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23 23 quaderni di geostrategia 2012 maggio-giugno registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma numero 67 anno XIII euro 10,00 Sconfiggere i pirati? Basta volerlo Come vincere una guerra mai dichiarata ANDREA NATIVI All’arrembaggio di conti e profitti Quanto costano gli assalti al commercio e agli Stati VALERÌE MIRANDA La storia ci insegna come affrontarli Inventario delle strategie del passato VIRGILIO ILARI Criminali alla sbarra Trattati, norme e giurisdizioni. Ma arrestarli è possibile NATALINO RONZITTI D i f e s a i n t e l l i g e n t e e a n t i c r i s i Vincenzo Camporini M i s t i c a e t e c n i c a d e l t e r r o r e a l l a c l o c h e Mario Arpino A C Q U E P E R I C O L O S E A C Q U E P E R I C O L O S E CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO? CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO? risk risk • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •

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2323quaderni di geostrategia

2012maggio-giugno

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 67anno XIIIeuro 10,00

Mario Arpino

Pejman Abdolhammadi

Vincenzo Camporini

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Valerìe Miranda

Andrea Nativi

Laura Quadarella

Natalino Ronzitti RIS

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Sconfiggere i pirati? Basta volerloCome vincere una guerra mai dichiarata

ANDREA NATIVI

All’arrembaggio di conti e profitti Quanto costano gli assalti al commercio e agli Stati

VALERÌE MIRANDA

La storia ci insegnacome affrontarliInventario delle strategie del passato

VIRGILIO ILARI

Criminali alla sbarraTrattati, norme e giurisdizioni.Ma arrestarli è possibile

NATALINO RONZITTI

Difesa intelligente e anticrisiVincenzo Camporini

Mistica e tecnica del terrore alla cloche Mario Arpino

ACQUE PERICOLOSEACQUE PERICOLOSE

CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO?

CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO?

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quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

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EditoreFiladelfia,

società cooperativa di giornalisti,via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.

Redazione via della Panetteria, 10/-1

00187 Roma.Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email [email protected]

AmministrazioneCinzia Rotondi

Abbonamenti40 euro l’anno

Stampa Centro Rotoweb s.r.l.via Tazio Nuvolari, 3-16

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Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

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RUBRICHEArpino, Incisa di Camerana, Ilari,

J. Smith, Gattamorta, GefterWondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

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N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi

di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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• DOSSIER •

Sconfiggere i pirati? Basta volerlo Andrea Nativi

All’arrembaggio di conti e profittiValerìe Miranda

Criminali dietro le sbarreNatalino Ronzitti

Le Tortughe del XXI secoloPierre Chiartano

La storia ci insegna come affrontarliVirgilio Ilari

pagine 5/41

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 42/43

• SCENARI •

Difesa intelligente e anticrisiVincenzo Camporini

Autunno yemenitaLaura Quadarella

Lotte di potere all’ombra dei mullahPejman Abdolmohammadi

pagine 44/63

• SCACCHIERE •

EuropaAlessandro Marrone

AmericheRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Giancristiano DesiderioMario Arpinopagine 74/79

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ACQUE PERICOLOSE

È strano parlare di pirateria nel Terzomillennio, ma è così, dal Golfo di Aden allo Stretto di Malacca,senza dimenticare l’ultimo arrivato, il Golfo di Guinea, sventola labandiera nera dei nuovi filibustieri.Bande criminali che hanno capitocome sfruttare l’importanzastrategica degli approvvigionamentivia mare per il mondo sviluppato. È anche uno dei sottoprodotti dei cosiddetti failed state, paesi nonpiù in grado di controllare il proprioterritorio e le acque prospicienti le coste, anche se in alcune aree è un fenomeno da considerareendemico. È anche il prodotto diun’economia della sopravvivenzaormai fuoriuscita dal contesto deipaesi civili, con le sue basi costiereche sono di fatto le nuove Tortughe.Nella storia abbiamo avuto moltiesempi in cui la pirateria ha giocatoun ruolo nei delicati equilibrigeopolitici. Pompeo sconfisse a suotempo questa piaga. Lo stessohanno fatto nel corso dei secoli le marine in ogni parte del mondo,utilizzando una combinazione di unità navali e di operazionianfibie. Per non parlare del caso dei corsari, di fatto militari regolari,con navi bene armate, utilizzati dai governi per condurre una guerrairregolare. Le cose oggi sonofortunatamente cambiate. I modernipirati utilizzano prevalentementebarchini e battelli veloci di piccoledimensioni (skiff). Già nelMediterraneo antico era ben chiarala distinzione tra pirati e corsari, cioè tra la rapina illegale e quellaautorizzata da un sovrano contro i suoi nemici. Nell'Occidentemoderno le regole di legalizzazionedella rapina marittima risalgono almedioevo e, per l'Inghilterra, al Liberniger Admiralitatis di Riccardo Cuordi Leone. Sebbene vietata fra i contraenti della pace di Westfalia, la guerra corsara caratterizzò le guerre europee del 1688-1748,costate oltre 10mila mercantili allasola Inghilterra.Oggi quello che salta agli occhi è quanto i governi spendono pertenere in mare una flotta di fregate e unità militari sovradimensionaterispetto al compito,sottodimensionate rispetto al numerodi navi necessario per controllareun’area vastissima. Basterebbeattaccare la basi terrestri di questebande dell’arrembaggio. Quandovedremo le nuove Tortughediventare il bersaglio della politicaantipirateria, vorrà dire che si èdeciso di fare sul serio.

Ne scrivono: Chiartano, Ilari, Nativi, Miranda e Ronzitti

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anno dopo anno, la comunità internazionale e le piùgrandi potenze navali senza che qualcuno decida diaffrontare il problema alla radice. Cosa ci direbbePompeo? Consiglierebbe di seguire il suo esempio(contro gli Illiri, nel 67 a.C.), andando a stanare i pi-rati nelle loro basi, distruggendole, affondando i bat-telli usati dai criminali eliminando qualunque piratavenga individuato, in mare o in terra. Pompeo scon-fisse a suo tempo la piaga della pirateria. Lo stesso hanno fatto nel corso dei secoli le marinein ogni parte del mondo, utilizzando una combinazio-ne di unità navali e di operazioni anfibie. E va tenu-to in mente che per secoli i pirati hanno impiegato na-vi e bastimenti, armi e tecnologie che non erano poitroppo dissimili da quelli utilizzati dalle marine daguerra. Quando si andava allo scontro poteva acca-dere che la battaglia fosse, se non tra eguali, almenotra simili e qualche volta i pirati non solo la facevanofranca, ma riuscivano addirittura a prevalere. Per nonparlare del caso dei corsari, di fatto militari regolari,con navi bene armate, utilizzati dai governi per con-durre una guerra irregolare. I corsari sono una presen-za ricorrente nella storia la navale e la Marina tede-

sca li utilizzò sia nella prima sia nella seconda guer-ra mondiale. Le cose oggi sono fortunatamente cam-biate. I moderni pirati utilizzano prevalentemente bar-chini e battelli veloci di piccole dimensioni (skiff),in genere scalcinati, appoggiati o meno da unità“madre” quando si tratta di agire a centinaia di mi-glia di distanza dalle coste. Ma anche queste navipiù grandi sono alla fine niente più di peschereccio battelli da trasporto (dhow) convertiti al nuovoruolo, sequestrati o “prestati”. Grazie a queste uni-tà i pirati hanno progressivamente esteso il loro rag-gio d’azione. Nel 2005 difficilmente si spingevanooltre le 170 miglia, poi hanno continuato ad amplia-re la distanza delle loro scorrerie, fino a superare,lo scorso anno, le 1.300 miglia nautiche, con “mis-sioni” che possono durare per settimane e settima-ne. Ecco così che l’area «ad alto rischio» si è anda-ta progressivamente ad ampliare, fino a raggiunge-re l’estensione di 2,6 milioni di miglia nauticheun‘enorme fascia di oceano dal Golfo Persico, al-l’Oceano Indiano e le coste africane sempre più asud. Con il risultato che si è stimato che per averela possibilità di intervenire in ogni punto di questa

COME AFFRONTARE I NUOVI FILIBUSTIERI SENZA GLI SPRECHI DI UN APPARATO NAVALE FUORI MISURA

SCONFIGGERE I PIRATI? BASTA VOLERLODI ANDREA NATIVI

e Pompeo, il generale romano, tornasse in vita e gli si presentasse un brie-fing sulla minaccia rappresentata dalla moderna pirateria e gli si spiegas-se come i governi stanno affrontando il problema… penserebbe che i suoiepigoni moderni siano impazziti. In effetti è incredibile che una masnadadi banditi, più o meno organizzata, sia in grado di tenere in scacco,

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area entro un’ora dall’allarme servirebbero oltre 80navi da guerra dotate di elicotteri!Quanto all’armamento, i pirati si limitano alla dota-zione di una unità base di fanteria: fucili d’assalto,mitragliatrici leggere, granate, una vasta gamma dilanciarazzi controcarro, con prevalenza dell’univer-sale rpg (rocket propelled granade) sovietico. I cri-minali sono ingegnosi, hanno una rete di spie ed in-formatori, hanno imparato a condurre una rudimen-tale forma di guerra elettronica monitorando trasmis-sioni radio e messaggi e questo consente loro di di-sporre di una discreta intelligence, che permette siadi individuare le potenziali prede, sia di seguire lemosse delle navi militari. Si sono anche dotati di unaorganizzazione relativamente articolata e complessa,con diverse bande “operative” che riportano struttu-re di comando che impiegano le forze, trattano i ri-scatti, incassano e distribuiscono i proventi. Sono ag-gressivi, abili marinai, molto flessibili, astuti nellosfruttare le debolezze dell’avversario, ricorrono alla

corruzione, alle spie, agli informatori. Si stima che ipirati siano complessivamente alcune migliaia, inqua-drati in un centinaio di gruppi, i quali fanno capo aduna dozzina circa di organizzazioni principali. Niente di che, a dire il vero. Dal punto di vista mili-tare i pirati non rappresentano un problema, sono cri-minali spinti dalla motivazione economica, non daquella ideologica o religiosa e non hanno alcuna in-tenzione di immolarsi per la causa. Ed anzi, avendo la consapevolezza di rischiare dav-vero poco, non hanno alcun motivo per spingere ipropri attacchi fino in fondo: se una preda si rivelatroppo difficile oppure se l’abbordaggio viene im-pedito o ostacolato non c’è motivo di insistere e ri-schiare di farsi male, basta attendere una nuova op-portunità. E il senso di impunità è così diffuso chein qualche occasione i pirati hanno usato le propriearmi contro le unità e i mezzi militari, in un paio dicasi si è trattato di elicotteri e unità navali italiane,le quali naturalmente non hanno risposto al fuoco,in ossequio alle prudentissime regole di ingaggioricevute, che a stento consentono l’autodifesa, fi-gurarsi la ritorsione. Altri governi/marine non han-no queste fisime e la varietà di comportamenti hatalvolta portato i pirati a sottovalutare chi avevanodi fronte, con conseguenze spiacevoli, ancorché po-co reclamizzate. Per intenderci, ci sono stati battel-li pirati affondati, con i criminali uccisi, altri casi incui i pirati a bordo di navi sequestrate sono stati cat-turati e passati per le armi. Ma si tratta di eccezio-ni. In realtà anche quando si arriva alla cattura deipirati (evento raro) i prigionieri la passano liscia,spesso vengono immediatamente rilasciati – oltreun migliaio di banditi è stato liberato e talvolta daoperazione militare o di polizia si passa a missionedi… soccorso in mare – o se e quando processati,escono dai tribunali con condanne simboliche. Que-sto spiega perché il numero degli attacchi tentati au-menti o al massimo resti costante e il fatto che lapercentuale di successo sia drasticamente diminui-ta, scendendo al di sotto della media del 40 per cen-to degli ultimi anni, non è confortante, né lo è la di-

Per contrastare la pirateria si impiegano unità navalimolto sofisticate, costose e assolutamente spropositatein rapporto al tipo di minacciae alla natura della missione.Invece di pattugliatori oceanici, rifornitori e corvette,le marine impiegano addirittura incrociatori lanciamissili, grandi navi da assalto anfibio,cacciatorpediniere, fregate.Navi concepite per combattereconflitti ad alta intensità contronemici di pari qualità

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minuzione del numero di navi sequestrate e di ostag-gi mantenuti nelle basi dei pirati. Per rispondere al-la pirateria la comunità internazionale ha adottatouna serie di misure, che vanno dalla collaborazio-ne con le autorità (si fa per dire) somale per cerca-re di controllare meglio le coste e per condurre pro-grammi di aiuto a livello locale, a pratiche di pre-venzione/protezione per le navi mercantili, allo spie-gamento di unità militari con compiti di sorveglian-za, intelligence, in qualche caso scorta diretta, de-terrenza ed intervento. La speranza che qualcuno inSomalia potesse convincere i pirati a rinunciare aduno dei pochi business redditizi nel disastrato pae-se (viene sfruttato anche a livello semi istituziona-le, oltre che dalle reti terroristiche) è miseramentenaufragata. Più efficaci sono risultate le proceduree le soluzioni volte a rendere più difficile (ma nonimpossibile) l’attacco ai mercantili e il loro seque-stro/dirottamento verso le basi utilizzate dai pirati.

Perché ci arrendiamo ai pirati?Se i pirati non rappresentano un problema militare,risulta ancor più difficile comprendere perché, da an-ni, governi e organizzazioni internazionali non sianopassati all’azione. In realtà il comportamento adotta-to si spiega solo con… la ricchezza delle economie.La pirateria è sì un problema, ma non è così grave. Sipuò pagarne il costo senza andare in bancarotta. An-che se si tratta di cifre elevatissime: ci sono i paga-menti dei riscatti, centinaia di milioni di dollari all’an-no (si è partiti da una media di 150mila dollari nel2005 per arrivare in fretta ad 5 milioni di dollari, conpunte sopra i 10 milioni per navi grandi e pregiate),poi ci sono i costi per lo shipping, dall’aumento deinoli, agli oneri per la sicurezza, alle rotte meno diret-te, alla più elevata velocità che i bastimenti devonotenere, ai premi assicurativi, al rinforzo degli equi-paggi ed alle nuove procedure di navigazione, alla in-stallazione di apparecchiature e sistemi addizionali.Infine non va dimenticato il costo che i governi de-vono sostenere per tenere in mare una flotta colossa-le, che comprende unità navali ed aerei di ogni tipo.

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Se si fanno un po’ di somme, si scopre che i costicomplessivi che il sistema economico deve sostene-re si misura in miliardi di dollari, probabilmente an-cor più dei 7 miliardi di dollari/anno stimati daglianalisti. Evidentemente si ritiene che questi soldi rap-presentino un onere sostenibile, perché altrimenti sisarebbe già passati a soluzioni più decise. Del restola storia insegna che frequentemente i pirati si sonoaccontentati di taglieggiare le prede pretendendo pa-gamenti regolari in cambio della rinuncia ad effet-tuare attacchi contro le navi mercantili. Probabilmen-te se si adottasse una soluzione del genere si potreb-be risolvere la questione… risparmiando. Ma gover-ni ed autorità internazionali non sono disposte a per-dere la faccia… in modo ufficiale. Ed ecco quindiche continua il teatrino, con i dotti dibattiti giuridici,con lo schieramento di forze navali molto consisten-ti. In questo, va detto, c’è anche la complicità dellemarine, le quali hanno trovato nel contrasto della pi-rateria se non una ragione d’essere, quantomeno unmodo per contrastare una pericolosa «sindrome dadisoccupazione». Già, perché se gli eserciti sono mas-sicciamente impegnati in operazioni di controguer-riglia e stabilizzazione in tutto il mondo, supportatidalle aeronautiche, le cose vanno diversamente perle forze navali. Che in qualche misura sono ridotteal ruolo di fleet in being con funzione deterrente. Unruolo molto costoso e pericoloso in un contesto di ri-duzione della spesa per la difesa. Ecco così che percontrastare la pirateria si impiegano unità navali mol-to sofisticate, costose e assolutamente spropositatein rapporto al tipo di minaccia e alla natura della mis-sione. Invece di pattugliatori oceanici, rifornitori, cor-vette le marine impiegano addirittura incrociatori lan-ciamissili, grandi navi da assalto anfibio, cacciator-pediniere, fregate. navi concepite per combattere con-flitti ad alta intensità contro nemici di pari qualità.Non certo per dare la caccia a barchini mossi da mo-tori fuoribordo. E più che i velivoli senza pilota sicontinuano ad utilizzare estensivamente elicotteri eaerei da pattugliamento marittimo. È come sparareai passeri con un cannone!

Neanche i tagli di bilancio hanno portato a sceltepiù oculate nella composizione delle flotte. Servi-rebbero forse più navi, ma meno sofisticate. Soloche le Marine queste navi in molti casi non le pos-siedono (perché puntano sempre allo spettro più al-to delle possibili operazioni) o comunque non le im-piegano dove sarebbero più necessarie. Non si puòche sperare che si passi quindi dalla dissuasione/de-terrenza a qualcosa di più efficace, impiegando pe-rò mezzi e risorse proporzionate alla reale dimen-sione militare della questione.

Come vengono difesi i traffici marittimiPer proteggere le linee di comunicazione marittimasono state adottate procedure, regole e soluzioni viavia più sofisticate, che mirano ad ostacolare la indi-viduazione dei bersagli, l’attacco, il sequestro e il di-rottamento. L’Imo, Un International maritime orga-nization, ha definito procedure volte scongiurare gliattacchi (il Dijbuti code of conduct), ha creato tre cen-tri regionali, gli Information sharing centers, ha isti-tuito un centro di addestramento regionale per gli equi-paggi, a Dijbuti. Il presupposto della sicurezza è na-turalmente la conoscenza precisa della posizione, rot-

Il comando Nato di Napoli ha condotto veri e propri wargames per testare i piani messi a punto per condurre attacchi contro le basi dei pirati. La stessaMarina militare italiana era pronta ad intervenire con le proprie forze anfibie per attaccare uno dei sorgitoriin Somalia e liberareun rimorchiatore e il suo equipaggio

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ta e velocità delle navi mercantili. Dati che con rice-vitori Gps e apparati trasmittenti “nascosti” possonoessere costantemente ricevuti da apposite stazioni,mentre, in caso di necessità, può essere trasmesso unsegnale di allarme, persino quando i pirati sono già abordo. Un allarme tempestivo consente alle forze na-vali presenti nella regione di intervenire e, in molticasi, sventare l’attacco. Sistemi come il ShipLoc so-no disponibili da oltre un lustro. Altri accorgimenticonsistono nello spostare sempre più a largo dalle co-ste le rotte dei mercantili, nell’aumentare la velocitàdi crociera, nel richiedere agli equipaggi di mantene-re una sorveglianza costante durante la navigazionein aree a rischio. Abbastanza efficaci sono anche lemanovre difensive per evitare l’abbordaggio: se il pe-ricolo è scoperto in tempo e la nave accelera e con-duce manovre evasive appropriate, per i pirati diven-ta difficile salire a bordo e in molti casi la nave riescea scampare all’attacco. Vi sono anche le misure di di-fesa passive, come la installazione di barriere anti ab-bordaggio, anche semplicemente costituite da rotolidi filo spinato o bidoni, nonché l’utilizzo di razzi il-luminanti o di potenti idranti. La tecnologia mette poia disposizione una serie di armi non letali che in mol-ti casi può convincere i pirati a desistere. Si parte daicannoni acustici a quelli a microonde ad una serie didispositivi e tecnologie più o meno sofisticate. Una soluzione più drastica prevede l’imbarco di te-am di sicurezza, costituiti da guardie private o da per-sonale militare del paese di bandiera. Non vi è dub-bio che si tratti di una formula efficace: se i pirati checonducono all’attacco si vedono sparare addosso dapersonale sicuramente meglio armato e addestrato èben difficile che insistano. Basta spesso sparare in ariao davanti al battello dei pirati per convincerli a rinun-ciare. Peraltro se si arriva allo scontro a fuoco le con-seguenze, anche sul piano politico, possono esseregravi, come dimostra il caso dei due fucilieri di ma-rina italiani arrestati dalle autorità indiane. Il presupposto di una difesa di successo consiste co-munque nella «consapevolezza della situazione» in-torno alla nave, che può essere ottenuta tramite un

flusso di informazioni fornito da fonti esterne, inte-grato con sensori di vario tipo, il tutto processato daun piccolo centro di comando e controllo, la cui ge-stione può essere altamente automatizzata. Diversi si-stemi di questo tipo sono stati sviluppati dalle indu-strie, compresa l’italiana Selex sistemi integrati. E c’ègià stata una sperimentazione a bordo di unità mer-cantili. Ancora, si possono creare di veri e propri con-vogli, costituiti da più mercantili che navigano in grup-po, eventualmente scortati da navi da guerra o da uni-tà fornite da società di sicurezza private (il ricorso anavi ed equipaggi armati forniti da società militari pri-vate è stato proposto anche in ambito europeo ed èfrequente per armatori statunitensi e internazionali).Ma occorre un difficile coordinamento dei traffici eprocedure ben definite per realizzare qualcosa del ge-nere, con costi abbastanza elevati. E poi non ci si de-ve difendere dai «branchi di lupi» degli U-boot nazi-sti, ma solo dai barchini dei pirati!Lo spiegamento di forze navali è volto invece a crea-re una capacità d’intervento in caso di attacco di na-vi mercantili impiegando elicotteri o mezzi navali ve-loci. Si punta ad una sicurezza d’area, cosa peraltroresa complicata dall’ampliamento delle zone a rischio.Il massimo livello di protezione viene raggiunto conla scorta diretta: uno o più mercantili vengono scor-tati direttamente da una nave da guerra durante tuttao gran parte della loro navigazione. Questa soluzio-ne è stata adottata per proteggere le navi impegnatenel programma alimentare Onu in Africa, ma si trat-ta di una scelta costosissima giustificabile solo in ca-si eccezionali.

Come risolvere il problema Le autorità militari di tutti i paesi costretti ad affron-tare la pirateria sanno perfettamente cosa dovrebbeesser fatto per stroncare una volta per tutte il fenome-no. Nella consapevolezza che la prevenzione e l’at-tacco preventivo sono molto più efficaci delle misu-re difensive attuate dalle navi mercantili o dei tenta-tivi di liberazione quando le prede sono state condot-te in porto. La “ricetta” prevede una serie d’ingredien-

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ti, il primo dei quali consiste naturalmente nel proibi-re agli armatori di pagare i riscatti richiesti dai crimi-nali. Si è fatto per stroncare il fenomeno dei sequestridi persona a scopo di estorsione ed ha funzionato. InItalia lo abbiamo sperimentato. Lo stesso approccioè stato adottato anche nel caso del terrorismo, o alme-no, alcuni paesi (tra i quali purtroppo non c’è l’Italia,sempre pronta ad aprire il portafoglio e neppure Israe-le, che per ottenere la liberazione di un prigioniero èpronta a liberare schiere di terroristi), come gli Usa,si rifiutano addirittura di trattare con i terroristi, costiquel che costi. Se gli armatori non pagano… i piratinon hanno più convenienza economica a continuaregli attacchi. In secondo luogo si dovrebbe interveni-re quando i pirati sono in mare, quando sono uscitidalle acque costiere e puntano verso il largo a cacciadi prede. Sì, i mari sono vasti, la quantità di barche ebarchette che li solcano è enorme, ma ora che le lineedi navigazione sono state spostate ben a largo dallecoste, in qualche caso per centinaia di miglia, il nu-mero di battelli da sorvegliare diminuisce drastica-mente. Senza contare che i principali sorgitori (spec-chi di mare aperto destinati all’ancoraggio) utilizzatidai pirati sono ben noti e sono costantemente tenutisotto controllo. E se i pirati intercettano le comunica-zioni delle navi mercantili e persino i segnali emessidai trasmettitori di posizione, anche le loro comuni-cazioni possono essere (sono) monitorate, intercetta-te ed analizzate. In questo modo può essere possibi-le seguire movimenti, rotte, velocità dei battelli deipirati e, correlando le diverse informazioni, ottenerepiù che un’idea su natura ed intenzioni degli equipag-gi di questo o quel battello. Perché chi va a pesca oconduce traffici costieri di piccolo cabotaggio si muo-ve in modo ben diverso da una banda di pirati. Inol-tre i sensori di cui dispongono i velivoli di sorveglian-za, con o senza pilota, permettono di ottenere una do-cumentazione video, di giorno come di notte, ad altadefinizione che oltre ad avere un valore giuridico pro-batorio consente ad esempio di verificare se gli equi-paggi siano o meno armati. Se poi i battelli si lancia-no all’inseguimento di qualche mercantile o tentano

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l’abbordaggio… non ci sono più dubbi. I velivoli obattelli veloci utilizzati dalle unità navali militari sa-rebbero perfettamente in grado di attaccare ed affon-dare i natanti utilizzati dai pirati e le relative navi ma-dre, invece che condurre sterili interventi “dissuasi-vi”. Si potrebbe poi intervenire con le armi anchequando un mercantile viene dirottato verso la costa,così come sui mezzi navali dei pirati che rientranoverso i porti di origine. Non c’è bisogno di schierare forze militari davveroconsistenti o di utilizzare sofisticate tecnologie. Quan-to serve è già a disposizione. Basterebbe semplice-mente cambiare il modo in cui vengono utilizzati gliuomini e i mezzi che la comunità internazionale im-piega a profusione per contrastare la pirateria. Modi-ficando le regole d’ingaggio, tanto più visto che siopera in alto mare o eventualmente nelle acque terri-toriali di Paesi falliti come Somalia o Yemen, le ma-rine sarebbero in grado di rendere finalmente pococonveniente il mestiere del pirata. In ultimo rimanel’opzione rappresentata dall’attacco contro le basi del-la pirateria. In questi anni qualche raid condotto dal-le forze speciali (ad esempio quelle francesi) è statoeffettuato per liberare questa o quella unità e i relati-vi equipaggi. Ma si è trattato di interventi spot e conscopo limitato. Quando si parla di colpo di mano an-fibio però ci si riferisce a qualcosa di più impegnati-vo, anche se si esclude totalmente una occupazionepermanente del territorio. Il colpo di mano è una ope-razione di breve durata, il cui successo dipende dalladisponibilità di un quadro intelligence completo e det-tagliato, di una pianificazione che punti sullo sfrutta-mento del fattore sorpresa, su una esecuzione rapidae decisa. Si tratta dell’abc delle operazioni anfibie. Imilitari operazioni del genere le hanno studiate e pro-vate per decenni. Ad esempio non è un mistero che ilcomando Nato di Napoli abbia condotto veri e propriwargames per testare i piani messi a punto per con-durre attacchi contro le basi dei pirati. La stessa Ma-rina militare italiana era pronta ad intervenire con leproprie forze anfibie per attaccare una delle basi deipirati in Somalia e liberare un rimorchiatore e il suo

equipaggio. Una Lpd con a bordo un contingente del-le forze speciali (il GI di Comsubin) e reparti di fan-teria di marina del San Marco è rimasto al largo del-le coste somale per settimane. Inutilmente, perché al-la fine si è preferito pagare il riscatto. Dunque uno o più colpi di mano anfibi potrebbero ri-solvere la situazione. Lo scopo di siffatte operazioninon dovrebbe limitarsi a “conquistare” i porti, libera-re le navi mercantili sequestrate ed i relativi equipag-gi, ma dovrebbe anche prevedere la distruzione deibattelli usati dai pirati e la cattura e l’eliminazione delmaggior numero possibile di criminali. Dopo di checi si ritirerebbe immediatamente. L’operazione po-trebbe essere condotta con effetto sorpresa, sfruttan-do sia la dimensione verticale (elicotteri, convertipla-ni) sia quella navale, per “imbottigliare” il nemico eottenere il massimo shock, lanciando l’attacco prefe-ribilmente nelle ore notturne e da oltre la linea del-l’orizzonte. Le forze e i mezzi per effettuare attacchidel genere, anche simultanei, non mancano certo. Unaaccurata pianificazione potrebbe consentire di limita-re al massimo i danni collaterali e la possibilità che ipirati possano opporre una forte resistenza. Attaccatinei propri santuari, braccati in mare, privati dei mez-zi navali e delle prede, senza poter più incassare lau-ti riscatti i pirati non avrebbero difficoltà a compren-dere che il gioco non è più pagante. Certo è che se ifunzionari della Imb sostengono seriamente che il mo-

Spesso basta sparare in aria o davanti al battello dei piratiper convincerli a rinunciare.Peraltro se si arriva allo scontroa fuoco le conseguenze, anchesul piano politico, possonoessere gravi, come dimostra il caso dei due fucilieri di marina italiani arrestati dalle autorità indiane

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do migliore per combattere la pirateria in Somalia è…sviluppare l’economia locale, davvero non fanno al-tro che ribadire il messaggio che negli ultimi 7-8 an-ni i pirati hanno scelto di non raccogliere, peraltro conottimi motivi. Se si scegliesse davvero la via del soc-corso economico e della collaborazione, dovremmofronteggiare un fenomeno sempre più vasto e virulen-to, sine die. È il caso quindi di cambiare approccio.Ed è significativo che, dopo tanti anni, l’Unione eu-ropea si sia svegliata (forse questo avviene solo per-ché le economie soffrono) ed abbia rivisto il manda-to della missione Atalanta, dopo averne prorogato ladurata fino al 2014. Finalmente è stato autorizzato ilricorso alla forza contro i pirati nelle acque territoria-li somale, nonché l’attacco contro obiettivi costieriper distruggere i ferri del mestiere impiegati dai pira-ti (battelli, depositi di carburante, attrezzature, mez-zi). Non è ancora chiaro se siano o meno autorizzatianche i colpi di mano anfibi. Certo, considerando cheAtalanta è partita nel 2008 (la Nato conduce la ana-loga missione Ocean Shield) si può davvero dire che…non è mai troppo presto. Occorre però augurarsi chei governi e le marine sfruttino al più presto le nuoveregole, in attesa che ci si decida ad ordinare azioni mi-litari ancora più decise. Finalmente! Non si può che gioire per la liberazionedell’equipaggio della «Montecristo» ad opera di mi-litari britannici, i quali sono riusciti ad intervenire, consuccesso, prima che i pirati riuscissero a portare la lo-ro preda e i 21 marittimi in uno dei vari “sorgitori”dai quali operano. È la prima volta che questo acca-de per quanto riguarda una nave italiana e poco im-porta che l’azione di liberazione sia stata eseguita daunità navali e personale britannico e statunitense: seuna nave della Marina militare fosse stata in posizio-ne utile per entrare in azione, l’intervento sarebbe sta-to condotto con analoga professionalità. Non ci man-cano né i mezzi né gli uomini. A farci difetto è in ge-nere la volontà politica di procedere, di assumere unrischio, per quanto ragionevole, impiegando le nostrecapacità militari per quelli che sono poi i loro compi-ti istituzionali. Si parte sempre dal presupposto che

«chi non fa, non sbaglia» e se si resta a guardare nonpotrà fare una brutta figura di fronte all’opinione pub-blica. Specie se c’è da usare la forza o peggio anco-ra, sparare. Meglio, molto meglio trattare e magaripagare (ah già, noi non paghiamo… ). E persino quan-do i pirati sparano addosso ai nostri militari, come èsuccesso per un elicottero AW101 della Marina inmissione intelligence lungo la costa somala… non c’èreazione. I nostri militari ricordano bene la frustrazio-ne subita tempo fa, quando incursori, marò del SanMarco, navi d’assalto anfibio, elicotteri e quant’altrosono stati costretti ad una inutile crociera davanti al-la Somalia, senza poter entrare in azione, quandoavrebbero avuto tempo e modo per farlo, liberandonavi ed ostaggi. Non si può quindi che salutare posi-tivamente il cambiamento di rotta, perché è evidenteche senza il via libera politico di Roma anche questavolta i pirati sarebbero riusciti nel loro intento. Giàperché una volta che i pirati riescono a portare la na-ve sequestrata nelle loro basi… non resta che trattaree pagare. Intendiamoci, non che sia impossibile an-darsi a riprendere le navi e gli equipaggi ed infatti cisono paesi, come la Francia, che in qualche caso lohanno fatto. Ma l’operazione sarebbe più complessae rischiosa. Meglio agire finché la nave è in mare. Mameglio ancora sarebbe cambiare radicalmente approc-cio nell’affrontare il problema della pirateria, che so-lo l’insipienza politica dei governi ha reso un busi-ness redditizio e a basso rischio persino per gruppi dipirati improvvisati (per non parlare di quelli meglioorganizzati). I pirati sanno bene che rischiano poco onulla. Anche i 21 criminali catturati dagli inglesi sa-ranno presto liberi, dopo il solito palleggio di respon-sabilità e i minuetti giudiziari. E il rischio di beccar-si una pallottola mentre si tenta di attaccare questa oquella nave mercantile è prossimo allo zero. Quindiperché mai rinunciare?Ecco, per risolvere la questione occorre rendere po-co conveniente il mestiere del pirata. Come? La so-luzione più radicale prevede l’assalto delle basi, la«neutralizzazione» dei pirati e delle loro flottiglie, laliberazione delle navi sequestrate e degli equipaggi.

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Si può fare, è già stato studiato come, ma i governinon si decidono a passare all’azione, neanche se sideve agire in un “non paese”, come la Somalia. Sequesta strada, chissà poi perché, visto quello che sifa contro i «terroristi», non è praticabile, almeno sipotrebbe picchiare duro contro i pirati quando van-no a caccia, attaccando e affondando i loro natantiquando si ha una identificazione positiva (e con tut-te le capacità di intelligence e sorveglianza messe inatto non è poi così difficile) e intervenendo sistema-ticamente per abbordare le navi dirottate. Inoltre, do-po tante parole, sono ancora troppe le navi mercan-tili che vanno in mare senza avere a bordo sistemi didifesa passiva ed attiva, comprese guardie private ar-mate o distaccamenti delle forze armate.Un provvedimento che disciplini questa materia nonè stato ancora approvato dal nostro Parlamento, cheevidentemente non ritiene la questione urgente. Lemanovre difensive condotte in modo corretto, i si-stemi di difesa non letali spesso sono sufficienti, maavere a bordo personale armato in grado di ingaggia-re i pirati a distanza di sicurezza… cambierebbe dimolto le regole del gioco. Se così non si fa, rassegna-moci a pagare. Non solo il prezzo dei riscatti (ah già,noi non paghiamo, è bene ripeterlo) ma il costo astro-nomico di mantenere una Invincibile Armada nava-le e un colossale apparato militare impegnato per pro-teggere le linee di comunicazione marittima. A Brus-sels si è parlato seriamente di impegnare persino leportaerei! E l’Italia ha impegnato nella missione Oce-an Shield della Nato il nostro più moderno caccia-torpediniere lanciamissili. Quando i pirati vanno inmare con barchette e natanti ridicoli. Potrebbero ba-stare pattugliatori, con elicotteri e velivoli senza pi-lota (questi ultimi, non si sa perché, l’Italia sulle pro-prie navi non ce li vuole proprio mettere) e un po’ di“grinta”. Sarebbe sufficiente applicare sul mare lestesse regole che valgono nelle nostre città quandole forze di polizia devono affrontare rapinatori arma-ti. Ma sul mare, persino in acque internazionali, cicomportiamo come damine. E i pirati ne approfitta-no, come non capirli?

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carico trasportati ogni anno. È dunque comprensibi-le che garantire la sicurezza delle principali rotte e irelativi guadagni economici rientri oggi tra le prio-rità della Comunità internazionale, soprattutto di fron-te alla recrudescenza di uno dei più antichi criminicontro i traffici marittimi, la pirateria. L’Internatio-nal maritime bureau (Imb) ha registrato, nel 2011,439 attacchi (riusciti e non) di pirateria o rapina ar-mata, di cui oltre la metà (236) al largo delle costedella Somalia, nel Golfo di Aden e nel Mar Rosso.Già questi primi dati mettono in luce le dimensioni– notevoli – della pirateria somala. Infatti, se, da unlato, il numero complessivo degli attacchi ha subitonell’ultimo anno una leggera inflessione (445 nel2010), dall’altro quelli compiuti da pirati somali so-no aumentati (219 nel 2010). Inoltre, da quando nel2008 le Nazioni Unite certificarono per la prima vol-ta la gravità della situazione del Corno d’Africa,l’area di operazione dei pirati somali ha conosciutouna progressiva estensione nell’Oceano Indiano ver-so le Seychelles fino alle coste sud occidentali del-l’India. In realtà, anche sul versante geografico op-posto, nelle acque dell’Africa occidentale, la situa-zione non è meno allarmante. Si sta infatti assisten-do ad un rapido aumento degli attacchi nel Golfo del-la Guinea, senza però che la comunità internaziona-le abbia finora elaborato una strategia di risposta uni-

taria e coerente, come recentemente lamentato dalsegretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon.

Il prezzo pagatodall’economia internazionale

Colpendo le principali rotte marittime internazionali,dall’Asia ai Caraibi, passando per l’Africa, dove mi-gliaia di navi transitano ogni giorno, la pirateria com-porta per la comunità internazionale costi economicinon indifferenti, cui corrispondono, inevitabilmente,altrettanti guadagni per i pirati. Secondo due rappor-ti, tra i pochi disponibili, pubblicati nel 2010 e nel 2011da un think-tank statunitense, la One earth future foun-dation, annualmente la pirateria (nel Corno d’Africa,Nigeria e Golfo di Guinea e Stretti della Malacca) com-porta per l’economia internazionale un costo compre-so tra i 7 e i 12 miliardi di dollari. Di questi, sono im-putabili alla pirateria somala tra i 5,4 e 10,9 miliardidi dollari nel 2010 e tra i 6,6 e i 6,9 miliardi di dolla-ri nel 2011. Non sono poi da dimenticare i costi uma-ni (54 membri di equipaggio uccisi dal 2007) che tut-tavia non sono oggetto della nostra analisi. Le voci checompongono i costi economici diretti della pirateriasono molteplici ed includono in percentuale diversa:riscatti, assicurazioni, compensi maggiorati per l’equi-paggio che attraversa zone ad alto rischio, equipaggia-mento di sicurezza e guardie armate a bordo dei mer-

QUANTO COSTA AL COMMERCIO MARITTIMO E AGLI STATI IL FENOMENO DELLA NUOVA PIRATERIA

ALL’ARREMBAGGIO DI CONTI E PROFITTIDI VALÉRIE MIRANDA

l controllo dei mari ha sempre avuto una rilevanza strategica nel definire ilpotere economico, commerciale e militare di una nazione. Dalla seconda guer-ra mondiale ad oggi, il volume degli scambi marittimi è raddoppiato ognidecennio fino a rappresentare attualmente circa l’80 per cento del commerciomondiale, per un totale di 93mila navi mercantili e 6 miliardi di tonnellate di

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cantili, spese derivanti dalla scelta di nuove rotte e dal-l’incremento di velocità, operazioni militari e varie ini-ziative multilaterali di contrasto alla pirateria e speseper procedimenti legali contro i pirati, inclusa la de-tenzione. A queste devono poi aggiungersi anche i co-sti indiretti in termini di impatto economico-commer-ciale e di sicurezza sulle regioni limitrofe, che tuttaviasono più difficilmente quantificabili. Analizziamo dun-que più in dettaglio le singole voci e valutiamo in chemodo esse incidono sul costo totale della pirateria. Dalpunto di vista metodologico è opportuno precisare chei dati disponibili si riferiscono quasi esclusivamentealla pirateria somala.

Riscatti Il pagamento di riscatti multi-milionari è per la pub-blica opinione uno dei costi più evidenti associati al-la pirateria. La richiesta di un riscatto è frequente so-prattutto nel caso della pirateria somala, laddove inaltre regioni ci si “limita” al sequestro del carico o delsolo mercantile. La One earth future foundation hacalcolato che nel 2011 sono stati pagati 31 riscatti perun totale di circa 160 milioni di dollari, con un note-vole incremento delle cifre richieste (come pure del-la durata delle trattative), il che ha permesso ai piratisomali di mantenere inalterati i loro guadagni a fron-te di una diminuzione nel numero complessivo dei se-questri. La cifra più alta mai pagata finora è stata di13,5 milioni di dollari nell’aprile del 2011 per l’IreneSL, una petroliera (del tipo very large crude carrier),battente bandiera greca. Particolarmente preoccupan-te è poi l’emergere di una nuova tendenza nella ge-stione dei sequestri, in cui al pagamento del riscattosegue la liberazione del mercantile, ma non degli ostag-gi, i quali vengono dunque trasferiti a terra e un ulte-riore riscatto viene richiesto per la loro liberazione. Èinoltre opportuno notare che il costo associato ai ri-scatti non comprende unicamente la cifra «cash» de-stinata ai pirati, ma anche spese aggiuntive per la com-pagnia, quali quelle per la consegna del riscatto stes-so (in genere attraverso un velivolo che getta il dena-ro in mare in contenitori impermeabili), per i nego-

ziatori, per i consulenti legali e il supporto psicologi-co ai membri dell’equipaggio, per i danni alla nave oper le perdite economiche subite durante il fermo. Ta-li costi aggiuntivi tendono in media ad essere equiva-lenti alla somma cash per i pirati che invece è in ge-nere coperta dall’assicurazione delle compagnie mer-cantili. Ci sono tuttavia anche altri costi da conside-rare, forse meno visibili, ma che incidono parimenti,e anche di più, sui bilanci delle compagnie marittime.

Assicurazioni e spese extra per il personaleIl transito in zone a rischio di guerra, come quelle in-festate dai pirati, comporta per le società di naviga-zione il pagamento di premi assicurativi maggiorati.Tali zone sono identificate dal Lloyds market asso-ciation (Lma) Joint war committee e ad oggi includo-no, tra quelle di nostro immediato interesse, l’Ocea-no Indiano, il Golfo di Aden, il Mar Rosso, il Golfodell’Oman, il Golfo di Guinea (al largo della Nigeriae, più recentemente, del Benin), alcune aree delle ac-que tra Indonesia, Malesia e Filippine, e, non da ulti-mo, Venezuela, incluse le installazioni offshore nellasua Zona economica esclusiva. Le due principali for-me di assicurazione e di protezione finanziaria per gliattacchi di pirateria sono la War Risk e la Kidnap &Ransom (K&R), che copre tuttavia solo l’equipaggioe non l’imbarcazione. Stabilire con esattezza i costidei premi assicurativi non è semplice a causa dellascarsa disponibilità di dati, delle clausole di segretez-za imposte dalle società assicurative (come nel casodi sottoscrizione del premio K&R) e anche di possi-bili riduzioni nei premi qualora si ricorra a compa-gnie di sicurezza private o a specifici equipaggiamen-ti di sicurezza a bordo delle navi. La One earth futu-re foundation ha comunque stimato una spesa di cir-ca 635 milioni di dollari per il 2011 per la sola areain cui imperversano i pirati somali. La navigazione inzone ad alto rischio comporta per gli armatori speseaggiuntive anche per l’equipaggio, pari a circa 195milioni di euro nel 2011. Esse includono ad esempioun incremento del 100 per cento del salario base du-rante tutto il transito in aree pericolose. In caso di se-

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questro, l’aumento può essere pari anche al 200 percento, cui si devono aggiungere, forse cinicamente,le perdite che la compagnia subisce per l’inoperativi-tà del marinaio tenuto in ostaggio e le ulteriori speseper la sua sostituzione su altre tratte.

Equipaggiamento di sicurezzaA fronte dei continui attacchi e dei costi dei premi as-sicurativi, un crescente numero di armatori ha sceltodi installare a bordo delle proprie navi equipaggia-menti di sicurezza specifici per zone ad alto rischio.Le «Best management practices» per la protezionecontro la pirateria somala prevedono già alcune mi-sure standard, tra cui l’impiego di mezzi di sorveglian-za rafforzata, filo spinato, televisioni a circuito chiu-so, allarmi, cittadelle, idranti, ecc. Il loro grado di so-fisticazione – e anche il loro prezzo – è ovviamentedestinato ad aumentare di pari passo con lo sviluppotecnologico. Nell’ultimo anno, è stato inoltre semprepiù frequente il ricorso a guardie di sicurezza privatea bordo delle navi, autorizzato da vari Stati (tra cuil’Italia con l’approvazione dalla legge n. 130 del 2agosto 2011) e riconosciuto anche dall’Organizzazio-ne marittima internazionale (Imo). Sulla base delletariffe di queste ultime per ogni transito in zone ad al-to rischio e ipotizzando che, nell’arco del 2011, dal25 per cento al 50 per cento delle navi ha impiegatoa bordo guardie armate private, è stato stimato che illoro costo, unito a quello degli equipaggiamenti di si-curezza standard, si attesta intorno alla ragguardevo-le cifra di 1,1 miliardi di dollari.

Nuove rotte e incremento di velocitàOltre a ricorrere ad equipaggiamenti di sicurezza spe-cifici o guardie private a bordo, un’alternativa che lecompagnie di navigazione hanno a disposizione pertentare di sfuggire a possibili attacchi di pirateria èdi seguire nuove rotte, esigenza particolarmente sen-tita soprattutto nell’area del Corno d’Africa. Se nel2010 la One earth future foundation aveva stimatoche la maggior parte delle navi avrebbe scelto di dop-piare il Capo di Buona Speranza, evitando così del

tutto il transito nel Golfo di Aden verso il Canale diSuez, tale stima è stata oggi rivista al ribasso. A fron-te anche di una continua espansione dell’area infe-stata dai pirati, sembra infatti molto più vantaggiosodal punto di vista economico continuare ad attraver-sare le zone a rischio pagando premi assicurativi piùelevati o impiegando compagnie di sicurezza priva-te, oppure navigare lungo le coste indiane transitan-do allora solo marginalmente nel Corno d’Africa. Siain un caso che nell’altro, ci sono comunque dei co-sti da sostenere, i quali si è stimato siano compresitra i 486 e i 680 milioni di dollari all’anno. La modi-fica delle rotte è tuttavia una scelta quasi obbligatasoprattutto per le imbarcazioni più lente, come le pe-troliere, che sono più esposte a possibili attacchi esono anche le più riluttanti ad impiegare guardie ar-mate a bordo, considerata la pericolosità e l’infiam-mabilità del carico. Si è osservato infatti che le pos-sibilità che un attacco abbia successo si riducono no-tevolmente se la nave viaggia a 18 nodi o più. In re-altà, per la maggior parte delle imbarcazioni, la ve-locità di crociera più efficiente sotto il profilo econo-mico è tra i 10 e 15 nodi. Tale incremento di veloci-tà, seppure limitato a determinati tratti, ad esempionel Corno d’Africa, comporta dunque una maggio-razione nei costi, dovuta in primis al maggiore con-sumo di carburante e alle relative sovrattasse che de-vono essere applicate. Si ritiene che questi consumiaggiuntivi ammontino ad almeno 2,7 miliardi di dol-lari. Essi rappresentano, da soli, la componente cheincide di più sui costi complessivi della pirateria (trail 22% e il 37%).

Iniziative di contrastoI costi finora descritti, pari a circa l’80 per cento deltotale, sono sostenuti essenzialmente dal settore pri-vato. L’apparato pubblico copre invece le spese pertutte le iniziative internazionali a contrasto della pi-rateria, dalle operazioni militari alle misure legali peril perseguimento e la detenzione dei responsabili diatti di pirateria o di rapina armata. Le stime fornitedalla Oeff per le operazioni militari, equivalenti ad al-

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meno 1,27 miliardi di dollari per il 2011, si riferisco-no alle tre principali missioni dispiegate nelle acquedel Corno d’Africa, cioè Eunavfor (Unione europea),Ocean Shield (Nato) e Ctf 151 (coalizione interna-zionale). Esse si compongono dei soli costi cosiddet-ti incrementali, cioè i costi ulteriori (consumo di car-burante, addestramento ed equipaggiamento specifi-ci, turnazione del personale, ecc.) che la conduzionedi specifiche attività di contrasto alla pirateria com-porta rispetto alle attività militari attuate in condizio-ni di normalità. Applicando il principio «costs lie whe-re they fall», gli stati parte delle operazioni contribui-scono mediante navi da combattimento o ausiliarie,velivoli da ricognizione o pattugliamento marittimo(Uav), nuclei militari di protezione (altrimenti cono-sciuti come vessel protection detachment team) e per-sonale a bordo o distaccato presso i quartieri genera-li. Alle operazioni militari devono poi aggiungersi,con un budget tuttavia sensibilmente inferiore (circa20 milioni di dollari), tutte quelle iniziative fiorite ne-gli ultimi anni sotto l’egida d’organizzazioni interna-zionali e in seno alla società civile, dedite a contra-stare la pirateria e le attività illecite ad essa collega-te, rafforzando ad esempio la cooperazione regiona-le ed internazionale, intensificando i controlli sui traf-fici illegali, formando le forze di polizia e gli opera-tori di giustizia dei paesi interessati o facendo operadi sensibilizzazione presso le realtà locali. Rientranoinfine in una categoria distinta i costi sostenuti per ildifficile perseguimento legale e la successiva deten-zione dei pirati. Considerate le deboli capacità soma-le, sono soprattutto gli altri Stati della regione, comeKenya, Mauritius e Seychelles, o gli stati occidenta-li, a farsi carico dei processi, sebbene siano molto piùriluttanti a detenere nelle loro carceri i colpevoli. Som-mando i costi dei procedimenti giudiziari e quelli perla detenzione, la stima indicata per il 2011 è di pocopiù di 16 milioni di dollari.

I guadagni per i pirati Ciò che rappresenta un costo per qualcuno, costitui-sce inevitabilmente un guadagno per un altro. E la pi-

rateria non si sottrae a questa logica. Con il significa-tivo incremento nella cifra richiesta per i riscatti, lapirateria è diventata infatti negli ultimi anni estrema-mente lucrativa. Essa è gestita ormai alla stregua diun’attività economica vera e propria, di gran lungapiù redditizia rispetto a quelle tradizionali, peraltromolto limitate nelle aree dove essa è fiorita. Gli esper-ti hanno individuato tre principali modelli gestiona-li: «strutture familiari a cottimo», in cui in genere viè un unico proprietario, che può anche essere a capodel gruppo dei pirati e che, se l’attacco ha successo,tiene per sé la parte più consistente del riscatto; «coo-perative o società per azioni» in cui i singoli pirati in-vestono nell’operazione a titolo personale (dalle ar-mi ai rifornimenti) e dividono poi gli introiti; «asso-

ciazioni a delinquere», in cui figurano più investito-ri, che finanziano ed equipaggiano diversi gruppi dipirati e ottengono dal 50 al 70 per cento dei guada-gni. Quest’ultima è la modalità sicuramente più dif-fusa e suscita particolare interesse tra gli addetti ai la-vori, vista la similitudine organizzativa e gestionalecon altre attività economiche lecite. Sono previste adesempio quote associative d’ingresso (di 5-10 miladollari ognuna); contatti diretti tra gli investitori e illeader dei pirati oppure tramite facilitatori; accordiche specificano l’ammontare investito da rimborsa-re con il riscatto; precise procedure per la richiesta diquest’ultimo, tempi di negoziazione inclusi. Pur inassenza di informazioni precise, secondo alcuni stu-di condotti nell’area del Corno d’Africa, si ritiene chedal 40 al 60 per cento del riscatto resti in Somalia. Di

Ogni anno la pirateria,nel Corno d’Africa, Nigeria e Golfo di Guinea e Stretti di Malacca, comporta per l’economia internazionaleun costo compreso tra i 7 e i 12 miliardi di dollari

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questo, tra il 30 e il 40 per cento sembrerebbe desti-nato ai pirati che hanno agito in prima linea. Consi-derando la cifra di 160 milioni di dollari pagata nel2011 e ipotizzando la presenza di almeno 1500 pira-ti al largo delle coste somale, il guadagno per ognu-no sarebbe di circa 25 mila dollari, quasi il doppio diquanto essi potranno mai guadagnare in trent’anni dicarriera se si dedicassero ad attività lecite (il pil procapite in Somalia è pari a circa 500 dollari l’anno).Quanto resta del riscatto viene invece redistribuito trachi opera nelle retrovie ed utilizzato per le finalità piùdiverse (acquisto di armi, tangenti a clan locali e au-torità pubbliche, consolidamento e ampliamento del-le strutture di sostegno ai pirati fino alla compraven-dita di proprietà immobiliari). Secondo le logiche delcrimine organizzato, la pirateria, in quanto attività il-lecita, non si limita dunque a chi ha materialmentecompiuto l’attacco, ma comprende una fitta rete di at-tori: funzionari pubblici che garantiscono adeguataprotezione, figure dal mondo politico o degli affari,che hanno magari interessi specifici o controllano at-tività nell’industria della pesca e che foraggiano i pi-rati con risorse economiche e non ed equipaggiamen-to. Tali reti si estendono anche al di là dei confini so-mali e includono finanziatori e profittatori individua-ti ad esempio in Libano o negli Emirati Arabi Uniti,oppure gruppi criminali in Yemen, fino ad alcune com-

pagnie assicurative occidentali. L’estensione – anchetransnazionale – di questi network rende molto diffi-cili i controlli finanziari sui flussi di denaro illecito,anche perché questo è spesso trasferito tramite cana-li informali non rintracciabili. Se inizialmente la co-munità internazionale, nella sua lotta alla pirateria, haconcentrato la propria attenzione soprattutto su misu-re di tipo marittimo e militare, oggi, come ricordatoanche nelle conclusioni della recente Conferenza diLondra sulla Somalia, essa è consapevole della rile-vanza che il monitoraggio dei flussi finanziari rivesteai fini di un efficace contrasto della pirateria. Tra leorganizzazioni più attive in quest’ambito vi sono leNazioni Unite e le sue agenzie, come l’Unodc (Uni-ted nations office on drugs and crime), l’Interpol edEuropol. I loro sforzi sono coordinati dal Gruppo dicontatto sulla pirateria al largo delle coste della So-malia (Cgpsc), in particolare tramite il quinto Wor-king group, dedicato appunto al monitoraggio dei flus-si finanziari illeciti, istituito nel 2009 e presieduto dal-l’Italia. Risultati effettivi sono tuttavia ancora lonta-ni dall’essere raggiunti. Una delle sfide più urgenti èrappresentata dall’assenza di adeguate capacità a li-vello locale sia in Somalia, dove mancano strutturein grado di attuare misure antiriciclaggio e dove è ri-saputa la connivenza con i pirati delle autorità pub-bliche di alcune aree come il Puntland, ma anche neipaesi limitrofi, tra cui Kenya, Seychelles, Tanzania eUganda, in cui manca una legislazione antiriciclag-gio oppure, laddove esistente, trova una lenta attua-zione. Nell’era dell’integrazione globale e con i mez-zi oggi a disposizione, combattere la pirateria potreb-be sembrare un compito semplice. Tuttavia, è propriola globalizzazione, unita alla natura asimmetrica deitraffici propri del crimine organizzato, che rendonotale obiettivo difficile da raggiungere. Ancora una vol-ta, a meno che le capacità di law enforcement e la con-divisione di informazioni sull’intero «ciclo della pi-rateria», dai finanziatori agli esecutori finali, non sia-no sensibilmente migliorate e la governance regiona-le del settore della sicurezza non venga rafforzata, ilprezzo della partita continuerà ad essere elevato.

La cifra più alta mai pagatafinora è stata di 13,5 milioni di dollari nell’aprile del 2011 per l’Irene Sl, una petrolieragreca. Particolarmente preoccupante è poi l’emergeredi una nuova tendenza nellagestione dei sequestri, in cui al pagamento del riscatto seguela liberazione del mercantile,ma non degli ostaggi

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alimentato il fenomeno. A ciò si aggiungano la pe-sca illegale e il traffico di rifiuti. Inoltre, il trafficodi migranti via mare ha contribuito ad alimentarel’insicurezza della navigazione e i pericoli per lasalvaguardia della vita umana. La comunità inter-nazionale ha cercato di far fronte a questi fenome-ni, talvolta correlati, con l’adozione di una serie diconvenzioni, che qui saranno richiamate solo nellamisura in cui abbiano un punto di contatto con il fe-nomeno piratesco. In particolare dovranno essereprese in considerazione le norme del diritto inter-nazionale del mare sulla pirateria, gli strumenti concui la comunità internazionale, attraverso le orga-nizzazioni internazionali, si è attrezzata per com-battere la pirateria, la disciplina italiana del feno-meno e la recente legislazione in materia, le azionimediante cui è possibile contrastare questo crimi-ne ed infine una valutazione dell’adeguatezza deglistrumenti e delle azioni finora adottati.

Le norme internazionaliLa repressione della pirateria trova la propria fon-te nel diritto internazionale consuetudinario. Le nor-me pertinenti sono state codificate dalla Conven-zione di Ginevra sull’alto mare del 1958 e dallaConvenzione delle Nazioni Unite sul diritto del ma-re (Unclos, nell’acronimo inglese) del 1982, en-

trambe ratificate dall’Italia. La Convenzione del1982 riprende sul punto (artt. 100-107, 110, par. 1,a) quasi verbatim quella del 1958. La pirateria se-condo il diritto internazionale (pirateria iuris gen-tium) è per definizione un crimine commesso in al-to mare (o in un territorio non soggetto a sovranitàdi alcuno, fattispecie oggi praticamente teorica) econsiste in ogni atto illecito di violenza o di seque-stro o rapina commesso dall’equipaggio o dai pas-seggeri di una nave contro un’altra nave o contropersone o beni da essa trasportati (criterio delle duenavi). Gli atti di violenza devono essere commessi«per fini privati» e questo distingue la pirateria daaltri fenomeni illegali. La pirateria non può esserecommessa da una nave da guerra, tranne che l’equi-paggio si sia ammutinato e quindi non obbediscapiù agli ordini dello stato della bandiera. Gli statihanno il potere di reprimere la pirateria tramite na-vi da guerra o navi adibite a questo scopo e debita-mente contrassegnate in quanto in servizio di statoe autorizzate a combattere la pirateria. Lo stato checattura la nave pirata ha il diritto di sottoporre allapropria giurisdizione i pirati, requisirne i beni e se-questrare la nave pirata, salvo i diritti dei terzi inbuona fede. Qualora il sequestro sia stato effettua-to in base a prove insufficienti oppure sia stata fer-mata una nave sospettata, senza fondamento, di pi-

TRATTATI E NORME INTERNAZIONALI PER COMBATTERE LA PIRATERIA

CRIMINALI DIETRO LE SBARREDI NATALINO RONZITTI

a pirateria sembrava fino a qualche anno fa un crimine dimenticato. L’insidia peri traffici marittimi proveniva non tanto dalla pirateria quanto dal terrorismo edai traffici d’armi, comprese quelle di distruzione di massa, che mettevano emettono in pericolo la sicurezza degli stati. Il crescente disordine in terrafermae l’incapacità degli stati falliti di pattugliare le proprie acque territoriali hanno

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rateria, lo stato che opera il sequestro o ferma la na-ve incorre in responsabilità ed è obbligato a risar-cire il danno. Non esiste un obbligo particolarmen-te incisivo di reprimere la pirateria. L’art. 100 Un-clos stabilisce solo un dovere di esercitare la mas-sima collaborazione per la repressione. Le disposi-zioni del diritto del mare si sono rivelati insuffi-cienti, specialmente per quanto riguarda la repres-sione della pirateria. È infatti accaduto che i piratisiano stati catturati, ma che la nave da guerra cheha operato la cattura abbia abbandonato i pirati sul-le coste della Somalia, dopo aver gettato le armi inmare. Con la conseguenza che i pirati liberati han-no continuato a delinquere.

Altri fenomeni pericolosi per la sicurezza della navigazione

I tratti distintivi della pirateria la differenziano daaltri fenomeni che mettono in pericolo i traffici com-merciali ed a cui si applica una diversa normativainternazionale. A parte la corsa, abolita dalla Di-chiarazione di Parigi del 1856, che consentiva al so-vrano di armare navi private abilitate a condurre laguerra contro il traffico commerciale nemico, inter-ferenze ai traffici possono essere causate dagli in-sorti, quantunque raramente essi abbiano la capaci-tà di condurre operazioni marittime (un esempio re-cente è quello delle Tigri Tamil in Sri Lanka). Gliinsorti possono condurre la lotta contro le navi delgoverno costituito, ma non contro i terzi. Se gli in-sorti non attaccano le navi dei terzi stati, questi nonli trattano come pirati. Anche il terrorismo maritti-mo non è pirateria, poiché la pirateria è un crimineperpetrato per fini di lucro, mentre il terrorismo èeffettuato per fini politici. Quanto all’ammutina-mento, viene meno il criterio delle due navi per es-sere considerato pirateria, tranne che l’equipaggiodella nave ammutinata si dia alla pirateria.Da notare, tuttavia, che possono aver luogo conta-minazioni tra i fenomeni sopra incasellati in cate-gorie distinte. Una contaminazione dei nostri tem-pi è tra pirateria e terrorismo. Le organizzazioni

terroristiche potrebbero darsi alla depredazioni delnaviglio commerciale per procurarsi fonti di finan-ziamento. Lo stesso dicasi per gli insorti. Nella Re-lazione sulla politica dell’informazione per la si-curezza (2011) sono state denunciate pericolosecollusioni tra il movimento degli al Shabaab e i pi-rati somali.

La Convenzione su ostaggi e sicurezza della navigazione marittima

La moderna pirateria non è volta tanto alla depre-dazione di navi cariche di lingotti d’oro, come ac-cadeva nei secoli passati, quanto alla cattura dellanave e dell’equipaggio allo scopo di chiedere un ri-scatto. Talvolta la nave catturata cambia registrocon la connivenza di qualche stato compiacente,sede di bandiere-ombra. La nave può essere ven-duta (accadimento raro) o piuttosto adibita a navemadre, da cui partono all’attacco i barchini dei pi-rati. La Convenzione internazionale contro la pre-sa di ostaggi, conclusa nel 1979 e ratificata dall’Ita-lia, contiene disposizioni rilevanti che possono tro-vare applicazione nel caso di ostaggi catturati daipirati. La Convenzione trova applicazione qualorail crimine abbia una rilevanza transnazionale e nonsi applica nel caso in cui la cattura dell’ostaggio ela sua detenzione avvengano interamente nel terri-torio di uno stato parte. L’art. 1 definisce la sferad’applicazione della Convenzione alle condotte vol-te a costringere uno stato, un’organizzazione o in-dividui a fare o non fare una determinata azione ecopre quindi la violenza esercitata al fine del paga-mento del riscatto. La Convenzione, oltre a impor-re la repressione penale per il reato di presa di ostag-gi e a stabilire una cooperazione in materia di estra-dizione, obbliga lo stato nel cui territorio l’ogget-to del riscatto è trovato a restituirlo al legittimo pos-sessore e questo potrebbe applicarsi alle somme pa-gate per il riscatto. Mentre la Convenzione controla presa di ostaggi è applicabile alla pirateria in re-lazione agli ostaggi catturati e alla richiesta di ri-scatto, è controversa l’applicazione della Conven-

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zione per la repressione degli atti illeciti contro lasicurezza della navigazione marittima del 1988, dicui l’Italia è parte. In linea di principio la Conven-zione è applicabile a qualsiasi atto di violenza con-tro una nave e conto le persone che si trovano a bor-do. Il criterio delle due navi non è richiesto. Ciòperché la Convenzione trae spunto dall’incidentedell’Achille Lauro, il transatlantico italiano dirot-tato da terroristi palestinesi che si trovavano a bor-do (1985). La Convenzione è quindi applicabile agliatti di terrorismo, come si desume chiaramente dalpreambolo dove viene fatto riferimento alla risolu-zione in materia adottata dall’Assemblea generale

delle Nazioni unite (Ris. 40/61 del 9 dicembre1985), ma non è chiaro se essa sia applicabile agliatti di pirateria completamente esenti da qualsiasicommistione con il terrorismo. Peraltro talune del-le risoluzioni in materia di pirateria del Consigliodi sicurezza delle Nazioni unite (Cds) richiamanola Convenzione ai fini dell’applicazione della legi-slazione penale che gli stati hanno adottato per la

sua esecuzione e per corroborare l’obbligo di unaefficace repressione contro i pirati.

Le misure prese dalle organizzazioni internazionali

La repressione della pirateria è da tempo all’atten-zione del Cds, che ha qualificato il fenomeno comeuna minaccia alla pace (art. 39 della Carta delle Na-zioni unite). In un primo tempo il Cds si è concen-trato sulle acque al largo della Somalia, autorizzan-do gli stati ad intervenire nelle acque territoriali so-male. Poiché la pirateria iuris gentium è per defini-zione un crimine commesso in alto mare, per inter-venire nelle acque territoriali altrui è necessariaun’autorizzazione del Cds, che è stata corroboratadall’acquisizione del consenso (nominale) del Go-verno federale di transizione somalo. Nel comples-so sono state finora adottate 14 risoluzioni a parti-re dalla 1816 del 2008 fino alla 2020 del 22 novem-bre 2011. La pirateria non è un fenomeno che ri-guarda esclusivamente la Somalia: per questo il Cdsha adottato la risoluzione 2018 (2011) relativa alGolfo di Guinea.L’Imo (International maritime organization) non hapoteri giuridicamente vincolanti. Tuttavia ha adot-tato un numero di «circolari» che riguardano le bestpractices per la difesa delle navi contro gli attacchidei pirati. Tali pratiche riguardano mezzi difensivinon cruenti, come idranti ad alto potenziale, barrie-re di filo spinato e l’installazione di un castellettoimpenetrabile dai pirati. A livello regionale l’Imoha promosso un Codice di condotta, adottato a Gi-buti nel 2009, sottoscritto dagli stati che si affaccia-no sull’Oceano indiano. Il Codice, pur non essen-do un trattato giuridicamente vincolante, è volto apromuovere la cooperazione tra gli stati rivieraschi.La lotta alla pirateria è stata condotta mediante l’in-vio di navi da guerra nei mari più infestati dai pira-ti. Si tratta di flotte operanti sotto l’egida di orga-nizzazioni internazionali, quali la Nato, con l’ope-razione Ocean Shield, e l’Unione europea (Ue), conla missione Atalanta. Gli Stati uniti guidano la Com-

Le disposizioni del diritto del mare si sono rivelate insufficienti, specialmente per quanto riguarda la repressione del fenomeno.È infatti accaduto che i piratisiano stati catturati, ma che la nave da guerra che ha operatola cattura li abbia abbandonati sulle coste della Somalia, dopoaver gettato le armi in mare. Con la conseguenza che tornati liberi, hanno continuato a delinquere

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bined Task Force 151, di stanza in Bahrain, mentrele marine da guerra di altri stati affollano l’OceanoIndiano, a cominciare da Cina e Russia. Da osser-vare che la risoluzione 1851 (2008) al par. 6 auto-rizza l’uso della forza in territorio somalo per di-struggere i “santuari” dei pirati. Finora non si è fat-to uso di tale risoluzione permissiva ed anche la re-cente Conferenza di Londra sulla Somalia del 23febbraio 2012 non ha preso posizione in materia.La decisione del Consiglio Ue del 22-23 marzo2012, nel prolungare la missione Atalanta, ne haesteso il mandato, consentendo operazioni nelle ac-que interne e sulle fasce costiere della Somalia.

La repressione penaleCome si è accennato, l’art. 105 Unclos consente allostato della nave da guerra che cattura una nave pira-ta di arrestare i pirati e di requisirne i beni, disponen-do altresì che gli organi giurisdizionali dello Stato cheha operato il sequestro della nave hanno il potere didecidere la pena da infliggere. Il problema si ponequando la cattura avviene in mari lontani: il traspor-to dei pirati per essere sottoposti ai tribunali della ban-diera solleva non poche difficoltà a cominciare dallareclusione dei pirati in locali angusti della nave, laconvalida del fermo e l’assistenza legale. Non dimen-tichiamo, infatti, che le navi della missione Atalantabattono bandiera di stati parte della Convenzione eu-ropea dei diritti dell’uomo, le cui norme hanno un’ap-plicazione extraterritoriale quando interessano gli or-gani statali. La conseguenza è quella che si diceva al-l’inizio: la nave che opera la cattura spesso preferi-sce lasciare liberi i pirati sulle spiagge somale o delGolfo di Aden, dopo averne gettato fuori bordo le ar-mi e affondato il barchino dei pirati. In verità qual-che procedimento penale si è avuto con le conseguen-ti condanne. Ne costituiscono un esempio i processicelebrati in Francia, Germania, Olanda e Stati uniti.Per assicurare una effettiva repressione sono state pro-spettate varie soluzioni. Premesso che la pirateria nonè un crimine internazionale che ricade sotto la giuri-sdizione della Corte penale internazionale, sono sta-

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ti conclusi accordi con gli stati rivieraschi dell’Ocea-no indiano per il trasferimento e il processo dei pira-ti. Un accordo è stato concluso nel 2009 tra Ue e Ke-nya per la consegna e il processo dei pirati catturati,con la precisazione che i pirati non dovevano esseresottoposti a condizioni di carcerazione inumane o de-gradanti e che in nessun caso sarebbe stata loro in-flitta la pena di morte. Ma il Kenya ha addotto ragio-ni costituzionali e non vuole più applicare l’accordo.È stata acquisita la disponibilità delle Seychelles perprocessare i pirati, ma limitatamente a quelli cattura-ti nella sua zona economica esclusiva. Altre soluzio-ni sono allo studio, come l’istituzioni di tribunali ibri-di (composti cioè da giuridici locali e da giudici distati europei e di altri stati) e la localizzazione di talitribunali in Somalia. Tale soluzione, a parte la diffi-coltà di reperire personale somalo qualificato nel cam-po giudiziario, potrebbe rivelarsi particolarmente di-spendiosa, poiché occorre dislocare anche una forzadi polizia a difesa del perimetro in cui opera il tribu-nale. Nell’ordinamento italiano la pirateria è reatoprevisto dal nostro Codice della navigazione, che di-spone, all’art. 1135, la reclusione da 10 a 20 anni delcomandante della nave che commetta atti di pirate-ria. Per l’equipaggio, la pena è ridotta di un terzo. Pergli estranei all’atto piratesco la pena è ridotta dellametà. L’art. 1136 detta invece una disciplina per lenavi sospette di pirateria, disponendo per il coman-dante una pena dai 5 ai 10 anni.Un processo contro i pirati somali che avevano assal-tato una nave italiana si è aperto dinanzi alla Corte diassise di Roma ed è ancora in corso. I pirati, che era-no stati catturati da una nave da guerra del Regno Uni-to e consegnati ad una nave da guerra italiana, sonostati trasportati per via aerea da Gibuti. Ai fini dellarepressione della pirateria, la L. 12/2009 consideral’alto mare territorio estero e la giurisdizione italianaè esercitabile a norma dell’art. 7 codice penale trat-tandosi di reato per il quale le convenzioni interna-zionali stabiliscono l’applicabilità della legge penaleitaliana. Non è necessaria l’autorizzazione del mini-stro della Giustizia per procedere alla repressione del

reato. La competenza è attribuita al Tribunale di Ro-ma. L’azione penale è obbligatoria qualora il reatosia consumato ai danni di beni e persone italiani. LaL. 12/2009 dispone anche in materia di sequestro diuna nave catturata dai pirati e liberata da una nave daguerra. È previsto che la nave sequestrata possa es-sere affidata in custodia all’armatore, all’esercente oal proprietario della nave. Le disposizioni recente-mente emanante prevedono altresì norme in materiadi garanzie processuali e di custodia dei pirati cattu-rati a bordo della nave da guerra.

I team armatiNonostante il dislocamento di numerose navi da guer-ra nell’Oceano indiano, gli attacchi non sono cessa-ti. Si è pensato quindi di ricorrere a scorte armate abordo dei mercantili. L’Imo ne aveva sconsigliatol’impiego per il timore che personale armato nonavrebbe fatto altro che aumentare la violenza. Avevaquindi suggerito difese non letali. Ma gli armatoriaderenti all’Ipta (International parcel tanker associa-tion) hanno fatto pressione nei confronti del Comita-to sulla sicurezza marittima dell’Imo, perché fosseroadottate due circolari relative all’impiego di persona-le armato a bordo delle navi. Anche l’armamento ita-liano aveva fino a poco tempo fa sconsigliato scortearmate a bordo delle navi. La situazione è ora muta-ta. L’armamento italiano si è convertito alla necessi-tà di avere personale armato a bordo. Tanto Confitar-

Nel complesso sono state finoraadottate 14 risoluzioni a partiredalla 1816 del 2008 fino alla 2020del 22 novembre 2011.La pirateria non è un fenomenoche riguarda esclusivamente la Somalia: per questo l’Onuha adottato la risoluzione 2018(2011) relativa al Golfo di Guinea

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ma quanto Federpesca si sono pronunciate a favoredell’imbarco di scorte armate a protezione delle na-vi, nel corso delle audizioni svolte presso la commis-sione Difesa del Senato. Le scorte armate a bordo del-le navi battenti bandiera italiana sono state autorizza-te dal Decreto-Legge di proroga delle missioni mili-tari all’estero (DL 12 luglio2011, n. 107). Il DL è sta-to convertito con modifiche, anche nella parte relati-va alle scorte armate antipirateria, con L. 2 agosto2011 n. 130. Il testo normativo, come da più parti au-spicato, contiene due categorie di disposizioni: unarelativa all’invio di team armati militari a bordo deimercantili, l’altra concernente l’imbarco di scorte ar-mate di personale di sicurezza civile (guardie giura-te). In ambito europeo si riscontrano le due soluzio-ni. La prima è quella seguita dalla Francia per la pro-tezione delle navi da pesca per il tonno e comporta unaccordo con lo stato di appoggio della flotta pesche-reccia. Il team militare è a spese dell’armatore. La se-conda, cioè l’imbarco di team privati, è invece quel-la seguita dalla Spagna. Le due soluzioni non sono al-ternative. La Francia non ammette scorte armate pri-vate sulle proprie navi, ma non contiene una legisla-zione proibitiva per quelle straniere. La legislazione

permissiva spagnola non esclude ovviamente la par-tecipazione di team militari in servizio antipirateria.L’ Italia ha seguito una via eclettica e si è avvalsa del-le due opzioni. La L. 130/2011 dedica alla pirateriauna disposizione ad hoc, l’art. 5, i cui commi riguar-dano, rispettivamente i Nuclei militari di protezione(Nmp) forniti dal ministero della Difesa (commi 1-3)e i servizi di vigilanza privata (commi 4,5, 5-bis, 5-ter). Segue poi una norma che si applica sia al navi-glio su cui sono imbarcati i Nmp sia su quello che siavvale dei servizi di vigilanza privata (comma 6). Insede di conversione sono stati aggiunti altri due com-mi: l’uno a modifica del codice dell’ordinamento mi-litare (comma 6 -bis), l’altro (comma 6- ter) conte-nente la formula, diventata di stile in questo periododi difficoltà economiche, secondo cui dall’attuazionedell’art. 5 non devono derivare nuovi o maggiori one-ri a carico della finanza pubblica. L’imbarco dei teamarmati è subordinato a due decreti ad hoc, uno di com-petenza del ministro della Difesa, per i team militari,l’altro di competenza del ministro dell’Interno di con-certo con il ministro della Difesa e di quello delle In-frastrutture e Trasporti. Mentre il primo decreto è sta-to prontamente emanato il 1° settembre 2011, il se-condo non lo è ancora stato, quantunque sia sostan-zialmente pronto. L’11 ottobre 2011 è stato conclusotra il ministero della Difesa e Confitarma un proto-collo d’intesa per la prestazione di servizi di nucleimilitari di protezione a bordo dei mercantili italiani.

Il caso della Enrica LexieI nuclei armati di protezione sono già operativi ed han-no sventato taluni attacchi pirateschi: un team di fu-cilieri ha respinto, in febbraio, l’attacco contro la Jol-ly Arancione. Il primo incidente di rilievo si è verifi-cato con la Enrica Lexie, e non ha ancora trovato unasoluzione. Il 15 febbraio 2012 i fucilieri di marina,che facevano parte del team di militari imbarcati infunzione antipirateria sulla Enrica Lexie, hanno spa-rato alcuni colpi per reagire contro un attacco di pira-ti. Successivamente la nave, che era diretta in Egitto,è stata richiesta dalle autorità indiane di dirigersi nel

In ambito europeo si riscontranole due soluzioni sui team armati a bordo. La prima è quella seguita dalla Francia per la protezione delle navi da pesca per il tonno e comportaun accordo con lo stato di appoggio della flotta peschereccia. Il team militare è a spese dell’armatore.La seconda, cioè l’imbarco di team privati, è invece quella seguita dalla Spagna

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porto di Kochi, allo scopo di identificare i pirati che,a dire delle autorità dell’India, erano stati catturati allargo delle sue coste. Si trattava però di un escamo-tage per attirare la nave nelle acque indiane. Poichéera stato colpito un battello da pesca indiano che ope-rava nelle acque in cui transitava la Enrica Lexie, duefucilieri di marina sono stati accusati di aver uccisodue pescatori che si trovavano sul battello. Per tra-durli dinanzi alla giustizia indiana, la polizia locale èentrata a bordo della nave italiana, nonostante fossestata contestata da parte delle nostre autorità la giuri-sdizione locale. Il procedimento è ancora in corso di-nanzi all’Alta Corte del Kerala ed è ora approdato al-la Corte Suprema, a New Delhi.L’arresto dei fucilieri è a nostro avviso chiaramenteillegittimo. Essi godono di immunità funzionale, se-condo una prassi risalente al caso McLeod del 1840e costantemente riaffermata. La norma appartiene aldiritto internazionale consuetudinario e non è neces-sario stipulare uno Status of forces agreement (So-fa, Accordo sullo status delle forze armate) ad hoc,come è stato erroneamente detto anche da qualchecommentatore italiano. Da parte italiana si avanzaun’ulteriore argomentazione contro l’illegittimità delfermo. Si è affermato che l’eventuale azione illecitaè avvenuta in alto mare e quindi la Enrica Lexie erasottoposta alla giurisdizione italiana. Come può es-sere affermata la giurisdizione indiana dato che la spa-ratoria è avvenuta in alto mare? In base al principiodella giurisdizione passiva, poiché i due pescatori uc-cisi erano di nazionalità indiana e la nave su cui si tro-vavano indiana. Nello stesso tempo l’Italia ha giuri-sdizione poiché i colpi, a supporre che fossero anda-ti a segno, sono partiti da nave battente bandiera ita-liana. Si tratta di un concorso di giurisdizione. Qua-le deve prevalere? Secondo l’art. 97 della Conven-zione del diritto del mare del 1982, deve prevalere lagiurisdizione dello stato della bandiera, nel nostro ca-so quella italiana, che disciplina i casi di collisione e«di ogni altro incidente della navigazione». Il casodella Enrica Lexie non è un caso di collisione e dif-ficilmente la sparatoria può essere qualificata «ogni

altro incidente della navigazione», poiché questa di-zione comprende solo casi vicini alla collisione co-me il danneggiamento di cavi o di altre strutture per-manenti. Irrilevante è pure l’art. 94 Unclos, che as-soggetta alla giurisdizione e al controllo dello statodella bandiera le navi in alto mare, poiché esso riguar-da piuttosto le bandiere ombra e il dovere di eserci-tare la giurisdizione e i controlli di sicurezza. Un’al-tra possibile interpretazione, a nostro parere più fon-data, a favore dell’esclusiva giurisdizione italiana peri fatti avvenuti in alto mare, potrebbe derivare dal-l’art. 92 della Convenzione e dal principio dell’esclu-siva giurisdizione dello stato della bandiera in altomare, tranne i casi «espressamente» previsti dai trat-tati o dalla Convenzione del diritto del mare. Tra que-sti non rientrano i tiri avvenuti in acque internaziona-li per contrasto alla pirateria.

Assicurazioni contro il rischioe pagamento del riscatto

Contro il rischio pirateria gli operatori marittimi sti-pulano di regola un’assicurazione. Il nostro Codicedella navigazione prevede, tra gli altri, il rischio pi-rateria, che non può essere coperto da altri inciden-ti della navigazione, come ad esempio il rischio guer-ra o quello derivante da fenomeni insurrezionali.Nessuno ha mai nesso in dubbio la legittimità dellastipula di una polizza del genere, che dovrebbe co-prire il fermo o la perdita della nave, quella del ca-rico e gli incidenti nei confronti del personale di bor-do. Ormai i pirati conoscono le rotte delle navi, fa-cilmente accertabili con i moderni strumenti elettro-nici. Il loro scopo precipuo è la cattura della nave ela presa in ostaggio dell’equipaggio al fine di chie-dere un riscatto. Si instaura un circolo vizioso chealimenta il fenomeno pirateria. Il riscatto pagato ser-ve ad acquistare armi ed imbarcazioni per le impre-se piratesche ed a sovvenzionare nuove spedizionied a pagare il soldo dei pirati. Tranne i casi in cui ildanaro venga paracadutato da un elicottero (è real-mente accaduto!), vengono adottati sistemi più so-fisticati con l’aiuto della criminalità finanziaria, che

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provvede al lavaggio del danaro. Contro il rischio pi-rateria gli armatori si assicurano presso compagniebritanniche, che provvedono anche al pagamento delriscatto, ma pretendono che la nave adotti le precau-zioni suggerite dall’Imo (ad es. l’installazione di uncastelletto – citadel – impenetrabile). È tale prassi le-gittima? Una Corte britannica ha ammesso nel 2010la liceità del pagamento del riscatto da parte dei bro-ker del Regno Unito. Per quanto riguarda gli arma-tori italiani che assicurano il rischio pirateria con ibroker britannici potrebbe venire in considerazionela L. 82/1991, che dispone la nullità dei negozi giu-ridici volti al pagamento del riscatto nei sequestri dipersona e il blocco dei beni che potrebbero servireper il pagamento. Ma secondo un’opinione tale leg-ge non è applicabile alla pirateria e non ha una va-lenza extraterritoriale. La questione ha trovato unasensibilità negli Stati Uniti. Ma occorrerebbe una ri-soluzione del Cds che chiaramente proibisse il paga-mento dei riscatti. Tale risoluzione è per il momen-to avversata non solo da coloro che “lucrano” sul ri-schio pirateria, ma anche da quanti che, per ragioniumanitarie, temono l’uccisione degli ostaggi in ma-no ai pirati, qualora non si acceda alle loro richieste.

ConclusioniLa pirateria è una forma di crimine organizzato, chedeve essere adeguatamente combattuta. Le sole nor-me della Unclos non sono sufficienti. Occorre inte-grare le norme esistenti, con un’adeguata rete di con-venzioni internazionali, aventi ad oggetto la catturadei pirati, il mantenimento della legge e l’ordine suimari, il processo dei pirati, il divieto di pagamentodi riscatti e la lotta contro il lavaggio del danaro de-rivanti dalle attività criminali. Premesso che è benenon modificare la normativa in vigore secondo cuisolo le navi da guerra possono dare la caccia ai pi-rati e che le missioni antipirateria devono continua-re, è opportuno ancorare su basi normative il dirittodi legittima difesa a bordo dei mercantili, operatosia da nuclei militari sia da contractor. A tal fine èbene pensare fin d’ora ad una convenzione interna-

zionale ad hoc, che regolamenti l’imbarco di perso-nale armato a bordo, il trasporto e l’uso delle armi ela sosta in porto. Poiché una convenzione interna-zionale richiede tempi lunghi per la conclusione el’entrata in vigore, che non coincidono con l’urgen-za della situazione, si potrebbe pensare ad una riso-luzione “legislativa” del Cds, sul modello di quelleadottate contro il terrorismo internazionale, come larisoluzione 1540 (2004). Gli stati dovrebbero adot-tare la legislazione necessaria per eseguire la risolu-zione, la cui emanazione sarebbe facilitata dalla qua-lificazione della pirateria, almeno in certe aree, co-me una minaccia alla pace e alla sicurezza interna-zionale. Naturalmente l’Imo potrebbe svolgere un

ruolo fondamentale, mediante il potenziamento del-le iniziative già prese. Nuove iniziative potrebberoconsistere nella convocazione di una conferenza in-ternazionale, sul modello di quella sul terrorismomarittimo svoltasi a Roma nel 1988, per adottare unaconvenzione antipirateria. Sul versante italiano oc-corre migliorare la L. 130/2011 allo scopo di evita-re che si ripetano incidenti tipo Enrica Lexie. Qua-lora una nave commerciale imbarchi un team mili-tare, la decisione finale sulla navigazione e la rottada seguire deve essere di competenza del ministerodella Difesa e non dell’armatore.

Per difendersi, gli operatori marittimi stipulano di regola un’assicurazione.Il nostro Codice della navigazioneprevede, tra gli altri, il rischiopirateria, che non può esserecoperto da altri incidenti della navigazione, come ad esempio il rischio guerra o quello derivante da fenomeniinsurrezionali

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cosiddetti failed state, paesi non più in grado di con-trollare il proprio territorio e le acque prospicienti lecoste, anche se in alcune aree è un fenomeno da con-siderare endemico. È anche il prodotto di un’econo-mia della sopravvivenza ormai fuoriuscita dal con-testo dei paesi civili, con le sue basi costiere che so-no di fatto le nuove Tortughe. Sono così tornati i pi-rati, senza benda sull’occhio e senza il Jolly Roger(la tradizionale bandiera nera) che sventola sul pen-none, teschio e tibie incrociate inclusi. Usano Ak 47,Rpg, telefoni satellitari e una serie di basi sicure enavi appoggio, dohw e sambuchi, che hanno trasfor-mato il cosiddetto Mare Arabico nei nuovi Caraibi.Ora si scruta l’orizzonte non più alla ricerca delle sa-gome delle veloci fuste e galeotte «turchesche», masi sta attenti a pescherecci e fuoribordo che potreb-be celare brutte sorprese. I comandanti di petroliere,porta-container e cargo devono mettere mano a bi-nocoli e i team di scorta il dito sul grilletto a partiredall’ultimo tratto di Mar Rosso. All’altezza delle co-ste dello Yemen comincia il «pericolo abbordaggi»,che prosegue in corrispondenza dell’intero bracciodi mare yemenita e poi ancora a largo dell’Oman.Una pirateria di cabotaggio non meno pericolosa diquella che infesta le acque al largo, fino quasi a lam-bire le acque territoriali dell’India occidentale. A sudin direzione della Somalia, l’area di pericolo si espan-

de, come una chiazza oleosa in balia delle correnti,e lascia intuire quanto sia complesso e vasto il lavo-ro delle unità militari antipirateria che da anni cerca-no di contrastare l’attività di questa moderna filibu-sta. Guardando la mappa degli attacchi al navigliocommerciale a tutto il 2011 ci si rende conto del dan-no economico che stanno provocando e degli inte-ressi che si muovono dietro a queste ciurme crimi-nali in fuoribordo. Quanto ci costa tutto questo? Cir-ca 12 miliardi di dollari all’anno, contando perditeeconomiche, riscatti e costo del pattugliamento na-vale. Anche a largo di Kenya e Tanzania gli attacchisono numerosi. E in quel tratto molto vasto che arri-va fino a lambire le isole Maldive e le coste setten-trionali del Madagascar, nessun naviglio può dirsi alsicuro. Nel 2011 l’attività di Eunavfor con la missio-ne Atalanta, e della Nato con Allied Protector (2009)prima e Ocean Shield poi, oltre quelle indipendentidi altri paesi come la Cina, la Combined Task Force151 a guida Usa hanno ottenuto dei buoni risultati.Incrociano in quei mari unità militari americane, eu-ropee, russe, malesi, iraniane, indiane, turche, cine-si e giapponesi. Inoltre il porto di Gwadar si appre-sta a diventare un fondamentale punto di transito perle importazioni di petrolio cinesi dall’area del Gol-fo, evitando così il transito attraverso lo Stretto diMalacca, alquanto esposto ai rischi della pirateria e

MAPPA RAGIONATA DEI COVI DELLA PIRATERIA MODERNA

LE TORTUGHE DEL XXI SECOLODI PIERRE CHIARTANO

strano parlare di pirateria nel Terzo millennio, ma è così, dal Golfo di Adenallo Stretto di Malacca, senza dimenticare l’ultimo arrivato, il Golfo diGuinea, sventola la bandiera nera dei nuovi filibustieri. Bande criminali chehanno capito come sfruttare l’importanza strategica degli approvvigiona-menti via mare per il mondo sviluppato. È anche uno dei sottoprodotti dei

•È

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dei blocchi marittimi. Dopo che nel 2009 un cargocinese il De Xing Hai venne sequestrato dai pirati so-mali, la marina militare di Pechino ha giustificato lapresenza di unità navali in quelle acque. E gli inte-ressi cinesi in Somalia non si limitano alla sicurezzamarittima. In quel paese gli interessi della China na-tional offshore oil corporation (Cnooc) sono anchenella zona di Mudug e nella provincia del Puntland,dove le riserve di oro nero sono stimate complessi-vamente in 10 miliardi di barili.Comunque negli ultimi mesi qualche miglioramen-to si sarebbe registrato nella lotta contro la pirateria.Se si confrontano le mappe satellitari degli attacchi,tra il primo e il secondo semestre dell’anno, si puònotare una netta diminuzione dell’attività criminale.Successi che dipendono principalmente dalla doppiaazione del pattugliamento marittimo e dei team diprotezione a bordo delle navi. Presenza di militari econtractor tra l’altro sollecitata dai Lloyds di Londraper concedere forti sconti sulle polizze assicurativedi navi e carico. Anche se, come l’Italia ha potutosperimentare nel caso dei due marò arrestati in India,non sempre le cose vanno per il verso giusto.

Le acque pericolose del mare arabicoPer tracciare una mappa delle nuove Tortughe servecapire quali economie l’attività dei pirati va ad ali-mentare. Partendo dalla Somalia è abbastanza sem-plice constatare, attraverso numerosi rapporti di agen-zie internazionali e d’intelligence, come le provincedi Bosaso (porto settentrionale che affaccia sul Gol-fo di Aden) e Garowe (città dell’entroterra) siano ilcentro di molti di questi traffici e abbiano un forte ri-torno economico dalla pirateria, per cui non c’è daaspettarsi che i signori del Puntland facciano nullaper contrastarla. Anzi sembra che ci sia una regia po-litica che spinge a reinvestire parte dei profitti sul ter-ritorio – specie nell’entroterra somalo. Una manieraper creare quel consenso popolare necessario affin-ché l’attività possa continuare indisturbata. In quel-la regione i porti possibili e probabili basi della fili-busta sono da nord a sud: Bander Beyla, Eyl, Gara-

cad, poi uscendo dal Puntland troviamo Harardere(nella cui rada è stata a lungo alla fonda la nave ita-liana Savina Caylin), Hobyo (Obbia quando la So-malia era una colonia italiana) e Merca. E propriotra Harardhere, Eyl, Garacad sono ubicate le basi conmotoscafi e navi madri dei pirati. Ma si trovano allafonda anche le navi catturate e gli equipaggi seque-strati, mentre il moltiplicarsi delle incursioni al lar-go delle coste somale meridionali alimenta il sospet-to che alcune bande di pirati operino dall’area di Chi-simaio, nel territorio controllato dalle milizie islami-ste Shabab, già nel mirino di Washington per i lega-mi con al-Qaeda. Diverso è il discorso dei villaggicostieri che non hanno poi guadagnato tanto dall’ospi-talità offerta ai responsabili attività predatoria; conloro le lusinghe delle agenzie internazionali potreb-bero funzionare. E sono in molti ormai ad essere con-vinti che, nel caso somalo, la soluzione alla pirateriasia da cercare a terra e non per mare. Le Risoluzioni Onu che permettono di colpire i pi-rati sono ben tre: la prima ha autorizzato la costitu-zione di una forza internazionale (Risoluzione 1816),la seconda a colpire i pirati nelle acque territoriali so-male (1838) e infine la terza consente anche raid nel-lo spazio aereo e sulle coste (1851). Sul piano mili-tare la distruzione delle basi dei pirati richiederebbe

All’altezza delle coste delloYemen comincia il «pericoloabbordaggi», che prosegue in corrispondenza dell’interobraccio di mare yemenita e poi ancora a largo dell’Oman.Una pirateria di cabotaggio non meno pericolosa di quellache infesta le acque al largo,fino quasi a lambire le acque territoriali dell’India occidentale

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pochi blitz impiegando forze speciali per liberare gliequipaggi in ostaggio, fanteria di marina elitraspor-tata per circondare dal mare e da terra le “tortughe”,navi da guerra e aerei per bombardare le postazionicostiere e affondare le imbarcazioni dei bucanieri.Incursioni che potrebbero essere assegnate alla flot-ta internazionale ma anche alla Task Force dei Ma-rines e alla 13° Demi Brigade Legere francese schie-rati a Gibuti. Raid che comporterebbero però il for-te rischio di provocare vittime tra gli ostaggi e tra icivili somali. L’aumento dell’attività delle trenta na-zioni coinvolte, a vario titolo, nella guerra alla pira-teria ha provocato una mutazione nelle tattiche d’ar-rembaggio. Sono diminuiti gli attacchi in manierasensibile alla fine del 2011. Ora i pirati scelgono ibersagli più fragili, i meno preparati e cercano dimassimizzare la rendita per ogni unità navale cattu-rata. Lo Yemen è per così dire la Mecca dei pirati, vi-sta la vicinanza con la parte obbligata della naviga-zione tra Mar Rosso e Mare Arabico, lo sbocco nelGolfo di Aden, diventata una delle zone più perico-

lose per la navigazione commerciale. Nonostante cisia Gibuti a un tiro di schioppo con le sue basi di for-ze speciali occidentali. Spesso i pirati rubano i sam-buchi ai pescatori yemeniti per utilizzarli nell’attivi-tà di filibusta. Il governo di Sanah in mezzo a unaguerra civile che dilania il paese da nord a sud, è ab-bastanza celere a mandare i propri Mig 21 a bombar-dare le basi dei pirati yemeniti. Più veloce sicuramen-te della non corta catena di comando delle missionioccidentali, che hanno necessariamente bisogno delvia libera politico, prima di muoversi. Anche il leg-gendario Team Six dei Navy Seals americani – quel-lo che ha eliminato Osama bin Laden – di stanza aGibuti è impegnato in questa guerra nelle Tortughearabiche. L’estate scorsa era stato scoperto come l’iso-la di Socotra fosse diventata per mesi una comodabase per il rifornimento di carburante delle imbarca-zioni catturate – spesso grossi pescherecci – e poi tra-sformate in navi-madre per i barchini d’abbordag-gio. L’isola si trova infatti in un punto strategico trail Golfo di Aden e l’Oceano Indiano occidentale, pro-

Ocean Shield(Nato)

Missione Atalanta(EU Navfor)

Bander Beyla

GaracadHobyo

Garowe

Harardhere

Eyl

D elta del N ig er

Bonny R iv er SINGAPORE

Manila

TANZANIA

KENYA

YEMEN

NIGERIABENIN

GHANA

OMAN

Merca

Socotra

BatamChisimaio

INDONESIA

MALESIA

Bosaso

SUD ESTASIATICO

MEDIO ORIENTE

AFRICA

Mar Mediterraneo

Suez

SOMALIAIn evidenza:PuntlandCotonou

Oceano Indiano

Mar Rosso

Golfo di Aden

G

olfo di Guinea

Meridionale

Mar Cinese

Stretto di

Malacca

2011

Totale atti di pirateriaa livello mondiale: 439

di questi il 56% sono falliti

In SomaliaTotale attacchi: 275

2012(dati al 19 marzo)

Totale Attacchi: 87Dirottamenti: 9

In SomaliaNavi in mano ai pirati: 13

Ostaggi: 197

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prio al largo della punta estrema del Corno d’Africa.In realtà Socotra è la maggiore di quattro isole cheformano il piccolo arcipelago, conosciuto come ba-se di pirati fin dalla notte dei tempi e citato sia daMarco Polo che da Ibn Battuta. È dunque probabileche la lunga costa yemenita che forma il tetto del Gol-fo di Aden venga usata per rifornire la flottiglia pi-rata, ma secondo gli esperti non ci sono ancora pro-ve che esistano basi fisse come quella di Socotra chesi trova più vicina alle coste somale di quelle delloYemen di cui fa parte (è a 380 chilometri dalla ma-drepatria). L’isola è una perla del Mare arabico, dal-le spiagge bianche all’acqua cristallina e ha una flo-ra unica, tanto che l’Unesco nel 2008 l’ha inseritanell’elenco del World heritage. Il porto di Gibuti in-vece è diventato un crocevia di militari in divisa ein borghese. Di lì passano la maggior parte dei con-tractor per l’imbarco. Non si devono pagare tassesui team armati a bordo dei mercantili, ma vannopagate se questi transitano per l’aeroporto e poi siimbarcano o viceversa. Si intuisce facilmente qua-le sia il business per società di navigazione e auto-rità di Gibuti. Ricordiamo che tra i vascelli ancorain ostaggio ci sono la «Olip G», bandiera di Malta,l’armatore greco che è fallito ha abbandonato da ol-tre un anno i 18 marittimi. «Fairchem Bogey», ban-diera Isole Marshall, catturata nell’agosto 2011 con21 marittimi, nave cisterna liberata per 8 milioni didollari. In attesa di riscatto c’è una flotta. La «En-

rico Ievoli», italiana, con 18 ostaggi, è stata per for-tuna liberata a fine aprile. Ma ci sono ancora la «Al-bedo», Malaysia, 23 ostaggi; la «Orna», Panama,19 marittimi. Tutte ormeggiate nello stesso «cam-po dei pirati» della nostra Caylin. La «Iceberg 1»,panamense, 24 ostaggi; la «Velvet Liquid», IsoleMarshall, 24 marittimi. In totale sono circa 182 imarittimi nelle mani dei pirati, compresi un centi-naio di uomini, per lo più pescatori locali, che era-no a bordo dei pescherecci catturati per essere poiutilizzati come navi-madri.

I mari d’OrienteLo Stretto di Malacca è il sottile braccio di mareche separa la Penisola malese dall’isola indonesia-na di Sumatra. Sono acque infestate dai pirati findal XIV secolo quando il sultanato locale cercavala loro alleanza. Poi con l’avvento dell’era colonia-le e del fiorente commercio delle spezie, i pirati abordo dei sanpang, ben descritti anche nelle pagi-ne di Emilio Salgari, ripresero il sopravvento e quel-le acque diventarono assai pericolose. Abbordaggie tempeste hanno reso lo Stretto e il Mar Cinese Me-ridionale un cimitero di navi. Si calcola che negliultimi 25 anni nelle sole acque del sud est asiaticosiano state abbordate circa 17mila navi, con una lun-ga scia di sangue. Dal capitano della Nagasaki Spi-rit morto nel rogo della sua petroliera fatta schian-tare sugli scogli dai pirati di Sumatra, ai 23 uominid’equipaggio della Cheung Song i cui cadaveri rie-mersero impigliati nelle reti dei pescatori – tantoper fare due esempi – sono parte di una sterminatalista di efferati episodi che mettono i moderni fili-bustieri sullo stesso piano di quelli del passato, inquanto a ferocia e violenza. E se la presenza di uo-mini armati a bordo dei mercantili è una novità –almeno in epoca contemporanea – a largo del Cor-no d’Africa, nel mare indonesiano era una praticacorrente già negli anni Ottanta. Quelle 550 migliadi passaggio obbligato tra Malesia e Indonesia, co-me via più breve tra India e Cina, da secoli ha sol-leticato gli appetiti di chi voleva depredare i mer-

Un buon esempio di una nuovaTortuga asiatica è l’isola di Batam. Inizialmente era statala risposta indonesiana a Singapore. Però con altre caratteristiche. Era diventato un porto libero, senza legge,ricco di bordelli, droga e ognigenere di merce di contrabbando

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cantili carichi di spezie, gomma e altre materie pri-me. La lunga costellazione di piccole isole, spessosemplici strisce di terreno appena emerso, sono illuogo ideale come base dei pirati. Nel XIX secoloerano famosi perché con le loro ruberie di oro e op-pio, erano l’inconfessato sostegno economico dimolti sultanati. Ed erano ben conosciuti per la loroferocia, famigerato l’episodio che coinvolse un va-scello di Sua Maestà britannica, al comando del ca-pitano James Ross, che dopo aver visto il propriofiglio precipitare in fondo al mare legato a un an-cora, aveva subito l’amputazione delle dita di unamano, una alla volta. Un episodio che aveva fattoscalpore nell’Inghilterra vittoriana del tempo. Lepotenze coloniali avevano preso possesso di quellecoste, ma non erano mai riuscite veramente a sra-dicare il fenomeno. Arrivando ai giorni nostri bastaguardare i numeri forniti dai Lloyd di Londra percapire quanto appetibile sia il bottino in navigazio-ne in quelle acque: circa 70mila navi solcano ognianno lo Stretto, trasportando circa un terzo dellagreggio prodotto nel mondo e un quinto di tutto ilcommercio marittimo. Numeri da capogiro, anchequelli delle polizze assicurative che hanno subitoaumenti e che hanno spinto molti optare per l’im-barco di contractor armati con funzioni antipirate-ria, per avere sconti sulle polizze. Dal 2002 secondo i dati dell’Imb sono svariati cen-tinaia gli episodi di pirateria avvenuti nelle acquepericolose dello Stretto e non solo perché l’area arischio si estende anche a nord verso le Filippine eil Mar cinese meridionale. Un buon esempio di unanuova Tortuga asiatica è l’isola di Batam. Inizial-mente era stata la risposta indonesiana a Singapo-re. Però con altre caratteristiche. Era diventato unporto libero, senza legge, ricco di bordelli, droga eogni genere di merce di contrabbando. E dove ca-pitali di dubbia provenienza e una rete di casinò for-mavano la base per attività illecite di ogni risma.Dopo la prima grande crisi del 1997 queste caratte-ristiche furono accentuate dalla disperazione. Ba-tam divenne la base per ogni tipo di attività crimi-

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nale, pirateria compresa. Un pirata famigerato ne-gli anni Ottanta era il cosiddetto capitano EmilioChengco. Si racconta che amasse portare i propriclienti nel roof garden dell’Hilton di Manila, pro-prio di fronte alla baia, e facesse scegliere all’ospi-te la “merce” alla fonda in rada. Un personaggio de-gno della penna di un moderno Joseph Conrad, chequei mari e quelle atmosfere di umanità perduta liha ben raccontati nei suoi libri.

L’Africa occidentaleCome area a rischio arrembaggi, il Golfo di Guineanell’Africa occidentale è l’ultimo arrivato nella hitparade dei bucanieri. Ma non sembra voglia farsimancare dei riconoscimenti ufficiali. Il 2011 infat-ti è stato l’anno del salto di qualità con l’iscrizionedi quell’area nel libro nero delle Nazioni Unite eben 64 attacchi registrati dall’International mariti-me bureau. In pratica lo scorso autunno con la Ri-soluzione 2018 del Consiglio di sicurezza Onu cheincoraggia le Comunità Economiche del West Afri-ca (Ecowas), dell’Africa Centrale (Eccas) e la Com-missione del Golfo di Guinea (Ggc) a sviluppareuna strategia contro la pirateria marittima, ha accol-to con favore l’intenzione degli Stati della regione

di convocare un vertice in materia. Le solite verbo-sità, dietro cui però si cela la presa d’atto di un fe-nomeno che tocca direttamente gli interessi italia-ni, visto che in zona ci sono le piattaforme petroli-fere dell’Eni già vittime di attacchi assieme a duemercantili nazionali. Lo scorso anno una nave ita-liana che trasportava gasolio era stata sequestrata,pur se per brevissimo tempo, dai pirati durante lanotte fra il 23 e il 24 luglio al largo delle coste del-la Nigeria. Washington e Parigi si sono mosse datempo attivando forme di cooperazione navale conNigeria, Benin e Ghana. È proprio il Benin tra i piùcolpiti dall’attività dei nuovi pirati. Secondo le au-torità di quello stato, il traffico dal porto di Coto-nou sarebbe diminuito del 70 per cento. L’attivitàcriminale si estende per circa 150 miglia a largo del-la coste di Nigeria e Benin e comprende anche iltraffico di droga e armi. Anche al largo della foceBonny river in Nigeria le acque sono diventate daqualche anno molto pericolose. Proprio il 12 aprilescorso un tanker russo della Sovcomflot è stato at-taccato, quando era all’ancora nel porto di Lomenel Togo, allargando l’area a rischio. L’equipaggiosi è trincerato nella citadel, una sorta di camera blin-data della nave, e ha aspettato l’arrivo della Guar-dia costiera. Da non dimenticare anche le coste alargo del Venezuela e alcune aree caraibiche, doveil fenomeno anche se sporadico è presente. Per co-stringere i governi interessati dal fenomeno ad at-tuare interventi efficaci servirebbe un boicottaggiointernazionale. Tutte le società di navigazione do-vrebbero minacciare la sospensione del servizio.Purtroppo è un’ipotesi irrealistica, perché ci saràsempre qualcuno disposto a prendersi più rischi de-gli altri. E i pirati sanno bene che possono contaresu molte connivenze a livello locale che farebberoimpallidire i sensi di colpa di «Tuan Jim» per averabbandonato il Patna nel viaggio verso la Mecca.Ma citazioni conradiane a parte, rimane il fatto chefinché non si deciderà di colpire le basi a terra del-la pirateria, il costo di questa “guerra” rimarrà irri-mediabilmente alto.

L’aumento dell’attività delle trenta nazioni coinvolte,a vario titolo, nella guerra alla pirateria ha provocato una mutazione nelle tattiched’arrembaggio. Sono diminuitigli attacchi in maniera sensibilealla fine del 2011. Ora i pirati scelgono i bersagli più fragili,i meno preparati e cercano di massimizzare la rendita per ogni unità navale catturata

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ruderi delle tremila torri d’avvistamento costruite frail XII e il XVI secolo. Ancora due secoli fa erano pre-sidiate, ma oggi siamo immemori dei «Turchi alla ma-rina». I pirati per antonomasia sono quelli dell’altroMediterraneo, i Caraibi: simpatici agli anglosassoni,e tramite Hollywood a tutti, perché si cuccano i ga-leoni, si fanno di Pampero e iniziano alla vita liberale figlie ribelli dei governatori spagnoli (ovviamentemalvagi e impotenti come nazisti e musi gialli). L’edi-zione inglese di Wikipedia ha censito almeno 80 libridedicati ai pirati dal 1719, un decimo dei quali di Emi-lio Salgari, senza contare la storia dei bucanieri di Ale-xandre Exquemelin (De Americaensche Zee-Roovers,1678) e il sottogenere piratesco delle dime novels ame-ricane (otto romanzi a sensazione solo dal 1864 al1869). E ancora 150 film dal 1908 (inclusi 5 PeterPan, 14 Treasury Island e un Treasury Planet), 10 fu-metti e manga, 22 videogame, 22 opere o gruppi mu-sicali, 25 squadre sportive, 6 musei e una mostra iti-nerante solo in Nordamerica e senza contare TheCrimson Permanent Assurance (1983) dei Monty Py-thons, i pirati della Playmobil e lo sbarco di pirati chedal 1916 caratterizza il Gasparilla Festival di Tampa(Florida), nato per celebrare la filantropia americanadopo la liberazione di Panama dalla tirannia colom-biana (1903). Come spiega Wikipedia alle dottissimevoci «Piracy in the Atlantic world», «Pirates in popu-

lar culture» e «Golden age of piracy», il successo me-diatico della pirateria caraibica riflette ancora l’esor-dio marittimo e coloniale dell’Inghilterra elisabettia-na e i canoni narrativi erano già codificati nella Ge-neral History of the Pyrates, pubblicata sotto pseu-donimo a Londra nel 1724 e attribuita a Daniel De-foe (1659-1731) o, più probabilmente, a NathanielMist (m. 1737). E già allora il segreto dell’archetipostava nel suo calco femminile, come si vede dal fron-tespizio della prima edizione che metteva in risalto lefittizie biografie delle due amanti di Calico Jack Rac-kham, le piratesse Anne Bonny e Mary Read cattura-te nel 1721 e graziate perché incinte (Mary fu inter-pretata sullo schermo da una Lisa Gastoni bionda, eperciò surclassata come bad girl della castana Gian-na Maria Canale, entrambe protagoniste di due con-correnti film italiani del 1961). In realtà la storia an-novera parecchie regine di pirati assai più documen-tate di quelle dubbie precorritrici di Thelma & Loui-se, eppure trascurate dal canone letterario occidenta-le, come la celtica Teuta (230 a.C.), l’irlandese Gra-ce O’Malley (1530-1603), la cantonese Ching Shi(1785-1844). E senza contare, ovviamente, la più gran-de e fortunata, cui Susan Ronald ha dedicato un otti-mo saggio (The Pirate Queen. Elizabeth I, her pira-te adventurers, and the dawn of the Empire, HarperPerennial, 2008). Del resto en.wikipedia ha censito

INVENTARIO DELLE STRATEGIE DEL PASSATO

LA STORIA CI INSEGNA COME AFFRONTARLIDI VIRGILIO ILARI

irata» titilla subconscie corde anarchiche: la Tortuga dell’infanzia, ilPuerto Escondido degli ex-sessantottini, le Maldive dei cafoni, leAntille degli evasori. Teschi e tibie, bende nere, gambe di legno, pen-nacchi, uncini e coltellacci d’abbordaggio sogghignano dalle insegnebalneari sulle spiagge settentrionali del Mediterraneo, punteggiate dai

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41 «women in piracy» storiche dal 600 a. C. al XXsecolo contro appena 24 di carta o di celluloide su untotale di 186 «fictional pirates» (di cui 21 «space pi-rates»): e manca dalla lista la più sexy di tutte, l’indi-menticabile Jolanda de Almaviva di Milo Manara(1971), derivata dalla salgariana figlia del corsaro ne-ro (1905). Figlio io invece di magistrato, piccolo bor-ghese, statolatra, legalitario, militarista, visceralmen-te illiberale e soprattutto bastian contrario, da ragaz-zino aborrivo sia le compiacenze radicaloidi verso lapirateria caraibica sia l’apologia triplicista di quellamalese, tenendo nel massimo disprezzo il proto-ca-strista Yanez de Gomera, traditore della civiltà euro-pea e dell’ordine costituito, per me rappresentato dasir James Brooke (1803-1868), il primo rajah biancodi Sarawak che ispirò a Joseph Conrad il personaggiodi Lord Jim (1899). Fedele a me stesso, da vecchio misono poi deliziato, proprio sulle pagine di Risk, di spez-zare una lancia a pro dei corsari barbareschi e infieri-re sui patetici fiaschi degli Stati Uniti nelle prime guer-re da loro combattute dopo la Revolution, ossia quel-le contro i «barbary pirates». Guerre che Us Navy eMarines, a rimorchio di Hollywood, spacciano spu-doratamente per vittorie quando invece si fecero fre-gare una fregata e per riprendersela dovettero ingag-giare cento picciotti siciliani che sapevano come trat-tare i dirimpettai (una faccia una razza).

Questo epiteto di pirata appioppato ai corsarinordafricani manifesta lo strabismo e il relativismomorale della vulgata occidentale che eroicizza, spec-chiandovi sé stessa, la schiuma dei Caraibi. Il primosovrano a riconoscere l’indipendenza delle TrediciColonie fu il callido sultano del Marocco. Il suo tor-naconto stava nel fatto che, non essendo più copertidalla bandiera britannica (garantita dal trattato anglo-turco del 1728), i succulenti mercantili americani di-ventavano prede del tutto legittime, ricadendo sottolo stato generale e permanente di guerra agli infede-li proclamato dalle quattro reggenze barbaresche (Sa-lé, Algeri, Tunisi e Tripoli) nominalmente soggette alSultano ma di fatto indipendenti. In base al diritto in-ternazionale europeo, i capitani (rais) barbareschi nonerano infatti pirati, ma corsari. Già nel Mediterraneoantico era ben chiara la distinzione tra pirati e corsa-ri, cioè tra la rapina illegale e quella autorizzata da unsovrano contro i suoi nemici. Nell’Occidente moder-no le regole di legalizzazione della rapina marittimarisalgono al medioevo e, per l’Inghilterra, al Liber ni-ger Admiralitatis di Riccardo Cuor di Leone. Sebbe-ne vietata fra i contraenti della pace di Westfalia, laguerra corsara caratterizzò le guerre europee del 1688-1748, costate oltre 10mila mercantili alla sola Inghil-terra. Durante la guerra d’indipendenza gli america-ni armarono 1.700 legni corsari con 55mila marinaie predarono 2.283 mercantili inglesi, ma a loro voltane persero 2.500 fra il 1783 e il 1812, alcuni dei qua-li predati dai corsari siciliani e napoletani. I record delSeicento e Settecento furono largamente superati du-rante le guerre napoleoniche (famosissimo tra i cor-sari francesi il ligure Capitan Bavastro, amico del ma-resciallo Masséna). Nel diritto inglese l’istituito è det-to «privateering» e in olandese «vrijbuiterij» (liberobottino, filibustiere), perché appunto i corsari eranoimprese commerciali private autorizzate ad «armarein corso» contro il commercio marittimo dei paesi inguerra con il sovrano che rilasciava la «patente di cor-sa» o «lettera di rappresaglia» e i contrassegni («let-tere di marca») di salvacondotto ai mercantili neutra-li. Il sovrano si riservava la giurisdizione sulle con-

Il successo mediatico della pirateria caraibica rifletteancora l’esordio marittimo e coloniale dell’Inghilterra elisabettiana e i canoni narrativierano già codificati nella“General History of the Pyrates”,pubblicata sotto pseudonimo a Londra nel 1724 e attribuita a Daniel Defoe o, più probabilmente, a Nathaniel Mist

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troversie (tribunali dell’ammiragliato o delle prede),una quota dei profitti e magari l’affitto dei cannoni. I rais, molti dei quali erano europei rinnegati (cioèconvertiti all’islam) e le cui spedizioni in corso era-no finanziate da banchieri cristiani ed ebrei (la tolle-ranza religiosa era ottomana, non europea, come scri-veva Jean Bodin), aggiungevano a ciò il sequestro dipersona a scopo di riscatto (con riduzione in schiavi-tù a cui ci si poteva sottrarre convertendosi alla verafede e rinunciando a rivedere un giorno la patria, per-ché l’apostasia era punita con la morte). L’altra carat-teristica delle reggenze barbaresche era di utilizzarela minaccia dei corsari e la rivalità commerciale trale potenze marittime cristiane per estorcere colossalitangenti (agli Stati Uniti costarono, nel solo anno 1800,un quinto delle rendite federali). Estenuanti negozia-ti bilaterali tra ciascuna reggenza e ciascuna potenzacristiana, spesso accompagnati da costosi blocchi ebombardamenti che le capitali nordafricane incassa-vano senza grossi traumi, regolavano a costi apoca-littici lo scambio e il riscatto degli schiavi e l’ammon-tare dei tributi annuali in armi e denaro pagati per ot-tenere il temporaneo rispetto della propria bandiera.

Il sistema rimase in piedi per secoli finchéservì agli equilibri strategici e commerciali del Me-diterraneo e dell’Europa. I cavalieri di Malta e gli Or-dini dei Trinitari e dei Lazzaristi (fondato da San Vin-cenzo de Paoli) prosperavano su rappresaglie e riscat-ti: ma soprattutto la cooperazione strategica e i trat-tati commerciali col Sultano consentivano alle gran-di potenze marittime (Francia, Inghilterra e Olanda)non solo di ottenere il rispetto delle loro bandiere daparte delle reggenze, ma di sfruttare i corsari norda-fricani per colpire il commercio mediterraneo dellaSpagna e delle potenze minori. Era stata anzi la Fran-cia, nel quadro di una formale alleanza contro CarloV, ad aiutare i turchi a prendere Tunisi (1535) e Tri-poli (1551), gli ultimi due bastioni cristiani rimastisulla sponda meridionale del Mediterraneo dopo lacaduta di Rodi (1522) e Algeri (1525), e ad appoggia-re le razzie compiute nel 1543-44 dal famoso ammi-

raglio Hayreddin Barbarossa sulle coste italiane e pro-venzali. Benché Lutero avesse perorato nel 1528 laguerra contro i Turchi che premevano su Vienna, l’ana-logia iconoclasta con l’islam fu invocata dai teologiriformati: durante l’assedio di Malta (1565) i ribelliolandesi tifarono per i Turchi, Carlo IX non interven-ne a Lepanto e nel 1574 progettò con Guglielmod’Orange di sbarcare in Spagna turchi e ugonotti persollevare i moriscos. Al 1585 risalgono l’alleanza an-glo-marocchina e la Barbary Company. Le reggenze, più cosmopolite che islamiche, davanopure modo ai corsari di proseguire la loro attività, co-me pirati, anche durante i periodi di pace tra le gran-di potenze. Dopo la pace anglo-spagnola del 1603 isea dog inglesi si aggiunsero ai sea beggars (gueuxde mer) olandesi, alcuni dei quali rinnegati, che uti-lizzavano Salé e le altre basi barbaresche per preda-re le navi cattoliche. Nel 1607 la Francia denunciòl’alleanza «turco-calvinista». Giacomo I incassò nel1610, in cambio dell’amnistia, una buona quota deiprofitti realizzati dai sea dog. Naturalmente nei rap-porti delle grandi potenze con le reggenze nordafri-cane vi furono alti e bassi: Algeri fu bombardata nel1621 dall’Inghilterra e nel 1683 dal Re Sole (il qua-le tentò tuttavia di dissuadere il re di Polonia Jan IIISobieski dal soccorrere Vienna). Naturalmente il pro-fitto delle imprese barbaresche era tutt’altro che co-stante: proprio la loro insidia favoriva lo spostamen-to del traffico maggiore dalle rotte mediterranee alleatlantiche, ma queste divenivano a loro volta insicu-re durante le guerre commerciali tra le grandi poten-ze; le crociere atlantiche delle flotte regolari e dei cor-sari europei riportavano infatti in auge il traffico me-diterraneo e dunque le opportunità dei corsari barba-reschi. Il blocco continentale proclamato da Napoleo-ne nella patetica illusione di proteggersi dal contrab-bando inglese fu, tra l’altro, il canto del cigno dei cor-sari. Quando il Mediterraneo divenne un lago ingle-se non ci fu più spazio per loro. Algeri, che aveva benincassato i due bombardamenti spagnoli del 1783 e1784, crollò sotto quello anglo-olandese del 1816, enel 1830 fu occupata dai francesi.

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Quanto ai corsari europei e americani, dopo il 1815una parte si riciclò nelle guerre d’indipendenza del-l’America spagnola, altri nel traffico transatlanticodi schiavi (dichiarato illegale dalla Gran Bretagnae dagli Stati Uniti nel 1807) e alcuni continuaronoi sequestri sotto bandiera pirata. Toccò allora ai ni-potini di sir Francis Drake (1540-1596), sir HenryMorgan (1635-88) e John Paul Jones (1747-1792)rispolverare la lex Gabinia de uno imperatore o depiratis persequendis, il plebiscito, eversivo delleprerogative senatorie, ma votato pure da Cicerone,che nel 67 a. C. concesse a Gneo Pompeo Magnoil comando supremo triennale per distruggere i pi-rati cilici i quali, nel quadro della terza guerra mi-tridatica, infestavano con mille navi tutte le costedel Mediterraneo da Cadice al Mar Nero e aveva-no saccheggiato o occupato almeno 400 città.

L’accorto Pompeo li liquidò in due mesi conuna schiacciante vittoria navale seguita da amnistiae legalizzazione degli insediamenti stabiliti dai pi-rati, aiutandoli in pratica a trasformarsi in onesticommercianti: un buon suggerimento per venire acapo della pirateria moderna, se non ci fossimo ge-nialmente legati le mani con tutta la baracca dei tri-bunali e delle flotte internazionali. Dal 1817 al 1825il West Indies Squadron dell’Us Navy (14 unità)eliminò i pirati dei Caraibi, l’ultimo dei quali, Ro-berto Cofresì (1791-1825) era nato a Puerto Ricoda padre triestino. Nel 1819 la Royal Navy posefine ai residui dell’antica marineria araba trasfor-mando la cosiddetta «costa dei Pirati» (ossia la co-sta meridionale del Golfo Persico) nei cosiddetti«Trucial States» (sultanati della tregua), gli attua-li Emirati Arabi Uniti. Nel 1827 l’Inghilterra equi-parò il traffico transatlantico di schiavi alla pirate-ria e dal 1807 al 1860 il West African Squadron an-glo-americano, aumentato negli ultimi anni fino a25 unità, intercettò 1.600 navi negriere liberando150mila schiavi. La fattispecie del reato fu inoltreregolata dai Piracy Acts inglesi del 1837 e 1850. Adifferenza di olandesi e spagnoli, incapaci di veni-

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re a capo dei rispettivi pirati musulmani (i cinesi Bu-gis delle Celebes e i Moro o Sulu delle Filippine me-ridionali), gl’inglesi liquidarono quelli malesi grazieal citato Brooke, la bestia nera di Salgari, investitonel 1841, dal sultano del Brunei, della sovranità suSarawak, ossia la parte malese del Borneo. Ma l’in-transigenza europea verso la pirateria cinese era al-quanto selettiva, se la seconda guerra dell’oppio(1856-1860) fu occasionata dall’incidente dell’Ar-row, una giunca di Hong Kong fermata dalle autori-tà cantonesi per sospetta pirateria ma rivendicata dalconsole britannico. Attenuando lo storico antagoni-smo, l’alleanza anglo-francese contro la Russia e Ci-na pose le basi del moderno Occidente forgiato dal-le due guerre mondiali ed ereditato dagli Stati Uni-ti. Tra le ricadute più immediate ci furono l’unità ita-liana e la solenne rinuncia alla guerra corsara, dichia-rata dalla maggior parte dei paesi europei, su propo-sta di Napoleone III, in margine della pace di Parigidel 30 marzo 1856 che concluse la guerra di Crimea.Gli ultimi corsari furono quelli patentati dai Confe-derati all’inizio della guerra civile americana. Infat-ti gli Stati Uniti aderirono alla Dichiarazione di Pa-rigi solo nel 1908, assieme alla Spagna e dopo la

Convenzione dell’Aia del 1907. Dopo di allora l’at-tacco al commercio nemico non fu più condotto daicorsari, ma esclusivamente dalle marine regolari, ein particolare dalle forze subacquee.

A parte sporadiche micro-bande, la pira-teria organizzata sembrò estinta dopo il 1870, manmano che il controllo di autorità centrali si raffor-zava negli insediamenti marittimi. La sua sorpren-dente ricomparsa nella prima decade del XXI seco-lo è stata attribuita alla fine della guerra fredda, macerto vi incide il fallimento di un numero crescen-te di economie postcoloniali provocato dalla glo-balizzazione. La nuova pirateria, il cui costo annua-le è stimato fra i 13 ed i 16 miliardi di dollari, è at-tualmente localizzata nei golfi di Guinea e di Adene nello stretto di Malacca (tra Malesia e Sumatra),da dove, a causa della repressione, si sta ora spo-stando nel Mar cinese meridionale. L’epicentro re-sta però l’Oceano indiano, che registra un trafficoannuale di 50mila petroliere e portacontainer. Quattro secoli fa i pirati che lo infestavano eranosoprattutto europei, i quali predavano le navi mo-ghul che portavano alla Mecca i pellegrini del Ke-rala. Nel 1613, reagendo alla mancata restituzionedella nave imperiale Rahimi, il figlio dell’impera-trice Mariam-uz-Zamani (1542-1622) fece occupa-re la base portoghese di Daman. Nel 1693-95 i con-vogli moghul furono attaccati da Thomas Tew e daaltri pirati americani che facevano scalo all’Ile Sain-te Marie nel Madagascar, dove tuttora esiste un pic-colo cimitero di pirati. La General History of thePyrates (citata all’inizio di questo articolo) associaa Tew un domenicano italiano, Caraccioli, e gli at-tribuisce la fondazione, in Madagascar, di un’uto-pistica colonia anarchica di cui non si sono peròmai trovati i resti. Sarebbe carino se le flotte libe-raldemocratiche che difendono il libero commer-cio nell’Oceano indiano, fra un turno e l’altro fa-cessero qualche ricerca archeologica e magari riu-scissero a trovare la perduta colonia dei pirati “no-stri”. Che, giustamente, si chiamava Libertatia.

I pirati cilici, nel quadro della terza guerra mitridatica,infestavano con mille navi tutte le coste del Mediterraneoda Cadice al Mar Nero e avevano saccheggiato o occupato almeno 400 città.L'accorto Pompeo li liquidò in due mesi, con una schiacciante vittoria navaleseguita da amnistia e legalizzazione degli insediamenti stabiliti dai pirati

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Un’occasione sprecata

Un paese moderno è tale se, per definizione è capace di adeguar-si ai cambiamenti, anche nel campo istituzionale e legislativo. Lacontinua e rapida evoluzione dello scenario di riferimento rischiadi rendere velocemente obsoleta anche la migliore strumentazio-ne possibile di governo. Più il campo interessato è internaziona-lizzato e più deve essere tempestiva l’azione di aggiornamento. Èquesto il caso del controllo sulle esportazioni militari perché sce-nario geostrategico, rischi e minacce, sviluppo tecnologico e in-dustriale, accordi multilaterali e bilaterali, regimi di controllo erapporti internazionali rappresentano altrettante variabili in con-tinuo movimento. Se poi, come nel caso italiano, l’intero sistemadi controllo, basato sulla legge 185/90, è stato concepito in un’al-tra epoca, prima della caduta del muro di Berlino, dell’11 settem-bre e dell’integrazione del mercato europeo, la sua inadeguatez-za non dovrebbe stupire nessuno. Così nel 1998 ad una seria ri-forma cominciò a pensare il primo governo Prodi, anche se fu poiil governo D’Alema ad approvare un coraggioso disegno di leg-ge nel gennaio Duemila, successivamente lasciato cadere in Par-lamento a causa del fuoco di sbarramento della parte talebanadella maggioranza di centro-sinistra e del disinteresse del centro-destra. Qualcuno si illudeva che, grazie alla ratifica dell’accordoquadro fra i sei maggiori paesi europei, la normativa avrebbe po-tuto essere per lo meno parzialmente modificata, anche per rispet-tare gli impegni assunti con i nostri partner. In realtà dopo tre an-ni di battaglie politiche e parlamentari furibonde, sono state ap-provate, con la legge 148/03, solo lievissime modifiche che nonhanno praticamente cambiato nulla, tanto è vero che la famosaLicenza globale di progetto, presentata dagli oppositori come ungrimaldello per ridurre i controlli, non è mai stata applicata finoallo scorso anno. La riforma ha continuato così ad essere studia-ta per sette anni a livello interministeriale sotto il governo Berlu-sconi, quello Prodi e, di nuovo, quello Berlusconi. Si è arrivati co-sì al disegno di legge delega approvato nel settembre 2010 chesembrava voler finalmente dare al nostro paese un nuovo sistemadi controllo delle esportazioni militari in linea con quelli dei prin-cipali paesi europei, rispettando nello stesso tempo i molteplici im-pegni assunti dall’Italia a livello europeo. Non si è, però, fattonemmeno in tempo a plaudire a questa decisione coraggiosa chelo stesso governo Berlusconi ha fatto una rapida marcia indietroe affossato la sua stessa proposta. Il Parlamento ha così approva-

to, nel dicembre 2011 all’interno della Legge comunitaria 2010,una mini-delega. In questo quadro, complice la preoccupazioneper l’incredibile ritardo accumulato dall’Italia nel rispettare il re-cepimento della direttiva comunitaria 2009/43 sui trasferimentiintracomunitari, il governo Monti ha approvato il 9 marzo un de-creto legislativo “minimalista” che si limita ad inserire nella no-stra normativa il contenuto della direttiva comunitaria. Peccatoche non basti inserire qualche nuovo ingranaggio, in un motorevecchio, per farlo funzionare meglio. Anzi c’è il rischio che s’in-chiodi e a quel punto non resterebbe che adottare qualche solu-zione di emergenza con due conseguenze negative: che il provvi-sorio diventi definitivo e che la discrezionalità diventi la regola.Così è avvenuto, d’altra parte, nel 1997 quando, non potendo piùgestire i programmi di collaborazione intergovernativa con la stru-mentazione della legge 185/90, si definì una procedura specialeche sostanzialmente manteneva i programmi fuori dal campo diapplicazione della legge prevedendo che vi rientrassero alla loroconclusione (e, più avanti, facendoli rientrare ad operazioni effet-tuate). Una decisione “a fin di bene” e con un carattere straordi-nario e temporaneo (così venne presentata), ma che, invece, vie-ne applicata tutt’ora e coinvolge gran parte della produzione ita-liana. Così è avvenuto l’anno scorso con la decisione di utilizza-re la Licenza globale di progetto, nata per semplificare i program-mi di collaborazione fra i paesi europei dell’accordo quadro (e poiesteso dall’Italia, ad alcune precise condizioni, anche ai paesi Na-to). Ovviamente anche in questo caso lo si è fatto a “fin di bene”perché è assurdo e ridicolo che l’Italia da una parte partecipi at-tivamente ad un programma, lo finanzi, cerchi di ottenere il mas-simo coinvolgimento della nostra industria e, nello stesso tempo,ne gestisca i controlli con lacci e lacciuoli che danneggiano le for-ze armate, l’industria e l’intero paese. La mancata riforma giusti-ficherà così, anche per il futuro, queste ed altre forzature e il po-tere del mondo politico e della burocrazia troverà nuova linfa vi-tale. Un bell’esempio di quello che duecento anni fa osservavaBenjamin Constant nei Principes de politique: «Una volta ammes-si i mezzi arbitrari, i depositari dell’autorità li trovano talmenterapidi, talmente semplici, talmente comodi che non vogliono piùimpiegarne altri. In tal modo, l’arbitrio – presentato inizialmentecome risorsa estrema in circostanze eccezionalmente rare – divie-ne la soluzione di tutti i problemi e la pratica di ogni giorno».

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editoriali

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La Corea del Nord torna a far paura. Dopo aver tentato dilanciare un vettore spaziale con a bordo un satellite, sen-za successo, Pyongyang sembra seriamente intenzionata acondurre il suo terzo esperimento nucleare, mentre minac-cia il vicino, la Corea del Sud, affermando di essere in gra-do di ridurre lo storico rivale in cenere «nel giro di quat-tro minuti». Non solo, alla consueta parata militare la Co-rea del Nord ha svelato un nuovo veicolo trasportatore/lan-ciatore per missili balistici, un cosiddetto Tel, ovvero uncolossale autocarro, a 16 ruote, che rende molto più diffi-cile localizzare e nel caso eliminare i missili balistici cheè in grado di trasportare. Un mezzo il cui sviluppo è statoreso possibile grazie alla vendita da parte della Cina quan-tomeno del telaio/propulsore di questo mezzo speciale. Un contratto lecito, a dispetto delle sanzioni Onu, ma quan-tomeno inopportuno. La Corea del Nord di Kim Jong-unrimane quindi un pericoloso enigma, mentre i timidi segna-li di alleggerimento della tensione vengono regolarmentespazzati da nuove fasi di crisi. E se davvero Pyongyangcompirà un esperimento nucleare la situazione diventeràdavvero tesa. Anche il lancio del vettore spaziale Unha-3ha contribuito ad aumentare le fibrillazione. Doveva esse-re un evento per celebrare il centenario della nascita delfondatore della patria., Kim Il-sung e in effetti la missioneaveva carattere civile. Però il razzo a tre stadi, pesante ol-tre 90 tonnellate e alto oltre 30 metri, ha anche contribui-to a maturare tecnologie impiegate nel programma missi-listico militare. Il fatto che si sia risolto nell’ennesimo flop (dopo altri duetentativi falliti, condotti rispettivamente nel 1998 e nel 2009),con la mancata accensione del secondo stadio, conta finoad un certo punto, perché ha comunque consentito di otte-nere dati preziosi e fare esperienza, cosa importante per inordcoreani, i quali hanno l’abitudine di produrre sistemid’arma senza verificare davvero se funzionino (è il caso delmissile balistico Musudan, accreditato di una gittata di3.200 chilometri e apparentemente mai sottoposto ad unlancio di prova e tantomeno di qualifica). Nel dubbio l’intelligence deve presumere che tali sistemisiano operativi e… letali. Non è neanche un caso che in oc-

casione del lancio dell’Unha-3 il Giappone avesse messoin allarme le proprie difese antimissile, con l’autorizzazio-ne a compiere una intercettazione qualora il missile aves-se sorvolato le isole giapponesi. Invece l’Unha, diretto ver-so il mare adiacente le Filippine, è andato in pezzi. Se To-kyo si preoccupa, la Corea del Sud torna a pensare che ilcontenzioso con il vicino potrebbe davvero portare ad unoscontro militare in tempi relativamente brevi. La speranza che la Corea del Nord imploda con il suo re-gime dittatoriale dinastico non è svanita, ma ormai nessu-no si azzarda più a formulare pronostici e tempi, visto chea dispetto delle enormi difficoltà economiche e dei sussul-ti conseguenti alla successione nulla è apparentemente cam-biato. Non solo, la presenza a Seoul di un governo conser-vatore, guidato da Lee Myung Bak, ha reso ancora più ag-gressiva Pyongyang, portando ad una accelerazione deipiani di ammodernamento e potenziamento militare dellaCorea del Sud, la quale si sta dotando non solo di sistemidi difesa antimissile, ma anche di missili superficie-super-ficie: intanto missili da crociera e prima o poi anche di mis-sili balistici di nuove generazione, in aggiunta agli ordignitattici Atacms di produzione statunitense. Del resto già dopo l’affondamento da parte della Corea delNord, con un siluro, di una corvetta sudcoreana, il gover-no di Seoul aveva deciso una revisione della propria poli-tica di Difesa (National Security Review), avviata nel mag-gio 2010 e che prevede una riduzione del personale ed unmarcato potenziamento della capacità militari, in tutti icampi. Non è neanche un mistero che Seoul trovi semprepiù corta la “coperta nucleare” garantita dagli Stati Uni-ti, ovvero la garanzia che un attacco con armi nucleari daparte della Corea del Nord provocherebbe una ritorsionenucleare statunitense. E anche quest’ultimo tabù potrebbe cadere qualora Pyon-gyang procedesse ad un nuovo test, magari questa qualco-sa di meno ambiguo e più consistente rispetto ai preceden-ti. A quel punto il rischio di scatenare una corsa all’atomi-ca diventerebbe concreto. Lo stesso Giappone non potreb-be rimanere inerte di fronte ad una doppia bomba corea-na. Altro che disarmo nucleare…

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Fantasmi coreani

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Fin dagli anni Sessantadel secolo scorso, daquando cioè i paesi eu-

ropei dell’Alleanza Atlanticahanno concretizzato la rinasci-ta economica e politica dopole distruzioni del secondo con-flitto mondiale, il tema del«burden sharing», cioè la con-divisione degli oneri della di-fesa comune, è stato posto conenfasi crescente. Durante laguerra fredda, i paesi europei,anche se con qualche riluttan-za, soprattutto da parte di quel-li meno pronti all’uso della for-za militare per sostenere leproprie politiche nazionali,hanno in qualche modo rispo-sto, anche se con una certa riluttanza, alle sollecita-zioni che venivano dall’altra parte dell’Atlantico (sirammenti, ad esempio, l’impegno, concordato nel«Programma di difesa a lungo termine» del 1978, afar crescere i bilanci della difesa, ogni anno, del 3 per-cento in termini reali); peraltro le sollecitazioni, an-corché ripetute, non apparivano fortemente pressan-ti, in quanto anche a Washington non si potevano ne-gare due fatti: il primo che buona parte delle risorsefinanziarie dedicate dai paesi europei all’ammoder-namento dei mezzi finivano oltre Atlantico per acqui-sizioni da produttori statunitensi, con ciò contribuen-

do direttamente all’eco-nomia Usa, il secondoche il solo fatto di costi-tuire il campo di battagliaprincipale dell’ipoteticoscontro fra i due blocchicostituiva di per sé uncontributo sostanziale al«burden sharing».Con la caduta del muro diBerlino, il tema perse divigore, in quanto tutti ipaesi, Stati Uniti compre-si, allentarono gli sforzinel settore della difesa,volendo incassare quel«peace dividend» che ap-pariva il giusto premio perla vittoria sul blocco so-

vietico. Ben presto, però, le crisi balcaniche ripro-posero la necessità per i paesi occidentali in generalee per la Nato in particolare di ridare sostanza alle pro-prie capacità militari e da parte americana cresceva lariluttanza a farsi carico di problemi di sicurezza chea Washington non apparivano più prioritari, mentreera sempre più evidente la sostanziale incapacità deipaesi europei a gestire crisi che li investivano diretta-mente.Vennero così riproposte le sollecitazioni versogli europei a fare di più e meglio, ponendo paletti benprecisi che, se risultavano pregiudiziali al fine di am-mettere nuovi membri in seno all’Alleanza, da molti

ScenariMONDO

DIFESA INTELLIGENTE E ANTICRISIDI VINCENZO CAMPORINI

la Smart Defence sarà la nuova carta con cui l’Alleanza dovrà

coniugare due novità stringenti del panorama strategico. La prima è la razionalizzazione delle spese

in tempi di crisi, dove gli Usa premonoper un più concreto burden sharing.

La seconda è la nuova dottrina Obamache vede spostare l’asse d’interesse

americano a Oriente, lasciandoall’Europa nuovi compiti

a cui non è ancora preparata

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scenari

paesi vennero considerati solo un obiettivo di princi-pio: tale è risultato sin dalla fine degli anni Novantail parametro del 2 percento del pil da dedicare al bi-lancio della Difesa. Da questa situazione trassero orig-ine varie iniziative, sia circa specifici programmi, siadi più ampio respiro, che avrebbero dovuto indurre igoverni europei ad un maggiore sforzo, basti citarefra questi ultimi il Sac (Strategic airlift command) efra i primi la Dci (Defence capabilities initiative), in-iziative però che portarono a risultati non all’altezzadelle aspettative, per una serie di motivi, aggravatinegli ultimi anni dall’esplodere delle crisi economi-co finanziarie da cui fatichiamo ancor oggi a uscire.E proprio queste crisi, esplose dal 2008, hanno indot-to tutti i governi europei, compresi quelli militarmentepiù avanzati, Francia e Gran Bretagna, a tagliare, avolte anche in modo drastico, i rispettivi bilanci del-la difesa, mentre negli Usa, anche per effetto deglisforzi bellici in atto, il Pentagono chiedeva ed ottene-va sostanziali incrementi delle risorse. A questo pun-to l’Amministrazione Usa ritenne necessario ripro-porre con forza il tema del «burden sharing» e lo fecee lo sta facendo in modo coerente e corale, al puntoche il discorso di commiato di Robert Gates e le piùrecenti dichiarazioni di Leon Panetta potrebbero es-sere stati pronunciati dalla stessa persona. Raccoglien-do, quindi, i forti segnali lanciati durante il verticeNato di Lisbona del novembre 2010, alla tradizionaleconferenza europea sulla sicurezza di Monaco dei pri-mi di febbraio del 2011 (quella che una volta venivadenominata la Wehrkunde), il segretario generale del-la Nato Rasmussen lanciò il concetto di «Smart De-fence» con lo scopo di trasformare in modo sostanzialele modalità di acquisizione di sistemi nell’ambito deipaesi dell’Alleanza, al fine di conseguire le neces-sarie capacità in modo più efficiente e costo-efficace.La proposta venne formalizzata alla riunione minis-teriale del marzo 2011, durante la quale venne ap-provato il documento «Building Capabilities throughmultinational and innovative Approaches». In realtàdi innovativo non c’è molto, se non la forte spintadegli Usa, che mettono i paesi europei di fronte alle

loro responsabilità, dando evidenza di uno sposta-mento del centro di interesse americano dall’Europaal Pacifico e all’Asia, con toni mai uditi nel passatoe dimostrando che alle dichiarazioni seguono i fatti.E la dimostrazione la si è subito avuta con il compor-tamento tenuto durante l’operazione Unified Protec-tor, contro la Libia di Gheddafi: dopo un’iniziale bre-vissima partecipazione alle azioni offensive, le forzeUsa si sono limitate a fornire alla coalizione le capac-ità abilitanti essenziali, di cui i paesi della coalizionestessa non disponevano, oppure disponevano in misurainsufficiente (ricognizione, intelligence, identificazionee analisi obiettivi pre- e post-strike, rifornimento involo, scorte logistiche di munizionamento), in sinte-si si sono limitati ad evitare di far fare a Francia, GranBretagna e Italia la figura di potenze con ambizioniin alcuni casi globali, che non riuscivano ad avere ra-gione di un dittatorello a capo di un paese, in guerracivile, di 6 milioni di abitanti.E dal momento che i bilanci scendono, a volte dras-ticamente (oltre il 10 percento in termini monetari,quindi molto di più in termini reali), e nessuno in Eu-ropa è in grado di acquisire e mantenere, se non informa poco più che simbolica, tutte le capacità nec-essarie a condurre operazioni complesse, l’unica

A Chicago in tema di «SmartDefence» verranno sviluppati un certo numero di progetti da gruppi di lavoro appositamente costituiti,secondo tempistiche che mal si raccorderanno con reali esigenze operative; non appenapoi si dovrà passare alla concretarealizzazione, torneranno adiventare preminenti gli interessiindustriali di ciascun paese

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soluzione è quella di perseguire con convinzione edeterminazione l’approccio multinazionale. Di ciòsono tutti convinti, che si discuta di quanto avvienenella Nato o che si parli di Pesc/Pesd nell’Unione eu-ropea. Assistiamo dunque all’avvio di esercizi moltosimili in entrambe le organizzazioni, così simili darichiedere uno sforzo specifico per evitare, per quan-to possibile, duplicazioni e sovrapposizioni. Da un la-to, quindi, abbiamo la Smart Defence, dall’altro ilPooling and Sharing. In entrambi i casi si tratta di met-tere insieme risorse e competenze per acquisire in for-ma multinazionale capacità che nessuno potrebbe per-mettersi da solo. Limitando il nostro esame a quantosi fa nell’Alleanza Atlantica, si osserva che il compi-to è stato affidato congiuntamente al comandante diAct (Allied command for transformation di Norfolk,Virginia), generale Abrial, e al vicesegretario dellaNato, inizialmente l’ambasciatore Bisogniero, oggil’ambasciatore Vershbow, che hanno costituito unaspecifica task-force per facilitare l’individuazione diproposte concrete su cui avviare la cooperazione tra

i paesi. Alla radice di tutte queste attività stanno, ovvi-amente, ben precisi scopi politici, il primo dei qualiè quello di reagire alle sollecitazioni e alle espliciteaccuse dei due segretari di Stato alla Difesa Usa giàcitati ai paesi europei di essere rassegnati ad una pro-gressiva demilitarizzazione dell’Europa, reazione che,nell’attuale quadro economico-finanziario non puòche essere quella di mitigare gli effetti delle riduzionidei bilanci della difesa, mediante un migliore utiliz-zo delle risorse rimanenti; con ciò si risponderebbeanche alle antiche, ma sempre attuali, lamentele Usain tema di «burden sharing», evidenziando la neces-sità e sfruttando le opportunità per una cooperazionepiù stretta tra le due sponde dell’Atlantico, in una situ-azione in cui, alla riduzione dei bilanci europei fan-no da contraltare i tagli, assai pesanti in termini rel-ativi, dei fondi destinati al Pentagono. Le lacune op-erative peraltro esistono e sono bene state evidenzi-ate dalle operazioni contro la Libia di Gheddafi e sirende necessario sviluppare nuove metodologie dicollaborazione internazionale, sia in fase di acqui-sizione di nuovi strumenti e sistemi, sia per l’utilizzoe il sostegno degli stessi operazioni durante. Al finedi mantenere e, se possibile, rafforzare il rapporto del-la Nato con l’Unione Europea è politicamente indis-pensabile che le attività e i programmi da avviare inambito «Smart Defence» siano coordinati e comple-mentari con quelli che l’Ue sta portando avanti gra-zie al lavoro dell’Agenzia europea della difesa, cheha, in buona sostanza, gli stessi scopi.

La task force di Act ha lavorato con molto im-pegno in questi mesi, con l’obiettivo di presentare alvertice Nato di Chicago del maggio 2012 risultaticoncreti, o che comunque indichino una reale volon-tà di progresso da parte dei paesi membri; sono statequindi identificate una serie di “idee”, alcune dellequali possono già essere considerate nella fase prog-ettuale (Tier 1, per 15 progetti), altre come propostepotenziali (Tier 2, per 30 proposte), altre infine sonodelle semplici idee, ancora da elaborare (Tier 3, 142ipotesi di collaborazione). Per i progetti del Tier 1

Le crisi, esplose dal 2008, hannoindotto tutti i governi europei,compresi quelli militarmente più avanzati, Francia e Gran Bretagna, a tagliare,a volte anche in modo drastico,i rispettivi bilanci della difesa,mentre negli Usa, anche pereffetto degli sforzi bellici in atto,il Pentagono chiedeva ed otteneva sostanziali incrementi delle risorse. A questo puntol’Amministrazione Usa ritennenecessario riproporre con forza il tema del «burden sharing»

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esistono almeno due stati membri che intendono pro-cedere nell’attuazione, con una nazione leader, perquelli del Tier 2 sono necessari ulteriori approfondi-menti e, soprattutto, l’espressione della volontà diqualche stato membro di procedere, facendosi cari-co del ruolo di paese trainante; per il Tier 3, siamoancora al livello della necessità di definire concettidi cooperazione. Già questi dati possono indurrequalche perplessità, perplessità che crescono quan-do si analizzano i titoli dei singoli progetti, anche diquelli che appaiono più concreti e di più immediatoconseguimento: del Tier 1 fanno parte, ad esempio,«Computer and Information Systems e-LearningTraining Centers», oppure «Pooling of DeployableAir Activation Modules» e ancora «Remote Con-trolled Vehicles for Route Clearance», per citarnesolo alcuni dei quali l’Italia ha assunto la leadership,o ne vuole seguire attentamente gli sviluppi. Comesi può constatare, si tratta di capacità certamente sig-nificative, soprattutto nell’attuale quadro strategico,ma che non muteranno in modo sostanziale le poten-zialità degli strumenti militari dei paesi dell’Allean-za e che non comporteranno apprezzabili risparmi,ammesso che ne comportino, per i bilanci della dife-sa dei singoli paesi. In origine le ambizioni del-l’iniziativa vanno bene al di là di questi primi, mod-esti risultati: tre erano e restano le linee concettualilungo le quali ci si vuole e, aggiungo, ci si deve muo-vere se si vuole davvero conseguire una maggioreefficienza dell’utilizzo delle risorse (umane, stru-mentali e finanziarie) che gli stati membri della Na-to riservano per le loro capacità militari:«Specializzazione» in particolari aree capacitive,attraverso un processo di consultazione e cercan-do di mantenere a livello Nato la più ampia gam-ma di capacità possibile; «Cooperazione nell’ac-quisizione, pooling, sharing e maintaining in com-mune» delle capacità che non possono essere real-izzate (in entità sufficiente) da singole nazioni;«Definizione delle priorità sugli investimenti», sul-la base di quanto deciso a Lisbona. Il fatto di aver-li elencati in ordine inverso, rispetto a quello che viene

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usualmente utilizzato nei documenti ufficiali,risponde ad un’esigenza concettuale che non può es-sere dimenticata o trascurata in quanto ciò dà un’e-satta immagine della importanza relativa di tali li-nee, con riferimento alle finalità di tutto l’esercizio:risparmi veri, uniti a reali crescite delle capacità op-erative si potranno conseguire solo se si accetterà ilprincipio che i paesi, anche quelli che hanno le piùvaste ambizioni politico-militari, dovranno concen-

trarsi su quello che sanno fare meglio, accettando didipendere dalla piena e indiscussa solidarietà deglialtri alleati per tutta una serie di altre capacità indis-pensabili, ma che non si potranno più permettere:del resto alcuni paesi, e non solo i più piccoli, han-no già di fatto intrapreso questa strada, ma l’hannofatto e lo stanno facendo in modo assolutamente noncoordinato e praticamente senza consultarsi con glialtri membri della Nato, né tanto meno, con le strut-ture centrali dell’Alleanza; accanto a quelli che han-no affidato la loro difesa aerea ad altri, ci sono quel-li che hanno rinunciato alle capacità delle operazionisubacquee e ce ne è uno, che un tempo «governavale onde», il quale almeno per dieci anni ha rinunci-

ato alla capacità di proiezione del potere aereo dalmare, stipulando un accordo bilaterale con un altropaese, che invece tale capacità conserva. È ovvioche un progetto di questa portata, da attuare in mo-do razionale e coordinato, presuppone un accordopolitico fortissimo, in cui non ci deve essere piùspazio né per le fughe in avanti, né per riluttanzepreclusive, come si è purtroppo visto in occasionedella crisi libica, poi sfociato in un intervento mil-itare cui hanno direttamente partecipato solo ottomembri dell’Alleanza. Si tratta di uno sviluppo chefrancamente non appare possibile in un quadro Na-to, mentre potrebbe essere possibile in un’Unioneeuropea che trovi finalmente la strada perun’evoluzione in senso federativo, anche magari conun numero ridotto di aderenti. La seconda linea concettuale appare più prometten-te, anche perché è già stata percorsa nel passato, avolte con grande fatica, ma spesso con successo. An-che qui sorge spontaneo un confronto con l’Ue, cheal tema sta dedicando molte energie, tramite l’azio-ne determinata di Claude-France Arnauld, attuale di-rettore dell’Agenzia europea della difesa (Eda), macon risultati concreti ancora tutti da dimostrare, sesi eccettua la costituzione di una flotta da trasportoaereo virtuale, che deve ancora maturare criteri, con-cetti e metodologie di attuazione. Una delle tenden-ze più evidenti è che tutti sono pronti e desiderosi dimettere a disposizione di altri paesi le proprie capa-cità, soprattutto nei settori dell’addestramento e diparte della logistica, che risultino ridondanti rispet-to alle esigenze nazionali, ma nessuno è disposto arinunciare a componenti della propria struttura, perusufruire di quelle che altri possono offrire. La Na-to, invece ha al suo attivo una serie di realizzazioniimportanti, a partire dal sistema di comando e con-trollo della Difesa aerea, già realizzato ai suoi albo-ri e poi, via via, ammodernato ed evoluto, per pro-seguire con la flotta Naew (Nato airborne early war-ning), i noti E3-A, con base a Geilenkirchen, e piùrecentemente il programma Sac (Strategic airliftcommand), con tre velivoli C17, basati a Pàpa, in

I bilanci scendono, a volte drasticamente, oltre il 10 percento in termini monetari,quindi molto di più in terminireali, e nessuno in Europa è ingrado di acquisire e mantenere,se non in forma poco più chesimbolica, tutte le capacitànecessarie a condurre operazionicomplesse, l’unica soluzione è quella di perseguire con convinzione e determinazionel’approccio multinazionale

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Ungheria e infine, dopo una gestazione durata qua-si un ventennio, il programma Ags (Alliance groundsurveillance), che vedrà schierati a Sigonella cinque(almeno questo è il numero al momento pianifica-to) Global Hawk. Sono tutte imprese in cui un nu-mero variabile di paesi membri hanno deciso di uni-re le proprie risorse finanziarie e umane per fare ac-quisire all’Alleanza capacità che altrimenti non sa-rebbero state disponibili, se non per concessione de-gli Usa, che invece ne dispongono nazionalmente.Non si può, tuttavia, non osservare come tutti que-sti programmi siano stati voluti, in primis, dagli Sta-ti Uniti e come tutti, nessuno escluso, abbiano com-portato acquisizioni «off the shelf» di materiale diproduzione americana. In questa categoria si potràfar ricadere lo sviluppo e la messa in opera del si-stema di difesa anti missili balistici, che tanto rilie-vo ha nel dibattito sia all’interno dell’Alleanza (unodei temi principali del vertice di Chicago di mag-gio), sia all’esterno, soprattutto in relazione al dia-logo, faticosissimo, con la Russia. Anche in questo caso, tuttavia, non si vede che co-sa possano mettere sul tavolo delle trattative i paesieuropei, nonostante le ambizioni francesi di far evol-vere verso capacità Abm il sistema Samp-T, e dopoil fallimento dell’unico programma di cooperazio-ne industriale transatlantica (tra Usa, Germania e Ita-lia), il Meads. Anche qui si chiederà agli europei dimettere una parte più o meno cospicua di finanzia-menti, ad esclusivo favore dell’industria della dife-sa Usa. C’è davvero da domandarsi come mai risul-ti impossibile ad un insieme di paesi europei di ela-borare un progetto comune, che risulti tale da col-mare un gap capacitivo riconosciuto come tale dal-l’Alleanza, e di negoziarne con successo l’attuazio-ne con il partner d’Oltreatlantico: evidentemente legelosie nel nostro continente sono tali da non per-mettere il conseguimento della massa critica neces-saria e l’ansia di far combaciare work-share con cost-share ha costretto nel passato e costringe oggi a mec-canismi così complessi da minare alla radice la fat-tibilità di progetti comuni.

Sulla terza linea concettuale, la «definizione dellepriorità negli investimenti» non c’è molto da dire,anche perché da decenni la Nato applica una meto-dologia di verifica periodica, in un quadro coordi-nato, dell’evoluzione degli strumenti militari deipaesi membri. Il problema non sta nella mancanzadi dati o di indicazioni per i vari governi, bensì nel-la consolidata pessima abitudine che alle intenzio-ni coordinate e dichiarate poi non seguono i fatti;ben venga dunque un ulteriore stimolo politicamen-te forte, ma non ci si illuda che questo stimolo siasufficiente a plasmare le politiche di investimento,o qualche volta, soprattutto in questa congiunturaeconomica, di disinvestimento dei singoli paesi.

Che cosa dunque dobbiamo attenderci co-me esiti e sviluppi del vertice di Chicago in temadi «Smart Defence»? Temo non molto: verrannosviluppati un certo numero di progetti da gruppi dilavoro appositamente costituiti, secondo tempisti-che che mal si raccorderanno con reali esigenzeoperative; non appena poi si dovrà passare alla con-creta realizzazione, torneranno a diventare premi-nenti gli interessi industriali di ciascun paese che,a loro volta, stimoleranno tentazioni protezionisti-che mai sopite e che anzi, in tempi di crisi econo-mica e di forti preoccupazioni occupazionali, tro-veranno rinnovato vigore, e non solo da questa par-te dell’Atlantico, ma anche, per non dire soprattut-to, negli Usa, che il protezionismo nel campo del-l’industria della difesa l’hanno sempre dimostratonei fatti, come evidenziato dalle recenti vicende de-gli aerorifornitori e del C27. Con ogni probabilità verranno fatti progressi nelladifesa antimissile, cercando, ove possibile, un’in-tesa con la Federazione russa, e nel settore dell’Istar,con l’Ags, colmando lacune da tempo sentite ed inqualche caso, come nella filiera intelligence per lacampagna libica, ampiamente sperimentate, ma èlegittimo il dubbio che tutto ciò costituisca un mo-do smart di plasmare gli strumenti della difesa, oalmeno un modo più smart che nel passato.

scenari

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Dopo quasi un anno di rivolte popo-lari il presidente Saleh ha lasciato unpotere che deteneva da 33 anni, e ot-tenuta l’immunità si è recato all’este-ro per nuove cure mediche necessa-rie per le conseguenze dell’attentatosubito lo scorso anno. Rientrando nelterritorio yemenita per la cerimoniadi giuramento del nuovo presidente,suo ex vice, Abd Rabbo MansourHadi. Con la caduta dell’unico regi-me repubblicano della penisola ara-bica la “Primavera araba” ha quindiprodotto un nuovo risultato, ma nonimmediatamente positivo per il po-polo che con tanta fatica l’ha deter-minato. Alla luce della incerta situa-zione in cui si trova lo Yemen e del-l’evidente deterioramento della sicu-rezza interna, ben più grave di quel-la di altri Paesi che hanno visto ca-dere i loro uomini forti, numerosi so-no i pericoli che ancora aspettano ilpopolo yemenita, la cui vittoria su Saleh rischia di es-sere solo l’inizio di una lunga battaglia, caratterizza-ta da vecchie e nuove sfide e divisioni interne, e dauna continuità con il vecchio regime che è ancora dif-ficile da inquadrare. Risulta pertanto necessario ap-profondire le problematiche di un Paese spesso al cen-tro dell’attenzione dell’opinione pubblica occidenta-le più per il ruolo che ha assunto negli ultimi anni Al

Qaeda nella Penisola Arabica cheper i problemi interni di una crisiprofonda e complessa, nella qualee dalla quale il jihadismo si alimen-ta. Ancorché lo Yemen sia uno deipaesi più poveri e con il più bassotasso di alfabetizzazione dell’interaarea mediorientale, sul piano del ri-spetto dei diritti umani la situazio-ne non era tuttavia almeno sulla car-ta così negativa come si potrebbeimmaginare, anche se poi la realiz-zazione sul piano pratico si rivela-va difficile e la dialettica politica èsempre risultata distorta dalla pre-senza di un solo partito di riferimen-to, fondato e diretto dal presidenteAli Abdallah Saleh, fronteggiato peranni da un movimento di opposizio-ne venato da divisioni interne e conpoca penetrazione presso una socie-tà che a causa della struttura tribalenutre un profondo disinteresse per

il governo centrale. Anche per tali ragioni Saleh, “Pa-dre della Patria” in quanto vero autore della riunifica-zione del Paese e “uomo forte” che unisce al potereistituzionale quello carismatico tipico dei leader ara-bi, è stato per decenni in grado di controllare una re-altà complessa senza che sino allo scorso anno la suaautorità legale venisse in realtà mai messa veramentein discussione, ancorché alcune significative lacera-

ScenariPENISOLA ARABICA

AUTUNNO YEMENITADI LAURA QUADARELLA

Il nuovo Yemen rimane un paese spaccato tra norde sud, tra comunità sunnitae sciita, tra filo-governativie separatisti, tra interessi

sauditi e consorterie iraniane, con Al Qaeda

e i suoi progetti jihadisti a condire una situazione

sempre sul filo della disgregazione istituzionale.

Un paese chiave per la Penisola arabica,

la sicurezza delle sue acquee il “gioco” nucleare

di Teheran

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zioni si siano con il tempo formate soprattutto con laprogressiva accentuazione delle proteste delle popo-lazioni del sud, emarginate dalla gestione del poteresin dall’unificazione del 1990. Due le problematicheche con gli anni si sono aggiunte a questo già semprepiù instabile quadro: i crescenti contrasti con i movi-menti estremisti islamici, sunniti salafiti al sud e scii-ti zaiditi al nord, ed il peso sempre più determinanteanche sul piano territoriale del terrorismo alqaedista.Numerose sono le sfide che dovrà affrontare l’ex nu-mero due yemenita, che da novembre ha guidato ungoverno di unità nazionale con un’autorevolezza chegli derivava unicamente dall’accordo messo a puntodai Paesi del Consiglio di Cooperazione del Golfo magrazie alla legittimazione del voto popolare di finefebbraio potrà ora finalmente provare ad elaborare neisuoi due anni di mandato una serie di modifiche co-stituzionali che agevolino la transizione democratica.Alla luce dello stretto legame che in Yemen si creacon i suoi leader va solo brevemente rilevato che Sa-leh, appartenente a un ramo cadetto delle potente con-federazione degli Hashid di rito sciita zaidita, è un uo-mo di umili origini e scarsa istruzione, che passerà al-la storia come un presidente corrotto e che ha dato or-dine di reprimere nel sangue le proteste popolari, maha avuto il merito di tenere insieme un paese pieno didivisioni, cercando tra l’altro di secolarizzarlo il piùpossibile e lottando contro ogni forma di estremismoreligioso. Hadi, che nei mesi in cui Saleh è stato inArabia Saudita per curarsi dopo le gravissime feriteriportate nell’attacco di giugno al Palazzo presiden-ziale ha saputo conquistare anche parte dell’opposi-zione, è invece un militare di carriera, originario delsud, che pur avendo seguito la sua formazione mili-tare nel Regno Unito ed avendo dopo l’indipendenzadagli inglesi scalato le gerarchie militari nell’esercitodell’allora stato marxista della Repubblica democra-tica dello Yemen, si unì allo Yemen del Nord fin dal-la fuga nel 1986 dell’allora presidente Mohammed.Iniziò poi la rapidissima ascesa che a dispetto dellesue origini lo portò in pochi anni, proprio durante laguerra scoppiata dopo il tentativo di secessione del

sud, a ricoprire prima la carica di ministro della Dife-sa e poi quella di vicepresidente, mantenuta per qua-si venti anni. È dunque nelle mani di un uomo per mol-ti aspetti profondamente diverso dall’ex presidenteche sarà affidato il complicato futuro del Paese, an-corché sia innegabile che non rappresenti un momen-to di effettiva rottura con il passato e che ha vinto ele-zioni presidenziali in cui era l’unico candidato. Percomprendere cosa ne sarà di un paese che i romanichiamavano Arabia Felix e sta invece vivendo un pe-riodo di sempre più profonda insicurezza interna, nu-merose sono le domande da porsi, ad iniziare col chie-dersi se veramente sia stata la «Primavera araba» a farcadere Saleh o le «spinte esterne», piuttosto che l’avan-zata alqaedista o i combattimenti con i sunniti salafi-ti e gli sciiti zaiditi.

Ruolo sicuramente determinante lo hannosvolto le dimostrazioni popolari, ma i violenti scon-tri scoppiati a Sana’a non sono giustificabili con unsemplicistico discorso legato alla ventata di democra-zia che partita il mese precedente in Tunisia ha spaz-zato molti dei regimi del Nord Africa ed ancora oggisoffia più o meno violenta in quasi tutto il cosiddettoGrande Medioriente interessando, seppur con tonominore, anche monarchie secolari. Non possiamo in-fatti dimenticare che per varie ragioni ampie zone diterritorio yemenita sfuggono da tempo al controllodel governo centrale. Da non sottovalutare è anche ilpeso di giochi di forza ben più grandi dello Yemen,giochi di cui forse il paese è stato vittima, con pres-sioni provenienti dall’esterno e legate sia alla impor-tantissima posizione strategica in cui si trova che al-l’attuale contesto internazionale. Geograficamente loYemen trovandosi tra Mar Rosso e Golfo di Aden go-de di un’invidiabile posizione strategica che gli con-sente di controllare lo stretto che li divide, Bab al-Mandab, ed è quindi al centro delle rotte del petrolio,ma anche una potenziale «base» per qualsiasi suppor-to militare contro la pirateria o il terrorismo o uno de-gli stati che si affacciano nel Golfo Persico o fannoparte del Corno d’Africa, possibile strategico punto

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di rifornimento e di partenza per forze aeree o nava-li in un momento in cui la tensione nell’intera areanon fa che aumentare. Tornando alle ragioni dell’in-stabilità interna, si devono tener presente la rigidastruttura tribale, che per anni Saleh ha saputo sfrutta-re al meglio, e le rivalità tra i vari clan. Da sempre letribù hanno costituito l’unità sociale primaria presen-te nel territorio yemenita, che nel corso del secoloscorso si è svincolato dalle dominazioni straniere at-traverso prima la formazione di due stati e poi la lo-ro fusione in una unica entità statale, entità che anco-ra oggi per molti è però solo sinonimo di potere cen-trale, laddove quello periferico continua ad essere am-ministrato dai capi tribù. Per una popolazione in cuiè ancora assente il concetto di popolo yemenita nelsuo insieme, sono infatti i capi tribù i veri uomini darispettare, quelli cui è demandata la gestione del po-tere, che avviene in modo semplice, ma strutturato,poiché le tribù sono organizzate in governatorati equesti a loro volta in confederazioni. Tra le fonti diguadagno utilizzate negli ultimi decenni dalle tribùnel loro singolare rapporto con il governo di Sana’avi è quella del rapimento degli stranieri: si tratta di ra-pimenti a fine di lucro, in cui gli ostaggi vengono uti-lizzati come merce di scambio per ottenere denaro oinfrastrutture dal governo centrale.È in questo complesso quadro sociale che si sono in-serite le proteste popolari, iniziate in contemporaneacon quelle degli altri paesi del Nord Africa e Medio-riente e motivate da crescente disoccupazione, pro-fonda crisi economica e diffusa corruzione. A diffe-renza di quanto avvenuto altrove, in Yemen si è peròben presto assistito, per la sua struttura sociale, alladefezione di vari esponenti di governo e dei verticidelle forze armate, che hanno lasciato i loro incarichie sostenuto le rivolte in accordo alle linee delle tribùdi appartenenza. I manifestanti chiesero a Saleh le sueimmediate dimissioni, ricevendo per tutta risposta unno secco per alcuni mesi e dopo, in seguito alla me-diazione dei paesi del Consiglio di cooperazione delGolfo, un numero interminabile di annunciati passag-gi di potere fino alla firma il 23 novembre dell’accor-

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do per il trasferimento dei poteri al suo vice in cam-bio dell’immunità per sé e per la sua famiglia. L’ac-cordo, firmato da Saleh a nome del suo partito e dairappresentanti della coalizione dei maggiori partiti diopposizione, prevedeva un immediato passaggio prov-visorio dei poteri in favore del vicepresidente, l’ap-provazione di una legge sull’immunità di Saleh e del-la sua famiglia, e l’organizzazione di elezioni presi-denziali a suffragio universale da tenersi entro 90 gior-ni e per le quali tutte le parti firmatarie si impegnava-no ad appoggiare il vicepresidente Hadi.L’elezione presidenziale del “meridionale” Hadi po-trebbe in parte placare l’anelito separatista, anche sequesti non è mai stato particolarmente vicino alla cau-sa degli indipendentisti e va tenuto presente che la di-visione tra nord e sud del paese ha soprattutto originireligiose laddove il nord è a stragrande maggioranzasciita ed il sud sunnita. Gli sciiti sono quasi tutti del-la scuola zaidita, presente di fatto oggi solo nello Ye-men, mentre i sunniti, tranne una piccola minoranzainfluenzata dalla rigorosa scuola giuridica hanbalitadella vicina Arabia Saudita, seguono tradizionalmen-te la scuola salafita, spesso classificata tra quelle incui più facilmente si accende la scintilla dell’estremi-smo islamico. Nello specifico, nel nord si trovano dasecoli gli zaiditi, che su un piano teologico differisco-no da tutti gli altri sciiti nell’identificazione del quin-to Imam, Zaid, e perché non hanno un clero profes-

sionale e sono quindi per alcuni aspetti vicini ai sun-niti. Se per il resto sul piano giurisprudenziale non pre-sentano particolari differenze e potrebbero esser defi-niti moderati, ben diversa è la situazione sul piano po-litico, tanto che spesso vengono inclusi tra i musul-mani estremisti: lo zaidismo non esigendo l’apparte-nenza alla discendenza del Profeta, teorizza che chiun-que possa guidare legittimamente l’Ummah, la comu-nità islamica, ma prescrive il potere sia esercitato dachi sappia guidare i musulmani contro gli usurpatorie gli oppressori, dando così chiara coloritura militan-te al movimento.

Pur rappresentando il 40 per cento dellapopolazione, nello Yemen gli zaiditi hanno occupatole posizioni di potere ininterrottamente dall’epoca ot-tomana sino ai giorni nostri: caduto l’Impero Ottoma-no nel 1918 nacque lo Yemen del Nord, caratterizza-to dalla forte legittimazione religiosa della casa re-gnante, ovviamente zaidita; seppur con notevoli dif-ferenze, il legame zaidismo-potere rimase anche do-po, non va infatti dimenticato come zaiditi fossero imilitari che hanno rovesciato la monarchia nel 1962e zaidita sia lo stesso Saleh e quasi l’intero entoura-ge che lo ha affiancato per decenni. Con il golpe lecose però cambiarono rispetto all’epoca precedentepoiché da bravi nasseriani i militari al potere promos-sero una cauta secolarizzazione delle strutture yeme-nite. Lo stesso Saleh è stato spesso definito uno zai-dita nazionalista ed ecumenico e ha per questo dovu-to fronteggiare l’opposizione del movimento armatodegli Houthi, nato nel 2004 sotto la guida dell’imamal-Houthi nella città di Saada, che si trova in una del-le aree meno sviluppate dal Paese. I ribelli accusanoil presidente di aver distrutto l’identità zaidita dei tem-pi della monarchia, mentre Saleh li ha da parte suasempre accusati di voler restaurare lo stato confessio-nale, l’imamato caduto nel 1962. Tra i ribelli Houthie le forze governative è rapidamente iniziato un veroe proprio conflitto, che è continuato anche dopo la fir-ma di una tregua nel febbraio 2010 e vede forze ribel-li e forze governative scambiarsi l’accusa di essere ri-

Nello Yemen, al già sempre piùinstabile quadro, con gli anni si sono aggiunti dei problemichiave: i crescenti contrasti con i movimenti estremisti islamici,sunniti, salafiti al sud e sciiti zaiditi al nord, ed il peso semprepiù determinante anche sul piano territoriale del terrorismo al-qaedista

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spettivamente sostenute da Iran e Arabia Saudita, efare quindi interessi di altri paesi al posto di quelli na-zionali, pensando al proprio tornaconto piuttosto chealle necessità del popolo. Al sud la maggioranza del-la popolazione è invece di credo sunnita e segue lascuola salafita. Nel caso dei salafiti yemeniti vari so-no i fattori che si sommano tra loro e spingono a lot-tare contro il governo i seguaci di una scuola già diper sé spesso vicina all’estremismo. Se l’aspetto teo-retico più importante del salafismo, il ritorno alle ori-gini, all’islam puro dei «pii antenati» (salaf al-sali-hin), lo fece nascere nel XIX secolo all’insegna di va-lori profondamente religiosi e per alcuni aspetti mo-derni, come noto la ricerca ossessiva dell’ortodossialo ha spinto fin dall’inizio del secolo scorso a promuo-vere un militante impegno moralistico contro males-seri sociali e vizi importati dall’Occidente. Dall’im-pegno per la promozione di una profonda opera diriavvicinamento all’osservanza delle pratiche cano-niche dell’islam all’estremismo islamico il passo fubreve: fu così che la scuola salafita divenne la culladel fondamentalismo islamico.Alle caratteristiche del salafismo militante si somma-no nello Yemen le inevitabili tensioni generate dal fat-to che la maggioranza sunnita è guidata dalla mino-ranza sciita, che da sempre impone il suo stile di vitasociale e vita religiosa. A ciò si aggiungono anche lespinte secessionistiche provenienti dalla diversità so-cio-culturale tra le tribù del nord e del sud ed i nostal-gici marxisti che vorrebbero tornare al regime delloYemen del Sud. In questa complessa situazione nelsud dello Yemen si è formato sin dagli anni Novantaun vero e proprio movimento secessionista, chiama-to al-Hirak, che ha fatto spesso ricorso all’insurrezio-ne armata ed è contestato da altri movimenti che chie-dono una meno drastica riforma dello stato in sensofederalista. Al-Hirak imputa alle autorità centrali digoverno il fatto che il paese sia da sempre nelle ma-ni dei rappresentanti del Nord, che hanno relegato ilSud quasi a colonia sebbene proprio dal sud vengal’80 per cento del greggio estratto nel Paese. Va sot-tolineato come malgrado la forte opposizione nord-

sud abbia condotto in passato anche a scontri armatitra le diverse fazioni dei due fronti opposti, nel corsodel 2011 ci sia stata una sorta di alleanza contro le for-ze governative, ma caduto Saleh lo scontro sembre-rebbe essersi riaperto. Quanto al ruolo che negli annista assumendo Al Qaeda nella Penisola Arabica nelquadro del jihadismo globale, la sua importanza al-l’interno delle strutture di Al Qaeda, e le conseguen-ze che le sue conquiste territoriali avranno per lo Ye-men e per l’alqaedismo in genere è necessario fare unbreve approfondimento. Al Qaeda è oggi un fenome-no a cerchi concentrici, in cui il nucleo centrale, co-siddetto Al Qaeda Core (AQ), continua ad essere l’or-ganizzazione con sede tra Afghanistan e Pakistan, con-trollata dopo la morte di Bin Laden da al Zawahiri.Accanto a questo nucleo si trova l’anello dei gruppiterroristi che potremmo definire affiliati, che sono sta-ti ufficialmente riconosciuti dai leader di Al QaedaCore e seppur con adattamenti dovuti al contesto re-gionale in cui operano dovrebbero condividerne to-talmente ideologia e sistemi operativi. Mentre è defi-nibile come esterno un terzo livello, composto da grup-pi islamici minori che pur sempre con l’obiettivo del-la jihad operano autonomamente.

Fatta questa doveroso premessa, è indubbioche Al Qaeda in the Arabian Peninsula (Aqap) sia og-gi una delle più importanti organizzazioni affiliate,tanto da poter mirare dopo la morte di Bin Laden al-la guida stessa di Aq e da provocare probabilmentespaccature interne ai suoi vertici e forse alla stessa or-ganizzazione centrale. In Aqap si sono infatti man ma-no distinte due ali con differenti strategie: una parteha concentrando le sue forze per una sorta di conqui-sta di sempre più ampi territori nello Yemen, ove ilvacillante potere di Saleh ha costretto il ridispiega-mento della maggioranza delle truppe a Sana’a perreprimere le rivolte popolari non riuscendo più, so-prattutto nel sud del Paese, a controllare l’avanzatadei miliziani qaedisti; un’altra parte ha invece abbrac-ciato la strategia antioccidentale di uno dei suoi prin-cipali leader, l’imam al Awlaki, strategia che si è ca-

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ratterizzata per una spiccata propensione verso l’oc-cidente tanto per la ricerca di nuovi terroristi da reclu-tare e addestrare direttamente in internet, quanto perla realizzazione di attentati con attacchi condotti a ter-mine da c.d. homegrown terrorist.Ancorché sia in ragione del successo e delle potenzia-lità di questa nuova strategia che Aqap è da molti con-siderata la maggiore tra le organizzazioni affiliate adAq, o almeno quella con più visibilità in Occidente,potrebbero esser state proprio le lotte interne ad Aqape le mire di al Awlaki sul controllo di Aq dopo l’ucci-sione di Bin Laden ad aver favorito la sua individua-zione e la sua successiva eliminazione a fine settem-bre durante un attacco condotto da droni statunitensi:si può infatti supporre sia stato proprio l’atteggiamen-to verso Aq ad indebolire quella rete di protezione cheallentando le sue maglie ha reso vulnerabili in Yemengli spostamenti di alcuni suoi leader.Morto al Awlaki e con Al Qaeda guidata da al Zawa-hiri, la situazione è mutata radicalmente. Il dottore egi-ziano con il volto segnato sulla fronte dal callo dellapreghiera è un leader interessato più alla Jihad versoil nemico vicino che verso quello lontano, più ai pae-si arabi che all’Occidente, salvo quando questo inter-ferisce con il «mondo musulmano», un leader che pro-babilmente proverà a colpire l’Occidente più nei suoiinteressi all’estero che a casa sua: quanto di più di-

stante possa esistere dal dinamismo con cui al Awla-ki aveva utilizzato il mondo della rete direttamente ininglese per reclutare ed addestrare i cosiddetti home-grown terrorist. Conseguenza è stata nello Yemen lavittoria dell’ala di Aqap impegnata alla conquista ter-ritoriale del paese, che ha determinato una costanteavanzata dei miliziani alqaedisti e li potrebbe portarea governare per la prima volta un territorio. In Afgha-nistan furono infatti i talebani a salire al potere al te-mine degli scontri tra i vari gruppi di mujaheddin se-guiti alla caduta del regime filo-sovietico della Re-pubblica Democratica dell’Afghanistan, fornendo so-stegno e ospitalità alla rete terroristica di bin Laden,che aveva collaborato attivamente nella lotta control’Alleanza del Nord di Massoud, ma non affidandolealcun ruolo nella gestione del potere.Ben diversa sarebbe ora la situazione che potrebbeprospettarsi, con gli alqaedisti che potrebbero assu-mere direttamente il controllo di un territorio e, anchese non pochi sono i dubbi circa la loro capacità di am-ministrare il potere, inquieta vederli conquistare ungran numero di città ed issare il loro vessillo mentre icittadini non possono far altro che scappare. Le popo-lazioni delle città conquistate sono costrette a fuggireperché prive della protezione dell’esercito, che secon-do il governo è stato concentrato a Sana’a per salva-guardare il paese, ma per l’opposizione sarebbe statovolutamente spostato per “punire” le popolazioni lo-cali ostili al governo centrale e poter invocare il so-stegno dell’Occidente contro il nemico comune.

Secondo le stime delle Nazioni Unite a causa del-l’avanzata territoriale dei miliziani alqaedisti almeno150mila persone hanno lasciato le loro case e vivonoammassate in tende, edifici pubblici o altri ricoveri difortuna, divenendo rifugiati nel loro stesso territorio,ove a causa della rigida struttura tribale sono conside-rate alla stregua di profughi stranieri dagli abitanti deivillaggi presso cui si rifugiano. Che sia per questo enor-me numero di rifugiati che provoca, per gli scontri ar-mati che porta inevitabilmente con sé, per le razzie dicui i miliziani si rendono autori, o per la legge corani-

Il paese è oggi governato da Abd Rabbo Mansour Hadi,che era il vice di Abdallah Saleh.Con la caduta dell’unico regimerepubblicano della penisola arabica la “Primavera araba”ha quindi prodotto un nuovorisultato, ma non immediatamente positivo per il popolo che con tanta fatica l’ha determinato

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ca che vorrebbero imporre, sta di fatto che Al Qaedanon gode del sostegno popolare. A Radah, città conben sessantamila abitanti che si trova ad appena 150chilometri dalla capitale Sana’a e secondo parte del-l’opposizione sarebbe stata lasciata volutamente nonprotetta dalle forze governative pochi giorni dopoun’imponente manifestazione contro Saleh, l’occupa-zione dagli alqaedisti è iniziata a metà gennaio, mal’ostilità della popolazione li ha ad esempio costrettialla ritirata nel giro di poco più di due settimane.

La conquista di Radah si inserisce tuttavia nel-la possente avanzata degli alqaedisti, che hanno tral’altro conquistato anche la città di Zinjibar, capoluo-go della provincia di Abyan, e quasi tutti i centri mi-nori della zona. Quanto ai rapporti con alcuni capi tri-bù che sembrerebbero favorire l’avanzata degli uo-mini di Aqap, si ritiene che la maggior parte dei capitribù abbia semplicemente scelto di evitare la via del-lo scontro frontale per salvaguardare il più possibilel’incolumità dei propri cittadini. Purtroppo l’insedia-mento del nuovo presidente ha visto un ulteriore acu-tizzarsi dello scontro, con sempre più frequenti attac-chi degli alqaedisti contro le forze regolari, attacchiche al di là delle pesanti perdite di vite umane porta-no in sé anche un importantissimo messaggio simbo-lico volto a screditare sempre più le capacità del go-verno centrale. Pur apprezzando i progressi della tran-sizione politica del paese, le Nazioni Unite hanno piùvolte espresso profonda preoccupazione per il dete-rioramento della sicurezza interna e la presenza sem-pre più importante di Al Qaeda, fattori che determi-nano il conseguente sempre più elevato numero di ri-fugiati. Accanto a questi aspetti umanitari che potrem-mo definire interni, vi è poi il timore che un possibi-le flusso di rifugiati attraversi presto i confini, timoreprofondamente sentito in tutti gli stati del Golfo an-che perché si deve tener presente che i rifugiati chepotrebbero riversarsi nei paesi confinanti non sonosolo quelli yemeniti, ma anche parte degli oltre 200mi-la rifugiati somali presenti da anni nel paese.Se un po’ in tutta la regione si teme inoltre che l’in-

stabilità dello Yemen si estenda ad altre aree, i due sta-ti confinanti, Arabia Saudita ed Oman, temono diret-tamente per la sicurezza del loro stesso territorio. Inparticolare, la destabilizzazione della situazione ye-menita è assolutamente inaccettabile per la dinastiasaudita, che per anni ha condiviso con il governo diSana’a sia la lotta ai ribelli Houthi che quella al net-work alqaedista e che senza una costituzione né alcu-na forma di legittimazione democratica tiene insiemeun territorio molto vasto, al cui interno come in Ye-men l’unità sociale di base è costituita dalle tribù, ap-plicando la sharia secondo la rigida interpretazionewahabita ed una ancor più rigida tradizionale struttu-ra sociale che nega ad esempio alle donne anche di-ritti elementari. Allargando l’angolo di visione al difuori degli interessi dei paesi della regione rileva so-prattutto la posizione degli Stati Uniti, il più stretto al-leato occidentale dello Yemen sia per la stabilità in-terna del paese che nella lotta al terrorismo islamico.Con il peggioramento della situazione yemenita il so-stegno americano è diventato sempre più importanteanche per la preoccupazione che aree strategiche co-me il porto di Aden e lo Stretto di Bab al-Mandab ca-dano nella mani di Al Qaeda o dell’Iran: quest’ulti-mo potrebbe riuscire a sfruttare al meglio un eventua-le sgretolamento dello stato yemenita accompagnatodall’affermazione al potere dei ribelli Houthi, mentreAqap continuando con le sue conquiste territoriali nelsud del paese potrebbe, in collaborazione con Al-Sha-baab, far raggiungere ad Al Qaeda il totale controllodello Stretto. Va infine considerato che ai decennaliproblemi legati alle tensioni tra stati arabi, ma soprat-tutto alle tensioni arabo-israeliane e arabo-occidenta-li, alla lotta al terrorismo e, più recentemente, alla pi-rateria internazionale e più in generale alla sicurezzadella navigazione, si sono aggiunti i problemi legatialla minaccia nucleare iraniana ed è indubbio che loYemen potrebbe giocare un ruolo determinante sia perla posizione strategica di cui gode sia per il fatto cheesso stesso rispecchia al suo interno quella spaccatu-ra tra sunniti e sciiti che sta divenendo sempre più pro-fonda nel mondo arabo.

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Èormai più di un anno che la Re-pubblica Islamica vive una no-tevole spaccatura al suo vertice

tra il fronte ultraconservatore, sosteni-tore della Guida Suprema l’ayatollahAli Khamenei, e il fronte pragmatico-nazionalista vicino al presidente Mah-moud Ahmadinejad, il quale, a partiredal 2010, si è gradualmente allontana-to dalle posizioni ideologiche del clerosciita, dando vita ad un nuovo blocco dipotere a stampo nazionalista e criticonei confronti di alcuni principi cardinedella Repubblica Islamica stessa. La me-tamorfosi di Ahmadinejad infatti si è ri-velata come una sorpresa sia per gli ana-listi sia per gli attori politici protagoni-sti in Iran. La stessa Guida Suprema hadovuto prendere delle contromisure alfine di fermare l’ascesa al potere del pre-sidente, dando vita così ad uno scontroistituzionale in Iran, presente fino a igiorni nostri. Il presidente infatti ha sfidato, per la pri-ma volta nella storia della Repubblica Islamica, laGuida Spirituale del paese. Si citano ora alcune dellemosse eclatanti del presidente contro l’ayatollah Kha-menei e le rispettive contromosse della Guida.Il braccio destro, nonché consuocero del presidente,Esfandiar Rahim Mashai (figura chiave del fronte ah-madinejadiano), il quale attualmente è il capo d’uffi-cio della presidenza della Repubblica Islamica, ormai

da alcuni anni ha dato vita ad unapolitica filo-nazionalista, sfidandopalesemente il potere religioso diKhamenei. Ad esempio riuscì ad av-viare, durante il primo governo Ah-madinejad (2005-2009), uno stori-co negoziato con i dirigenti del Bri-tish Museum, concordando il presti-to del «Cilindro dei Diritti Umani»di Ciro il grande, uno dei principalireperti archeologici simbolo dell’an-tica Persia e simbolo del patriotti-smo persiano ovvero dell’iranismo.Infatti, lo scorso anno, il cilindro diCiro è stato prestato all’Iran ed espo-sto al pubblico nel Museo Naziona-le di Teheran. Durante la cerimoniadi ricevimento del cilindro, sia Ah-madinejad sia Mashai, hanno resoomaggio al fondatore dell’Imperopersiano, definendolo come «un ve-ro profeta». Considerata la dichiara-

ta ostilità del khomeinismo e del khameneismo neiconfronti dell’identità persiana dell’Iran, tale gestosignificava una sfida aperta lanciata dal fronte delpresidente Ahmadinejad alla vecchia classe politicaclericale sciita. Mashai, il quale ricopre anche la ca-rica di responsabile degli iraniani residenti all’este-ro, lo scorso anno ha poi invitato un centinaio di rap-presentanti della diaspora iraniana all’estero a Tehe-ran, al fine di rinforzare il legame tra gli iraniani re-

ScenariIRAN

LOTTE DI POTERE ALL’OMBRA DEI MULLAHDI PEJMAN ABDOLMOHAMMADI

Ecco la mappa delloscontro di potere

tra presidenza dellaRepubblica islamicae Guida suprema.Un conflitto che

dal 2010 continuasenza esclusione

di colpi e che vedeora in vantaggio

Alì Khamenei su cui sembra aver

puntato anchel’Occidente,

dimenticando i propri interessi

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sidenti all’estero con la propria madrepatria. Duran-te la cerimonia, Mashai ha baciato la bandiera ira-niana e ha detto: «bisogna studiare il maktabe irani(la scuola di pensiero iranica) piuttosto che il mak-tabe eslami (la suola di pensiero islamico)». Tale di-chiarazione ha suscitato nuovamente le dure criti-che del clero conservatore, fino al punto che il pre-sidente Ahmadinejad ha dovuto intervenire a dife-sa del proprio consuocero, definendo la dichiarazio-ne di Mashai «sobria e non anti-islamica». Il licenziamento del ministro degli Esteri, Manu-cehr Mottaki, avvenuto nel dicembre 2010 su or-dine del presidente iraniano, non fece altro che con-fermare l’approfondirsi della spaccatura tra il pre-sidente e la Guida Suprema, a cui tradizionalmen-te appartiene la nomina, seppure indiretta, del mi-nistro degli Esteri iraniano. Il presidente Ahmadi-nejad infatti, pochi mesi prima, aveva nominatoquattro persone di fiducia come «rappresentantispeciali» per la politica estera, tentando di dimi-nuire così il peso del ministero degli Esteri di Mot-taki, tradizionalmente più vicino alla Guida Supre-ma, l’ayatollah Ali Khamenei, che alla presidenzadella repubblica. Ahmadinejad infatti ha cercato didare vita, nell’ultimo anno, ad un sistema diploma-tico parallelo in grado di renderlo più forte e auto-nomo nella gestione della politica estera del pae-se. Nell’ aprile del 2011 il presidente ha tentato dilicenziare il ministro dell’intelligence l’hojjatole-salm Heidar Moslehi, uomo vicino a Khamenei,rendendo di fatto pubblica la spaccatura interna alvertice della Repubblica Islamica. Il tentativo di li-cenziare Moslehi incontrò infatti la dura resisten-za dell’ayatollah Khamenei, il quale ha bloccatol’ordine di licenziamento in un comunicato uffi-ciale riconfermando la sua fiducia al ministro del-l’Intelligence e di fatto sconfessando Ahmadine-jad. Il presidente, in segno di protesta nei confron-ti dell’ingerenza di Khamenei, non si presentò perben due settimane al consiglio dei ministri, susci-tando quasi una crisi istituzionale. Nel marzo 2012il presidente Ahmadinejad ha dato vita ad un nuo-

vo ente governativo denominato il Consiglio di sor-veglianza sulla Costituzione. Questo ente, costitui-to da 11 membri vicini al gruppo presidenziale, hail compito di sorvegliare tutti gli organi statali af-finché non violino la Costituzione iraniana. Inol-tre, il Consiglio deve riferire i propri rapporti di-rettamente alla figura del presidente che lo coordi-na personalmente. Ahmadinejad ha già firmato lenomine degli 11 membri, tutti vicini al suo grup-po politico. Le funzioni di questo nuovo ente sonosimili a quello del Consiglio dei Guardiani che in-fatti ha già espresso il proprio parere negativo sul-l’istituzione di questo nuovo organo governativo,definendolo «anti-costituzionale». La creazione delConsiglio di sorveglianza sulla Costituzione, vici-no al presidente, in contrapposizione al Consigliodei Guardiani, sostenitore invece della Guida Su-prema, rientra sempre nel quadro dello scontro in-terno al vertice iraniano.

Le contromisure di KhameneiLa proposta di impeachment contro Ahmadinejad. InParlamento: un gruppo di deputati filo-conservatori,vicini a Khamenei, ha presentato, pochi mesi fa, unaproposta di impeachment contro Ahmadinejad, rite-nendo che il presidente non abbia adempito, in mo-do soddisfacente, alle proprie funzioni istituzionali,trascurando il piano nazionale per lo sviluppo econo-mico del paese e accentrando, in modo smisurato, ilpotere politico sulla sua persona. La richiesta di im-peachment, al momento ferma in Parlamento, fungeda elemento di pressione e di ricatto da parte dellostesso parlamento sulla presidenza Ahmadinejad. Vasottolineato che al momento la maggioranza parla-mentare è sostenitrice della linea di Khamenei.Proposta di abolizione della presidenza: la GuidaSuprema, alcuni mesi fa, in un discorso politica-mente rilevante, ha avanzato l’ipotesi di una revi-sione costituzionale finalizzata all’eliminazione del-la carica di presidente della repubblica, sostituen-dola con la carica del primo ministro. Tale afferma-zione è stata interpretata, da diversi esperti, come

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un chiaro affronto da parte della Guida nei confron-ti del presidente. L’interrogazione del presidente: letensioni tra il Parlamento e il governo continuanoad aumentare. L’attuale maggioranza parlamenta-re, in quanto filo-conservatrice e vicina alla GuidaSuprema, è diventata, ormai da oltre un anno, mol-to critica nei confronti dell’esecutivo del presiden-te Ahmadinejad che è stato convocato, alcune set-timane fa dal Majles iraniano per rispondere ad unalunga interrogazione parlamentare. Nell’ultimo an-no la maggioranza parlamentare ha minacciato, di-verse volte, di ricorrere all’impeachment del presi-

dente stesso o di alcuni suoi ministri chiave comequelli dell’Economia e del Lavoro. Oltre a questi episodi significativi, avvenuti, dal2010, tra i due fronti antagonisti, lo scontro è pas-sato anche al piano mediatico. Il fronte Khamenei-sta, avvalendosi della magistratura come propriostrumento politico, ha oscurato una decina di sitid’informazione vicini al presidente quali Hafte Sobh,Tamashanews e Yekshanbe e Kianpress. Inoltre ildirettore generale dell’agenzia di stampa governa-tiva Irna, Ali Akbar Javanfekr, uomo vicino al pre-sidente, è stato condannato dal tribunale della Ri-voluzione di Teheran a sei mesi di reclusione, su-scitando l’ira di Ahmadinejad. Javanfekr è stato ri-

conosciuto colpevole di aver fatto propaganda con-tro la repubblica islamica. A tal proposito, la poli-zia giudiziaria vicina a Khamenei, alcuni mesi fa hafatto irruzione nella sede centrale del giornale di Ja-vanfekr, arrestando circa 19 giornalisti e ammanet-tando lo stesso direttore. In quell’occasione, Ah-madienjad è dovuto interventire in prima personaper far liberare il direttore e i giornalisti stessi. Sinota dunque che lo scontro al vertice iraniano è ve-ramente serio e molto profondo e rischia di segna-re il futuro della stessa Repubblica Islamica. Infat-ti l’esito delle ultime elezioni parlamentari di mar-zo si rivela fondamentale per comprendere qualidelle due fazioni detiene al momento più potere. Leproiezioni dei risultati delle elezioni, ancora in cor-so, danno per favorito lo schieramento di Khame-nei. Tale vittoria fortificherebbe ulteriormente laGuida Suprema, mettendo in difficoltà il presiden-te nell’ultimo anno di governo. Nel giugno 2013 in-fatti il suo mandato finisce e, secondo l’attuale co-stituzione iraniana che limita a due volte l’incaricopresidenziale in capo alla stessa persona, non potràpiù ricandidarsi. A questo punto il fronte ahmadien-jadiano avrebbe almeno tre possibili scenari da af-frontare. Il fronte Khameneista, come peraltro è giàriuscito a fare contro gli ex presidenti Ali Akbar Ha-shemi Rafsanjani e Seyyed Mohammad Khatami,riesce a scalzare una volta per tutte il gruppo presi-denziale. Il fronte presidenziale non si ferma e ten-ta di recuperare la sconfitta elettorale, puntando ariguadagnare consensi e alleati, sia sul piano eco-nomico-finanziario sia su quello politico-sociale,per poter presentare un suo candidato forte alle pros-sime elezioni presidenziali e mantenere la propriainfluenza nell’esecutivo. Personalità quali Esfan-diar Rahim Mashai, Hassan Mousavi e Hamid Ba-qai potrebbero essere i candidati del presidenteuscente nel 2013, sempre che la Guida suprema nelfrattempo non modifichi la Costituzione.È possibile però contemplare uno scenario più ra-dicale. Ahmadinejad, consapevole del fatto che lasua posizione è seriamente minacciata dai khame-

Il braccio destro e consuocerodel presidente, Esfandiar RahimMashai, è una figura chiave del fronte ahmadinejadiano.E attualmente è il capo ufficiodella presidenza dellaRepubblica Islamica, e ormai da alcuni anni ha dato vita ad una politica filo-nazionalista,sfidando palesemente il poterereligioso di Khamenei

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scenari

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neisti e disarmato sotto il profilo istituzionale dal-la sconfitta elettorale e dalla conseguente posizio-ne minoritaria in Parlamento, potrebbe tentare unvero e proprio colpo di stato. Questa ipotesi, chepotrebbe sembrare quasi surreale, secondo gli stu-di e le analisi di questi anni non è invece da esclu-dere. Tuttavia pare evidente che, salvo situazionistraordinarie, il fronte khameneista al momentosembra riuscire ad esercitare il proprio potere suuna buona parte dell’ormai frammentata Repubbli-ca Islamica. Questo fatto ha portato anche le forzeoccidentali a puntare, nel quadro dei colloqui, incorso, sul nucleare iraniano e sulla crisi siriana, suikhameneisti al fine di raggiungere un compromes-so con l’Iran. Così pare che i vertici diplomatici de-gli Stati Uniti e della Gran Bretagna non vedanoancora utile aprire un canale, magari sotterraneo, direlazioni con il gruppo presidenziale, prediligendoun rapporto con gli uomini vicini alla Guida. Que-sto fatto si è ulteriormente evidenziato, nelle ulti-me settimane, con le timide aperture del presiden-te Barack Obama, tramite il premier Turco TayyipErdogan, in qualità di mediatore, nei confronti del-l’ayatollah Khamenei. L’amministrazione statuni-tense infatti – secondo alcune notizie ancora nonconfermate – avrebbe offerto una possibilità di ac-cordo all’Iran, qualora la Repubblica Islamica si de-cidesse, in modo trasparente, a garantire che la pro-liferazione nucleare persegue esclusivamente sco-pi pacifici. La risposta di Teheran è stata positiva,manifestandosi nell’accettare di presentarsi ai col-loqui del 14 aprile a Istanbul con il gruppo 5+1 nelcorso dei quali i vertici iraniani hanno mostratoapertura e disponibilità per risolvere il caso nuclea-re. Lady Ashton, rappresentante della politica este-ra Ue, infatti ha valutato l’esito di questi primi col-loqui «positivo», annunciando che vi sarà un secon-do incontro, nel prossimo futuro, a Baghdad. Cosìpare che le forze occidentali, al momento, abbianodeciso di puntare sul fronte khameneista, mettendoin secondo piano una possibile apertura alla squa-dra presidenziale. Perché l’occidente punta su un

recupero di rapporti con il fronte ultraconservatorevicino a Khamenei? È presumibile che l’ammini-strazione statunitense, oltre a voler, in qualche mo-do, fermare un possibile attacco preventivo israelia-no contro Teheran, cerchi di dialogare con il frontekhameneista, allo scopo di guadagnarsi l’appoggioiraniano per il regime change nella Siria di BasharAssad, alleato principale dell’Iran nella regione me-diorientale. Se questa ipotesi fosse veritiera, allorasignificherebbe che gli Stati Uniti, insieme agli al-leati occidentali, punterebbero a un cambio di siste-ma politico in Siria per poi valutare il da farsi neiconfronti di Teheran. Una tale scelta, però, signifi-cherebbe anche voler tenere in vita la RepubblicaIslamica, evitando appunto un regime change in Iran.In altri termini una ipotetica apertura delle forze oc-cidentali al fronte khameneista, potrebbe rafforzareil blocco filo-conservatore nella Repubblica Islami-ca, provocando così un aumento delle pressioni eser-citate nei confronti della società civile persiana econtribuendo a emarginare, una volte per tutte, ilfronte nazionalista del presidente Ahmadinejad. Se-condo questa analisi, una tale strategia, da parte del-le forze occidentali, risulterebbe controproducentesia per l’evoluzione politica interna iraniana sia pergli interessi futuri geopolitici occidentali nell’areamediorientale. L’analisi che segue, prendendo in esa-me la società civile iraniana, da un lato, e ognunodei paesi potenzialmente interessati, dall’altro, illu-stra la fondatezza di tale tesi.

La società civile iraniana: l’Iran sta progres-sivamente assistendo a un epocale mutamento ge-nerazionale che vede in prima linea una società ci-vile giovane e vitale pronta a chiedere un profondorinnovamento del paese. Al momento circa trenta-cinque milioni di Iraniani sono sotto i trentacinqueanni e costituiscono un potenziale enorme per il fu-turo dell’Iran; sono giovani che in diverse occasio-ni – basti pensare al 1997 con le elezioni del rifor-mista Seyyed Mohammad Khatami, e al 2009 conla nascita del «Movimento verde» – hanno dato pro-

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va della loro forza politica e della loro volontà dicambiamento. Si tratta però di un movimento di pro-testa progressista e non violento che rivendica, pri-ma di tutto, il rispetto delle proprie libertà persona-li e la separazione della religione dalla politica. So-no ormai anni che la nuova generazione in Iran sista distanziando sempre di più dai valori tradizio-nali della rivoluzione islamica del 1979 che hannoistituito la repubblica islamica. Si tratta appunto diuna società civile molto vitale che, a seguito di tren-tatre anni di repubblica islamica, si trova ora a chie-dere profondi cambiamenti politico-sociali ispiratida valori improntati alla laicità. La Repubblica popolare cinese: è il primo paese acui conviene mantenere lo status quo in Iran. Infat-ti la Cina, ormai principale partner commerciale diTeheran, da tempo sostiene la Repubblica Islamicaed è molto vicina al fronte khameneista. Un Iran,emarginato dall’Occidente e temuto dai paesi vici-ni, offrirebbe a Pechino l’opportunità di importare,quasi in maniera esclusiva, le risorse energeticheiraniane, determinandone addirittura le condizionidi acquisto e il prezzo.La Russia di Vladimir Putin: per Mosca un Iran emar-ginato, come è attualmente, è fonte di grande inte-

resse soprattutto sul piano economico. La Russia con-tinua a godere del privilegio di essere il principaleesportatore di gas nel mondo, in particolare versol’Europa. L’Iran, in qualità di secondo esportatore,avrebbe le potenzialità, considerata la sua ottimaleposizione geografica, per diventare un temibile riva-le nell’esportazione del gas e ciò non sarebbe benvisto da Mosca. Un Iran post-repubblica islamica,potenziale alleato dell’Occidente, metterebbe in cri-si una buona parte del sistema economico russo, ol-tre che le sue influenze politiche nell’Asia Centrale. La Turchia di Erdogan: è dalla rivoluzione del 1979,con la caduta dello Shah di Persia e l’istituzione del-la Repubblica Islamica in Iran, che la Turchia godedel ruolo privilegiato di principale mediatore traOccidente e Oriente. Questo suo ruolo, con la nuo-va ambiziosa politica di Erdogan, che punta a un re-cupero della potenza detenuta ai tempi dell’ImperoOttomano, diventa ancora più importante per An-kara. Pertanto, un nuovo Iran laico, post-repubbli-ca islamica, diventerebbe un vero competitor per iturchi, in grado di togliergli il ruolo di principalemediatore nell’area eurasiatica. Le potenzialità po-litico-culturali e geo-strategiche di un nuovo Iranlaico e alleato dell’Occidente sarebbero enormi ecapaci di mettere in difficoltà diversi stati della re-gione mediorientale. L’Arabia Saudita: i sauditi, in piena crisi, sono con-sapevoli che l’ondata di cambiamento, in corso nelMedioriente e in Nord Africa, prima o poi li raggiun-gerà. A tal proposito stanno tentando di proiettare lacrisi verso l’Iran, strumentalizzando il caso nuclea-re e il possibile pericolo rappresentato da Teheran.Poter additare il pericolo iraniano consente ai saudi-ti di eclissare l’attenzione della comunità internazio-nale dalle loro responsabilità nelle ripetute violazio-ni dei diritti umani. Pertanto anche all’Arabia saudi-ta conviene il mantenimento dello status quo in Iran. Israele: per quanto riguarda l’amministrazione filo-conservatrice di Tel-Aviv, paradossalmente, trovaalimento proprio dalla presenza di un regime politi-co in Iran carattere islamico dal quale mettere per-

Per la Russia di Vladimir Putinun Iran emarginato è fonte di grande interesse soprattuttosul piano economico. Moscacontinua a godere del privilegiodi essere il principale esportatoredi gas nel mondo, in particolareverso l’Europa. L’Iran,in qualità di secondo esportatore,avrebbe le potenzialità per diventare un temibile rivalenel campo energetico

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sistentemente in guardia il popolo israeliano. È dasottolinearsi quindi come un nuovo Israele, guida-to dalla parte più progressista del paese, avrebbe tut-to l’interesse per un regime change in Iran. Le po-tenzialità di un’eventuale alleanza tra i due paesi, seliberati dai falchi israeliani al governo e dalla Re-pubblica Islamica, sarebbero molto alte e potrebbe-ro rappresentare, magari nei prossimi 15 anni, unnuovo asse mediorientale.

Considerando tutto ciò, pare evidente che, pa-radossalmente, i principali attori internazionali a cuiconviene un cambio di regime in Iran sono propriogli Stati Uniti e gli Europei. Infatti l’Iran di Khame-nei è alleato dei cinesi, sostenuto dai russi e coadiu-vato dai turchi, tutte potenze che, nel nuovo quadrogeopolitico che si sta andando a delineare, di certonon sono dalla parte del blocco occidentale. L’Iran,in questo momento, a causa di oltre trent’anni d’au-toritarismo religioso, ha sviluppato una nuova ge-nerazione con tendenze laiche e sarebbe, quindi, ingrado di diventare, in un prossimo futuro, il primostato laico in Medioriente. Questa trasformazionedell’Iran, potrebbe addirittura essere provvidenzia-le per i paesi occidentali in prospettiva di una sfidaglobale contro il gigante asiatico. Si conclude quindi rilevando che le forze occiden-tali, aprendo le porte al fronte khameneista, stannoforse commettendo un errore strategico, invece dipuntare sulla nuova generazione, le potenze occi-dentali, nel breve periodo, al fine di dirimere le pre-senti controversie internazionali con l’Iran si rap-portano principalmente con il più conservatore fron-te khameneista, tralasciando, con errore strategico,e con mancanza di lungimiranza, sia la parte più lai-ca, vicina al fronte presidenziale, sia la parte più gio-vane della società civile, sempre più portata a posi-zioni laiche e democratiche, forze queste che se con-venientemente appoggiate, in grado di determinare,in un prossimo futuro, quel nuovo Iran, post-islami-co, in grado di rappresentare un inaspettato alleatoper l’Occidente.

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lo scacchiereEuropa /ankara chiama bruxelles:

la nato in Siria?L’ipotesi di Erdogan di appellarsi all’articolo 5 e la crisi di Damasco

La crisi in Siria è costantemente peggioratanegli ultimi mesi, ma un intervento Natorimane improbabile nonostante le preoccu-

pazioni turche per la sicurezza dei propri confini.La durissima repressione messa in atto dal regimedi Bashar Al-Assad si scontra ormai da un annocon una tenace opposizione armata. Le forze mili-tari governative, secondo i rapporti dell’Onu e dialtre organizzazioni internazionali, hanno fatto qua-si 10mila vittime tra la popolazione siriana, menteil Free syrian army, braccio armato dell’opposi-zione a guida sunnita, ha intensificato gli attacchicontro obiettivi governativi. La mediazione soste-nuta da Nazioni unite e Lega araba, e condotta daKofi Annan, non ha portato fino a adesso a risulta-ti significativi. Finora i paesi europei e gli Stati Uni-ti hanno tenuto nei confronti della Siria un approc-cio radicalmente differente da quello adottato daFrancia e Gran Bretagna nei confronti della Libia,sebbene le vittime civili della repressione sirianasiano decisamente più numerose di quelle imputa-te alle forze di Gheddafi alla vigilia dell’interven-

to internazionale in Libia – in-tere città in Siria sono da mesioggetto di bombardamenti ae-rei e navali e battute dai carri ar-mati dell’esercito. La cosiddet-ta Responsibility to protect evo-cata per la Libia non sembra es-sere una priorità nel caso – benpiù giustificato – della Siria. Il

contesto geopolitico siriano è ovviamente differen-te da quello libico. Tra le differenze due in partico-lare pesano al riguardo: la posizione geografica del-la Siria, incastrata in uno scacchiere delicatissimoche comprende Israele, Libano, Iraq, Giordania e,sebbene non confinino direttamente con la Siria,Iran e Arabia Saudita; l’opposizione finora mani-festata da Russia e Cina in seno al Consiglio di si-curezza Onu riguardo ad un intervento militare co-ercitivo della comunità internazionale contro il re-gime siriano. La Risoluzione “umanitaria” appro-vata all’unanimità dall’Onu il 21 aprile punta a in-viare per 90 giorni circa 300 osservatori disarmaticon l’obiettivo di monitorare la cessazione delleviolenze, permettere l’afflusso di aiuti umanitari,e favorire l’inizio di un negoziato tra il regime ala-wita e le opposizioni. La Ue finora si è limitata al-la condanna politico-diplomatica della repressio-ne, e all’adozione progressiva del consueto set disanzioni a disposizione dell’Ue: congelamento dibeni e asset di entità siriane soggetti alla legge deipaesi membri dell’Unione; divieto di ingresso nelterritorio dell’Ue per esponenti del regime alawi-ta; embargo all’esportazione verso la Siria di ma-teriali utilizzabili per la repressione interna e ces-sazione delle importazioni energetiche in Europadal paese mediorientale. In ambito Nato, una del-le voci che si è levata con più forza rispetto alla cri-si siriana è stata quella della Turchia. Il primo mi-nistro turco è stato protagonista di un intenso tourdiplomatico tra Mosca, Pechino e Teheran, volto

DI ALESSANDRO MARRONE

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scacchiere

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ad attenuare le resistenze dei principali paesi con-trari ad una maggiore pressione internazionale neiconfronti della Siria. Per la Turchia la crisi sirianarappresenta una minaccia alla sicurezza nazionale,in particolare dei confini turchi. Dall’inizio dellacrisi, oltre 25mila rifugiati siriani hanno trovatoospitalità in campi profughi in Turchia. Il governoturco è passato dal precedente appoggio al regimedi Assad – iniziato con la svolta degli Accordi diAdana del 1998 – ad un sostegno, più o meno espli-cito, all’opposizione siriana. Le forze armate dellaSiria dal canto loro hanno iniziato incursioni neicampi profughi in Turchia sospettati di fornire ri-fugio e supporto logistico all’opposizione siriana.Ciò a sua volta ha spinto Erdogan a prospettarel’eventualità di richiedere alla Nato assistenza peril monitoraggio e la protezione dei confini turchi,anche attraverso l’invocazione da parte di Ankaradell’Art. 5 sulla difesa collettiva dei paesi membridell’Alleanza. Una simile operazione Nato è giàavvenuta in Turchia, ma non in connessione conl’Art. 5. Infatti la prima operazione nella storia del-l’Alleanza atlantica, precedente anche a quelle neiBalcani, è stata il dispiegamento nell’agosto del1990 degli Awacs – gli Airborne early warningaircraft della Nato – nella base turca di Konya permonitorare le attività irachene in seguito all’inva-sione del Kuwait. Pochi mesi dopo la Nato ha po-sizionato stabilmente in Turchia alcune capacitàaeree – incluse quelle di difesa aerea – del Coman-do alleato europeo al fine di scoraggiare una even-tuale azione aggressiva da parte dell’Iraq, semprenell’ambito della operazione Anchor Guard. Og-gi una simile operazione militare avverrebbe in uncontesto radicalmente differente dal 1990: diver-sa è posizione della comunità internazionale, nonunita nei confronti della Siria come lo fu all’epo-ca rispetto all’Iraq; diversa è la Turchia, dove ungoverno islamista da più di un decennio bilanciala lealtà transatlantica con una rinnovata attenzio-ne per il Medioriente; diversa è la Nato, che negli

ultimi due decenni ha rotto il tabù delle operazio-ni «fuori area» ed è oggi pronta – ma non incline– ad agire anche in paesi come la Libia e l’Afgha-nistan. Visto il peso della Turchia su dossier Natocruciali, quali ad esempio il programma di difesamissilistica che da anni è nell’agenda Alleata, unarichiesta turca d’assistenza Nato per la protezionedi propri confini potrebbe difficilmente essere igno-rata dagli altri paesi membri. Tuttavia è difficileche la Turchia si spinga oltre: la posizione recen-temente espressa dal ministro degli Esteri turcoDavutoglu contempla da un lato il sostegno per lapossibilità della Nato di agire fuori area, e l’auspi-cio che l’Alleanza – così come altre organizzazio-ni internazionali – sostenga politicamente una tran-sizione pacifica e democratica nei paesi coinvoltinell’Arab Spring. Ma al tempo stesso il governoturco è ben conscio non solo dei vincoli e dei fo-colai di crisi regionali, ma anche della percezionenon positiva del Patto atlantico in Medioriente edell’impatto negativo di un intervento alleato inSiria sui suddetti focolai e nell’opinione pubblicaaraba. In questo senso, l’intervento in Libia nonrappresenta un successo pieno per l’Alleanza, inquanto non è stato particolarmente apprezzato dal-l’opinione pubblica araba – vedasi le accuse egi-ziane in merito alle vittime civili dei bombarda-menti alleati – e soprattutto la situazione post-in-tervento in Libia è ben lontana dall’essersi stabi-lizzata. Anche per questo non c’è volontà politicatra i paesi Nato di intraprendere un nuovo, costo-so, intervento nel Vaso di Pandora siriano, dopoquello faticosamente condotto nelVaso di Pandora libico – per di piùvista la mancanza di un mandatoOnu a causa del veto russo-cinese.In ogni caso, la crisi siriana rischiadi rimanere un elemento perma-nente di instabilità e di insicurez-za, non solo per la Turchia ma an-che per lo scacchiere europeo.

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Americhe/obama e il change sudamericanoAl vertice di Cartagena i nodi Cuba, droga e Malvinas

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Il 14 e 15 aprile la città di Cartagena in Colombiaha ospitato il sesto vertice dei presidenti delle Ame-riche, termometro mediatico dei rapporti tra i go-

verni latinoamericani e gli Stati Uniti. Come nel 2009,anche questa volta tutte le attenzioni erano rivolte alpresidente Barack Obama, chiamato a pronunciarsi sutre questioni politicamente sensibili: un cambio nellepolitiche di contrasto al narcotraffico; la ri-ammissio-ne di Cuba nella comunità continentale; la richiesta ar-gentina di sostegno alla sua posizione sulle Falklands/Malvinas. Sulle droghe, Obama ha riconosciuto che ètempo di esplorare altre ipotesi al di là del semplicecontrasto alla produzione e al traffico di stupefacenti.Il narcotraffico muove un giro d’affari di 49 miliardidi euro l’anno, e il 95 per cento della droga consuma-ta negli Usa passa dal Messico e dai paesi centro-ame-ricani, con una scia di violenza che non conosce fron-tiere. Il presidente guatemalteco Otto Pérez Molina siè spinto a suggerire la regolarizzazione non solo delconsumo ma anche del traffico di droga. Obama ha ri-sposto che «la legalizzazione non è la soluzione», ag-giungendo però che è legittimo aprire la discussionesulla depenalizzazione degli stupefacenti. È un primopasso, che riconosce che è il mercato statunitense a ge-nerare la domanda per la produzione e il traffico di dro-ga. Di più Obama non poteva concedere, per non ri-schiare di perdere voti alle elezioni di novembre. Ana-logo discorso vale per la questione cubana, che conti-nua a restare al centro della diplomazia continentale.Vi è un ampio consenso per invitare il paese caraibicoa partecipare al prossimo summit, ma permane il vetostatunitense al riguardo. I presidenti di Ecuador e Ni-caragua hanno disertato l’incontro di Cartagena soli-darizzando con Cuba, in protesta con gli Usa. HugoChávez ha dato forfait ufficialmente per motivi di sa-lute. Dall’Havana non arrivano segnali di cambiamen-to. L’embargo statunitense favorisce la sopravvivenza

del regime castrista più di quanto non ne acceleri latransizione in senso democratico, ma i voti della co-munità cubana in Florida sono troppo importanti. An-cora una volta, il dossier Cuba resta quindi sulla scri-vania dell’Ufficio Ovale ad attendere il prossimo in-quilino della Casa Bianca. Il tema delle Falklands/Mal-vinas interessava solamente l’Argentina. Il presidentedi casa, Juan Manuel Santos, ha evitato di menzionarel’argomento nella sua allocuzione centrale, e la dichia-razione finale si limita a poco più di un timido augu-rio: «(…) the vast majority of countries called for a pea-ceful settlement to this dispute». I governi latinoame-ricani hanno manifestato una solidarietà a Buenos Ai-res che è più formale che sostanziale, mentre Canadae Usa hanno preso le distanze dal tema, per non doveraffermare in maniera positiva che in caso di scelta lo-ro non possono che stare dalla parte di Londra. In ge-nerale, il vertice di Cartagena ha finito per conferma-re la perdita di rilevanza relativa degli Stati Uniti inAmerica latina, la crescente influenza del Brasile e ilruolo della Cina come partner commerciale e finanzia-rio. Il blocco dei paesi «bolivariani» si sta indebolen-do con la progressiva uscita di scena del presidente ve-nezuelano, mentre il governo colombiano di centro-de-stra ha approfittato dell’occasione per proporsi comecerniera tra la regione e l’alleato statunitense, ammor-bidendo le posizione troppo filo-americane dell’ex pre-sidente Uribe. Ciò detto, dello scopo con cui si orga-nizzò il primo incontro nel 1994 a Miami – promuo-vere la democrazia e il libero commercio – oggi nonresta molto. La regione presenta ancora molte divisio-ni, la retorica prevale sull’efficacia degli strumenti d’in-tegrazione, e la capacità di affermare alcune istanze neiconfronti degli Stati Uniti dipende più dalla perdita diinfluenza di questi ultimi e dal parallelo aumento delpeso di Brasile e Messico, che da un effettivo coordi-namento politico a livello continentale.

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scacchiere

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Il complesso rapporto tra Sudan e Sud Sudan sembraessere degenerato nell’ultimo mese nell’area di con-fine del South Kordofan. L’occupazione di Heglig

da parte delle forze armate del governo di Juba (Sud Su-dan) il 10 aprile ha provocato la rapida reazione dell’ese-cutivo di Khartoum: da un lato il presidente sudanese alBashir ha iniziato una guerra retorica, additando la vio-lazione del diritto internazionale da parte del neonato sta-to confinante; dall’altro il parlamento del Sudan ha adot-tato una risoluzione in cui ha etichettato come «nemicoil governo di Juba». Numerosi esperti hanno notato che,pur essendo Bashir poco amato e molto discusso all’in-terno dello stato per il ferreo regime di controllo impostosul dissenso, il popolo ha risposto compatto al suo richia-mo, preoccupato di difendere il territorio nazionale. Lapresa di Heglig (nonostante sia durata 10 giorni) ha avu-to l’effetto di coagulare le forze sudanesi contro la stes-sa entità esterna con cui si era combattuto nell’ultimo cin-quantennio a fasi alterne. Le questioni rimaste in sospe-so dalla firma degli Accordi di Pace tra le due parti, nelgennaio 2005 (al momento hanno attratto un finanzia-mento limitato da parte di soggetti stranieri; gli aiuti ot-tenuti dall’esterno per lo sviluppo di aree martoriate dadecenni di guerra si sono dimostrati insufficienti; il so-stegno avuto dal Splm negli anni della lotta di John Ga-rang sta lentamente scemando a causa di una corruzionedevastante all’interno del gruppo alla guida del Sud Su-dan. L’interesse mostrato da Pechino dal luglio 2011 adoggi ed un inatteso cambiamento della sua linea diplo-matica possono aver indotto la dirigenza di Juba ad op-tare per una mossa avventata, ma che potrebbe portare abreve i suoi frutti. La tempistica scelta è stata guidata daun solo pensiero: «Chiunque voglia acquistare il petroliosud sudanese dovrà per forza mediare e fare pressioni suKhartoum, non potrà certamente rimanere spettatore iner-te… È giunto il momento di ottenere qualcosa di più ol-tre all’atteggiamento pietoso internazionale». Quanto ac-

caduto negli ultimi giorni potrebbe soddisfare tale logi-ca. Certamente le critiche sono state forti e numerose, mail tema sud sudanese è tornato alla ribalta: oltre agli schie-ramenti inevitabilmente formatisi (la Lega Araba ha con-dannato l’aggressione da parte del Sud, l’Iran è andatooltre assicurando il pieno supporto al Sudan; l’Uganda siè schierato invece con il Sud Sudan), si è parlato di unamediazione egiziana o etiopica oppure ancora kenyotaper avvicinare i due protagonisti della disputa, le Nazio-ni Unite hanno fissato una road map, l’Unione Africanaha dato 3 mesi per trovare un accordo altrimenti ha pro-messo «misure appropriate». Più interessante e pragma-tico l’atteggiamento di Cina e Stati Uniti: il presidente ci-nese Hu Jintao ha richiamato alla calma e alla modera-zione i due protagonisti, ben consapevole di dover farequalcosa se vuole tutelare gli interessi economico-indu-striali del suo Paese e se vuole continuare ad acquistarepetrolio dal Sudan e dal Sud Sudan; il presidente ameri-cano Barack Obama ha ricordato che c’è una possibilitàdi scelta se si vuole impedire di essere trascinati di nuo-vo in una guerra devastante per le generazioni future, con-scio della necessità di dover evitare l’apertura di un fron-te nella regione centro-orientale africana, in un’area gri-gia dove affiliati di Al Qaeda potrebbero muoversi congrande facilità e stringere alleanze pericolose dalla So-malia (con Al Shabab) alla Nigeria (con Boko Haram).Certo, Mosca non si è pronunciata in modo eclatante maanche in questo caso «il dio petrolio» potrebbe fissare li-nee guida inattese. Da quanto detto, si evince che – tut-to sommato – la scelta del governo di Juba di occupareHeglig, seppur temeraria e machiavellica, risponde aduna logica ben precisa in cui sono stati valutati attenta-mente pro e contro dell’operazione. Agire, in questo par-ticolare momento storico, comporterà di certo la mortedi qualche migliaio di persone sulle linee di confine, mapotrebbe –soprattutto- portare buoni frutti per l’intero pae-se nel prossimo futuro.

Africa /l’azzardo di jubaIl cambio di marcia del Sud Sudan e la guerra del petrolio

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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La storiaLa storia

di Virgilio Ilari

Li romaniin Russia, una disfatta in versi

La naja la feci, quarant’anni fa,nell’82° fanteria «Torino», che du-rante la guerra fredda presidiava lafamosa «soglia di Gorizia». Era unodei pochi reggimenti che all’epocaportavano, oltre a fregio, mostrine

e scudetto, pure un distintivo speciale. Il nostro era,sopra il taschino sinistro della giubba, un ovale me-tallico dorato col toro rampante. Non in ricordo del-la sciagura aerea di Superga in cui il4 maggio 1949 era perito il GrandeTorino, ma della medaglia d’oro alvalor militare alla Bandiera concessaper la campagna di Russia. Il nostromotto era un pio «Credo e vinco», malessi poi che durante la guerra quelloinformale era «porta la vacca al to-ro». All’epoca mia di romani erava-mo pochi, e il mio arrivo fu accoltodal maresciallo di maggiorità comeuna sciagura, per la fama di imbosca-ti lavativi (ricordate Vittorio Gassman

ne La grande guerra? «l’italiano in fanteria, il roma-no in fureria»). Prima della guerra, invece, la Tori-no era proprio la Divisione dei romani, perché le se-di di pace erano Roma e Civitavecchia. Nel giugnodel 1940, durante la breve battaglia delle Alpi, rima-se tranquilla in Liguria e nell’aprile 1941 avanzò inSlovenia senza incontrare resistenza. Rientrata a Ro-ma in giugno, fu destinata al Corpo di spedizione inRussia (CsiR): era infatti ben adatta alle steppe es-

sendo classificata «autotrasportabi-le»: e lo sarebbe pure stata se invecedei muli avesse avuto i camion. Con-siderate le notizie sull’avanzata te-desca era un’altra passeggiata, ma adogni buon conto i generosi romaniche potevano cedettero volentieri ilbiglietto fortunato. Uno fu AlbertoSordi, trasferito grazie al padre mu-sicista alla banda presidiaria. Lo rac-contò lui stesso, in un talk show te-levisivo del 1991, aggiungendo diaver salutato con la Marcia Reale i

Elia Marcelli

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battaglioni che il 18 luglio 1941 partivano dalla Sta-zione Tiburtina: «Non ho mai potuto dimenticare –disse nella suspence del pubblico presente nello stu-dio televisivo – gli occhi di quelli che stavano sullatradotta quando si accorsero che loro partivano e noirestavamo. Che brutta cosa, la guerra! Mai più laguerra, mai più!». Lo pensava pure, nel gennaio del ‘43, Elia Marcelli,sul treno ospedale che lo rimpatriava per congela-mento, precedendo i resti del-la Torino che furono poi man-dati a Gorizia. Di estrazionecontadina e oriundo di Fabri-ca nel Viterbese, ma nato aRoma nel 1915 e laureato conNatalino Sapegno nel 1939,aveva compiuto l’ascesa so-ciale che allora veniva certifi-cata col grado di sottotenentedi complemento. Semplicefante ne La Grande Guerra,pure Albertone ebbe la stellet-

ta sulla spallina in Tutti a casa e ne I due Nemici. Percontrappasso, pure Marcelli, già nel primo dopoguer-ra cominciò ad occuparsi di cinema: sottopose infat-ti a Vittorio De Sica vari soggetti e sceneggiature ditaglio neorealista. Già nel 1943, appena tornato a Ro-ma, aveva fondato con altri intellettuali reduci di guer-ra la Lega pacifista italiana. Fallita l’elezione alla Co-stituente nella lista romana della Lpi, nel 1947, in-coraggiato da gruppi pacifisti americani, Marcelli

tentò di lanciare un periodico(Guerra alla guerra!) e redas-se il manifesto di un’Interna-zionale pacifista. Intanto orga-nizzava campi di lavoro inAbruzzo per la ricostruzionedelle aree bombardate e, ab-bandonata per protesta la cat-tedra di ruolo in un liceo clas-sico di Roma, fondava con lamoglie la prima scuola mediadi Fabrica, sperimentando me-todi e contenuti didattici alter-

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Il cantautore Simone Cristicchi che ha portato in scena “Li Romani in Russia”, con testi di Elia Marcelli e illustrazioni di Niccolò Storai

Elia Marcelli, nel 1943rimpatriava

per congelamento, precedendo i resti

della Divisione Torino.Nel dopoguerra divennesceneggiatore, pacifista,

documentarista e tradussein romanesco

gli orrori della guerra

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nativi. Insomma, una serie di generosi fiaschi, cul-minata nel 1949 con l’emigrazione in Venezuela. Ilrischio fu premiato, perché fu proprio Marcelli a darinizio alla produzione cinematografica venezuelanacon due cortometraggi su Simon Bolìvar e sulle bi-donville di Caracas e una serie di documentari sullaforesta amazzonica astutamente finanziati dalla lo-cale filiale della Shell. Il lungometraggio Settimo pa-rallelo (1962) sulle condizioni di vita e sul genoci-dio degli indios fu distribuito anche in Italia e parte-cipò a dieci festival internazionali. In seguito anchela Rai gli commissionò documentari sulle regioni ita-liane: membro dell’Accademia Tiberina dal 1976,Marcelli ritornò definitivamente in Italia nei primianni Ottanta, e morì a Roma nel 1998, lasciando unricchissimo archivio letterario alla Biblioteca Nazio-nale Centrale di Roma. Nel 1989 aveva ricevuto latessera onoraria dell’Anpi per Li Romani in Russia,una rievocazione della sua esperienza militare pub-blicata nel 1988 da Bulzoni con prefazione di TullioDe Mauro e riedita nel 2008 da Il Cubo a cura di Mar-cello Teodonio. Nella vasta memorialistica italianasulla ritirata di Russia (in cui gli alpini fanno la par-te del leone) ci sono successi letterari come Il ser-gente nella neve di Mario Rigoni Stern o La stradadel Davai di Nuto Revelli, e saggi penetranti comeCon l’Armata italiana in Russia di Giusto Tolloy (To-rino, de Silva, 1947). C’è perfino un diario “pupaz-zettato” di disegni umoristici (Un anno sul fronte rus-so, di Vittorio Luoni, capitano della Divisione Sfor-zesca) pubblicato nel 1990 dalla Rivista Militare(quella mitica del geniale e intrepido amico Pier Gior-gio Frantosi). Le memorie di Marcelli sono però leuniche scritte in romanesco e in ottava rima toscana,il metro usuale della lirica popolare («strambotto» e«rispetto»). L’idea gli sarà certo venuta dal Meo Pa-tacca ovvero Roma in feste ne i Trionfi di Vienna(1695) di Giuseppe Berneri (1637-1701): e davverosarebbe romano aceto aver reso una tragedia sul cal-co di una farsa. Pure il poema (in quartine francesi arima baciata) sull’Arte della guerra scritto dal «Phi-losophe de Sans-Souci» (Federico il Grande) fu tra-

dotto in ottava italiana (nel 1761, a Napoli, dal ge-suita Carlo Maria Sanseverino). Del resto tra Cinquee Seicento il poema in ottava era considerato, in Ita-lia, proprio lo stile più adatto alla narrazione bellica:una raccolta di Guerre in ottava rima (d’Italia e con-tro i Turchi), curata da Rolando Bussi e altri autori,in quattro volumi e tremila pagine, fu pubblicata giu-sto nel 1988 a Ferrara (Panini). Meo Patacca è in 12 canti e 1.245 stanze, Li Roma-ni in Russia in 11 e 1.115, ossia 8.920 endecasillabi:i primi sei di ciascuna stanza a rima alternata, gli ul-timi due a rima baciata. Il romanesco, tutto Baffonie Baffetti, non è purtroppo quello di Gioacchino Bel-li, ma piuttosto di Maurizio Ferrara, sentenzioso e di-dascalico. Il poema, corredato pure da un breve sag-gio e da una bibliografia, si diffonde infatti non po-co in ingenue banalità politico-militari e tirate mora-listiche sulla nemesi degli invasori, l’umanità del po-polo e degli stessi soldati russi, la criminale viltà deitedeschi traditori, i soprassalti d’orgoglio di qualchecomandante italiano vanificati dal servilismo fasci-sta, la truppa mandata al macello senz’armi e senzaequipaggiamento. Insomma il tema della “guerra sba-gliata” e dell’orgoglio nazionale opposto non all’eroi-co nemico ma al pravo alleato-padrone, già presen-te nelle memorie auto-assolutorie degli italiani checombatterono in Spagna dalla parte di Napoleone eche certo ricorrerà in quelle future dei reduci dalleattuali sconfitte americane. Notoriamente sono “fumino”, come dicono i tosca-ni: eppure riuscii quasi a controllarmi leggendo inbozze Principe delle Nuvole di Gianni Riotta e ascol-tando Gad Lerner vecitave vapito il bvano del nane-vottolo savdo (il soldato Sanna) che, ululando «evvammio il panne!», avvinghia e ammazza a testate uncrucco malvagio colpevole di aver strappato dallemani di un bambino greco la generosa pagnotta ita-liana (tratto da La guerra d’Albania di Giancarlo Fu-sco e ripreso da Mario Monicelli ne Le rose del de-serto, il suo ultimo film del 2006). Per favore, cariex-dirimpettai di barricata, scherzate coi Santi vostrie lasciate stare i Fanti miei! Oltre ad annunciare stan-

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gate fiscali, le incursioni sessantottarde dei mi-litesenti sugli spartiti militar-patriottici so-no stecche miagolanti: come fu, tanto pertornare alla ritirata di Russia, Italiani bra-va gente di Giuseppe De Sanctis, una co-produzione italo-sovietica del 1965. Bravi, certo: infatti, come notò sarcasti-ca la Bbc il 1° novembre 1989, commi-niamo ancora inflessibili ergastoli a no-vantenni caporali crucchi esumati dagli«armadi della vergogna», senz’aver mai ce-lebrato un solo processo per i crimini di guer-ra dei nostri generali (ol-tre che ai noti e boicotta-ti libri di Angelo Del Bo-ca rinvio a Santa Messaper i miei fucilati, diario di guerra, in Slovenia, delcappellano dei granatieri Pietro Brignoli, pubblicatonel 1973). Alla fine perfino ai tedeschi, che invece iloro criminali di guerra li hanno condannati a miglia-ia, è scappata la pazienza, e, proprio riguardo allacampagna di Russia, ci hanno fatto una inconfutabi-le chiamata di correo (Invasori, non vittime, di Tho-mas Schlemmer, Laterza 2009). Nulla, rispetto a quelche provai due anni fa, nella sede dell’Anpi di Ro-ma, guardando in visione privata i filmati sovieticisulla cattura degli italiani: non le ombre infagottateche sfilavano gettando i fucili ai piedi del nemico;ma la fraternizzazione tra i commissari politici sovie-tici e i nostri stati maggiori, in perfetta tenuta da pas-seggio con stivali lucidi e penne bianche di mezzometro, e risate, e bicchierate nelle immacolate palaz-zine comando con tanto di aiole e stufe, e cumuli dibagagli caricati dai mugik sulle automobili dei pri-gionieri. Non attori, ma facce vere, straitaliane: delresto l’avevo già letto nel libro amarissimo di Tolloy.Il russo che aveva portato i filmati, sorrise sornione,senza capire perché, pallido e teso, lo ringraziassi del-la mia vergogna. La differenza di settantamila unitàtra le perdite dell’Armir e i soli diecimila prigionie-ri restituiti dai russi fu a lungo uno dei cavalli di bat-taglia della propaganda anticomunista. I comunisti

replicavano che i dispersi si erano rifatti unavita migliore nel paradiso dei lavoratori, e

a ciò dobbiamo il capitolo più struggentedella trilogia d’amore tra Sofia Loren eMarcello Mastroianni. Forse l’unico mo-do in cui chi non c’è stato può parlare diuna guerra senza dire scemenze e vol-garità, è come ha fatto De Sica ne I gi-

rasoli (1970): cercarne cioè le tracce in-teriori in chi è rimasto a casa ad aspetta-

re. Urta, lo scoop di Panorama (febbraio1992) su un passo estrapolato da una lettera di

Togliatti da cui si preten-deva di dimostrare chel’ex-alpino della grandeguerra fosse indifferente

alle sofferenze degli alpini nei lager sovietici. Stride,che negli atti di un convegno dell’Istituto storico del-la Resistenza di Cuneo su Gl’italiani sul fronte rus-so (De Donato, Bari, 1982) solo sei pagine siano de-dicate alle condizioni dei prigionieri dentro e fuoridei lager contro ben 45 (e alcune pure enfatiche) chetrattano dell’Alba, l’organo di propaganda collabora-zionista destinato ai prigionieri italiani. Andrea, il compagno di liceo che tra le sue opere divolontariato si occupa periodicamente di controllarese me la cavo con la modernità, mi ha fatto l’annoscorso un magnifico regalo, portandomi in un teatrodella Garbatella a vedere il monologo teatrale che Si-mone Cristicchi, nipote di un compagno d’armi di EliaMarcelli, ha tratto dal poema del nonno. Tra le spe-cialità di Andrea c’è pure di avere più sorelle di me:e tramite Andrea il regalo lo debbo in definitiva aClaudia, docente di russo a Roma Tre. Andrea mi ave-va già regalato l’edizione 2008 de Li Romani in Rus-sia, ma era rimasto nella pila dei libri da leggere. Edè stato meglio, perché altrimenti non avrei forse pro-vato quel groppo alla gola e quella morsa allo stoma-co che la acuta selezione dei brani e la magnifica re-citazione di Simone mi ha provocato. Mamma Juliana, che assisteva i feriti italiani «guar-danno er fijo suo su la parete», uccisa da un cecchi-

Fregio e mostrina della Divisione Torino in Russia

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Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 RomaAbbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro

Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme

le idee per renderlo migliore…

il quotidiano

Tutti i giorni in edicolalo fa solo liberal

…questo

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no russo mentre andava ad attingere acqua per gli as-setati. Il colloquio con Gigetto, morente di cancrena:«Te la ricordi Via de l’Ombrellari, / co’ le loggette ca-riche de fiori ... / E le maschiette de li Coronari, / co’le veste de tutti li colori; / e quella mora, co’ quell’oc-chi chiari, / che te chiamava Giggi er rubbacòri, / te laricordi?», «Certo, - risponneva - / la sogno sempre ...quanto me piaceva!...». «Er Tenente strillava: ‘Stamouniti! / Qui, dovemo aiutasse, tra romani! / Su, spigne-te ‘sta slitta de feriti! / Volete abbandonalli come ca-ni?’ / Ma c’era chi ringhiava: ‘E che me frega! / Qui,oramai, chi vo Cristo se lo prega! (...) De là i feriti ur-laveno ‘A zozzoni! / Fiji de troje! Nun ce abbandona-te! (...) Antro che bestie! Peggio! Chi crollava / nunc’era cristo o dio che l’aiutasse! / tra quella turba chelo scavalcava, / seguitava co’ l’ugne a strascinasse, /piagneva, a mani giunte scongiurava, / finché vedevaer branco allontanasse, / e poi laggiù, lontano, s’ad-dormiva, / e er ghiaccio de la steppa lo copriva». Dopo lo spettacolo siamo andati in pizzeria: allegrala tavolata, ma io pensavo col cuore pesante al mioincompiuto, mancato, fallito Beruf, officium, prepon,come cavolo si chiama. Che pensavo dovesse esseredi collegare, mettere in contatto, tradurre, spiegaregenerazioni e “culture” che reciprocamente si igno-rano, a volte pigramente combattendosi, agitando cioèdurlindane nel vuoto dell’ignoranza e dell’ottusità.Ci ho provato e non so dove ho sbagliato. Volevo ser-vire a qualcosa: da bambino pregavo: «usami!». Fa-tica sprecata, vita sprecata tra zucche vuote, musi di“tola”, ditini saccenti e muri supponenti. Ed è statoallora che ho odiato questo Marcelli. Che ha avutotutte le fortune: di vivere da giovane un’esperienzamemorabile; di colonizzare una cinematografia in sta-tu nascenti; di trovare un postero che – se pure nonl’ha capito (anzi, detto fra noi l’ha “cannato” alla gran-de), per lo meno ci ha provato. Porto il nome, e conservo la sciabola, di uno zio mater-no, sottotenente medico caduto sul fronte greco-alba-nese. Mia nonna, murata nel dolore, volle scrivere sul-la lapide «concepì e visse la sua breve vita come dove-re». Quindici anni fa uno dei miei tredici nipoti (allora

pittore di icone per la comunità di Sant’Egidio, ora di-rettore del Velino) lo restituì in effigie alla vita civile,taroccando la foto per sostituire l’uniforme con l’abitoborghese. Fan e allievi miei, del resto, l’avrebbero ad-dirittura collezionato, e sarebbe stato pure peggio. Manon basta essere vecchi per capire ciò che sto scriven-do. Di coetanei e maggiori nessuno mi sovviene: i vol-ti che mi figuro assentire, tristi e gravi, sono già tuttinell’Ade: Antonio, Filippo... toh guarda, tutti comuni-sti, sia pure tanto speciali e guerrieri da essere stati ami-ci miei. «Suona il campanel, falce e martel...»: sento an-cora la voce, dolcissima, della sessantottina ignota chelo cantava di notte sotto le finestre della mia camerata(davano sul giardino in cui da qualche anno, a maggio,si svolge il festival della Libreria Editrice Goriziana). Ah, Elia: che brutta fine hanno fatto i soldatini convin-ti dalla propaganda fascista che «er borscevismo è mor-to e sotterato; / ormai è finita pe’ li comunisti / la Rus-sia è cotta! I nostri camerati / già l’hanno sfranta sottoi cari armati». Hai visto invece, Elia? Di partiti comu-nisti adesso ce ne abbiamo tre, di bandiere due (il Tri-colore e l’azzurro stellato) e l’Italia sostiene da tre an-ni di averne appena centocinquanta. E poi c’è semprela nostra Torino: all’epoca mia non serviva più a man-dare i romani in Russia, ma a non far arrivare i Russi aRoma, e perciò era contratta a un solo reggimento. Apiedi ci andavamo come voi, ma noi sulle mostrine gial-lo-azzurre portavamo il gladio alato, perché, se avessi-mo avuto gli aerei, saremmo stati aviotrasportabili; pro-prio come voi, se aveste avuto i camion, sareste statiautotrasportabili. E adesso? Tranquillo “cameragno”:non è più come all’epoca tua, quanno t’encazzavi: «sen-za contà che er CSIR cambiò testata / e passò tutto inmano a ‘sti fetenti! / e seminata tutta s’insalata / tra l’Un-gari e i Romeni ‘sti majali / ce usarono pe’ truppe co-loniali!». Daje, nonno, aoh, «ch’esiste ancora er Reg-gimento! / Certo è ridotto a mezzo battajone; / ma è tut-to perzonale d’ardimento. / Metà so’ donne, e fanno ‘nfigurone; / da Brindisi ce metteno ‘n momento / ‘gnivorta ch’o manneno ‘n missione. / Cianno ‘n dotazio-ne», er sordato der futuro «/ e co’ l’americani, poi, an-namo sur sicuro».

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ASCESA E DECLINO DEL REGNO BORBONICO DI NAPOLI E SICILIA

C’è un’altra storia che gli italiani conosconomeno della storia d’Italia: è la storia degli Sta-ti italiani preunitari. I più importanti eranocinque: il Regno di Sardegna, il Lombardo-Veneto in cui governavano gli austriaci, ilGranducato di Toscana, lo Stato pontificio eil Regno di Napoli o delle Due Sicilie. Percome si realizzò lo Stato nazionale italiano e

per la nascita della famosissima «questione meridionale» – e ancor pri-ma per il brigantaggio post-unitario, che fu una vera e propria guerra ci-vile – non poche polemiche si registrano, ieri e oggi, nella storiografiasul Regno di Napoli e il governo dei Borboni. Nei centocinquanta annidi unità nazionale, ora trascorsi, c’è sempre stato sottotraccia un disac-cordo sulle reali condizioni del Mezzogiorno e i filo borbonici ieri e i neo-borbonici oggi hanno provato ad accreditare l’idea di un Meridione bor-bonico migliore del Meridione italiano. Una polemica che proprio in oc-casione delle celebrazioni dei centocinquanta anni dell’Italia «una e in-divisibile» si è di molto rinfocolata non solo per ricordare quanto, a vol-te, la “storiografia ufficiale” – la metto tra virgolette perché è cosa stra-na, come, del resto, quella ufficiosa o minore – ha dimenticato o taciutoo sottovalutato ma anche per ipotizzare un nuovo Mezzogiorno divisodall’Italia (ricordo per tutti il libro di Pino Aprile: Terroni, edito da Piem-me). Tuttavia, se la polemica storiografica può essere di stimolo alla ri-

di Giancristiano Desiderio

GIANNI OLIVA

Un Regno che è stato grande

Mondadoripagine 277 • euro 20,00

La nascita della prima linea ferroviariaitaliana; la costruzione a Caserta della «Versailles italiana» e a Napoli del teatro San Carlo, tempio della musica di Rossini; l’istituzionedella prima cattedra universitaria di economia e commercio; le opere di intellettuali illuministi come AntonioGenovesi e Gaetano Filangieri; le nuove scoperte negli scaviarcheologici di Ercolano e Pompei.Sono solo alcuni aspetti del fervoreeconomico e culturale che anima il Sud mentre al potere s’alternanocinque generazioni di Borboni.Sovrani cancellati dalla memoriainsieme a un regno che è statogrande e subito dimenticato: una «storia negata» dal Risorgimento.

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scoperta di argomenti e temi e memorie dimentica-te o calpestate, in un secondo momento diventa diostacolo alla conoscenza e all’approfondimento del-la storia. In fondo, la conoscenza seria ed equilibra-ta della storia degli stati italiani preunitari dovreb-be essere – è – utile prima di tutto alla conoscenzadella storia d’Italia che seppur ha inizio con la na-scita dello stato italiano (secondo l’insegnamentodi Croce) è altrettanto vero che ha dietro di sé uncammino non ignorabile (secondo l’insegnamentodi Volpe). La qual cosa rispetto al Regno di Napo-li si traduce così: «I Borboni di Napoli e di Siciliapossono essere demonizzati o celebrati, ma non pos-sono essere dimenticati, perché sono stati parte si-gnificativa della storia d’Europa e parte importan-te della storia d’Italia».Questa impostazione della storia dei «Borboni di Na-poli e di Sicilia» è di Gianni Oliva che per Monda-dori ha ricostruito la storia del Regno di Napoli bor-bonico con il libro Un Regno che è stato grande.L’autore, che non ha bisogno di presentazioni, hasempre lavorato per lo più sul Novecento e suoi la-vori importanti sono Foibe, Le tre Italie del 1943,Profughi, percorre tutto il periodo del regno borbo-nico dal 1734 al 1861, dall’ingresso di don Carlos aNapoli a Francesco II, un re troppo giovane e «ina-deguato alla gravità del momento». Un percorso sto-rico che Oliva affronta fornendo al lettore dovizia diparticolari e notizie e informazioni, ma anche un’im-postazione storiografica robusta che mette in lucesoprattutto la novità del Regno del figlio di FilippoV ed Elisabetta Farnese: la riscoperta per il Sud diun’autonomia e di una monarchia propria per prova-re a lasciarsi alle spalle i viceré spagnoli, il poteredei baroni e i privilegi della Chiesa. Il progetto di«rinascita» del Mezzogiorno è quello tipico del di-spotismo illuminato che tenta di limare le unghie delpotere dei baroni nella province napoletane, di limi-tare gli abusi e le immunità del clero e dei vescovi,di riformare gli studi universitari, di risollevare ilcommercio, di ridefinire terre e proprietà per la na-scita di quell’inesistente ceto medio e produttore che

è la vera differenza con l’Italia del Nord e di partedel Centro. Il dispotismo illuminato, però, incontrasulla sua strada due – diciamo così – ostacoli controi quali andrà a cozzare: da una parte il 1799 e la Re-pubblica Partenopea, dall’altra il Risorgimento cheè l’esatto opposto dell’assolutismo. Fino alla Rivo-luzione francese – e ancor nei primi anni dopo il 1789– a Napoli la regina Maria Carolina è ancora ben mo-tivata a portare avanti i suoi progetti di riforma e am-modernamento del Regno. Le cose cambiano quan-do nel 1793 a Parigi è ghigliottinata Maria Antoniet-ta. È in questo momento che si genera una fratturatra la monarchia e la borghesia colta napoletana, frat-tura che diventerà rottura aperta con la rivoluzione«senza popolo» (coma la definì Cuoco) prima e conla dura reazione e repressione borbonica poi che «ta-glierà la testa» ad un’intera generazione di intellet-tuali, riformisti, politici.Una volta passata la bufera e l’avventura napoleo-nica, il Regno di Napoli sembra riprendere un suocammino con Ferdinando II e con un’intesa tra bor-ghesia agraria e nascente borghesia industriale conil sovrano: nessuno chiede troppo all’altro, la mo-narchia non è messa in discussione, e ci si avvia ver-so una modernizzazione interna del Regno: merca-to interno, protezione doganale, ferrovia, cantierinavali, bonifiche, fabbriche tessili e metal mecca-niche. Dunque, qualcosa si muove: «Il Mezzogior-no fra il 1830 e il 1840 non è il paese immobile earretrato descritto dalla storiografia liberale: moltiproblemi ereditati dal passato restano aperti, a par-tire dalla resistenza del baronaggio alla moderniz-zazione, ma nel complesso il regno dimostra di sa-per affrontare la fase di transizione che coinvolgetutta l’economia europea e non manca di proporreelementi di dinamismo». Ma il secondo ostacolo èin «agguato» e questa volta è anche più importan-te del Novantanove perché si inserisce nei moti ri-voluzionari sia italiani sia europei: «Come il rifor-mismo illuminato del secondo Settecento ha favo-rito lo sviluppo di una coscienza liberale, sfociatanell’esperienza della Repubblica Partenopea del

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1799, così il sostegno alla modernizzazione da par-te di Ferdinando II stimola una classe media sem-pre più consapevole delle proprie aspirazioni e sem-pre più compressa entro le maglie soffocanti del-l’assolutismo: all’inizio del 1848 questa spinta alrinnovamento politico si trasforma in un movimen-to rivoluzionario, che prende le mosse da Palermoe presto si diffonde nelle regioni continentali, tra-endo forza dal clima generale di mobilitazione an-tiassolutista che attraversa l’Italia e l’Europa». Fer-dinando II prima concede la costituzione e poi rea-

gisce e spara. Le vie di Napoli si riempiono di mor-ti e ancora una volta le strade della monarchia e del-la borghesia si separano. Questa volta per sempre.Mentre a Torino la monarchia sabauda conserva lacostituzione e diventa il punto di riferimento di chicrede nel Risorgimento e vuole l’Italia unita, a Na-poli è l’inizio della fine con un decennio che è difatto la conclusione di una Regno che chiudendosinella repressione e nell’assolutismo si isola e rispet-to al presente, rifiuta il futuro e rinnega il suo stes-so passato.

MISTICA E TECNICA DEI KAMIKAZE ALLA CLOCHE

Va da sé che il lettore che si accinge a leg-gere «Terrorismo aereo e prevenzione» ab-bia in mente le agghiaccianti immagini del-

l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001.L’evento che ci ha cambiato la vita, che ci ha resoun po’ meno liberi, che ha scosso la nostra fiducia– ma sopra tutto quella dei cittadini americani –nell’invulnerabilità degli Stati Uniti d’America.Proprio per questo qualcuno, aggirandosi tra i ban-chi e gli scaffali di una libreria, come tutti faccia-mo quando siamo in centro e abbiamo dieci minu-ti liberi, prima ancora che dal titolo sarà stato at-tratto dalla singolarità dell’illustrazione in primadi copertina. È stata una scelta indovinata dell’au-tore, Aldo Cagnoli, che già lascia intravedere losvolgersi del tema. Si tratta di un’opera dell’aero-pittore futurista Tullio Crali dal titolo di catalogo«Incuneandosi nell’abitato», ma più nota come «Intuffo sulla città», esposta al Museo di arte moder-na e contemporanea di Trento e Rovereto. Olio sutela di medie dimensioni (130 x 155), dipinta daCrali in epoca non sospetta: era il 1939. Ma sem-

bra davvero una premonizione. Gli ingredienti cisono tutti, grattacieli compresi, con la differenzache si tratta di una picchiata in verticale – e non diun volo orizzontale o in virata, come avevamo vi-sto in televisione – che tramette una sensazionequasi suicida. È come se il pilota, affascinato daquella incredibile prospettiva di edifici vista da unavisuale pressoché perpendicolare, si stesse letteral-mente tuffando verso il suolo in una sorta si irresi-stibile cupio dissolvi. La visione esterna, dall’in-terno di una carlinga d’aereo con ampie finestratu-re e il pilota di spalle, irrigidito sui comandi, sonoal tempo stesso affascinanti e terrificanti: un pae-saggio fittamente edificato, con un vortice di co-struzioni che balzano verso l’alto e vengono quasirisucchiate dalla traiettoria dell’aeroplano. Il critico che ha commentato l’opera – si tratta diFrancesco Lamendola – ha rifiutato tuttavia l’epi-logo suicida, ma vede un lieto fine (richiamata inlinea di volo all’ultimo momento possibile), purammettendo «(…) un effetto scenografico di gran-de immediatezza e forza plastica, come se l’aereo“entrasse” davvero nell’abitato o se, invece, fossel’abitato a “entrare” nella carlinga». Ma poco im-

di Mario Arpino

Prevenire un altro undici settembre è possibile. Senza dimenticare che il fattore sorpresa è l’asso nella manica dei terroristi

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porta, perché Mohamed Atta, ai comandi del pri-mo 767 a schiantarsi, e gli altri dirottatori suicididevono aver avuto esattamente la stessa visione,sia pure su di un piano orizzontale od obliquo.Se la prima sorpresa la vediamo già in copertina,la seconda non tarda a venire: la troviamo in pre-fazione. Sì, perché l’ha scritta un Cardinale: JorgeMario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, enon è affatto usuale che un cardinale-arcivescovosi occupi di terrorismo aereo e sicurezza, sotto ilduplice aspetto di safety e security. E questo, pri-ma ancora di aprire le pagine del libro, porta a par-lare dell’autore. È uno dei casi in cui conoscerel’autore serve a comprendere meglio il libro. AldoCagnoli è una figura poliedrica, con tanti interessiin settori magari separati, ma che tuttavia riesce acollegare l’un l’altro in una logica di servizio. Servizio verso il prossimo. Innanzi tutto è un pilo-ta, Primo ufficiale sui velivoli wide-body Boeing777, i più grandi e più moderni della nostra com-pagnia di bandiera, dove vola sulle rotte transcon-tinentali. Ha al suo attivo circa 11mila ore di volo,esperienza che, se in Alitalia le carriere dopo i no-ti eventi non fossero di fatto bloccate, lo vedrebbegià da tempo in posizione di comandante respon-sabile. Non essendo stato pilota militare – ha perògirato il mondo come ufficiale di Marina – ha do-vuto brevettarsi pilota civile per proprio conto, fre-quentando negli Stati Uniti scuole di pilotaggio spe-cializzate. Rientrato in Italia ha potuto convertire ibrevetti e svolgere attività di lavoro aereo – tra cuiquello delicato e pericoloso di pilota antincendi –prima di approdare alle code tricolori. È laureatoin sociologia e, come giornalista pubblicista, col-labora non solo a rubriche professionali aeronauti-che (sicurezza del volo), ma anche ad attività di ca-rattere più specificatamente sociale. È in questa ve-ste che, collaborando con l’associazione Onlus«Bimbi con il sorriso» – cui vanno peraltro i pro-venti di questo libro – ha conosciuto il cardinaleBergoglio, con il quale è stato promotore di un am-bulatorio medico nel degradato quartiere di Barra-

cas, a Buenos Aires. Ora è più facile parlare del li-bro, e comprendere perché l’approccio non è sola-mente tecnico – come ci si aspetterebbe da un ad-detto ai lavori – ma assolutamente multidisciplina-re. Questo carattere viene pienamente centrato nel-la prefazione del cardinale, quando dice che «(…)per i suoi molteplici aspetti il libro si esprime in ungenere letterario allo stesso tempo tecnico, giuridi-co ed umanistico». In altre parole, lo spartiacquestorico dell’11 settembre viene esaminato e valu-tato alla luce di tutte queste peculiari prospettivedi osservazione. Di particolare interesse – e il let-tore se ne accorgerà strada facendo – è lo sforzoche l’autore fa per entrare nello stato psicologicodi chi si vota all’attentato terroristico suicida. Lateoria del «pensiero unico» che ad un certo momen-to pervade la mente di questi aspiranti terroristi –non sono capaci di pensare ad altro che all’ora ra-diosa del «martirio» – costituisce senza dubbio unodegli aspetti più originali del libro. La struttura del lavoro è articolata in quattro capi-toli che, partendo dalle nuove frontiere del terrori-smo aereo, esaminano il fenomeno di quello suici-da, il quadro giuridico internazionale e la normati-va, danno una visione anche tecnica degli eventidell’11 settembre 2001 e forniscono, infine, unapanoramica di quelle che sono le nuove forme diprevenzione, in atto o allo studio. Interessante an-che l’appendice, dove si forniscono al lettore alcu-ne testimonianze dirette sull’attentato, una crono-logia dei dirottamenti aerei nella storia recente, eduna serie di interviste che raccolgono i pareri di va-ri esperti del settore aeronautico sulle varie proble-matiche connesse al terrorismo aereo. Di non se-condario interesse tutta una serie di fotografie, al-cune delle quali scattate dall’autore, che l’11 set-tembre «c’era» e ne ha subìto in prima persona leconseguenze operative.Nel primo capitolo, che tratta del terrorismo suici-da, escono in pieno la passione di Cagnoli per lescienze sociologiche e la sua competenza in mate-ria. Sono un’ottantina di pagine, che nel contesto

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del libro rappresentano quasi un ma-nuale a se stante, sebbene i concettiriemergano continuamente – e, trat-tandosi della psicologia del suicidioterroristico, non potrebbe essere di-versamente – in ciascuno dei quattrocapitoli. Vengono esaminate le basisociologiche e psicologiche di que-sto tipo di suicidio, se ne fissa unasorta di percorso storico, che partedalle origini scintoiste dell’atteggia-mento dei kamikaze giapponesi del-la seconda guerra mondiale e se nespiega la profonda differenza con lemotivazioni che invece spingono al-l’azione gli odierni terroristi islami-ci. Il solo elemento unificante è quel-la sorta di pensiero unico – cui abbia-mo già fatto cenno – visto come unaprogressiva canalizzazione mentaleverso una strada a senso unico che ilpiù delle volte è senza ritorno. Il se-condo capitolo, una ventina di pagi-ne, affronta l’argomento della norma-tiva internazionale contro il terrori-smo, che può consentire l’elaborazio-ne di regole e stili di comportamen-to, ma può solo rendere il fenomenomeno probabile. Il succo del discor-so è che la prevenzione si può fare so-lo a terra, impedendo al terrorista disalire a bordo. Se invece ci riesce, tut-to si complica e la reazione diventafunzione di singoli comportamenti,direttive di compagnia o casualità del-l’evento. In questo contesto, quindi,anche la pratica della presenza dei co-sì detti «sceriffi di bordo» è normal-mente vista con un alto grado di ne-gatività dai comandanti e dal perso-nale navigante. Si legge che nessundirottamento è mai accaduto a veli-

voli in decollo da Israele, dove i si-stemi di sicurezza a terra sono consi-derati decisamente i più efficienti. Ilterzo capitolo parla di qualcosa cheil pubblico, per la rilevanza data a suotempo dai media, ormai dovrebbe co-noscere bene: la dinamica dell’atten-tato dll’11 settembre, la cronologiadegli eventi, l’addestramento degli at-tentatori, il discusso rapporto finaledella Commissione di inchiesta. Si faanche cenno ad alcune ipotesi nega-zioniste ancora in circolazione, la cuielaborazione e sopravvivenza, tutta-via, non può che essere legata a fat-tori ideologici. Nel quarto ed ultimocapitolo, infine, si fa un rapido excur-sus sulle nuove forme di prevenzio-ne, sulla sicurezza aeroportuale, sulProgramma nazionale di sicurezza esulle tecniche di analisi del rischio abordo degli aeromobili.In conclusione, il pregevole lavoro diAldo Cagnoli è senz’altro molto edu-cativo, sufficientemente analitico perfarci capire, ma non così tanto da far-ci tediare e, sopra tutto, ci tranquil-lizza almeno un po’. Ma solo per ilmomento e non del tutto, perché il di-scorso del perpetuo inseguimento trala lancia e lo scudo, per quanto si pro-gredisca, resta sempre valido. Emer-gono poi due importanti verità. Laprima: l’iniziativa e la fantasia, assie-me al fattore sorpresa, per quanto cisi ingegni nella prevenzione giocanoancora a favore del terrorista. La se-conda: la sicurezza costa e, sopra tut-to in tempo di crisi, il profitto - chepure è necessario per sopravvivere ecompetere – è potenzialmente uno deisuoi più grandi nemici.

ALDO CAGNOLI

Terrorismo aereo e prevenzione

Edizioni Progetto Cultura (COLLANA QUADERNI DI RICERCA)pagine 226 • euro 15

Il libro è nella categoriamultidisciplinare, molto diffusanella cultura angloamericana, epurtroppo un po’ meno da noi.Un pilota con una laurea insociologia può infatti aprire portealla conoscenza precluse ad altricosiddetti tecnici puri. Il testodedicato all’analisi dellepremesse, dei particolari e delleconseguenze dell’attentato cheha di fatto cambiato la nostraconcezione della sicurezza deltrasporto aereo. La novità dellibro su di un evento sui cui si èscritto di tutto e di più è che ilpilota Cagnoli analizza le fasisalienti alla luce della suaesperienza diretta di pilota digiganti dell’aria, il sociologoCagnoli studia il substratopsicologico, religioso, politico esociale col rigore dello studiosospecializzato, il giornalistaCagnoli offre una ricostruzioneaffascinante, coinvolgente ericca di particolari. Il tutto conuna scrittura godibilissima,secca e asciutta, che lasciaintuire la decisione e la capacitàdell’uomo abituato a manovrarecon naturalezza macchinecomplicate, prendendo in pochemanciate di secondi decisionidalle quali può dipendere la vitadi centinaia di persone.Partendo dalle definizioni socio-psicologiche della mistica delsuicidio e dal precedente storicodei kamikaze giapponesi e conun competente accenno allenormative internazionali inmateria di terrorismo, l’autore ciconduce fino ad una attentaanalisi delle nuove forme diprevenzione e di analisi delrischio a bordo degli aeromobili.

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del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa

PEJMAN ABDOLHAMMADI: docente di Storia e Istituzioni dei paesi islamici presso l’Università di Genova

VINCENZO CAMPORINI: generale, già capo di stato maggiore della Difesa

GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali nell’area Sicurezza e Difesa

VALÉRIE MIRANDA: assistente alla ricerca presso l’Istituto Affari Internazionali

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

LAURA QUADARELLA: dottore di ricerca in Diritto internazionale e autore di una monografia e numerosi articoli sul terrorismo internazionale

NATALINO RONZITTI: docente di Diritto internazionale presso l’Università Luiss di Roma e consigliere scientifico presso lo Iai

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registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

numero 67anno XIIIeuro 10,00

Mario Arpino

Pejman Abdolhammadi

Vincenzo Camporini

Pierre Chiartano

Giancristiano Desiderio

Maria Egizia Gattamorta

Riccardo Gefter Wondrich

Virgilio Ilari

Alessandro Marrone

Valerìe Miranda

Andrea Nativi

Laura Quadarella

Natalino Ronzitti RIS

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GIO

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Sconfiggere i pirati? Basta volerloCome vincere una guerra mai dichiarata

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All’arrembaggio di conti e profitti Quanto costano gli assalti al commercio e agli Stati

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La storia ci insegnacome affrontarliInventario delle strategie del passato

VIRGILIO ILARI

Criminali alla sbarraTrattati, norme e giurisdizioni.Ma arrestarli è possibile

NATALINO RONZITTI

Difesa intelligente e anticrisiVincenzo Camporini

Mistica e tecnica del terrore alla cloche Mario Arpino

ACQUE PERICOLOSEACQUE PERICOLOSE

CONTINUANO GLI ABBORDAGGI, LE NAVI CATTURATE E I RISCATTI. DOVE SBAGLIAMO?

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