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La russia di Putin

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quaderni di geostrategiaS O M M A R I O

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EditoreFiladelfia,

società cooperativa di giornalisti,via della Panetteria, 10/-1

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Redazione via della Panetteria, 10/-1

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AmministrazioneCinzia Rotondi

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DIRETTOREMichele Nones

REDATTOREPierre Chiartano

COMITATO SCIENTIFICOFerdinando Adornato

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Vincenzo CamporiniAmedeo Caporaletti

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J. Smith, Gattamorta, GefterWondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA

N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi

di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

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• DOSSIER •

L’orso a due teste Carlo Jean

Vladimir e le illusioni dell’OccidenteGennaro Malgieri

Il piccolo Cesare del grande VolgaEnrico Singer

La scomparsa dei russiNicholas Eberstadt

Il tubo di Gazprom e l’EuropaNiccolò Sartori

Il Cremlino (per ora) non fa pauraAndra Nativi

La difesa dimezzataAlessandro Marrone

pagine 5/47

• Editoriali •

Michele NonesStranamore

pagine 48/49

• SCENARI •

Modello KosovoRossella Fabiani

Passaggio di potere a HeratPierre Chiartano

pagine 50/63

• SCACCHIERE •

EuropaAlessandro Marrone

AmericheRiccardo Gefter Wondrich

AfricaMaria Egizia Gattamorta

pagine 64/67

• LA STORIA •

Virgilio Ilari

pagine 68/73

• LIBRERIA •

Giancristiano DesiderioMario Arpinopagine 74/79

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LA RUSSIA DI PUTIN III

Vladimir Putin è diventato per la terzavolta presidente. Quello che èsuccesso nelle ultime settimane non èaltro che l’applicazione di un pianostudiato a tavolino: mantenere il potereil più a lungo possibile. Con laprospettiva della presidenza di seianni che è appena cominciata e conquella di ricandidarsi nel 2018, Putinpotrebbe rimanere in sella addiritturafino al 2024. Quello di Putin è però ilritorno di uno zar dimezzato. Non èpiù la Russia della prima volta, quantoVolodja aveva preso le redine di unpaese disastrato e ormai senza piùuna guida. E neanche il paese delboom economico quando lasciò lapresidenza. Oggi c’è un’opposizioneche si fa sentire e una nazione inpiena crisi demografica, che prima osi inciderà sulle prospettive di futurodel paese. E anche sulla sicurezza.Putin si appresta a governare unaRussia ricca di materie prime, ma povera di risorse umane, coninfrastrutture obsolete e unprogramma di modernizzazione chedeve ancora partire. Uno stato cherischia di diventare un grande bucogeopolitico di cui tutti ci dovremopreoccupare in futuro.Internazionalmente la Russia è isolata.Lo si è visto nel dibattito al Consigliodi sicurezza sulla condanna dellarepressione in Siria. Lo è molto piùdella Cina, la cui crescita costituisceun modello che molti Stati in via disviluppo vogliono seguire. Granderilevanza sul futuro della Russia edella sua politica estera avrà invece larottura degli equilibri al Cremlino fra isiloviki e i civiliki. Finora, Putin erariuscito a non fare prevalere unafazione sull’altra. In tal modo sirendeva indispensabile. Anche sulfronte del risiko energetico la Russia èfonte di preoccupazioni. La recenteriduzione degli approvvigionamenti digas naturale russo verso l’Europa hariportato alla luce l’annoso dibattitosulla dipendenza energetica europeada Mosca e sui presunti tentativi delCremlino di approfittare del potereenergetico per ricattare politicamenteed economicamente il vicinooccidentale. Dal 2006 ad oggi, causale ricorrenti dispute con i paesi ditransito – Ucraina e Bielorussia inprimis – e le difficoltà di Gazprom nelsoddisfare contemporaneamentedomanda interna e contratti difornitura internazionali, l’affidabilitàdella partnership energetica con laRussia è stata oggetto di numeroseriflessioni, tanto in ambito europeoquanto a livello nazionale.

Ne scrivono: Eberstadt, Jean, Malgieri, Marrone, Nativi, Sartori e Singer

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e, dopo la fine della guerra fredda, dalla convinzio-ne di essere stata ingiustamente trattata dagli StatiUniti (allargamenti Nato e Ue, rivoluzioni colorate,difesa antimissili, Kosovo, Libia, Siria, ecc.). Ilreset con gli Usa non è stato dapprima consideratol’inizio di un’epoca di collaborazione, ma quasi unatto dovuto, formalmente riparatore dei torti subiti.Successivamente, è stato ritenuto un ulteriore tradi-mento, poiché la politica Usa nei confronti dellaRussia non è sostanzialmente cambiata. Anche lavariegata opposizione al potere del Cremlino –composta da liberali e comunisti, da modernizzato-ri e conservatori – non ha programmi né comuni néprecisi. Domina il sospetto che i contatti con glioppositori del regime da parte del nuovo dinamicoambasciatore americano a Mosca, MichaelMcFaul, abbiano il solo scopo di creare difficoltà ai“padroni” del Cremlino e di indebolire la Russia.Come McFaul ha potuto accertare, anche negli ele-menti più europeizzati domina non solo l’ammira-zione per il sistema occidentale, ma anche il risen-timento di non essere adeguatamente considerati edi essere esclusi dal governo del mondo.

Anche se Vladimir Putin non fosse stato rielettopresidente, con oltre il 60 per cento dei voti, gliobiettivi e i toni della politica estera di Mosca nonsarebbero comunque mutati. La Russia intenderidiventare una grande potenza. Vuole contare nelmondo. Pensa di averne diritto.Lo si è visto nel dibattito al Consiglio di sicurezzasulla condanna della repressione in Siria. Lo è mol-to più della Cina, la cui crescita costituisce un mo-dello che molti Stati in via di sviluppo vogliono se-guire. Pechino è poi molto più cauta. È una giova-ne potenza in ascesa, non una dama decadente co-me la Russia. Almeno dichiaratamente, non vuoledominare la scena mondiale, anche se sta ricoloniz-zando l’Africa e, in parte, l’America del Sud. Lasciache sia Mosca ad occupare il palcoscenico e a pren-dersi le rimostranze e le condanne dell’Occidente.Nel caso siriano si sono aggiunte quelle dei paesiarabi. Sarà interessante vedere le reazioni al manca-to sostegno degli insorti in Siria, da parte delle mi-noranze islamiche, soprattutto in Tatarstan. Sonosunnite ed influenzate dall’Arabia Saudita. Nelle di-mostrazioni di Mosca del 4 febbraio, taluni manife-

UN NUOVO NAZIONALISMO SI FA STRADA TRA EUROPA ED ASIA

L’ORSO A DUE TESTEDI CARLO JEAN

a politica estera di ogni paese è influenzata soprattutto da quella inter-na. Esistono però costanti dettate dalla geografia e dalla storia. Esse de-terminano - prima che gli interessi - le percezioni e i fondamenti cultu-rali della politica estera. Quella del popolo russo è dominata dai ricordidelle ripetute e terribili aggressioni, dal sospetto di ingerenze straniere

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stanti inalberavano cartelli inneggianti alla rivoltasiriana. Anche per tale motivo, Putin ha dichiaratoche non si verificherà un «primavera russa», nono-stante gli sforzi effettuati dall’Occidente di desta-bilizzare il paese con la scusa di democratizzarlo.Un fatto nuovo – rilevante anche sotto il profilo geo-politico – sono state le dimostrazioni anti-Putin, ilquale però continua a godere di un’ampia popola-rità. Ha certamente salvato la Russia. Ma ora chel’ha fatto, molti russi sono persuasi di non avere piùbisogno di eroi, “salvatori della patria”. Penso chele dimostrazioni siano state sopravvalutate dai me-dia occidentali. Non hanno nulla a che fare con le“rivoluzioni colorate”, anche se Putin ha accenna-to al pericolo che i social network rappresentanoper la stessa stabilità del paese. Grande rilevanzasul futuro della Russia e della sua politica esteraavrà invece la rottura degli equilibri al Cremlino fra

i siloviki e i civiliki. Finora, Putin era riuscito nonfare prevalere una fazione sull’altra. In tal modo sirendeva indispensabile. Solo lui poteva mediare frale due fazioni. La questione è di fondo. I silovikidominano il settore energetico e l’industria pesan-te. Danno priorità all’ordine e allo sviluppo a bre-ve termine, mentre i secondi pensano maggiormen-te al lungo termine, alla modernizzazione e riformadell’economia e, almeno in parte, ad una parziale ecauta liberalizzazione del sistema politico. Con labrillante gestione della crisi finanziaria del 2008,sembrava che prevalessero i secondi, guidati da Ku-drin e Surkov. Oggi, il baricentro del potere sem-bra essersi spostato a favore dei primi. Il ministrodelle finanze Kudrin si è dimesso e ha partecipatoalle dimostrazioni anti-Putin di Mosca. Surkov –capo si stato maggiore del Cremlino e ideologo del-la «democrazia guidata» e della «verticale del po-tere», basi del sistema putiniano – è stato solleva-to dal suo importante incarico e privato di gran par-te dei suoi poteri. Putin vuole la stabilità e l’ordi-ne, ma anche la modernizzazione della Russia. Èpreoccupato per la crisi demografica e per la cre-scita del pericolo islamista a sud e di quello cine-se ad est. Non vuole che la Russia si trasformi inun «petrostato», dipendente dalla rendita petrolife-ra; quindi dai prezzi del petrolio e del gas, troppodipendenti dall’andamento dell’economia mondia-le. Se così fosse, non potrebbe tornare a essere unagrande potenza; forse neppure a livello regionale.In caso di crisi, le sue periferie occidentali subireb-bero l’attrazione dell’Europa e quelle orientali del-la Cina, la cui influenza è in crescita anche in AsiaCentrale. Il ritiro occidentale dall’Afghanistan ac-crescerà la pressione islamista non solo in Asia Cen-trale e nel Caucaso del Nord, ma anche in altre re-gioni con forti minoranze islamiche, soprattutto nelTatarstan, cruciale per il collegamento della Rus-sia europea con la Siberia. In esso, parte della clas-se dirigente si è formata in Arabia Saudita e man-tiene stretti contatti con l’Islam radicale. In otto-bre, Putin ha lanciato il progetto dell’Unione eura-

Mosca mira a dividerel’Europa sia dagli Usa che al suo interno. Cerca di utilizzare il vero reset,quello con la Germania,associandola il più possibilealla sua politica, sia esterasia di modernizzazione del paese. Le manifestazioniantitedesche per l’indisponibilità dellaGermania di firmare una cambiale in bianco per coprire i debiti degli “stati cicala”, finiranno per rafforzare i legami fra Berlino e Mosca

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siatica, di cui dovrebbero far parte, oltre alla Bie-lorussia e al Kazakistan, anche il Tagikistan e ilKirghizistan. Successivamente, potrebbero dive-nirne membri anche altre repubbliche ex-sovieti-che, in particolare l’Ucraina, sempre in bilico fral’Europa e la Russia. Putin ha conseguito grossisuccessi con il nuovo presidente Yanukovich: nel-la costituzione ucraina è stata inserita una clauso-la che le impedisce di far parte della Nato; inoltre,l’affitto russo della base di Sebastopoli è stato pro-lungato fino al 2042. Ma finora a Mosca non è riuscita la mossa decisi-va: quella di prendere il controllo della rete dei ga-sdotti ucraini, attraverso cui passa una consistenteentità del gas naturale fornito all’Europa. Le royal-ty di tale rete non solo permettono all’Ucraina con-sistenti introiti, ma sono un simbolo della stessasovranità del paese. L’equilibrio che Kiev ha cer-cato di mantenere fra Mosca e Bruxelles potrebbeessere però spezzato a favore di Mosca per tre mo-tivi. Primo: l’Ucraina non è in condizioni di ap-provvigionarsi del gas russo se non a prezzi ridot-ti rispetto a quelli del mercato mondiale. Secondo:l’entrata in funzione dei due grandi gasdotti sotto-marini del Baltico (North Stream) e del Mar Nero(Southstream), toglieranno a Kiev parte del suo po-tere negoziale con Gazprom. Terzo: la crisi del-l’Unione Europea ha indebolito l’attrazione del-l’Europa e l’influenza della cosiddetta Eastern di-mension dell’Ue, sostenuta soprattutto dalla Polo-nia e dalla Svezia per evitare che la Federazionerussa – inglobando nell’Unione Eurasiatica la Bie-lorussia, la Moldavia e l’Ucraina – espanda la suainfluenza ad Ovest, fino ai confini orientali del-l’Unione. Kiev ha finora resistito alle pressioni diMosca: non fa, ad esempio, parte della Csto (Col-lective security treaty organization), cioè di quel-la specie di Nato eurasiatica che Mosca cerca, inogni modo, di consolidare anche con l’Unione Eu-rasiatica. Il progetto dell’Unione eurasiatica rap-presenta un’espansione dello «Spazio economicocomune» fra Russia, Bielorussia e Kazakhstan. Do-

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vrebbe dar vita non solo ad un’area di libero scam-bio, ma assumerebbe talune connotazioni sovrana-zionali, in parte mutuate dall’Unione europea. Mi-ra a integrare attorno a Mosca, quanto più possibi-le dello spazio ex-sovietico. Taluni sospettano chePutin cerchi di ricostruire l’Urss. Ma realista comeè, penso che il suo intento non sia quello. Cerca diaumentare il peso di Mosca nel mercato mondialedell’energia. L’Unione eurasiatica risponde anchealla percezione delle esigenze di sicurezza, sia aOvest che a Sud. Certamente, Putin non vuole ca-ricare sulle spalle dei russi il peso dell’impero. Ilsuo costo è stato uno dei motivi del collasso del-l’Urss. Benché definisca la scomparsa di quest’ul-tima la più grande tragedia geopolitica della storia,sa bene che l’economia ha oggi occupato parte de-gli spazi della politica e che, nel mondo globaliz-zato dei flussi, l’influenza ha sostituito la conqui-sta. Vuole esercitare il controllo su quello che defi-nisce l’«estero vicino». Intende impedire che l’Oc-cidente estenda la propria influenza e presenza nel-lo spazio ex-sovietico.

La grande strategiaLa politica della Russia è determinata non solo dal-la sua immensità e diversità, ma anche dalla vulne-rabilità del suo nucleo centrale, il Granducato diMosca. Esso è privo di frontiere naturali a Ovest,se non sui Carpazi, e condizionato dal ricordo diterribili invasioni: le mongole da Est; le ottomaneda Sud e, da Ovest quelle dei cavalieri teutonici, deipolacco-lituani, degli svedesi, di Napoleone e del-la Germania nella prima e nella seconda guerra mon-diale. A fronte dell’assenza di barriere naturali, laRussia deve ricercare la sua difesa nell’estensionedello spazio, con la creazione di una fascia-cusci-netto quanto più profonda possibile, volta a proteg-gere Mosca con una strategia di logoramento basa-ta sulla cessione dello spazio. Tale strategia ha avu-to successo con Napoleone e con Hitler ed è pro-fondamente radicata nella cultura strategica russa.La perdita della fascia cuscinetto, a seguito del col-

lasso dell’Urss, e dell’allargamento della Nato, de-termina la «grande strategia» odierna di Mosca, do-po che si è ripresa con Putin dai disastri del periodoeltsiniano. Non dipende più finanziariamente dal-l’Occidente. Anzi, con il suo fondo sovrano di ric-chezza, le sue grandi banche e le maggiori imprese,controllate dallo Stato tramite i siloviki e gli oligar-chi amici di Putin sta acquistando taluni dei gioiel-li tecnologici ed industriali dell’Occidente. Cercacosì di condizionarlo, approfittando anche della de-bolezza dell’Europa determinata dalle sue divisio-ni, dalla sua bassa crescita e dalla crisi dell’euro. Mi-ra a ristabilire la sua influenza sui territori che face-vano parte dell’Impero zarista prima e sovietico, poi.Per realizzare tale obiettivo, Mosca sta rovesciandoil ripiegamento degli anni Novanta, conclusosi conla perdita dei paesi satelliti dell’Europa centro-orien-tale e dei Paesi Baltici. È passata dall’offensiva perripristinare, almeno in parte, le posizioni perdute.Mira a dividere l’Europa sia dagli Usa che al suo in-terno. Cerca di utilizzare il vero reset, quello con laGermania, associandola il più possibile alla sua po-litica sia estera sia di modernizzazione del paese. Lemanifestazioni antitedesche, per l’indisponibilità del-la Germania (a parer mio del tutto comprensibile) difirmare una cambiale in bianco per coprire i debitidegli «stati cicala», finiranno per rafforzare i lega-mi fra Berlino e Mosca. A tale logica si ispira la «dottrina Medvedev» dellasicurezza nazionale russa, anticipata nel settembre2008, dopo la «guerra dei cinque giorni» in Geor-gia, e riformulata nel febbraio 2010. Essa prevedeche Mosca intervenga anche in caso di minacce con-tro le minoranze russe nelle Repubbliche ex-sovie-tiche, dal Caucaso agli Stati Baltici e all’Asia Cen-trale. Nel 2008, tale concetto aveva ispirato l’appog-gio russo alla secessione dell’Ossezia del Sud e del-l’Abkazia e, in senso più generale, la ripresa dellapolitica connaturata con l’ideologia stessa dell’Im-pero zarista: l’appoggio ai popoli slavi e a quelli or-todossi, motivato anche dall’influenza politica delPatriarcato di Mosca e dalle sue ambizioni univer-

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sali. Essi ne fanno uno dei pilastri del patriottismorusso. Creano il “mito” di Mosca come «Terza Ro-ma», erede della missione universale romana e bi-zantina. Necessità strategiche e convinzione di es-sere destinata ad un ruolo storico mondiale ispiranola politica estera di Mosca anche dopo che il pesodell’Impero è divenuto insostenibile e che la Russiatende a trasformarsi in uno Stato-nazionale. La suatraiettoria è per molti versi analoga a quella dellaTurchia, dopo la sconfitta dell’impero ottomano nel-la prima guerra mondiale. Con una grande eccezio-ne però. Mentre la Turchia è facilmente difendibile,la Russia è vulnerabile. Nel suo dna – come accen-nato – esiste la preoccupazione per la sua vulnera-bilità e il sospetto che il «rapace» Occidente e la Ci-na si propongano di impadronirsi delle ricchezze na-turali russe. Il “ritorno” russo in Asia Centrale è evi-denziato anche dal progetto di canale navigabile trail Mar d’Azov, il Caspio e il Lago Aral, fortementevoluto da Putin. In tal modo, l’Asia Centrale verreb-be collegata al Mediterraneo attraverso il territoriorusso. Mosca consoliderebbe così la propria influen-za sull’intera regione, contrapponendosi, in partico-lare, all’attrazione esercitata dalla Cina ed anche a

quella dell’Islam. Molti russi continuano ad essereaffascinati dal ricordo dell’impero. La Russia non èmai stata uno Stato-nazione. È stata da secoli un im-pero, determinato dai progressivi allargamenti delGranducato di Mosca. Per questo, anche se la suacultura è europea, non potrà mai volere entrare a fa-re parte dell’Ue, dove si troverebbe in condizioniformalmente paritarie con gli altri stati dell’Unione.Potrebbe però far parte di «un concerto delle gran-di potenze europee». La prima soluzione, compor-terebbe la sua rinuncia a parte della propria sovra-nità e l’accettazione di essere messa allo stesso li-vello di piccole regioni del suo vecchio impero, co-me gli stati baltici. La seconda, implicita nella pro-posta di Medvedev di uno spazio paneuropeo di si-curezza, è dimostrazione di come la Russia non sisenta europea, ma cerchi di esserlo, anche con ungrandioso programma di liberalizzazione, di moder-nizzazione, che si accompagna ad un grandioso sfor-zo per ricostruire il complesso militare-industriale.Nell’Urss, esso costituiva quasi uno stato nello sta-to e godeva di enormi privilegi. L’attuale Cremlinonon intende però esserne condizionato. Ciò dà ra-gione anche delle critiche che rivolge ai responsa-bili delle industrie militari, dalle polemiche sull’ef-ficienza ed il costo del nuovo carro armato T-90 –accusato di essere una semplice copia leggermentemigliorata del T-72 – e dell’acquisto dalla Franciadelle navi anfibie Mistral, accompagnato dalla so-stituzione di parte dei dirigenti dei cantieri russi, in-capaci di costruire navi altrettanto moderne.

Le teorie dominanti Da tre secoli, la Russia appartiene alla storia del-l’Europa e la sua classe dirigente possiede una cul-tura europea. Tuttavia, le sue peculiarità e le sue stes-se dimensioni e storia, ne rendono impraticabile l’in-tegrazione politica con l’Europa, pur non impeden-do collaborazioni economiche ed anche politico-stra-tegiche. La Russia si considera diversa dall’Europa.Lo dimostrano le dichiarazioni di Putin nell’ottobre2011, all’atto della sua proposta di Unione eurasia-

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La «dottrina Medvedev» della sicurezza nazionalerussa, anticipata nel settembre 2008, dopo la «guerra dei cinque giorni»in Georgia, e riformulatanel febbraio 2010, prevedeche Mosca intervenga anchein caso di minacce contro le minoranze russe nelleRepubbliche ex-sovietiche,dal Caucaso agli Stati balticie all’Asia centrale

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tica. Egli ha sottolineato la specificità dell’identitàdella Russia ed anche il suo ruolo di ponte fra l’Eu-ropa e l’Asia, rappresentato dall’aquila a doppia te-sta – una che guarda ad Ovest; l’altra ad Est – dellabandiera della Russia imperiale. Geografia, storia edanche la religione ortodossa, determinano le tre gran-di tendenze esistenti nei numerosi centri geopoliti-ci esistenti in Russia. Essi hanno conosciuto un ve-ro revival dopo il collasso dell’Urss e le «umiliazio-ni degli anni Novanta», quando la Russia si è trova-ta nella necessità di ripensare non solo il proprio fu-turo, ma anche la sua stessa identità. L’importanzaattribuita alla disciplina è messa in evidenza anchedall’esistenza di un Centro di studi geopolitici nel-l’ambito della Duma Federale. Tre sono le principa-li dottrine geopolitiche diffuse in Russia: l’europei-sta, la nazioalista e l’eurasista. La corrente degli eu-ropeisti, dominante con Pietro il Grande, era parsariaffermarsi nell’era Eltsin, soprattutto nella regio-ne di S. Pietroburgo, storicamente più integrata conl’Occidente sia germanico che scandinavo. Tra i col-laboratori del liberale sindaco di questa città, Ana-tolij Sobchak, figuravano, oltre a Putin, molti espo-nenti dei civiliki. Essi ritengono che l’unica speran-za non solo di sviluppo, ma anche di sopravvivenzadella Russia, di fronte alla pressione islamica a Sude cinese ad Est, consista in un accordo strategico conl’Occidente e, addirittura, in una sempre più strettacollaborazione con l’Occidente e le sue grandi isti-tuzioni: l’Unione europea e l’Alleanza atlantica. Glieuropeisti hanno salutato con entusiasmo l’ammis-sione della Russia al G-7, trasformatosi così in G-8,ma che ha però perduto gran parte della sua impor-tanza a favore del G-20. Nella loro ottica, solo col-laborando con l’Occidente, la Russia potrà moder-nizzarsi e sopravvivere in un mondo il cui baricen-tro sta spostandosi da ovest ad est e, in parte, da norda sud. La difficoltà principale che devono affronta-re i filo-europeisti è che la Russia dovrebbe rinun-ciare ad essere una grande potenza mondiale, accet-tando di fatto una diminuzione di rango ed una con-trazione di sovranità. Sembra che tale tendenza geo-

politica all’europeizzazione sia stata perseguita dalpresidente Medvedev con i suoi accordi con la Ger-mania (ed anche da Putin con l’Italia di Berlusconi).Tale tendenza geopolitica si avverte anche nella pro-posta di Medvedev di un sistema di sicurezza comu-ne paneuropeo basato su tre poli: la Russia, l’Ue egli Usa. La proposta Medvedev, che riprende quel-la della «Casa comune europea» di Gorbaciov, pre-occupa grandemente i paesi del’Europa centro-orien-tale. Essi ricordano che cosa abbiano significato perloro le intese tra la Russia e la Germania, da Taurog-gen a Rapallo, per culminare con il patto Molotov-Ribbentrop. Taluni sospettano che questo progettomiri soprattutto a ridurre la presenza e l’impegno de-gli Usa in Europa e, come by product, anche a ridur-re il livello dell’integrazione europea, di cui gli Usarimangono ancora i veri garanti e che rischia di es-sere distrutta dalla posizione egemonica che inevi-tabilmente assumerebbe in Europa la Germania. Que-st’ultima è oggi troppo grande per l’Europa e trop-po piccola per il mondo. Una stretta collaborazionecon la Russia fornirebbe, però, a Berlino le risorse,se non per muovere nuovamente all’«assalto del po-tere mondiale» – tentazione da cui è stata vaccinatadalle due guerre mondiali – almeno quelle per com-

Putin vuole la stabilità e l’ordine, ma anche la modernizzazione. È preoccupato per la crisidemografica e per la crescita del pericolo islamista a sud e di quellocinese ad est. Non vuoleche la Russia si trasformi in un «petrostato», dipendente dalla rendita del greggio

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petere con gli altri «stati-continente», che do-mineranno il nuovo ordine mondiale. Stretta-mente collegato all’ortodossia è il panslavi-smo, di cui si ritrova una versione alquanto an-nacquata nella dottrina Medvedev circa il di-ritto-dovere di Mosca di intervenire ovunquein appoggio delle minoranze russe che sianominacciate. L’Occidente cattolico e protestan-te viene considerato una minaccia ed è conti-nuamente sospettato di complotti volti ad in-debolire l’identità ed il rango della Russia. Que-sta visione delle cose non è necessariamenteimperialista, ma comporta la convinzione del-la necessità di una fascia cuscinetto, limes pro-fondo a protezione della Terza Roma. Tale dot-trina geopolitica prevale attualmente nella po-litica estera della Russia. Essa è ben consape-vole che le sue frenetiche iniziative anche inAmerica Latina e in Medio Oriente non ven-gono prese sul serio dal resto del mondo e chela «finestra di opportunità determinata dall’in-sabbiamento delle forze terrestri americane inIraq e in Afghanistan potrebbe chiudersi in tem-pi anche brevi». L’orgoglio nazionale – che co-stituisce un aspetto distintivo e, a parer mio,anche invidiabile della Russia – come il ricor-do della vittoria nella «grande guerra patriot-tica» contro l’invasione nazista – costituisco-no le basi di molti atteggiamenti russi. Lo so-no stati, ad esempio, nel recente caso del vetorusso al Consiglio di sicurezza sulla condannadella sanguinosa repressione da parte del regi-me di Damasco della rivolta sunnita e nella pro-posta russa di negoziati fra Assad e i suoi op-positori. È stata una mossa azzardata. A parermio, Mosca ha puntato sul “cavallo perdente”.Le ripetute affermazioni che nella rivolta siria-na, starebbe prosperando al-Qaeda, aumenta-no la probabilità di un intervento Usa. Ma èstato anche un gesto di orgoglio, che afferma-va di fronte al mondo l’indisponibilità di Mo-sca di accettare che gli Usa mantenessero

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l’esclusiva delle iniziative diplomatiche mondiali.Per altri versi, l’invio dell’unica portaerei della Ma-rina russa nel porto siriano di Tartus – unica base chepossiede all’estero – ricorda nella sostanza la minac-cia di schierare i missili Iskander nella regione diKalingrad – in caso di attuazione dei programmi Na-to di difesa antimissili – oppure di impedire i rifor-nimenti attraverso il territorio russo delle forze inAfghanistan. L’aspetto più paradossale di quest’ul-tima minaccia sta nel fatto che la Nato difende inquel paese anche – e, forse soprattutto – la Russia,minacciata dal dilagare dell’islamismo. L’annunciodell’accelerazione del ritiro Usa è stata accolta consoddisfazione in Occidente, ma con preoccupazio-ne a Mosca!

La terza corrente geopoliticaLa terza corrente geopolitica, presente in Russia, èquella eurasista. Radicata nella cultura russa fin daltestamento apocrifo di Pietro il Grande, essa haispirato la cosiddetta «dimensione continentale»della politica estera russa, secondo cui la Russiadeve mettersi a capo di un blocco continentale co-stituito dall’Eurasia per contrastare l’egemonia del-le potenze marittime. Questa teoria ha diverse formulazioni: talune sonopiù aggressive e imperialiste; altre, oggi prevalen-ti, più moderate. Il momento di maggiore fortunadella corrente eurasista si è registrato quando era alpotere a Mosca uno dei suoi principali fautori, ilpremier e ministro degli esteri Primakov. Secondogli eurasisti moderati, il «blocco eurasiatico» devefondarsi su accordi cooperativi di tipo volontaristi-co, di cui è espressione la Shanghai cooperation or-ganization (Sco). Copresieduta da Mosca e da Pe-chino, ne fanno parte quattro della cinque repubbli-che centroasiatiche. Inoltre, vi hanno uno status diosservatori l’India, l’Iran, la Mongolia ed il Paki-stan. La Sco ha promosso la soluzione di conten-ziosi territoriali con la Cina in Asia Centrale e in Si-beria Orientale, ma non è una vera e propria allean-za. È indebolita all’interno della latente rivalità tra

Pechino e Mosca, dalla preoccupazione russa perl’aumento della potenza economica e militare cine-se e dalla constatazione che è stata più utile a Pe-chino che a Mosca, consentendo alla Cina una cre-scente influenza in Asia Centrale e in Estremo Orien-te nelle province marittime. L’importanza della Scoè ridotta anche dagli ottimi rapporti esistenti tra Mo-sca e l’India, strutturalmente rivale della Cina, an-che per l’appoggio che quest’ultima dà al Pakistan.La Russia del «post-imperium» – come la denomi-nata Dmitri Trenin, uno dei più interessanti com-mentatori della situazione russa – continuerà a co-stituire uno degli attori fondamentali della scenamondiale o, almeno, di quella eurasiatica. Conti-nuerà a rappresentare un fattore divisivo sia nell’Al-leanza atlantica che nell’Unione europea. Anche ra-gioni interne continueranno ad indurla ad adottareuna politica almeno dichiaratamente aggressiva ead utilizzare la crisi politica e finanziaria dell’Eu-ropa per accrescere la propria influenza. Certamen-te, la sua politica estera sarà influenzata dalla dimi-nuzione dell’autorità di Putin, conseguente alle ma-nifestazioni di dissenso del 24 dicembre e del 4 gen-naio, che hanno dimostrato come i social networkabbiano indebolito la possibilità di un controllo po-litico sulla popolazione. Tali eventi, obbligheranno il Cremlino a dedicar-si maggiormente alla politica interna, impiegandouna maggiore aliquota della rendita petrolifera permodernizzare la base produttiva russa e per mi-gliorare le condizioni di vita della popolazione. Inogni caso, sia l’opzione europea che quella eura-sista hanno ben poca probabilità di prevalere. Siimporranno invece le tendenze nazionaliste, la cuiaggressività sarà però temperata da due ragioni.Primo: dalla necessità russa di ottenere la collabo-razione occidentale per la modernizzazione dellasua economia ed anche per una migliore utilizza-zione delle sue risorse naturali. Secondo: dal fat-to che pressioni eccessive finirebbero sia per ri-compattare l’Europa che per rafforzare i suoi le-gami con gli Usa.

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quantomeno l’avvisaglia sensibile del ridimensio-namento elettorale alle presidenziali che si sarebbe-ro svolte il 4 marzo 2012. Non è andata così. Glisperanzosi contestatori, arruffoni ed improvvisati,sembrano essersi ripiegati su se stessi immediata-mente dopo aver appreso dagli exit poll che il loronemico non soltanto ce l’avrebbe fatta, ma sarebbeandato ben al di là delle sue stesse aspettative. L’autocrate del Cremlino, rieletto per la terza vol-ta, ha ottenuto, infatti, molti più suffragi di quantoanche gli osservatori internazionali erano dispostia scommettere. Il suo “regno”, a questo punto, è fa-cile che si protragga fino al 2024, come lui stessominacciosamente prometteva nello scorso autunno.E non sembra che l’opposizione sia talmente deter-minata da fargli cambiare idea. Ancora dodici annidi dominio quasi assoluto, magari da condividerecon il suo “socio” Medvedev, è facile che riducanogli spazi di dissenso e che il presidente, come qual-cuno prevedeva, giochi a suo vantaggio il ridimen-sionamento parlamentare subito dal partito del qua-le è padre-padrone. La sua carta vincente nelle ultime presidenziali èstata proprio quella del ridimensionamento del suo«personalismo» e della pervasività di Russia Unitacome prova della nuova «demokratura» nella qua-le, a suo avviso, ci sarebbe spazio per tutti. In mol-

ti ci hanno creduto. Ed i voti sono arrivati. È pate-tico, adesso, l’agitarsi dell’Osce, del consiglio d’Eu-ropa e di tanti altri organismi internazionali che ac-colgono sempre e comunque con riguardo la Rus-sia di Putin, salvo poi starnazzare quando vince leelezioni ed adombrare brogli, costrizioni, ricatti. Ilresponso non cambia. Sono francamente irrilevantii monitoraggi elettorali che quella stessa Europa chesi picca di fronteggiare Putin organizza soltantoquando c’è da contare le schede, tanto per metterein piedi una sceneggiata a beneficio del cosiddetto“mondo libero”, mentre i dissidenti si illudono chei morti ammazzati misteriosamente, i giornalisti spa-riti, gli intellettuali ridotti al silenzio, i programmidi espansione nella regione caucasica che produco-no lutti e deportazioni possano infiammare l’Occi-dente. In questa parte dell’emisfero si ha cuore piùil riscaldamento degli appartamenti e degli uffici chele libertà individuali. Cinico, ma vero. Per quanti in-ganni siano stati imputati al nuovo presidente, i ri-sultati sarebbero dovuti essere diversi. Invece non èaccaduto quel che l’opposizione si illudeva potessee dovesse accadere: ridimensionarlo fidando su al-cuni anonimi politicanti senza seguito e su due so-pravvissuti del sovietismo, uno di impronta stalini-sta, l’altro isteronazionalista. Nel corso della cam-pagna elettorale è stato fragorosamente sottolinea-

IL BONAPARTISMO DI PUTIN E IL SISTEMA DELLA “DEMOKRATURA”

VLADIMIR E LE ILLUSIONI DELL’OCCIDENTEDI GENNARO MALGIERI

uando nel dicembre scorso il partito di Vladimir Putin, Russia Unita, vin-se le elezioni legislative, conquistando la maggioranza, sia pure «nonqualificata» (necessaria per procedere alla riforma della Costituzione)dei seggi alla Duma, furono in molti ad illudersi che la consistente di-minuzione di voti ottenuti fosse il preludio se non della sconfitta

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to come Putin, pur vincendo, non avrebbe potuto ri-formare la Costituzione a suo piacimento perchénon avrebbe avuto i numeri parlamentari. In tanti cihanno creduto, ma al momento di scegliere, soprat-tutto nelle campagne, lontano dai centri nevralgicidelle grandi città, è prevalso il sentimento del con-tinuismo fondato sulla certezza di un “ordine russo”capace di sfidare le incursioni del cambiamento; un“ordine” sul quale Putin ha fatto grande affidamen-to, attraendo nella sua orbita la Bielorussia, la Mol-dova, l’Ucraina (verso la quale il suo atteggiamen-to è ambivalente, sostenendo internazionalmente laTimoshenko e nei confini nazionali i suoi carnefici),tanto per dare il senso della ricostruzione se non diuna Grande Russia, quantomeno di una Russia pro-tetta ai confini della Federazione da stati più che ami-ci disposti a sostenere lo sforzo economico – e se delcaso anche bellico – contro gli indipendentismi cherischiano di disgregare il Paese.Le riforme, dunque, se gli convengono, Putin le faràlo stesso. E del resto se anche non le facesse bastanoquelle già varate a rafforzarne il potere. Fin qui, do-potutto, le forze di opposizione nella Duma, non sem-bra si siano date da fare più di tanto per mettere incrisi la “diarchia”, come ancora viene chiamato il duoPutin-Medvedev. E tantomeno sono state capaci ditrovare una candidatura unitaria da opporre al nuovo“zar” il quale sa bene che fino a quando non si rea-lizzerà una prospettiva di questo genere potrà dormi-re sonni tranquilli controllando ferramente il com-parto economico-finanziario, quello industriale e mi-litare, i servizi segreti e l’informazione. Putin, insom-ma, è riuscito nella stupefacente impresa di mixare,come dicono alcuni intellettuali russi, democrazia edittatura, dando forma ad una inedita autocrazia tec-nologica e populista nella quale da un lato i diritti for-mali sembrano essere garantiti, dall’altro le leve delpotere sono in mano ad una nomenklatura non di par-tito, ma finanziaria con addentellati nei corpi delloStato, in particolare nella polizia alle dirette dipen-denze del Cremlino. Per cui chi, nella vasta nazione,non si cura delle conseguenze dell’affarismo, ma ba-

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da a proteggersi ed a soddisfare i bisogni elementari,può anche votare con leggerezza per Putin il quale nelmentre assicura la forza della nazione nell’ambito delgoverno mondiale garantisce anche un benessere af-fievolito ancorché accettabile per chi ha vissuto de-cenni nella miseria più nera. Il modello putiniano èspiazzante per le stesse disomogenee opposizioni cheoccasionalmente inscenano proteste tollerate fino adun certo punto, ma che sono attive soprattutto sul webdal quale, tuttavia, non sembra traggano benefici sod-disfacenti un po’ perché rischiano giudiziariamenteed un po’perché la Russia non è la Tunisia e raggiun-gere tutti gli angoli del Paese è impresa impossibile,posto che in molte aree neppure la televisione si ve-de sempre ed in maniera impeccabile. I blogger, perdi più, sono noti e qualcuno di loro entra ed esce dal-le galere: non risulta che Osce e Consiglio d’Europasi siano dati pena per le loro condizioni, soprattuttodopo la grande manifestazione del 10 dicembre scor-so quando in Occidente si cominciò a pensare che Pu-tin avesse i giorni contati.Churchill diceva che «la Russia è un rebus, avvoltoin un mistero, all’interno di un enigma». È semprestato così. E chi immagina di cambiarne i connotati èa dir poco un ingenuo. Lo sapeva la Politkovskaia chenon immaginava di produrre mutamenti repentini, masemplicemente e più produttivamente di agitare idee,sensibilizzare la gente, mettere l’opinione pubblicainternazionale davanti ai crimini in Cecenia, Ossezia,Inguscetia, ma non di fare la rivoluzione. L’opposi-zione che flirta con i nuovi ricchi, fingendo di igno-rare che anche i più critici sono in realtà tutti putinia-ni, e ciondola lungo le strade della movida moscovi-ta in realtà non si è resa conto che nel corso degli ul-timi anni Putin ha consolidato il suo potere in sensobonapartista. Ha messo su un sistema plebiscitario nelquale chiunque può identificarsi, perfino il Patriarca-to che è oggettivamente alleato con l’autocrate cui ri-conosce il valore di aver garantito la stabilità politicae sociale oltre la tutela del proprio potere che, comesi sa, non è soltanto religioso. Ha, dunque, scambia-to lucciole per lanterne chi si è lasciato abbacinare

dalle voci dissenzienti nella Chiesa ortodossa, comequella dell’arciprete di Mosca Vsevolod Chaplin ilquale, soltanto pochi mesi fa, sosteneva che i leaderpolitici rischiavano di essere mangiati vivi se non sifossero messi in ascolto dei manifestanti che li con-testavano. Episodi, marginali oltretutto, che non fa-cevano temere Putin il quale, quando a risultato ac-quisito, acclamato da una Piazza Rossa gremita di so-stenitori, ha pianto davanti alla Santa Russia, è sem-brato uno zar d’altri tempi scampati al pericolo. Vec-chie tecniche di seduzione delle masse di cui il lea-der post-sovietico ha appreso l’efficacia nella costru-zione del personalismo politico trafficando con la psi-cologia, quando costruiva le premesse del consensocon il sostegno dei residui potentissimi del Kgb a so-stegno nell’Unione Sovietica morente che, almenodal punto di visto della potenza planetaria, si prepa-rava a perpetuarsi nell’essenza nella nuova Russia chegli eredi di Gorbaciov e di Eltsin avrebbero costrui-to. L’affermazione del neo-bonapartismo di Putin sifonda, dunque, sull’inconsistenza politica dell’oppo-sizione; sul velleitarismo degli intellettuali che nonsono capaci di proporre alternative convincenti nep-pure all’elettorato urbano; alle illusioni del mondo delweb che crede di scatenare in un Paese come la Rus-sia una rivoluzione del tipo di quella arabo-musulma-na; sui legami interni ed esterni (di vecchi arnesi delsovietismo) di Putin disposti per ragioni economiche,

Churchill diceva che «la Russia è un rebus,avvolto in un mistero, all’interno di un enigma». È sempre stato così. E chi immagina di cambiarne i connotati è a dir poco un ingenuo. Anna Politkovskaja ne era consapevole

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militari ed energetiche a correre, qualora ne avessebisogno, in suo aiuto; sul nazionalismo di buona par-te dei sostenitori di Russia unita per niente disposti acedere porzioni importanti di territorio alla formazio-ne di micro-Stati islamisti.Putin sa assai bene che qualora riuscisse a saldarsi laprotesta più avanzata con quella che viene non a ca-so chiamata Russia «profonda», la Russia dei conta-dini, delle campagne, lontana dai grandi centri urba-ni il suo tempo scadrebbe in men che non si dica. Maaffinché questa prospettiva si realizzasse occorrereb-be che la prima garantisse alla seconda un minimo diliberazione dai bisogni senza entrare in rotta di colli-sione con il regime. Impossibile. Nessuno a est di Mo-sca è disposto a rischiare per ritrovarsi sotto il tallo-ne di una tirannia presumibilmente spietata e per dipiù affamato ed emarginato. È una storia antica quel-la che racconta l’ascesa e l’affermazione di VladimirPutin. È la storia della campagna che accerchia la cit-tà e la sottomette. Come in uno scenario tolstoiano.Mosca, Pietroburgo, Novisibirsk sono pianeti fragilidi fronte all’immensità di una nazione-continente chenon è Europa, non è Asia, non è neppure Eurasia, maqualcosa di indecifrabile che non ha mai conosciutouna accettabile forma di democrazia, ma ha sempreconfuso la politica con il fatalismo. Le sue steppe ge-lide e le sue umide praterie del sud sono attraversate

perennemente da venti che nulla hanno a che fare conla politica quale noi la conosciamo in Occidente. Es-si portano la forza nel cuore dove pulsa il potere chepoi si diffonde e si difende da tutti i tipi di attacchi. Continueranno a giocare attorno al Cremlino inespu-gnato per i prossimi anni i filonazisti ed i filosovieti-ci, gli antisemiti e gli antimusulmani, i nazionalisti ei liberali, coloro che vogliono la Cecenia libera e quel-li che la vogliono russa. Putin continuerà a governa-re semplicemente perché la Russia è divisa, compo-sita, esplosiva, magmatica. È la sua natura, come com-prese Stalin. Ma lui aveva un’ideologia che se servi-va a legittimare un crimine orrendo come l’Holodo-mor, la carestia programmata dell’Ucraina, non davapane ai suoi miserabili sudditi. Putin un’ideologia nonce l’ha, ma ha pane a sufficienza perché nessuno glirinfacci di non aver ammesso e sconfessato il geno-cidio staliniano appena ricordato, tra i tanti, dei qua-li il tiranno georgiano si rese responsabile. Neppurel’opposizione, gli intellettuali liberali, i nuovi politi-ci che denunciano il sistema di corruzione del neo-bonapartismo moscovita fanno notare all’autocrateche un gesto di pacificazione sarebbe gradito. Perfi-no quel Consiglio d’Europa che all’Holodomor hadedicato qualche sessione non si è scandalizzato perle posizioni negazioniste della delegazione russa. Siscandalizza, però e per lo spazio di un telegiornale,per i presunti brogli e, quando capita, per la sontuo-sa dacia nella quale Putin ama trascorrere operosa-mente le sue giornate contemplando il suo destino co-me un moderno zar, un epigono dei grandi della no-menklatura sovietica che hanno squassato l’orizzon-te politico d’Oriente e d’Occidente.Putin forever? Con l’opposizione che si ritrova po-trebbe anche aspirare a superare il limite del 2024. Enel frattempo continuare a rifornire la Siria di armi,l’Iran di incoraggiamenti, le milizie che torturano iceceni di sorrisi e patacche da appuntargli sulle divi-se. Neppure il Bonaparte, quello vero, immaginavache la stella di Austerliz si sarebbe potuta inabissa-re a Waterloo. Quale sarà il destino di Putin? La Rus-sia se lo domanderà per molti anni ancora.

Putin, è riuscito nella stupefacente impresa di mixare, come dicono alcuni intellettuali russi, democrazia e dittatura,dando forma ad una inedita autocrazia tecnologica e populistanella quale i diritti formalisembrano essere garantiti

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marzo quando le urne erano state appena chiuse. Delresto il suo ritorno nell’ufficio al secondo piano delCremlino era programmato addirittura dal 2008: dal-l’invenzione della «staffetta» con Dmitri Medvedev(allora suo primo ministro) per uno scambio tempo-raneo dei ruoli che gli avrebbe consentito di aggira-re il divieto costituzionale di un terzo mandato con-secutivo da presidente rimanendo, però, sempre altimone del Paese: ufficialmente numero due, effet-tivamente leader indiscusso. Come ai tempi delletroike sovietiche dove presidente, premier e segre-tario del Pcus si scambiavano i ruoli, ma a coman-dare era sempre il più forte. E quello che è succes-so nelle ultime settimane non è altro che l’applica-zione pratica di un piano studiato a tavolino per rea-lizzare un sogno nemmeno tanto segreto: mantene-re il potere il più a lungo possibile. Con la prospet-tiva della presidenza di sei anni che è appena comin-ciata e con quella di ricandidarsi nel 2018, Putin po-trebbe rimanere in sella addirittura fino al 2024: unquarto di secolo. Più di Breznev (18 anni) e menosoltanto di Stalin che ha stabilito il record assolutodi 29 anni. Eppure con la nascita del VV-3 (il Vla-dimir Vladimirovich terzo) qualche cosa di fonda-mentale è cambiato. In un Paese abituato alle inve-stiture trionfali, più che alle elezioni, anche i risul-tati addomesticati della Commissione elettorale cen-

trale diretta da Vladimir Churov – più o meno truc-cati dai brogli che anche questa volta sono stati do-cumentati e denunciati – hanno dovuto ammettereun calo della sua popolarità. Quasi il 10 per cento inmeno rispetto alle presidenziali nel 2004 (vinte conun robusto 71,3 per cento), ma più del 15 per centoin meno se si considera l’apice del suo consensoquando nel 2008 lasciò il Cremlino, con una Russiache era in pieno boom economico e che era tornatasuperpotenza mondiale. Se si calcola, come si deve,anche l’astensionismo – l’affluenza alle urne è ca-lata dal 69,7 per cento al 65,3, significa che Putin,per ammissione dei suoi stessi servizi elettorali, nonha più la fiducia della maggioranza del Paese. Si di-rà che in questo modo la Russia si allinea con il re-sto del mondo. Ma è proprio questo il segnale piùimportante che è arrivato da Mosca. E proprio suquesto lavora l’opposizione che manifesta in piaz-za. Ma che, soprattutto, comincia a strutturarsi e apreparare un cambio che, se oggi appare impossibi-le, potrebbe spezzare il sogno di onnipotenza di Pu-tin in un futuro più o meno lontano.La sfida del VV-3 è questa. E si giocherà su due fron-ti. Uno è esterno: dipende dalla capacità di organiz-zarsi dell’opposizione che, per il momento, non hala forza per costringerlo alle dimissioni – come chie-dono i giovani che hanno subito cominciato a mani-

IL PAESE DOPO LE ELEZIONI TRA AMBIZIONE, DISSENSO E RECESSIONE ECONOMICA

IL PICCOLO CESARE DEL GRANDE VOLGADI ENRICO SINGER

er Vladimir Vladimirovich Putin la vera sfida comincia adesso. Cheavrebbe ripreso lo scettro di zar della sterminata Federazione russaera talmente previsto e scontato che i suoi sostenitori – i nashi, inostri, come si chiamano i giovani pasdaran del putinismo – erano giàsotto le mura del Cremlino, ad applaudirlo, la sera di domenica 4

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festare a Mosca e a San Pietroburgo – e che non haancora trovato un vero leader, ma che è ormai unarealtà con cui fare i conti. L’altro fronte è interno. Di-pende da quello che farà Putin, dai progetti che ha inmente, da come gestirà il suo terzo mandato, dalle ri-forme che farà o che sarà costretto a fare. Anche dal-le sue scelte in politica estera che peseranno sui rap-porti di Mosca con l’Occidente. A partire dall’atteg-giamento che prenderà sulla Siria – il primo a con-gratularsi per la sua elezione è stato, guarda caso, Ba-shar el Assad – e sull’Iran. Nei giorni immediatamen-te successivi al voto, la prova che Putin ha già co-minciato ad affrontare è quella delle contestazioni.

Il fronte delle opposizioniLa manifestazione di piazza Pushkin, a Mosca, è sta-ta la quarta in tre mesi, da quando i brogli elettoralia favore del partito Russia Unita, nel dicembre del2011, hanno innescato le più vaste proteste antigo-vernative dal crollo del comunismo, vent’anni fa. Al-lora a scendere nelle strade erano stati altri giovaniche non avevano avuto paura nemmeno di opporsi aicarri armati schierati dal regime ormai morente. Ades-so il rischio che una scintilla di violenza inneschi unincendio esiste, ma la situazione è molto diversa. Pri-ma di tutto l’opposizione è divisa. Gli stessi risultatielettorali, per quanto manipolati, dimostrano che cisono quattro componenti ufficiali (i comunisti, gli ul-tranazionalisti, i liberali e i socialdemocratici) chehanno in comune soltanto l’avversione per il capo delCremlino e che esiste, però, anche una quinta com-ponente, la più interessante: quella che in gran parteha alimentato il non voto (quasi il 40 per cento dei110 milioni di elettori) o che ha scelto gli altri schie-ramenti più per protesta che per adesione a una pro-posta politica. Nella media dei voti della Federazio-ne russa, i comunisti di Ghennady Zyuganov – che,certo, non possono essere considerati gli interpretidel nuovo che si muove in Russia – sono comunqueal 17 per cento, i liberali dell’oligarca Mikhail Pro-khorov sono al 7 per cento, i nazionalisti di Vladimir

Zhirinovskij sono al 6 per cento e i socialdemocrati-ci di Sergeij Mironov al 3 per cento. Ma se la gran-de periferia della Federazione (89 entità istituziona-li tra Repubbliche e Territori autonomi) è decisivasull’esito complessivo delle elezioni, Mosca e SanPietroburgo hanno un valore a parte perché è nelledue metropoli russe che si concentra il nuovo cetomedio postsovietico. E il caso di Mosca è esempla-re: nella capitale, Vladimir Putin non ha nemmenoraggiunto il 50 per cento dei voti. Sempre secondo lecifre addomesticate della Commissione elettorale cen-trale, Putin ha ottenuto soltanto il 47,2 per cento deivoti a Mosca. Secondo è arrivato, con un risultato ditutto rispetto, Mikhail Prokhorov (il 20,2 per cento)che ha dimostrato di essere più radicato e popolareanche nelle altre aree urbane. Terzo il comunistaGhennady Zyuganov (19,1 per cento). La capitale,dove l’affluenza è stata del 58 per cento – il che si-gnifica che il partito del non voto è stato qui ancorapiù forte – ha umiliato, invece, sia Zhirinovskij cheMironov con percentuali tra il 4 e il 2 per cento. Que-sti dati confermano che l’epicentro dell’opposizionerussa si trova proprio nella capitale – attenzione, par-liamo sempre di una megalopoli di oltre 13 milionidi abitanti – dove si concentrano i nuovi imprendito-ri e gli intellettuali, dove ci sono le migliori scuole euniversità, dove ci sono le banche. In altre parole, do-ve c’è la Russia efficiente. O, almeno, quella che in-segue un modello di sviluppo che cerca di spezzareil circolo vizioso della corruzione che soffoca a tuttii livelli un’amministrazione pubblica ancora moltopotente che è passata quasi indenne dai tempi del-l’Urss a quelli di Eltsin e di Putin. Tuttavia soltantoin parte questa nuova borghesia si riconosce in Pro-khorov. Terzo uomo più ricco di Russia (13,7 miliar-di di euro la sua fortuna, secondo Forbes), 46 anni,due metri e 4 centimetri di altezza che spiegano an-che la sua passione per il basket (che lo ha portato al-l’acquisto della squadra dei Nets del New Jersey),l’oligarca anti-Putin ha fatto fortuna con le privatiz-zazioni seguite al crollo dell’Unione Sovietica.

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Prokhorov è presidente di Norilsk Nickel e PolyusGold, colossi nei settori del nickel e dell’oro, nonchédi Onexim Group, gigantesco fondo di investimen-to privato, e quando si è affacciato per la prima vol-ta in politica lo ha fatto all’ombra del Cremlino chegli aveva riservato la presidenza del partito GiustaCausa, un’invenzione degli strateghi che affiancanoPutin per dividere proprio il fronte dell’opposizione.Prokhorov è rimasto alla guida di quella formazio-ne-civetta soltanto dal giugno al settembre del 2011,quando ne è uscito fragorosamente accusando il par-tito di essere «manovrato» dai putiniani. Nei tre me-si di campagna elettorale da outsider ha lanciato mol-te proposte di rottura, compresa la grazia per MikhailKhodorkovsky, nemico giurato di Putin, condanna-to al carcere fino al 2016. Di sicuro più ascoltato daigiovani è Alexei Navalny, il blogger che è diventatol’icona del movimento di protesta e che era in primafila in piazza Pushkin (dove è stato anche arrestato)per denunciare i brogli del voto presidenziale. Na-

valny, un avvocato di 36 anni, definisce Russia Uni-ta «il partito dei ladri e dei farabutti» e ha fatto del-la lotta alla corruzione il suo cavallo di battaglia. Mal’opinione prevalente degli osservatori politici russi,anche i più radicali come Alexei Venediktov, diret-tore della radio d’opposizione Eco di Mosca, è chené l’oligarca Prokhorov, né il blogger Navalny riu-sciranno a diventare i leader di un movimento che èancora in una fase nascente, che ha la consapevolez-za di avere bisogno di tempo per organizzarsi. E checonsidera già una vittoria importante costringere Pu-tin a venire a patti, a fare concessioni. La più signi-ficativa sarebbe quella di non rimangiarsi le riformepromesse dopo le prime manifestazioni contro i bro-gli nelle elezioni del 4 dicembre per la Duma: a par-tire dal ritorno all’elezione dei governatori dello ster-minato impero federale che, dal 2004, sono di nomi-na presidenziale.

La strategia del presidenteCon quella mossa Putin è riuscito a sterilizzare la giàasfittica vita politica russa riducendo il gioco – alme-no formalmente – democratico alle elezioni per laDuma e alle presidenziali. Concentrando tutto il con-trollo del potere al centro, Putin ha di fatto tolto os-sigeno all’opposizione che, adesso, per riconquistar-si un ruolo non soltanto a Mosca o a San Pietrobur-go spera che VV-3 allenti le briglie consentendo lanascita e lo sviluppo di formazioni politiche e di lea-der anche in periferia. Un progetto a lunga scaden-za, insomma. Una rivoluzione lenta, non una provadi forza in stile arancione, come avvenne a Kiev. Tan-tomeno una “primavera” che potrebbe trasformare lapiazza Rossa in una piazza Tahrir. Il rischio di un’im-prevedibile esplosione di violenza che potrebbe farsaltare tutti i piani è sempre in agguato. Ma l’obiet-tivo dell’opposizione, per il momento, non sembraquello di costringere Putin a improbabili dimissioni,quanto quello di costringerlo a un possibile compro-messo che apra la strada a una maggiore democra-tizzazione della vita politica russa. Anche se – comeè verosimile – le manifestazioni non diventeranno ri-

Quello che è successo nelle ultime settimane nonè altro che l’applicazionepratica di un piano studiatoa tavolino per realizzare un sogno nemmeno tanto segreto: mantenere il potere il più a lungo possibile. Con la prospettiva della presidenza di sei anni che è appena cominciata e con quella di ricandidarsinel 2018, Putin potrebberimanere in sella addirittura fino al 2024

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volta, l’uomo forte del Cremlino si troverà di frontea una grande sfida: tenere fede alle tante promesseelettorali che lui stesso ha fatto per conservare il po-tere. La più semplice da realizzare sarà quella di abo-lire la decisione di Medvedev di mantenere l’ora le-gale anche d’inverno che ha scontentato milioni dipersone costrette ad alzarsi al buio. Ma tutto il restosarà molto difficile e molto costoso: l’ultimo calco-lo fatto dalla stampa economica russa parla di 120miliardi di euro in spese sociali e di un bilancio pub-blico che, per mantenersi in parità, dovrebbe conta-re su un prezzo del petrolio a 150 dollari il barile. Pu-tin ha promesso di non alzare l’età pensionabile (og-gi a 55 anni per le donne e a 60 anni per gli uomini)e di continuare ad aumentare le pensioni già in apri-le, dopo il più 7 per cento concesso a gennaio. Il lun-go elenco delle promesse prevede anche aumenti pergli insegnanti, i medici e le forze di sicurezza, pernon parlare delle enormi spese militari previste dalpiano (600 miliardi di dollari) per l’ammodernamen-to di navi, aerei e missili, fino ai nuovi sussidi pergli agricoltori a base di sconti sul diesel nella stagio-ne della semina. Promesse difficili da mantenere Pu-tin ne ha fatte anche agli investitori stranieri che vuo-le attirare in Russia. La sua roadmap verso una nuo-va economia prevede tassi di crescita del 6-7 per cen-to (per il 2012 siamo a un più modesto 3,5 per cen-to) e passa attraverso privatizzazioni e lotta alla cor-ruzione per realizzare un clima più affidabile per ilbusiness. Ma molti pensano che, nonostante Putinabbia intitolato Nuova economia l’articolo in cui haesposto le sue idee sullo sviluppo del Paese, sia il-lusorio aspettarsi un ridimensionamento del sistemadel capitalismo di Stato su cui ha sempre fondato ilsuo potere. E nessuno crede che la crociata di mo-ralizzazione colpirà i veri intoccabili, i siloviki, gliuomini su cui si regge il regime tanto a Mosca chenelle Repubbliche e nei Territori autonomi della Fe-derazione russa. E che lo sostengono in cambio diposizioni di forza e di fonti di guadagno. Si trattadella tentacolare rete dei funzionari pubblici di ogniordine e grado che dipendono direttamente dal Crem-

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lino e che al Cremlino direttamente rispondono. Iltallone d’Achille di Putin è proprio la corruzione ela naglost, l’arroganza e la spudoratezza del siste-ma che ha creato. La Russia è sempre stata corrot-ta, ma se sotto Eltsin le ruberie erano rampanti, sot-to Putin sono diventate un’istituzione. È un maleche colpisce tutti i russi. Dal Cremlino in giù, la cor-ruzione ha inquinato la società. E considerato chealcuni dei più stretti amici di Putin, compresi quel-li d’infanzia con i quali si allenava a judo, sono di-ventati miliardari, è difficile immaginare che riu-scirà a combattere la corruzione senza scatenare im-mensi conflitti d’interesse all’interno del Cremlinoche potrebbero contribuire ad accelerare la perditadel controllo del potere. Ecco che il fronte dell’op-posizione s’intreccia a quello interno: al progettoche lo stesso Vladimir Putin insegue per il suo ter-zo mandato. Il VV-3 sarà più autoritario o più libe-rale? Reagirà all’opposizione – che è la più forteche ha mai dovuto fronteggiare dalla sua ascesa alpotere nel Duemila – con il pugno di ferro, o con ildialogo? Paradossalmente, Vladimir Putin si trovanella condizione in cui si trovò Mikhail Gorbaciovnegli ultimi anni dell’Urss. Gorbaciov, allora, ten-tò di riformare dall’interno il sistema con la gla-snost (la trasparenza) e la perestrojka (il rinnova-mento). Oggi Putin, se volesse davvero convincerel’opinione pubblica russa – e quella internazionale– della legittimità del suo potere, dovrebbe sceglie-re la strada della riforma del sistema che lui stessoha costruito in quasi dodici anniPrevedere le intenzioni di Putin è più difficile diquanto non sia immaginare il futuro dell’opposizio-ne perché anche gli osservatori politici russi si divi-dono tra chi crede che lo spazio per il dialogo, allafine, sarà trovato e chi è convinto che il vero obiet-tivo dell’uomo forte del Cremlino sia soltanto quel-lo di mantenere il suo potere assoluto il più a lungopossibile e ad ogni costo. Se il primo banco di pro-va dell’atteggiamento di Putin sarà la sua reazionealle proteste di piazza dell’opposizione, un altro se-gnale importante sarà la sorte che avranno le ultime

mosse del presidente uscente Dmitri Medvedev cheha ordinato alla Procura la verifica della legittimitàdella sentenza di condanna per l’ex magnate del pe-trolio, Mikhail Khodorkovsky. Il procuratore gene-rale, Yuri Chaika dovrà, entro il primo aprile, ana-lizzare la legittimità e la validità delle sentenze pro-nunciate contro 32 persone – tra le quali, appunto,Khodorkovsky e il suo principale socio, Platon Le-bedev – che stanno scontando una pena a 13 anni dicarcere. Il Cremlino non ha fornito dettagli, ma hafatto sapere che la decisione è stata presa da Med-vedev dopo un incontro con esponenti dell’opposi-zione che, il 20 febbraio, gli avevano consegnatouna lista di persone considerate prigionieri politici.Medvedev, inoltre, ha chiesto al ministro della giu-stizia, Aleksandr Konovalov, di spiegare entro il 15marzo i motivi del rifiuto di registrare Parnas, unpartito di opposizione che annovera tra i suoi espo-nenti anche l’ex vicepremier Boris Nemtsov. A Mo-sca c’è chi giura che queste decisioni sono l’ereditàavvelenata lasciata a Vladimir Putin dall’uomo cheal Cremlino cerca di interpretare due ruoli: quellodel fedele alleato di Putin e quello del moderato in-novatore. E che ancora spera di poter prendere, ungiorno, il posto dello zar. Magari quando sarà finitala prossima staffetta. E con la benedizione dell’op-posizione interna allo stesso establishment che ve-de ancora in Dmitri Medvedev il possibile protago-nista di un cambiamento senza troppe scosse.

La Russia è sempre statacorrotta, ma se sotto Eltsin le ruberie erano rampanti, sotto lo “zar”sono diventate un’istituzione. È un maleche colpisce tutti i russi. Dal Cremlino in giù la corruzione dilaga

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Negli ultimi due decenni, la Russia è stata presa nel-la morsa di una crisi e assai anomala in tempi di pa-ce. La popolazione del paese è diminuita, i suoi li-velli di mortalità hanno raggiunto livelli a dir pococatastrofici, e sembra stia pericolosamente perden-do gran parte delle proprie risorse umane.Infatti, i problemi causati alla Russia dal trend del-la popolazione in materia di salute, istruzione, nuo-ve famiglie e altre tendenze, rappresentano un fe-nomeno senza precedenti per una società urbaniz-zata, alfabetizzata e non in condizioni belliche. Pro-blemi demografici che sono di gran lunga al di fuo-ri della norma, sia per paesi sviluppati che menosviluppati, inoltre non ne sono state interamentecomprese le cause. Non ci sono molte prove sul fat-to che la leadership russa sia stata in grado di attua-re delle politiche adeguate. Questa crisi, in tempodi pace, minaccia le prospettive economiche rus-se, le ambizioni per modernizzarsi e svilupparsi, emolto probabilmente la propria sicurezza. Il pedag-gio pagato a livello umano è già stato notevole e ilcosto economico rischia di essere enorme; non me-no importante, il declino demografico della Russiasi preannuncia inquietante alla luce del comporta-mento esterno del Cremlino, che dovrà confrontar-si con un equilibrio tra potenze molto meno favo-revole che in precedenza.

Anche durante gli anni sovietici la società russa eratutt’altro che un modello in quanto a benessere. Lasindrome da stagnazione di lungo periodo e poi il de-clino nella sanità pubblica, mai visti prima in una so-cietà industrializzata, emersero durante l’era Brezhneve continuarono ad affliggere la Russia fino al crollodel sistema comunista. Ancora alla fine degli anni Ot-tanta, il periodo della perestroika di Mikhail Gorba-chev, le nascite annue superavano i decessi di circa800mila unità. Ma il collasso del sistema comunistanell’Europa dell’est e poi nell’Unione sovietica pro-vocarono una serie di shock demografici che si pro-pagarono in tutto il blocco orientale: in pratica ognipaese membro del Patto di Varsavia registrò un nettocalo delle nascite e un picco nei decessi, come se citrovassimo in presenza di un’improvvisa carestia, diun’epidemia o di una guerra. La maggior parte di que-sti fenomeni furono temporanei, ma non in Russia,dove risultarono essere più incisivi e di lungo perio-do che in ogni altro paese ex-comunista. La Russiapost-sovietica è diventata una società a demografianegativa, registrando costantemente più decessi chenascite. Dal 1992, secondo la Rosstat, agenzia fede-rale di statistica russa (meglio conosciuta come Go-skomstat dai tempi dell’Urss), il saldo negativo tramorti e nuovi nati e di 12,5 milioni di unità. Che po-tremmo sinteticamente riassumere con un trend del-

IL CALO DEMOGRAFICO E LO SPETTRO DELLA CRISI

LA SCOMPARSA DEI RUSSIDI NICHOLAS EBERSTADT

o scorso dicembre ha segnato il Ventesimo anniversario della fine della dittatu-ra sovietica e l’inizio della transizione postcomunista in Russia. Per i russi glianni successivi sono stati carichi d’euforia e promesse, ma anche di problemi ina-spettati e delusioni. Forse fra tutti gli sviluppi dolorosi della società russa dopoil crollo sovietico, il più sorprendente e sconcertante, è il declino demografico.

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l’ultimo ventennio di tre funerali ogni due nascite. Alivello globale nel secondo dopoguerra c’è stato soloun altro periodo terribile, dove i decessi sopravanza-vano le nascite: in Cina tra il 1959 e il 1961 a causadel catastrofico «Grande balzo in avanti» di Mao Ze-dong. Come conseguenza di questo squilibrio demo-grafico la Russia è avviata verso un processo di spo-polamento del territorio. L’immigrazione, provenien-te prevalentemente dai paesi dell’ ex Urss, ha in qual-che maniera attutito il fenomeno, ma non lo ha scon-giurato. Dal 1992, secondo i dati ufficiali, la popola-zione ha subito un decremento quasi ogni anno. Se-guendo questi dati vediamo che tra il 1993 e il 2010 ilnumero di russi è passato da 148,6 a 141,9 milioni, uncalo vicino al cinque per cento. L’analisi sul censimen-to del 2011 finirà per innalzare la cifra totale di circaun milione di unità, più che altro per l’errata valuta-zione del numero d’immigrati, ma è un fatto che noncambia il quadro generale. Ma la Russia non è sola inquesto trend negativo. Tre paesi del G-7, la Germania,il Giappone e l’Italia sono ai vertici di questa tenden-za pur in un periodo di forte e continuo miglioramen-to delle condizioni sanitarie generali. L’entità com-plessiva della spirale discendente nelle condizioni disalute dei russi è catastrofica. Secondo le stime dellaHuman mortality database, un consorzio di ricerca, lasperanza di vita alla nascita in Russia era leggermen-te inferiore nel 2009 (l’ultimo anno per il quale sianodisponibili i dati) rispetto al 1961, quasi mezzo seco-lo prima. La situazione è ancora peggiore per la po-polazione adulta: nel 2009, l’aspettativa di vita dal-l’età di 15 anni, per tutti gli adulti russi, era più di dueanni sotto il livello del 1959; l’aspettativa di vita peri giovani è sceso di quasi quattro anni rispetto a quel-le due generazioni. In altre parole, la Russia post-so-vietica sta soffrendo di un «eccesso di mortalità» conun saldo negativo di sette milioni di morti. Più o me-no la quantità di morti causati dalla prima guerra mon-diale alla Russia zarista. In una certa misura i dati de-mografici russi assomigliano a quelli che si vedononelle società più povere e meno sviluppate. Nel 2009l’aspettativa generale di vita per un giovane di 15 an-

ni era stata stimata inferiore a quella di paesi come ilBangladesh, Timor Est, Eritrea, Madagascar, Niger eYemen, peggio ancora se passiamo agli adulti di ses-so maschile, perché le aspettative stimate sarebberoinferiori a quelle del Sudan, del Rwanda e persino deldevastato Botswana. Sebbene i dati riguardanti la po-polazione femminile russa siano migliori, sempre nel2009 le donne avevano speranze di vita leggermentesuperiori alle donne in età lavorativa della Bolivia ilpaese più povero del Sud America. Vent’anni primain Russia lo stesso indice di mortalità era del 45 percento inferiore rispetto alla Bolivia.

Come si spiega un deterioramento tanto ec-cessivo per la Russia? Anche se i problemi legati allapresenza di malattie infettive – come l’hiv e la tuber-colosi resistente ai farmaci – sono ben noti, essi nonconcorrono che per una frazione al differenziale cheesiste tra Russia e Occidente. Le cause principali so-no state provocate dall’esplosione delle malattie car-diovascolari e da quelli che gli esperti chiamano «fat-tori esterni» come l’avvelenamento, le lesioni, i suici-di, gli omicidi, le cosiddette fatalità e altri eventi di na-tura violenta. La parte del leone nelle cause di deces-so la fanno le malattie cardiovascolari – tre volte piùalte che nell’Europa occidentale – e le lesioni. I deces-si per atti violenti sono poi ad un livello stratosfericoe comparabili con quelli di paesi come la Liberia e il

Dal 1992, secondo i datiufficiali, la popolazione ha subito un decrementoquasi ogni anno. Seguendo questi dati vediamo che tra il 1993 e il 2010 il numero di russiè passato da 148,6 a 141,9milioni, un calo vicino al cinque per cento

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Sierra Leone. Capire invece perché in una societàavanzata e a forte urbanizzazione ci siano fenomenidi questo genere è un altro paio di maniche. La mor-tifera storia d’amore tra russi e la bottiglia di vodkaha sicuramente a che fare col fenomeno; fumo, unacattiva dieta e l’assenza di medicina preventiva cer-tamente fanno pagare un dazio anche loro. Secondol’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) dal2004 i fumatori costituiscono la componente maggio-re della popolazione adulta in Russia – sono il 36 percento – rispetto ai dati europei. La nuda verità è chenessuno comprende perché i russi godano di una sa-lute così cagionevole. È possibile che il dato sia cor-relato ad atteggiamenti, mentalità e conseguenti mo-delli di comportamento che ricadono sotto la voce«salute mentale». Senza voler andare troppo a fondosull’analisi culturale e psicologica, è chiaro che lo sti-le di vita dei russi sia estremamente a rischio rispet-to ai modelli standard dei paesi sviluppati. Una dellecause potrebbe risiedere nel sistema educativo, chenon causa solo preoccupazioni nel campo delle risor-se umane, ma incide anche sulla salute dei russi. Daun certo punto di vista la scolarizzazione dovrebbeessere l’ancora di salvezza della struttura sociale delpaese: nell’era sovietica gli scienziati russi erano ri-nomati per l’alto livello di preparazione (anche se ingran parte per applicazioni nell’industria bellica) eanche dopo il crollo del comunismo il livello di po-

polazione con un titolo di tipo universitario in Russiaè rimasto molto alto, secondo gli standard dei paesiOecd (Organization for economic cooperation and de-velopment). Oggi però il sistema educativo non fun-ziona più, il meccanismo sembra essersi rotto. Di so-lito a un buon livello d’istruzione si accompagna unaltrettanto positivo stato di salute dei cittadini. Nono-stante i russi con diploma universitario siano il 6 per-cento dei laureati a livello mondiale, per lo stesso pe-riodo in esame la Russia produceva solo lo 0.2 percento dei brevetti mondiali. Fino al 2008 i russi ave-vano pubblicato un numero di lavori scientifici infe-riore agli altri membri del Bric, cioè Brasile, Cina eIndia. Anche la stabilità familiare è fragile. In Russiaci sono 56 divorzi ogni 100 matrimoni, un rateo peg-giori dei tempi dell’Urss, già famosa per l’alta inci-denza dei divorzi. Inoltre i genitori single devono cre-scere i propri figli con un reddito più basso e un wel-lfare meno efficiente dei paesi dell’Europa occiden-tale e degli Usa. Anche il fenomeno dell’abbandonoscolastico e del calo drastico delle iscrizioni alla scuo-le primarie è un altro elemento del quadro negativo.Secondo alcune statistiche sociali, a partire dal 2004più di 400mila giovani al di sotto dei 18 anni d’età vi-vono in case famiglia, il che implica che quasi un gio-vane su 70 risiede in una comunità per minori, in unorfanotrofio o in collegi gestiti dallo stato.

Troppo poco, troppo tardiIl Cremlino comprende come i trend demografici ne-gativi siano così anormali e pericolosi da richiederepolitiche energiche per sovvertirli. Negli ultimi anni,Mosca ha introdotto nuovi ed ambiziosi programmifinalizzati ad invertire la spirale demografica negati-va del paese. Nel 2006, l’allora presidente VladimirPutin rese noto un programma che elargiva fino a 10mi-la dollari tra crediti e sussidi alle madri con due o trefigli a carico. Egli promulgò anche un decreto che de-lineava un «concetto di politica demografica della Fe-derazione russa fino al 2025», allo scopo di stabiliz-zare la popolazione russa a quota 145 milioni entro il2025. Stando al progetto, dopo il 2015 le nascite su-

Secondo alcune statistichesociali, a partire dal 2004più di 400mila giovani al di sotto dei 18 anni d’etàvivono in case famiglia, il che implica che quasi un giovane su 70 risiede inuna comunità per minori,in un orfanotrofio o in collegi gestiti dallo stato

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pereranno i decessi. A giudicare dalle proprie esterna-zioni pubbliche, il Cremlino appare ottimista circa labontà delle nuove politiche. Ed in effetti, a partire dal-la loro introduzione, le nascite hanno subito un incre-mento, mentre si registra una diminuzione nei deces-si; di fatto, nel 2009 l’aspettativa di vita generale inRussia era di quasi 69 anni, la percentuale più alta dalcrollo dell’Unione sovietica. Tuttavia, tale prognosiapparentemente positiva cozza con alcune ovvie edirreversibili realtà demografiche. Innanzi tutto, il crol-lo delle nascite in Russia nel corso degli ultimi duedecenni ha lasciato il paese con molte meno potenzia-li madri per gli anni a venire rispetto ad oggi. Le don-ne di età compresa tra i 20 ed i 29 anni concepisconoquasi i due terzi dei nuovi nati in Russia. Nel 2025, sistima che saranno solo 6,4 milioni le cittadine russecomprese in tale fascia d’età, con una diminuzione del45 per cento rispetto alle percentuali odierne – e taliproiezioni non lasciano spazio a congetture, dato chetutte le donne comprese tra i 20 ed i 29 anni nel 2025sono già nate. Contemporaneamente, la popolazionerussa invecchierà rapidamente. Il Census Bureau pre-vede che i cittadini di età pari o superiore a 65 anni,che attualmente costituiscono il 13 per cento della po-polazione, nel 2025 rappresenteranno quasi il 19 percento dei russi. Come risultato del semplice invecchia-mento, i livelli di mortalità pro capite in Russia au-menterebbero di più del 20 per cento qualora null’al-tro cambiasse. E dato il peggioramento che oggi si re-gistra nella salute della popolazione, il conseguire ri-sultati di lungo termine, per quanto concerne l’aspet-tativa di vita, rischia di essere un’impresa immane.Date queste realtà, con tutta probabilità la Russia ri-marrà una società a crescita demografica negativa nelprossimo futuro. Le statistiche sociali russe delinea-no un costante – e sempre maggiore – divario che se-parerà nascite e decessi da oggi al 2030. Rosstat pre-vede un eccesso di 205mila decessi rispetto alle na-scite per il 2011, cifra che aumenterà a più di 725mi-la nel 2030, con un saldo cumulativo di 9,5 milioni didecessi in più rispetto alle nascite tra il 2011 ed il 2030.Anche nello scenario più ottimistico di Rosstat, l’agen-

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zia prevede un aumento della mortalità pari a 2,7 mi-lioni tra il 2011 ed il 2025, cifra che toccherà quota4,7 milioni entro il 2030. In tali previsioni sociali, unulteriore spopolamento potrà essere prevenuto solocon una massiccia immigrazione dall’estero. Duran-te lo scorso decennio, la Russia ha certamente bene-ficiato dell’afflusso netto di milioni di lavoratori, lamaggior parte dei quali provenivano dagli ex statisovietici del Caucaso e dell’Asia centrale. L’econo-mia russa ha altresì tratto benefici dalla fuoriuscitaoltreoceano di propri cittadini, i quali ogni anno in-viano in patria miliardi di dollari in rimesse. Ma leprospettive circa futuri flussi migratori verso la Rus-sia sono fosche: in seguito ai cambiamenti nelle po-litiche educative in tutta l’ex Unione sovietica, i mi-granti odierni provenienti dal Caucaso e dall’Asiacentrale parlano meno russo rispetto ai propri geni-tori, con maggiori difficoltà ad integrarsi nella socie-tà. Nel frattempo, l’atteggiamento dell’opinione pub-blica nei confronti dei nuovi arrivati da quelle regio-ni si è fatto meno ospitale. Non meno importante èl’immigrazione interna, soprattutto per quanto con-cerne l’immensa distesa dell’estremo oriente russo,una regione di oltre due milioni di miglia quadratecon appena sei milioni di abitanti. A partire dal 1989,tale inclemente e proibitivo territorio è stato abban-donato da un sesto della popolazione, e l’esodo con-tinua. Alcuni studiosi occidentali, quali Maria Rep-nikova dell’università di Oxford e Harley Balzer del-la Georgetown University, intravedono grandi e tut-tavia non ancora sfruttate opportunità di integrazio-ne economica tra l’estremo oriente russo ed i suoi vi-cini, in special modo la Cina. Tuttavia, i principalidemografi russi hanno una visione più negativa: es-si temono che la regione possa – prima o poi nel se-colo in corso – cessare di far parte della Russia.

L’orso sperpera?Soprattutto, gli attuali modelli demografici della Rus-sia determineranno conseguenze spaventose sul te-nore di vita dei suoi cittadini. Al di là dell’effetto sulbenessere individuale, il declino demografico del

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paese comporterà gravi implicazioni sulle performan-ce economiche. Sebbene la Russia sia dotata di ingen-ti risorse naturali, nel contesto economico globale d’og-gi sono le risorse umane ciò che in ultima analisi con-tano per la determinazione della ricchezza nazionale.In epoca moderna, non vi è esempio di superpotenzabasata sulle materie prime. E, a fronte di tutte le suericchezze energetiche, anno dopo anno la Russia ac-cumula minori introiti dalle esportazioni di quanto fac-cia il Belgio. Sebbene il presidente Dmitry Medvedevabbia avvertito che la Russia non debba rimanereun’economia basata sulle materie prime e sostenga lasua campagna di modernizzazione, la sua amministra-zione poco ha fatto per riqualificare il paese comeun’economia basata sulla conoscenza. Nel 2008, su-bito prima dell’insorgere della crisi economica globa-le, Mosca annunciò un ambizioso piano economicoconosciuto come Russia 2020. Esso prevede che laRussia si attesti tra le cinque maggiori economie glo-bali entro il 2020 e si pone come fine una crescita eco-nomica ad un tasso medio annuale del 6,6 percento trail 2007 ed il 2020. Anche se la produzione pro capiterussa nel 2010 era appena più elevata di quanto nonfosse nel 2007, il Cremlino considera ancora gli obiet-tivi di Russia 2020 come realizzabili. Il raggiungeretali mete richiederebbe ora un aumento medio dellaproduttività lavorativa di più del 9 per cento annuo trail 2010 ed il 2020. Un tale ritmo di crescita di lungotermine nella produttività lavorativa non era stato rag-giunto nemmeno dalla Cina tra il 1978 e oggi, il piùlungo periodo di crescita economica di lungo terminemai registrato da un paese nella storia.Invece che concentrarsi sul catapultare l’economiarussa verso gli alti gradi dei performer globali, i legi-slatori russi dovrebbero saggiamente chiedersi cosasarebbe necessario fare al fine di evitare che l’econo-mia russa si contragga in termini di quota di produ-zione globale nei decenni a venire. Secondo le proie-zioni dello Us Census bureau, si stima che tra il 2005ed il 2025 la quota di popolazione russa in età lavora-tiva crolli dal 2,4 per cento all’1,6 per cento. Ciò im-plica che i miglioramenti di lungo termine nella pro-

duttività lavorativa della Russia dovrebbero essere pa-ri ad un 2 percento annuo in più rispetto al resto delmondo. Se questi risultati non dovessero essere per-seguiti, la quota russa di produzione economica mon-diale, e l’influenza economica del paese a livello glo-bale, diminuirebbero negli anni a venire. Ciò non equi-vale ad affermare che la Russia diventerà più povera,ma in un mondo progressivamente più ricco, con stan-dard sanitari e di istruzione più elevati, le limitazionidelle risorse umane potrebbero implicare che il paesedebba attendersi una fetta inferiore della futura tortaeconomica globale. La crisi demografica russa gene-ra altresì implicazioni per le sue capacità militari e,per estensione, per la sicurezza internazionale. Nel 2007, l’ex primo ministro russo Sergei Stepashinammonì che «la riduzione delle dimensioni e delladensità della popolazione (…) creeranno rischi d’in-debolimento dell’influenza politica, economica e mi-litare della Russia nel mondo». Il mantenere l’attualestruttura militare – un esercito di più di un milione disoldati, principalmente coscritti vincolati ad adempie-re ad obblighi di leva di un anno – non sarà fattibilenell’immediato avvenire. Malgrado i piani per trasfor-mare le forze armate russe in un corpo formato inte-ramente da volontari, l’esercito di Mosca continua adessere composto principalmente da diciottenni. Se Mo-sca vuole prevenire la brusca flessione di personalemilitare, ha solo due scelte: arruolare meno coscrittiqualificati o estendere i termini di leva secondo co-scrizione obbligatoria oltre gli attuali 12 mesi. La pri-ma soluzione suona poco invitante in virtù della ne-cessità di effettivi in salute e con un buon livello dipreparazione per gli eserciti moderni; la seconda ap-pare politicamente impossibile per via della diffusaimpopolarità della leva obbligatoria e per gli esiguistipendi elargiti ai soldati russi. La breve guerra russacon la Georgia nell’agosto del 2008 fu interpretata damolti, inclusi alcuni al Cremlino, come un segnale chela Russia stava ancora una volta risorgendo dal pun-to di vista militare dopo un decennio di debolezza post-sovietica. Ma la competizione militare con la Geor-gia, un piccolo vicino con appena 20mila soldati, dif-

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ficilmente poteva qualificarsi come una prova dellecapacità da grande potenza, ancor meno come un testcirca la portata globale della potenza russa. Le indu-strie di armamenti russe non sono state delle innova-trici ad alto contenuto di conoscenza; al contrario, ilsettore della difesa sembra dipendere in gran parte dalcapitale intellettuale dell’epoca sovietica. A differen-za di Pechino, che è impegnata in una modernizza-zione militare nei decenni a venire, Mosca si sta difatto preparando a combattere le guerre di questo se-colo con la tecnologia del secolo scorso. In effetti, co-me gli analisti russi Anders Aslund e Andrew Kuchinshanno segnalato nel 2009, a fronte di un miglioramen-to delle capacità militari cinesi, Pechino ha «ridottole importazioni di tecnologia militare russa, giungen-do persino ad esportare le proprie versioni a tradizio-nali clienti della Russia quali l’Angola, l’Etiopia e laSiria». Nel suo primo discorso sullo «Stato della na-zione» del luglio Duemila, Putin dichiarò che «annodopo anno, noi, i cittadini di Russia, diventiamo sem-pre meno… La minaccia che incombe è di diventareuna nazione senile». Nel suo discorso del 2006, egliidentificò la demografia come «il più acuto problemacon cui oggi il nostro paese si deve misurare». NellaStrategia di sicurezza nazionale di Medvedev del mag-gio 2009, la situazione demografica del paese venivaindentificata come una delle «nuove sfide alla sicu-rezza» con la quale la Russia dovrà confrontarsi ne-gli anni a venire. Ma come affronteranno i poco de-mocratici e claudicanti leader russi le pressioni demo-grafiche e gli sfavorevoli trend di risorse umane chestanno minando i loro obiettivi? Per la comunità in-ternazionale, questo potrebbe essere l’unico più sgra-devole aspetto della crisi di popolazione della Russiain tempo di pace: è possibile che il declino demogra-fico russo possa sollecitare Mosca a diventare un at-tore più imprevedibile, persino minaccioso, sulla sce-na mondiale. Il declino potrebbe condurre i leader mi-litari russi ad abbassare la soglia nucleare. Opzioneche venne messa in luce per la prima volta da Putinnel suo Concetto di sicurezza nazionale del Duemilaed è stata riaffermata da Medvedev nel 2009. Per il

momento, il Cremlino ritiene ancora che i propri am-biziosi piani socio-economici di lungo termine nonsolo ovvieranno alla demografia negativa del paese,ma che spingeranno altresì la Russia nei selettivi ran-ghi delle superpotenze economiche mondiali. Quan-do il Cremlino si confronterà finalmente con l’effet-tiva portata delle tremende verità demografiche delpaese, i leader politici russi potrebbero di certo farsipiù allarmisti, imprevedibili e conflittuali nei propriatteggiamenti internazionali. Nel frattempo, la Rus-sia si ritrova circondata da paesi la cui stabilità e ri-spetto reciproco nei decenni a venire sono tutt’altroche certi: Afghanistan, Iran, Corea del Nord, Pakistane le repubbliche dell’Asia centrale. Se la periferia russa diventasse più instabile e minac-ciosa e i governanti russi dovessero rendersi conto cheil loro potere relativo è in declino, il comportamentodel Cremlino potrebbe diventare meno fiducioso del-le proprie possibilità. La monumentale crisi demogra-fica e di risorse umane della Russia non può essere ov-viata senza un altrettanto monumentale sforzo nazio-nale. Tale sforzo richiederà uno storico cambiamentonella mentalità russa, sia nelle stanze del potere che trala popolazione. Ciò che è positivo è che, con centina-ia di miliardi di dollari nei propri caveaux frutto degliscambi con l’estero, la Russia molto probabilmente di-spone dei mezzi per finanziare le campagne d’istru-zione e sanitarie per tale trasformazione. I governi stra-nieri ed altri attori esterni possono anch’essi svolgereun ruolo. La comunità internazionale dovrebbe pro-muovere scambi tecnici e professionali, progetti con-giunti sullo sviluppo di best practices negli ambiti sa-nitario ed educativo, e dialogo all’interno della socie-tà civile per costruire una base russa e frenare l’attua-le emorragia di vite e talenti russi. E, ove necessario,i legislatori stranieri, gli uomini d’affari, e i funziona-ri delle organizzazioni non governative dovrebbero es-sere pronti a svergognare pubblicamente il governorusso per la palese negligenza nei confronti del benes-sere della popolazione. Dopo tutto, una Russia in sa-lute e vigorosa non è solo nell’interesse del popolo rus-so, ma anche del resto del mondo.

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dispute con i paesi di transito – Ucraina e Bielorussiain primis – o le difficoltà di Gazprom nel soddisfarecontemporaneamente domanda interna e contratti difornitura internazionali, l’affidabilità della partner-ship energetica con la Russia è stata oggetto di nu-merose riflessioni, tanto in ambito europeo quanto alivello nazionale. Al di là della facile strumentaliz-zazione (politica e mediatica) delle periodiche con-troversie che caratterizzano le forniture di gas russoin Europa, un’analisi più attenta e approfondita mo-stra come il rapporto di interdipendenza tra le partisia un elemento chiave per interpretare l’evolversidelle relazioni energetiche russo-europee. Nonostan-te l’immancabile diffidenza, Mosca è storicamenteuno dei partner energetici più affidabili per i paesieuropei e per l’Italia in particolare. Tuttavia, nuovedinamiche di tipo economico, commerciale e tecno-logico attualmente in atto a livello globale potrebbe-ro determinare – ben più che obiettivi puramente po-litici – un parziale allentarsi della solida partnershipcon la Russia, con effetti potenzialmente negativi so-prattutto per i paesi europei.

Un leader globaleConsiderata a tutti gli effetti il leader globale nel set-tore energetico, con un output totale di oltre 10 mi-lioni di barili al giorno – il cui 70 per cento viene

quotidianamente immesso sui mercati internaziona-li – la Russia da qualche anno contende all’ArabiaSaudita il ruolo di primo produttore ed esportatore digreggio al mondo. Anche nel settore del carbone, dicui detiene quasi il 20 per cento delle riserve globa-li, Mosca è un attore di primo piano. Ma è quando siparla di gas naturale che il dominio di Mosca si ma-nifesta in modo più eclatante: con quasi 45 trilioni dimetri cubi (Tcm) di risorse convenzionali – pari al25 percento del totale globale – la Russia è di granlunga il primo paese al mondo in termini di riserve.E nonostante la seconda posizione (di poco) alle spal-le degli Stati Uniti in termini di produzione, la Rus-sia detiene il primato assoluto delle esportazioni conmovimenti pari a 200 miliardi di metri cubi (Bcm)di gas annui, pari a un quinto dei traffici globali. Ov-viamente, l’industria energetica ha un peso fonda-mentale sulle performances economiche russe: lavendita di petrolio e gas naturale sui mercati interna-zionale rappresenta oltre due terzi delle esportazio-ni totali del paese, e contribuisce alla formazione diun quarto del prodotto interno lordo. Come per lamaggior parte dei grandi paesi produttori ed espor-tatori di risorse energetiche, le rendite del settoreoil&gas rappresentano la linfa – ma anche una de-bolezza intrinseca – del sistema politico-economicorusso. Ed è proprio per questo che, nonostante mo-

PETROLIO E GAS: LINFA (E DEBOLEZZA) DEL SISTEMA POLITICO-ECONOMICO DEL CREMLINO

IL TUBO DI GAZPROM E L’EUROPADI NICOLÒ SARTORI

a recente diminuzione degli approvvigionamenti di gas naturale russoverso l’Europa ha riportato alla luce l'annoso dibattito sulla dipendenzaenergetica europea da Mosca, nonché sui presunti tentativi del Cremlino diapprofittare del suo potere energetico per ricattare politicamente ed eco-nomicamente il vicino occidentale. Dal 2006 ad oggi, causa le ricorrenti

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menti di alti e bassi, il Cremlino negli ultimi decen-ni ha costantemente cercato di mantenere solide rela-zioni energetiche con i partner europei.

Diffidenza e interdipendenzaLa cooperazione energetica tra Russia ed Europa fon-da le sue radici in piena guerra fredda. Nonostantel’appartenenza ai due opposti schieramenti, duranteil conflitto bipolare un gruppetto di paesi europei –primo fra tutti l’Italia – hanno avviato e mantenutoper oltre un trentennio rapporti commerciali con Mo-sca, consolidando le relazioni anche in seguito allacaduta del muro di Berlino e all’implosione dell’Unio-ne Sovietica. Già nel 1958, l’Italia era stato il primopaese occidentale ad aggirare la cortina di ferro gra-zie all’intraprendenza di Eni, accordatasi con il go-verno russo per l’importazione di 800mila tonnellatedi greggio Ural; due anni dopo, nel 1960, a fronte diuna fornitura da 12 milioni di tonnellate di greggio inquattro anni, la compagnia energetica italiana si eraimpegnata a esportare in Russia 240mila tonnellatedi tubi di acciaio, pompe, saracinesche e compresso-ri per oleodotti, necessari per la costruzione dell’oleo-dotto sovietico Druzba. A partire dagli anni Settanta,sulla scia delle iniziative italiane, anche Austria, Fran-cia, Germania hanno dato nuovo impulso alla par-tnership energetica russo-europea siglando i primicontratti con il ministero del Gas sovietico. Gli accor-di firmati di lunga durata, per grandi volumi, e disci-plinati da rigide clausole contrattuali – erano struttu-rati per garantire alle compagnie energetiche nazio-nali dei paesi europei forti tutele, e per incentivare ilflusso di investimenti in grandi progetti infrastruttu-rali, primo fra tutti il lungo gasdotto Soyuz, in gradodi collegare i giacimenti siberiani con i mercati euro-pei. In quegli anni, la solida collaborazione con Mo-sca ha permesso ai paesi dell’Europa occidentale digettare le basi per la necessaria politica di diversifi-cazione dagli approvvigionamenti mediorientali inun periodo particolarmente critico come quello tra idue shock petroliferi degli anni Settanta.In modo abbastanza sorprendente e troppo spesso sot-

tovalutato, è proprio durante il conflitto bipolare chela dipendenza energetica europea nei confronti dellaRussia – ed in particolare delle sue forniture di gasnaturale – ha sperimentato il suo picco, per ridursi so-stanzialmente dagli anni Ottanta in poi. Mentre nel1980 quasi l’80 per cento dell’import di gas naturaledei paesi europei provenivano dalla Russia, ai giorninostri Gazprom fornisce circa il 35 per cento delle im-portazioni totali dell’Unione europea. Inoltre, va an-che sottolineato come a livello europeo la dipenden-za dagli approvvigionamenti russi oggi è estremamen-te eterogenea: mentre ci sono paesi come Spagna ePortogallo in grado di soddisfare la propria domandainterna senza dover ricorrere al gas russo, altri – inparticolare gli stati dell’ex blocco sovietico in Euro-pa orientale – dipendono totalmente dalle forniture diGazprom. La spiegazione della special relationshiptra Russia e Europa nel settore del gas è abbastanzaintuitiva: come detto, con quasi 45 Tcm di gas natu-rale, la Russia è di gran lunga il paese con la maggio-ri riserve provate al mondo; l’Europa, dal canto suo,è stata a lungo leader di consumi al pari degli StatiUniti. A causa della rigidità del mercato del gas – tra-sportato principalmente attraverso infrastrutture fis-se, i gasdotti – la prossimità geografica tra gli immen-si giacimenti russi ed i mercati europei ha di fatto re-so l’Europa il mercato più appetibile per le esporta-zioni di Mosca, e la Russia – ovviamente – il forni-tore ideale per soddisfare la crescente domanda delVecchio continente. Quella dell’interdipendenza, per-tanto, è una questione che non va sottovalutata: la pre-

I mercati europei assorbono il 70 per centodelle esportazioni totali di gas russo, alle quali va aggiunto l’80 per centodi quelle di petrolio e il 50 percento di quelle di carbone

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occupazione dei governi europei per un eccessiva di-pendenza dagli approvvigionamenti russi va infattianalizzata anche alla luce della forte concentrazionedelle esportazioni di Mosca verso l’Europa. I merca-ti europei assorbono infatti il 70 per cento delle espor-tazioni totali di gas russo, alle quali va aggiunto l’80per cento di quelle di petrolio e il 50 percento di quel-le di carbone. É quindi abbastanza evidente quali pos-sano essere i timori di un paese come la Russia – al-tamente dipendente dalle rendite derivanti dal propriosettore energetico – nel vedere i suoi partner europeifortemente impegnati in iniziative di diversificazio-ne delle fonti di approvvigionamento.

Aggressività o scelte difensive?Nel tentativo di consolidare la propria posizione sulmercato europeo, negli ultimi anni il Cremlino haadottato una strategia mirante ad eliminare il princi-pale elemento geopolitico per la sicurezza degli ap-provvigionamenti russi verso l’Europa: il transito sulterritorio ucraino. Attualmente, dall’Ucraina transital’80 percento delle esportazioni russe destinati ai mer-cati europei; il restante 20 per cento attraversa l’al-trettanto delicato territorio bielorusso. Poiché le crisienergetiche degli inverni 2006 e 2009, causate da di-spute tra Kiev e Mosca su prezzi, tariffe di transito emetodi di pagamento hanno alimentato un acceso di-battito tra le autorità e l’opinione pubblica europeasull’affidabilità della Russia come partner energeti-co, Mosca ha deciso di rispondere alla crescente con-flittualità con il vicino ucraino investendo in proget-ti infrastrutturali che ne permettessero l’aggiramentodel territorio. La realizzazione dei gasdotti Nord Stre-am e South Stream – che attraversano, rispettivamen-te, il Mar Baltico ed il Mar Nero collegando diretta-mente la rete russa con i mercati europei – può esse-re interpretata in quest’ottica. Tuttavia, l’iniziativarussa ha scatenato reazioni discordanti in ambito eu-ropeo. Infatti, mentre la costruzione di Nord Stream– riconosciuto come un importante strumento per ilrafforzamento della sicurezza degli approvvigiona-menti europei – è stata accolta con favore a Bruxel-

les, lo sviluppo di South Stream è stato oggetto di for-te criticismo da parte dell’Unione europea e di buo-na parte dei suoi stati membri. Il progetto ideato daGazprom ed Eni, alle quali si sono recentemente ag-giunte la francese Électricité de France (EdF) e la te-desca Wintershall, viene considerato un chiaro tenta-tivo del Cremlino per vanificare l’iniziativa europeadi diversificazione degli approvvigionamenti attra-verso la creazione del Corridoio Sud – una rotta vir-tuale in grado di collegare i paesi produttori del MarCaspio con i mercati europei.Proprio la competizione – presunta o reale che sia –tra South Stream e Nabucco, il flaghsip project di Bru-xelles per lo sviluppo del Corridoio Sud, ha dato vi-ta ad un acceso dibattito in Europa. Sebbene sia evi-dente che Mosca non gradisce la crescente intrapren-denza europea nella regione caspica, va tuttavia sot-tolineato che le cause del fallimento di Nabucco nonsono determinate dalla competizione con South Stre-am, ma da debolezze economiche, commerciali e in-dustriali intrinseche al progetto europeo, prima fra tut-te la mancanza di risorse effettivamente disponibiliper riempire le sue condotte da 31 Bcm annui. Restail fatto che l’irrigidimento della posizione russa sugliequilibri di potenza attorno al Mar Caspio – testimo-niato anche dal veto assoluto del Cremlino su qual-siasi tentativo di risoluzione delle dispute sullo statuslegale internazionale del bacino, che potrebbe poten-zialmente aprire alla realizzazione di un gasdotto trans-caspico e al flusso di gas turkmeno verso occidente –ha contribuito ad alimentare gli attriti e la diffidenzatra Mosca e Bruxelles.

Il nuovo mercato del gasSebbene rimanga prioritaria sia per l’Unione europeache per la Russia, negli anni a venire la cooperazio-ne in ambito energetico potrebbe essere soggetta a si-gnificativi mutamenti. Più che la competizione sca-tenata nel Caspio e in Asia Centrale dall’iniziativa eu-ropea del Corridoio Sud, sono i profondi cambiamen-ti che caratterizzano il mercato globale del gas chepotrebbero agire da driver per una almeno parziale

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revisione della strutturata interdipendenza che attual-mente contraddistingue i rapporti russo-europei. In-fatti, il contemporaneo sviluppo delle abbondanti ri-sorse di shale gas negli Stati Uniti e l’emergere di unmercato globale del gas favorito dell’evoluzione del-la tecnologia Lng (Liquefied natural gas) potrebbe-ro contribuire in modo significativo ad un allenta-mento del vincolo geografico alla base della strettainterdipendenza energetica tra Russia e paesi euro-pei. Dal punto di vista europeo, l’eccesso di offertaglobale determinato dal crollo delle importazioniamericane potrebbe favorire l’attuazione di una piùampia strategia di diversificazione attraverso l’Lng,che nel 2010 ha superato per la prima volta nella sto-ria il 30 per cento dei movimenti globali di gas na-turale. Tuttavia, la crescita del mercato Lng può an-che aprire interessanti alternative per la diversifica-zione delle esportazioni russe. La lenta crescita della domanda di gas in Europa,causata anche dalla crisi economica che attraversail vecchio continente, ha infatti spinto Mosca a guar-dare con grande interesse all’Asia orientale, dovein paesi come Cina, India, Corea del Sud, Taiwan,

Vietnam e Thailandia la domanda di gas naturalecresce di oltre il 15 per cento all’anno. L’alternati-va asiatica rappresenta una soluzione particolarmen-te allettante per la Russia: prezzi alti e domanda inforte crescita forniscono incentivi sufficienti a giu-stificare ambiziosi progetti infrastrutturali comel’impianto Lng di Yamal o il gasdotto trans-corea-no, e gettano le base per la ridefinizione delle prio-rità strategiche russe per gli anni a venire. L’intra-prendenza del Cremlino verso oriente è conferma-ta dai serrati negoziati tra la russa Novatek e Qatar-gas – compagnia enrgetica del Qatar, leader globa-le dell’Lng – per lo svlippo di di risorse nell’Arti-co russo, e dagli sforzi del governo per raggiunge-re un accordo con Pyongyang e Seoul per la realiz-zazione di un gasdotto in grado di trasportare in Co-rea del Sud tra i 10 e 12 Bcm annui entro il 2017.Oltre ai radicali cambiamenti in corso nel mercatoglobale del gas, anche l’adozione (e applicazione)del Terzo pacchetto energetico della Commissioneeuropea rappresenta certamente un ulteriore stimo-lo per Mosca a diversificare le proprie opzioni diexport. Proprio il modello che ha caratterizzato lerelazioni contrattuali e industriali tra compagnieenergetiche europee – spesso monopolisti naziona-li – e Ministero del Gas sovietico durante la guerrafredda, ha contribuito a creare un mercato europeodel gas, frammentato in tanti mercati nazionali pri-vi di competizione né al loro interno, né tantome-no nei confronti di concorrenti esterni. Il pacchettodi misure adottato dalla Commissione, che mira arendere il mercato europeo del gas più integrato eliberalizzato con l’obiettivo finale della creazionedi un mercato unico, di fatto contribuirebbe ad ero-dere la posizione dominante di Gazprom in Euro-pa, rendendo agli occhi dei russi il mercato europeorelativamente meno appetibile che in precedenza.Negli scorsi mesi il dibattito tra Mosca e Bruxellessull’implementazione del pacchetto ha portato latensione tra le parti a livelli particolarmente alti, no-nostante tutti si siano dichiarate mutuamente dispo-nibili a cercare un compromesso per non pregiudi-

Dal punto di vista europeo,l’eccesso di offerta globaledeterminato dal crollo delle importazioni americane potrebbe favorire l’attuazione di una più ampia strategia di diversificazione attraverso la Lng, che nel 2010 ha superato per la prima volta nella storia il 30 per centodei movimenti globali di gas naturale

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care le relazioni bilaterali. Ma il tentativo di Moscadi diversificare i propri mercati di esportazione do-vrà fare i conti con una problematica che cronica-mente affligge il settore energetico russo, la caren-za di investimenti a livello industriale. Senza unareale apertura agli investimenti stranieri nel paese,la Russia rischia di trovarsi incapace di risponderein modo appropriato alla crescente domanda di gas,contribuendo all’erosione della propria credibilitàe affidabilità di paese fornitore agli occhi dei par-tner energetici, vecchi e nuovi che siano. La parzia-le interruzione degli approvvigionamenti verso l’Eu-ropa dello scorso febbraio – causata da un invernoeccessivamente freddo e dal conseguente picco del-la domanda domestica – sono significativi della ne-cessità russa di mettere concretamente mano allapropria industria energetica.

La partnership con l’ItaliaAvviata grazie all’audace intraprendenza e allo spi-rito pionieristico di Enrico Mattei sul finire deglianni Cinquanta, la partnership tra Roma e Moscarappresenta un elemento essenziale della politicaenergetica italiana. L’Italia è oggi il secondo impor-tatore europeo di gas naturale dalla Russia, e insie-me alla Germania assorbe il 50 percento delle espor-tazioni russe verso il vecchio continente. Poiché ol-tre il 40 per cento dei profitti di Gazprom vengonogenerati sui mercati tedesco ed italiano, è evidentecome il nostro paese rappresenti un partner strate-gico per Mosca. Oltre al forte vincolo in materia diapprovvigionamenti – nel 2007 Eni ha sottoscrittoun accordo di fornitura con Gazprom con scadenzanel 2035 – Italia e Russia sono impegnati in una se-rie di ambiziosi progetti che riguardano l’intera ca-tena industriale energetica, dall’esplorazione allaproduzione, dal trasporto e alla distribuzione. At-traverso la sua controllata Saipem, Eni ha realizza-to l’oleodotto Blue Stream e il sistema di condottea terra nell’isola russa di Sakhalin; Eni è stata l’uni-ca compagnia straniera a prendere parte all’asta peril gigante energetico russo Yukos, dal quale ha ac-

quisito asset delle società Urengoil e Arktikgaz, chele permettono di avere accesso diretto all’esplora-zione di giacimenti di gas in territorio russo; trami-te la sussidiaria Eni Energia, ha infine siglato – pri-mo operatore europeo a raggiungere un’intesa diquesto tipo in Russia – una serie di contratti per lavendita di gas con il produttore energetico russoTgk-9. In alcuni casi, tuttavia, la posizione privile-giata dell’Italia ha rappresentato un elemento con-troverso delle relazioni energetiche russo-europee.Vista spesso (ed erroneamente) come favorita esclu-sivamente dalle relazioni e dagli affari personali diBerlusconi e Putin, la politica italiana verso Moscaè stata interpretata da Bruxelles (e da Washington)come un grosso freno alla creazione di una coeren-te politica energetica dell’Unione verso la Russia.Il caso più emblematico è certamente South Stre-am: il dibattito sulla realizzazione del gasdotto, pro-mosso tra l’altro nel 2006 dal governo di centro-si-nistra e marcatamente europeista guidato da Roma-no Prodi, ha creato notevoli tensioni tra Bruxellese Roma, accusata di esporre l’intera Europa ai ri-schi del dominio energetico russo. Queste accuse, tuttavia, non tengono in debita con-siderazione il background storico delle relazioni traItalia e Russia, non considerano le peculiarità delmix energetico italiano – fortemente sbilanciatoverso il gas – e soprattutto tendono a sottovalutarel’impegno di Roma nel favorire la diversificazio-ne degli approvvigionamenti grazie alla realizza-zione di importanti infrastrutture quali i gasdottimediterranei Transmed e Greenstream. Nonostan-te le critiche e le pressioni esterne, ma con la con-sapevolezza che l’eccessiva concentrazione dellefonti di approvvigionamenti rappresenta una mi-naccia alla sicurezza energetica del paese, la rela-zione con Mosca rimane un elemento fondamenta-le e indiscutibile per la politica italiana. Riuscire aplasmare il proprio approccio, in modo da potergiocare un importante ruolo di trait d’union nei rap-porti tra Russia ed Europa, deve essere un obietti-vo strategico per il futuro.

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ciclopico, considerando anche che la Russia spendeper la Difesa annualmente intorno ai 65 miliardi didollari. Solo per i prossimi tre anni si tratterebbe diconsacrare alla difesa almeno un 3 percento addizio-nale del pil, quasi raddoppiando la spesa militare. Econsiderando che i soldi extra dovrebbero andare asviluppare e comprare nuovi armamenti… i timoripotrebbero essere giustificati. Ma non è così. Per di-versi lustri la Russia è scomparsa dal novero delle po-tenze militari ed ha vissuto sulle vestigia di quantoera rimasto del formidabile strumento bellico eredi-tato dall’Urss. Semplicemente mancavano persino isoldi per far funzionare i mezzi e gli equipaggiamen-ti, per addestrare il personale, per effettuare la manu-tenzione e in qualche momento anche per pagare re-golarmente gli stipendi. In particolare, per oltre un de-cennio, nel corso degli anni Novanta, il ministero del-la Difesa non è stato in grado di ordinare al pur ma-stodontico complesso militare-industriale un solo nuo-vo mezzo, aereo, elicottero, unità navale che fosse. Eprogressivamente la macchina militare si è fermata.È a partire dal Duemila, con l’inizio della stagione diPutin, che è stata avviata una lenta ricostruzione e ri-strutturazione, volta a ridare un po’ di efficienza, ri-ducendo contemporaneamente le dimensioni e la con-sistenza di un complesso di forze solo sulla carta co-lossale. Quanto valessero realmente le forze russe lo

si era visto tragicamente durante le operazioni mili-tari in Cecenia, quando la Russia è stata costretta aimpegnare massicciamente le forze di sicurezza delministero degli Interni per supplire almeno in partealle carenze della ex Armata Rossa. Quello che era ilpiù potente esercito al mondo aveva cessato di esse-re uno strumento impiegabile in operazioni reali. Pu-tin ha imposto una severa riorganizzazione, che si èestesa anche al corrottissimo e inefficiente sistema in-dustriale militare, il Voenno promyshlenmy komplex,o Vpk, costretto a subire una serie di accorpamenti,di fusioni, di tagli e riduzioni forzate. Putin ha ancheavviato una politica di export militare con poche re-more e limiti, che ha dato peraltro ottimi risultati, por-tando l’ammontare delle vendite di sistemi ed equi-paggiamenti militari a superare la soglia dei 10 mi-liardi di dollari all’anno, contribuendo così a sostene-re attività di ricerca e sviluppo e quantomeno il mi-glioramento dei mezzi e degli armamenti più riuscitirealizzati o progettati prima del collasso dell’imperosovietico. Di fatto per anni le industrie russe hannoprodotto poco e solo per l’export, consegnando aiclienti stranieri armamenti spesso più sofisticati diquelli in servizio con le forze armate domestiche. Lapolitica nazionalistica, la riscoperta dell’orgoglio pa-trio, delle vecchie insegne imperiali e le “sparate” diPutin non si sono però tradotte in risultati concreti per

IL RIARMO RUSSO, TRA BOUTADE, REALTÀ E CORRUZIONE

IL CREMLINO (PER ORA) NON FA PAURADI ANDREA NATIVI

è motivo di preoccuparsi se Mosca proclama di voler riconquistare unruolo «imperiale» e se il Cremlino annuncia investimenti addizionalirispetto al bilancio ordinario della difesa pari a 20 trilioni di rubli,ovvero 625 miliardi di dollari entro il 2020, per realizzare una «re-mili-tarizzazione» del Paese? Se fosse vero si tratterebbe di uno sforzo

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diversi anni e tutt’ora resta moltissimo da fare. Be-ninteso, i progressi ci sono stati, ma a ritmi molto len-ti e molto… russi, anche per via dell’inerzia e dellaresistenza di una classe di militari e funzionari chenon solo vedeva sgretolarsi certezze, potere e presti-gio, ma addirittura doveva temere per il proprio po-sto di lavoro e per il modesto ruolo previsto nella nuo-va società russa. Ma a dispetto della retorica, Putin siè ben guardato dal commettere gli errori dei suoi pre-decessori e non ha incrementato la spesa militare a li-velli tali da compromettere la rinascita economica edindustriale e la modernizzazione del paese. A dispet-to degli introiti garantiti dalla vendita di petrolio e digas naturale a prezzi sempre più vantaggiosi, Moscanon ha accelerato più di tanto gli investimenti per ladifesa: se nel Duemila la difesa pesava per il 3,7 percento del pil nel 2009 si era arrivati al 4,3 per cento.Valori sicuramente elevati, ma sostenibili. Nel 1995in teoria la Russia spendeva il 7,4 per cento del pil perla Difesa. Putin e Medvedev hanno deciso di proce-dere con decisione ancora maggiore dopo che le “nuo-ve” forze armate russe sono uscite vittoriose dal con-fronto con la piccola Georgia nel 2008. Per osserva-tori esterni non potevano esserci dubbi sull’esito del-

la crisi, ma se la mini guerra si fosse svolta solo treanni prima i russi non sarebbero riusciti a strapazza-re gli impudenti e suicidi Georgiani, come invece han-no fatto. Da allora il Cremlino ha deciso una nuovariforma della macchina militare, perché il successoha anche messo a nudo molte manchevolezze, non-ché dei caposaldi strategici sui quali si basa la politi-ca di difesa e di sicurezza del paese. Putin aveva giàfatto elaborare una nuova dottrina militare nel Due-mila, poi rivista nel 2003, sia pure in modo informa-le. Nel febbraio 2010 è toccato a Medvedev promul-gare una nuova edizione del documento, che ha de-terminato ruoli e funzioni e stabilito i principi cardi-ne della ennesima ristrutturazione, anche questa vol-ta a ridurre le quantità in favore della qualità, della ef-ficienza e di un vero balzo tecnologico.

Dalla leva al professionismoIl passaggio da un sistema di alimentazione basatosulla mobilitazione di masse enormi di soldati di le-va, sottoposti a lunghi periodi di ferma obbligatoria,ad un reclutamento imperniato su volontari e pro-fessionisti non è davvero un traguardo vicino per laRussia. E probabilmente non è neanche desideratodal Cremlino, che avrebbe più di un motivo per dif-fidare della lealtà di forze armate piccole, efficientie professionalizzate. Mosca si accontenta di proce-dere ad una progressiva riduzione del “peso” dellaleva e ad un incremento della componente profes-sionale, soprattutto nei reparti ad elevata prontezzaoperativa, la élite del nuovo esercito russo. Fatto stache l’obiettivo di ridurre gli effettivi al di sotto del-la soglia psicologica del milione di uomini (e don-ne) è stato posticipato al 2013. Oggi si viaggia an-cora intorno a 1,13 milioni di militari, tanti, troppi,a dispetto di una popolazione di circa 140 milioni diabitanti, con un tasso di invecchiamento però mol-to elevato e indice di crescita demografica negativo.Peraltro ci sono problemi non trascurabili nel reclu-tamento e mantenimento in servizio di volontari e pro-fessionisti di qualità e questo spiega perché ancoranon si è raggiunta la soglia del 20 per cento di profes-

A dispetto della retorica,Putin si è ben guardato dal commettere gli erroridei suoi predecessori e nonha incrementato la spesamilitare a livelli tali da compromettere la rinascitaeconomica ed industriale e la modernizzazione del Paese. Se nel Duemila la difesa pesava per il 3,7per cento del pil nel 2009 siera arrivati al 4,3 per cento

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sionisti che rappresenta, per ora, il massimo previstoper il nuovo sistema misto. Solo qualche anno fa sisperava di arrivare al 60 per cento, poi si è dovutoconciliare i sogni con la realtà. Peraltro si è provve-duto a ridurre la durata della coscrizione a 12 mesi (inprecedenza erano 2 anni), mentre molti giovani scel-gono il servizio civile alternativo, anche perché que-sto ora dura 24 mesi e non 42 mesi come accadeva inprecedenza. La riforma prevede la creazione di unnuovo corpo ufficiali, con la riduzione degli alti gra-di e degli ufficiali non «operativi» e soprattutto la at-tribuzione di crescenti responsabilità ad un corpo pro-fessionale di sottufficiali, che in tutti gli eserciti co-stituisce la spina dorsale del sistema. Nell’ArmataRossa questa funzione era svolta dagli ufficiali e que-sto ne spiega l’inflazione. Anche la Russia però si staallineando al modello occidentale e questo ha com-portato il pensionamento di ben 160mila ufficiali.Quelli che restano dovranno avere più responsabilitàe competenze. Ma certo quello del personale rimaneuno dei settori ancora più deficitari.

Le forze nucleariNella consapevolezza che le forze convenzionali so-no e resteranno ben al di sotto dei livelli di capaci-tà ed efficienza desiderati, la Russia continua ad af-fidare le sue pretese di potenza sugli armamenti nu-cleari. Le forze strategiche sono di fatto una forzaarmata separata, i cui effettivi rappresentano oltre il10 per cento del personale in uniforme. Mosca insi-ste a proclamare l’importanza delle armi nucleari el’efficienza e letalità del suo arsenale. Però è bencontenta di poterne ridurre la consistenza attraversoaccordi bilaterali con gli Stati Uniti. In particolaresia il trattato di Mosca imposto da Bush nel 2002,sia il New Start firmato nel 2010, entrato in vigorel’anno successivo e i cui nuovi «tetti» per testate evettori saranno obbligatori nel 2018, hanno consen-tito a Mosca di ridurre il suo costosissimo potenzia-le nucleare, affidato, come avviene negli Usa ad una«triade» costituita da missili balistici basati a terra,lanciati da sottomarini a propulsione nucleare e su

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missili e bombe lanciati da bombardieri. Mosca nonha i soldi e le capacità industriali e tecniche per rea-lizzare una nuova generazione di missili e vettoristrategici. Basti pensare ai bombardieri, sempre quel-li dei tempi dell’Urss, un misto di Tu-160 superso-nici e di affascinanti, ma super obsoleti Tu-95 conpropulsione turboelica. Di realizzare un nuovo bom-bardiere pesante proprio non si parla. Le cose van-no un po’ meglio per il tradizionale elemento prin-cipe del deterrente russo, i missili balistici basati aterra, fissi e mobili. I vecchi “mostri” della guerrafredda, gli Ss-18 e Ss-19, vengono un poco alla vol-ta rimpiazzati dalle versioni evolute del Topol Ss-27, dal quale è derivato anche il nuovo e poco co-nosciuto Rs-24 a testate multiple. Vanno male in-vece le cose in campo navale, dove il programmavolto a realizzare un nuovo missile Slbm, lanciatoda sottomarini, il Bulava, ha avuto uno sviluppo tra-vagliatissimo, costellato da lanci falliti. Solo dopoanni sembra che il programma sia finalmente ma-turato al punto di poter procedere alla produzionedel nuovo missile, sia pure in piccola serie. La ma-rina peraltro sta procedendo con la realizzazione diuna classe di nuovi sottomarini strategici (Ssbn)della classe Borey. Dovrebbero essere 8-9 entro il2021. Intanto si continuano ad usare i vecchi Ty-phoon e Delta. L’importanza delle armi nucleari nelpensiero militare russo è confermata dalla isteriache riguarda i programmi statunitensi ed oggi an-che Nato volti a realizzare un sistema stratificato didifesa antimissile. Se le difese funzionano, allora imissili russi perdono valore e significato. E Moscanon lo può tollerare. Peraltro, anche se la Russia so-stiene di avere messo a punto missili in grado di su-perare ogni difesa (l’Iran dice di aver fatto la stes-sa cosa) la realtà è che i nuovi sistemi di difesa an-timissile sono finalmente efficaci e per superarequesti scudi… bisogna avere più missili e più leta-li. E Mosca non vuole essere costretta a produrli.Piuttosto la Russia sta cercando di recuperare par-te del terreno perduto in settori di importanza stra-tegica, come lo spazio o il cyberwarfare. In parti-

colare gli investimenti nei progetti spaziali milita-ri mostrano una qualche ripresa. Il segno più evi-dente di questa rinascita viene dalla rivitalizzazio-ne della costellazione di satelliti da navigazioneGlonass, che era scesa a livelli minimi di efficien-za e copertura, prima di essere ripristinata. E qual-cosa si muove anche nel campo dei satelliti per co-municazione, osservazione, spionaggio elettronico.A Mosca non serve invece spendere più di tanto nelcampo dei vettori spaziali, uno dei tradizionali pun-ti di forza della tecnologia russa: i vettori russi so-no molto validi, potenti e costano relativamente po-co. E aver a che fare con “clienti” europei, come èil caso di Arianespace con i lanciatori Soyuz, ha an-che portato a migliorare i processi industriali e icontrolli qualitativi, con positivi effetti sulla effi-cienza e la affidabilità.

Il comando centraleNel corso degli anni il sistema centrale e territoria-le di comando e l’organizzazione delle forze arma-te sono state più volte rivisti, anche perché Moscasi era trovata con una pletora di comandi e stati mag-

Consapevole che le forzeconvenzionali sono e resteranno ben al di sottodei livelli di capacità ed efficienza desiderati, la Russia continua ad affidare le sue pretese di potenza agli armamentinucleari. Le forze strategiche sono di fattouna forza armata separata, i cui effettivi rappresentanooltre il 10 per cento del personale in uniforme

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giori infarciti di ufficiali e staff che avevano poco onulla da comandare. Oggi non è stato ancora realiz-zata una revisione definitiva, però il concetto baseè quello di dar vita ad un comando operativo cen-trale dal quale dipendono le unità di elite con la mas-sima prontezza operativa (che sono anche quelle conpiù elevata presenza di professionisti, come la 76madivisione aviotrasportata della Guardia), ripartite traunità di reazione immediata e unità di reazione ra-pida. Questi reparti sono distribuiti sul territorio edipendono amministrativamente dai sei distretti, mail loro impiego è affidato al comando delle forze mo-bili, che risponde allo stato maggiore generale. I di-stretti sono comandi operativi interforze, ai quali so-no assegnati tutti i reparti aerei, navali e terrestri pre-senti nell’area di competenza. Dai distretti dipendo-no le armate da queste i corpi d’armata che inqua-drano le divisioni, formate da reggimenti. È statoproposto di semplificare ancora, passando ad unacatena che comprenda distretti-comandi interforze-brigate. Di fatto visto che le pedine operative sonodavvero poche, si stanno accorciando le catene dicomando, sopprimendo livelli intermedi e comandiche non comandano. Basta pensare al caso dell’Ae-ronautica, che sta passando da 340 a 180 unità e co-mandi e con le vecchie armate aeree che vengonosciolte, sostituite da soli quattro comandi operativi,con responsabilità territoriali molto ampie. Anchela Marina si va a snellire e se mantiene la suddivi-sione delle unità in diverse flotte, in realtà questesono ormai formazioni di ben modesta consistenza.Va anche precisato che i reparti “standard” riman-gono ancora poco più che formazioni di mobilita-zione: non hanno pieni organici, non hanno i mez-zi tabellarmente previsti, né livelli d’addestramen-to ed efficienza tali da consentirne un impiego, senon dopo un lungo periodo di preparazione. Questoperaltro non è un problema che affligge solo le for-ze armate russe… anche tra i paesi Nato, Italia in-clusa, ci sono situazioni analoghe. Del resto mante-nere un reparto alla massima prontezza è estrema-mente costoso e non è neanche sostenibile nel tem-

po, occorre infatti prevedere un ciclo di rotazione,che richiede ovviamente il ricorso ad un pool abba-stanza vasto di reparti operativi.

I primi progressiL’Aeronautica russa finalmente sta ricevendo aereidi nuova produzione e non deve solo accontentarsidi ammodernare vecchi velivoli, con anni e anni diservizio sulle spalle. Intendiamoci, i programmi d’ag-giornamento e di estensione della vita operativa diquesto o quel velivolo, si tratti di bombardieri tatti-ci Su-24 o di caccia Su-27, ci sono ancora e del re-sto attività analoghe sono in corso su F-16 e F-15anche negli Stati Uniti. Ma per la Russia la novità èrappresentata dalla produzione e consegna di diver-si modelli di aerei da combattimento realmente nuo-vi. Se anche si tratta della ultima evoluzione di pro-getti datati conta poco, anche perché finalmente cisono anche i nuovi programmi, a partire da quellorelativo al nuovo caccia pesante Sukhoi T-50, al cen-tro di una collaborazione con l’India. Il T-50 è unvelivolo che, quando entrerà in servizio, consentiràun salto qualitativo all’aeronautica di Mosca ed avràanche un notevole appeal per selezionati clienti in-ternazionali. Parallelamente l’aeronautica riceve an-che nuovi aerei da addestramento, elicotteri da col-legamento e da combattimento, velivoli da traspor-to. I ritmi di produzione e consegna sono semprelentissimi e prima che possa essere raggiunta unareale capacità operativa devono passare anni, peròtutti questi sono segni concreti di rinnovamento. Chearrivano al momento giusto: basti pensare che deiquasi 1.500 elicotteri in servizio con l’aviazione del-l’esercito, quelli in grado di volare sono forse soloil 50 percento. Anche la Marina, da sempre la cene-rentola tra le forze armate russe, ha motivo di sorri-dere. Si tratta ad esempio dei grandi sottomarini nu-cleari da crociera classe Severodvinsk, o di una nuo-va serie di battelli Progetto 636 Kilo migliorati, or-dinati per compensare i risultati poco soddisfacentiottenuti con i Lada, o del progetto relativo a grandicacciatorpedniere lanciamissili Progetto 21956, men-

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tre entrano in servizio anche le fregate classe Gor-shkov e Grogorovich, le fregate leggere classe Ta-tarstan, le corvette classe Stregushchy e i pattuglia-tori Grad Sviyazhky e le navi da assalto anfibio IvanGren. Magari le risorse sono state disperse su trop-pi tipi e modelli, ma certo gli ammiragli russi nonsi lamentano, perché possono finalmente sostituirevecchie navi ormai obsolete e logorate e ci sono an-che i soldi per ammodernare alcune grandi unità giàin servizio, ma ancora sfruttabili. Quanto all’esercito. Magari sarà stato costretto a ri-nunciare all’acquisizione di un nuovo carro da bat-taglia, il cui sviluppo si trascinava da anni, ma leconsegne di nuovi mezzi e gli interventi di rivitaliz-zazione di quelli in linea sono una realtà positiva,mentre in alcuni settori, come quello dei sistemi mis-silistici antiaerei, ci sono importanti (e temibili) no-vità, come la raggiunta operatività dei nuovi siste-mi S-400 Treumf e lo sviluppo dei successivi S-500.

Affari & mercatiQuello che un tempo sarebbe stato anatema è oggiuna realtà: la Russia non si accontenta più di acqui-stare i suoi mezzi dalle industrie domestiche. Se que-ste non sono in grado di realizzare quanto necessa-rio, in termini di qualità, di tecnologia, di efficien-za e di costi, il Cremlino ha autorizzato il ministrodella Difesa Anatoly Serdyakov a comprare all’este-ro. Due i casi eclatanti: l’acquisito di due unità daassalto anfibio classe Mistral dalla Francia e il pro-gramma che porterà a realizzare forse 2.500 mezziruotati protetti Iveco Lince, prodotti su licenza inRussia. Se fosse possibile Mosca comprerebbe an-che molto altro in Occidente. Basti pensare che ilcapo delle forze corazzate ha detto pubblicamenteche piuttosto che continuare ad acquistare i carri dabattaglia T-90, visti i prezzi richiesti, preferirebbepoter acquistare carri tedeschi Leopard 2. Solo cheper certi prodotti e tecnologie c’è ancora un embar-go non ufficiale, senza contare che se qualcuno siazzarda a vendere qualcosa a Mosca, Washingtonsubito scatena tutta la sua potenza di fuoco politica,

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strategica ed economica. Fare affari in campo mili-tare con Putin e compagni, pardon, soci, proprio èun tabù. Agli occhi statunitensi solo vendere a Pe-chino è peggio che vendere a Mosca. Per le indu-strie di casa questi acquisti stranieri sono veri e pro-pri smacchi, che si aggiungono a quelli subiti in cam-po, ad esempio, elettronico (anche qui i francesi so-no i venditori più disinvolti). Le industrie russe pe-raltro stanno finalmente uscendo dalla dipendenzadai progetti ex Urss e cominciano a realizzare mez-zi innovativi di vario tipo. Per cercare di colmare ilgap tecnologico nei confronti dell’Occidente (che èindiscutibile ed è andato ad ampliarsi nel corso de-gli ultimi 10-15 anni) i russi hanno battuto più stra-de. Da quella tradizionale dello spionaggio industria-le e militare (la stessa attività è praticata su scala an-cora più ampia la Cina) allo sfruttamento delle tec-nologie duali e commerciali, approfittando anche delrelativamente rapido processo di “banalizzazione”di tecnologie comunque molto avanzate. Certo, nonbasta per rimanere agganciati agli Stati Uniti o al-l’Europa quando si tratta di realizzazioni top, per-ché rubare o comprare non basta, però almeno nonsi perdono posizioni. Del resto il problema della Rus-sia non è mai stato quello dei cervelli: i bureau rus-si hanno sempre vantato scienziati di prim’ordine,capaci di studiare soluzioni e tecnologie eccellenti.I problemi nascevano quando si trattava di passaredalla ricerca e dai laboratori alla realizzazione, spe-rimentazione e ancora più vistosamente alla indu-strializzazione e produzione. Queste difficoltà in par-te ancora esistono. Neanche l’azione brutale di Pu-tin, che ha schiantato più di un boiardo e schiere digenerali, ha potuto compiere il miracolo. Anche per-ché talvolta i nuovi tecnocrati non si sono poi mo-strati così superiori agli esponenti dell’ancien régi-me. Non c’è motivo per aver paura dell’orso russo.Mosca non ha volontà e non possiede e non avrà imezzi per tornare a rappresentare un problema perla sicurezza dell’Occidente. Anzi, non era in effetticonveniente assistere ad un progressivo depaupera-mento del potenziale militare russo vis a vis con un

sostenuto (sì preoccupante, in ottica di lungo termi-ne) potenziamento di quello cinese. Il riarmo russodi fatto si limita alla sostituzione di sistemi d’armagiunti alla fine della vita operativa con mezzi più re-centi, moderni, ma che non sono certo migliori diquelli realizzati negli Usa o in Europa. E il recupe-ro d’efficienza e di effettive capacità operative nondeve allarmare, perché si parte da livelli estrema-mente bassi e il tutto si accompagna ad una drasti-ca riduzione quantitativa. La nuova Russia non è enon sarà una minaccia per la sicurezza, anzi, qual-che problema di sicurezza poteva nascere da unaRussia militarmente troppo debole. Gli slogan di Pu-tin non devono quindi allarmare, tanto più visto cheè, nel contesto politico russo, un quasi moderato cheaspira ad una dittatura morbida. E che deve guardar-si da estremisti nazionalisti o vetero comunisti i qua-li, per quanto folkloristici, non vanno sottovalutati.Anche perché tra le forze armate raccolgono moltipiù consensi di quanto non accada a Putin.

L’obiettivo di ridurre gli effettivi al di sotto della soglia psicologica del milione di uomini (e donne) è stato posticipato al 2013. Oggi si viaggia ancora intorno a 1,13 milioni di militari,tanti, troppi, a dispetto di una popolazione di circa 140 milioni di abitanti, con un tasso di invecchiamento molto elevato e un indice di crescita demograficanegativo

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il dissolvimento dell’Urss, l’industria della difesarussa ha vissuto, fino al 1998, due trasformazioni trau-matiche: da un lato la riduzione radicale di investi-menti e commesse da parte del governo della Fede-razione russa; dall’altro il mercato nei paesi dell’Eu-ropa orientale in precedenza assicurato dall’egemo-nia sovietica è venuto a mancare con lo scioglimen-to del Patto di Varsavia, e il successivo allargamentodi Nato e Ue. La conseguenza delle due trasforma-zioni è stata la drastica riduzione della capacità pro-duttiva del comparto aerospazio e difesa, sia in ter-mini di personale che di strutture produttive. L’indu-stria della difesa russa impiegava 8 milioni di lavora-tori nel 1990, scesi a 2,6 milioni cinque anni dopo ea 1,8 milioni nel 2004, il 2,7 per cento del numero dioccupati in Russia nel 2004. Il bilancio della difesa, pur non scendendo mai sottola soglia del 3 per cento negli ultimi 20 anni, ha se-guito l’andamento altalenante dell’economia russa.Dopo la fase più acuta della crisi economica nel 1997-1998, l’industria della difesa russa è tornata a cresce-re anche grazie ai programmi di modernizzazione eriarmo delle forze armate condotti dalla presidenza diVladimir Putin prima e di Dimitrij Medvedev poi.Tuttavia i livelli raggiunti rimangono inferiori a quel-li registrati della guerra fredda, e maggiormente in li-nea con la realtà della Russia di oggi. Ad esempio, il

valore della produzione industriale russa nel 2005 eratriplicato rispetto al 1997, ma ammontava circa allametà di quello registrato nel 1991. Un’altra trasfor-mazione importante ha riguardato il ruolo dello statonella duplice veste di compratore e produttore, trami-te aziende controllate, di sistemi d’arma. Diverse ri-forme del procurement russo si sono succedute dal1991 in poi, volte tra l’altro a realizzare un certo con-trollo civile, da parte del governo e in particolare delCremlino, su un settore come il procurement in pre-cedenza di esclusiva competenza militare. Pur rima-nendo sia la domanda che l’offerta sotto il controllogovernativo, si è inoltre affermata una certa separa-zione funzionale tra compratori e produttori. I primi,cioè le forze armate, dal 2008 conducono i program-mi di procurement attraverso l’Agenzia federale peril procurement di sistemi d’arma, equipaggiamentimilitari e logistica, incaricata di definire, firmare emonitorare l’esecuzione dei contratti. Un ruolo simi-le è svolto nei rispettivi settori dall’Agenzia spazialefederale, la Roskosmos, e da Rosatom, l’Agenzia fe-derale per l’energia atomica – nonché per l’armamen-to nucleare. Il coordinamento tra ministero della Di-fesa e i ministeri o le agenzie incaricate della politi-ca industriale avviene tramite la Commissione mili-tare-industriale istituita nel 2006. In particolare il mi-nistero per l’Industria e l’energia supervisiona la po-

GAP TECNOLOGICI E AUTARCHIA NON CONSENTONO IL DECOLLO DELL’INDUSTRIA

LA DIFESA DIMEZZATADI ALESSANDRO MARRONE

l mercato della difesa russo, sia per quanto riguarda la domanda che l’offer-ta, rimane un caso a sé stante non assimilabile né ai modelli europei o ame-ricani né a quelli offerti dalle economie emergenti. Per comprendere l’attua-le situazione del mercato russo della difesa, e non solo, è necessario consi-derare il cambiamento radicale avvenuto nelle ultime due decadi. Infatti, con

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litica industriale, inclusa quella relativa all’’industriadella Difesa, tramite l’agenzia Rosprom. Sul versan-te dell’offerta, la base industriale russa ha sperimen-tato un processo di ristrutturazione e consolidamen-to, basato su acquisizioni e fusioni, che ha portato al-la formazione di pochi grandi gruppi industriali spe-cializzati in macro-settori quali ad esempio aeronau-tica, cantieristica navale, elettronica, elicotteristica.Tali gruppi industriali sono direttamente o indiretta-mente posseduti o controllati dallo stato russo. Nelcomplesso, il modello di concentrazione e controllostatale tanto sulla domanda che sull’offerta nel setto-re della difesa ricalca quanto avvenuto in Russia nelsettore dell’energia. Oltre agli aspetti economici e isti-tuzionali, non vanno trascurati aspetti geopolitici eculturali che influenzano in maniera importante ilmercato della difesa russo. Sul primo fronte, non vadimenticata l’esigenza di proteggere un territorio na-zionale incredibilmente ampio, e comprendente o con-finante con diversi focolai di crisi – nonché con uncompetitore globale come la Cina. Ciò contribuiscea spiegare gli investimenti russi ad esempio nel com-parto degli armenti terrestri e dei veicoli pesanti, in-clusi i carri armati di cui la Russia è un produttoreleader a livello mondiale. Riguardo al fattore cultu-rale in Russia, sia a livello di élite politiche che d’opi-nione pubblica, è forte la convinzione di essere unapotenza mondiale che deve essere in grado di com-petere in tutti i campi con gli Stati Uniti, nonché coneventuali potenze emergenti. Convinzione nel cam-po della difesa che poggia anche sull’eredità dell’erasovietica, ad esempio in termini di capacità conven-zionali e nucleari, di capacità produttive in tutti o qua-si i comparti dell’industria della difesa, nonché diesportazioni consolidate in mercati come quello ci-nese e indiano. Ciò contribuisce a spiegare la ritrosianel dipendere da fornitori stranieri, cui si ricorre so-lo ed esclusivamente quando l’industria nazionalenon è in grado di produrre neanche una versione ap-pena decente del sistema d’arma in questione. Adesempio, sebbene il settore aeronautico sconti dei for-ti gap tecnologici rispetto ai velivoli d’attacco euro-

pei o americani, è probabile che la Russia investiràsu un proprio velivolo di 5ta generazione, sulla basedell’esperienza maturata con i velivoli di 4ta, piutto-sto che acquistare all’estero piattaforme più perfor-manti e tecnologicamente avanzate. Il combinato deifattori geopolitico e culturale, nonché di altri elemen-ti peculiari del caso russo, fa della Russia un attoreglobale che coniuga una forte capacità produttiva edesportatrice con una netta chiusura del mercato inter-no alla penetrazione straniera. Le recenti dichiarazio-ni di Vladimir Putin hanno riaffermato la necessità,in termini di sicurezza e anche di sviluppo economi-co, di mantenere l’indipendenza scientifica, tecnolo-gica e militare attraverso investimenti nell’industriadella difesa nazionale. Di fatto, la Russia è un importatore marginale nel mer-cato internazionale della difesa. Oltre alla chiusuraassoluta verso le importazioni americane, peraltro ri-cambiata dagli Stati Uniti, si registra una certa rilut-tanza anche verso le industrie europee. È invece ab-bastanza consolidato l’interscambio con Israele, an-che grazie alla forte presenza di ebrei di origine rus-sa nello stato mediorientale. In generale, il cliente rus-so nel rivolgersi a imprese straniere punta alla costi-

Dopo la fase più acuta della crisi economica nel 1997-1998, la difesarussa è tornata a crescereanche grazie ai programmidi modernizzazione e riarmo delle forze armatecondotti da Vladimir Putinprima e da DimitrijMedvedev poi. Tuttavia i livelli raggiunti restanoinferiori a quelli della guerra fredda

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tuzione di joint venture, tramite le quali ottenere ilmassimo possibile in termini di trasferimento di tec-nologia e di offset quali ad esempio stabilimenti pro-duttivi aperti sul territorio russo. È questa una politi-ca sempre più seguita oggi da molti paesi emergenti,inclusi India e Brasile. La Russia non è un paese emer-gente, sebbene incluso nell’ormai famoso acronimoBric, ma piuttosto un player globale che dopo la cri-si e le trasformazioni degli anni ’90 presenta oggi pun-ti di debolezza e di forza. Tra i punti di debolezza viè sicuramente il gap tecnologico delle capacità pro-duttive russe, nonché delle forze armate, che a volteè tale da non permettere efficaci joint venture né il de-siderato trasferimento tecnologico. Emblematico ilcaso delle fregate Mistral che la Russia ha dovuto ac-quistare dalla Francia vista l’incapacità della cantie-ristica russa di raggiungere standard accettabili. Tra ipunti di forza vi è senza dubbio la possibilità di co-prire quasi tutti i settori del mercato della difesa, e lacapacità di offrire prodotti che, sebbene tecnologica-mente non allo stato dell’arte, soddisfano anche gra-zie ad un prezzo relativamente basso i requisiti di pae-si più interessati alla quantità, convenienza e soliditàdei sistemi d’arma che al loro livello tecnologico. Nona caso i principali clienti delle esportazioni russe so-no paesi quali India, Cina, Algeria, Vietnam, Indone-sia e Venezuela. Quanto alle repubbliche ex sovieti-che, il panorama è piuttosto variegato: Bielorussia,Uzbekistan e Armenia sono generalmente allineaticon la Russia, se non veri e propri satelliti di Mosca,e rappresentano un mercato naturale per l’industriadella difesa russa; più dialettico il rapporto con Ucrai-na e Kazakistan, quest’ultimo un paese strategico vi-sti i siti industriali e militari russi presenti sul suo ter-ritorio, inclusi quelli di tipo spaziale e nucleare; traRussia e Georgia i rapporti sono ovviamente interrot-ti. L’export è sicuramente uno dei punti di forza del-l’industria della difesa russa: tra il 1995 e il 2008, il21 per cento di tutte le esportazioni nel mercato inter-nazionale della difesa erano di provenienza russa (con-tro il 38 per cento di provenienza americana). L’export russo è sostenuto e coordinato in modo cen-

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tralizzato dall’agenzia governativa Rosoboronexport,che fornisce anche assistenza tecnica alle forze arma-te dei paesi compratori, regola le produzioni su licen-za, e si occupa di prodotti e tecnologie dual use. Ro-soboronexport conta anche su una società privata, laOboronprom (United industrial corporation) per pro-muovere la cooperazione tra l’industria russa e le so-cietà straniere. I proventi delle esportazioni sono in-vestiti principalmente in programmi di ricerca e svi-luppo volti a colmare il gap tecnologico dell’industriadella difesa russa, particolarmente grave in settori qua-li le telecomunicazioni, i sistemi di comando e con-trollo, l’elettronica a l’informatica. Tali gap sono il ri-sultato anche della storica debolezza dell’industria ci-vile, che invece negli Stati Uniti e in Europa alimen-ta ormai da anni l’innovazione tecnologica nei sud-detti settori con importanti ricadute anche nel campodella difesa. I programmi di riarmo recentemente an-nunciati dal vertice politico russo offriranno proba-bilmente maggiori opportunità per investire nella mo-dernizzazione delle forze armate, ma l’export rimar-rà comunque una fonte importante di risorse per un’in-dustria della difesa come quella russa che necessitadi forti investimenti per diventare tecnologicamentecompetitiva con le imprese occidentali. In questo contesto, quali sono le opportunità per im-prese europee ed in particolare italiane nel settoreaerospazio e difesa? Un primo elemento da consi-derare è la possibilità di investire in settori civili con-tigui a quelli militari, quali l’avionica e l’elicotteri-stica, per dimostrare la validità dei prodotti non-rus-si e guadagnare credibilità agli occhi dello stato rus-so. Un investimento che comprende e comprenderàanche in futuro la creazione di joint venture, comead esempio la SuperJet costituita da Finmeccanicae Sukoi per l’aeronautica civile, e l’utilizzo o la crea-zione di capacità produttive in Russia. Un altro ele-mento importante è il ruolo dei governi e in genera-le del sistema-paese. Questo ruolo è stato efficace-mente interpretato ad esempio da Francia e Germa-nia, che sono intervenuti ai massimi livelli politiciper sostenere contratti importanti, come nel caso del-

le due navi Mistral acquistate nel 2011, o hanno sa-puto combinare dossier e business diversi in modosinergico, come dimostrato dal relativo aumento del-le esportazioni tedesche in Russia in parallelo allarealizzazione del gasdotto North Stream che portail gas russo in Germania. In questo senso, le recen-ti, limitate, cooperazioni inter-governative avviatetra Italia e Russia favoriscono la nascita di coopera-zioni industriali, quali ad esempio quella che vedeIveco OtoMelara attiva nel settore dei veicoli blin-dati leggeri. Il terzo elemento da considerare è chepaesi tradizionalmente importatori di prodotti russicome Cina e India, che insieme acquistavano il 60per cento delle esportazioni russe nel 2008, stannosviluppando capacità industriali autonome semprepiù in grado di competere con le produzioni russerelativamente a basso costo e bassa componente tec-nologica. Ciò potrebbe forzare Mosca ad accelera-re la rincorsa tecnologica e quindi ad aprirsi a mag-giori cooperazioni con industrie europee tecnologi-camente più all’avanguardia. Sempre che, a preva-lere sulla ratio economica, non sia quella geopoliti-ca e culturale a favore di una rinnovata autarchia del-la grande potenza russa.

L’industria russa ha sperimentato un processo di ristrutturazionebasato su acquisizioni e fusioni, che ha portatoalla formazione di pochigrandi gruppi industriali (di fatto controllati dallo Stato) specializzati in macro-settori come aeronautica, cantieristicanavale, elettronica ed elicotteristica

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GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Uno strumento militare più efficiente e sostenibile

Dopo almeno un decennio di rinvii, finalmente un ministro del-la Difesa ha avuto il coraggio di ammettere che le attuali dimen-sioni dello strumento militare sono incompatibili con il bilanciodella difesa e che, di conseguenza, vanno significativamente ri-dotte. In realtà la “sostenibilità” delle Forze armate è risultatadubbia per lo meno a partire dalla loro professionalizzazioneperché l’aumento del costo del personale e, insieme, degli inve-stimenti in presenza di una progressiva riduzione delle spese perla difesa avrebbero inesorabilmente portato prima a tagliarel’esercizio oltre il livello di guardia e poi gli stessi investimenti.Il risultato di questa deriva sarebbe stato uno “stipendificio”mortificante per il personale e di scarsa utilità per la sicurezzae la difesa del paese. Va a merito del ministro Di Paola aver ri-condotto tutti alla ragione presentando un piano di ridimensio-namento e riqualificazione dell’intero strumento militare.Del personale si parla nel commento a fianco. Qui si propongo-no alcune riflessioni sulla parte investimenti. Il punto di parten-za è preoccupante: oggi in Italia l’investimento per militare è16.400 euro contro una media europea di 26.500. Questo signi-fica che spendiamo circa un terzo in meno. Il tasso di capitaliz-zazione per uomo è un dato importante perché dovendo tutti farfronte ad un ventaglio molto ampio di rischi e minacce, caratte-ristico del nuovo scenario geo-strategico, dobbiamo dotarci diequipaggiamenti diversi, da quello relativamente più semplicea quello più complesso. Ma, soprattutto, dobbiamo accettare lasfida del mantenimento di un gap tecnologico nei confronti deipotenziali nemici statuali e non. In un’epoca in cui la crescitatecnologica internazionale viaggia ad una velocità incredibile,così come la diffusione verticale e trasversale della tecnologia,tutto ciò comporta un forte e continuo impegno nell’innovazio-ne di prodotto e di processo. Altrettanto preoccupante è la quo-ta delle spese per la funzione difesa destinata agli investimenti:18 per cento contro il 25 per cento che è considerato in tutti ipaesi il modello di riferimento. Se poi si considera la media de-gli ultimi cinque anni si scende al 14 per cento pari a circa 3,2miliardi di euro. Questo livello non consente di finanziare ade-guatamente i programmi d’equipaggiamento, anche se va con-siderato il contributo dei finanziamenti erogati dal ministero del-lo Sviluppo economico stimabili in un altro miliardo di euro. La

situazione è resa ancora più grave dal mancato finanziamentodelle spese di esercizio (12% contro il 25% ottimale) perché si-gnifica che mezzi e sistemi non possono venire adeguatamentemanutenuti e aggiornati nell’interesse delle Forze armate che liusano, ma anche dell’industria che può trovarvi occasioni di la-voro e di apprendimento/miglioramento delle conoscenze.Le minori dimensioni dello strumento comporteranno ancheuna riduzione degli equipaggiamenti: due brigate su undiciin meno comporteranno meno veicoli corazzati, armi pesan-ti e leggere, sistemi di comunicazione, mezzi di trasporto esupporto, elicotteri, ecc.; i pattugliatori scenderanno da di-ciotto a dieci, cacciamine e sottomarini da sei a quattro; inuovi Jsf saranno 90 anziché 131, sostituendo circa 160 ve-livoli di tre tipi oggi in servizio.Forze armate più ridotte costeranno di meno, ma avranno biso-gno di una minore quantità di mezzi. Questo consentirà di con-centrare maggiori volumi finanziari su un minore numero di mez-zi e sistemi. Si potranno così completare in tempi ragionevoli iprogrammi di ammodernamento, evitando il rischio di un’ecces-siva diluizione che ne comprometterebbe l’efficacia. Ma vi sonodue ulteriori campi su cui la difesa dovrà misurarsi vincendo re-sistenze interne ed esterne: quello dell’efficienza del supportologistico e quello dell’integrazione interforze di capacità opera-tive, gestione amministrativa e supporto logistico/addestramen-to. Sul primo fronte bisogna prendere atto che la complessitàdella maggior parte dei mezzi e sistemi comporta un trasferi-mento di attività di supporto logistico verso le imprese, anchenei teatri operativi. Bisogna che Forze armate e imprese condi-vidano questo cambiamento organizzativo, tecnico, amministra-tivo e giuridico. Sul secondo fronte bisogna rompere con un pas-sato che non ci possiamo più permettere. A cominciare dalla ge-stione interforze degli elicotteri da trasporto per arrivare all’ad-destramento del personale destinato alla protezione delle basi edelle strutture, per non parlare delle strutture territoriali e logi-stiche. Ma il vero banco di prova saranno i nuovi programmi do-ve tutto deve essere ancora impostato, a partire dal Jsf dove Ae-ronautica e Marina dovranno saper dimostrare che per i velivo-li a decollo corto, addestramento e supporto logistico possonoessere fatti insieme, senza se e senza ma.

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editoriali

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Il ministro della Difesa, Giampaolo Di Paola, ha presentato lelinee guida del progetto di riforma dello strumento militare, lacui attuazione è demandata ad un’apposita legge delega ed ilcui successo dipende dal grado di consenso politico che saràpossibile ottenere su una riforma che non potrà che essere la-crime & sangue. Peraltro se si è potuto varare una riforma del-le pensioni durissima nel giro di qualche settimana, non si ve-de perché non si possa procedere con relativa rapidità ancheper la difesa. L’importante è arrivare in fretta all’emanazionedei decreti legislativi delegati, in modo che il successivo gover-no, politico, possa semplicemente scaricare la responsabilitàdella riforma ai “tecnici”. Il ministro ha ragione quando diceche l’intervento deve riguardare il sistema difesa nella sua in-terezza, ma non vi è dubbio che lo scoglio più arduo da supe-rare sia quello della riduzione del personale. Per pagare glistipendi agli attuali 183mila militari e 30mila dipendenti civi-li della Difesa (che in base agli organici stabiliti in passato do-vrebbero essere 190mila e 43mila) si spendono oggi 9,5 miliar-di di euro, ovvero il 70 per cento dei fondi messi a disposizio-ne per la funzione difesa, contro l’11 per cento per l’esercizioe il 18 per cento per l’investimento. Per riportare le percentua-li su livello di equilibrio virtuoso (50-25-25 per cento) occor-re evidentemente tagliare la spesa per il personale del 20 percento. Ovvero quasi 2 miliardi di euro, che andrebbero “spo-stati” su esercizio e investimento, in modo da assicurarsi chela macchina militare funzioni e sia efficiente e che i militari sia-no tecnologicamente all’altezza dei partner internazionali. Ilministro ha detto che considerando una invarianza degli stan-ziamenti per la difesa per i prossimi anni non si può che taglia-re la consistenza del personale, scendendo a 150mila militarie 20mila civili. Quindi un taglio del 20 per cento complessivo(ma più elevato per il personale civile, che si riduce di un ter-zo secco!) Guardacaso più o meno quanto Stranamore avevaindicato nel numero scorso di Risk. Gli strumenti per attuarequesta riforma sono quelli del trasferimento del personale ineccesso ad altre amministrazioni statali, con il ricorso estesoalla mobilità (che troverà formidabili opposizioni sindacali/bu-rocratiche da parte dei ministeri interessati, posto che la dife-sa dovrà comunque pagare la differenza tra il nuovo stipendio

e il vecchio stipendio, che risulterà normalmente più elevato diquello nuovo), poi una drastica riduzione del turnover, con unariduzione degli arruolamenti del 30 per cento (di più non si puòfare per non avere personale troppo anziano: chi parla di «di-pendenti statali in uniforme» dimentica che ai soldati si chie-de di… correre, combattere, sostenere sforzi fisici prolungati…una vita un po’diversa da quella dei travet). Ancora, la “man-naia” della Arq, una sorta di aspettativa/prepensionamento e,incredibile a dirsi, il ricorso a forme di «part time». Il tutto do-vrà anche essere accompagnato da una nuova legge di avan-zamento, da una nuova «pianta organica» del personale checonsenta finalmente di riequilibrare il sistema, reso ingestibi-le da una inflazione di dirigenti e quadri, sia nel ruolo degli uf-ficiali sia in quello dei sottufficiali. Di Paola ha già fornito qual-che dato, dicendo ad esempio che i generali/ammiragli a trestelle passeranno da 48 a 35. Senza dubbio un passo in avan-ti, ma si può fare di più, semplicemente perché con 420 ed ol-tre ufficiali generali l’Italia ha una “densità” di generali conpochi paragoni in Europa. Si dirà che le Forze di Polizia sonomesse ancora peggio. Vero, ma non è una giustificazione peraccettare lo sfascio attuale. La sfida è senza dubbio formida-bile, anche perché l’obiettivo è quello di completare la riduzio-ne e rifondare il sistema nell’arco di dieci anni. Per l’Italia, do-ve le riforme che in altri paesi si fanno in due-tre anni richie-dono 20 anni, sarebbe una novità rivoluzionaria. La battagliasi annuncia feroce, anche perché alla fin fine sono 43mila po-sti di lavoro “statali” a tempo indeterminato e determinato chesi vanno a sopprimere. Ma non ci sono alternative, o la rifor-ma passa e trova l’indispensabile sostegno parlamentare, op-pure, in mancanza di drastici incrementi degli stanziamenti perla difesa, la macchina militare nazionale si trasformerà in bre-ve in uno stipendificio con poca o nessuna valenza operativa.Ed a quel punto sarebbe meglio chiudere davvero tutto. Quin-di occorre dare il pieno sostegno ad un’iniziativa rigorosa eobbiettiva di ristrutturazione, diventata tanto più urgente e pur-troppo così pesante perché per almeno dieci anni si è procedu-to verso il baratro facendo finta di non sapere che il modelloche si era ipotizzato non era né sostenibile n finanziabile. Oraalmeno il re è nudo e non ci sono più alibi.

GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Niente di... personale

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Nella speciale classifica deiPaesi più giovani della nostraterra, arriva secondo dopo il

Sud Sudan nato appena lo scorso lu-glio dal referendum che l’ha separatoda Karthoum dopo una lunga lotta ar-mata. Anche l’atto di nascita del Ko-sovo, arrivato soltanto nel 2008 con laproclamazione dell’indipendenza, haavuto una lunga gestazione comincia-ta con una guerra d’indipendenza dal-la Serbia, ultimo atto dello smembra-mento della Jugoslavia che ha cambia-to il volto del tormentato mosaico deiBalcani. In pochi anni, però, l’anticaDardania ne ha fatta di strada. Dall’in-tervento militare della Nato del 1999,agli otto presidenti che si sono succe-duti in questi anni nel palazzo presi-denziale di Pristina – dallo storico eprofetico Ibrahim Rugova all’attualeed elegante presidente-donna, Atifete Jahjaga – finoall’approvazione della Costituzione entrata in vigo-re nel giugno del 2008. Dai rapporti sempre tesi conBelgrado al riconoscimento a metà alle Nazioni Uni-te, fino ai tentativi di oggi per approdare a una com-pleta normalizzazione con la Serbia che dovrebbeanche aprirgli la strada verso l’Unione europea.Ad ascoltare i dirigenti di questo giovane Stato – e gio-vani sono pure tutti i suoi ministri – ci sono ancoramolte difficoltà da superare, ma la strada imboccata è

quella giusta. E c’è anche la segretasperanza che, dopo le elezioni previ-ste in Serbia per fine aprile di que-st’anno, anche l’atteggiamento di Bel-grado possa ammorbidirsi e favorirequella riconciliazione che a Pristinatutti dicono di volere e che potrebbeportare al riconoscimento da parte ser-ba del Kosovo. La vera fine di unaguerra. Come scrive Noel Malcom,autore del libro Kosovo: una piccolastoria e ricercatore alla All Souls Col-lege di Oxford, la storia, per i serbi, ècominciata all’inizio del settimo se-colo dopo Cristo, quando s’insedia-rono nei Balcani. La loro base di po-tere era fuori dal Kosovo – Kosovaper gli albanesi – che occuparono agliinizi del Tredicesimo secolo, dunquela loro pretesa che il Kosovo sia la cul-la dei serbi, è falsa. È vero, invece,

che i serbi dominarono il Kosovo per circa 250 anni,fino alla conquista ottomana della metà del Quindice-simo secolo. Le chiese e i monasteri serbi risalgono aquel periodo, ma non c’è continuità tra lo Stato me-dievale serbo e la Serbia di oggi più di quanto ce nesia tra l’Impero bizantino e la Grecia di oggi. Il Koso-vo rimase territorio ottomano fino all’occupazione del-le forze serbe nel 1912. I serbi la definiscono una “li-berazione”, ma anche dalle loro stime viene fuori chela popolazione ortodossa serba nel territorio era meno

ScenariBALCANI

MODELLO KOSOVODI ROSSELLA FABIANI

Non solo politica. Il futuro del paese

si gioca anche a livello economico

ed energetico con Usae Russia ancora una

volta contrapposte pergarantirsi il controllo

delle vie di sbocco ai mercati. Nel campoculturale la maggiorparte dei kosovarialbanesi rivendica

la sua appartenenzaall’Europa

e all’Occidente

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scenari

del 25 per cento. La maggioranza della popolazioneera albanese, e non diede il benvenuto al dominioserbo, dunque «occupazione» sembra la parola piùappropriata. Legalmente il Kosovo non fu incorpo-rato nel Regno serbo nel 1912, rimase invece terri-torio occupato fino a qualche tempo dopo il 1918.Poi, finalmente, fu incorporato non in uno Stato ser-bo, ma in quello jugoslavo. E dopo una grande in-terruzione, la seconda guerra mondiale, il Kosovorimase parte della Jugoslavia fino alla fine del giu-gno 2006, anno in cui il Paese creato da Tito si sciol-se formalmente con l’indipendenza del Montene-gro. Fino alla distruzione della vecchia Jugoslaviafederale da parte di Milosevic’, il Kosovo ebbe undoppio status. Era chiamato parte della Serbia, maera anche definito come un’unità componente del-la federazione jugoslava. Prevalse il secondo status:il Kosovo ebbe il suo Parlamento e il governo ed erarappresentato direttamente a livello federale, accan-to alla Serbia. Era, infatti, una delle otto unità com-ponenti il sistema federale. Quasi tutte le altre uni-tà sono oggi diventate Stati indipendenti. Storica-mente, quindi, l’indipendenza del Kosovo comple-ta il processo che era stato tradito da Tito. Al termine della seconda guerra mondiale, dopo la vit-toria dei comunisti nel 1945, il Kosovo infatti entra afar parte della nuova Jugoslavia come regione auto-noma, nella prospettiva di ottenere una completa in-dipendenza nazionale, costituzionale, economica eculturale all’interno della federazione socialista jugo-slava. In realtà, invece, le promesse fatte da Tito nel1943 a Jajce – in Bosnia Erzegovina – a proposito del-l’uguaglianza di tutti i popoli all’interno della fede-razione jugoslava, non si applicarono agli albane-si. Soprattutto dopo la rottura dell’Albania conl’Unione Sovietica e con la Jugoslavia, venne in-trodotta una politica di rinnovata serbificazione –la prima risale a dopo la prima guerra mondialequando il Kosovo diventa parte del regno di Serbia,Croazia e Slovenia – questa volta per opera del ca-po della polizia segreta comunista, Aleksandar Ran-kovic. Perché il Paese, oggi, possa andare avanti

traendo un sicuro vantaggio da un nuovo spirito diapertura dopo tanti anni di politica di oppressionee d’isolamento, attuata anche dalla vicina Albania,bisogna augurarsi che possa essere trovata una so-luzione che garantisca il rispetto dei diritti umani ela tolleranza per tutti nel Kosovo, la terra dell’epo-pea serba e della realtà albanese.

I rapporti con la Serbia e la propaganda di Mosca

Primo passo importante in questa direzione è la ricon-ciliazione con la Serbia che deve riconoscere il neo-Stato del Kosovo che, nel passato, è stato un regnodell’Illiria. Ed è quello a cui stanno lavorando le di-plomazie americane ed europee oltre a quelle kosova-re: ottenere che il loro grande avversario, la Serbia,che considera l’indipendenza del Paese come una se-cessione, accetti invece la nuova realtà. A Pristina so-no convinti che l’attuale governo di Belgrado sareb-be anche pronto a riconoscere il Kosovo, ma che c’èil problema delle prossime elezioni politiche in Ser-bia – previste per la prossima primavera – con il par-tito ultranazionalista che fa propaganda in nome del-l’unità del Paese e che dichiara «incedibile la provin-cia del kosovo» spingendo alla prudenza anche i piùmoderati che per non perdere le elezioni sono moltocauti sul capitolo riconoscimento del Kosovo, ma do-po il voto e la possibile sconfitta degli ultranazionali-sti, si potrebbero avviare delle serie trattative. Al mo-mento, tuttavia, i rapporti tra Pristina e Belgrado con-tinuano ad essere molto tesi anche all’indomani del-l’iniziativa di una parte della comunità serba che, so-prattutto nel Nord del Kosovo, ha raccolto oltre 20mi-la firme chiedendo la cittadinanza russa. E con il mi-nistro degli Esteri russo, Sergej Lavrov che sembraaver preso molto sul serio la questione e dice di com-prendere «molto bene dal punto di vista politico le ra-gioni della richiesta» tanto che la cancelleria di Mo-sca starebbe «accuratamente studiando il caso». Perquanto riguarda l’aspetto giuridico, in Russia esisteuna legge che regola casi in cui la cittadinanza è ga-rantita ad abitanti di Stati stranieri. E anche da Bru-

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xelles, l’ambasciatore russo alla Nato Dmitry Rogo-zin, ha giudicato questa iniziativa «un vero tesoro vi-sto il problema demografico russo». Così, mentre Bel-grado è costretta a scegliere tra la sua ex provincia el’adesione alla Ue, gli slavi di Mitrovica chiedono lacittadinanza russa sperando nel sostegno di Moscacontro la maggioranza albanese.In realtà, la maggior parte della città, così come il re-sto del Kosovo, è abitata da albanesi, ma il potere cen-trale non arriva nel Nord di Mitrovica dove i serbi so-no la maggioranza. Il tentativo di Pristina di estende-re il suo controllo ai posti di frontiera situati a Norddella città, lungo la frontiera con la Serbia, ha provo-

cato diversi incidenti e ha spinto l’Eulex – la missio-ne dell’Unione europea in Kosovo – a prendere ilcontrollo provvisorio dei valichi. I manifestanti ser-bi, che organizzano i posti di blocco davanti ai pas-saggi gestiti da Eulex, sono motivati non soltanto dasentimenti patriottici ma anche – e soprattutto – daltimore di perdere i proventi del contrabbando chedilaga in questa regione. Purtroppo i negoziati ser-bo-kosovari – che erano ripresi il 21 novembre scor-so – non hanno portato ad alcun risultato concreto.E i serbi di Mitrovica non sembrano avere più fidu-cia nemmeno nella loro ex madrepatria: temono in-fatti che Bruxelles imponga alla Serbia il riconosci-mento dell’indipendenza del Kosovo come condi-zione per la sua adesione alla Ue e riesca in questomodo a piegare Belgrado. Oggi, i serbi rimasti sisentono al sicuro soltanto sotto la protezione delle

forze internazionali, che – paradossalmente – dete-stano. La fiducia nell’ombrello di sicurezza russo èabilmente alimentata da Mosca che ha preso moltoa cuore la vicenda della richiesta della cittadinanza.E poco importa, in realtà, se la legge russa prevedeche i candidati alla nazionalità debbano essere resi-denti in Russia o ex cittadini di quella che fu l’Unio-ne sovietica, cosa che esclude qualunque possibili-tà legale per gli abitanti serbi di Mitrovica. Mosca,con le false speranze date ai serbi del Kosovo, cer-ca con tutti i mezzi di complicare ancora di più lasituazione. Ma a Mitrovica si ricorda che in Ab-khazia e in Ossezia la Russia ha cominciato a con-cedere la sua nazionalità alle popolazioni locali,poi è entrata in guerra con la Georgia e infine hariconosciuto l’indipendenza di questi due territori.Così anche i serbi sperano, un giorno, nell’indipen-denza di una Repubblica russa di Mitrovica. Si trat-ta ovviamente di un sogno. Alimentato da una scal-tra propaganda. Qualche tempo fa i montenegrini(600mila in tutto) alla domande sul loro numeroreale rispondevano: «Insieme con i russi siamo 140milioni». Ma il Montenegro ha tradito: ha ricono-sciuto il Kosovo e vuole entrare nella Ue. Diffici-le trovare oggi nel Nord del Kosovo delle bandie-re montenegrine, a differenza di quelle serbe –uguali a quelle russe ma con i tre colori al contra-rio – che invece non mancano. Diversi analisti hanno intravisto una soluzione conMitrovica e il territorio a Nord del fiume Ibar annes-si alla Serbia e al governo di Belgrado e con il Koso-vo che riallaccia una parte del Sud della Serbia pren-dendo i distretti di Bujanovac e di Presevo, tolti daTito e abitati in maggioranza da albanesi. Ma per ilgoverno di Pristina, come pure per molti intellettuali,questa via non è assolutamente praticabile. SecondoShpend Limoni, giornalista albanese dell’Express èirrealizzabile perché Presevo è troppo importante perla Serbia come nodo strategico di collegamento con iBalcani meridionali e in particolare per l’asse viarioche porta in Grecia. Allo stesso tempo Mitrovica ètroppo importante per il Kosovo, troppo fragile per ri-

In Europa Spagna,Slovacchia, Romania, Grecia e Cipro non riconoscono il Kosovo, perché non hanno intenzione di creare un precedente che poi possaritorcersi contro di loro

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discutere i confini. Anche in Macedonia c’è una par-te del Paese abitata soltanto da albanesi che potrebbe-ro rivendicare lo stesso diritto e così in Bosnia. La Ser-bia stessa, del resto, non soltanto ha una forte fetta dicomunità albanese nelle sue regioni meridionali, maanche una rilevante presenza di ungheresi a Vojvodi-na. Per non parlare poi del Sangiaccato in cui vive unacomunità bosniaca che già comincia a far sentire i pri-mi echi di autonomia. Se si fa passare il messaggioche gli Stati multietnici non funzionano e che è neces-sario tagliarli per riflettere le comunità prevalenti, po-trebbe riesplodere un grosso problema comune a tut-ta la regione balcanica. Sembra allora molto probabi-le che gli abitanti di Mitrovica non riusciranno né asalvaguardare i loro passaporti attuali con l’aquila ser-ba a due teste né a ottenere quelli con l’aquila bicefa-la russa. E non rischiano neanche di sfoggiare l’aqui-la albanese, poiché la comunità internazionale ha vie-tato l’uso ufficiale di questo emblema agli albanesi delKosovo, imponendone un altro che su uno sfondo bluriprende i contorni del Paese in giallo accompagnatoda sei stelle bianche che simboleggiano i sei principa-li gruppi etnici: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniacie gorani. Oggi la nazione kosovara guarda a Bruxel-les e Pristina deve cercare di gestire i suoi dossier conl’Unione europea in una maniera costruttiva, sottoli-nea Lamberto Zannier. Una delle grandi aspirazionidei kosovari è quella di ottenere, come ha avuto la Ser-bia, la liberalizzazione dei visti. I movimenti migra-tori ci sono sempre stati: pensiamo all’Albania o, piùdi recente, anche alla Romania. La prerogativa per ikosovari è quella di trovare un accordo politico con laSerbia che permetta di terminare il blocco. A quel pun-to aumenteranno le chances del Kosovo di diventaremembro degli organismi internazionali.

Pristina tra Mosca, Teheran,Ankara e Bruxelles

Ma il Kosovo non è soltanto conteso dalla Serbia. Inrealtà questo piccolo Paese – 10.887 chilometri qua-drati e poco meno di 2milioni di abitanti – fa gola amolti. Perché rappresenta un solido appoggio nel cuo-

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re dell’Europa. Da quando ha iniziato la sua lotta pri-ma per l’indipendenza e ora per il riconoscimento –85 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite e 22 dei27 della Ue lo hanno già riconosciuto – il principalealleato del Kosovo sono stati gli Stati Uniti. Effetto diquesto appoggio atlantico è il rifiuto da parte dell’Irandi riconoscerlo come Stato indipendente. In Europainvece sono cinque i Paesi (Spagna, Slovacchia, Ro-mania, Grecia e Cipro) che non riconoscono il Koso-vo perché non hanno intenzione di creare un prece-dente che poi possa ritorcersi contro di loro. La que-stione di Cipro è nota, ma non bisogna dimenticareche in Spagna le minoranze basche e catalane recla-mano indipendenza, che in Slovacchia sono gli unghe-resi ad alzare la voce e che la Romania ha la frondadella Transilvania. Se l’Iran rifiuta di riconoscere il neo Stato kosovaroper la forte alleanza che lega il Paese dei Balcani agliStati Uniti – a Pristina c’è anche un Bill Clinton bou-levard con una sua enorme statua – in realtà in giococi sono anche tutte le alleanze economiche che si con-tendono i vari corridoi di petrolio di gas e di materieprime oltre che gli sbocchi sul mare Mediterraneo perpoi gestire i commerci transoceanici. Oltre all’Irananche giganti come Russia, Cina, India, Brasile e SudAfrica considerano la Repubblica kosovara come unasecessione. La Russia da parte sua ha molti interessia rimanere nella regione attraverso il suo alleato tra-dizionale (la Serbia) e quindi ha il problema di rico-noscere il Kosovo che potrebbe anche essere un pre-cedente pericoloso per altre repubbliche ex sovieti-che che hanno al loro interno movimenti secessioni-sti. Tuttavia la Russia ha ammesso che quello del Ko-sovo è un caso sui generis non comparabile né con ilNagorno-Karabhak, l’enclave armena in Azerbaigian,né con il riconoscimento russo delle due repubblichedell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale proclama-tesi nel 2008 indipendenti dalla Georgia. Né tantome-no con la Transnistria, sottilissima striscia di terra cherivendica la propria indipendenza de jure dalla vici-na Moldova. Ma anche in questo caso, in realtà, unruolo forte lo gioca la gestione delle pipeline. Per

quanto riguarda la Turchia – da sempre in ottimi rap-porti con gli Stati Uniti – la sua presenza nel Paesebalcanico è molto forte. Molte delle moschee koso-vare – distrutte durante la guerra – sono state restau-rate da organismi turchi, Da parte europea, Bruxellessta rimandando continuamente la decisione di accet-tare il Paese del Bosforo nei suoi meccanismi. Poli-tica questa che ha spinto il nuovo governo della Tur-chia a cambiare atteggiamento, quasi non cercandopiù una strategia congiunta con Usa, Russia e Unio-ne Europea ma inseguendo altrove alleanze strategi-che oltre che economiche. E su questo scacchiere in-ternazionale, il Kosovo è determinato con la sua gio-vanissima classe politica a cercare una sua propriastrada per lo sviluppo con una strategia aperta versotutti i Paesi, compresa la Turchia.

Strategie e prospettive economicheUno spazio importante occupa la questione delle geo-strategie relative al percorso del petrolio e alle suevie che possono essere vie marittime mediante super-petroliere e vie terrestri mediante oleodotti, pipeline.E anche se la propaganda le copre con considerazio-ni ora etniche, ora religiose, ora per i diritti umani, ea volte anche per il patrimonio culturale, le guerre sifanno per motivi strategici legati alle risorse. Quellecombattute in Kosovo e in Albania, terminale del-l’oleodotto del petrolio del Caspio, come pure quel-le in Cecenia, origine dell’oleodotto, ne sono un ul-teriore esempio. La Russia non può permettere, in-fatti, che gli Stati Uniti avanzino nel cuore dei Bal-cani continuando ad insediare le proprie basi milita-ri all’interno di un Paese circondato dal territorio ser-bo che è da sempre vicino alla Russia. Come l’enor-me base militare statunitense di Bondstell – 360 et-tari di terreno – a Urosevac al confine con la Mace-donia, che ha reso il Kosovo una piattaforma di rife-rimento per gli Stati Uniti con un accesso diretto al-l’Europa orientale e all’Asia centrale. Ma il futurodel Kosovo si gioca anche a livello economico-ener-getico con America e Russia ancora una volta con-trapposte per garantirsi il controllo delle vie di sboc-

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co dei mercati energetici. Sebbene il Kosovo non ab-bia petrolio, tuttavia la sua ubicazione è strategica ri-spetto alla pipeline trans-balcanica, il cosiddetto ga-sdotto Ambo che si collega anche alla base militaredi Bondsteel. Ambo è il consorzio di diritto statuni-tense Albanian Macedonian Bulgarian oil corpora-tion che instraderà il petrolio del Mar Caspio dal por-to di Burgas, attraversando la Macedonia, sino al por-to di Valona, per essere poi immesso sul mercato eu-ropeo, e in particolare verso Rotterdam e la costaorientale degli Stati Uniti. Quando la pipeline Ambodiventerà operativa farà parte del corridoio Est-Ovestcritico per la regione, includendo autostrade, ferro-vie, gasdotti e fibre ottiche per le telecomunicazioni.Un tale progetto non può che essere in contrasto conl’altrettanto ambizioso progetto russo del gasdottoSouth Stream che connetterà direttamente Russia eUnione Europea, eliminando ogni Paese extra-comu-nitario ed ex comunista dal transito. Il progetto, svi-luppato da Gazprom, Eni ed ora anche da francesi etedeschi, prevede l’utilizzo del territorio serbo per in-stradare verso l’Europa il petrolio del Mar Caspio,grazie anche ad una joint venture serbo-russa per co-struire il tratto della conduttura del gasdotto che tran-sita attraverso la Serbia per oltre 400 chilometri e cheavrà una capacità di almeno 10 miliardi di metri cu-bi all’anno di gas. Il progetto – la cui realizzazionedovrebbe concludersi entro la fine del 2015 – preve-de anche la costruzione di un deposito di stoccaggiosotterraneo di gas presso Banatski Dvor, in Vojvo-dina, e l’acquisto del pacchetto di maggioranza del-la Società petrolifera serba Naftna industria srbije(Nis). Non vi è alcun dubbio, dunque, che è proprionei Balcani che si sta venendo a creare un terreno discontro tra Russia e Stati Uniti, in nome di una guer-ra fredda che forse non è mai finita. La Serbia costi-tuisce da tempo l’ultima resistenza a quelli che inmolti, soprattutto a Mosca, si ostinano a definire unacolonizzazione totale dei Balcani da parte degli Sta-ti Uniti, ma che invece per la maggior parte dei ko-sovari albanesi è semplicemente rivendicare la pro-pria appartenenza all’Europa, all’Occidente e alle

antiche origini cattoliche. Una vicinanza al mondocattolico testimoniata, come sembra, anche dalla con-versione sul letto di morte del presidente kosovaroIbrhaim Rugova alla presenza del cardinale AngeloScola. Come pure va sottolineata una specificità cul-turale particolare del Kosovo.

Il Kosovo si sente europeoQuello che più colpisce visitando il Paese è che no-nostante le guerre, i soprusi subiti e praticati, le enor-mi difficoltà attuali legate allo sviluppo, alla fortissi-ma disoccupazione, alla lotta contro le mafie e con-tro la corruzione, la popolazione vuole guardare alfuturo e vivere in pace. Tutti insieme musulmani, or-todossi e cattolici. E magari grazie anche alla diver-sità del patrimonio culturale. Perché, sia che si trattidel monastero di Decani o di una storica kulla (ca-sa) albanese, o del patriarcato ortodosso di Pec, de-gli affreschi della Chiesa Bogorodica Ljeviska a Pri-zren o della moschea Defterdar di Decani, quello checonta è la conservazione di questo patrimonio intesocome terreno per favorire il dialogo interculturale.La scommessa oggi è che gli stessi luoghi – i famo-si monasteri ortodossi tra i quali Graganica, Decanie Pec rivendicati dalla Serbia – che hanno diviso pos-sano unire. Ciò che è stato simbolo della distruzionedell’identità collettiva, una manifestazione tangibiledella divisione e dell’odio, può diventare la pietra sucui costruire rapporti duraturi che riescano a cambia-

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Nonostante le guerre, i soprusi, le enormi difficoltà, la fortissima disoccupazione, la lotta contro le mafie e la corruzione, la popolazionevuole guardare al futuro.Tutti insieme musulmani, ortodossi e cattolici

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re la storia futura. E a favorire il sogno europeo. An-che la professoressa Edi Shukriu presidente del Ko-sova council for the cultural heritage, ha un sogno:vedere finalmente Prizren nella lista Unesco, unicatra le quattro città principali della ex Juguslavia an-cora non inclusa nel prestigioso elenco. Ma soprat-tutto quello che non dividano più i beni culturali inbase alle etnie. Beni culturali e monumenti che testi-moniano la pluralità del territorio kosovaro ricco dichiese, monasteri e moschee. Dove le moschee sonodecorate in un modo tale che per bellezza, colori edeleganza credi di essere finito in un palazzo fioren-tino piuttosto che nella moschea di Sinan Pasha a Pri-zren. Colori delicati e forme leggiadre che disegna-no tulipani, cipressi, frutta, fiori, paesaggi e – soprat-tutto – tralci foltissimi di grappoli d’uva. E un’altraeccezione è il famoso minareto con la stella di Davi-de che si erge solitario al centro della piazza di Pri-zren. Ma non soltanto le decorazioni delle moscheeraccontano di un islam molto più europeo che saudi-ta. Gli stessi kosovari albanesi sono sui generis: abi-tuati a festeggiare il bairam, la festa musulmana do-po il Ramadan, con una rakìa – un tipo di grappa lo-cale – a mangiare la carne di maiale e a bere alcoli-ci, birra e vino prodotto sia dai musulmani sunnitiche dagli stessi sufi soprattutto nelle città di Suhare-ke e di Rahovec, entrambe nel distretto di Prizren. Enon è un segreto che il Kosovo mira a diventare laprossima Napa Valley la celebre terra del vino in Ca-

lifornia. Tutti – o, almeno, la stragrande maggioran-za – sono convinti che la religione sia un fatto priva-to, che non deve coinvolgere la società e che non èun impedimento nei rapporti con chi ha un’altra re-ligione. Posizione condivisa anche da Resul Rexhe-pi – segretario generale della comunità islamica delKosovo che fa riferimento alla scuola giuridica Ha-nafita – che prende le distanze dai wahabiti e chiosache la religione è cosa diversa dallo Stato. Delle guar-die e dei fili spinati intorno ai monasteri, il segreta-rio pensa che si tratti di una questione puramente po-litica, di una propaganda che vuole creare la perce-zione che questi luoghi di culto siano in pericolo. Ilsuo desiderio, invece, è che la chiesa ortodossa nonsia più influenzata dalla politica, ma che lavori sol-tanto per le questioni religiose. In Kosovo – paese unico al mondo – è stato istituitoun albo professionale per gli imam che lo diventanodopo aver vinto un concorso pubblico e avere fre-quentato la facoltà di studi islamici. La lingua usataè quella della comunità e non l’arabo che viene usa-to soltanto per recitare il rituale. Altro segno insoli-to di questo islam nel paese balcanico è la presenzadi molte comunità sufi, soprattutto della corrente de-gli Helveti a Prizren e dei Bektahsi a Giacova chenon vivono in clandestinità – come accade in Tur-chia o in Egitto dove sono proibite – ma al contrariopartecipano alla vita della comunità e hanno buonirapporti con le altre religioni. Anche per don LushGjergji, vicario generale della Chiesa cattolica delKosovo e biografo ufficiale di Madre Teresa dellaquale è stato in gran parte il postulatore, il proble-ma più grande del Paese è la disoccupazione e lamancanza di una seria politica fiscale. Mentre è mol-to fiducioso per i rapporti con le altre comunità re-ligiose. E lo storico incontro nel mese di novembrecon il Gran Mufti, Naim Ternava, e con il vescovoortodosso di Raska e Prizren, Teodosije Sibali – qual-che tempo prima inimmaginabile con il vescovo Ar-temjie con il quale c’era al contrario una chiusuratotale – è per padre Lush un «segno che i tempi stan-no cambiando e in meglio».

Se si fa passare il messaggio che gli Statimultietnici non funzionanoe che è necessario tagliarliper riflettere le comunitàprevalenti, potrebbe riesplodere un grosso problema comune a tutta la regione balcanica

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Chi è Karzai? Cos’è l’Af-ghanistan? Dov’è Ka-bul? Se viaggi nelle val-

li sperdute dell’Afghanistan, onegli altopiani desertici spazza-ti dal vento e da una polvere sot-tile come farina, queste sono do-mande che potrai sentire spes-so. Ed è bene tenerlo a mentequando immaginiamo che unpaese possa diventare anche labrutta copia di una democraziain un decennio. Gli americani inAfghanistan hanno avuto qual-che problema d’immagine perla vicenda del video col vilipen-dio di cadaveri di presunti tale-bani, per non dire dell’inciden-te del Corano bruciato. Ma so-stanzialmente possono afferma-re di aver fatto un buon lavoro.Hanno “ammorbidito” a sufficienza studenti coranici,bande criminali e signori della droga, tanto da farglivedere il tavolo negoziale come una possibilità, quan-to meno, da prendere in considerazione. Ma c’è del-l’altro. Ora il problema sarà lo sbilanciamento tra azio-ne militare sul campo, che sta funzionando egregia-mente, e quella politico istituzionale di state building,che è invece in ritardo. Un ritardo che rende forti gliattori esterni al paese, come Pakistan, Iran, india e Ci-na che già manovrano per il dopo 2014, quando Isaf

terminerà la missione militare.Ma su questo argomento lo stes-so generale John R. Allen è pos-sibilista «Roma non si è fatta inun giorno» e il Kosovo ci inse-gna che occorrono tempi storiciper cambiare l’intera cultura diun paese. La storia può anche di-ventare lunga se parliamo di unpaese sostanzialmente tribale.L’esercito afgano sta comincian-do a funzionare, bisognerà poioccupasi delle forze di polizia edelle guardie di frontiera che so-no soggette a dinamiche diffe-renti. La fretta degli americani auscire dall’Afghanistan onore-volmente non è soltanto dovutaa una promessa elettorale dellaCasa Bianca, ma anche dalla ne-cessità di focalizzare meglio le

risorse, non infinite, del dispositivo militare sul nuo-vo fronte Pacifico. La transizione è in atto – è partitala fase due – e nessuno vuole disturbare il manovrato-re, forse neanche gli studenti coranici che stanno in-tuendo che c’è qualcosa da spartire per il futuro. Latransizione afgana può funzionare ora, ma non è an-cora il momento di fare consuntivi. Lo state buildingè un concetto ancora troppo vago specialmente nellesperdute valle montane dell’altopiano afgano, dovel’universo coincide con l’orizzonte. Serviranno tempi

ScenariAF-PAK

PASSAGGIO DI POTERE A HERATDI PIERRE CHIARTANO

La fretta degli americani a usciredall’Afghanistan onorevolmente

non è soltanto dovuta a una promessa elettorale

della Casa Bianca, ma anche dalla necessità di focalizzare

meglio le risorse, non infinite, del dispositivo militare

sul nuovo fronte Pacifico

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storici per far capire concetti come Stato e cittadinan-za. Ma c’è un caso di best practice nel Paese. Ed hacome centro Herat e il comando italiano della regio-ne occidentale dell’Afghanistan, quella che confinacon l’Iran. Teheran per una lunga serie di ragioni hatutto l’interesse a tenere sotto controllo quella provin-cia che storicamente ha sempre risentito dell’influen-za iraniana. Ma anche l’India si sta muovendo in fun-zione antipakistana. Herat è stata l’antica capitale del-l’Oxiana di Tamerlano. Qui il processo di transizioneè molto avanti e farà da apripista per il resto del Pae-se. Il generale Luciano Portolano, comandante dellabrigata Sassari e a capo di RC West lo ha spiegato algenerale John R. Allen che guida Isaf: la transizionenella provincia di Herat è molto avanti, con l’opera-zione Omi di novembre 2011, che ha coinvolto circa800 uomini, per due terzi costituiti da forze afghane,può essere un modello per il passaggio di mano in tut-to l’Afghanistan. L’obiettivo di affidare in toto alle for-ze dell’Afghan national army la sicurezza della pro-vincia di Herat è a portata di mano, grazie all’attivitàdel comando italiano. Una volta effettuato il passag-gio di consegne le forze Isaf potranno dedicarsi ad al-tri compiti. È un messaggio forte dato alla comunitàlocale. E già ora si possono cominciare a tirare le som-me di tutta la cosiddetta Winter operation. Ci sono lecondizioni perché abbia successo. Gli unici a poter ro-

vinare la festa sono solo gli afgani. Dipende da quan-to impegno metteranno nel tenere saldo il testimonedella sicurezza. E le grandi manovre come la Omi ser-vono proprio a dare sicurezza ai reparti locali. Nei pro-cessi di pianificazione e analisi le forze locali suppor-tate dalla struttura Isaf a guida italiana stanno diven-tando autonomi. Allestire pacchetti di forze miste (com-bined) e anche la comunicazione esterna, sono ormaisettori dove l’Ana è in grado di svolgere compiti inpiena autonomia. Fondamentalmente la sicurezza inquesta regione, come in gran parte dell’Afghanistan,è legata al controllo delle vie di comunicazione. Il207mo corpo d’Armata afgano di stanza nella regio-ne ovest ha completato i propri ranghi all’80 per cen-to. Poi tutto dipenderà dalla loro volontà, visto che èun esercito su base volontaria. Ma bisogna ricordarsile tradizioni locali che a volte mal si conciliano conl’ortodossia necessaria a una forza armata. Se un mi-litare deve tornare nella sua città, perché è tempo ditosare le pecore, non chiede una licenza, parte e tornaa lavoro finito. Per addestrare un pilota servono quat-tro anni anziché due. Ancora oggi nella base di Shin-dand, dove ha sede l’Airbase support air advisory te-am e si addestrano i piloti di quella che sarà l’aeronau-tica afgana, le lezioni di volo sugli elicotteri Mi-17 sifanno con un traduttore a bordo. Dunque prima serveinsegnarli l’inglese. Anche l’élite dirigenziale del Pae-se per la maggior parte viene dalla diaspora degli af-gani all’estero con educazione e titoli di studio secon-do gli standard occidentali. Quando però si guarda al-la risorsa umana nata e vissuta in loco, tutto va ricon-siderato. E le forze armate non sono un caso a parte,rientrano nella stessa declinazione del problema. Il go-vernatore di Herat è afgano, ma ha lasciato una catte-dra universitaria negli Usa per tornare a servire la Pa-tria. Dunque la scelta diventa emblematica. O si pun-ta su elementi della diaspora che possono dialogarecon Isaf e un contesto internazionale, fondamentaleper il futuro del Paese, ma con poche radici sul terri-torio, oppure l’interlocutore diventa un locale con unforte controllo del territorio, ma digiuno e “illettera-to” rispetto alle esigenze complesse del compito. Inol-

Le strade in Afghanistansono il centro della vita,della morte e degli interessi.Lì si spara, si piazzano i micidiali ordigni improvvisati, si decide il futuro del Paese. Parliamodi carrozzabili asfaltate,poche, sterrati molti e sentieri appena accennati, tantissimi

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tre c’è una completa disistima per le istituzioni nazio-nali, a cominciare dal presidente Kharzai considerato“uomo da manette”. Il tentativo oggi è quello di rico-struire una legittimità delle istituzioni partendo da quel-le regionali. E una delle quattro mission di Isaf si chia-ma infatti Rule of law che si aggiunge alla Governan-ce security e development già in agenda. «La Rule oflaw è una field support mission», spiega Andrea Ro-mussi, resposabile civile della Nato a RC West. Si trat-ta di un’iniziativa dove la componente militare favo-risce gli operatori afgani nel campo della giustizia. Mabisogna rendersi conto che per i consuntivi serviran-no tempi storici. Nei Balcani si sta ancora lavoran-do… se per questo, anche in certe regioni d’Italia.

Non solo sicurezzaOltre la sicurezza, oggi issue fondamentale nella pro-vincia di Herat come in tutto l’Afghanistan, esistonoanche i problemi della vita quotidiana. Quindi oltre letrenta missioni operative militari che ogni giorno l’uf-ficio operazione di Rc West deve gestire, c’è tutto unaltro mondo che deve funzionare. Energia, acqua po-tabile e gestione dell’amministrazione locale in coor-dinamento con i vari livelli d’intervento internaziona-le danno un quadro realistico della situazione afgha-na. A Herat non ci sono problemi d’approvvigiona-mento elettrico, anche se si importa energia dall’Irane dal Turkmenistan. Non ci sono fenomeni conosciu-ti di sabotaggio alle linee dell’alta tensione. Le minac-ce sono in altri settori e assomigliano al racket delleestorsioni, come quello che sembra più direzionato airipetitori della rete telefonica mobile. L’acquedotto diHerat ha i conti in attivo e ong, agenzie Onu, Usaid eNato hanno creato una griglia di attività che dovreb-be favorire la rinascita delle strutture del governo lo-cale e dell’economia. «Governance, development erule of law», sono le direttrici entro cui si muovonotutte queste attività – oltre la security – come spiegaRomussi. Il lavoro di coordinamento di tutte le com-ponenti sul campo diventa dunque un elemento chia-ve per la buona riuscita di tutto il progetto di transi-zione. Il modello è quello studiato già da tempo dagli

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americani con Africom, un comando militare con i ci-vili del dipartimento di Stato inseriti nella struttura dicomando. Non c’è dubbio che se il concetto struttura-le l’hanno pensato a Washington, la sua applicazioneè fatta per incontrare pienamente ciò che è lo stile ita-liano nelle missioni militari all’estero. Uno stile ormairiconosciuto ed apprezzato. Passando dai distretti vi-cini alla capitale Herat e andando verso la periferia iproblemi aumentano, ma l’attività e le collaborazionicon istituzioni straniere sono un collante che prima opoi darà dei frutti positivi. A Herat sono già presentinumerose università italiane con dei progetti: da Tor-vergata alla Cattolica, dall’Università di Firenze cheopera con il dipartimento d’urbanistica dell’Ateneo diHerat per formare tecnici qualificati, alla Luiss per laformazione di quadri diplomatici. Anche il Centro al-ti studi della difesa (Casd) ha curato e organizza deimoduli formativi e dei programmi pilota per diploma-tici. Insomma è un esempio di come il modello Italiapossa funzionare.

La politica dell’oppioLa droga è un grande problema in Afghanistan, sia chesi guardi il Paese dal punto dei vista della gente piùumile e povera, sia che si pensi a come costruire i mec-canismi rudimentali di una democrazia, là dove l’in-dustria dell’oppio domina su tutto. E lo capisci anchedalle infrastrutture, compresa la grande Ring road, cheattraversa come un cerchio tutto il Paese. Le strade che

vanno a nord, sud e a oriente nella provincia di Heratsono asfaltate per pochi chilometri, come la Highway8 che va verso nord, direzione Turkmenistan. Ma sul-la direttrice che porta a Ghorian e poi in Iran la stra-da, la Highway 3, è comoda scorrevole e asfaltata. Lapianta del papavero cresce senza bisogno di grande at-tenzione. Non serve irrigarla, non serve concimarla.L’oppio viene compresso in pani, quelli che poi ven-gono caricati sugli Antonov in sette campi di volo se-mipreparati lungo il confine iraniano. Da queste pistesecche e polverose, percorse usualmente solo da scor-pioni, grandi come lucertole, la droga arriva negli hubdi Teheran e Mashad. Poi prende la via di Bratislavae del mercato europeo. La presenza iraniana si sentea Herat e provincia. Ci sono banche, aziende, scuolee agenti di Teheran in ogni angolo del territorio. Han-no tutto l’interesse a mantenere questa provincia sta-bile, per gestire gli affari e controllare un’area di con-fine importante. Certo non è tutto funzionale alla dro-ga, ma lo è molto. Herat è la provincia afghana che piùricorda l’Iran, ha molte facoltà universitarie, da inge-gneria a medicina. Ha uno standard di vita superiorea molte altre zone del Paese. L’Afghanistan producel’80 per cento dell’oppio grezzo a livello mondiale.«Ma stanno cominciando a organizzarsi con le lavo-razioni intermedie», ci spiega sempre il rappresentan-te Nato della Regione Ovest dell’Afghanistan. I si-gnori della droga locali si sono accorti di quanto pos-sono incrementare i guadagni con la raffinazione. «He-rat è un modello per tutto l’Afghanistan. C’è unagrande tradizione nel commercio e negli affari. A He-rat trovi ciò che non trovi nel resto della regione»,conferma Romussi. Tempo fa l’Occidente aveva cer-cato di essiccare alla radice il business del papavero,tentando di promuovere la coltivazione dello zaffe-rano. Una spezia pregiata che può essere venduta an-che a 12mila dollari al quintale all’ingrosso. Un prez-zo competitivo rispetto a ciò che pagano i signori del-la droga ai contadini afgani per garantirsi il raccol-to. «La pianta non produce subito, si deve aspettaretre anni per il primo raccolto», spiega il maggioreLuca Di Fazio del Cimic (il reparto che coordina le

Un ruolo fondamentalenella lotta anti Ied lo svolgel’attività d’intelligence che, seguendo mosse e spostamenti di questisignori delle bombe, può prevedere in qualizone potrebbe sorgere un nuovo pericolo

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attività civili-militari) del Prt (Provincial recostruc-tion team) di Herat, che ha seguito le iniziative perpromuovere la coltivazione della spezia “antidroga”.La zona migliore per questa coltivazione e quella diGhorian verso l’Iran. Iran, oppio e zafferano sembra-no incrociarsi di continuo. Nel 2010 sono stati acqui-stati dal Prt di Herat 400 tonnellate di bulbi. A dimo-strazione che si voleva fare sul serio. Però in Afgha-nistan non c’è un’economia pianificata, almeno nonc’è più da quando i sovietici hanno fatto le valigie.«La domanda deve venire dagli afgani», confermal’ufficiale Cimic. E nel 2011 purtroppo richiestenon ne sono arrivate. Forse tutti aspettano la cam-pagna d’inverno. Stagione che insurgent e signoridell’oppio non passeranno, come tradizione, a lu-cidare gli Rpg per la primavera, il tempo del rac-colto. I nemici del nuovo Afghanistan vorrebberodimostrare che la transizione – l’annunciata fasedue – non funzionerà. Ma dovranno vedersela conle truppe Isaf e, nel Regional Command West, an-che e soprattutto con gli italiani, tra i migliori in-terpreti del “manuale” Petraeus.

La sicurezza delle vie di comunicazioneLe strade in Afghanistan sono il centro della vita, del-la morte e degli interessi. Lì si spara, si piazzano leIed (Improvised explosive device), i micidiali ordigniimprovvisati, si decide il futuro del Paese. Sulle car-rozzabili asfaltate, poche, sugli sterrati, molti, e suisentieri appena accennati, tantissimi, passano le mer-ci, i viveri, le armi e la droga. Anche le bande crimi-nali sentono la pressione dei militari italiani. In ma-niera particolare a Nord verso Bala Murghab. Da cir-ca un paio d’anni si sta costruendo una strada alterna-tiva al pezzo di Ring Road che va verso nord in dire-zione del settore a comando tedesco. In maniera par-ticolare c’è una strettoia, che è un vero e proprio ca-nyon, ideale per agguati «stile quelli che vediamo neifilm di Indiana Jones». In quell’area molte bande ar-mate hanno i loro nidi e alcune roccaforti, probabil-mente fin dai tempi di Tamerlano quegli anfratti inac-cessibili sono stati nascondiglio e base per briganti e

tagliagole. «Si è deciso di aprire un percorso alterna-tivo verso ovest. Un bypass che tagli fuori quel pas-saggio così pericoloso», continua a spiegare il mag-giore dell’ufficio operazioni. E, a nord della provin-cia di Herat, «parliamo di criminalità dedite al traffi-co di droga e di armi» piuttosto che di insorgenti e ta-lebani. È un terreno molto difficile e aspro, ragion percui le operazioni hanno richiesto del tempo. La tatti-ca è quella di mantenere una pressione militare co-stante, prenderli per stanchezza. Intanto per garantirei rifornimenti alla zona di Bala Murghab si è decisodi costruire il bypass stradale. Si chiama «Lithium» epartendo da Khalinow sale verso nordovest costeg-giando il confine del Turkmenistan per entrare poi daovest, garantendo così la continuità con l’area nord.Le operazioni di apertura del passaggio è iniziata unpaio d’anni fa. È stata un’impresa tutt’altro che sem-plice «quella strada la usavano gli afgani per il traffi-co di droga e armi». Insomma, i militari Isaf hanno“rubato” la strada ai signori dell’oppio, che non l’han-no presa proprio bene. «Ci sono voluti anni di logo-ramento. E ora siamo riusciti a dargli una spallata. Asettembre non avevamo il controllo totale della Li-thium. Oggi c’è». Per la campagna d’inverno servivache quella via fosse aperta e “sicura”. La transizione accelerata richiede che ci sia un’acce-lerazione anche sulle operazioni di controllo del ter-ritorio. Anche qui i cacciatori di Ied hanno fatto la lo-ro parte. I cosiddetti harassment (ingaggi a fuoco) con-tinuano. «Quando passiamo ci sparano. Ma non met-tono più gli Ied», mentre dice queste parole l’ufficia-le tocca ferro. La scaramanzia, come la prudenza èd’obbligo in Afghanistan. «Ogni giorno convogli epattuglie, avanti e indietro. Loro soffrono la continui-tà dello sforzo», spiega l’ufficiale italiano. E ogni vuo-to lasciato da Isaf viene subito riempito da criminalie insorgenti. E dove sono più forti i militari di Isaf?Sulla mobilità e potenza di fuoco. E quello stannousando con efficienza e intelligenza. È un po’ comeessere in Aspromonte. «In particolare abbiamo usatosia convogli logistici che quelli di pattugliamento pernon dare fiato ai gruppi armati. Fino a quando hanno

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capito che non avevano più la forza e il tempo di pia-nificare minacce contro di noi. Anche loro pianifica-no, organizzano ed eseguono. Gli serve tempo per sca-vare una buca per la Ied, per sotterrare il piatto a pres-sione dell’innesco, per mettere dei riferimenti sul ter-reno che servono per comandare a distanza l’esplosio-ne. Hanno bisogno di tempo, ma se il tempo glielo to-gli perché gli stai addosso… ». Immaginiamo due diquesti artificieri che si avvicinano al luogo dove piaz-zare la Ied a bordo di una moto. Si muovono veloce-mente con l’orecchio teso ad ogni rumore d’elicotte-ro o drone volante. Cominciano a scavare, poi inter-rompono. C’è lo sbattere nell’aria di un rotore che rim-balza come un’eco nella valle. Poi di nuovo silenzio.Riprendono a scavare, piazzano la carica, poi il cavoche allungano per 30 metri oltre la strada per sfuggi-re agli jammer, i disturbatori elettronici di Isaf. Di nuo-vo un ronzio sospetto, si stendono dietro alcune pie-tre. Nulla. Riprendono il lavoro, piazzano il piatto dipressione. Uno riprende la moto e sistema delle devia-zioni sugli incroci vicini, per dirottare il traffico loca-le. L’altro piazza dei marker sul terreno, per capirequando schiacciare il pulsante e far detonare l’esplo-sivo. Come a Capaci. L’uomo in moto ha sentito unronzio sospetto, potrebbe essere il Rotax di un Preda-tor (infatti è così, la scena è registrata dalla camera diquesta spia dell’aria), torna in fretta dal complice chesta facendo il collegamento tra piastra e ordigno. Èconcitato, gli mette fretta: Boom. Esplosione da inne-sco accidentale. Vita da enplacer. Un capitolo a parteè richiesto per questi tecnici delle Ied, chiamati appun-to Ied enplacer. I migliori fanno parte di una elite cheviaggia, si sposta a seconda delle necessità. Qui svolge un ruolo fondamentale l’attività d’intelli-gence che, seguendo mosse e spostamenti di questi si-gnori delle bombe, può prevedere in quali zone po-trebbe sorgere un nuovo pericolo Ied. Ognuno di que-sti esperti ha un proprio stile, «una firma». I migliori,fatto il lavoro, tornano fuori confine. Con un attentolavoro di incrocio dati è possibile tracciare la mappae il profilo di ognuno di questi “bombaroli” e natural-mente seguirne gli spostamenti. Hanno un prezzo e

devono conseguire dei risultati, altrimenti è preferibi-le che cambino zona. Sono lo strumento con cui te-nere lontano dai business dei war e drug lord i mili-tari di Isaf. «Possono essere considerati come un cor-done di sicurezza intorno ai loschi traffici di questebande criminali». Un cordone fatto di bombe che uc-cidono. Hanno le loro scuole e le specializzazioni. Cisono esperti per ordigni “leggeri” e i “maghi” in gra-do di piazzare pacchi da 500 chilogrammi. «La listadegli enplacer l’abbiamo già stilata», confida l’uffi-ciale. Si tratta di stargli col fiato sul collo, allertare gliatmospherix (antenne passive dell’intelligence) e gliagenti attivi in grado di captarne i segnali di passag-gio in una determinata zona. Ora in Afghanistan èproibito acquistare sostanze dual use, certi concimiper l’agricoltura, come gli azotati o la polvere d’allu-minio, che serve ad aumentare la temperatura del-l’esplosione. Molti artificieri sono addestrati nell’Hel-mand altri in Pakistan, molti in Afghanistan. Il livel-lo tecnologico sta migliorando, non si tratta più d’or-digni rudimentali. Ce ne sono con doppio innesco: apressione e a comando oppure a oscillazione. E la tec-nologia che serve per questi congegni è reperibile fa-cilmente. «Anche le batterie delle auto sono perico-lose», in Afghanistan esiste un sistema centralizzatodi raccolta di batterie. È l’artigianato dei bombaroli.E la materia prima, gli esplosivi, non mancano. Tan-ti d’anni di guerra hanno creato centinaia di depositidarmi a cielo aperto. Mentre l’ufficiale della BrigataSassari continua a spiegarci le tecniche di scoperta del-le trappole esplosive, arriva improvvisa una chiamataradio. Il colonnello Vincenzo Lauro, capo cellula Pub-blica informazione di Herat fa un cenno. Dobbiamocorrere in fretta verso gli H 101. Gli elicotteri hanno imotori accessi e il rotore a pieni giri, pronto a stacca-re. Corriamo verso il tecnico di bordo che fa ampi ge-sti col braccio. Le turbine urlano, siamo avvolti da unanuvola di polvere del deserto. Poi di nuovo in volo, aogni steep turn (virata stretta) rimani incollato al se-dile. La luce forte e il vento freddo che ti sbatte in fac-cia ti ricordano che sei di nuovo in viaggio sui cielidell’Asia centrale, sulle vie dell’Oxiana.

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lo scacchiereEuropa /l’unione fuori casa: il nodo

politico delle missioni all’esteroDai Balcani al Corno d’Africa l’Ue risale la china dell’inconsistenza

Il recente lancio di una missione dell’Ue nel Cor-no d’Africa rappresenta una piccola, positivanovità in un panorama di stallo quanto ad ope-

razioni dell’Unione all’estero, stallo derivante dal-l’assenza di leadership politica a livello europeo.Lo scorso gennaio il consiglio Affari esteri dell’Ueha deciso l’istituzione di un Operations centre nelCorno d’Africa. Il compito principale dell’Opera-tion centre è migliorare il coordinamento tra le duemissioni militari Ue al momento in corso nella re-gione – Eunavfor Atalanta ed Eutm Somalia – e lanuova missione di capacity building decisa a di-cembre 2011. L’operazione Eunavfor Atalanta, lan-ciata nel 2008, è una operazione marittima di con-trasto alla pirateria che conta su circa 1.400 effetti-vi (incluso il personale nei comandi di terra), tra lecinque e le dieci fregate e un paio di navi di suppor-to. La missione Eutm Somalia fornisce sostegno algoverno di transizione federale somalo tramite l’ad-destramento di ufficiali, attività che però avviene inUganda, dove sono basati un centinaio di addestra-tori provenienti da dodici paesi membri dell’Ue.

Mentre la prima opera-zione ha registrato un cer-to successo nel contribui-re al contrasto alla pirate-ria, anche in cooperazio-ne con l’analoga missio-ne della Nato Oceanshield, e soprattutto nel-lo scortare i convogli

umanitari del World food programme, la secondaoperazione non ha avuto effetti sostanziali su unostato fallito come la Somalia. La nuova missione diRegional maritime capacity building (Rmcb) miraa rafforzare le capacità di controllo delle acque ter-ritoriali da parte degli stati della regione – Kenya,Tanzania, Mozambico, Gibuti, Seychelles, Yemen,Mauritius e, per quanto possibile, Somalia – in fun-zione anti-pirateria, tramite assistenza tecnica, for-nitura di equipaggiamenti, e addestramento di po-lizia costiera, giudici e funzionari, nel centro regio-nale di Gibuti. A differenza delle altre due missio-ni militari Ue attive nella regione, Rmcb è una mis-sione civile, sempre inquadrata nella Common fo-reign and security policy (Cdsp).Nel complesso, le missioni nel Corno d’Africa rap-presentano una parte significativa dello sforzo ope-rativo dell’Ue all’estero. La parte del leone la fan-no i Balcani, priorità dello sforzo europeo di stabi-lizzazione tramite institution building e peacekee-ping: la missione militare Eufor Altea in Bosnia equella civile Eulex Kosovo insieme totalizzano ol-tre 3.750 uomini. Circa un migliaio sono poi impie-gati tra Eupol Afghanistan (circa 560 uomini perl’addestramento delle forze di polizia afgane) e lamissione di monitoraggio in Georgia (con uno staffdi quasi 400 unità). Altre sei piccole missioni Csdp,per lo più di training e assistenza, sono attive inAfrica e Medio Oriente, mentre dieci sono state con-cluse. L’insieme delle attuali operazioni Ue, conl’eccezione appunto della nuova missione nel Cor-

DI ALESSANDRO MARRONE

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scacchiere

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no d’Africa, è un’eredità dell’era precedente il Trat-tato di Lisbona. Nei primi anni della Csdp, sotto laleadership di Javier Solana, l’Unione ha avviato ol-tre 20 missioni in tutto il vicinato, non solo nei Bal-cani ma in Africa, Medio Oriente e in Asia Centra-le, sperimentando sia l’utilizzo dello strumento mi-litare sia la cooperazione civile-militare che sareb-be poi divenuta una costante, per lo meno su carta,dell’approccio Ue alla gestione delle crisi. Dopol’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, l’Altorappresentante ha più poteri e maggiore autonomiache in passato, nonché strumenti in teoria volti aprendere l’iniziativa e rispondere tempestivamentealle crisi. Il Servizio europeo di Azione esterna fusostanzialmente pensato a sostegno dell’Alto rap-presentante, che può giovarsi anche del suo ruolodi vertice dell’Agenzia europea di difesa. Eppure,come alcuni esperti hanno già osservato, i nuovistrumenti più stabili e organizzati sono stati sotto-utilizzati, e il risultato del triennio 2009-2011, in ter-mini di azione europea nel campo della sicurezzaesterna tramite lo strumento delle missioni, è statoscarso e deludente. In passato, le missioni Csdp era-no viste come un motore di cooperazione europea,per lo meno a livello tattico e operativo grazie al la-voro di squadra tra militari e funzionari di diversipaesi membri, che ha favorito in una certa misurala costruzione di prassi condivise e la convergenzadelle culture strategiche degli attori nazionali coin-volti negli sforzi comuni. Tale volano è stato ancheutile alla definizione dell’architettura istituzionaledisegnata dal Trattato di Lisbona, ma a questo pun-to ha raggiunto il suo limite. Oltre una certa sogliadi cooperazione la spinta dal basso non è più suffi-ciente, e serve la volontà politica dall’alto per avan-zare verso maggiore e più efficace cooperazione.Tale volontà politica è stata messa in campo all’ini-zio per avviare le prime missioni dell’Ue, sia da par-te degli stati membri, come nel caso della Franciadi fronte alla guerra tra Georgia e Russia nel 2008,sia dai vertici delle istituzioni europee – basti pen-

sare alla leadership creativa esercitata da Solana.Stati membri che poi sono stati riluttanti a far fun-zionare a pieno regime le nuove istituzioni stabili-te dal Trattato di Lisbona nel settore della politicaestera e di sicurezza, forse nel timore che si raffor-zassero al di fuori del loro controllo. La tendenzaalla ri-nazionalizzazione della politica di sicurezzae difesa emersa negli ultimi anni in Europa ha in-fluito negativamente al riguardo, insieme ovviamen-te agli effetti politici della crisi finanziaria ed eco-nomica. Quanto alla leadership del nuovo Alto rap-presentante, è considerata da molti insufficiente senon evanescente. Il risultato di questa situazione distallo è stato evidente con la crisi in Libia quandol’Ue, completamente assente dal processo di deci-sone e gestione della campagna militare, si è auto-limitata all’approvazione di una missione civile diassistenza umanitaria che poi è rimasta su carta enon è stata finora attuata. Date le motivazioni del-lo stallo, la soluzione non può essere cercata (solo)in un approccio dal basso, che in termini di missio-ni ha raggiunto e mostrato i suoi limiti naturali. Nési può semplicemente aspettare una nuova e, si spe-ra, più attiva leadership a livello nazionale o di Unio-ne europea. Il problema è fondamentalmente poli-tico, e in seconda battuta istituzionale, e va affron-tato tenendo conto di quella che è la realtà politicaEuropea quanto alle politiche di difesa, ad esempiopensando a come combinare in modo sinergico ilruolo delle istituzioni Ue con le cooperazioni inter-governative tra gruppi ristretti di paesi. È forse que-sto un obiettivo modesto rispetto alle aspettative deifautori dell’integrazione eu-ropea, ma proprio per questoè forse più raggiungibile inquesti tempi di ritorno al na-zionalismo e con l’attualeleadership politica. Comedisse una volta De Gasperi,«ognuno lavora con i matto-ni che ha».

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Americhe/malvinas color petrolioA trent’anni dalla guerra delle Falklands cresce la tensione tra Londra e Buenos Aires

DI RICCARDO GEFTER WONDRICH

Apoche settimane dal trentennale della guerradelle Falklands/Malvinas, sale la tensione traArgentina e Gran Bretagna. Operazioni mili-

tari che Londra definisce «di routine» ed esigenze dipolitica interna del governo di Buenos Aires hanno spin-to i rapporti bilaterali a un livello critico. Sullo sfondo,anche se nessuno ne parla apertamente, ci sono i gia-cimenti di petrolio della zona. La questione è sempre la stessa. L’Argentina rivendi-ca la sovranità sulle isole, e considera la Gran Breta-gna una potenza coloniale che vuole militarizzare e nu-clearizzare l’Atlantico Sud. L’arrivo del cacciatorpedi-niere Dauntless, del sommergibile nucleare classe Tra-falgar (notizia ovviamente non confermata) e del prin-cipe William per operazioni di addestramento sono sta-te denunciate quali provocazioni ostili e gratuite. Lon-dra risponde che la sovranità delle Falklands non saràmai in discussione fintanto che non lo vorranno i loro3mila abitanti, forti del diritto all’autodeterminazionericonosciuto dalla Carta dalle Nazioni Unite. Per difen-derli, a Mount Pleasant sono di stanza più di 1.200 mi-litari britannici, con un costo annuo di 75 milioni disterline. Questa diversità di prospettive – le isole cometerritorio fisico contro il volere delle persone che vi ri-siedono – rende le posizioni dei due paesi difficilmen-te conciliabili. La strategia argentina si articola su duepiani: impedire per quanto possibile i collegamenti conle Falklands e internazionalizzare la disputa portando-la a New York – Consiglio di sicurezza e Assembleagenerale Onu –, a Cartagena in Colombia – summitdei presidenti delle Americhe – nelle principali capita-li del mondo durante le commemorazioni del 2 aprile,a Londra durante i Giochi olimpici, e così via. Il bloc-co commerciale finora ha prodotto scarsi risultati. Nel2007 Néstor Kirchner cancellò un accordo bilateralenel settore Oil&Gas proibendo alle compagnie petro-lifere attive nelle acque delle Falklands di mettere pie-

de in suolo argentino. Nel dicembre scorso, il presiden-te Cristina Fernández ha convinto Brasile, Uruguay eParaguay a chiudere i porti alle navi che issano la ban-diera delle isole. Lo stesso divieto vale anche per le na-vi militari britanniche impegnate in operazioni di sup-porto alle Falklands. Maggiori conseguenze potrebbe-ro esserci qualora Buenos Aires arrivasse a vietare ilproprio spazio aereo all’unico volo di linea operato dal-la compagnia cilena Lan da Punta Arenas a Port Stan-ley. Per prevenire le conseguenze di un embargo aereosi stanno vagliando ipotesi alternative: voli militari viaAscension Island, voli civili da Miami con scalo da de-finirsi o voli da Londra via Sant’Elena, una volta co-struito un aeroporto adeguato. Il braccio di ferro diplomatico è più complesso. Se nel1982 gli Stati Uniti e il Cile di fatto appoggiarono laGran Bretagna, oggi i tempi sono cambiati. Il diparti-mento di Stato si guarda dal lasciarsi coinvolgere nel-l’escalation pilotata da Buenos Aires, e i repubblicanine approfittano per accusare Barack Obama di scarsalealtà verso Londra. Il presidente cileno Sebastián Pi-ñera è costretto a ribadire la propria vicinanza al pae-se trans-andino, sperando di non incrinare i rapporticon la Gran Bretagna. Anche il Brasile cerca di nonesporsi: a marzo è prevista la visita del principe Hen-ry, Londra ha appoggiato la richiesta brasiliana di unseggio permanente al Consiglio di sicurezza, e irrigi-dire le relazioni non porterebbe alcun beneficio. Su po-sizioni simili è il governo uruguayano. I maggiori so-stenitori dell’istanza argentina sono i paesi del blocco“bolivariano” che fa capo a Hugo Chávez e ai fratelliCastro, mentre non è ancora chiaro quale posizione as-sumeranno i paesi anglofoni dei Caraibi, la Guyana, ilSuriname e soprattutto i due membri latinoamericanidel Consiglio di sicurezza, Colombia e Guatemala, tra-dizionalmente vicini a Washington e quindi a Londra.La partita è aperta.

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Èin corso un colpo di stato in uno degli Stati afri-cani simbolo della democrazia nel continente?Quante sono le possibilità realistiche che il «ven-

to della primavera sub sahariana» parta da Dakar? Que-sta volta tocca al Senegal stare sotto i riflettori e già daqualche mese esperti internazionali analizzano la pos-sibilità che la terra di Léopold Sédar Senghor scivoliverso il caos elettorale e successivamente verso unadrammatica instabilità. Quello che sinceramente mera-viglia dall’esterno, non è tanto che il Consiglio costitu-zionale abbia convalidato la candidatura del presidenteuscente Abdoulaye Wade violando la costituzione cheprevede solo due mandati, né che il capo dello stato stiautilizzando una mano ferma per mettere a tacere l’op-posizione in piazza o che cerchi di promuovere una «lo-gica dinastica familiare»… quello che lascia perplessiè che i partiti della minoranza continuino nella loro par-cellizzazione. Ancora una volta si presenta una pletoradi candidati per la massima carica istituzionale (13 can-didati contro Wade), non un candidato unico; ancorauna volta si pensa a fare fronte comune al secondo tur-no e si rinvia la battaglia ad un momento migliore. Maquando può arrivare il momento migliore se il dialogotra i protagonisti politici è stato sostituito da scontri dipiazza tra manifestanti e forze dell’ordine, uso di gaslacrimogeni e lanci di sassi? Non sono valse le espe-rienze ivoriane, ugandesi e congolesi del recente passa-to per indicare una traiettoria per l’alternanza ed un cam-bio democratico… chi è al potere continua a sfruttarela rendita di posizione (utilizzando, ad esempio, i fon-di pubblici per la propria campagna elettorale) ma piùche altro gioca sul «divide et impera». Le varie coali-zioni (Benno Siggil Senegaal e Taxaw Temm ak Ibrahi-ma Fall) o le formazioni partitiche tradizionali (PartiSocialiste e Parti de l’Espoir) hanno denunciato l’attac-camento al potere di Wade, la sua ipertrofia ed il suoego smisurato, la volontà di passare il potere al figlio

Karim Wade, hanno sottolineato il grado di corruzioneraggiunto in ogni ambito hanno anche richiamato la gen-te a scendere in piazza ma hanno lasciato che i singoliinteressi prevalessero sul bene comune. Lo stesso Yous-sou Ndour (la cui candidatura non è stata validata) hapeccato di ingenuità (o di presunzione?) pensando chepotesse essere sufficiente la sua notorietà nel mondomusicale per farsi interprete del malcontento popolare.La sua eliminazione è stata in fin dei conti facile, ha sol-levato solo un gran polverone e rabbia popolare… maè stata sostanzialmente inconcludente. Nel mese di giu-gno avevano fatto ben sperare le formazioni del «Mou-vement 23 Juin» (M23) e del movimento dei giovani«Y’en a marre» ma di fatto non sono andate oltre il vi-deo e oltre la protesta a se stante, non hanno creato quelvalore aggiunto che altre contestazioni in nord africa,esattamente un anno fa, hanno permesso di rovesciaresistemi di più ben lungo corso. L’aiuto non può – e nondeve – venire dall’esterno. Non possono essere le de-nunce di Francia e di Stati Uniti a dare una spallata fi-nale per il cambiamento senegalese, come anche i timo-ri – più o meno palesati – dell’organizzazione regiona-le di riferimento CedeAO – Communaute economiquedes etats de l’Afrique de l’Ouest o dell’Unione africa-na a sorreggere l’architettura democratica locale. L’or-ganizzazione continentale ha già dato prova della suadebolezza e della logica parziale nel caso ivoriano e li-bico, che potrebbe dire o fare di più in questo momen-to per il Senegal, tanto più contro l’autore di quel PlanOmega che nel 2001 è stato alla base del programma disviluppo economico chiamato NepAd-New partnershipfor Africa’s development. Come in tutte le cose, il cambio arriverà solo dall’inter-no. È solo questa la speranza per far sì che quella cheWade deride come «semplice brezza» si trasformi in«harmattan», il forte vento che soffia dal deserto ed in-fluisce in modo determinante sul clima senegalese.

Africa /caos nelle urne, il senegal è in bilicoPrimavere incompiute: il vento del cambiamento in Africa occidentale

DI MARIA EGIZIA GATTAMORTA

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La storiaLa storia

di Virgilio Ilari

Alberico Gentili un genio italiano

alla cortedi Elisabetta I

ADio spiacente e alli inimici sui.Questo era il fascino che gli ere-tici italiani, perseguitati pure neipaesi protestanti in cui avevanocercato rifugio, esercitarono suDelio Cantimori (1904-66).

L’empatia dello storico mazziniano, deluso prima dalfascismo e poi dal comunismo, si basava, secondoAdriano Prosperi (L’eresia del Libro grande. Storiadi Giorgio Siculo e della sua setta,2000), sul comune «nicodemismo»,l’arte di dissimulare la vera fede sot-to il velo dell’apparente ortodossia. Ilnicodemismo è una tipica strategia diangosciosa sopravvivenza cui ricor-rono spesso gli inattuali e gli scomo-di, pateticamente convinti che basti abeffare il Panopticon. Un’altra, più in-trepida e spiazzante, è di cambiarel’acqua nel vaso in cui nuotano gli av-versari, ossia fondare il proprio discor-so su un nuovo metodo. Ma per farlo

occorre la forza di un Galileo. O di Alberico Gentili(1552-1608), il giurista maceratese esule in Inghilter-ra per motivi religiosi, che fu amico di Giordano Bru-no ma rivendicò ai giuristi, contro philosophi e poli-tici, la competenza a discettare di guerra giusta e ne-gò legittimità alla guerra intrapresa pro religione. Sti-le e sottigliezza di Gentili sono ostici per una menteanglosassone (come confessa David Lupher, annoia-to ma pur magistrale traduttore dell’opera di cui si

parla in questo articolo), ma la suaprosa pullula di dicta pastosi che re-stano facilmente impressi nella men-te: il più famoso è Silete Theologi inmunere alieno («offelé fa el to me-sté»). Carl Schmitt se ne deliziò nelsuo Nomos der Erde, in cui interpre-tava il de iure belli (1598) gentilianocome la pietra angolare del concetto«non discriminatorio» di guerra e del-lo stesso jus publicum europaeum,sancito dalla pace di Westfalia (1648),minato dall’intervento americano nel-

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la grande guerra “europea” del 1914, sepolto dalloStatuto kelseniano delle Nazioni Unite e definitiva-mente ripudiato nel 2002 dalla Corte penale interna-zionale (Icc) permanente per i crimini di guerra. Al-l’epoca delle guerre di religione perfino pensare po-teva costare la pelle. Gentili poi, nella tollerante In-ghilterra elisabettiana illuminata dai roghi dei marti-ri cattolici, pattinava proprio sul filo della scure, nonsolo perché “sfruculiava” i pu-ritani e ammirava Machiavel-li, ma per il solo fatto di esse-re italiano (gratta gratta l’ita-liano che ci spunta il Vatica-no) e giurista (Juristen böseChristen, «giuristi cattivi cri-stiani», aveva detto Lutero).Con l’aggravante di aver purecondotto una difesa magistra-le e di grande presa intellettua-le del metodo dogmatico di in-terpretazione del Corpus Jurisgiustinianeo (metodo detto

mos italicus perché tipico dei giuristi italiani) controil metodo, ingenuamente «storicizzante» e umanisti-co, della c. d. «scuola culta» francese, o mos gallicus(il che non impediva a Gentili di usare gli esempi sto-rici e d’ispirarsi largamente a Bodin). E non si tratta-va solo di idee pericolose, ma di vivere pericolosa-mente in quegli affascinanti nidi di vipere che eranola corte inglese e l’università di Oxford. Consultato

nel 1584 in merito all’espul-sione dell’ambasciatore spa-gnolo Bernardino de Mendo-za (accusato di attentato allavita di Elisabetta), dal 1587 al1605 Gentili fu infatti ottavoregius professor di civil law aOxford e infine, sotto Giaco-mo I, avvocato della legazio-ne spagnola. La cattedra oxo-niana di diritto civile (cioè didiritto romano) era stata istitui-ta nel 1540, assieme a quellagemella cantabrigense, da En-

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Elisabetta I, ritratto col setaccio (The Sieve Portrait, Q. Massys di Anversa, 1583)

Il teologo protestante John Reynolds (1549-1607), persecutore di Alberico Gentili

All'epoca delle guerre di religione anche pensare

poteva costare la pelle.Ma il grande giurista

di Oxford, nella tolleranteInghilterra dell’epoca,

illuminata dai roghi deimartiri cattolici, sapevapattinare sul filo dellascure. Riuscendo anche

a “sfruculiare” i puritani…

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rico VIII per propagandare la lex regia come fonda-mento della translatio della sovranità dal popolo alprincipe. Il primo titolare era stato John Story, impri-gionato sotto Edoardo VI per essersi opposto alle leg-gi anticattoliche, evaso e rifugiato una prima volta neiPaesi Bassi, riabilitato sotto Maria Tudor, di nuovoarrestato, evaso e fuggito nel 1559 per essersi oppo-sto all’atto di supremazia di Elisabetta, infine rapitodagli antenati dell’MI-5 in territorio spagnolo (extra-ordinary rendition), portato in Inghilterra, processa-to per alto tradimento, torturato e giustiziato nel 1571nel modo (impiccagione con evirazione e squarta-mento) descritto da Anthony Burgess in A Dead manin Deptford (1993) a proposito dell’esecuzione (1586)di Babington e dei suoi complici che fece vomitareperfino Elisabetta. (Leone XIII beatificò Story nel1886, alla faccia dei mangiapreti che volevano erige-re un monumento a Gentili, il quale, dimenticato pertre secoli dalla comune ignoranza delle opposte trom-bonerie, era stato riscoperto da uno studioso olande-se, Wijbrand Adriaan Geiger, 1846-1910, un cui sag-gio del 1867 provocò, nel 1874, la costituzione di uncomitato anglo-italo-olandese per le onoranze genti-liane). Salvata dopo la disgrazia di Story da RobertWeston, elisabettiano di ferro, la cattedra oxonianavivacchiò sul basso profilo e il conformi-smo fino a Gentili. Non gli fu facile otte-nerla, perché la fazione puritana di Oxford,capeggiata da John Rainolds (o Reynolds,1549-1607) tentò ovviamente di ammaz-zarlo da piccolo, come aveva fatto con al-tri due rifugiati continentali, lo spagnoloAntonio del Corro (1527-91) e il fiorenti-no Francesco Pucci (1543-97). Lo sguar-do conservato dal ritratto di Rainolds gelaancora il sangue nelle gaie vene del pecca-tore medio italiano, e spiega sia una frasedi Gentili («Hallucinantur theologi...») siail suo prudenziale viaggio in Germania neimesi precedenti l’assegnazione della cat-tedra. Alla fine Rainolds fu messo a cuc-cia da Francis Walsingham (1532-90), il

capo dei servizi segreti, pullulanti di sicari e a cortodi cervelli fini come Gentili. Morto Walsingham, nel1593-94 Rainolds ci riprovò, accusandolo di machia-vellismo, ateismo e paganesimo, ma il nostro fu sal-vato da Robert Devereux, secondo conte di Essex,genero di Walsingham e ancora nelle grazie di Elisa-betta. A lui Gentili dedicò sia gli abbozzi (1588-90)che le versioni definitive (1598 e 1599) dell’opera piùfamosa (il de jure belli) e di una complementare sul-la giustizia dell’impero romano (il de Armis Roma-nis). Il 24 settembre del 1599 Devereux si giocò tut-to salpando dall’Irlanda per Londra. Ma Gentili glisopravvisse, e poi la cattedra a lui. Durò fino al 1661,cioè sino alla restaurazione della monarchia e all’ese-cuzione postuma di Cromwell, ricoperta prima daJohn Budden (1566-1620) e poi dal grande RichardZouch (1590-1661). Rinacque nel 1736 e l’attuale ti-tolare è il quattordicesimo della nuova serie. L’inter-pretazione di Gentili è controversa, come dimostra lamole degli studi a lui dedicati, tra cui spiccano quel-li di Diego Panizza, suo massimo esegeta. Oso tutta-via esporre la mia impressione che l’opera di Genti-li manifesti una coerente strategia: riabilitare il dirit-to romano sotto il profilo della correttezza politicaelisabettiana, per poterlo così brandire sia contro la

Spagna sia contro l’estremismo religio-so. La cifra era contrapporre la Roma buo-na alla Roma cattiva, la giurisprudenzaalle leggi di Giustiniano, l’impero repub-blicano dell’espansione e della virtus aquello monarchico della decadenza e del-la corruzione. Era l’originale trasposizio-ne sul piano giuridico della lettura dellastoria romana fatta sul piano politico daMachiavelli, che Gentili riabilitava in In-ghilterra definendolo democratiae lauda-tor (e difatti era contestato dai Tacitisti,che consideravano la Roma dei Cesari unprogresso, e non un regresso, rispetto al-la Roma senatoria). Ed era ancor più ge-niale che a farlo fosse proprio il difenso-re del mos italicus; né c’era contraddizio-

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ne, perché Gentili dava una lettura giuridica della sto-ria, i culti, invece, una storica del diritto. Lui badan-do all’insieme e alla coerenza del sistema, gli altri aiparticolari e alle incoerenze. Gentili contribuiva al-l’idea della riforma imperiale, che secondo FrancesYates (1899-1981) era «il tema dominante dell’età eli-sabettiana. La riforma tudoriana della Chiesa, attuatadal monarca, permise ai suoi propagandisti di attinge-re alle tradizioni e al simbolismo del Sacro RomanoImpero per glorificare la regina. La sua immagine co-me Astrea, la Giusta Vergine della riforma imperiale,fu costruita durante il regno di Elisabetta nel comples-so simbolismo che le si riferiva e che assorbì la leg-genda della discendenza troiana dei Tudor nell’impe-rialismo religioso. Questa propaganda abituò il pub-blico a pensare a una Chiesa e a un Impero purifica-ti, sotto sembianze femminili. Il «Ritratto del setac-cio» della regina come vergine vestale ha esattamen-te lo stesso contenuto concettuale del verso di Shake-speare su una «Vestale, in trono assisa, di occidua con-trada». Il mito di discendere direttamente da gruppi diesuli troiani diversi da quello capeggiato da Enea fu

coltivato sia dai Valois che dai Tudor, per sostenere ilcarattere originario del loro potere rispetto al Sacroromano impero. La formula medievale della sovrani-tà (fatta consistere nel non riconoscere autorità supe-riori) fu superata affermando che le monarchie nazio-nali erano in realtà esse stesse ordinamenti giuridicioriginari, cioè respublicae. Già prima di Gentili Tho-mas Smith, primo regius professor di diritto romanoa Cambridge dal 1540 al 1551, aveva intitolato un sag-gio De republica Anglorum. A discourse on the Com-monwealth of England (1565). Pochi anni dopo pureBodin aveva usato quel termine, fin dal titolo del suotrattato di politica, per designare le monarchie nazio-nali. L’apporto di Gentili fu di dare coerenza al prin-cipio repubblicano sia sul piano del diritto costituzio-nale (espungendo il principio incompatibile della lexregia) sia su quello delle relazioni tra stati, declassan-do la respublica romana da universale a particolare.Non più ordinamenti subordinati (regna) all’internodi un unico ordinamento universale (respublica): mauna pluralità di respublicae particolari, le cui oggetti-ve regole di convivenza (ius extra rempublicam) nonpotevano essere tratte dal Justinianismus (cioè dalleleggi imperiali) ma dedotte dal jus gentium, cioè daiprincipi generali del diritto elaborati dalla giurispru-denza romana. Abbiamo accennato al de Armis Ro-manis. Nel 2010 e 2011 l’università di Oxford ha pub-blicato un’edizione critica con traduzione (The Warsof the Romans) e una raccolta di commenti (The Ro-man Foundations of the Law of Nations. Alberico Gen-tili and the Justice of Empire), curate da tre studiosiamericani, Benedict Kingsbury, Benjamin Straumane David Lupher. Il commento principale è però quel-lo del nostro Panizza (pp. 53-84). La struttura è quel-la dei dissoì lògoi (discorsi in contrasto), come i duedi Carneade (nel 155 a C.) sulla giustizia e l’ingiusti-zia ripresi da Cicerone nel III libro de republica (Lu-pher, pp. 96-100). I due discorsi in contrasto sulla giu-stizia delle guerre e quindi dell’impero romano copro-no rispettivamente i due libri del de Armis, il primo,quello in cui parla l’Accusator, pubblicato da solo giànel 1590. La struttura è la stessa per entrambi i libri,

Carneade di Cirene, il filosofo che nel 155 a. C., oratore a Roma per conto di Atene, pronunciò due discorsi in contrasto, sostenendo

prima la superiorità della giustizia e poi dell'ingiustizia

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Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 RomaAbbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938

Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro

Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme

le idee per renderlo migliore…

il quotidiano

Tutti i giorni in edicolalo fa solo liberal

…questo

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anche se il secondo, in cui parla il Defensor, è lungocirca il triplo del primo. Ciascuno su 13 capitoli, i pri-mi 10 dedicati alle guerre dell’infantia, adulescentiae iuventus di Roma repubblicana, da Romolo a Mitri-date; l’XI alla senectus identificata con la Roma deiCesari; il XII al raffronto con l’impero di Alessandro;il XIII ai due opposti verdetti, di tyrannis e di fortu-na. Panizza nota che le tesi del de jure belli collima-no quasi perfettamente con gli argomenti di Defensor,un romano seguace del mos gallicus che esalta Brutoe il tirannicidio. Eppure Gentili presta la propria car-ta d’identità ad Accusator, un “gallo-piceno” di SanGinesio che condanna Bruto perché solo un tirannopuò tenere a freno i romani e cita a man salva le tira-te degli spagnoli Floro e Orosio, del macedone Polie-no e dell’alessandrino Appiano perché è un provin-ciale come loro. Il chiasma è intrigante ma è un rom-picapo. In ogni caso gli argomenti innovativi sonoquelli di Defensor, da cui si ricava che l’impero nonè un male «a prescindere», che ci sono imperi buonie cattivi, durevoli e precari. Roma, come oggi l’In-ghilterra, era un Commonwealth inclusivo e multiet-nico, nato dall’unificazione di popoli fieri e gelosi del-la loro libertà e regolato da virtus e ius: Spagna e Asiasono deboli perché accentrati, troppo estesi e forma-ti da popoli indolenti. La qualità dell’impero si vededal risultato: per l’Italia, la Britannia, la Libia fu unvantaggio essere unificati e pacificati. Tutti ora rim-piangono (suspirant) la pietas, liberalitas, fides, ma-gnanimitas, pax, securitas, aequanimitas dell’impe-ro romano. È l’argomento «perché non possiamo nondirci romani» (Roma communis patria), usato pure daNiall Ferguson a proposito degli imperi britannico eamericano: comunque meglio (o meno peggio) di tut-ti gli altri. Sono tanti i temi e gli spunti del de Armisesumati da Lupher e Panizza. Ma forse il più interes-sante e attuale è quello che applica ai rapporti tra sta-ti il principio di diritto privato circa l’irrilevanza giu-ridica dei motivi psicologici: sit iusta adquirendi caus-sa, voluntatem nemo vituperavit (se la pretesa paleseè giusta non è ammesso il processo morale alle inten-zioni, perché il giudizio non può riguardare l’interior

sensus animi, il vero motivo per cui si esercita un di-ritto). In quanto elemento psicologico, la libido impe-ri si sottrae perciò alla valutazione giuridica. Se da unlato non costituisce, di per sé, giusta causa di guerra,dall’altro non può in alcun modo inficiare il dirittoche, sia pure speciosamente, viene esercitato median-te l’uso della forza: perché una guerra sia giusta è suf-ficiente che sia giusta la causa palese (aperta), anchese non è quello il vero motivo. Certo che difesa deglialleati (defensio sociorum) e liberazione dei popolierano speciosi: addirittura, rincara Defensor, costitui-vano una tipica strategia di espansione (arcana impe-rii), consentendo all’impero di avanzare di alleato inalleato sino a strangolare chi resisteva. Nondimenoerano giuste cause di guerra, fondate sulla ratio hu-manitatis. Questi, poi, sono addirittura casi di defen-sio honesta. Ma lecita è pure la defensio utilis, cioè laguerra preventiva: e non solo per il timore di poter es-sere in seguito attaccati, ma pure per il timore di po-ter essere superati in potenza (timor potentiae). Puroelemento psicologico, l’invidia imperii (che del restotra Roma e Cartagine era reciproca) esula dalla valu-tazione giuridica. La Cina è vicina! Lo sa bene la ge-nerazione del Sessantotto, quella che ora i cattivi libombarda dallo Studio Ovale. Nel 2003, quando ibombardieri cominciarono la liberazione dell’Iraq, fuiinvitato per sbaglio a dire la mia in una serata specia-le di Rai 2. Misi, al mio solito, il piede nel piatto, par-lando di «controllo del prezzo del petrolio e dunquedello sviluppo cinese ed europeo» e citando il passodi Montesquieu sull’esprit de conservation et d’usa-ge implicito nell’esprit de conquête per spiegare co-me mai le bombe fossero così umanitarie da non di-struggere le infrastrutture logistiche utili all’imminen-te liberatore. Fui perciò giustamente radiato da tuttii palinsesti d’Italia. Non ho né cerco scuse, sir Fran-cis. Ma qualora la Vergine Astrea volesse ancora ri-volgere benignamente lo splendore dei suoi raggi sul-la mia indegnità, deporrei ai suoi piedi il consiglio, sedovesse pesarle il generoso cuore nel triste dovere dipremere il bottone ammazza-cattivi, di sfogliare, cor-roborandosi, il De Armis Romanis.

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SENZA NAZIONENON C’È PACEE NEMMENOBUON GOVERNO

«Le democrazie devono la loro esistenza allafedeltà nazionale, fedeltà che si suppone con-divisa da governo e opposizione, da tutti ipartiti politici e dall’elettorato nella sua in-terezza. Dovunque l’esperienza di naziona-lità sia debole o inesistente, la democraziaha mancato di attecchire. Infatti, in mancan-za di fedeltà nazionale, l’opposizione diven-

ta una minaccia per il governo, e il disaccordo politico non permette di crea-re un terreno comune. Tuttavia, l’idea di nazione è ormai dovunque sotto at-tacco, o denigrata come forma atavica di unità sociale, o addirittura condan-nata come causa di guerre e conflitti, a essere demolita e sostituita da formedi giurisdizione più illuminate e universali».Così inizia l’ultimo libro di Roger Scruton pubblicato in Italia: Il bisogno dinazione (Le Lettere). In queste poche righe introduttive c’è già tanto da di-scutere: la fedeltà, la nazione, il governo, l’opposizione, l’indispensabilità delsentimento nazionale per avere una buona democrazia e contemporaneamen-te la critica all’idea di nazione e di Stato nazionale individuato, quest’ultimo,addirittura come causa dei conflitti e delle guerre che hanno irrorato di san-gue il Novecento. Il volumetto del filosofo inglese che vive con la moglie edue bambini nella campagna del Wiltshire – qui gestisce una fattoria post-moderna specializzata in animali mitologici e narrativa d’evasione – si svi-luppa intorno a questi concetti. La tesi di Scruton è molto semplice – nel sen-

di Giancristiano Desiderio

ROGER SCRUTON

Il bisogno di nazione

Le Letterepagine 100 • euro 10,00

Accademico, filosofo, docente di estetica, editore e perfinocompositore. Roger Scruton,considerato il grande guru del neo-conservatorismo del XXIsecolo, scrive un piccolo saggio sullo Stato nazionale, che percepiscesotto attacco e deriso e che invece a suo giudizio rappresenta il modellopiù sicuro per perseguire pace,prosperità e tutela dei diritti umani.Un’appassionata difesa dell’idea di appartenenza, per difendersi dallo Stato transnazionale e tornare a pensarsi come popolo umano.

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so che è chiara e condivisibile –: lo Stato nazionale cioffre il modello più sicuro di pace, prosperità e possi-bilità di difendere i diritti umani. Gli argomenti di Scru-ton, legati come sono alla storia, alle consuetudini, alrealismo e al buon senso, sono solidi e si lasciano ascol-tare. Però, prima di riportare le idee del buon conser-vatore Scruton – un altro suo libro, edito da RaffaelloCortina, reca proprio questo titolo: Manifesto dei con-servatori – soffermiamoci sul concetto di nazione.Francesco Perfetti nella sua introduzione al volumet-to giustamente riprende la ricostruzione fatta da Fede-rico Chabod sulla genesi dell’idea di nazione: «Il con-cetto di nazione è un concetto moderno, anche se lenazioni sono spesso fondate su legami, memorie, mo-tivi etnici o culturali premoderni o, addirittura, anti-chi. È, questo concetto di nazione, il frutto maturo delRomanticismo». Le forze politiche che si richiamanoalla nazione non possono fare a meno di creare unastoria, dei miti, dei simboli, dei richiami e insommaun sentimento nazionale che muova immaginazione,passione, appartenenza. Nel secolo decimo nono – ilsecolo della storia – l’idea nazionale sconfina semprepiù dalla cultura nella politica, fino a diventare il mo-tore stesso della politica. Il sentimento nazionale si tra-sforma in volontà, la nazione viene associata alla pa-tria e la patria si divinizza e sacralizza, mentre le filo-sofie della storia divinizzano la storia fino a farne lastessa manifestazione di Dio. Mentre il secolo dellastoria sta per finire e l’idea di nazione sta per cedereil passo all’idea dell’imperialismo o dei nazionalismitrionfanti, si sviluppa tra Francia e Germania una di-scussione sull’idea di nazione. Il dibattito trae originedai riassestamenti territoriali e dalle lacerazioni mora-li seguite alla conclusione del conflitto franco-prussia-no del 1870: «Un grande storico dell’antichità classi-ca, Teodoro Mommsen, rivendicò il diritto della Ger-mania ad annettersi l’Alsazia, perché abitata da unapopolazione di razza germanica e di lingua tedesca.Un altro illustre antichista, lo storico francese Numa-Denis Fustel de Coulanges, contrastò questa concezio-ne sostenendo che non sono né la razza né la linguagli elementi atti a individuare e definire l’essenza di

una nazione, ma, piuttosto, una comunanza di ideali,di interessi, di affetti, di ricordi, di speranze: questo in-sieme di fattori fa sì che gli uomini sentano nel pro-prio cuore di appartenere a uno stesso popolo».Nel 1882 Ernst Renan tiene alla Sorbona una confe-renza sul tema Che cos’è una nazione? La sua rispo-sta è che la nazione non è la razza, né la lingua, né lareligione, né la comunità d’interessi economici, nél’esercito. Dunque? La nazione è un’anima che riguar-da tanto il passato quanto il presente, tanto la storiaquanto lo spirito. Una nazione – ecco la celebre rispo-sta – è un «plebiscito di ogni giorno» come l’esisten-za di un individuo è «un’affermazione perpetua di vi-ta». Si è una nazione perché ci si ritrova insieme dalpassato e si vuole continuare a vivere insieme.Il concetto di nazione è stato utilizzato e stravolto daimovimenti nazionalisti e dai regimi autoritari e totali-tari del XX secolo, così la sua natura è stata alterata ecompromessa e identificata in tutto e per tutto con loStato, mentre la stessa definizione di «Stato-nazione»rende evidente che ci troviamo di fronte a una realtàduale e più complessa. Giustamente specifica Perfet-ti: «Esiste, certo, una linea direttrice che collega la na-zione al nazionalismo e questo all’imperialismo e, poi,al totalitarismo, ma si tratta di una strada non obbliga-ta». Anzi, è giusto aggiungere che la tradizione libe-rale europea ha coniugato l’idea di libertà con l’ideadi nazione e la nazione è un modo attraverso cui si puòe si realizza storicamente la libertà. Se le cose stannocosì, allora, come è possibile liquidare la nazione co-me una minaccia per la libertà dei singoli e dei popo-li? E qui si deve leggere il volumetto di Scruton Theneed for Nations che trae ispirazione anche dai gran-di esponenti del conservatorismo inglese come Ed-mund Burke e Thomas Stearns Eliot.Siamo, dunque, ritornati all’inizio. Senza la fedeltà al-la nazione o più semplicemente senza la nazione nonc’è il governo moderno e le sue garanzie di pace e be-nessere. C’è una prova di tanto? Certo. E la rispostadi Scruton, a pensarci bene, è anche convincente. Gliesperimenti che sono stati fatti per andare oltre lo Sta-to nazionale si sono rivelati pericolosi e carichi di di-

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sastri: le tre grandi rivoluzioni – francese, sovietica enazionalsocialista – hanno portato al «collasso dell’or-dinamento legale» e all’instaurazione di una prassi fon-data sull’«omicidio di massa all’interno» e sulla guer-ra con altri paesi. La storia insegna che sarebbe sag-gio mantenere «gli equilibri esistenti, per quanto im-perfetti, che si sono evoluti attraverso l’uso e l’eredi-tà, per migliorarli attraverso piccoli aggiustamenti» enon già «metterli a rischio con cambiamenti su largascala» dei quali non è possibile prevedere le conse-guenze. Il filosofo inglese rifiuta la lettura della storiadel Novecento secondo la quale è proprio dagli Statinazionali che avrebbero avuto origine le due guerremondiali. Non solo. Per definire il pregiudizio sfavo-revole nei confronti dello Stato nazionale Scruton ri-

corre all’uso del termine «oicofobia», come oppostodi «xenofobia», e qui individua quella tendenza in cui«loro» sono migliori di «noi» e si denigra tutto ciò cheè «nostro», insomma, nazionale. Chi è affetto di «oi-cofobia» ripudia e rifiuta la fedeltà nazionale e defini-sce obiettivi e ideali «contro la nazione, promuoven-do le istituzioni transnazionali a scapito dei governinazionali, accettando e supportando le leggi» imposte,per esempio, dall’Unione europea o dalle Nazioni uni-te in nome di un «universalismo illuminato» e controlo «sciovinismo locale». Ma se si minano le basi del-la legittimità degli Stati nazionali si minano le stessebasi intellettuali e morali delle democrazie e si nega lastessa concreta possibilità di costruire buone istituzio-ni sovranazionali.

MANAGER CON LA TESTA TRA LE STELLE

N on est ad astra mollis e terris via, non è faci-le la via dalla terra alle stelle. Questa frasedell’ Hercules Furens di Seneca è la prima

che ci balza agli occhi aprendo la pagina di copertinadel libro di Marcello Spagnulo. Verrebbe subito da di-re che lo immaginavamo. Certo, è vero, ma non sape-vamo quanto sia difficile e perché, come non sapeva-mo quale tipo di organizzazione, di studio e di gestio-ne siano necessari per spianare appena un pò questastrada. E quanta continuità di impegno, di risorse e ditenacia sia necessaria per mantenerla percorribile, unavolta raggiunto lo scopo. Eppure la piccola Italia – mol-ti tra i più giovani di ciò sono del tutto ignari – era sta-ta la terza nazione dopo Urss e Usa a guadagnarsi l’«accesso allo spazio» già negli anni sessanta, metten-do in orbita un proprio satellite artificiale dalle costedel Kenya, nell’ambito del progetto San Marco del ge-nerale ingegnere dell’Aeronautica Luigi Broglio. Daallora, dopo una lunga stasi l’istituzione dell’Agenzia

spaziale italiana (Asi), la nostra adesione all’Agenziaspaziale europea (Esa), l’eccellenza industriale e il lun-gimirante impegno delle Università – rimarchevolequello de La Sapienza di Roma – ci hanno portato mol-to avanti, consentendoci di mantenere posizioni di spic-co in Europa e nel mondo. Osservavo l’estate scorsa,in occasione della presentazione di un libro-intervistadel compianto professor Carlo Buongiorno – altro pa-dre dell’astronautica dopo Luigi Broglio – come gli ita-liani siano ormai convinti che ogni cosa, qui da noi, stiaandando male. Ma non è così. Ce ne sono alcune, perle quali tutto il mondo ci invidia, che invece vanno be-nissimo. Non stiamo parlando di calzature, di arreda-mento o di moda, dove pure ci facciamo onore con ini-ziative di successo. Stiamo parlando di spazio. Solo che– a parte i già iniziati e gli addetti ai lavori – nessunolo sa, perché nessuno ce lo dice. Certo che non abbia-mo lanciato noi il primo Sputnik, né siamo stati noi afar girare il primo cosmonauta attorno alla terra o a rag-giungere per primi la Luna, ma nel settore abbiamo ri-conosciute eccellenze, ottime tecnologie d’avanguar-

di Mario Arpino

Ovvero come si sviluppa, si gestisce e si finanzia un progetto spaziale.Una guida d’autore per diventare imprenditori del cielo

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dia e annoveriamo risultati di tutto rispetto. Ma non so-no notizie che fanno audience, e così, per far sapere alnostro pubblico che c’erano contemporaneamente inorbita nella Stazione spaziale internazionale (Iss) dueastronauti italiani c’è voluta la presenza sui telescher-mi del Santo Padre e del presidente della Repubblica.Per i meno informati, ricordiamo solo alcuni dei suc-cessi italiani, quali il satellite al guinzaglio «tethered»,quelli per telecomunicazioni Italsat, il satellite scienti-fico Beppo-Sax, il motore di apogeo Iris, il laborato-rio Spacelab, i satelliti per telecomunicazioni militariSicral, il coinvolgimento per i satelliti da osservazio-ne della terra e telerilevamento Helios e Cosmo-Sky-med, la cupola ed i moduli abitativi e da trasporto perla stazione spaziale, lo strumento Ams per l’individua-zione dei raggi cosmici e le tracce dell’interazione ma-teria-antimateria, costruito in collaborazione tra 16 na-zioni, e le varie serie di esperimenti predisposti dallacomunità scientifica e dall’Aeronautica Militare con-dotte dai nostri astronauti a bordo della Stazione spa-ziale. Il più recente e complesso programma, che, puressendo frutto della collaborazione internazionale disette nazioni europee, parla preminentemente italianoè il vettore spaziale Vega, lanciato con successo lo scor-so 13 febbraio dal Centro spaziale europeo della Guya-na francese (CsG). Si tratta di un lanciatore per satel-liti di peso fino a 1.500 chilogrammi. È stato realizza-to su commessa dell’Esa, la gara internazionale era sta-ta vinta dall’Elv (Avio) di Colleferro, capocommessaper il lanciatore, e dalla Vitrociset di Roma, quale pri-me contractor per il segmento di terra. Per condurreprogrammi del genere non solo sono necessari inge-gneri e tecnici in grado di proiettarsi nel futuro operan-do già al presente con tecnologie d’avanguardia, ma èindispensabile essere padroni delle più moderne ed ef-ficaci tecniche di gestione di attività lunghe e comples-se come generalmente sono i programmi aeronautici,e quelli spaziali in particolare. L’affinità tra i due filo-ni è evidente, e lo sarà ancora di più nel futuro prossi-mo con la progressiva introduzione di programmi re-lativi alla commercializzazione intercontinentale delvolo ipersonico.È proprio attraverso questo percorso

che, con il pragmatismo, la chiarezza e la logicità del-l’ingegnere, ci vuole guidare con il suo libro – è il se-condo in cui ci parla di Spazio – Marcello Spagnulo.Illustre l’autore, illustri gli estensori delle tre prefazio-ni. La prima è di Enrico Saggese, presidente dell’Agen-zia spaziale italiana, ingegnere. Ci spiega in terminisemplici cosa sia un grande progetto, mettendo bene afuoco quale sia la natura intrinseca di un programmaspaziale complesso, e come solo i governi, tramite leagenzie spaziali, siano in grado di finanziarne in unprimo tempo la realizzazione. Il privato interverrà so-lo in un secondo tempo, quando e se il prodotto si di-mostrerà in grado di generare applicazioni largamen-te fruibili nell’ambito dei mercati. Il buon management,la corretta gestione – spiega Saggese – si può riassu-mere in due fattori chiave: controllo dei tempi e con-trollo dei costi. È difficile, ma si può fare. Il «come»ce lo spiega Spagnulo nel suo libro. La seconda prefa-zione è del colonnello pilota Roberto Vittori, laureatoin fisica, collaudatore sperimentatore dell’Aeronauti-ca Militare e unico astronauta attivo dell’Esa per trevolte nello Spazio. Vittori ci spiega come la disciplinadel management dei programmi spaziali, soprattuttodi quelli dove è prevista la presenza dell’uomo a bor-do, sia talmente complessa e variegata da sfuggire tal-volta nella sua totale interezza persino all’astronautache vive nello spazio, qualora voglia rendersi consa-pevolmente conto delle implicazioni in termini di si-curezza del trinomio tecnologia-management-finan-ziamento. La terza prefazione è dell’ingegnere PaoloGaudenzi, entusiasta ed instancabile professore ordi-nario di «Costruzioni e strutture aerospaziali» dell’uni-versità La Sapienza. Tra l’altro, spiega come, nell’ar-co della sua esperienza di docente, abbia spesso avu-to modo di incontrare vari professionisti che, comel’autore e i suoi collaboratori, hanno voluto e saputotrasmettere molte di quelle competenze professionaliche, come spesso accade per gli ingegneri, stanno a ca-vallo tra la dimensione applicativo-operativa e quellapiù propriamente accademica.A questo punto, parlare del libro diventa quasi super-fluo. Noto grossomodo il contenuto, è bene lasciare al

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libreria

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lettore il piacere della ricerca e della sco-perta. L’opera è articolata in sette capito-li, dove si tratta della specificità del set-tore spaziale, della gestione dei relativiprogrammi, del marketing del prodotto,del management dei programmi e dei ri-schi connessi, della gestione dei costi edi quella conseguente della gestione fi-nanziaria, con particolare riferimento alfinanziamento pubblico ed alla conve-nienza di quello privato. In tutto ciò l’Au-tore ed i collaboratori hanno una partico-lare esperienza, che si nota attraverso icontinui riferimenti a programmi già con-clusi od ancora in corso, ai quali hannocollaborato o stanno ancora collaboran-do. Tabelle, diagrammi ed istogrammi so-no riportati in abbondanza, specie perquanto riguarda ogni aspetto economico-finanziario e di budget previsionale. Diparticolare interesse ed attualità è la de-scrizione delle tipologie contrattuali neiprogrammi spaziali, dove si vede che ilcontratto a prezzo fermo e fisso, a fron-te di quelli a costo o a incentivi, è quellopiù diffuso in Europa ed è ormai quasiuno standard nell’ambito dei contratti Esa.È evidente il riferimento al caso del pro-gramma Vega, dove, nonostante il prez-zo fisso, questo ha avuto necessità di fre-quenti revisioni in seguito al mutare dicircostanze o di imprevisti fatti successi-vamente oggetto di variazioni di contrat-to concordate tra i contraenti (Ccn, Con-tract change notice). In effetti c’è daaspettarselo, perchè nelle attività spazia-li si è quasi sempre di fronte a realizza-zioni prototipiche dove, trattandosi di pro-grammi di lunga durata, il costo fisso ini-ziale può in alcuni casi anche raddoppia-re.Anche dell’autore, tra le righe, abbia-mo ormai svelato quasi tutto. Ma, visto

che la modestia che caratterizza le perso-ne di valore gli ha impedito di inserire unsia pur sintetico cursus honorum in co-pertina, è giusto che provvediamo noi, insede di recensione. Marcello Spagnulo è nato a Roma nel1960, laureandosi in ingegneria aeronau-tica alla Sapienza, dove è stato anche do-cente ai master in satelliti. Ha iniziato lasua carriera professionale al consorzioItalspazio come specialista di missione,per passare poi nell’organizzazione tec-nica dell’Esa, in Olanda, come ingegne-re di missione. È stato successivamenteimpiegato a lungo da Arianespace inFrancia nel programma Ariane 4, parte-cipando a ben 14 campagne di lancio aKourou, nella Guyana Francese. In Ale-nia Spazio (oggi Thales Alenia Spazio)ha operato in varie posizioni relative aprogrammi, mercati e strategie, per esse-re poi impiegato in Finmeccanica comeassistente del direttore delle attività spa-ziali, ricoprendo anche l’incarico di mem-bro del consiglio di amministrazione diuna compagnia formata da Finmeccani-ca e Eads Astrium. Dal 2009 è in Asi, aRoma, dove è impiegato nell’ufficio dipresidenza. È autore di oltre 40 pubbli-cazioni tecnico-scientifiche, riguardantipreminentemente il settore aerospaziale,e conferenziere presso le università LaSapienza, Tor Vergata e l’Istituto supe-riore delle Telecomunicazioni.Il giudizio finale sul libro è quello espres-so in prefazione dal professor Paolo Gau-denzi: « (…) il testo di Marcello Spagnu-lo costituirà negli anni a venire uno stru-mento prezioso offerto per il progressoculturale e professionale di chi vorrà im-pegnarsi nelle imprese spaziali del pros-simo futuro».

MARCELLO SPAGNULO

Elementi di managementdei programmi spazialiCON LA COLLABORAZIONEDI MAURO BALDUCCINIE FEDERICO NASINI.

Springer edizionipagine 265 • euro 32

Le missioni spaziali non sonouna faccenda solo perastronauti. Per ogni uomomandato nello spazio sonocentinaia, se non migliaia,quelli che a terra hannocontribuito alla riuscita del progetto. I manager dellestelle hanno trovato il lororiscatto in un libro che parla di quanto la realizzazione e il lancio nello spazio di satelliti o sonde attraverso missili o navette spaziali sia unesempio di attività industrialedi enorme complessità e di lungo periodo. Lo sviluppo di un programma spazialeprevede la realizzazione di varisistemi: il segmento spaziale,cioè i lanciatori per l’accessoallo spazio, i satelliti o lesonde, le infrastrutture spazialiabitate da astronauti oppurerobotizzate, e il segmento di terra che consente agli operatori sulla terra di controllare i sistemi nellospazio e di fruire delleapplicazioni derivanti dal lorouso. E non basta perchél’imprevisto è la regola. E la manifattura dei sistemispaziali è una pratica a metàstrada tra la scienza esatta e l’artigianato di elevatissimaqualità. I processi realizzatividei programmi spaziali hannoperò avuto il pregio nelpassato di costituire, sin daglianni Sessanta, un modello di riferimento per altri settoriindustriali proprio a causadella loro unicità tecnologica e produttiva.

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E F I R M EL del numero

MARIO ARPINO: generale, già capo di stato maggiore della Difesa

GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libroLa libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti

NICHOLAS EBERSTADT: demografo ed economista statunitense, membro dell’American enterprise institute

ROSSELLA FABIANI: giornalista, archeologa

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo

RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina

VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano

CARLO JEAN: presidente centro studi di geopolitica economica, docente di studi strategiciall’università Luiss Guido Carli di Roma

GENNARO MALGIERI: deputato, membro della commissione Esteri della Camera dei Deputati

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali nell’area Sicurezza e Difesa

ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

NICOLÒ SARTORI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali

ENRICO SINGER: editorialista di politica internazionale già corrispondente da Mosca

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