RICOSTRUZIONI ALL’ITALIANA - Storia In Rete · a cataclismi ben peggiori di quello d’Abruzzo...

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w w w. s t o r i a i n r e t e . c o m numero 43 Maggio 2009 6,00 Genova 1980: perché i carabinieri irrompono in un covo delle Br e non fanno nessun prigioniero? Amori noti e inediti in Casa Mussolini: spie, diplomatici e comunisti Nel Seicento, alla corte dei Medici a Firenze, i ntrighi, sesso e scienza EDDA E PAPA’ STRAGE A VIA FRACCHIA PAGGI IN CARRIERA RICOSTRUZIONI ALL’ITALIANA Chi l’ha detto che non sappiamo reagire dopo un terremoto? Ecco come nei secoli, dopo catastrofi peggiori di quella d’Abruzzo, è risorta un’Italia migliore. E più bella…

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w w w . s t o r i a i n r e t e . c o mnumero 43Maggio 2009 € 6,00

Genova 1980: perché i carabinieriirrompono in un covo delle Bre non fanno nessun prigioniero?

Amori noti e ineditiin Casa Mussolini: spie,diplomatici e comunisti

Nel Seicento, alla corte dei Medici a Firenze, intrighi, sesso e scienza

EDDA E PAPA’STRAGE A VIA FRACCHIAPAGGI IN CARRIERA

RICOSTRUZIONIALL’ITALIANAALL’ITALIANAChi l’ha detto che non sappiamo reagire dopo un terremoto?

Ecco come nei secoli, dopo catastrofi peggiori di quella d’Abruzzo, è risorta un’Italia migliore. E più bella…

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COPERTINA CATACLISMI&RIMEDI: SE «ALL’ITALIANA» È MEGLIO

Si ricostrui va MEGLIOquando si s tava PEGGIO

STORIA IN RETE | 14 Maggio 2009

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Chi l’avrebbe mai detto? Spagnoli e Borbone che di fronte a cataclismi ben peggiori di quello d’Abruzzo risolvono brillantemente la situazione. L’Italietta di inizio Novecento e quella in piena crisi del ’29 che soccorrono e riedifi cano velocemente secondo norme antisismiche all’avanguardia. Non è un racconto di fantascienza o di «storia virtuale»: è la storia vera di un Italia capace di funzionare presto e bene sotto la guida di uomini in gamba e dimenticati. I «Bertolaso» del passato si chiamavano nel ‘600 Giuseppe Lanza di Camastra, nel ‘700 Giuseppe Pignatelli, nel ‘900 Araldo di Crollalanza…

di Emanuele Mastrangelo

Q uando non esistevano le «norme CEE» c’era comunque la «regola d’arte». Gli italiani, popolo e go-vernanti, nei secoli hanno sapu-to affrontare le molte catastrofi che ciclicamente flagellano la Penisola proprio ricorrendo alla «regola d’arte». Terremoti, mare-moti, inondazioni sono il prezzo che l’Italia paga da sempre per

la sua bellezza naturale, ma gli italiani di ieri e di oggi non hanno reagito solo con il fatalismo (che consente a furbi e furbetti di ingrassarsi alle spalle degli altri), ma anche rimboccandosi le maniche, e compiendo opere di ricostruzione e di miglioramento che alla luce del recente disastro in Abruzzo dovrebbero rappresentare un esem-pio. Dunque, non solo Belice o Irpinia. Scorrendo a ritroso la secolare storia dei disastri naturali in Italia si ritrovano a decine i casi di ricostruzione coronati da successo, dove

l’intervento dello Stato (o degli Stati prima dell’Unità) e il lavoro degli uomini hanno avuto ragione della violenza della natura. La gara che molti media fanno per elencare solo gli insuccessi, i ritardi, le vergogne nazionali fornisce scuse preventive a chi già – forse – ha in mente di ingras-sarsi con una replica squallida del Belice o dell’Irpinia. Un metter le mani avanti per poter dire fin da subito «l’Italia è questa, non si può pretendere che le cose vadano diver-samente». E invece, diversamente, le cose sono andate, e molte volte pure bene. Ma per dimostrarlo bisogna andare indietro negli anni…

Sono decine le circostanze nelle quali sovrani e mi-nistri fino all’ultimo contadino analfabeta, si sono rim-boccati le maniche e – «cofana e cucchiara» alla mano – hanno rimesso in piedi a regola d’arte ciò che la natura aveva diroccato, lasciando ai figli un mondo migliore di quello che avevano ricevuto dai padri. Come quando, nel ‘600, la Sicilia fece quello che negli anni Sessanta del se-

Si ricostrui va MEGLIOquando si s tava PEGGIO

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Si ricostrui va MEGLIOquando si s tava PEGGIO

ti. O il medico Niccolò Trezzano, che immediatamente costituì un ospeda-le di fortuna per soccorrere i feriti, e che – incredibilmente – dopo appena poche settimane riprese anche a dare lezioni ai pochi studenti universitari sopravvissuti. Fra le macerie si scavò per giorni e giorni: alcuni fortunati vennero tratti in salvo addirittura un mese dopo, i viveri sepolti sotto le ro-vine riuscirono a dare sostentamento ai molti che avrebbero voluto abban-donare le città. Da tutto il regno di Sicilia giunsero aiuti (assieme agli avventurieri e agli sciacalli che non mancano mai in questi frangenti, ma che all’epoca rischiavano una fine veramente brutta se colti sul fatto).

Il viceré di Sicilia inviò come vica-rio reale con poteri assoluti Giusep-pe Lanza duca di Camastra (1630-1708), un benefattore del popolo non nuovo a questi incarichi. Il duca aveva infatti ricostruito agli stefanesi il loro borgo, cancellato nel 1682 da

cilia, Lentini e Occhiolà peri metà del-la popolazione. Un terzo dei cittadini scomparve invece sotto le macerie di Siracusa, Palazzolo Acreide e Busce-mi. Tutti gli altri abitati dell’area eb-bero comunque a lamentare centina-ia di morti e distruzioni immani. Aiu-ti vennero inviati dal viceré spagnolo dell’isola Francesco Paceco, duca di Uzeda, ma le scarse vie di comuni-cazione dell’epoca e i porti rovinati dal maremoto resero l’opera di soc-corso straordinariamente difficile. La reazione dei siciliani però, narrano le cronache, fu eccezionale: discipli-nati e tenaci, ad esempio, i catanesi si strinsero attorno ai pochi nobili e notabili ancora in vita. Uomini come il canonico Cilestri, che riuscì a porre in salvo le reliquie di Santa Agata e a dare conforto alla popolazione orri-bilmente scossa da tanta rovina e lut-

colo scorso non si è fatto in Belice. In un secolo di invasioni, pestilenze, terremoti, proprio da uno di questi si-smi, quello spaventoso del 1693, che uccise oltre 60 mila siciliani, l’Italia fece nascere uno dei fenomeni artisti-ci più prodigiosi e ammirati dell’era moderna: il barocco siciliano. Le sera di venerdì 9 gennaio 1693 una prima scossa colpì violentemente la Sicilia sudorientale, causando già le prime migliaia di vittime. Due giorni dopo una vera e propria apocalisse – un sisma del settimo grado della scala Richter – si abbatté su tutta la regio-ne, provocando anche un maremoto. Da Messina e Reggio fino a sud, a Pa-chino, e all’interno fino a Caltagiro-ne, città, paesi e contrade furono let-teralmente cancellate dalla faccia del-la terra. Catania ebbe uccisi i quattro quinti degli abitanti; a Ragusa di Si-

Una ricostruzione del terremoto della Sicilia del 1693: sullo sfondo l’Etna, che in realtà non eruttò in quei giorni, ma che comunque aveva flagellato Catania negli anni precedenti, arrecando gravi danni alla città

STORIA IN RETE | 16 Maggio 2009

Nella storia italiana sono innumerevoli le volte nelle quali dai sovrani e ministri, fino all’ultimo contadino analfabeta, ci si è rimboccati le maniche e – «cofana e cucchiara» alla mano – si è rimesso in piedi a regola d’arte ciò che la natura aveva diroccato

Giuseppe Lanza duca di Camastra (1630-1708), Uomo integerrimo, abile e risoluto, ricostruì le città della Sicilia devastate dal sisma del 1693. Di lui le cronache non narrano altro che virtù, ma oggi questo grande italianoè ingiustamente dimenticato

rono secondo il raffinatissimo gusto locale. Il risultato è tutt’oggi sotto gli occhi del mondo, tanto che le cit-tà della Val di Noto sono considerate Patrimonio dell’Umanità.

Il duca di Camastra agì risoluta-mente. Era un vero uomo del desti-no, e di lui le cronache non traman-dano infatti che virtù: integerrimo

impegnato nell’opera di riedificazio-ne di Catania. Addirittura nella città etnea il barone di Massa iniziò a rico-struire il proprio palazzo ancor prima dell’arrivo del duca di Camastra. Alla ricostruzione di alta qualità parteci-parono architetti come Alonzo di Be-nedetto (1664-1729) e Francesco Bat-taglia (1701-1788) i quali portarono il Barocco in Sicilia, ma lo interpreta-

una frana, tanto che – ma solo nel 1812 - per gratitudine il loro paese sarà ribattezzato Santo Stefano di Camastra. L’aristocrazia siciliana, che non era ancora evidentemente quella de «il Gattopardo», si adoperò nella ricostruzione delle città devastate: come i principi di Biscari, Ignazio e quindi suo figlio Vincenzo, succeduto al padre appena quindicenne e subito

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La reazione dei siciliani nel 1693 fu eccezionale: disciplinati e tenaci i catanesi si strinsero attorno ai pochi nobili e notabili ancora in vita. Uomini come il canonico Cilestri, che pose in salvo le reliquie di S. Agata e diede conforto alla popolazione scossa da tanta rovina e lutti

Il duomo di Sant’Agata a Catania. Fu riedificato sulle macerie della precedente chiesa cattedrale, sotto le quali erano periti centinaia - forse migliaia - di fedeli in preghiera durante il sisma del 1693. Il progetto è opera dell’architetto Gian Battista Vaccarini

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in Italia sotto il proprio potere. In breve l’intera città fu un cantiere, e tutti i catanesi, popolani e nobi-li, fecero a gara nel ricostruire più belle le loro case.

Camastra incontrò invece qual-che problema altrove: anche la città di Noto doveva essere total-mente ricostruita. Non godendo di una posizione strategica come Catania, Camastra decide di riedifi-carla poco distante, ma questo pro-vocò dissapori e litigi fra cittadini, nobili e il clero. La ricostruzione – pianificata dall’architetto gesu-ita Angelo Italia con uno schema a scacchiera – richiederà ben nove anni, ma l’opera di architetti qua-li Rosario Gagliardi, Paolo Labisi, Vincenzo Sinatra e Antonio Maz-za, coadiuvati da uno stuolo di artigiani di primissim’ordine, darà

Andrea Riggio – altra personalità dominante dell’epoca – ma fu uno scontro «al rialzo». Entrambi i due personaggi erano infatti convinti di fare il meglio per la città, e il compromesso che ne risultò fu co-munque positivo per Catania: Rig-gio aveva un carattere sanguigno e determinato, tanto da ottenere da Roma i fondi per la ricostruzione dei beni ecclesiastici. Non dimenti-chiamo quali potentissimi simboli possedeva la fede religiosa in quel secolo, in grado di confortare gli animi e infondere nuova energia anche nella disperazione più nera: senz’altro le reliquie di Sant’Agata furono utili tanto quanto il denaro e i viveri del Camastra nel tenere viva e compatta la popolazione di Catania. Riggio sfidò con successo il governo spagnolo, in quel pe-riodo intento a ridurre la Chiesa

fino al centesimo, puntuale nelle promesse, caritatevole col popolo, religioso e pio, spietato verso scia-calli e saccheggiatori. Distribuì immediatamente viveri e denaro ai sinistrati. Amministrò la giustizia severamente. Fece demolire quan-to restava di Catania (qui, invero, suscitando qualche mugugno) e la riprogettò assieme all’ingegne-re militare Carlo di Grunemburg (originario dei Paesi Bassi e già au-tore della pianificazione di Santo Stefano) con criteri razionali: vie ampie, spaziose e ad angolo retto, quartieri ben definiti. Conscio del-l’importanza dei gesti simbolici, tracciò il corso dei due assi prin-cipali della nuova Catania con una cerimonia solenne, procedendo a cavallo seguito dai nobili, fra due ali di gente plaudente. Qualche at-trito Camastra lo ebbe col vescovo

STORIA IN RETE | 18 Maggio 2009

Il duca di Camastra agì risolutamente. Era un vero uomo del destino e di lui le cronache non tramandano infatti che virtù: integerrimo fi no al centesimo, puntuale nelle promesse, caritatevole col popolo, religioso e pio, spietato verso sciacalli e saccheggiatori

Prima le ostie, poi il pane

La pìetà delle popolazioni ita-liane del 1600 e del 1700 era tale che anche di fronte alle

catastrofi più apocalittiche, la reli-gione era un punto di riferimento irrinunciabile e in grado di ridare conforto. A Militello colpita dal si-sma del 1693 - narrano le cronache - venne mandato un rappresentan-te del principe di Butera il quale «fattosi consignare li denari ap-prontati per pagare la tanda [taglia o imposta regia NdR] maturata a primo gennaro di detto anno 1693 (...) cominciò subito in primo loco a far grande spese per ritrovarsi l’ostie sacro-sancte sotto le rovine delle chiese demolite e seppellire li cadaveri, fece poi erigere due ba-racche per rimetterci dentro il san-tissimo Sacramento, tanto della Madre chiesa sotto titolo di Santo Nicolò quanto delle parrocchiale di Sancta Maria della Stella, fece pari-mente sbarazare tutte le strade e

sfabricare le mura cadenti per po-tersi caminare in essa città. Di più fece fabricare due barrache per ha-bitarci le moniali delli dui monaste-ry di S. Agatha e S. Giovanni Batti-sta e due altre fece inalzare per gli P.P. Cappuccini e P.P. Conventuali. Similmente con tutta sollecitudine e premura fece accomodare e ac-conciare li molini per rendersi atti a macinare e fabricare molti forni; fece venire un chirurgo forastiero nominato Don Francesco Sigismun-do milanese per medicare li sudetti feriti e stroppiati (...) e fi nalmente diede un sostentamento universale al popolo che si moriva della fame con far venir fuori frumento, pane, farina comestibile di maniera tale che se non s’havesse operato con tanta carità non havrebbe restata persona viva in questa città». (da «Regione Sicilia - Note storiche» su http://gndt.ingv.it/Pubblicazioni/Lsu_96/vol_2/sic_n.PDF) n

Mileto di Calabria, le rovine lasciate dal terremoto del 1783

schiantando addirittura montagne e deviando fiumi. Il terremoto di Reggio sconvolse l’intera Calabria Ulteriore, ossia le odierne provin-ce di Catanzaro, Crotone, Reggio e Vibo Valentia (allora Monteleone). Le scosse e i maremoti durarono quasi due mesi, dal 5 febbraio al 28 marzo 1783 e provocarono oltre 29 mila morti dalla Sella di Catanzaro a Messina, superando per potenza il 7° Richter e raggiungendo coi loro effetti il 10° della scala Mercalli. Alcuni paesi – come Oppido Ma-mertina e Borrello – non furono più ricostruiti. In altri, come a Scilla, le vittime furono oltre il 70% degli abi-tanti. Lo sconvolgimento idrografi-co provocò la formazione di decine di paludi, che in breve infestarono la regione di zanzare anofele che decimarono i superstiti con la ma-laria, provocando altri cinquemi-la morti. L’intervento del sovrano di Napoli, Ferdinando di Borbone, fu immediato e tempestivo, anche considerati i mezzi di trasporto del tempo e le difficoltà nelle vie di co-municazione calabresi (che tutt’og-gi perdurano quasi identiche). Il re inviò già il 15 febbraio il conte Francesco Pignatelli quale plenipo-tenziario, dotato di centomila duca-ti di pronta cassa, medicinali, viveri e truppe, oltre che carta bianca. Pi-gnatelli giunse il 22 e stabilì il suo quartier generale in un accampa-mento di tende a Monteleone, dove abitò per i quattro anni successivi, presiedendo prima ai soccorsi e poi alla ricostruzione. Ma anche la popo-lazione delle Due Sicilie non fu meno generosa: ad esempio i lavoratori del porto di Napoli non vollero rice-vere paga per il lavoro di carico del-le navi destinate ai porti disastrati. La regina Maria Carolina – sorella della regina di Francia Maria Anto-nietta – fu così colpita dal disastro e dal dolore del suo popolo da pa-ragonarlo alla morte del suo bam-bino, avvenuta proprio in quelle stesse nefaste settimane del 1783. Provveduto con l’aiuto dell’Arma-ta napoletana ai primi aiuti alle popolazioni disastrate, presto ci si accorse che i danni erano così in-

un risultato estetico eccezionale. Anche Ragusa ebbe lo stesso pro-blema: restaurare il vecchio o rie-dificare ex novo? Si risolse con un compromesso: accanto alla città vecchia fu edificata una città nuo-va, sempre dal Grunemburg, per accontentare la parte della popo-lazione che non intendeva lasciare le proprie case, ancorchè diroccate. A Occhiolà invece la ricostruzione procedette spedita: la città vecchia venne abbandonata e riedificata su progetto di Grunemburg col nuovo nome di Grammichele, e per opera del feudatario locale Carlo Maria Carafa e Branciforte sorse anche un teatro ed una tipografia. Per Gram-michele si ideò una pianta stellare, a sei punte, rapidamente realizzata sotto la supervisione dell’architet-to Michele da Ferla. Così fu, una per una, tutte le altre città siciliane distrutte: 77 in tutto quelle comprese nel decreto vicereale: ricostruite ed oggi Patrimonio dell’Umanità.

E dunque nobili e popolo nella Sici-lia orientale, annientata dal terremo-to del 1693, riuscirono nel miracolo di farne nuovamente una delle terre più belle del mondo. Novant’anni dopo, poco più a nord, un altro cataclisma si abbattè sul Mezzogiorno d’Italia,

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genti che occorreva reperire i fondi necessari alla ricostruzione attra-verso mezzi straordinari: fu così creata per regio decreto la Cassa Sacra, un istituto – presieduto dal Pignatelli stesso – che avrebbe do-vuto liquidare e gestire i beni del clero calabrese, con previsione di restituzione dei beni in futuro e a rate. Comunque fin dal giorno suc-cessivo all’arrivo a Napoli della ter-ribile notizia, re Ferdinando aveva riunito il consiglio dei ministri, e questo aveva proposto immedia-tamente provvedimenti radicali a favore delle «classi lavoratrici» e a discapito di quelle «oziose». Ossia – allora – il clero e i feudatari.

Pignatelli si adoperò immediata-mente rastrellando denaro da tutta la Calabria. Fondi giunsero anche dal vicerè di Sicilia, sebbene an-che Messina fosse stata fortemente danneggiata dal sisma. Navi cari-che di merci furono dirottate verso i porti di Reggio e Pizzo nonostan-te il mare scosso per la stagione e dai continui maremoti: giunsero comunque medicinali, viveri, ten-de (l’Armata napoletana ne montò oltre 2.500) ma anche pece, per la triste incombenza di dover cremare i cadaveri, nell’impossibilità di sep-

Maria Carolina d’Austria, moglie di Ferdinando IV. Paragonò il dolore per il terremoto di Calabria del 1783 alla morte di suo figlio Giuseppe, il terzo bambino che la regina aveva perduto in quell’anno infausto

Ferdinando IV di Napoli in un ritratto ottocentesco. Quando il terremoto del 1783 sconvolse la Calabria Ulteriore e Messina inviò immediatamente il principe Pignatelli dotandolo di pieni poteri

All’Aquila, come chiunque ha potuto constatare at-traverso giornali e televisioni, è venuto giù quasi tutto. Villette di periferia costruite da una man-

ciata di anni in (teorico) cemento armato, palazzi del Settecento, chiese del Trecento, campanili ottagonali di trenta metri, mura medievali restaurate di recente, case popolari degli anni Sessanta, silos di acciaio nella zona industriale… eccetera eccetera. Con una sola vistosa ec-cezione: le opere dell’architettura fascista. Basta una bre-ve passeggiata nel martoriato centro storico della città per trovare tanti esempi. Ne scegliamo qualcuno quasi a caso. Iniziando dalla piazza della Fontana Luminosa. Eb-bene, qui, a testimonianza della solidità delle costruzioni, addirittura i due comandi mobili dei Vigili del Fuoco, che provvedono a organizzare per gli sfollati le «incursioni protette» nelle case per il recupero di oggetti preziosi e vestiario, sono addossati a una sede della Carispaq e a una palazzina di studi professionali e uffi ci (compresa la locale redazione de «Il Messaggero»), entrambe risalen-ti agli anni Trenta. A poche decine di me-tri, oltre il circolo del tennis, la coeva Pi-scina comunale, una delle prime piscine coperte d’Italia, è intatta. Nemmeno una scalfi ttura sulle pareti esterne. Nel-la zona dell’ormai famigerata via XX settembre, dal lato della Villa comunale, ecco quindi la chiesa del Cristo Re, con la sua bella datazione al 1934 in numeri romani. Si è rotto un unico piccolo vetro, come se invece di un

tremendo terremoto avesse subito la pallonata di un ra-gazzino. Accanto, la vecchia sede dell’ISEF (ex GIL - Gio-ventù Italiana del Littorio NdR), con qualche segno e screpolatura, epperò agibi-le. Se poi passiamo alle abi-tazioni private, l’intero quar-tiere della Banca d’Italia, realizzato prima della Secon-da guerra mondiale per i di-pendenti delle Offi cine Carte e Valori, è perfettamente in-tegro. Non è saltato neppure un mattone del rivestimen-to. Stesso discorso per le case dell’INCIS in via Duca degli Abruzzi (la stessa in cui si è sbriciolato l’omoni-mo hotel), dove abitava an-che - da adolescente - il gior-nalista Bruno Vespa. Sotto il regime, evidentemente, i controlli funzionavano e le cose erano fatte per durare. Ogni edifi cio doveva essere, per dirla con il poeta lati-no Orazio, un monumentum aere perennius. Non solo i luoghi istituzionali, ma anche le abitazioni destinate ai semplici cittadini. A questo punto, almeno, si spera che non venga più in mente a nessuno di contestare, come è stato varie volte fatto in passato (il diessino Fabio Mussi chiese persine l’intervento censorio di Silvio Berlusconi), l’intitolazione della piscina comunale ad Adelchi Sere-na (1895-1970), ex podestà dell’Aquila dal 1926 al 1934, quindi vicesegretario nazionale del PNF e ministro dei La-vori pubblici. Quando c’era lui, se non altro, le costruzioni venivano fatte bene. Con quello che si vede in questi gior-ni, e dinanzi alla «madre di tutte le inchieste» annunciata dal procuratore capo Alfredo Rossini, non è poco. (Miska Ruggeri, da «Libero» del 16 aprile 2009) n

E a l’Aquila si salva solo l’architettura del Ventennio

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La Fontana Luminosa de L’Aquila, realizzata nel 1938 da Nicola D’Antino (1880-1966)

Adelchi Serena (1895-1970), podestà de L’Aquila dal 1926-1934 e quindi ministro dei Lavori Pubblici dal 1939 al 1940

pellirli in fretta prima che potessero diffondere pestilenze. Appena pos-sibile furono riedificati i mulini e i forni per dare pane ai terremotati, sebbene lo sciame sismico perdu-rasse ancora per un mese, mietendo altre vittime, frustrando il lavoro di ricostruzione e rendendo rischioso quello di salvataggio e di sgombe-ro. Poiché spesso e volentieri alle calamità naturali l’uomo aggiunge del suo, Pignatelli emanò decreti draconiani contro sciacalli e pro-fittatori e predispose stretti pattu-gliamenti delle coste per respingere eventuali incursioni dei pirati bar-bareschi. Inoltre – ben conoscendo l’avidità di certi suoi pari – su con-siglio del ministro reale marchese di

Sambuca dispose «che i prepotenti e facoltosi, così nei contratti come in ogni occasione, non facessero servire le pubbliche calamità per istrumenti alle loro iniquità, come la Storia ce ne ha conservati degli esempi troppo inumani avvenuti in simili o quasi eguali circostanze». Come in altre fortunate ricostruzio-ni (l’ultima delle quali, quella del Friuli, è ancora viva nella memoria, e non la tratteremo qui), si provvi-de «prima al posto di lavoro, poi alle case, infine alle chiese» (anche se – come in Sicilia un secolo pri-ma – il primissimo conforto al po-polo addolorato venne proprio dai sacerdoti, che su altari di fortuna celebrarono la messa e tennero uni-

Il conte Francesco Pignatelli (1734–1812), si occupò dei soccorsi e della ricostruzione della Calabria devastata. Fu uomo probo ed estremamente fedele al suo sovrano Ferdinando IV di Borbone

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STORIA IN RETE | 22 Maggio 2009

Il sisma di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908 è ricordato come una delle peggiori catastrofi che ab-bia mai colpito l’intero continente europeo. Le due

città dello Stretto furono letteralmente cancellate dalla faccia della terra e si lamentarono oltre centomila mor-ti: alla furia del sisma, che provocò danni all’interno del-la Sicilia fi no a Caltagirone, si aggiunsero un maremoto e gli incendi causati dalle tubature del gas interrotte. Lo tsunami che seguì il terremoto ebbe conseguenze se possibili ancora peggiori, perchè molta gente s’era riversata sulle spiagge per allontanarsi dalle città in rovina o in fi amme, e là venne travolta da onde alte come palazzi di quattro piani che improvvisamente si sollevarono dallo Stretto. I soccorsi immediati giunsero dal mare: si trattava di navi russe ed inglesi, che imme-diatamente si prodigarono al limite delle possibilità, e da quattro navi della Regia Marina di stanza nel porto di Messina. A terra le vie di comunicazione stravolte re-sero diffi coltoso l’arrivo dei soccorritori, che giunsero inizialmente solo in piccoli drappelli: ad esempio alcu-ne centinaia di soldati ed un gruppo di operai volontari raggiunse Reggio il giorno dopo il sisma, ma fi no al 30 nessun altro aiuto giunse alla città calabrese. Il governo

presieduto da Giovanni Giolitti si riunì il 29, dopo che le prime notizie riuscirono a giungere a Roma. Immediata-mente venne dirottata per lo Stretto una divisione na-vale che incrociava nelle acque sarde, e la stessa coppia reale si imbarcò su una nave da guerra per raggiungere le città disastrate il 30 dicembre. Russi e inglesi - i primi ospiti della rada di Augusta, i secondi in crociera nelle acque siciliane - attraccarono in quello che restava del porto di Messina. Risoluto, l’ammiraglio russo dispose i suoi uomini a terra, tanto per aiutare i soccorsi, quan-to per mantenere l’ordine pubblico, ed ordinò anche la fucilazione degli sciacalli. La fl otta italiana, più lontana dai porti colpiti, raggiunse le città dello Stretto solo in seconda battuta. Pochi giorni dopo giunsero in gara di solidarietà anche vascelli tedeschi, spagnoli, francesi e greci. Girò anche voce che in quel frangente i coman-di austroungarici (e segnatamente l’arcinemico d’Italia generale Conrad) avessero consigliato all’Imperatore Francesco Giuseppe di attaccare l’Italia di sorpresa. Ma il vecchio Asburgo, nonostante 60 anni di regno passati in buona parte in guerra contro gli italiani non ritenne di dover dar ascolto a questi suggerimenti maramaldeschi e - noblesse oblige - si unì alla solidarietà internazio-

Messina-Reggio: ricostruzione in due tempi. Poi, nel 1943, di nu ovo macerie per le bombe angloamericane

te le comunità). Pignatelli fece rico-struire l’industria tessile calabrese e i frantoi, a volte anticipando il dena-ro del proprio patrimonio personale. Fece bonificare le paludi malariche riaprendo il corso dei torrenti scon-volti da frane e sommovimenti del terreno. Nuove strade furono aperte

e i porti e i magazzini rimessi in fun-zione. Almeno trentatrè paesi furono ricostruiti altrove, cercando di segui-re criteri moderni, con strade ampie e ad angolo retto, e furono emanate le prime norme antisismiche, come l’obbligo di inserire travi in legno all’interno della muratura. Una ordi-

nanza che – purtroppo – non venne però sempre seguita, coi risultati che furono tragicamente chiari nel 1908.

Ferdinando inviò in Calabria un gruppo di ingegneri milita-ri col compito di risanare le zone disastrate. Le prescrizioni regie im-

Il re inviò Francesco Pignatelli quale plenipotenziario, dotato di centomila ducati di pronta cassa, medicinali, viveri e truppe, oltre che di carta bianca. Pignatelli stabilì il suo quartier generale in un accampamento di tende a Monteleone, dove abitò per i quattro anni successivi

Soldati impegnati a scavare fra le macerie in Calabria

Il duomo di Messina in rovine dopo il terremoto del 1908

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Messina-Reggio: ricostruzione in due tempi. Poi, nel 1943, di nu ovo macerie per le bombe angloamericane

nale. Sugli aiuti e l’effi cienza delle nostre Forze Armate si scatenò nei mesi successivi una forte polemica sulla stampa, anche se - come spesso accade - col tempo mol-te delle accuse si rivelarono ingigantite e strumentali. Quello che invece lasciò abbastanza a desiderare fu la ri-costruzione successiva: lo Stato, infatti, ritenne di poter limitare il proprio intervento all’essenziale, secondo le teorie liberali del laissez faire. Terminata la costruzione dei baraccamenti e la ricostruzione di parte delle opere pubbliche necessarie, Roma lasciò ad enti locali e privati l’incombenza della ricostruzione. Ma nel 1911 scoppiò la guerra in Libia, e nel 1915 l’Italia entrava nella Gran-de Guerra. E la ricostruzione restò lettera morta. Così per 15 anni i cittadini di Messina e Reggio restarono in gran parte nelle baracche, in condizioni miserande. Nel 1924, compresa fi nalmente la necessità dell’intervento diretto ed energico dello Stato ci si iniziò a muovere. In meno di trenta mesi, dal 1924 al 1927, entrambe le città dello Stretto furono letteralmente rivoluzionate: sorsero nuovi quartieri popolari, edifi ci pubblici monu-mentali e strutture logistiche. Nella sola Reggio, a fronte di una spesa di 20 milioni di lire in sedici anni (dal 1909 al 1925) nei due anni successivi furono costruite opere

pubbliche e case popolari per 147 milioni. Al termine del primo periodo di ricostruzione - il 31 agosto 1927 - si stimava in soli 35 milioni e mezzo la spesa per le opere restanti. Messina e Reggio uscirono da questo periodo completamente ricostruite secondo criteri moderni. Le baracche sparirono quasi del tutto (quelle mostrate nei telegiornali in questi giorni, infatti, non risalirebbero al terremoto, bensì ai bombardamenti del 1943). Reggio soprattutto fu molto ingrandita, arrivando ad includere nel proprio comune anche gli abitati vicini, e nel 1932 vi fu inaugurato anche il Museo Nazionale della Magna Grecia, tutt’ora uno dei maggiori musei archeologici del mondo. Sfortunatamente però quando la natura sta con le mani in mano, ci pensa l’uomo a disfare il lavoro di de-cenni: con la Seconda guerra mondiale Messina e Reg-gio furono sottoposte a pesantissimi bombardamenti aerei e d’artiglieria durante il 1943, e ne uscirono nuo-vamente rase al suolo. Ancora oggi si vedono a Messi-na i vuoti lasciati dalle bombe alleate nella fi la di edifi ci monumentali che fra 1910 e 1943 aveva preso il posto della celebre Palazzata seicentesca, infelicemente riem-piti nel dopoguerra da sgraziati condomini di dieci e più piani. n

pongono la larghezza delle strade, la costruzione di piazze in ogni paese, proporzionate alla popolazione, per il mercato e per la chiesa locale. Gli inge-gneri inoltre sono imbevuti di cultura illuministica: sognano di ricostruire in Calabria delle città ideali con passeg-giate, strade ampie e trionfali, parchi e

giardini, quartieri centrali per i nobili e periferici per i contadini, fognature e fontane pubbliche. Spesso queste am-bizioni sono al di là delle possibilità di una terra povera ed aspra, dove lo stesso terreno non consente la realiz-zazione di impianti urbanistici simme-trici e lineari. In alcuni casi, tuttavia, la

ricostruzione ebbe esiti mirabili, come nella città di fondazione di Filadelfia Calabra (presso Vibo). Nata dalle ceneri di Castelmonardo – totalmente raso al suolo – Filadelfia prese il nome che in greco vuol dire «fraterna dilezione» per celebrare la concordia delle clas-si sociali (ancorché solo nobili e cle-

Fin dal giorno successivo all’arrivo a Napoli della terribile notizia, re Ferdinando aveva riunito il consiglio dei ministri, e questo aveva proposto immediatamente provvedimenti radicali a favore delle «classi lavoratrici» e a discapito di quelle «oziose». Ossia – allora – il clero e i feudatari

Anni Venti: si ricostruisce «la Palazzata» messinese, in stile Novecento

STORIA IN RETE | 24 Maggio 2009

ro avessero diritto di voto), e nel suo blasone furono rappresentate due mani che si stringono, una delle quali guan-tata: ossia, popolo e classi dirigenti. La città fu pianificata secondo la struttura romana, a castrum, e le case costruite secondo i criteri più moderni dell’epo-ca e rispettando le norme prescritte dal Pignatelli. Tuttavia, alcune opere resta-rono incompiute, anche per gli sconvol-gimenti politici che la Rivoluzione Fran-cese portò di lì a poco in tutta Europa.

La Calabria non fu l’unica regione a beneficiare del rapidissimo interven-to dei reali di Napoli. Il Mezzogiorno è sempre stato funestato da ogni sorta di calamità sismica ed idrogeologica. Come nel 1851, quando una scossa di quasi 40 secondi di durata devastò

Melfi e la valle del Vulture. Immediata-mente Ferdinando II di Borbone, il ni-pote del Ferdinando che era sul trono alla vigilia della Rivoluzione francese, si mosse da Napoli di persona, per an-dare a soccorrere le popolazioni, con un’opera così rapida che in un anno – raccontano le cronache – già i paesi erano ricostruiti. Tuttavia il melfitano venne colpito da un nuovo sisma ot-tant’anni dopo, con esiti disastrosi: in-fatti, vanificando le leggi di Ferdinan-do II, molti cittadini avevano scavato grotte e gallerie sotterranee, minando letteralmente alla base la solidità delle loro case. Inoltre col cambio di regime e l’annessione del Regno delle Due Sici-lie all’Italia riunificata, molte delle leg-gi e dei decreti borbonici o furono abo-liti o caddero in disuso, specialmente in quei territori funestati dalla lunga guerra civile del Brigantaggio. Questa negligenza fu caramente pagata dalle popolazioni del Mezzogiorno, che do-vettero subire gravi guasti. Il terremoto di Melfi del 23 luglio 1930 pretese il tributo di ben 15 mila vittime. L’intera area del basso Sannio fu devastata or-ribilmente da una forza del 6.5 grado della scala Richter. Questa tragedia è praticamente stata cancellata dalla sto-ria d’Italia: il motivo? Secondo l’archi-tetto e storico Filippo Giannini («Quel terremoto politicamente scorretto» su www.tuttostoria.net), perché i soccorsi e la ricostruzione che seguirono furo-no talmente efficienti da far arrossire di vergogna ogni episodio analogo del dopoguerra. E dato l’anno – assoluta-mente in «tempi sospetti» – si capisce bene come i paragoni risultino quanto-meno scomodi per ogni altra ricostru-zione fatta durante l’Italia unita, da quelle liberali [vedi box sul terremoto di Messina e Reggio alle pagine prece-denti NdR] a quelle dell’Italia demo-cratica. Le comunicazioni giunsero a Roma in nottata e immediatamente ed automaticamente l’allora ministro dei

Lavori Pubblici Araldo di Crollalanza (in carica da nemmeno sei mesi) fu in-vestito di poteri speciali, secondo i regi decreti legge del 1926 e del 1927. Gra-zie a queste leggi, il ministero aveva a disposizione tabelle di mobilitazione aggiornate, con le quali Crollalanza riuscì in poche ore a impegnare il per-sonale del Genio militare e civile e a di-spiegarlo nelle zone disastrate. Lo stes-so ministro, con un treno speciale che veniva sempre tenuto pronto a Roma, si recò immediatamente a Melfi e – se-guendo l’esempio del Pallavicini – pra-ticamente vi restò fino a ricostruzione conclusa, salvo i viaggi di servizio ver-so la capitale e verso le Marche, colpite anch’esse nell’ottobre di quell’anno da un sisma.

Il Regio Esercito e la Milizia in-tervennero immediatamente: i sol-dati e le camicie nere sgombrarono le macerie, salvando decine di per-sone sepolte dai crolli, predispo-sero baraccamenti antisismici per alloggiare gli sfollati, fornirono viveri e medicinali. Due mesi dopo le commissioni di studi del Genio Civile e del Regio Ufficio Geologico avevano già concluso le loro ricer-che sull’area, scoprendo che gran parte dei guasti provocati dal sisma si sarebbero potuti evitare se il ter-reno sotto le città non fosse stato

Il busto dedicato ad Araldo di Crollalanza (1892–1986) a Bari. Podestà del capoluogo pugliese e ministro dei Lavori Pubblici, é uno dei pochissimi esponenti del Fascismo al quale sono stati dedicati monumenti e strade nel dopoguerra

Araldo di Crollalanza fu investito di poteri speciali e grazie alle leggi del ‘26-’27, il suo ministero aveva a disposizione tabelle di mobilitazione aggiornate, con le quali Crollalanza riuscì in poche ore a impegnare il personale del Genio militare e civile e a dispiegarlo nelle zone disastrate

Digitando “Terremoto del 1693”

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25 | STORIA IN RETEMaggio 2009

La cattedrale di Noto è uno dei simboli della rinascita del-la Sicilia orientale nel 1700.

Continuamente danneggiata dai vari terremoti che hanno fl agellato la Sicilia, resta uno dei capolavori assoluti del barocco mondiale. Nel 1990 l’ennesimo sisma le arreca danni gravi, a seguito dei quali si decide di chiudere la chiesa in attesa di iniziare dei restauri. Ma l’attesa è lunga. Troppo. E l’incuria pretende il suo tributo pesantissi-mo: la cattedrale rovina quasi com-pletamente la sera del 13 marzo 1996, con l’intera navata destra, la navata centrale, il transetto destro, l’arco trionfale e quasi tutta la cu-pola. Nel 2000, dopo quattro anni di studi, si ricomincia fi nalmente a ricostruire. Il lavoro stavolta è fi lologico e metodico. Negli anni precedenti, infatti, la cattedrale aveva subito interventi a dir poco

cialtroneschi, come la sostituzione negli anni Cinquanta del Novecen-to della copertura a falde con una in cemento armato notevolmente più massiccia e pesante. Inoltre durante i lavori di sbancamento delle macerie si scoprì che i quat-tro pilastri che reggevano la nava-ta centrale erano stati riempiti con sassi di fi ume invece che con conci in pietra squadrati, come vorrebbe la regola d’arte: evidentemente quando vennero costruiti, nella prima metà del Settecento, l’epoca d’oro di onestà e serietà del duca di Camastra era già solo un lontano ricordo. Il peso maggiore del tetto e l’usura dei secoli ha fatto il resto. I lavori di ricostruzione e restauro, tuttavia, sono ritornati sugli errori del passato, risolvendoli. Oggi la cattedrale, inaugurata nuovamen-te il 18 giugno 2007, è tornata al suo antico splendore. n

Noto: la ricostruzione della ricostruzione

La cattedrale di Noto, uno dei capolavori del Barocco mondiale. Nel 1996 crollò rovinosamente a causa di un difetto strutturale, ma fu ricostruita in sette anni

traforato da innumerevoli grotte ar-tificiali e se le case fossero state edifi-cate con criteri migliori. E così fu fatto: le abitazioni e gli edifici monumentali recuperabili furono restaurati, mentre ciò che non era salvabile fu demolito senza rimpianti. Al suo posto, e più spesso in nuove aree, sorsero edifici moderni, ad uno o due piani. Con una legge apposita (RDL 632\30) fu previ-sta una più rigida applicazione delle norme sulle nuove costruzioni e sui re-stauri, poi si procedette al riempimento delle caverne e alla sistemazione delle aree franose. Borgate rurali furono predisposte per accogliere definitiva-mente gli sfollati – vere e proprie «new town», come si dice oggi – scegliendo i siti accuratamente, in zone ben espo-ste e soprattutto già servite da strade o ferrovie (e qui s’impone l’impietoso confronto coi moderni quartieri dei «palazzinari», dove prima si costrui-scono i condomini e poi – forse – le strade per raggiungerli). Già tre mesi dopo il sisma le prime «casette asismi-che» venivano consegnate agli sfollati. Un anno e mezzo dopo le città erano pressoché ricostruite: 3.746 erano le nuove case, 5.190 quelle restaurate. Incredibilmente per un lavoro pubbli-co (discorso valido erga omnes e non solo per l’Italia: ovunque nel mondo i lavori pubblici costano sempre più di quanto preventivato), la ricostruzione della valle del Vulture e di Melfi costò allo Stato meno delle cifre stanziate. Per questo di Crollalanza riceverà plau-si e riconoscimenti ovunque: Mussoli-ni lo elogiò pubblicamente con queste parole: «Eccellenza di Crollalanza, lo Stato italiano la ringrazia non per aver ricostruito in pochi mesi perché era suo preciso dovere, ma la ringrazia per aver fatto risparmiare all’erario 500 mila lire». La Società delle Nazioni lo insignì d’un encomio solenne.

Emanuele Mastrangelo

Mussolini elogiò pubblicamente l’opera di ricostruzione in Irpinia con queste parole: «Eccellenza di Crollalanza, lo Stato italiano la ringrazia non per aver ricostruito in pochi mesi, perché ciò era suo preciso dovere, ma la ringrazia per aver fatto risparmiare all’erario 500 mila lire»