Riassunto Del Manuale Di Ember

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ANTROPOLOGIA CULTURALE di C. Ember e M. Ember 1. AMBITI E OBIETTIVI DELL’ANTROPOLOGIA. L’antropologia è una disciplina il cui ambito di studio è l’essere umano nella sua globalità (anthropos = uomo, umano e logos = studio). Gli antropologi tentano di scoprire quando, dove e perché l’umanità è comparsa sulla terra e si è evoluta, e come si siano prodotte le varietà fisiche presenti nelle popolazioni moderne; l’antropologia si interessa inoltre alla variabilità delle idee e delle usanze tradizionali nelle società passate e presenti. Definire l’antropologia come studio dell’uomo non è tuttavia sufficiente, poiché significherebbe allora includervi una vasta gamma di discipline (la sociologia, la psicologia, la storia, ..). Qualcosa di unico, dunque, distingue l’antropologia. Mentre in passato gli antropologi si occupavano delle culture non occidentali, lasciando ad altre discipline lo studio della civiltà occidentale e di analoghe società complesse, dotate di una storia scritta, negli ultimi anni questa spartizione delle competenze è venuta via via meno, e ora essi svolgono le proprie ricerche sia nelle città industriali sia in remoti villaggi del mondo non occidentale. La scelta di un campo di studi così ampio è in parte fondata sul principio che ogni ipotesi generale sull’uomo, ogni spiegazione dei fenomeni umani, culturali o biologici, debba essere applicabile ai vari contesti, diversi dal punto di vista storico e geografico, in cui l’uomo è venuto a trovarsi. Se una generalizzazione o una spiegazione mostrano di non avere una vasta applicabilità esse destano un legittimo, se non necessario, scetticismo. In assenza di prove evidenti è proprio l’atteggiamento scettico che previene l’antropologo dall’accettare teorie errate. I. L’approccio olistico. Al criterio storico e alle proporzioni mondiali dell’ambito di interesse degli studi antropologici, si aggiunge un altro tratto specifico: l’approccio olistico, o multiprospettico, allo studio dei fenomeni umani. L’antropologia, infatti, non solo studia tutti i tipi di popolazioni, ma anche molti aspetti dell’esperienza umana . In passato ciascun antropologo era guidato da un approccio olistico e mirava ad esaurire tutti gli aspetti del suo oggetto di studio; attualmente , il bagaglio delle conoscenze si è talmente accresciuto che gli antropologi tendono a specializzarsi in un settore particolare . Come distinguere l’antropologia dalle altre scienze umane?? È necessario isolare le problematiche che l’antropologia solleva per individuarne la specificità scientifica. L’antropologia affronta una varietà di problemi che vanno dall’indagine delle modalità e delle motivazioni dei primi insediamenti umani nelle città, alle ragioni della diversità del colore della pelle tra le popolazioni, alla presenza, in una lingua rispetto ad un’altra, di un maggior numero di termini che designano i colori, o alla pratica della poliginia in determinate società. Nella diversità degli ambiti che questi orientamenti di ricerca esplorano, essi mantengono un elemento in comune: l’analisi delle caratteristiche tipiche di una popolazione. Ciò che contraddistingue l’antropologia è proprio questa indagine degli elementi (i tratti, i costumi) specifici di un gruppo umano. L’antropologia nasce da una curiosità su ciò che rende caratteristiche le popolazioni umane, e su come questi tratti caratterizzanti evolvano insieme al gruppo nel corso dei secoli. II. Le branche dell’antropologia. 1

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ANTROPOLOGIA CULTURALE di C. Ember e M. Ember

1. AMBITI E OBIETTIVI DELL’ANTROPOLOGIA.

L’antropologia è una disciplina il cui ambito di studio è l’essere umano nella sua globalità (anthropos = uomo, umano e logos = studio). Gli antropologi tentano di scoprire quando, dove e perché l’umanità è comparsa sulla terra e si è evoluta, e come si siano prodotte le varietà fisiche presenti nelle popolazioni moderne; l’antropologia si interessa inoltre alla variabilità delle idee e delle usanze tradizionali nelle società passate e presenti. Definire l’antropologia come studio dell’uomo non è tuttavia sufficiente, poiché significherebbe allora includervi una vasta gamma di discipline (la sociologia, la psicologia, la storia, ..). Qualcosa di unico, dunque, distingue l’antropologia. Mentre in passato gli antropologi si occupavano delle culture non occidentali, lasciando ad altre discipline lo studio della civiltà occidentale e di analoghe società complesse, dotate di una storia scritta, negli ultimi anni questa spartizione delle competenze è venuta via via meno, e ora essi svolgono le proprie ricerche sia nelle città industriali sia in remoti villaggi del mondo non occidentale. La scelta di un campo di studi così ampio è in parte fondata sul principio che ogni ipotesi generale sull’uomo, ogni spiegazione dei fenomeni umani, culturali o biologici, debba essere applicabile ai vari contesti, diversi dal punto di vista storico e geografico, in cui l’uomo è venuto a trovarsi. Se una generalizzazione o una spiegazione mostrano di non avere una vasta applicabilità esse destano un legittimo, se non necessario, scetticismo. In assenza di prove evidenti è proprio l’atteggiamento scettico che previene l’antropologo dall’accettare teorie errate.

I. L’approccio olistico.Al criterio storico e alle proporzioni mondiali dell’ambito di interesse degli studi antropologici, si aggiunge un altro tratto specifico: l’approccio olistico, o multiprospettico, allo studio dei fenomeni umani. L’antropologia, infatti, non solo studia tutti i tipi di popolazioni, ma anche molti aspetti dell’esperienza umana. In passato ciascun antropologo era guidato da un approccio olistico e mirava ad esaurire tutti gli aspetti del suo oggetto di studio; attualmente, il bagaglio delle conoscenze si è talmente accresciuto che gli antropologi tendono a specializzarsi in un settore particolare. Come distinguere l’antropologia dalle altre scienze umane?? È necessario isolare le problematiche che l’antropologia solleva per individuarne la specificità scientifica. L’antropologia affronta una varietà di problemi che vanno dall’indagine delle modalità e delle motivazioni dei primi insediamenti umani nelle città, alle ragioni della diversità del colore della pelle tra le popolazioni, alla presenza, in una lingua rispetto ad un’altra, di un maggior numero di termini che designano i colori, o alla pratica della poliginia in determinate società. Nella diversità degli ambiti che questi orientamenti di ricerca esplorano, essi mantengono un elemento in comune: l’analisi delle caratteristiche tipiche di una popolazione. Ciò che contraddistingue l’antropologia è proprio questa indagine degli elementi (i tratti, i costumi) specifici di un gruppo umano. L’antropologia nasce da una curiosità su ciò che rende caratteristiche le popolazioni umane, e su come questi tratti caratterizzanti evolvano insieme al gruppo nel corso dei secoli.

II. Le branche dell’antropologia.All’interno della disciplina distinguiamo, a seconda dell’area di studio, 2 grandi filoni:(1) l’antropologia fisica (o biologica) settore molto ampio della ricerca antropologica(2) l’antropologia culturale si divide in 3 gruppi principali: archeologia, linguistica e etnologia (a quest’ultima, che studia le culture più recenti, ci si riferisce spesso con l’espressione più generale di antropologia culturale)

II.I. L’antropologia fisica.2 sono i percorsi di ricerca dell’antropologia fisica: uno riguarda l’origine e l’evoluzione del genere umano (paleontologia umana o paleoantropologia) (*)

l’altro indaga le variazioni biologiche delle popolazioni contemporanee, focalizzando il proprio interesse sulla variabilità degli esseri umani (§)

(*) Per ricostruire il percorso dell’evoluzione umana i paleontologi studiano i resti fossili di essere umani, ominidi e animali. Per spiegare la relazione tra i vari stadi di un processo evolutivo i paleontologi fanno uso anche delle informazioni che la geologia offre sulla successione dei climi e sulle variazioni dell’ambiente naturale, della flora e della fauna. La ricostruzione della storia umana include inoltre lo studio del comportamento e dell’evoluzione dei mammiferi

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imparentati più da vicino con gli esseri umani, le proscimmie e le scimmie antropomorfe che, come l’uomo, appartengono all’ordine dei primati. Gli antropologi, psicologi e biologi specializzati in questo settore sono detti primatologi. L’osservazione scientifica può svolgersi nel contesto naturale o in laboratorio. Attraverso lo studio dei primati l’antropologia fisica distingue le caratteristiche tipiche dell’uomo dai tratti che questi ha ereditato dai suoi antenati non umani. Partendo da queste conoscenze è possibile ricostruire l’aspetto dei nostri antenati preistorici. Le eventuali ipotesi in tal merito vengono poi verificate attraverso il confronto con i reperti fossili.(§) L’intero genere umano vivente appartiene ad una stessa specie, Homo Sapiens: gli uomini possono infatti incrociarsi tra loro e generare prole fertile. Ciò non impedisce che vi siano enormi differenze tra i vari gruppi, e proprio le diversità di altezza, di modalità di adattamento fisico all’ambiente, di capacità di resistere maggiormente al freddo o di grado di protezione solare di certi pigmenti dermici rappresentano i quesiti della ricerca antropologica. L’antropologia fisica si avvale di principi, concetti e tecniche propri di altre discipline; tuttavia, vi si distingue per la focalizzazione sul concetto di popolazione, presa come unità di confronto quando si analizzano le variazioni biologiche.

II.II. L’antropologia culturale.Dal punto di vista antropologico, il termine "cultura" si riferisce alle abitudini mentali e comportamentali tipiche di una popolazione o di una società. La cultura di un gruppo sociale è costituita dunque dalla lingua, dal bagaglio culturale, dalle credenze religiose, dalle abitudini alimentari, dalla musica e dalle attività lavorative, dai tabù, .. Per questo motivo l’archeologia (*)

(= studio delle culture antiche attraverso i loro resti materiali), l’antropologia linguistica (§) (= analisi linguistica in prospettiva antropologica) e l’etnografia (#) (= indagine su popolazioni viventi e recenti) rientrano nella vasta classificazione dell’antropologia culturale.(*) L’archeologo non solo ricostruisce i costumi e le abitudini dei popoli del passato, ma ne individua l’evoluzione culturale, ricercandone le cause. Simile è l’approccio dello storico, con la differenza che l’archeologo si spinge molto più indietro nel tempo. La ricerca storica riguarda unicamente le società che hanno lasciato tracce scritte e il suo raggio di interesse è limitato agli ultimi 5.000 anni. Le società umane, tuttavia, esistono da più di 1 milione di anni e solo una piccola percentuale di esse ha sviluppato una forma scritta negli ultimi 5.000 anni. In questi casi, l’archeologia assolve la funzione della storia: in mancanza di reperti scritti, gli archeologi devono ricostruire la storia dalle vestigia della cultura materiale (templi, vasellame, utensili di pietra, cumuli di rifiuti, ..). L’archeologia studia la preistoria, vale a dire l’epoca che precede la cultura scritta; tuttavia esiste una specializzazione, detta archeologia storica, che esamina le vestigia di popoli recenti che possiedono la scrittura. Per comprendere le ragioni dell’evoluzione culturale dell’uomo e le sue variazioni geografiche l’archeologia raccoglie testimonianze materiali nei siti degli insediamenti umani, che di solito oggi si trovano sotto terra. Sulla base dei reperti rinvenuti e catalogati essa tenta di rispondere ad una serie di quesiti fondamentali che riguardano, per esempio, l’insorgere delle prime forme di fabbricazione di utensili (elemento che contraddistingue la civiltà umana), le cause che diedero origine allo sviluppo dell’agricoltura, il luogo e il periodo in cui essa sorse la prima volta, oppure ancora quando, perché e dove sono state fondate le città. Per rispondere a queste domande l’archeologia raccoglie i propri dati mutuando tecniche e scoperte da altre discipline, e al contempo si avvale delle ricerche dall’antropologia riguardanti le culture recenti e contemporanee. Successivamente, l’archeologia verifica la validità delle ipotesi, facendo riferimento a dati del presente o del passato recente per studiare i processi della storia antica.(§) La linguistica studia il linguaggio umano e ha una tradizione scientifica più antica rispetto all’antropologia. A differenza degli altri indirizzi linguistici, quello antropologico si occupa della storia e della struttura di lingue che possiedono esclusivamente una forma orale (la scrittura risale a soli 5.000 anni fa, e tuttora molte lingue non possiedono una forma scritta). Poiché una lingua priva di scrittura può essere studiata solo attraverso l’ascolto, la scomparsa dei parlanti significa l’eliminazione di ogni sua traccia. La ricostruzione della storia di una lingua solo orale deve dunque basarsi sul confronto con lingue moderne. Sulla base di questa operazione si deducono i mutamenti che possono essersi verificati nel passato, e che rendono ragione di differenze o di somiglianze linguistiche riscontrate nel presente. I quesiti tipici dell’analisi di tipo linguistico-storico riguardano la derivazione di 2 o più lingue moderne da un’unica forma antica e, se tali lingue sono imparentate, l’individuazione del periodo storico in cui il processo della loro differenziazione ebbe origine. La linguistica strutturale, invece, indaga i principi secondo cui suoni e parole sono organizzati nel discorso. La descrizione strutturale di una lingua, per esempio, può mettere in evidenza l’intercambiabilità dei suoni t e k in una stessa

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parola: ciò è possibile in quanto essi non producono cambiamenti di significato. La sociolinguistica si occupa degli aspetti sociali della lingua, cioè degli argomenti e delle modalità interattive della conversazione, dell’atteggiamento nei confronti di parlanti stranieri e delle variazioni stilistiche a seconda del contesto sociale.L’etnologia cerca di comprendere le ragioni delle differenze di costumi e di mentalità tra popoli contemporanei e recenti. Essa ha quindi a che fare con i modelli mentali e di comportamenti propri di una cultura (usanze matrimoniali, organizzazione parentale, sistemi politici ed economici, religione, arte popolare, musica, ..) che essa mette a confronto nelle diverse società moderne. L’etnologia studia inoltre le dinamiche culturali (= modalità con cui varie culture si evolvono e cambiano nel tempo) e analizza le relazioni tra credenze e pratiche culturali. I suoi scopi sono dunque gli stessi dell’archeologia, con la differenza che la prima raccoglie dati attraverso l’osservazione e la somministrazione di interviste a soggetti viventi, mentre la seconda analizza resti antichi e frammentari, sulla base dei quali si possono solo formulare ipotesi.(#) Un tipo particolare di etnologo è l’etnografo, che trascorre un periodo di tempo condividendo, interagendo e osservando la popolazione che è oggetto del suo studio. L’indagine sul campo fornisce i dati per compilare una descrizione dettagliata (etnografia) che illustra numerosi aspetti del comportamento e della mentalità del gruppo studiato. L’indagine etnografica, tuttavia, non è soltanto descrittiva, ma propone soluzioni a quesiti relativi alle relazioni tra gli aspetti economici e politici del gruppo, o riguardo all’adattamento dello stile di vita alle condizioni ambientali, oppure ancora in merito ai possibili legami tra la fede del soprannaturale e le credenze e le pratiche riguardanti la natura (l’etnografo, quindi, illustra lo stile di vita di un particolare gruppo umano e propone spiegazioni dei fenomeni osservati). Poiché molte culture moderne sono il risultato di un enorme cambiamento culturale verificatosi nel passato recente, una particolare branca dell’etnologia, detta etnostoria, si è specializzata nello studio dei mutamenti culturali che sopravvengono nel tempo. A differenza degli etnografi, che fondano la propria ricerca principalmente sui dati registrati attraverso l’osservazione diretta, gli studiosi di etnostoria si basano su referti redatti da terzi. Nella maggior parte di tratta di riordinate informazioni sparse e frammentarie, se non contraddittorie.Poiché l’etnologia indaga numerosi aspetti del comportamento e del pensiero sociali, essa condivide la propria area d’interesse con altre scienze umane; ciò che distingue l’antropologia culturale, tuttavia, è il suo interesse per la diversità dei fenomeni da società a società, attraverso tutti i periodi storici e nella totalità dell’estensione terrestre. Man mano che una disciplina si sviluppa si formano al suo interno varie specializzazioni. Si tratta di una tendenza inevitabile dovuta all’accumulazione di conoscenze e al progresso delle metodologie di ricerca, che creano un limite quantitativo alle competenze del singolo studioso. Esistono, quindi all’interno delle branche dell’antropologia che abbiamo illustrato, ulteriori specializzazioni. La suddivisione in capitoli di questo testo fa riferimento in molti casi alle ampie aree di specializzazione dell’antropologia, riproducendo le distinzioni proposte dagli studiosi stessi, i quali si autodefiniscono antropologi dell’economia, della politica o della psicologia. Altri ricercatori si identificano con orientamenti di ordine teorico, come nel caso degli ecologi culturali, che si occupano del rapporto tra la cultura e l’ambiente naturale e sociale. Si noti, tuttavia, che questi indirizzi di specializzazione non si escludono a vicenda; non necessariamente la specializzazione allontana un antropologo da altri ambiti di ricerca. Di fatto alcuni studi prendono a prestito informazioni da svariati campi, anche estranei all’antropologia.

III. L’utilità dell’antropologia.L’antropologia è una disciplina relativamente giovane: gli antropologi cominciarono i loro soggiorni fra i popoli lontani solo verso la fine dell’800. Paragonate alle nostre conoscenze delle leggi della natura, le conoscenze relative all’uomo e alle sue abitudini sono minime. Se si prende in considerazione il gran numero di problemi sociali che ci circondano risulta chiara l’importanza dell’antropologia culturale e delle scienze sociali. Poiché i problemi sociali sono prodotti del comportamento umano, è necessario scoprire quali condizioni producono tali fenomeni. La comprensione di queste dinamiche rende possibile un cambiamento delle condizioni che le hanno create, e permette di conseguenza di ridurre o di risolvere questi problemi. Il fatto che l’antropologia ed altre scienze umane abbiano una storia piuttosto breve non è una ragione sufficiente per giustificare la relativa scarsezza delle nostre conoscenze. Ci si può domandare, dunque, la ragione per cui l’uomo, nella generale sete di sapere che lo caratterizza, abbia aspettato tanto a studiare se stesso. L’atteggiamento dello studioso della natura umana deve partire dal presupposto inverso rispetto alla convinzione che sia

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impossibile analizzare la natura umana scientificamente, sia perché le nostre azioni e i nostri pensieri sono troppo soggettivi e complessi, sia perché gli esseri umani si possono comprendere solo in termini metafisici. L’antropologia è dunque utile nella misura in cui contribuisce alla conoscenza del genere umano. Essa permette di evitare fraintendimenti tra popolazioni diverse: se si parte dalla conoscenza delle ragioni delle differenze tra gruppi decadono i giudizi di valore su comportamenti che paiono strani. Anche le differenze di ordine fisico vanno considerate come un adattamento alle condizioni ambientali. Nella nostra società, per esempio, si apprezzano le persone alte e magre. È probabile, tuttavia, che se individui con questa costituzione fossero costretti a vivere nel Circolo polare artico preferirebbero avere una corporatura più tozza, più adatta a trattenere calore. Il ricorso all’antropologia potrebbe inoltre essere utile per ovviare ad alcuni fraintendimenti che insorgono tra gruppi diversi. Ogni cultura, per esempio, attribuisce un valore diverso ai gesti e ha una concezione particolare di quale sia la distanza interpersonale più appropriata a seconda delle circostanze. L’intolleranza nei confronti della diversità è dovuta, in parte, all’ignoranza in merito alle ragione della differenza tra le persone; vi si può dunque ovviare facendo appello al sapere antropologico. La conoscenza del nostro passato genera in noi al contempo sentimenti di umiltà e di soddisfazione. Ciò significa che per studiare l’essere umanoda un lato è necessario prendere coscienza della vulnerabilità della nostra specie, e non pensare che i suoi problemi si risolvano spontaneamentedall’altro è opportuno tener presenti le conquiste dell’uomo, in quanto testimoniano la sua capacità di fronteggiare le avversitàMolti problemi dell’uomo sono causati dal suo senso di onnipotenza e di invulnerabilità, dalla sua mancanza di umiltà. Conoscere la storia della nostra evoluzione potrebbe aiutarci a comprendere e ad accettare il nostro ruolo nel mondo (non esiste la certezza che una popolazione umana, o perfino l’intera specie, si perpetui in eterno). La consapevole vulnerabilità del genere umano non deve però trasformarsi in un sentimento di impotenza: molte sono le ragioni per cui confidare nel futuro (si prenda in considerazione il progresso dell’uomo). In breve, gli esseri umani e le loro culture sono mutati enormemente nel corso dei secoli, dato che le popolazioni si sono adattate a contesti mutevoli. Non ci resta che sperare che il genere umano continui ad adattarsi ai cambiamenti del presente e del futuro.

2. IL CONCETTO DI CULTURA.

Molte sono le convinzioni e le abitudini condivise dalle persone che fanno parte di una stessa società. Noi abbiamo solo una vaga idea di quanti schemi mentali e abitudini abbiamo in comune: il loro insieme è ciò che gli antropologi definiscono "cultura". L’uomo tende a non riflettere sulla propria cultura perché essa è talmente parte di sé che egli la dà per scontata. Solo confrontandosi con sensibilità, credenza e abitudini diverse ci si accorge di condividere certe idee e usanze con un determinato gruppo e ci si rende conto delle differenze o delle somiglianze culturali. La professione dell’antropologo nacque proprio allorché gli europei si spinsero in terre lontane e, esplorandole, vennero inevitabilmente a contatto con differenze addirittura impressionanti.

I. Gli atteggiamenti che ostacolano lo studio delle culture.Nella maggior parte dei casi l’impatto degli europei con le culture che scoprirono nei loro viaggi provocò shock o rigetto, e ciò non desta meraviglia, poiché l’uomo tende a considerare corretti i propri costumi e le proprie abitudini mentali, e a giudicare immorali o inferiori i modelli diversi. I nostri stessi schemi comportamentali, tuttavia, potrebbero sembrare barbari o strani ad un osservatore che faccia parte di un’altra società. La prospettiva antropologica parte dal presupposto che i costumi e la mentalità di un gruppo debbano essere descritti oggettivamente, e calati nel contesto dei problemi e delle opportunità della società studiata: questo tipo di approccio è detto relativismo culturale. Esso richiede un atteggiamento di empatia e di comprensione, e inoltre impone l’imparzialità dell’osservazione e la verifica delle possibili spiegazioni dei fenomeni; per questa seconda caratteristica va considerato un metodo scientifico. Generalmente il relativismo culturale è ostacolato da 2 comportamenti differenti quanto diffusi:il 1º è una tendenza alla valutazione negativa risultante dell’etnocentrismo (*)

il 2º è la propensione ad un giudizio positivo che spesso prende la forma di un’ammirazione spontanea verso la vita semplice del "buon selvaggio" (§)

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(*) Chi giudica le altre culture esclusivamente nei termini della propria cultura è detto etnocentrico. L’etnocentrismo impedisce la comprensione delle usanze di altri gruppi e, allo stesso tempo, delle proprie. Se pensiamo che tutto quello che facciamo è la cosa migliore in assoluto, non siamo disposti a domandarci le ragioni né dei nostri comportamenti né di quelli degli altri.(§) Non dobbiamo evitare i confronti con le altre culture; dobbiamo però essere attenti a non considerarle con spirito troppo romantico. Ogni sistema di vita è appropriato al contesto, all’ambiente naturale e alle condizioni sociali. Il relativismo culturale si realizza nell’osservazione di tutti i costumi propri di una società effettuata da un punto di vista oggettivo e non etnocentrico o sentimentale.Ci si chiede dunque se il relativismo culturale implichi la sospensione di ogni giudizio sulle pratiche delle altre società così come della nostra, e se il principio di oggettività vieti all’antropologo valutazioni di ordine morale sui fenomeni culturali che osserva e che cerca di spiegare. In realtà, gli antropologi esprimono giudizi e tentano in alcuni casi di cambiare quei comportamenti che ritengono pericolosi. Tuttavia, esprimere un giudizio non può e non deve precludere l’oggettività. Lo scopo della ricerca antropologica è fornire una descrizione e una spiegazione accurate che prescindano da qualsiasi valutazione di merito (vedi capitolo 3).

II. Le caratteristiche che definiscono una cultura.Ralph Linton sottolinea che: "Il termine cultura si riferisce allo stile di vita di una società considerato interamente, e non solo a quei tratti che essa stessa considera di più alto livello o più desiderabili. Per gli scienziati sociali il fenomeno cultura include azioni ordinarie quali lavare i piatti e guidare l’automobile, azioni che sono collocate esattamente sullo stesso piano delle "cose più elevate dell’esistenza". Ne consegue che per lo scienziato sociale non esistono individui o società (per quanto semplici) senza cultura". Il concetto di cultura riguarda, quindi, innumerevoli aspetti dell’esistenza umana. Alcuni antropologi considerano la cultura come l’insieme di regole o di principi che determina i comportamenti umani. La maggior parte di essi vi include le credenze, gli atteggiamenti, i valori e gli ideali che caratterizzano una particolare popolazione o società.

II.I. La cultura come condivisione.Perché un’idea o un’azione siano culturali esse devono essere condivise da un gruppo. Anche se un comportamento non si verifica di frequente, esso ha valore culturale se viene considerato appropriato da molti. La convinzione che il matrimonio debba unire un solo uomo e una sola donna è un tratto culturale della nostra società. Il ruolo di presidente o di primo ministro, invece, non è diffuso (ne viene eletto solo uno alla volta), tuttavia esso ha un valore culturale, dato che la maggior parte degli abitanti di un paese approva la sua esistenza e si aspetta dalla persona in carica una determinata condotta. È molto comune condividere valori, convinzioni e comportamenti con la famiglia e con gli amici (sebbene l’antropologia non si occupi molto di questo tipo di gruppi culturali) o con segmenti della popolazione che hanno origini etniche o geografiche, un orientamento religioso e un tipo di attività uguali o simili ai nostri. Parlare delle usanze diffuse tra gli individui che appartengono ad una società significa occuparsi di una cultura, il che costituisce il principale argomento di interesse dell’antropologia culturale. Se queste usanze sono circoscritte ad un gruppo all’interno della società si parla di subculture, che costituiscono il fulcro dell’interesse sociologico. Non esiste invece un termine unico che designi fenomeni che accomunano società differenti, ma solo una serie di perifrasi che includono la parola "cultura" (es: cultura occidentale, cultura della povertà, ..). È necessario tener presente che quando gli antropologi definiscono "culturale" un fenomeno, essi lasciano un margine alla variabilità individuale, il che significa che un tratto culturale non è obbligatoriamente condiviso dalla totalità della popolazione.

II.II. La cultura si apprende.Non tutti i fenomeni che accomunano i membri di una popolazione sono di ordine culturale. Il colore dei capelli, per esempio, non lo è, né lo è la necessità di mangiare. Affichè un comportamento possa essere considerato culturale, esso dev’essere appreso e

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condiviso. La diffusione di un colore di capelli non è culturale, perché è determinata dal codice genetico. Analogamente, cibarsi è una necessità umana, mentre le modalità di questo atto vengono apprese e variano da cultura a cultura (es: i nordamericani giudicano non commestibile la carne di cane e rifiutano anche solo l’idea di mangiarla; mentre in Cina e in altre società essa è considerata un piatto prelibato). La gran parte del comportamento umano sembra, al contrario, essere forgiata culturalmente. Agli uomini un grande aiuto all’apprendimento proviene dalla lingua naturale e dal linguaggio simbolico. Tutte le popolazioni di cui l’antropologia è a conoscenza possiedono, a prescindere dal tipo di società, un sistema complesso di comunicazione simbolica a parlata, detto linguaggio. Esso è simbolico poiché una parola o una frase rimandano ad un oggetto o ad’entità indipendentemente dal fatto che essi siano presenti o meno. Le proprietà simboliche del linguaggio hanno implicazioni fondamentali per la trasmissione della cultura. Senza il linguaggio probabilmente l’uomo non sarebbe in grado di trasmettere o di ricevere informazioni in modo così efficace e rapido, e non sarebbe dunque l’erede di una cultura così ricca e varia. Riassumendo, si definiscono culturali tutti i comportamenti, le credenze, gli atteggiamenti e i valori condivisi dai membri di uno stesso gruppo. La tradizione antropologica annovera soprattutto studi concernenti le caratteristiche culturali di una società, ossia di un gruppo di persone che occupa un preciso territorio e parla la medesima lingua, generalmente non compresa dalle popolazioni vicine. Per definizione le società non coincidono con le nazioni: molti stati, infatti, e specialmente quelli di formazione più recente, riuniscono entro i propri confini popoli di lingua differente. Appurato questo, quando un antropologo parla di una cultura si riferisce all’insieme di abiti mentali e di modelli di comportamento appresi e condivisi che contraddistinguono un determinato gruppo.

III. La descrizione di una cultura.III.I. La variabilità individuale.Descrivere una cultura può sembrare, a prima vista, relativamente semplice: si osservano le azioni degli individui e se ne registrano i comportamenti. Prendiamo invece in considerazione le possibili difficoltà: di fatto, è molto improbabile riscontrare delle enormi divergenze di comportamento; ciononostante vi è la tendenza a variazioni individuali notevoli, anche quando le persone si conformano alle aspettative culturali. Teoricamente le reazioni individuali ad un dato stimolo sono infinite, ma di fatto esse tendono a ridursi entro limiti prevedibili. Le variazioni di comportamento sono circoscritte entro limiti accettabili socialmente, ed è compito dell’antropologo individuarli. Attraverso le proprie osservazioni, l’antropologo tenta di scoprire le usanze e i principi per cui un comportamento viene giudicato appropriato in una determinata società. Focalizzando l’attenzione sull’insieme dei modelli di comportamento che emergono attraverso le interviste e le osservazioni sulla variazione individuale, l’antropologo è in grado di descrivere le caratteristiche culturali di un gruppo. In un società, non si può prescindere completamente dai modelli di comportamento che la pratica comune impone.

III.II. Le imposizioni della cultura.Il principale limite alla variabilità di comportamento individuale è rappresentato dalla cultura stessa. Émile Durkheim ha messo in evidenza come la cultura sia un’entità esterna che esercita su di noi un forte potere di coercizione. Non sempre ci rendiamo conto delle imposizioni che da essa derivano poiché spesso ci conformiamo ai tipi di condotta e di pensiero che essa impone. Gli standard o le regole che stabiliscono un comportamento accettabile sono chiamati dagli scienziati sociali norme. L’importanza di una norma dipende dalla risposta dei membri di una società in caso di una sua trasgressione. Esistono 2 tipi fondamentali di imposizione culturale: quella DIRETTA è la più ovvia; es: indossare un paio di calzoncini ad un matrimonio significherebbe essere coperti di ridicolo e venire in qualche modo isolati, mentre presentarsi nudi implicherebbe l’esposizione ad un tipo di costrizione molto più forte e diretta, quale l’arresto per atti osceni quella INDIRETTA meno ovvia, ma non per questo meno efficace; es: se decido di parlare una lingua straniera, nessuno mi fermerebbe, ma non verrei nemmeno capito, e se anche

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volessi usare una moneta straniera, non mi arresterebbero di certo, ma non riuscirei nemmeno a convincere i negozianti a vendermi del ciboL’esistenza di imposizioni culturali o sociali non è, tuttavia, necessariamente incompatibile con l’individualità. Nella maggior parte dei casi, queste costrizioni si impongono con maggior forza entro limiti che coincidono comunque con il comportamento accettabile, lasciando dunque spazio a comportamenti che possono esprimere l’unicità dell’individuo, il quale, inoltre, non sempre si rimette alla volontà della maggioranza.

III.III. Modelli culturali ideali VS modelli culturali reali.Ogni società possiede una serie di idee (di valori e di norme) che stabiliscono come un individuo debba comportarsi o reagire emotivamente in una determinata situazione: l’antropologia li definisce modelli culturali ideali. Sappiamo, tuttavia, che non sempre le persone si comportano rispettando gli standard che professano. Se così fosse non sarebbero necessarie costrizioni dirette o indirette. Alcuni dei nostri modelli ideali non trovano riscontro nei comportamenti effettivi poiché sono superati; in altri casi i modelli ideali non si traducono mai in applicazioni concrete e rappresentano semplicemente un’aspirazione. Per comprendere la differenza tra cultura ideale e cultura reale consideriamo la convinzione idealistica che tutti siano uguali di fronte alla legge. Sappiamo per certo che ciò non sempre corrisponde a verità. Ciononostante, questo ideale fa sempre parte della nostra cultura e molti di noi continuano a credere che la legge dovrebbe essere applicata a tutti nello stesso modo.

III.IV. Come individuare i modelli culturali.Esistono per l’antropologo 2 modi principali attraverso cui individuare i modelli culturali: se si occupa di usanze esplicite o chiaramente visibili all’interno di una società (es: quella di mandare a scuola i bambini), il ricercatore appura l’esistenza di queste pratiche e le studia con l’ausilio di una persona bene informata nel caso in cui l’oggetto in esame sia una sfera del comportamento che comprende numerose variazioni individuali, o quando gli individui studiati non siano consapevoli dei propri modelli di comportamento, l’antropologo deve raccogliere informazioni da un campione di persone allo scopo di individuare il modello culturaleUn esempio di modello culturale di cui la maggior parte dei componenti di una società non si rende conto è la distanza interprersonale nella conversazione. Vi è ragione di credere che tale comportamento segua regole culturali incoscie, che diventano palesi quando si interagisce con persone che hanno regole diverse. Volendo risalire alla regola culturale della distanza conversazionale tra conoscenti occasionali, si potrebbe studiare un campione di individui appartenenti ad una società e individuare la risposta modale o moda (= termine statistico che indica le risposte che si verificano con maggior frequenza rispetto ad una serie di risposte possibili). Tenendo il conto del numero di volte in cui si raggiunge una determinata distanza si ottiene una distribuzione della frequenza. La distanza che ricorre con maggior frequenza è il modello della moda. La distribuzione della frequenza può essere calcolata sulla base dei comportamenti o delle reazioni di tutti i membri di una data popolazione; ciononostante, studiare la totalità dei casi non è quasi mai necessario. Piuttosto, molti scienziati si basano su un sottoinsieme, o campione, considerato rappresentativo. Il miglior modo per assicurare la validità del campione è di scegliere a caso (campione casuale), il che significa che tutti gli individui possono venir scelti in ugual misura. Essendo relativamente facile fare osservazioni generali sugli aspetti pubblici di una cultura o su norme di comportamento largamente diffuse, spesso i campioni casuali non sono affatto necessari. Dovendo esaminare, invece, aspetti più privati di una cultura, difficili da esprimere a parole oppure inconsci, il ricercatore deve osservare o intervistare un campione casuale di persone che gli permetta di dedurre principi generali corretti in merito all’esistenza di modelli culturali. Se un fenomeno non è apertamente osservabile in pubblico, o è difficile da esprimere, ciò non significa che esso sia poco diffuso. Esso è, tuttavia, più difficile da scoprire. Appurato, attraverso le interviste e l’osservazione, che un comportamento, un’idea o un sentimento sono largamente diffusi in una società, come si fa a stabilire se essi siano stati appresi, così da poter essere definiti fenomeni culturali?? Stabilire se un fatto sia appreso o meno può essere difficile: i comportamenti derivati dall’eredità genetica non sono distinti chiaramente da quelli appresi culturalmente. Possiamo ritenere che particolari comportamenti e idee siano appresi se questi variano da società a società, e li possiamo imputare al puro determinismo genetico se essi sono presenti in tutte le società (es: i bambini di tutto il mondo imparano la lingua circa alla medesima età, tuttavia, le lingue specifiche parlate dagli adulti delle varie società mostrano differenze notevoli, e per questo debbono essere apprese).

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IV. La cultura come risultato di un adattamento.Vi sono comportamenti culturali che, se portati all’estremo, possono ridurre le possibilità di sopravvivenza di una data società. Per questo, le usanze che riducono le possibilità di sopravvivenza di una società tendono a scomparire. O le persone che vi rimangono fedeli si estinguono, portando con sé le usanze stesse, o queste vengono sostituite, permettendo alla popolazione di sopravvivere. In entrambi i casi le usanze non adattive (quelle che riducono le speranze di sopravvivenza e di riproduzione) sono destinate a scomparire. I costumi di una società che invece favoriscono la sopravvivenza e il successo riproduttivo sono detti adattivi, ed è più probabile che persistano. Si suppone dunque che se una società è sopravvissuta ed è descritta negli annali dell’antropologia (registrazioni etnografiche), gran parte del suo repertorio culturale, se non tutto, sia adattivo, o lo sia stato un tempo. Quando si dice, tuttavia, che un’usanza è adattiva si fa riferimento ad uno specifico contesto naturale e sociale (essa può infatti essere adattiva in un determinato ambiente e non in un altro). Quando si indagano, dunque, le ragioni per cui una società possiede determinate usanze, in realtà si sta studiando l’adattività di queste alle particolari condizioni ambientali di quella società. Molti comportamenti culturali che possono apparire incomprensibili ai nostri occhi si spiegano altresì come risposta di una società a determinate condizioni ambientali. La cultura rappresenta un adattamento all’ambiente naturale e ad esigenze biologiche, e può rappresentare anche un adattamento all’ambiente sociale, vale a dire alle popolazioni vicine (es: situarsi in particolari zone per difesa). Una data usanza rappresenta uno specifico adattamento all’ambiente, ma non esaurisce tutti quelli possibili. Società differenti, infatti, scelgono strategie diverse di adattamento alla stessa situazione. È opportuno trovare una spiegazione alle ragioni che conducono una società a scegliere, tra le altre possibili, una determinata risposta ad un particolare problema. Possiamo supporre che le società vissute abbastanza a lungo da poter essere descritte abbiano manifestato un numero molto più elevato di tratti culturali adattivi rispetto a quelli non adattivi. Ciò non significa, tuttavia, che tutte le caratteristiche culturali siano adattive; alcune di esse, se non molte, possono essere neutre in termini di adattività, nella misura in cui non hanno relazioni dirette con il successo riproduttivo (es: regole relative all’abbigliamento per matrimoni e funerali, all’apparecchiamento della tavola, ..). Bisogna tener presente che una società non è obbligata ad adattare la propria cultura ai cambiamenti delle condizioni ambientali. Innanzitutto, anche di fronte a circostanze mutate, le persone possono decidere di non cambiare le proprie usanze (nonostante esse possano andare incontro all’estinzione della loro società). È anche possibile, ovviamente, che da un tentativo di cambiare certi comportamenti si sviluppino fenomeni non adattivi.

V. La cultura: in gran parte integrata e in continuo mutamento.Quando veniamo a contatto con un modello culturale estraneo, la nostra reazione più ovvia è di cercare di immaginare come quel modello potrebbe funzionare nella nostra società. Un simile atteggiamento è solo una stravaganza, poiché le usanze di una cultura non possono semplicemente venir applicate ad un’altra. Questo perché ogni singola cultura è fortemente integrata, e cioè gli elementi o i tratti che la costituiscono non rappresentano un semplice assortimento casuale di usanze, ma, piuttosto, si adattano e sono coerenti gli uni rispetto agli altri. Gli antropologi sono convinti che una delle ragioni per cui la cultura tende ad essere integrata è la sua generale adattività. Se certe usanze sono maggiormente adattive in un contesto, allora quel genere di tratti si ritroverà insieme in condizioni analoghe. Una cultura tende ad essere integrata anche per ragioni psicologiche, dato che, dopo tutto, i tratti di una cultura (gli atteggiamenti, i valori, gli ideali e le regole di comportamento) sono immagazzinati nella mente di ciascun individuo. Se una tendenza verso la coerenza cognitiva è riscontrabile negli esseri umani, si può supporre che almeno alcuni aspetti di una cultura tendano ad essere integrati secondo lo stesso criterio. La tendenza di una cultura ad essere integrata può avere, dunque, origini cognitive, emotive o di adattività. Nel prendere in considerazione la storia di una società è necessario tener presente che la sua cultura è mutata nel tempo: alcuni comportamenti, credenze e valori che sono stati un tempo diffusi e comuni si sono modificati o sono stati accantonati. La spinta al cambiamento può venire dall’interno o dall’esterno di una società: nel primo caso la domanda conscia o inconscia di coerenza produce cambiamenti culturali nella misura in cui una quantità sufficiente di persone adatta vecchi comportamenti e vecchie idee a nuove idee. Si possono verificare cambiamenti, inoltre, quando vengono inventati sistemi migliori per fare le cose

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molti cambiamenti culturali possono essere stimolati da mutamenti dell’ambiente esterno. Nel mondo moderno i mutamenti del contesto sociale probabilmente rappresentano, rispetto a quelli dell’ambiente naturale, i maggiori stimoli ai cambiamenti culturali. Società diverse si sono sempre influenzate a vicendaSe partiamo dal presupposto che le culture siano qualcosa di più di raggruppamenti casuali di comportamenti, credenze e valori, e che esse tendono ad essere adattive, integrate e mutevoli, allora è più facile comprendere le loro somiglianze o le loro differenze. Si può ipotizzare dunque che circostanze simili all’interno o all’esterno di una cultura possano produrre o favorire risposte culturali analoghe.

3. LE SPIEGAZIONI E LA LORO VERIFICA.

Quando un antropologo culturale studia i membri di una determinata popolazione cerca di descriverne lo stile di vita. Ma per quanto la precisione descrittiva sia un aspetto fondamentale, essa non è però il fine ultimo dell’indagine antropologica: gli antropologi desiderano anche comprendere perché alcune usanze esistono. L’interrogativo sulle cause ci conduce nel campo delle spiegazioni: in ambito scientifico "capire" significa "spiegare", e il fine fondamentale della scienza è giungere a spiegazioni attendibili. Una spiegazione è una risposta ad un interrogativo sulle cause. Vi sono però molti tipi di spiegazione, e alcuni sono più soddisfacenti di altri: ad esempio, spiegare un’usanza ricorrendo alla tradizione è come dire che gli uomini fanno una determinata cosa perché la fanno, e questo non ci dà alcuna informazione in più. In ambito scientifico vi sono 2 tipi di spiegazione che i ricercatori tentano di elaborare: le associazioni e le teorie.

I. Le associazioni.Una delle possibilità che abbiamo per spiegare una cosa (un’osservazione, un’azione, un’abitudine, un’usanza) è chiarire in che modo essa sia conforme ad una relazione stabilita o ad un principio generale. Nel campo delle scienze naturali, le diverse relazioni, quando vengono accettate da quasi tutti gli specialisti, vengono dette leggi. Riteniamo tali spiegazioni soddisfacenti perché ci permettono sia di prevedere ciò che accadrà in futuro, sia di comprendere ciò che si è verificato con regolarità nel passato. Nel settore delle scienze sociali le associazioni vengono enunciate di solito in senso probabilistico: si dice infatti che 2 o più variabili tendono ad essere correlate in modo prevedibile, il che significa che di norma vi sono alcune eccezioni. Definiamo quindi la relazione fra le variabili un’associazione statistica, dicendo in tal modo che è improbabile che la relazione osservata sia frutto del caso. Nonostante le leggi e le associazioni statistiche siano in grado di fornire spiegazioni stabilendo una correlazione tra cose differenti, noi desideriamo sapere qualcosa in più, cioè la ragione per cui quelle leggi e quelle associazioni esistono. Così, gli scienziati tentano di formulare teorie che possano spiegare le relazioni osservate.

II. Le teorie.Le teorie (spiegazioni di leggi e di associazioni statistiche) sono più complesse delle relazioni osservate che intendono spiegare. È difficile definire con esattezza che cosa sia una teoria. Vi sono notevoli differenze tra una teoria ed un’associazione: una teoria è più complessa e contiene non una, bensì una serie di informazioni, mentre un’associazione di solito enuncia in modo piuttosto semplice l’esistenza di una relazione tra 2 o più variabili misurate sebbene una teoria possa menzionare cose che sono osservabili, può essere comunque difficile o impossibile osservare direttamente alcuni aspetti dei fenomeni in esame; al contrario, le leggi o le associazioni statistiche sono basate interamente sulle osservazioni

II.I. Come vengono prodotte le teorie??Quasi tutti gli orientamenti teorici che hanno fatto la storia dell’antropologia culturale si limitano a suggerire in quale direzione cercare per tentare di risolvere i problemi incontrati, e non propongono spiegazioni specifiche per fenomeni specifici. Occorre, quindi, domandarsi come, a partire da un determinato fenomeno, un antropologo sia in grado di sviluppare una spiegazione o una teoria. Non è possibile indicare una procedura che sia in grado di garantire l’elaborazione di una teoria, perché sviluppare una teoria richiede immaginazione creativa. È

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inoltre possibile che un attaccamento eccessivo ad un particolare orientamento teorico sia controproducente, perché può indurre il ricercatore a non vedere tutte le possibilità esistenti. Possiamo comunque esplicitare alcune procedure che hanno aiutato gli antropologi ad elaborare spiegazioni dei fenomeni culturali. Sembra che tali procedure siano di 2 tipi: gli antropologi possono essere aiutati dallo studio di una particolare società (analisi del singolo caso)*

possono cercare di elaborare una teoria avvalendosi di uno studio comparativo che riguarda più società §

* Quando analizza un caso singolo, l’antropologo può voler spiegare un’usanza particolare. Nel corso del suo soggiorno presso la popolazione in questione il ricercatore può chiedere agli informatori perché essi praticano (o pensano di praticare) quell’usanza. Talvolta attraverso tali domande è possibile ricavare una spiegazione plausibile, ma più spesso l’antropologo dovrà andare alla ricerca di altri elementi presenti nella società o nell’ambiente che possano essere considerati associati all’usanza. Qualora ne esista la possibilità, l’antropologo potrà analizzare la situazione dal punto di vista storico, cercando di capire se la comparsa di quell’usanza è recente. E, se lo è, dovrà domandarsi quali condizioni (che potrebbero allora rappresentarne una spiegazione) si verificarono appena prima della sua comparsa.§ Un antropologo può anche riuscire ad elaborare una spiegazione comparando società diverse che condividono la stessa caratteristica, al fine di stabilire quali altre caratteristiche si presentano, con regolarità, associate a quella che si sta indagando. Occorrerà poi considerare le società in cui tale caratteristica è assente, perché vi si potrebbe rilevare l’assenza di un elemento che potrebbe essere la causa dell’insorgenza del fenomeno. Se gli antropologi scoprono che, in differenti culture, una determinata caratteristica si presenta regolarmente associata con certe altre, allora potremmo essere ragionevolmente sicuri del fatto che è stata ristretta la gamma delle possibili cause della pratica in esame. Occorre tenere presente tuttavia che non è necessario scandagliare tutte le caratteristiche che possono essere condivise da culture differenti; l’antropologo si sofferma di solito solo su quei tratti che sembrano collegati tra loro. È questo il momento in cui entra in gioco l’orientamento teorico, in quanto esso sottolinea la probabilità che un determinato insieme di certi fattori sia importante di un altro.

III. La verifica delle spiegazioni.In tutti gli ambiti di ricerca le teorie sono generalmente l’elemento più utile, a quanto pare a causa della tendenza insita nell’uomo a cercare di dare un senso al mondo. È necessario, quindi, avere a disposizione delle procedure che ci mettano in grado di scegliere, tra le tante teorie possibili, quelle che con maggiore probabilità sono vere. In campo scientifico tutte le strategie di verifica consistono nel dire in anticipo che cosa si troverà nel caso l’interpretazione proposta sia corretta, e quindi nel condurre un’indagine per vedere se la previsione viene confermata. Se non è così, il ricercatore è costretto ad ammettere che forse l’interpretazione è sbagliata; viceversa, se la previsione dovesse risultare vera, lo scienziato sarà autorizzato ad affermare che esistono prove a sostegno della sua teoria.

III.I. Le definizioni operative e le misurazioni.Quando verifichiamo previsioni desunte da una teoria è per stabilire se la teoria può essere considerata corretta, e per vedere se essa è coerente con le condizioni e i fenomeni osservabili nel mondo reale. Al fine si trasformare previsioni teoriche in affermazioni che possano essere verificate, un ricercatore fornisce, di ciascuno dei concetti e delle variabili che vengono menzionati nella previsione, una definizione operativa, che è la descrizione della procedura seguita nel misurare le variabili. È estremamente importante specificare la definizione operativa di ciascuna variabile, perché in tal modo si permette ad altri ricercatori di controllare i risultati raggiunti. La scienza dipende dalla replicabilità, vale a dire dalla possibilità di riprodurre i risultati. Soltanto quando più ricercatori osservano una particolare associazione, noi possiamo definire legge tale associazione o relazione. Fornire definizioni operative è importante anche perché ciò permette ad altri di valutare se le misurazioni fatte sono corrette. Misurare qualcosa significa confrontarlo con altre cose su una scala di variabilità. Spesso si pensa che uno strumento di misurazione sia necessariamente un oggetto fisico, ma in realtà anche la classificazione è un metodo di misura (quando classifichiamo gli individui li dividiamo in insiemi e decidere a quale insieme essi appartengono significa misurarli, perché per farlo dobbiamo operare dei confronti). Qualunque sistema utilizziamo per misurare le nostre variabili, il fatto che noi possiamo effettuare tali misurazioni implica che possiamo verificare le nostre ipotesti, per vedere se le relazioni previste esistono realmente.

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III.II. Il campionamento.Dopo aver stabilito il modo in cui misurare le variabili delle relazioni previste, un ricercatore deve decidere che criterio adottare nella scelta dei casi da analizzare per verificare la sua ipotesi. Occorre poi stabilire non solo quali casi scegliere, ma anche quanti sceglierne. Una scelta comunque va fatta, perché nessun ricercatore può esaminare tutti i casi possibili. Alcune scelte sono migliori di altre. Si parla di campione casuale quando tutti i casi selezionati hanno la stessa probabilità di essere inclusi nel campione. Quasi tutti i test statistici che valutano i risultati delle ricerche richiedono campionamenti casuali, perché soltanto i risultati basati su campioni casuali possono essere ritenuti probabilisticamente veri per insiemi o universi più ampi di casi. Prima di poter effettuare un campionamento casuale il ricercatore deve specificare l’universo del campione, cioè la lista dei casi da cui il campione è tratto. Supponiamo che un antropologo stia svolgendo una ricerca sul campo: se la società che sta studiando non è molto piccola, di solito è poco pratico utilizzare come universo del campione l’intera società; poiché la maggioranza dei ricercatori sul campo effettua permanenze nella comunità studiata, l’intera comunità diventa di solito l’universo del campione se il ricercatore sta effettuando studi comparativi transculturali, dovrebbe usare un campione costituito dalle società di tutto il mondo; dato però che non esistono descrizioni di tutte le società, passate e presenti, i campioni di solito vengono tratti da elenchi editi di società descritte che sono state classificate basandosi su variabili culturali standard, o vengono estrapolati da Human Relations Area Files (Hraf), una raccolta, aggiornata annualmente e dotata di un indice, che assembla libri e articoli di soggetto etnografico relativi a più di 350 società passate e presenti di tutto il mondoIn ambito antropologico il campionamento casuale viene utilizzato solo raramente; d’altronde un campione non casuale può essere considerato adeguatamente rappresentativo solo se il ricercatore non ha scelto personalmente i casi da sottoporre ad esame. Dovremmo essere molto sospettosi nei confronti di quei campioni che possono riflettere i preconcetti o gli interessi del ricercatore. Una procedura di campionamento dovrebbe riuscire a dare una rappresentazione corretta, e non una selezione fuorviata da preconcetti, dell’universo da cui viene attinto il campione. L’unico modo per aumentare le probabilità di ottenere un campione rappresentativo consiste nell’utilizzare una procedura di campionamento casuale: a questo scopo si attribuiscono convenzionalmente dei numeri ai casi presenti nell’universo statistico, e si utilizza poi una tabella di numeri casuali per sorteggiare i casi del campione.

III.III. La valutazione statistica.Dopo aver misurato le variabili ritenute pertinenti in tutti i casi del campione, il ricercatore è in grado di stabilire se le relazioni previste risultano effettivamente dai dati a disposizione. Non dimentichiamo che i risultati possono addirittura rovesciare le previsioni della teoria. Qualche volta il ricercatore, per verificare se le variabili sono associate nel modo previsto, costruisce una tabella della contingenza (vedi pag. 51). Ogni caso viene assegnato ad una casella, o cella, della tabella, in base ai risultati ottenuti nella misurazione delle variabili esaminate. A questo punto dobbiamo domandarci se il modo in cui i casi sono distribuiti nella tabella conferma le previsioni. Ad un primo sguardo non sappiamo bene cosa rispondere. Le eccezioni invalidano la previsione?? Quante devono essere le eccezioni perché ci si ritenga costretti a rifiutare l’ipotesi?? È in casi come questo che si ricorre ai test di significatività. Gli scienziati hanno inventato vari test che ci dicono quanto "perfetto" debba essere un risultato perché si possa considerare probabile un’associazione tra le variabili in esame, cioè il fatto che una implichi generalmente l’altra. Quante sono le probabilità che questo risultato sia puramente accidentale, e che quindi non vi sia in realtà alcuna associazione tra le variabili prese in esame?? Sebbene alcuni dei metodi matematici per rispondere a questa domanda siano piuttosto complessi, la risposta include sempre una stima probabilistica, la probabilità che il risultato osservato o uno ancora più aderente alle previsioni possano comunque essere comparsi per caso. La maggioranza degli scienziati sociali è d’accordo nel ritenere statisticamente significativo (probabilmente vero) qualsiasi risultato che dia un valore inferiore o uguale a 0,05 (fino a 5 probabilità su 100). Perché però esistono le eccezioni?? Se una teoria è corretta, non dovrebbe valere per tutti i casi?? Vi sono molte ragioni per cui è impossibile attendersi sempre un risultato perfetto: innanzitutto, anche se una teoria è corretta, vi possono essere altri aspetti che non sono stati esaminati

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le eccezioni alla relazione prevista possono essere causate anche da un ritardo culturale (questo si verifica quando il cambiamento in un aspetto della cultura è separato dalla situazione culturale che lo ha causato da un certo periodo di tempo) un’ulteriore causa della presenza di eccezioni è la scarsa cura con cui vengono effettuate le misurazioniLe associazioni statistiche significative che si possono derivare da una teoria offrono ad essa un supporto sperimentale; ma per poter pensare che una teoria sia corretta è necessaria la replicabilità, cosicché altri ricercatori, utilizzando altri campioni, possano confermarla. Occorre poi derivare dalla teoria altre previsioni, per vedere se anch’esse vengono confermate. Bisogna paragonare la teoria ad altre possibili spiegazioni del fenomeno studiato, per vedere se qualcuna di queste funziona meglio. Se anche queste spiegazioni prevedono la relazione proposta nella teoria, forse si renderà necessario combinarle con essa. La ricerca scientifica richiede, dunque, tempo e pazienza e, cosa forse ancora più importante, un atteggiamento umile da parte dei ricercatori. Per quanto una teoria possa sembrare eccezionale, occorre sempre tenere presente che può essere sbagliata.

IV. I tipi di ricerca utilizzati in antropologia culturale. L’etnografia.Gli antropologi culturali si avvalgono di diversi metodi di ricerca; ciascuno di questi ha i propri vantaggi e svantaggi quando si tratta di elaborare o di mettere alla prova delle spiegazioni. Per classificare i tipi di ricerca impiegati dagli antropologi si possono seguire 2 criteri:il 1º riguarda l’ambito spaziale dello studio (analisi di una singola società, o di diverse società nella stessa regione, o di un campione che ha per universo il mondo intero)il 2º pertiene all’ambito temporale dello studio (storico VS non storico)

unità di analisi tipo di ricercanon storica storica

singola società etnografiacomparazione all’interno di una

stessa cultura

etnostoriacomparazione all’interno di

una stessa culturaregione comparazione controllata comparazione controllata

campione di società di tutto il mondo

ricerca transculturale ricerca transculturale

All’inizio del XIX° secolo gli antropologi compresero che, per descrivere le culture in modo più accurato e per produrre qualcosa che avesse valore scientifico, avrebbero dovuto cominciare a vivere tra le popolazioni che costituivano il loro oggetto di studio, prendendovi parte attivamente. Questo metodo è noto come osservazione partecipante. L’osservazione partecipante prevede sempre il lavoro sul campo, che consiste in un’esperienza diretta con la popolazione studiata, ma che può includere anche altri modelli, come la conduzione di un censimento o di un’inchiesta. Il lavoro sul campo, che è la pietra miliare dell’antropologia moderna, è il mezzo attraverso il quale viene raccolta la maggior parte del materiale documentario. Indipendentemente da altri metodi che gli antropologi possono usare, l’osservazione partecipante, condotta in genere per un anno o più, è considerata la base del lavoro antropologico. Le descrizioni degli antropologi devono registrare, descrivere, analizzare e infine formulare un quadro della cultura, o almeno di una parte di essa. Dopo aver effettuato un lavoro sul campo, un antropologo può preparare un’etnografia, la descrizione e l’analisi di una singola società. Non è semplice realizzare una lunga osservazione partecipante in un’altra cultura, e soprattutto non è facile farla bene; l’esperienza esige indubbiamente molto sul piano dell’impegno fisico e psicologico. Sebbene sia di enorme aiuto imparare la lingua prima di recarsi sul posto, spesso questo non è possibile, e così molti antropologi si trovano a fare grandi sforzi sia per comunicare, sia per comprendere le regole per comportarsi adeguatamente nella società in cui sono giunti. Dato il carattere altamente soggettivo dell’osservazione partecipante, gli antropologi hanno iniziato a pensare che riflettere sulle loro esperienze e sull’interazione con la popolazione con cui vivono sia un elemento importante per comprendere il loro lavoro. Una parte essenziale del processo di osservazione partecipante consiste nel reperimento di alcune persone bene informate che abbiano voglia di lavorare a fianco dell’osservatore (informatori), che lo aiutino ad interpretare ciò che vede e che gli raccontino alcuni aspetti della cultura studiata che potrebbe non avere l’opportunità di osservare, o per osservare i quali potrebbe non avere nessun titolo. È ovviamente importante trovare persone che parlino con facilità e che comprendano di che genere di informazioni il

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ricercatore ha bisogno. Si dovranno così mettere alla prova persone diverse e confrontare ciò che dicono riguardo ad un fenomeno. Sono poi stati sviluppati dei metodi formali che aiutano a selezionare gli informatori più competenti. Un metodo, chiamato "modello del consenso culturale", si fonda sul principio che le cose su cui la maggior parte degli informatori concorda sono probabilmente "culturali". Dopo aver stabilito quali cose sembrano essere dati culturali, facendo ad un campione di informatori le stesse domande su un particolare dominio culturale, sarà facile scoprire quali informatori molto probabilmente forniranno risposte che si avvicinano al consenso culturale. Molti antropologi hanno segnalato che gli informatori principali sono quelli che probabilmente si sentono in qualche modo ai margini della loro cultura; questo forse spiega il desiderio di trascorrere così tanto tempo con un antropologo che s’informa su tale cultura. L’osservazione partecipante è utile per comprendere alcuni aspetti della cultura, soprattutto le cose che sono pubbliche, quelle di cui si parla, quelle su cui tutti sono d’accordo. Vi sono però anche altri metodi, più sistematici, che sono importanti: la mappatura il censimento porta a porta l’osservazione del comportamento (es: determinare come gli individui occupano il tempo) le interviste con un campione di informatoriLe monografie e gli articoli etnografici su soggetti specifici forniscono la maggior parte dei dati che servono all’antropologia culturale (utili per poter effettuare una comparazione tra diverse società). Così, se lo scopo è l’elaborazione di una teoria, l’etnografia può stimolare delle interpretazioni sul modo in cui differenti aspetti della cultura sono collegati ad altri aspetti e ad elementi dell’ambiente. L’etnografo somiglia in fondo ad un medico che cerca di scoprire perché un paziente ha determinati sintomi. Nonostante l’etnografia sia molto utile quando si vogliono produrre spiegazioni, un singolo studio sul campo non può, di solito, fornire dati sufficienti per sostenere un’ipotesi.

IV.I. Le comparazioni all’interno di una stessa cultura.Un etnografo può mettere alla prova una teoria in una sola società confrontando individui, famiglie, casate, comunità o quartieri. La naturale varietà che esiste tra questi può essere utilizzata per operare confronti. Il fatto che si possano o meno effettuare test all’interno di una stessa cultura per saggiare un’ipotesi dipende dal grado di variabilità delle variabili (la variabilità dev’essere tale da permetterli). Ciò spesso si verifica, e ci permette così di usare la diversità con cui si presenta il fenomeno per verificare l’ipotesi.

IV.II. Le comparazioni su base regionale.Quando effettua una comparazione su base regionale, un antropologo mette a confronto informazioni etnografiche ricavate da società che vivono in una determinata regione (società che, presumibilmente, hanno storie simili e occupano ambienti simili). L’antropologo che lavora comparativamente nell’ambito di una regione è di solito a conoscenza del complesso degli elementi culturali caratteristici di quella regione. Tali elementi possono permettere di conoscere il contesto nel quale il fenomeno ha luogo. La conoscenza che un antropologo può avere di una regione, tuttavia, è inferiore a quella che può avere di una singola società. D’altro canto la conoscenza dei dettagli locali è sicuramente maggiore nel caso di una comparazione regionale piuttosto che in quello di una comparazione su scala mondiale. Quest’ultima è talmente estesa che è decisamente improbabile che il ricercatore possa avere conoscenze approfondite sulle società che mette a confronto. Le comparazioni su base regionale sono utili sia quando si tratta di elaborare delle spiegazioni, sia quando occorre verificarle. Poiché vi saranno società che possiedono le caratteristiche che si intende spiegare e altre che non le avranno, l’antropologo sarà in grado di stabilire se le condizioni ipoteticamente correlate lo sono effettivamente, perlomeno in quella regione. Non dimentichiamo, tuttavia, che non è detto che una spiegazione valida per una regione sia poi estendibile ad altre.

IV.III. Le ricerche transculturali.Servendosi di comparazioni su scala mondiale, è possibile elaborare delle interpretazioni individuando quali differenze vi siano tra le società che posseggono una determinata caratteristica e quelle che non la posseggono. Ma le comparazioni transculturali vengono utilizzate soprattutto per verificare la bontà delle teorie. Il ricercatore identifica innanzitutto le condizioni che dovrebbero ritrovarsi associate qualora la teoria fosse corretta, ed esamina poi un campione di società, attinto dall’universo di tutte le società della terra, per vedere se la correlazione risulta effettivamente. Il vantaggio di questo tipo di ricerche è che la

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loro conclusione, con ogni probabilità, è valida per la maggior parte delle società, ovviamente se e solo se il campione impiegato per la verifica è stato selezionato in modo casuale. Limiti: se un test transculturale non avvalora una determinata spiegazione, il ricercatore può non conoscere il campione a sufficienza per modificare la spiegazione o proporne un’altra (si dovrà quindi riesaminare i dettagli di una o più società) le spiegazioni che possono essere verificate sono soltanto quelle per le quali esistono dati disponibili (per poter spiegare qualcosa che in genere non viene descritto, si dovrà ricorrere ad altre strategie di ricerca)

IV.IV. Le ricerche storiche.L’etnostoria è lo studio dei materiali descrittivi riguardanti una singola società, relativi a vari periodi della sua storia. Fornisce i dati indispensabili agli studi storici di qualsiasi tipo, proprio come l’etnografia fornisce i dati alle ricerche che prescindono dalla storia. I dati dell’etnostoria possono provenire da fonti che esulano dalle etnografie approntate dagli antropologi (racconti di esploratori, missionari, viaggiatori, ufficiali governativi). È importante separare ciò che può essere considerato un fatto da ciò che è invece una sua interpretazione. Per quanto riguarda l’elaborazione e la verifica delle ipotesti, gli studi su singole società nel corso del tempo hanno gli stessi limiti degli studi su una singola società relativamente ad un solo periodo. Analogamente a quanto accade alla loro controparte non storica, le ricerche che si concentrano su una singola società che viene studiata attraverso il tempo tendono a produrre svariate ipotesi, ma di solito non forniscono la possibilità di stabilire, con ragionevole certezza, quale di quelle ipotesi sia quella corretta. Gli studi storici transculturali (di cui abbiamo, finora, soltanto pochi esempi) presentano il problema opposto: hanno ampi mezzi per sondare le ipotesi, ma, poiché lavorano con dati di seconda mano, hanno grossi limiti nel produrre ipotesi sulla base dei dati disponibili. Vi è tuttavia un vantaggio nel ricorrere a studi di tipo storico: in ambito antropologico lo scopo delle teorie è quello di spiegare la variabilità dei modelli culturali, vale a dire di specificare quali condizioni culturali favoriranno un modello piuttosto che un altro. Le teorie e le spiegazioni, quindi, implicano una sequenza di cambiamenti nel tempo, che rappresentano la materia prima della storia. Il maggiore ostacolo alle ricerche storiche consiste nel fatto che raccogliere ed esaminare i dati storici è un lavoro noioso ed esasperante. Può essere più conveniente verificare le spiegazioni dapprima su dati non storici, in modo da eliminare alcune interpretazioni, e in seguito, se un’interpretazione supera questo esame, possiamo cercare dei dati storici per verificare la sequenza (causa /fenomeno) presunta.Nei capitoli che seguono parleremo non solo di ciò che riteniamo essere, con una certa sicurezza, i fattori determinanti per la variabilità culturale, ma diremo anche ciò che non sappiamo, o di cui non abbiamo certezze, in modo da dare un’idea di cosa potrà acquisire l’antropologia culturale in futuro.

4. LA COMUNICAZIONE E IL LINGUAGGIO.

Il momento in cui le parole hanno acquisito un significato è una pietra miliare per noi, perché segna non solo l’acquisizione della lingua, ma anche la familiarità con tutti i complessi ed elaborati comportamenti che costituiscono la nostra cultura. Senza la lingua, infatti, sarebbe praticamente impossibile tramandare le tradizioni e ogni individuo rimarrebbe rinchiuso nel proprio mondo personale di sensazioni.

I. La comunicazione.La parola "comunicare" deriva dal latino communicare, ossia "condividere, spartire ciò che è comune". Noi comunichiamo accordandoci, consapevolmente o meno, sul fatto di chiamare un certo oggetto o un concetto astratto con un determinato nome. Tutti i sistemi linguistici sono costituiti da simboli pubblicamente accettati attraverso i quali si cerca di condividere esperienze personali.

I.I. La comunicazione umana non verbale.Ovviamente, la nostra comunicazione non è limitata al linguaggio. Comunichiamo in modo diretto attraverso le espressioni del volto, la postura del corpo, i gesti e il tono della voce, e in modo indiretto attraverso sistemi di segni e simboli come la scrittura, le equazioni algebriche, le note musicali, la danza, la pittura, il linguaggio delle bandiere e i segnali stradali. Come dice Anthony Wilden, "ogni fatto, ogni pausa, ogni movimento che avvenga dentro sistemi vivi e sociali è anche un messaggio; il silenzio è comunicazione; in poche parole, ad un organismo o

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ad una persona è impossibile non comunicare". Un antropologo può imparare moltissimo da ciò di cui i membri di una società non parlano (es: in India è costume che non si parli di sesso; l’infezione da Hiv si sta diffondendo molto rapidamente, e quindi la riluttanza della gente a parlare di sesso rende molto difficile agli antropologi medici e ai medici fare qualcosa per ridurre il tasso di diffusione del virus). Una parte di comunicazione non verbale sembra essere universale tra gli uomini: in tutto il mondo, per esempio, pare che gli uomini comprendano le espressioni del volto nello stesso modo (volto felice, triste, sorpreso, ..); inoltre, il modo in cui il volto è rappresentato nell’arte sembra evocare sentimenti simili in molte culture diverse. La comunicazione non verbale, tuttavia, è anche culturalmente variabile es: la distanza tra persone che si trovano in piedi una vicino all’altra nel campo delle espressioni del volto, le regole riguardanti le emozioni la cui espressione è socialmente accettabile molti gestiTuttavia, nonostante la varietà dei sistemi di comunicazione disponibili, bisogna riconoscere che la lingua parlata ha un’importanza di gran lunga maggiore. Essa è forse il principale veicolo di trasmissione della cultura, poiché permette di condividere e tramandare la nostra complessa articolazione di atteggiamenti e modelli di comportamento.

I.II. La comunicazione non umana.I sistemi di comunicazione non sono un’esclusiva degli esseri umani: anche altre specie animali hanno vari modi per comunicare (es: il suono, l’odore, il movimento del corpo). Uno dei maggiori dibattiti accademici riguarda il grado in cui gli animali, in modo particolare i primati, siano diversi dagli uomini relativamente alle loro capacità linguistiche: in passato si riteneva che solo la comunicazione umana fosse simbolica; ricerche recenti, tuttavia, suggeriscono che anche alcuni richiami delle scimmie e dei gorilla siano simbolici. 2 sono i significati che attribuiamo alla parola "simbolico" quando ci riferiamo alla comunicazione: la comunicazione produce un significato anche in assenza del referente (qualunque sia l’oggetto a cui ci si riferisce) il significato è arbitrario : chi riceve il messaggio non potrebbe coglierne il significato basandosi esclusivamente sui suoni, e comunque non conosce quel significato per via istintiva i simboli devono essere appresi (non esiste una necessità per cui la parola dog in inglese debba riferirsi ad un cane)Tutte le vocalizzazioni non umane permettono ad alcuni animali di produrre dei messaggi. Il mittente pronuncia un segnale che viene ricevuto e decodificato da un ricevente, il quale di solito reagisce con un’azione specifica o con una risposta. In cosa differisce, dunque, la vocalizzazione umana?? non è appropriato individuare nel simbolismo il tratto distintivo del linguaggio umano; tuttavia, la vocalizzazione umana si distingue da quelle non umane in quanto possiede una gamma molto più ampia di simboli i sistemi vocali non umani sono chiusi (= i differenti richiami non sono combinati per produrre nuove espressioni dotate di significato); le lingue umane, al contrario, sono sistemi aperti (retti da regole complesse in merito a come i suoni e i sistemi di suoni possono essere combinati per produrre una varietà infinita di significati)Anche se nessuno studioso di primati mette in discussione la complessità e l’infinita varietà con le quali le lingue umane possono combinare i suoni, alcuni recenti studi hanno però messo in crisi i seguenti assunti: la dicotomia tra chiuso e aperto l’abilità di comunicare riguardo ad eventi passati o futuri come tratto peculiare del genere umano l’enorme divario fra la comunicazione umana e quella degli altri animali la convinzione che i primati non umani non posseggano l’abilità di "simbolizzare", di riferirsi a qualcosa (o ad una classe di cose) con un’etichetta "arbitraria" (i gesti o una sequenza di suoni)Ogni linguaggio umano ha certi modi per combinare i suoni e certi altri per non combinarli; i gorilla non possiedono queste regole linguistiche. Inoltre, gli uomini possiedono molti tipi di discorso (liste, discorsi, storie, argomentazioni, poesie, ..); i gorilla non fanno niente di tutto ciò. Ma hanno comunque alcune capacità linguistiche: comprenderle, quindi, può aiutarci a capire meglio l’evoluzione del linguaggio umano.

II. Le origini del linguaggio.

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Philip Lieberman e Jeffrey Laitman hanno affermato che il linguaggio così come noi lo conosciamo nacque solo con l’uomo moderno (circa 100.000 anni fa), la cui anatomia della bocca e della gola è la stessa dell’uomo contemporaneo. Secondo questi studiosi gli uomini premoderni (compreso l’uomo di Neanderthal) non possedevano l’anatomia vocale necessaria al linguaggio. Poiché queste teorie si fondano su controverse ricostruzioni della bocca e della gola di uomini arcaici, le conclusioni che ne derivano non sono uniformemente accettate. La maggior parte degli studi sulle origini del linguaggio si pone una fondamentale domanda circa il modo in cui la selezione naturale può aver favorito il carattere aperto del linguaggio. Il sistema di comunicazione a richiami è stato certamente sostituito ad un certo punto da un altro sistema, basato su piccole unità sonore da collegare secondo molte e differenti combinazioni in modo da formare enunciati significanti. Alcuni autori sostengono che nel cervello esiste un dispositivo di acquisizione della lingua che nell’uomo è innato, così come negli animali sono innati i sistemi di richiamo. Tale dispositivo sarebbe diventato parte della nostra eredità biologica con l’evoluzione della parte frontale del cervello. Riguardo alla sua effettiva esistenza non si è ancora certi; sappiamo, invece, che lo sviluppo effettivo del linguaggio individuale non è condizionato interamente da fattori biologici (se fosse così tutti gli esseri umani parlerebbero una stessa lingua generata dal cervello). Al contrario sono state individuate dalle 4.000 alle 5.000 lingue differenti e reciprocamente incomprensibili più di 2.000 di queste si parlavano fino a poco tempo fa, e nella maggioranza da parte di persone che non possedevano una tradizione scritta le prime forme di scrittura sono comparse solo 5.000 anni faÈ possibile comprendere meglio le origini del linguaggio umano studiando le lingue delle società prive di scrittura e tecnologicamente più semplici?? NO, poiché la lingua di queste popolazione non è più semplice o meno evoluta della nostra. Il sistema di suoni, il vocabolario e la grammatica della lingua di popolazioni meno tecnologizzate non sono in alcun modo inferiori a quelli di società dotate di una tecnologia più complessa. È evidente che gli aborigeni australiani non sono in grado di dare un nome alle nostre sofisticate macchine; la loro lingua, tuttavia, ha le potenzialità per farlo. Ogni lingua possiede un’estensione di vocabolario necessaria alla popolazione che la parla, e si evolve inoltre in risposta ai cambiamenti culturali (una lingua che manca di vocaboli per i ritrovati della nostra società può essere ricca di termini che si riferiscono ad eventi o a fenomeni naturali di particolare importanza per la popolazione che la parla). Per chi si chiede allora, dato che non esistono lingue primitive e che le prime forme di linguaggio non hanno lasciato traccia di sé così da poterle ricostruire, se sia possibile indagare l’origine del linguaggio: alcuni linguisti pensano che lo studio dell’apprendimento della lingua da parte dei bambini *

sia utile a questo scopo altri hanno di recente proposto l’analisi dello sviluppo delle lingue creole §

II.I. Le lingue creole. §

Alcune lingue si sono sviluppate di recente in varie parti del mondo nei luoghi in cui gli imperi coloniali europei stabilirono imprese commerciali che facevano affidamento sulla forza lavoro importata, ossia, generalmente, sugli schiavi. Questi lavoratori provenivano il più delle volte da diverse società e, all’inizio, comunicavano col padrone e con tutti gli altri attraverso una sorta di versione pidgin (semplificata) della lingua del padrone. Le lingue pidgin mancano di quei tasselli coesivi, come le preposizioni e i verbi ausiliari, che si trovano negli idiomi di società integre. Molte lingue pidgin si sono sviluppate dando origine alla cosiddette lingue creole, che incorporano gran parte del vocabolario della lingua dei dominatori, ma che hanno una grammatica differente sia da questa che da quelle delle lingue d’origine dei lavoratori. Derek Bickerton sostiene che esistono notevoli somiglianze grammaticali fra le lingue creole di tutto il mondo. Tale somiglianza, egli afferma, è coerente con l’idea dell’esistenza di una grammatica universale comune a tutti gli uomini ed ereditaria. Gli idiomi creoli potrebbero dunque somigliare alle prime lingue umane. Tutte le lingue creole: usano l’intonazione interrogativa invece del cambiamento dell’ordine delle parole, apponendo un’inflessione crescente alla fine della frase esprimono il futuro e il passato con la stessa forma grammaticale, aggiungendo alcune particelle tra soggetto e verbo impiegano la doppia negazione

II.II. L’apprendimento linguistico nei bambini. *

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L’acquisizione della struttura e del significato della lingua è stata definita la più ardua conquista intellettuale nella vita di un uomo. Se ciò corrisponde al vero, fa piacere notare che i bambini raggiungono questa meta con relativa facilità e con gran divertimento. Questa "ardua conquista intellettuale" può essere, in realtà, una reazione naturale ad uno dei tratti genetici propri dell’uomo: la facoltà linguistica. I bambini di tutto il mondo incominciano ad imparare la lingua alla stessa età: verso i 12-13 mesi cominciano a nominare alcuni oggetti e azioni verso i 18-20 mesi sono in grado di utilizzare una parola chiave per significare un’intera fraseI bambini imparano le parole come unità, apprendendo le sequenze di suoni su cui cade l’accento o che vengono pronunciati in finale di parola. Anche i bambini sordi che imparano i segni del linguaggio per sordomuti Asl tendono ad apprendere e utilizzare i segni in modo simile. verso i 18-24 mesi tutti i bambini del mondo tendono a passare a frasi di 2 paroleQueste frasi costituiscono una modalità espressiva di tipo telegrafico, che utilizza solo i sostantivi, i verbi e altre parole funzionali, tralasciandone altre apparentemente di minore valore. I bambini di questa età non pronunciano le 2 parole in ordine casuale; al contrario, sceglierà un ordine che rispetti le convenzioni della lingua dell’adulto. Dato che i genitori non pronunciano frasi semplificate, è evidente che i bambini la sanno lunga su come collegare le parole con un aiuto minimo o nullo da parte dei genitori. Se esiste una grammatica di base impressa nella mente umana, non ci sorprende il fatto che le prime e le successive formulazioni del discorso nei bambini seguano schemi simili in lingue diverse. Ci si potrebbe inoltre aspettare che il discorso infantile più progredito presenti una struttura simile a quella delle lingue creole. E così avviene, come afferma Derek Bickerton: gli "errori" linguistici commessi dai bambini trovano riscontro nella grammatica della lingua creola. Alcuni linguisti sostengono tuttavia che le prove a favore dell’esistenza di una grammatica innata sono deboli perché i bambini in parti diverse del mondo non sviluppano alla stessa età gli stessi tratti grammaticali. L’ordine della parole, per esempio, è un fattore più importante nella determinazione del significato nella lingua inglese piuttosto che in turco; la fine delle parole è più importante nella lingua turca. In inglese, la parola posta all’inizio della frase è probabilmente il soggetto; la parola che finisce in un certo modo in turco è probabilmente il soggetto. Coerentemente con questa differenza, i bambini di lingua inglese imparano l’ordine delle parole prima dei bambini che parlano turco. È possibile che future ricerche sull’apprendimento della lingua nei bambini e sulla struttura delle lingue creole apportino un valido contributo alla conoscenza delle origini del linguaggio umano. Tuttavia, pur ammettendo l’esistenza di una grammatica universale, restano da spiegare le ragioni della differenza tra le migliaia di lingue attestate nel mondo. Tale interrogativo ci spinge a prendere in considerazione gli strumenti concettuali elaborati dai linguisti per lo studio delle lingue.

III. La linguistica strutturale.I bambini di tutte le società imparano la struttura essenziale della propria lingua molto presto e senza un insegnamento diretto. Una delle caratteristiche più sorprendenti della lingua umana è che i suoni significanti e le sequenze sonore vengono combinati secondo regole che il parlante conosce per via inconscia. Tali regole non vanno identificate con le "regole della grammatica" che si imparano a scuola (e che insegnano a parlare correttamente). I linguisti, piuttosto, parlano di regole in riferimento agli schemi linguistici riscontrabili nel parlato. Inutile dire che in molti casi le regole effettive del parlato e quelle insegnate a scuola coincidono. Esistono, tuttavia, regole che i bambini non imparano a scuola perché gli insegnanti, non essendo linguisti, non ne sono a conoscenza. Il termine grammatica, dunque, usato dai linguisti non si riferisce alle regole prescrittive che si devono seguire per parlare la lingua, ma indica, piuttosto, i principi effettivi e spesso inconsci che determinano il modo di parlare di una maggioranza di persone. Scoprire le regole, in gran parte inconsce, che stanno alla base di una lingua è un compito difficile. I linguisti hanno formulato una serie di concetti e metodi speciali di trascrizione (scrittura) in grado di descrivere:1. le regole o i principi che determinano l’articolazione dei suoni e il modo in cui essi vengono usati (spesso suoni lievemente diversi sono intercambiabili nelle parole senza produrre variazioni di significato)2. il modo in cui le sequenze sonore (e in alcuni casi anche singoli suoni) producono significato, e come le serie significanti di suoni si leghino insieme formando le parole3. come le parole si colleghino in una catena che forma frasi e periodi

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La linguistica strutturale (o descrittiva) indaga, quindi, le regole della fonologia (la combinazione dei suoni), della morfologia (la combinazione delle sequenze di suoni e di parole) e della sintassi (i modelli di formazione delle frasi e dei periodi), che determinano il modo in cui si parla una lingua. La conoscenza della lingua di un altro popolo è essenziale alla comprensione della sua cultura.

III.I. La fonologia.Sebbene l’apparato vocale umano sia teoricamente in grado di articolare un’enorme quantità di suoni differenti, ciascuna lingua ne utilizza solamente alcuni. Non è che noi non siamo in grado di emettere suoni che non ci siano familiari; semplicemente non abbiamo acquisito l’abitudine ad articolarli e, finché essi non diventano consueti per noi, continueremo a far fatica a pronunciarli. La difficoltà nell’articolazione di alcuni suoni è solo uno dei motivi che rendono faticoso l’apprendimento di una lingua straniera. Un altro problema è la combinazione di certi suoni o la loro articolazione in una posizione particolare della parola. Per giungere ad una rappresentazione schematica dei suoni utilizzati dalle varie lingue, i linguisti che si occupano di fonologia devono trascrivere il discorso parlato nella forma di una sequenza di suoni. Una simile operazione sarebbe pressoché impossibile se i linguisti si limitassero ad utilizzare il proprio alfabeto (sia perché lingue diverse usano suoni che sarebbero difficili da rappresentare utilizzando l’alfabeto di un’altra lingua, sia perché in alcuni casi l’alfabeto di una determinata lingua rappresenta lo stesso suono in modi diversi). I linguisti hanno ovviato al problema elaborando un metodo di trascrizione in cui ogni lettera, o simbolo fonetico, rappresenta un suono particolare. Una volta individuati i suoni, o foni, di una lingua, il linguista stabilisce come questi vengano inconsciamente classificati (dai parlanti) in fonemi. Il fonema è rappresentato da un insieme di foni che, pur essendo diversi, non producono cambiamenti di significato (cioè: se un fono appartenente ad una classe di fonemi viene sostituito da un altro della stessa classe, i 2 enunciati vengono riconosciuti identici dai parlanti). Il raggruppamento dei foni in fonemi varia da lingua a lingua: in inglese, ad esempio, il suono l è considerato del tutto diverso da quello r (i 2 suoni individuano 2 fonemi differenti poiché producono significati diversi per i parlanti); in samoano, invece, l e r si possono utilizzare indifferentemente all’interno della parola senza mutarne il significato (essi costituiscono cioè uno stesso fonema). Tuttavia, le piccole differenze esistenti tra i suoni di uno stesso fonema non hanno valore nel contesto quotidiano. Stabiliti i raggruppamenti dei suoni che formano i fonemi (vale a dire quali foni possono essere scambiati reciprocamente senza produrre variazioni di significato), i linguisti procedono all’individuazione delle sequenze sonore che sono ammesse in una lingua e delle regole, generalmente inconsce, che le governano. La descrizione che i linguisti fanno delle combinazioni dei suoni nelle diverse lingue (ossia la fonologia) permette loro di indagare le ragioni delle differenze nelle regole fonetiche tra i vari idiomi. Ricerche recenti hanno dimostrato che i bambini sono neurologicamente "preparati" ad ignorare, nella propria lingua d’origine, le variazioni sonore che non producono cambiamenti di significato (ossia che individuano uno stesso fonema); contrariamente, essi le percepiscono quando si tratta di una lingua diversa. I ricercatori non sono in grado di stabilire il modo in cui i bambini imparano a fare queste distinzioni, ma di fatto è evidente che essi acquisiscono molto presto gran parte della fonologia della propria lingua.

III.II. La morfologia.La morfologia studia una quantità di aspetti delle parole, e in particolare cose esse sono e come si formano. Una parola è una sequenza arbitraria di suoni che produce un significato, e non è possibile "percepirla" come unità distinta se non si comprende la lingua a cui essa appartiene. Dato che gli antropologi che si occupano di linguistica hanno sempre studiato lingue prive di scrittura, qualche volte senza l’aiuto di interpreti, essi si sono trovati nella necessità di distinguere le sequenze sonore che producono un’unità di significato. In molte lingue, inoltre, le parole possono essere suddivise in unità minori, ed è per questo che i linguisti hanno elaborato una terminologia speciale per definire queste entità. La più piccola unità di linguaggio portatrice di significato è detta morfo; uno o più morfi con lo stesso significato formano un morfema (es: in inglese, i prefissi in- e un- come in indefinite e unclear sono morfi che appartengono al morfema con significato non). Non si deve confondere morfi, o morfema, con parola. Sebbene alcune parole siano singoli morfi, o morfemi (es: in inglese, for e giraffe), molti vocaboli sono costruiti sulla combinazione di più morfi, generalmente prefissi, radici e suffissi. È probabile che l’intuizione con cui i bambini colgono la struttura della lingua si estenda anche alla comprensione della morfologia e dell’organizzazione in parole delle sequenze sonore. Sia dagli errori sia dai successi dei bambini nell’apprendimento della lingua si

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può desumere che essi comprendono come si usano in modo regolare i morfemi. All’età di 7 anni i bambini si sono appropriati anche di molte forme irregolari, vale a dire che sono in grado di utilizzare il morfo giusto di un morfema nel modo corretto. Ciò che il bambino coglie intuitivamente come dipendenza di alcuni morfemi da altri corrisponde alla distinzione che i linguisti fanno tra morfema libero ha un significato finito, ossia è una parola indipendente morfema legato produce significato solo se attaccato ad un altro morfemaIl morfo del morfema che indica il tempo passato che si pronuncia /-t/ si aggiunge alla radice walk per formare walked; /t/ da solo, invece, non può sussistere, perché non ha alcun significato. In inglese il significato di una frase (composta di soggetto, verbo, complemento oggetto, ..) dipende molte volte dall’ordine delle parole In molte altre lingue, invece, il significato di una frase, determinato grammaticalmente, è in larga misura, o persino totalmente, indipendente dall’ordine delle parole. Un cambiamento del senso può derivare, piuttosto, dall’ordine dei morfi di una parola. Nella lingua dei luo dell’Africa orientale, per esempio, lo stesso morfema legato può indicare il soggetto o l’oggetto dell’azione, a seconda che sia collocato rispettivamente come prefisso del verbo o come suffisso Un altro modo in cui si produce significato attraverso i meccanismi grammaticali è rappresentato dall’alterazione o dall’aggiunta, in una parola, di un morfema legato che indica la funzione di quella parola all’interno del discorso (es: in russo) Alcune lingue possiedono una quantità di morfemi legati tale per cui sono in grado di esprimere il senso di un’intera frase con un’unica, complessa parola (es: in lingua wishram)

III.III. La sintassi.Poiché la lingua è un sistema aperto, è possibile formulare espressioni che non sono mai state pronunciate prima. Così come accade nel caso della morfologia, i parlanti di una lingua sembrano avere una padronanza intuitiva della sintassi, ossia delle regole che determinano la formazione delle frasi e dei periodi. Sebbene queste regola sia apprendano in parte a scuola, i bambini le conoscono quasi tutte prima dell’istruzione scolastica. Basandosi sull’ordine delle parole, un lettore è in grado di supporre a quale parte del discorso corrisponde ciascuna di esse e di attribuirvi una funzione all’interno della frase (soggetto, verbo, ..); e anche la conoscenza della morfologia è di aiuto. Oltre a comprendere e a produrre una quantità infinita di frasi diverse, chi parla una lingua è in grado di riconoscere una frase "scorretta" senza consultare i libri di grammatica. Ciò dimostra l’esistenza di una serie di regole che stabiliscono come si costruiscono locuzioni e frasi in una lingua. I parlanti conoscono queste regole sintattiche, ma di solito non ne sono consapevoli. La descrizione che i linguisti fanno della sintassi di un idioma mira proprio a rendere esplicite queste regole.

IV. La linguistica storica.La linguistica storica studia i cambiamenti delle lingue nel corso del tempo. I dati principali su cui si basa questo tipo di ricerca sono rappresentati dalla parola scritta. Poiché le lingue del passato non hanno lasciato traccia di sé a meno che non possedessero una forma scritta, e poiché la maggior parte delle lingue note agli antropologi ha una tradizione esclusivamente orale, si potrebbe supporre che la linguistica storica sia in grado di ricostruire esclusivamente i cambiamenti occorsi in quegli idiomi che possiedono una forma scritta. In realtà, i linguisti ricostruiscono le variazioni linguistiche avvenute nel tempo confrontando idiomi contemporanei e simili, poiché le somiglianze fonologiche, morfologiche e sintattiche che essi mostrano sono dovute alla loro derivazione da una comune lingua madre (1). Vi possono essere, tuttavia, altre ragioni che determinano la somiglianza tra le lingue. Una di queste è il contatto tra diverse comunità di parlanti (2). Vi sono, inoltre, somiglianze linguistiche che riflettono tratti universali comuni a tutte le culture e/o alla mente umana in generale (3). Quindi, anche lingue lontane e che non hanno relazioni tra loro possono avere elementi comuni. Ciò può essere dovuto ad un fenomeno di convergenza (= tendenza comune), che si verifica quando le somiglianze derivano da un processo di cambiamento linguistico che può avere solo un raggio limitato di soluzioni possibili.

IV.I. Le famiglie linguistiche e la storia della cultura.Sappiamo, dai dati documentari (scritti), che il latino è la madre delle lingue romanze. Nel caso in cui la lingua originaria, invece, non sia documentata attraverso la scrittura, i linguisti sono

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comunque in grado di ricostruirne molti tratti attraverso la comparazione delle lingue da essa derivate, ossia di formulare l’ipotesi di una protolingua. L’insieme delle lingue che derivano da una protolingua costituisce una famiglia linguistica. La maggioranza delle lingue contemporanee è raggruppabile in un numero di famiglie che raggiunge appena la trentina. La famiglia linguistica a cui appartengono l’inglese e l’italiano è quella indoeuropea, che comprende gran parte degli idiomi europei e alcune lingue indiane. Circa il 50% della popolazione mondiale, ossia circa 4 miliardi di persone, parla lingue indoeuropee. Un’altra grande famiglia è quella sino-tibetana. La ricerca linguistica di tipo storico ebbe inizio nel 1786 con sir William Jones. Nel 1822 Jakob Grimm formulò alcune regole che descrivevano i cambiamenti di suoni verificatisi con la proliferazione delle diverse lingue indoeuropee. Gli studiosi sono generalmente d’accordo sul fatto che le attuali lingue indoeuropee derivino da un idioma che veniva parlato tra i 5.000 e i 6.000 anni fa. Questa lingua madre indoeuropea, di cui sono stati ricostruiti molti tratti, è stata denominata proto-indoeuropeo (Pie). (vedi figura a pag. 76) Alcuni linguisti pensano che sia possibile determinare approssimativamente il luogo in cui veniva originariamente parlata una protolingua analizzando le parole che si riferiscono a piante e animali riscontrabili nelle lingue derivate. Tra tutti i diversi dendronimi (= nomi di piante) riscontrabili nelle lingue indoeuropee, Paul Friedrich ne ha identificati 18 che mostrano una parentela. Questi termini, egli sostiene, corrispondono alla flora che nel 3.000 a.C. era presente in Ucraina orientale, proposta quindi come patria del Pie. A conferma di questa ipotesi gran parte delle denominazioni arboree del ceppo linguistico balto-slavo, appartenente alla famiglia indoeuropea, è simile a quelle ricostruite nella protolingua. Marija Gimbutas sostiene che sia possibile risalire al proto-indoeuropeo tramite l’archeologia. Questa studiosa è infatti convinta che i popoli di lingua Pie siano identificabili con quelli a cui viene attribuita la cultura dei Kurgan (5.000-2.000 a.C.) che si diffuse a partire dall’Ucraina intorno al 3.000 a.C. Colin Renfrew respinge l’idea che l’Ucraina sia stata il luogo d’origine del Pie. Egli sostiene che questa lingua risale a 2.000 o 3.000 anni prima della cultura dei Kurgan e che i suoi parlanti vivevano in una zona differente, ossia in Anatolia orientale (Turchia) intorno al 6.000-7.000 a.C.Come è avvenuto per i popoli di lingua indoeuropea, di cui linguisti e archeologi hanno indagato il luogo d’origine e le modalità di espansione, così altre famiglie linguistiche sono state oggetto di indagine. Si suppone che il luogo d’origine di un idioma sia quello in cui si riscontra la maggior varietà di lingue e di dialetti (varianti di un idioma) differenti, in quanto le differenze linguistiche avrebbero avuto più tempo di svilupparsi rispetto alle zone in cui l’espansione si sia verificata più di recente.

V. I processi di differenziazione linguistica.La linguistica comparativa, o storica, non si limita a registrare e a datare le differenze linguistiche, ma indaga le cause possibili di queste variazioni. Alcune differenze si sono certamente prodotte gradualmente. Quando gruppi di persone che parlano la stessa lingua perdono i contatti reciproci perché separati fisicamente o socialmente, ciascuno degli idiomi comincia ad accumulare una serie di lievi cambiamenti nei tratti fonologici, morfologici e sintattici (cosa che si verifica continuamente in tutte le lingue). In ultimo, se la separazione persiste, quelli che originariamente erano dialetti dello stesso idioma diventano lingue distinte, ossia risultano reciprocamente incomprensibili, come nel caso dell’inglese e del tedesco moderni. Tra le cause che determinano le differenziazioni linguistiche non vi sono solo le barriere geografiche come grandi estensioni d’acqua, deserti e montagne, che possono separare i parlanti di uno stesso idioma, ma anche il fattore della distanza. È possibile, inoltre, anche laddove le distanze geografiche non siano considerevoli, che esistano dialetti molto differenti a causa della distanza sociale. Ciò significa che la diffusione di una tratto linguistico potrebbe venire ostacolata da una differenza di etnia, di religione o di classe sociale che inibisce la comunicazione (in assenza di una comunicazione abituale e amichevole la differenziazione tra i dialetti si può acuire rapidamente). Mentre l’isolamento produce la graduale divergenza tra comunità linguistiche, dal contatto scaturisce una sempre maggiore somiglianza. Il fenomeno è particolarmente evidente in quei casi in cui l’incontro di 2 lingue reciprocamente incomprensibili dà luogo a prestiti di parole, che di solito si riferiscono a oggetti nuovi, mutuati dalla società estranea. La presenza di gruppi bilingui all’interno di una società può rappresentare un’altra causa dell’introduzione di termini stranieri in una lingua, specialmente quando l’idioma dominante non ha equivalenti per un determinato oggetto. Le conquiste e le colonizzazioni sono spesso causa di ingenti e rapide acquisizioni

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lessicali, se non addirittura di processi per cui una lingua soppianta un’altra. Il principio generale è che i prestiti lessicali, che consistono nella maggior parte dei casi in morfemi liberi (= termini), sono molto più comuni di quelli grammaticali (= struttura grammaticale della lingua). Se tutte le lingue si differenziano gradualmente è logico aspettarsi che esista un gran numero di famiglie linguistiche, e che in aree di territorio relativamente ristrette vi siano numerosi idiomi. È questo, infatti, ciò che accade relativamente alle lingue aborigene dell’Australia del Nord. In altre zone del mondo, tuttavia, esistono famiglie linguistiche il cui raggio di espansione è molto esteso. Ci si chiede, dunque, come mai alcune lingue ebbero una diffusione così ampia. È possibile che la loro espansione sia avvenuta con mezzi militari. Le conseguenze linguistiche di un’invasione e di una conquista di tipo militare sono molto più profonde del semplice prestito lessicale, poiché il popolo dominatore potrebbe addirittura soppiantare quello invaso estinguendone la lingua. La conquista militare può, inoltre, essere accompagnata da pesanti pressioni sul popolo vinto affinché esso impari ad utilizzare la lingua dei vincitori. Nel momento in cui i bambini smettono di imparare la lingua d’origine l’idioma dei vinti è destinato a scomparire.

VI. Le relazioni tra lingua e cultura.Per determinare le cause delle differenze tra le lingue si è focalizzata l’attenzione sulle possibili relazioni tra la lingua e gli altri aspetti della cultura.Da un lato è possibile dimostrare come una cultura condizioni la struttura e il contenuto della lingua, e affermare così che la diversità tra le lingue è dovuta, almeno in parte, a differenze di culturaD’altra parte può accadere il contrario: determinate caratteristiche e strutture linguistiche possono condizionare altri aspetti culturaliIl modo in cui la lingua di una determinata società riflette la cultura a cui appartiene è esemplificato, in primo luogo, dal suo repertorio lessicale, ossia dal vocabolario. Esso può essere visto, infatti, come la risultante delle caratteristiche culturali, del complesso delle esperienze, degli eventi e degli oggetti che compongono l’insieme delle parole.

VI.I. I termini fondamentali che si riferiscono ai colori, alle piante e agli animali.All’inizio del nostro secolo molti linguisti studiarono l’area lessicale (o vocabolario) delle parole indicanti i colori per dimostrare la veridicità dell’affermazione secondo cui le lingue varierebbero arbitrariamente, ossia senza alcuna ragione apparente. Non solo si riscontrò che le diverse lingue avevano un numero differente di termini per identificare i colori fondamentali o primari, ma fu dichiarato che non vi era coerenza nel modo in cui si classificavano e si suddividevano i colori dello spettro. Queste teorie tradizionali sulle variazioni del numero e dei significati dei termini che identificano i colori primari sono state smentite dagli studi comparativi (translinguistici). Sulla base delle loro ricerche, Brent Berlin e Paul Kay giunsero alla conclusione che le lingue non codificano i colori in maniera completamente arbitraria. Sebbene i termini fondamentali per identificare i colori siano differenti nelle varie lingue, è molto probabile che la maggior parte delle persone che parlano una qualunque lingua individui lo stesso tratto cromatico come più rappresentativo di un particolare colore (persone di diverse parti del mondo indicano più o meno lo stesso colore se interrogate su quale sia il miglior "rosso"). Esiste, inoltre, una sequenza più o meno universale secondo la quale i termini che si riferiscono ai colori primari vengono ad aggiungersi in un lingua. Se un idioma possiede 2 sole parole che designano i colori fondamentali, queste si riferiranno al "nero" (o scuro) e al "bianco" (o chiaro). Se invece esse sono 3, la terza parola sarà quasi sempre "rosso". Successivamente comparirà indifferentemente "giallo" o una parola che indica contemporaneamente "verde e blu"; seguiranno quindi parole distinte per il verde e il blu, e così via. In realtà, non possiamo essere certi del processo mediante il quale le parole relative ai colori-base vengono ad aggiungersi in una lingua. Possiamo però dedurne la sequenza usuale poiché se solitamente una lingua possiede la parola "giallo", essa ha anche quella indicante il "rosso". Viceversa, l’esistenza del termine "rosso" non implica che vi sia quello che designa il "giallo". Che cosa si intende con "termine linguisticamente primario"?? Tutte le lingue (anche quelle con 2 sole parole che si riferiscono ai colori fondamentali) hanno un modo per esprimere la variazione dei colori: le parole che indicano i colori fondamentali si caratterizzano per il fatto che constano di un unico morfo, ossia non comprendono più di una unità di significato (vanno inclusi, per esempio, blue-green o sky-blue) un’altra caratteristica di questi termini è che il colore che designano non è compreso nella gamma di significato di un termine che si riferisce a colori secondari

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una terza caratteristica è che se chiediamo a qualunque persona le parole che designano i colori, essa risponderà subito usando questi termini infine, perché si possa affermare che un termine designa un colore primario, occorre che molti individui che parlano la medesima lingua considerino allo stesso modo il significato (in termini di spettro di colori) che si attribuisce ad essoPerché nelle diverse società il numero delle parole che designano i colori fondamentali è differente?? Berlin e Kay ipotizzano che il numero di questi vocaboli aumenti in relazione al grado di sviluppo tecnologico, laddove il colore venga utilizzato a fini decorativi e per distinguere gli oggetti. La variabilità del numero di questi termini tra le lingue non indica che alcuni idiomi distinguano un maggior numero di colori rispetto ad altri. Ogni lingua potrebbe infatti fare le medesime distinzioni, combinando diverse parole (dicendo, per esempio, "foglia fresca" per indicare il verde); e per far ciò non sarebbe necessaria una parola particolare che identifichi quel colore. La presenza in una lingua di un numero relativamente elevato di parole che si riferiscono ai colori fondamentali può dipendere anche da un fattore biologico. Le persone che hanno occhi di colore più scuro sembrano infatti incontrare difficoltà maggiori nel distinguere i colori più scuri dello spettro (blu-verde) di quanto non accada alle persone con occhi più chiari. È logico supporre, allora, che gli abitanti delle zone equatoriali (il cui colore degli occhi è generalmente più scuro, a protezione dai raggi ultravioletti) abbiano tendenzialmente un minor numero di parole indicanti i colori fondamentali. Sembra, inoltre, che per spiegare i motivi delle diversità nel numero dei termini indicanti i colori fondamentali, siano necessari contemporaneamente sia il fattore biologico sia gli aspetti culturali. Le società nelle quali appaiono 6 o più di queste parole (con termini distinti per il blu e il verde) sono quelle che si trovano relativamente distanti dall’equatore e nelle quali vi è un maggior livello di sviluppo tecnologico. Sulla scia delle scoperte di Berlin e Kay in merito all’esistenza di un ordine più o meno universale dell’acquisizione, in una lingua, dei termini per i colori primari, altri ricercatori hanno sviluppato analoghe sequenze di sviluppo riguardanti ulteriori ambiti lessicali. 2 di questi ambiti sono relativi alle forme di vita, ossia comprendono i termini che si riferiscono alle piante e agli animali. Le parole indicanti le forme di vita rappresentano classificazioni di ordine superiore. Tutte le lingue possiedono termini di livello inferiore che indicano specifici animali e piante. Perché in determinate lingue si usa un numero di termini generali più ampio per indicare un albero, un uccello, o un pesce?? Anche per queste parole generiche sembra esistere una sequenza di sviluppo universale. I diversi termini sembrano aggiungersi secondo un principio d’ordine coerente. Dopo "pianta", appare la parola "albero"; quindi un termine che indica un genere di pianta piccola, verde, non legnosa con foglie; viene poi "cespuglio", "arbusto"; segue "erba"; infine "rampicante". I termini che indicano le forme di vita animali sembrano anch’essi rientrare in una sequenza: ad "animale" segue il termine "pesce", quindi "uccello", poi "serpente"; poi "insetti"; infine "mammifero". Le società più complesse tendono ad avere, rispetto a quelle più semplici, un numero maggiore di termini generali, che si riferiscono alle forme di vita sia animali sia vegetali e ai colori. Ci si chiede perché ciò avvenga e se, all’aumentare del grado di complessità di una società, aumenti, proporzionalmente, anche la dimensione delle aree lessicali. Se consideriamo la totalità del vocabolario di una lingua, quanto più una società è complessa e tanto più è ampio il suo vocabolario. Non dobbiamo dimenticare però che in società complesse sono presenti anche molti generi di specializzazioni professionali, i cui termini sono inclusi nel dizionario. Se ci soffermiamo, invece, sul vocabolario essenziale di ogni idioma, ci accorgiamo che esso ha approssimativamente la stessa dimensione in tutte le lingue. Indubbiamente nelle società più complesse alcune aree lessicali crescono di volume, mentre altre restano invariate e altre ancora si riducono (es: il vocabolario specifico per denominare la flora). I dati finora a nostra disposizione appoggiano la teoria secondo la quale il vocabolario di una lingua riflette le distinzioni che si operano nella quotidianità e che risultano importanti. Gli aspetti dell’ambiente o della cultura che hanno una particolare rilevanza ricevono, quindi, maggior attenzione a livello linguistico.

VI.II. La grammatica.Esiste una gran quantità di esempi che mostrano l’influenza della cultura sul vocabolario che si riferisce all’ambiente naturale di appartenenza. Per quanto riguarda invece il condizionamento operato sulla grammatica da parte della cultura, non possediamo prove valide altrettanto universali. Harry Hoijer ha preso in esame le categorie verbali della lingua dei navaho, una popolazione di tradizione nomade. Ognuna di queste categorie rappresenta un modo diverso di riportare gli eventi. Hoijer fa notare che nel racconto di azioni ed eventi, e nella formulazione di concetti concreti, i navaho mettono in risalto il movimento,

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specificandone la natura, la direzione e lo stato molto dettagliatamente. I navaho distinguono, per esempio, una categoria per narrare eventi in cui sia presente un movimento, da una per gli eventi in cui il movimento è cessato. Hoijer conclude che l’enfasi posta su quegli eventi che si stanno svolgendo è determinata dalla secolare esperienza nomade dei navaho, la quale si riflette, inoltre, nei miti e nel folklore. Non è detto, tuttavia, che l’enfatizzazione linguistica degli eventi sia legata necessariamente alle culture nomadi. La questione non è stata ancora analizzata attraverso la comparazione transculturale, ma vi sono elementi che ci inducono a considerare la ricerca comparativa sistematica quale mezzo per mettere in risalto altri tratti grammaticali che dipendono dalla cultura. Molte lingue, per esempio, non hanno il verbo "avere" (queste lingue formulano il possesso con frasi del tipo "esso è a me"). Secondo la tesi proposta da uno studio transculturale, le lingue introducono il verbo "avere" solo dopo che nella società si è sviluppata una forma di proprietà privata o di possesso personale delle risorse.

VI.III. Le influenze della lingua sulla cultura.L’idea che la cultura influenzi la lingua è generalmente accettata. Vi è minor accordo, invece, riguardo alla possibilità del processo inverso, ossia che la lingua condizioni altri aspetti della cultura. Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf espressero la convinzione che la lingua fosse dotata di una forza propria che determina il modo in cui gli individui di una società percepiscono e concepiscono la realtà ("ipotesi Sapir-Whorf"). Dal confronto tra la lingua inglese e quella hopi, Whorf dedusse l’esistenza, nella prima, di alcune categorie discrete per il tempo e lo spazio che nella seconda non esistevano. In inglese il passato, il presente e il futuro rappresentano unità discrete, e i fatti si verificano in un tempo definito. La lingua hopi ha una varietà di espressioni in grado di rendere l’idea di un processo in corso, senza che questo implichi la ripartizione del tempo in segmenti fissi. Secondo Richard Wardhaugh, Whorf era convinto che queste differenze linguistiche inducessero i rispettivi parlanti, inglesi e hopi, a concepire il mondo in modo differente. Sebbene alcuni studiosi ipotizzino che certi tratti linguistici particolari possano facilitare determinati modelli di pensiero, la linguistica moderna rifiuta la tesi secondo cui la lingua forgerebbe le idee. Un problema serio che i ricercatori devono risolvere per verificare l’ipotesi Sapir-Whorf è come separare gli effetti prodotti dalla lingua sulla cultura da quelli che, invece, la cultura esercita sulla lingua. Un metodo per scoprire l’orientamento di questo condizionamento (cioè quale ne sia l’agente) è studiare il modo in cui i bambini provenienti da culture diverse (dotate di lingue differenti) sviluppano alcuni concetti nel corso della crescita. Se questi si formano nella mente grazie alla lingua, è logico aspettarsi che tali concetti vengano appresi prima dai bambini che parlano un idioma in cui essi siano messi in maggior evidenza. Alcune lingue, per esempio, hanno più distinzioni per i generi rispetto ad altre. In questi casi i bambini sviluppano più rapidamente il concetto di identità maschile e femminile?? (molti bambini e bambine mostrano di credere di poter cambiare sesso semplicemente indossando i vestiti attribuiti al sesso opposto, dimostrando di non aver ancora sviluppato una coscienza stabile della propria imprescindibile condizione di individui di sesso maschile o femminile) Alexander Guiora ha studiato come crescono i bambini in ambienti di lingua ebraica (in Israele), inglese (negli Stati Uniti) e finlandese (in Finlandia). Tra queste lingue l’ebraico è quello che pone maggior accento sulla distinzione dei generi (i sostativi si dividono in maschili e femminili, e anche il pronome di seconda persona e quelli plurali hanno generi diversi). L’inglese ha un numero minore di distinzioni (solo nella terza persona singolare). Il finlandese distingue i generi ancor meno (sebbene esistano parole che portano in sé il concetto di genere, come "uomo" o "donna", questa differenziazione è in larga misura assente nella lingua). A dimostrazione del fatto che la lingua può influenzare il pensiero, i bambini ebrei acquisiscono il concetto di identità sessuale stabile per prima rispetto alla media, mentre i finlandesi per ultimi. Recentemente alcuni ricercatori hanno scoperto che i bambini della scuola materna in Cina hanno maggiore facilità a comprendere la matematica rispetto a quelli negli Stati Uniti, perché le parole cinesi che indicano i numeri sono più brevi e più facili da ricordare, cosicché i bambini cinesi fanno meno affidamento sul conteggio con le dita rispetto ai loro corrispettivi americani. Tuttavia, come accade nel caso del concetto di genere maschile e femminile, è difficile stabilire se le differenze osservate siano determinate dalla lingua o da altri fattori culturali.

VII. L’etnografia del linguaggio.Negli ultimi anni molti linguisti hanno cominciato a prendere in esame la variabilità del modo in cui le persone parlano all’interno di una società. Questo tipo di studio, detto sociolinguistica,

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si occupa dell’etnografia del discorso, vale a dire dei modelli culturali e subculturali che regolano la variazione del discorso a seconda del contesto sociale. La sociolinguistica si chiede, per esempio, quale sia l’oggetto di una conversazione occasionale con un interlocutore straniero.

VII.I. La lingua e lo status sociale.Il fatto che uno straniero possa non essere a conoscenza dei convenevoli di una lingua è solo uno tra i casi possibili che esemplificano il principio sociologico secondo cui ciò che viene detto dai parlanti di una lingua e il modo in cui esso viene formulato non sono interamente determinati dalle regole di quell’idioma. L’oggetto del nostro discorso e le modalità in cui l’articoliamo possono essere influenzati in larga misura anche dalla nostra astrazione sociale e da quella dell’interlocutore. In alcune società la diversità dello status sociale può determinare differenziazioni lessicali marcate. Nel suo studio su Giava, Clifford Geertz mise in evidenza come il vocabolario dei 3 gruppi in cui questa società è rigidamente divisa (contadini, abitanti della città e aristocratici) rifletteva le varie, separate posizioni sociali. Lo status sociale nelle relazioni interpersonali è un altro elemento che influisce sul modo di interloquire. Gli appellativi ne sono un ottimo esempio. In inglese essi sono relativamente semplici: per rivolgersi ad una persona si può utilizzare il nome di battesimo oppure un titolo (Doctor, Professor, Ms e Mister) seguito dal cognome. Uno studio condotto da Roger Brown e Margherite Ford ha dimostrato che i modi in cui ci si rivolge all’interlocutore variano, in inglese, a seconda del tipo di relazione che intercorre tra i parlanti: l’uso del nome di battesimo da parte di entrambi è segno di un rapporto informale o intimo; se si usa un titolo aggiunto al cognome siamo in presenza di uno scambio più formale o di tipo lavorativo tra persone più o meno dello stesso status sociale; se non vi è reciprocità nell’uso di nomi e appellativi, allora gli interlocutori riconoscono tra di loro una differenza di status degna di nota. In alcune società i termini per rivolgersi all’interlocutore non sono indice di eguaglianza o ineguaglianza, quanto, piuttosto, di un altro ordine di relazioni sociali. Per i nuer del Sudan queste forme dipendono dalle relazioni parentali e di età (in aggiunta alle formalità del caso). Appena dopo la nascita i bambini nuer ricevono un nome personale che viene usato dai parenti in linea paterna e dagli amici più stretti del villaggio del padre, mentre i nonni materni danno al bambino un altro nome personale che viene usato dalla famiglia e dagli amici della madre. I bambini ereditano, inoltre, il nome del clan, che viene tuttavia menzionato solo nelle cerimonie formali. Quando i bambini crescono, vengono loro conferiti gli stessi nomi che hanno i buoi. Una ragazza può trarre il suo nome da quello del vitello di una mucca che lei stessa munge. Tale nome verrà usato dalle amiche della sua classe di età. Al ragazzo viene dato un bue durante la cerimonia di iniziazione e da esso gli trae il proprio nome, che può essere usato dagli amici della sua classe di età al posto del nome personale.

VII.II. Le differenze tra i sessi nel discorso.In molte società il modo di parlare delle donne è diverso da quello degli uomini. Questa differenza può essere lieve, come nella società nordamericana, o più accentuata, come presso gli indiani caraibici delle Antille inferiori delle Indie occidentali, dove il vocabolario, pur riferendosi allo stesso oggetto, può cambiare a seconda che il parlante sia maschio o femmina. In giapponese i maschi e le femmine utilizzano parole diverse per indicare numerosi concetti. Negli Stati Uniti e nelle altre società occidentali le differenze nel discorso esistono ma non sono così accentuate. Le differenze linguistiche tra i sessi si esprimono anche nell’intonazione e nella strutturazione delle frasi. Robin Lakoff ha scoperto che le donne di lingua inglese tendono a rispondere alle domande con frasi che terminano con un’inflessione ascendente, piuttosto che con un’intonazione discendente propria di una ferma risposta. Esse, inoltre, tendono ad aggiungere una domanda alla fine di un’affermazione ("hanno preso il ladro, la settimana scorsa, vero?"). Una spiegazione di queste differenze linguistiche tra sesso maschile e sesso femminile, in particolare nell’ambito della pronuncia, può derivare dal fatto che in molte società le donne sono più attente ad esprimersi "correttamente" (non in senso linguistico). Nelle società divise in classi ciò che viene considerato più corretto dalla media delle persone può venire associato con la classe più elevata. In altri sistemi, invece, è ritenuto più corretto ciò che è più antico. Spesso le differenze linguistiche legate al sesso riflettono le diversità di comportamento sociale tra maschi e femmine: è più probabile, infatti, che sia una ragazza, piuttosto che un ragazzo, a comportarsi in modo accettabile agli occhi degli adulti. Al momento non esiste una quantità di studi da permetterci di stabilire quanto sia diffuso il fenomeno per cui sono le donne ad esprimersi linguisticamente in modo "più corretto". Siamo, tuttavia, a conoscenza di casi in cui ciò non avviene. Alcuni ricercatori si sono chiesti se in questi casi di

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differenziazione la posta in gioco sia la correttezza linguistica; in realtà ci troviamo di fronte ad una questione di ineguaglianza di prestigio e di potere. È probabile che le donne cerchino di elevare il proprio status conformandosi a modelli linguistici più standardizzati. Si può ipotizzare che quando una donna pone una domanda con un’inflessione ascendente essa esprima incertezza e ciò implichi una mancanza di potere, oppure che le donne vogliano essere più chiare nella conversazione. Parlare in modo più standardizzato è coerente con il desiderio di farsi capire meglio dagli altri. Rispondere ad una domanda con un’altra domanda prolunga la conversazione.

VII.III. Il multilinguismo e i passaggi di codice.Molte persone in tutto il mondo considerano un fatto naturale parlare più di una lingua: una lingua viene parlata a casa, l’altra al di fuori della famiglia. In altri casi idiomi diversi vengono parlati all’interno di una stessa famiglia, laddove i vari membri appartengano a cultura differenti e, in aggiunta, fuori casa le lingua siano altre ancora. Alcune nazioni promuovono esplicitamente il multilinguismo. A Singapore, per esempio, le lingue ufficiali sono 4: l’inglese, il mandarino (uno tra i vari idiomi cinesi), il tamil e il malese; gran parte della popolazione, inoltre, parla hokkien, un’altra lingua cinese. Come avviene la comunicazione tra persone che conoscono 2 o 3 lingue?? Di frequente esse passano da un codice all’altro, ossia usano più di una lingua contemporaneamente. Il passaggio di codice può anche dipendere dal variare dell’argomento della conversazione. Come mai queste persone che parlano varie lingue decidono a volte di passare dall’una all’altra?? Le ragioni sono molte, ma è evidente che questi passaggi sono tutt’altro che improvvisate mescolanze dettate da pigrizia o da ignoranza. Al contrario, essi presuppongono una conoscenza approfondita delle lingue e la consapevolezza di ciò che la comunità considera appropriato o meno. Sebbene ogni comunità possieda "regole" proprie per passare da un codice all’altro, è necessario comprendere la variazione dell’uso in termini di un più ampio contesto politico e storico: la lingua del gruppo politicamente più forte diventa la "lingua dominante".

VII.IV. La comunicazione interetnica.Anche tra persone che parlano la stessa lingua, se queste provengono da gruppi etnici diversi e possiedono regole inconsce differenti sulle modalità della conversazione, possono sorgere dei fraintendimenti. La sociolinguistica è una specializzazione della linguistica di tradizione relativamente recente. Attualmente essa si concentra principalmente sulla descrizione della variazione dell’uso di una lingua, ma in futuro potrebbe anche permettere di capire le ragioni di questa variabilità. Conoscere i motivi delle variazioni linguistiche nei vari contesti sociali potrebbe anche permettere di spiegare come mai la struttura della lingua cambia nel tempo, poiché, di pari passo con i mutamenti che si verificano all’interno dei contesti sociali, anche la struttura della lingua tende a cambiare.

5. SISTEMI ALIMENTARI E SISTEMI ECONOMICI.

Nelle società umane le attività che vengono messe in opera per procurarsi il cibo hanno la precedenza su tutte le altre attività relative alla sopravvivenza. Diversamente da ciò che accade presso di noi, nelle altre società di solito non esistono specialisti che procurano o producono il cibo, e anzi, tutti gli adulti abili sono coinvolti in questi processi. Da quando hanno popolato la terra (2 o 5 milioni di anni fa) per il 99% del tempo gli uomini si sono procacciati il cibo raccogliendo piante spontanee, cacciando animali selvatici e pescando. L’agricoltura è un fenomeno recente, e risale infatti solo a 10.000 anni fa. L’agricoltura industriale, o meccanicizzata, non ha più di 100 anni. Occorre domandarsi la ragione per cui le società abbiano strategie diverse per l’approvvigionamento del cibo, e vedremo come l’ambiente fisico abbia solo un’influenza limitata su queste strategie. Occorre inoltre, per spiegare meglio le variazioni riscontrate, chiedersi perché nel corso dell’evoluzione umana si sia passati dalla raccolta all’agricoltura e all’allevamento.

I. La raccolta del cibo.Con il termine "raccolta" intendiamo qui in generale tutte quelle forme di tecnologia di sussistenza in cui l’uomo dipende da fonti di cibo che si trovano in natura (piante e animali selvatici). Sebbene sia questo il modo di vita che ha caratterizzato l’uomo per la maggior parte della sua storia, oggi i pochi raccoglitori rimasti (vale a dire le popolazioni che vivono di

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caccia, raccolta e/o pesca) abitano in aree del mondo (i deserti, la zona dell’Artico, le fitte foreste tropicali) che sono state definite "marginali", in quanto non si presentano ad un facile sfruttamento da parte delle moderne tecnologie agricole. Agli antropologi interessano le poche società di questo tipo ancora osservabili, perché possono aiutarci a comprendere alcuni aspetti della vita dell’uomo nel passato, quando tutta l’umanità condivideva questo sistema di vita. Vi sono però 3 ragioni che ci inducono ad essere cauti nel trarre deduzioni sul passato sulla base dell’osservazioni dei raccoglitori contemporanei:1. non si può confrontare la vita di questi ultimi, che abitano spesso nei deserti, nell’Artico o nelle foreste tropicali, con quella dei raccoglitori del passato, che abitavano in tutti i tipi di ambienti, compresi quelli ricchi di risorse2. i raccoglitori odierni non sono delle reliquie del passato: così come tutte le società contemporanee, anch’essi si sono sviluppati e si stanno sviluppando il tipo di adattamento che hanno elaborato può essere differente da quello esibito dai raccoglitori antichi (pochissimi o forse nessuno dei contemporanei utilizza, per esempio, punte di freccia in pietra)3. i contemporanei sono entrati in contatto con tipi di società che non esistevano fino a 10.000 anni fa (società agricole, pastorali, e potenti e invasive società statuali)2 sono gli esempi di aree del mondo, con ambienti profondamente diversi, in cui vivono raccoglitori recenti: l’Australia (ngatatjara) e l’Artico dell’America settentrionale (inupiaq inuit (eschimesi).

I.I. Le caratteristiche generali dei raccoglitori.Gli aborigeni australiani, gli inuit e molti altri raccoglitori recenti (nonostante la differenza di climi, di territori e di tecnologie) condividono alcuni modelli culturali: Vivono di solito in piccole comunità in territori scarsamente popolati, seguendo uno stile di vita nomadico, senza realizzare insediamenti stabili, e di regola non riconoscono al singolo alcun diritto sulla terra Non vi sono di norma differenze di status sociale all’interno del gruppo, né specialisti della politica(Le comunità che dipendono soprattutto dalla pesca, però, rispetto a quelle che vivono di caccia e raccolta di vegetali, tendono ad essere più grandi, ad avere insediamenti più stabili e talvolta a mostrare una maggior disuguaglianza sociale) La divisione del lavoro è basata in larga misura sull’età e sul genere : gli uomini si occupano in modo esclusivo della caccia agli animali di grossa taglia, marini o terrestri, e generalmente della maggior parte del lavoro della pesca, mentre alle donne compete la raccolta(Per anni molti antropologi hanno ipotizzato che tra i raccoglitori l’apporto maggiore di cibo provenisse più dalla raccolta di vegetali che dalla caccia, e che di conseguenza fossero le donne a fornire il contributo maggiore alla sopravvivenza del gruppo) Sebbene la raccolta di vegetali sia l’attività economica più importante per alcuni gruppi, per la maggior parte dei gruppi di raccoglitori recenti essa non è quella preponderante; di conseguenza, poiché sono gli uomini che si dedicano in genere sia alla caccia sia alla pesca, il contributo maggiore al procacciamento del cibo è fornito da loro piuttosto che dalle donne Sebbene non vi sia un numero sufficiente di studi quantitativi, alcune indagini dimostrano che questi raccoglitori non necessitano di molto tempo per procurarsi il cibo (in media ~ 17 ore alla settimana), e anche se aggiungiamo il tempo speso nella fabbricazione di strumenti e quello impiegato nelle faccende domestiche, notiamo come resti loro molto più tempo da destinare al riposo di quanto non ne abbiano gli agricoltori

II. La produzione del cibo.A partire da circa 10.000 anni fa alcune popolazioni, in aree tra loro lontane della terra, operarono in modo indipendente il passaggio alla produzione del cibo. Queste popolazioni cominciarono a coltivare le piante e ad addomesticare gli animali, e acquisirono in tal modo il controllo su alcuni processi naturali, quali la riproduzione degli animali e la semina. Attualmente la maggior parte del genere umano dipende per l’alimentazione da alcune combinazioni di piante e animali addomesticati. Gli antropologi generalmente distinguono 3 tipi fondamentali di sistemi per la produzione del cibo: l’orticoltura*, l’agricoltura intensiva§ e la pastorizia#.

II.I. L’orticoltura*.Con il termine "orticoltura" gli antropologi indicano la coltivazione di piante di tutti i tipi attraverso l’uso di strumenti e metodi relativamente semplici, e senza che vi siano appezzamenti destinati stabilmente alle coltivazioni. Gli strumenti, quali il bastone da scavo e

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la zappa, sono generalmente manuali, e non esistono aratri o altre attrezzature mossi da forza animale o meccanica. I metodi usati, inoltre, non prevedono né fertilizzazione né irrigazione, e neppure altri procedimenti per restituire al suolo, dopo i raccolti, la fertilità perduta. L’orticoltura è di 2 tipi: Il tipo più diffuso è quello che prevede coltivazioni estensive o a rotazione: si lavora la terra per periodi brevi, e poi la si lascia a riposo per alcuni anni, e allorché i campi vengono ripuliti con la tecnica del "taglia e brucia", al suolo vengono restituiti gli elementi nutritivi Nell’altro tipo di orticoltura, invece, gli uomini dipendono dai frutti di alberi che hanno una crescita molto lentaUna stessa società può anche praticare entrambi i tipi di orticoltura, ma non si avranno comunque coltivazioni perenni. La maggioranza degli orticoltori non fa assegnamento solo sui prodotti del raccolto: molti praticano anche la caccia o la pesca, e alcuni si spostano per una certa parte dell’anno. 2 sono gli esempi di società di orticoltori: gli yanomamö (Amazzonia del Brasile e del Venezuela) e i samoani (Pacifico meridionale). Per poter effettuare le coltivazioni occorre innanzi tutto ripulire la foresta da alberi e cespugli. La maggioranza dei coltivatori che praticano il metodo della rotazione, si avvalgono contemporaneamente di varie tecniche: tagliano il sottobosco, abbattono gli alberi e bruciano una determinata zona da adibire a orto (questo è il motivo per cui si parla di orticoltura "taglia e brucia"). A causa della quantità di lavoro necessaria a preparare il terreno, si scelgono zone di foresta con pochi cespugli spinosi e con pochi alberi di grosse dimensioni. Dopo aver ripulito il terreno, si piantano i vegetali. Gli uomini svolgono il pesante lavoro di preparare il terreno, e insieme alle donne piantano i vegetali. Le donne in genere si recano quotidianamente negli orti per estirpare le erbacce e per la raccolta. Dopo 2 o 3 anni le zone coltivate si restringono e le piante cominciano a ricrescere, rendendo le coltivazioni sempre meno produttive e sempre più difficoltose; si decide allora di abbandonare gli orti e di predisporne altri. Se gli orti sono lontani dal villaggio, gli orticoltori spostano quest’ultimo in una nuova area. I villaggi vengono spostati circa ogni 5 anni, sia a causa della necessità di coltivare terreni nuovi, sia per le guerre: vi sono infatti molte razzie tra un villaggio e l’altro. Le coltivazioni estensive richiedono una grande disponibilità di terreni, perché i nuovi orti non possono essere coltivati fino a quando la foresta non è ricresciuta. Ciò che spesso viene frainteso è il perché sia così importante utilizzare i campi a rotazione: quando un terreno viene bruciato non vi è solo il vantaggio di poter piantare ciò che si desidera con maggiore facilità, ma anche quello che tutto il materiale che viene bruciato fornisce gli elementi nutritivi necessari ad una coltivazione efficace. Se gli orticoltori riutilizzassero troppo presto i campi abbandonati (quando fossero ricresciute solo piccole piante) gli orti non produrrebbero in modo soddisfacente. Caratteristiche generali degli orticoltori: Nella maggior parte delle società di orticoltori le tecniche agricole, anche se semplici, hanno reso possibile l’ottenimento, in un’area data, di una quantità di risorse maggiori rispetto a quelle generalmente disponibili per i raccoglitori L’orticoltura, quindi, è in grado di sostentare comunità più grandi e più densamente popolate Lo stile di vita degli orticoltori è più sedentario di quello dei raccoglitori, nonostante le comunità possano spostarsi, dopo alcuni anni di permanenza in un’area, per coltivare nuovi appezzamenti

II.II. L’agricoltura intensiva§.Le popolazioni che si dedicano all’agricoltura intensiva utilizzano tecniche che rendono possibile la coltivazione degli stessi campi a tempo indeterminato. Gli elementi nutritivi fondamentali vengono forniti attraverso l’uso di fertilizzanti, che possono essere costituiti da materiale organico (di solito escrementi) o da sostanze chimiche. In generale la tecnologia degli agricoltori intensivi è più complessa di quella degli orticoltori. Al posto dei bastoni da scavo vengono utilizzati gli aratri. Tra gli agricoltori intensivi la quantità di lavoro affidata alle macchine e quella affidata all’uomo variano comunque enormemente. 2 sono gli esempi di gruppi che praticano l’agricoltura intensiva: uno nella Grecia rurale e uno nel delta del Mekong, in Vietnam. Caratteristiche generali delle società ad agricoltura intensiva: Rispetto alle società degli orticoltori, è più probabile che quelle ad agricoltura intensiva abbiano un alto grado di specializzazione artigianale, una complessa organizzazione politica (con città e paesi) e notevoli disparità interne dal punto di vista economico La quantità di ore dedicate al lavoro è superiore rispetto agli agricoltori più semplici (gli uomini lavorano in media 9 ore al giorno, per 7 giorni alla settimana, le donne quasi 11 ore al giorno) la maggior parte del lavoro femminile riguarda la preparazione del cibo e le occupazioni dentro e intorno alla casa, ma anche parte del lavoro dei campi

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È più probabile che siano le società ad agricoltura intensiva a dover affrontare carenze di cibo, sebbene siano generalmente più produttive di quelle orticole com’è possibile ciò?? Non vi è una risposta certa; ma una delle ragioni può essere che, poiché questi agricoltori fanno spesso affidamento su un solo tipo di coltivazione, questa possa andare interamente perduta a causa del maltempo, di malattie delle piante o di invasioni di insetti; inoltre, gli agricoltori intensivi possono entrare in crisi qualora, come spesso accade, producano per il mercato: se i prezzi di acquisto dei loro prodotti vengono abbassati, i guadagni possono non essere sufficienti per acquistare il cibo necessario Alcuni agricoltori intensivi producono molto poco per il mercato, e la maggior parte del loro prodotto è destinata al consumo interno vi è però una tendenza universalmente diffusa a produrre sempre di più per il mercato ("commercializzazione"). La crescente commercializzazione dell’agricoltura è associata a molti fenomeni. Innanzi tutto il lavoro agricolo sta diventando sempre più meccanicizzato, a causa della scarsità di manodopera (a sua volta dovuta alla migrazione in paese e in città per impieghi nell’industria e nei servizi) o al suo costo troppo elevato. Si manifesta poi una tendenza all’emergere e al diffondersi dell’agribusiness, fenomeno che vede il raggruppamento dei contadini proprietari in grandi corporazioni, che possono essere gestite da compagnie multinazionali e basarsi sul lavoro salariato, invece che su quello familiare. Un terzo fenomeno associato alla commercializzazione dell’agricoltura (e dell’allevamento) è la riduzione della popolazione dedita alla produzione di ciboNelle società industriali i prodotti alimentari provengono in larga parte da coltivazioni e allevamenti intensivi a cui lavora solo una piccola parte della popolazione. Gli specialisti dell’alimentazione si guadagnano da vivere vendono ciò che producono ai marcati all’ingrosso, ai distributori e alle industrie alimentari. In realtà la maggioranza della gente sa molto poco riguardo al modo in cui vengono coltivate le piante e allevati gli animali.

II.III. La pastorizia#.La maggior parte degli agricoltori alleva alcuni animali, ma certe società dipendono direttamente o indirettamente, per la loro sopravvivenza, dall’allevamento di mandrie di animali al pascolo. Queste società vengono definite "pastoriali". Potremmo supporre che i pastori allevino gli animali per mangiarne la carne, ma di solito non è così. Nella maggioranza dei casi i pastori traggono le proteine animali dal latte; alcuni le ricavano dal sangue (ricco di proteine), ottenuto da animali vivi, che viene poi mescolato ad altri cibi. Le mandrie e le greggi forniscono cibo anche indirettamente, poiché i pastori scambiano i prodotti animali con quelli vegetali e con altri prodotti. 2 sono gli esempi di società pastorali: i basseri dell’Iran meridionale e i lapponi della Scandinavia. Le migrazioni annuali sono così importanti per l’economia della società pastorali che esse hanno sviluppato il concetto di "via della tribù" (il-rah). Una delle tribù più importanti ha un percorso tradizionale e un programma degli spostamenti. L’itinerario, che comprende le varie località nell’ordine osservato per visitarle, segue passaggi e linee di comunicazione già tracciati. Il programma degli spostamenti, che regola la durata delle soste nelle varie località, è basato sulla maturazione delle distese erbose dei differenti pascoli e sugli spostamenti delle altre tribù. La "via della tribù" è considerata, effettivamente, proprietà della tribù. Le popolazioni e le autorità locali riconoscono alla tribù il diritto di transito lungo i sentieri e i campi coltivati, e il diritto di accesso all’acqua e ai pascoli presso i pozzi e i terreni comuni. Le caratteristiche generali della pastorizia: In tempi recenti, la pastorizia è praticata soprattutto in zone ricche di erba e in territori semiaridi, inidonei alle coltivazioni se non dopo un trattamento con adeguate tecnologie, come per esempio l’irrigazione I pastori sono in gran parte nomadi, in quanto devono spostarsi abbastanza frequentemente alla ricerca di acqua e di nuovi pascoli per gli animali alcuni pastori hanno però talvolta vite più sedentarie (si spostano da un insediamento ad un altro in stagioni differenti, oppure soltanto alcuni si allontanano dagli insediamenti per seguire gli animali nelle loro migrazioni stagionali) Di solito le comunità di pastori sono piccole, poiché sono costituite da un gruppo di famiglie imparentate fra loro Gli animali possono essere di proprietà dei singoli o della famiglie, ma le decisioni sulle modalità di spostamento della mandrie e delle greggi vengono prese collettivamente

III. I limiti ambientali al reperimento del cibo.Gli antropologi sostengono che l’ambiente fisico ha l’effetto di limitare, piuttosto che quello di determinare, le modalità di sussistenza di una popolazione. Sappiamo che la

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raccolta è stata praticata, in un periodo o nell’altro, in quasi tutte le aree del mondo. Non sembra che l’ambiente influenzi la misura in cui una popolazione dipende dalle piante, dagli animali o dalla pesca. Man mano che ci si allontana dall’equatore, comunque, i raccoglitori dipendono per l’alimentazione sempre meno dalle piante e sempre più dagli animali o dalla pesca. Lewis Binford ritiene che la pesca assuma maggiore importanza nei luoghi freddi poiché, dato che si rendono necessarie dimore permanenti per difendersi dalle rigidità del clima, non è più possibile fare assegnamento su animali di grossa taglia che, per nutrirsi, in inverno devono percorrere lunghe distanze. Il pesce è più localizzato della selvaggina, e i pescatori, in inverno, possono rimanere nello loro abitazioni (i pochi cacciatori presenti nelle regioni fredde posseggono degli animali che trasportano le loro dimore mobili). Vi è però un habitat che può effettivamente aver impedito, fino a tempi recenti, uno stile di vita basato sulla raccolta. Se non fosse stato per la vicinanza di produttori di cibo (in particolare agricoltori), i raccoglitori recenti come i pigmei mbuti (Africa centrale) non sarebbero potuti sopravvivere nella foresta tropicale dove vivono attualmente (una foresta dalla ricca vegetazione, ma poco commestibile per l’uomo, e con molti animali, ma che non forniscono una quantità sufficiente di carboidrati o grassi). Così, come i pigmei, molti altri raccoglitori tropicali praticano il commercio per ottenere prodotti agricoli, mentre altri coltivano qualche pianta per integrare la raccolta. Se confrontiamo l’orticoltura e l’agricoltura intensiva sembra che l’ambiente fisico possa fornire qualche spiegazione circa la scelta dell’una o dell’altra. Circa l’80% di tutte le società che praticano l’orticoltura o l’agricoltura più semplici vive ai tropici, mentre il 75% di tutte le società che praticano l’agricoltura intensiva non vive in ambienti tropicali. Le foreste tropicali vengono bagnate da abbondanti piogge, ma, a dispetto della vegetazione lussureggiante, il terreno non offre condizioni favorevoli per un’agricoltura intensiva. Forse le piogge torrenziali asportano dal suolo determinati minerali, e inoltre la difficoltà di controllare le invasioni di insetti e di erbe infestanti può rendere l’agricoltura intensiva meno produttiva. Difficile non significa però impossibile. Attualmente vi sono alcune aree di foresta tropicale che sono state disboscate e destinate stabilmente alla coltivazione intensiva del riso. Inoltre, nonostante sia di norma impossibile nelle terre aride (a causa dell’insufficienza di precipitazioni), l’agricoltura può però essere praticata ove vi siano delle oasi o fiumi le cui acque possano venir incanalate. Le greggi e le mandrie si cibano essenzialmente di erba, per cui non desta molta meraviglia il fatto che la pastorizia sia in genere praticata nelle zone erbose. L’habitat erboso abbonda di selvaggina di grossa taglia, e quindi favorisce sia la caccia sia la pastorizia, fatta eccezione per le zone in cui l’uso delle macchine rende possibile l’agricoltura intensiva. Nel corso del tempo strategie molto diverse sono state praticate negli stessi ambienti. Risulta quindi evidente che l’ambiente fisico da solo non è sufficiente a spiegare il sistema scelto in una data area per procurarsi il cibo. (Anche in un ambiente polare si potrebbe praticare l’agricoltura all’interno di serre riscaldate, ma sarebbe eccessivamente costoso) Ciò che rende possibile quello che sembra impossibile sono i progressi della tecnologia e gli enormi investimenti nella forza lavoro e nelle attrezzature. Occorre però sottolineare che tutto ciò resta precario, in quanto esso dipende da risorse ed energie che si trovano altrove. A determinare quindi il tipo di approvvigionamento praticato in una data area sono molto più i fattori tecnologici, sociali e politici che non quelli ambientali.

IV. Le origini della produzione del cibo.Nel periodo che va dai 40.000 ai 15.000 anni fa (che, dal punto di vista archeologico, conosciamo meglio per quanto riguarda l’Europa) sembra che per gli uomini la dieta si basasse soprattutto sulla carne della grossa selvaggina migratoria (bue selvatico, antilope, bisonte, mammut). I raccoglitori di quest’epoca erano probabilmente molto mobili, così da poter seguire le migrazioni degli animali. A partire da circa 14.000 anni fa le popolazioni di alcune regioni cominciarono a dipendere sempre meno dalla selvaggina di grossa taglia e sempre di più da fonti alimentari relativamente stabili, come pesci, molluschi, piccola selvaggina e piante selvatiche. Dopo il ritiro dei ghiacciai crebbero le opportunità alimentari offerte dalle acque dolci e da quelle salate. In alcune aree, soprattutto in Europa e nel Vicino Oriente, lo sfruttamento delle risorse locali relativamente permanenti può spiegare lo sviluppo di uno stile di vita sempre più sedentario. La prima testimonianza di un passaggio alla produzione del cibo (vale a dire alla coltivazione delle piante e all’addomesticamento degli animali) proviene dal Vicino Oriente, ed è datata intorno all’8000 a.C. Questo cambiamento sopravvenne probabilmente in modo indipendente anche in altre aree del mondo. Le regioni montuose del Messico (7.000 a.C. ~) e le Ande centrali in Perù (6.000 a.C. ~) furono probabilmente le aree più importanti per quanto riguarda la coltivazione di piante

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commestibili che si utilizzano ancora oggi. Attualmente la maggioranza degli uomini è dedita alla produzione del cibo piuttosto che alla sua raccolta. Circa 10.000 anni fa in diverse aree del mondo sopravvengono trasformazioni economiche in concomitanza con l’inizio della domesticazione di piante e animali selvatici. Sono numerose le teorie che tentano di spiegare le cause dello sviluppo della produzione alimentare, e la maggior parte di queste teorie cerca di spiegarne l’insorgere nel Vicino Oriente. Lewis Binford e Kent Flannery hanno avanzato l’ipotesi che alcuni cambiamenti dovuti a circostanze esterne, ma non necessariamente ambientali, abbiano indotto o favorito il passaggio alla produzione. Come notò Flannery, non vi sono prove che vi sia un grosso incentivo economico, per i raccoglitori, nel passare alla produzione del cibo. Come abbiamo visto, infatti, alcuni raccoglitori contemporanei possono in realtà soddisfare i loro bisogni alimentari pur lavorando molto meno di altri agricoltori. Secondo Binford e Flannery l’incentivo all’addomesticamento di piante e animali può essere stato originato dal desiderio di riprodurre le condizioni di abbondanza di animali e piante caratteristiche delle migliori zone di raccolta. Poiché nelle aree migliori la popolazione aumenta, sarebbe nata la necessità di spostarsi per circondare le aree con le poche risorse rimaste disponibili. Sarebbe stato in queste aree marginali che gli uomini sono passati alla produzione del cibo al fine di riprodurre ciò che erano abituati ad avere. Il modello di Binford e Flannery sembra essere sostenuto dalle testimonianze archeologiche di alcune zone, dove effettivamente un incremento della popolazione precede le prime tracce di addomesticamento. Ma in alcune regioni, nelle aree con le condizioni più favorevoli per la raccolta non si riscontra un aumento della popolazione prima della comparsa dell’addomesticamento. Il modello di Flannery e Binford considera la pressione demografica in una piccola area quale incentivo per il passaggio alla produzione. Mark Cohen ipotizzò, per spiegare l’insorgere dell’agricoltura in aree diverse nel volgere di poche migliaia di anni, una pressione demografica su larga scala. I raccoglitori sarebbero gradualmente cresciuti di numero fino a riempire tutto il pianeta, all’incirca intorno a 10.000 anni fa. Non sarebbe stato possibile, allora, alleviare la pressione demografica spostandosi in zone disabilitate. Per sostentare la popolazione in aumento i raccoglitori avrebbero dovuto nutrirsi anche di piante e animali selvatici poco graditi, avrebbero cioè dovuto ampliare i confini delle specie raccolte e cacciate oppure avrebbero dovuto accrescere il raccolto delle piante preferite proteggendole dalle invasioni di insetti e dalle erbe infestanti, e anche, forse, piantando deliberatamente quelle più produttiveCohen ipotizza che tutte queste strategie siano state tentate, ma che alla fine si sia optato per le coltivazioni perché avrebbero rappresentato il sistema più efficiente. Recentemente alcuni archeologi hanno riproposto la teoria secondo la quale nell’emergere dell’agricoltura giocò un ruolo fondamentale il cambiamento del clima. Sulla base delle prove oggi in nostro possesso possiamo affermare che, intorno a 12.000-13.000 anni fa, vi fu nel Vicino Oriente un cambiamento di clima: le estati divennero più calde e più secche, mentre gli inverni si fecero sempre più freddi. Questi cambiamenti possono aver favorito l’apparizione di specie di cereali annuali, che dalle testimonianze archeologiche risultano infatti proliferare. Alcuni raccoglitori sfruttarono in modo intensivo i cereali stagionali, sviluppando un’elaborata tecnologia per immagazzinarli e trattarli, e abbandonando così il loro precedente stile di vita basato sul nomadismo. La transizione all’agricoltura può essere sopravvenuto nel momento in cui la raccolta si rivelò ormai insufficiente a sfamare la popolazione. Tale cambiamento potrebbe essere stato la conseguenza della sedentarizzazione e quindi di un incremento della popolazione e di un depauperamento delle risorse, oppure di un esaurimento delle piante e degli animali selvatici a seguito dello stabilirsi della popolazione in villaggi permanenti. Il cambiamento di clima potrebbe inoltre aver causato indirettamente alcune carenze di sostanze nutritive. Nella stagione secca, infatti, alcune di queste sarebbero divenute irreperibili, poiché gli animali erbivori, dimagrendo a causa dei pascoli non abbondanti, avrebbero fornito solo carne magra. Sebbene possa sembrare incredibile, alcuni raccoglitori recenti sono morti di fame quando hanno dovuto nutrirsi solo di carne magra. Se essi avessero potuto in qualche modo aumentare l’apporto di carboidrati o di grassi, avrebbero avuto più possibilità di superare i periodi caratterizzati dalla presenza di selvaggina magra. È possibile quindi che alcuni raccoglitori del passato abbiano deciso di coltivare delle piante per riuscire a superare la stagione secca, periodo in cui la caccia, la pesca e la raccolta di vegetali non fornivano carboidrati e grassi a sufficienza per scongiurare il pericolo delle fame. Quali che siano le ragioni del passaggio alla produzione, resta ancora da spiegare perché essa abbia soppiantato le precedenti fonti primarie di sussistenza. Non possiamo presupporre che i raccoglitori siano passati alla produzione perchè la consideravano un sistema

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superiore. Dopotutto, come abbiamo già osservato, la domesticazione può comportare più lavoro e dare meno sicurezza dello stile di vita basato sulla raccolta. La diffusione dell’agricoltura può essere legata al bisogno di espansione territoriale. Nel momento in cui una popolazione sedentaria di produttori aumentava di numero, poteva essere costretta ad occupare nuovi territori. Alcuni di questi territori avrebbero potuto essere liberi, ma altri avrebbero potuto essere già abitati da gruppi di raccoglitori. Sebbene non sia necessariamente più facile, la produzione del cibo generalmente rende di più della raccolta per unità di superficie. Maggiore è la produttività, maggiore è il numero di persone a cui una data area può dare sostentamento. Nella competizione per l’acquisizione della terra, avvenuta tra i produttori che si espandevano velocemente e i raccoglitori, i primi possono aver avuto un vantaggio significativo: essi avevano un numero di persone più elevato sullo stesso territorio. È più probabile, quindi, che, nella lotta per la conquista della terra, siano stati i raccoglitori a perdere. Alcuni gruppi possono essere passati a loro volta alla produzione, abbandonando il loro stile di vita per poter sopravvivere. Altri gruppi, rimasti raccoglitori, possono essere stati costretti a ritirarsi in zone che ai coltivatori non interessavano. Attualmente, come abbiamo visto, i pochi raccoglitori rimasti abitano in aree non particolarmente adatte all’agricoltura. Così come una precedente crescita di popolazione può spiegare l’origine della domesticazione di piante e animali, altrettanto, per i periodi successivi, un’ulteriore crescita della popolazione e la conseguente pressione sulle risorse possono rendere ragione, almeno in parte, della trasformazione di sistemi basati sull’orticoltura in altri fondati sull’agricoltura intensiva. Ester Boserup ha suggerito che è improbabile che un’agricoltura intensiva (e il conseguente incremento produttivo per acro) si sviluppi in modo naturale dall’orticoltura, in quanto l’agricoltura richiede molto lavoro in più, e le popolazioni desidererebbero intensificare il loro lavoro solo in caso di necessità. Laddove l’emigrazione è impossibile, la spinta all’incremento del lavoro agricolo può precedere la crescita della popolazione. Anche la necessità di pagare tasse o tributi ad un’autorità politica può stimolare un incremento produttivo.

V. I sistemi economici.In tutte le società, indipendentemente dal fatto che il denaro vi sia implicato o meno, esistono usanze che specificano in che modo si possa avere accesso alle risorse naturali, e modalità prefissate per trasformare o convertire queste risorse, attraverso il lavoro, in cose necessarie e in altri beni e altri servizi. Molte variazioni transculturali dei sistemi economici sono prevedibili sulla base del modo in cui le società si procurano il cibo. Vi sono anche altri aspetti della cultura che incidono sui sistemi economici, tra cui la presenza o l’assenza di disuguaglianza sociale (di classe e di genere), la famiglia e i gruppi di parentela e il sistema politico.

V.I. Le risorse naturali: la terra.Tutte le società hanno accesso a risorse naturali (terra, acqua, piante, animali, minerali) e tutte le società posseggono regole culturali che hanno lo scopo di determinare chi abbia accesso a particolari risorse e in che modo possa servirsene. Nelle società come la nostra, in cui la terra e molte altre cose possono essere vendute e acquistate, la terra è divisa in unità misurate con precisione, i cui confini sono a volte invisibili. Gli appezzamenti di terreno relativamente piccoli e le risorse che contengono appartengono di solito a singoli individui. La proprietà di grandi appezzamenti è invece, abitualmente, collettiva. Il proprietario può essere un ente governativo; oppure una corporazione (= un gruppo privato di azionisti). Il possesso di una proprietà dà il diritto ad utilizzare la terra e le sue risorse (= usufrutto) nel modo che si preferisce; il proprietario può anche impedirne ad altri l’utilizzo. In molte altre società il proprietario ha anche il diritto di "alienare" la proprietà, può cioè venderla, donarla, lasciarla in eredità, o distruggere le risorse in essa contenute. 2 sono le ragioni per cui la maggioranza dei raccoglitori e degli orticoltori non ha sviluppato il nostro sistema di distribuzione della terra: nelle loro società la terra non è posseduta né dal singolo individuo, né da un gruppo di persone non imparentate tra loro; laddove riscontriamo la proprietà collettiva, essa appartiene a gruppi parentali o a gruppi territoriali (bande o villaggi) anche dove vi sia una proprietà collettiva, essa è diversa dalla nostra perché la terra non può essere acquistata o vendutaÈ quindi la società, e non l’individuo, che specifica cosa sia da considerare una proprietà, e quali siano i diritti e i doveri associati alla proprietà. Tali norme sono di natura sociale, perché possono mutare nel tempo. Ci si chiede spesso se l’abuso dei diritti di proprietà non sia uno dei fattori che hanno determinato l’aumento dell’inquinamento

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dell’aria e dell’acqua. I governi stanno divenendo sempre più attivi nel regolare con precisione ciò che le persone (e anche gli enti pubblici) possono fare con la terra che possiedono. La proprietà quindi non è del tutto privata. Esaminiamo ora i diversi modi in cui i raccoglitori, gli orticoltori, i pastori e gli agricoltori intensivi strutturano i diritti della terra. Esamineremo i modelli tradizionali, perché, come avremo occasione di vedere in seguito, l’espansione delle società statuali che hanno colonizzato le società native, ha profondamente intaccato la concezione tradizionale dei diritti sella terra. I RACCOGLITORI: come abbiamo già osservato, i membri delle società di raccolta in genere non possiedono la terra individualmente. Probabilmente la ragione di ciò risiede del fatto che la terra in sé non ha, in queste società, alcun valore intrinseco: ciò che ha valore è la presenza, su un territorio, di animali e di piante commestibili. Se la selvaggina si sposta, o se le risorse cominciano a scarseggiare, la terra perde valore. Nella misura in cui, perciò, aumenta la possibilità di fluttuazione delle fonti di cibo, diminuirà il vantaggio di assegnare al singolo un piccolo pezzo di terra, e sarà invece più conveniente una proprietà collettiva. Sebbene i raccoglitori pratichino raramente qualcosa che assomigli alla proprietà privata della terra o di altre risorse, varia però considerevolmente l’estensione della "proprietà comune". In alcune società, i gruppi non rivendicano né difendono particolari territori. Ma di solito nelle società di raccolta sono gruppi di individui (in genere parenti) che "possiedono" la terra. A ben vedere tale proprietà di solito non è esclusiva: la bande vicine infatti possono generalmente accedervi. All’altro estremo vi sono gruppi di alcune società di raccolta che tentano di conservare diritti esclusivi su determinati territori. Perché alcuni raccoglitori risultano più legati al territorio di altri?? Si può avanzare l’ipotesi che, laddove le piante e gli animali sono in un luogo preciso e sono abbondanti, è più probabile che i gruppi siano sedentari e cerchino di mantenere un controllo esclusivo sul territorio. Al contrario, quando non è possibile fare previsioni sulla localizzazione e sulla quantità delle risorse animali e vegetali, la territorialità tenderà ad essere minima. Sembra che i raccoglitori abbiano sia risorse localizzate e prevedibili, sia insediamenti stabili, ed è quindi difficile riuscire a determinare quale sia l’elemento che gioca maggiormente nella difesa del territorio. GLI ORTICOLTORI: tra gli orticoltori, come tra i raccoglitori, non esiste nella maggioranza dei casi la proprietà individuale o familiare della terra, probabilmente perché il rapido esaurimento del suolo costringe a lasciare incolta la terra per alcuni anni, o ad abbandonare un’area dopo poco tempo per trasferirsi in nuovi territori. Non avrebbe senso, per i singoli o le famiglie, rivendicare un accesso permanente ad una terra che, data la scarsa tecnologia impiegata, non è utilizzabile in modo permanente. È il villaggio che controlla il diritto all’uso della terra. Il singolo può cacciare e pescare dove preferisce, e ha il diritto di approntare un orto ovunque desideri, se la terra che appartiene alla comunità non è, in quella zona, impiegata altrimenti. Gli orti vengono coltivati per 2 anni, dopodichè il suolo di esaurisce: la terra ritorna allora alla comunità. Viene operata una distinzione tra la terra e i suoi prodotti, cosicché chi coltiva la terra possiede effettivamente ciò che produce (così come il cacciatore o il pescatore possiede le proprie prede), ma, poiché tutto il cibo viene spartito con gli altri, non si può neppure dire, in realtà, che esista un proprietario del raccolto. I diritti sulla terra divennero via via più individuali quando essi iniziarono a dedicarsi al commercio. I diritti su una determinata parte di terra non potevano essere acquistati o venduti, però potevano essere ereditati da un figlio o da un genero. I PASTORI: il territorio dei pastori nomadi supera di gran lunga quello della maggior parte degli orticoltori. Poiché la loro ricchezza dipende sostanzialmente da 2 elementi (le mandrie e le greggi, che si spostano, e i pascoli e l’acqua, che sono fissi), i pastori devono combinare il potenziale adattivo dei raccoglitori e degli orticoltori. Analogamente ai raccoglitori, i pastori devono essere a conoscenza delle potenzialità del loro territorio in modo da assicurarsi una fornitura costante di erba e di acqua. Analogamente agli orticoltori, dopo che i loro animali hanno esaurito i pascoli, essi devono spostarsi e lasciare la terra incolta sino a che i pascoli non si siano rigenerati. E sempre come gli orticoltori, i pastori dipendono, per la loro sussistenza, dalla manipolazione di una risorsa naturale (gli animali), laddove i primi dipendono dalla manipolazione della terra. Dato che la terra è buona solo se vi sono pascoli e acqua a sufficienza, ci sarebbero dei rischi considerevoli se gli individui o le famiglie fossero i proprietari della terra. Come moltissimi raccoglitori e orticoltori, quindi, i membri della comunità hanno generalmente un accesso libero ai pascoli. Benché questi tendano ad essere una proprietà comune, è consuetudine che gli animali siano una proprietà individuale. Fredrik Barth ha sostenuto che se per gli animali non vigesse un simile regime di proprietà, l’intero gruppo potrebbe trovarsi nei guai perché i membri potrebbero essere tentati di mangiare il loro capitale produttivo (gli animali) nei periodi di difficoltà. Quando gli animali sono una proprietà

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individuale, una famiglia il cui gregge scende sotto il numero minimo di capi necessari alla sopravvivenza può abbandonare, almeno provvisoriamente, la vita nomade per svolgere lavori salariati nelle comunità agricole sedentarie. D’altro canto, se le famiglie fortunate dovessero condividere i loro capi con quelle meno fortunate, tutti si troverebbero sull’orlo della bancarotta. Quindi, ha sostenuto Barth, la proprietà individuale è un fenomeno adattivo per uno stile di vita pastorale. John Dowling ha messo in dubbio questa interpretazione, sottolineando come i pastori nomadi non siano gli unici a dover salvaguardare parte dei loro "raccolti" per la produzione futura: anche gli orticoltori devono mettere da parte porzioni di raccolto (sotto forma di tuberi o di semi). Ciononostante gli orticoltori non hanno la proprietà privata delle risorse produttive, e quindi la necessità di accantonare risorse per la produzione futura non è sufficiente a spiegare la proprietà privata degli animali nelle società pastorali. Dowling ha ipotizzato che la proprietà privata si sia sviluppata solo nelle società pastorali che dipendono dalla vendita dei loro prodotti alle popolazioni che non praticano la pastorizia. È quindi l’esistenza dell’opportunità di vendere i propri prodotti, ma anche il proprio lavoro, che spiegherebbe, presso i pastori, sia la possibilità di abbandonare la vita nomade sia la proprietà privata degli animali. L’AGRICOLTURA INTENSIVA: la proprietà individuale delle risorse della terra, che include il diritto a utilizzare le risorse e il diritto di venderle o di disporne altrimenti, è molto comune presso gli agricoltori intensivi. Lo sviluppo di questo tipo di proprietà è, in parte, da attribuire alla possibilità di utilizzare la terra stagione dopo stagione: ciò conferisce alla terra un valore più o meno permanente. Il concetto di proprietà individuale, però, ha anche un valore sociale e politico. Le terre di frontiera che furono occupate e coltivate negli Stati Uniti, per esempio, vennero trasformate dalla legge in proprietà individuali. Con lo Homestead Act del 1862, ad una persona che ripuliva e coltivava per 5 anni un appezzamento di 160 acri veniva riconosciuta dal governo federale la proprietà dell’appezzamento. Questa pratica è simile alla tradizione, vigente in alcune società, per cui un gruppo di parentela, un capo o una comunità sono costretti ad assegnare un pezzo di terra a chiunque desideri coltivarlo. La differenza risiede nel fatto che, una volta che l’assegnatario americano era divenuto il proprietario della terra, la legge del paese in cui si trovava gli dava il diritto di disporne come meglio credeva. Dal momento in cui viene stabilita la proprietà individuale della terra, i proprietari possono far valere il loro potere economico, e quindi politico, per fare approvare leggi che li favoriscono. Nel primo periodo della storia degli Stati Uniti solo i detentori di proprietà avevano il diritto di voto. La proprietà privata individuale è associata generalmente all’agricoltura intensiva, ciò però non accade sempre. Come abbiamo visto, l’agricoltura intensiva è solitamente associata a sistemi politici più complessi, e alla presenza di differenze riguardo alla ricchezza e al potere. Abbiamo quindi bisogno di comprendere il contesto politico e sociale per riuscire a capire gli specifici sistemi di distribuzione della terra. Nell’ambito del sistema feudale presente nella gran parte dell’Europa medievale, per

esempio, i grandi aristocratici garantivano ad aristocratici di livello inferiore (i vassalli) terra e protezione in cambio di prestazioni militari e di altri obblighi. Nel caso il vassallo morisse senza eredi, la terra ritornava a chi l’aveva concessa. La maggior parte del lavoro agricolo veniva svolta da gente comune (coltivatori non proprietari e servi della gleba). I primi ricevevano la terra dal signore di un feudo in cambio di lavoro, di una parte del raccolto, e delle prestazioni militari che si rendevano necessarie. La proprietà data in affitto poteva essere lasciata ai figli, e gli affittuari, almeno in teoria, erano liberi di andarsene, anche se questo non era facile. I servi della gleba, che avevano nei confronti del loro signore doveri simili, erano legati alla terra e non potevano andarsene, ma non potevano neppure essere allontanati. In tempi recenti in alcune nazioni comuniste e socialiste ad agricoltura intensiva vennero

create delle comuni agricole. Dopo la seconda guerra mondiale, per esempio, in un villaggio della Bulgaria, le piccole fattorie private furono incorporate nella cooperativa del villaggio. Molti abitanti lavoravano come operai nella nuova cooperativa, ma a ciascuna fattoria veniva assegnato un piccolo appezzamento. Questi appezzamenti erano molto produttivi e gli occidentali attribuirono tale risultato all’iniziativa privata. In realtà la cooperativa forniva molto del lavoro necessario alla coltivazione degli appezzamenti, e quindi difficilmente questi potevano essere considerati proprietà private. Con il crollo del regime comunista, la cooperativa fu sciolta, e la terra venne divisa e venduta a proprietari privati. Nelle società capitalistiche può sembrare che coloro che posseggono una proprietà

abbiano un controllo praticamente assoluto sul modo in cui utilizzarla e disporne. Ma tale controllo quasi assoluto è controbilanciato dalla possibilità concreta della perdita della proprietà. Nella società statunitense il governo può sottrarre una proprietà come sanzione

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penale in caso di insolvenza nel pagamento delle tasse. Un creditore può prendere una proprietà per soddisfare un debito. Oppure il governo può decidere di rilevare una proprietà (di solito tributando un compenso a chi la possiede) per scopi pubblici. Spesso le famiglie perdono le loro proprietà a causa di eventi su cui non sono in grado di esercitare alcun controllo (una crisi economica del paese, una siccità, un periodo di stagnazione economica, ..). Inoltre, laddove esiste la proprietà individuale della terra, vi sono quasi sempre persone che non posseggono alcun pezzo di terra. IL COLONIALISMO: quasi ovunque nel mondo i conquistatori e i colonizzatori hanno sottratto la terra ai nativi. Anche quando a questi veniva concessa in cambio altra terra, le riserve erano spesso, se non sempre, più povere di risorse rispetto alle terre d’origine. I nuovi governi centrali, inoltre, cercavano il modo di scambiare la terra posseduta dai nativi, quasi sempre in direzione di un possesso privato o individuale. Se i possessori della terra erano un gruppo di parentela o entità sociali più vaste, risultava più difficile per i colonizzatori ottenere dai nativi, con proposte di acquisto o con minacce, la cessione della terra. I nuovi venuti, che traevano benefici da questi scambi forzati, non sempre erano di origine europea, ma provenivano comunque da società statuali in espansione. Ovunque vi siano state società "civili" (urbane) sono esistiti anche l’imperialismo e il colonialismo.

VI. La tecnologia.Per riuscire a convertire le risorse in cibo e in altri beni tutte le società si avvalgono della tecnologia, che comprende strumenti, costruzioni, e che richiede abilità specifiche. I raccoglitori e i pastori, per esempio, hanno in genere un equipaggiamento molto limitato: essi devono infatti avere con sé solo gli strumenti (e, in generale, i beni materiali) che riescono agevolmente a trasportare. Per quanto riguarda l’accesso alla tecnologia, i raccoglitori e gli orticoltori di norma prevedono opportunità uguali per tutti i membri del gruppo. In assenza di specializzazioni, la maggior parte degli individui è in grado di produrre autonomamente ciò di cui necessita. In una società industriale come la nostra, invece, difficilmente vi è per tutti l’opportunità di acquisire o di utilizzare una determinata tecnologia (che può essere enormemente costosa e complessa). I RACCOGLITORI: gli strumenti più utilizzati tra i raccoglitori sono le armi per la caccia, i bastoni da scavo e i contenitori impiegati per riporre i prodotti della raccolta e per il trasporto. La maggior parte dei raccoglitori conosce l’arco e le frecce; alcuni usano i boomerang; altri si servono di frecce avvelenate e di cerbottane; altri ancora utilizzano reti o grandi buche scavate nel terreno. Tra tutti i raccoglitori sono probabilmente gli inuit quelli che posseggono le armi più sofisticate (arpioni, archi multipli e ami d’avorio). Gli inuit abitano in insediamenti relativamente permanenti, in cui vi è spazio disponibile per l’immagazzinamento, e inoltre hanno cani e slitte per trasportare i propri beni. Tra i raccoglitori è considerato proprietario dello strumento colui che lo ha fabbricato. Non è possibile vantare una superiorità rispetto agli altri sulla base del possesso degli strumenti, perché le risorse per produrli sono accessibili a tutti. Inoltre la consuetudine di spartire le cose con gli altri si applica tanto al cibo quanto agli strumenti. I PASTORI: anche i pastori devono in qualche misura limitare i loro beni (perché anch’essi conducono una vita nomade), però hanno a disposizione gli animali, che possono destinare al trasporto. Ciascuna famiglia possiede i propri attrezzi, i vestiti, a volte una tenda, e naturalmente il proprio bestiame. Attraverso il bestiame i pastori si procurano altri beni necessari, spesso scambiando i loro prodotti con quelli degli abitanti delle città. GLI ORTICOLTORI: sono più autosufficienti dei pastori. I loro strumenti di lavoro consistono in un coltello, nella zappa o nel bastone da scavo. Lo strumento che una persona fabbrica è considerato di sua proprietà, ma ciascuno è obbligato a dare a prestito i propri attrezzi, altrimenti correrebbe il rischio di essere disprezzato a di ricevere a sua volta un rifiuto nel momento in cui toccasse a lui domandare un attrezzo in prestito. GI STRUMENTI COMPLESSI: nelle società ad agricoltura intensiva, e in quelle industriali, gli strumenti di solito vengono realizzati da specialisti (e quindi devono essere acquisiti tramite scambi o comperati). Probabilmente a ragione dell’alto costo che hanno questi strumenti complessi, è più difficile che essi vengano in comune, se non tra coloro che hanno contribuito all’acquisto. Non sempre le attrezzature costose sono possedute dai singoli: possono infatti esservi proprietà collettive di macchinari (nel caso delle cooperative o delle comproprietà tra vicini). Alcune attrezzature, però, hanno un costo talmente elevato che neppure una cooperativa può permettersi di acquistarle. I governi utilizzano fondi raccolti con le imposizioni fiscali per realizzare strutture e servizi che favoriscono alcuni gruppi produttivi, ma anche la collettività (es: gli aeroporti avvantaggiano le linee aeree e i viaggiatori). Tali risorse sono

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proprietà comuni. L’ammontare di tecnologia e di servizi posseduti dal governo è un indicatore del tipo di sistema politico-economico: rispetto a quali capitalisti, i paesi socialisti e quelli comunisti hanno un numero maggiore di proprietà pubbliche.

VII. I tipi di produzione economica.Tutte le società, attraverso il lavoro, devono trasformare o convertire le risorse in cibo, attrezzature e altri beni (tali attività costituiscono ciò che gli economisti chiamano produzione). Alcuni aspetti della conversione delle risorse naturali sono da considerarsi degli universali culturali, ma vi è, anche in questo settore, una grande variabilità interculturale. Nelle prime descrizioni che abbiamo delle società note all’antropologia vediamo illustrato il modo di produzione domestico (familiare o parentale). In esso il lavoro di ciascuno è destinato alla produzione di cibo, di riparo e di utensili per sé e per i propri parenti. Generalmente le famiglie hanno il diritto di sfruttare le risorse produttive e controllano i frutti del loro lavoro. Anche gli specialisti che, come i vasai, dedicano parte del tempo ad attività non direttamente connesse alla produzione di cibo possono sostentarsi con queste ultime nei casi di bisogno. All’altro estremo troviamo le società industriali, in cui gran parte del lavoro è basata sulla produzione meccanizzata (nelle fabbriche, ma anche in agricoltura). Nelle società industriali, quindi, i più lavorano per altri come salariati. E sebbene le retribuzioni permettano di acquistare il cibo, coloro che non lavorano perdono velocemente la capacità di sostentarsi (a meno che non abbiano sussidi o assicurazioni contro la disoccupazione). Vi è poi il sistema di produzione tributario, presente in società non industrializzate in cui la maggioranza della popolazione è ancora in grado di produrre autonomamente il proprio sostentamento, ma in cui, al contempo, un’élite controlla parte della produzione (es: le società feudali dell’Europa medioevale occidentale e la Russia zarista della servitù della gleba). Molti ritengono che attualmente le economie sviluppate siano in fase di transizione verso un’economia post-industriale. I computer "guidano" macchine e robot, e hanno fatto sparire molto del lavoro manuale presente nell’industria.

VIII. Gli incentivi al lavoro.Perché la gente lavora?? Chiaramente una delle ragioni è che il lavoro è necessario alla sopravvivenza. Nessuna società potrebbe sopravvivere se la maggioranza dei suoi membri adulti non lavorasse come potrebbe, o facesse assegnamento sul lavoro degli altri. In effetti quasi tutte le società riescono a convincere le persone a fare ciò che devono fare, e a volte anche a motivarle ad amare il lavoro. Una delle ragioni per cui la gente lavora è perché deve. La ragione, invece, citata spesso, per cui la gente lavora più del dovuto, e cioè quella del profitto, il desiderio di scambiare qualcosa ad un prezzo superiore a quello al quale si è acquistata, non è universale. Tra le popolazioni che producono cibo e altri beni soprattutto per il consumo interno (la maggioranza dei raccoglitori, molti se non tutti gli orticoltori, e anche alcuni agricoltori intensivi) la motivazione del profitto può essere assente. Queste società hanno un’economia di sussistenza, e non un’economia commerciale o monetaria. Gli antropologi hanno osservato che spesso chi vive in una società con un’economia di sussistenza (cioè con un modo di produzione domestico) lavora meno di chi vive in quelle caratterizzate da un’economia commerciale (con modo di produzione industriale o tributario). Inoltre sembra che i raccoglitori abbiano molto tempo libero dal lavoro, e che lo stesso valga per gli orticoltori. Queste società producono solo ciò che è loro necessario perché non possono immagazzinare il surplus per lunghi periodi perché marcirebbe non possono venderlo perché non vi sono mercati nelle vicinanze non hanno un’autorità politica che possa raccoglierlo per qualche scopoSebbene noi spesso siamo portati a pensare che "di più è meglio", una strategia di approvvigionamento del cibo che seguisse questo principio potrebbe rivelarsi disastrosa, soprattutto nel caso dei raccoglitori. Se il gruppo uccidesse più animali di quelli che può effettivamente mangiare metterebbe seriamente a repentagli le risorse di cibo del futuro, perché eccedendo nella caccia di ridurrebbe la potenzialità riproduttiva degli animali. È stato ipotizzato che, laddove le risorse vengono convertite soprattutto per il consumo domestico, la gente lavorerà più duramente quando vi saranno più consumatori in famiglia (es: molti bambini e molti anziani, che non lavorano) "regola di Chayanov" (nonostante Chayanov applicasse la sua teoria solo a contadini che producevano per il proprio consumo, Chibnik suggerisce che essa possa trovare applicazione anche laddove prevalga il lavoro salariato)Vi sono comunque molte società (anche tra quelle con un’economia di sussistenza) in cui alcune persone lavorano molto di più di quanto sarebbe necessario per il sostentamento della

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famiglia. Molte di queste economie non sono in realtà orientate semplicemente al consumo domestico. Spesso, anzi, la condivisione del cibo e di altri beni si estendono ben al di là della famiglia, sino ad includere a volte l’intera comunità o anche raggruppamenti di comunità. In queste società il riconoscimento sociale va a chi è generoso, e quindi chi lavora più di ciò che gli è sufficiente per sopravvivere può essere spinto a farlo dal desiderio di ottenere rispetto. In molte società, inoltre, è necessario avere cibo e altri beni in eccedenza per utilizzarli in occasioni e per scopi benefici, si tratti di combinare e festeggiare un matrimonio, o di stringere alleanze, o di celebrare una cerimonia. Così quelle che la cultura indica come le motivazioni al lavoro, e quelli che definisce i bisogni dei soggetti, oltrepassano di molto ciò che è strettamente necessario. Nelle economie commerciali come la nostra (in cui il cibo, i beni e i servizi vengono acquistati e venduti) pare che le persone siano spinte ad utilizzare per sé e per la propria famiglia le entrate eccedenti. Queste vengono convertite in abitazioni più grandi, in arredamenti e in cibi più costosi, e in altri beni che connotano uno stile di vita "più elevato". Alcune persone, poi, lavorano per soddisfare il bisogno di avere uno scopo, altre perché trovano il loro lavoro piacevole. Inoltre, proprio come nelle società precommerciali, alcuni lavorano anche per guadagnarsi il rispetto o per acquisire autorità attraverso l’elargizione ad altri dei beni acquisiti.

VIII.I. Il lavoro obbligatorio.L’educazione e la pressione sociale sono sufficientemente forti da persuadere gli individui a svolgere una qualche attività utile. Sia nelle società di raccoglitori, sia in quelle di orticoltori, gli individui disposti a sopportare di essere oggetto di derisione per la loro pigrizia verranno comunque nutriti. Nel peggiore dei casi, verranno ignorati dagli altri membri del gruppo. Non vi è ragione di punirli, né vi è modo di costringerli a fare il lavoro che ci si aspetta da loro. Le società più complesse hanno delle strategie per forzare la gente a lavorare. Una forma indiretta di lavoro obbligatorio è rappresentata dalla tassazione. Se una persona decide di non pagare le tasse la somma dovuta verrà pretesa, oppure la persona verrà messa in prigione. In una società commerciale le tasse vengono pagate in denaro. In società politicamente complesse, ma con un’economia non monetaria, le tasse vengono pagate in altro modo (fornendo un certo numero di ore di lavoro, o consegnando una determinata percentuale di ciò che si produce). Un altro soggetto del lavoro obbligatorio è il coltivatore non proprietario. In cambio di una casa e di alcuni acri da coltivare, egli deve consegnare al proprietario una parte del raccolto. Manipolando il prezzo del raccolto, concedendo al coltivatore prestiti ad alto interesse e obbligandolo ad acquistare i beni necessari a prezzi esorbitanti, il proprietario, in pratica, lo costringe ad un lavoro obbligatorio. Se il coltivatore tenta di andarsene senza saldare i debiti contratti con il padrone, questi può avvalersi del potere dello stato per costringerlo a pagare. D’altro canto se il lavoro del coltivatore diventa obsoleto a causa della meccanicizzazione del lavoro agricolo, il proprietario può ricorrere ancora allo stato per disfarsene. La leva, o servizio militare obbligatorio, è una forma di lavoro obbligatorio: è necessario infatti svolgerlo per un certo periodo, e un eventuale rifiuto può essere punito con la prigione o con l’esilio. La forma estrema di lavoro obbligatorio è costituita dalla schiavitù.

IX. La divisione del lavoro.La divisione del lavoro per genere e per età è un tipo di specializzazione universale. Molte delle società studiate dall’antropologia dividono il lavoro solo in base al genere e all’età; in altre società, invece, esistono ulteriori e più complesse specializzazioni. I bambini, ovviamente, non possono eseguire lavori che richiedono molta forza, ma in numerose società contribuiscono al lavoro molto più di quanto non accada nella nostra. I bambini, per esempio, svolgono vari lavori domestici: si occupano dei bambini più piccoli, vanno a prendere l’acqua e la legna per il fuoco, cucinano e puliscono. Anche la cura degli animali è spesso un lavoro in cui i bambini svolgono un ruolo importante: in alcune società sono loro, più degli adulti, ad occuparsi di questa attività. Nei casi in cui gli adulti (soprattutto le madri) hanno carichi di lavoro molto pesanti, e i bambini sono fisicamente e mentalmente abili al lavoro, è facile che buona parte del lavoro venga affidata a loro. Come abbiamo visto precedentemente, i produttori hanno probabilmente carichi di lavoro superiori a quelli dei raccoglitori, e quindi dovremmo aspettarci che i bambini lavorino di più presso gli allevatori e agli agricoltori. Quando in una società i bambini contribuiscono molto al lavoro, gli adulti comprendono il loro valore e possono, consapevolmente, desiderare di avere molti figli. Questa può essere una delle ragioni per cui i tassi di natalità, nelle società ad agricoltura intensiva, sono alti. In alcune società i gruppi di lavoro sono organizzati in base all’età. Nelle società con tecnologie

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relativamente semplici sono poche le specializzazioni che vanno oltre il genere e l’età. Ma man mano che la tecnologia di una società diviene più complessa, ed è così possibile produrre molto più cibo, cresce il numero di persone che vengono liberate dal bisogno di procurarsi i generi di prima necessità affinché divengano specialisti in determinati settori (costruttori di canoe, tessitori, sacerdoti, vasai, artisti, ..). Nelle società degli orticoltori, a differenza di quelle dei raccoglitori, possono esservi specialisti part-time. Alcuni possono dedicarsi al perfezionamento di particolari attività artigianali o di specifiche abilità (tessitura, costruzioni di abitazioni, realizzazione di prodotti in ceramica, medicina) e ricevere, in cambio delle loro prestazioni, cibo o altri beni. Presso gli orticoltori un intero villaggio può specializzarsi nella produzione di un solo prodotto, che viene poi venduto agli abitanti delle zone vicine. Con lo sviluppo dell’agricoltura intensiva iniziano a comparire le figure di specialisti a tempo pieno (vasai, tessitori, fabbri). La tendenza verso una maggiore specializzazione raggiunge il suo culmine nelle società industrializzate, in cui i lavoratori sviluppano delle abilità in settori limitati del sistema economico.

X. L’organizzazione del lavoro.In molte società di raccolta e di orticoltura vi è poca organizzazione formale del lavoro. I gruppi di lavoro tendono ad essere organizzati solo quando è necessario, e a dissolversi quando non servono più. Tali gruppi, di conseguenza, hanno una composizione e una leadership mutevoli, e la partecipazione tende ad essere individualistica e volontaria. Forse questa flessibilità è possibile in quanto sono sufficienti poche conoscenze e praticamente chiunque può assumere la leadership. Alcuni tipi di lavoro, però, richiedono più organizzazione di altri. La caccia alla selvaggina di grossa taglia esige che vengano coordinati gli sforzi di molti cacciatori; e altrettanto accade nel caso di certi tipi di pesca con le reti. I legami di parentela, soprattutto nelle società non industrializzate, sono una base importante per l’organizzazione del lavoro. Con l’accrescersi della complessità tecnologica le basi dell’organizzazione del lavoro si spostano sempre più verso gruppi di lavoro organizzati in modo più formale. Ciò ha reso più forte l’obbligo alla partecipazione. Il potere dello stato può essere utilizzato per arruolare manodopera da impiegare in lavori pubblici, o può permettere ai proprietari di schiavi di esigere da questi il lavoro. Nella nostra società il lavoro è a volte organizzato politicamente, ma la base dell’organizzazione del lavoro è il contratto (accordo stabilito tra il datore di lavoro e il lavoratore per cui ad un dato numero di ore di lavoro corrisponde un determinato salario). Sebbene il contratto possa essere iscritto nell’ambito della volontarietà, le leggi e il potere dello stato obbligano le parti a rispettarne i termini.

X.I. Le decisioni sul lavoro.Alcuni studiosi hanno tentato recentemente di spiegare perché certe decisioni economiche divengano consuetudinarie e perché gli individui operino determinate scelte nella vita di tutti i giorni. Una teoria a questo riguardo è quella dell’ottimizzazione della ricerca del cibo, applicata alla strategia operante nelle decisioni dei raccoglitori. Tale teoria ipotizza che gli individui cerchino di massimizzare il profitto (in termini di calorie e di elementi nutritivi) del loro lavoro decidendo quali animali e quali piante sono da cacciare e da raccogliere. La selezione naturale favorirebbe coloro che seguissero questa strategia in quanto le decisioni "corrette" aumenterebbero la possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. Oltre all’apporto proteico vi sono altri elementi, come la prevedibilità delle risorse, che possono influenzare la decisione sulla scelta del cibo. Alcuni antropologi hanno ipotizzato che i contadini prendano le decisioni a tappe, e che ciascuna tappa preveda risposte affermative o negative. Di conseguenza, un contadino escluderà rapidamente alcune possibilità. Non sempre le persone sono in grado di spiegare le regole che impiegano per prendere decisioni, né hanno sempre il quadro completo delle varie possibilità, soprattutto se alcune di queste sono nuove. Ciò non significa, tuttavia, che le scelte economiche non possano essere previste o spiegate dai ricercatori.

XI. La distribuzione di beni e servizi e la reciprocità.I beni e i servizi vengono distribuiti in tutte le società attraverso sistemi che, pur nella loro variabilità, possiamo in ogni caso classificare in 3 tipi: sistemi di reciprocità(*), di redistribuzione(§) e di mercato (o di scambio commerciale) (#). In una stessa società spesso i 3 sistemi coesistono, ma generalmente uno dei 3 predomina, e ciò è connesso sia alla tecnologia di approvvigionamento del cibo, sia, più specificamente, al livello di sviluppo economico.

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(*) La reciprocità consiste in scambi che non prevedono l’uso di denaro e spazia dal dono disinteressato allo scambio alla pari, alla truffa. La reciprocità può assumere 3 forme: RECIPROCITÀ GENERALIZZATA: quando vengono dati beni o servizi senza che ci si aspetti nulla in cambio. È alla base della famiglia. In tutte le società esiste una reciprocità generalizzata, ma alcune società, per la distribuzione di beni e di servizi, dipendono da questo tipo di reciprocità quasi totalmente. La distribuzione di selvaggina di grossa taglia è un chiaro esempio di reciprocità generalizzata ed è molto comune tra i raccoglitori. Per quanto la reciprocità generalizzata possa sembrare altruistica o disinteressata, si è ipotizzato che il donare possa costituire in realtà un beneficio per il donatore sotto molti punti di vista. I genitori che aiutano i proprio figli, per esempio, non solo perpetuano i proprio geni (la qual cosa rappresenta il massimo beneficio genetico), ma possono anche presumibilmente contare su di loro quando saranno vecchi. L’esistenza della generosità nel rapporto tra genitori e figli è facilmente comprensibile, mentre spiegare la generosità che si estende al di fuori della famiglia costituisce un problema. La condivisione al di fuori della sfera familiare è più frequente laddove le fonti di cibo e di acqua non sono disponibili costantemente. L’idea che l’imprevedibilità favorisca la condivisione può spiegare anche perché alcuni cibi siano più condivisi di altri. La selvaggina, per esempio, è di solito imprevedibile: quando gli uomini partono per la caccia non possono essere certi di ritornare con la preda. Viceversa quando ci si dedica alla raccolta di piante selvatiche si può essere certi di fare ritorno con qualche pianta commestibile. Sembra, in ogni caso, che i raccoglitori si spartiscano molto di più la selvaggina che non le piante commestibili. La condivisione del cibo aumenta l’apporto alimentare del singolo. Si è concluso, infatti, che l’individuo medio riesce ad ottenere più cibo quando questo viene condiviso. Sebbene in alcune società dare le cose agli altri sia parte delle aspettative sociali, ciò non significa necessariamente che le persone lo facciano volentieri o che non vi sia una pressione sociale. La necessità di ridurre le tensioni e di evitare sentimenti di rabbia e di invidia, e il desiderio di mantenere relazioni sociali pacifiche (non solo all’interno della propria banda, ma anche in relazione alle altre), creano intrecci continui di obblighi e di amicizia. Tali intrecci vengono mantenuti, rinnovati o stabiliti attraverso la reciprocità generalizzata. In un certo senso si potrebbe dire che, in cambio del dono, l’individuo acquisisce prestigio o "credito sociale" di cui si avvarrà in un momento imprecisato nel futuro. La condivisione può essere frequente nei periodi di penuria non grave , perché in tal modo è possibile minimizzare i rischi. Ma quando giunge una grave carestia la reciprocità generalizzata può subire un arresto : nei momenti di grave crisi, quando si muore di fame, spesso la condivisione si limita ai soli familiari. I ricercatori si trovano di solito in difficoltà quando si tratta di spiegare la condivisione di risorse perché pensano che, a parità di condizioni, gli individui tendano ad essere egoisti. La maggior parte delle concezioni che riguardano la condivisione ha presupposto che essa, in effetti, è in certe circostanze vantaggiosa per gli individui. È in quelle circostanze che le società hanno trovato un modo per rendere la condivisione un fattore morale o per far sentire coloro che non condividono le risorse estremamente a disagio. Alcuni dati recenti, tuttavia, suggeriscono che la cooperazione può far sorgere uno stato di piacere. Se queste scoperte saranno confermate in altre circostanze e presso altre popolazioni, la cooperazione potrebbe rivelarsi più "naturale" di quanto non si pensi di solito. RECIPROCITÀ BILANCIATA: quando ci si aspetta esplicitamente un contraccambio in tempi brevi. Include sia gli scambi immediati di beni e di servizi, sia gli scambi non immediati, in cui però vi è un accordo sui tempi. Alcune società acquisiscono beni attraverso una reciprocità bilanciata, ma questi scambi non sono fondamentali per lo loro economia. Altre società, invece, dipendono molto di più dalla reciprocità bilanciata. Abbiamo visto, per esempio, come i pastori raramente siano autosufficienti: essi devono vendere i loro prodotti agli agricoltori per ottenere in cambio cereali e altro. Dire che uno scambio è bilanciato non significa affermare che le cose scambiate abbiano un valore identico, oppure che lo scambio sia puramente economico. In assenza di un’economia monetaria non vi sono standard espliciti per mezzo dei quali si possa giudicare il valore, non vi è modo di assegnare un determinato valore in modo oggettivo. Il punto è che nella reciprocità bilanciata le parti sono libere di scambiarsi beni e servizi come vogliono: non sono obbligate a farlo e quindi, presumibilmente, non ritengono che lo scambio sia sbilanciato. E il valore che viene attribuito ad una cosa può dipendere da ragioni tutt’altro che economiche. Lo scambio in se stesso può essere divertente, avventuroso, oppure può migliorare le relazioni sociali. Gli scambi possono avere motivazioni differenti e quindi differenti significati. Alcuni studiosi di antropologia economica preferiscono quindi operare una distinzione tra scambio di doni (gift) e scambio di merci (commody). Gli scambi di doni hanno carattere personale e implicano la creazione o la perpetuazione di relazioni sociali durature tra individui e tra gruppi. La scambio di merci, invece, in cui il denaro può anche essere assente, è

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centrato sugli oggetti e sui servizi che si ricevono, e quando la transazione è terminata, le relazioni tra le parti di solito hanno fine. La reciprocità bilanciata può includere tanto i beni quanto il lavoro. Chi effettua lavori collettivamente scambia prestazioni di lavoro. In altre società una prestazione lavorativa può essere contraccambiata attraverso un banchetto. Oltre a promettere di restituire la prestazione lavorativa in un dato momento, ciascun contadino ricompensa chi ha preso parte ai lavori più impegnativi con un banchetto accompagnato a volte dalla musica. In altre società il cibo fornito può avere un valore superiore a quello della prestazione lavorativa, e può non esserci il contraccambio di prestazione. Non sempre, quindi, dare cibo in cambio di lavoro rappresenta un caso di reciprocità bilanciata. A volte il confine tra reciprocità generalizzata e reciprocità bilanciata non è così chiaro. Consideriamo, per esempio, lo scambio di doni in occasione delle feste natalizie. Sebbene esso possa sembrare un caso di reciprocità generalizzata, vi sono in realtà forti aspettative di bilanciamento. 2 amici o 2 parenti si scambieranno doni di valore più o meno uguale, basandosi sul costo dei regali dell’anno precedente. RECIPROCITÀ NEGATIVA: prendere qualcosa senza dare in cambio un compenso significa approfittare di un altro. Una forma meno grave di reciprocità negativa è rappresentata dagli affari disonesti; forme estreme sono i furti e altri tipi di sottrazione di beni.L’ipotesi di Sahlins è che il tipo di reciprocità dipenda soprattutto dalla distanza parentale tra le persone: generalizzata: sarebbe la regola tra i membri di una stessa famiglia e anche tra i parenti stretti bilanciata: può essere praticata tra uguali che però non sono strettamente imparentati negativa: è possibile che venga praticata nei confronti degli stranieri e dei nemiciIn generale l’importanza della reciprocità diminuisce con lo sviluppo economico: nelle società ad agricoltura intensiva, e ancora più nelle società industriali, la reciprocità distribuisce solo una parte esigua di beni e di servizi. Non sempre la reciprocità si limita a rendere equa la distribuzione dei beni all’interno di una comunità; è possibile che essa renda equa la distribuzione di beni anche tra diverse comunità. In alcune società, ad esempio, vi è l’usanza di allestire dei grandiosi banchetti a base di maiale che, all’apparenza possono sembrare rovinosi, ma in realtà fanno parte di un complesso di pratiche culturali molto vantaggiose. Quando, infatti, la popolazione suina cresce fino a raggiungere proporzioni minacciose (per gli appezzamenti coltivati), un villaggio ne invita altri e allestisce un gigantesco banchetto. Ciò avrà come conseguenza una marcata riduzione del numero di maiali e l’eliminazione del problema della devastazione degli orti. A lungo termine queste feste servono a far sì che, tra tutti i villaggi che vi partecipano, il consumo di cibo, e soprattutto il consumo di proteine, sia distribuito equamente. I banchetti a base di maiale, quindi, rappresentano un modo per "depositare" il cibo in eccedenza immagazzinando "credito sociale" nei confronti di altri villaggi, che dovranno poi restituire il credito in feste successive. Gli organizzatori di banchetti dei diversi villaggi cercano di rafforzare il proprio prestigio e di rialzare il proprio status proprio attraverso questi banchetti. La reputazione si accresce non quando si accumula ricchezza, bensì quando la si distribuisce. Queste feste possono essere considerate scambi reciproci tra comunità o tra villaggi. Tali scambi, però, non sono la versione allargata dello scambio di doni tra individui. Essi infatti comportano anche un altro tipo di distribuzione che gli antropologi definiscono redistribuzione.

XI.I. La redistribuzione(§).La redistribuzione è l’accumulazione di beni (o di lavoro) realizzata da un individuo, o in un luogo specifico, al fine di una successiva distribuzione. Sebbene la redistribuzione sia presente in tutte le società, essa rappresenta un fenomeno significativo soltanto nelle società in cui vi siano gerarchie politiche. In tutte le società vi è una qualche forma di redistribuzione, almeno a livello familiare. I membri di una famiglia mettono in comune il loro lavoro, i prodotti o i redditi per il bene comune. In molte società, però, al di là dell’ambito familiare non avviene alcuna redistribuzione. Sembra che la redistribuzione su base territoriale emerga laddove è presente un apparato politico che coordina la raccolta e la distribuzione o che è in grado di mobilitare la forza lavoro per scopi comuni. È chiaro, tuttavia, che in alcune società la maggior parte di ciò che il re redistribuisce non ritorna alla gente comune, che produce la parte consistente dei beni, e viene invece assegnata ai singoli e ai gruppi in base alla posizione da loro occupata nella gerarchia dello stato. Altri tipi di redistribuzione sono più egualitari. In generale, laddove la redistribuzione è importante (in società con elevati livelli di produttività), è probabile che siano i ricchi a trarre da essa i maggiori vantaggi. Elman Service ha ipotizzato che i sistemi di redistribuzione si siano sviluppati in società agricole in cui vi erano

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regioni con differenti risorse naturali oppure zone adatte a differenti tipi di coltivazioni. I raccoglitori potevano trarre vantaggio dalle diversità ambientali spostandosi sul territorio. Con l’avvento dell’agricoltura questo divenne sempre più difficile, e forse risultò più opportuno dislocare i prodotti in base alle zone. Se la domanda per le risorse o per altri beni cresce troppo, la reciprocità individuale può divenire inopportuna, ed è molto più vantaggioso che vi sia qualcuno (es: un capo) che coordini gli scambi. Anche secondo Marvin Harris è corretto mettere in relazione la redistribuzione e l’agricoltura, ma per un’altra ragione. La competizione è adattiva in quanto incoraggia a lavorare molto per produrre più del necessario. Le società agricole devono effettivamente far sì che questo accada, così da difendersi dalle crisi. I gruppi che organizzano le feste si assicurano indirettamente contro i periodi di crisi acquisendo credito sociale nei confronti di gruppi di altri villaggi, che a loro volta terranno feste per loro al fine di ricompensarli. D’altronde per i raccoglitori potrebbe rappresentare uno svantaggio essere indotti a sottrarre alla natura più dello stretto necessario, perché ciò potrebbe comportare, a lungo termine, dei gravi problemi.

XII. Gli scambi commerciali (#).Quando parlano di mercato o di scambi commerciali gli economisti e gli antropologi fanno riferimento a transazioni in cui i "prezzi" sono soggetti a domanda e a offerta, indipendentemente dal fatto che la transazione avvenga in un luogo di mercato. All’apparenza molti scambi commerciali sembrano rientrare nella reciprocità bilanciata; ma è facile distinguere gli scambi commerciali qualora sia presente il denaro, in quanto, per definizione, la reciprocità bilanciata lo esclude. Ma non sempre negli scambi commerciali è coinvolto il denaro. Prendiamo il caso di un proprietario terriero che affitta un appezzamento in cambio di una parte del raccolto. Per poter definire scambio commerciale una transazione come questa dobbiamo domandarci se sono state la domanda e l’offerta a determinare il prezzo del bene scambiato. Se il coltivatore dà al proprietario solo un dono simbolico, allora non possiamo parlare di scambio commerciale. Se però i coltivatori devono fornire una notevole parte del loro raccolto quando l’offerta di terra è molto ridotta, o anche se il proprietario abbassa le richieste quando sono pochi coloro che intendono affittare la terra, allora saremo in presenza di una transazione commerciale. Sebbene gli scambi commerciali non includano necessariamente il denaro, la maggior parte di essi, soprattutto oggigiorno, ne fa uso. Alcuni antropologi definiscono il denaro in base alle funzioni e alle caratteristiche che esso assume nella nostra e in altre società complesse, nelle quali quasi tutti i beni, le risorse e i servizi possono essere acquistati (in tal senso il denaro è pluriuso). Secondo tale definizione il denaro svolge la funzione di un mezzo di scambio, è uno standard di valore, una riserva di ricchezza. In quanto mezzo di scambio esso permette di valutare in modo oggettivo tutti i beni e i servizi. Inoltre il denaro non è deperibile, ed è quindi possibile metterlo da parte; è trasportabile e divisibile, e quindi le transazioni possono riguardare la vendita o l’acquisto di beni o di servizi che hanno prezzi diversi. È importante sottolineare che il denaro non ha alcun valore intrinseco (o ne ha pochissimo): è la società che determina il suo valore. Attualmente in gran parte dei paesi più sviluppati, per esempio, assegni e carte di credito vengono accettati come denaro. Il denaro pluriuso viene impiegato sia nelle transazioni commerciali (acquisto e vendita), sia nelle transazioni non commerciali (pagamento di tasse o di ammende, doni personali, contributi in beneficenza). In molte società il denaro non è un mezzo universale di scambio. Molte popolazioni, in cui la produzione di cibo pro capite non è sufficiente a sostenere un numero consistente di non produttori, hanno un tipo di denaro che potremmo definire per usi specifici. Si tratta di oggetti di valore che possono essere scambiati (immediatamente o attraverso una reciprocità bilanciata) soltanto con alcuni beni e alcuni servizi. Vi è una notevole variabilità nel grado di dipendenza di una società dagli scambi commerciali. Ancora oggi molte società distribuiscono la terra senza per questo venderla, e distribuiscono cibo e altri beni soprattutto attraverso la reciprocità e la redistribuzione, restando ai margini dell’economia di mercato. Si tratta di società in transizione: le loro economie di sussistenza si sono avviate gradualmente al commercio. Quando parlano di economia agricola gli antropologi intendono un’economia leggermente commerciale. Sebbene gli agricoltori producano in gran parte per il proprio consumo, essi vendono regolarmente parte del loro surplus (cibo, altri beni, o lavoro) ad altri, e la terra è uno dei beni che comprano, affittano e vendono. Tali agricoltori, però, non sono come quelli delle società industrializzate, che si affidano al mercato per scambiare tutti o quasi tutti i loro prodotti con tutti o quasi tutti i beni e i servizi di cui necessitano. Nelle società come la nostra gli scambi commerciali dominano completamente l’economia: i prezzi e i salari sono regolati, o almeno

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influenzati in modo significativo, dalla domanda e dall’offerta. Una moderna economia industriale o post-industriale include anche i mercati internazionali, su cui ogni cosa ha un prezzo (le risorse naturali, i beni, i servizi, il prestigio) la reciprocità è limitata ai rapporti con i membri della famiglia e con gli amici la redistribuzione, però, è ancora un meccanismo importante; essa si esplica nella tassazione e nell’impiego delle entrate pubbliche per favorire le famiglie a basso reddito (attraverso l’assistenza sociale, quella sanitaria, ..) lo scambio commerciale resta comunque il canale principale attraverso cui vengono distribuiti beni e serviziMolti antropologi non credono che l’origine del denaro, o del mercato, sia legata alle necessità del commercio, e la pensano piuttosto connessa ai vari tipi di "pagamento" non commerciale (come le tasse che devono essere versate alle autorità politiche). La maggior parte delle teorie relative all’origine del denaro e del mercato presuppone che i produttori abbiano regolarmente un surplus che desiderano scambiare. Il surplus viene prodotto forse perché, quando coloro che forniscono i beni sono poco conosciuti, è più difficile instaurare con loro rapporti basati sulla reciprocità. Altri ipotizzano che il mercato abbia inizio con gli scambi esterni (intersocietari): non essendo coinvolti gruppi parentali, le transazioni possono comportare un guadagno. Infine,altri ancora ritengono che, man mano che aumentano la complessità e la densità demografica, i legami sociali tra gli individui divengano meno amichevoli e quindi la reciprocità sia sempre più improbabile.Nelle società che dipendono soprattutto dal mercato vi sono tendenzialmente notevoli differenze di ricchezza tra gli individui. Possono esservi, però, dei meccanismi che attenuano l’ineguaglianza, che agiscono cioè, almeno in parte, come strumenti di livellamento. Alcuni antropologi hanno ipotizzato che la fiesta nelle comunità indiane dell’America Latina possa rappresentarne un esempio. Nei villaggi agricoli ogni anno si celebrano le feste per i santi più importanti. Ciò che più colpisce in questi frangenti è l’enorme ammontare di spese e di lavoro che la famiglia che promuove la festa deve sostenere. Alcuni antropologi hanno però suggerito che, sebbene gli indiani più ricchi che promuovono le feste distribuiscano ricchezza ai membri più poveri della proprie e di altre comunità, in realtà la fiesta non rappresenti uno strumento di livellamento della ricchezza . Innanzi tutto un livellamento reale comporterebbe la redistribuzione di importanti risorse produttive come la terra o gli animali. In secondo luogo le risorse impiegate dal promotore sono in genere risorse extra, che sono state accumulate specificamente per la fiesta, in quando i promotori vengono sempre designati in anticipo. Infine le feste non sembrano affatto aver ridotto, a lungo termine, le distinzioni di ricchezza all’interno dei villaggi.

6. LA STRATIFICAZIONE SOCIALE.

Molti sociologi sostengono che tutte le società sono stratificate; gli antropologi non sono d’accordo. Ma il disaccordo deriva in realtà da un problema definitorio, in quanto sociologi e antropologi, quando parlano di stratificazione, non intendono la stessa cosa. I sociologi, riferendosi alla "universalità della stratificazione", intendono dire che in tutte le società vi sono delle disuguaglianze tra un individuo e un altro, per età, genere, status, .. Quando gli antropologi sostengono che la stratificazione non è universale e che le società egualitarie esistono, essi intendono affermare che vi sono società in cui tutti i gruppi sociali (per esempio le famiglie) hanno più o meno lo stesso diritto di accedere a determinati privilegi. In questa sede non dobbiamo stabilire se hanno ragione i sociologi o gli antropologi: entrambe le definizioni in realtà sono corrette. Per gli antropologi, dunque, la disuguaglianza tra gli uomini può essere universale, mentre la stratificazione sociale non lo è. Vi è uno strettissimo legame tra i sistemi di stratificazione sociale e le modalità con cui vengono assegnate, distribuite e convertite le risorse economiche. Laddove tutti hanno più o meno lo stesso accesso alle risorse economiche, per esempio, non ci aspetteremmo di riscontrare effettiva disuguaglianza. La stratificazione, però, non può essere compresa esclusivamente sulla base delle risorse economiche; è possibile infatti che vi siano altri privilegi (come il prestigio o il potere) che sono distribuiti in modo disuguale.

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I. La disuguaglianza.In questo capitolo intendiamo esaminare le differenze che possono esservi nell’accesso alla ricchezza o alle risorse economiche, al potere e al prestigio. Come abbiamo già visto nel capitolo precedente, possiamo considerare come risorse sia i territori di caccia e di pesca, sia i poderi agricoli, sia il denaro: in una stessa società i diversi gruppi sociali accedono a queste risorse in modo uguale o in modo disuguale. Il potere è la capacità di influenzare i comportamenti altrui o costringere gli altri a fare ciò che non vogliono fare ottenendo obbedienza; esso può essere esercitato di diritto attraverso il consenso (rispetto e riconoscimento di una legittimità: tradizionale/religiosa, carismatica/individuale o legale/razionale o costituzionale) o con le minacce e con la forza (paura e sottomissione). Nelle società in cui vi sono leggi o consuetudini che determinano un accesso disuguale alle risorse o alla ricchezza, di norma si rileva anche un accesso disuguale al potere (es: una compagnia che dà lavoro alla maggior parte dei residenti di una città di solito esercita sui propri dipendenti un notevole controllo). Infine quando ad una persona o ad un gruppo viene tributato un particolare riguardo (a seconda dei valori dominanti) parliamo di attribuzione di prestigio; questo termine è passato da una originale connotazione magico-sacrale ad un significato intermedio incentrato sull’idea di artificio seduttore frutto non più di un intervento sovrannaturale, ma di una particolare abilità umana, per approdare infine all’accezione interamente mondana dell'attuale senso corrente. Anche se è vero che l’accesso individuale al prestigio non è mai uguale (a causa delle differenze di età, di genere e di capacità), dalle testimonianze etnografiche risulta che in alcune società i gruppi sociali hanno uguale accesso al prestigio. Convenzionalmente gli antropologi distinguono 3 tipi di società: società egualitarie tutti i gruppi sociali hanno uguale accesso alle risorse, al potere e al prestigio rank societies (società basate sul rango) non vi sono differenze nell’accesso alle risorse o al potere, ma esistono disuguaglianze per quanto riguarda il prestigio società divise in classi i gruppi accedono in modo disuguale sia alle risorse economiche, sia al potere, sia al prestigioVi sono però società che non appartengono ad alcuno di questi 3 tipi, e che sembrano piuttosto dei casi intermedi. La maggior parte delle società, comunque, viene fatta rientrare in una di queste categorie.

Stratificazione sociale e accesso alle risorse

alcuni gruppi godono di un accesso privilegiato a:tipologia risorse

economichepoter

eprestigi

osocietà egualitarie no no nosocietà basate sul rango no no sìsocietà divise in classi / società castali

sì sì sì

II. Le società egualitarie.È possibile trovare società egualitarie non solo tra i raccoglitori, ma anche tra gli orticoltori e i pastori. È importante non dimenticare che quando si afferma che una società è ugualitaria non si intende dire che in essa tutte le persone sono uguali. Vi saranno sempre tra gli individui differenze di età, di genere e di capacità specifiche o di caratteristiche particolari (es: la creatività, le doti fisiche, ..). Secondo Morton Fried il termine egualitaria si riferisce ad una società in cui "vi sono tante posizioni di prestigio quante sono le persone in grado di occuparle". In una società egualitaria, quindi, il numero di posizioni di prestigio è calibrato sul numero di candidati che presentano le caratteristiche necessarie. In tale società, dunque, non vi è stratificazione sociale. Esistono, ovviamente, delle differenze riguardo alle posizioni di prestigio che dipendono da differenze di capacità; esiste però la stessa possibilità di accesso ad un determinato status per coloro che hanno le stesse abilità. Possono anche esservi individui con maggiore autorità, ma l’autorità non è trasmissibile. Considerando lassi di tempo molto lunghi, nessun gruppo esercita più autorità di altri. Una società egualitaria, dunque, è quella che ammette solo livelli minimi di disuguaglianza. In essa le differenze di prestigio non derivano da differenze economiche. I gruppi egualitari si basano soprattutto sulla condivisione, che assicura un accesso alle risorse economiche che non dipende dal grado di prestigio. Come non esistono gruppi sociali che abbiano un accesso privilegiato alle risorse, altrettanto non si danno gruppi con accesso privilegiato al potere. Come vedremo in

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seguito, l’accesso disuguale al potere da parte dei gruppi sociali pare verificarsi esclusivamente nelle società statuali, caratterizzate da specialisti della politica e da marcate differenze economiche. Le società di raccoglitori in cui vige un esteso regime di condivisione delle risorse sono con maggiore facilità definite egualitarie, se le compariamo con alcune società di pastori dove il numero di capi posseduti dalle households (= famiglie) può variare considerevolmente. Dovremmo considerare egualitaria una società di pastori in cui la distribuzione degli animali è ineguale?? Questo è un punto controverso. Se la ricchezza in termini di bestiame è un fatto transitorio e non è associata ad un accesso differenziato al prestigio e al potere, allora qualche antropologo classificherebbe queste società come egualitarie. È semplice immaginare come una società egualitaria (con alcune differenze per quanto riguarda la ricchezza posseduta), in quanto opposta ad un’altra in cui queste differenze non esistono, potrebbe diventare una società basata sulle divisioni di rango e di classe. Tutto quello di cui ci sarebbe bisogno è un meccanismo che permetta di trattenere nel tempo una quantità maggiore di ricchezza presso alcune famiglie.

III. Le società basate sul rango.La maggior parte delle società basate sul rango pratica l’agricoltura o l’allevamento, ma non tutte le società agricole e pastorali appartengono a questa categoria. I gruppi sociali hanno accesso disuguale al prestigio o allo status, ma la differenza di accesso alle risorse economiche o al potere non è significativa. L’accesso disuguale al prestigio è ravvisabile nel fatto che al ruolo di capo possono accedere solo i membri di uno specifico gruppo. Il ruolo di capo è, almeno in parte, ereditario. I capi vengono trattati con deferenza dalle persone di rango inferiore. A volte i capi sono notevolmente più ricchi del resto della popolazione, poiché ricevono molti doni e hanno depositi molto forniti. Talvolta un capo può essere definito il "proprietario" della terra, ma in ogni caso gli altri avranno il diritto di utilizzarla. Il capo può possedere molte scorte, ma si tratta comunque di un’accumulazione temporanea, in attesa di una festa o di un altro tipo di distribuzione. Un capo di solito non può obbligare gli altri a portargli doni o a lavorare a progetti comuni: l’unico modo che ha il capo per incoraggiare la produzione è quello di lavorare accanitamente alle proprie coltivazioni.

IV. Le società divise in classi.Nelle società divise in classi è disuguale sia l’accesso al prestigio, sia quello alle risorse, sia quello al potere. Le società divise in classi variano dai sistemi a classi aperte(*) ai sistemi castali (§).

IV.I. Le classi aperte(*).Una classe è un raggruppamento di persone che hanno circa la stessa opportunità di ottenere risorse economiche, prestigio e potere. Classi diverse hanno opportunità diverse. Definiamo sistemi a classi aperte quei sistemi in cui vi è qualche possibilità di spostarsi da una classe ad un’altra. Alcuni studi hanno dimostrato che lo status sociale di una famiglia è in genere correlato all’occupazione e alla ricchezza del capofamiglia. I fattori che determinano lo status di una classe possono mutare nel corso del tempo; anche il grado di apertura delle classi può variare nel corso del tempo. Tra i paesi capitalisti il Canada e la Svezia conoscono una mobilità sociale maggiore rispetto agli Stati Uniti, alla Francia e alla Gran Bretagna. In Giappone e in Italia vi è meno mobilità. Se analizziamo la facilità di accesso alle classi più altre, in Italia, in Francia, in Spagna e in Germania le difficoltà sono maggiori che non in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il grado di mobilità sociale, tuttavia, non è l’equivalente del grado di disuguaglianza economica. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti, per esempio, non differiscono quanto al grado di mobilità, ma differiscono considerevolmente rispetto al livello di ricchezza dei ricchi e dei poveri. L’istruzione, soprattutto quella universitaria, è uno degli strumenti più efficaci per riuscire a risalire la scala sociale. In molti paesi i risultati scolastici sono un indicatore della classe sociale molto più di quanto non lo sia la professione dei genitori. Gli appartenenti alle classi più basse possono "risocializzarsi" all’università. La risocializzazione li distingue dai genitori e consente loro di apprendere gradualmente il modo di parlare, le capacità e gli atteggiamenti caratteristici della classe più alta di cui desiderano entrare a far parte. Le classi sociali differiscono per molti altri elementi, tra cui l’appartenenza religiosa, il grado di intimità parentale, le idee sull’educazione dei figli, le attività del tempo libero, e anche per il modo di parlare. Nei sistemi a classi aperte, sebbene lo status di un adulto non sia completamente determinato alla nascita, vi sono molte probabilità che la maggior parte delle persone resti all’interno della classe di nascita, e sempre nel suo ambito contragga matrimonio. I confini tra le classi vengono stabiliti dalle usanze e dalla tradizione, e talvolta sono rafforzati dalle leggi.

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Negli Stati Uniti molte leggi, per esempio, proteggono la proprietà, favorendo in tal modo le classi alte. I poveri paiono essere gli eterni sconfitti nel sistema legale statunitense. I crimini commessi di solito dai poveri vengono puniti severamente dal sistema giudiziario. I poveri, inoltre, non hanno il denaro necessario per pagare avvocati che li garantiscano a sufficienza. Le classi tendono a perpetuarsi attraverso la trasmissione della ricchezza.

IV.II. I sistemi castali.In alcune società esistono classi che sono virtualmente chiuse: tali classi vengono dette caste. Una casta è un gruppo al quale si appartiene per nascita, e in cui il matrimonio è prescritto all’interno. Poiché non è possibile sposarsi fuori dal gruppo, i figli non possono acquisire uno status differente rispetto a quello dei genitori. In India, per esempio, esistono migliaia di caste ereditarie. Sebbene la loro precisa gerarchizzazione non sia ancora del tutto chiara, sembrano esservi 4 principali livelli di gerarchia, con al vertice la casta dei brahmani. Si pensa spesso che in India le caste siano legate a specifiche professioni, ma questo non è del tutto vero. Il sistema delle classi e quello castale possono coesistere. Nell’India di oggi, in realtà, i membri di una casta inferiore, soprattutto in area urbana, possono migliorare la loro posizione sociale attraverso un lavoro salariato, alla stregua di ciò che avviene nelle società divise in classi. Di norma, però, resta impossibile il matrimonio con un membro di una casta superiore, e in tal modo il sistema castale si perpetua. Il sistema castale impone, soprattutto nelle aree rurali, il modo in cui vanno scambiati i beni e i servizi. Il sistema delle caste stabilisce in modo inequivocabile chi deve fare i lavori peggiori a favore degli altri membri della società: un vasto gruppo di intoccabili costituisce il gradino più basso della gerarchia castale. Tra gli intoccabili vi sono numerose sottocaste. Al vertice della gerarchia vi sono i sacerdoti, i brahmani. Nella realtà, il sistema castale in India funziona a vantaggio della casta dei proprietari terrieri (a volte i brahmani, a volte altre caste). Ciò d’altra parte non può non suscitare negli altri un certo risentimento: vi sono in effetti, da parte degli intoccabili e dei membri delle caste inferiori, dei segnali di ostilità nei confronti delle caste dominanti. Il risentimento però non si manifesta in un’avversione per il sistema castale in quanto tale. Le caste inferiori, piuttosto, mostrano amarezza per il proprio status e lottano per una maggiore uguaglianza. A partire dalla seconda guerra mondiale le basi economiche del sistema castale indiano sono state indebolite della consuetudine di offrire denaro in cambio di servizi. Il potere che detengono i membri delle caste superiori garantisce la perpetuazione del sistema castale. Questi gruppi traggono soprattutto, dalla loro posizione, vantaggi di ordine economico, di prestigio e anche vantaggi sessuali. Sebbene siano poche le aree del mondo che hanno sviluppato un sistema castale simile a quello indiano, anche in altre società è possibile rintracciare elementi che lo ricordano. Per i neri americani, per esempio, lo status sociale era determinato in parte dal colore della pelle. Fino a poco tempo fa in alcuni stati vi erano leggi che proibivano matrimoni tra bianchi e neri, e anche laddove questi erano consentiti, i figli di tali unioni erano considerati di status inferiore rispetto ai bambini bianchi. Negli stati del sud, ove i neri venivano palesemente trattati alla stregua di una casta, i bianchi si rifiutavano di mangiare insieme ai neri, o di sedersi vicino a loro in autobus o a scuola. Fontane separate per l’acqua potabile e servizi igienici distinti rafforzavano l’idea di un’impurità virtuale. I vantaggi di cui hanno goduto i bianchi in questa situazione sono a tutti ben noti. Negli ultimi anni negli Stati Uniti sono state abbattute molte delle tradizionali barriere tra i neri e i bianchi, ma molti problemi esistono ancora. Oggi vi sono dei neri in tutte le classi sociali, ma essi sono sottorappresentati nelle classi più ricche e sovrarappresentati in quelle più povere. I neri hanno un’aspettativa di vita inferiore a quella che hanno i bianchi. Anche i neri che oggi fanno parte di un’élite possono essere vittime di atteggiamenti razzisti. Spesso, per ottenere una promozione, un nero dev’essere migliore di un bianco, o è possibile, al contrario, che si dica che qualcuno ha fatto carriera solo perché è nero. I neri privilegiati lavoreranno con i bianchi, ma probabilmente risiederanno in quartieri neri, oppure sperimenteranno un grande senso di isolamento se abiteranno in quartieri bianchi. Negli Stati Uniti sono pochi i neri che non vivono con angoscia il problema del razzismo.

IV.III. La schiavitù.Gli schiavi sono individui che non sono proprietari del proprio lavoro, e in tal senso rappresentano una classe. La schiavitù è esistita in forme diverse in molte epoche e in molti luoghi. Nell’antica Grecia gli schiavi erano spesso nemici catturati. Poiché le città-stato erano costantemente in guerra tra loro o con nemici esterni, la schiavitù rappresentava una minaccia concreta per tutti. Gli schiavi greci potevano acquisire uno status sociale piuttosto elevato,

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insieme alla libertà. Sebbene gli schiavi non avessero diritti, una volta riacquistata la libertà (per concessione del padrone o per denaro) sia loro sia i discendenti potevano venire assimilati al gruppo dominante. La schiavitù non era vista, quindi, come la conseguenza di una presunta inferiorità, bensì come un’azione del fato che relegava la vittima al gradino più basso della scala sociale. Tra i nupe della Nigeria centrale la schiavitù assumeva contorni diversi. I mezzi per rifornirsi di schiavi (ottenerli come bottino di guerra o acquistarli) erano simili a quelli europei, ma la posizione degli schiavi era molto differente. I maltrattamenti erano rari. Agli schiavi maschi erano offerte le stesse opportunità di guadagno che avevano gli altri dipendenti maschi della household (i fratelli giovani del padrone, i suoi figli e altri parenti). Uno schiavo poteva ricevere un appezzamento di terreno da coltivare in proprio, o una provvigione se il suo padrone era un artigiano o un commerciante. Gli schiavi potevano acquisire proprietà, ricchezza e anche altri schiavi. Ma tutti i beni dello schiavo, quando questi moriva, andavano al padrone. Il sistema nupe contemplava l’emancipazione, o concessione della libertà. Se uno schiavo riusciva ad affrontare le spese per contrarre un matrimonio con una donna libera, i figli nati da questa unione erano liberi; il marito, però, rimaneva uno schiavo. Il matrimonio e il concubinaggio erano i mezzi più semplici che una schiava aveva per uscire dalla sua condizione. Nel momento in cui ella dava un figlio al padrone, sia lei sia il bambino erano liberi. La donna, tuttavia, era libera solo simbolicamente: se era una concubina doveva comunque rimanere tale. Tra i nupe gli schiavi più fortunati erano quelli di famiglia. Essi, in qualità di sovrintendenti, potevano raggiungere all’interno della household posizioni di notevole prestigio. Alcuni schiavi nupe (riuniti nell’Ordine degli schiavi di corte) erano funzionari di fiducia del re e in quanto tali membri di un’élite. In generale, comunque, la condizione di schiavo poneva l’individuo al livello più basso della scala sociale. Negli Stati Uniti la schiavitù nacque come mezzo per ottenere manodopera a basso costo, ma ben presto si giunse ad affermare che gli schiavi meritavano il posto che occupavano nella scala sociale a causa della loro intrinseca inferiorità. Gli schiavi non potevano sposarsi né potevano avere delle proprietà. Anche i loro figli erano schiavi, e il padrone aveva dei diritti sessuali sulle schiave. Poiché negli Stati Uniti lo status di schiavo era determinato dalla nascita, gli schiavi costituivano una casta. All’epoca della schiavitù, dunque, negli Stati Uniti vi erano sia le classi sia le caste, e anche dopo l’abolizione della schiavitù alcune componenti del sistema castale si sono conservate.Gli studi transculturali non sono ancora pervenuti ad alcuna conclusione riguardo all’origine della schiavitù. Ciò che sappiamo con certezza, tuttavia, è che la schiavitù non rappresenta (contrariamente a ciò che alcuni autori hanno ipotizzato) una tappa inevitabile dello sviluppo economico. La schiavitù non è peculiare di certi sistemi economici, come, per esempio, quelli basati sull’agricoltura intensiva. Inoltre l’ipotesi secondo la quale la schiavitù si svilupperebbe laddove vi siano molte risorse e poca manodopera non è suffragata da prove. Ciò che possiamo affermare con sicurezza è che la schiavitù è assente nelle economie industriali.

V. Le cause della stratificazione sociale.È difficile per gli antropologi stabilire perché si sia sviluppata la stratificazione sociale. È possibile comunque affermare con ragionevole certezza che l’insorgere dei livelli più complessi di stratificazione sociale rappresenta un fenomeno piuttosto recente nella storia delle società umane. In epoche precedenti al 5.500 a.C., infatti, non si riscontrano prove dell’esistenza di disuguaglianza sociale. Tutte le abitazioni si assomigliavano, e lo stesso valeva per le tombe; ciò fa supporre che tutti venissero trattati più o meno nello stesso modo, sia in vita, sia dopo la morte. L’ipotesi che la stratificazione sociale si sia sviluppata piuttosto tardi nella storia è confermata dalla constatazione che anche alcuni elementi culturali ad essa associati sono comparsi solo in tempi relativamente recenti: nella maggior parte delle società che dipendono soprattutto dall’agricoltura o dall’allevamento, per esempio, esistono le classi sociali; ma l’agricoltura e l’allevamento si sono sviluppati solo negli ultimi 10.000 anni, e quindi possiamo supporre che la maggior parte dei raccoglitori del passato non avesse classi sociali altri elementi culturali ad essa associati, e comparsi solo in tempi relativamente recenti, sono la presenza di insediamenti stabili, un tipo di integrazione politica che va al di là dell’ambito della singola comunità, l’impiego del denaro come mezzo di scambio, l’esistenza di alcuni specialisti a tempo pienoIl sociologo Gerhard Lenski ha mostrato come la tendenza riscontrata negli ultimi 10.000 anni ad uno sviluppo della disuguaglianza stia subendo un’inversione di

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rotta. Nelle società industrializzate le differenze di potere e di privilegi sono meno pronunciate di quanto non accada nelle società preindustriali complesse. Nelle società industriali la tecnologia è talmente sofisticata che i detentori del potere sono costretti a delegare parte dell’autorità ai subordinati se vogliono che il sistema funzioni. Il declino del tasso di natalità e la necessità di manodopera specializzata, inoltre, hanno portato il salario medio ben al di là del livello di sussistenza, accrescendo l’uniformità dei redditi. Lenski ha anche ipotizzato che il diffondersi dell’ideologia democratica, e soprattutto la sua accettazione da parte delle élite, abbiano ampliato significativamente il potere politico delle classi meno abbienti. Alcuni studi hanno messo alla prova e poi confermato le ipotesi di Lenski. In generale le nazioni più industrializzate presentano un livello di disuguaglianza inferiore rispetto a quello che contraddistingue le società solo parzialmente industrializzate. Però, come abbiamo visto, anche nelle società più industrializzate può annidarsi un’enorme disuguaglianza. Quali sono le cause dello sviluppo della stratificazione sociale?? Marshall Sahlins aveva inizialmente ipotizzato che fosse l’incremento della produzione agricola a portare alla stratificazione sociale. Secondo l’autore il grado di stratificazione sociale era strettamente correlato alla produzione di un surplus, produzione che era resa possibile da un miglioramento delle tecnologie produttive. Ad un innalzamento dei livelli di produttività e ad un aumento del surplus agricolo corrisponderebbe necessariamente una crescita della complessità del sistema distributivo. A sua volta ciò innalzerebbe lo status di capo, intenso come protagonista della distribuzione. La differenziazione tra il redistributore e i produttori avrebbe poi dato vita ad ulteriori differenziazioni in altri aspetti della vita. In seguito l’autore rivide la sua tesi secondo la quale un aumento del surplus avrebbe portato all’emergere di ruoli di potere. Egli ipotizzò che la correlazione tra i 2 fenomeni potesse essere spiegata altrimenti: i capi avrebbero infatti incoraggiato la produzione di surplus così da poter disporre di beni da utilizzare in banchetti e in altre occasioni redistributive. Naturalmente entrambe le ipotesi sono ammissibili: è possibile che sia il surplus a generare la stratificazione sociale, oppure, viceversa, che sia la stratificazione sociale a generare il surplus. La teoria di Lenski sull’origine della stratificazione sociale è simile alla prima ipotesi avanzata da Sahlins. Anche secondo questo autore la produzione di un surplus stimolerebbe lo sviluppo della stratificazione sociale. Questo autore, però, si interessò soprattutto al conflitto che sorge riguardo al controllo del surplus. Per Lenski è la distribuzione del surplus a determinare le basi del potere. La disuguaglianza di potere promuove un accesso disuguale alle risorse economiche, e contemporaneamente causa la disparità riguardo ai privilegi e al prestigio.La "teoria del surplus" di Sahlins e di Lenski in realtà non risolve la questione del perché i distributori o i leader vogliano, o siano in grado, di acquisire un maggiore controllo delle risorse. Dopotutto in molte società basate sul rango i redistributori o i leader non sono più ricchi degli altri, e le consuetudini tendono a mantenerli in questa condizione. Una possibile spiegazione è che, nel momento in cui cominciano a fare "investimenti" più stabili nella terra o in prodotti tecnologici, gli individui siano più disponibili a tollerare un aumento dell’autorità del leader in cambio di protezione. Un’altra ipotesi è che l’accesso alle risorse economiche si differenzi solo nel caso in cui, nelle società basate sul rango, vi sia una pressione demografica sulle risorse. Tale pressione potrebbe indurre i redistributori a conservare per se stessi e per le proprie famiglie una quantità maggiore di terra e di altre risorse.Le future ricerche di archeologi, sociali, storici e antropologi permetteranno di comprendere meglio l’emergere della stratificazione sociale nelle società umane e le ragioni della sua variabilità.

7. SESSO, GENERE E CULTURA.

Il genere umano comprende individui di genere maschile e individui di sesso femminile, e questa è una caratteristica comune alla maggior parte delle specie animali. La differenza che esiste tra organi riproduttivi maschili e femminili non spiega, tuttavia, la presenza di altre diversità di ordine fisico che distinguono l’uomo dalla donna. Inoltre il fatto che la riproduzione umana avvenga per via sessuale non giustifica le differenze di comportamento imposte ai maschi e alle femmine, o il diverso trattamento riservato loro nella società. Eppure non esiste società nota che tratti i 2 sessi nello stesso modo; generalmente, infatti, è la donna che, rispetto all’uomo, gode di minori vantaggi. Per questa ragione nel capitolo precedente si è precisato che le società egualitarie non presentano disuguaglianza tra gruppi sociali rispetto all’accesso alle risorse, al potere e al prestigio. Tuttavia all’interno dei gruppi

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(es: le famiglie) anche le società egualitarie concedono agli individui di sesso maschile più vantaggi. Poiché molte differenze tra maschi e femmine riflettono aspettative ed esperienze culturali, molti ricercatori preferiscono parlare di "differenze di genere", riservando il termine "differenze sessuali" alle caratteristiche strettamente biologiche. Purtroppo non sempre le influenze culturali sono facilmente separabili da quelle biologiche, cosicché talvolta la scelta del termine adeguato è ardua. Sebbene in questo capitolo l’argomento trattato sia quello delle differenze e delle somiglianze tra maschi e femmine, è importante tenere presente che non tutte le società concepiscono soltanto 2 categorie di genere. In alcuni casi "maschio" e "femmina" sono i 2 termini opposti di un continuum, in altri casi vi possono essere 3 o più categorie di genere (es: maschio, femmina e altro).

I. Differenze sessuali e di genere.Gli individui della nostra specie presentano un dimorfismo sessuale (= i maschi e le femmine mostrano evidenti differenze di corporatura e di aspetto). Nelle donne la zona pelvica è proporzionalmente più larga, mentre gli uomini sono generalmente più alti e hanno lo scheletro più massiccio. In rapporto al peso corporeo nelle femmine è superiore la quantità di grasso, mentre nei maschi è maggiore la massa muscolare. Caratteristiche tipicamente maschili sono, inoltre, una maggiore forza nella presa, cuore e polmoni proporzionalmente più grandi, e una più accentuata capacità di sforzo aerobico. Nella nostra società vi è la tendenza ad apprezzare maggiormente le persone "più alte" e "più muscolose", e ciò riflette alcuni pregiudizi tipici della nostra cultura in favore degli uomini. La selezione naturale può aver favorito alcuni tratti negli individui di sesso maschile, ed altri in quelli di sesso femminile. Poiché le donne hanno la facoltà di procreare, è probabile che la selezione naturale abbia anticipato la fine della crescita femminile (fenomeno che ha inciso sulla riduzione dell’altezza massima), in modo da evitare che i bisogni nutrizionali del feto fossero in competizione con i bisogni di una madre ancora in fase di sviluppo. È provato, inoltre, che le femmine soffrono meno rispetto ai maschi se sottoposte a restrizioni alimentari, presumibilmente perché esse sono in media più basse e hanno riserve di grasso proporzionalmente maggiori. Nell’ambito della fisiologia maschile o femminile, dunque, le caratteristiche osservabili possono essere sia determinate dalla cultura, sia legate alle differenze genetiche.

II. Ruoli legati al genere.Tutte le società ripartiscono il lavoro in modo differente tra l’uomo e la donna. Poiché l’assegnazione di ruoli ha una componente chiaramente culturale, possiamo parlare di ruoli legati al genere. Ciò che in questa sede risulta interessante a proposito della divisione del lavoro rispetto al genere non è tanto il fatto che ogni società faccia distinzioni tra occupazioni maschili e femminili, quanto che un numero enorme di società divida il lavoro allo stesso modo. Quali sono, dunque, le ragioni dell’esistenza di modelli universali o quasi universali nell’assegnazione dei ruoli?? Una spiegazione possibile della divisione del lavoro tra uomini e donne a livello transculturale ci viene offerta da quella che potremmo definire la teoria della forza fisica. La superiorità maschile quanto a potenza fisica e a capacità di convogliare forza in rapidi scatti di energia è stata comunemente riconosciuta come la causa determinante dei modelli universali o quasi universali della divisione del lavoro per genere. È certo che gli uomini generalmente svolgono meglio attività che richiedono il sollevamento di oggetti pesanti, l’impiego di armi da lancio e la corsa su lunghe distanze. Nessuna delle attività svolte abitualmente dalle donne richiede, infatti, altrettanta forza fisica o lo stesso rapido consumo di energia, eccezion fatta per la raccolta della legna. La teoria della forza fisica non è, tuttavia, del tutto convincente, se non altro perché non si spiega la totalità dei modelli osservabili. Non è chiaro, infatti, quale sforzo fisico debba essere prodotto per installare trappole per piccoli animali, per raccogliere il miele selvatico o per fabbricare strumenti musicali, attività che, in alcuni casi, sono riservate agli uomini. Un’altra spiegazione possibile è data da quella che si può definire la teoria della compatibilità con la cura dei figli, che si fonda sul principio della necessità di rendere compatibili le mansioni femminili e la cura dei figli. Sebbene anche i maschi siano in grado di allevare i bambini, gran parte delle società tradizionali si affida al sistema dell’allattamento al seno, che esclude automaticamente l’intervento degli uomini. È necessario quindi che le incombenze femminili non trattengano le donne lontano da casa per lunghi periodi, né mettano in pericolo i bambini se questi accompagnano le madri. Esse devono, inoltre, poter essere interrotte e riprese nel caso in cui i bambini piccoli necessitino di cure. La teoria della compatibilità spiegherebbe anche come mai nelle società basate sulle specializzazioni a tempo

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pieno alcuni mestieri artigianali vengano svolti dagli uomini. Esiste una distinzione tra le società non commerciali (in cui le attività artigianali come la fabbricazione di ceste, di stuoie e di terrecotte sono eseguite dalle donne) e le società che hanno specialisti a tempo pieno (in cui tali mestieri tendono ad essere maschili). Relativamente alla nostra società è particolarmente calzante l’esempio della cucina. Per quanto vi siano cuoche raffinate, gli chef e i fornai di solito sono uomini, anche se in casa sono le donne che, per tradizione, si occupano della preparazione del cibo. È probabile, tuttavia, che le donne avrebbero maggiori possibilità di diventare cuoche o chef se potessero lasciare i figli piccoli e grandi in un luogo sicuro in cui i bambini venissero accuditi. La teoria della compatibilità non spiega, tuttavia, perché siano gli uomini a preparare il terreno per le coltivazioni, a fabbricare oggetti (come gli strumenti musicali). Tutte queste mansioni possono venire interrotte per seguire i piccoli e non sono più pericolose dell’attività in cucina. La teoria dell’economia di sforzo aiuta a giustificare l’esistenza di modelli che le teoria delle forza e della compatibilità non riescono a spiegare. Può risultare vantaggioso, per esempio, che siano gli uomini a fabbricare gli strumenti musicali, nel caso in cui essi si occupino della raccolta del materiale pesante di cui questi oggetti sono fatti (es: con il disboscamento). Poiché raccoglie questi materiali, presumibilmente l’uomo conosce meglio le loro caratteristiche ed è quindi più facile che sappia come lavorarli. Una quarta spiegazione è data dalla teoria della sacrificabilità, secondo cui sono tendenzialmente gli uomini a svolgere lavori pericolosi nella società, in quanto essi sono più sacrificabili (la perdita di un maschio ha infatti minori conseguenze dal punto di vista riproduttivo).Per quanto queste differenti teorie, prese singolarmente o combinate fra loro, spieghino gran parte della divisione del lavoro rispetto ai generi, rimangono tuttavia alcuni problemi irrisolti: chi critica la teoria della forza fisica mette in risalto come in alcune società le donne svolgano in realtà mansioni molto faticose. Se in determinate società le donne sono in grado di sviluppare una potenza fisica sufficiente per svolgere simili attività, allora probabilmente la forza dipende più dall’esercizio di quanto non si sia abituati a pensare anche la teoria della compatibilità presenta alcune difficoltà . Le donne che dedicano molto tempo al lavoro nei campi lontano da casa, per esempio, delegano ad altri la cura e il nutrimento dei propri piccoli durante il tempo in cui esse non possono accudirli. In alcune società, inoltre, le donne si dedicano alla caccia, una delle attività più incompatibili con la cura dei figli. La caccia femminile, quindi, non sembra essere incompatibile con la cura dei bambini: non solo le donne portano con sé i lattanti durante le battute di caccia, ma le capacità riproduttive delle cacciatrici non sono inferiori a quelle delle altre donne. È chiaro, però, che queste cacciatrici-donne sono agevolate dal fatto che i luoghi di caccia si trovano solo ad una mezz’ora dal campo, e dal fatto che esse sono accompagnate dai cani che le assistono e proteggono loro e i bambini durante la battuta. L’attività inoltre si svolge generalmente in gruppo, e questo facilita il trasporto dei bambini e delle carcasse degli animali.Come ci suggeriscono i casi descritti, è necessario approfondire molto le nostre conoscenze in merito al fabbisogno di forza lavoro. Più precisamente in merito a determinati compiti dobbiamo sapere esattamente la quantità di forza necessaria per svolgerli, il loro grado di pericolosità e la possibilità di interromperli per dedicarsi alla cura dei figli. È comunque opportuno notare che nessuna di queste teoria implica l’immutabilità nel tempo dei modelli di divisione del lavoro. L’osservazione della nostra e di altre società industriali ci mostra infatti che la rigida divisione del lavoro secondo il genere comincia a scomparire laddove le macchine sostituiscono la forza umana e laddove le donne hanno meno bambini e ne affidano le cure a terzi. Nella nostra società esiste uno stereotipo che attribuisce al marito il compito di provvedere al sostentamento della famiglia, e alla moglie la responsabilità della casa e della cura dei figli. Questo, come sappiamo, è sempre più un mito che una realtà. Non solo, infatti, molte donne oggi sono madri single, ma un gran numero di mogli lavora fuori casa. Nella nostra società la persona che provvede al sostentamento è colui (tradizionalmente l’uomo) che "procura il pane" (sia che si tratti di cibo che di denaro per comprare il cibo). Concentrando l’attenzione su questa persona e su questa funzione è facile minimizzare i contributi apportati da chi lavora principalmente in casa. La maggior parte degli antropologi opera una distinzione tra attività di sussistenza primarie e attività di sussistenza secondarie. Le prime servono a procacciare il cibo e sono la raccolta, la caccia, la pesca, la pastorizia e l’agricoltura. Le seconde comprendono per la maggior parte la preparazione e l’elaborazione del cibo per il consumo o per la conservazione. Sappiamo molto riguardo alle variazioni transculturali del contributo che gli uomini e le donne apportano alle attività primarie di sussistenza, e riguardo alle possibili cause di questa divisione di ruoli. Molto

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meno, invece, si sa a proposito dei contributi alle attività di sussistenza secondarie. I ricercatori hanno studiato le attività primarie di sussistenza, misurando il contributo del lavoro femminile e maschile alla dieta (in termini di rapporto calorico). Un’altra unità di misura è data dal tempo impiegato per svolgere queste attività (che in genere hanno luogo fuori casa). Questi 2 tipi di misurazioni danno, tuttavia, risultati molto diversi. Può essere, infatti, che alcune società dedichino più tempo alla caccia piuttosto che all’agricoltura, ma che sia quest’ultima a fornire il maggior apporto di calorie. In alcune società le donne hanno tradizionalmente rivestito un ruolo economico più importante rispetto agli uomini, e questo sotto tutti i punti di vista. Da una rassegna fatta su un vasto numero di società emerge come sia gli uomini sia le donne contribuiscano alle attività primarie di approvvigionamento del cibo, con la differenza che di solito il contributo maschile è maggiore in termini di apporto calorico. Vi sono invece società in cui le donne contribuiscono in misura maggiore rispetto agli uomini (sempre in termini di apporto calorico) alle attività primarie di sussistenza. Laddove la caccia, la pesca e la pastorizia (generalmente attività maschili) costituiscono le fonti principali di apporto calorico, il contributo maschile è superiore a quello femminile. La tecnica predominante di approvvigionamento del cibo non è, tuttavia, sempre indicativa: alcune società, per esempio, che dipendono principalmente dalla pesca, affidano alle donne la maggior parte del lavoro. Nelle società la cui attività principale è la raccolta (una mansione tipicamente femminile) l’approvvigionamento del cibo (in termini di calorie) dipende soprattutto dalle donne. La maggior parte delle società conosciute dagli antropologi, tuttavia, deriva il proprio apporto calorico dall’agricoltura, piuttosto che dalla caccia o dalla pesca. Se si escludono la pulizia e la preparazione del terreno (mansioni generalmente maschili) tutte le altre (la semina, il compito di estirpare le erbacce, l’irrigazione e il raccolto) sono attività svolte indifferentemente dagli uomini o dalle donne. Resta da spiegare perché in alcune società siano le donne a dedicarsi alla maggior parte del lavoro agricolo, mentre in altre questo compito spetti agli uomini. Una spiegazione di questo fenomeno può essere ricondotta al tipo di agricoltura praticata. Molti studi hanno messo in evidenza come il contributo calorico portato dagli uomini alla sussistenza primaria tenda ad essere molto superiore a quello femminile laddove vi sia un sistema di agricoltura intensiva, in particolare quando venga impiegato l’aratro. Dove, invece, l’economia si basi sull’orticoltura, il contributo delle donne è relativamente alto, a paragone di quello maschile, sia che si tratti della coltivazione di radici e di alberi (nel qual caso si parla semplicemente di orticoltura), sia che si tratti di colture "taglia e brucia" (che rientrano nella categoria dell’agricoltura estensiva o itinerante). Secondo Ester Boserup nel momento in cui la popolazione cresce e aumenta quindi la necessità di sfruttare il territorio in modo intensivo, vengono introdotti l’uso dell’aratro e l’irrigazione, con un conseguente incremento del lavoro. Le ragioni di questo fenomeno non sono, tuttavia, del tutto chiare. Perché le donne, nel momento in cui viene introdotto l’aratro, interrompono il loro apporto sostanziale alle attività agricole?? Per rispondere a questo quesito molti ricercatori spostano la propria attenzione sulla quantità di tempo dedicato dagli uni e dalle altre alle varie mansioni agricole. La ragione di questa scelta è legata al fatto che il contributo di genere all’agricoltura varia notevolmente sia all’interno delle sequenze produttive, sia a seconda dei diversi tipi di raccolto. È quindi più facile confrontare la quantità di tempo totale di lavoro femminile rispetto a quella maschile, piuttosto che quantificare il contributo alla dieta che ciascun genere fornisce in termini di apporto calorico. Come è possibile, infatti, operare una stima del contributo calorico se, per esempio, gli uomini si occupano della pulizia e dell’aratura dei campi, le donne della semina e dell’estirpazione delle erbacce, ed entrambi partecipano al raccolto?? Una spiegazione possibile del maggior apporto maschile alle attività agricole laddove si impiega l’aratro potrebbe essere individuata nel fatto che questa tecnica richiede una grossa mole di lavoro nella fase della pulizia e della preparazione dei campi, mentre riduce il tempo dedicato ad estirpare le erbacce. In ogni caso, è sempre l’uomo che si dedica alla pulizia del terreno, attività che, nelle colture intensive, richiede un maggior dispendio di tempo. Estirpare le erbe infestanti è probabilmente un lavoro compatibile con la cura dei figli ed è forse per tale ragione che in questa attività si registra una prevalenza femminile. Il fatto che l’aratura sia un compito maschile che richiede un notevole dispendio di tempo non spiega tuttavia perché, nelle società in cui è utilizzato l’aratro, le donne svolgano una quantità inferiore di lavoro in tutti i settori dell’agricoltura. Un’altra motivazione che può spiegare il minor contributo femminile alle attività agricole nei sistemi intensivi è che in questi ultimi i lavori domestici aumentano, per cui si riduce il tempo che le donne possono dedicare ai campi. Chi applica il metodo intensivo di solito destina il terreno alla coltivazione del grano, il quale prima dell’immagazzinamento richiede un tempo elevato di lavorazione per essere reso commestibile.

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Resta da spiegare come mai le donne contribuiscono in misura notevole alle attività orticole. È possibile, in effetti, che esse abbiano meno lavoro casalingo, ma allora ciò varrebbe anche per gli uomini. Perché, dunque, essi non si dedicano proporzionalmente di più all’orticoltura?? Una spiegazione possibile è che spesso in queste società gli uomini devono dedicare molto tempo ad altri tipi di attività (es: una guerra, prestare servizio come lavoratori salariati in città lontane, viaggiare periodicamente per svolgere un’attività di commercio, ..).Nel caso in cui le donne apportino un notevole contributo alle attività primarie di sussistenza, ci aspetteremmo che ciò influisca sul loro atteggiamento nei riguardi dei figli. Numerosi studi transculturali hanno dimostrato che questa supposizione è esatta. Nelle società in cui il contributo femminile (in termini di apporto calorico) è elevato si iniziano a nutrire i bambini con cibi solidi (compito che può essere svolto da persone differenti dalla madre) anticipatamente rispetto alle società in cui invece le donne partecipano in misura minore alle attività primarie di sussistenza. È probabile, inoltre, che le ragazze vengano abituate ad essere operose (es: aiutando la madre) e che la nascita di una femmina sia maggiormente apprezzata. È importante tener presente che le conclusioni a cui si giunge in merito al contributo alle attività di sussistenza secondo i generi dipendono molto dal metro di misura adottato. Cambiando prospettiva per un attimo, e tenendo conto di tutte le attività lavorative, emerge un quadro diverso del rapporto tra contributo maschile e femminile alla sussistenza. Sommando infatti per intero il tempo lavorativo, includendo le attività esterne (per la maggior parte la raccolta di cibo) e quelle dentro casa (tra cui la preparazione del cibo), risulta che il lavoro femminile ammonta ad un numero di ore giornaliere superiore a quello maschile, sia nei sistemi agricoli intensivi, sia nelle società di orticoltori.In quasi tutte le società a noi note i leader politici sono uomini. Una ricerca transculturale ha inoltre dimostrato che, nei casi in cui le posizioni di potere sono nelle mani delle donne, queste ultime sono comunque in minoranza numerica rispetto agli uomini, oppure sono meno potenti di loro. Che si consideri o meno la guerra come un fenomeno che rientra nella sfera della politica, in quest’ambito la prevalenza maschile è pressoché universale. Per quale ragione gli uomini hanno quasi sempre dominato la scena politica (almeno fino ad oggi)?? Secondo alcuni, poiché la direzione degli affari bellici comporta il controllo di una risorsa importante come quella delle armi, è il ruolo militare che hanno gli uomini a collocarli ai vertici della scena politica. È stato dimostrato, tuttavia, che le posizioni di comando raramente sono ottenute con la forza, e che quindi una superiorità di questo tipo non costituisce un fattore determinante. Vi è, comunque, una relazione di altra natura tra guerra e leadership politica. Non solo, infatti, la guerra ha un’influenza diretta sulla sopravvivenza: essa è presente regolarmente nella maggior parte delle società che conosciamo, e quindi il potere decisionale nelle questioni belliche rappresenta una delle funzioni politiche più importanti nella maggior parte delle società. Le decisioni in merito alla guerra, dunque, dovranno essere affidate alla persone più competenti in questo settore. Per spiegare perché sono principalmente gli uomini a impiegarsi nella guerra vi sono 3 possibili spiegazioni, universalmente valide: la guerra, come la caccia, richiede forza fisica (per utilizzare le armi) e rapidi scatti di energia (per correre) la guerra è certamente una delle attività più pericolose, il che, aggiunto al fatto che non è possibile interromperla, la rende incompatibile con la cura dei figli anche se non ha figli, nel momento del combattimento una donna generalmente è comunque tenuta lontana, poiché la sua fertilità potenziale è più importante per la riproduzione e per la sopravvivenza del gruppo di quanto non lo sia il suo contributo da combattenteSia la teoria della forza fisica, sia quella della compatibilità e della sacrificabilità, quindi, possono dare ragione della predominanza maschile nelle attività belliche. Vi sono ulteriori fattori che possono essere menzionati riguardo al predominio maschile nella politica: la statura (generalmente maggiore negli uomini): anche se non è chiaro perché essa debba essere un requisito della leadership, alcuni studi dimostrano che è più probabile che il ruolo di leader sia rivestito da persone alte gli uomini frequentano il mondo esterno molto più delle donne, mentre le donne tendono a lavorare nei pressi del luogo d’abitazione l’impegno richiesto dall’allevamento dei figli può limitare l’influenza della donnaSe queste motivazioni spiegano almeno in parte la diffusa predominanza maschile in campo politico, resta tuttavia da capire perché in alcune società la partecipazione femminile alla vita politica sia maggiore rispetto ad altre. Marc Ross ha analizzato il problema in un campione

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transculturale di 90 società, nelle quali il grado di partecipazione femminile alla politica variava considerevolmente. Un fattore che sembra determinante per l’esclusione delle donne dalla vita politica è l’organizzazione delle comunità secondo la parentela maschile. Come vedremo, generalmente le donne, quando si sposano, lasciano la propria comunità per trasferirsi presso quella del marito. Se le donne sono "straniere" in una comunità in cui vi sono molti uomini legati da parentela, allora questi avranno un vantaggio politico garantito dalla loro conoscenza dei membri e della storia della comunità.La definizione di status è molto problematica: secondo alcuni la relazione tra status femminile e status maschile dipende dall’importanza che una società attribuisce alle donne e agli uomini per altri essa riguarda la quota di autorità e di potere conferita proporzionalmente ai 2 generi in altri autori essa individuerebbe il tipo di diritto ad agire secondo i proprio desideri posseduto dagli uomini e dalle donneIn ogni caso molti scienziati sociali indagano le ragioni delle differenze di status della donna da società a società. Analizzano la variazione del grado di stratificazione dei generi. Nel mondo islamico, per esempio, le donne e gli uomini conducono vite molto separate; sotto vari profili lo status della donna sembra essere alquanto misero. In altre società, al contrario, ci si avvicina molto ad una situazione di parità tra status maschile e status femminile. Esistono molte teorie in merito alle diversità di status delle donne: secondo una delle più diffuse, la condizione della donna sarebbe migliore laddove è elevato il suo contributo alle attività primarie di sussistenza: lo status delle donne sarebbe, quindi, notevolmente inferiore in quelle società che traggono sostentamento dalla caccia, dall’allevamento, o dall’agricoltura intensiva una seconda teoria afferma che nei casi in cui la guerra ha un ruolo di estrema rilevanza, agli uomini viene attribuita maggiore importanza ed essi sono considerati più degni di stima rispetto alle donne una terza teoria mette in evidenza come lo status superiore dell’uomo sia legato alla presenza di gerarchie politiche centralizzate. Il principio è analogo a quello della teoria della guerra: dato che di solito sono gli uomini a rivestire ruoli di leadership in campo politico, lo status maschile dovrebbe essere superiore nei casi in cui la sfera politica abbia maggiore importanza vi è, infine, un’ulteriore teoria secondo la quale lo status delle donne sarà superiore laddove i gruppi familiari e il luogo di residenza della coppia sposata siano organizzati secondo un criterio matriarcaleNel valutare queste teorie si pone il problema di decidere il significato del concetto di status: esso implica, per esempio, l’idea di "valore", oppure di "diritti", oppure di "autorità"?? Una ricerca transculturale effettuata da Martin Whyte ha messo in evidenza come questi fattori non cambino tutti nello stesso modo. I risultati di questo studio mostrano che raramente vi è una relazione tra questi elementi. Non possiamo quindi, concludeva Whyte, parlare dello status come di un singolo concetto; è più appropriato, piuttosto, parlare dello status delle donne nelle diverse sfere della vita. Per quanto avesse scoperto che non vi era interdipendenza tra i vari elementi che definiscono la status, Whyte decise di verificare se alcune delle teorie che abbiamo appena menzionato fossero in grado di descrivere le cause per cui in alcune società vi sono molti settori in cui le donne godono di uno status privilegiato mentre in altre ve ne sono pochi. Esaminiamo innanzitutto le affermazioni che vengono smentite dalle testimonianze transculturali. Uno di queste è l’idea che il contributo sostanziale alle attività primarie di sussistenza garantisca uno status elevato. Nelle società ad agricoltura intensiva le donne (il cui contributo lavorativo è minore di quello degli uomini) tendono effettivamente ad avere uno status per molti aspetti inferiori. Nelle società che dipendono principalmente dalla caccia (in cui il contributo femminile è altrettanto limitato) lo status delle donne è, invece, migliore, e questo smentisce la suddetta teoria. Analogamente non esistono prove che diano validità universale al principio per cui la frequenza delle guerre avrebbe un’influenza negativa sullo status delle donne in numerosi settori della vita. Quali sono, dunque, i fattori che determinano uno status migliore per la donna?? Sebbene non fornisca risultati così netti ed evidenti, lo studio di Whyte avvalla in qualche misura la teoria secondo la quale lo status delle donne è migliore laddove i gruppi familiari e la residenza coniugale siano organizzati intorno ad esse. Una condizione di inferiorità dello status femminile compare, invece, nelle società in cui siano presenti gerarchie politiche. Laddove esiste una stratificazione sociale l’agricoltura si fonda sull’aratura e sull’irrigazione

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gli insediamenti sono estesi esistono la proprietà privata e la specializzazione artigianalesi tende ad attribuire alla donna uno status di inferiorità. Resta ancora da capire come mai la complessità culturale comporti per la donna sia una minore autorità nell’ambito della casa, sia un controllo ridotto sulla proprietà, sia maggiori restrizioni nella vita sessuale. Anche il colonialismo occidentale ha avuto effetti negativi sullo status della donna: per quanto un certo grado di disparità tra uomo e donna potesse già esistere prima dell’arrivo degli europei, sembra che gli effetti del colonialismo siano stati in genere negativi per quanto riguarda lo status femminile.

III. La personalità.Secondo Margaret Mead non esistono tra i sessi differenze di personalità che abbiano valore universale: tali differenze sono, piuttosto, stabilite dalle società. Le ricerche effettuate negli ultimi anni smentiscono, tuttavia, l’asserzione della Mead che non vi siano differenze sessuali che possano spiegare il carattere. Alcune di queste differenze comportamentali, infatti, ricorrono in modo sistematico in società completamente diverse. Questo non significa che la Mead fosse in errore a proposito delle 3 società da lei analizzate: è possibile che esse rappresentino dei casi atipici. Probabilmente se la Mead avesse adottato le tecniche di osservazione impiegate nelle recenti ricerche sul campo (in particolare l’osservazione di campioni sistematici), essa avrebbe scoperto che alcune differenze sono legate al genere. Questi studi registrano sistematicamente i minimi dettagli del comportamento di un numero elevato di maschi e di femmine. Quali sono le differenze nella personalità rilevate da questi studi?? Molti di essi hanno preso in esame bambini appartenenti a contesti culturali diversi. La differenza più diffusa riguarda il comportamento aggressivo: i maschi tentano di aggredire gli altri con maggior frequenza rispetto alle femmine. Vi sono tra maschi e femmine altre differenze osservabili che ricorrono con considerevole frequenza; dobbiamo, tuttavia, essere cauti nel prenderle in considerazione, sia perché non sono documentate, sia perché presentano un maggior numero di eccezioni: si tratta della tendenza presente nelle ragazze ad avere un comportamento più responsabile, e a mostrare maggiore disponibilità verso gli altri le femmine, inoltre, sembrano più propense a conformarsi al volere e agli ordini degli adulti i ragazzi, d’altro canto, tentano spesso di esercitare una supremazia sugli altri per raggiungere i propri scopi nel gioco entrambi mostrano una preferenza per il proprio genere sembra, inoltre, che i ragazzi giochino in gruppi allargati, mentre le cerchia delle ragazze sia più ristretta i maschi, infine, mantengono di più le distanze rispetto alle femmineSe accettiamo che vi sia una certa omogeneità transculturale in tali differenze, come possiamo spiegarla?? Molti ricercatori sono convinti che la diffusione di certe differenze abbia origine nella diversità di ordine biologico tra i 2 sessi. Il dato dell’aggressività è uno dei tratti più discussi, principalmente perché riguardo ad esso vi sono differenze tra i generi fin dalla più tenera infanzia. Secondo una spiegazione alternativa le società allevano i maschi e le femmine in modo diverso perché quasi sempre agli adulti di ciascun genere si richiede di assolvere a funzioni diverse. I ricercatori tendono a sostenere l’una o l’altra teoria, quella biologica o quella sociale. È del tutto possibile, invece, che sia le cause biologiche sia le cause sociali concorrano alla formazione delle differenze tra maschi e femmine. I genitori, infatti, hanno il potere di trasformare una lieve inclinazione di origine genetica in una marcata differenza di genere, potenziandola al massimo secondo i principi sociali che oppongono i maschi alle femmine. È difficile però distinguere l’influenza genetica da quella sociale. Esistono ricerche che testimoniano come i genitori trattino i figli diversamente a seconda del sesso fin dalla nascita. Sebbene un osservatore oggettivo non noti differenze sostanziali di "personalità" tra bambine e bambini piccoli, spesso i genitori affermano il contrario. I genitori potrebbero inconsciamente voler riconoscere delle differenze ed è dunque possibile che essi le instillino nel figlio. Anche le differenze che si manifestano in età precoce, dunque, potrebbero essere apprese. Si tenga presente, inoltre, che i ricercatori non possono condurre esperimenti pratici sulle persone che sono oggetto di osservazioni. Il comportamento dei genitori, per esempio, non può essere alterato per scoprire cosa succederebbe se i bambini e le bambine venissero trattati esattamente nello stesso modo. Numerose ricerche relative al comportamento aggressivo negli animali dimostrano che alcuni ormoni maschili sono in parte responsabili dell’alto livello di aggressività nei maschi. Questi risultati non sono necessariamente trasferibili al genere umano; tuttavia sono stati studiati casi di donne che

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hanno assunto, nel ventre materno, medicinali somministrati per prevenire l’aborto. In linea di massima questi studi forniscono gli stessi risultati delle osservazioni sugli animali: nel comportamento dei soggetti si registra infatti un maggiore livello di aggressività. Alcuni studiosi ritengono che questi risultati provino l’origine biologica delle differenze di aggressività. Secondo altri essi non dimostrano nulla. Esistono prove del fatto che il grado di aggressività dipenda dal tipo di socializzazione?? Sebbene uno studio etnografico transculturale dimostri che sono più numerosi i casi in cui il comportamento aggressivo è sollecitato nel maschio piuttosto che nella femmina, nella maggior parte delle società non esistono differenze nell’educazione all’aggressività. I pochi casi di società in cui vi sono differenze esplicite a questo riguardo non possono rendere conto di tutte le differenze esistenti. Per quanto ne sappiamo, i comportamenti aggressivi, come altri tratti "maschili", possono essere appresi anche implicitamente. Alla base di alcune differenze comportamentali legate al genere potrebbe esservi un insegnamento sociale indiretto. Beatrice e John Whiting riferiscono, in un loro studio, che i bambini a cui viene assegnato molto lavoro manifestano un temperamento più responsabile e disponibile. Dato che le femmine generalmente collaborano più dei maschi alle faccende domestiche, la loro maggiore responsabilità e disponibilità potrebbero essere, dunque, imputabili a questa unica ragione. Se il ragionamento è corretto, è logico attendersi che i maschi che svolgono compiti femminili si comportino in modo più simile alle femmine. Dall’osservazione sistematica risultò che in molti casi il comportamento dei ragazzi che svolgevano le mansioni femminili rappresentava un livello intermedio tra quello degli altri ragazzi e quello delle ragazze. La somiglianza con il comportamento femminile si manifestava in un minor grado di aggressività rispetto agli altri maschi e in un atteggiamento meno dominante e più responsabile. Prima di abbandonare il tema delle differenze comportamentali dovremmo sottolineare l’esistenza, a tal proposito, di convinzioni diffuse ma infondate, come quella per cui le ragazze sarebbero più dipendenti, più socievoli e più passive dei ragazzi: innanzitutto se consideriamo la dipendenza come la tendenza a cercare aiuto e sostegno emotivo negli altri, le femmine non sono più inclini e mostrarla. La riprova è che i ragazzi e i bambini dei 2 sessi hanno modi diversi di manifestare questo atteggiamento di dipendenza. Le femmine cercano aiuto e contatto, mentre i maschi tendono ad attirare su di sé l’attenzione e l’approvazione degli altri per quanto riguarda la socievolezza, non si hanno sostanziali differenze tra i sessi. La socievolezza si manifesta certamente in modo variabile nelle femmine e nei maschi, dato che i ragazzi tendono a giocare in gruppi più allargati rispetto alle ragazze riguardo alla presunta passività femminile, non esistono prove sufficientemente convincenti. L’unico fatto che emergeva delle differenza relativa ai sessi era che le ragazze più grandi erano meno inclini, rispetto ai ragazzi, a rispondere ad un’aggressione con un comportamento aggressivo. Un simile atteggiamento, tuttavia, non è necessariamente indice di passività

IV. La sessualità.Dato il modo in cui la specie umana si riproduce, non sorprende che la sessualità sia parte della nostra natura. Ciononostante non esistono società a noi note che trattino la sessualità come una cosa naturale: tutte possiedono infatti delle regole che stabiliscono quale sia la condotta "conveniente". Il grado di attività sessuale prematrimoniale, extramatrimoniale e intramatrimoniale permessa o incoraggiata varia notevolmente da società a società. Esistono, inoltre, grandi differenze riguardo alla tolleranza nei confronti della sessualità non eterosessuale.IV.I. Atteggiamenti permissivi VS atteggiamenti repressivi.Tutte le società tentano di regolamentare in qualche misura l’attività sessuale. Alcune società vietano il sesso prematrimoniale, altre lo ammettono. Lo stesso vale per i rapporti extraconiugali. Non sempre, inoltre, il grado di limitazione delle norme imposte da una società rimane identico per tutto l’arco della vita dell’individuo o vale per ogni aspetto della sessualità. In molti casi, per esempio, gli adolescenti devono sottostare ad imposizioni blande, mentre gli adulti sono tenuti ad osservare restrizioni più rigide. Gli atteggiamenti, inoltre, cambiano nel corso del tempo. La stessa società americana ha una tradizione piuttosto repressiva, che però, fino a poco tempo fa (ossia prima dell’emergenza dell’Aids), stava progressivamente lasciando il posto ad un atteggiamento più tollerante. Il sesso extraconiugale è piuttosto diffuso. Per quanto riguarda gli uomini esso si verifica nel 69% delle società; quanto alle donne la percentuale è del 57%. La frequenza di questo tipo di attività sessuale è più alta di quanto ci si potrebbe aspettare, tenuto conto del fatto che solo

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una maggioranza modesta di società accetta esplicitamente il sesso extraconiugale maschile, e un numero ancora inferiore ammette quello femminile. In molte società, dunque, esiste una notevole differenza tra il codice repressivo e le effettive pratiche sessuali. Le ricerche transculturali dimostrano che la maggior parte delle società ha uno standard diverso per le donne e per gli uomini: le prime, infatti, sono più soggette a restrizioni. La privacy nel momento del coito è un requisito pressoché universale. Ma mentre per il nordamericano il luogo predestinato all’attività sessuale è generalmente la camera da letto, molti altri popoli si appartano nel verde della natura. In alcune culture spesso il coito ha luogo in presenza di altri che stanno dormendo o che semplicemente guardano dall’altra parte. Anche il periodo e la frequenza del coito sono variabili. Generalmente si preferisce la notte, ma alcune popolazioni optano esplicitamente per il giorno. Nella maggior parte delle società ci si astiene dai rapporti sessuali per il periodo delle mestruazioni, almeno in parte durante la gravidanza, e per un certo lasso di tempo dopo il parto. Altre società proibiscono il rapporto sessuale prima di una serie di attività, come la caccia, la pesca, la semina, la produzione della birra e la fusione del ferro. La società americana è una delle più permissive riguardo alla sessualità all’interno del matrimonio, poiché durante il lutto, nel periodo mestruale e nel corso della gravidanza impone poche limitazioni. Il grado di tolleranza o di repressione nei confronti dell’omosessualità non è diverso da quello che viene manifestato riguardo ad ogni altro tipo di attività sessuale. Poco si sa delle pratiche omosessuali nelle società molto repressive, forse perché in molti casi tali società negano l’esistenza stessa del fenomeno. Laddove vi è più tolleranza la diffusione dell’omosessualità varia. In alcune società essa è accettata, ma limitata a certi periodi e a certi individui. In altre società l’omosessualità è più diffusa.

IV.II. Le cause della repressione.Prima di tentare di spiegare perché esistano vari livelli di repressione sessuale a seconda della società, è necessario chiedersi se tutte le forme di limitazione in campo sessuale si implichino a vicenda. Le ricerche attuali mostrano che nelle società in cui vengono imposti dei limiti riguardo ad un dato aspetto della sessualità eterosessuale, tali limiti vengono estesi anche ad altri aspetti. Tuttavia, laddove vi siano forti restrizioni riguardo alla vita eterosessuale, non necessariamente si impongono limiti a quella omosessuale. Se le restrizioni riguardano il sesso prematrimoniale, non dobbiamo attenderci per forza conseguenze sul piano delle relazioni omosessuali. Quando si tratta di rapporti extraconiugali la situazione è diversa. Nelle società in cui il numero di omosessuali maschi è alto, l’adulterio eterosessuale degli uomini viene disapprovato. Se vogliamo spiegare l’esistenza di misure repressive in questo ambito, dunque, dobbiamo considerare la sfera omosessuale e quella eterosessuale separatamente. SFERA OMOSESSUALE: il materiale etnografico indica l’esistenza di una vasta gamma di reazioni sociali alle relazioni omosessuali. Finora le ricerche non sono giunte a stabilire principi generali, ma l’analisi transculturale sull’omosessualità maschile fornisce comunque risultati affascinanti. Uno di questi risultati è la scoperta che è più probabile riscontrare l’intolleranza nei confronti dell’omosessualità maschile nelle società in cui sono vietati alle donne sposate l’aborto e l’infanticidio (in molti casi queste pratiche sono permesse se si tratta di nascite illegittime). Questa ed altre scoperte avvalorano la teoria secondo cui l’omosessualità sarebbe poco accettata nelle società che, aspirando ad un incremento demografico, tollererebbero male i comportamenti che potrebbero ridurre l’aumento della popolazione. Un altro indizio della dipendenza di questo tipo di intolleranza dalla spinta alla crescita demografica è il fatto che è più probabile riscontrare un’accettazione dell’omosessualità nelle società colpite da carestie e da forti penurie di cibo. In questi casi, infatti, poiché le condizioni esistenti determinano una forte pressione della popolazione sulle risorse, l’omosessualità e altre pratiche che riducono la crescita della popolazione sono non solo tollerate, ma addirittura incoraggiate. La pressione demografica spiega, inoltre, perché recentemente la nostra società sia diventata più tollerante nei confronti dell’omosessualità. È chiaro che i fattori demografici non rendono ragione del processo che spinge molti individui di una società a divenire omosessuali. Essi, però, chiariscono perché alcune società considerino tali atteggiamenti in un’ottica più o meno permissiva. SFERA ETEROSESSUALE: sebbene non ne conosciamo la ragione, sappiamo che le maggiori restrizioni per quanto riguarda il sesso prematrimoniale sono riscontrate tendenzialmente nelle società più complesse. Più aumenta l’ineguaglianza sociale e più crescono le disparità economiche tra i vari gruppi, tanto più i genitori si preoccupano di evitare che i figli contraggano matrimonio con individui "inferiori" a loro. La tolleranza nei confronti di relazioni sessuali prematrimoniali potrebbe facilitare l’intreccio di legami sentimentali con qualcuno che

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sia ritenuto un coniuge indesiderabile. Peggio ancora (dal punto di vista della famiglia), una relazione "sconveniente" di questo genere potrebbe dare luogo ad una gravidanza che precluderebbe alla ragazza un "buon" matrimonio. Il controllo dell’accoppiamento potrebbe, dunque, essere un metodo per vigilare sulla proprietà. Conferma questa teoria la scoperta che la verginità rappresenta un valore nelle società stratificate, laddove è probabile che la combinazione di un matrimonio implichi uno scambio di beni e di denaro fra le famiglie.

8. IL MATRIMONIO, LA FAMIGLIA, LA PARENTELA.

Il fatto che il matrimonio sia universale non significa che in tutte le società tutti si sposino. Significa soltanto che la maggior parte delle persone (in genere quasi tutte) si sposa almeno una volta nella vita. Quando affermiamo che il matrimonio è universale non intendiamo dire che le usanze matrimoniali e familiari siano uguali in tutte le società. Esiste, al contrario, una notevole variabilità nel modo in cui ci si sposa e nel numero e nelle caratteristiche di coloro che si possono sposare. L’unico criterio universale riguardante il matrimonio è il divieto di unirsi con i genitori, con i fratelli e con le sorelle. Anche la famiglia è universale. In tutte le società esistono gruppi sociali formati da genitori e figli, anche se con notevoli variazioni nella forma e nell’entità numerica. Alcune società sono caratterizzate da famiglie estese composte da 2 o più gruppi di genitori e figli; in altri casi le famiglie formano unità indipendenti più piccole. Oggi il matrimonio non rappresenta necessariamente la base per la costituzione di una famiglia. Le famiglie di un solo genitore stanno diventando un fenomeno diffuso nelle società occidentali. Ciononostante in queste società il matrimonio non è scomparso e rappresenta ancora una consuetudine comune, sebbene siano sempre di più le persone che scelgono di avere figli senza sposarsi.

I. Il matrimonio.Il matrimonio non è altro che l’unione sessuale ed economica, approvata socialmente, tra un uomo ed una donna. Sia la coppia sia gli altri componenti della società accettano che questa unione sia più o meno stabile e che implichi una serie di diritti e di doveri tra i coniugi e tra questi e i futuri figli. Nel matrimonio l’unione sessuale è socialmente approvata: ciò significa che la coppia sposata non deve nascondere la natura sessuale della propria relazione. Per quanto l’unione matrimoniale possa venire sciolta dal divorzio, tutte le società hanno un approccio iniziale con il matrimonio che implica un’idea più o meno radicata di stabilità. Un altro elemento implicito nel matrimonio sono i diritti e i doveri reciproci, che possono essere più o meno specifici e formalizzati e che riguardano le questioni della proprietà, della gestione finanziaria e della cura dei figli. Il matrimonio è una relazione sia sessuale sia economica. L’evento che sancisce l’inizio del matrimonio varia da una società all’altra; alcune società, ad esempio, non conoscono un rituale formale come la cerimonia nuziale.

I.I. Tipi rari di matrimoni.Oltre al matrimonio tra uomini e donne, alcune società ammettono quello tra persone dello stesso sesso; in nessuna società, tuttavia, tali unioni rappresentano la norma. Queste forme coniugali non collimano completamente con la nostra definizione di matrimonio, in quanto esse: non uniscono un uomo ed una donna non rappresentano necessariamente unioni sessualiQuesti "matrimoni" sono tuttavia approvati dalla società, di solito ricalcano il modello del matrimonio regolare e implicano una serie considerevole di diritti e di doveri reciproci. Talvolta uno dei 2 coniugi è considerato donna o uomo anche se ciò non corrisponde alla sua identità sessuale. Si sa, per esempio, che presso gli azande dell’Africa avevano luogo matrimoni omosessuali temporanei. Prima che gli inglesi ottenessero il controllo dei territori dell’attuale Sudan, i guerrieri azande che non potevano permettersi una moglie spesso sposavano "ragazzi-moglie" per soddisfare i propri bisogni sessuali. Così come avveniva nei matrimoni normali, il "marito" offriva ai genitori del "ragazzo-sposa" dei doni (per quanto meno importanti di quelli che sarebbero stati offerti per una donna). Il marito svolgeva alcuni servizi per i genitori del ragazzo ed era ammesso che potesse corteggiare eventuali amanti e commettere adulterio. I ragazzi-moglie non solo avevano relazioni sessuali con il marito, ma si occupavano di gran parte delle faccende domestiche che tradizionalmente spettavano alla moglie. In molte società africane abbiamo testimonianza della presenza di matrimoni tra donne, anche se

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non esistono prove riguardo all’esistenza di rapporti sessuali tra le partner. Sembra che questo tipo di matrimonio fosse, piuttosto, un modo socialmente approvato di attribuire alla donna funzioni sociali e legali di padre e di marito. Questi matrimoni sembrano rappresentare la soluzione ai casi in cui in una famiglia regolare manchino figli maschi che possono ereditare la proprietà. La soluzione consiste nel permettere alla donna, anche se il marito è in vita, di diventare il "marito" di una donna più giovane e di fungere da padre dei figli di quest’ultima. La "donna-marito" assolve ad un pagamento matrimoniale necessario per ottenere la moglie, rinuncia alle mansioni femminili e si assume gli oneri di un marito. Tra le 2 donne (e tra la più anziana e il precedente marito) non sono consentiti rapporti sessuali. Affinché la moglie possa avere figli la donna-marito le procura un consorte maschio. I figli riconoscono nella donna-marito la figura del padre, poiché ella è il padre socialmente designato.

I.II. Le ragioni dell’universalità del matrimonio.Poiché in tutte le società esiste il matrimonio possiamo affermare che esso costituisce una pratica adattiva. Le teorie che intendono spiegare l’universalità del matrimonio sono molte. Secondo queste teorie il matrimonio risolverebbe una serie di problemi universali: come spartire il frutto della divisione sessuale del lavoro, come prendersi cura dei figli, come ridurre al minimo la competizione sessuale. Per valutare la plausibilità di queste ipotesi è necessario domandarsi sa il matrimonio rappresenti la migliore o l’unica soluzione a ciascuno di questi problemi.Nel capitolo precedente abbiamo messo in evidenza come tutte le società note all’antropologia dividano il lavoro secondo il genere. Questa divisione del lavoro è stata spesso indicata come la causa del matrimonio. Laddove esiste una divisione del lavoro secondo i generi, la società deve possedere un meccanismo che permetta alle donne e agli uomini di mettere in comune il prodotto delle rispettive attività. Per quanto il matrimonio risolva tale problema, è improbabile che esso rappresenti l’unica soluzione possibile: un gruppo ristretto di persone, come quello costituito da fratelli e sorelle, per esempio, potrebbe impegnarsi a cooperare economicamente.Se messo a confronto con i cuccioli degli altri primati, il piccolo dell’uomo dipende dai genitori molto più a lungo. Tale peculiarità grava principalmente sulla madre e può costituire un limite al tipo di lavoro che la donna è in grado di svolgere. La presenza dell’uomo per svolgere determinate mansioni, quali per esempio la caccia, che sono incompatibili con la cura dei figli, risulterebbe allora indispensabile. La necessità del matrimonio, dunque, sarebbe legata a questa prolungata dipendenza infantile. Si tratta essenzialmente di un ragionamento analogo a quello formulato in merito alla divisione del lavoro, e sul piano logico è altrettanto debole. Non è chiaro infatti perché un gruppo costituito da uomini e donne non potrebbe cooperare nella cura dei bambini anche senza il matrimonio.A differenza delle femmine di molti altri primati, la donna può avere rapporti sessuali in ogni periodo dell’anno. Secondo alcuni studiosi la continua ricettività femminile può aver creato dei seri problemi riguardo alla competizione tra maschi per la conquista delle femmine. Si è pensato che la specie umana abbia dovuto impedire questa competizione ai fini della propria sopravvivenza, ossia che abbia sviluppato qualche strategia per ridurre al minimo la rivalità tra maschi ed evitare il verificarsi di conflitti distruttivi e letali. Tale ipotesi crea non pochi problemi: perchè il fatto che la donna sia permanentemente ricettiva dal punto di vista sessuale dovrebbe favorire una maggiore competizione tra i maschi?? Si potrebbe anzi affermare il contrario: la competizione dovrebbe essere maggiore in presenza di risorse più scarse, vale a dire nel caso in cui le femmine fossero sessualmente disponibili con minore frequenza i maschi di numerose specie animali, incluse quelle in cui la sessualità femminile è relativamente frequente, non mostrano comportamenti eccessivamente aggressivi perchè la competizione sessuale, ammesso che esista, non potrebbe essere governata da regole culturali diverse da quella del matrimonio?? Avrebbe potuto esserci, per esempio, una regola per cui le donne e gli uomini frequentano liberamente tutti i membri del sesso opposto stringendo relazioni che hanno una determinata durataNessuna delle teorie finora prese in esame offre una spiegazione convincente del fatto che il matrimonio sia l’unica o la migliore soluzione ad uno specifico problema. La validità di tali teorie è messa in dubbio, inoltre, dai risultati delle ricerche comparative sui mammiferi e sugli uccelli. Se prendiamo in considerazione gli animali che, diversamente da altre specie completamente promiscue, presentano come l’uomo, una certa stabilità nell’ambito dei legami tra maschi e femmine, saremo in grado di individuare i fattori che sono alla base dei legami tra i sessi nelle specie animali a sangue caldo. Una forma simile al matrimonio esiste presso moltissimi uccelli, tra i lupi e i castori. Il legame tra maschio e

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femmina non dipende dai 3 fattori finora illustrati (divisione del lavoro, dipendenza infantile prolungata, continua ricettività sessuale femminile). Esiste, dunque, qualche fattore che condiziona il legame tra maschi e femmine?? Per quanto riguarda mammiferi e uccelli la risposta è positiva, e può illuminare la nostra analisi del matrimonio umano. Nelle specie animali in cui, dopo il parto, le femmine sono in grado di nutrire contemporaneamente se stesse e i piccoli è più difficile riscontrare un tipo di legame stabile. Esso tende invece a presentarsi nelle specie in cui la madre, nel periodo che segue la nascita dei piccoli, non ha la capacità di procurarsi il cibo. In questi casi, se la madre ha un compagno che le è legato, questi procaccia il cibo oppure si alterna alla femmina nella sorveglianza dei piccoli. Anche nel caso della femmina umana il nutrimento post partum rappresenta un problema. Pur ammettendo che nella specie umana esista questo problema, resta ancora da stabilire se la soluzione migliore sia rappresentata dal matrimonio. Siamo inclini ad accettare questa ipotesi poiché riteniamo che altre soluzioni possibili non funzionerebbero altrettanto bene. Se, per esempio, 2 madri si alternassero nella cura dei piccoli, è probabile che nessuna delle 2 sarebbe in grado di procurare da sola il cibo necessario a soddisfare entrambe e la prole, mentre una coppia formata da un uomo e da una donna che hanno in comune gli stessi figli ha minori difficoltà nell’approvvigionamento di una sufficiente quantità di cibo. Un’alternativa alla coppia potrebbe essere rappresentata da un gruppo promiscuo di maschi e femmine. Siamo propensi a credere, tuttavia, che in un tipo di organizzazione del genere una madre non potrebbe essere sicura del fatto che un uomo le sorvegli i piccoli, o si occupi del procacciamento del cibo per lei e per la prole. Rimane comunque la questione della legittimità di applicare agli esseri umani i risultati delle ricerche condotte su altri animali.

II. Come viene sancito il matrimonio??Poiché il matrimonio è un’unione sessuale ed economica socialmente approvata, tutte le società hanno la necessità di segnalarne formalmente l’avvio. Per ragioni che non comprendiamo completamente, in alcuni casi il matrimonio è accompagnato da cerimonie e da riti elaborati, mentre in altri esso è sancito in modo molto più informale. In molte società, inoltre, hanno luogo transazioni economiche prima, durante e dopo la celebrazione del matrimonio. In tutte le società che sanciscono il matrimonio con una cerimonia questa è accompagnata da festeggiamenti. Tali festeggiamenti esprimono pubblicamente l’unione delle famiglie degli sposi. In molte culture il matrimonio prevede espressioni cerimoniali di ostilità, quali lo scambio di insulti tra gruppi parentali. In molte società si simulano dei combattimenti. L’ostilità a volte può raggiungere livelli di vera e propria aggressività. Dimostrazioni di ostilità di questo genere si verificano di solito nelle società in cui i 2 schieramenti parentali sono tra loro nemici effettivi o rivali potenziali. In molte società è un costume diffuso sposare donne dei villaggi "nemici". Le cerimonie matrimoniali simboleggiano aspetti importanti della cultura. Mentre in alcune società la cerimonia rappresenta sul piano simbolico l’ostilità tra le 2 famiglie, in altre essa può, invece, promuovere l’armonia.

III. Gli aspetti economici del matrimonio.In molte società il matrimonio implica considerazioni di tipo economico: se nella cultura occidentale tali implicazioni possono essere più o meno implicite, in numerose società il matrimonio è preceduto o seguito da transazioni economiche esplicite. Queste possono assumere varie forme. IL PREZZO (O RICCHEZZA) DELLA SPOSA: è un dono in denaro o in beni che lo sposo o la sua famiglia offrono ai parenti della sposa. Generalmente il dono garantisce all’uomo il diritto di sposare la donna e i diritti di paternità sui figli di lei. Il prezzo della sposa è la più comune tra le forme di transazione economica che accompagnano il matrimonio. Nella maggior parte dei casi il prezzo da pagare è sostanzioso, e si tratta di un’usanza diffusa in tutto il mondo. Il pagamento può assumere diverse forme: nella maggior parte dei casi vengono offerti capi di bestiame e generi alimentari. Anche nel caso inusuale dei matrimonio tra donne il "marito" paga il prezzo della sposa. Nonostante la connotazione negativa che per noi potrebbe avere l’idea di pagare un prezzo per la sposa, tale pratica non colloca la donna in una posizione di schiavitù (sebbene questa usanza sia diffusa in società in cui lo status delle donne è relativamente basso). Il prezzo della donna può essere importante sia per la donna sia per la sua famiglia. Il prezzo pagato, infatti, può fungere da assicurazione. Se il matrimonio fallisce per colpa del marito e la donna ritorna alla propria famiglia, i suoi parenti possono essere esentati dal restituire la somma al coniuge. D’altro canto, però, può verificarsi il caso in cui i parenti della sposa facciano pressione su di lei affinché rimanga con il marito anche contro la sua volontà, perché non vogliono o non sono in grado di restituire il prezzo della sposa. Più alto

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è il prezzo della sposa più bassa è la possibilità di ottenere il divorzio. Da un’analisi transculturale emerge come sia più probabile che le società in cui vige tale usanza siano dedite all’orticoltura e manchino di stratificazione sociale. Questa pratica, inoltre, è diffusa laddove le donne contribuiscono in modo rilevante alle attività primarie di sussistenza e dove si dedicano a tutte le attività economiche in misura maggiore rispetto agli uomini. Per quanto questi dati paiano suggerire che nelle suddette società le donne siano oggetto di maggiore considerazione, bisogna tenere presente che nelle società in cui le donne contribuiscono in modo sostanziale alle attività primarie di sussistenza il loro status non è affatto superiore a quello degli uomini. Il prezzo della sposa infatti si osserva nelle società in cui sono gli uomini a prendere la maggior parte delle decisioni riguardo alla conduzione della famiglia, ed è proprio la detenzione del potere decisionale da parte dell’uomo che segnala come le donne abbiano uno status inferiore. IL MATRIMONIO PER SERVIZIO: è il secondo tipo di transazione economica matrimoniale più comune; prevede che lo sposo lavori per la famiglia della sposa talvolta prima, talvolta dopo le nozze. La durata della prestazione varia: in alcune società essa è solo di alcuni mesi, in altre si protrae per diversi anni. In alcune società il prezzo della sposa può essere sostituito dal matrimonio per servizio. LO SCAMBIO DI DONNE: è l’usanza di offrire una sorella o una parente dello sposo in cambio della sposa. LO SCAMBIO DI DONI (approssimativamente di pari valore): si ha tra i 2 gruppi parentali che si uniscono attraverso il matrimonio; ha una diffusione lievemente maggiore rispetto allo scambio di donne. LA DOTE: solitamente è un sostanzioso passaggio di beni o di denaro dalla famiglia della sposa alla sposa stessa. Diversamente dalle altre transazioni economiche finora menzionate, la dote generalmente non implica una relazione tra i parenti della sposa e quelli dello sposo. La famiglia dev’essere sufficientemente ricca da fornire una dote, ma poiché questi beni vanno alla donna, nessuna ricompensa viene alla famiglia che li ha elargiti. L’entità della dote determina spesso l’appetibilità della sposa; ed è la terra a rappresentare il bene principale. Contrariamente alle società in cui si paga un prezzo per la sposa, le società in cui esiste la dote tendono ad essere quelle in cui la donna contribuisce relativamente poco alle attività primarie di sussistenza, in cui vi è un elevato grado di stratificazione sociale e in cui all’uomo non è permesso avere più mogli contemporaneamente. Secondo la teoria di Boserup lo scopo della dote è di garantire un sostegno economico alla madre (e ai suoi figli), necessario data la scarsa contribuzione della donna al lavoro primario di sussistenza. Un’altra ipotesi è che la dote sia concepita come strumento per attrarre lo sposo migliore laddove il sistema sia basato sulla monogamia e sia presente un livello elevato di disuguaglianza sociale (una simile strategia dovrebbe aumentare la probabilità di successo riproduttivo della figlia e della relativa prole). Entrambe le ipotesi sono confermate dai dati di recenti studi transculturali; la seconda teoria, però, sembra offrire una spiegazione più convincente. Resta tuttavia da spiegare come mai in molte società stratificate (come quelle occidentali) in cui le donne e gli uomini hanno un solo coniuge (uno alla volta) la dote non esista. LA DOTE INDIRETTA: quando il pagamento della dote viene effettuato dalla famiglia dello sposo. I beni vengono offerti in prima istanza al padre della sposa ed egli successivamente li consegna interamente o in parte alla figlia.

IV. Un tabù universale: l’incesto.Il tabù dell’incesto, ovvero la regola che proibisce le relazioni sessuali e il matrimonio tra alcune categorie di parenti, è presente in tutte le società. La proibizione universale imposta dal tabù dell’incesto riguarda il rapporto sessuale e il matrimonio tra madre e figlio, tra padre e figlia, tra fratello e sorella. Nessuna società ha permesso unioni del genere in tempi recenti. In passato, tuttavia, alcune società ammettevano l’incesto, principalmente all’interno delle famiglie reali ed aristocratiche, per quanto esso restasse proibito al resto della popolazione. Per spiegare le ragioni dell’universalità di questo tabù sono state avanzate diverse ipotesi.

IV.I. La teoria di Westermarck.La teoria proposta da Edward Westermarck ebbe vasta eco all’inizio degli anni 20. Westermarck sosteneva che gli individui che sono cresciuti a stretto contatto fin dalla più tenera età, come i fratelli e le sorelle, non provano attrazione sessuale reciproca e quindi tendono a non sposarsi tra loro. In seguito questa teoria fu rifiutata perché smentita da casi di individui sessualmente attratti dai genitori, da fratelli o da sorelle.

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Alcuni studi tuttavia hanno dimostrato che la teoria di Westermarck è in parte accettabile. Yonina Talmon osservò che le persone cresciute insieme erano fermamente convinte del fatto che l’esperienza comunitaria producesse un disinteresse sessuale. Lo studio condotto dall’autrice mette in evidenza non solo il disinteresse e perfino il rifiuto sessuale tra coloro che sono cresciuti insieme, ma un corrispettivo fascino esercitato dai nuovi venuti o dagli estranei, dovuto in particolare al "mistero" che questi portano con sé. Ulteriori dati a sostegno della teoria di Westermarck provengono da uno studio di Hilda e Seymour Parker, in cui sono stati confrontati 2 campioni di padri divisi in base al fatto che avessero commesso o meno abusi sessuali nei confronti delle proprie figlie. I Parker scoprirono che era molto più probabile che i padri colpevoli di incesto fossero stati poco coinvolti nella crescita delle figlie, in quanto scarsamente presenti o del tutto assenti nei primi 3 anni di vita delle bambine. Alcuni ricercatori hanno provato ad estendere al tabù dell’incesto tra cugini di primo grado la teoria della familiarità infantile. In base ad essa il matrimonio tra cugini di primo grado dovrebbe essere proibito nelle società in cui questi crescono insieme all’interno della stessa comunità. Ciò non corrisponde, tuttavia, a verità: tali società, infatti, non tendono più di altre a proibire il matrimonio tra primi cugini. Sebbene esistano fattori legati alla familiarità infantile che normalmente producono disinteresse sessuale, resta tuttavia irrisolto il problema delle ragioni per cui le società dovrebbero proibire un tipo di matrimonio che comunque non avrebbe luogo per motivi di disinteresse.

IV.II. La teoria freudiana.Sigmund Freud riteneva che il tabù dell’incesto rappresentasse una reazione a desideri inconsci e inaccettabili. Secondo la teoria freudiana il figlio sarebbe attratto dalla madre e di conseguenza proverebbe un sentimento di gelosia e di ostilità nei confronti del padre (e viceversa per la figlia). Il bambino sa che questi sentimenti non possono perdurare, perché potrebbero indurre il padre a rivolgerglisi contro, e quindi vi rinuncia o li reprime. Di solito questi sentimenti vengono repressi e si ritirano nell’inconscio. Ma a tale livello il desiderio di possedere la madre perdura, ed è per questo che l’orrore dell’incesto rappresenta, per Freud, una reazione o una difesa contro l’impulso proibito. Per quanto la teoria di Freud possa rendere ragione dell’avversione nei confronti dell’incesto, almeno per quanto riguarda quello tra genitori e figli, essa non spiega come mai le società abbiano bisogno di un tabù esplicito, e in modo particolare non spiega il caso dell’incesto tra fratello e sorella. Questa teoria non tiene conto, inoltre, delle scoperte sopra descritte relative al disinteresse sessuale in connessione con l’ipotesi di Westermarck.

IV.III. La teoria della disgregazione familiare.Questa teoria, spesso legata al nome di Bronislaw Malinowski, può essere riassunta come segue: la competizione sessuale tra i membri della famiglia creerebbe una tensione tale da mettere in crisi la sua stessa unità; poiché ai fini della sopravvivenza della società è indispensabile che la famiglia funzioni in modo efficiente, è necessario impedire la competizione all’interno di essa. Il tabù dell’incesto è quindi un’imposizione che permette di mantenere la famiglia integra. Tale ipotesi non è tuttavia del tutto convincente. Le società avrebbero potuto introdurre ulteriori regole, relative ai rapporti sessuali tra certi membri della famiglia, che eliminassero la competizione potenzialmente disgregatrice. In secondo luogo, quali sono gli effetti disgreganti dell’incesto tra fratello e sorella?? Abbiamo già visto come matrimoni tra fratelli esistessero nell’antico Egitto. L’incesto tra fratello e sorella non metterebbero in discussione l’autorità dei genitori se ai figli fosse consentito di sposarsi in età adulta. La teoria della disgregazione familiare non spiega dunque l’origine del tabù dell’incesto.

IV.IV. La teoria della cooperazione.Questa teoria fu proposta da uno dei primi antropologi, Edward B. Tylor, e venne poi rielaborata da Lesile A. White e da Claude Lévi-Strauss. Essa attribuisce al tabù dell’incesto la funzione di promuovere la cooperazione tra gruppi familiari e quindi di aiutare la sopravvivenza delle comunità. Secondo Tylor alcune operazioni necessarie al benessere della comunità possono essere svolte solo attraverso la collaborazione di un ingente numero di persone. Per rompere il sospetto e l’ostilità che dividevano i gruppi familiari e rendere in tal modo possibile la collaborazione, i primi uomini inventarono il tabù dell’incesto, il quale garantiva che il matrimonio avvenisse tra persone di gruppi diversi. I legami creati attraverso questi matrimoni misti servivano a tenere unità la comunità. L’idea che il matrimonio fra gruppi diversi promuova la collaborazione è plausibile, ma esistono prove che la

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confermano?? In alcune società, dopotutto, il matrimonio coinvolge gruppi ostili. In tutte le società recenti le persone si sposano fuori dalla famiglia; non siamo quindi in grado di verificare se questi matrimoni promuovano la collaborazione più di quanto accadrebbe nel caso di matrimoni all’interno della famiglia. Possiamo, comunque, verificare l’esistenza di una collaborazione laddove il matrimonio coinvolga comunità differenti. In questi casi i dati non confermano la teoria della cooperazione. Dove il matrimonio all’interno della comunità è proibito e avviene solo tra comunità differenti, non per questo i conflitti sono minori. Per quanto il tabù dell’incesto possa favorire la cooperazione tra le famiglie, la necessità di collaborazione non spiega adeguatamente l’esistenza del tabù in tutte le società; vi potrebbero essere, infatti, altre pratiche atte a promuovere simili alleanze. La teoria della cooperazione non affronta, inoltre, l’aspetto sessuale del tabù dell’incesto. Ipoteticamente le società potrebbero permettere il sesso incestuoso e contemporaneamente promuovere il matrimonio fuori dalla famiglia.

IV.V. La teoria dell’inbreeding.Secondo una delle teorie più antiche il tabù dell’incesto si spiega in ragione delle potenziali conseguenze negative dell’inbreeding (= unione tra consanguinei). I membri della stessa famiglia tendono ad essere portatori dei medesimi caratteri recessivi nocivi; in caso di accoppiamento tra consanguinei potrebbe, quindi, nascere una prole più soggetta a morte precoce a causa di difetti genetici. Per molti anni questa teoria non è stata accettata, poiché, sulla base delle esperienze derivanti dall’allevamento dei cani, si era radicata la convinzione che l’inbreeding non fosse necessariamente dannoso. La pratica dell’inbreeding impiegata per creare razze canine vincitrici di premi non rappresenta, tuttavia, un criterio valido per stabilire se questo tipo di accoppiamento sia pericoloso o meno. Gli allevatori di cani, infatti, non tengono conto degli esperimenti mal riusciti, di cui essi si liberano per raggiungere il proprio scopo. Oggi siamo in possesso di una notevole quantità di prove che dimostrano che, sia negli esseri umani sia nelle altre specie animali, più stretto è il legame di parentela tra i 2 soggetti dell’accoppiamento, maggiore è il rischio di conseguenze negative sul piano genetico. Anche gli accoppiamenti tra parenti non stretti hanno conseguenze dannose (per quanto di grado minore). I dati su questi casi confermano la teoria relativa all’accoppiamento tra consanguinei: la probabilità che un bambino erediti una dose doppia di geni recessivi dannosi si riduce al diminuire del grado di parentela tra i genitori. Alcuni avanzano dei dubbi relativamente all’ipotesi che le popolazioni del passato abbiano deliberatamente introdotto il tabù dell’incesto perché a conoscenza degli effetti negativi dell’inbreeding. Altri, invece, ritengono che ciò sia potuto accadere. Se è vero, comunque, che le conseguenze dell’inbreeding erano ampiamente riconosciute, è ipotizzabile che le popolazioni abbiano deliberatamente inventato o fatto proprio il tabù dell’incesto. Che la pericolosità dell’unione tra consanguinei fosse nota o meno, le conseguenze demografiche del tabù dell’incesto rendono comunque ragione della sua universalità, dal momento che è molto probabile che i gruppi che praticano il tabù abbiano maggiori vantaggi di ordine riproduttivo e quindi siano avvantaggiati anche nella competizione. Benché possano esistere altre soluzioni culturali, al di là del tabù dell’incesto, in grado di produrre gli effetti previsti dalla teoria della disgregazione della famiglia e dalla teoria della cooperazione, il tabù dell’incesto rappresenta l’unica soluzione possibile al problema dell’inbreeding. Come vedremo, il tabù dell’incesto può estendersi o meno all’incrocio tra cugini.

V. Chi dovremmo sposare??V.I. I matrimoni combinati.In un numero considerevole di società i matrimoni vengono combinati: i negoziati sono gestiti dalle famiglie coinvolte, oppure da intermediari. In alcuni casi il fidanzamento inizia quando i futuri coniugi sono ancora bambini. A volte gli sposi non si incontrano fino al giorno delle nozze. Alla base del matrimonio combinato vi è la convinzione che l’unione di 2 gruppi parentali e la conseguente nascita di nuovi legami sociali ed economici siano più importanti della libertà di scelta e dell’amore romantico. In molti paesi il matrimonio combinato è in declino e le coppie iniziano ad avere maggior voce in capitolo sulla scelta del coniuge.

V.II. Esogamia ed endogamia.Quando il coniuge viene scelto all’esterno del gruppo parentale o al di fuori della comunità si parla di esogamia. Frequentemente gli sposi provengono da regioni molti distanti. Laddove esistano le regole dell’esogamia, vi è la convinzione che le trasgressioni siano rischiose: nell’isola Yap della Micronesia, ad esempio, gli anziani affermano che se 2 individui dello stesso

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gruppo parentale si sposassero, non avrebbero figlie femmine e il gruppo si estinguerebbe. L’endogamia impone il matrimonio tra individui di uno stesso gruppo. In India tradizionalmente i gruppi castali sono sempre stati endogamici. Coloro che appartenevano alle caste superiori credevano che un matrimonio con individui di casta inferiore li avrebbe contaminati e quindi simili unioni erano proibite.

V.III. I matrimoni tra cugini.La terminologia parentale utilizzata dalla maggior parte degli abitanti degli Stati Uniti non distingue tra i diversi tipi di cugini. In altre società simili distinzioni possono essere utili, soprattutto per i cugini di primo grado: i termini che si riferiscono a tipi diversi di primi cugini possono indicare quale cugino è un coniuge adatto (o perfino preferibile) e quale non lo è. Molte società proibiscono il matrimonio con tutti i cugini di primo grado; altre, invece, consentono e addirittura incoraggiano il matrimonio tra determinati cugini. I cugini incrociati sono figli di fratelli di sesso opposto. I cugini paralleli sono figli di fratelli dello stesso sesso. In generale nelle società che permettono il matrimonio con i cugini incrociati e non con quelli paralleli, con i primi si instaura un rapporto di scherzo, mentre con gli altri si stabiliscono relazioni formali e rispettose. A quanto pare la relazione scherzosa designa la possibilità di matrimonio, mentre la relazione di rispetto è indice dell’estensione del tabù dell’incesto. Nel caso in cui il matrimonio tra cugini di primo grado sia ammesso, esso di norma interessa alcuni cugini incrociati. Il matrimonio tra cugini paralleli è piuttosto raro. Uno studio transculturale ha dimostrato che è più probabile che i matrimoni tra cugini siano permessi nelle società relativamente grandi e densamente popolate. La ragione di ciò è, presumibilmente, che in queste società la probabilità che si verifichino i suddetti matrimoni è minima, e di conseguenza è molto basso anche il rischio dell’inbreeding. Esistono piccole società la cui popolazione è scarsa, che tuttavia permettono o talvolta prediligono il matrimonio tra cugini. Sembra infatti che essi mettano in dubbio la teoria secondo cui il matrimonio tra cugini dovrebbe essere proibito nelle società scarsamente popolate, perché è in questi casi che le probabilità che si verifichino matrimoni tra parenti stretti sono maggiori e che i rischi dell’inbreeding sono più alti. Bisogna mettere in evidenza che la maggioranza delle piccole società che permettono il matrimonio tra cugini ha sofferto perdite ingenti di popolazione a causa di epidemie; e questo soprattutto dopo il contatto con gli europei. Questi ultimi avevano, infatti, introdotto malattie (es: il morbillo, la polmonite, il vaiolo) verso le quali i nativi non avevano sviluppato alcuna resistenza. In queste società il matrimonio tra cugini potrebbe essere stato introdotto per incrementare le possibilità di unioni all’interno dell’assai ridotta popolazione di coniugi possibili.

V.IV. Il levirato e il sororato.In molte società vige la regola secondo cui è obbligatorio sposare il coniuge di parenti deceduti. Il levirato è l’usanza che impone ad un uomo di sposare la vedova del fratello. Il sororato obbliga una donna a sposare il marito della propria sorella morta. Entrambe queste pratiche sono estremamente diffuse (rappresentano infatti una forma di secondo matrimonio obbligatorio riscontrabile nella maggior parte delle società studiate dall’antropologia). Questa usanza è spesso considerata più come un dovere che come un diritto.

VI. Quante persone possiamo sposare??Gli occidentali sono abituati a pensare al matrimonio come all’unione tra un solo uomo e una sola donna (monogamia). La maggior parte delle società studiate dall’antropologia, tuttavia, permette il matrimonio tra un uomo e più donne allo stesso tempo (poliginia). Anche in queste società si giunge ad un momento in cui la maggioranza degli uomini è monogama, poiché sono poche le società in cui il numero delle donne consente a molti uomini di avere almeno 2 mogli. La situazione speculare alla poliginia, ossia il matrimonio tra una donna e più uomini (poliandria), è rarissima. La poliginia e la poliandria sono i 2 tipi di poligamia, ossia di matrimonio plurimo. Il matrimonio di gruppo, che unisce più di un uomo a più di una donna allo stesso tempo, si verifica in alcuni casi, ma non rappresenta la norma in nessuna società.

VI.I. La poliginia (un uomo con più donne).In molte società la poliginia è indice dell’enorme ricchezza di un uomo o del suo status elevato. In queste società solo gli individui molto ricchi possono permettersi di mantenere più di una moglie, e da essi ci si aspetta che si comportino di conseguenza. Un uomo, tuttavia, non dev’essere necessariamente ricco per avere più mogli. In alcune società in cui le donne

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contribuiscono in modo sostanziale all’economia, infatti, sembra che gli uomini cerchino di avere più di una moglie per diventare più ricchi. Gli uomini poliginici effettivamente godono di maggior prestigio, tuttavia essi lamentano la difficoltà di una gestione familiare con molte mogli. Per quanto in molte società poliginiche sia possibile riscontrare la gelosia tra le mogli, esistono alcune società in cui essa sembra assente. Una ragione possibile dell’assenza o del basso livello di gelosie tra le mogli in alcune società è attribuibile al fatto che spesso le mogli sono sorelle (poliginia sororale). Sembra infatti che le sorelle, essendo cresciute insieme, siano più inclini ad andare d’accordo e a collaborare di quanto non facciano le mogli che non sono sorelle (poliginia non sororale). Esistono, inoltre, alcune usanze che attenuano la gelosia tra le mogli: le mogli che non sono sorelle tendono a vivere in abitazioni separate, mentre le mogli sorelle vivono quasi sempre insieme le mogli hanno uguali diritti ben definiti riguardo al sesso, alle questioni economiche e alle proprietà personali; la terra è, inoltre, suddivisa equamente tra le mogli, le quali si aspettano che il marito le aiuti nella coltivazione quando egli fa loro visita spesso le mogli più anziane godono di un prestigio speciale (status di "moglie principale"); essa ha il diritto di venire consultata prima delle altre. Sebbene possa sembrare che questa regola accresca la gelosia delle moglie secondarie, di solito queste ultime sono in qualche modo avvantaggiate, dato che di regola esse sono più giovani e più attraentiOccorre tenere presente inoltre che spesso coloro che la praticano considerano la poliginia molto vantaggiosa (sia a livello economico sia a livello politico), nonostante il fenomeno della gelosia. Avendo molti componenti, le famiglie poliginiche sono in grado di produrre cibo in eccedenza, con la possibilità di commerciarlo. Queste famiglie, inoltre, tendono ad esercitare un’influenza sulla comunità ed è probabile che da esse provengano gli individui che ricoprono cariche governative. Le donne, spesso, scelgono di sposare un uomo che ha già altre mogli perché esse possono aiutarle quando di tratta di badare ai figli e fare le faccende di casa, sono di compagnia, e assicurano una maggiore libertà. Alcune donne hanno detto di aver scelto un matrimonio poliginico perché vi erano pochi uomini liberi da vincoli. Secondo Linton la poliginia deriva dal bisogno generalizzato dei primati di radunare intorno a sé un certo numero di femmine. Ma se ciò fosse vero, perché allora alcune società la proibiscono?? Cerchiamo di esaminare alcune teorie che sono state proposte in alternativa a quella di Linton. Whiting ipotizza che la poliginia sia permessa nelle società che hanno un prolungato tabù sessuale post partum. In queste società la coppia deve astenersi dai rapporti sessuali finché il figlio non ha almeno un anno. Secondo l’autore le coppie osservano questa astinenza per salvaguardare la salute del figlio. A conferma della teoria di Whiting vi è il fatto che le società in cui ci si nutre principalmente di cibi a basso contenuto proteico (ossia di alimenti come radici e piante) tendono ad avere un prolungato tabù sessuale post partum. Le società che praticano un prolungato tabù post partum tendono anche ad essere poliginiche. È quindi probabile che il fatto di avere più di una moglie rappresenti una risposta culturale al tabù. Per quanto sia comprensibile che gli uomini cerchino altre relazioni sessuali durante il periodo del tabù, non è del tutto chiaro perché la poliginia debba rappresentare l’unica soluzione al problema. È possibile, in fondo, che tutte le mogli di un uomo siano soggette al tabù sessuale post partum nello stesso periodo. Esiste, inoltre, la possibilità di ricercare sfoghi sessuali al di fuori del matrimonio. Un’altra ipotesi avanzata per spiegare la poliginia è che essa rappresenti una risposta all’esubero del numero di donne rispetto a quello degli uomini. Tale sproporzione tra i sessi può essere causata da conflitti (guerre) ricorrenti. Al contrario, le società equilibrate dal punto di vista numerico tendono sia a praticare la monogamia sia ad avere una bassa mortalità maschile legata alla guerra. Un’altra ipotesi esplicativa è che le società permettono la poliginia laddove gli uomini si sposano ad un’età più avanzata rispetto alle donne. Il principio logico è analogo a quello della sproporzione numerica tra i sessi. Il ritardo matrimoniale produce un esubero del numero di donne da marito. La ragione per cui gli uomini si sposano tardi non è chiara; è vero, tuttavia, che tale ritardo ha come conseguenza la poliginia.Esiste una teoria, tra quelle sopra illustrate, che si dimostra più attendibile delle altre, oppure tutte e 3 i fattori messi in evidenza sono ugualmente importanti per spiegare la poliginia?? Un modo per poter scegliere tra spiegazioni alternative consiste nell’effettuare un controllo statistico che ci permetta di individuare se un particolare fattore è ancora determinante qualora vengano eliminati gli effetti degli altri. Nel nostro caso, per esempio, in assenza di una sproporzione numerica fra i sessi, un prolungato tabù sessuale post partum non è più necessariamente correlato alla poliginia. È quindi probabile che questo tabù non ne sia la

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causa. D’altro canto sia l’esubero del numero delle donne sia il prolungamento dell’età in cui si sposano gli uomini sembrano influire in modo determinante sulla poliginia. Sommati fra loro, questi 2 fattori sono ancora più determinanti.

VI.II. La poliandria (una donna con più uomini).Sono solo 4 le società in cui si pratica la poliandria. Esistono 2 forme di poliandria: quella adelfica (nel caso in cui i mariti siano fratelli) e quella non adelfica. Coloro che praticano la poliandria adelfica non attribuiscono un’importanza particolare alla paternità biologica; essi non si curano di stabilire un legame tra i fratelli biologici e trattano tutti i figli allo stesso modo. Le possibili spiegazioni della poliandria sono 2: la penuria di donne. I toda, per esempio, praticavano l’infanticidio delle bambine; i cingalesi avevano poche donne, ma negavano di praticare l’infanticidio femminile. La stretta correlazione esistente tra la scarsità di donne e la poliandria rende ragione della rarità della poliandria stessa. Se confrontato transculturalmente, infatti, l’esubero del numero degli uomini è una rarità. quella che vi attribuisce il valore di risposta adattiva a risorse limitate. In queste regioni i terreni coltivabili scarseggiano; la maggior parte delle famiglie possiede meno di un acro di terra. I membri della popolazione affermano che la pratica della poliandria adelfica serve ad impedire la divisione delle fattorie familiari (allevamenti compresi). Invece di dividere tra loro la terra sposandosi con donne diverse, i fratelli preservano l’integrità della fattoria di famiglia condividendo la stessa moglie. Benché queste società non lo riconoscano, la loro pratica della poliandria riduce la crescita della popolazione. Sebbene, infatti, il numero delle donne in età da marito sia pari a quello degli uomini, le donne non sposate sono il 30%. Benché anch’esse abbiano dei figli, il numero di questi ultimi è generalmente inferiore se confrontato con quello dei bambini delle donne sposate. La pratica della poliandria riduce dunque al minimo il numero di bocche da sfamare ed eleva al massimo lo standard di vita della famiglia.

VII. La famiglia.Per quanto le forme di famiglia conoscano una notevole variabilità nelle diverse società, l’istituzione familiare esiste ovunque. La famiglia è un’unità sociale ed economica costituita almeno da uno o più genitori e dai loro figli. I membri di una famiglia hanno determinati diritti e doveri gli uni rispetto agli altri, particolarmente di genere economico. Di solito i membri di una famiglia vivono in un edificio comune (la household), anche se la condivisione del domicilio non è una caratteristica peculiare. Nelle società più semplici la famiglia e la casa tendono ad essere inscindibili; solo nelle società complesse e in quelle che cominciano a dipendere dagli scambi commerciali alcuni membri della famiglia vivono lontani. La famiglia costituisce per il bambino il primo ambiente di apprendimento. Mentre alcuni animali, come i pesci, provvedono a se stessi subito dopo la nascita, i mammiferi non sono in grado di farlo. Il piccolo dell’uomo in particolare rimane a lungo non autosufficiente. Poiché la sua maturazione biologica è lenta, l’uomo non possiede risposte innate che gli semplifichino l’adattamento al mondo che lo circonda. Di conseguenza egli deve apprendere un repertorio di nozioni e di comportamenti per diventare un adulto capace, un membro della società.

VII.I. Le varie forme di famiglia.Nella maggior parte delle società le famiglie hanno un’estensione maggiore rispetto a quella che contraddistingue la famiglia formata da un genitore singolo (di solito in questi casi il genitore è la madre e si parla quindi di famiglia matrifocale), quella monogamica o nucleare (in cui vi è una sola coppia di coniugi) o quella poligamica (di solito poliginia). La famiglia estesa rappresenta la forma prevalente in più della metà delle società note all’antropologia. Essa consiste nell’unione di 2 o più famiglie (siano esse monogamiche, poligamiche o formate da un solo genitore) che sono accomunate da un legame di sangue. Il più delle volte le famiglie estese sono formate da una coppia sposata e da 2 o più figli sposati che vivono insieme nella stessa casa o nella stessa household. Normalmente tra le famiglie nucleari che costituiscono la household vi è un legame di tipo genitore-figlio. Talvolta, invece, la famiglia estesa è formata da famiglie legate da parentela fraterna. Le famiglie estese possono essere anche molto grandi e comprendere un gran numero di parenti fino a 3 o a 4 generazioni successive.

VII.II. Le famiglie estese.

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Nelle società composte da household di famiglie estese il matrimonio non comporta un significativo cambiamento nello stile di vita. Nelle famiglie estese gli sposi novelli vengono assimilati al gruppo famigliare esistente. La giovane coppia generalmente ha molto poco potere decisionale in merito all’amministrazione della household. In genere questa responsabilità è conferita all’uomo anziano. La nuova famiglia non può neppure accumulare beni propri e diventare indipendente: essa, infatti, fa parte di una struttura corporativa più grande. Alla famiglia estesa è più facile perpetuarsi come unità sociale. Mentre la famiglia nucleare indipendente, infatti, per definizione si disintegra alla morte dei membri anziani (i genitori), quella estesa si perpetua poiché ad essa si vengono ad aggiungere sempre nuove famiglie (monogamiche, poligamiche o di entrambi i tipi) i cui membri sono destinati a diventare i membri anziani alla morte dei loro predecessori.

VII.III. Le ragioni dell’esistenza delle famiglie estese.Le famiglie estese si riscontrano con maggior frequenza nelle società sedentarie ad economia agricola. Ciò significa che le condizioni economiche possono influire sul tipo di organizzazione familiare. La vita agricola, al contrario di quella basata sulla caccia e sulla raccolta, favorisce il formarsi di famiglie allargate. Questo tipo di famiglia rappresenterebbe, nelle società in cui la proprietà della terra è di estremo valore, un meccanismo sociale atto a prevenire la frammentazione, economicamente dannosa, della proprietà familiare. Il bisogno di mobilità delle società di cacciatori e raccoglitori, al contrario, renderebbe difficile la conservazione di households formate da famiglie allargate. Durante determinate stagioni i cacciatori-raccoglitori potrebbero essere costretti a dividersi in famiglie nucleari disseminate in aree differenti del territorio. L’agricoltura, tuttavia, non è un indice sicuro della presenza di households familiari. Secondo un’altra teoria, queste households prevalgono nelle società in cui vi sia la necessità di svolgere attività tra loro incompatibili. In base a questa teoria una situazione favorevole si verifica quando la madre deve svolgere delle attività fuori casa (coltivazione dei campi o raccolta di cibo su grandi distanze) che le impediscono di accudire i figli e di occuparsi delle faccende di casa. Lo stesso vale qualora il padre debba svolgere attività esterne (la guerra, i viaggi di commercio, il lavoro salariato lontano da casa) che gli rendono difficile dedicarsi al lavoro di sussistenza. Nel caso in cui le società pratichino scambi commerciali o monetari, tuttavia, anche laddove esistano attività di sussistenza tra loro incompatibili, è possibile che non vi siano households di questo tipo; in queste società, infatti, la famiglia è in grado di ottenere l’aiuto necessario "comprando" i servizi di cui ha bisogno.

VIII. La residenza coniugale.In molte società industrializzate una coppia, dopo il matrimonio (se non l’ha già fatto prima) va ad abitare lontano dai genitori e da altri parenti (residenza neolocale). Al contrario, nel maggior numero di società studiate dall’antropologia, una nuova coppia si stabilisce molto vicino o presso la famiglia dei genitori o di altri parenti stretti dello sposo o della sposa. Laddove le coppie abitano vicino ai parenti è logico attendersi che le relazioni di parentela si configurino come un elemento centrale della vita sociale. Conoscendo il tipo di residenza matrimoniale è possibile predeterminare quali tipi di gruppi di parentela saranno presenti in una società, e anche il modo in cui gli individui denomineranno e classificheranno i propri parenti.

VIII.I. Tipi di residenza.Nelle società in cui una nuova coppia di sposi abita per tradizione presso un gruppo di parenti, i modelli di residenza matrimoniale variano alquanto. In tutte le società i figli sono obbligati a sposarsi fuori dalla famiglia nucleare (a causa del tabù dell’incesto), e in quasi tutte le società gli sposi, dopo il matrimonio, vivono insieme (vi è però qualche eccezione): a causa di ciò uno dei 2 sposi deve lasciare la propria casa. I tipi di residenza possibile si riconducono a 5: RESIDENZA PATRILOCALE: i figli maschi restano e le figlie se ne vanno, e quindi gli sposi abitano insieme, o vicino, ai genitori del marito RESIDENZA MATRILOCALE: le figlie restano e i maschi se ne vanno, e quindi gli sposi abitano insieme, o vicino, ai genitori della moglie RESIDENZA AMBILOCALE: sia i figli sia le figlie possono andarsene, e quindi gli sposi abitano insieme, o vicino, ai genitori della moglie o del marito RESIDENZA AVUNCOLARE: sia i figli sia le figlie se ne vanno, e gli sposi abiteranno insieme, o vicino, allo zio materno del maritoIn queste definizioni utilizziamo la frase "gli sposi abitano insieme, o vicino" ad un determinato gruppo di parenti, intendendo che la coppia può vivere con quei parenti nella

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stessa households, creando una famiglia allargata, o che può vivere separata come nucleo indipendente, ma pur sempre nei pressi della residenza dei parenti. RESIDENZA NEOLOCALE: sia i figli sia le figlie se ne vanno, e gli sposi abitano lontano sia dai parenti della moglie, sia dai parenti del maritoIl modello di residenza stabilisce in larga misura con quali persone si deve interagire a da quali si deve dipendere. Il tipo di residenza, inoltre, ha notevoli conseguenze sullo status del marito e della moglie: se una coppia stabilisce la propria residenza presso i genitori del marito, è probabile che la moglie sarà lontana dai propri parenti. In ogni caso ella sarà considerata un’estranea rispetto al gruppo dei parenti maschi, che sono cresciuti insieme. La sensazione di essere un’estranea sarà particolarmente forte qualora la donna giunga in una famiglia estesa. In una famiglia estesa patrilocale, dell’autorità è investita la linea maschile, soprattutto il membro più anziano della households. Nel caso in cui sia il marito a recarsi presso i genitori della moglie la situazione muta: in questo caso, infatti, è il marito ad essere l’estraneo. Tuttavia, la situazione matrilocale non è l’esatto opposto di quella patrilocale, perché spesso, nelle società matrilocali, i parenti del marito non sono lontani dalla residenza degli sposi. Inoltre, nonostante la residenza matrilocale, spesso le donne non hanno il potere decisionale che invece possiedono i loro fratelli.

VIII.II. La residenza neolocale.Molti antropologi hanno ipotizzato che la residenza neolocale sia in qualche modo correlata alla presenza di un’economia commerciale. Laddove è possibile vendere il proprio lavoro o i propri prodotti in cambio di denaro, una coppia può acquistare ciò che le è necessario per vivere, senza dover dipendere dai parenti. Poiché non è deperibile, il denaro può venire accantonato per essere poi utilizzato in un momento successivo. In tal modo, nei periodi di disoccupazione o di malattia, è possibile fare affidamento sui propri risparmi (o ricorrere ad un aiuto monetario del governo, così come accade nella nostra società). Questa strategia si rivela inapplicabile nelle economie non monetarie. A sostenere questa interpretazione concorrono testimonianze etnografiche transculturali. La presenza del denaro, dunque, pare essere associata alla residenza neolocale: sembra che il denaro permetta alle coppie di abitare da sole. Perché esse scelgano di farlo resta nondimeno difficile da spiegare . È possibile che nelle economie commerciali sia più opportuno vivere per proprio conto in quanto i lavori che sono disponibili richiedono una notevole mobilità fisica o sociale. O forse le coppie vogliono evitare alcune delle tensioni psicologiche e delle richieste che la convivenza con i parenti può generare.

VIII.III. Residenza matrilocale VS residenza patrilocale.Di solito si sostiene che nelle società in cui i figli sposati vivono insieme, o vicino, ai parenti, la residenza sarà patrilocale laddove il contributo maggiore all’economia sarà dato dagli uomini, e matrilocale laddove il contributo prevalente sarà quello femminile. Benché questa ipotesi sia plausibile, le analisi transculturali non la confermano. Inoltre, se sommassimo il lavoro fatto fuori casa a quello domestico, la maggior parte delle società dovrebbe essere matrilocale, poiché di solito sono le donne a dover affrontare il carico maggiore di lavoro. Possiamo determinare se la residenza sarà matrilocale o patrilocale, invece, in base al tipo di guerra praticano in una data società. Nella maggior parte delle società studiate dagli antropologi le comunità vicine si considerano reciprocamente nemiche. Gli studi transculturali evidenziano come nel caso di conflitti interni la residenza sia quasi sempre di tipo patrilocale, mentre nel caso di guerre solo esterne essa sia matrilocale. È possibile avanzare l’ipotesi che la residenza patrilocale tenda ad essere associata alla guerra interna in quanto permette di avere vicini i figli maschi, i quali forniscono un aiuto nella difesa. Poiché di norma le donne non prendono parte ai conflitti, l’opzione di fare rimanere i figli sposati vicino a casa può essere stata selezionata come strumento per avere una forza di combattimento leale e veloce da radunare nel caso di una attacco a sorpresa. Se la guerra è esclusivamente esterna, invece, non è necessario tenere i figli presso di sé, in quanto non vi sono rischi di attacchi da parte di comunità vicine. In presenza di una guerra esclusivamente esterna, allora, la scelta della residenza coniugale può essere determinata da altre considerazioni, soprattutto di tipo economico. Se sono le donne a svolgere la maggior parte del lavoro di sussistenza, le famiglie desidereranno tenere con sé le figlie sposate, e in tal modo il modello di residenza sarà matrilocale (e viceversa). Forse è soltanto in assenza di guerra interna che una divisione del lavoro che prevede un carico maggiore sulle donne dà luogo ad un tipo di residenza matrilocale. La residenza matrilocale, anche in assenza di guerra esterna, è riscontrabile

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laddove gli uomini, per motivi di lavoro, intraprendono viaggi che li portano frequentemente lontani per lunghi periodi.

IX. La struttura della parentela e le regole di discendenza.Nelle società non commerciali i legami di parentela strutturano molte aree della vita sociale (dal tipo di accesso alle risorse produttive, al tipo di alleanze politiche). Dato che la parentela è così importante, esiste il problema, per ciascun individuo, di stabilire qual è il gruppo a cui egli appartiene e da cui dipende. Dopotutto, se a ciascun parente si attribuisce la stessa importanza, la rete di parentela del soggetto sarebbe affollata da un inimmaginabile numero di persone. Di conseguenza nella maggior parte delle società in cui i legami di parentela rivestono una notevole importanza, vi sono regole che permettono di affiliare ciascun individuo ad un gruppo di parentela ben preciso.

IX.I. Le regole della discendenza.Le regole che legano gli individui a particolari gruppi di parentela sulla base dell’esistenza di un antenato comune noto o presunto sono dette regole di discendenza. Sulla base delle regole operanti nella loro società gli individui possono sapere qual è il gruppo di parentela al quale devono rivolgersi se hanno bisogno di collaborazione o di aiuto. Le regole di discendenza note sono soltanto 3: la discendenza patrilineare è la più frequente. Affilia un individuo ai parenti di entrambi i sessi a lui (o a lei) legati esclusivamente attraverso la linea maschile. Nei sistemi patrilineari i figli (maschi e femmine) appartengono al gruppo parentale del padre; il padre, a sua volta, appartiene al gruppo di suo padre, e così via. Sebbene i figli e le figlie di un uomo siano tutti i membri dello stesso gruppo di discendenza, l’affiliazione a quel gruppo viene trasmessa alla prole solo dai figli maschi la discendenza matrilineare affilia un individuo ai parenti di entrambi i sessi a lui (o a lei) legati esclusivamente attraverso la linea femminile. Nei sistemi patrilineari i figli (maschi e femmine) appartengono al gruppo parentale della madre. Sebbene i figli o le figlie di una donna siano tutti membri dello stesso gruppo di discendenza, l’affiliazione a quel gruppo viene trasmessa alla prole solo dalle figlie la discendenza ambilineare affilia un individuo ai parenti a lui (o a lei) legati attraverso la linea femminile o quella maschile. Nei sistemi ambilineari alcuni individui sono affiliati ad un gruppo parentale attraverso i loro padri; altri attraverso le loro madri. Di conseguenza nei gruppi di discendenza sono al contempo presenti legami genealogici maschili e legami genealogici femminiliDi solito, anche se non sempre, queste 3 regole si escludono a vicenda. La maggior parte delle società è caratterizzata dall’applicazione di un’unica regola, ma alcune società hanno ciò che è stata definita una discendenza doppia o discendenza unilineare doppia. In questi casi un individuo è affiliato per alcuni scopi al gruppo di parentela matrilineare, e per altri a quello patrilineare. In tal modo 2 diverse regole di discendenza, ciascuna operante attraverso i membri di un solo sesso, divengono operative nello stesso momento. Nel caso in cui siano compresenti, per esempio, il sistema matrilineare e quello patrilineare, alla nascita gli individui apparterranno contemporaneamente a 2 gruppi distinti: il gruppo matrilineare della madre e quello patrilineare del padre.

X. La parentela bilaterale.In molte società, tra cui la nostra, la parentela è di tipo bilaterale, nel senso che i parenti del lato femminile e quelli del lato maschile hanno la stessa importanza (in positivo e in negativo). Il termine parentado indica il gruppo di parentela bilaterale di un individuo; è di solito un gruppo ben definito. Le società con un tipo di parentela bilaterale differiscono tra loro proprio riguardo all’ampiezza del parentado: nelle società come la nostra, in cui la parentela ha un’importanza relativamente scarsa, i parenti inclusi nel parentado sono pochi; nelle società in cui i legami di parentela rivestono molta importanza, invece, il parentado è più esteso. L’elemento caratterizzante della parentela bilaterale è che, fatta eccezione per i fratelli e le sorelle, non esistono 2 persone che appartengano allo stesso gruppo. Il mio parentado include parenti stretti del lato materno e di quello paterno, ma gli individui appartenenti al mio parentado sono accomunati tra loro soltanto dal legame che hanno con me (cioè con ego). Il parentado, quindi, è un gruppo di parentela ego-centrato. È proprio la natura del parentado che rende difficile servirsi di esso come di un gruppo stabile. La sola cosa che i membri di una parentado hanno in comune è il loro legame con ego. Il parentado di solito non

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ha un nome, né scopi specifici, e solo di tanto in tanto organizza incontri centrati intorno ad ego.

XI. La discendenza unilineare.Le regole di discendenza matrilineare e patrilineare sono entrambe regole di discendenza unilineari, nel senso che un individuo è affiliato ad un gruppo di parentela attraverso la linea di discendenza maschile o femminile. Tali regole affiliano un individuo ad una linea di parentela che risale all’indietro nel passato e che si estende nel futuro. In virtù di questa linea di discendenza alcuni parenti molto stretti vengono esclusi. In un sistema patrilineare, per esempio, mia madre e i suoi genitori non appartengono al mio gruppo patrilineare, mentre mio padre e il padre di mio padre (e le sue sorelle) vi appartengono. In un sistema matrilineare o in un sistema patrilineare tra gli individui della mia stessa generazione alcuni cugini sono esclusi e, nella generazione dei miei figli, sono esclusi alcuni nipoti (maschi e femmine). Tuttavia, sebbene le regole unilineari escludano alcuni parenti dal mio gruppo di parentela, ciò non significa necessariamente che gli individui esclusi vengano ignorati o dimenticati. Al contrario, in molte società a discendenza unilineare questi parenti possono venire caricati di notevoli responsabilità. In una società patrilineare, per esempio, quando una persona muore, è possibile che ad alcuni membri del gruppo di discendenza patrilineare di sua madre venga accordato il diritto di celebrare determinati riti nel corso della cerimonia funebre. Differentemente da ciò che accade nelle società a discendenza bilineare, in quelle a discendenza unilineare si formano gruppi parentali dai confini ben definiti; tali gruppi possono agire come unità distinte anche dopo la morte dei singoli membri. Questo fatto è importante nel momento in cui i gruppi parentali devono agire come unità distinte e non sovrapponentisi. Se ciascun individuo appartiene ad un gruppo soltanto diventa più facile per i singoli agire insieme come gruppo. In un sistema bilineare, al contrario, non solo qualche volta è difficile stabilire quali siano gli esatti confini del parentado, ma vi è anche il problema che la stessa persona appartiene a molti parentadi diversi (quello dei figli, quello dei cugini, ..).

XI.I. Gruppi a discendenza unilineare.Gli antropologi distinguono vari tipi di gruppi a discendenza unilineare: un lignaggio è un gruppo costituito da persone che discendono da uno stesso antenato attraverso legami genealogici noti. Esistono patrilignaggi e matrilignaggi, a seconda che i legami con l’antenato siano tracciati solo lungo la linea maschile o solo lungo quella femminile. Spesso i lignaggi vengono designati con il nome dell’antenato (o dell’antenata) comune. In alcune società gli individui appartengono a lignaggi che sono organizzati gerarchicamente un clan è un gruppo costituito da persone che discendono da uno stesso antenato attraverso legami genealogici non precisati. L’antenato, infatti, è sconosciuto. I clan a discendenza patrilineare sono detti patriclan; quelli a discendenza matrilineare sono detti matriclan. I clan spesso sono designati con il nome di una pianta o di un animale (il totem), che ha per il clan un particolare valore e che rappresenta il simbolo di un’identità collettiva. Il termine totem deriva da ototem che significa "un mio parente". In alcune società nei confronti dell’animale totemico del proprio clan è necessario osservare dei tabù. Essi includono, ad esempio, la proibizione di uccidere o di cibarsi dell’animale totemico. una fratria è un gruppo di discendenza unilineare costituito da più clan che si suppone abbiano tra loro legami di parentela. Così come nel caso del clan, i legami genealogici con l’antenato non sono precisati quando una società è divisa in soli 2 gruppi di discendenza unilineare, ciascun gruppo viene detto una metà. I membri di ciascuna metà si considerano i discendenti di un antenato comune, anche se non sono in grado di giustificare il legame di discendenza. Le società divise in metà sono piuttosto piccole, mentre quelle con fratrie e clan hanno un numero maggiore di membri nonostante sia possibile distinguere diversi tipi di gruppi a discendenza unilineare, non dobbiamo pensare che tutte le società unilineari abbiano un solo tipo di discendenza. In molte società sono presenti 2 o più sistemi combinati in vario modo. Se si esclude la necessità della presenza di clan laddove esistono fratrie (dato che le fratrie sono combinazioni di clan), tutte le combinazioni sono possibili

XI.II. L’organizzazione patrilineare.L’organizzazione patrilineare è il sistema di discendenza più diffuso. I componenti maschili di un patrilignaggio costituiscono la popolazione maschile di un singolo villaggio o, più spesso, di villaggi vicini. In altri termini il lignaggio rappresenta un’unità territoriale. I componenti

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maschili del lignaggio vivono insieme, sia grazie alla regola di residenza patrilocale, sia perché il modello di insediamento è permanente. Un figlio maschio rimane vicino ai propri genitori, e porta la moglie a vivere nella casa del padre o nei suoi pressi; le figlie, invece, al momento del matrimonio abbandonano la famiglia e vanno a stabilirsi presso i propri mariti. Se il lignaggio è grande, verrà diviso in sottolignaggi, costituiti da coloro che tracciano la propria ascendenza fino ad uno dei figli maschi dell’antenato capostipite del lignaggio. I membri dello stesso patrilignaggio hanno tra loro relazioni amichevoli, e vi è un capo che mantiene la legge e l’ordine all’interno del gruppo. Il capo del sottolignaggio tenta di risolvere ogni problema interno il più velocemente e il più pacificamente possibile. Se un membro del sottolignaggio commette un crimine nei confronti di un individuo esterno al gruppo, è possibile che tutti i membri del sottolignaggio siano considerati responsabili e che le loro proprietà siano confiscate, oppure può accadere che un membro del sottolignaggio venga ucciso per vendetta da un parente della vittima. All’interno vi possono essere anche i clan e le fratrie. È inoltre vietato sposare qualcuno del proprio clan. In altri termini il clan è esogamico. Diversamente dai membri di un patrilignaggio, gli uomini di un patriclan non vivono insieme. È quindi il lignaggio il gruppo più vasto di parenti che abbia una corrispondenza territoriale. Il lignaggio è anche l’unità più vasta di comune azione politica: tra i membri del clan non vi sono strumenti per risolvere le dispute, e i membri dello stesso patriclan (che appartengono a lignaggi differenti) possono anche combattersi l’un l’altro. Il gruppo a discendenza patrilineare più inclusivo è la fratria, che è costituita da 2 o più clan. I membri di una fratria osservano tutti i tabù totemici dei clan che fanno parte della fratria. I membri di una stessa fratria, perché di clan differenti, possono sposarsi l’un l’altro.

XI.III. L’organizzazione matrilineare.Sebbene le società a discendenza matrilineare possano apparire per molti versi l’immagine speculare della loro controparte patrilineare, esiste un’importante differenza, che riguarda l’esercizio dell’autorità. Nei sistemi patrilineari la discendenza è trasmessa per via maschile e sono gli uomini ad esercitare l’autorità; di conseguenza la linea della discendenza e quella dell’autorità convergono. Nei sistemi matrilineari, invece, sebbene la linea della discendenza passi attraverso le donne, è raro che esse esercitino un’autorità sul loro gruppo parentale (di norma sono gli uomini a farlo). La linea della discendenza e quella dell’autorità, dunque, non convergono. Gli antropologi non sono in grado di spiegare esaurientemente perché ciò accada, ma questa è una realtà etnografica. Dato che sono gli uomini ad esercitare l’autorità nel gruppo parentale, il fratello della madre di un individuo rappresenta una figura importante dal punto di vista dell’autorità, in quanto è il parente maschio patrilineare più stretto nella generazione dei genitori dell’individuo stesso. Il padre, infatti, non appartiene al gruppo parentale matrilineare, e quindi nel suo ambito non può esercitare alcuna autorità. Lo scollamento tra autorità e discendenza che caratterizza un sistema patrilineare ha conseguenze sia sull’organizzazione della comunità, sia sul matrimonio. La maggior parte delle società matrilineari pratica la residenza matrilocale: dopo il matrimonio i figli lasciano la casa dei genitori per raggiungere le mogli. I figli che partono, però, sono gli stessi che dovrebbero esercitare l’autorità nell’ambito del proprio gruppo parentale. Ciò rappresenta un problema. La soluzione a cui si è giunti in molte società matrilineari è che i maschi si spostino, ma senza allontanarsi troppo (spesso infatti gli uomini si sposano con donne del proprio villaggio). In tal modo le società matrilineari tendono a non essere esogamiche localmente, mentre le società patrilineari di norma lo sono. Le donne del matrilignaggio e i loro mariti occupano un gruppo di abitazioni sul territorio di proprietà del matrilignaggio. Le proprietà del gruppo sono amministrate dal fratello più anziano, che le distribuisce e che dirige il lavoro dei membri. Egli inoltre rappresenta il proprio gruppo negli affari con altri capi e con gli stranieri, e dev’essere consultato per ogni problema che può sorgere nell’ambito del lignaggio. Vi è anche una donna anziana che esercita una certa autorità, ma solo nell’ambito delle attività che competono alle donne: essa sovrintende al lavoro collettivo delle donne (che di solito si svolge separato da quello degli uomini) e regge la household. Nell’ambito della famiglia nucleare il padre e la

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lignaggio

clan

fratria

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madre hanno la responsabilità della cura e dell’educazione dei figli. Quando però un bambino giunge alla soglia della pubertà, il padre non ha più il diritto di esercitare su di lui alcuna autorità: è la madre che continua ad occuparsi della disciplina, con alcuni interventi del fratello.Tra sistemi patrilineari e sistemi matrilineari vi sono alcune differenze, ma anche molte somiglianze. In entrambi i sistemi possono esservi lignaggi, clan, fratrie e metà, da soli o in combinazione tra loro. Tali gruppi di parentela assolvono ad un gran numero di funzioni: stabiliscono le regole matrimoniali, si forniscono l’un l’altro aiuto economico e politico, celebrano insieme alcuni rituali. Ora che sappiamo qualcosa in più riguardo ai sistemi patrilineari, ci risulterà più chiara la norma di residenza avuncolocale. Sebbene sia relativamente rara, quasi tutte le società che la posseggono sono matrilineari. Come abbiamo visto, il fratello della madre riveste un ruolo importante in molte società patrilineari. Stabilirsi presso lo zio materno consente di costituire un gruppo di parentela matrilineare territoriale. Le società avuncolocali, diversamente da quelle matrilocali, hanno conflitti interni. Proprio come la patrilocalità può essere la risposta al bisogno di tenere presso di sé i figli maschi sposati, così l’avuncolocalità può rappresentare il modo per tenere presso di sé gli uomini sposati (appartenenti alla discendenza matrilocale) ed avere in tal modo a disposizione una forma di combattimento veloce da radunare nel caso di un attacco a sorpresa. Le società che già posseggono gruppi matrilineari forti ed efficienti, dovendo affrontare combattimenti interni e un’alta mortalità maschile, sceglieranno di praticare l’avuncolocalità piuttosto che passare alla patrilocalità.

XI.IV. La funzione dei gruppi a discendenza unilineare.I gruppi a discendenza unilineare esistono in tutte le società che presentano un alto livello di complessità sociale, ma sono più comuni nelle società non commerciali di produttori (rispetto a quelle dei raccoglitori). Tali gruppi svolgono spesso importanti funzioni in ambito sociale, economico, politico e religioso. Nelle società unilineari agli individui di norma non è permesso sposarsi all’interno dei proprio gruppi di discendenza. Alcune società, invece, pur proibendo il matrimonio nell’ambito dei gruppi ristretti, lo ammettono nell’ambito di gruppi di parentela più vasti. In altre ancora, infine, anche se poche per la verità, si preferisce proprio il matrimonio all’interno del gruppo di parentela. In generale, tuttavia, nelle società unilineari il tabù dell’incesto è esteso a tutti i parenti unilineari. Ai membri di un lignaggio o di un clan viene spesso richiesto di prendere le parti di un appartenente al gruppo in caso di dispute e di processi, di aiutare economicamente gli altri membri, di contribuire alla ricchezza della sposa, di sostenere chi è in difficoltà. L’aiuto reciproco spesso arriva sino ad una cooperazione economica permanente. Il gruppo può agire come un’unità corporativa riguardo alla proprietà della terra. Il denaro guadagnato (che provenga dalla vendita del raccolto, o da attività saltuaria esterna) talvolta viene considerato di proprietà comune. Ultimamente, però, in alcune zone i giovani non hanno voluto condividere il denaro, ritenendolo non omologabile agli altri aiuti economici. Il capo o il membro più anziano del lignaggio o del clan hanno di solito il compito di assegnare la terra ai diversi membri del gruppo. Essi spesso risolvono le dispute che insorgono all’interno del lignaggio, sebbene in genere non abbiano il potere di obbligare ad un accordo. Possono inoltre agire come intermediari nelle dispute che insorgono tra i membri del proprio gruppo e quelli di un gruppo rivale. Sicuramente una delle funzioni politiche più importanti dei gruppi a discendenza unilineare è il loro ruolo rispetto alla guerra. Nelle società in cui non esistono città, l’organizzazione della guerra spesso è nelle mani di questi gruppi. Un clan o un lignaggio possono avere le proprie credenze e le proprie pratiche, relative al culto di divinità o di spiriti di antenati. I tallensi dell’Africa occidentale, per esempio, credono che gli antenati mostrino la loro irritazione provocando disastri improvvisi o contrattempi non gravi, e la loro soddisfazione elargendo fortune inattese: essi sono assolutamente imprevedibili. I tallensi rendono ragione allora di avvenimenti altrimenti inspiegabili attribuendoli all’azione di questi spiriti, i quali, d’altronde, con la loro stessa presenza, rassicurano sul fatto che l’esistenza umana non finisce con la morte. La religione dei tallensi è quindi una religione legata al gruppo di discendenza: ciascuno pensa che gli antenati affliggano o proteggano esclusivamente i membri del proprio gruppo.

XI.V. Lo sviluppo dei sistemi unilineari.I gruppi di parentela unilineari svolgono un ruolo importante nella vita di molte società. Non in tutte, però, sono presenti. Nelle società con un’organizzazione politica complessa, funzionari e agenzie rivestono il ruolo altrove ricoperto dai gruppi di parentela, occupandosi

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dell’organizzazione del lavoro e della guerra e della distribuzione della terra. D’altronde non tutte le società che non hanno un’organizzazione politica complessa hanno sviluppato sistemi di discendenza unilineare. Perché?? Benché la presenza della residenza unilocale sia (per la formazione di gruppi di discendenza unilineari) una condizione necessaria, essa però non è sufficiente. Da un lato in molte società con residenza unilocale non esistono gruppi a discendenza unilineare. D’altro canto non è semplicemente perché gli uomini o le donne dello stesso gruppo patrilineare o matrilineare vivono insieme che essi si sentono un gruppo di discendenza e come tale si comportano. È evidente quindi che devono essere presenti altre condizioni affinché vi sia una spinta alla formazione di gruppi di discendenza unilineare. Sembra che la guerra sia una di queste: è possibile che la presenza di conflitti in società che non posseggono sistemi politici complessi fornisca una sollecitazione alla formazione di gruppi di discendenza unilineari. Questi gruppi, infatti, creano degli insieme ben definiti di individui (clan, fratrie o metà), che possono, in quanto unità circoscritte, combattere o stringere alleanze. I sistemi bilineari, al contrario, sono ego-centrati, e ciascun individuo, a parte i fratelli, ha un diverso gruppo parentale di riferimento. Di conseguenza in questo tipo di società spesso non è chiaro a quale parente ci si deve rivolgere e chi ha il dovere di aiutare un altro. D’altronde è vero che una simile ambiguità può non avere alcuna importanza in società in cui la guerra è assente o in altre in cui l’organizzazione della guerra è affidata ad un efficiente e complesso sistema politico.

XII. I sistemi ambilineari.Le società con un sistema ambilineare sono poco numerose rispetto a quelle a discendenza bilineare o unilineare, ma per molti aspetti assomigliano a queste ultime: i membri di un gruppo a discendenza ambilineare credono di discendere da un antenato comune, anche se di norma non sono in grado di ricostruire i legami genealogici di solito il gruppo ha un nome, e un emblema o totem spesso possiede la terra e altre risorse produttive, e pratiche religiose e miti specifici l’esogamia, però, non è altrettanto frequente quanto nei gruppi unilineari proprio come in questi ultimi, esistono nei sistemi ambilineari vari livelli o tipi di gruppi di discendenzaEsistono 2 tipi di gruppi di discendenza ambilineare, che corrispondono a ciò che in una società unilineare chiamiamo clan e sottoclan. Entrambi questi gruppi sono esogamici. Ciascun clan ha uno o più capi. Il gruppo prende il proprio nome dal capo più anziano; i sottoclan, che sono sempre almeno 2, dai capi giovani. Ciò che contraddistingue il sistema ambilineare rispetto ai sistemi unilineari è il fatto che, poiché un individuo può essere affiliato ad un gruppo sia attraverso il padre sia attraverso la madre, egli può appartenere contemporaneamente a vari gruppi ambilineari. L’affiliazione si basa sulla scelta, e in teoria una persona può affiliarsi a tutti i gruppi ambilineari con cui è imparentata, oppure a nessuno. Nella realtà, tuttavia, l’individuo è legato innanzitutto ad un gruppo (quello che possiede la terra su cui vive e che lavora), benché possa partecipare alle attività (es: la costruzione di abitazioni) di molti altri gruppi. In base a queste premesse è chiaro che la società non è divisa in gruppi di parentela ben distinti e, di conseguenza, i membri di ciascun gruppo non possono vivere tutti insieme, proprio perché ciascun individuo vanta più di un’appartenenza. Non sempre nelle società ambilineari accade che lo stesso individuo appartenga contemporaneamente a più gruppi di discendenza. A volte un individuo appartiene ad un gruppo soltanto. In questo caso la società avrà gruppi di parentela circoscritti. Benché gli studi transculturali non siano in grado di fornire una risposta definitiva, è possibile ritenere che le società a discendenza unilineare si trasformino in società a discendenza ambilineare qualora si verifichino condizioni particolari (soprattutto il calo demografico della popolazione). I sistemi a discendenza ambilineare, dunque, possono essersi sviluppati come conseguenza di cali di popolazione dovuti all’introduzione di malattie europee.

XIII. La terminologia della parentela.Nella nostra società, come anche nelle altre, ci si riferisce a parenti diversi utilizzando lo stesso termine classificatorio. Molti si domandano probabilmente perché chiamiamo i parenti in un certo modo. Noi, per esempio, definiamo con lo stesso termine ("zio") sia il fratello di nostra madre, sia il fratello di nostro padre (ed anche il marito della sorella di nostra madre e il marito della sorella di nostro padre). Non è che non siamo in grado di distinguere tra fratelli dei nostri genitori, o che non conosciamo la differenza tra consanguinei e affini (parenti acquisiti attraverso il matrimonio). Semplicemente nella nostra società queste differenze sembrano poco rilevanti. Per quanto il nostro sistema di classificazione possa sembrarci naturale,

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innumerevoli studi condotti dagli antropologi hanno rivelato che le società raggruppano e distinguono i parenti in modi molto diversi. La terminologia di parentela in uso in una società è legata al tipo di famiglia più diffuso, alla regola di residenza e a quella di discendenza, e ad altri aspetti dell’organizzazione sociale. La terminologia di parentela fornisce inoltre la chiave per comprendere alcuni aspetti del sistema sociale che caratterizzavano periodi precedenti, se è vero che, come molti antropologi sostengono, i termini di parentela sono molto conservativi. I principali sistemi di terminologia sono i seguenti: IL SISTEMA INUIT (O ESCHIMESE): poiché è quello che ci è più familiare, consideriamo innanzitutto il sistema utilizzato nella nostra e in molte altre società fondate sul commercio. Tale sistema non è affatto confinato a questo tipo di società, è infatti quello che ritroviamo presso gli inuit. Nel sistema inuit tutti i cugini sono definiti con lo stesso termine, ma sono distinti dai fratelli e dalle sorelle, e tutti gli zii (maschi e femmine) sono definiti con lo stesso termine, ma sono distinti dal padre e dalla madre. In questo sistema, diversamente da quelli che esamineremo, non vi è nessun altro parente a cui ci si riferisce facendo uso dei termini impiegati per designare gli appartenenti alla famiglia nucleare (padre, madre, fratello e sorella). In genere la terminologia inuit non si riscontra nei gruppi di discendenza ambilineari o unilineari, bensì in quelli bilaterali. Rammentiamo che nel sistema bilaterale il gruppo di parentela è ego-centrato. Sebbene i parenti di mia madre e quelli di mio padre siano per me ugualmente importanti, i parenti più importanti in assoluto sono quelli più stretti. Questo è vero in particolare nella nostra società, in cui la famiglia nucleare di solito vive isolata, separata dai parenti eccetto che in occasione di determinate cerimonie. IL SISTEMA OMAHA: è presente in molte società, di solito in quelle a discendenza patrilineare. Quindi, ad esempio, il padre e il fratello del padre sono designati dallo stesso termine. Di solito le società patrilineari hanno un tipo di residenza patrilocale. Il termine con cui designo mio padre e suo fratello può essere tradotto come "un componente maschile del mio gruppo patrilineare che appartiene alla generazione di mio padre". Un altro accorpamento (che a prima vista può essere paragonato a quello relativo al padre e al fratello del padre) è quello tra la madre e la sorella della madre, designate appunto attraverso lo stesso termine. Ciò che è più sorprendente, però, è che lo stesso termine viene utilizzato anche per la figlia del fratello della madre. Perché?? Se noi pensiamo che con questo termine si intenda "un componente femminile di qualsiasi generazione del patrilignaggio di mia madre" allora l’appellativo ha senso. Tutti i componenti maschili del patrilignaggio di mia madre, di qualsiasi generazione, sono coerentemente designati anch’essi da uno stesso termine. È chiaro dunque che nel sistema omaha i parenti del lato materno e quelli del lato paterno vengono raggruppati in modo diverso. Per quanto riguarda i membri del mio gruppo di parentela patrilineare materno, raggruppo insieme tutti i maschi tra loro e tutte le femmine tra loro, senza tenere conto della generazione. Per quanto riguarda, invece, il gruppo di parentela patrilineare di mio padre, ho termini diversi per i maschi e per le femmine di generazioni differenti. George Peter Murdock ha ipotizzato che una società designi con lo stesso termine i tipi di parenti che presentano tra loro più somiglianza che differenze. Tenendo conto di questo principio e del fatto che le società con un sistema omaha sono in genere patrilineari, è facile capire come il gruppo di parentela patrilineare di mio padre sia quello a cui io appartengo, e quello nei confronti del quale ho più diritti e doveri. Di conseguenza, gli individui della generazione di mio padre si comporteranno nei miei confronti in modo molto diverso dai membri della mia stessa generazione: essi, infatti, eserciteranno un’autorità su di me, e io dovrò dimostrare loro il mio rispetto. I componenti della mia stessa generazione, al contrario, sono i miei compagni di gioco e i miei amici. In un sistema patrilineare, dunque, è molto probabile che i membri del ramo paterno che appartengono a generazioni differenti siano chiaramente distinti. Il patrilignaggio di mia madre, d’altro canto, non è per me molto importante, e poiché la residenza è probabilmente patrilocale i parenti di mia madre non abiteranno neppure vicino a me. In tal modo i parenti patrilineari di mia madre saranno al confronto poco importanti, e quindi saranno considerati sufficientemente simili da venire classificati insieme. Infine nel sistema omaha utilizzo lo stesso termine per indicare i miei cugini paralleli maschi. E classifico nello stesso gruppo le mie cugine parallele. IL SISTEMA CROW: è stato definito l’immagine speculare del sistema omaha. In questo sistema, infatti, vengono utilizzate le stesse classificazioni, ma dal momento che il sistema crow è associato alla discendenza matrilineare, gli individui del gruppo matrilineare di mia madre (il mio gruppo di discendenza) sono distinti in base alla generazione, mentre gli individui del gruppo patrilineare di mio padre non lo sono. IL SISTEMA IROCHESE: per quanto riguarda gli appellativi dei parenti della stessa generazione di ego, è simile sia a quello omaha, sia a quello crow. Tuttavia, quando si tratta

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della mia generazione, il sistema irochese ha una sua peculiarità: tutti i gruppi di cugini incrociati vengono chiamati nello stesso modo, distinguendoli solo in base al sesso. I cugini paralleli non vengono designati con lo stesso termine impiegato per i cugini incrociati, e a volte, ma non sempre, sono chiamati come i fratelli e le sorelle di ego. Così come il sistema omaha e quello crow, anche il sistema irochese ha termini differenti per i parenti del lato materno e per quelli del lato paterno. Tale differenziazione tende ad essere associata alla discendenza unilineare, e ciò non sorprende dato che la discendenza unilineare prevede l’affiliazione o al gruppo di parentela della madre o a quello del padre. Perché, nell’ambito delle società a discendenza unilineare, a volte viene adottato il sistema irochese e altre volte, invece, vengono preferiti quello omaha o quello crow?? La terminologia irochese sembra essere associata ad un sistema unilineare che si sta sviluppando o, al contrario, che è in decadenza. Un’altra spiegazione possibile è che il sistema irochese emerga nelle società che prediligono il matrimonio tra cugini incrociati. IL SISTEMA SUDANESE: anche questo sistema è associato alla discendenza unilineare, ma diversamente dai precedenti, non raggruppa, dal punto di vista terminologico, nessun parente, né nella generazione di ego, né in quella dei suoi genitori. Tale sistema è descrittivo, nel senso che viene utilizzato un termine diverso per ciascuno dei parenti indicati. Benché siano di solito patrilineari, le società con il sistema sudanese presentano delle differenze rispetto a quelle a terminologia omaha o irochese: si tratta in genere di società con un’organizzazione politica complessa, una stratificazione di classe e specializzazioni professionali. In questi casi l’adozione di una certa terminologia può riflettere la necessità di distinguere con precisione i parenti che, dal punto di vista della professione o della classe sociale, hanno opportunità e privilegi ben diversi.I sistemi omaha, crow, irochese e sudanese hanno in comune il fatto di utilizzare termini differenti per indicare i componenti del lato materno e quelli del lato paterno. Abbiamo osservato, invece, come nel sistema inuit i termini per designare i parenti dei 2 lati siano esattamente gli stessi. Ciò significa che in quest’ultimo caso i 2 rami della famiglia sono ugualmente importanti (o ugualmente affatto importanti). Anche nel prossimo sistema, quello hawaiano, vengono impiegati gli stessi termini per i 2 lati della famiglia, ma la parentela che si estende oltre la famiglia nucleare ha una rilevanza maggiore. IL SISTEMA HAWAIANO: è quello più semplice, in quanto utilizza pochissimi termini. In questo sistema tutti i parenti dello stesso sesso che appartengono alla stessa generazione sono indicati da un unico termine. Il fatto che le società con una terminologia hawaiana tendano a non avere gruppi a discendenza unilineare aiuta a comprendere perché i termini di parentela siano gli stessi sui 2 lati della famiglia. Perché i termini indicanti il padre, la madre, il fratello e la sorella vengono estesi anche ad altri parenti?? Probabilmente perché queste società hanno spesso vaste famiglie estese, a cui, grazie al modello ambilocale, può appartenere ogni parente.

9. GRUPPI E VITA POLITICA.

Quando parliamo di associazioni ci riferiamo a gruppi di individui che non sono legati da vincoli parentali, né dalla condivisione dello stesso territorio. Pur nella loro eterogeneità essi presentano alcune caratteristiche comuni: possiedono una struttura più o meno formale e istituzionalistica escludono alcune persone i membri condividono i medesimi interessi e gli stessi scopi sono fieri di appartenere al gruppoNella società americana vi è un gran numero di "gruppi d’interesse" che soddisfano questi requisiti. Tali gruppi variano notevolmente per entità e per importanza sociale e vanno da organizzazioni nazionali, come i partiti politici, ad organizzazioni locali, come le associazioni di studenti universitari. Esistono notevoli differenze tra le società quanto al numero e al tipo di associazioni. Per ridurre la complessità dell’analisi ci soffermeremo su 2 fattori distinti: l’obbligatorietà del reclutamento il criterio di appartenenzaA proposito del primo fattore possiamo notare come nella società nordamericana, eccezion fatta per il reclutamento nell’esercito nazionale, praticamente tutte le associazioni siano volontarie. In molte società, invece, e in particolare in quelle più egualitarie, appartenere ad un gruppo non è una scelta: tutti coloro che rientrano in una determinata categoria vi sono

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obbligati. Un secondo fattore che distingue i tipi di associazione è il criterio con cui si stabilisce se una persona può essere membro del gruppo. Esistono 2 modi per determinarlo: basarsi sulle qualità acquisite sono quelle che l’individuo giunge a possedere nel corso della propria vita, come, per esempio, specifiche abilità nello sport o nella professione o su quelle ascritte sono, invece, quelle determinate fin dalla nascita, o per eredità genetica (il sesso) o per estrazione familiare (l’etnia, il luogo di nascita, la religione, la classe sociale); distinguiamo 2 tipi di qualità ascritte:

quelle universali, che esistono in tutte le società (l’età e il sesso) quelle variabili, che trovano applicazione solo in alcune società (le differenze etniche, quelle religiose o quelle di classe)

I. Le associazioni non volontarie.Benché le associazioni non volontarie esistano anche nelle società più complesse, esse sono tipiche delle società relativamente meno stratificate o di quelle egualitarie. In queste ultime le associazioni vengono a costituirsi sulla base delle caratteristiche del sesso e dell’età. Abbiamo quindi le classi di età e le associazioni solo maschili o solo femminili.

I.I. Le classi di età.Tutte le società possiedono una terminologia relativa all’età, così come ne possiedono una per la parentela. Così come esistono termini per distinguere il fratello dallo zio e dal cugino, esistono anche appellativi diversi per distinguere il neonato, l’adolescente e l’adulto. Tali termini identificano le categorie di età. Il gruppo di età è una categoria culturalmente determinata in cui rientrano gli individui di una certa età. La classe di età, invece, designa un gruppo di persone, di età simile e dello stesso sesso, che attraversano insieme alcune o tutte le fasi della vita. I ragazzi di una certa classe di età, per esempio, che vivono in una determinata zona, verranno iniziati tutti insieme. Quando saranno invecchiati l’intero gruppo diventerà il "gruppo degli uomini adulti" e, in seguito, il "gruppo degli anziani a riposo". L’ingresso in un sistema di classi di età è quasi sempre non volontario e dipende dalle caratteristiche dell’età e del sesso. La parentela è alla base dell’organizzazione della maggior parte delle società non commerciali. In alcune società, tuttavia, le classi di età creano forti legami che agiscono trasversalmente rispetto alla parentela. La società karimojong è di particolare interesse perché è organizzata secondo una combinazione che lega le classi di età alle classi generazionali. Tali raggruppamenti rappresentano "sia la fonte dell’autorità politica, sia il campo in cui essa si esercita". Tra i karimojong ogni classe di età comprende tutti gli uomini che sono stati iniziati contemporaneamente all’età adulta (lo scarto può essere di 5 o 6 anni). Una classe generazionale riunisce invece 5 classi di età e copre una periodo di 25-30 anni. Ogni classe generazionale è vista come "generatrice" della successiva ed esistono contemporaneamente 2 classi generazionali. Mentre la classe generazionale degli anziani (i cui membri svolgono le funzioni amministrative, giuridiche e sacerdotali) è chiusa, quella dei giovani, che si dedicano alla guerra e a compiti di polizia, incorpora continuamente nuovi membri. Quando tutte e 5 le classi di età si sono formate, i membri della classe generazionale sono pronti ad assumere lo status dei loro predecessori. Alla fine, di malavoglia, ma rassegnati alla realtà dei fatti, gli anziani accettano di organizzare una cerimonia di successione che conferisce l’autorità a coloro che in precedenza erano in una posizione di sottomissione. Il sistema di classi di età karimojong consiste, quindi, nell’avvicendarsi ciclico di 4 classi generazionali. La classe generazionale degli "anziani a riposo" è costituita da anziani che hanno ceduto l’autorità (i suoi membri sono perlopiù molto deboli, se non defunti). La classe generazionale degli uomini maturi è formata dalle 5 classi di età che esercitano l’autorità attivamente. La classe generazionale dei giovani, che continua a reclutare membri, sebbene debba obbedienza ai più anziani, detiene alcuni poteri amministrativi. Infine vi sono i non anziani. A seguito dell’iniziazione ogni ragazzo diventa un uomo, ossia un individuo con uno status ben definito. Da un uomo karimojong ci si aspetta che non si sposi prima dell’iniziazione e di fatto gli viene impedito di formare una famiglia sino a quel momento. La cerimonia dell’iniziazione evidenzia il carattere essenzialmente politico e sociale del sistema di classi di età. Essa infatti non può avere luogo se non sono presenti gli anziani, la cui autorità viene resa manifesta nel corso delle procedure della cerimonia. La relazione padre-figlio che coinvolge classi generazionali adiacenti è resa palese dalla consuetudine per cui sono i padri ad iniziare i figli. Le classi di età hanno un’estrema importanza, soprattutto per i maschi. Al contrario dei karimojong, che hanno classi di età solo per gli uomini, presso gli shavante esistono anche

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classi di età femminili; anche se per le donne il sistema della classi di età non ha risvolti associativi.

I.II. Associazioni solo maschili o solo femminili.Esistono associazioni che sono riservate ad un solo sesso. Si tratta in genere di gruppi maschili. La qualificazione di tipo sessuale è direttamente connessa alle finalità dell’associazione. Gli scopi di molte associazioni unicamente maschili sono quelli di rafforzare l’idea di una superiorità maschile e di offrire agli uomini dei mezzi per difendersi dalle donne. Nelle società non commerciali le associazioni maschili sono simili alle classi di età, però prevedono solo 2 categorie di individui: gli uomini maturi, che ne sono membri gli uomini immaturi, che ne sono esclusiNelle società che hanno associazioni maschili è molto probabile che, così come nel caso delle classi di età, si pratichino cerimonie di iniziazione drammatiche e traumatiche. Nella maggior parte delle società non commerciali esistono poche associazioni femminili, forse perché in tali contesti sono gli uomini ad avere maggiore autorità nell’ambito della parentela, nella sfera politica e per quanto concerne la suddivisione della proprietà (è possibile, d’altronde, che gli antropologi, per la maggior parte uomini, abbiano considerato con minore attenzione le associazioni femminili). Nei paesi ad economia parzialmente commerciali le associazioni femminili sono invece più diffuse. Le associazioni riservate ad un solo sesso sono una caratteristica anche delle società molto industrializzate (es: i boy scouts); l’annessione a questi gruppi, però, è volontaria, mentre nelle società non commerciali e in quelle meno complesse spesso il reclutamento è obbligatorio. I mae enga sono noti agli antropologi soprattutto per la pratica della segregazione sessuale e per l’atteggiamento di aperta ostilità nei confronti delle donne. Essi vivono in una casa comune separata. Viene insegnato loro, sin da bambini, che non è auspicabile restare molto in compagnia di una donna, e che è meglio unirsi ai compagni maschi sia per quanto riguarda l’abitazione, sia per le attività da svolgere. Dato che considera la donna potenzialmente impura, la cultura mae, per regolare i rapporti tra maschi e femmine, impone rigidi codici di comportamento che hanno lo scopo di salvaguardare non solo l’integrità e la forza dell’uomo, ma anche i suoi beni materiali. Tali regole sono talmente rigide che spesso i giovani sono riluttanti a sposarsi. Gli anziani, d’altro canto, insegnano loro che il matrimonio e la riproduzione sono un dovere. L’associazione tra uomini tenta di stabilire delle regole riguardanti le relazioni sessuali. Di solito le associazioni maschili sono rivolte agli scapoli, per quanto gli uomini sposati intervengano spesso per istruire i giovani e trasmettere loro le proprie conoscenze. In generale esse servono a promuovere, e certamente a simbolizzare, il potere e la solidarietà maschile. Così come avviene per le classi di età, anche le associazioni maschili creano legami trasversali e supplementari rispetto a quelli di parentela. Esse infatti permettono ad un gruppo di uomini (anche se tra loro non esistono legami di parentela) una collaborazione per il raggiungimento di scopi comuni. In tutte le associazioni esiste una componente di segretezza. Nei casi appena presi in considerazione i particolari delle cerimonie di iniziazione sono tenuti nascosti. Le associazioni poro e sande dell’Africa occidentale, tuttavia, impongono una segretezza ancora maggiore. In alcuni paesi le associazioni poro e sande sono state recentemente dichiarate illegali, mentre in altri esse non solo sono legali, ma fanno parte integrante della struttura politica della società. L’appartenenza ad esse è un fatto pubblico e non volontario: tutti gli uomini della comunità devono appartenere all’associazione poro e tutte le donne a quella sande. Laddove le associazioni poro e sande sono legali la comunità presenta 2 struttura politiche: quella "temporale" e quella "sacra". La struttura temporale è costituita dal capo del villaggio, dai capi di zona e dei gruppi parentali e dagli anziani. La struttura sacra, detta zo, consiste nelle gerarchie di "sacerdoti" che appartengono alle associazioni poro e sande. In questa associazioni la "segretezza" consiste nella necessità che i membri imparino a mantenere i segreti, in particolare in merito al modo in cui si viene iniziati al gruppo. Quando sono in grado di mantenere i segreti, gli appartenenti all’associazione diventano degni di fiducia e sono ammessi a partecipare alla vita politica. Il gruppo dei capi dell’associazione poro stabilisce il luogo in cui gli iniziandi devono sottoporsi alla scarificazione (creazione di una o più cicatrici sulla pelle) e ritirarsi per un periodo di circa un anno. I ragazzi sono segregati lontano dal villaggio e prendono parte ad uno scontro simulato con uno ngamu (un membro poro travestito da "diavolo della foresta") che li segna sul collo, sul petto e sulla schiena. Le cicatrici sono la prova visibile del fatto che gli iniziati sono stati uccisi e mangiati dal diavolo; dopodichè essi "rinascono". Nel villaggio degli iniziati i ragazzi apprendono alcuni mestieri, imparano a cacciare e ad usare le medicine più importanti. i figli degli zo ricevono un’istruzione particolare: essi devono apprendere dai propri padri i riti a

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cui saranno addetti. Alla fine dell’anno gli iniziati ricevono un nome poro, che rimane per tutta la vita. Ciò che accade nel corso del ritiro nella foresta è tenuto segreto: tutti sanno che i ragazzi non vengono né uccisi né mangiati dal diavolo, ma solo alcune persone possono parlarne. Anche l’iniziazione delle ragazze all’associazione sande comporta l’isolamento nella foresta per un periodo di un anno. Le ragazze non solo sono sottoposte alla scarificazione, ma anche alla clitoridectomia (l’asportazione del clitoride). Gli zo poro e sande sono fatti segno di grande rispetto. Le società segrete sono diffuse in molte altre parti del mondo e solo alcune di esse sono volontarie. Un recente studio transculturale ha dimostrato che nelle società segrete africane si svolgono attività politiche. Queste attività consistono nel punire chi, secondo le regole della società segreta, ha agito in modo errato. Il fatto che le persone che vengono punite non siano quasi mai membri dell’élite del luogo, né autorità di origine straniera, conferma l’ipotesi che le associazioni poro e sande siano mirate a rafforzare l’autorità politica esistente. Le associazioni femminili ijaw esistono solo nelle regioni settentrionali della Nigeria del Sud. Quando una donna sposata, dedicandosi ad attività commerciali, dimostra di essere in grado di mantenere una household indipendente da quella della suocera, essa deve entrare a far parte dell’associazione femminile legata al patrilignaggio del marito. Diventarne membro non è una scelta; inoltre, chi non si presenta agli incontri o arriva in ritardo viene multata. Le associazioni femminili hanno la funzione di operare le mediazioni nelle dispute; esse stabiliscono, inoltre, le pene anche per i casi che sono stati sottoposti ad un giudizio ufficiale. Stabiliscono le ammende per i crimini di adulterio, oppure possono imporre regole di comportamento. I giudizi vengono formulati all’unanimità, e anche le regole vengono stabilite allo stesso criterio. Alcune associazioni molto grandi fungono da istituzioni di prestito: esse utilizzano i fondi derivanti dalle multe per concedere prestiti ai propri membri e agli esterni. Gli uomini che contraggono debiti con queste associazioni sono passibili di reclusione presso il proprio domicilio finché non assolvono il pagamento. Per quanto la ragione della diffusione delle associazioni femminili in Africa occidentale non sia ancora ben chiara, si può ipotizzare che essa sia legata all’indipendenza finanziaria che la donna si è conquistata attraverso le attività commerciali.

II. Le associazioni volontarie.Le associazioni volontarie si trovano anche in alcune società relativamente semplici, ma sono più diffuse nelle società complesse e stratificate, presumibilmente perché in questi contesti gli individui hanno più interessi ed occupazioni molto differenti in cui entra in gioco la competizione.

II.I. Le associazioni militari.Nelle società non commerciali le associazioni militari sembrano avere la funzione di unire i membri sulla base della comune esperienza di guerra, di esaltare le imprese belliche e di offrire determinati servizi alla comunità. In genere l’appartenenza a questi gruppi è volontaria ed è fondata sul criterio dei meriti acquisiti per aver partecipato alle guerre. Le associazioni militari erano diffuse tra gli indiani delle pianure. Ne sono un esempio quelle cheyenne, che non erano gerarchizzate in base all’età ed erano aperte a tutti i ragazzi e agli uomini capaci di combattere. Queste associazioni avevano costumi, canti e danze differenti, ma l’organizzazione interna era la stessa: ognuna di esse, infatti, aveva 4 leader i quali venivano scelti tra i più importanti capi militari. Quando le varie popolazioni di indiani delle pianure furono confinate nelle riserve, le associazioni militari persero le loro antiche funzioni. Ciononostante esse non scomparvero del tutto.

II.II. Le associazioni regionali.Le associazioni regionali raccolgono gli immigrati che provengono da una stessa area geografica. Queste associazioni, quindi, sono molto diffuse nei centri urbani che attraggono le popolazioni delle campagne. Molte di queste organizzazioni sono divenute forze politiche che fanno sentire la propria voce nelle amministrazioni locali. Le associazioni regionali si formano anche quando gli immigrati vengono da paesi molto lontani. William Mangin ha descritto l’importanza dell’aiuto offerto dalle associazioni regionali agli immigrati. Essi, inizialmente, vivevano in insediamenti urbani molto poveri. Questi insediamenti non erano ufficialmente riconosciuti né dal governo, né dalle autorità locali. Essi mancavano di tutti i servizi municipali (acqua corrente, raccolta dei rifiuti, sorveglianza della polizia). Gli abitanti avevano lasciato il luogo d’origine per le ragioni tipiche che stanno alla base di ogni spostamento di popolazione: le ragioni erano di ordine sociale ed economico (imputabili principalmente alla densità di popolazione e alla pressione sul territorio), ma a creare le aspettative maggiori era il miraggio

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della grande città in cui erano possibili un’educazione migliore, la mobilità sociale, il lavoro salariato. Essi formarono associazioni regionali, a cui potevano appartenere individui di ambo i sessi. Di solito i ruoli esecutivi erano assegnati agli uomini e spesso i capi erano persone di spicco nella vita politica del luogo d’origine. Le donne, che godevano di una libertà economica e sociale abbastanza limitata, avevano purtuttavia un ruolo importanza nelle attività delle associazioni. Le associazioni regionali offrivano ai propri membri essenzialmente 3 servizi: facevano pressione sul governo centrale affinché affrontasse questioni che erano fondamentali per la vita della comunità (es: l’installazione di fognature, di servizi sanitari e di servizi pubblici). Un membro dell’associazione aveva il compito di seguire una pratica legislativa nel suo percorso burocratico, accertandosi che non venisse dimenticata o trascurata offrivano assistenza nell’acculturazione dei nuovi arrivati, preparandoli alla vita urbana. I tratti più tipicamente rurali erano i primi a scomparire; in questo gli uomini si adattavano con maggiore rapidità rispetto alle donne fornivano opportunità di inserimento nella cultura nazionale. Organizzavano delle attività sociali (es: feste) che avevano la funzione di smistare le informazioni da e per il luogo d’origine; offrivano, infine, una varietà di altri servizi che aiutavano gli immigrati ad adattarsi al nuovo ambiente senza recidere completamente le proprie radiciNel corso del tempo, mutando le condizioni sociali, possono cambiare anche le funzioni delle associazioni regionali. Inizialmente, ad esempio, le associazioni regionali possono fungere da società di mutuo soccorso; quando però, l’immigrazione aumenta, i nuovi arrivati hanno l’opportunità da appoggiarsi ai parenti che si sono trasferiti prima di loro. Di conseguenza, nonostante le associazioni della madre-patria continuino a svolgere funzioni di tipo economico (es: l’assistenza in caso di emergenza, di malattia grave o di morte) oppure ad offrire aiuto nel settore dell’istruzione, gli incontri divengono saltuari e la partecipazione scarsa. Per quanto le associazioni regionali possano essere molto utili all’integrazione dei membri in un sistema urbano più complesso o in un ambiente che cambia, l’esistenza di un grosso numero di queste associazioni potrebbe favorire la divisione e la rivalità tra i gruppi. In alcuni casi i gruppi più piccoli si sono uniti tra loro e sono diventati molto potenti. Unendosi tra loro, dunque, le associazioni regionali e familiari hanno finito per costituire delle associazioni etniche.

II.III. Le associazioni etniche.Le associazioni etniche sono particolarmente diffuse nei centri urbani dell’Africa occidentale. L’alterazione del sistema economico, le innovazioni tecnologiche e le mutate condizioni della vita urbana hanno indebolito i legami di parentela e altre tradizionali risorse di sostentamento e di solidarietà. Talvolta è difficile stabilire se in origine una particolare associazione fosse regionale o etnica. Le associazioni tribali sono tipiche della Nigeria e del Ghana. Le caratteristiche di questo genere di associazioni sono: l’extraterritorialità (esse reclutano persone che hanno lasciato i propri gruppi tribali d’origine) il possesso di una costituzioni ufficiale il fatto che si sono formate per dare risposta ad alcuni bisogni che sorgono nel contesto urbanoUno di questi bisogni è quello di non perdere il contatto con la cultura tradizionale. Altri compiti di queste associazioni sono quelli di fungere da società di mutuo soccorso e di offrire aiuti finanziari in caso di disoccupazione, di malattia o di morte. Alcune associazioni tribali raccolgono il denaro necessario a migliorare la situazione esistente nei luoghi d’origine. L’educazione, per esempio, è un settore al quale viene attribuita una particolare importanza. Altre associazioni pubblicano bollettini informativi che illustrano le attività dei membri. Molte di queste associazioni, attraverso un gruppo costituito da membri di giovane età, esercitano una forte influenza democratizzante nei consigli tribali. Le organizzazioni, inoltre, rappresentano un trampolino di lancio per coloro che aspirano ad una carriera politica a livello nazionale. Le società di mutuo soccorso si distinguono dalle comunità tribali per il fatto che hanno come scopo principale quello di offrire un sostegno (economico) ai propri membri. Anche le associazioni di lavoratori dell’Africa occidentale rientrano nella categoria della associazioni etniche. Esse sono organizzate secondo un criterio tribale e in base al tipo di attività lavorativa. Il loro scopo principale è di garantire ai propri membri, in quanto lavoratori, un certo status e una determinata remunerazione. Questo tipo di associazioni possono anche coprire spese assicurative e legali, contribuire all’assistenza medica in caso di incidenti o di malattia e sovvenzionare parzialmente il costo delle cerimonie funebri. Anche le associazioni ricreative,

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infine, sono molto diffuse in Africa occidentale. Alcuni ricercatori hanno osservato come la diffusione di associazioni etniche abbia comportato, in Africa occidentale, un riproporsi del trialismo. Di fatto la presenza di questi gruppi di interesse nelle aree urbane sembra aver frenato lo sviluppo di un’identità nazionale. D’altro canto esistono le prove del fatto che queste associazioni svolgono un’importante funzione per l’adattamento e l’integrazione sia degli uomini sia delle donne, esattamente come fanno le associazioni regionali in altre zone del mondo.

II.IV. Le associazioni multietniche.Nel mondo moderno i gruppi a carattere volontario accolgono individui appartenenti ad etnie differenti con frequenza sempre maggiore. In Papua Nuova Guinea, per esempio le kafaina o Work Meri ("lavoro delle donne") sono associazioni per il risparmio e per il prestito che mettono in contatto migliaia di donne di aree tribali differenti. In origine, si trattava di piccoli gruppi sorti con la funzione di casse di risparmio. In seguito, man mano che le donne che si sposavano si stabilivano lontano dal villaggio, i parenti rimasti a casa venivano incoraggiati a fondare delle "filiali". I soldi raccolti vengono messi ogni volta in una borsa che viene nascosta e non può essere toccata, in modo tale che i risparmi si accumulino nel corso del tempo. Una volta raggiunta una cifra consistente, con quel denaro si costruisce un edificio per l’associazione e si svolge una grande cerimonia. Per ora non è ancora stato riscontrato che lo sviluppo di queste associazioni comporti un accrescimento del potere delle donne in queste società tradizionalmente dominate dagli uomini; esse, infatti, prendono parte a questi movimenti forse perché si sentono frustrate per l’esclusione dalla vita politica locale. Le associazioni multietniche o regionali si sono sviluppate laddove il colonialismo (o un’altra dominazione politica) è stato percepito come un problema di interesse collettivo. Spesso le associazioni multietniche e multiregionali hanno contribuito alle lotte per l’indipendenza: in molti casi i partiti politici rivoluzionari nascevano infatti in seno a tali associazioni.

III. Le ragioni della variabilità delle forme associative.Gli antropologi non si limitano a descrivere la struttura e il funzionamento delle associazioni; essi tentano anche di spiegare le ragioni dell’esistenza di forme diverse di associazionismo. S.N. Eisenstadt ha ipotizzato che i sistemi di classi di età si formino laddove i gruppi parentali non sono in grado di assolvere alle funzioni politiche, educative ed economiche necessarie per il mantenimento dell’integrazione sociale. Questi sistemi possono costituire una soluzione vantaggiosa al bisogno di separare i membri di una società a seconda delle rispettive funzioni; quello dell’età, infatti, è un criterio per l’attribuzione di ruoli che può essere applicato a tutti i componenti di una società. Non è affatto chiaro, tuttavia, se il formarsi di sistemi di classi di età sia finalizzato ad ovviare alla mancanza di organizzazione parentale; esistono, infatti, molte società in cui le strutture parentali hanno un ambito d’azione limitato, eppure nella maggior parte di esse non è stato introdotto alcun sistema di classi di età. Un’ipotesi alternativa, che è confermata da dati transculturali, è che i sistemi di classi di età si formino nelle società che sono frequentemente impegnate in attività belliche e che sono costituite da gruppi locali le cui dimensioni e la cui composizione varia nel corso dell’anno. In simili situazioni non sempre gli uomini possono fare affidamento, per le imprese belliche, sulla collaborazione dei parenti, poiché questi potrebbero essere lontani. Il sistema di classi di età, invece, permette ad un individuo, ovunque egli sia, di trovare (nei membri della sua stessa classe) degli alleati. Secondo questa ipotesi, dunque, i sistemi di classe di età sorgono in aggiunta e non in alternativa alle forme di aggregazione basate sulla parentela o sull’integrazione politica. Per quanto riguarda le associazioni volontarie il cui criterio di reclutamento dipende da qualità ascritte di tipo variabile (= fissate al momento della nascita, ma non uguali per tutte le persone dello stesso sesso e della stessa età), è difficile stabilire con precisione quale sia la causa della loro formazione. Abbiamo già notato come sia possibile che tutti i tipi di associazioni volontarie crescano di numero e di importanza di pari passo con lo sviluppo tecnologico e con l’aumento della complessità e delle dimensioni della società. Per non esistendo ancora prove sufficienti che avvallino questa teoria, vi sono comunque alcuni aspetti da tenere in considerazione: l’urbanizzazione: le società in via di sviluppo si stanno urbanizzando, e all’aumentare delle dimensioni delle città cresce il numero delle persone che si separa dai propri legami parentali e dalle usanze locali tradizionali. Non ci sorprende dunque il fatto che le prime associazioni volontarie a formarsi siano quelle di mutuo soccorso, e che la loro funzione sia inizialmente quella di assolvere agli obblighi parentali in caso di morte e si estenda successivamente ad altri aspetti della vita sociale. Essi servivano a mantenere i contatti di coloro che si trasferivano in

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città con le tradizioni e la cultura di provenienza, e a soddisfare una serie di necessità che gli immigrati si sono trovati a dover affrontate nel paese d’arrivo il fattore economico: gli immigrati cercano di adattarsi alle nuove condizioni economiche e i loro interessi devono essere garantiti e protettiPerché, nelle società industrializzate, le associazioni il cui criterio di reclutamento dipende da qualità ascritte di tipo variabile tendono ad essere sostituite da associazioni alle quali si accede in base alla posizione raggiunta nella società?? Probabilmente il grosso peso che le società industrializzate attribuiscono alla specializzazione si riflette anche nelle forme assunte dall’associazionismo. Un altro fattore determinante potrebbe essere l’importanza che la nostra società attribuisce alle conquiste individuali. L’omologazione indotta dalla produzione di massa e dai mass media, inoltre, ha l’effetto di ridurre progressivamente l’importanza delle distinzioni regionali ed etniche. Il risultato è che le organizzazioni di grandi dimensioni vengono progressivamente sostituite da associazioni più piccole: queste ultime, infatti, riescono a fornire una risposta ad esigenze particolari che le istituzioni della società di massa non sono più in grado di soddisfare.

IV. La vita politica: tipologia delle organizzazioni.L’espressione "vita politica" ha molteplici connotazioni. Ad un abitante degli Stati Uniti essa può far pensare ai vari rami del governo (il ramo esecutivo, le istituzioni legislative, gli uffici amministrativi). Le stesso termine può richiamare alla mente partiti politici, gruppi di interesse, campagna elettorali, elezioni politiche. La vita politica, però, nei paesi occidentali, implica molto di più. Essa ha a che fare con la prevenzione e con la risoluzione di controversie e di problemi sociali interni ed esterni. A livello interno una società complessa come la nostra necessita di mediazioni e di arbitrati per risolvere le vertenze industriali, di una forza di polizia per prevenire i crimini e per catturare i criminali, e di un sistema giudiziario che si occupi dei conflitti sociali e che intervenga nei confronti di coloro che infrangono la legge. Negli ultimi 100 anni, nella misura in cui le potenze coloniali hanno imposto i loro sistemi politici, o le società con una gestione informale sono divenute consapevoli della necessità di possedere meccanismi di governo che permettano di interagire con l’esterno, i governi ufficiali hanno avuto un’ampia diffusione. Molte società studiate dagli antropologi, però, non hanno funzionari politici, partiti, tribunali o eserciti. Inoltre la banda o il villaggio, nelle testimonianze etnografiche, costituivano, nel 50% delle società, la più vasta unità politica autonoma. Tali unità erano organizzate solo a livello informale, non vi erano cioè individui o gruppi formalmente autorizzati a svolgere funzioni politiche o a risolvere dispute. Se andiamo oltre gli aspetti esteriori della vita politica nella nostra società, e ci domandiamo quali siano le funzioni a cui assolvono le nostre istituzioni, ci accorgeremo di come tutte le società abbiano avuto un’attività e delle teorie politiche miranti a creare e a mantenere l’ordine sociale e a controllare il disordine. Molti dei gruppi a cui abbiamo fatto riferimento in precedenza (la famiglia, i gruppi di discendenza, le associazioni) assolvono a funzioni politiche. Quando però gli antropologi parlano di organizzazioni politiche o di vita politica, intendono riferirsi soprattutto a questioni che riguardano gruppi territoriali. Tali gruppi vanno dalle piccole comunità (le bande, i villaggi) a comunità più ampie (le città), fino a gruppi sovralocali (distretti, regioni, nazioni, insieme di nazioni). Vedremo come sia i diversi tipi di organizzazione politica, sia le modalità di partecipazione alla politica, sia gli strumenti messi in atto per controllare i confini siano spesso connessi ai differenti tipi di economia e di stratificazione sociale. Il livello di integrazione politica e il grado di centralizzazione dell’autorità variano enormemente da una società all’altra: in molte delle società note attraverso le testimonianze etnografiche la piccola comunità (banda o villaggio) era il gruppo territoriale più vasto nell’ambito del quale si organizzava l’attività politica. In queste società non vi era alcuna centralizzazione dell’autorità: non esisteva infatti un’autorità politica la cui giurisdizione includesse più di una comunità in altre società le attività politiche a volte venivano organizzate per conto di una gruppo plurilocale, senza però che vi fosse un’autorità al vertice in altre ancora spesso le attività politiche erano organizzate sulla base di gruppi territoriali plurilocali, e al vertice era insediata un’autorità supremaNel mondo moderno ogni società fa parte di un sistema politica centralizzato più ampio. Se si escludono poche eccezioni, non esistono più bande, tribù o chiefdoms (domini) politicamente autonomi. Molti antropologi scelgono di classificare le società, presenti e passate, in base al loro livello di integrazione politica e facendo riferimento alla natura della struttura dell’autorità politica. Ellman Service, per esempio, sostenne che era

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possibile classificare la maggior parte delle società facendole rientrare in uno dei 4 tipi principali di organizzazione politica: la banda, la tribù, il chiefdom, lo stato.

Tipo di organizzazio

ne

Massimo livello di

integrazione politica

Grado di specializzazion

e dei funzionari

politici

Strategia di

sussistenza

prevalente

Dimensioni della

comunità e densità

demografica

Differenziazione sociale

Modalità di distribuzion

e prevalente

banda gruppo locale o banda

scarso o nullo; leadership informale

raccolta comunità molto piccole, densità molto bassa

egualitarismo reciprocità

tribù talvolta gruppo sovralocale

scarso o nullo; leadership informale

agricoltura estensiva (a rotazione) e/o allevamento

comunità piccole; bassa densità

egualitarismo reciprocità

chiefdom o dominio

gruppo sovralocale

modesto agricoltura estensiva o intensiva e/o allevamento

comunità ampie, densità elevata

rango reciprocità e redistribuzione

stato gruppo sovralocale, spesso un intero gruppo linguistico nel suo complesso

estremo agricoltura intensiva e allevamento

città, densità elevata

classe e casta scambi commerciali

IV.I. La banda.Alcune società sono costituite da gruppi piuttosto piccoli abitualmente dediti al nomadismo. Ciascuno di tali gruppi viene detto convenzionalmente banda ed è autonomo dal punto di vista politico. Ciò significa che nelle organizzazioni di questo tipo il gruppo o la comunità locali sono il gruppo più vasto che agisce quale unità politica. La maggior parte dei raccoglitori studiati in epoca recente ha un’organizzazione di questo tipo. Le bande di solito sono piccole, e le società con le bande hanno una bassa densità di popolazione. Le dimensioni della banda variano spesso in base alla stagione: la banda si disperde e poi si ricostituisce a seconda delle risorse di cibo disponibili. Il modo in cui vengono prese le decisioni è in genere informale e rivela come quelle esistente sia un’autorità modesta e informale. Poiché non esiste una funzione permanente e ufficiale di detenzione della leadership, le decisioni vengono prese collettivamente da tutta la comunità oppure dai suoi membri più qualificati. La leadership, quando è presente, non è mai la conseguenza di un’imposizione dell’autorità. Ogni banda può avere il proprio headman (= capo), o il proprio miglior cacciatore, o lo specialista dei rituali; ma essi avranno raggiunto il loro status attraverso un riconoscimento collettivo delle loro abilità, del loro buon senso e della loro umiltà. La leadership, in altri termini, non discende dal potere bensì dall’autorevolezza, non procede dalla carica ma da qualità personali unanimemente riconosciute. Lo headman, però, non ha alcune autorità permanente, né può imporre sanzioni di alcun tipo.

IV.II. L’organizzazione tribale.Si dice che una società presenta un’organizzazione tribale quando le comunità locali agiscono in modo autonomo ma vi sono associazioni (come le classi di età) o gruppi di parentela (come i clan) che potenzialmente possono integrare in un’unità più vasta (la tribù) i numerosi gruppi locali. Purtroppo il termine "tribù" viene impiegato a volte per riferirsi ad un’intera società (un gruppo linguistico viene cioè chiamato "tribù"). In realtà un sistema politico di tipo tribale non permette alla società di agire come un’unità: le comunità, in una società tribale, si legano solo occasionalmente sulla base di scopi politici (di solito militari) comuni. Ciò che distingue, dunque, un’organizzazione di bande da un’organizzazione tribale è che in quest’ultima è presente un qualche tipo di integrazione sovralocale. Tale integrazione, tuttavia, non è permanente, ed è informale nel senso che non vi sono funzionari politici ai vertici. L’organizzazione tribale può apparire fragile (e in effetti spesso lo è), ma il fatto che esistano strategie per integrare i gruppi locali in entità politiche più ampie permette

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alle organizzazioni tribali di essere molto più forti militarmente di quelle di banda. Ciò che assimila questi 2 tipi di organizzazioni è la loro tendenza all’egualitarismo e la presenza, a livello locale, di leader informali. Nelle società tribali in cui la parentela costituisce la struttura portante dell’organizzazione sociale, sono i membri anziani dei gruppi di parentela locali ad avere una considerevole autorevolezza; laddove, invece, sono importanti le classi di età sarà una particolare classe di età a detenere la leadership. Le società tribali sono di solito società produttrici; sono più densamente popolate, hanno gruppi locali più ampi e uno stile di vita più sedentario rispetto alle bande. Spesso le comunità sono legate a una comune appartenenza allo stesso gruppo di parentela, di solito un gruppo unilineare quale un lignaggio o un clan. I legami parentali tendono anche ad unire i membri dello stesso gruppo di parentela nei periodi di guerra. il sistema legnatico-segmentario è una forma di integrazione tribale fondata sulla parentela. Una società che ha tale sistema è costituita da parti o da segmenti ciascuno dei quali è del tutto simile agli altri per struttura e funzione. Ciascun segmento locale appartiene ad una gerarchia di lignaggi che vantano profondità genealogiche sempre maggiori. Più 2 gruppi sono vicini dal punto di vista genealogico, più saranno vicini anche per altri aspetti. Nel caso di una controversia tra i membri di segmenti differenti, per esempio, ciascuno prenderà le parti del contendente che gli è più vicino come grado di parentela. I tiv della Nigeria settentrionale costituiscono un esempio classico di sistema legnatico-segmentario.

I

A B

1 2 3 4

a b c d e f g h

Se si verifica una controversia tra i lignaggi (e i territori) a e b, poiché ad esservi coinvolti sono soltanto 2 segmenti "fratelli", essa sarà relativamente poco importante. Una disputa tra a e c, coinvolgerà sia il lignaggio 1 sia il lignaggio 2, e avrà come conseguenza che b assisterà a e d assisterà c. Questo processo di aiuto reciproco, definito spesso opposizione complementare, implica che i segmenti si uniscano solo in occasione di un confronto con un altro gruppo. I gruppi che si combattono tra loro per controversie minori si coalizzano quando si tratta di affrontare un gruppo più ampio.

IV.III. I chiefdoms (domini).Un chiefdom (dominio), per integrare più comunità in una sola unità politica, si avvale di una struttura formale. Tale struttura può essere un consiglio con o senza un capo, ma più spesso vi è un individuo (il capo) che, rispetto agli altri, possiede maggiore autorità o un rango più elevato. Nella maggior parte delle società collocabili, dal punto di vista dell’organizzazione sociale, a livello di chiefdom, coesistono più unità politiche (che a loro volta comprendono più comunità); ciascuna unità, o chiefdom, è retta da un consiglio o da un capo di distretto. I chiefdoms, in parte come conseguenza di un più alto livello di produttività economica, hanno una maggior densità di popolazione e comunità più stanziali. La carica di capo, talvolta ereditaria e in genere permanente, conferisce a chi la detiene uno status elevato. Nella maggior parte dei chiefdoms vi è stratificazione sociale, e il capo e la sua famiglia hanno un accesso privilegiato alle fonti di prestigio. Tra le mansioni del capo possono esservi la redistribuzione di prodotti, la pianificazione e il controllo del lavoro collettivo, la supervisione delle cerimonie religiose e la direzione delle attività militari. Nella maggior parte dei chiefdoms i capi non hanno il potere di costringere all’obbedienza: la popolazione agisce secondo i desideri del capo perché questi è rispettato e spesso ha un’autorità in ambito religioso. Sembra che nei chiefdoms più complessi, i capi regolassero il loro rapporto con la popolazione più sulla

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base di sanzioni che non sulla ricerca del rispetto. Nel momento in cui la redistribuzione non raggiunge più tutta la popolazione, e al contempo un capo ha la necessità di servirsi di una forza armata, siamo in presenza di un sistema politico che si sta avviando verso la forma statuale.

IV.IV. L’organizzazione statuale.Lo stato, secondo una definizione che trova concordi molti autori, è "un’unità politica autonoma, che comprende nel suo territorio molte comunità e che ha un governo centralizzato con il potere di riscuotere le imposte, di arruolare uomini per il lavoro o per la guerra, e di decretare e applicare leggi". Gli stati, dunque, hanno una struttura politica centralizzata e complessa che comprende una vasta gamma di istituzioni permanenti (con funzioni legislative, esecutive e giudiziarie) affiancate da una massiccia burocrazia. Nella definizione di stato è centrale il concetto di forza legittima: il governo tenta di conservare il monopolio sull’uso della forza fisica. Tale monopolio è ravvisabile nello sviluppo di strumenti per il controllo sociale (polizia, guardia nazionale, esercito permanente). Così come può comprendere più di una banda, di una tribù o di un chiefdom, una società può avere al proprio interno più di uno stato. Non è detto infatti che una popolazione che abita un’unica area e che parla una stessa lingua sia unificata politicamente in un solo stato (es: l’Italia prima dell’unificazione). Quando una società è costituita da uno o più stati siamo in presenza di un’organizzazione statuale. A volte uno stato ingloba più di una società. Si tratta spesso di una situazione che è la diretta conseguenza di una conquista o del controllo coloniale: l’autorità politica dominante (essa stessa uno stato) impone un governo centrale in un territorio che comprende molte e differenti società e culture. Di norma le società statuali si reggono sull’agricoltura intensiva. Presumibilmente è proprio l’alta produttività di questo tipo di agricoltura a permettere la comparsa delle città, un alto grado di specializzazione non solo economica, l’esistenza di scambi commerciali e la stratificazione in classi. Una società statuale può conservare la propria legittimità, o se non altro il potere, per periodi molto lunghi (es: l’impero romano).

IV.V. Fattori associati alla variabilità delle organizzazioni politiche.I diversi tipi di organizzazione politica che abbiamo chiamato banda, tribù, chiefdom e stato sono dei punti su di un continuum che delinea i vari livelli di: unificazione o di integrazione politica (piccola autonomia locale vasta unità di regioni) autorità politica (pochi leader informali temporanei un gran numero di funzionari permanenti) uso della forza da parte dell’autorità centrale (assenza di qualsiasi potere coercitivo monopolio della forza pubblica) tipo di economia (economia di raccolta forme di produzione più intensiva)Inoltre, all’aumento di importanza attribuita all’agricoltura crescono sia la quantità di popolazione unificata politicamente sia il numero e la tipologia dei funzionari politici. Vi è, infine, una correlazione tra stratificazione sociale e livello di integrazione politica. Sebbene sia chiaro che lo sviluppo economico rappresenta una condizione necessaria allo sviluppo politico, tale correlazione non rende però ragione del perché l’organizzazione politica dovrebbe necessariamente divenire più complessa allorquando le condizioni economiche lo permettano. Alcuni autori ipotizzano che alla base dell’unificazione politica vi sia la competizione fra gruppi. Ellman Service, per esempio, immagina che la causa del passaggio da un’organizzazione politica per bande ad un’organizzazione di tribù sia appunto da ricercarsi nella competizione. Le società di banda hanno in genere un’economia di caccia e raccolta. È possibile che il passaggio all’agricoltura accresca la densità della popolazione e la competizione tra i gruppi. Secondo Service tale competizione favorirebbe lo sviluppo di alcune organizzazioni informali (con obiettivi di offesa e di difesa) che andrebbero oltre la comunità (= le organizzazioni tribali). Possono esservi poi, nello sviluppo politico, anche cause economiche. A proposito dei chiefdoms Service sostiene che essi sorgano quando tra le comunità cresce l’importanza della redistribuzione, oppure quando si rende necessario il coordinamento di gruppi di lavoro di notevoli dimensioni. Occorre osservare, però, che la gestione della redistribuzione non è affatto un’attività tipica dei capi, e quindi probabilmente la teoria di Service presenta delle lacune. Gli studiosi di antropologia politica si sono occupati a lungo della nascita delle prime società statuali. I primi stati sorsero, a quanto pare indipendentemente l’uno dall’altro, intorno al 3.500 a.C. Le teorie che finora sono state proposte per spiegare la nascita dei primi stati sono molte, ma nessuna è in grado di rendere

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ragione di tutte le sequenze archeologiche note che culminano nella creazione dei primi stati. È possibile che le cause della nascita degli stati non siano state ovunque le stesse.

IV.VI. L’espandersi delle società statuali.Indipendentemente dalle ragioni che hanno portato al suo insorgere, l’organizzazione politica di tipo statuale ha finito per dominare il mondo. Le società statuali, rispetto a quelle di bande, tribù e chiefdoms, hanno comunità più vaste e densità demografiche maggiori. Posseggono inoltre, di norma, eserciti sempre pronti a combattere. I sistemi statuali che hanno mosso guerra a chiefdoms o a tribù quasi sempre ne sono usciti vincitori, e spesso hanno incorporato politicamente i perdenti. A livello mondiale negli ultimi 3 millenni, e soprattutto negli ultimi 3 secoli, per spopolamento o a causa delle conquiste, il numero di unità politiche indipendenti è calato vertiginosamente. Ciò significa che la diminuzione del numero di unità politiche indipendenti rappresenta un fenomeno piuttosto recente.

V. Come si diventa un leader.Nelle società in cui la leadership è ereditaria (società basate sul rango e società statuali rette da monarchie) sono le regole per la successione a stabilire le modalità con cui avviene il passaggio. In queste società i leader spesso sono identificabili per mezzo di segni ben visibili (es: tatuaggi, vestiti elaborati, ..). Nelle società in cui invece i leader vengono scelti occorre capire quali siano i meccanismi che portano a preferire un individuo rispetto agli altri. Le ricerche condotte in questo settore hanno rilevato come abitualmente i leader siano considerati più intelligenti, più generosi, più perspicaci, più ambiziosi e più aggressivi dei loro seguaci. Essi inoltre, in genere, sono più anziani e più alti. In più, vi sono più probabilità che ad assurgere al ruolo di leader sia il figlio di un leader che non il figlio di un uomo comune. Sembra poi che i leader abbiano un’altra specifica caratteristica, quella di nutrire sentimenti positivi nei confronti dei genitori. Esiste poi una differenza fondamentale che caratterizza i leader degli Stati Uniti: essi sono più ricchi degli altri membri della comunità.In alcune società tribali egualitarie la competizione per la conquista e la conservazione della leadership è altissima. In alcune aree della Nuova Guinea e dell’America del Sud i big men e altri uomini ambiziosi competono tra loro per attrarre i seguaci. Coloro che vogliono prendere parte alla sfida devono dimostrare di possedere poteri magici, di avere successo nell’orticoltura e di essere coraggiosi in guerra. Inoltre, ed è la cosa più importante, devono raccogliere beni in abbondanza, così da potere allestire delle feste in cui tali beni vengono distribuiti. Spesso le mogli dei big men sono a loro volta delle leader; la moglie di una headman di solito è la leader delle donne della comunità: è lei ad essere responsabile dell’organizzazione dei banchetti e a distribuire il cibo in tali occasioni. Qual è l’iter attraverso il quale un uomo diventa un big man?? Per poter diventare un "uomo ricco, grande e importante" è indispensabile avere molte mogli (in quanto la quantità di terra assegnata ad un uomo è direttamente proporzionale al numero di mogli presenti in famiglia); deve anche essere un buon oratore; difficilmente un uomo può ambire a diventarlo prima dei 30/40 anni (è raro che prima di allora sia riuscito ad avere più di una moglie e a farsi un nome grazie agli scambi). Quando un uomo è riuscito ad ottenere la reputazione di big man, se intende conservarla, deve continuare ad agire correttamente. Le isole situate di fronte alla costa sud-orientale della Nuova Guinea sono caratterizzate da società a discendenza matrilineare. Qui a competere per uno status elevato sono sia le donne sia gli uomini, e vi sono quindi big women e big men. È possibile che l’importanza assunta dalle donne sia legata alla scomparsa della guerra, alla quale è seguito l’inizio degli scambi commerciali, attraverso i quali le donne hanno avuto l’opportunità di divenire delle leader.

VI. La risoluzione dei conflitti.La politica si occupa anche di risolvere i conflitti. Le strategie per affrontarli sono diverse e numerose: le soluzioni pacifiche includono l’allontanamento, l’intervento della comunità, la mediazione o la negoziazione, le scuse rituali, il ricorso a potenze soprannaturali o a terzi non coinvolti. Come vedremo, tali strategie variano abitualmente in base alla complessità sociale. Non sempre però le soluzioni pacifiche sono possibili e a volte le controversie evolvono in conflitti violenti. Quando la violenza si verifica in realtà politiche che di norma risolvono le controversie in modo pacifico, allora siamo in presenza di un crimine, soprattutto nel caso in cui la violenza venga commessa da un singolo. Quando invece essa si verifica tra gruppi di

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unità politiche distinte, allora parliamo di guerra. Quando infine la violenza esplode tra sottogruppi di popolazione che appartengono alla stessa unità politica siamo in presenza di una guerra civile.VI.I. La risoluzione pacifica dei conflitti.La maggioranza degli stati moderni industrializzati possiede istituzioni quali la polizia, le procure distrettuali, i tribunali e un sistema penale che affrontano i conflitti più o meno gravi che nascono in seno alla società. Tali istituzioni operano sulla base di leggi codificate. Lo stato ha il monopolio sull’uso legittimo della forza: solo esso, infatti, ha il diritto di obbligare gli individui ad attenersi alle disposizioni, alle consuetudini, alle procedure. In molte società non esistono istituzioni e funzionari preposti alla risoluzione dei conflitti. Ciononostante, poiché tutte le società possiedono dei sistemi convenzionali per risolvere pacificamente almeno certi tipi di controversie, alcuni antropologi parlano di universalità del diritto. Il fatto che il diritto esista in tutte le società non implica però che sia sempre possibile risolvere i conflitti in modo pacifico. L’ALLONTANAMENTO: la violenza può essere evitata se le parti avverse si evitano di proposito sino a che gli animi sono si sono rasserenati. Tale strategia è molto diffusa tra i raccoglitori. Ovviamente l’allontanamento è più praticabile nelle società nomadi o seminomadi in cui le abitazioni sono occupate temporaneamente e in cui vi è una notevole autosufficienza. L’INTERVENTO DELLA COMUNITÀ: tale strategia caratterizza le società più semplici, in cui mancano leader che esercitino l’autorità. In queste società tutti portano a termine i loro compiti quotidiani osservando un complesso sistema di tabù, il quale è talmente onnipervasivo che, spesso, non hanno necessità di una raccolta ufficiale di leggi. Ciononostante i conflitti insorgono e devono essere risolti. Se un individuo non osserva un tabù o non segue i consigli dello sciamano dev’essere espulso dal gruppo, perché la comunità non può mettere a repentaglio la propria sopravvivenza. Un singolo caso di omicidio, quale può essere quello derivante da una vendetta, non riguarda la comunità, ma se le uccisioni si ripetono tutta la comunità è chiamata ad intervenire. L’uccisione di un individuo è l’azione estrema a cui ricorrere. La decisione può essere presa, a seconda dei contesti, da un tribunale, da un funzionario politico, o dall’intera comunità. Sembra comunque che la pena capitale esista in tutte le società, dalla più semplice alla più complessa. Spesso si crede che essa rappresenti un deterrente nei confronti del crimine; di fatto non è così. NEGOZIAZIONE E MEDIAZIONE: in molti casi le parti avverse possono addivenire ad un accomodamento attraverso la negoziazione. Per condurre una negoziazione non esistono regole prestabilite, e ogni soluzione è "buona" purché sia in grado di riportare la pace. La negoziazione e la mediazione sono presenti di solito nelle società relativamente egualitarie. Spesso, le controversie all’interno della comunità vengono sedate ricorrendo all’aiuto di un mediatore informale. Egli non ha alcuna autorità per forzare le parti a partecipare al negoziato, né ha il potere di far rispettare la soluzione che è stata concordata. Egli tuttavia può contare sul fatto che, appartenendo le parti avverse alla stessa comunità ed essendo quindi desiderose di evitare l’insorgere di una faida, di norma esse avranno la volontà di risolvere pacificamente la questione. LA RICONCILIAZIONE RITUALE: il desiderio di ripristinare relazioni armoniose spiega anche il ricorso alle scuse cerimoniali. Esse si fondano su un atto di sottomissione (la parte colpevole mostra pentimento e chiede perdono). Quando un individuo ne offende un altro di status superiore, la vittima e gli altri abitanti del villaggio cominceranno ad evitarlo e a parlar male di lui. Se colui che ha recato offesa è sensibile all’opinione del villaggio, allora darà luogo ad una cerimonia di scuse. Di norma le scuse vengono accettate. GIURAMENTI E ORDALIE: un altro mezzo per risolvere in modo pacifico le controversie è rappresentato dai giuramenti e dalle ordalie, che implicano il ricorso a potenze soprannaturali. Un giuramento è l’azione di chiamare una divinità a testimoniare della veridicità di ciò che una persona afferma. L’ordalia è un mezzo impiegato per stabilire la colpa o l’innocenza di un individuo sulla base dei risultati di una prova pericolosa a cui questi viene sottoposto; si ritiene che l’andamento della prova sia sotto il controllo di potenze soprannaturali. Un tipo di ordalia molto diffuso, che ritroviamo quasi ovunque, è l’immersione in acqua bollente. I giuramenti e le ordalie erano diffusi anche nella società occidentale. Entrambi hanno rappresentato una pratica comune nel Medioevo. Ancora oggi, nella nostra società, in occasione dei processi i testimoni devono giurare di dire la verità. VERDETTI, TRIBUNALI E LEGGI CODIFICATE: quando 2 parti in conflitto devono accettare la decisione presa da una terza parte, che agisce come giudice, siamo in presenza di un verdetto. Ad emettere il verdetto può essere una persona (un giudice), un gruppo di giudici, una giuria, o un esponente politico (un capo, un sovrano, un consiglio). I giudici e i tribunali si

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basano spesso, nell’emettere sentenze, su leggi codificate e su pene convenute, ma le leggi non sono indispensabili per prendere le decisioni. Nella società americana, per esempio, spesso le sentenze si rifanno ad un precedente (= conclusioni a cui si è pervenuti in precedenza in presenza di un caso simile). Leggi e tribunali non costituiscono elementi peculiari della società occidentale. Secondo alcuni antropologi le comunità piccole e compatte non avrebbero una vera necessità di possedere orientamenti legali ufficiali, in quanto gli interessi in competizione sarebbero minimi. In queste società le questioni da discutere sono poche, e la volontà generale del gruppo è talmente presente a tutti da costituire una forza dissuasiva potente nei confronti dei potenziali trasgressori. In tal modo l’opinione degli altri rappresenta una vera e propria sanzione. Nelle società più grandi, più eterogenee e più stratificate le controversie sono più numerose, e al contempo meno visibili. Gli individui sono meno inclini a preoccuparsi delle opinioni altrui. Presumibilmente in queste società lo sviluppo di leggi codificate e di autorità ufficiali è da attribuirsi alla necessità di risolvere le controversie in modo sufficientemente impersonale da consentire che le parti accettino le decisioni.

VI.II. La risoluzione violenta dei conflitti.Alcune società ritengono legittima, in certe circostanze, la violenza individuale, mentre noi in genere la giudichiamo un crimine. Quando la violenza coinvolge entità politiche quali comunità, distretti o nazioni, allora parliamo di guerra. Ovviamente vi sono vari e diversi tipi di guerra; a volte si distingue tra faida, razzia e conflitti su vasta scala. Di norma le società in cui è riscontrabile un determinato tipo di violenza ne presentano contemporaneamente anche altri. Questo perché l’esistenza della guerra richiede che i giovani vengano educati ad essere aggressivi, così da poter diventare validi guerrieri. Tale educazione alla violenza avrebbe però delle ricadute sul comportamento in generale, e quindi gli alti tassi di criminalità presenti in alcune società potrebbero essere letti come una conseguenza di tale incoraggiamento all’aggressività. Sebbene ciò possa apparire a prima vista paradossale, spesso la violenza viene considerata un mezzo per controllare il comportamento (es: genitori che picchiano i figli che si comportano male). LA FAIDA: è una condizione di ostilità tra famiglie o tra gruppi di parenti, causata di norma dal desiderio di vendicare un’offesa resa ad un membro del gruppo. Ciò che più caratterizza la faida è il fatto che la responsabilità della vendetta ricade su tutti i membri del gruppo parentale. Viene considerata una vendetta appropriata l’uccisione di un qualsiasi membro del gruppo di appartenenza di chi ha recato offesa, proprio perché il gruppo nella sua totalità è il soggetto della responsabilità. Le faide non esistono soltanto nelle società di piccole dimensioni: esse si verificano altrettanto frequentemente nelle società che presentano alti gradi di organizzazione politica. LA RAZZIA: è un’azione pianificata che prevede l’uso della forza per realizzare un obiettivo limitato. È caratteristica delle società pastorali, nelle quali gli animali hanno un grande valore e in cui il numero degli animali di una mandria può essere accresciuto attraverso il furto. Di solito dell’organizzazione della razzia si occupa un leader temporaneo, la cui autorità decade non appena l’impresa viene portata a termine. A volte le razzie vengono effettuate per catturare gli esseri umani, così da poterli sposare o da renderli schiavi.Nella faida e nella razzia sono di norma coinvolte poche persone, e l’aspetto della sorpresa gioca spesso un ruolo determinante. I confronti su larga scala, al contrario, coinvolgono un gran numero di individui e prevedono una pianificazione accurata delle strategie di attacco e di difesa. I CONFLITTI SU VASTA SCALA: sono caratteristici delle società industriali o di quelle che praticano l’agricoltura intensiva. Soltanto queste società infatti possiedono una tecnologia sufficientemente avanzata che permetta di sostentare eserciti, capi militari, strateghi, .. Tali conflitti tuttavia non sono limitati alle società statuali. Ciascun conflitto, dal confronto su larga scala alla guerra totale, ha le proprie regole culturali (es: nelle società statuali i governi stabiliscono dei patti per limitare l’uso di armi batteriologice, di gas tossici, ..; spesso, in via non ufficiale, vengono raggiunti accordi privati).

VI.III. Come spiegare la guerra.Nella maggior parte delle società studiate dall’antropologia vi sono guerre tra comunità o tra gruppi territoriali più ampi. Le ricerche sulle possibili cause che conducono alla guerra sono ancora poche. Di conseguenza, per il momento, le risposte a molti quesiti sono solo provvisorie e parziali. Abbiamo prove del fatto che nelle società preindustriali si intraprendano le guerre soprattutto per paura di calamità naturali che si presume giungeranno, ma che sono al

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contempo imprevedibili (siccità, alluvioni, invasioni di cavallette, ..). Per proteggersi anticipatamente da questi disastri che distruggono le risorse alimentari potrebbe essere vantaggioso accaparrarsi i beni dei nemici sconfitti. Sappiamo che le società complesse o centralizzate tendono ad avere eserciti formati da professionisti, gerarchie militari e armi sofisticate. Sorprendentemente, però, se le confrontiamo con le bande o le società tribali, osserviamo come in esse la frequenza dei conflitti non sia molto più elevata. È improbabile che la guerra si verifichi all’interno di una società se in essa la popolazione è ridotta o se il territorio non è vasto. Sebbene molti credano che le alleanze militari riducano le probabilità di un conflitto, in realtà risulta che le nazioni che tra loro hanno stretto delle alleanze non combattono affatto meno di quelle che non lo hanno fatto. Neppure l’esistenza di relazioni commerciali pare diminuire le probabilità di conflitti; al contrario, le controversie tra partner commerciali conducono alla guerra molto più facilmente. Infine sembra che la parità tra 2 nazioni sul piano militare (soprattutto quando è preceduta da una rapida crescita della forza militare) acceca, invece che diminuire, le probabilità di un conflitto.

10. PSICOLOGIA E CULTURA.

Visitando un paese straniero abbiamo spesso la sensazione che la gente del luogo pensi in modo diverso dal nostro e abbia un modo differente di reagire alle situazioni; che abbia, dunque, una personalità diversa. Queste osservazioni casuali originano numerosi stereotipi. Questi stereotipi sono fondati su giudizi affrettati ed etnocentrici, e quindi gli antropologi li rifiutano; occorre però al contempo riconoscere che, tra le diverse società, esistono effettivamente delle diversità per quanto concerne alcuni aspetti del pensiero, delle emozioni, dei comportamenti. Se tra società diverse è possibile riscontrare differenti psicologie, nondimeno esistono anche numerose somiglianze. Gli antropologi che si occupano delle differenze e delle somiglianze riscontrabili, in ambito psicologico, nelle diverse società sono detti specialisti di antropologia psicologica (mentre gli psicologi che studiano più società sono detti etnopsicologi). Fino a che punto possiamo affermare che gli esseri umani si sviluppino, dal punto di vista psicologico, nello stesso modo?? Se vi sono delle differenze, come possiamo spiegarle?? In che modo, nelle diverse società, viene concepito lo sviluppo della personalità?? Quali sono le differenze culturali che possono essere spiegate in base a fattori psicologici??

I. L’universalità dello sviluppo cognitivo.Solo a partire dai primi anni 70 gli psicologi si sono mostrati d’accordo con gli antropologi nel mettere in dubbio il postulato che la psicologia di tutti gli esseri umani sia esattamente la stessa, a prescindere dalla società. Poiché gli individui di tutto il mondo appartengono alla stessa specie e condividono un vasto patrimonio genetico, è evidente che vi saranno notevoli somiglianze nello sviluppo psicologico degli individui. Abbiamo già esaminato alcuni fenomeni universali (la cultura, il linguaggio, il matrimonio, il tabù dell’incesto), ma qui analizzeremo quelli più legati all’aspetto psicologico. Donald Brown ha elencato gli universali psicologici dell’essere umano. Essi contemplano la capacità di inventare tassonomie e costruire contrasti binari ordinare i fenomeni usare operatori logici (es: la congiunzione, la negazione e l’uguaglianza) pianificare il futuro avere una conoscenza del mondoRiguardo al pensiero sull’uomo sembrano essere universali il concetto di sé o della persona il riconoscimento delle espressioni del viso il tentativo di comprendere le intenzioni dell’altro sulla base di alcuni indizi (espressione del viso, modo di parlare, atteggiamenti) il desiderio di sapere ciò che gli altri stanno pensandoRiguardo alle emozioni sembrano essere universali la capacità di identificarsi con i sentimenti dell’altro l’abilità di comunicare e di riconoscere sentimenti di felicità, di dolore, di collera, di paura, di sorpresa, di disgusto e di disprezzo

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il riso nei momenti di felicità, il pianto in quelli di dolore; sentimenti quali l’invidia e la gelosia la capacità di provare attrazione sessuale alcune specifiche paure infantili (es: la paura degli sconosciuti)

I.I. I primi studi.Quando Margaret Mead intraprese la sua ricerca a Samoa nella metà degli anni 20, gli psicologi ritenevano che l’adolescenza (a causa dei mutamenti fisiologici che intervengono con la pubertà) fosse vissuta ovunque come un periodo di crisi e di stress. Le osservazioni dell’autrice misero in discussione questo assunto. Anche Bronislaw Malinowski avanzò dei dubbi sull’universalità di un aspetto dello sviluppo psicologico. Secondo la teoria freudiana del complesso di Edipo i ragazzi, inconsciamente, vivrebbero il proprio padre come un rivale che compete con loro per il possesso della madre. Freud riteneva quindi che tutti i maschi, fino all’età di 7 anni circa, manifestassero nei confronti del padre sentimenti di ostilità. Malinowski confutò questa teoria. Egli osservò che nelle società non matrilineari i bambini possono effettivamente provare sentimenti di ostilità nei confronti del padre, ma non perché questi rappresenti un rivale sessuale, quanto piuttosto perché esso incarnerebbe l’adulto che amministra la disciplina. Nelle società matrilineari, infatti, i bambini provano ostilità nei confronti del fratello della madre (che è la figura che detiene l’autorità nel gruppo parentale) e non nei confronti del padre. Solo di recente, per esempio, l’adolescenza è stata studiata sistematicamente in una prospettiva transculturale. Alcuni antropologi sottolineano come l’adolescenza non sia in genere un periodo di aperta ribellione, forse perché in molte società si vive presso i parenti, e si dipende da loro, anche dopo che si è cresciuti. Solo nelle società come la nostra la ribellione è possibile, ed essa anzi serve probabilmente a preparare psicologicamente al distacco dai genitori.

I.II. Le ricerche sullo sviluppo cognitivo.Secondo la teoria di Piaget lo sviluppo dell’essere umano prevede una serie di tappe, ciascuna delle quali è caratterizzata da specifiche abilità cognitive. Non è possibile passare ad uno stadio successivo senza aver percorso tutte le tappe precedenti. La teoria di Piaget è valida universalmente?? Sul primo stadio dello sviluppo (detto senso-motorio) non abbiamo molti dati comparabili, ma le ricerche di cui disponiamo forniscono comunque risultati interessanti: esse, infatti, confermano la teoria di Piaget di una sequenza precisa di stadi. La maggior parte degli studi sugli stadi di Piaget ha avuto come oggetto il passaggio dal secondo stadio (pre-operatorio) al terzo stadio (delle operazioni concrete), e in particolare il concetto di conservazione. Molti di questi studi forniscono però risultati dubbi. Sebbene in generale si sia constatato che i bambini più grandi posseggono in misura maggiore il concetto di conservazione, risulta difficile spiegare perché esso, nello sviluppo psicologico, paia comparire più tardi in molte popolazioni non occidentali. In alcuni luoghi, inoltre, la grande maggioranza della popolazione adulta sembra non comprendere alcune proprietà di questo concetto. Una delle ragioni per dubitare dei risultati di queste ricerche è che i test impiegati per sondare lo sviluppo cognitivo di popolazioni non occidentali sono stati elaborati in Occidente, e ciò implica un notevole svantaggio per coloro a cui vengono somministrati, sia perché con i materiali non vi è familiarità, sia perché la stessa situazione del test è sconosciuta. Sembra, quindi, che qualsiasi bambino possa acquisire il concetto di conservazione, purché abbia esperienze quotidiane o un percorso formativo che lo stimolino al riguardo. Anche dei test intesi a sondare la capacità di condurre operazioni logico-formali è legittimo dubitare. Tali test prevedono domande riguardanti questioni che normalmente vengono affrontate durante le lezioni di scienze e di matematica, e non dovrebbe quindi stupirci che in queste prove gli individui secolarizzati riescano meglio di quelli non secolarizzati. Laddove la scuola non è obbligatoria, dunque, è facile aspettarsi risultati scarsi in questi test.

II. Le variazioni transculturali delle caratteristiche psicologiche.Gli antropologi si interessano agli aspetti della personalità che sono comuni in un popolazione. La nostra personalità è il prodotto di un’interazione tra eredità genetica ed esperienze vissute. Una porzione considerevole di esperienze (e di geni), però, noi la condividiamo con gli altri. Senza dubbio i genitori sono coloro che influiscono maggiormente sulla nostra cresciuta, e poiché i membri di una stessa famiglia hanno in comune sia esperienze di vita sia parte del patrimonio genetico, essi possono avere personalità simili. Occorre però riflettere sulle ragioni che spingono una famiglia ad

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allevare i figli secondo modalità specifiche. Da un certo punto di vista tutte le famiglie sono uniche, ma il sistema d’allevamento dei figli è influenzato dalla cultura (vale a dire dai modelli culturali inerenti alla vita familiare). Non è facile determinare in quale misura i membri di una società abbiano, riguardo all’allevamento dei bambini, le stesse concezioni. Le differenze in ambito educativo che riscontriamo nella nostra società sono il riflesso delle idee riguardanti il modo "giusto" di crescere i figli. Vi sono, inoltre, alcuni genitori che intendono allevare i bambini in modo non convenzionale. Nonostante questo, uno studio su famiglie californiane non convenzionali (coppie non sposate, madri sole, comuni) ha permesso di verificare come, rispetto ai genitori di altre società, i cosiddetti genitori alternativi non siano molto diversi da quelli tradizionali (sposati, con famiglia nucleare).

Nel 70% delle società il bambino viene allattato almeno sino ai 2 anni, e gli ultimogeniti vengono svezzati anche più tardi.

Società preindustriali Società industrialiPer quanto riguarda la pratica di portare con sé e a contatto il bambino i genitori lo fanno per più del 50% del tempo. I bambini trascorrono molto tempo a contatto con un’altra persona, spesso dormono insieme alla madre nello stesso letto o comunque nella stessa stanza. Durante il giorno vengono allattati ogniqualvolta ne facciano richiesta. Si risponde con estrema sollecitudine al pianto di un bambino.

Per molti versi si tende ad essere meno solleciti nei confronti dei bambini di quanto non accada nelle società preindustriali. I bambini trascorrono molto tempo in piccoli spazi recintati (box o culle), e vengono portati in braccio e toccati, nel corso della giornata, relativamente poco. Quello che avviene nelle ore notturne è analogo. È molto comune nutrire i bambini con il biberon distanziando di alcune ore le poppate.

La variabilità transculturale ora descritta sembra riflettere atteggiamenti differenti nei riguardi dell’allevamento infantile. Negli Stati Uniti i genitori dicono di non volere bambini dipendenti e attaccati, desiderano figli indipendenti e autosufficienti. Rispetto all’aggressività infantile 2 società possono avere atteggiamenti molto diversi. Una società può incoraggiare i ragazzi ad essere aggressivi, e raramente li punirà se si comportano male. Al contrario, un’altra società può trasmettere la non violenza in un modo più sottile. Essa potrà non impartire insegnamenti diretti ai bambini; si aspetterà che essi non siano violenti e di conseguenza, quando i bambini avranno comportamenti aggressivi, gli adulti ne rimarranno sconvolti. Queste società non infliggeranno punizioni fisiche ad un bambino che si è comportato in modo violento, e ciò rappresenta il più importante degli insegnamenti. I piccoli, infatti, difficilmente avranno un modello di aggressività a cui fare riferimento. Confrontando questi 2 modelli di società, il comportamento dei genitori nordamericani si colloca probabilmente nel mezzo. Le qualità di un individuo non possono essere descritte nei termini di "tutto o niente" e vanno piuttosto valutate in termini di grado. Quindi nel momento in cui affermiamo che l’aggressività fisica o quella verbale rappresentano un tratto caratteristico della personalità in una data società, noi stiamo formulando un giudizio relativo. Se, effettuando ricerche sul campo, analizzeremo sistematicamente il verificarsi dei comportamenti aggressivi, saremo allora in grado di determinare la frequenza modale di questi in un lasso di tempo dato. In tal modo potremo poi comparare le frequenze modali di tale comportamento in società diverse. Proprio come una cultura non è fissa o statica, così neppure le caratteristiche della personalità tipica lo sono. Spesso gli individui alterano il proprio comportamento per adattarsi a circostanze che cambiano. Se in una società molti mutano il proprio comportamento o il modo di allevare i figli, presumibilmente anche le caratteristiche della personalità tipica subiranno delle trasformazioni.

II.I. L’educazione infantile.Molti ricercatori hanno tentato di stabilire se le differenze psicologiche possano essere spiegate sulla base delle differenti pratiche di allevamento infantile. Il termine socializzazione viene impiegato per descrivere lo sviluppo, nei bambini, di modelli di comportamento (e di atteggiamenti e di valori) che sono conformi alle aspettative culturali. Tale sviluppo avviene attraverso l’influenza dei genitori e di altre persone, che spesso tentano di socializzare in modo diretto il bambino ricompensando alcuni comportamenti e ignorandone o punendone altri. Anche la scuola gioca un ruolo importante nello sviluppo infantile (soprattutto nello sviluppo cognitivo). Infine i genitori possono influire sullo sviluppo psicologico dei figli in base a ciò che provano nei loro confronti. Cora Du Bois ha condotto una ricerca che è divenuta ormai un classico degli studi sulla personalità. Da questo studio emerse un’immagine piuttosto negativa della tipica personalità alorese. Gli aloresi di entrambi i sessi venivano descritti come individui diffidenti, antagonistici, inclini alla violenza, emotivi e soggetti a scoppi di gelosia. Tendevano a

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disinteressarsi a ciò che li circondava, ad essere molto approssimativi sul lavoro e a mancare gli scopi. Per riuscire a comprendere le possibili cause di questi atteggiamenti, l’autrice esaminò in dettaglio le esperienze infantili aloresi, e in particolare i tempo dell’allattamento al seno. Alle radici dello sviluppo della personalità alorese vi sarebbero le lunghe assenze della madre durante il giorno (il bambino viene affidato alle cure del padre, di un fratello più grande o di un nonno). Al bambino vengono offerti cibi sostitutivi al seno materno, che però non sembrano soddisfarlo; inoltre, l’attenzione che viene riservata al bambino subisce sconcertanti oscillazioni: si passa da amorevoli sbaciucchiamenti alla trascuratezza, ad un irritato rifiuto. Nelle ricerche successive non sono stati analizzati i possibili effetti sul bambino di protratte interruzioni dell’allattamento al seno. Si sono però studiati gli effetti che ha, sui bambini, la frequenza con cui vengono tenuti in braccio dalla madre. Le conclusioni a cui si pervenne sono così sintetizzabili: i bambini che da piccoli erano stati tenuti in braccio dalla madre molto spesso di dimostravano, all’età di 5 anni, molto più fiduciosi e più ottimisti dei loro coetanei. Sorprendentemente, mentre la durata non era legata in modo significativo ai tratti sopra delineati, il puro e semplice numero di persone che si avvicendavano nel tenere in braccio il bambino permetteva di prevedere la sua maggiore o minore fiducia e il suo grado di ottimismo: un bambino si dimostrava più fiducioso quanto più era stato portato in braccio da altri che non fossero la madre (probabilmente una madre molto fiduciosa permette ad altri di tenere il bambino, e così facendo trasmette al figlio questo aspetto del carattere). È legittimo sostenere che quando i genitori si mostrano affettuosi e amorevoli vi sono ricadute positive sulla personalità dei figli, e viceversa?? In realtà è molto difficile verificare sul piano transculturale questa ipotesi, poiché le culture variano moltissimo nelle modalità di espressione dei sentimenti. Dato che l’amore e l’affetto non sono espressi ovunque nello stesso modo, esiste il rischio concreto che un individuo che non appartiene alla cultura in cui è immerso fraintenda il comportamento dei genitori. Degli antropologi, tuttavia, hanno effettuato un tentativo in questa direzione. Essi hanno rilevato come i bambini tendano ad essere ostili e aggressivi quando vengono trattati con indifferenza e con scarso affetto dai propri genitori. Un rifiuto dei figli è, inoltre più probabile laddove le madri non ricevono alcun aiuto nella cura dei figli. È possibile poi immaginare che il rifiuto dei genitori sia più probabile nelle società in cui vi è poco tempo libero: presumibilmente infatti la mancanza di tempo rende i genitori più stanchi e più irritabili, e quindi meno pazienti con i figli. Questo avviene molto più frequentemente nelle società complesse. Quali che siano le ragioni del rifiuto da parte dei genitori, sembra che esso si riproponga come tratto psicologico nei figli: è molto probabile infatti che i bambini rifiutati, una volta cresciuti, rifiutino a loro volta i propri figli. Nella nostra società non ci si aspetta che i bambini aiutino molto nei lavori domestici (ai fini del benessere della famiglia o della sua sopravvivenza). In altre società, invece, i bambini più piccoli, anche quelli di 3 o 4 anni, si occupano dei lavori domestici. Una bambino tra i 5 e gli 8 anni di età può essere responsabile di un bambino più piccolo per tutto il giorno. Quali sono le conseguenze di questa assunzione di responsabilità sul piano dello sviluppo della personalità?? I bambini che non vengono incaricati di occuparsi di altri bambini più piccoli sono meno capaci di sintonizzarsi sui bisogni degli altri. Una possibile ipotesi è che i bambini, nell’eseguire l’incombenza loro affidata, apprendano determinati comportamenti che divengono poi per loro una sorta di abitudine. Probabilmente, però, vi è anche una soddisfazione intrinseca nello svolgere bene il lavoro. Possiamo desumere che un bambino che si occupa di altri bambini imparerà presto che l’atto di consolare i piccoli porta con sé una ricompensa. I bambini che devono effettuare molti lavori domestici, per esempio poi, trascorreranno il tempo sia con gli adulti sia con altri bambini più piccoli. Viceversa, quelli che non avranno questo impegno saranno liberi di giocare con i loro coetanei. I bambini tendono ad essere più aggressivi quando frequentano i coetanei, mentre tendono a reprimere la propria aggressività quando sono circondati dagli adulti. Quando indaga sullo sviluppo dei bambini la maggior parte dei ricercatori rivolge la propria attenzione ai genitori. Nella nostra e in altre società, tuttavia, i bambini, a partire dai 3 anni di età, trascorrono gran parte della giornata a scuola. Per analizzare gli effetti della scolarizzazione i ricercatori hanno messo a confronto bambini (o adulti) secolarizzati con altri non secolarizzati (tali ricerche sono state condotte in società in cui la scuola non era obbligatoria). Attualmente le nostre conoscenze relative all’influenza della scuola sul comportamento sociale sono poche, mentre siamo più al corrente degli effetti della scolarizzazione sull’abilità nel risolvere test cognitivi. Nell’esecuzione di molti test cognitivi, alla scolarizzazione sono associate prestazioni "superiori", e nell’ambito di una stessa società in genere gli individui scolarizzati danno risultati migliori. Non sempre, però, la scuola produce risultati migliori quando si tratta di affrontare test che coinvolgono il ragionamento

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inferenziale. Perché la scolarizzazione ha simili effetti?? Analizziamo alcune possibili spiegazioni: le differenze osservate possono essere dovute a vantaggi acquisiti dai bambini per il fatto stesso di essere a scuola, vantaggi che non hanno nulla a che fare con le abilità cognitive. È possibile che culture non occidentali abbiamo risultati più bassi perché non hanno familiarità con i materiali dei test (disegni su carta, forme geometriche) gli individui secolarizzati godono di maggiori vantaggi nei test sulle abilità cognitive anche perché sono abituati ai test e alle situazioni nuove o ipotetiche che in essi vengono presentate per indagare gli effetti della scolarizzazione sui processi cognitivi è necessario prendere in considerazione anche l’acquisizione dell’abilità di leggere e scrivere le scuole non sono semplicemente un luogo in cui si apprende un determinato programma: a scuola i bambini imparano ad interagire con i coetanei e con adulti che non sono i genitori o altri familiari. È logico attendersi, dunque, che la scuola non solo indica profondamente sui processi cognitivi, ma trasmetta anche valori, atteggiamenti e modi (considerati culturalmente appropriati) di relazionarsi con gli altri

II.II. Le concezioni del sé.Gli antropologi hanno studiato le differenti concezioni che, in diverse culture, sono alla base dell’idea del sé (o di persona). Molti ritengono che numerose società non occidentali abbiano un concezione del sé profondamente diversa da quella occidentale. Clifford Geertz afferma come nelle società occidentali si enfatizzi l’unicità dell’individuo. Geertz sottolinea poi, sulla base delle sue ricerche sul campo a Giava, Bali e in Marocco, come in queste società ciò che viene enfatizzato sono le "maschere" che un individuo indossa e le "parti" che egli recita. Mentre Geertz si è interessato alla peculiarità delle diverse concezioni del sé in culture differenti, altri antropologi hanno ritenuto di poter individuare i modelli che soggiacciono a questa variabilità. Una delle differenze su cui più si concorda è quella che sottolinea come nella società occidentale si ponga un’enfasi sull’autonomia dell’individuo, mentre nelle società non occidentali ciò che conterebbe sarebbero le relazioni che intercorrono tra gli individui. A questa teoria sono state allevate 2 obiezioni fondamentali: lo studio di altre culture ha messo in luce l’esistenza di sfumature di significato che si collocano ben oltre l’opposizione individualismo VS collettivismo. La concezione inuit di una "persona autentica", per esempio, descrive un processo di relazioni ecologica, che dura tutta la vita, che non è limitato all’individuo e ai suoi simili, ma che si estende anche gli animali e all’ambiente della supposta opposizione di categorie non si hanno prove sufficienti. Melford Spiro ha fatto notare come sarebbe necessario, per appurare il contrasto, scoprire in che modo, in una data società, alcuni individui (un campione selezionato) vedono se stessi effettivamente. La realtà, infatti, può essere molto diversa dagli ideali dichiaratiSe il valore dell’individualismo è importante, allora le società esprimeranno e trasmetteranno tale valore in molti modi. Sin dalla nascita, per esempio, un bambino viene posto in una culla e dorme da solo invece che con un familiare; a scuola spesso vengono richiesti risultati individuali, e non di gruppo; ..

II.III. Le spiegazioni adattive.Alcuni antropologi ritengono che le pratiche di allevamento siano in gran parte adattive (le società produrrebbero il tipo di personalità più adatto a svolgere le attività necessarie alla loro sopravvivenza). Il fatto, però, che un tratto sia presente, non significa necessariamente che esso sia adattivo: non possiamo pervenire ad alcuna conclusione se prima non esaminiamo attentamente la sua pericolosità. In ogni caso occorre considerare che le società che sono giunte fino ai nostri giorni devono aver sviluppato tratti della personalità supremamente adattivi. Per giustificare la frequenza con cui, nelle società preindustriali, gli adulti portano in braccio i bambini, li nutrono e rispondono alle loro richieste, Robert LeVine ha proposto una spiegazione adattiva. In queste società la percentuale di bambini che muore entro il primo anno di vita è del 20%. Spesso i genitori non hanno accesso alla moderne cure mediche, ma possono reagire immediatamente al pianto del figlio se esso è con loro. Inoltre, se portati, per esempio, sulle spalle degli adulti, i bambini sfuggono ai rischi che incontrerebbero rimanendo a livello del terreno (fuochi accesi per cucinare, insetti pericolosi, serpenti). Attraverso una ricerca transculturale, alcuni antropologi hanno saggiato l’ipotesi che le pratiche di allevamento infantile siano adatte alle esigenze economiche di una determinata società: l’ipotesi avanzata dai ricercatori è che le società agricole e pastorali non possano

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permettersi delle infrazioni alla routine prestabilita, perché se lo facessero metterebbero a repentaglio le riserve alimentari per un lungo periodo. In queste società, dunque, viene esaltato il valore della tradizione. Nelle società di caccia e raccolta, invece, l’infrazione alla routine non rappresenta un rischio, perché le provviste di cibo vengono procurate nuovamente ogni giorno. Benché la nostra società si basi sulla produzione del cibo e accumuli grandi scorte alimentari, pare che noi, ancor più di quanto non facciano i cacciatori-raccoglitori, enfatizziamo l’iniziativa individuale. E questo perché la nostra società (caratterizzata da un’economia commerciale e da una notevole presenza di popolazione che risiede nelle o vicino alle città) impone una grossa competizione per il lavoro. Nella nostra economia, dunque, avere iniziativa individuale è molto importante. Anche le caratteristiche della famiglia possono incidere sulle pratiche di allevamento infantile: il grado di disobbedienza permessa dai genitori sarebbe inversamente proporzionale al numero dei componenti della famiglia che vivono nella stessa unità abitativa. Tali osservazioni concordano con i risultati di una ricerca transculturale che ha dimostrato come sia più probabile che i bambini vengano puniti con maggiore severità nelle società con famiglie estese che non in quelle con famiglie nucleari. Le manifestazioni di aggressività negli adulti possono essere correlate al tipo di economia e all’ambiente sociale. Lo stile di vita degli agricoltori, che devono per tutta la vita cooperare con i vicini, esige che essi siano in grado di tenere sotto controllo i propri sentimenti, in particolare quelli di ostilità (tali sentimenti, però, non potendo scomparire, vengono "visti" negli altri). I pastori, al contrario, possono allontanarsi dalle situazioni conflittuali in quanto non dipendono da un gruppo di persone che rimane sempre lo stesso. Non solo, allora, l’aggressività può essere espressa liberamente: essa può essere addirittura adattiva. I pastori spesso intraprendono delle spedizioni per razziare del bestiame, e gli individui più aggressivi sono quelli che hanno le maggiori possibilità di sopravvivere.

II.IV. L’eredità genetica.Alcuni autori hanno ipotizzato che le differenze genetiche o fisiologiche tra le popolazioni predispongano a differenze di personalità. Daniel Freedman ha riscontrato alcune differenze di "temperamento" nei neonati di diversi gruppi etnici (osservando i neonati ha presunto che le differenze riscontrate fossero genetiche). Confrontando neonati cinesi con neonati caucasici, l’autore notò come i primi fossero molto più calmi ed adattabili dei secondi. Secondo Freedman il comportamento del neonato può influenzare la reazione dei genitori nei suoi confronti: un bambino calmo stimolerà una risposta tranquilla, e viceversa. Per Freedman, dunque, il comportamento dei neonati, determinato geneticamente, può condurre a differenze etniche nella personalità adulta e nei metodi di allevamento. Non possiamo però disconoscere la validità delle spiegazioni non genetiche del comportamento infantile. La dieta e la pressione sanguigna della madre, per esempio, possono incidere sul comportamento del bambino. È possibile inoltre che il bambino apprenda quando è ancora nel ventre materno. È legittimo pensare, dunque, che nelle società in cui le donne incinte vivono con tranquillità la loro condizione i bambini apprendano la calma ancora prima di nascere. Infine non sappiamo se le differenze osservate nei neonati permangano sino a trasformarsi in differenze di personalità nell’età adulta. Proprio come la dieta della madre (inclusa la quantità di droga e alcool assunta) può influire sullo sviluppo del feto, così la dieta dei bambini può incidere sul loro sviluppo intellettuale e sul loro comportamento. È stato stabilito che la malnutrizione è associata a livelli inferiori di attività, ad un grado minore di capacità di attenzione, alla mancanza di iniziativa e ad un basso livello di tolleranza delle frustrazioni. È probabile poi che chi si prende cura di bambini malnutriti interagisca poco con loro. Poiché infatti i piccoli riducono la propria attività, i genitori o altri tenderanno a rispondere loro con scarsa frequenza e con poco entusiasmo.

II.V. Comportamento "normale" VS "anormale".Gli antropologi si occupano anche delle differenze e delle analogie rispetto al comportamento anormale. Naturalmente si pone il problema della definizione del comportamento anormale. Ruth Benedict ha avanzato l’ipotesi della relatività del comportamento anormale: i comportamenti che in una società vengono considerati appropriati e normali possono essere ritenuti anormali altrove. Durante la seconda guerra mondiale, per esempio, molti ufficiali tedeschi venivano giudicati normali dai loro vicini e dai loro collaboratori; eppure essi commettevano atti di tale atrocità da far pensare, ad osservatori di altre società occidentali, che fossero dei pazzi criminali. In presenza di un comportamento molto estraneo alla nostra cultura, diventa difficile per gli studiosi occidentali determinare quando si debba parlare di malattia mentale o di "normalità".

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III. Le spiegazioni psicologiche della variabilità culturale.Finora abbiamo esaminato le possibili cause della variabilità della caratteristiche psicologiche. Gli antropologi, però, così come altri scienziati sociali, hanno indagato anche le possibile conseguenze di tale variabilità. Secondo David McClelland, per esempio, è più probabile che le società che sviluppano negli individui livelli elevati di motivazione ad uno scopo conoscano una notevole crescita economica. I fattori psicologici possono anche aiutarci a comprendere la correlazione tra determinati aspetti della cultura. Abram Kardiner definì primarie le istituzioni (organizzazione familiare e tecniche di sussistenza) che davano origine ad alcune caratteristiche della personalità. Una volta che la personalità era formata, però, essa aveva a sua volta un impatto sulla cultura. Le istituzioni secondarie della società (arte e religione) venivano a costituirsi sulla base delle caratteristiche comuni della personalità (personalità di base). Presumibilmente le istituzioni secondarie non avevano molto a che fare con i bisogni adattivi della società, e riflettevano ed esprimevano piuttosto i motivi, i conflitti e le ansie dei suoi membri. Se dunque saremo in grado di comprendere perché si sviluppano determinate caratteristiche della personalità potremo, per esempio, stabilire perché determinati tipi di arte sono associati a specifici sistemi sociali. Per fornire un esempio di come la personalità possa integrare la cultura ritorniamo ad alcune spiegazioni inerenti alla preferenze culturali per alcuni giochi e per determinati tipi di cerimonie di iniziazione maschile. Attraverso una ricerca transculturale, alcuni antropologi hanno riscontrato come le preferenze culturali per determinati tipi di giochi siano da correlare ad alcuni aspetti delle pratiche di allevamento infantile, in particolare ai conflitti da queste innescate. I giochi di strategia, per esempio, sono associati a tecniche educative che impongono l’obbedienza. L’addestramento all’obbedienza può creare un conflitto tra la necessità di obbedire e il desiderio di sottrarsi al comando, e questo conflitto può generare uno stato ansioso. Non è detto che l’ansia venga manifestata nei confronti dell’individuo che la genera; in ogni caso l’aggressività può essere agita su campi di battaglia in miniatura come negli scacchi. Analogamente è possibile che i giochi basati sulla fortuna rappresentino una sfida alle aspettative sociali che impongono docilità e responsabilità. I giocatori (e le società) all’inizio sono incuriositi dai giochi, in seguito li apprendono, e infine vi vengono coinvolti in quanto essi esprimono specifici tipi di conflitti psicologici (anche se non necessariamente li risolvono). Il ruolo che rivestono i processi psicologici nel collegare diversi aspetti della cultura è illustrato anche da alcuni studi transculturali sulle cerimonie di iniziazione degli adolescenti. I queste cerimonie i ragazzi sono sottoposti a dolorose prove di virilità le quali segnano il passaggio all’età adulta. Queste cerimonie sono caratteristiche delle società patrilocali in cui i maschi piccoli dormono inizialmente solo con la madre. In queste società, questi riti di iniziazione avrebbero lo scopo di risolvere un conflitto legato al problema della costruzione dell’identità sessuale, e i ragazzi si identificherebbero inizialmente con le proprie madri, le quali esercitano su di loro, nell’infanzia, un controllo praticamente assoluto. In seguito, quando scoprono che sono gli uomini a dominare la società, i ragazzi passerebbero all’identificazione con i propri padri. Questo conflitto rispetto al ruolo sessuale sarebbe risolto attraverso la cerimonia iniziatica che, dimostrando la virilità del ragazzo, rafforzerebbe l’identificazione secondaria.

11. RELIGIONE E MAGIA.

Tutte le società posseggono sistemi di credenze ai quali è possibile applicare il termine religione. Definiremo religione qualunque complesso di atteggiamenti, credenze e pratiche che riguardano potenze soprannaturali (forze, dèi, spiriti, fantasmi o demoni). Nella nostra società siamo soliti dividere i fenomeni in naturali e soprannaturali, ma non tutte le lingue o le culture operano una distinzione così netta. Nella nostra società, per esempio, alcune malattie comuni vengono attribuite all’azione di germi e di virus. In altre società, invece, si pensa che la malattia sia causata da forze soprannaturali, sicché il suo manifestarsi viene inserito nell’ambito della sfera religiosa. La linea di confine che separa naturale e soprannaturale, quindi, sembra spostarsi al variare delle credenze relative alle cause dei fenomeni. In molte culture ciò che noi consideriamo inerente solo alla sfera religiosa è invece intrinsecabilmente connesso ad altri aspetti della vita quotidiana. Spesso in tali casi è difficile separare l’aspetto religioso (o quello politico, o quello economico) dagli altri aspetti della cultura. Le culture di questo tipo, infatti, sono poco specializzate o non lo sono affatto: non vi sono sacerdoti a tempo pieno, né attività puramente religiose. Tuttavia anche per noi è difficile a volte stabilire se una nostra particolare usanza è o non è un’usanza religiosa.

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I. L’universalità della religione.Gli archeologi ritengono di aver rinvenuto, a partire da 60.000 anni fa, prove che attestano l’esistenza di credenze religiose già nell’Homo sapiens. Questi seppelliva deliberatamente i propri morti, e numerose tombe contengono resti di cibo, attrezzi e altri oggetti che probabilmente si pensava potessero essere utili nell’altra vita. È possibile che alcuni dei prodotti artistici degli uomini moderni, a partire da circa 30.000 anni fa, siano stati utilizzati per scopi religiosi (es: le statuette di donne con vistosi caratteri sessuali secondari potevano essere amuleti per la fertilità). Poiché possiamo ragionevolmente presupporre l’esistenza di una religione preistorica, e dal momento che vi sono prove dell’universalità della religione nei tempi storici, possiamo capire perché la religione sia stata oggetto di tante riflessioni, ricerche e teorizzazioni. La discussione su quale religione sia da considerare la migliore non rientra nei compiti dell’antropologia. Ciò che interessa agli antropologi è capire perché la religione sia presente in tutte le società, e come e perché essa sia diversa da una società all’altra. Molti scienziati sociali hanno tentato di spiegare il fenomeno dell’universalità della religione. I più ritengono che le religioni siano create dagli uomini per rispondere a determinati bisogni e condizioni che sono universali.I.I. Il bisogno di comprensione intellettuale.Secondo Edward Tylor la religione nacque da riflessioni riguardanti i sogni, gli stati di trance e la morte. Tylor credeva che le apparizioni di persone e animali, nel loro realismo, inducessero gli uomini a ritenere che ogni cosa avesse una duplice esistenza: da una parte il corpo, fisico e visibile, e dall’altra l’anima, psichica e invisibile. Poiché i morti appaiono nei sogni, gli uomini finiscono per credere che le anime dei morti siano ancora presenti tra i vivi. Secondo Tylor la credenza nelle anime fu la prima forma di religione: per designare tale tipo di credenza utilizzò il termine animismo. Molti studiosi però criticarono la teoria di Tylor per il suo eccessivo intellettualismo e perché non prendeva in considerazione la componente emotiva della religione. R.R. Marett giudicò l’animismo tyloriano una teoria troppo sofisticata e propose l’animatismo, vale a dire la credenza nell’esistenza di forze soprannaturali impersonali, per esempio la credenza nel potere di una zampa di coniglio, quale prima tappa dell’evoluzione religiosa.

I.II. La regressione a sentimenti infantili.Secondo Sigmund Freud i primi uomini vivevano in gruppo, e ciascun gruppo era dominato da un uomo tirannico che teneva tutte le donne per sé. Freud postulò che al raggiungimento della maturità i figli maschi venissero allontanati dal gruppo. Più tardi essi si sarebbero riuniti per uccidere e mangiare l’odiato padre. Ma a quel punto i figli avrebbero avvertito un enorme senso di colpa e un terribile rimorso, che espressero (proiettarono) nella proibizione di uccidere l’animale totemico (il sostituto del padre). Di conseguenza, nei riti, la scena cannibalica venne replicata nella forma di un banchetto totemico. Secondo Freud, queste credenze primitive si sarebbero gradualmente trasformate nel culto di divinità o di dèi modellati sulla figura del padre. Oggi la maggior parte degli scienziati sociali rifiuta l’interpretazione freudiana dell’origine della religione, ma condivide la sua ipotesi che gli avvenimenti dell’infanzia possano avere un effetto importante e prolungato sulle credenze e sulle pratiche della vita adulta. Inerme e dipendente dai genitori per molti anni, il bambino, inevitabilmente e inconsciamente, vive i propri genitori come esseri onniscienti e onnipotenti. Quando sentono di perdere il controllo o di trovarsi in situazioni di bisogno, gli adulti possono regredire ai loro sentimenti infantili. Possono allora appellarsi agli dèi o alla magia per ottenere ciò che non sono in grado di raggiungere da soli, proprio come quando si rivolgevano ai genitori per avere una risposta ai propri bisogni.

I.III. Ansia e incertezza.Freud pensava che gli uomini ricorressero alla religione nei periodi di incertezza, ma il suo giudizio sulla religione non era positivo, poiché riteneva che gli uomini si sarebbero alla fine liberati da questo bisogno. Altri giudicarono la religione in modo più positivo. Per Bronislaw Malinowski in tutte le società gli uomini devono affrontare l’ansia e l’incertezza. È possibile che essi abbiano capacità e conoscenze che permettono loro di fronteggiare molti bisogno, ma la conoscenza spesso non basta a prevenire malattie, incidenti e calamità naturali. La prospettiva più terribile è la morte stessa, e di conseguenza vi è un intenso desiderio di immortalità. Per Malinowski la religione nasce dal bisogno universale di trovare un confronto negli inevitabili periodi di crisi. Attraverso la credenza religiosa gli uomini affermano che la morte non è né reale né definitiva, che gli individui sono dotati di una personalità che perdura anche dopo la morte. Nelle cerimonie religiose gli uomini possono

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commemorare e comunicare con i morti, e ottenere così una qualche consolazione. Altri antropologi hanno giudicato la religione ancor più positivamente: essa non è ritenuta un semplice mezzo per alleviare le sofferenze, quanto piuttosto un mezzo terapeutico (la religione dona all’uomo un sentimento di unione con qualcosa di più grande di lui; essa aiuta a risolvere i conflitti più profondi e a raggiungere la maturità; la religione fornisce agli uomini una cornice di valori; essa permette una comprensione trascendentale del mondo).

I.IV. Il bisogno di comunità.Tutte le teorie discusse fin qui concordano su una cosa: quali che siano le credenze o i riti, la religione può soddisfare psicologicamente bisogni che sono comuni a tutti gli uomini. Alcuni scienziati sociali, però, ritengono che la religione nasca dalla società e dia risposta più a bisogni sociali che a bisogni psicologici. Émile Durkheim osservò come la vita sociale faccia sperimentare agli uomini la sensazione di essere trascinati e manovrati da forze potenti. Queste forze guidano il comportamento, spingono ad opporsi a ciò che è considerato sbagliato e a fare ciò che è ritenuto giusto. Tali forze sono l’opinione pubblica, le usanze e le leggi. Poiché esse sono in larga misura invisibili, gli uomini le avvertirebbero come forze misteriose e quindi sarebbero giunti a credere a dèi e a spiriti. Durkheim ipotizzò che la religione derivasse dall’esperienza di vivere in gruppo: la credenza e la pratica religiose indicano il posto di una persona nella società, accrescono il sentimento di comunità, danno fiducia. Per Durkheim il vero oggetto di culto religioso è la società. Esaminiamo ora la spiegazione che l’autore dà a proposito del totemismo, tema così frequentemente discusso. Non vi è nulla di intrinseco, egli sostiene, in una lucertola, in un topo o in una rana sufficiente a farne qualcosa di sacro. L’animale totemico deve allora essere un simbolo, il simbolo che distingue un clan dall’altro. Il totem è quindi il centro dei rituali religiosi clanici, e simboleggia sia il clan sia gli spiriti del clan. È il clan ciò con cui gli uomini soprattutto si identificano, ed è il clan ad essere celebrato nel rituale. Guy Swanson accettò la teoria durkheimiana secondo la quale alcuni aspetti o condizioni della vita sociale generano risposte che definiamo religiose. Egli ritenne però che Durkheim fosse troppo vago riguardo a ciò che specificamente, all’interno della società, avrebbe dato origine alla credenza negli spiriti o negli dèi. Per l’autore la credenza negli spiriti deriva dall’esistenza di gruppi sociali sovrani. Questi gruppi hanno giurisdizione indipendente (poteri decisionali) in molti ambiti (la famiglia, il clan, il villaggio, lo stato). Essi sono immortali, poiché continuano ad esistere oltre la vita dei loro membri. Per Swanson, quindi, gli spiriti o gli dèi che gli uomini si creano impersonano o rappresentano i gruppi dominanti della società. Proprio come questi gruppi gli spiriti o gli dèi sono immortali e hanno scopi che vanno ben oltre quelli del singolo individuo.

II. La variabilità delle credenze religiose.II.I. Tipologia degli esseri e delle forze soprannaturali. FORZE SOPRANNATURALI: alcune forze soprannaturali hanno carattere impersonale. Marett utilizzò per designarle il termine "animatismo". Il mana ne costituisce un esempio: si tratta di una forza soprannaturale e impersonale che si ritiene dimori soltanto in alcuni oggetti e in alcune persone (es: se un capo non ha successo in guerra si dice che ha perso il suo mana). Benché il concetto di mana sia maleo-polinesiano, anche nella nostra società ritroviamo qualcosa di simile (es: un giocatore di baseball può pensare che una determinata blusa abbia una forza o un potere soprannaturali e che, indossandola, segnerà più punti; il quadrifoglio). MANA E TABÙ: oggetti, persone o luoghi possono venir considerati tabù. Si distingue il concetto di mana da quello di tabù, osservando come gli oggetti contenenti mana possano essere toccati, mentre la stessa cosa è proibita per quelli considerati tabù, in quanto il loro potere può provocare dei danni. Coloro che li toccano, quindi, diventano a loro volta tabù. I tabù circondano il cibo che non dev’essere mangiato, gli animali che non devono essere uccisi, gli individui da non accostare sessualmente, .. ESSERI SOPRANNATURALI: rientrano in 2 ampie categorie: vi sono quelli di origine non umana (dèi e spiriti) e quelli di origine umana (fantasmi e spiriti degli antenati). Gli dèi, i più importanti tra gli esseri di origine non umana, sono personalità dotate di nome proprio. Spesso si tratta di essere antropomorfi (= concepiti a immagine dell’uomo) sebbene a volte abbiano la forma di altri animali o di corpi celesti come il sole e la luna. Fondamentalmente si crede che essi si siano creati da soli e che alcuni di loro abbiano poi creato, o fatto nascere, altri dèi. Sebbene vi siano alcuni dèi creatori, non tutte le religioni includono la creazione del mondo tra gli atti divini. Dopo la fatica della creazione molti dèi creatori si ritirano. Hanno impresso al mondo il movimento iniziale, ma non sono interessati al suo funzionamento quotidiano. Altri dèi creatori continuano ad occupasi delle vicende ordinarie degli esseri umani, soprattutto di quelle

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di un piccolo e selezionato frammento di umanità. Indipendentemente dall’esistenza o meno, in una determinata società, di un dio creatore, il compito di far funzionare la creazione viene affidato spesso a dèi minori. Inferiori agli dèi per prestigio, e spesso più vicini agli uomini, troviamo una moltitudine di spiriti anonimi. Alcuni possono essere spiriti tutelari. Altri, che raggiungono la fama per azioni particolarmente efficaci, possono venir promossi al rango di dèi dotati di nome proprio. Un gruppo di spiriti noto agli uomini, ma che non viene mai invocato, è quello dei folletti: questi si dilettano in birichinate e possono venire accusati per qualsiasi piccolo contrattempo. Altri spiriti ancora traggono piacere dal compiere deliberatamente il male a vantaggio di qualcuno. FANTASMI E SPIRITI DEGLI ANTENATI: sono esseri soprannaturali che una volta erano uomini. La credenza che i fantasmi o le loro azioni possano venir percepite dai vivi è evidentemente pressoché universale. Probabilmente non è difficile spiegare la credenza quasi universale nei fantasmi. Vi sono molti momenti della vita quotidiana che sono legati alla presenza di una persona amata. Quando questa muore è possibile che tali momenti originino la sensazione che la persona morta sia ancora, in qualche modo, presente. Coloro che abbiamo amato, inoltre, continuano a vivere nei nostri sogni. Dato che le idee sui fantasmi hanno origine da questo tipo di connessioni mentali, in molte società il ruolo di fantasma è rivestito da parenti stretti e da amici, e non da estranei. Sebbene la credenza nei fantasmi sia pressoché universale, non in tutte le società gli spiriti dei morti partecipano attivamente all’esistenza dei vivi. È più probabile che la gente creda in spiriti degli antenati attivi laddove i gruppi di discendenza sono importanti unità decisionali. Il gruppo di discendenza è un’entità che esiste al di là del tempo; i morti, non meno dei vivi, provano interesse per il destino, il prestigio, la comunità del loro gruppo di discendenza.

II.II. Il carattere degli esseri soprannaturali.Di qualunque tipo siano, gli dèi o gli spiriti venerati in una data cultura tendono a possedere uno specifico carattere o una determinata personalità. Possono essere prevedibili o imprevedibili, distaccati o interessati alle vicende degli uomini, soccorrevoli o punitivi. Gli studi transculturali hanno dato corpo all’ipotesi che il carattere degli esseri soprannaturali sia connesso alla natura dell’educazione infantile. Alcuni antropologi ipotizzano che la relazione tra il dio e l’uomo sia una proiezione di quella tra genitori e figli, nel qual caso le pratiche di allevamento dei figli potrebbero facilmente essere rivissute nel rapporto con il soprannaturale. Se una bambina, per esempio, viene nutrita immediatamente dai genitori non appena piange, agita le braccia o scalcia, è possibile che cresca aspettandosi di essere nutrita dagli dèi se riuscirà ad attrarre la loro attenzione attraverso l’esecuzione di un rito. D’altro canto, se i suoi genitori la puniscono spesso, la bambina crescerà aspettandosi che gli dèi la puniscano in caso di disobbedienza. Alcuni antropologi hanno scoperto che nelle società che avevano pratiche di allevamento infantile punitive e violente è più probabile riscontrare una credenza in dèi aggressivi e ostili, e viceversa. Questi risultati avvallano la teoria freudiana secondo cui il mondo soprannaturale corrisponderebbe al mondo naturale. Vale la pena notare in questo contesto che alcuni uomini parlano di dio come del loro padre e di se stessi come dei suoi figli.

II.III. La gerarchia degli esseri soprannaturali.La variabilità delle strutture sociali delle società umane trova la sua controparte nel mondo soprannaturale. Alcune società hanno molti dèi e spiriti non gerarchizzati. Ciascun dio ha più o meno lo stesso potere degli altri. In altre società gli dèi e gli spiriti sono ordinati secondo il prestigio e il potere che possiedono. Alcune società non credono in un dio principale o in un essere supremo che superi per importanza tutti gli altri dèi, ma altre società lo fanno. Consideriamo l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam, che definiamo religioni monoteistiche. Sebbene la parola monoteismo rimandi ad "un solo dio", la maggioranza delle religioni monoteistiche include in realtà più di un essere soprannaturale (es: demoni, angeli, il diavolo). Ritorniamo alla teoria di Swanson secondo la quale gli uomini inventano dèi che impersonano i gruppi decisionali importanti della loro società. Swanson ipotizza dunque che sia più probabile che le società con sistemi politici gerarchizzati credano in un dio supremo. Come segue logicamente, dalle scoperte di Swanson, è più probabile che le società che dipendono, per l’approvvigionamento di cibo, più dalla produzione che dalla raccolta, credano in un dio supremo. Per concludere possiamo affermare che, sulla base di questi risultati, che è molto

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probabile che il mondo degli dèi corrisponda al mondo sociale e politico della vita di tutti i giorni.

II.IV. L’intervento degli dèi nelle vicende umane.Secondo Clifford Geertz un individuo tende a spiegare gli eventi ricorrendo all’intervento divino nel momento in cui deve affrontare ciò che non conosce, il dolore e le ingiustizie della vita. Oltre ai casi di intervento divino spontaneo esistono numerosi esempi di richieste di intervento divino, sia per ottenere benefici per se stessi e per gli amici, sia per danneggiare altri. Gli dèi vengono interpellati affinché intervengano sulle condizioni del tempo e facciano crescere i raccolti. Vi sono poche ricerche che spiegano perché gli dèi intervengano in alcune società e non in altre. Tuttavia alcuni dati ci permettono di ipotizzare quando avviene che gli dèi si interessino alla moralità o all’immoralità della condotta umana. Lo studio di Swanson indica che è probabile che gli dèi puniscano gli uomini a causa di una condotta immorale quando nelle società non vi siano profonde differenze economiche. L’interpretazione di Swanson è che in queste società gli dèi siano interessati a favorire le disuguaglianze. Probabilmente la convalida soprannaturale della condotta morale è particolarmente utile laddove le disuguaglianze mettono a dura prova la capacità del sistema politico di mantenere l’ordine sociale e di ridurre al minimo il disordine. L’invidia per i privilegi altrui può spingere alcune persone a comportarsi in modo immorale; il credere che gli dèi puniranno tale condotta può agire come deterrente.

II.V. La vita dopo la morte.In molte società le concezioni riguardanti la vita dopo la morte sembrano essere vaghe e di scarso rilievo; in molte altre, invece, sono presenti concezioni molto elaborate e ben precise a proposito di ciò che accade dopo la morte. I morti controllano la condotta dei vivi, sia attraverso ricompense, sia per mezzo di punizioni. Molti cristiani credono che i morti siano divisi in 2 gruppi: i dannati, destinati alla dannazione eterna, e i salvati, che ricevono la ricompensa eterna. Le descrizioni cambiano, ma l’inferno è spesso associato alla tortura del fuoco, mentre il paradiso è associato all’immagine di dimore celesti. In molte società si crede che i morti tornio sulla terra per nascere nuovamente. Gli induisti attraverso la credenza nella reincarnazione giustificano la liberazione finale della sofferenza attraverso il raggiungimento del nirvana. Probabilmente in molte religioni il mondo in cui si svolge la vita dopo la morte somiglia a quello della vita quotidiana, ma mancano studi comparativi che illustrano con esattezza queste analogie.

III. La variabilità delle pratiche religiose.Non sono solo le credenze a variare da una società all’altra. Anche il modo in cui gli uomini interagiscono con il soprannaturale è soggetto a cambiamenti. Le modalità di approccio al soprannaturale spaziano dalle suppliche (richieste, preghiere, ..) alla manipolazione. E le società si caratterizzano anche in base al tipo di specialisti religiosi che possiedono.

III.I. Mezzi per interagire con il soprannaturale.Il problema di come riuscire ad interagire con il soprannaturale è senza dubbio un problema universale. Wallance ha sottolineato la molteplicità dei mezzi utilizzati (dalle preghiere alle azioni sul corpo e sulla mente, dalle simulazioni ai banchetti, ai sacrifici). LA PREGHIERA: può essere spontanea o memorizzata, privata o pubblica, silenziosa o espressa ad alta voce. ALCOOL E DROGHE: le azioni sul corpo e sulla mente comprendono l’assunzione di alcool e di droghe (allucinogeni come il peyote e oppiacei); l’isolamento sociale o le deprivazioni sensoriali; l’esecuzione di corse e di danze fino allo sfinimento; la privazione di cibo, di acqua, di sonno; l’ascolto di suoni ripetitivi come quelli delle percussioni. Tali comportamenti possono indurre stati di trance o stati alterati di coscienza. LA TRANCE: il raggiungimento di questi stati di alterazione di coscienza (di cui si parla in generale come di "stati di trance") fa parte della pratica religiosa nel 90% delle società. In alcune società si crede che la trance implichi la presenza, all’interno di una persona, di uno spirito, o di una potenza, che sostituisce la personalità o l’anima dell’individuo, o le modifica ("trance di possessione"). Altri tipi di trance includono il viaggio dell’anima, esperienze di visione, o la trasmissione di messaggi da parte degli spiriti. È più probabile trovare trance di possessione in società che praticano l’agricoltura, hanno stratificazione sociale, schiavitù e gerarchie politiche complesse. La trance in cui non vi è possessione sono più ricorrenti nelle

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società di raccolta. Le società a modesta complessità sociale conoscono entrambi i tipi di trance. IL VUDU: utilizza la simulazione: vengono realizzate delle bambole che hanno le sembianze di un nemico, e le si maltratta nella speranza che il nemico provi un’analoga sofferenza o addirittura la morte. La simulazione viene impiegata spesso nel corso della divinazione (mezzo attraverso il quale si desidera ottenere dal soprannaturale un orientamento per l’azione). Molte persone nella nostra società si fanno leggere il futuro in sfere di cristallo, in foglie di tè, nelle carte. Altre a volte operano una scelta sulla base del lancio di monete o di un tiro di dadi. Tutti questi metodi sono noti anche in altre culture. LA DIVINAZIONE: sarebbe una strategia di adattamento funzionale al conseguimento del successo nell’attività venatoria (= di caccia). Quando gli uomini che la praticano non hanno fortuna nella caccia, consultano il divinatore. Egli, attraverso dei riti particolari, apprende il luogo in cui il gruppo dovrà recarsi per la caccia. Gli antropologi non credono che il divinatore possa effettivamente scoprire dove si trovino gli animali: il rito fornisce semplicemente un mezzo per scegliere casualmente la destinazione per la caccia. Poiché è probabile che sviluppino modelli di azione consuetudinari, gli uomini in genere tendono a cercare selvaggina seguendo un qualche schema. Ma la selvaggina può imparare ad evitare i cacciatori che si regolano secondo uno schema. Un qualsiasi metodo che assicurasse contro schemi prevedibili (una qualsiasi strategia casuale), quindi, sarebbe vantaggioso. La divinazione, inoltre, solleva l’individuo dal dover prendere la decisione riguardo al luogo per la caccia, decisione che potrebbe provocare l’ostilità dei compagni in caso di insuccesso della spedizione. I SACRIFICI: in molte religioni troviamo la tradizione del pasto sacro (es: la Comunione è la simulazione dell’Ultima Cena). Alcune società, invece, fanno sacrifici agli dèi per influenzarne l’azione, per deviarne la collera oppure per attirare la loro benevolenza. Caratteristica di tutti i sacrifici è l’offerta agli dèi di qualcosa di valore, sia esso cibo, bevanda, sesso, beni di famiglia, o la vita di un animale o di un uomo. Presso alcune società vi è la credenza che il dio sia obbligato ad agire a vantaggio degli uomini se questi compiono il sacrificio appropriato. In altre società, invece, il sacrificio è solo un tentativo di persuadere il dio, ma vi è la consapevolezza che non vi è alcuna garanzia che il tentativo abbia successo. Probabilmente noi pensiamo che tra tutti i tipi di sacrificio quello umano sia il sacrificio estremo. Eppure esso non è raro nelle testimonianze storiche ed etnografiche. Un recente studio transculturale ha messo in rilievo come, tra le società preindustriali, il sacrificio umano sia più probabile presso quelle che hanno artigiani a tempo pieno, schiavitù e lavoro obbligatorio. L’autore ipotizza che il sacrificio rispecchi ciò che è socialmente importante: le società che, dal punto di vista delle risorse energetiche, dipendono soprattutto dal lavoro umano (piuttosto che da quello animale o dalle macchine) possono ritenere che l’offerta di una vita umana sia quella più appropriata quando si intende domandare agli dèi qualcosa di veramente importante.

III.II. La magia.Tutti questi mezzi per interagire con il soprannaturale possono essere classificati in vario modo. Una dimensione di analisi consiste nello stabilire quanti individui in una società hanno fiducia nelle suppliche o nel tentativo di persuadere il soprannaturale ad agire a loro vantaggio, e quanti invece credono di poter forzare il soprannaturale adempiendo a determinate procedure. La preghiera, per esempio, è una richiesta, mentre la pratica vudu è presumibilmente una costrizione. Quando gli uomini credono che le loro azioni possano costringere il soprannaturale ad agire in un determinato modo, gli antropologi parlano di questa credenza e delle relative pratiche in termini di magia. La magia prevede la manipolazione del soprannaturale a scopi benefici o malvagi. Molte società hanno riti magici che servono ad assicurare abbondanti raccolti, ricchezza di selvaggina, fertilità degli animali domestici, e ad evitare e curare le malattie degli uomini. Noi tendiamo ad associare la credenza nella magia a società più semplici della nostra, ma un numero consistente di persone negli Stati Uniti considerano la magia seriamente. Comprendere il motivo per cui nella nostra società la magia eserciti un’attrazione su certi individui ma non su altri potrà un giorno aiutarci a spiegare perché la magia è una parte importante del comportamento religioso dell’umanità. Come vedremo, lo stregone e lo sciamano spesso si servono della magia per effettuare una guarigione. Ma è l’impiego della magia a fini malvagi che ha destato forse il maggior interesse. Fattucchieria e stregoneria sono tentativi di invocare gli spiriti affinché operino a danno di qualcuno. I 2 termini, benché frequentemente usati come sinonimi, vanno però distinti. La fattucchieria include l’uso di materiali, di oggetti e di sostanze che servono ad invocare la malevolenza soprannaturale. La stregoneria può essere definita come l’atto di commettere gli stessi danni, ma esclusivamente per mezzo del pensiero e dell’emozione. Non è

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possibile trovare le prove dirette di una stregoneria. Questa mancanza di prove visibili rende un’accusa di stregoneria allo stesso tempo più difficile da dimostrare e più ardua da smentire. Non si ricorre alla stregoneria per spiegare eventi la cui causa è sconosciuta, ma per spiegare ciò che altrimenti risulterebbe inspiegabile. La mania per la stregoneria diffusasi in Europa tra il 500 ed il 600 e i processi per stregoneria tenuti a Salem, Massachusetts, 1692 ci ricordano che la paura degli altri (che la credenza nella stregoneria presumibilmente rappresenta) può aumentare e diminuire nell’arco di un periodo di tempo relativamente breve. Sono molti gli studiosi che hanno cercato di dare una spiegazione della caccia alle streghe. Uno dei fattori chiamati spesso in causa è quello del disordine politico, che può dare origine a sospetti diffusi e alla ricerca di capri espiatori. Swanson ritiene che l’indebolimento delle legittime procedure politiche possa aver generato una diffusa paura della streghe. È possibile d’altronde che l’epidemia della accuse di stregoneria sia stata la conseguenza di un’epidemia vera e propria (la malattia della segale cornuta). Oggi sappiamo che chi mangia prodotti a base di cereali contaminati soffre di convulsioni, allucinazioni e altri sintomi come brividi sulla pelle. Sia che il proliferare di isteria stregonesca fosse dovuto ad epidemie di avvelenamento da segale cornuta, sia che fosse legato invece ad episodi di disordine politico, ciò che rimane da appurare è perché moltissime società credano nella stregoneria e nella fattucchieria. Una possibile spiegazione è che la stregoneria e la fattucchieria si sviluppino nelle società in cui mancano procedure o attività giudiziarie che provvedano ad occuparsi dei delitti e degli altri reati. In assenza di ufficiali giudiziari che, qualora presenti, possano impedire ed affrontare comportamenti antisociali, la fattucchieria può diventare un efficace meccanismo di controllo sociale.

III.III. Gli specialisti magico-religiosi.Sebbene esistano individui che ritengono di poter entrare direttamente in contatto con il soprannaturale, in quasi tutte le società vi sono specialisti magici o specialisti religiosi. È possibile individuarne 4 tipi principali (il numero di tipi di specialisti pare variare in base al livello di complessità sociale): GLI SCIAMANI: in genere è un uomo che svolge la sua attività non a tempo pieno, all’interno della comunità ha uno status piuttosto elevato e si occupa spesso di guarigioni. Tratteremo più avanti il ruolo svolto dallo sciamano in quanto curatore. Qui concentreremo la nostra attenzione sui metodi utilizzati dagli sciamani per aiutare gli altri. Lo sciamano entra in uno stato di trance, o in una qualche altra forma di stato alterato di coscienza, e viaggia quindi in altri mondi per ottenere l’aiuto del guardiano di quei mondi o di altri spiriti. Può ricorrere ai sogni per comprendere i fenomeni o come un modo di entrare in comunione con gli spiriti. La gente può rivolgersi agli sciamani per questioni pratiche, come il luogo in cui trovare il cibo o quello in cui trasferirsi, ma il loro compito principale consiste nel risolvere i problemi di salute. Gli sciamani possono anche portare notizie dagli spiriti, come ad esempio la previsione di un disastro imminente. Qualcuno può ricevere la "chiamata" a rivestire il ruolo di sciamano al termine di una malattia, attraverso una visione, o in un sogno. Gli apprendisti sciamani possono aumentare l’intensità delle loro visioni facendo ricorso a sostanze allucinogene, attraverso l’astinenza dal sonno o dal cibo, o impegnandosi in una prolungata attività fisica come la danza. Una parte importante del processo attraverso il quale si diventa uno sciamano consisteva nell’apprendere a controllare le visioni e i poteri degli spiriti. L’addestramento può durare parecchi anni sotto la guida di un maestro sciamano. I FATTUCCHIERI E GLI STREGONI: differentemente dagli sciamani, che hanno uno status piuttosto elevato, i fattucchieri e gli stregoni di entrambi i sessi tendono ad avere, nelle loro società, uno status economico e sociale molto basso. Fattucchieri e stregoni presunti sono abitualmente temiti, perché si pensa che sappiamo come invocare il soprannaturale per provocare malattie, danni, morte. Poiché i fattucchieri, per le proprie magie, impiegano dei materiali, le prove della pratica della fattucchieria possono venire trovate e i presunti fattucchieri spesso vengono uccisi a causa delle loro attività malvagie. Ciò, invece, è difficile che accada agli stregoni. Tuttavia, ciò non ha impedito di accusare e di uccidere chi venga considerato colpevole di stregoneria. I MEDIUM: di solito sono donne. A queste specialiste, che dedicano solo una parte del loro tempo all’attività di medium, viene chiesto di guarire e di divinare mentre sono in trance di possessione. Riguardo ai medium si dice che abbiano tremori, convulsioni, attacchi e amnesie temporanee. I SACERDOTI: sono in genere uomini che si occupano a tempo pieno della propria attività, che consiste nell’officiare in occasione di cerimonie pubbliche. Essi di solito hanno uno status molto elevato, e si ritiene abbiano la capacità di relazionarsi con dèi superiori che sono al di là

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delle possibilità di controllo degli individui normali. Nelle maggior parte delle società in cui esiste la figura del sacerdote, questi acquisisce di solito il proprio incarico per eredità o per nomina politica. A volte si distinguono dalla gente comune per un differente abbigliamento o per una diversa acconciatura dei capelli. L’apprendistato di un sacerdote può essere lungo e impegnativo, perché può prevedere digiuni, preghiere e lavoro fisico, oltre all’apprendimento del dogma e di riti della religione. Il sacerdote di norma non riceve compensi per i suoi servizi ed è sostenuto economicamente da donazioni di parrocchiani o di seguaci. È la dipendenza da riti mandati a memoria che da un lato caratterizza e dall’altro protegge il sacerdote. Se uno sciamano fallisce ripetutamente nell’effettuare una guarigione, perderà probabilmente i suoi seguaci in quanto egli ha manifestamente perso l’aiuto degli spiriti. Viceversa, se esegue correttamente il rito e gli dèi scelgono di non rispondere, il sacerdote generalmente manterrà la propria posizione e il rito conserverà la presunta efficacia. Il silenzio degli dèi verrà interpretato come la conseguenza di un’indegnità degli uomini ad ottenere i favori soprannaturali.Le società complesse tendono ad avere più tipi di specialisti magici o religiosi. Se una società ha un solo tipo di specialista, questo è quasi sempre uno sciamano (società di raccoglitori nomadi o seminomadi). Le società con 2 tipi di specialisti (in genere sciamano/guaritore e sacerdote) sono dedite all’agricoltura. Quelle con 3 tipi di specialisti sono società agricole o pastorali con un’integrazione politica che si estende oltre la comunità (i tipi di specialisti supplementari sono di solito un fattucchiere/stregone o un medium). Le società con i 4 tipi di specialisti, infine, sono caratterizzate da un’economia agricola, da un’integrazione sociale estesa e dalla divisione in classi sociali.

IV. Religione ed adattamento.Molti antropologi ritengono che le religioni siano generalmente adattive, poiché riducono le ansie e le incertezze a cui tutti gli uomini vanno soggetti. Noi non sappiamo se la religione è davvero l’unico mezzo per ridurre l’ansia e l’incertezza, né se gli individui e le società debbano ridurre la loro ansia e la loro incertezza. Nondimeno sembra probabile che certe credenze e pratiche religiose abbiano conseguenze adattive dirette. La credenza induista nella vacca sacra, per esempio, è parsa a molti come l’esatto opposto di un’usanza utile o adattiva. La religione non permette agli induisti di macellare le mucche. Il contrasto con il nostro modo di utilizzare le mucche difficilmente potrebbe essere più grande. Marvin Harris ha ipotizzato, tuttavia, che il sistema induista di utilizzo delle mucche possa avere effetti positivi che non vengono invece conseguiti con altri metodi: una coppia di buoi e un aratro sono elementi essenziali per le numerose piccole fattorie dell’India lo sterco di mucca è essenziale come combustile per cucinare e come fertilizzante sebbene gli induisti non mangino carne di manzo, i capi che muoiono di morte naturale oppure che vengono macellati da non induisti divengono cibo per le caste inferiori che, non avendo questo tabù, non avrebbero altro modo di accedere a questa indispensabile risorsa proteica le pelli e le corna degli animali che muoiono vengono utilizzate nelle enormi fabbriche indiane in cui si lavora la pelleQuindi, poiché le vacche sacre non consumano risorse sottraendole agli uomini, e poiché sarebbe impossibile procurare combustibile, trazione e fertilizzante ad un così basso costo con altri mezzi, il tabù riguardante la macellazione delle mucche sembra essere altamente adattivo.

IV.I. Il mutamento religioso come rivitalizzazione.La lunga storia delle religioni comprende periodi di forte resistenza al cambiamento, così come periodi di cambiamento radicale. Gli antropologi si sono interessati soprattutto alla fondazione di nuove religioni o di nuove sette, fenomeni spesso legati alla distruzione di intere culture a seguito di un contatto con società dominanti. Per questi movimenti religiosi sono state suggerite varie definizioni (movimenti nativi, movimenti messianici, culti millenaristici). Wallance pensa che questi siano tutti esempi di movimenti rivitalizzatori, vale a dire di sforzi per salvare una cultura infondendole nuovi scopi e nuova vita. Quantunque molti studiosi ritengano che all’origine di questi nuovi movimenti religiosi vi sia una crisi culturale, rimane ancora da determinare esattamente in che cosa consistano le crisi e quanto debbano essere profonde prima che emerga un nuovo movimento. Esaminiamo alcune teorie e alcuni studi sulle cause dell’emergere dei culti delle merci (cargo cults) in Melanesia intorno al 1885. I cargo cults possono essere considerati movimenti religiosi in cui si esprimeva la credenza in

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una potenza liberatrice che avrebbe permesso di ottenere tutti i beni di provenienza occidentale che si desideravano. A Buka nelle isole Salomone, per esempio, intorno al 1932 i leader di un culto profetizzarono che un’ondata di eccezionale grandezza avrebbe spazzato via i villaggi, e che sarebbe arrivata una nave piena di numerosi beni. Il lavoro negli orti cessò, e gli isolani costruirono moli e porti per le merci che dovevano arrivare. Si è ipotizzato che un fattore importante per l’origine di questi culti sia l’esistenza di una forma di oppressione (es: un’oppressione coloniale). La forma religiosa, e non invece politica, che avrebbe assunto la reazione in Melanesia sarebbe da collegare alla possibilità, per la religione, di riunire popolazioni che in precedenza non avevano alcuna unità politica, e che vivevano in gruppi sociali piccoli e isolati. Altri studiosi pensano che l’origine dei culti sia più facile da spiegare chiamando in causa la privazione relativa piuttosto che l’oppressione: quando la gente sente che potrebbe avere di più, e ha meno di ciò che ha abitualmente o meno di quanto hanno altri, può sentirsi attratta da nuovi culti.

12. LE ARTI.

La maggior parte delle società non ha un termine per definire ciò che noi chiamiamo "arte", forse perché, soprattutto nelle società con un basso grado di specializzazione, essa è parte integrante della vita sociale, politica e religiosa. Le prime rappresentazioni artistiche a noi note risalgono a 30.000 anni fa. Alcune definizioni dell’arte ne sottolineano il carattere evocativo. Dal punto di vista dell’artista, l’oggetto esprime idee ed emozioni; dal punto di vista del fruitore esso evoca idee ed emozioni. Le emozioni e le idee non sono le stesse per l’uno e per l’altro, inoltre possono essere espresse in moltissimi modi (attraverso un disegno, una scultura, una musica, ..). Un prodotto artistico ha il fine di stimolare i sensi, di provocare emozioni; non può lasciare indifferenti. Il fatto di evidenziare il carattere evocativo dell’arte fa nascere delle difficoltà qualora si intenda confrontare l’arte di diverse culture, poiché ciò che per una cultura può essere evocativo per un’altra può non esserlo affatto. Molti antropologi ritengono che l’arte sia qualcosa di più del mero tentativo individuale di esprimere e di comunicare idee ed emozioni. Occorre prendere in considerazione i modelli e i significati culturali: gli stili artistici, infatti, cambiano da una società all’altra. Le attività artistiche sono sempre, in parte, culturali, in quanto presumono l’esistenza di credenze, emozioni e modelli di comportamento appresi e condivisi. Di solito noi non consideriamo artistico ciò che è utile, ma altre società non operano questa distinzione tra oggetti d’uso e oggetti d’arte. Nella nostra società, inoltre, un oggetto, per essere considerato artistico, dev’essere unico, e ciò è legato all’importanza che noi attribuiamo all’individuo. Tuttavia, anche se chiediamo agli artisti di essere unici e innovatici, è necessario che i loro prodotti restino comunque entro una gamma di variabilità accettabile. Spesso, per essere accettati dal pubblico, gli artisti sono obbligati a seguire determinate correnti stilistiche che sono imposte da altri artisti o dai critici. L’idea che un artista debba essere originale ha una chiara derivazione culturale; in altre società è apprezzato di più chi è in grado di riprodurre fedelmente un modello tradizionale.

I. Il corpo come oggetti artistico.Tutte le società intervengono sul corpo a fini estetici. Gli interventi possono essere permanenti (cicatrici, tatuaggi, deformazione di parti del corpo) o temporanei (uso di colori o di piume, gioielli, ..). Oltre a soddisfare bisogni estetici, l’intervento sul corpo può servire a definire la posizione sociale, il rango, il sesso, l’occupazione, l’identità etnica o religiosa. Laddove è presente una stratificazione sociale, vi sono segni visibili che permettono di distinguere lo status di ciascun individuo. Gli ornamenti sul corpo hanno anche un significato erotico. Le donne attraggono l’attenzione sulle zone erogene del corpo dipingendole o applicandovi degli oggetti (un orecchino, un fiore, una collana, ..). Gli uomini fanno lo stesso, per mezzo di barbe, tatuaggi, .. La ragione per cui in alcune società sono le donne ad occuparsi maggiormente dell’abbellimento del corpo, mentre in altre tali attività sono una prerogativa maschile, non è ancora stata chiarita. In molte società il corpo viene alterato o segnato in modo permanente, spesso per indicare un passaggio di status (es: nel corso di una cerimonia di iniziazione). Siamo consapevoli del fatto che queste pratiche di intervento sul corpo suscitano molte domande a cui non sappiamo dare risposta.

II. Le ragioni della variabilità delle espressioni artistiche.È facile individuare stili diversi quando si osservano espressioni artistiche appartenenti ad una cultura diversa dalla propria; molto più arduo è riuscirvi quando si analizza la propria cultura.

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Gli ultimi studi sottolineano come l’arte visiva, la musica, la danza e il folklore siano fortemente influenzati da altri aspetti della cultura. Alcuni antropologi vanno oltre e ipotizzano che l’arte, così come la religione, esprima le emozioni, le ansie e le esperienze tipiche degli individui di una determinata cultura. Tali emozioni e ansie, a loro volta, sarebbero influenzate dalle istituzioni di base quali l’allevamento dei bambini, l’organizzazione sociale ed economica e la politica. Consideriamo per esempio le ricerche di Richard Anderson sull’arte dei !kung, degli inuit e degli aborigeni australiani. Presso queste popolazione nomadi ciò che caratterizza le espressioni artistiche è la loro trasportabilità. Il canto, la danza e la letteratura orale sono molto importanti in queste società, e ciò che viene decorato sono gli oggetti d’uso. Non esistono oggetti ingombranti come una scultura o un costume elaborato. Sebbene nelle società di piccole dimensioni vi siano individui più dotati di altri dal punto di vista artistico, gli artisti di professione (e i critici d’arte) si trovano tendenzialmente nelle società caratterizzate da una complessa divisione del lavoro.

II.I. Le arti visive.Il modo forse più ovvio in cui gli artisti risentono dei limiti imposti da un contesto specifico è quello legato alla disponibilità dei materiali. Gli antropologi si interrogano, per esempio, su che cosa determini la scelta tra rame e argento qualora entrambi i materiali siano disponibili. A queste domande non sappiamo ancora dare risposte definitive, ma ciò non toglie che i problemi sollevati possano prevedere interessanti sviluppi. Anche quando lo stesso materiale viene utilizzato nello stesso modo, lo stile di lavorazione varia enormemente da una cultura ad un’altra. Una società può scegliere di rappresentare oggetti o fenomeni che rivestono una particolare importanza per tutta la popolazione, oppure raffigurare solo ciò che conta per l’élite. L’arte di una cultura, inoltre, riflette anche la realtà della stratificazione sociale. Coloro che sono al vertice della gerarchia vengono di norma raffigurati in modo particolare. John Fischer ha esaminato gli elementi stilistici dell’arte al fine di rilevare l’esistenza di "connessioni regolari tra produzione artistica e realtà sociale". Postulando che gli elementi pittorici del disegno siano, su un piano psicologico, rappresentazioni inconsce degli individui di una società, Fischer ipotizzò che nelle società egualitarie e in quelle stratificate vi fossero stili artistici diversi. Fischer immaginò che alcuni elementi dell’arte pittorica fossero associati alla presenza di una gerarchia sociale: nell’arte delle società egualitarie vi è di solito la ripetizione di un singolo elemento. Se ciascun elemento, a livello inconscio, rappresenta l’individuo all’interno della società, allora l’uguaglianza delle persone si rifletterà nella ripetitività degli elementi raffigurati. Viceversa, la combinazione in modelli complessi di elementi grafici differenti sarà riscontrabile nell’arte delle società stratificate nei disegni delle società egualitarie lo spazio vuoto rappresenterebbe il relativo isolamento della società. L’arte delle società stratificate, al contrario, sarebbe "piena". In generale riscontriamo la mancanza di spazi vuoti nei disegni di quelle società in cui l’idea di sicurezza è associata non al tentativo di evitare gli stranieri, bensì all’inserimento degli stranieri nella gerarchia la simmetria si comporta analogamente al primo elemento analizzato: essa può suggerire legami sociali egualitari, mentre l’asimmetria è riconducibile a forti differenze e alla stratificazione sociale la presenza o l’assenza di linee che circoscrivono (es: le cornici nella nostra cultura), può indicare la presenza o l’assenza di regole impositive che guidano il comportamento individuale. Un disegno non circoscritto può riflettere l’accesso libero alle proprietà: nelle società egualitarie, infatti, la recinzione di un terreno al fine di contrassegnare una proprietà individuale non esiste. Viceversa nelle società stratificate, dove le linee di delimitazione possono rappresentare più in generale tutte le differenze concrete che distinguono le diverse classi sociali

II.II. La musica.Anche in campo musicale ciò che consideriamo accettabile, vale a dire ciò che per noi ha un significato, dipende dalla cultura. Non solo gli strumenti, ma anche la musica varia enormemente da una società all’altra. In alcune società, per esempio, di preferisce ascoltare musica dai ritmi regolari; in altre, al contrario, si privilegiano i cambiamenti di ritmo. Esistono poi differenze negli stili canori. In alcuni luoghi tutti cantano nello stesso modo, in altri esistono registri diversi a seconda delle persone. Alan Lomax ha riscontrato come lo stile canoro muti in base alla complessità sociale. Gli studi di Lomax in campo musicale giungono a conclusioni simili a quelle di Fischer nell’ambito delle arti visive. La verbosità e la chiarezza

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degli enunciati, per esempio, si riscontrano laddove vi è maggiore complessità sociale. È più probabile, quindi, che nelle bande di cacciatori-raccoglitori vi siano molti canti che non contengono parole, come il motivetto "trallallà". In questi canti non vi è passaggio di informazioni, i suoni costituiscono un piacere fine a se stesso, e gli enunciati sono ripetitivi e confusi. La complessità sociale si riflette nelle complessità dei canti. È stata individuata una relazione tra la polifonia (= le canzoni presentano contemporaneamente più di una melodia) e una spiccata partecipazione femminile al procacciamento del cibo. Sembra che le squadre di raccoglitori, i gruppi di lavoro e i gruppi di parentela che agiscono insieme per il bene della famiglia e della collettività esprimano la loro coesione sociale attraverso canti in cui si mescolano i toni e i ritmi. Alcune differenze in ambito musicale possono essere spiegate sulla base delle diverse pratiche di allevamento dei bambini. Perché in alcune società gli individui ascoltano e producono ritmi regolari, mentre in altre amano una musica che ha battute irregolari e che si avvicina al ritmo del parlato?? Una possibile risposta è che il ritmo musicale regolare sia una simulazione del battito del cuore. Il fatto che i bambini rispondano positivamente ad un tempo uniforme, però, non significa che la sensibilità al ritmo sia determinata unicamente dal battito del cuore materno; se così fosse, infatti, tutte le società del mondo adotterebbero lo stesso ritmo nelle loro musiche. Barbara Ayres ha ipotizzato che esista un legame tra l’importanza attribuita al ritmo regolare da un lato, e il valore di ricompensa che può essere associato al ritmo dall’altro (nel caso in cui, per esempio, il ritmo regolare risulti accompagnato da sensazioni di sicurezza e di rilassamento). In uno studio transculturale teso ad appurare questa ipotesi, la Ayres individuò una correlazione molto stretta tra i metodi di allevamento dei bambini e il tipo di musica prodotto da una società. Nelle società in cui il bambino viene portato con sé, egli percepisce il movimento ritmico del camminare; queste società, nei loro canti, tendono a presentare ritmi regolari. Le società in cui il bambino è posto in una culla, invece, tendono ad avere musiche basate su ritmi irregolari o liberi. Le diverse pratiche di allevamento infantile potrebbero spiegare anche perché in alcune società vi è una grande estensione di toni vocali, mentre in altre essa non è presente. La Ayres suppose che un’intensa stimolazione del bambino prima dello svezzamento avrebbe portato ad un comportamento più audace e più esplorativo in età adulta, che sarebbe poi emerso nei modelli musicali. Nelle società in cui i bambini sono sottoposti a pratiche come la scarificazione, la foratura del naso, la fasciatura dei piedi, la circoncisione, .. prima dei 2 anni, l’estensione tonale sia più ampia rispetto alle società in cui tali pratiche non esistono o sono previste dopo i 2 anni di età. Inoltre le società del primo tipo hanno una musica con un ritmo più fisso. L’enfasi che una cultura pone sull’indipendenza dei bambini è un’altra variabile che concorre a piegare alcuni aspetti della produzione musicale. Nelle società in cui i bambini sono educati all’arrendevolezza predominano i canti in cui si mescolano toni e ritmi, mentre nelle società in cui ai piccoli viene insegnato a farsi valere prevalgono canti più individualizzati. In quest’ultimo tipo di società, inoltre, spesso vi sono voci roche, di solito maschili. Nelle società in cui sono le donne a svolgere la maggior parte del lavoro produttivo le voci roche sono una prerogativa femminile. Le caratteristiche della voce sembrano associate anche ad altri elementi della cultura. Le restrizioni sessuali, per esempio, sarebbero associate a restrizioni della voce, soprattutto a toni nasali.

II.III. Il folklore.Il folklore comprende tutti i miti, le leggende, i racconti, le ballate, gli indovinelli, i proverbi e le credenze di un gruppo culturale. Generalmente la trasmissione del folklore avviene per via orale, ma è possibile anche il passaggio attraverso la forma scritta. Tutte le società posseggono un repertorio di narrazioni che gli adulti si raccontano l’un l’altro e che vengono insegnate ai bambini. Non sempre è possibile distinguere il folklore da altre forme artistiche, soprattutto dalla musica e dalla danza: spesso infatti queste ultime costituiscono il contesto all’interno del quale le storie vengono narrate. (pure i giochi, benché possano essere appresi anche per imitazione, vengono inclusi a volte nella categoria del folklore) Sebbene alcuni autori enfatizzino del folklore gli elementi della tradizione, e quindi il carattere di continuità tra passato e presente, recentemente altri studiosi ne hanno sottolineato gli aspetti innovativi. In questo senso il folklore viene considerato come qualche cosa che viene continuamente creato da qualsiasi gruppo sociale che condivida delle esperienze. Alcuni folkloristi sono interessati ai temi universali o ricorrenti. Nei miti e nei racconti di tutto il mondo ricorrono 5 temi: la catastrofe (generalmente il diluvio), l’uccisione di mostri, l’incesto, la rivalità tra fratelli (generalmente tra maschi), la castrazione (a volte reale ma più spesso simbolica). Edward B. Tylor immaginò che i miti degli eroi seguissero un modello simile in tutto il mondo: il protagonista viene abbandonato alla nascita, poi viene salvato da

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esseri umani o da animali, quindi cresce e diventa un eroe. Joseph Campbell ha osservato come i miti degli eroi siano simili alle iniziazioni: l’eroe viene separato dal mondo ordinario, si avventura in un nuovo mondo (in questo caso il mondo soprannaturale) per trionfare su forze potenti, e quindi ritorna al proprio mondo avendo acquisito poteri straordinari di cui si serve per aiutare gli altri. È possibile che vi siano temi che ricorrono in tutti i miti del mondo, ma gli studi che hanno preso in esame un campione rappresentativo di tutte le società note sono pochi, e quindi non possiamo essere sicuri della correttezza delle conclusioni finora raggiunte in questo settore. Molti folkloristi, tra l’altro, sono interessati a repertori di racconti relativi ad una specifica società e ad una specifica regione. Alcuni per esempio si sono occupati del racconto, molto comune tra i nativi americani. Si ritiene che tutti i racconti dei nativi americani presentino strutture caratteristiche. Una di queste è un allontanamento dal disequilibrio. L’equilibrio è la condizione desiderabile: avere troppo o troppo poco di qualsiasi cosa è una condizione che dev’essere corretta il più presto possibile. Un’altra struttura caratteristica è la sequenza di proibizione, interdizione, violazione e conseguenze. Occorre precisare che non sempre, nei racconti, le conseguenze sono positive (es: la leggenda greca di Icaro). Benché identificare i luoghi d’origine di certi racconti o le loro struttura comuni possa essere utile, molte questioni restano aperte. Fino ad oggi sono stati pochi gli studi che hanno cercato di spiegare le ragioni della ricorrenza di certi temi a livello transculturale. George Wright ha indagato il tema dell’aggressività, verificando come la conoscenza delle pratiche di allevamento infantile in uso in una data società permetta di prevedere il modo in cui alcuni aspetti dell’aggressività vengono espressi nei racconti. Laddove i bambini vengono severamente puniti per i loro comportamenti aggressivi, nei racconti compariranno più episodi di violenza; in queste società l’eroe o gli amici dell’eroe saranno personaggi aggressivi. I racconti possono riflettere anche altri tipi di timori. Uno studio transculturale recente ha esso in luce come le aggressioni ingiustificate si trovino più spesso nelle narrazioni delle società che sono vittime di carestie improvvise. In questo caso probabilmente le storie riflettono la realtà: la capricciosità dei fenomeni naturali sembra venir trasformata nella capricciosa aggressività dei protagonisti delle narrazioni popolari.

III. Come consideriamo l’arte delle altre culture??Sally Price ha formulato alcune critiche riguardo all’immagine che propongono i musei occidentali (e i nostri critici dell’arte) della produzione artistica di altre culture. Sembra che in presenza di un tipo di arte che ci è poco familiare abbiamo bisogno di molte parole. Secondo la Price i prodotti artistici che riteniamo più validi richiedono poche spiegazioni, in quanto riteniamo che un visitatore non abbia bisogno di aiuto quando deve giudicare una vera opera d’arte. Gli oggetti che provengono da culture più semplici, inoltre, di solito vengono contraddistinti dal nome del loro acquirente occidentale: è quasi come se fosse la fama del collezionista, più del valore dell’opera in sé, ad attribuire valore all’opera. Proprio come tende ad essere anonima, quest’arte tende ad essere trattata come se fosse senza tempo. Quando siamo in presenza di oggetti di diversa provenienza noi li vediamo come i rappresentanti di una tradizione culturale senza tempo. Non si tratta piuttosto di un atteggiamento derivante da un pregiudizio etnocentrico?? Sebbene un artista sia sempre riconoscibile nell’ambito della comunità d’appartenenza, è d’altronde vero che alcune società sembrano, rispetto agli stili, più "comunitarie" di altre. Spesso gli occidentali si domandano se l’arte delle società meno complesse rappresenti forme tradizionali o non sia piuttosto "arte per i turisti". Quest’ultima viene spesso valutata negativamente, forse perché viene associata al denaro. Eppure anche i più famosi artisti occidentali vengono pagati per le loro produzioni.

IV. I mutamenti indotti dal contatto culturale.Senza dubbio il contatto con l’Occidente ha modificato alcuni aspetti dell’arte di altre culture, ma molti cambiamenti si erano verificati anche in periodi precedenti. Che cosa muta a seguito del contatto?? A volte gli artisti hanno cominciato a rappresentare proprio l’incontro con gli europei. Incoraggiati dagli europei, gli artisti indigeni iniziarono a disegnare su altri materiali. È interessante notare come gli oggetti artistici venduti agli europei illustrino soggetti presenti nell’arte prima del contatto. Poiché la popolazione aborigena uscì decimata dal contatto con gli europei, molte forme artistiche tradizionali scomparvero. Nell’America del Nord, ben prima dell’arrivo degli europei, furono i contatti tra i gruppi nativi a produrre dei cambiamenti. Si iniziò a servirsi di nuovi materiali per fini artistici, in quanto questi erano entrati a far parte del circuito commerciale. A volte venivano adottate le cerimonie di un altro gruppo. I nativi americani, una volta confinati nelle riserve, dovettero

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mutare profondamente il loro stile di vita, e la produzione artistico-artigianale divenne anche una fonte di guadagno. Molti artisti adottarono le tecniche e i disegni tradizionali, modificandoli leggermente per adattarsi alle aspettative degli europei. I commercianti spesso incentivarono la produzione di oggetti nuovi. Anche gli studiosi hanno avuto un ruolo in questo processo: alcuni hanno aiutati gli artigiani a recuperare stili ormai abbandonati. Alcuni dei mutamenti sopravvenuti a seguito del contatto con l’Occidente sono spiegabili sulla base dei risultati delle ricerche transculturali di Fischer. Egli ha osservato come, rispetto a quelle stratificate, le società egualitarie abbiano disegni meno complessi e più simmetrici. Con la perdita del loro stile di vita e con l’incremento del lavoro salariato e del commercio, molti gruppi di nativi americani hanno conosciuto una sviluppo della stratificazione sociale. Se confrontiamo la produzione artistica dei nativi del primo periodo delle riserve con quella recente, noteremo un incremento della complessità degli oggetti d’arte che va di pari passo con la crescita della stratificazione sociale.

13. CAMBIAMENTO CULTURALE E ANTROPOLOGIA APPLICATA.

3 sono i quesiti generali che è possibile porsi in merito al cambiamento culturale: qual’è l’origine di un nuovo tratto della cultura?? può nascere in seno alla società o provenire dall’esterno quali sono i motivi che inducono le persone ad adottarlo?? vi sono 2 possibilità: gli individui accolgono il nuovo tratto volontariamente (anche se non coscientemente) oppure vengono forzati ad accettarlo un nuovo tratto è sempre adattivo?? gli effetti di un cambiamento culturale possono essere positivi o negativiIn questo capitolo ci occuperemo dei vari processi di cambiamento culturale, analizzandone l’origine, le motivazioni e le conseguenze.

I. Come e perché cambiano le culture.I.I. Le scoperte e le invenzioni.Possiamo parlare di scoperte o di invenzioni (vale a dire di innovazioni) sia quando siamo in presenza di nuovi oggetti (la ruota, l’aratro, il computer) sia quando siamo in presenza di nuove idee e di nuovi comportamenti (il cristianesimo, la democrazia, la monogamia). Secondo Ralph Linton una scoperta è un portato nuovo rispetto alle conoscenze già date, mentre un’invenzione è l’applicazione di conoscenze già possedute. In alcuni casi l’invenzione nasce dalla necessità di raggiungere uno scopo preciso (es: la cura della tubercolosi, il viaggio dell’uomo sulla luna). Altri tipi di invenzioni, invece, sono meno intenzionali. In questi casi si parla di convergenza accidentale o di invenzione inconsapevole. Alcune invenzioni, soprattutto quelle preistoriche, possono essere state la risultante di decine di piccole innovazioni apportate da inventori inconsapevoli. Alcune scoperte e alcune invenzioni sono il frutto di tentativi mirati. Da un lato le innovazioni potrebbero costituire la risposta più ovvia a determinate esigenze. La rivoluzione industriale, per esempio, comportò un aumento notevole della richiesta di invenzioni che favorissero l’incremento della produttività. D’altro canto la nascita di una nuova invenzione non è spiegabile solo in base all’esistenza di bisogni impellenti. Occorre tener presente che essa è condizionata in larga misura dalle capacità individuali (quali l’intelligenza e la creatività) che variano da un soggetto all’altro e che possono essere influenzate dalle condizioni sociali. Esistono diversi livelli di creatività a seconda del gruppo socioeconomico di appartenenza: gli appartenenti alle classi più ricche e più povere sono disposti a correre rischi maggiori rispetto a coloro che si trovano in una posizione intermedia. Le classi più ricche possono affrontare il rischio e godere del prestigio derivante dall’eventuale successo delle loro innovazioni. I poveri possono correre il rischio perché comunque non hanno nulla da perdere. Dopo che un’invenzione o una scoperta hanno visto la luce si pone il problema della loro adozione. Coloro che per primi adottano le innovazioni sono generalmente individui colti, di status elevato, che hanno una mobilità sociale verso l’alto e che, nel caso abbiano delle proprietà, gestiscono affari o imprese agricole. Coloro che, in quanto economicamente più disagiati, necessiterebbero maggiormente delle innovazioni tecnologiche sono in realtà gli ultimi ad usufruirne. Soltanto i ricchi, infatti, possono affrontare i rischi connessi all’introduzione di nuove tecnologie. Nei periodi di rapido mutamento tecnologico, quindi, è probabile che la distanza tra i poveri e i ricchi aumenti. Le

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probabilità di successo di un’innovazione non dipendono necessariamente dal grado di ricchezza di coloro che potrebbero adottarla. Le classi medio-alte tendono ad essere più conservatrici di quelle medio-basse. Secondo Frank Cancan quando i rischi che potrebbero conseguire da un’innovazione non sono noti, gli individui appartenenti alle classi inferiori sono comunque più disposti ad adottarla, in quanto hanno poco da perdere. La rapidità con cui un’innovazione si diffonde dipende, almeno in parte, dalle modalità con cui tradizionalmente una società trasmette le idee e i comportamenti. Nel caso in cui i bambini apprendano la maggior parte delle proprie conoscenze dai genitori o da una cerchia di adulti relativamente ristretta, è probabile che un’innovazione si diffonda nella società molto poco velocemente e che il cambiamento culturale sia lento. Se invece in una società vi sono molti "insegnanti" e molti leader in grado di influenzare un gran numero di persone in un lasso di tempo relativamente breve, le innovazioni si diffonderanno molto rapidamente. E questo è esattamente ciò che accade nella nostra società.

I.II. La diffusione.A volte gli elementi culturali nuovi provengono da una cultura diversa dalla propria. Il processo per cui determinati elementi culturali vengono presi a prestito da una società per essere incorporati nella cultura del gruppi che li acquisisce è detto diffusione. Tale processo permette al gruppo di saltare alcune delle tappe e di evitare gli inevitabili errori che lo sviluppo di un’innovazione comporterebbe. Esistono 3 fondamentali modelli di diffusione: alcuni elementi culturali di una società possono essere acquisiti da società vicine e diffondersi poi gradualmente: si parla di contatto diretto (es: la diffusione della fabbricazione della carta) la diffusione per contatto mediato avviene grazie all’azione di terzi. Spesso sono i commercianti il tramite attraverso cui avviene il passaggio (es: i mercanti fenici fecero conoscere l’alfabeto, inventato probabilmente da un altro gruppo semitico, ai greci). In alcuni casi sono i soldati a fungere da intermediari. Nel XIX° secolo furono i missionari a spingere i nativi di tutto il mondo ad adottare l’abbigliamento occidentale siamo in presenza di una diffusione per stimolo quando la conoscenza di un tratto culturale appartenente ad un’altra cultura stimola l’invenzione, o lo sviluppo, di un suo equivalente locale (si prendono a prestito alcuni tratti, altri si modificano, e altri ancora si inventano)Non tutti i tratti culturali vengono adottati con la stessa rapidità di quelli che abbiamo appena menzionato, né si diffondono sempre con le stesse modalità. Le società rifiutano sia i tratti culturali altrui che considerano ripugnanti, sia le concezioni e le produzioni materiali che non soddisfano i bisogni psicologici, sociali e culturali che sono loro specifici. Gli individui non assorbono tutto ciò che viene loro proposto dall’esterno. Se si comportassero in questo modo, infatti, la variabilità culturale esistente nel mondo sarebbe minima, mentre sappiamo che essa è enorme. Un altro motivo per cui a proposito della diffusione possiamo parlare di selettività è legato al fatto che non tutti i tratti culturali sono comunicabili con la stessa facilità. Alcuni elementi della cultura materiale (es: determinati procedimenti tecnologici) sono immediatamente comprensibili. Di conseguenza essi vengono accettati o rigettati in base ad una valutazione dei loro pregi e dei loro difetti. Quando però ci spostiamo al di fuori dell’ambito della cultura materiale, ci scontriamo con serie difficoltà (es: il modello ideale di matrimonio, la natura della Trinità, ..). La selettività del processo di diffusione, infine, è legata ad un ulteriore fattore: spesso la scelta di un tratto culturale dipende più dal suo aspetto esteriore che non dalla funzione o dal significato che possedeva nella cultura d’origine. L’entusiasmo dei capelli corti che si diffuse tra le donne americane negli anni 20, per esempio, non contagiò mai le native americane della California nord-occidentale. Mentre infatti per molte donne di origine europea questo tipo di pettinatura rappresentava un’affermazione simbolica di una libertà conquistata, per le native americane, che usano tagliarsi i capelli quando sono in lutto, esso rimandava simbolicamente alla morte.

I.III. L’acculturazione.Apparentemente il processo noto come acculturazione sembrerebbe includere molti dei fenomeni che abbiamo appena esaminato, poiché esso ha luogo quando dal contatto tra culture differenti scaturisce una serie di cambiamenti. Di norma però il termine acculturazione viene utilizzato dagli antropologi per descrivere una situazione in cui una delle società coinvolte è più potente dell’altra. L’acculturazione, quindi, può essere considerata un processo di prestito massiccio di tratti culturali che avviene nel contesto di relazioni intersocietarie fondate sulla subordinazione. In generale è la società subordinata, o meno

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potente, ad adottare tratti culturali dell’altra, anche se talvolta può accadere il contrario. Possiamo applicare il concetto di diffusione ai soli casi in cui l’adozione dei tratti culturali altrui è volontaria, mentre riserveremo il termine acculturazione per i casi in cui l’adozione avviene a causa di pressioni esterne. Nei casi in cui la cultura dominante viene assorbita pressoché nella sua interezza, siamo in presenza di un fenomeno di assimilazione. A determinare un cambiamento culturale possono concorrere vari tipi di pressione esterna. Il tipo di pressione più diretta (la conquista o la colonizzazione) si verifica quando il gruppo dominante minaccia di esercitare o esercita la propria forza per indurre nell’altro gruppo un cambiamento culturale. Vi sono anche strategie indirette: di fatto si allontanano numerosi gruppi dalle proprie terre, obbligandoli, se vogliono sopravvivere, a rinunciare a molte delle loro tradizioni. L’indebolimento dei legami con la tradizione viene acuito quando i bambini nativi vengono obbligati a frequentare le scuole in cui vengono trasmessi i valori della società dominante. L’acculturazione può avvenire anche in assenza di una costrizione diretta o indiretta. Una società subordinata può decidere di adottare determinati tratti culturali per riuscire a sopravvivere in una realtà che sta mutando. Oppure può accadere che i membri della società dominata si identifichino nella cultura dominante sperando di riuscire a raggiungere le stesse sicure condizioni di vita di cui sembrano godere gli esponenti di questa cultura. Spesso il contatto con gli europei ha dato luogo ad esiti drammatici: si pensi alle tragiche conseguenze sulle popolazioni native che ebbe il contatto con le malattie importate dagli occidentali. Attualmente sembra che molte nazioni potenti (e non solo quelle occidentali) intendano perseguire politiche di aiuto che possano migliore le condizioni sia dei paesi precedentemente colonizzati sia di altri paesi "in via di sviluppo". Nel bene e nel male questi programmi costituiscono pur sempre forme di pressione esercitate dall’esterno. È vero che forse è la persuasione ad essere usata invece della forza; ciononostante i programmi di sviluppo sono pure sempre concepiti allo scopo di orientare l’acculturazione nella direzione della cultura delle società dominanti. Questi cambiamenti sono quindi in contraddizione con i modelli culturali tradizionali e possono alterare lo stile di vita classico. Il processo di acculturazione si applica anche agli immigrati, la maggior parte dei quali, almeno al giorno d’oggi, sceglie di lasciare un paese per stabilirsi in un altro. I gruppi di immigrati presentano notevoli differenze riguardo al grado e alla velocità con cui adottano la nuova cultura e i ruoli sociali della società in cui vivono. Assimilazione è un termine che presenta molte somiglianze con acculturazione, ma è usato con maggiore frequenza dai sociologi nel tentativo di spiegare il processo tramite il quale gli individui acquisiscono i ruoli sociali e la cultura del gruppo dominante. Se essi vivono in comunità strettamente unite conservano i loro riti religiosi hanno scuole separate e speciali ricorrenze vanno in visita nella loro terra natale non contraggono matrimoni misti lavorano con altri membri del loro gruppo etnicopresumibilmente conserveranno la lingua madre (e altri modelli culturali); ma solo il vivere in comunità molto unite e il mantenimento dei propri riti religiosi prevedono una conservazione della lingua madre per un periodo di tempo più lungo.

I.IV. La rivoluzione.Il cambiamento culturale si verifica nel modo più drastico e più rapido quando avviene a seguito di una rivoluzione, vale a dire di una sostituzione, perlopiù violenta, della classe dirigente di una paese. Le ribellioni contro il potere costituito hanno luogo quasi sempre nelle società statuali, in cui il potere politico è nelle mani di un’élite. Gli scontri mettono l’uno contro l’altro dominatori e dominati, conquistatori e conquistati, rappresentanti del potere coloniale e gruppi nativi. Le rivoluzioni del passato sono scoppiate in paesi in cui il processo di industrializzazione era stato appena avviato. Anche le ribellioni e le rivoluzioni del presente hanno luogo soprattutto in quelli che noi chiamiamo "paesi in via di sviluppo". Le ribellioni tendono a verificarsi laddove le classi dirigenti fondano il proprio dominio sul controllo della terra, e sono quindi restie a cedere alle richieste di riforma avanzate dalle classi lavoratrici. Perché le rivoluzioni talvolta (per non dire sempre) finiscono per deludere le speranze di coloro che le avevano promosse?? Quando i ribelli riescono finalmente a soppiantare i dirigenti al potere, spesso danno vita a dittature militari che sono più repressive del governo che hanno intesto sostituire. In alcuni casi, anziché apportare reali cambiamenti, il nuovo governo non fa che sostituire un regime repressivo ad un altro. Sia nel passato sia nel presente la rivoluzione ha rappresentato per molti un ideale, un’aspirazione o uno scopo. Quando le

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risposte che vengono dalle classi dirigenti straniere o indigene non soddisfano i gruppi sfruttati, la ribellione diviene l’unica alternativa possibile. In alcune aree del mondo essa è diventata addirittura uno stile di vita.

II. Gli effetti del cambiamento culturale.Diciamo che una cultura è cambiata quando osserviamo che un numero considerevole di individui ha mutato i propri comportamenti e le proprie credenze. Quando l’ambiente è relativamente stabile è presumibilmente più adattivo attenersi ai modelli comportamentali tradizionali, trasmessi dai genitori, piuttosto che modificarli. Cosa accade però quando l’ambiente, in particolare quello sociale, muta?? Il mondo moderno è ricco di esempi: gli individui sono costretti ad emigrare per trovare lavoro, la sottrazione di terra costringe la popolazione a sfruttare al meglio le limitate risorse disponibili, .. Nel momento in cui una situazione muta, com’è possibile sapere se adottare nuovi comportamenti può essere vantaggioso?? Un modo è sperimentare vari comportamenti nuovi. Un altro è operare delle scelte sulla base delle sperimentazioni effettuate da altri. Altre volte l’adozione di una tratto nuovo può dipendere esclusivamente dal conformismo (un soggetto si atterrà alle scelte fatte dalla maggioranza). Come viene operata la scelta?? In parte essa può essere effettuata sulla base dei rischi o dei costi connessi all’adozione dell’invenzione. È probabile che solo chi può permettersi di rischiare decida di tentare. Gli altri si regoleranno sulla base dei risultati conseguiti da chi ha operato il tentativo. Può sembrare quindi che la scelta di introdurre innovazioni sia spesso adattiva. Occorre ricordare però che non sempre l’adozione di nuovi tratti porta dei benefici a breve o a lungo termine: possono esservi degli errori di valutazione, soprattutto nel caso in cui un’innovazione paia soddisfare un bisogno fisico. Perché, per esempio, vi è un così largo consumo di droghe e di sigarette benché se ne conoscano gli effetti deleteri per la salute?? anche se le valutazioni sui benefici immediati possono essere corrette, è possibile sbagliarsi relativamente alle conseguenze a lungo termine a volte il cambiamento è indotto da chi è più forte e i benefici possono essere scarsi o addirittura nulliIndipendentemente dalle motivazioni che sono all’origine del cambiamento, in base alla teoria della selezione naturale possiamo affermare che un nuovo comportamento non verrà acquisito culturalmente (o non rimarrà a lungo) nel caso abbia effetti dannosi al punto di vista riproduttivo. Abbiamo presenti, inoltre, numerosi esempi di cambiamento culturale che sembrano ben poco adattivi (es: il consumo di bevande alcoliche che può indurre all’alcolismo fino a provocare la morte). Negli ultimi secoli i maggiori stimoli al cambiamento culturale, nel bene e nel male, sono venuti dai cambiamenti sociali creatisi attraverso il contatto con le società occidentali.

III. Il cambiamento culturale nel mondo moderno.III.I. La commercializzazione.Uno dei maggiori cambiamenti prodotti dall’espansione delle società occidentali è stato la diffusione degli scambi commerciali, dai quali ormai tutti i paesi del mondo dipendono sempre più. Al cambiamento dell’economia si accompagnano inevitabilmente altri cambiamenti sul piano sociale, politico, e persino psicologico. Sulla base delle seppur scarse testimonianze che abbiamo a disposizione possiamo ipotizzare che nelle società non commerciali gli individui abbiano cominciato a comprare e a vendere oggetti per poter sopravvivere, e non perché i beni che si potevano ottenere solo attraverso lo scambio commerciale li attrassero particolarmente. La commercializzazione può diffondersi attraverso l’emigrazione di alcuni membri di una comunità in luoghi in cui si trova lavoro salariato. Coloro che sceglievano di migrare erano spinti dal desiderio di accedere ad uno standard di vita che precedentemente era considerato appannaggio degli europei.

III.II. Il cambiamento religioso.L’influenza delle società occidentali si manifesta anche in ambito religioso. In tale direzione i fautori del cambiamento sono stati sovente i missionari, i quali furono i primi, tra gli occidentali, ad inoltrarsi in regioni remote e in luoghi inesplorati. Gli esiti dell’intervento missionario non sono stati ovunque gli stessi. In alcune aree la conversione coinvolse grandi settori delle popolazioni native; altrove, invece, i missionari vennero ignorati, scacciati o addirittura uccisi. In molte parti del mondo l’attività dei missionari è stata l’elemento propulsivo di tutti i cambiamenti culturali, e in particolare di quello religioso. A prescindere dai mutamenti immediati indotti dall’attività missionaria, il contatto con gli occidentali ha spesso provocato

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cambiamenti sul piano religioso per vie più indirette. In alcune società tale contatto ha portato alla disgregazione delle struttura sociale, alla perdita dei valori spirituali e ha indotto sentimenti di impotenza. Perché molte società abbracciarono il cristianesimo?? Vi furono vari fattori concomitanti: i missionari offrirono alla popolazione nuovi strumenti e nuovi beni di consumo. In seguito risultò evidente come la scolarizzazione facilitasse l’inserimento nel mondo esterno la diffusione della nuova religione venne facilitata dal fatto che, quando si riuscivano a convertire al cristianesimo i capi (che erano sia leader religiosi sia leader politici), il resto della popolazione ne seguiva l’esempio. L’abilità dei capi nell’influenzare i loro parenti, tuttavia, poteva avere un risvolto negativo. Nel momento in cui i capi si rifiutavano di abbracciare la nuova religione, tale abilità rappresentava ovviamente per i missionari un grosso problemaPurtroppo non tutte le popolazione native sono state convertite al cristianesimo in modo altrettanto indolore. Spesso l’attività missionaria ha distrutto la cultura delle società, non offrendo in cambio altro che un sistema repressivo inadatto i reali bisogni e alle aspettative delle popolazioni.

III.III. I mutamenti sociali e politici.Probabilmente il tipo di mutamento più sensazionale avvenuto negli ultimi anni è stato la diffusione di forme di governo a carattere partecipativo (democrazie). Gli scienziati sociali non sono ancora stati in grado di comprendere pienamente le ragioni di questo fenomeno, anche se spesso essi lo collegano alla globalizzazione delle comunicazioni. I governi autoritari possono operare una censura nei confronti dei giornali del paese e anche impedire incontri e assemblee, ma in ogni caso non hanno il potere di impedire gli scambi di idee che avvengono attraverso il telefono e grazie ad internet. Di per sé il fatto che le idee circolino non spiega però perché esse dovrebbero essere accettate. Il fenomeno della diffusione della democrazia, quindi, rimane ancora per molti versi difficile da comprendere. Un altro tipo molto frequente di cambiamento culturale presente nel mondo moderno è la crescita della stratificazione sociale. In seguito a mutamenti economici alcuni gruppi acquisiscono più privilegi e più potere di altri. È stata avanzata l’ipotesi che l’introduzione di nuove tecnologie comporti un incremento del grado di stratificazione sociale.

IV. La globalizzazione: problemi e opportunità.I capitali, gli uomini e le idee si muovono oggi per il mondo ad una velocità che non è mai stata così alta. Oggi il termine globalizzazione è spesso utilizzato per riferirsi al "massiccio flusso di beni, persone, informazione e capitali tra ampie zone della superficie terrestre". Il processo di globalizzazione ha avuto come risultato la diffusione su scala mondiale di tratti culturali, particolarmente nel dominio dell’economia e del commercio internazionale. Vendiamo i nostri prodotti e i nostri servizi a prezzi che sono fissati dal mercato mondiale. Per certi versi, le culture stanno cambiando seguendo direzioni simili. Sono diventate più commerciali, più urbane e più internazionali. Il lavoro è diventato più importante, mentre la parentela lo è di meno. Le idee riguardo alla democrazia, ai diritti della persona, alle medicine e alle religioni alternative si sono diffuse. In poche parole, le persone stanno progressivamente condividendo comportamenti e credenze con individui appartenenti ad altre culture, e le culture sono sempre meno entità che hanno confini. La globalizzazione non è un fenomeno nuovo. Il mondo è stato globale e interdipendente a partire dal XVI° secolo. Ciò che attualmente chiamiamo globalizzazione è una versione più estesa di ciò che eravamo soliti definire con vari altri termini (diffusione, acculturazione, colonialismo, imperialismo, commercializzazione). La globalizzazione, tuttavia, avviene al giorno d’oggi su scala molto più ampia. I mutamenti nel mercato mondiale possono incidere sulle condizioni di benessere di uno stato in misura maggiore che in passato. Ci sono molti effetti negativi del colonialismo, dell’imperialismo e della globalizzazione:— in molti luoghi, popolazioni indigene hanno perso la loro terra e sono state obbligate a

lavorare per salari inadeguati in miniere, piantagioni, e industrie di proprietà del capitale straniero

— la malnutrizione, se non la fame, sono fenomeni frequentiCi sono anche risvolti positivi??+ un miglioramento sotto molti punti di vista, compreso quello, nella maggior parte dei paesi,

che riguarda l’aspettativa alla nascita e l’alfabetizzazione+ gran parte di tali miglioramento è senza dubbio dovuto alla diffusione di farmaci prodotti

nelle avanzate economie occidentali

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+ vi sono in genere meno guerre, visto che le potenze coloniali hanno imposto la pacificazione all’interno delle colonie, che in seguito sono diventate stati indipendenti

+ il fattore più importante, forse, è stato la crescita della classe media in tutto il mondo, la cui esistenza dipende dalla globalizzazione del commercio

+ in molti paesi essa è diventata abbastanza forte e numerosa da poter esercitare pressioni sui governi per ottenere riforme democratiche e la riduzione delle ingiustizie

+ il commercio su scala mondiale è il moto principale dello sviluppo economico+ vi è anche un "commercio" mondiale di persone. Oggi infatti molti paesi "esportano"

persone. Molte famiglie che vivono in società non occidentali dipendono da qualcuno che lavora all’estero e invia a casa dei soldi. Senza queste rimesse, molti si troverebbero ad affrontare la fame. Il governo incoraggia la gente a trasferirsi all’estero per lavorare

Un maggiore reddito pro capite non significa necessariamente che il tenore di vita è generalmente migliorato. In un paese la disuguaglianza può aumentare con il miglioramento della tecnologia, poiché i ricchi spesso ne traggono i maggiori benefici. Inoltre, la ricchezza economica è sempre più concentrata in un numero relativamente piccolo di stati. È ovvio, dunque, che non tutti sono più ricchi, anche se in media moltissimo paesi stanno ottenendo risultati migliori. La povertà è più diffusa perché è aumentata la disuguaglianza tra stati. Probabilmente non è possibile tornare indietro ad un tempo in cui le società non erano così collegate le une alle altre, non così dipendenti dagli scambi commerciali. Che sia un bene oppure un male, il mondo è interconnesso e tale resterà. La questione, ora, è se i miglioramento economici per quanto riguarda gli stati si tradurranno in miglioramenti economici per la maggior parte degli individui.

V. L’antropologia applicata e la sua storia.Negli Stati Uniti l’antropologia applicata nasce a seguito delle esperienze personali di quegli antropologi che erano venuti a contatto con popolazioni che vivevano in condizioni svantaggiate (perché soggette ad un regime coloniale o perché sfruttate in altro modo). Attualmente gli antropologi si interessano anche dei problemi delle società a cui appartengono. Quelli fra loro che definiscono il proprio ambito di ricerca antropologia applicata operano al di fuori dell’ambito accademico, e lavorano per il governo, per agenzie internazionali o per enti di vario tipo. Attualmente il numero di questi ricercatori supera quello di coloro che lavorano all’università. Spesso il loro compito consiste nell’elaborare progetti per il miglioramento delle condizioni di vita di popolazioni che vivono in una determinata zona; il più delle volte si tratta di tentare di modificare alcuni comportamenti o di intervenire sull’ambiente. In altri casi questi antropologi effettuano un’azione di controllo oppure eseguono una valutazione di progetti elaborati da altri. In genere i problemi da risolvere vengono segnalati non tanto dagli antropologi, quanto dagli enti che promuovono i progetti. Recentemente gli antropologi sono stati coinvolti sempre di più nelle decisioni riguardanti sia il tipo di miglioramenti da apportare, sia le strategie più appropriate per portarli a compimento. Nel 1934 John Collier diede l’avvio ad una nuova tendenza che riconosceva l’utilità della ricerca antropologia al di fuori del contesto accademico. Gli anni 40 furono particolarmente proficui per la diffusione dell’antropologia applicata. Nel 1941 furono fondate la Society for Applied Anthropology e una rivista specializzata (che ora si chiama "Human Organisation"). Nel corso della seconda guerra mondiale il governo statunitense assunse un grandissimo numero di antropologi affinché questi apportassero il loro contributo professionale allo sforzo bellico. Il contributo degli antropologi si concretizzò nel mantenere alto il morale delle truppe e della nazione, nel facilitare la comprensione sia dei nemici sia degli alleati e nel collaborare alla preparazione delle campagne militari. Durante la guerra gli antropologi americani erano particolarmente motivati a collaborare con il governo perché erano mossi dal desiderio di vincere il conflitto. Nel periodo post-bellico, tuttavia, aumentando l’importanza dell’educazione superiore, le università offrirono maggiori opportunità di occupazione e gli antropologi smisero di lavorare per il governo. Contemporaneamente l’antropologia applicata divenne un’area di secondario interesse e ci si occupò soprattutto della teoria e della ricerca. La situazione mutò ulteriormente a partire dagli anni 70, allorché si ridussero le opportunità di lavorare nei college e nelle università. Oggi un gran numero di antropologi opera al di fuori dei dipartimenti di antropologia (nelle scuole di medicina, nei centri sanitari, negli enti per lo sviluppo o in quelli per la pianificazione urbana e in altre organizzazioni pubbliche e private). Nel settore dell’antropologia applicata esistono diverse specializzazioni. Una delle più richieste (dal governo o da enti privati) è quella che si occupa di analizzare "l’impatto sociale" dei progetti.

V.I. L’etica dell’antropologia applicata.

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La ricerca sul campo comporta sempre delle considerazioni di tipo etico. In ambito antropologico sono stati elaborati alcuni principi che affrontano il problema della responsabilità. La responsabilità primaria di un antropologo è quella che egli ha nei confronti degli individui che sono oggetto del suo studio. È indispensabile un impegno volto a garantire il rispetto della loro dignità e del loro benessere. Esiste, inoltre, una responsabilità nei confronti dei lettori, ai quali è giusto consegnare un materiale che rispecchi in modo chiaro la verità di ciò che si è osservato. Probabilmente l’interrogativo morale fondamentale che l’antropologo deve porsi è il seguente: il cambiamento indotto avrà effetti veramente positivi sulla popolazione a cui il progetto si rivolge?? Nel 1946 la Society for Applied Anthropology istituì un comitato che stilasse un codice etico destinato a coloro che lavoravano come antropologi applicati. In base a questo codice la comunità a cui è destinato il progetto dovrebbe essere coinvolta il più possibile nella sua formulazione, cosicché le possibili conseguenze non le siano ignote. Probabilmente la regola più importante è il divieto di intraprendere qualsiasi azione che possa arrecare danno alla comunità. La National Association of Practing Anthropologists si spinge oltre: se il lavoro richiesto vìola i principi etici della sua professione, l’antropologo ha l’obbligo di proporre soluzioni alternative, e se queste non sono adeguate deve abbandonare l’incarico.

V.II. La valutazione degli effetti del mutamento indotto.Non sempre è facile stabilire quali effetti possa avere un mutamento indotto. Talvolta, come nel caso dell’introduzione di cure sanitarie, i vantaggi sembrerebbero indiscutibili. Ma questo solo ad uno sguardo superficiale. Consideriamo, per esempio, l’introduzione delle vaccinazioni. Benché a seguito dell’introduzione di tale pratica i tassi di sopravvivenza aumentino, ciò non significa che la riduzione della mortalità non comporti però nuovi problemi. Grazie ai programmi di vaccinazione le probabilità di sopravvivenza dei bambini aumentano. In genere però non cresce la produzione di cibo, che dipende dal livello tecnologico e dalle risorse territoriali e finanziarie. In tal modo i programmi di vaccinazione possono in realtà cambiare anziché ridurre le cause della morte. Questo esempio dimostra come sia indispensabile analizzare attentamente gli effetti che l’introduzione di un’innovazione può produrre non solo a breve, ma anche a lungo termine. A volte accade però che i programmi abbiano effetti positivi a breve termine, ma nel lungo periodo possano peggiorare le condizioni di vita che intendevano migliorare. Immenso è quindi il dilemma morale in cui si dibattono molti antropologi applicati. Un antropologo oggi ha di fronte 2 alternative: può rimanere in disparte, oppure può tentare di influenzare i progetti per riuscire ad apportare i maggiori benefici possibili alle popolazione a cui essi sono rivolti.

14. L’ANTROPOLOGIA MEDICA.

La malattia e la morte sono eventi significativi ovunque e per chiunque. Nessuno può evitarle. Non dovrebbe dunque sorprendere che il modo in cui le persone comprendono le cause della malattia e della morte, come si comportano davanti ad esse, e quali risorse mettano in gioco per far fronte a questi eventi costituiscano una parte estremamente importante della cultura. Alcuni sostengono che non si riuscirà mai a comprendere appieno come fronteggiare la malattia fino a quando non si capiranno il comportamento culturale, gli atteggiamenti, i valori, e il più ampio ambiente sociale e politico entro il quale la gente vive. Altri ritengono che la società e la cultura hanno ben poco a che fare con quello che rappresenta il risultato ultimo della malattia (il motivo per cui le persone muoiono senza che ve ne sia un motivo è dovuto al fatto che non hanno ricevuto cure mediche appropriate). Gli antropologi, tuttavia, e in particolare quelli medici che sono attivamente impegnati nello studio della salute e delle malattie, stanno progressivamente prendendo coscienza del fatto che vi è bisogno di considerare i fattori sociali e biologici se si vogliono alleviare all’uomo le sue sofferenze. La malnutrizione può essere l’effetto biologico di una dieta povera di proteine; una dieta di questo genere è di solito anche un fenomeno culturale, che riflette una società in cui esistono classi di persone che accedono in modo diseguale ai beni necessari al loro sostentamento. In molti modi, quindi, l’antropologia medica e l’antropologia in generale si stanno sviluppando nella direzione di una "nuova sintesi". L’antropologia medica è diventata una specializzazione molto popolare, e la Society for Medical Anthropology è attualmente il secondo ramo, per dimensioni, all’interno dell’American Anthropological Association. Il modo in cui la professione medica affronta la cura delle malattie può essere in grado di migliorare alcune condizioni che vi sono a monte, ma la professione medica, da sola, non può dirci perché alcuni gruppi siano più colpiti di altri dalle malattie, o perché l’efficacia delle cure vari da

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gruppo a gruppo. Questo capitolo tratta della variabilità culturale nella concezione della salute e della malattia, degli universali e delle variabili culturali relativamente al modo in cui la malattia è curata, delle forze sociali e politiche che incidono sulla salute, e di alcuni contributi dell’antropologia medica allo studio e alla cura di particolare malattie e condizioni di salute.

I. La comprensione culturale della salute e della malattia.I ricercatori e i professionisti in campo medico negli Stati Uniti e in altre società dell’Occidente non operano in una situazione di vuoto sociale. Molte delle loro idee sono influenzate dalla cultura in cui vivono. Molti antropologi medici oggi sostengono che anche il paradigma biomedico (il sistema al cui interno i medici sono formati) dev’essere compreso in quanto elemento della cultura. Scoprire le credenze sulla salute, la conoscenza e le pratiche di un gruppo (la sua etnomedicina) è uno degli obiettivi che si prefigge l’antropologia medica.

I.I. Il concetto di equilibrio.In molte culture è presente la concezione secondo la quale il corpo dovrebbe essere mantenuto in una situazione di equilibrio. Questo può essere tra caldo e freddo, o tra umido e asciutto. La nozione di equilibrio non si limita a prendere in considerazione concetti tra loro opposti. Per esempio, nel sistema medico dell’antica Grecia, che nasce con Ippocrate, si assumeva che ci fossero 4 "umori" (il sangue, il muco, la bile gialla e la bile nera) che dovevano essere mantenuti in equilibrio. In Europa, il sistema medico basato sugli umori fu dominante fino a quando non venne rimpiazzato, del 900, dalla teoria dei germi. Il sistema medico cinese pose inizialmente in primo piano l’equilibrio tra le forze contrastanti di yin e yang e in seguito aggiunse il concetto degli umori, che nella medicina cinese sono 6. Il corpo necessita sia di sostanze calde, sia di sostanze fredde; quando il corpo non si trova in una condizione di equilibrio, si può sopperire alla carenza di una sostanza assumendola con il cibo o le bevande. Alcune persone possono tollerare squilibri maggiori rispetto ad altre; i vecchi, per esempio, possono tollerare gli squilibri in misura minore rispetto ai giovani. Gli alimenti caldi sono in genere oleosi, unti, o di origine animale; le sostanze fredde tendono ad avere la consistenza di una zuppa, sono acquose e tratte dalle piante. Il corpo possiede anche un parte yin e una parte yang. La parte yang è visibile. La parte yin si trova nel mondo sotterraneo e ha la forma di una casa con un albero. Il tetto della casa corrisponde alla testa di una persona, i muri alla pelle, .. Gli sciamani possono permettere agli abitanti di un villaggio di cadere in trance allo scopo di visitare gli inferi, dove risiedono i morti. Se una persona ha un problema di salute, un viaggiatore può essere inviato negli inferi a verificare cosa c’è che non va nella casa o nell’albero yin di una persona. "Sistemare" albero e casa dovrebbe ridare la salute alla parte yang del corpo. Il mondo yin è anche quello in cui vivono gli spiriti; essi, a volte, possono causare le malattie. In quel caso, le persone possono chiedere aiuto ai potenti dèi che risiedono nel mondo yang.

I.II. Le forze soprannaturali.Molte società credono che la maggior parte delle malattie abbiano cause naturali o fisiologiche, ma è molto comune la credenza che alcune possano essere causate da esseri soprannaturali. La magia e la stregoneria sono fenomeni comuni in ogni società; uno dei loro usi più frequenti è quello di causare le malattie. Si può ritenere anche che la malattia sia causata dalla perdita della propria anima, dal destino, che sia la punizione per la violazione di un tabù, o che sia causata dal contatto con una sostanza o un oggetto contaminante o tabù. In altre società si crede che le malattie gravi e la morte siano soprattutto opera degli spiriti. A Chuuk (Truk), un atollo del Pacifico, al giorno d’oggi si sceglie spesso una tra 2 opzioni terapeutiche possibili: la medicina occidentale in ospedale o la medicina chuuk. Le cure della medicina chuuk richiedono un’attenta valutazione dei sintomi che il paziente presenta e anche di quelli dei suoi parenti, perché spiriti differenti causano differenti sintomi. Se il sintomo è chiaro, il paziente può scegliere, per curare la malattia, una formula medica chuuk appropriata. Il paziente può anche chiedere se ha fatto qualcosa di male e, se questo è il caso, ottenere indicazioni su quale sia lo spirito che ha effettivamente causato la malattia e sulla formula che annulla gli effetti della sua azione. Si suppone che la formula medica chuuk curi le malattie velocemente e in modo sensazionale. Se una cura fallisce, gli abitanti di Chuuk credono di dover riconsiderare la diagnosi, a volte con l’aiuto di un divinatore. Usando entrambi i metodi, alcune persone si ristabiliscono e altre no; l’ultima parola, quindi, è una questione di fede. Presso gli ojibwa si pensa che le malattie più gravi, quelle che resistono alle cure ordinarie, siano la punizione per aver fatto dei torti ad un’altra persona, un animale o uno spirito. Per guarire se stessi o i propri figli da tali malattie, si deve riflettere sulla propria condotta per

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vedere cosa si sia commesso di male. Una cattiva condotta non può essere nascosta al dottore. Solo dopo la confessione la medicina può essere d’aiuto. Analogamente, gli hopi credevano che il paziente fosse responsabile delle proprie malattie, ma la causa poteva non consistere solo nell’aver compiuto azioni non appropriate, bensì anche nell’ansietà e nei cattivi pensieri.

I.III. Il paradigma biomedico.In moltissime società, la gente crede semplicemente che le sue idee riguardo alla salute e alla malattia corrispondano alla verità e anche confrontandole con un altro sistema medico non si sviluppa una qualche consapevolezza che ci possa essere un modo diverso di vedere le cose. La pratica medica occidentale si è ampiamente diffusa. I popoli con un altro sistema medico hanno dovuto riconoscere che le loro concezioni a proposito della salute e della malattia possono essere ritenute carenti dai medici occidentali; spesso è dunque necessario decidere quale corrente (occidentale o non occidentale) seguire quando si ha a che fare con la malattia. Il cambiamento, comunque, non è completamente a senso unico (es: al giorno d’oggi un numero maggiore di medici riconosce che la pratica cinese dell’agopuntura può costituire una terapia adeguata di certe malattie). La maggior parte degli antropologi medici usa il termine biomedicina per riferirsi al paradigma medico oggi dominante nelle culture occidentali, dove il prefisso bio- enfatizza l’aspetto biologico di questo sistema medico. La biomedicina sembra concentrarsi su mali specifici e li cura. L’aspetto centrale non è la salute, che viene considerata come assenza di malattia. Si ritiene che le malattie siano fenomeni completamente naturali, e si nutre relativamente poco interesse per la persona e i più ampi sistemi sociali e culturali. Generalmente i medici tendono a specializzarsi. La morte è considerata un fallimento, e i medici in ambito biomedico fanno di tutto per prolungare la vita dei pazienti, senza riguardo per le condizioni in cui questi ultimi si troverebbero a vivere. Una delle scoperte più importanti, che cambiò profondamente il corso della medicina occidentale, fu quella di Louis Pasteur, che isolò gli organismi responsabili di alcune importanti malattie infettive. Le scoperte di Pasteur stimolarono la ricerca, effettuata con metodi scientifici, di altri germi in grado di causare malattie. Tuttavia, la teoria dei germi, benché potente, può aver spinto i ricercatori a dedicare una minore attenzione al paziente e al suo retroterra sociale e culturale.

II. La cura delle malattie.Gli antropologi che, nella nostra o in altre culture, studiano le malattie possono essere approssimativamente divisi in 2 categorie: quelli (i più relativisti) che ritengono che la cultura influenzi a tal punto i sintomi della malattia, la sua incidenza e il modo di curarla che ci sono pochi (se non nessuno) universali culturali riguardo a qualunque tipo di malattia. Se ogni cultura è unica, ci si dovrebbe aspettare che lo siano anche la sua concezione e le cure delle malattie, e che queste siano diverse dalle credenze e dalle pratiche presenti in altre culture quelli (i più universalisti) che vedono delle somiglianze interculturali nella concezione e nella cura delle malattie, nonostante le qualità peculiari di ogni cultura, in particolar modo per quanto riguarda i sistemi di credenzeMolti antropologi non ricadono in modo esclusivo in una o nell’altra categoria, e nella realtà una particolare cultura può essere molto simile ad altre culture per certi aspetti e unica per altri. Il sistema biomedico è diventato progressivamente consapevole del valore dello studio dei rimedi medici "tradizionali" scoperti o inventati dai popoli di tutto il mondo.

II.I. Gli specialisti medici.Nel sistema biomedico tanto i medici che i pazienti restano perplessi di fronte all’apparente efficacia di altri medici che basano le cure sul simbolismo e sul rituale. Molte piante usate dai nativi hanno dimostrato di essere efficaci dal punto di vista medico, ma il loro utilizzo si accompagna spesso al canto, alla danza, alla produzione di rumori o ai rituali. La difficoltà che riscontriamo nella comprensione della cura in tali pratiche deriva probabilmente dall’assunto biomedico secondo il quale la mente è fondamentalmente diversa dal corpo. Eppure, vi sono sempre più prove del fatto che la forma della terapia può essere altrettanto importante del suo contenuto. I medici che si occupano di qualcosa di più del corpo sono talvolta definiti personalisti. In una concezione personalistica, si può ritenere che la malattia sia dovuta a qualcosa che non funziona nella vita sociale del paziente. Nelle società in cui vige la specializzazione del lavoro i sacerdoti, che sono specialisti religiosi che hanno ricevuto un addestramento formale, possono essere chiamati in causa per far pervenire alle potenze superiori messaggi o richieste di cura. Le società in cui sono presenti credenze riguardo alla

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magia e alla stregoneria come cause della malattia hanno in genere degli specialisti che sono ritenuti in grado di utilizzare la magia al contrario (vale a dire di riparare al male provocato da maghi e streghe). A volte anche a maghi e a streghe si può chiedere di guarire un uomo malato a causa dell’opera di altre persone. Il loro aiuto, tuttavia, può non essere cercato perché molto spesso sono temuti e hanno uno status relativamente basso. Gli sciamani sono forse le figure mediche più importanti in quelle società dove manca una specializzazione a tempo pieno. Lo sciamano, in genere uno specialista part-time di sesso maschile, è spesso coinvolto nella cura delle malattie. Gli occidentali spesso parlano degli sciamani come di "stregoni", in quanto non credono che essi siano in grado di praticare cure efficaci. In realtà gli occidentali non sono i soli ad essere scettici. Anche se alcuni sospetti sono confermati, queste cure sono spesso un successo. Dopo aver lavorato con sciamani africani, E. Fuller Torrey concluse che essi utilizzano per curare i pazienti le stesse tecniche e gli stessi meccanismi impiegati dagli psichiatri, raggiungendo più o meno gli stessi risultati. Torrey isolò 4 categorie utilizzate dai guaritori di tutto il mondo: ASSEGNARE UN NOME. Se la malattia ha un nome, allora è curabile: il paziente si rende conto che il medico capisce il suo caso. LA PERSONALITÀ DEL MEDICO. Coloro che dimostrano empatia, calore umano scevro da ossessività, interesse sincero per il paziente ottengono risultati positivi. LE ASPETTATIVE DEL PAZIENTE. La necessità di intraprendere un viaggio per raggiungere il medico accresce le speranze di guarigione del paziente: più il viaggio è lungo, più facile sarà la guarigione. Anche un ambiente solenne (il centro medico) e degli accessori di grande suggestione (lo stetoscopio, il lettino, il personale in uniforme, il tamburo, la maschera, ..) accrescono le speranze del paziente. L’addestramento del guaritore è importante. Anche i pagamenti alti aiutano ad aumentare le speranze del paziente. LE TECNICHE DI CURA. Droghe, trattamenti shock, tecniche condizionanti, .. vengono utilizzati presso molte società.La ricerca medica sostiene che, nella cura delle malattie, i fattori psicologici sono a volte molto importanti. I pazienti convinti dell’utilità della cura spesso guariscono rapidamente anche se è stata loro somministrata solo una pillola di zucchero o se il farmaco non è specificamente indicato per la loro condizione di salute. Questo fenomeno è chiamato effetto placebo, il cui meccanismo non è stato neancora compreso appieno. Gli sciamani possono coesistere con i medici veri e propri (spesso gli sciamani indirizzano i casi che non sono in grado di guarire ai medici; il contrario però non avviene mai). La più importante figura professionale a tempo pieno in ambito medico nel sistema della biomedicina è il medico, e la relazione medico-paziente è centrale. Dal punto di vista ideale, egli è considerato una persona che possiede l’abilità, entro certi limiti, di curare le malattie, offrire al paziente la garanzia di trattarlo nel rispetto della privacy e del segreto professionale. Il paziente fa affidamento in lui. I medici si basano presumibilmente sulla scienza come fonte autorevole di conoscenza, ma assegnano grande importanza alla loro personale esperienza clinica. Spesso i medici considerano le loro osservazioni sul paziente degne di maggior attenzione rispetto alle osservazioni fatte dal paziente stesso. I medici hanno la tendenza a cercare di fare qualcosa anche in condizioni di incertezza. Essi danno poco valore alla discussione con il paziente. Nonostante l’importanza dei medici nell’ambito della biomedicina, non sempre i pazienti cercano le cure dei medici: un gran numero di persone nelle società occidentali consulta regolarmente esperti di medicina alternativa, spesso all’insaputa del proprio medico. Per certi versi, è sorprendente che gli individui che con maggiore probabilità ricorrono alle cure alternative siano quelli con il maggior livello di istruzione.

III. L’influenza della politica e dell’economia sulla salute.Le persone che in una società detengono in misura maggiore il potere sociale, economico e politico sono in genere più sane. I poveri di solito sono maggiormente esposti alle malattie perché vivono in ambienti sovraffollati. Essi, inoltre, hanno maggior probabilità di non possedere le risorse in grado di assicurare loro assistenza di qualità. Per quanto concerne molte malattie, problemi di salute e il tasso di mortalità, l’incidenza e la frequenza relative sono in relazione diretta con la classe sociale. Anche le differenze etniche sono predittive del diverso livello di salute. In Sud Africa, durante l’apartheid, la minoranza bianca aveva il controllo della maggior parte del reddito nazionale e della terra più fertile. I neri erano confinati in aree con carenza di abitazioni o con edifici inadeguati e avevano scarso accesso all’occupazione. Per ottenere un lavoro, le famiglie spesso dovevano dividersi; il padre doveva migrare. I neri vivevano in media 9 anni in meno dei bianchi e il tasso di mortalità infantile tra i loro figli era 7 volte maggiore che tra i bianchi. Anche negli Stati Uniti

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persistono le differenze tra gli americani di origine europea e gli afroamericani, nonostante non siano così nette come in Sud Africa.

IV. Le condizioni di salute e le malattie.Gli antropologi medici hanno studiato un’enorme varietà di condizioni. Quello che segue è soltanto un piccolo campione.

IV.I. L’Aids.Le epidemie di malattie infettive hanno ucciso milioni di persone in brevi lassi di tempo lungo tutto il corso della storia. Lo stato attuale della scienza e della tecnologia medica può indurci a pensare che le epidemie siano una faccenda del passato. Tuttavia, la recente e improvvisa crescita della malattia che chiamiamo Aids ci ricorda che nuove malattie, o nuove varianti di vecchie malattie, possono fare la loro comparsa in ogni momento. Il virus dall’immunodeficienza umana (l’Hiv) che causa l’Aids è emerso solo recentemente. Nel mondo milioni di persone presentano già i sintomi dell’Aids, e molti di più sono infetti dall’Hiv a loro insaputa. Il prezzo, in termini di vite umane, è enorme e crescente. L’Aids è oggi la principale causa di morte in età adulta in Europa e negli Stati Uniti; ma anche in molti altri paesi. L’Aids è un’epidemia che genera paura non solo per l’alto tasso di mortalità. Lo è anche perché ci vogliono molti anni (in genere 4) dall’esposizione al virus perché essa appaia. Oggi sono a disposizione costosi trattamenti farmacologici che riducono in modo significativo il livello di infezione, ma non sappiamo se un vaccino o una cura efficaci ed economici saranno sviluppati presto. Nel frattempo, il rischio di infezione può essere ridotto solo da un cambiamento nel comportamento sociale, particolarmente quello sessuale. Alcuni ricercatori sostengono che, mentre la causa immediata dell’infezione può essere collegata soprattutto all’attività sessuale, alcune questioni politiche e sociali di più ampia portata, come la povertà e la disuguaglianza di genere, aumentano la probabilità di infezione. I poveri hanno meno probabilità di ricevere cure adeguate. Nei paesi in via di sviluppo, inoltre, vi è nelle aree rurali e più povere una maggiore probabilità di ricevere trasfusioni di sangue infetto. È possibile che la disuguaglianza di genere faccia aumentare tra le donne la probabilità di essere costrette a praticare sesso non protetto, e le donne hanno meno possibilità di accedere a cure mediche adeguate. I programmi educativi che insegnano il modo in cui l’Aids si diffonde e quello che si può fare per evitare il contagio riducono in qualche modo la diffusione della malattia, ma possono non avere successo in luoghi in cui le persone hanno credenze ed abitudini sessuali incompatibili con essi. Per risolvere il problema dell’Aids, possiamo sperare che la scienza medica sviluppi un vaccino o una cura efficaci ed economici, che possano essere alla portata delle tasche di tutti. Nel frattempo, possiamo provare a comprendere perché le persone si dedichino a certe, rischiose, pratiche sessuali. La comprensione di ciò può permetterci di predisporre programmi educativi e di altro genere che aiutino a rallentare la diffusione dell’Aids.

IV.II. Disturbi di natura mentale ed emotiva.Quando gli antropologi occidentali iniziarono le prime ricerche sulle malattie mentali in società non occidentali, parve loro che ogni cultura presentasse malattie peculiari. Ci si riferisce ad esse con il termine "sindromi legate alla cultura". L’anoressia nervosa, per esempio, può essere caratteristica di quelle società che idealizzano la magrezza. Alcuni studiosi ritengono che ciascuna concezione della personalità e della malattia mentale vada compresa nei termini dell’appartenenza ad una specifica società. Le categorie tipiche dell’Occidente non possono essere applicate ad altre culture. Altri ricercatori non sono così precipitosi nel liquidare la possibilità che le categorie psichiatriche siano universali. Alcuni ritengono di aver scoperto un grado considerevole di uniformità tra le culture riguardo alle concezioni della malattia mentale. Robert Edgerton credeva che la mancanza di termini perfettamente traducibili in diverse culture non rendesse impossibile la comparazione. Se i ricercatori possono giungere a comprendere le concezioni che un’altra cultura ha della personalità e se possono riuscire a comunicarle a persone appartenenti ad altre culture, allora si possono fare comparazioni tra i casi descritti e si può cercare di scoprire ciò che può essere universale e ciò che può essere riscontrato solo in alcune culture. Alcune malattie mentali, come la schizofrenia e la depressione, sembrano così diffuse che molti ricercatori le ritengono universali. Eppure, i fattori culturali possono influenzare la probabilità di sviluppare questi disturbi, i sintomi specifici e l’efficacia dei vari tipi di cura. Vi possono essere alcune malattie realmente legate alla cultura, ma altre che un tempo si ritenevano uniche possono essere l’espressione culturale di forme patologiche universali. I fattori biologici, anche se non necessariamente genetici, possono essere molto importanti nell’eziologia (= studio delle cause

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di una malattia) di alcuni disturbi molto diffusi nel mondo, come la schizofrenia. Facendo riferimento all’isteria, Anthony Wallance ha proposto la teoria che possa essere causata da alcuni fattori nutrizionali, come la carenza di calcio, e che il miglioramento dei regimi alimentari possa essere la ragione della progressiva diminuzione della frequenza di questa malattia nel mondo occidentale a partire dal XIX° secolo. Il susto è spesso descritto come una "malattia folk" o una sindrome connessa alla cultura perché in termini biomedici non sembra esserci nessuna particolare malattia ad esso corrispondente. I risultati di una ricerca confermarono l’ipotesi dello stress sociale: le persone affette dal susto avevano una probabilità considerevolmente maggiore di sentirsi inadeguate rispetto ai ruoli sociali. I ricercatori non si aspettavano di trovare prove del fatto che le vittime del susto avessero maggiori invalidità psicologiche o malattie di natura organica. Con loro grande sorpresa, tuttavia, c’era una probabilità maggiore che le persone affette da susto avessero avuto in precedenza gravi problemi di salute. È difficile dire se essi erano più debilitati a causa del susto o erano inclini a soffrire di susto perché erano fisicamente più deboli. I ricercatori supposero che, dato che molte delle condizioni che avevano creato danni alla capacità di rivestire il proprio ruolo sociale si erano verificate nel lungo periodo, sembrava possibile che il susto stesso rendesse le persone che ne erano affette a rischio di ammalarsi. Così come un determinato tipo di stress sembra essere coinvolto nel caso del susto, i ricercatori hanno considerato il ruolo giocato da altri tipi di stress nella produzione di varie altre forme di malattia mentale. Uno dei fattori di stress può essere la mancanza di risorse economiche. Molti studi hanno riscontrato che nelle classi sociali più basse in società stratificate la presenza di ogni tipo di malattia mentale si presenta con una proporzione maggiore. Grandi fattori di stress come la morte di una persona cara, il divorzio, la perdita del lavoro, o una calamità naturale sono predittivi di un tasso più alto di malattie mentali, e ciò accade in tutte le classi sociali; questi eventi, tuttavia, esigono un tributo maggiore nelle famiglie appartenenti alle classi inferiori.

IV.III. La malnutrizione.Ciò che le persone mangiano è intimamente connesso alla loro sopravvivenza e all’abilità che una popolazione ha di riprodursi, cosicché ci dovremmo aspettare che il modo in cui si ottengono, distribuiscono e consumano le risorse alimentari sia il frutto dell’adattamento. Persino i vari modi in cui la gente si è nel tempo preparata ai periodi di carenza alimentare sono probabilmente pratiche adattive che hanno luogo in ambienti in cui il futuro è incerto. Gli studiosi di genetica hanno avanzato l’ipotesi che le popolazioni che vivono in zone ad alta probabilità di carestie possono aver subito la selezione di "geni risparmiatori". Le diete tradizionali e le mutazioni genetiche possono essere state selezionate in un lungo arco di tempo, ma molti seri problemi nutrizionali che si possono osservare oggi sono dovuti ad un rapido cambiamento culturale. Spesso l’accento posto sull’utilizzo di sementi commerciali o redditizi dal punto di vista economico ha effetti nocivi sulla nutrizione. In molti possono abbandonare l’agricoltura di sussistenza. Ma nel caso il cambiamento non produca gli effetti positivi desiderati, vi è la possibilità che non ci sia cibo sufficiente a nutrire tutta un’intera famiglia. Spesso capita, in situazioni come queste, che gli adulti ricevano una quantità di cibo sufficiente, mentre i bambini mangino molto meno del necessario. La carenza di un’alimentazione adeguata ha spesso come risultato un ritardo nell’aumento di peso e nella crescita. Questo non equivale a sostenere che la commercializzazione sia sempre dannosa per la possibilità di ricevere un’alimentazione adeguata: vi sono prove del fatto che alcune società ne abbiano tratto grandi vantaggi. Gli squilibri alimentari sofferti dalle donne hanno un impatto di lungo periodo sulla fertilità e sulla salute dei bambini che esse allevano. In alcune cultura, lo status inferiore delle donne ha conseguenze dirette sulla loro possibilità di accesso al cibo.

15. I PROBLEMI SOCIALI GLOBALI.

Molti antropologi e altri scienziati sociali sono convinti che l’antropologia e altri campi di ricerca possano aiutarci a risolvere i problemi sociali globali. Le tecnologie della comunicazione hanno aumentato la nostra consapevolezza dell’esistenza di problemi in ogni parte del mondo, e sembriamo essere sempre più consapevoli dei problemi presenti nella nostra società. Per questi 2 motivi, e forse anche perché oggi conosciamo molte più cose sul comportamento umano di quante non ne conoscessimo un tempo, al giorno d’oggi possiamo essere più motivati a tentare di risolvere quei problemi. Li denominiamo "problemi sociali" non solo perché tanta gente si preoccupa per la loro presenza, ma anche perché essi hanno cause e conseguenze sociali, e perché affrontarli o risolverli richiede un cambiamento nel nostro

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comportamento sociale. L’idea che si possano risolvere i problemi sociali, anche quelli di dimensioni enormi come la guerra e la violenza all’interno delle famiglie, si fonda su 2 assunti: si deve assumere che è possibile scoprire le cause di un problema si deve assumere che si possa essere in grado di intervenire in qualche modo sulle cause, una volta scoperte, e quindi eliminare o ridurre il problemaNon tutti si troverebbero d’accordo con questi assunti. Alcuni direbbero che la nostra comprensione dei problemi sociali non può mai essere sufficiente a proporre una soluzione in grado di funzionare. Nessuna comprensione scientifica è perfetta o fornisce certezze; tuttavia, la possibile ricompensa di una comprensione dei problemi (per quanto incompleta) può essere un mondo migliore e più sicuro. Questa possibilità è ciò che motiva molti ricercatori che indagano sui problemi sociali.

I. Calamità naturali e carestie.Gli eventi naturali come le alluvioni, le siccità, i terremoti e le invasioni di insetti sono di solito (ma non sempre) al di là del controllo umano; i loro effetti, tuttavia, non lo sono. Denominiamo tali eventi incidenti o emergenze quando solo poche persone sono coinvolte, ma li chiamiamo calamità quando coinvolgono un gran numero di persone e aree estese. Se le persone vivono in abitazioni progettate per resistere alla forza di un terremoto (se le istituzioni richiedono che si costruisca secondo norme antisismiche e l’economia è abbastanza sviluppata da permettere alla gente di affrontare la spesa per questo tipo di edifici) gli effetti di un terremoto saranno minimi. Se i poveri sono costretti a vivere in pianure alluvionali in cui si è verificata la deforestazione, allo scopo di trovare della terra da coltivare, se i poveri sono costretti ad abitare in baracche costruite sulle pendici instabili di una collina, le alluvioni e gli smottamenti che sono l’effetto di forti uragani e tempeste possono uccidere moltissime persone. Le calamità naturali, quindi, possono produrre effetti maggiori o minori a seconda delle condizioni sociali. Di conseguenza esse sono problemi sociali, problemi che hanno cause sociali e possibili soluzioni sociali. Una legislazione che prescriva criteri di sicurezza nell’edificazione di una casa costituisce una soluzione sociale. Si potrebbe pensare che, tra tutte le calamità, le alluvioni siano quelle meno influenzate da fattori sociali. Dopotutto, non ci può essere un’alluvione senza un enorme flusso di acque causato da forti piogge o dallo scioglimento delle nevi. Tuttavia, un’alluvione può essere causata dall’abbattimento delle foreste vicine ad un fiume per scopi agricoli ed energetici, che permette a grandissime quantità di detriti di immettersi nel fiume, alzando il livello del letto e aumentando il rischio di piene in grado di rompere gli argini. Le carestie, episodi di grave carenza di risorse alimentari e di morte per fame, sembrano spesso scatenarsi in seguito ad eventi naturali come una seria siccità o un uragano che fa morire o abbatte gli alberi e le piante da cui si ricava il cibo. Le carestie, tuttavia, non seguono necessariamente a eventi del genere. Le giuste condizioni sociali possono prevenire una carestia o aumentare la probabilità che se ne verifichi una. Una soluzione possibile è quella della reciprocità tra villaggi (ci si aiuta a vicenda nei momenti di crisi). Al giorno d’oggi, il governo o le organizzazioni internazionali possono fornire aiuto mettendo a disposizione cibo e altri generi di necessità. I ricercatori segnalano che le carestie si verificano raramente dopo una sola annata di cattivo raccolto. In una situazione del genere, la gente vi può far fronte con l’aiuto dei parenti, degli amici, dei vicini, o passando al consumo di cibi meno appetibili. Quasi sempre le carestie hanno cause sociali. Ricerche comparate suggeriscono che le società fondate su un regime di proprietà individuale corrono un maggior rischio di carestia, se paragonate a quelle in cui la proprietà è comune. È possibile inoltre che i soccorsi forniti dal governo non raggiungano sempre chi ne ha più bisogno. In passato, e in certi luoghi persino di recente, le persone consideravano le calamità una punizione divina dell’immortalità umana. Possiamo non essere in grado di fare granché per quanto riguarda il tempo o le altre cause fisiche della calamità, ma possiamo fare molto per quanto riguarda i fattori sociali che le rendono disastrose.

II. Abitazioni inadeguate e senzatetto.Nella maggior parte delle nazioni, i poveri vivono di solito in edifici inadeguati, in aree che chiamiamo slums. In molti dei paesi in via di sviluppo, dove le città crescono ad un ritmo molto rapido, sorgono insediamenti abusivi poiché la gente costruisce delle abitazioni (spesso provvisorie) che di solito sono dichiarate illegali, o perché la terra su cui sorgono è stata occupata illegalmente, o perché le costruzioni violano le norme edilizie. Gli insediamenti abusivi sono spesso situati in aree degradate che sono soggette ad allagamenti e a frane, o in

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cui le risorse idriche sono inadeguate o inquinate. Tuttavia, non tutti quelli che abitano in insediamenti abusivi sono dei poveri; vi si può trovare chiunque, a parte l’élite che percepisce un alto reddito. Inoltre, benché negli insediamenti abusivi si registrino dei problemi, essi non sono luoghi caotici e disorganizzati, in balia del crimine. La maggior parte degli abitanti ha un’occupazione, aspira a migliorare la propria condizione, vive in solide famiglie nucleari e si aiuta reciprocamente. Le persone vivono in insediamenti del genere perché non possono trovare casa ad un prezzo più accessibile, e si arrangiano a trovare una sistemazione. Molti ricercatori ritengono che queste tendenze a contare sulle proprie forze debbano essere assecondate allo scopo di migliorare gli alloggi, dato che i governi dei paesi in via di sviluppo raramente possono sostenere la spesa per progetti di edilizia popolare. In qualche modo, tuttavia, potrebbero investire in infrastrutture (fognature, condotte idriche, strade) e fornire i materiali da costruzione a chi è intenzionato a svolgere i lavori di miglioramento della propria abitazione. Gli alloggi nelle aree degradate o nelle baraccopoli forniscono a chi vi abita un rifugio, per quanto minimo possa essere. In molti luoghi del mondo, tuttavia, molta gente non ha nemmeno una casa. Persino in paesi come gli Stati Uniti, che secondo gli standard mondiali sono un paese ricco, una gran numero di persone sono senzatetto. Costoro dormono nei parchi, sopra le grate che emettono aria calda, nei portoni, in metropolitana e in scatoloni di cartone. Ci sono relativamente poche ricerche su questa tematica, ma quelle disponibili suggeriscono che ci sono a seconda dei luoghi cause diverse che portano ad essere un senzatetto. Negli Stati Uniti la disoccupazione e la carenza di alloggi dignitosi a basso costo sembrano essere almeno in parte responsabili del grande numero di senzatetto. Vi è tuttavia un altro fattore: la politica di ridurre il numero di persone ricoverate per malattie mentali e per altre cause di invalidità. Raramente un singolo evento è sufficiente a rendere una persona un senzatetto. Piuttosto, la povertà e l’invalidità (mentale e fisica) sembrano generare una sventura dopo l’altra e, infine, la condizione di senzatetto. Molte persone non riescono a comprendere perché i senzatetto non vogliano andare negli ospizi comunali. L’osservazione e le interviste con i senzatetto, tuttavia, suggeriscono che in questi luoghi, soprattutto quelli per uomini, la violenza è diffusissima. Molti si sentono più al sicuro per strada. Alcune organizzazioni di assistenza private forniscono un rifugio sicuro e un ambiente protettivo. Questi rifugi sono sempre al completo, e il numero di persone che possono accogliere è esiguo. Persino le stanze singole degli alberghi sono difficilmente in condizioni migliori. Molte sono infestate dai parassiti, i bagni comuni sono sudici, e gli alberghi, come gli ospizi, sono spesso pericolosi. Alcuni poveri possono essere soli dal punto di vista sociale, con pochi amici e parenti (o nessuno), e poche o nulle relazioni sociali. In una società con molte persone in questa situazione, tuttavia, non ci sono necessariamente molti senzatetto. L’esperienza di Melbourne, in Australia, suggerisce questo. L’assicurazione medica generalizzata paga le cure e le visite mediche a domicilio per i pazienti soli e malati, ovunque vivano. I disabili percepiscono una pensione e vari benefici, sufficienti a permettere loro di vivere in una stanza o in un appartamento. Inoltre, c’è ancora una grande offerta di case a basso costo. Il contrasto tra gli Stati Uniti e l’Australia rende chiaro che la condizione di senzatetto è causata da politiche sociali e scelte politiche. Dato che questa condizione non può verificarsi se tutti possono permettersi un alloggio, alcuni potrebbero sostenere che si diventa senzatetto solo in una società con un grande divario tra i redditi. La maggior parte dei senzatetto sono adulti. Mentre agli adulti è "permesso" essere un senzatetto, la sensibilità pubblica sembra offendersi alla vista di bambini che vivono per strada: quando le autorità scoprono dei bambini senzatetto, cercano di trovare loro un tetto o una famiglia adottiva. Lewis Aptekar ha studiato i ragazzi di strada a Cali, in Colombia. I ragazzi di strada, la cui età varia dai 7 ai 16 anni, sono in massima parte senza problemi mentali. In aggiunta a ciò, anche se molti ragazzi provengono da case abusive o non ne hanno mai avuto una, sembrano di solito felici e gradiscono l’aiuto e l’amicizia di altri ragazzi di strada. Essi cercano chiaramente e con creatività di trovare dei modi di guadagnare qualche soldo, spesso intrattenendo i passanti. Benché un osservatore possa ritenere che i ragazzi di strada siano stati abbandonati dalle loro famiglie, in realtà la maggior parte di loro ha almeno un genitore con cui si tiene in contatto. La vita di strada non inizia da un momento all’altro; i ragazzi in genere non vivono costantemente sulla strada fino a quando non hanno 13 anni. Spesso i ragazzi di strada sono considerati una "piaga". Essi provengono da famiglie povere e cercano di badare a se stessi come possono; perché, dunque, non sono guardati con pietà e compassione?? Aptekar suggerisce che le famiglie benestanti vedono i ragazzi di strada come una minaccia perché una vita indipendente dalla famiglia può essere attraente per dei ragazzi, anche per quelli provenienti da famiglie normali, che desiderano essere liberi dai vincoli e dall’autorità familiari.

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III. Violenze a abusi familiari.Cosa s’intende per abuso?? Alcuni potrebbero sostenere che un abuso avviene quando si va al di là di ciò che una società considera un comportamento appropriato. Altri non sarebbero d’accordo con questa definizione e concentrerebbero l’attenzione sulla violenza e sulla severità del comportamento di genitori e insegnanti, non sul giudizio culturale di cosa sia appropriato. Un abuso, poi, non necessariamente comporta una violenza fisica. Si potrebbe sostenere che le aggressioni verbali e la trascuratezza siano dannosi quanto le aggressioni fisiche. Per evitare di dover decidere cosa sia un abuso e cosa non lo sia, molti ricercatori focalizzano i loro studi sulla variazione di frequenza di comportamenti specifici. Dai dati di 3 indagini condotte negli Stati Uniti, sulla base di interviste a coppie sposate o conviventi, risulta che la violenza fisica sui bambini sia diminuita nel corso degli anni, così come gli atti di violenza dei mariti nei confronti delle mogli. Non sono invece diminuiti tali atti da parte delle mogli sui mariti. La diminuzione di queste aggressioni può essere in gran parte dovuta ad una differenza nelle ammissioni degli intervistati: le percosse a donne e bambini sono oggi meno accettabili di una tempo. Nonostante questa diminuzione, tuttavia, quella statunitense rimane una società caratterizzata generalmente da un alto tasso di violenza nelle famiglie. Un’inchiesta ha rivelato che circa il 75% delle violenze contro le donne è perpetrato da un partner maschile, come il marito. Di contro, la maggior parte delle violenze rivolte contro i maschi proviene da estranei o semplici conoscenti. Proprio come le donne sono più esposte al rischio di violenza da parte di chi è più prossimo a loro, lo stesso accade ai bambini. Quando un bambino è l’obiettivo della violenza, questa proviene di solito dalla madre naturale. Dal punto di vista interculturale, se un tipo di violenza familiare è presente, è possibile che ne siano presenti altri. Tuttavia la relazione tra questi tipi di violenza familiare non è poi così stretta, il che significa che non possono essere considerati come differenti aspetti dello stesso fenomeno. Molte società praticano e permettono l’infanticidio. Tra le cause vi sono l’illegittimità del bambino, la sua deformità, un parto gemellare, l’avere già troppi figli, o il fatto che il bambino non è stato voluto. L’infanticidio, di solito, è commesso dalla madre: può significare che non può nutrire o occuparsi della prole in modo adeguato, o che il bambino ha poche probabilità di sopravvivenza. Le giustificazioni per l’infanticidio sono simili a quelle fornite in caso di aborto. Le punizioni fisiche nei confronti dei bambini avvengono nel 70% delle società. Ma il fatto che in moltissime società i figli a volte siano puniti fisicamente non significa che queste società ricorrono regolarmente a punizioni fisiche. Le punizioni fisiche sono più probabili laddove la madre è praticamente l’unica figura che si occupa del figlio. Le società più complesse tendono a fare ricorso alle punizioni fisiche più frequentemente delle società più semplici. Non è ancora chiaro perché avvenga questo. Una possibile risposta è che le società complesse sono gerarchiche e tendono ad insistere sull’obbedienza. Le percosse alla moglie sono la forma più comune di violenza familiare. In metà delle società, le percosse alla moglie sono a volte abbastanza violente da arrecare danni permanenti o da causare la morte della donne. È diffusa la convinzione che questo genere di violenza sia comune in quelle società in cui i maschi detengono il controllo sulle risorse economiche e politiche. Sembra che il picchiare la moglie sia correlato all’esistenza di modelli di violenza più ampi. Negli Stati Uniti, molti genitori ritengono che le punizioni corporali sono necessarie affinché i figli imparino a distinguere tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Gli individui (sia uomini che donne) che hanno subito punizioni corporali durante l’adolescenza abbiano maggiori probabilità di commettere (e approvare) atti di violenza del marito sulla moglie. Che cosa può essere fatto per ridurre la violenza all’interno delle famiglie?? Per prima cosa, si deve riconoscere che probabilmente non si può fare nulla finché le persone non riconoscono che essa rappresenta un problema. Nella nostra società molti programmi sono predisposti per allontanare dalle famiglie i bambini e le mogli, o per punire chi commette abusi nei loro confronti. Come ci si potrebbe aspettare, tuttavia, le società più inclini al maltrattamento delle mogli sono quelle in cui è meno probabile che si verifichino interventi immediati atti a fermarlo. Forse può risultare più utile, ma anche più difficile da realizzare, la promozione di condizioni di vita associate ad una bassa frequenza di violenze familiari. Le ricerche svolte fino ad ora suggeriscono che la promozione dell’uguaglianza tra i sessi e la condivisione della responsabilità di allevare i figli possono fare ottenere grandi risultati nella diminuzione dei casi di violenza dentro le famiglie.

IV. Il crimine.Altrettanto difficile è definire cosa sia un crimine. Nel tentativo di comprendere le variazioni nel comportamento criminoso, molti ricercatori hanno optato per la comparazione di quei comportamenti che sono, più o meno universalmente, considerati dei crimini e che sono

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registrati in modo attendibile. Uno dei risultati più evidenti emersi dagli studi comparati sul crimine è che la guerra è associata a tassi di omicidio più elevati. Indipendentemente dal fatto che uno stato ne esca vittorioso o sconfitto, i tassi di omicidio tendono a crescere dopo una guerra. Questo risultato è coerente con l’idea che una società o una nazione coinvolte in un conflitto legittimino la violenza. In seguito a tale situazione, il tasso di omicidi può crescere perché l’inibizione ad uccidere è stata attenuata. La pena capitale è una dura forma di punizione degli atti criminali. Si pensa comunemente che i potenziali assassini siano dissuasi dal commettere un crimine nel caso di prospetti loro la pena di morte. Eppure ricerche comparate tra nazioni suggeriscono una risposta diversa: essa può legittimare la violenza piuttosto che fungere da deterrente. Alcune ricerche condotte negli Stati Uniti suggeriscono che la delinquenza minorile (soprattutto maschile) nasce probabilmente nell’ambito di famiglie disastrate, dove il padre è assente per gran parte del periodo in cui il bambino cresce. È possibile che i fanciulli che crescono senza padre siano inclini a comportarsi in modo "ipermaschile" per dimostrare quanto sono "maschi". È anche possibile, tuttavia, che le madri che crescono i figli da sole infliggano spesso punizioni di natura fisica, e che quindi forniscano alla prole un modello di comportamento aggressivo. Può essere possibile, tuttavia, che il tentativo di agire in modo ipermaschile implichi la violenza solo se le aggressioni fisiche sono una componente importante del ruolo che il maschio riveste nella società. Una concezione largamente diffusa è che condizioni economiche svantaggiate aumentino la probabilità che si verifichino dei crimini; la relazione, tuttavia, non sembra essere così stretta. Emergono risultati diversi a seconda del tipo di delitto. Gli omicidi non sembrano aumentare in tempi di difficoltà, mentre i delitti contro la proprietà aumentano parallelamente alla crescita della disoccupazione. Gli omicidi sono più frequenti in paesi in cui ci sono forti disuguaglianze di reddito. Perché la disuguaglianza preveda l’omicidio, mentre la recessione economica no, costituisce un sorta di enigma. Il fatto che i reati contro la proprietà siano connessi alla disoccupazione è coerente con le conclusioni di comparazioni tra cultura, vale a dire che il furto tende ad essere meno frequente nelle società egualitarie rispetto a quelle stratificate (nelle prime infatti esistono meccanismi di distribuzione egualitaria delle risorse). Se possiamo ridurre la socializzazione a fini di aggressione, riducendo il rischi di guerra e quindi la necessità di addestrare truppe effettive, e se possiamo ridurre le altre forme di violenza approvata, possiamo di conseguenza essere in grado di ridurre il tasso di reati violenti. La riduzione delle disuguaglianze economiche può anche agevolare la diminuzione del crimine, in particolare i furti. Benché le cause non siano ancora chiare, sembra che crescere i figli assicurando la presenza di una figura maschile possa ridurre la probabilità che in età adulta i maschi commettano violenze.

V. La guerra.Le guerre sono episodi infelici in molte delle società note all’antropologia. Nelle società non occidentali, le guerre non coinvolgevano di solito società politicamente unite. Il numero delle persone uccise poteva essere esiguo in valore assoluto, ma questo non vuol dire che la guerra nelle società non industriali fosse una questione di poco conto. Sembra, infatti, che le guerre nelle società non industriali siano state proporzionalmente più letali delle guerre moderne. Abbiamo discusso la possibilità che nelle società non industriali le persone si mobilitino a causa della paura, in particolare del timore di possibili ma non prevedibili calamità naturali (siccità, alluvioni, uragani) che possono distruggere le risorse alimentari. Sembra che facciano la guerra come se volessero proteggere loro stesse dalle calamità, visto che i vincitori di una guerra in genere si appropriano di tutte le risorse strappate al nemico sconfitto, e questo avviene anche quando chi vince una guerra non ha problemi di scarsità di risorse. Un altro fattore che evidentemente incide sulla maggiore presenza di guerre consiste nel fatto che ai bambini si insegna a non fidarsi degli altri. Sembra che le persone che crescono con queste inclinazione intraprendano con più probabilità una guerra, piuttosto che negoziare o cercare una conciliazione con i loro nemici. La sfiducia e la paura degli altri sembrano essere in parte causate dalla minaccia o dalla paura che si verifichino delle calamità naturali. Se è vero che le guerre sono più probabili quando le persone temono dei disastri che non riescono a prevedere, il rischio di guerra dovrebbe diminuire nel momento in cui si capisce che gli effetti dannosi delle calamità possono essere ridotti o prevenuti dalla cooperazione internazionale. La paura di un disastro non prevedibile e la paura degli altri, e il conseguente rischio di guerra, potrebbero essere ridotti dalla garanzia preventiva che il resto del mondo porterebbe aiuti e soccorso a chi si trovasse in una condizione di bisogno a causa di un disastro. I popoli che vivono sistemi politici più partecipativi (vale a dire più democratici) intraprendono raramente una guerra nei confronti di altri popoli che vivono in sistemi simili. Se, quindi, i regimi autoritari scomparissero

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dalla faccia della terra, perché le potenze mondiali smettono di dal loro supporto dal punto di vista militare o di altro genere, il mondo diventerebbe un luogo più pacifico. Benché gli stati con un governo democratico si combattano raramente l’uno contro l’altro, in generale non sono necessariamente più pacifici. Al contrario, è possibile che intraprendano una guerra con sistemi politici di un’altro tipo, ma non tra di loro. Inoltre, i conflitti tra sistemi politici partecipativi non dovrebbero probabilmente sfociare in una guerra. Da un lato, comprendere la relazione tra democrazia e pace può incoraggiare operazioni di guerra contro i regimi autoritari al fine di rovesciarli (con costi enormi dal punto di vista delle vite umane e non solo). Dall’altro, capire le conseguenze della democrazia può incoraggiarci ad aiutare la nascita e il consolidamento di sistemi di governo più partecipativi. In ogni caso, la relazione tra pace e democrazia suggerisce in modo forte che è controproducente (se vogliamo ridurre al minimo il rischio di guerra nel mondo) sostenere un qualunque regime non democratico, anche nel caso che questi siano nemici dei nostri nemici.

VI. Il terrorismo.Sin dall’11 settembre 2001 tutto il mondo ha compreso che il terrorismo è diventato globalmente un problema sociale. È oggi dolorosamente chiaro che gruppi organizzati di terroristi possono addestrare i loro membri ad uccidere loro stessi e migliaia di persone dall’altra parte del mondo, non solo dirottando gli aerei, ma anche facendo uso di esplosivi facilmente trasportabili e di armi biologiche. Ora gli scienziati sociali stanno cercando attivamente di comprendere il terrorismo, nella speranza che le loro ricerche possano condurre ad un modo di rendere la probabilità di futuri attacchi minima. È difficile identificare i confini tra terrorismo, crimine, repressione politica e atti di guerra. La maggior parte dei ricercatori concorda sul fatto che il terrorismo coinvolge la minaccia o l’uso della violenza contro i civili. Il terrorismo, di solito, è socialmente o politicamente organizzato, al contrario di molti crimini. Un punto che segna la differenza tra la maggior parte dei crimini e il terrorismo è che i criminali raramente rivendicano pubblicamente le loro attività, dato che vogliono evitare di essere catturati. Nel caso del terrorismo la violenza è diretta soprattutto verso persone disarmate, comprese le donne e i bambini. È perpetrato con l’intento di spaventare il nemico, di terrorizzarlo, tanto da indurlo a compiere le azioni auspicate dai terroristi . In genere, dunque, il terrorismo può essere definito come l’uso o la minaccia di violenza per incutere negli altri il terrore, di solito per scopi politici. Il terrorismo non è un fatto nuovo. Ora però c’è una maggiore paura nei confronti dei terroristi che possono avere accesso ad armi di distruzione di massa. In un mondo reso più piccolo dai sistemi di trasporto globali, dalla telefonia cellulare e da Internet, il terrorismo è una minaccia maggiore di quanto non sia mai stato. Non abbiamo ancora a disposizione ricerche sistematiche che spieghino perché si manifesti il terrorismo e perché le persone siano motivate a diventare dei terroristi. Esiste tuttavia un buon numero di ricerche sul terrorismo di stato. Quali fattori predicono il terrorismo nei confronti del proprio stesso popolo?? Rummel ne indica uno che è chiaro: un regime di governo totalitario. Questi regimi presentano di gran lunga le maggiori frequenze di terrorismo di stato interno, impiegato per controllare fattori come la ricchezza economica, il tipo di religione professata e la dimensione numerica della popolazione. "Il potere uccide, il potere assoluto uccide in modo assoluto". Nei paesi democratici vi sono meno probabilità che si pratichi il terrorismo di stato, ma quando esso è messo in atto accade durante o dopo una ribellione o una guerra. Sappiamo relativamente poco sui fattori in grado di predire chi diventerà un terrorista. Sappiamo che i terroristi provengono dai gruppi con uno status sociale più elevato e che in genere hanno un’educazione maggiore della media. Se è maggiormente probabile che il terrorismo di stato avvenga in regimi totalitari, i terroristi e le organizzazioni terroristiche nascono probabilmente in queste società. Se è così, la diffusione della democrazia può costituire la nostra maggiore speranza di minimizzare il rischio di terrorismo nel mondo, proprio come la diffusione della democrazia sembra ridurre al minimo la possibilità che scoppi una guerra tra le nazioni.

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