RIFUGIATI, DEEPER ACCOGLIERLIuomo di 25 anni. E ci sarebbero tante al-tre cose da raccontare, ma...

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Tra Slovenia e Trieste si assiste a un fenomeno inedito. Tra i volontari ci sono tanti bosniaci o serbi che furono profughi 20 anni fa. Li abbiamo incontrati. Oggi sono integrati, ma sanno cosa vuol dire migrare. non avere più patria, vestire i vestiti degli altri. «Le prime vittime del terrorismo sono loro» 71 Nella foto Un poliziotto dà le istruzioni a un gruppo di profughi in coda al confine tra Croazia e Slovenia a Trnovec RIFUGIATI, MILLE I DEE P E R ACC O GLIERLI

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Page 1: RIFUGIATI, DEEPER ACCOGLIERLIuomo di 25 anni. E ci sarebbero tante al-tre cose da raccontare, ma adesso non ho la forza». Dobova è a sole due ore d'auto dal confi-ne Nordest d'Italia.

Tra Slovenia e Trieste si assistea un fenomeno inedito. Tra i volontarici sono tanti bosniaci o serbi che furonoprofughi 20 anni fa. Li abbiamo incontrati.Oggi sono integrati, ma sanno cosa vuoldire migrare. non avere più patria, vestirei vestiti degli altri. «Le prime vittime delterrorismo sono loro»

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Nella fotoUn poliziotto dà le istruzionia un gruppo di profughi in codaal confine tra Croazia e Sloveniaa Trnovec

RIFUGIATI,MILLE IDEE PERACCOGLIERLI

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Dalibor Jugovic . Bosniaco, vivein Slovenia. Ha organizzato un

infopoint di fortuna per i profughi

a Dobova, confine con la Croazia

Azra Nuhefendic . Oggi fa lacentralinista a Trieste. È bosniacae musulmana. Lavorava per la tv

di stato a Belgrado

.d'

Mario Majstorovic . Oggi vivea Lubiana. A 2 anni con la sua

famiglia è fuggito da Derventa,città della Bosnia

ci veri, con cui è ancora in contatto. «Ciportavano ciò che serviva, vivevano as-sieme a noi, condividendo anche per po-co il nostro destino, venivano come inse-gnanti, andavamo in vacanza nelle lorocase», ricorda. «Sono riusciti a raccoglie-re 50mila marchi tedeschi in pochissimotempo per un'operazione al cuore che hasalvato la vita al mio cuginetto, oggi unuomo di 25 anni. E ci sarebbero tante al-tre cose da raccontare, ma adesso nonho la forza».

Dobova è a sole due ore d'auto dal confi-ne Nordest d'Italia. «Quest'estate, quan-do ho iniziato a leggere di tutte le perso-ne in viaggio fuori casa mia, è stato comericadere in una malattia da cui pensavodi essere guarita. Non solo capisco quel-lo che prova chi scappa dalla Siria, masoffro anch'io». Azra Nuhefendic oggifa la centralinista a Trieste, scrive per IlPiccolo, l'Osservatorio Balcani e Cauca-so, nel 2011 ha pubblicato per EdizioniSpartaco "Le stelle che stanno giù", unlibro che racconta episodi di vita quo-tidiana in Jugoslavia e in Bosnia Erze-govina. La sua carriera di giornalista èstata spezzata allo scoppio della guerra,quando l'hanno licenziata dalla radio etv di Stato a Belgrado perché bosniacamusulmana.

«Il mio viaggio non è stato tragico.Amici di amici mi hanno accolto senzavolere nulla in cambio, ho trovato lavo-ro subito», dice Azra, «ma anche nei ca-si migliori, come il mio, c'è il dopo daaffrontare, perché non smetti mai di es-sere profugo. Se fuggi non avrai più unacasa dove tornare. Indossare vestiti chehanno portato altri fa effetto, ma è po-co in confronto a chi disperato elemosi-na una coperta o un pezzo di pane oggi».

Azra pensa al futuro di centinaia dimigliaia di persone oggi in fuga. Quan-to tempo ci vorrà per sanare le loro fe-rite? Per lo anni lei ha vissuto a Triestecome in una bolla, senza guardare quel-lo che le accadeva attorno. «L'unica cosache mi tranquillizzerebbe sarebbe anda-re in mezzo a chi fugge, ma so che nonpotrei fare molto», confessa. «Allora holanciato un appello su Facebook, per rac-cogliere cibo, vestiti e scarpe. Ho pensa-to all'assedio di Sarajevo, anche allorami chiedevano le scarpe. Uno così aiutaanche se stesso, perché stare immobili,

impotenti, è una pena».La risposta è arrivata da tutta Italia, tan-to da riempire un'intera palestra con ledonazioni. Si sono trovati in 30 per pie-gare i vestiti, fare i pacchetti da inviarealla Croce rossa. «Mi veniva la pelle d'o-ca: le persone non avevano donato coseda buttare, avevano preparato con curagli abiti, con etichette che indicavano seper adulto, per bambini», racconta Azra.

Tajana Tadié era tra le persone che inluglio andavano nel parco di Belgradoogni giorno: stava con i profughi, parla-va con loro, li aiutava per ciò che pote-va. È così che è iniziato il suo impegnocome volontaria, che l'ha portata poi an-che al confine tra Croazia e Slovenia e traSerbia e Bulgaria. «Mia madre è serba»,scrive Tajana in chat su Facebook, «ogniestate vado a Belgrado a trovare la miafamiglia, ma questa volta sono stata po-co con loro, più con i profughi».

Adesso Tajana è a casa, a Zagabria, matornerà presto a fare la volontaria. «Dasubito questi fatti mi hanno toccato, per-ché i miei studi universitari in Antropo-logia culturale sono proprio sul terrori-smo islamico. Mi sembrava poco eticofare ricerca senza impegnarmi come at-tivista, non come studiosa, per aiutarele vittime del terrorismo che passavanofuori casa mia», scrive. Tajana non di-menticherà mai un uomo disperato, inviaggio con la sua famiglia.

«Il sogno di mio padre è rifarsi unacasa nel paese completamente distrut-to di suo padre, Hrancici, vicino a Goraz-de, tra le montagne», dice Merisa Pilav,studentessa al quinto anno di Medicinaa Trieste, di origine bosniaca musulma-na. Aveva un anno e mezzo quando è ini-ziata la guerra. «Mia madre ha preso mee i miei fratelli ed è scappata nel boscoquando sono arrivati i cetnici per ucci-derci», racconta. «Ci siamo rifugiati dallanonna materna, in un paesino ben ripa-rato, dove le granate ci passavano soprasenza colpirci. Lì eravamo al sicuro. Soloche non c'era da mangiare e dormivamoin cinquanta nella stessa casa. Ricordola prima cioccolata, il primo mandarinodella mia vita».

Dal 1997 Merisa vive ad Aviano, inprovincia di Pordenone, con la sua fami-glia. «Ho presentato domanda alla Crocerossa per fare un periodo di volontariatocon i profughi sulla rotta balcanica, vor-rei mettere a disposizione le mie compe-tenze mediche, per poter fare di più che

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Zygmunt Bauman

Lo "straniero" è per definizione un soggetto poco

"familiare", colpevole fino a prova contraria e dun-

que per alcuni può rappresentare una minaccia.

Nella nostra società liquida, flagellata dalla paura

del fallimento e di perdere il proprio posto nella

società, i migranti diventano " walking dystopias",

distopie che camminano. Ma in un'era di totale in-

certezza esistenziale, dove la vita è sempre più

precaria, questa non è l'unica ragione delle paure

che scatena la vista di ondate di sfollati fuori con-

trollo. Vengono percepiti come "messaggeri di cat-

tive notizie", come scriveva Bertolt Brecht. Ma ci

ricordano, allo stesso tempo, ciò che vorremmo

cancellare. Questi migranti, non per scelta ma per

atroce destino, ci ricordano quanto vulnerabili si-

ano le nostre vite e il nostro benessere. Purtroppo

è nell'istinto umano addossare la colpa alle vitti-

me delle sventure del mondo.

E così, anche se siamo assolutamente impotenti a

imbrigliare queste estreme dinamiche della glo-

balizzazione, ci riduciamo a scaricare la nostra

rabbia su quelli che arrivano, per alleviare la no-

stra umiliante incapacità di resistere alla preca-

rietà della nostra società. Ma una cosa è certa: co-

struire muri al posto di ponti e chiudersi in

"stanze insonorizzate" non porterà ad altro che a

una terra desolata, di separazione reciproca, che

aggraverà soltanto i problemi.

dare solo cibo e vestiti, so che ce n'è bi-sogno». Aver vissuto una guerra influen-zerà per sempre la vita di Merisa, il suosguardo sulle cose, il suo terrore alla vi-sta delle armi. Soprattutto, non smetteràmai di chiedersi perché nessuno ha fat-to niente di fronte all'orrore in Bosnia:«Tutti sapevano e nessuno faceva niente,l'Onu, l'Europa. Ho capito che se lascia-mo agli Stati il compito di agire, le cosenon cambieranno mai».

Mario Majstorovié era adolescente quan-do lui e la sua famiglia sono scappatidalla Bosnia e si sono rifugiati in Slove-nia. La fuga è durata due giorni, in auto.«Niente in confronto a quello che acca-de oggi. Ma è comunque qualcosa chenon dimentichi. Venivamo da Derven-ta, una delle città più colpite dalla guer-ra». Da agosto ha passato alcune giorna-te e nottate a fare il volontario portandocibo e vestiti ai profughi. «Questa gentenon sa nemmeno dov'è, li trasportano eli fanno viaggiare come pacchi. Apparequasi impossibile, in queste condizioni,trattarli in modo umano», dice.

Mario sa che i volontari portano unaiuto prezioso, necessario, danno acqua,cibo, vestiti. Senza, la gente morirebbe.Ma osserva: «Se ci rifletti, ti rendi con-to che stai facendo il gioco dei potenti,che costringono le persone a questi viag-gi della speranza, invece di dare loro unmodo dignitoso per salvarsi. Tu sei lì, co-me volontario, ti senti comunque impo-tente, esegui gli ordini, smisti pacchetti,fai cose basilari».

La voce di Mario arriva spezzata viaSkype: «Appena arrivati in Slovenia sia-mo stati anche in 40 in una casa, i primidue, tre mesi. Pian piano la nostra fami-glia si è dispersa, tra Trieste, il Canada,l'Austria. Noi siamo rimasti. Ricordo cheera maggio, mio padre ha messo un tavo-lo da ping pong in giardino e hanno co-minciato a venire i ragazzi del quartie-re, così è iniziata la nostra nuova vita».

Mario ha capito di potercela fare coni primi successi scolastici. «Avevo 13 an-ni, alla prima verifica in sloveno, avevoil terrore di aver sbagliato tutto. Quandola prof mi ha chiesto di alzarmi in piediho iniziato a tremare, temevo un'umi-liazione, invece si è complimentata da-vanti a tutti. Il mio era stato il compitomigliore».

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