ebn al-'Arabī, voce dell’Encyclopædia Iranica (ed. Ehsan Yarshater), vol.6,

New York. Ernst, C.W. (1984) Words of ecstasy in Sufism, State University of New York Press, Albany.Molé, M. (1992) I mistici musulmani, Adelphi, Milano.Scarabel, A. (2007) Il Sufismo, Carocci, Roma.Scarcia Amoretti, B. (1998) Il mondo musulmano – Quindici secoli di storia, Carocci, Roma.Scarcia Amoretti, B. (2001) Un altro Medioevo – Il quotidiano nell’Islam, Laterza, Bari.Schimmel, A. (1975) Mystical Dimensions of Islam, The University of North Carolina Press, Chapel

Hill.Trimmingham, S. (1971) The Sufi Orders in Islam, Clarendon Press, Oxford.

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UUnn rriiffaacciimmeennttoo ppooeettiiccoo mmaassssoonniiccoo ddeell ppeennssaattoorree ppeerrssiiaannoo ZZaahhiirroo ‘‘dd--DDoowwllee ((11886644--11992244))

di IImmmmaannuueell KKaalllliissttoovviičč OObbrrjjuuzzoovv(Saggista)

The paper deals with the birth of Freemasonry lodges in the Islamic world,particularly in Iran. After a short introduction about the cultural milieu in Iran atthe end of the XIXth century, the Author gives the translation of a poem written by anIranian Freemason in which there are evident cultural influences of Freemasonry aswell as Ismailite shi'a and, last but not least, Mozart’s Magic Flute.

SSSScriveva Giorgio Levi Della Vida nel1966:

A chi è venuto al mondo o ha incomin-ciato a esser capace di ricordare dopo ilprimo decennio di questo secolo riescemolto difficile rendersi conto che l’Italia diallora, l’Italia della mia adolescenza e dellamia gioventù acerba, poteva ben dirsi unpaese laico. Non già, beninteso, che la reli-gione vi fosse perseguitata o negletta. Nonho avuto modo di accertarmi se nell’Italiadel 1900 poteva osservarsi ciò che Cavourosservava nel Regno di Sardegna nel 1860,a quasi un decennio dall’inizio della legi-slazione “laica”: “la vera religione ha moltopiù impero sugli animi dei cittadini che altempo in cui il blandire una certa frazione

del clero, o l’ipocrito frequentare dellechiese facevano salire agli impieghi e aglionori”. Ma è certo che la gente affollava lechiese come oggi (più che oggi, dicono lestatistiche; meno che oggi, sembra all’os-servatore occasionale, il quale peraltro haforse il torto di fermarsi ai grandi centri ur-bani e di trascurare le zone industriali e lacampagna); a Natale e Pasqua San Pietro diRoma e la sua piazza rigurgitavano di fedelie di curiosi anche se il Papa non apparivacome ora sulla loggia a impartire la bene-dizione urbi et orbi; le famiglie “bene” diRoma (allora si diceva “come si deve”) fa-cevano istruire ed educare la loro prole aMondragone dai gesuiti, al Nazzareno degliscolopi, presso le scuole francesi dell’As-somption, anche se talvolta i padri di fami-glia (come si veniva poi a sapere, quando

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morivano, dagli annunci funebri) avevanoin massoneria il grado di Rosacroce o di Ca-valiere Kadosc. Ma tutto questo non era néessenziale né centrale nella società di queltempo; si svolgeva,starei per dire, insordina, quasi inmargine alla vitapubblica e cultu-rale, senza proprionascondersi, masenza nemmenoesibirsi. Si andavasì a messa, ma laSanta Messa (colledue maiuscole) non era menzionata suiquotidiani a ogni piè sospinto, a ogni inau-gurazione di un ponte, di una scuola o diun lavatoio pubblico1.

Ancora più difficile è, probabilmente,che se ne rendano conto i lettori della rie-dizione 2004 del medesimo testo, collocatotra consonanti “fantasmi ritrovati”. Ma,forse, addirittura basiti rimarrebbero gliodierni lettori di Le Monde – e fin quelli di LeMonde Diplomatique – nell’apprendere cheanche la Persia del 1900 era, bene o male,un “paese laico”. Non che, anche oggi, laformula “In nome di Dio Clemente e Mise-ricordioso” non abbia una funzione gemel-lare a quella dell’“In God we trust”impressa sul dollaro, cioè a dire, in ambo icasi, una sorta di dedica all’Ente Supremodispensante dal vaglio etico di ogni singoloatto concreto delle due amministrazioni

interessate, il cui maggiore o minore spi-rito democratico dipende da tutt’altrespinte che quella teocratica (per altroverso, il cesaropapismo, anzi papocesari-

smo della RepubblicaIslamica d’Iran assomi-glia formalmente aquello del britannicoRegno Unito, la so-stanza essendo poi di-versa – e non poco –per altrettanto diverseragioni). Né, aggiun-giamo ancora, che visia o vi sia stato laggiù

un dissidio tra fede e tecnica risolto con al-terne vicende.

La tecnica, nel mondo musulmano, nonè mai stata protagonista di alcun dissidio,fronte a quello stabilizzato tra pensiero ori-ginale e vivo (su tutti i problemi del creato) epensiero basato (sempre su tutti i mede-simi problemi) sull’affidamento a quello,come si usa dire là, dei morti, cioè in praticadei manuali. Onde l’atteggiamentoestremo, tra gli innovatori dell’Islam (nelsecolo XIX!) di chi auspicava, per i testi os-sequiati, un rogo ogni 200 anni.

E i lettori suipotizzati resterebbero al-tresì stupefatti, indipendentemente dalproblema sollevato da Levi Della Vida pergli italiani, dell’apparente paradosso di unaRepubblica Islamica d’Iran cento volte più“occidentalizzata” nella vita quotidiana diquanto non lo fosse l’Impero d’Iran: ilquale, d’altra parte, nella forma laico non

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• 50 •UNO SGUARDO SULL’ESOTERISMO ISLAMICO

1 Levi Della Vida, 2004: 59.

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era, dato che un nullaosta clericale alla suaattività legislativa era previsto in teoria (enegletto in pratica). E, sempre là, erano gliuomini vestiti da re-ligiosi, cioè vestiti al-l’antica secondo unamoda nazionale quelliche perlopiù preten-devano dallo sciàuna costituzione, ov-vero un freno alla ti-rannide.

Tutto ciò ricor-dato, va inoltre te-nuto presente che ilgrande (temuto? au-spicato? ammesso?)ribaltamento ideolo-gico dell’età contempo-ranea è diverso là, nel mondo colonizzato,da quello che non sia nel mondo coloniz-zante. In altre parole, l’Oriente musul-mano, o quanto meno la sua élite culturale,era – si perdoni la semplificazione – filo-oc-cidentale nell’Ottocento, e si è ritrovatoanti-occidentale da metà Novecento, grossomodo, in poi, in quanto profondamente de-luso dalle speranze di progresso immagi-nate in connessione con ideologieoccidentali (occidentali, si badi, sia la libe-rale sia la socialista). Con un capovolgi-mento troppo secco e pertanto privo delleopportune nuances.

Comunque, sta di fatto che il pensierodell’Ottocento persiano non è clerical-con-servatore. Di più, se l’orientalismo occi-dentale ha indubbiamente peccato neiconfronti dell’Oriente, l’occidentalismoorientale, pur condito di forme che pos-

sono dirsi di un orientalismo di riflesso, ov-vero “orecchiato”, ha più precocemente ten-tato una mediazione reale. E questa volontà

di conciliazione “orientale”,confrontata con l’orientali-smo, poniamo, di un Ki-pling (a sua volta purtroppoantesignano di un Huntin-gton) non torna certo a no-stro grande onore e pregio.Insomma, quando qual-cuno, pur comprendendol’Oriente, sosteneva chel’Oriente e l’Occidente nonsi sarebbero incontrati mai,altri si illudevano di un be-nefico incontro.

Fronte all’“archeologiadella metafisica” cioè alla ri-

cerca altrove da parte occidentale, dell’ar-chetipo dell’autentico se stesso, l’Orienteha seriamente pensato a una riletturaaperta all’Occidente attuale dei propri va-lori. Così, “Giovani Turchi” e “Persiani Ri-desti” con idee più o meno da “GiovineItalia” – ma anche rappresentanti dellastessa dirigenza politica – si sono dati dafare per una vera rivisitazione completadelle proprie forme esoteriche, non già ge-neticamente fideistiche, ma ormai, a lungoandare, sentite in maniera convenzionale.

Non è questa la sede per parlare, siapure sommariamente, di Sufismo. Bastidire che, tra le sue molte sfaccettature, ilmisticismo islamico, grosso modo definibilecome la ricerca di una verità interiore (collesue sovrapersonali regole obiettive peral-tro) piuttosto che affidamento alle regoleistituzionali adatte ai più fragili di spirito

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• 51 •Un rifacimento poetico massonico del pensatore persiano Zahiro ‘d-Dowle (1864-1924), I.K. Obrjuzov

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(anch’esse da rispettarsi per disciplinad’umiltà), si distribuiva in diverse confra-ternite, alcune delle quali avevano avuto laventura storica di ritro-varsi “nazionali”2. Nulladi singolare, quindi, chesiano state, proprioquelle forme, confortatedal tentativo modernista.La confraternita sufi per-siana Ne’matollâhî3 la cuiprassi, oltre che pen-siero, poteva fornirespunti pregnanti al gene-rico orecchiamento che ilfranc-maçon Malkom-Khân, diplomatico e uomopolitico riformista, iniziato a Parigi nel1857, aveva tradotto, nel 1858, in una per-siana associazione denominata Farâmush-khâne, a rigore “Casa dell’oblio”, ma con unindubbio gioco di assonanze tra farâ-mush efarâ-mas, di cui franc-maçon potrebbe pa-rere un plurale (la lingua persiana inseri-sce sempre una vocale eufonica tra leprime due consonanti). Sì da: “faire com-prendre ò ses frères ce que la maçonnerieattende d’eux, l’élite de la nation persane,

pour porter et propager dans cette régioncentrale de l’Asie, à peine ouverte à la ci-vilisation européenne moderne, les idées

de progrès, de lumièreset d’humanité qui for-ment la base de notreinstitution”4.

Ma l’oggetto di questanota è la segnalazione diun ulteriore passo inavanti riscontrato nellamediazione auspicata daun altro personaggio, unpensatore puro stavolta,che, ne’matollâhî in ori-gine, si rivolge, proprio

per meglio accogliere il lie-vito occidentale, a radici più profonde e na-scoste della cultura patria: cioè a dire aquell’endemico, sottile, ineffabile spiritozoroastriano che era stato assorbito nel-l’Islam soprattutto dal movimento ismai-lita, in modo particolare da un classico delpensiero islamico quale l’Ikhwân al-Safâ’ (Ifratelli della purezza), onde un’associazionedenominata Anjoman-e okhovvat, cioè “fra-terna”5, e soprattutto dal grande poeta dilingua persiana Nâser-e Khosrow (1004-

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2 Su tutti questi problemi si può vedere Zarcone 1993. 3 Si vedano, tra il molto che c’è, Pourjvadi e Lambton Wilson 1978.4 Zarcone, cit., 208.5 Aperta dopo il 1899, chiusa per un anno nel 1908, riaperta nel ‘19 e rimasta in vita fino al1979. Si tenga presente in proposito che il khomeinismo, responsabile di quella chiusura come ditante altre nel panorama religioso iraniano, è stato anche, in primo luogo, l’affossatore del sistemasciita duodecimano in voga, cioè quello della maggior parte dei persiani, in nome di nuovi valoriteistico-populistici di scarso spessore oggettivamente religioso. Tale chiusura ha comportato alcontempo la dispersione dell’archivio dell’associazione, a eccezione di pochi frammenti litografatia inizio secolo, fra cui quello contenente il nostro testo.

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prima del 1077). Da Nâser-e Khosrow Za-hiro ‘d-Dowle (1864-1924) riprende unanota qasida6 (una “composi-zione poetica mirata”) nellaquale l’antico autore rivelacome la sua sete di veritàsia stata placata, dopo infi-nite ricerche, nell’Egitto deiFatimidi, dinastia “eretica”,per l’appunto ismailita.

“Trascorsi che furondall’egira milleduecento eottant’anni [=1864] mi de-pose mia madre su questocentro fangoso del cosmo,essere che inconscio cresceva, vegetalesgorgato da negra terra e da acqua stil-lante. E da vegetale poi giunsi allo stadio dibruto, e per un certo tempo rimasi qual èstorno implume. Ed ecco che al quarto sta-dio fu in me traccia d’uomo allorché neltorbido corpo penetrò la ragione. Or-quando, oltre i milletrecento, per sedicivolte la luna, quell’occhio di luce nel nerovolto dubbioso del cielo, ebbe percorso ilsuo anno [=1899, cioè il trentacinquesimoanno di vita dell’Autore], l’anima mia ra-zionale cominciò a ricercare la sapienza.L’ordine del firmamento e il volgere deigiorni e i tre regni della natura già avevostudiato, ascoltando e leggendo. Ma mi sco-persi migliore degli altri e mi dissi “eppuredeve esserci uno migliore di tutti. Uno chesia come fenice fra gli uccelli e come cam-mello fra gli animali e come palma fra lepiante e come rubino fra i gioielli e come il

Corano fra i libri e come la Ka’ba fra le casee come il cuore nel corpo e come il sole fra

gli astri”. E tormentai dipensiero quell’anima miadolorante, e cominciò a in-terrogare, quell’anima miapensatrice. Una guida, cer-cavo. Ma quando il come e ilperché pretendevo, e solideprove, le Tre donne che pur ave-vano ucciso l’Eva del dubbio sirivelarono tutte impotenti a ri-solvere il mio smarrimento, e ilflauto vano d’incanti dell’uccel-latore non ebbe, nel mio caso,magia. E i giudici dotti del

mondo mi parvero neri, inani custodi di verginereclusa. Pur avevo letto nel Corano il ver-setto del Giuramento, laddove Iddio diceche la Sua Mano è sopra le loro, le manidegli uomini che sotto l’albero prestaronoil giuramento. E mi chiesi “dov’è ora quel-l’albero, dov’è quella mano, dov’è la Su-blime Assemblea?”. Risposero: “quaggiùnon restò quella Mano, né l’albero, e quel-l’assemblea s’è dispersa e stanno, gli Amicinel cielo”. Io dissi: “ma dal Corano è benchiaro che Muhammad è nuncio e ammo-nitore e lampada e luce e che, se il miscre-dente s’adopera a spegnere quella lampadacol soffio della sua bocca, Iddio la riac-cende. Com’è possibile che nessuno sia ri-masto di loro, quasi fosse la promessa delSovrano una falsa promessa? A quale manoci affideremo? Dove presteremo a Dio giu-ramento? Che colpa abbiamo commesso senon siamo nati in quel tempo? Perché

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6 Per questi importanti versi in traduzione italiana si veda Bausani, 1959: 199-204.

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siamo privi di profeta e afflitti?” E mi levaida dov’ero e presi a viaggiare e più non mirestava ricordo della casa, del giardino edelle familiari visioni. Ea persiani e arabi, a tur-chi e sindhi e greci edebrei tutti quanti, e a fi-losofi e manichei e sabeie fatalisti chiesi quel chemi urgeva, innumere-voli furono le mie do-mande. E così, di città incittà, vagavo chiedendo,cercando vagavo ed er-ravo dal mare alla terra,e mi dicevano: “l’og-getto della legge di Dionon si discute colla ra-gione, ché con la spada divenne l’Islam si-gnore del mondo”. Ed io: “perché lapreghiera non è obbligatoria ai bambini eai deboli se nelle cose di Dio non vale ra-gione?” Non accettai di conformarmi al giàdetto e non nascosi argomenti, perché larealtà non è tradizione. Ma quando Diovuole aprire la porta della misericordia, ildifficile diviene facile, e il facile difficileassai. Così, un giorno, giunsi alle porte diuna città cui gli astri del firmamento eranoschiavi e soggiogati gli orizzonti, che dasorgenti di acqua e di fuoco traevano il lorocolore. Una città tutta giardini e di frutti edi fiori, tutta piramidi adorne e lucenti, ela terra fitta d’alberi d’argento con aureofogliame; le sue campane incrostate digemme come broccato, l’acqua sua mielepurissimo come il fiume del Paradiso. Unacittà le cui dimore son solo dimore di gra-zia, un giardino che ha come pino la ra-

gione. Una città nella quale i sapienti ve-stono raso di misericordia non tessuto damaschio, non tessuto da femmina. Una

città dove disse a me la ra-gione: “chiedi qui quel chet’è di bisogno e oltre nonpassare”. Andai dal custodee gli dissi di me. Mi rispose:“non t’attristare: la tua mi-niera sarà ricolma di gemme,in questa terra dello spiritosta l’oceano immenso, pre-ziosissime perle e purissimaacqua; è questa la sfera su-perna, ripiena di stelle, anzipiù, un paradiso ricolmod’effigi di grazia. Ma bada

bene, ché entro queste sacre so-glie la vendetta è sconosciuta, e se un uomo cadel’amore lo riconduce ai suoi doveri. Ed eccola, al-lora, la mano amica che chiedi, che in gioia e inletizia conduce a una terra migliore. Fra questesacre mura si amano tutti, non si tradisce nes-suno, si perdona il nemico. E uomo non è chidi tale insegnamento non s’allieta. Udiiquesto e pensai che fosse l’Angelo del Pa-radiso e gli dissi: “l’anima è debole e in-ferma, non t’inganni la sanità del miocorpo e il suo roseo colore”. Rispose: “iosono il medico qui, del Profeta il pensiero,dei magi il sacerdote, a me puoi parlar deltuo male”. Ed io gli chiesi del primo e del-l’ultimo, dell’ordine delle cose, della forma,del predestinante, del destinato e del de-stino. “Io so, dicevo, che i due son la stessacosa, ma come è possibile precedenza del-l’uno sull’altro? Dell’opera dimmi di tal mo-vimento, e del giorno e della notte e delpovero che si fa ricco e della tenebra che si

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fa luce. E dei profeti, e del contrasto fra lecose e del motivo della proibizione del san-gue”. D’accostare l’orecchio al suo labbromi chiese, e ne sgor-gava la semplice echiara riposta realtàdel segreto. “Ognipreda che cerchi è nelventre, mi disse, diquest’onagro [fara’]che nell’andare è ine-sausto e veloce, disnello eletto pensieroinvasato [farâ-mas].” Ecosì ebbi a sopire ogniimmagine altra incasa d’oblio [farâmush].

Egitto dunque, ma un Egitto fatimidesegnato da inconfondibili tratti mozartiani,che abbiamo qui segnalato con il corsivo7.

Dati i numerosi viaggi, e l’esilio dell’isfaha-nese maestro dell’autore, Safi ‘Ali Shâh, èda ritenere che la fonte di cognizione del

Flauto Magico si sia aperta aZahiro ‘d-Dowle dal primo,a seguito di echeggiamenticostantinopolitani del Cen-tenario (1891). Musica eteatro, naturalmente so-prattutto all’italiana, eranodivenuti di moda anchenell’Impero Ottomano apartire dall’epoca di SelimIII (1789-1807), i cui amba-sciatori in Europa, che ma-gari non si accorgevano, in

Francia, di una rivoluzione, sidilettavano invece molto di cose più orec-chiabili e di assonanze. Ma certamente leassonanze di Zahiro ‘d-Dowle sono benaltra cosa.

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7 Ovvero le parole di Mozart e del librettista Emanuel Schikaneder.

RRIIFFEERRIIMMEENNTTII BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIICCII

Bausani, A. (1959) Persia religiosa, Milano.Levi Della Vida, G. (2004) Un ebreo tra i credenti, in Fantasmi ritrovati, nuova edizione a cura di M.G.

Amadasi Guzzo e F. Tessitore, Napoli.Pourjavadi e P. Lambton Wilson, (1978) Kings of Love. The Poetry and History of Ni'matullāhī Sufi Order,

Tehran.Zarcone, Th. (1993) Mystiques, Philosophes et Franc-maçons en Islam, Paris (Bibliothèque de l’Institut

Français d’Études Anatoliennes d’Istanbul, XXXVIII).

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IIll ffaannttaassmmaa ddeell rree SSaalloommoonnee nnee LLee mmiillllee ee uunnaa nnoottttee

di ÉÉrriicc PPhhaalliippppoouu(Université Libre de Bruxelles)

In this article the Author proposes an esoteric interpretation of the famous collectionof Oriental tales One Thousand and One Nights. The goal of the paper is todemonstrate that the first and the last tale have a clear esoteric character linked tothe figure of King Salomon.

SSSSalomone nel mondo musulmanonon è semplicemente un nome.Intorno a lui e a alla mitologia che

lo circonda, vi erano, fino a un’epoca re-cente, pratiche rituali legate a fasi calen-dariali importanti e svolte presso formearchitettoniche specifiche. Questa base spi-rituale iscritta sulla pietra del Tempio – iltempio di Salomone – risale alle originistesse dell’Islam. Nel 638, sei anni dopo lamorte del Profeta Muhammad, è al secondocaliffo, ‘Umar, che la Comunità musulmanadeve la decisione di costruire una moscheaal di fuori dei territori in cui gli Arabi sole-vano migrare. Le rovine del tempio di Sa-lomone furono scelte come il luogo piùsimbolico e, al contempo, per realizzare:“una tradizione corrente presso i primimusulmani: la ‘nazione di Muhammad co-struirà il tempio (haykal) di Gerusa-

lemme’”1. Un’immensa speranza escatolo-gica attraversò le comunità: ebrei e musul-mani cominciarono a guardare alleconquiste islamiche come a un ponte get-tato verso un nuovo millennio.

Il simbolismo che suscitò questo en-tusiasmo doveva molto all’architetturadella moschea di ‘Umar, chiamata giusta-mente “Cupola della roccia” per la suaforma sferica che ricopriva una pietranuda. Innalzata in un luogo che non eraaltro che rovine e desolazione, essa sem-bra celebrare un nuovo ciclo di vita e diluce, grazie ai suoi mosaici verdi e oro,che si pongono quasi come riflessi del Pa-radiso. Qualche secolo dopo anche i co-struttori di cattedrali, venuti dalle terrefranche, accostarono questo tentativo diperennità e di filiazione alla figura eroicadi Salomone:

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1 Hamblin & Seely, 2007: 145.

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2 Tristan, 2007: 7.3 Massignon, 1970: 402.

Quelli fra loro che, al momento delle crociate,erano andati a Gerusalemme, avevano credutodi vedere il Tempio. Era la moschea di ‘Umar, inrealtà, la Cupola dellaRoccia, ma che cosaimportava a spiritiincaricati di co-struire un’abitazioneper l’invisibile? Perloro il tempio di Salo-mone era sempre inpiedi2.

Che il tempio diSalomone fossesempre in piedi, ma occultato, sembrò es-sere l’assioma metafisico che conferì, nel-l’Islam, tutto il senso all’episodio del Mir’âj.Si tratta dell’ascensione notturna del Pro-feta Muhammad lungo, recita la tradizione,lo stesso axis mundi che aveva percorso Gia-cobbe prima di lui. La sola differenza fraloro è il mezzo di locomozione psico-pompa: il primo utilizzò in sogno una scala,mentre il secondo salì in cielo in groppa auna cavalcatura alata che gli prestò l’Ar-cangelo Gabriele. L’uno e l’altro traggonoin egual modo la loro forza motrice, la lorotrascendenza, dal luogo dal quale si ele-vano: la roccia che servì a costruire quel fa-moso tempio. Al secondo, Muhammad, fuconcesso, una volta giunto al settimo cielo,ove incontrò Abramo – “l’Amico intimo” diAllâh – di rilevare virtualmente questotempio sotto forma della legge che gli fu ri-velata. Questa legge, che rinnovava il patto

abramitico e che sognava una nuova etàdell’oro salomonica, è quella che, sotto ilsuo aspetto essoterico, conosciamo come

Islâm, ma la cui dimen-sione esoterica fu moltochiara agli occhi di LouisMassignon, per il quale ilrito della circoncisionene rappresentava il puntonodale:

La circoncisione non èuna prescrizione coranica,ma è un patto abramitico,

legato a una retrospezionemisteriosa che ebbe il Profeta della sua “genea-logia” spirituale abramitica la notte del Mir’âj(prima di ricevere la Legge).

Il dotto orientalista prosegue dicendoche il “circoncisore” è per eccellenza coluiche “limita”, e questa funzione simbolicafu svolta nei primordi dell’Islam dal bar-biere di origini iraniane Salmân, il famosopellegrino spirituale che Muhammadadottò. Riguardo a questo Salmân Fârsîprecisa:

In quanto circoncisore e barbiere, egli si cin-geva di un cinturone porta-lama (tîghband).Ora, l’iniziazione corporativa classica è unoshadd, un “cinturamento” dell’iniziando (cfr. ilkustî mazdeo)3.

Ricordiamo in due parole che SalmânFârsî era stato iniziato come mazdeo prima

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4 Corbin, 1981: 247-8.5 Dixit Jean-Baptiste Tavernier, che passò per l’ultima volta il 7 marzo 1665 (senza data: 305).L’attribuzione della paternità di questo tipo di architettura a Salomone non si regge solo sulla pa-vimentazione liscia che evoca il Corano e che ritroviamo a Persepoli. Ricordiamo che se l’Europamedievale riteneva Salomone un orafo di talento, altamente specializzato nella tecnica d’incro-stazione dei metalli, essa faceva allusione, in questo caso, alla tradizione iraniana di rivestire le co-lonne dei palazzi preislamici e, successivamente, dei minareti. Louis Massignon riteneva, da partesua, le corporazioni di orafi interamente composte, all’alba dell’Islam, da artigiani iraniani reclu-tati attorno ai palazzi sasanidi di Ctesifonte, metropoli conquistata nel 636 e ribattezzata Madaïn(non lontano da Baghdad). Inoltre, se si dice, nella tradizione zoroastriana d’Iran, che Persepoli è

di appartenere a correnti cristiane gnosti-che delle quali egli trovò un prolunga-mento nell’Islam attraverso i suoi riti dipurificazione. Questo percorso trascen-dentale gli valse la re-putazione di padrefondatore delle inizia-zioni operative (di me-stiere) in ambitoislamico, di cui Massi-gnon portava una te-stimonianza viventenel pellegrinaggio allasua tomba dove si ri-trovano principal-mente barbieri echirurghi, nonché piicredenti fedeli a Salmân(oltre alla corrispondenza eufonica che ilsuo nome offre con Salomone/Sulaymân)come figura epifanica dell’angelo Gabriele,l’Iniziatore o Guida spirituale par excellence.

Gabriele fa parte dei cinque Angeli chesostengono il Trono (‘arsh) che Muhammadpotè contemplare una volta ch’ebbe rag-giunto il settimo cielo. Il trono del re Salo-mone rappresenta ciò che Henry Corbin haqualificato come “Trono del cosmo visi-bile”4, il simbolo architettonico più adatto

a intrattenere un’analogia sensibile con ilTrono del Misericordioso, il suo archetipopiù sottile. La geografia sacra dell’Islam sifece un punto d’onore di coltivare questa

analogia. Si parlaanche di Takht-i So-leymân, la denomina-zione iraniana deltrono di Salomoneche serve a designare,dopo l’islamizzazionedel paese, le rovinedel palazzo di Perse-poli. Questo luogo èchiamato anche “Qua-ranta colonne” (Che-hel minâr, abbreviato

in Chelminâr) attribuen-done la paternità a Salomone, verosimil-mente a causa della maestosità di tantoedificio:

Dodici colonne ancora in piedi formano unasorta di quadrato5.

Anche altre vestigia dell’Iran anticosono state investite di riferimenti a Salo-mone, aprendosi talvolta a rituali, dato ildispositivo simbolico che essi offrono.

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È il caso di un monumento dell’anticaPerside – oggi il Fârs – inerpicato su unacollina a dodici chilo-metri a nord di Shi-râz, noto un tempocol nome di “luogo dimartirio della madre(?) di Salomone”(Mashhad-i mâdar-iSolaymân). All’epocain cui i musulmaniiraniani designavanoin tal modo questomausoleo, un viag-giatore tedesco, chevi passò il 24 dicem-bre 1637, ci riferisceche lo custodiscono:

Come il sepolcro della madre del re Salo-mone, ma non è che una leggenda. Ciò nono-stante la maniera in cui la tomba è statacostruita prova che vi è sepolto qualcuno d’im-portante. Essa è fatta di grosse pietre di taglio ecircondata di rotonde colonne antiche in ro-vina6.

Storici hanno stabilito che questa è latomba di Ciro il Grande. La sua associazionecon la mitologia salomonica si dovettesenza dubbio alla forma a scacchiera per laquale ogni parte del quadrato è dotata di

un’apertura, ed è per questo che, dai tempidi Mandelslo (il nostro viaggiatore tede-

sco), vi ci si recava in pelle-grinaggio il giorno diBayrâm, la festa del sacrifi-cio che i musulmani cele-brano in commemorazionedel sacrificio di Abramo.Qualche dato permette didiscernere una certa coe-renza nelle associazioni traGabriele-Abramo-Salmân-Soleymân. Sullo sfondo diquesta coerenza si scorgeanche un sistema mistago-gico che si basa sull’alter-nanza morte-resurrezione,

in cui la morte è rappresen-tata dal quadrato di una lapide, e la rina-scita dalle colonne sferiche.

I riti musulmani popolari dedicati a taliluoghi sono stati sradicati dall’ortodossiaislamica dei tempi moderni, detta “rifor-mista” o “integralista” dall’Europa, a se-conda ch’essa chiami in causa o menol’applicazione della sua razionalità. Le or-ganizzazioni iniziatiche, al contempo, sidiedero la missione di conservare la lorocatena vivente, ed è legittimo considerareche, innanzi all’impossibilità che gli fu im-posta di trasmettere regolarmente la loroeredità in un dato momento storico del

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stata incendiata da Alessandro; questa leggenda risulta un’amalgama con altri centri spirituali le-gati a Salomone. Una leggenda ben conosciuta ritiene parimenti che le otto meraviglie di Salo-mone a Babilonia furono distrutte da Alessandro, nonostante il diverso parere del suo maestroAristotele. A quel punto una febbre mortale l’avrebbe punito per il suo crimine. 6 Valence, 2008: 46.

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mondo musulmano, queste organizzazioni,piuttosto che morire in silenzio, abbianotentato di trasferire i loro con-tenuti dottrinali verso unsupporto che non avrebbeporto il fianco alla critica enon sarebbe stato giudicatoanodino. Sebbene l’antropo-logia delle religioni abbiamesso in evidenza questofenomeno di transfert, pochine tengono conto nei lorolavori, per quanto si operi suun’epoca ricca di “rottureepistemologiche” (l’espres-sione è di Michel Foucault).

Basta rendersi conto della frattura cherappresentò la dissoluzione delle confra-ternite religiose (gilde e fraternità) nel1547, allorché Enrico VIII ruppe i ponti trala Chiesa anglicana e Roma. Come perpe-tuare i riti che circondavano i santi patroniquando ogni manifestazione ostentatoriapoteva essere qualificata come “papista”?Come continuare a trasmettere le leggendedi fondazione e il rispetto delle regole tra-smesse fino ad allora da padre in figlio inseno a queste gilde? Una risposta originaleè stata data dall’antropologo Claude Gai-gnebet: trasferire questi misteri sotto formadi finzione artatamente esagerata. Questofu anche il procedimento di Rabelais, cheera stato iniziato all’ordine dei “costruttoribenedettini” prima che Dolet editasse nel1542 i primi due libri del suo Pantagruel incui appare il famoso Gargantua.

Gargantua, e notiamo la G iniziale delnome – scrive Gaignebet, aggiungendo che

i suoi genitori si chiamanoGrandgousier e Garga-melle – il cui senso ètanto grande per un fra-massone in quanto Gar-gantua sembra attesoquanto un Messia con iltitolo di “monarca uni-versale Gallico”. No-tiamo anche, aggiunge,che nacque il 3 febbraio,il giorno di San Biagio,

sotto la protezione delquale si pongono i tagliatori di pietra (pro-babilmente per assonanza analogica traBlaise e to blaze, ‘incidere una pietra’). Inol-tre alcune rappresentazioni ritraggonoquesto santo mentre porta la mano al collo,cosa che lo ha reso il santo protettore deimal di gola, e da cui Gargantua ha tratto ilsuo nome. Ricordiamo inoltre che, oltrealla pratica del G nella Stella Fiammeg-giante, il framassone che entra nell’ordineadotta il segno dell’apprendista, portandogiustamente la mano alla gola. Queste coin-cidenze, e altre ancora, indussero ClaudeGaignebert a pensare che: La ricezione dei“Compagni di Bottiglia” presso Notre-Dame dela Quinte è un testo di Rabelais indubbiamenteda confratello7.

Spingendo ancora oltre la sua lettura,Gaignebet conclude:

La quasi totalità dell’opera di Rabelais ci ap-

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7 Gaignebet, 1986: I, 97.

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8 Serres, 2008: 120-1.

pare, dunque, come un commentario dei nomidelle due colonne erette da Hiram, “figlio dellaVedova”, nel portale del Tempio di Gerusa-lemme. Che si sia potuto, da questa data, pen-sare a commentare alungo la forma, lastruttura, l’origine, lamateria, le dimensioni,l’ornato, la posizione diqueste due colonne ci èattestato da un trat-tato inedito di Postelintitolato Boaz etIakin… (I, 427).

Ora ci resta da sapere se uno stesso tipodi speculazione e uno stesso processo ditransfert abbia potuto aver luogo anche inambito islamico allorché qualche pertur-bazione storica costrinse la gnosi salomo-nica ad adottare un nuovo habitus e, in casoaffermativo, sarebbe forse stato un habitusforse tanto canzonatorio quanto la farsache ci recita Gargantua?

Un libro di questo genere, con la pre-senza di personaggi regali in racconti confrequenti cadute scatologiche, se non li-bertine, e tanto insolito nella giustapposi-zione di materiali mitologici e folclorici chesi mescolano con l’esoterismo, ma semprea uso sia del popolo sia delle confraternite,esiste. Intessuto di gesti simbolici più chedi racconti letterari, si intitola Le mille e unanotte. Per essere sicuri che non stiamo im-boccando una strada sbagliata indivi-duando ne Le mille e una notte il pendantorientale di Pantagruel, conviene verificare

se un fattore tanto tranquillizzante comel’interdizione alle vecchie gilde di sfilare inparata e di instaurare un culto etnico inrotta con l’unità religiosa, ha effettiva-

mente compartecipatoalla compilazione diquesta raccolta di rac-conti nello spirito di unesoterismo rinnovato.

L’ultimo corpo poli-tico organizzato del-l’Islam fu il califfatoabbaside di Baghdad.Esso cadde sotto lapressione dei mongoli

nel 656 dell’egira (1258 d.C.) i quali, dal1227, anno della morte di Gengis Khan,erano già diventati padroni dell’Iran. La vo-lontà di forgiare un Impero ispirava pressoquesti nomadi delle steppe persino la stra-tegia di conquista: far precedere la loro pe-sante cavalleria dall’insieme dei lorouomini validi, raggruppati in maniera dacolpire in massa il nemico. Quindi il reclu-tamento sistematico di tutti i “giovani uo-mini” – e “tutti i figli per la guerra!” –, èl’atto fondante di ciò che il filosofo MichelSarres chiama “la nascita del terrorismo”.

In Europa quest’atto risale alla “Rivolu-zione francese che liberò in parte la propa-gazione della violenza” attraverso “unreclutamento, spesso gratuito, a volte vo-lontario”8. Nel Medio Oriente, la guerra diconquista non è intrinseca all’Islam, con-trariamente a quanto molti sostengono. Lostorico militare Gérard Chaliand, corrobo-rando ciò che abbiamo detto all’inizio a

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proposito dell’escatologia pacifica che sog-giacque all’erezione della moschea di‘Umâr a Gerusalemme, scrive: L’intenzioneprima di ‘Umâr ibn al-Khattâb non era quella ditentare la conquista del-l’Iran9. Mentre la conqui-sta mongola dell’Irantestimonia l’uso politicodella violenza dellemasse per terrorizzarnealtre, quando città comeBalkh e Merv furono presee massacrate. La stessasorte fu riservata a Nisha-pur. A Herat, dove la guar-nigione resiste, gli abitanti, avvertiti della sorteche li attende, aprono le porte della città. La vitaè loro risparmiata ma la guarnigione è massa-crata. L’uso calcolato del terrore permette di evi-tare lunghi assedi, costosi in uomini (232).

Nella seconda metà del XIII secolo,quando Baghdad cadde, si poteva sfuggireal terrore mongolo e alla sua suddivisionesistematica dei territori? La letteraturapersiana è eloquente su questo imperiali-smo che sarebbe anacronistico paragonarea una pura barbarie, come invece fannomolti storici. Si trattava piuttosto di un ter-rore organizzato di cui possiamo compren-dere la portata leggendo un cronachista deltempo, ‘Alâ’ ed-dîn Jovaynî, che parla siadelle piramidi di teste umane dopo il sac-cheggio di una città, sia dell’istituzione daparte dei Khan mongoli di un sistema diposta a staffetta per “controllare lo spazioe le popolazioni”10. Questa messa in rete del

mondo musulmano – dato che i mongolid’Iran e d’Iraq si allearono all’Impero ma-melucco (1250-1516) – contribuì allo scam-bio di beni materiali e a tessere un asse

centrasiatico, così come afavorire gli scambi cultu-rali, ma diffondendo solomerci e conoscenze auto-rizzate. In che modosfuggire a questo assog-gettamentoin quel Cairoche, per la sua posizionegeostrategica, si tenne aimargini di questa nuovacostruzione e che potè re-

sistere a lungo all’assalto deimongoli grazie alla sua antica rete di portidi commercio e alla solida reputazione dicittà intellettuale? Scrivendo racconti, ungenere anodino e ameno, il più atto a es-sere propagato attraverso nuove voci senzala possibilità di fermarlo con l’autorità,come accadrebbe con un libro.

E fu proprio al Cairo, nel XIII sec., che fumesso per iscritto qualche racconto de Lemille e una notte, aggiunto a racconti dellostesso tipo, il Kitâb al-hikâyât al-’ajîba wa-l-akhbâr “Libro degli aneddoti meravigliosi edei racconti insoliti”, e insieme a un altrotipo di oralità allora denigrata, cioè “la let-teratura agiografica popolare relativa alviaggio mistico del Profeta”11. Queste dueforme letterarie rimandano, a quanto pare,allo stesso esoterismo che bisognava difen-dere di fronte alla frenesia mongola dispazzarlo via. Tale frenesia, stando a Jean-

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9 Chaliand, 2005: 185.10 Citato da Gazagnadou, 2008: 70.11 Miquel & Bencheikh, 2005: I, XXXIV, nota 2.

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Paul Roux, proseguì fino alla presa da partedi Shâh Ismâ’îl nel 1508, attraverso unadelle prime manifestazioni della sua vitto-ria: profanare la tomba del fondatore del-l’ordine sufi della Qâdarîyya, ‘Abd el-Qâderal-Jîlânî (1078-1166). Di-sprezzo di uno sciita perun hanbalita? Sotto lacopertura di una posi-zione religiosa ipocrita-mente avanzata innanzi,Jean-Paul Roux intra-vede una vera e propriarivalità etnica. A suo av-viso, lo sciismo di ShâhIsmâ’îl non sarebbe statoaltro che un “rifugio”, un“mezzo per rompere totalmente con il pas-sato” e per preservare una “islamizzazionetotale”12. Si deve leggere il gesto di ShâhIsmâ’îl anche come la volontà, distrug-gendo la struttura ossosa di un santo fon-datore, di prevenire ogni possibilità dirisurrezione presso i sufi, avvertiti comepossibili rivali degli sciamani. In ciò ShâhIsmâ’îl testimonia la sua appartenenza almondo altaico in cui si ritiene che lo sche-letro sia il supporto dell’anima.

Di fronte a questa frenesia di spezzare ilsupporto spirituale delle confraternite mi-stiche, di spazzare via le tombe dei santifondatori, di rendere nulli i pellegrinaggiche vi si perpetuavano alla ricerca della be-nedizione del maestro, una frenesia di unaltro tipo s’impadronì del Cairo. Lo scribaSuyûtî (849 dell’egira/1445 d.C. – 911 del-l’egira/1505 d.C.) riuscì nell’impresa di

mettere per iscritto in quarantatrè anni i561 racconti del corpus delle Notti, commi-ste ad anacronismi di ordine materialecome il caffè, il tabacco, le armi da fuoco,ma anche di ordine fantastico, come le fan-

ciulle più belle gettate siste-maticamente nei giacigli deire, e le teste dei loro uomini,tagliate, appena essi si op-ponevano ai desideri del de-spota (a ben vedere duepratiche ascrivibili a GengisKhan). Può essere allora chei racconti siano stati caricatidi un esoterismo che invecemanca ove ce lo aspette-

remmo per solito: riti e mitierano stati, nel frattempo, più o meno con-fiscati, vale a dire aboliti.

Questa lettura inedita de Le mille e unanotte è stata inaugurata nel 1994 da un rab-bino-filosofo che si è soffermato sul-l’aspetto esoterico del titolo di questo libroin arabo: Alf layla-wa-layla. Ricordandol’identità consustanziale che la Kabbalàpone tra la lettera e il numero, egli ag-giunge che ciò che i musulmani praticanosotto il nome di “scienza delle lettere” (‘ilmul-hurûf), viene usato anche nel tipo del-l’abjad per cifrare i documenti e, più in par-ticolare, i titoli delle opere. Così in arabo laprima lettera dell’alfabeto, alif, chiamata inebraico alf, termine che significa anche“mille” (come pure in arabo), deriva dallaradice a.l.f che significa: “ammansire, edu-care, insegnare” (e in arabo: “divenire fa-miliare col tal e tal soggetto, approfondire

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12 Roux, 1973: 13.

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una questione, compilare, fonti, scrivere”).Quindi, “queste mille notti, o lezioni, ser-virebbero a passare dal sensibile all’intel-legibile, a poterlo nominare,nello stesso modo in cui,per poter dire a, si scrivealf, si passa per alf layla‘mille notti’ per poterlenominare”13. Tanto piùche, alla fine di questenotti, il re, guarito dal suodispotismo attraverso iracconti faceti di Shera-zad, domanda ai suoiscribi di raccoglierli “dal-l’inizio alla fine” (ovvero,dall’alfa all’omega). Ci sonovoluti, si dice, “trenta volumi in lettered’oro, né uno di più né uno di meno”. Dun-que, “insegnare” si esprime in ebraico,come in arabo, con la radice (l.m.dh) che hadato vita, in arabo, a tilmîdh “colui che ap-prende, apprendista”, così come in ebraicoa talmud “la tradizione dei saggi” attraverso“una trasmissione che si effettua oral-mente” e che costituisce la “Legge orale”da imparare14. La lettera iniziale di questaradice, la lâm, che occorre ripetutamentenel titolo arabo de Le mille e una notte, ha ilvalore numerico di trenta. Ne possiamoquindi dedurre che un deposito esotericosigilli questo libro dall’inizio alla fine?

Per verificare quest’ipotesi bisogne-rebbe dimostrare che almeno la prima el’ultima delle mille notti presentano rac-conti iniziatici che pongano al cuore del

loro filo rosso narrativo Salomone, il suotrono, la sua bacchetta e, infine, tutto il si-stema mistagogico divenuto, per ragioni

storiche, più difficile da trasmet-tersi attraverso riti. Il raccontocornice, per incominciare,mette in scena il re sasanideSharyâr reso follemente dispo-tico in seguito da un doppiotrauma.

All’inizio, rientrando im-provvidamente dalla caccia,Sharyâr si poté rendere diret-tamente conto che quelli cheriteneva essere gli eunuchidella sua guardia (così i turchi

erano entrati, come giannizzeri,nell’apparato dello stato), erano in realtàpronti all’uso come possono esserlo solodei solidi fusti (non si dice forse “fortecome un turco”?). Il re potè bere il calicedell’onta fino alla feccia, vedendo quei for-zuti amoreggiare la regina sotto i suoi occhinei giardini reali, dove cadde da un alberocome un frutto maturo che la regina nonebbe da cogliere per mangiarne a volontà.Tanto confuso quanto cornuto, il primopensiero di Sharyâr fu di andarsene lon-tano e di abbandonare i beni di questomondo. Lasciò galoppare il suo destrierofinché non fu bloccato dal mare da cuistava emergendo un orco.

Ecco dunque il nostro Sharyâr arrampi-carsi il più velocemente possibile sul primoalbero, sperando che il fogliame lo na-sconda. Ma l’orco si siede proprio sotto

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13 Ouaknim, 2008: 39.14 Jaffé, 2007: 13.

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quell’albero. Lì fa uscire da un piccolo co-fanetto che tiene in mano la più affasci-nante creatura mai vista di sessofemminile, cui il div fa pren-dere una boccata d’aria mentrelui dorme. La donna, accorgen-dosi della presenza di Sharyâr,lo costringe, con la minaccia disvegliare l’orco, a portarla sulcampo e di abusare di lei. Lui lofa e subito dopo si volge a bri-glie sciolte al suo castello. Spe-rimentato a sue spese che lemaniere forti sono la via piùbreve per ottenere soddisfa-zione, Sharyâr segnò il proprioritorno con le più violente rappresaglie. Leteste caddero: dalla regina ai sedicenti eu-nuchi, passando per le favorite e i loro coc-chi. Sharyâr, in vena di praticare la politicadel mongolo, continua a percorrere questavia. Decreta che, a partire da quel giorno, ilsuo popolo gli deve fornire, ogni notte, unavergine che un carnefice giustizierà all’albasuccessiva. Le cose non potevano andareavanti così se non a rischio di un inedito ge-nocidio, così la figlia maggiore del visir diSharyâr intervenne. Si chiamava Sherazade “aveva divorato molti libri: annali, vitedei re antichi, storie dei popoli passati,opere di medicina. Si dice che avesse riu-nito mille libri che parlavano di questi po-poli, dei re dell’antichità e dei loro poeti”15.Ella supplicò il padre di essere nel numerodelle vergini consegnate al sovrano dive-nuto uno scialacquatore di genitrici, e glidisse che aveva un modo per imbrigliarlo.

L’esoterismo della storia potrebbe sem-brare tirato per i capelli a chi non sia stato

avvertito del carattere cifrato diquesti testi. L’ipotesi storica haqui proposto che la redazione diquesti racconti, dall’apparenzainnocente, avrebbe avuto lafunzione di conservare e di tra-smettere miti accompagnantiriti che, per diversi motivi, nonpotevano più essere celebraticorrettamente. Tra i miti fon-datori, abbiamo rilevato lamancanza di spiegazione, testi-moniata dai viaggiatori occi-

dentali a partire dal XVII secolo,riguardo al pellegrinaggio annuale – poiscomparso – intorno al mausoleo innalzatoin gloria della “madre (?) di Salomone”.Ora, la spiegazione appare celata nel rac-conto che ho appena riassunto se, attra-verso un processo di accostamentoanalogico comune per i lettori e gli ascol-tatori del tempo, ci si curi di rompere l’ossoludico del racconto per coglierne il midollosostanziale di mito fondatore e di chiaved’insieme.

A ogni mito fondatore deve corrispon-dere un narratore mitico: nella letteraturaaraba è il caso di Kisa’î (del qual nome pos-siamo notare l’omofonia con il termineusato, in arabo, per “racconto”: qissah).Ecco il mito che riporta, invocando l’auto-rità di Ibrâhîm al-Râkis: c’era una volta unsovrano che imponeva ai suoi sudditi il do-vere di fornirgli a turno una delle loro fi-glie; il tempo di abusarne e, una settimana

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15 Miquel & Bencheikh, 2005: I, 12.

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16 Beylot, 2008: 39.

dopo, l’esecuzione. Riconosciamo il rac-conto cornice de Le mille e una notte, soloche qui si tratta di un re hi-myarita di nome Sharakhben Sharahîl, che aveva unministro chiamato Dhû-l-Sharh, ovvero “Il detentoredella Spiegazione” o “Guar-diano del Senso”. Un talenome predestinava il visirall’avventura che segue:partito per la caccia, sismarrì nella foresta ove unapoesia incantatrice gli fececomprendere che aveva rag-giunto la valle dei jinn. I jinnsono divinità ctonie che Salomone, se-condo la tradizione diffusa in ambito isla-mico, obbligò a lavorare per séall’edificazione del tempio. Dhû-l-Sharhebbe fortuna: la figlia del re dei jinn gli ap-parve, si piacquero, e il re acconsentì almatrimonio. La figlia del re dei jinn partorìuna bambina ancora più bella della madree fu chiamata la “Venere dello Yemen”.Morta la madre, il padre la riportò nelregno del quale egli era visir.

In questo regno Sharakh ben Sharahîlproseguiva tranquillamente nel suo olo-causto settimanale. La “Venere delloYemen” s’iscrisse alla lista di attesa e,quando venne il suo turno, fece ubriacare ilre e gli tagliò la testa per liberare il popoloda tale flagello. Fu quindi chiamata a re-gnare al suo posto. Quando venne per leil’ora di un vero matrimonio, la “Veneredello Yemen”, detta anche Bilqîs, non si

sposò se non con Salomone, a quanto ri-porta l’autore yemenita Wahb ben Munab-

bih (654/5-730). Questo stesso storicoci fa sapere ch’ella morì dopo setteanni (120 secondo al-Mas’ûdî) eche “Salomone la seppellì sotto lemura di Palmira. Secondo la cre-denza ebraica questa città, chia-mata Tadmor o Tamar nella Bibbia,era stata costruita da Salomone.Loro figlio, Rahab’am (Roboam),regnò un anno sullo Yemen”16.

Torniamo ora al nostro mitoiranico. Nessun testo ci dice nullaquanto alla madre di Salomone, il

cui padre, ben noto, è il re Davide.Ci si può dunque interrogare se nel sin-tagma nominale mâdar-i Solaymân (“lamadre (?) di Salomone”) dato come nomedel luogo di quel culto estinto a nord di Shî-râz. Forse non si debba leggere il rapportofra determinato e determinante alla ma-niera di un rebus, vale a dire: “la madre cheSalomone (ingravidò)”, in altri termini suamoglie Bilqîs. I luoghi iniziatici, per tenersial riparo da profani e da indiscreti, non esi-tano a porsi come enigmi, tanto più checonfessare apertamente un culto alla Ve-nere o alla Regina di Saba avrebbe com-portato una taccia d’eresia. Certo, questalocalità a nord di Shîrâz non è Palmira, mapuò essere considerata un centro seconda-rio, come ne esistono altri nella geografiasacra dei pellegrinaggi. Costretti in seguitoa un esilio interiore e al letargo dello svol-gimento formale del suo culto, il personag-gio mitico nato da una tradizione orale

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intorno alla Regina di Saba, divenne, in am-bito islamico, una creatura di carta, Shera-zad. D’altra parte, alla fine delle Notti, ildespota misogino, sotto l’in-fluenza di quest’ultima dopoi suoi straripamenti infe-condi, la onora dicendo:“Dio mi ha dato da lei treeredi maschi”. Ella è laMadre primordiale, la Gnosicreatrice.

Passiamo quindi alla mil-lesima notte e vediamo seanch’essa offra un’allusionecentrale alla mitologia delre Salomone. Nella mille-sima notte si narra un episo-dio, il penultimo di un ciclo che necomprende dodici, del racconto di “Ma-’arûf il ciabattino”. Questa millesima nottesolleva la contraddizione che c’è fra il suonome, Ma’arûf (il ricettacolo della sa-pienza), e la sua condizione poco onorevoledi ciabattino. Sappiamo da Massignon chei “fabbricanti di calzature femminili” eranovilipesi dalla “borghesia musulmana” allastessa stregua dei “conciatori”. Per quantofossero vilipesi, furono fra i più attivi neldotarsi di una “dottrina dell’onore artigia-nale”, la quale divenne dottrina di statosotto i Fatimidi del Cairo (969-1171) che fe-cero di Salmân l’Iniziatore par excellence17.Ci è detto che Ma’arûf esercita il suo umilemestiere “nella città del Cairo, la ben pro-tetta”18, sia dai profani che dai mongoli.

Nella millesima notte, Ma’arûf non è più

al Cairo. Nella cerniera fra la notte 990 e la991, un jinn l’ha trasportato “alla sommitàdi un’altra montagna”, non lontano dalle

“porte di una città” (III, 766) ovesi reca e della quale, nella mille-sima notte, “diventa re e assumeil potere”. Precedentemente neera stato fatto “primo visir”quindi “nuovo sultano” allamorte del re del quale avevapreso in moglie la figlia. Per go-dere pienamente del proprioregno non gli mancava chel’anello conservato da sua mo-glie e che, alla sua morte “ella sitolse dal dito e gli diede” infor-

mandolo: Bisogna custodirlo gelosa-mente, per timore ch’esso non sia fonte didiscordia per te e per il bambino (III, 803). Eccouno scenario tipicamente iniziatico: co-mincia con un’ascensione celeste sul temadel Mir’âj del Profeta, l’Archetipo dell’ini-ziato all’inizio della via, e termina con l’in-tronizzazione e la consegna dell’insegnaregale. Quest’anello ricorda senza meno Sa-lomone (di cui Ma’arûf qui è il rappresen-tante), il quale lo aveva avutodall’Arcangelo Gabriele (altra figura di “Ini-ziatore”).

Le avventure con l’anello non finisconoqui. Costituiscono l’essenza della notte1001, ove si compie l’ultima prova che Ma-’arûf doveva superare. La megera che avevaper moglie al Cairo era stata la causa delsuo viaggio aereo verso altre terre tantoella gli rendeva la vita insopportabile a

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17 Massignon, 1970: 393-5.18 Miquel & Bencheikh, 2006: III, 761.

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19 Tabari, 1980: I, 451-4.

forza di recriminazioni, di sarcasmo, e dicapricci. Quand’ecco che questa megera,una bella sera, si trova ella stessa traspor-tata nel suo letto. Così, la metà di cuiaveva voluto sbarazzarsi gli si in-colla alla pelle nello stesso mododell’anima mondana per chi abbiaintrapreso il cammino che con-duce alla realizzazione spirituale.Cosciente di questo fatto, Ma’rûf latollera al suo fianco (o meglio, indisparte) fintantoché ella si mostrapentita e cerca di soffocare le sueinvidie e i suoi sbalzi d’umore. Mala tentazione d’impadronirsi del-l’anello è troppo forte per lei.

Perché, dunque, questa strega se neesce in piena notte per andare da miopadre?, si domandò il giovane figlio diMa’rûf. Si tratta della domanda giusta. Ladomanda che sottolinea il legame, attra-verso il transfert matrigna-strega, con lastoria di Salomone, il quale si fece derubaredel suo anello da un dîv (jinn puramente ne-gativo) prima di ritrovarlo19. Il racconto ri-prende questo schema e lo sviluppa comese si trattasse di un rituale di sacrificio.L’anima mondana si è introdotta nella ca-mera regale ove non avrebbe mai dovutopenetrare. Non ha le qualità richieste e, inpiù, osa fare man bassa del sigillo. Non leresta che assumersi la responsabilità delproprio atto e di tutte le conseguenze.Messo all’esterno della stanza per sorve-gliarla, il giovane figlio di Ma’rûf, ovvero,su un piano superiore, il figlio di Salomone(si deve intendere come l’intelletto sulla

via del risveglio, il Compagno) “si alzò, asciabola sguainata” e le infligge la sua sortecon un colpo, prima di recuperare l’anello

ch’ella teneva in mano e diricevere i complimenti disuo padre (III, 807).

Così le Mille e unanotte, che erano iniziatenel sangue, nel sangue siconcludono. E come al-l’inizio si sparge in ma-niera arbitraria, peropera di un boia coman-dato da un potere vol-gare, finisce a un pianoiniziatico nel compi-mento di un omicidio sa-

crificale di un profano,ovvero l’ego, attraverso la spada ritualedell’iniziato, la cui funzione è quella di rap-presentare l’Angelo Sterminatore. No-tiamo, per concludere, che questo episodioè passato tale e quale nei preliminari del ri-tuale massonico per l’iniziazione del neo-adepto. Come la megera accecata dalle suepassioni (d’altra parte ha gli occhi bendati),è spinto dalla spada del sorvegliante al mo-mento della sua entrata nel Tempio, spadache non cadrà che dinnanzi a certe parole,attraverso le quali s’impegna ad abbando-nare il suo stato mondano. Una volta che ilsuddetto apprendista sarà ricevuto in log-gia, a ogni sessione, non si metterà in or-dine senza essersi passato la mano sullagola, in un segno che mima di tranciarla, aricordare in maniera sensibile la decapita-zione rituale di cui è stato oggetto, il primo

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giorno, prima di slegargli la benda nera e ilgrembiule bianco. Tutto questo per dire chei racconti sono a volte molto più che sem-plice letteratura, poiché le Mille e una notte

parlano, come certi rituali esoterici conser-vati altrove, di una sola e identica cosa, lalotta per la Luce e per l’edificazione dellaGerusalemme celeste.

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1 Su Biruni si veda Encyclopaedia Iranica, sub voce “Biruni, Abu Reyhan Mohammad b. Ahmad(973- after 1050)”, vol. IV, pp. 274-287.2 La presente citazione di Biruni, così come le successive dello stesso, sono tratte da A.B.Chalidov, “Dopolnenija k tekstu ‘Chronologii’ al-Biruni po leningradskoj i stambul’skoj ruko-pis’jam” in Palestinkij Sbornik, 4-1959, pp. 147-171. I passi arabi qui tradotti corrispondono alle pa-gine 168-169. Essi mancano nella vulgata di E. Sachau Bīrūnī Chronology of ancient Nations, London1879, ed è per questo che usiamo qui l’aggettivo “recuperata”.

IInnttoorrnnoo aa uunnaa rreeccuuppeerraattaa cciittaazziioonnee eevvaannggeelliiccaa ddii BBiirruunnii

di GGiiaannrroobbeerrttoo SSccaarrcciiaa(Università di Venezia)

This paper is a consideration about the figure of the great Islamic scientist AbuRayhan Biruni. In particular the opinion of the scientist about the correspondencebetween physical and religious law is here discussed starting from a stimulatinginterpretation of a famous Gospel passage.

CCCCome da un’acqua cupa i cui fondisian persi risalgono a galla le piùlievi – ma non solo quelle – tra le

cose là immerse e colate giù nel corso deitempi. Così alcune – non poche – tra le an-tichità (in quella lingua, anzi in quelle duelingue, l’araba e la persiana, “tracce”) del-l’iranismo tornano qua e là a permearne,ora con maggiore ora con minore intensitàe consapevolezza, la coscienza, più che noninconscio, collettiva. E Abu Rayhan Biruni1,una tra le personalità di studioso di mag-giore spicco nell’Islam dei dintorni delMille, quando altrove si paventava soprat-tutto la catastrofe incombente, tali anti-

chità raccoglie il meglio che può e trasmettea conterranei e posteri. Tuttavia, in quellache è più probità scientifica che non as-senza di spirito critico, non le rimette in or-dine secondo criteri suoi, né le pretendecoerentissime, ma le enumera e le giustap-pone, in quanto deciso a riferire senza censureciò che gli antichi sostenevano in fatto di feno-meni connessi con il corso dello zodiaco, nono-stante il fondato sospetto di non veridicità e diuna presenza, in quei discorsi, di futilità prive disenso; astenersi per principio da ciò che può co-munque costituire una sorta di ammaestramentopuò infatti voler dire arrecar danno a quanto diutile si trovi là eventualmente contenuto2.

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Si tratta, nel caso, della scienza cheusiamo chiamare astrologia, ma che è piut-tosto la

sintesi e coronamento dialtre tre scienze che devono es-sere preventivamente assimi-late, in quanto imprescindibili:geometria, aritmetica, cosmo-grafia. La geometria è l’arte at-traverso la quale si conoscono leposizioni delle linee, le formedelle superfici piane e dei solidi,il rapporto generale che esistetra misure e figure, e le relazioniche si danno fra esse e dette po-sizioni e forme. L’aritmetica èl’arte attraverso la quale si co-noscono la natura e la proprietà di ogni tipodi numeri, in sé e in rapporto ad altri numeri,la derivazione dell’uno dall’altro, e relativeapplicazioni: dimezzamento, raddoppia-mento, moltiplicazione, divisione, addizione,sottrazione, algebra. La cosmografia è l’arteattraverso la quale si conoscono la naturadelle componenti del mondo superiore e in-feriore, le loro forme e posizioni, i loro rap-porti reciproci, misure e distanze, e quantoconcerne il moto degli astri e dei cieli, e l’ar-monia delle sfere e degli archi di cerchio cherealizzano tali moti. Le relative scienze ap-plicate sono quelle delle effemeridi e degli al-manacchi. Solo avendo studiato tutto ciò cisi può occupare di astrologia, applicazionedelle scienze naturali, caratterizzate dal pro-nostico, con lo scopo di prevedere, attraversoil confronto delle posizioni reciproche degliastri, dei gradi e dei segni dello zodiaco, glieffetti del loro moto sulle condizioni ciclichedel mondo, degli stati terreni, dei regni, dellecittà, delle nascite, del volger degli anni, delledirezioni, delle decisioni astrologiche e di

ogni altro problema connesso. Ma si ricordianche come sia indispensabile, infine, chel’astrologo sia un uomo puro di anima e di

corpo, e di spirito sereno; oltreche, diciamolo, con un briciolodi follia, con un po’ di invasa-mento e con il dono della divi-nazione: vere e propriecondizioni sine qua non.

Come reperire, dunque,l’esperto degno di tal nome?Orbene, fra le usanze degliantichi, pagani e lussuriosi,c’era tra l’altro la voga delritratto delle più belle delreame, che, distribuito a

missi dominici in giro pertutte le satrapie, dovevano fruttare a Co-sroe l’arricchimento continuo del già for-nitissimo harem. Più austero e devoto,forse per le sue origini turchesche, il sul-tano Mahmud di Ghazna si valeva dellostesso sistema, ma per catturare, lui, nondonne bensì il fior fiore dei sapienti del-l’epoca, che poi metteva immediatamentealla prova.

Così, una volta che ebbero portato alsuo cospetto il coresmiano Biruni, se-dette nel suo padiglione a quattro porte,sovrastato dalla cupola detta “Sposa delCielo”, nel Giardino dei Mille Alberi, e glichiese: “Attraverso quale di queste porteuscirò? Scrivi il verdetto degli astri e po-nilo sotto il mio tappeto”. Tutte e quat-tro le porte erano praticabili. AbuRayhan chiese l’astrolabio, misurò l’al-tezza del sole, determinò l’ascendente,riflettè un poco e ripose la risposta sottoil tappeto. “Fatto?”, chiese Mahmud.

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“Sì”. Allora Mahmud diede ordine di farvenire un muratore con piccone e pala:una quinta porta fu aperta nel muroorientale e il sultano uscì di lì. Poi si feceportare il biglietto. AbuRayhan vi aveva scritto:“Non esce, Mahmud, danessuna di queste quat-tro porte: gliene rica-vano un’altra nel muroa est, ed egli esce di là”.Come lesse, Mahmud sirabbuiò e ordinò di pre-cipitare Biruni dall’altodel suo palazzo. Così fe-cero; ma v’era una rete,tesa all’altezza del piano di mezzo: AbuRayhan vi cadde, la lacerò, ma poi, attu-tito in tal modo l’impatto, toccò terradelicatamente, senza troppi danni.“Conducetemelo” ordinò Mahmud.Glielo portarono. “Allora, Abu Rayhan,almeno questo non l’avevi previsto”.“L’avevo previsto, signore”. “Dov’è laprova?”. Biruni chiamò il servo, si feceportare l’almanacco, ne estrasse il pro-prio pronostico, e risultò che tra gli av-venimenti di quel giorno c’era scritto:“Sarò precipitato da grande altezza, maarriverò a terra sano e salvo e mi rial-zerò indenne”. Queste parole non fu-rono gradite a Mahmud, anzi lo feceroinfuriare ancor di più. Gridò: “Gettateloin prigione e tenetelo lì”. Rinchiusonella cittadella di Ghazna, Abu Rayhanvi restò relegato sei mesi, e si raccontache durante quei sei mesi nessunoosasse parlarne davanti a Mahmud. Tut-tavia un suo schiavo era designato a ser-virlo durante la reclusione e un giorno,mentre attraversava il prato di Ghazna,fu chiamato da un tale che prediceva la

fortuna: “Vedo nel tuo ascendente pa-role da non trascurarsi; te le riferirò incambio di un donativo”. Il servitore glidiede due dirham e quel tale dichiarò:

“Qualcuno a te caro sitrova in difficoltà, maentro tre giorni ne saràsollevato: rivestirà abitid’onore e ritroverà fa-vore e considerazione”.Si dice anche che inquei sei mesi il primoministro Ahmad Mei-mandi cercasse un’oc-casione propizia per

parlare di Abu Rayhan.Finalmente, trovandosi il sultano dibuon umore durante una partita di cac-cia, condusse poco per volta il discorsosull’astrologia: “Povero Abu Rayhan –aggiunse – che rese due pronostici giu-sti, e ne ebbe catene e prigione”. Mah-mud rispose: “Sappi, caro ministro, chene sono ben conscio. Si dice che que-st’uomo non abbia pari al mondo, all’in-fuori di Avicenna. Sennonché i suoipronostici mi hanno scontentato: lo do-vrebbe ben sapere, che i sovrani sonocome i bambini piccoli, cui si deve par-lare secondo i loro desideri, per ottenerericompense. Sarebbe stato meglio perlui se, tra i due pronostici di quel giorno,almeno uno fosse stato sbagliato. A ognimodo, domani da’ ordine che lo liberino,che gli diano un cavallo bardato d’oro,un mantello di raso, un turbante di seta,mille denari, uno schiavo e un’ancella”.Nel giorno previsto dall’indovino, dun-que, tirarono fuori Abu Rayhan che ri-cevette i simboli dell’onore. Il sultano gliespresse il suo rammarico ed aggiunse:“Abu Rayhan, se vuoi guadagnarti il mio

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3 Queste righe, così come gli episodi e gli aneddoti relativi alla vita di Biruni che seguonosono tratti da Nizami Arudi, Čahar Maqala (in lingua persiana), ed. M. Mo’in, Tehran, 1333/19553, pp.91-94.

favore, parla secondo i miei desideri,non secondo l’autorità della tuascienza”. E Abu Rayhan, anche lui, per-sino lui, da allora cambiò strada3.

Ciò non toglie checontinuasse, quantomeno, a predicare inmaniera irreprensi-bile e a studiare qual-che opportuna viad’uscita che potessetrarlo d’impaccio,conciliando scienza estrategia.

Scrisse infatti:

Felicità e benessere spirano dirittisul mondo nei tempi in cui virtù d’esau-dire e buona sorte si ritrovino in armo-nia con l’intima capacità/possibilità disostanzializzare i sogni; è allora che è daattendersi che un desiderio sia esaudito.Ma che la preghiera venga ascoltata di-pende dall’autenticità del proposito,dalla forza della convinzione e dalla sin-cerità della speranza, così come dallapenna degli Apostoli fu vergato nel Van-gelo: “In verità vi dico, se avrete unafede scevra di dubbio e direte a questamontagna: ‘Spostati e tuffati nel mare,tanto sarà. Tutto ciò che implorate inpreghiera e in fede, quello vi sarà dato’.Non c’è dubbio che Dio e i Suoi interme-diari tra Lui e noi, gli angeli e quegl’im-macolati spiriti santi che sono gli astri aLui sottomessi, si adoperano a ben gui-

dare gli umani e se ne attendono espia-zione e preghiera. Al novero delle piùstraordinarie circostanze in grado di in-durre a credere ciò appartengono certi

racconti di marinai e di gente chenaviga i mari. Essi legano a unpennone una freccia con lapunta rivolta verso l’alto, equando li colpisce un qualcheguaio – un vento impetuoso, unagrande pioggia, una tempesta –eccoli che paventano il disastroe prendono a implorare il Si-gnore e si apprestano a gettare a

mare il proprio carico, al fine di allegge-rire la nave; ma levano in su unosguardo e talora scorgono sulla puntadella freccia un chiarore di stella. Unavolta constatato quel chiarore, nonhanno più paura di annegare e si ralle-grano, quand’anche raddoppi il mare lasua furia. E occorre che essi notinoquella stella tre o quattro volte nellanotte, e più nella notte di tenebre chenelle altre, e più in determinati luoghidel mare piuttosto che in altri. Di que-ste cose testimonia un saggio degno difede quale Galeno, con gran parte degliesperti degli astri, che tutto ciò tengonoper vero [seguono alcuni casi esemplaridi congiunture astrali, propizie o meno,e la conclusione etica]. Vi sono dunquepreghiere che possono rivolgersi control’orante come accadde agli abitanti delTabaristan in un anno di carestia,quando essi si precipitarono per i campia implorare la pioggia, ma non avevanoancora terminato di singhiozzare, che in

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diverse parti della città si levarono levampe di un incendio.

E ne scrisse il poeta: “Chiesero acqua alla nube e ne ot-

tennero diluvio difiamma.

Ebbero l’opposto diciò che bramavano, chéla preghiera del cor-rotto è un inganno”.

Mahmud e tutti glialtri sultani, dunque, -par avvertire Biruni - ve-dano un po’ loro comeconvenga comportarsi.

È comunque da osservare che Biruni ri-sulta qui molto più avveduto degli Apostolimenzionati, in quanto egli non chiede allavera fede di sconvolgere le leggi della crea-zione, le quali tengono i monti abbarbicatialle loro radici, salvo il caso di eruzioni e diterremoti, fenomeni anch’essi, del resto,disciplinati da leggi universali. Il Nostro, alcontrario, chiede alla vera fede di mettersiall’unisono con le leggi della creazione, lequali sono fisiche allo stesso modo che mo-rali, inducendo gli astri non già a deviare,bensì a compiere sino in fondo quello che èil loro dovere usuale (dovere loro e doveredegli angeli che, autrefois, diceva anche Cor-bin, poussaient les astres).

Più avveduto, Biruni, ma anche con lespalle più al sicuro degli Apostoli di unafede a suo tempo meritoria, poi superata,in quanto la smascheratura dell’ipocrita,nel Novissimo Testamento islamico, sarà

ineluttabilmente più rara a constatarsi diquella dell’ipocrita nel Nuovo Testamentocristiano.

Più avveduto, comunque, anche di Ma-nilio, che si limitava a

esporre la banale verità diun diversificarsi dei destiniumani in dipendenza dellalunga estensione del segnocomune.

Forse, se gli Apostoli delCristo avessero parlato difiumi, o laghi, indotti dallafede a spostarsi, la purezza

di tale fede sarebbe stata piùdi frequente dimostrabile da chi avesse stu-diato bene la geografia e il sistema idrico diquella Corasmia in cui Biruni aveva vissutola sua serena giovinezza prima di essere ra-pito a Ghazna dalle guardie reali. Laggiù in-fatti, in un paesaggio idilliaco rivaleggiantecon quello nilotico, tra giunchi, canneti eturgide infiorescenze selvatiche, laghi efiumi vanno e vengono da tempi immemo-rabili indipendentemente da chi li implori(casomai li si implora, piuttosto che dimuoversi, di restarsene al posto loro). Manon sarebbe stata testimonianza di granvalore. Piuttosto va detto che una monta-gna che si muove, una sola, si dà anche nel-l’Islam e anche in Biruni, pur se si tratta diuna montagna che frana (“con rombo diarpa eolia”) e subito dopo ricostituisce lafisionomia originaria; quindi di un movi-mento verticale. È il favoloso Qal’e-Kah4 af-gano nei dintorni di quella Farah oggiabbastanza vanamente presidiata da solda-

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4 Cfr. G. Vercellin, “Il monte-santuario di Qal’e-Kah nel Sistan afghano”, in Annali di Ca’ Fo-scari, XI, 3, (s.o. 3), 1972, pp. 75-117.

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5 Cfr. S. Cristoforetti, “La ‘dieta’ di Dahhak, un esempio di psicofagia luminosa”, in G. Scar-cia (a cura di), Bipolarità Imperfette, Venezia, 1999, pp. 99-123.

tini nostrani per lo più adepti del NuovoTestamento: dove, peraltro, l’esaudimentodei desideri dipende tutto dall’interces-sione dell’Imam se-polto nelle viscere diquell’altura, quindi daun fattore terzo ri-spetto a legge e pre-ghiera, su cui lascientificità assolutadi Abu Rayhan non hatrovato opportunopronunciarsi. L’inter-cessione è, infatti, unasorta di elemento di disturbo, una sorta diattrito il quale influisce sul moto naturaledegli astri che potremmo definire stretta-mente neoplatonico nel senso di una for-zatura del fenomeno da parte del noumenoche si dischiude. (La deisis era non pernulla, a Bisanzio, imperniata sull’endiadiAnnunciatore-Theotokos dell’Annunciato),stante la struttura sostanzialmente medio-platonica dell’Islam sunnita, che riempie lospazio intermedio di sole forme giuridichee non di eoni, quindi connesse soprattuttocon il mondo sottostante, allo stesso modoche gli uccelli di Apuleio sono esseri di

terra e non d’aria. Queste forme e figuresono significativamente qualitative e quin-tuplici, cioè esaurienti ogni possibilità mo-

rale (il cogente, il proibito, illodevole, lo sconsigliato, l’in-differente). Anche in Occi-dente del resto, si chiamalegge quella della gravità; e inIslam è altresì legge quelladella gravità del male, nonconcepita certo agostiniana-mente come assenza.

È, quel Qal’e-Kah, l’ombe-lico del mondo iranico, in cui

lo sconvolgimento cosmico che si produceè dovuto – e questo Biruni lo registra senzacensure e senza commento – al traumadella solita catastrofe originale identificata,un po’ dappertutto, con un fatto di sesso.Ma si tratta, là, dell’incontro in sé tra pro-genitore e progenitrice (magari fratello esorella secondo la versione iranica cheignora il tabù dell’incesto), diversamentequindi dall’antifemminismo viscerale deimiti di Eva e di Pandora5, nei quali il raggiodel noumeno si è in qualche modo rifrattoimmergendosi come parte lesa nel fluidodella creazione.

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RRuuddiimmeennttii ddii ppaalleeoonnttoollooggiiaa ccrriissttoollooggiiccaa:: ppaallmmee ee uulliivvii,, mmoorraacceeee,, aassiinnii

di RRuuddyy FFaavvaarroo(Studioso di Storia dell’Arte e di Iconografia)

This brief note deals with some specimens of both vegetal and animal natures in aninteresting connection with meaningful actions canonically attributed to the figureof Christ, namely the fig tree, the sycamore, the palm and the ass with its counterpart,the onager. Some corresponding features, are traced with regard to Islam and itsProphet.

LLLL’ultimo viaggio di Cristo a Geru-salemme e il suo ingresso trion-fale nella città, a dorso di

un’asina, circondato da una folla osan-nante, è narrato da tutti e quattro glievangelisti canonici, anche se con qualchevariante nei particolari.

Nell’iconografia questo episodio costi-tuisce spesso la prima scena dei cicli dellaPassione (fig. 1). Fu raffigurato per laprima volta nel IV secolo, quando comin-ciò ad apparire sui sepolcri dei cristianinelle catacombe. Sempre come episodiodel ciclo della Passione, fu poi spesso uti-lizzato per affreschi e mosaici nelle chiesemedievali, nonché per vetrate e rilievi inpietra nelle cattedrali gotiche. Il soggettosembra poi esser stato abbandonato neltardo Rinascimento.

Nei vangeli si legge che Gesù mandò isuoi discepoli a prendere un’asina e il suopuledro (dice Matteo), oppure un asinello

(dice Marco), o ancora un puledro (diceLuca). Secondo Giovanni, però, Gesù sem-plicemente si imbatté in un asinello e vimontò sopra. Egli è raffigurato sull’asino,di solito a cavalcioni, spesso seguito dal pu-ledro. Nell’iconografia cristiano orientaleusa sedere invece di traverso, frontal-mente, come fosse assiso su un trono. Sullosfondo si scorge la porta di una città dallaquale esce una folla di persone. Il primoche giunge incontro a Gesù gli stende da-vanti il proprio mantello; seguono unamoltitudine di bambini che reggono rami. Ivangeli canonici non parlano di fanciulli,menzionati invece nel vangelo apocrifo diNicodemo (1,3), dove si dice che “i figlidegli ebrei tenevano in mano dei rami” insegno di gioia, pace e saluto. Secondo Gio-vanni la folla “prese dei rami di palme euscì incontro a lui” (12,13). Questo passo dàil nome di “Domenica delle Palme” all’ul-tima domenica prima della Pasqua, in cui

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1 Vedi Favaro, 2008: II, 610-611.

appunto si commemora l’ingresso di Gesùin Gerusalemme: festa che sia la Chiesa ro-mana sia quella orientale celebrano conuna processione di foglie di palma e ramid’ulivo. Presso gli or-todossi romeni si in-contra anche ladenominazione diDuminica Floriilor; ifiori, peraltro, si ag-giungono e non si so-stituiscono ai ramiverdi. La presenza deirami di ulivo si do-vrebbe spiegare conil fatto che la scenaha luogo presso ilMonte degli Ulivi,mentre la palma èsegno purpureo (“punico”, “fenicio”) codi-ficato ab antiquo come segno di trionfo egloria. Quando, poi, trionfo, vittoria e glo-ria si ottengono attraverso il martirio, eccoche la medesima palma è segno di martirio.Inoltre, in iconografia cristiana, la palma èspesso sormontata da un suo “omonimo”(in greco), un uccello mitico che ne condi-vide l’etimologia purpurea/ignea: è la fe-nice, simbolo di resurrezione, ben coerentecon gli altri.

È interessante notare la presenza dellapalma anche nella cristologia islamica, inconnessione con la sua disponibilità a for-nire alimento a Maria, come datteri maturie acqua di ruscello (Cor. 29,23-26). Ma lapalma islamica vive in una sorta di cameradi compensazione tra il regno vegetale e

quello animale, in quanto si avrebbe conessa la prima chiara, decisa, netta com-parsa del sesso. Se ne celebrano, talora, na-scita, funerali e matrimonio (con il

requisito della fedeltàconiugale, almeno perla femmina). E la si sot-topone anche a san-zioni penali, senza direche l’interdetto di raffi-gurare esseri viventi,non coranico, ma di al-cune tradizioni, siestende anche ad essa1.

Dal canto suo, anchedel prodotto dell’ulivo,l’olio, si auspica – sta-volta nel Corano (24,35)

– una sublimazione “néorientale, né occidentale”.

Normalmente, nelle raffigurazioni arti-stiche dell’evento su ricordato, in secondopiano si scorgono due alberi, e su ciascunodi essi si è arrampicato un uomo, uno deidue è sopra una palma o un ulivo, e ne ta-glia rami, da stendere sulla via di Gesù(Matteo); l’altro personaggio è un tale Zac-cheo, del quale Luca (19,3-4) racconta che“poiché era piccolo di statura […] per po-terlo vedere salì su un sicomoro”. E a Ge-rico, a tutt’oggi, un esemplare vegliardo diquest’albero perpetua il ricordo della cosa.

Fichi e sicomori – e altre varianti – ap-partengono alla famiglia delle moracee. Ilsicomoro è, non a caso, un albero sempre-verde, come predestinato ad un alto valoresimbolico. Tutte e due le varietà sono però

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molto intriganti in area mediterranea emediorientale; e il sesso, e i problemi con-nessi, hanno l’aria di avere inquietatomolto, anche in questo caso, lefavole antiche. Quanto al fico,si tratta di problemi che vannodall’incertezza latina del sessomedesimo (che non si dà ingreco e non si dà nel caso del-l’altro albero da frutta classicodei romani, cioè il melo semprefemminile), all’accostamentodel fico al primigenio lattante(ficus ruminalis), all’insemina-zione artificiale (cioè scopertae governo del sesso): onde, a fa-vorire l’opera degli insetti impol-linanti, l’antichissimo sistema dellacaprificazione, cosiddetta per via dell’uti-lizzazione all’uopo del caprifoglio. E tutticonoscono l’esito italico moderno dellafemminilità del fico: anche in greco, nono-stante il genere neutro, Aristofane l’usava asimbolo di pudenda muliebra. E se Gesù, inuno degli scatti d’ira un po’ isterica e quiapparentemente gratuita di quel predica-tore più spesso mansueto, maledice il fico(Matteo 21,18), cui non vale opporre che“non è la mia stagione” (le stagioni del ficosono peraltro due, quella dei fioroni equella dei fichi d’autunno), quasi a pre-ma-ledire quel Giuda che proprio a un fico fi-nirà con l’impiccarsi, si tratta forse di unaeziologia a spiegare la sterilità di base delfico medesimo. Val la pena ricordare quicome il celebre regista italiano Zeffirelliabbia sottolineato la contrapposizione tral’ostentata dottrina di Giuda e il cristolo-gico: “l’albero si vede dai suoi frutti”. Chi,

viceversa, vuole vedere il Cristo, consciodella sua statura inadeguata, sale sul sico-moro (ficus religiosa!), che a Buddha assi-

cura la suprema saggezza (ilsenso del Nulla) e in lidi piùprossimi, quale ficus di Faraone,assicura l’immortalità.

Nella mitologia egizia il sico-moro era un albero consacratoalla Dea Madre Universale, Ha-thor, dea dell’amore e dellagioia, per l’appunto detta “la Si-gnora del Sicomoro”. Conside-rato segno di immortalità: il suolegno, pur di qualità inferiore aquello del cedro, comunque

assai resistente, era conseguente-mente usato per la fabbricazione dei sar-cofagi. La presenza nei racconti evangelicidel sicomoro alluderà quindi all’imminentemorte del Cristo: una morte, per altro, cui“la morte seconda” tale per Francescod’Assisi e, curiosamente, già per gli egizi!,non farà male. Insomma, questo sicomoroè un po’ come una confermazione rispettoalla mirra donata ad uno dei magi al cristolattante. Come sappiamo, il nostro ci-presso, invece, pur sempreverde, ma fattodi legno men duro, non “rende il sonnodella morte men duro”. Un canto tradizio-nale, reso celebre dall’armonizzazione diBenjamin Britten, dice:

As I sat under a sycamore tree,I look’d me out upon the seaOn Christ’s Sunday at morning ...

Ma Eros non si accompagna sempre aThanatos. Il sicomoro, in Egitto, era anche

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• 79 •Rudimenti di paleontologia cristologica: palme e ulivi, moracee, asini, R. Favaro

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2 Cfr. Celso, De Medicina, III, 18, 12-13: Sycamini lacrimam inducunt. Sed Greci morum sycaminonappellant, mori nulla lacrima est. Sic vero significatur lacrima arboris in Aegypti nascentis, quam ibi syco-moron appellant.

albero che proteggeva gli amanti. In un pa-piro si legge di un sicomoro in fiore che, nelgiorno della festa dei giardini, inviava il suomessaggio a una fanciulla:

Il piccolo Sicomoroche lei ha piantato

con le sue manimuove le labbra per

parlare.Come son belli i suoi

rami!È carico di fioriPiù rossi del diaspro.La sua ombra è fresca.Mentre esso posa una

letterina nelle mani della fanciullaChe è figlia del capo giardiniere,le chiede di affrettarsi incontro al-

l’amato:“Vieni e sta tra le tue ancelle.Saremo ebbre quando ti raggiunge-

remo,sì, prima ancora di aver bevuto alcun-

ché.Vengono i servi che ti obbedisconocarichi di anfore;portano bevande di ogni sortae ogni sorta di pane,molti fiori di oggi e di ierie tutti i frutti dissetanti.Vieni e rendi felice questo giorno, domani e il giorno dopo ancora, per

tre giorni…siedi sotto la mia ombra”.

Il suo innamorato siede alla sua destra.Lei lo inebriaCedendo alle di lui richieste…

Ma io sono mutoE non dirò quello che

ho visto.Non dirò una parola…

Nel Mediterraneo, ilsicomoro è un’eccezione:lo si trova solo in Egitto enella Grande Siria, proba-bilmente per importa-zione faraonica dalleforeste imbalsamate delsuo remoto meridione

africano. Compare infatti, molto prima chenella vicenda di Zaccheo, nei testi biblici(Amos 7:14, Septuaginta: knizon, sykamina,Vulgata Latina vellicans sycomoros), e ci dàtestimonianza di una pungitura che è l’evi-dente controparte della caprificazioneanche se solo il sicomoro può essere im-pollinato da due differenti imenotteriagaonidi (ceratosolen arabicus e ceratosolonengalili). Ma il più esotico sicomoro (solo igreci lo hanno denominato così, cioè fico-gelso, pur se a sykos rimane anche l’acce-zione di sicomoro) è indubbiamente piùmaestoso del nostro fico quotidiano. Non èescluso che l’idea di una lacrima beneficadi fico, effettivamente molto simile a unlatte, sia scivolata al sicomoro2.

Quanto all’asino, il suo segno è quellodell’umiltà. Lo si guardi nel piccolo prese-

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pio di Forlì del Beato Angelico, comesporge appena il capo dall’ombra, mentreil bue si mette in posa, quasi che l’operadell’aratro sia piùnobile di quelladella mola, al fine diprodurre il panedella vita che il Cri-sto distribuirà. Anzi,l’asino è il Cristostesso, come in unacelebre raffigura-zione paleocristianadel Crocifisso nonnecessariamente bla-sfema; quantomeno è il cristiano, comedice Papini nel suo Dizionario dell’Omo Selva-tico3: “Dovrebbe essere chiamato il cristianodel terzo regno della natura”, cioè, a rigore,il regno di cui anche l’uomo fa parte, senzaessere cristiano.

Anche l’asino è, a monte del cristiane-simo, il versante mansueto di un cuginoesotico, l’onagro, in Iran misuratore rapidocome il vento di quello Spazio che è “il

corpo del Tempo”, fornitore all’eroe Ru-stam di un cibo che è sintesi, poi nell’Islam,di ogni nutrimento sia materiale sia spiri-

tuale: “ogni cacciagione– e ogni scienza sta nelventre dell’onagro”.L’onagro è la virilità,anche prevaricatrice eperversa (castra i rivali,figli compresi4) matanto può essere ancheinteso, alla luce di Mat-teo, come una beatitu-dine, che alla femmina

non è data: se il maschiosi astiene, è un eroe, ma se la femmina nonfruttifica è una strega.

Di qui, forse, anche il dualismo tra man-suetudine e lussuria asinina. Il Medioevoconoscerà inoltre (ma già Charbonneau-Lassay ha inciso per noi una “Plaque chal-déenne” da Ur: fig. 2) il curioso motivodell’asino sonatore (di arpe angeliche?), eil Rinascimento conoscerà apologie para-erasmiane dell’asino5.

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3 Vol. I (A-B), Firenze 1923, pag. 247.4 Cfr. Physiologos. Le bestiaire des bestiaires, 2005: 93-96.5 “Il canto de l’asino è troppo vaga cosa d’udire, imperò ch’in lui si sentono quelle conso-nanze, quelle dissonanze, quel cantar per medium, quel cominciar di canto con una misura largalarga, poi quel stringer di essa di passo in passo, quelli diesis, que’ bemolli, quel gorgheggiar in dia-pente [in intervalli di quinta], quel portar di canto fermo in diatessaron [all’intervallo di quarta],quelle sesquialtere [grosso modo le attuali terzine], quel contrapuntare che fa un di loro, quandol’altro li fa il tenore, tutto di lunghe o di brevi, quel pausar a tempo, quel sospirar a misura, quel di-rompere di minime, di semiminime e di crome; e finalmente udire un motetto a cinque o a sei vocemutada [modulata] da tant’asini, non è per far trasecolare un secula seculorum? E però credonomolti che la musica d’Occoghem [Johannes Ockeghem, 1410-1497] e di Giosquino [Josquin Desprez,1450-1521] sia tratta dal canto de gli asini”: Pino, 1982: 98-99. Curiosamente, però, nell’Islam, il ra-glio dell’asino è considerato come la voce più ingrata (Cor. 31,19). Addirittura Sa’di connette con il

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Certo è che, nonostante un’indubbiapriorità storica dell’asino sul cavallo qualeaccompagnatore di santi e diprofeti6 il mondo cristiano èrimasto sempre perplessonel suo spontaneo con-fronto con l’aristocratico ca-vallo. Possibile che Cristonon sia entrato a Gerusa-lemme montato a cavallo,come si conviene? E pensareche a Eraclio, quando volevaentrare a Gerusalemme concotanta pompa, fu celestial-mente obiettato che Cristo c’era entrato,invece, in tutta umiltà. Secondo G. Scarcia7,si trattava, forse, nel caso di Eraclio, di uninterdetto all’iranica per vicende di sesso.Ma si dà anche una curiosa eco islamica delrapporto asino-cittadella della fede, ripor-tata tra le tradizioni profetiche più genuine(sahih) a questo proposito: quando Eraclioinvita i suoi cortigiani ad entrare nel-l’Islam, essi, a guisa di asini selvatici, si lan-ciano verso le porte per fuggire, ma letrovano chiuse8.

L’ortodossia russa ha qui adottato unasingolare via di mezzo molto congeniale

alla vocazione teatraledi quelle genti: “uncavallo drappeggiatodi lino bianco fino aterra, le orecchie al-lungate con un pezzodi stoffa e così rese si-mili a quelle di unasino”9. Ecco una Do-menica delle Palme, olà dei Germogli, cin-quecentesca: il “vica-

rio” autocefalo di Cristo, quel patriarcatanto orgoglioso da farsi reggere le brigliedallo zar in persona, non rinuncia al suosfarzoso destriero di classe, ma, poiché devetrattarsi di un asino, eccovelo, l’asino, ma inesso riconoscete ben il cavallo!

Ancora più a oriente, nel regno del“Prete Gianni”, l’usanza della Chiesa etio-pica (monofisita, cioè, in parole povere, ac-centuante la divinità del Cristo) nonsembra dubitare del carattere equino dellacavalcatura del Cristo trionfante.

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raglio un cattivo salmodiare del Corano, vedi i racconti 12 e 14 del Golestan: Sa’di, 1979: cfr. 4,XII“Quando il predicatore si mette a ragliare la sua voce distrugge la città di Persepoli” (p. 138); cfr.4,XIV: “Se tu leggi il Corano in questo modo tu distruggi la gloria dell’islam” (p. 140). D’altra partela salmodia coranica non è molto lontana dalla ricerca modale a cui si riferisce il Pico.6 Fondamentale la ricerca di Frejdenberg, 1978: 491-531; ma vedi anche il più recente Ba-shear, 1991: 37-75.7 Cfr. “L’albero della Croce: prima, dopo, nell’esilio e nell’Islam. Una premessa”, in Studi sul-l’Oriente Cristiano, VII.2, Roma, 2003, p. 20.8 L’asino entra, singolarmente, anche in un’altra tradizione riguardante Eraclio, ma questavolta, viceversa, è Eraclio che punisce un suo suddito arabo convertito, solo lui, all’Islam, il qualeaveva donato appunto un asino al Profeta. Sul rapporto tra Profeta e Asino vedi comunque Sin-dawi, 2006: 87-98.9 Roberti, 1980: 23.

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Anche in Islam si riproduce e si articola,sul piano della discussione erudita, la que-relle sull’identificazione asinina o equinadella cavalcatura del Profeta: nel caso, quelMuhammad che, anch’egli come preludiodi eventi che lo con-durranno in cielo(provvisoriamente,lui), entra a Gerusa-lemme e poi ne escecon movimento ver-ticale verso l’alto,senza il sacrificiodella vita che, delresto, l’Islam negaanche a Gesù. Mu-hammad sale al cieloper una notte sola,cavalcando un esserealato a nome Buraq, una sorta di ippogrifodal volto femmineo, che è “più grande diun asino, ma più piccolo di un cavallo”10.Un mulo, o muletto, potrebbe costituire ilrisultato di compromesso più ovvio (e ciòè accaduto talora nel mondo bizantino), mapoi l’iconografia si fa talmente complessa,che l’incertezza aumenta per altra via. Èstato compiuto un interessante tentativo direperirvi tratti indiani (un po’ come il sico-moro nel fico), non implausibili visto cheanche altre raffigurazioni animali, in Irane in Islam, denunciano aperte tracce di eso-tismi più orientali11.

L’Islam oscilla comunque tra la svaluta-

zione del mezzo (l’Anticristo giungerà a ca-vallo di un asino, che tradizionalmenteavrà le orecchie così grandi da far ombraad oriente e occidente, cosa che al fintoasino moscovita non era dato) e una certa

condiscendenza verso lostesso: l’asino portatore diCristo è il portatore inconsciodi cosa sacra, come in fondotutti i cristiani. Ma si vedanoi versi (sec. XIV) del turcoKhorazmi12:

Quand’ero pellegrinosulla via d’Occidenteramingo ero, e sereno.Mi nutriva ventura d’un

incontro,e, mosso come ricciolo

d’amante,m’ospitava anche il mare.Fidando in Dio percorsi molti lidi,la soglia d’ogni saggio anacoreta,la terra nostra e quella dei devotialla Croce. Un compagnonobile avevo: sulle spalle, il saiodel vasto mondo a lui posava lieve.Era casto, era giovane, era lieto,era paziente come il sole accesoche pur di nube non disdegna l’ombra.Insieme a lui sui prati e sopra i rovi,insieme a lui per boschi e per montagne:una sorgente per la nostra sete,un’ala al passero ed al falco!

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10 Si può osservare che, secondo certe tradizioni, l’asino del Profeta era omonimo dell’upupadi Salomone: il nome, peraltro, non era in ambo i casi granché lusinghiero.11 Cfr. Lorenzetti, 2004: 571-578.12 Trad. di Scarcia, 1986: 165-166.

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Per l’umiltà che ardeva nel suo ciglio,l’apostrofò così, stolto, un

viandante:A te non è di certo avo il

profeta!Allora, dalla nostra ca-

rovana, un vecchio corse a lui.Era un cristianoche moveva alla sua Ge-

rusalemme.Gesù, gli disse, aveva un

asinello, un asinello solo, e ben

trecento,

nel monastero mio fatto di rupe,incrostati di perle e di rubini,

zoccoli veneriamo d’asinello. Tanto spreco d’amore non

è vano:sarà pur quello degno, un

bel mattino.

Insomma, capovolgendo unfamigerato detto, pressochécoevo, secondo cui Dio sapràben riconoscere i suoi tra i de-funti giustiziati a vanvera, è

forse più consigliabile rispet-tare comunque tutti gli asini.

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RRIIFFEERRIIMMEENNTTII BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIICCII

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SSee ((iinn IIrraann)) 1133 eeqquuiivvaallee aa 1199

di SSiimmoonnee CCrriissttooffoorreettttii(Università di Venezia)

This paper deals with some considerations about calendrical and astrologicalcorrespondences between Irano-Islamic traditions and the Christian Yule. The Authoralso stresses the symbolic importance of 13 and 19 in the Iranian culture throughoutcenturies.

QQQQuando si affrontano problemiconnessi con il calendario ira-nico, va sempre tenuto in consi-

derazione in via preliminare che in quelmondo non si assiste a una collocazionechiaramente definita delle tradizionali fe-stività “nazionali”. Inoltre, se tali feste,frutto della tradizione antica e sentite comeespressione di un iranismo che in sostanzaè sovrareligioso, sono oggi fissate a precisimomenti stagionali, ciò non si può conside-rare paradigmatico per quel che riguarda itempi andati a causa delle caratteristichedel calendario, su cui si tornerà tra breve.La corrispondenza con precisi momenti sta-gionali è infatti teorizzata in testi zoroa-striani, ma non ha conosciuto, se nonincidentalmente, un riscontro concreto.

Ciò posto, tra le numerose festività delcalendario iranico tradizionale – calenda-rio solare che si vuole di origine zoroa-striana e che oggi, nella sua versioneriformata, è ufficialmente in uso insieme alcalendario lunare dell’Egira in Iran e in Af-ghanistan – spiccano le quattro celebra-zioni connesse con i nodi dell’anno, vale adire con i solstizi e gli equinozi. Spicca al-tresì più in particolare un fatto curioso:una sorta di duplicazione delle feste in que-stione a una certa distanza. E non si in-tende qui un fatto piuttosto noto a chi haconsuetudine con studi di tipo iranologico,e cioè il riproporsi regolare di quasi tuttele celebrazioni a cinque giorni di distanza(riproporsi dovuto probabilmente ad anti-chi interventi di riaggiustamento del ca-

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lendario stesso), bensì a un intervallo unpo’ più esteso che è fenomeno riguardantele sole feste nodali dell’anno.

Nel caso, per quel cheriguarda il solstizio inver-nale, abbiamo la notte diyalda, che tradizional-mente è festa che si col-loca in un 1° giorno delmese (il mese di dey), al-l’incirca sul solstizio d’in-verno e che troviamoriproposta col nome disade 13 giorni dopo. Ciòsecondo la più antica atte-stazione nota (935 d.C.) ri-guardante quest’ultimafesta, che dobbiamo al ca-lamo di uno storiografodel sec. XI, Ibn Miskawayh, il quale ne parladiffusamente, fornendo anche qualche in-teressante indicazione sulle usanze allorain voga, nel descrivere le turbolente vi-cende che portarono alla fine del regno diun ambizioso regolo, a nome Mardawij ibnZiyar, che si era ritagliato un proprio con-siderevole dominio nelle regioni iraniche aridosso del cuore del califfato di Baghdad.

Per quel che riguarda l’equinozio pri-maverile abbiamo una festa del 1° giornodell’anno (nouruz) e una festa del 13°giorno successivo (sizdah bedar).

Al solstizio d’estate, ecco che la festaper eccellenza, il tirgan, invece di cadere il1° del mese di tir, che è la data del solstizio,ricorre il 13 del mese. In questo caso, nelloschema festivo di tradizione zoroastriana èsopravvissuta la seconda delle feste cheformano l’endiadi celebrativa caratteriz-

zante il nodo annuale, anche se una festadel solstizio estivo ha comunque cono-sciuto in passato e ancora oggi ha, a livello

locale, una sua dignità di Ca-podanno vero e proprio.Certo, un Capodanno popo-laresco, oggi, che vanta peròun’illustre tradizione scritta.Biruni, un grande scienziatoe poligrafo arabografo di ori-gine persiana che operò a ca-vallo tra il X e l’XI secolo, ciparla infatti del solstizioestivo come del vero capo-danno dei persiani antichi el’informazione non è isolata,visto che un poeta arabo,Buhturi, ingegnandosi neltrovare le parole adatte per

elogiare il califfo al-Mu‘tazed che si erapreoccupato di fissare il Capodanno del ca-lendario solare persiano in posizioneestiva, non trovò di meglio che paragonarel’operato di quest’ultimo alle usanze in ma-teria degli antichi re di Persia. Un riflessomeno generico di usanze di questo generetrova riscontro inoltre negli usi di unaparte dei cristiani orientali, i cristiani ne-storiani, tanto radicati in passato nelle areedi cultura persiana, che facevano iniziare illoro anno liturgico la prima domenica dopola Pentecoste, al principio dell’estate.

All’equinozio di autunno, con il mehr-gan, ancora uno sdoppiamento: chiare te-stimonianze di una celebrazione sull’equi-nozio, il primo giorno del mese di mihr,sono rintracciabili in Ferdousi, il vate del-l’epica iranica, ma nella tradizione ha pre-valso la festa del 16° giorno del mese.

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Per riassumere, nell’insieme abbiamodunque tre casi di duplicazione a 13 giornidi distanza e uno a 16. Chequesto 13 nasconda unqualche significato? Primadi cercare l’eventuale si-gnificato nascosto del 13,per meglio intendere iproblemi posti dal calen-dario solare persiano vafatto un breve accenno alfunzionamento del calen-dario “zoroastriano”, chepresenta un impressio-nante parallelismo conquello degli antichi egizi. Idue sistemi si basavano in-fatti sull’anno solare di 365giorni, senza l’inserzione di un giorno ogniquattro anni come avviene nel calendariodella tradizione giuliana. I dodici mesi con-tavano trenta giorni ciascuno, a cui si an-davano ad aggiungere cinque giorni percompletare l’anno. I giorni dei mesi nonerano enumerati, ma avevano ognuno unproprio nome: trenta nomi, quindi, che siripetevano dodici volte. Dodici di questinomi erano i nomi stessi dei mesi e leusanze liturgiche prevedevano la celebra-zione dei giorni in cui il nome del giornocoincideva con quello del mese, cosa cheaccadeva dodici volte all’anno come è fa-cile calcolare. Caratteristica di entrambi isistemi era il lento arretramento di ungiorno ogni quattro anni dei mesi del ca-lendario rispetto alle stagioni dell’anno so-lare dovuto alla già accennata mancanza diun meccanismo di intercalazione che ren-desse stabile il calendario.

Detto ciò, nei casi del tirgan e del me-hrgan è assolutamente evidente che la se-

conda delle feste cheformano le endiadi cele-brative è ricorrenza deter-minata dalla coincidenzatra il nome del giorno equello del mese: il tirgan èil giorno tir del mese di tire il mehrgan è il giornomehr del mese di mehr.Queste feste, tipiche dellaliturgia zoroastriana, pos-sono aver obliterato le pa-rallele feste gemelle del 1°giorno del mese, cioè lefeste che segnano esatta-

mente i nodi dell’anno, finoa giungere, nel caso della festa del 1° tir, acancellarne addirittura la presenza nelloschema tradizionale “zoroastriano”. Mache cosa è accaduto negli altri due casi?

La collocazione delle due feste che se-gnano l’inizio dell’inverno ripropone unascansione delle feste solstiziali invernali le-gata al culto di Aion nell’Egitto del periodoellenistico su cui ha indagato il notissimostorico delle religioni italiano Raffaele Pet-tazzoni (v. Essays on the History of Religions,Leiden, 1954, pp. 171-75), giungendo allaconclusione che le celebrazioni relativefossero due. Una tale scansione, incontra-tasi con il cristianesimo – in cui il Nataledel 25 dicembre, ricalcato su quello del SolInvictus, ha fatto una lenta ma vittoriosaconcorrenza al Natale arcaico del 6 gennaio(rimasto in uso, quest’ultimo, nella liturgiadella sola chiesa armena) – e da esso veico-lata verso oriente nel corso della grande

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espansione dei primi secoli, incontrò unterreno fertile nel mondo iranico. Là, pro-babilmente sovrapponendosi agli antichisistemi di suddivisione del tempo in usopresso le popolazioni lo-cali in parte cristianiz-zate, l’endiadi festiva diinizio inverno conobbeun suo periodo digrande splendore nelcorso dei primi secolidell’età islamica, quan-d’era celebrata anche daprincipi e sovrani mu-sulmani e cantata daipoeti. In quell’epoca, siiniziò a considerare la festa del sade, in par-ticolare, come genuina espressione delmondo iranico, retaggio degli usi degli an-tichi re di Persia, e fu di conseguenza assi-milata a cosa zoroastriana, finendo conl’essere collocata nello schema delle festedi quella religione, pur non risultandonetraccia nelle fonti zoroastriane vere e pro-prie. La festa subì in seguito un lento de-clino, a partire dall’età mongola che nesegnò la contrazione ai soli ambiti popolariagricolo-pastorali.

Nel caso dell’equinozio di primavera,dopo il nouruz del 1° giorno del mese di far-vardin, che segna l’inizio del nuovo anno, il13 del mese cade la festa del sizdah bedarche chiude il periodo di festa inauguratodal nouruz. Sull’origine di questa secondacelebrazione, attestata nei resoconti deiviaggiatori solamente a partire dal XVIIIsecolo, non si è ancora fatta sufficientechiarezza e le ipotesi divergono. Antichetracce di un periodo festivo della durata di

12 giorni collegato direttamente con il nou-ruz sono rintracciabili in un autore attivonel X secolo, Ibn Babawayh, che pare far ri-ferimento alle 12 feste della coincidenza

del nome del giorno colnome del mese tipichedello schema zoroastriano.Tra queste, la festa di nou-ruz, la più solenne – rac-conta l’autore – durava 12giorni. A prima vista, inquel caso il “tredici di nou-ruz” (sizdah-e nouruz, sino-nimo di sizdah bedar),sembrerebbe indicare lafesta del 13 di farvardin

come una sorta di doppione del nouruz. Masu questa cosa si tornerà tra breve.

Una sonora eco fenomenologica dellefeste primaverili iraniche si può rintrac-ciare nella collocazione pressoché equino-ziale primaverile dell’Annunciazione enella datazione della Creazione del Mondoal 21 marzo. Ricorrenze cristiane che se-gnavano l’inizio dell’anno, come nel casodell’anno more veneto (Annunciazione, 25marzo). A queste è da aggiungersi la diffusatradizione del Capodanno pasquale (dateestreme 22 marzo - 25 aprile): in Francia unCapodanno di questo tipo fu in voga fino al1564, quando il parlamento di Parigi de-cretò lo spostamento del Capodanno dallaPasqua al 1° gennaio.

La cosa aveva già costituito materia didisputa come testimonia, per esempio,Martino di Braga (ca. 515-580 d.C.), il qualecontrappone un suo ideale Capodanno ge-nuinamente religioso del 21 marzo nontanto al Capodanno del calendario fiscale

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di Cesare (1° gennaio) quanto alle feste pa-gane in occasione delle calende di gennaio.Egli così si esprime nel suo De correctione ru-sticorum X, 1-2:

In gente ignorante e rusticas’insinuò anche l’errore di cre-dere che le calende di Gennaiosiano l’inizio dell’anno; il che ècompletamente falso. Perché,come dice la santa Scrittura,l’inizio dell’anno primo si effet-tuò l’ottavo giorno delle calendedi Aprile, proprio nell’equino-zio. Si legge infatti così: ‘E Diodivise la luce e le tenebre’. Maogni vera divisione comportaun’eguaglianza, come appuntonell’ottavo giorno avanti le ca-lende di Aprile il giorno ha uno spazio di oreuguale alla notte. È falso perciò che le calendedi Gennaio siano l’inizio dell’anno.

Traspare, in Martino, una sensibilità chepotremmo anche chiamare “iranica” neiconfronti delle diatribe di ambito cristianosull’inizio dell’anno, che secondo il vescovoiberico doveva iniziare nel momento in cuiebbe inizio la Creazione. Proprio come inIran. A un generico parallelismo di questotipo si aggiunge però qualche cosa di piùpreciso.

Nel mondo cristiano, la fase equinozialeprimaverile segna anche la conclusionedella vicenda terrena del Cristo nella suaPassione, con la Crocifissione e, nell’Iranislamizzato, il giorno del nouruz divieneuna prefigurazione del Giorno del Giudizioe della Resurrezione della Fine dei Tempi:

Nel giorno di nouruz donarono al Profeta –su di Lui sia la pace – una coppa d’argento, nellaquale era contenuto del dolce. Egli chiese: ‘Che

cos’è ciò?’. Gli risposero: ‘È [per]il nouruz’. ‘E che cos’è il nou-ruz?’ - si informò il Profeta. Glirisposero: ‘Una grande festa deipersiani’. ‘Già’ - disse il Profeta- ‘è il giorno in cui Iddio ria-nimò le schiere’. Gli chiesero:‘Che schiere?’. Rispose: ‘Sonocoloro che uscirono dalle lorosedi - e ce n’erano a migliaia, ri-colmi del terrore della morte. EIddio aveva detto loro: Morite!,e poi li rianimò in quel giorno,restituendo loro l’anima. EdEgli diede un ordine al cielo, e il

cielo si sciolse su di loro in piog-gia. Perciò gli umani si diedero come tradizionedi aspergersi con l’acqua in quel giorno’. Dettoquesto, mangiò il dolce e divise la coppa tra isuoi compagni.

La tradizione che precede vanta un illu-stre trasmettitore nel nipote di ‘Abdallahibn ‘Abbas, uno degli zii del Profeta Mu-hammad ed è registrata nella Cronologia delgià menzionato Biruni. Quest’autore dedicòal nouruz la parte iniziale del capitolo ri-guardante le feste dei persiani, segnato daun’ampia lacuna nell’edizione del testoarabo e nella traduzione inglese di C.E. Sa-chau che fu successivamente integrata daJ. Fück sulla base del manoscritto completodell’opera conservato a Istanbul. A tutto ciòsi può aggiungere dell’altro.

Uno dei più autorevoli antropologi estudiosi di folclore dell’Iran odierno, M.

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Ruh-ol-Amini aveva ipotizzato, sulla basedi teorie ormai peraltro un po’ datate, lapossibilità di una penetrazione nel mondoromanzo di un quid iranico da individuarsinel “pesce d’aprile”. Tale penetrazione sa-rebbe avvenuta perun rapporto di filia-zione a partire dal-l’ambiente manicheo,attraverso paulicianianatolici, bogomilibalcanici e catari diLinguadoca. Si tratte-rebbe né più né menoche di un riflessodelle usanze iranicheattualmente collegatecon il sizdah bedar, o sizdah-e nouruz, corri-spondente anche oggi, dopo la riforma delcalendario voluta da Reza Shah negli anniVenti del secolo scorso, al 2 (talora al 1°)aprile. Sarebbe questa l’origine del curiosocapodanno giocoso spostato anche in Eu-ropa sul 1° aprile. Una possibile tappa delpercorso da est verso ovest di questeusanze potrebbe anche rintracciarsi in unnouruz che cade il 1° aprile per gli ala-viti/nusairi della regione siriana di Ales-sandretta e di Siria (v. M.M. Bar-Asher, “Surles éléments chrétiens de la religion Nu-sayrite-cAlawite”, Journal Asiatique, 289/2,2001, pp. 185-216; qui p. 208), in concor-renza con il nouruz “regolare” del 1° farvar-din. Una cultura di tipo alevita potrebbenon solo manifestarsi, ma anche alimen-tarsi, in maniera del tutto naturale anchenella zona anatolica di Sivas (a Divriği c’erauna celebre rocca pauliciana), anche se nonè possibile non tener conto, come even-

tuale elemento di disturbo, delle contami-nazioni nusairo-cristiane a proposito ditanti momenti significativi del vissuto re-ligioso locale.

Ma come spiegare una celebrazione del13 del mese senza far ri-corso a una fenomenolo-gia estesa e universale –e in fondo un po’ gene-rica – come quella or oracitata? E quale allora lafunzione, in questo giocodi sdoppiamenti, dellafesta del 19 del mese difarvardin, quando se-condo lo schema tradi-

zionale zoroastriano siverifica la coincidenza del nome del giornocon il nome del mese? Una spiegazionespecificamente iranistica è possibile ...

Nel corso del primo mese dell’anno ira-nico teorico, e precisamente il 19, accadequalche cosa di astrologicamente molto ri-levante. È questo infatti il giorno dell’esal-tazione solare, definito, nel Canone, dalnostro Biruni: “nouruz (!) di tutte le acque”.Questo momento, così importante per latradizione astrologica – che nel caso vedecoincidere l’apporto e della tradizione el-lenistica e di quella più specificamente ira-nica – si è conservato nella cultura delmondo iranico in una maniera che il cele-bre storico della letteratura persiana, Ed-ward G. Browne, definì endemica, visto chese ne ritrovano tracce in Iran in piena etàmoderna nel pensiero della corrente reli-giosa babi, il cui originalissimo calendarioconta mesi della durata di 19 giorni cia-scuno, segnati in chiusura dalla festa del

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19° giorno, con il raduno dei fedeli; per nondire che 19 è il numero dei propagatoridella fede babi (analogamente/diversa-mente da quel che è avve-nuto per il primo nucleocristiano formato da Cristoe i 12 apostoli, il primo nu-cleo babi conta 19 espo-nenti: il Bab e i suoi 18discepoli). Come mai, tut-tavia, lo sdoppiamento delnouruz cade nel 13 delprimo mese e che rapportoha quest’ultima data con il19 dello stesso mese? La ri-sposta a una questione delgenere va di pari passo conla soluzione del problemaposto dall’origine della festadel 13 farvardin (sizdah bedar).

Per Mary Boyce ("Further on the calen-dar of Zoroastrian Feasts”, Iran 43, 2005,pp. 1-38; qui p. 30) il conteggio del sizdahbedar sembra partire dal 6 farvardin(giorno che un tempo era chiamato“Grande nouruz”) e tredici giorni dopocade il giorno farvardin del mese farvardin,cioè il fravardigan del 19 farvardin. Questoperò non dà spiegazione dello scarto di ungiorno tra i due segmenti, visto che il siz-dah bedar è il 13° giorno del segmento cheinizia con nouruz, ma il fravardigan è il 14°giorno del segmento, che inizia col grandenouruz. Insomma, nouruz e sizdah bedar (1 e13 farvardin), da una parte, e grande nouruze fravardigan (6 - 19 farvardin), dall’altra,sono in fondo i giorni iniziale e finale didue periodi, il primo di tredici giorni e il se-condo di 14 giorni; la cosa impedisce quindi

l’equivalenza 13 = 19. Al momento, vistoche non ci sono prove convincenti per dareuna solida spiegazione per l’origine del pe-

riodo di 13 giorni delle cele-brazioni di nouruz chiuso dalsizdah bedar, si possono peròtentare altre strade per spie-gare l’equivalenza - in qualchemodo già sottintesa da MaryBoyce - tra sizdah bedar (13) efravardigan (19).

Alla metà del X secolo d.C.,il sole entrava nel 19° del-l’Ariete il 3 aprile. Biruni nellasua Cronologia ci racconta che,in quell’epoca, Abu Sa‘idAhmad, regolo di una storicaregione dell’iranismo, la Cora-

smia – vastissima oasi nel deltadell’Amu Darja a meridione del Mar d’Aral– per stabilizzare il calendario utilizzatoper i conteggi fiscali e per le scadenze agri-cole fissò il nouruz in quel giorno. In unaltra sua opera (Tafhim, p. 272), Biruni cidice che la cosa avvenne il 2 aprile del 958-59 d.C. Perché una tale incertezza, o penti-mento, da parte di un astronomo provetto?Il fatto che il grado zodiacale esatto possa,in certi anni, cambiare data (ma – atten-zione! – Biruni non si dedica in quelle se-zioni dei suoi scritti a computi astronomicispecifici, fornendo, là, solo informazioni sueventi a lui noti) non toglie che lo si possaconsiderare corrispondente a un giornopreciso del calendario solare, vale a dire algiorno di maggior coincidenza statistica,così come si fa, normalmente, anche con ledate di inizio e di termine dei segni zodia-cali. Ad esempio, è ben vero che l’Ariete ini-

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zia talvolta il 20 marzo, come quest’anno(2009), ma normalmente lo si considera ini-ziare il 21 marzo. A questo punto l’incer-tezza tra il 2 e il 3 aprile sifa di un certo interesse,visto che il 2 aprile era iltredicesimo giorno con-tando a partire dal 21marzo, che la chiesa, dal-l’epoca del Concilio diNicea, considerava comedata ufficiale dell’equino-zio primaverile e che di lìa breve, con una riformadegli anni Settanta del sec.XI voluta dal selgiuchideMalikshah, diverrà la datasolare pressoché fissa delnouruz anche nel mondoiranico islamizzato. E nonva dimenticato che – come racconta Biruni– gli astronomi di Abu Sa‘id presero in con-siderazione il calendario “greco e siriaco”,cioè cristiano, per fissare il calendario so-lare della tradizione locale. A tutto ciò vaaggiunto che un’astratta e ideale corri-spondenza di matrice zoroastriana tra imesi solari e quelli zodiacali, ben attestatanelle opere di carattere astronomico-astro-logico, permette di leggere automatica-mente il 19° dell’Ariete come un 19farvardin; allo stesso modo, il lessico dellatradizione popolare persiana registra la dif-fusissima sovrapposizione del nome dellafesta a quello del mese, cioè nouruz indicaanche il primo mese dell’anno (farvardin).Ecco allora che, nella seconda metà del se-colo X si sarebbe assistito a un “tredici dinouruz” (sizdah-e nouruz o sizdah bedar) che

coincideva con un 19 farvardin (= 19° del-l’Ariete).

Quest’ipotesi è rafforzata dalla presenzadi una solida tradizione inambito astrologico, che hafatto sì che quel nouruz diAbu Sa‘id (meglio notocome nouruz-e khwarazm-shahi) non sia finito nel-l’oblio come vari altrinouruz stabilizzati e anco-rati a una data fissa del ca-lendario solare nel corsodell’età islamica da parte digovernatori provinciali odegli stessi califfi per esi-genze di tipo amministra-tivo. Esso è infatti diventatouno dei punti di riferimentodel calendario astrologico di

tradizione persiana e ancora oggi comparenegli almanacchi, con quel suo nome piut-tosto esteso, a indicare il giorno dell’esal-tazione solare, il 19° dell’Ariete appunto.

Un autore coevo alla riforma di AbuSa‘id, il già menzionato Ibn Babawayh (m.991-92 d.C.) nel capitolo XVI dei suoi 'Uyunakhbar al-ridha ci espone una grande meta-fora dell’anno iranico, molto interessanteper quel che riguarda le questioni qui sfio-rate. Egli ci narra di un fantomatico popoloche viveva in dodici villaggi che avevanonomi identici a quelli dei mesi del calenda-rio iranico e il cui re si chiamava Nouruz.Durante l’anno, c’erano dodici feste, unaper ogni villaggio. La festa del villaggio dire Nouruz durava dodici giorni, quanteerano le feste annuali. È piuttosto chiaroche l’autore fa riferimento allo schema fe-

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stivo di tradizione zoroastriana, che, oltread altre feste, prevede che durante l’anno sifesteggino i giorni in cui avveniva la coin-cidenza tra il nome delgiorno e quello del mese,alla maniera egizia comedicevo più su. Ebbene, Nou-ruz oltre che il nome del redi quel popolo è anche ilnome della più solenne trale dodici feste, quella delvillaggio principale in cuirisiede appunto il re. Ma ilnouruz non è una delle do-dici feste annuali determi-nate dalla coincidenza delnome del giorno con il nome del mese. Ecosì una festa rimane esclusa dal conto: lafesta del 19° dell’Ariete, giorno sì dell’esal-

tazione solare, ma anche della coincidenzatra nome del giorno e nome del mese ditradizione zoroastriana (giorno farvardin

del mese farvardin).Una tra le molte pos-

sibili obiezioni al ragio-namento qui proposto stanel darvi per scontatal’esistenza nel X secolo diun sistema di scansionedelle celebrazioni prima-verili iraniche pratica-mente identico a quelloche oggi coinvolge il nou-ruz in partenza e il sizdah

bedar in chiusura. A ognimodo, non si tratta qui di appurare la veri-dicità storica di un fatto ma solo di segna-larne la palese rilevanza simbologica.

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MMaassssoonnii oo mmaanniicchheeii?? IImmmmaaggiinnaarriioo eettnnooggrraaffiiccoo ssuuii KKaaffiirrii ddeellll’’HHiinndduukkuusshh*

di SStteeffaannoo PPeellllòò(Università di Venezia)

This paper deals with some 19th century misunderstandings and interpretations ofthe religion of the Kafirs of the Hindukush (inhabiting the present-day Afghanprovince of Nuristan), and with some connected literary interpretative fantasies.Starting from a well-known short novel by Rudyard Kipling, The Man Who WouldBe King, whose British protagonists discover that the Kafirs are Freemasons, webriefly discuss some possible sources for Kipling ideas, trying to show what we wouldcall a tendency to “imagine” Kafiristan more than to actually describe it. We thencompare the British research in the ethnography of Kafiristan with a very little knownand seldom analyzed Persian text dealing with the same subject, discussing thedifferent shapes of cultural “imperialism” present in India at the time of the Europeandiscovery of Kafiristan.

SSSSe Peachey Carnehan, il sedicentevicerè del Kafiristan, fosse soprav-vissuto alla propria follia e, ritro-

vata la sua ironica ruvidezza cockney,avesse lasciato l’India per tornare in In-ghilterra, forse avrebbe partecipato – daesperto soldato qual era, per quanto ormaianziano – alla prima guerra mondiale, pro-

babilmente con i gradi di colonnello o ad-dirittura di generale di brigata, dati i me-riti guadagnati sul campo nel corso dellaseconda guerra anglo-afghana (1878-80) e ititoli a suo dire acquisiti durante la purbreve parabola di sovrano “in seconda” trale impervie montagne dell’Hindukush. Ru-dyard Kipling è però piuttosto sicuro, scri-

“See here!” said Dravot, his thumb on the map. “Up to Jagdallak, Peachey and me know the road.We was there with Roberts’ army. We’ll have to turn off to the right at Jagdallak through Laghmannterritory. Then we get among the hills…”

Rudyard Kipling, 1987: 253

* Desidero ringraziare il collega e amico Alberto M. Cacopardo per avermi introdotto agli studi ka-firi e per avermi invitato a lavorare, da iranista, sulla tradizione testuale persiana prodotta in quel-l’area culturale.

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vendo la conclusione di The Man Who WouldBe King (1888), nell’affermare che costui, tregiorni dopo avergli raccontato la propriaversione dell’avventura vissuta insieme alcompagno d’armi Daniel Dravot (l’ancorapiù sfortunatore del Kafiri-stan), poi dive-nuta il soggettodell’omonimofilm di JohnHouston (1975),morì nel delirioin un manico-mio di Lahore,in preda allefebbri provo-cate da un tro-picale colpo disole. Ma se cosìnon fosse stato – Kipling comunque nonspecifica di aver visto la salma – l’anellocon il compasso e la squadra sovrapposti ri-trovato fortuitamente nel marzo scorsolungo gli argini del fiume Judrio, realizzatoa Birmingham nei primi anni del Nove-cento secondo le informazioni riportatedalla stampa locale1, lo si sarebbe potutoattribuire a lui altrettanto fantasiosamenteche non allo stesso Kipling, che nella tardaprimavera del 1917 soggiornò da quelleparti in qualità di “cantore” ufficiale dellegesta dei soldati britannici stanziati lungoil fronte dell’Isonzo. Alcuni dei battaglioniche poi contribuirono alla difesa della linea

del Piave, del resto, facevano parte di reg-gimenti che avevano combattuto con onoreproprio nella seconda campagna d’Afgha-nistan, come il Queen’s Own Royal WestSurrey Regiment e il West Yorkshire Regi-

ment, i cui caduti dor-mono sulla collina nelcimitero militare bri-tannico di Giavera delMontello. Quello cheè sicuro è che se Car-nehan – cioè uno deitanti ipotetici avven-turieri-Carneade del-l’esercito colonialebritannico a cui Ki-pling si ispirò per co-struire il personaggioin questione (di unodi questi, William

Watts McNair, possediamo anche la rela-zione di un viaggio mai realmente avve-nuto2) – avesse personalmente raccontato,in linea con la tradizione degli ufficiali-esploratori del Raj, una reale e non a prioriricusabile esperienza presso i Kafiridell’Hindukush, oggi avremmo una testi-monianza diretta in più sulle credenze diquelle popolazioni, nonché una fonte filo-logicamente preziosa per l’analisi del rac-conto, i cui protagonisti scoprono che i“selvaggi” che vogliono assoggettare sonoaffiliati, come loro e come il loro inventore,alla Massoneria. Al di fuori – ma qui i re-cinti sono quanto mai valicabili – del gioco

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1 Il Piccolo, 12/3/2009, p. 29.2 Howard 1890[?].

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letterario, The Man Who Would Be King, comesuggerito “storicisticamente” (in chiaveanti-New Criticism) da Edward Marx3, puòessere inteso anche come un’interpretazionedelle conoscenze sul Kafiristan al momentodella sua composi-zione, e come tale an-drebbe forse letto conmaggiore interesse dachi si occupi scientifi-camente dell’area cul-turale più o menoislamizzata ai confinitra il mondo iranico equello indiano. Comefa notare lo stessoMarx, la storia è infattiipotetica e non pura-mente immaginaria e allegorica, e si inse-risce a pieno titolo, pur con la sua distintafunzione di fiction, nel panorama degliscritti e delle relazioni ottocentesche pro-dotti dal coevo diffuso interesse – quasi unamoda tra i funzionari dell’impero britan-nico – per la regione in oggetto e la sua po-polazione allora non ancora convertitaall’Islam. Sul piano della finzione “lettera-ria”, Kipling segue in sostanza, come sivedrà, il metodo interpretativo che gli è fa-miliare dalla lettura delle scarse fonti“scientifiche” allora a disposizione a pro-posito dell’origine e della religione dei Ka-firi, fonti sulle quali Marx è abbastanzaesaustivo e a proposito delle quali non cidilungheremo qui. Basti dire che, dal XVII

secolo in poi, numerose e molto diverse traloro sono le teorie sulla religione praticatadalle variegate popolazioni non musul-mane dell’Hindukush (quelle parlanti le co-siddette lingue nuristane – i Kafiri

( i m ) p r o p r i a -mente detti –,completamentei s l a m i z z a t e s ientro gli anni ’30del secolo scorsoin conseguenzadelle “crociate”condotte dal-l’emiro dell’Af-ghanistan dal1895 in poi, equelle parlanti

lingue indo-arie nord-occidentali o dardi-che, di cui resistono i Kalasha delle valli diBirir, Bumburet e Rumbur sotto Chitral).Per esempio quella proposta dal gesuitaportoghese Goes, che immagina quellegenti cristiane perché bevono vino e si ve-stono di nero quando si recano nei luoghidi culto4, o quella che si ritrova tra gli altritesti nello Shahnama-yi Chitral, cronaca di-nastica in versi composta in persiano allacorte del signore del Chitral nel primo Ot-tocento, che li identifica come zoroastriani(“adoratori del fuoco”) adeguandosi a unmodello che è classico per il “miscredente”nella letteratura persiana5. Una delle ideepiù diffuse nell’Ottocento vuole invece iKafiri – eteroetnonimo che si può mettere

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3 Marx, 1999: 44-66.4 Ricci, 1942-1949: vol. II, pp. 391-445, p. 403.5 Muhammad Siar, Shahnama-yi Chitral, ms. presso l’Università di Halle, p. 97.

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in relazione, oltre che con l’arabo kafir “mi-scredente” secondo la lectio facilior, forseanche con Kapisha, il nome storico della re-gione – discendenti diretti dei soldati grecicolà stabilitisi dopo la spedizione di Ales-sandro Magno, ecome tali “simili”agli europei, deiquali in qualchemodo avrebberomantenuto la reli-giosità – e magari la“scienza sacra” –pre-cristana. Similiagli europei e, ovvia-mente, simili soprat-tutto ai Greci che,oggigiorno, in pole-mica con i “falsi” Macedoni confinanti, in-vitano e calorosamente ospitanodelegazioni di “cugini” d’Hindukush6.Com’è noto, l’idea delle radici elleniche edellenistiche dei Kafiri è ripresa e utilizzataanche da Kipling nel racconto, ed è proba-bilmente proprio su questa visione alloraufficialmente sanzionata da molti studiosiche l’autore innesta il suo recente interesseper la Massoneria (si era da poco affiliatoalla Loggia “Hope and Perseverance” di La-hore) ipotizzando, con la libertà che la fic-tion concede a chi la sa comprendere eutilizzare, un’immaginaria affiliazione diquei Kafiri che “si pensa che siano parentidi noi inglesi”. Due fatti, in particolare, pos-

sono contribuire a spiegare meglio la non-implausibilità “teorica” dell’ipotesi di Ki-pling al momento della sua costruzione,ovvero a individuarne un punto d’appog-gio sufficientemente solido per il suo gioco

letterario. Il primoè l’esistenza – cosaapparentementesfuggita a Marx –di una grandeopera in tre vo-lumi su Afghani-stan, Baluchistan ePanjab pubblicatanel 1842 da unviaggiatore in-glese noto con

l’eloquente pseu-donimo di Charles Masson7, i cui riferi-menti spesso criptici (se non criptati) alleattività di Alessandro Magno e del suocorpo di spedizione internazionale in Af-ghanistan non possono non essere stati no-tati da un novizio dotto ed entusiasta qualeKipling, e non aver stimolato un’immagi-nazione acuta e creativa come la sua. Il se-condo, meno appariscente ma forse ancorapiù significativo, è il reperimento di un si-gillo da parte del già menzionato McNairdurante la sua pretesa spedizione tra i Ka-firi; del quale sigillo, sottoposto dall’esplo-ratore all’attenzione della RoyalGeographic Society, si pensò che fosse diantica fattura egizia, con le riflessioni che

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6 Sulla genesi storica di questa credenza e sulla sua recente rivivescenza in Grecia, si vedaCacopardo, di prossima pubblicazione.7 Masson 1842 (la sezione sul Kafiristan si trova nel vol. 1, pp. 191-236 della ristampa di Graz,1975).

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evidentemente ne conseguono – anche sol-tanto sul mero piano estetico, letterario ap-punto – in materia di remote conoscenzeiniziatiche e simboliche. Non è d’altrondeda escludere – senza contraddizioni conquanto osservato fi-nora – che Kipling,nella (coloniale) pa-rodia del coloniali-smo che non èdifficile scorgere inThe Man Who WouldBe King, abbia volutoinserire una sorta diironia etnograficasollecitato propriodal pullulare delle opinioni in merito allecredenze dei Kafiri, che spesso si tentavadi far rientrare in qualcuno dei grandi si-stemi religiosi eurasiatici: perché non laMassoneria, un infra-sistema presente conle sue logge da Londra a Lahore, da Istan-bul a Tehran? Un esempio fra i tanti perquella tipologia di approccio “imperiale” èrappresentato dal seguente passaggiotratto da Tribes of the Hindoo Koosh del mag-giore John Biddulph, che riportiamo perintero:

One Supreme Being is worshipped under thename of Imbra, and next to Imbra in importanceis the Prophet Mani. He is called the son ofImbra, and once lived on earth, and he mediateswith Imbra on behalf of men. Stones are set upas emblems of Imbra, but carved idols are notused. These two names cannot but suggest the

Indra and Manu of the Brahmins. Below themin rank are a whole host of deities, whose num-ber is stated at 18,000, evidently an arbitrarynumber.8

In tempi di proto-fervori indo-europeisti,abbandonati gli entu-siasmi apostolici di unGoes, ormai irrimedia-bilmente rétro con illoro marchio gesuiticoe il loro decadente sa-pore iberico, Biddulphvede nei Kafiri i conti-nuatori di una “crude

form of the ancient Vedic”, procedendo aun’identificazione immediata e direttadelle loro deità con quelle della religionebrahmanica, a sua volta oggetto di un’assaifunzionale sistematizzazione da parte del-l’indologia europea classica nell’Ottocento:Imbra (cioè la divinità creatrice e ordina-trice Imra/Mara, il cui nome ha probabil-mente a che fare con il sanscritoYamaraja/Mara, dio della morte) è il belli-coso e celeste dio supremo del pantheonvedico Indra; Mani (l’essere divino chia-mato anche Mon e Mandi – forme da met-tere in relazione esclusivamente etimologicacon Mahadeva, cioè Shiva – che sconfigge ildemone Yush) è un “profeta” dietro alquale si nasconde il mitico legislatore brah-manico Manu, referente del testo sanscritodi ordinamento sociale e religioso notocome Manu-smriti. Ma esistono altri e più

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8 Biddulph, 1977: 130.

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radicati tipi, in Asia Meridionale, di “impe-rialismi” interpretativi, dei quali è impro-babile che Kipling non avesse in qualchemodo contezza, e che in ogni caso fanno dasfondo comune agli studi e alle fantasie bri-tanniche sul Kafiristan.

Intorno al 1840, ungenerale francese alservizio del regnosikh di Ranjit Singh,Claude Auguste Court(1739-1866), cultoreguarda caso dell’epo-pea di AlessandroMagno nella valle del-l’Indo e dell’allorasemi-sconosciuta ar-cheologia ellenisticadel Gandhara, cercò di ottenere informa-zioni sulla cultura, la religione e le usanzedei Kafiri inviando da Peshawar un propriomesso locale a intervistarne direttamentealcuni rappresentanti. Risultato di questeindagini sono il testo dell’intervista, com-posto in persiano e conservato in due copiemanoscritte presso la Bibliothèque Natio-nale de France, e una sua rielaborazione infrancese (con aggiunte e varianti di note-vole interesse) a opera dello stesso Court,che si trova oggi al Musée Guimet9. Il testopersiano (ci riferiamo qui a quello catalo-gato da Blochet con il numero 676), checonsiste di ventitrè in-folio privi di titolo, è

stato finora preso in considerazione tra glistudiosi soltanto da Wolfgang Holzwarth,che nel 1994 si occupò, in un breve articolo,della sezione dell’intervista dedicata allareligione dei Kafiri10. Decisamente rari sonoanche i lavori scientifici che abbiano dato

spazio al resumé fran-cese11. L’intervista,un vero e proprio re-portage etnografico,è strutturata su unaserie di domande erisposte ad ampioraggio suddivise te-maticamente, dalleorigini tribali almodo di condurre la

guerra, dalle risorseminerarie alla concezione del tempo, dallareligione agli abiti e le acconciature; le do-mande e le risposte occupano sempre pa-gine separate, con un’alternanza regolare(una pagina per le prime e una per le se-conde). Preziosa è l’introduzione (ff. 1b-2a),dove si trova una spiegazione dettagliata sucome si giunse al colloquio esplorativo esulle modalità secondo le quali esso vennecondotto: il generale Court, dopo aver pre-parato un questionario e averlo spiegato aun uomo di fiducia di Peshawar, un pa-shtun di nome Haji Ilahdad, inviò quest’ul-timo presso il signore di Dir, il cui territorioera confinante con quello dei kafiri. Il prin-

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9 Claude Auguste Court, Notice sur le Kafféristan, dressée sur la demande qui m’en fut faite par laSocieté Asatique de Paris, in Id., Memoires, s.d. [ca. 1840], ms. presso il Musée Guimet, Paris, vol IV, pp.81-104.10 Holzwarth, 1994: 179-199.11 Cacopardo e Cacopardo, 2001: 38, 82, 137 e passim; Cacopardo e Schmidt, 2006: VIII e passim.

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cipe in questione, dopo qualche giorno,convocò due notabili kafiri di nome Tak eShamlar perché venissero intervistati. Nonconoscendo questi ultimi altre lingue chela propria, il kati, il si-gnore di Dir fece ve-nire come interpreteun certo Muhammad‘Ali, un kafiro neo-con-vertito che apparte-neva alla stessa tribùdei due notabili e cheparlava correntementeil pashto. Le domande,con ogni probabilitàoriginariamente anno-tate in persiano – la lingua colta e “scienti-fica” dell’Afghanistan ancora oggi edell’India musulmana almeno fino allametà dell’Ottocento – da Haji Ilahdad, ve-nivano così poste in pashto da quest’ultimoa Muhammad ‘Ali, che le traduceva a suavolta in kati; le risposte passavano eviden-temente attraverso il processo opposto,dall’originale kati al tramite pashto all’an-notazione in persiano. Infine, ci informa ilmanoscritto, gli appunti vennero riorga-nizzati con un criterio razionale sottoforma di libro “affinché chiunque nutra uninteresse per questo argomento possatrarre giovamento dalla sua lettura”. Al dilà dell’interesse linguistico in senso stretto

(il manoscritto contiene peraltro, in ap-pendice, un lessico persiano-kati di circa150 parole che costituisce uno dei docu-menti più antichi sulle lingue nuristane),

questo colloquio poli-glotta e la sua aulicastesura finale rive-stono un’importanzanon ancora sufficien-temente apprezzatasul piano della meto-dologia di interpreta-zione e traduzioneculturale. Così come ivari Biddulph cerca-rono di far rientrare il

sistema di credenze dei Kafiri in unaGrande Tradizione indoeuropea (vedica,brahmanica, ellenistica) con ciò che ne puòconseguire in fatto di legittimazioni gerar-chiche e imperiali (ecco il nucleo della cri-tica “interna” sottostante a The Man WhoWould Be King), il dotto provinciale HajiIlahdad e l’interprete locale Muhammad‘Ali diedero infatti ai Kafiri il loro spazio inuna Grande Tradizione perso-islamica12.Non è detto che sia per forza di cose unprocesso consapevole, e in quest’ultimocaso certamente lo è meno che nel primo:è il peso stesso della tradizione culturaleche fornisce gli strumenti interpretativivolti all’assimilazione e all’inclusione che

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12 Un procedimento simile, per quanto molto meno “strutturato”, era stato apparentementeadottato già da tale Mulla Najib, che una trentina di anni prima aveva condotto un’inchiesta tra iKafiri per conto di Mountstuart Elphinstone. L’originale resoconto di Najib è però andato perduto,anche se le informazioni da lui raccolte sono state in parte riportate dal diplomatico scozzese nelsuo An Account of the Kingdom of Caubul, and its Dependencies in Persia, Tartary, and India, 2 voll., Lon-don, 3a ed., 1839; ristampa Karachi, 1972, vol. 2, pp. 373-387.

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qui siamo tentati di definire, come già ab-biamo fatto, “imperialistici”, con un giudi-zio non tanto di valore quanto tipologico.Nella sezione dedicata alle origini tribali (f.3a), per esempio, i duedignitari kafiri dichia-rano – adeguandosi aun classico modello dietnogenesi basato sul-l’idea della “disper-sione” delle tribùarabe adottato, peresempio, dai Pashtun edai Baloch – che il loropopolo appartenevaalla tribù araba dei Qu-raysh (la stessa di Muhammad) e che si ri-fugiò a Qandahar (il Gandhara?) e poi nellemontagne dell’Hindukush all’epoca deiCompagni del Profeta dell’Islam. (Pergiunta negando anche il più vago ricordodi un qualsiasi antico sovrano, con l’imma-ginabile cocente delusione delle aspetta-tive macedoni di Court, il cui questionariocontiene una precisa, ingenuamente spe-ranzosa domanda sull’eventuale memoriadi un “grande re del passato”). Il tono noncambia nella sezione sui culti e sulle cre-denze (ff. 6b-9a). La ricerca costante di pa-ralleli assimilativi è già stata descritta daHolzwarth, e non serve qui insistervitroppo. Basti ricordare che, alla domandase riconoscano o meno un Dio (khuda), Take Shamlar rispondono che senza dubbio loriconoscono e che il suo nome è ‘Imran(Imra può essere avvicinato, da un orecchiotendenzioso e da una penna allenata, nonsolo a Indra ma anche al nome del padre diMaria secondo il Corano, che gli intitola la

sura numero III); che di fronte alla possibi-lità di vedersi definiti “idolatri” precisanoche la loro gente effettivamente non adoragli idoli ma li venera come i musulmani ve-

nerano le ziyarat, cioèi luoghi di pellegri-naggio; che il diodella guerra Gizh “si-gnifica” Murtaza ‘Ali,il prode nipote diMuhammad, e Ba-gisht, signore delleacque, si traduce conKhizr, il patronodell’acqua di vita edel sapere esoterico

nella tradizione islamica; e così via. Più in-teressante è il caso di Mani/Mon/Mandi,così descritto nel testo (ff. 7a, 8a):

In qualità di profeta venerano Mani il pit-tore, il quale non aveva pari nell’arte di dise-gnare effigi. Considerarono la sua pittura unprodigio miracoloso e per questo lo accettaronocome profeta. Oggi adorano un idolo che lo raf-figura, costruito di recente.

Qui l’identificazione non c’entra con lareligiosità islamica comune, come nei duecasi precedenti, ma con la tradizione lette-raria persiana classica, dove il profeta delmanicheismo è noto proprio come ungrande pittore, anzi come il pittore per an-tonomasia. Si tratta quindi di un’identifi-cazione “colta” da attribuire con ogniprobabilità non tanto all’interprete Mu-hammad ‘Ali (e tanto meno ai due kafiri in-terprellati) quanto allo scrivano HajiIlahdad, che in un certo senso “testualizza”

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l’identità religiosa dei Kafiri, facendolarientrare all’interno di un canone inter-pretativo che ha a che fare più con l’este-tica religiosa dell’Islam persiano che con ladottrina islamica in senso stretto. Nem-meno il napoleonico Court è immune dalpeso di tale canone. Eccole sue osservazioni inmerito nel resocontofrancese:

Les kamousis [i kafiridel gruppo Kom, neltesto persiano kamuzi]réverènt encore un certainMani-Nakache qu’ils regar-dent comme un prophète etauquel ils ont élevé unestatue a son image. Ce Mani,suivant les écrivains orientaux, était contempo-rain de Moïse et a écrit l’ouvrage d’Ardjeng quiest, dit on, un oracle des Chinois, mais je pré-sume que ce Mani n’est autre que le Moni-Na-hred, fils de Brahma, que les Indous regardentcomme un saint […]13

L’identificazione avanzata dai protago-nisti dell’intervista viene rifiutata comemolto dubbiosa, e sostituita da quella con ilsaggio divino della tradizione hindu MuniNarada, altrettanto improbabile ma in lineacon la tendenza europea a preferire lastrada brahmanica per interpretare la reli-gione dei Kafiri. Tuttavia, nel ricusare lapresenza, tra i montanari dell’Hindukush,di un culto per il profeta Mani, il generale

francese descrive quest’ultimo aggiun-gendo alcuni particolari provenienti pro-prio dalla medesima tradizione letterariaalla quale si era rifatto il suo inviato nelcomporre il testo originale. Il semi-leggen-dario Ardjeng (cioè il perduto Arzhang/Ar-

tang dei testimedioiranici eneopersiani) è in-fatti consideratodalla letteratura edalla lessicografiadel mondo isla-mico persianiz-zato il testo sacro– fatto di imma-gini dipinte – dellareligione fondata

da quel personag-gio, spesso messo in relazione per le suequalità pittoriche proprio con la Cina, terrad’idoli e d’effigi per eccellenza. In sostanza,il milieu intellettuale entro il quale va lettal’intervista di Court-Ilahdad è quello dellaciviltà letteraria persiana dell’India musul-mana, dove, a partire almeno dai tentativiecumenici dell’imperatore Akbar, il proce-dimento di assimilazione e di identifica-zione delle religioni e delle filosofiedell’Asia meridionale in un quadro di rife-rimenti islamici (un Islam, ripetiamo, este-ticamente iranico) è fatto comune ecostante. In tale contesto, l’opera prodottadalla collaborazione del generale francesee del letterato di Peshawar è certamente daintendersi – sulla scia, per esempio, della

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• 103 •Massoni o manichei? Immaginario etnografico sui Kafiri dell’Hindukush, S. Pellò

13 Claude Auguste Court, Notice sur le Kafféristan, cit., pp. 86-87.

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già menzionata pista “zoroastriana” delloShahnama-yi Chitral – più come un tardoprodotto della vecchia cultura “ecumenico-imperialistica” moghul che come risultatodella più recente, solo “imperialistica”,forma mentis delle ricerche del colonialismoeuropeo. E se sull’afferenza di Kipling aquest’ultimo non ci sono mai stati dubbi,

andrà sempre tenuto presente che il gio-vane imperialismo dello scrittore anglo-in-diano, ivi compresa la sua letturamassonica dei Kafiri, è nutrito da un giàblasonato (e forse anche particolarmenteseducente per il suo sapore coloniale) co-smopolitismo iranizzante che proprio quel-l’imperialismo già prefigura e già supera.

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• 104 •UNO SGUARDO SULL’ESOTERISMO ISLAMICO

RRIIFFEERRIIMMEENNTTII BBIIBBLLIIOOGGRRAAFFIICCII

Biddulph, J. (1977) Tribes of the Hindoo Koosh, Calcutta, 1880; ristampa Karachi.Cacopardo, A.S. (prossima uscita) Are the Kalasha really of Greek origin? The Legend of Alexander the

Great and the Pre-Islamic World of the Hindu Kush, relazione presentata alla “International Confer-ence on Language, Documentation and Tradition, with a special interest in the Kalasha of theHindu Kush Valleys Himalayas”, Thessaloniki 7-9 novembre 2008.

Cacopardo, A.M. e Cacopardo, A.S. (2001) Gates of Peristan. History, Religion and Society in the HinduKush, Roma.

Cacopardo, A.M. e Schmidt, R.L. (eds.) (2006) My Heartrendingly Tragic Story. Shaikh Muhammad Ab-dullah Khan ‘Azar’, Oslo.

Holzwarth, W. (1994) Sich verständlich machen. Tak und Shamlar aus Kamdesh beantworten einen Frage-bogen des Generals Auguste Court zum “kafirischen Lebensstil”, in Christoph Elsas et alii (ed.), Traditionund Translation. Zum Problem der interkulturellen Übersetzbarkeit religiöser Phänomene (Festschrift fürCarsten Colpe zum 65. Geburstag), Berlin-New York.

Howard, J.E. [1890?] Memoir of William Watts McNair: the First European Explorer of Kafiristan, London.Kipling, R. (1987) The Man Who Would Be King and Other Stories, ed. L. Connell, Oxford.Marx, E. (1999) How we Lost Kafiristan, “Representations”, Summer, pp. 44-66.Masson, C. (1842) Narrative of Various Journeys in Balochistan, Afghanistan, the Panjab and Kalat, during

a Residence in those Countries, to which is added an Account of the Insurrection at Kalat and a Memoir onEastern Balochistan, 4 voll., London.

Ricci, M. (1942-1949) Del viaggio del fratello Benedetto di Gòis della nostra compagnia che fece per terraverso Ponente mandato da’ suoi superiori per scoprire il Gran Cataio fino alla città regia del regno di Cascar,in Pasquale M. d’Elia (ed.), Fonti ricciane. Documenti originali concernenti Matteo Ricci e la storia delleprime relazioni tra l’Europa e la Cina (1579- 1615), 3 voll., Roma.

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Segnalazioni editoriali

HERMANUBIRituali della Massoneria Azzurra. I tre gradi.Perugia Libri, Perugia, 2009, pp. 160

Questo libro nasce come una raccolta di “Tavole” incise per il-lustrare ai Fratelli questo o quell'altro argomento e ho rite-nuto opportuno iniziare spiegando, nel modo più semplicepossibile, come e perché si purifica un luogo di lavoro, poicome ci si deve muovere all'interno di quel luogo purificato(Tempio); successivamente ho cercato di sfrondare i ritualidei tre Gradi da tutte quelle ingerenza che non appartengonoalla tradizione muratoria. In principio è stato un lavoro soli-tario, solo con il computer, sul quale trascorrevo la maggior parte della mia giornata,poi, per una pura coioncidenza scaturita dalla necessità di visionare altri rituali, si èdiffusa la notizia che mi stavo dedicando seriamente alla revisione e alla raccolta ditutti i rituali attinenti alle cerimonie e alle celebrazioni di solennità massoniche. Daquel momento ho ricevuto da più parti d’Italia aiuti, invio di materiale ed incorag-giamenti inimmaginabili; a tal proposito ringrazio sentitamente tutti coloro che, comeho detto, mi hanno fornito materiali o indicazioni per reperire trattati o testi da con-sultare. L’obiettivo principale che questo libro si prefigge è quello di risvegliare la co-scienza nei cuori dei veri Fratelli; far rinascere la consapevolezza di essere FratelliLiberi Muratori e di appartenere tutti indistintamente ed indipendentemente dalleObbedienze alla grande Famiglia della Massoneria Universale; risvegliare il sano or-goglio di appartenenza ad una Istituzione a carattere iniziatico, che attraverso i suoiinsegnamenti ed i suoi rituali è capace di trasformarci in Persone migliori, se seguiticon costanza e coerenza. È a quanto deve tendere l’iniziato che, partendo da un’ini-ziazione virtuale, opera la trasformazione da virtuale a reale.

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MASSIMO FURIOZZI“La Nuova Europa” (1861-1863). Democrazia e internazionalismoFranco Angeli, Milano, 2008, pp. 184, € 18,00

Il presente lavoro ricostruisce la storia della “Nuova Europa”,quotidiano fiorentino sorto nel 1861 e cessato nel 1863. Pro-mosso e finanziato da Agostino Bertani, esso fu uno dei piùcombattivi giornali democratici dell’Italia postunitaria ed ebbetra i suoi collaboratori molti mazziniani e garibaldini: da Giu-seppe Dolfi a Luigi Pianciani, da Giuseppe Montanelli ad Anto-nio Martinati e ad Alberto Mario. Vi apparvero anche scritti di

Carlo Cattaneo e un romanzo giovanile di Giovanni Verga. Trattò argomenti politici,economici e sociali dell'Italia, ma fu fortemente interessato anche alle questioni in-ternazionali, prospettando la necessità di un’Europa democratica, composta da Paesiliberi e indipendenti, e guardando anche alle vicende del continente americano, in ununico fronte che andava dalla Russia agli Stati Uniti, dalla Polonia al Messico.

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GIUSEPPE M. VATRIL’origine dei Gradi Simbolici del Rito Scozzese Antico e Accettato (1804-1805). Storia e testi rituali.Edizioni L’Età dell’Acquario, Torino, 2009, pp. 279, € 24

Il Rito Scozzese Antico e Accettato si presentò al mondo mas-sonico internazionale nel 1802 come un sistema di 30 gradi su-periori (dal 4° al 33°), senza alcun interesse per quelli diApprendista (1°), Compagno (2°) e Maestro (3°). Con l’esclusioneforse del 33°, i rituali corrispondenti ai vari gradi hanno la pro-pria origine in rituali francesi preesistenti. Proprio in Francia,

a partire dal 1804, nacque e si sviluppò però anche una versione scozzese dei primi tregradi. Per quali ragioni? E chi ne fu l’autore? E quali testi vennero divulgati? Questolibro pubblica per la prima volta una versione manoscritta dei rituali Scozzesi Antichie Accettati per i tre gradi simbolici, integrata da un ampio studio sulle possibili fonti.[...] Molto interessanti anche le appendici che descrivono con accuratezza lo svolgi-mento “Dei banchetti e degli usi di tavola nella Muratoria Adonhiramita”. Le appen-dici con i “Confronti sinottici tra rituali diversi”, anch’essi di grande interesse, sonoda consigliare a tutti i Fratelli della Comunione. [...]

Dalla Presentazione di Corrado Balacco Gabrieli

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SEGNALAZIONI EDITORIALI • 107 •

GIVING 01/07Temi e ricerche di filantropia e innovazione socialeLa responsabilità sociale della ricchezzaRivista semestrale, Anno I, n. 1, Gennaio-Giugno 2007Bononia University Press, Bologna, pp. 293, € 35

Negli ultimi anni la filantropia è emersa come una modalitàdell’agire sociale condivisa da diversi tipi di istituzioni, pub-bliche e private, individuali e collettive. Il modus operandi checaratterizzava in passato l’agire filantropico sta entrando inuna fase di trasformazione profonda. Da forma di lenimentocaritatevole dei mali che affliggono le società, l’agire filan-tropico sta recuperando la dimensione di una imprenditorialità volta a generare in-novazione sociale. La filantropia è uno dei fenomeni emetgenti in un contesto che ècaratterizzato da un mutamento di vastissima portata e che riguarda le forme, le di-mensioni, la rappresentazione sociale e le modalità di investimento della ricchezza.Il concetto stesso di profitto, centrato sulla produzione di denaro e di beni di naturaimmateriale che risultano inscindibili dalla generazione dei patrimoni, non solo quellilegati all’impresa ma anche quelli di natura puramente finanziaria. [...]

dall’Editoriale di Giuliana Gemelli

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[...] Col pretesto di esplorare i percorsi, gli attori, le esperienzedei modelli e delle pratiche dell’agire filantropico nell’era dellanew economy e le diverse e talora fortemente contrastanti rea-zioni che esse suscitano nel dibattito attuale sul ruolo delle fon-dazioni e delle organizzazioni non profit, il libro cerca di fare il punto,trasversalmente, sui processi evolutivi della filantropia nel contesto della società in-dustriale, nel passaggio dal XX al XXI secolo. Ovviamente senza pretendere di affron-tare il problema in forma sistematica, né esaustiva, bensì rapsodica e per certi versipersino reattiva, come si conviene ad un laboratorio di ricerca dove, di volta in volta,si reagisce agli stimoli ricevuti nel corso dell’esperimento, affrontando ipotesi con-trastanti e suscitando nuovi interrogativi. [...]

Dall’Introduzione della Curatrice

A CURA DI GIULIANA GEMELLIFilàntropi di ventura. Rischio, responsabilità, riflessività nell’agire filantropicoContributi di J. Emerson, L. Bertozzi, E. Cassarino, G. Gemelli, F.Squazzoni, C. Rametta, G. Vicini, G. RamunniBaskerville UniPress, Bologna, 2004, pp. 291, € 15

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La presente monografia rappresenta un analitico contributosulle radici filosofiche, politico-culturali ed ideologiche dellaCostituzione della Repubblica romana del 1849, non avulsa dallainterpretazione giuridica delle norme fondamentali del sistemacostituzionale.

L’Autore, dopo aver esaminato la fase costituente della Repubblica romana del 1949,indica puntualmente il background filosofico-giuridico dell’ingegneria costituzionalerepubblicana romana fondata sul principio di sovranità popolare, separazione dei po-teri statuali (legislativo, esecutivo, giudiziario) nonché piena supremazia della Leggeapplicata soltanto da Magistrati appartenenti ad un Ordine Giudiziario indipendenteed autonomo.Il novum del lavoro monografico è costituito da una onnicomprensiva disamina del re-pubblicanesimo mazziniano in chiave filosofico-giuridica e giuridico-costituzionalecorredata da una approfondita panoramica dei principi euristici e dei dati assiologiciche connotano sia le norme costituzionali sia le norme di garanzia dell’ordinamentorepubblicano risorgimentale del 1849. Il volume, inoltre, presenta come unicum la trat-tazione di un argomento specifico che lo rende peculiare ed originale e che si sostan-zia nel nuovo metodo ermeneutico seguito dall’Autore nella interpretazionesistematica della Costituzione repubblicana del 1849 per un puntuale inquadramentodella norma fondamentale, kelsenianamente intesa, nel costituzionalismo liberale delmoderno Stato di diritto, caratterizzato dalla laicità dello Stato con la fine del poteretemporale del Papa Pio IX e da una netta separazione dello Stato dalla Chiesa nonchédalla tutela e garanzia dei diritti dell’uomo e del cittadino.

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AVV. ANTONINO ORDILEPrincipi filosofico-giuridici della Costituzione della Repubblica romanadel 1849Presentazione di Gustavo Raffi, Gran Maestro del GrandeOriente d’Italia, Palazzo GiustinianiBrenner Editore, Cosenza, 2008, pp. 194, € 20,00

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SEGNALAZIONI EDITORIALI• 109 •

AlchimiaA cura di Andrea De Pascalis e Massimo MarraMimesis, Quaderni di Airesis, Milano, 2007, pp. 256, € 18,00

Presentare al pubblico una raccolta di materiali di studio sul-l’alchimia occidentale, è, per sua stessa natura, un’operazioneche può dar adito a più di una confusione.Materia nomade, erratica, dai contorni identitari incerti, è an-cora oggi difficile dare una definizione dell’alchimia all’in-terno della storia culturale dell’Occidente, definirne unterritorio, una lingua.Terreno ibrido tra tecnica manipolatoria della materia e ten-sione soteriologica ad una rigenerazione microcosmica e macrocosmica, l’alchimia,con la sua natura anfibia, sfugge anche nella moderntità, nonostante i molteplici ten-tativi di classificazione. Un altrove assoluto, una “scienza degli imponderabili” (se-condo una nota definizione coniata da Elémire Zolla) in cui è assai complessoriconoscere radici e nozioni note, rassicuranti. Ci è parso un degno argomento perinaugurare la nostra nuova collana di studi sui rapporti tra l’uomo e il sacro.”

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Chi ha paura di Giordano BrunoViaggio ragionato dentro il libro sul Nolano che non s’ha dascrivere né disegnare.Testi di Maurizio Di Bona, Disegni di theHandPrefazione di Giuliano MontaldoMimesis, Milano, 2006, pp. 109, € 13,00

Il testo raccoglie “in presa diretta” le annotazioni dell’Autore,i bozzetti e parte delle tavole, che servivano alla realizzazionedel romanzo grafico The Nolan — Giordano Bruno è tornato,non terminato per vicende più o meno oscure, che rischia-vano alla fine di far saltare anche questo secondo parto car-taceo, testimone del progetto di partenza. Si compone di 51 illustrazioni e dialtrettante pagine scritte, il tutto impreziosito dall’introduzione di Giuliano Mon-taldo, regista dell’unico Giordano Bruno cinematografico, a cui l’Autore si è ispirato,per restituire al filosofo volto e corporeità (quelli dell’attore Gianmaria Volontè) can-cellati dalla Chiesa nel 1600.

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Nel novembre del 2005 Jean Baudrillard è a Madrid per ritirare laMedaglia d’Oro conferitagli dal prestigioso Círculo de Bellas Artes.Per l’occasione, che giunge pochi mesi prima della sua morte,tiene due conferenze. Qui, con il suo proverbiale incedere afori-

stico, il più sfuggente intellettuale contemporaneo torna sui temi cari alla sua rifles-sione recente: l’egemonia, l’immagine, la fine della distanza, la sparizione. Un pensieroestremo che inchioda l’Occidente all’inevitabile inveramento del proprio Nulla.

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Il fuoco che non brucia. Studi sull’Alchimia.A cura di Massimo Marra.Mimesis, Grande Oriente d’Italia Palazzo Giustiniani, Milano-Udine, 2009, pp. 345, € 26,00

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Per poco che se ne approcci la storia più recente, complessae proteiforme, l’alchimia ci si para innanzi come un fiumecarsico, una corrente sotterranea cui uomini e donne di tempie culture diverse, in diverse declinazioni e caratteri, sem-brano aver attinto ed attingere tuttora. Arti figurative e pla-stiche, letteratura colta e popolare, così come le più recentiarti minori, denunciano sempre più di frequente il segno

inoccultabile di una persistente influenza ermetica. Mircea Eliade ricordava come ilsogno alchemico e prometeico della trasformazione del reale fosse, in qualche modo,il segno fondamentale della civiltà della tecnica in cui siamo immersi. Forse è la co-scienza di ciò che rende ineludibile il discorso ermetico per chiunque oggi sia alla ri-cerca di un senso ulteriore a quello della degenerazione post-illuminista denunciatadalla Scuola di Francoforte. O forse è solo la tenace memoria di una radice insoppri-mibile, una persistente reminiscenza di un diverso piano del rapporto tra uomo ecosmo, ormai nascosta in plaghe dell’essere troppo profonde ed eteree per poter es-sere luminosa, chiara e definita. Abbiamo riunito autorevoli studiosi di varia forma-zione e provenienza con alcuni discepoli contemporanei dell’Arte regale per creare unluogo di confronto collettivo e di libero approfondimento sui paesaggi inaspettati esulle luminose prospettive ancora nascoste del bellissimo ed in gran parte inesplo-rato Giardino di Hermes.

JEAN BAUDRILLARDL’agonia del potereA cura di Marcello Serra. Introduzione di Jorge LozanoPostfazione di Alberto AbruzzeseMimesis, Volti, Milano-Udine, 2008, pp. 61, € 10,00

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Recensioni

A CURA DI ANDREA AROMATICO E GIANMICHELE GALASSISSEECCRREETTAARivista mensile in edicola da Giugno 2009, pp. 96 a colori, € 4,90Editoriale Olimpia in collaborazione con il Gran Capitolo dell’ArcoReale, Rito di York

Giugno 2008. Solstizio d’estate. Un “nuovo fiore” spunta nelleedicole italiane. Un’occasione da “cogliere al volo” per tutti i“curiosi” che desiderino uno spazio davvero interessante di li-bero approfondimento spirituale. Presentata col numero zeroin occasione della Gran Loggia di Rimini, s’intitola SSEECCRREETTAA(sottotitolo: Il mistero, l’uomo, l’infinito) ed è un’originalequanto interessante rivista edita dall’Olimpia, interamente dedicata agli studi inizia-tici e di tutte quelle tematiche relative alle discipline tradizionali: cabala e alchimia,sciamanesimo e magia, religioni e astrologia, sciamanesimo e massoneria, e poi, na-turalmente, tutto ciò che potremmo definire per natura “misterioso” nel senso piùalto del termine.Resterà deluso chi si accosti a questa testata alla ricerca di vaghi esoterismi sensa-zionalistici oggi tanto di moda, almeno quanto si troverà davvero “a casa propria”chi, per natura, mira allo scopo più elevato che un uomo possa prefiggersi: il proprioperfezionamento interiore attraverso la conoscenza. Emergono infatti qui, sia l’alta qualità grafica ché, soprattutto, delle collaborazioni;scelte accuratamente tra il meglio degli autori italiani e non, per dare il vita ad unprodotto affascinante, ma mirato soprattutto ad informare col massimo della serietà.Una voce attuale, nel rispetto della tradizione millenaria.

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A CURA DI GIANMICHELE GALASSIYYRRMMAAGGAAZZIINNEERivista quadrimestrale, pp. 48 a colori, € 5Editore Gran Capitolo dell’Arco Reale in Italia, Rito di YorkInfo: [email protected]

Da lungo tempo, interpretando desideri e necessità di nume-rosi Fratelli, si nutriva l’idea di una rivista che incarnasse unmodello di comunicazione moderna. Una rivista che, purmantenendo valori e volontà della tradizione muratoria, fossecapace di risvegliare la spinta emotiva spesso sopita dalla rou-tine quotidiana. Uno strumento insomma, che non si limi-

tasse affatto nei contenuti e che rispecchiasse le molteplici passioni, interessi, modidi vivere ed essere che animano ciascuno di noi con tutte le differenze del caso. Seforza ed essenza della nostra Istituzione si basano proprio sulla diversificazione socio-culturale degli affiliati, perché non cercare di esaudirne le diverse necessità infor-mative? La risposta a tali quesiti si è manifestata nella ferma intenzione che ci hacondotto ad intraprendere questo cammino: rendere partecipi tutti i lettori alla vitamassonica nelle sue numerose forme. Abbiamo perciò previsto rubriche che si impe-gnano a raccontare ed, a volte, approfondire i più disparati argomenti inerenti l’esi-stenza umana, ritratti dalla singolare angolazione iniziatica. Ecco dunque YYRR MMaaggaazziinnee, una voce nuova con cui contribuire al rafforzamento dellospirito di appartenenza e di fratellanza, utile alla circolazione delle idee e dei valoriche hanno reso grande la nostra istituzione, tentando al contempo di fornirne un’in-terpretazione profonda che possa avvicinare le esigenze dei molti giovani entrati a farparte della nostra “famiglia”.La speranza nell’elevazione umana, in un futuro migliore, deve spingere l’uomo a tra-sferire nella sfera materiale i principi teorici più alti, senza rimanere incollato all’ideache il singolo non possa fare la differenza: dobbiamo impegnarci verso un’evoluzionepositiva della società, vivificando quotidianamente quei valori che professiamo. Con-siderando poi, l’enorme crescita numerica dell’Istituzione negli ultimi anni (dato uf-ficiale: circa il 40% di massoni con un anzianità inferiore ai 7 anni), si traduce in unnecessario impegno e sacrificio dei veterani per trasmettere l’essenza dell’essere ini-ziati, non dimenticando di dare un continuo esempio di come vivere e agire da mas-soni. Sperando di riuscire almeno in alcuni dei molti scopi che ci siamo prefissati,voglio augurarvi a nome dell’intera redazione: buona lettura!

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RECENSIONI