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Volume VII (2020), numero 1 Saggi Ri-vivere il passato: memoria e oblio tra Funes el memorioso di Borges e Nietzsche Francesca Ferrara * * Università di Napoli “L’Orientale” e-mail: [email protected] Abstracts Il saggio intende mettere in luce come il tema della memoria e le sue implicazioni, tanto nella dimensione teoretica della conoscenza, quanto nella dimensione pratica dell’azione, emergano nel racconto di J. L. Borges Funes, o della memoria, contenuto nella celebre raccolta Finzioni (1944). L’analisi del personaggio del racconto borgesiano è condotta parallelamente all’analisi del problema dell’oblio nella filo- sofia di Nietzsche, di cui viene sottolineata l’influenza nella creazione letteraria di Borges e l’importanza per la comprensione della stessa. e essay aims to highlight how the theme of memory and its impli- cations, both in the theoretical dimension of knowledge and in the practical dimension of action, are addressed in the short story Funes, the Memorious, by J. L Borges, contained in the famous collection Fic- tions (1944). e analysis of the character of the Borgesian short story is carried out in parallel with the analysis of the problem of oblivion in Nietzsche’s philosophy. e essay intends to show how the Nietzs- chean reflection on the theme of memory influences Borges’ literary creation and is relevant for a more comprehensive understanding of it. Keywords Borges – Funes – Nietzsche – Memoria – Oblio – Finzioni Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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Volume vii (2020), numero 1

Saggi

Ri-vivere il passato: memoria e oblio tra Funes el memorioso di Borges e Nietzsche

Francesca Ferrara*

* Università di Napoli “L’Orientale”e-mail: [email protected]

Abstracts

Il saggio intende mettere in luce come il tema della memoria e le sue implicazioni, tanto nella dimensione teoretica della conoscenza, quanto nella dimensione pratica dell’azione, emergano nel racconto di J. L. Borges Funes, o della memoria, contenuto nella celebre raccolta Finzioni (1944). L’analisi del personaggio del racconto borgesiano è condotta parallelamente all’analisi del problema dell’oblio nella filo-sofia di Nietzsche, di cui viene sottolineata l’influenza nella creazione letteraria di Borges e l’importanza per la comprensione della stessa.

The essay aims to highlight how the theme of memory and its impli-cations, both in the theoretical dimension of knowledge and in the practical dimension of action, are addressed in the short story Funes, the Memorious, by J. L Borges, contained in the famous collection Fic-tions (1944). The analysis of the character of the Borgesian short story is carried out in parallel with the analysis of the problem of oblivion in Nietzsche’s philosophy. The essay intends to show how the Nietzs-chean reflection on the theme of memory influences Borges’ literary creation and is relevant for a more comprehensive understanding of it.

Keywords

Borges – Funes – Nietzsche – Memoria – Oblio – Finzioni

Quest’opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.

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L’uomo chiese una volta all’animale: perché non mi parli della tua fe-licità e soltanto mi guardi? L’animale dal canto suo voleva rispondere e dire: ciò deriva dal fatto che dimentico subito quel che volevo dire – ma subito dimenticò anche questa risposta e tacque; sicché l’uomo se ne meravigliò.

F.W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita

A ragione disse Temistocle a coloro che gli volevano insegnar l’arte di far buona memoria allhora trovata da Simonide, che haverebbe voluto più tosto imparare l’arte dello sdimenticar che l’arte del tenere a mente.

F. Petrarca, Rimedii de l’una et l’altra fortuna

La prosa narrativa di Jorge Luis Borges è intessuta di riferi-menti filosofici che spaziano dal pensiero greco (Platone e

Plotino in particolare) ai sistemi filosofici tedeschi dell’Ottocen-to, attraversando la riflessione teologica medievale e l’idealismo ed empirismo inglesi. Nessuna teoria o sistema filosofico sembra per lo scrittore argentino, però, poter reclamare la parola ultima sul senso e sul significato complessivo del reale, giacché ogni pensiero filosofico non si svincola dalla storicità che lo caratte-rizza. Nel racconto Pierre Menard, autore del «Chisciotte», pubblicato nel 1941 nella prima parte della raccolta Finzioni (Ficciones), in-titolata Il giardino dei sentieri che si biforcano, Borges sottolinea che «non v’è esercizio intellettuale che non sia finalmente inutile. Una dottrina filosofica è al principio una descrizione verosi-mile dell’universo; passano gli anni, ed è un semplice capito-lo – quando non un paragrafo o un nome – della storia della filosofia»1. I sistemi filosofici, quindi, che in un primo momento sembrano potersi imporre quali coerenti Weltanschauungen, fini-

1 J. L. Borges, Pierre Menard, autore del «Chisciotte», in Finzioni, in Tutte le opere, vol. I, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1984, 657.

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scono secondo Borges per perdere la loro aderenza al reale, tra-sformandosi in una mera sequenza di parti o nomi nella storia del pensiero umano, costituendo quasi una carrellata di visioni sostanzialmente equivalenti nella loro parzialità. Queste sono le premesse che caratterizzano quello «scetticismo essenziale» che molti critici hanno associato al pensiero dello scrittore argenti-no – e che egli stesso attribuisce alla sua opera – secondo cui le idee religiose e le prospettive filosofiche devono essere valutate esclusivamente per il loro valore estetico, pensiero che lo porta ad includere metafisica e teologia nella letteratura fantastica2.

2 In più luoghi della pagina borgesiana ricorre tale associazione tra pensiero filosofico e teologico e letteratura fantastica. Nel racconto Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, che apre la prima sezione Il giardino dei sentieri che si biforcano di Fin-zioni, Borges, descrivendo l’«idealismo totale» che caratterizza il pensiero del pianeta fantastico di Tlön, sottolinea che «il fatto che ogni filosofia non possa essere, in partenza, che un gioco dialettico, una Philosophie des Als Ob, ha contribuito a moltiplicarle. […] I metafisici di Tlön non cercano la verità, e neppure la verosimiglianza, ma la sorpresa. Giudicano la metafisica un ramo della letteratura fantastica. Sanno che un sistema non è altro che la subordinazione di tutti gli aspetti dell’universo a uno qualsiasi degli aspetti stessi» ( J. L. Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Finzioni, 631). Nell’Epilogo alla raccolta di saggi Altre inquisizioni tra le «tendenze» che caratterizzano il suo libro Borges individua quella indirizzata a «stimare le idee religiose o filosofiche per il loro valore estetico e anche per quel che racchiudono di sin-golare e di meraviglioso». È proprio questo aspetto che lo scrittore identifica quale indizio del suo «scetticismo essenziale» ( J. L. Borges, Epilogo, in Altre inquisizioni, in Tutte le opere, I, 1093). In una nota alla poesia Le due cattedrali, contenuta nella raccolta del 1981 La cifra, è possibile leggere ancora che per lo scrittore argentino «la filosofia e la teologia sono […] due generi della let-teratura fantastica. Due generi splendidi» (J. L. Borges, Qualche nota, in La cifra, in Tutte le opere, vol. II, a cura di D. Porzio, Mondadori, Milano 1985, 1259). Che metafisica e teologia possano essere considerate come espressio-ne della letteratura fantastica non implica un depotenziamento delle stesse, ma un riconoscimento della loro comune implicita matrice immaginativa e creativa. Così lo scrittore argomentava in un’intervista con Osvaldo Ferra-ri: «Quando ho detto che religione e metafisica sono rami della letteratura

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Perdendo la sua capacità di proporsi quale visione comples-siva del reale, la filosofia rappresenta per Borges secondo alcuni critici il mero «pretesto» della creazione letteraria3, rendendo più complessa e per certi versi impossibile l’identificazione di un coerente ed unitario pensiero d’insieme. Se la filosofia per lo scrittore argentino non è che l’espediente della produzione e creazione letteraria, sarà difficile, se non vano, tentare di enu-cleare un “pensiero filosofico” dell’autore che non finisca per identificarsi con l’impossibilità di individuarne uno slegato nella pratica letteraria dall’eclettismo e da quello scetticismo radicale che la caratterizzano: è piuttosto proprio il capovolgimento del tradizionale rapporto tra opera letteraria e riflessione filosofica che la innerva a poter essere considerato come gesto filosofico in sé.

Se è innegabile che le assimilazioni dei vari filosofi sono in Borges sempre parziali, e che se ogni teoria si legittima, nes-

fantastica, non l’ho detto con intenzione ostile, anzi. Piacerebbe, credo, a san Tommaso essere il più grande poeta del mondo. Se si prende il concetto di Spinoza: Dio è una sostanza infinita che consta di infiniti attributi, vediamo che è ben più strano dell’idea dei primi uomini sulla Luna di Wells o della mac-china del tempo, o della Mascherata della morte rossa di Poe o degli incubi di Kafka» ( J. L. Borges, Altre conversazioni con Osvaldo Ferrari, a cura di F. teN-tori MoNtaLto, Bompiani, Milano 2011, 90).3 Si esprime così, ad esempio, il filosofo venezuelano Juan Nuño, secondo cui se nell’opera narrativa di Sartre la letteratura costituisce il pretesto per l’espressione di tesi filosofiche, all’inverso, nel caso di Borges, è la filosofia a rappresentare il pretesto della letteratura. Per Nuño quando Borges sot-tolinea che con la sua opera egli non ha inteso costruire idee filosofiche ha evidenziato un elemento essenziale del suo lavoro: si tratta, infatti, nel suo caso di creazione di strutture narrative basate su idee filosofiche, strutture narrative che finiscono per trasfigurare e nascondere quell’idea filosofica originaria che quasi non è più possibile riuscire a cogliere e riconoscere im-mediatamente (Cfr. J. Nuño, La filosofia en Borges, Reverso, Barcelona 1986, 15).

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suna è definitiva, ciò che sembra però percorribile ed interes-sante è l’individuazione nella trasposizione narrativa di quelle originarie idee filosofiche che ispirano la sua creazione lettera-ria. Queste ultime talvolta sono suggerite dallo stesso autore in quel gioco citazionistico che caratterizza la sua prosa, talvolta reggono, invece, in modo implicito le sue costruzioni narrative. Nel presente contributo si intende mostrare come il pensiero di Nietzsche sul tema della memoria abbia costituito un motivo di influenza implicito per la creazione letteraria borgesiana.

Riferimenti espliciti alla filosofia nietzscheana percorrono in più luoghi le opere di Borges, caratterizzando non solo la sua produzione letteraria, ma anche quella saggistica, e si concen-trano attorno al concetto di tempo4, problema che, essendo per lo scrittore argentino centrale nella storia della metafisica, non può che essere centrale anche nella narrativa, giacché narrativa e metafisica si differenziano per lo stile di scrittura che le ca-ratterizza, ma non per le metafore che le animano5. La pagina borgesiana, dai primi saggi degli anni Trenta, ai racconti degli anni Quaranta, alle ultime raccolte di poesie degli anni Settanta e Ottanta, è percorsa dalla suggestione che su di lui ebbero l’e-ternità ed incorruttibilità degli archetipi platonici, la perpetua corsa di Achille e della Tartaruga, negazione del movimento, e, dunque, dello spazio e del tempo, l’ipotesi di Bradley secondo

4 Tra i contributi che tematizzano il rapporto tra Borges e Nietzsche riman-diamo principalmente a S. sáNchez, Borges lettore di Nietzsche e Carlyle, tradu-zione italiana e nota introduttiva di G. caMPioNi, ETS, Pisa 2018 e M. sch-Mitz-eMaNs, Nietzsche und Borges, in Nietzsche im Exil. Übergänge in gegenwärtiges Denken, Verlag Hermann Böhlaus Nachfolger, Weimar 2001, 137-163.5 Cfr. J. aLazraki, La prosa narrativa de Jorge Luis Borges, Temas – Estilo, Edito-rial Gredos, Madrid 1968, 83. In un saggio contenuto in Altre inquisizioni Bor-ges scrive che «forse la storia universale è la storia della diversa intonazione di alcune metafore» ( J. L. Borges, La sfera di Pascal, in Altre inquisizioni, 914).

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cui il tempo non sia il fiume che dal passato corre verso l’avve-nire, ma un fiume che dal futuro corre verso il presente, l’eterno ritorno nietzscheano e, prima ancora, quello dei pitagorici.

Strettamente connesso al problema del tempo è il tema del-la memoria, la capacità di conservare nella forma del ricordo e della rievocazione gli stimoli dell’esperienza esterna calata nella dimensione temporale. Tra le possibili ricorrenze di tale tematica nella produzione borgesiana il racconto Funes, o della memoria (Funes el memorioso) costituisce sicuramente l’esempio più celebre e peculiare. Proprio in questo racconto, come si intende mostrare, la creazione letteraria di Borges in relazione al tema della memoria sembra convergere con la riflessione filosofica di Nietzsche.

Il racconto, definito dallo stesso autore come «una lunga metafora dell’insonnia»6, legato ad un’esperienza vissuta in prima persona dall’autore7 e incluso nella seconda parte pubblicata nel

6 J. L. Borges, Premessa, in Artifici, in Finzioni, 705. 7 In occasione di una serie di incontri radiofonici con Georges Charbonnier, registrati nel corso di un suo viaggio a Parigi nel novembre del 1964, Borges spiega più dettagliatamente la situazione che lo portò a scrivere tale raccon-to, chiarificandone il senso ultimo e presentando immediatamente la stretta correlazione tra insonnia ed incapacità d’oblio che è al cuore del racconto: «Sono stato indotto a scrivere questa storia perché ho attraversato lunghi periodi d’insonnia. Come tutti. Volevo dormire e non potevo dormire. Per dormire bisogna dimenticare un poco le cose. In quel tempo – durò abba-stanza – non potevo dimenticare. Chiudevo gli occhi, ed immaginavo, ad occhi chiusi, nel mio letto. Immaginavo i mobili, gli specchi, immaginavo la casa – era una grande casa malandata, nel sud di Buenos Aires. Immaginavo il giardino, immaginavo le piante. In quel giardino c’erano delle statue. Per liberarmi da tutto ciò scrissi la storia di Funes, che è una specie di metafo-ra dell’insonnia, della difficoltà o impossibilità di abbandonarsi all’oblio». La traduzione italiana del passo è tratta da G. geNot, Borges, La Nuova Italia, Firenze 1969, 75. Sul carattere davvero stupefacente della memoria di Borges ha modo di insistere il curatore dell’edizione italiana delle sue

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1944 della già citata raccolta Finzioni8, presenta una delle più riuscite “finzioni” borgesiane, uno dei suoi più famosi “artifici”, incarnato dalla figura del giovane uruguayano Ireneo Funes, ef-ficacemente presentato come «un precursore dei superuomini, “uno Zarathustra selvatico e vernacolare”»9. È proprio l’asso-ciazione della figura di Funes a termini come «superuomo» e «Zarathustra» a suggerire un riferimento esplicito ed immedia-to al pensiero di Nietzsche, riferimento che nel proseguo della narrazione resta invece piuttosto implicito10.

opere, Domenico Porzio: «una memoria prodigiosa, nutrita da molteplici esperienze culturali, occidentali ed orientali, vigilata e accompagnata da una provocatoria reattività creativa» (D. Porzio, Introduzione a Borges, in J.L. Borges, Tutte le opere, vol. I, XII).8 Il racconto apparve inizialmente nel giugno del 1942 sul quotidiano ar-gentino La Nación, per poi aprire la sezione intitolata Artifici di Finzioni. Cfr. J.L. Borges, Funes, o della memoria, in Finzioni, 707-715.9 Ivi, 707. L’espressione «uno Zarathustra selvatico e vernacolare» viene ascritta da Borges al poeta uruguayano Pedro Leandro Ipuche. Si tratta probabilmente di una delle numerose citazioni apocrife, attribuite ad autori esistenti e non, di cui Borges si serve nella sua prosa per creare una maglia letteraria in cui realtà e finzione, zelo bibliografico ed assoluta arbitrarietà, risultano confusi ed inscindibili. Si pensi, solo a titolo d’esempio, al più che noto e già citato racconto Pierre Menard, autore del «Chisciotte», contenuto nella medesima raccolta Finzioni, su cui tanto la critica ha dibattuto in merito all’intreccio tra opera d’arte e autorialità, realtà e finzione, «scrittura e let-tura come momenti concomitanti e indispensabili all’accadimento del fatto estetico» (Porzio, Introduzione, XIII).10 Un ulteriore riferimento da non trascurare è quello suggerito dal nome Ireneo, associato alla figura del vescovo e teologo romano Ireneo di Lione, il cui pensiero ricorre nella Storia dell’eternità di Borges. In questo saggio lo scrit-tore argentino sottolinea come ad Ireneo, in relazione al dogma trinitario e alle dispute teologiche che vi si concentrarono, si debba la nostra concezione di un’eternità senza tempo in cui coesistono contemporaneamente passato, presente e futuro: «il doppio processo – generazione del Figlio dal Padre, emissione dello Spirito dai due – non avvenne nel tempo, bensì esaurisce in una sola volta il passato, il presente e il futuro. […] Generazione eterna del Figlio, processione eterna dello Spirito, è la superba decisione di Ireneo:

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Nel racconto borgesiano, attraverso la descrizione del suo singolare personaggio, sembrano potersi intersecare varie fon-damentali tematiche relative al nodo focale della memoria: dal-la relazione tra percezione e memorizzazione al rapporto tra riproposizione linguistica universale e oggetto particolare, dal problema classificatorio ed organizzativo della traccia mnesti-ca alla focalizzazione sulla necessità dell’oblio, spazio liberato dal sovraffollamento percettivo e rammemorante, entro cui solo può darsi la possibilità dell’azione e dunque della dimensione pratico-collettiva dell’esistenza, tutte tematiche che caratteriz-zano anche la riflessione nietzscheana intorno al problema della memoria.

Prima che un cavallo lo travolgesse e lo costringesse alla paralisi, come racconta Borges, Ireneo Funes «era stato ciò che sono tutti i cristiani: un cieco, un sordo, uno stordito, uno sme-morato»11. In tutta la sua breve vita fino ad allora, come gran parte degli uomini, «aveva vissuto come chi sogna: guardava senza vedere, ascoltava senza udire, dimenticava tutto o quasi tutto»12. In altri termini Funes non era stato capace di trattene-re l’esperienza nella sua complessità, molteplicità ed esattezza. Ma, in seguito all’incidente, la sua percezione e la sua memoria erano divenute, invece, assolutamente infallibili, perfette, fedeli ed estese ad ogni aspetto della realtà, totali e totalizzanti: «il pre-sente era quasi intollerabile tanto era ricco e nitido, e così pure i

invenzione di un atto senza tempo, di un mutilato zeitloses Zeitwort, che pos-siamo gettare via o venerare, ma non discutere» ( J. L. Borges, Storia dell’e-ternità, in Tutte le opere, vol. I, 532-533). L’associazione alla figura di Ireneo di Lione sembra poter focalizzare ulteriormente l’attenzione sul modo di vivere il tempo del giovane uruguayano Funes.11 Borges, Funes, o della memoria, 711.12 Ivi, 712.

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ricordi più antichi e banali»13. Funes era quindi passato da un’e-sperienza della temporalità e della memoria piuttosto lacunosa, ad una estremamente dettagliata e vivida. Ogni singola perce-zione restava, infatti, impressa, indelebile e distinta, in qualsiasi momento riattingibile, nella sua straordinaria memoria:

«Noi in un’occhiata percepiamo: tre bicchieri su una tavola. Funes: tutti i grappoli e gli acini di una pergola. Sapeva le forme delle nubi australi dell’alba del 30 aprile 1882, e pote-va confrontarle, nel ricordo, con la copertina marmorizzata d’un libro che aveva visto una sola volta, o con le spume che sollevò un remo, nel Rio Negro, la vigilia della battaglia di Quebracho. […] Un cerchio su una lavagna, un triangolo rettangolo, un rombo, sono forme che noi possiamo intuire pienamente; allo stesso modo Ireneo vedeva i crini rabbuf-fati di un puledro, una mandria innumerevole in una sierra, i tanti volti di un morto durante una lunga veglia funebre. Non so quante stelle vedeva nel cielo»14.

Tanto limpida, fedele e non selettiva era la sua capacità di ri-cordare, che per ricostruire una giornata impiegava un’intera giornata, reduplicando quindi fedelmente quanto aveva già vis-suto, riattualizzando il passato nel presente dell’esperienza ram-memorante. Ogni immagine visiva richiamata alla memoria era infatti accompagnata da impressioni riconducibili ad altre sfere sensoriali, e si estendeva, quindi, alla pienezza dell’esperienza nella sua totalità: più che ricordare, Funes era capace, e condan-nato, a ri-vivere l’esperienza precedentemente vissuta.

Due erano i progetti che Funes si era proposto di portare a termine, sfruttando le potenzialità della sua prodigiosa memo-ria. Il primo consisteva nell’elaborazione di un nuovo e origi-

13 Ibidem.14 Ibidem.

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nale sistema di numerazione, secondo il quale ad ogni numero dovesse corrispondere un nome specifico ed unico (e non più, quindi, un sistema basato sulla classificazione in unità, decine, centinaia, ecc.): ogni numero risultava quindi essere un indivi-duo a sé, autonomo, slegato, assoluto. Il progetto di Funes, l’i-deazione di un «vocabolario infinito per la serie naturale dei numeri»15, concentrato sulla sottolineatura della specificità e singolarità di ogni ente numerico – così come di ogni oggetto del reale – sembrava corrispondere alla sostituzione della mathe-sis universalis con una mathesis singularis16. Traendo spunto da un proposito, poi rifiutato, di Locke, Funes pensava ad «un idioma in cui ogni singola cosa, ogni pietra, ogni uccello e ogni ramo avesse un nome proprio»17, un linguaggio perfettamente ade-rente alla cosa, rispecchiamento fedele e compiuto della realtà, una sorta di clavis fondata, però, non sull’idealità e sull’universa-lità, bensì sulla singolarità18.

15 Ivi, 714.16 Tale espressione è tratta da un passo di Roland Barthes che, suggestionato dal medesimo proposito, scriveva: «In questa controversia tutto sommato convenzionale tra la soggettività e la scienza, maturai un’idea bizzarra: per-ché mai non avrebbe dovuto esserci, in un certo senso, una nuova scienza per ogni oggetto? Una Mathesis singularis (e non più universalis)?» (R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, a cura di R. Guidieri, Einaudi, Torino 1980, 10).17 Borges, Funes, o della memoria, 713. 18 Se, come spiega Paolo Rossi, «il termine clavis universalis fu impiegato, fra il Cinquecento ed il Seicento, a indicare quel metodo o quella scienza gene-ralissima che pongono l’uomo in grado di cogliere, al di là delle apparen-ze fenomeniche o delle “ombre delle idee”, la trama ideale che costituisce l’essenza della realtà», in modo da «decifrare l’alfabeto del mondo; riuscire a leggere, nel gran libro della natura, i segni impressi dalla mente divina; scoprire la piena corrispondenza tra le forme originarie e la catena delle umane ragioni; costruire una lingua perfetta capace di eliminare gli equi-voci e di svelare le essenze mettendo l’uomo a contatto non con i segni, ma

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Il progetto di Funes sembrava corrispondere ad un nomina-lismo portato fino alle sue più estreme conseguenze, in cui non solo gli universali linguistici non potevano godere di una consi-stenza ontologica in quanto flatus vocis, ma in cui veniva meno il presupposto stesso dell’universale linguistico, ovvero quello di essere predicabile di più cose. Nell’opera borgesiana molteplici sono i riferimenti alla contrapposizione tra teoria realista e teo-ria nominalista, e anche la sua visione oscilla tra le due correnti di pensiero. Sebbene sia rintracciabile in Borges una certa sfidu-cia nelle possibilità umane di restituire, attraverso il linguaggio, l’ordine del mondo, resta evidente la fascinazione anche solo per la sua mera possibilità concettuale19. Nel nominalismo in-

con le cose; dar luogo ad enciclopedie totali, a ordinate classificazioni che siano lo specchio fedele dell’armonia presente nel cosmo» (P. rossi, Clavis universalis. Arti mnemotecniche e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, Ricciardi, Napoli 1960, IX), l’impresa proposta da Borges sembra, pur rimanendo me-desimo l’intento – ovvero l’ideazione di un linguaggio in cui perfetta sia la corrispondenza tra nome e cosa – essere condotta solo mediante il rifiuto di ogni generalizzazione e ogni universalità, in direzione di una sottolineatu-ra proprio del fondamentale carattere dell’apparenza fenomenica, non più mera “apparenza”, bensì essa stessa plurale essenza.19 In un saggio contenuto in Altre inquisizioni Borges giunge a individuare nelle due posizioni due fondamentali modi di intuire la realtà: «Osserva Co-leridge che tutti gli uomini nascono aristotelici o platonici. Gli ultimi intui-scono che le idee sono realtà; i primi, che sono generalizzazioni; per questi, il linguaggio non è altro che un sistema di simboli arbitrarî; per quelli, è la mappa dell’universo. Il platonico sa che l’universo è in qualche modo un cosmo, un ordine; codesto ordine, per l’aristotelico, può essere un errore o una finzione della nostra conoscenza parziale. Attraverso le latitudini e le epoche, i due antagonisti immortali cambiano di lingua e di nome: uno è Parmenide, Platone, Spinoza, Kant, Francis Bradley; l’altro, Eraclito, Ari-stotele, Locke, Hume, William James. […] Com’è da supporre, tanti anni moltiplicarono all’infinito le posizioni intermedie e i distinguo; si può, tutta-via, affermare che per il realismo il primordiale erano gli universali (Platone direbbe le idee, le forme; noi, i concetti astratti), e per il nominalismo, gl’in-dividui. La storia della filosofia non è un vano museo di distrazioni e giuochi

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carnato dal personaggio di Funes non solo, come nel nominali-smo medievale, l’universale non poteva che essere considerato come un arbitrio linguistico dettato dalla convenzione umana e quindi non dotato di intrinseca realtà: il nominalismo di Fu-nes era più radicale ed estremo. Con il proposito dell’ideazione di un linguaggio in cui ad ogni cosa fosse associato un nome specifico egli, infatti, finiva per negare non solo la realtà, ma anche la possibilità logica stessa di un universale. Ma ben presto mise da parte questo intento, considerandolo «troppo generico, troppo ambiguo», giacché egli ricordava «non solo ogni foglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ognuna delle volte che l’aveva percepita o immaginata»20. Per Funes, quindi, non solo veniva meno l’universale linguistico, poiché ad ogni cosa, per poterla efficacemente nominare, doveva corrispondere un nome, ma il concetto stesso di “cosa”, di ente, era messo in di-scussione e veniva a cadere, proprio perché la sua percezione e la sua memoria non prevedevano alcuna possibilità di associare ad un unico nome qualcosa di caratterizzato dalla temporalità e quindi dalla permanenza nella mutevolezza del tempo.

Ogni singolo ente risultava costituito da una molteplicità non riconducibile ad unità, mostrandosi quindi in una ridda di individui differenti, oggetti distinti per la percezione di Funes. Nel sovraffollamento percettivo del giovane non trovava spazio

verbali; verosimilmente, le due tesi corrispondono a due maniere d’intuire la realtà» ( J. L. Borges, Altre inquisizioni, in Tutte le opere, vol. I, 1055-1056). Sul pensiero nominalista nell’opera di Borges rimandiamo a J. rest, El laberinto del universo. Borges y el pensamiento nominalista, Eterna Cadencia, Buenos Aires 2009 che, più nello specifico, interpreta il racconto borgesiano come una riabilitazione del pensiero platonico e delle generalizzazioni in esso impli-cite, che, sebbene imperfette, permettono all’uomo l’organizzazione di un linguaggio e, dunque, di una vita socialmente intesa.20 Borges, Funes, o della memoria, 713.

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la possibilità di un riconoscimento dell’identità nella tempora-lità, del permanere della sostanza individuale al mutare degli accidenti, presupposto indispensabile per il pensiero astratto e l’astrazione linguistica ad esso connessa. Come Borges scrive, «non solo gli era difficile comprendere come il simbolo generico “cane” potesse designare un così vasto assortimento di individui diversi per dimensioni e per forma; ma anche l’infastidiva che il cane delle tre e quattordici (visto di profilo) avesse lo stesso nome del cane delle tre e un quarto (visto di fronte)»21. Nel mondo sovrabbondante di Funes trovava spazio solo l’incessante fluire dell’apparenza fenomenica: la sua realtà sembrava essere me-ramente accidentale, priva della possibilità di individuare per mezzo di astrazione quella sostanza che permane nel cambia-mento. Ma un linguaggio che potesse reduplicare fedelmente l’infinita molteplicità del mondo puramente fenomenico, un lin-guaggio, quindi, che facesse getto dell’identità dell’oggetto, del suo permanere nel tempo, della sua sussistenza nel susseguirsi delle molteplici manifestazioni sensibili risultava impossibile, una mera contraddizione in termini, la negazione del presup-posto universalistico, generalizzante e classificatorio alla base del concetto stesso di linguaggio.

Il secondo proposito che aveva animato le lente e solitarie giornate di Funes consisteva in un catalogo mentale delle im-magini della memoria, organizzato nella numerazione di set-tantamila ricordi per ogni giorno della sua vita. Ma ben presto abbandonò anche questo intento: a dissuaderlo furono la vanità e l’interminabilità del progetto, oltre che l’amara consapevolez-za e considerazione che non avrebbe ancora terminato di cata-logare i ricordi dell’infanzia per l’ora della sua morte.

21 Ivi, 714.

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Ma con molta probabilità ciò che maggiormente colpisce e che immediatamente richiama l’attenzione del lettore è che Borges sottolinei come il protagonista del suo racconto sia un individuo «quasi incapace di idee generali, platoniche»22. Nono-stante Funes nella finzione narrativa borgesiana riuscisse ad im-parare con facilità nuovi idiomi (senza grandi sforzi aveva infatti appreso l’inglese, il francese, il portoghese e il latino), il sospetto che poteva trarre chi vi si rapportava è che «non fosse molto capace di pensare»23. Borges collega quindi nella sua narrazione la questione della memoria a quella del linguaggio e a quella ancora più generale del pensiero.

Perché Funes è inadatto al pensiero? Come già accennato, la ricchezza percettiva del giovane e la sua straordinaria capaci-tà mnestica gli impedivano di operare un passaggio, un transito dal particolare sensibile all’universale linguistico e concettuale, di operare una “sintesi del molteplice”. Impossibile un universa-le, impossibile una sostanza individuale, impossibile un linguag-gio, impossibile in ultima analisi un pensiero, proprio perché quest’ultimo si fonda su di un linguaggio astratto e universaliz-zante, a sua volta costruito attorno ad una concezione dell’iden-tità della sostanza nel mutare degli accidenti.

Ma per approfondire ulteriormente la relazione tra memo-ria, linguaggio e pensiero che la descrizione del personaggio del racconto borgesiano suggerisce sembra utile riferirsi ad alcune riflessioni di Nietzsche sul problema della memoria, riflessioni che mostrano un’interessante corrispondenza e consonanza con

22 Ibidem.23 Ivi, 715.

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le pagine dello scrittore argentino24. In tal modo sembra possi-bile non sono arricchire sulla base di differenti focalizzazioni e tagli prospettici l’idea di fondo che sorregge la creazione lette-raria di Borges, ma anche motivare, attraverso la presentazione diretta dell’argomentazione nietzscheana, la tesi del presente contributo, secondo cui il pensiero del filosofo di Basilea sul pro-blema della memoria costituirebbe un implicito riferimento del racconto borgesiano.

24 Sulle ascendenze filosofiche di Borges molto è stato detto. Sebbene lo scrit-tore argentino avesse eletto Schopenhauer, «l’appassionato e lucido Scho-penhauer» (Borges, Storia dell’eternità, 528), quale suo riferimento filosofico privilegiato, giungendo a dichiarare che «se l’enigma dell’universo potes-se essere espresso in parole, quelle parole si troverebbero nei suoi scritti» (Abbozzo di autobiografia, a cura di N. T. Di Giovanni, in appendice a J. L. Borges, Elogio dell’ombra, Einaudi, Torino 1971, 148), molti sono i pensatori della tradizione filosofica occidentale ai quali Borges fa riferimento. Come abbiamo già accennato, il pensiero di Nietzsche è un punto di riferimento per lo scrittore in particolar modo per la sua elaborazione della negazione del tempo lineare contenuta in Storia dell’eternità e in Altre inquisizioni e nella confutazione della teoria dell’eterno ritorno mediante l’analisi matematica che Borges propone sulla base del pensiero di Cantor. Sul tema rimandiamo principalmente a C. U. MouLiNes, El idealismo más consecuente según Borges: La negación del tiempo, in F. De toro - a. De toro (a cura di), Jorge Luis Bor-ges. Pensamiento y saber en el siglo 20, Iberoamericana, Madrid 1999, 179-187; J. VaN cLeVe, Borges’s two refutation of time, in «Philosophic Exchange», 31, 2000-2001, 55-68; iD., Time, idealism, and the identity of indiscernibles, in Langua-ge and mind, 16 (2002), 379-393; E. höfNer, Unos aspectos del problema del tiempo en la obra de J.L. Borges: un eclétictico entre Platón y la teoría de la relatividad, in De toro - De toro, Jorge Luis Borges, 223-257; P. R. MoLas, Tiempo y narración. Enfoques de la temporalidad en Borges, Carpentier, Cortázar y García Márquez, Ma-drid 1978. Più in generale sul rapporto tra Borges e la filosofia rimandiamo principalmente a F. Brezzi, Nel labirinto del pensiero. Borges e la filosofia, ETS, Pisa 2014; M. BarisoN (a cura di), Borges. Labirinti immaginari, Mimesis, Mi-lano 2011; R. QuiLLiot, Borges ou l’étrangété du monde, Presses universitaires, Strasbourg 1991; S. chaMPeau, Borges et la métaphysique, Vrin, Paris 1990.

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In Su verità e menzogna in senso extramorale, illuminante scritto giovanile del 1873, considerato da Nietzsche come un pro-me-moria circa il suo pensiero non-morale, quindi teoretico, sulla morale, il filosofo tedesco espone una concezione metaforica della realtà, intesa prospettivisticamente come risultato, mai concluso, dell’originaria facoltà metaforizzatrice dell’uomo, ca-pace di creare immagini, suoni, parole, concetti, in occasione di stimoli nervosi, privi anch’essi, come le altre metafore, di un reale ed intrinseco rapporto causale con le cose stesse. Il concet-to di verità, secondo la prospettiva di Nietzsche, coinciderebbe con l’illusione linguistica che sta all’origine convenzionale o co-munque consuetudinaria – e quindi perciò menzognera – del-la convivenza umana. Il processo di transizione da originaria menzogna a riconosciuta e condivisa verità può cristallizzarsi solo perché di quest’ultima viene obliato il carattere illusorio. Indissolubilmente legata alla verità sorge, dunque, la menzogna. Verità e menzogna nascono non solo intrecciate assieme, ma si mostrano quali volti della medesima realtà illusoria. La menzo-gna, infatti, non riguarda soltanto specificamente il mentitore e il contenuto del suo enunciato, ma, da una prospettiva più strutturale, essenziale e fondamentale, essa caratterizza la gene-rale costituzione stessa della verità, che risulta poggiare su una convenzione comune intrinsecamente menzognera. La verità può divenire verità condivisa solo dopo che ne sia stata obliata l’origine non veritiera, solo dopo che ne sia disconosciuta la sua originaria menzogna.

In un passo, sul quale è interessante soffermarsi diretta-mente, Nietzsche spiega che la nostra conoscenza delle cose non è altro che una conoscenza metaforica di esse, conoscenza che non scaturisce dalla loro originaria essenza: «noi crediamo

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– scrive il filosofo – di sapere qualcosa sulle cose stesse, quando parliamo di alberi, di colori, di neve e di fiori, eppure non posse-diamo nulla se non metafore delle cose che non corrispondono affatto alle essenze originarie»25. Da una parte, quindi, stanno le cose nella loro originaria essenza, dall’altra il nostro parlare di esse.

Nietzsche si sofferma poi a descrivere come sorga il proces-so di formazione dei concetti:

«Ogni parola diventa senz’altro un concetto, per il fatto che essa non è destinata a servire eventualmente per ricordare l’esperienza primitiva, non ripetuta e perfettamente indivi-dualizzata, ma deve adattarsi al tempo stesso a innumere-voli casi più o meno simili, cioè – a rigore – mai uguali, e quindi a casi semplicemente disuguali. Ogni concetto sorge con l’equiparazione di ciò che non è uguale. Se è certo che una foglia non è mai perfettamente uguale a un’altra, altrettanto certo è che il concetto di foglia si forma mediante un arbitrario lasciar cadere queste differenze individuali, mediante un dimenticare l’elemento discriminante, e suscita poi la rappresentazione che nella natura, all’infuori delle foglie, esiste un qualcosa che è «foglia», quasi una forma primordiale, sul modello della quale sarebbero tessute, disegnate, circoscritte, colorate, in-crespate, dipinte – ma da mani maldestre – tutte le foglie, in modo tale che nessun esemplare risulterebbe corretto e at-tendibile in quanto copia fedele della forma originale. […] Il trascurare ciò che vi è di individuale e di reale ci fornisce il concetto, allo stesso modo che ci fornisce la forma, mentre la natura non conosce invece nessuna forma e nessun concetto, e quindi neppure alcun genere, ma soltanto una x, per noi inattingi-bile e indefinibile»26.

25 F. W. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, in Opere di Friedrich Nietzsche, edizione italiana diretta da G. coLLi e M. MoNtiNari, vol. III, tomo II, Adelphi, Milano 1973, 359-360.26 Ivi, 360-361, corsivi nostri.

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Ciò che è vero viene designato attraverso una comparazione di ciò che di per sé non è comparabile: la molteplicità del feno-menico. I sensi ci si presentano solo con la differenza, mai con l’identità. Per raggruppare gli enti entro categorie linguistiche, ovvero nomi, è necessario per Nietzsche dimenticare le diffe-renze tra le singolarità percepite. Una volta che siamo riusciti a raggruppare cose simili, a dimenticare le differenze individua-lizzanti esistenti tra di esse, possiamo concepire la possibilità di molteplici entità identiche, mettendo in moto il pensiero astrat-to. Tale pensiero non si riconnette all’esperienza originaria, in-dividuale e particolare, ma deve astrarre da essa proprio per potersi adattare alla ridda di esperienze simili, analoghe, e in quanto tale in ultima analisi diverse, disuguali: il pensiero, ovve-ro questo processo di oblio delle differenze specifiche tra le cose su cui si fonda la concettualizzazione, implica quindi tradire il senso originario, le «essenze originarie» delle cose. In questo passo è possibile cogliere l’antiplatonismo di Nietzsche, secon-do cui solo in base all’oblio delle differenze specifiche degli enti che porterebbe al processo di concettualizzazione prenderebbe parallelamente piede la «rappresentazione» dell’esistenza delle idee come modelli eterni, universali e perfetti della imperfetta realtà.

Poco dopo Nietzsche aggiunge:

«Solo quando l’uomo dimentica quel primitivo mondo di metafore, solo quando la massa originaria di immagini – che sgorgano con ardente fluidità dalla primordiale facoltà della fantasia umana – si indurisce e irrigidisce, solo quando si crede, con una fede invincibile, che questo sole, questa finestra, questo tavolo siano verità in sé: in breve, solo quando l’uo-mo dimentica se stesso in quanto soggetto, e precisamente in quanto soggetto artisticamente creativo, solo allora egli può

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vivere con una certa calma, sicurezza e coerenza. Se egli potesse uscire soltanto per un attimo dalle mura segregatrici di questa fede, la sua «autocoscienza» si dissolverebbe allora d’un tratto»27.

Per Nietzsche è necessario dimenticare non soltanto per giunge-re alla formulazione di tutti i concetti, ma, soprattutto, a partire da una prospettiva che riguarda non più il contenuto, ma l’atto stesso della concettualizzazione, perché si dia “verità”, è neces-sario dimenticare che ognuno di noi è «un soggetto artisticamente creativo», che compie l’operazione di dimenticare per giungere all’universale linguistico. Se dimenticare le differenze specifiche tra le cose permette di poterle generalizzare nella forma lin-guistica, dimenticare l’artificialità tutta umana di questo stesso processo creativo-formativo retto sull’oblio è quella condizione ancora più generale che rende possibile l’azione stessa dell’o-blio e dunque quella susseguente generalizzazione linguistica. Se noi, infatti, secondo Nietzsche ricordassimo il processo at-traverso il quale generalizziamo a partire dal particolare, se noi ricordassimo e avessimo sempre ben presente che perveniamo al concetto solo attraverso un oblio delle differenze specifiche tra le cose, dovremmo anche ricordare che tutti i nostri concetti sono meramente metaforici e arbitrari, e che ciò che è “vero” dovrebbe rimanere esclusivamente nel particolare, differenzia-to – linguisticamente intraducibile e incomunicabile – mondo dei sensi, delle «essenze originarie» che non corrispondono alle idee platoniche, ma ne rappresentano piuttosto la negazione di possibilità.

27 Ivi, 364-365.

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Ciò che si considerava essere l’origine del pensiero, la veri-tà, non ne sarebbe che la distruzione; ciò che si riteneva essere un allontanamento da un retto pensare, l’oblio, se ne mostre-rebbe, invece, quale fondamento. Pensare è uguagliare ciò che non è uguale, che resta non uguale, e che viene conosciuto so-lamente per quel tanto di uguale che ha con qualcosa di fat-to diverso. Pensare è limitarsi a ciò che c’è di comune fra cose assolutamente diverse; pensare è allontanarsi dalla realtà nella sua specificità, nella sua poliedricità, nella sua vivacità, e obliare questo stesso allontanamento; pensare è astrarre, dimenticare una differenza: pensare, potremmo con Borges, è una finzione.

Risulta allora evidente perché Funes fosse incapace di pensare, fosse incapace di «idee generali, platoniche»: la sua eccezionale memoria, in una direzione schiettamente anti-pla-tonica, sempre vigile nel registrare ogni singolarità, ogni par-ticolarità, gli impediva di dimenticare le differenze tra le diverse individualità, oblio che avrebbe permesso una loro concettualiz-zazione ed universalizzazione in direzione dell’idea, dell’univer-sale linguistico, e gli impediva di dimenticare se stesso in quanto «soggetto artisticamente creativo»: da qui l’insofferenza del giovane nei confronti di qualsiasi sistema di numerazione che non enfatizzasse il suo stesso carattere arbitrario e che dimenticasse la sua matrice artificiale, creativa28: Funes non poteva dimenti-care di essere fautore di quel processo creativo e dunque in ul-tima analisi artificiale alla base di ogni linguaggio. «Nel mondo sovraccarico di Funes non c’erano che dettagli, quasi immedia-

28 «Cercai di spiegargli che questa rapsodia di voci sconnesse era precisa-mente il contrario di un sistema di numerazione. Gli feci osservare che dire 365 è dire tre centinaia, sei decine, cinque unità: analisi che non è possibile con i “numeri” “Il Negro Timoteo o Mantello di carne”. Funes non mi sentì o non volle sentirmi» (Borges, Funes, o della memoria, 713).

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ti»29: Funes viveva in un’assoluta fedeltà percettiva al mondo, in quella nietzscheana “verità” originaria non ancora corrotta dalla dialettica con la menzogna. Ma il necessario contraccolpo di tale condizione era rappresentato dall’incapacità di astrazio-ne: Funes, ridotto alla paralisi dall’incidente, sembrava essere imprigionato dalla sua stessa memoria.

Sia Borges sia Nietzsche (o sarebbe forse meglio dire Borges sulla scorta di Nietzsche) suggeriscono, dunque, come il potere dell’astrazione sia funzione della capacità della mente di “tra-scurare”, come sia possibile evidenziare un inestricabile rappor-to tra pensiero ed oblio.

Ma il ricorso a Nietzsche permette di comprendere anche perché Borges colleghi la straordinaria memoria di Funes alla paralisi e all’insonnia.

Se in Su verità e menzogna in senso extramorale emerge, infatti, un approccio teoretico all’oblio, e al sorgere del linguaggio su di esso fondato, in apertura al secondo saggio, Colpa, Cattiva co-scienza e simili, contenuto nella Genealogia della morale, Nietzsche, ponendo la capacità dell’uomo di «fare promesse» come centra-le problema da indagare, offre, invece, una riflessione sul potere attivo del dimenticare, spostando quindi il discorso dalla dimen-sione prettamente teoretica a quella pratica:

«Dimenticare non è una semplice vis inertiae, come ritengo-no i superficiali, ma piuttosto una facoltà attiva, positiva nel senso più rigoroso, d’inibizione, cui è da ascriversi la circo-stanza che qualsiasi cosa venga da noi vissuta, sperimentata, assunta nella nostra intimità, entra tanto poco nella nostra coscienza nello stato di digestione (si potrebbe chiamarlo «appropriazione spirituale») quanto poco vi entra l’inte-

29 Ivi, 715.

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ro multiplo processo con cui si svolge il nostro nutrimento corporeo, la cosiddetta «assimilazione». Chiudere di tanto in tanto porte e finestre della coscienza; restare indisturbati dal rumore e dalla lotta con cui il mondo sottostante degli organi posti al nostro servizio svolge la sua collaborazione od opposizione; un po’ di silenzio, un po’ di tabula rasa della coscienza, affinché vi sia ancora posto per il nuovo, soprat-tutto per le funzioni e i funzionari più nobili, per governare, per prevedere, per predeterminare (il nostro organismo è infatti organizzato oligarchicamente) – è questo il vantaggio – come si è detto – della dimenticanza attiva, una guardiana per così dire, una sorvegliante dell’ordine spirituale: per cui occorrerà subito considerare in che senso nessuna felicità, nessuna serenità, nessuna speranza, nessuna fierezza, nessun presente potrebbe esistere senza capacità di dimenticare»30.

Se nel suo scritto giovanile il conoscere fondato sulla concettua-lizzazione, seppur considerato come mezzo di autoconservazio-ne dell’uomo, è presentato come un inganno, ed un’infallibile memoria, capace di non dimenticare le differenze specifiche tra le singole cose, sembrerebbe esser più aderente alla vita, alla realtà, ad una verità originaria, qui Nietzsche sottolinea, inve-ce, l’aspetto strettamente positivo dell’oblio, relativo alla sua di-mensione attiva. Senza possibilità di dimenticare non ci sarebbe neppure possibilità di fare spazio al nuovo. Nessun futuro, nes-sun presente sarebbe possibile senza un almeno parziale oblio del passato. Il dimenticare, quindi, quel dimenticare attivo che fa spazio al darsi del presente, è forse ancora sempre una men-zogna, ma una menzogna funzionale alla vita.

Conclusioni analoghe emergono da passo di un saggio di Borges, La postulazione della realtà, contenuto in Discussione, che di

30 F. W. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VI, tomo II, Adelphi, Milano 1972, 255.

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svariati anni precede la raccolta Finzioni31, e che sembra quasi anticipare alcune delle tematiche connesse al racconto Funes:

«L’imprecisione è tollerata o verosimile nella letteratura, perché all’imprecisione siamo sempre propensi nella real-tà. La semplificazione concettuale di stati complessi è spes-so un’operazione istantanea. Il fatto stesso di percepire, di fare attenzione è di carattere selettivo: ogni attenzione, ogni nostra fissazione della coscienza, comporta una deliberata omissione di ciò che non ci interessa. Vediamo e ascoltiamo attraverso ricordi, paure, previsioni. Per quel che riguarda il corpo, l’incoscienza è una esigenza degli atti fisici. Il nostro corpo sa articolare questo difficile paragrafo, sa destreggiar-si con scale, con nodi, con passaggi a livello, con città, con fiumi violenti, con cani, sa attraversare una strada senza venire annichilito dal traffico, sa generare, sa respirare, sa dormire, sa forse uccidere: il nostro corpo, non la nostra in-telligenza. Il nostro vivere è una serie di adattamenti, cioè un’educa-zione all’oblio»32.

Non, dunque, l’intelligenza – e quindi il pensiero –, secondo questa prospettiva ulteriore, è capace di adattarsi maggiormen-te alla vita, facendo getto di una memoria onnicomprendente, bensì l’incoscienza che guida il corpo e che incamera automa-tismi sulla base dell’oblio dell’esperienza attuale, dell’impreci-sione del ricordo. Qui Borges sottolinea la natura selettiva della percezione, attribuendola ad un processo implicito ed incoscien-te che è alla base anche di atti fisici. Per Borges, quindi, l’oblio non può che essere funzionale alla vita.

31 Il saggio è infatti del 1931, mentre la raccolta Discussione uscì l’anno se-guente.32 J. L. Borges, La postulazione della realtà, in Discussione, in Tutte le opere, vol. I, 343, corsivo nostro.

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Già Nietzsche aveva sottolineato la stretta correlazione in-dividuabile tra felicità e capacità di dimenticare nella seconda delle sue Considerazioni Inattuali, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, sottolineando come a caratterizzare tanto la felicità minima quanto quella massima sia sempre la medesima cosa: «il poter dimenticare o, con espressione più dotta la capacità di sentire, mentre essa [la felicità] dura, in modo non storico». Come Nietzsche prosegue nella sua argomentazione, infatti, l’o-blio, ovvero il vivere non storicamente caratterizzato, è la con-dizione per la felicità propria e donata agli altri: «chi non sa mettersi a sedere sulla soglia dell’attimo dimenticando tutte le cose passate, chi non è capace di star ritto su un punto senza vertigini e paura come una dea della vittoria, non saprà mai che cosa sia la felicità, e ancor peggio, non farà mai alcunché che renda felici gli altri»33.

Nietzsche giunge a prefigurare quello che sarebbe stato l’a-maro destino, l’infelicità estrema, derivante da un eccesso di me-moria, di Funes. Quest’ultimo, sovraccarico di «senso storico», incapace di attivare la forza frenante e rinnovatrice dell’oblio, è incapace non solo di pensiero e di «idee generali, platoniche», ma è incapace anche di liberare spazio nella sua mente affinché il nuovo possa darsi: non riesce a concludere nulla, non può agi-re, giace, eterno prigioniero della sua percezione, paralizzato. Ma, seguendo le considerazioni di Nietzsche, la paralisi di Fu-nes potrebbe essere considerata come la paralisi di un mondo, di un intero mondo prostrato al culto della memoria, e, oramai, incapace d’azione, incapace di nuovo, incapace di vita.

33 F. W. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. III, tomo I, Adelphi, Milano 1972, 264, corsivo nostro.

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L’infermità del giovane uruguayano, non solo psichica (Fu-nes era incapace di astrarre dalla singola percezione particolare, incapace di pensare, incapace di procedere, di muoversi dal parti-colare all’universale), ma anche fisica (Funes guardava scorrere il mondo dall’immobilità del suo letto), non sarebbe altro che conseguenza dell’iperpotenziarsi della sua memoria che, ab-bracciando in modo totalizzante ogni aspetto del vissuto, non lasciava spazio al nuovo, alla possibilità dell’azione, alla vis activa, alla praxis. Non è allora forse solo un caso che, riacquisendo i sensi dopo la caduta, Funes in primo luogo notò la sua efficacia percettiva, e «solo dopo s’accorse della paralisi; la cosa appena l’interessò: ragionò (sentì) che l’immobilità era un prezzo mi-nimo; ora la sua percezione e la sua memoria erano infallibi-li»34. Borges presenta, quindi, l’una dopo l’altra l’infermità e la straordinaria capacità percettiva del suo personaggio, quasi a volerne sottolineare l’intima connessione.

Ma un altro passo tratto dalla Seconda inattuale di Nietzsche quasi stupisce per la sua affinità col personaggio borgesiano, e riesce a spiegarci non solo la paralisi di Funes, ma anche l’origi-ne della sua insonnia:

«Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non posse-desse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non cre-derebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sareb-

34 Borges, Funes, o della memoria, 712.

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be simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplice-mente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso sto-rico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà»35.

L’immagine nietzscheana di un uomo incapace «di alzare il dito», perché condannato dalla sua incapacità d’oblio ad un divenire senza sosta e alla privazione del sonno, non può non richiamare il personaggio del racconto di Borges: Funes, non può sottrarsi ad un perpetuo divenire, un divenire che nega e consuma se stesso, che contraddice senza interruzione un flusso continuo; Funes non può muoversi, giace paralizzato nel suo letto; Funes non riesce a dormire, non può riposarsi dall’attivi-tà di percezione e di memorizzazione di cose, dettagli, sempre diseguali, sempre diversi. Nel suo vertiginoso mondo non c’è spazio per una pausa della e dalla percezione che permetta una rielaborazione selettiva del vissuto in direzione dell’azione:

«Gli era molto difficile dormire. Dormire è distrarsi dal mondo; Funes, sdraiato sulla branda, nel buio, si figurava ogni scalfittura e ogni rilievo delle case precise che lo circon-davano. (Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso e vivo della nostra percezione d’un godimen-to o d’un tormento fisico). Verso est, in fondo al quartiere, c’era uno sparso disordine di case nuove, sconosciute. Funes le immaginava nere, compatte, fatte di tenebra omogenea; in questa direzione voltava il capo per dormire. Anche sole-

35 Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, 264, corsivi nostri.

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va immaginarsi in fondo al fiume, cullato e annullato dalla corrente»36.

Nella riflessione di Nietzsche sembra emergere una prospettiva composita in relazione al tema della memoria e dell’oblio. Da un punto di vista prettamente teoretico Nietzsche nel suo scritto giovanile Su verità e menzogna in senso extramorale si concentra ad analizzare la connessione tra oblio e concettualizzazione, sot-tolineando come in tale processo sia necessario l’oblio su due differenti livelli: oblio per dimenticare le differenze specifiche tra le cose per poterle nominare, ed oblio per dimenticare come questo stesso processo sia artificioso, creativo. Secondo questa prima prospettiva l’oblio, pur considerato come una forza arti-sticamente attiva, viene interpretato come ciò che, costituendo la base per il pensiero concettuale, allontana dalle essenze delle cose, dalla vita nella sua molteplicità. La capacità di percepire e conservare le differenze, quella straordinaria memoria del bor-gesiano Funes, precludendo ogni forma di concettualizzazione, permetterebbe una maggiore corrispondenza al mondo della vita, che mai si dà nell’identità del concetto, ma sempre nella molteplicità della differenza. La prospettiva nietzscheana, e l’ac-cento sulla negatività dell’oblio in quanto incapacità di trattene-re il molteplice, in quanto negazione delle «essenze originarie» delle cose, sembra però capovolgersi in considerazione alla di-mensione pratica: solo attraverso l’oblio è, infatti, per Nietzsche possibile fare spazio al nuovo della vita, solo attraverso l’oblio è possibile essere felici. Si passa, quindi, da una ricezione del reale ostacolata dall’oblio ad una creazione di vita per la quale l’oblio risulta essere indispensabile. L’anello di congiunzione tra que-

36 Borges, Funes, o della memoria, 714-715.

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ste due prospettive sembra essere rappresentato da quell’azione «artisticamente creativa» dell’uomo che deve essere a sua volta dimenticata per poter essere efficace.

Nel racconto di Borges confluiscono entrambe le prospet-tive nietzscheane, sebbene sembri mancare l’accento quasi po-sitivo sulla capacità di tenere sempre presenti le differenze del mondo fenomenico che si ritrova nello scritto giovanile di Nietz-sche: la straordinaria capacità di Funes non è descritta come una maggiore prossimità al mondo nietzscheano delle «essenze originarie», ma viene immediatamente presentata come con-nessa ad un’incapacità di pensiero e di azione. L’accento nella narrazione borgesiana è più direttamente connesso all’inabilità – teoretica e pratica – del personaggio. La prospettiva borgesia-na in questo racconto, con la sottolineatura delle implicazioni di un radicale nominalismo in termini di incapacità di concet-tualizzazione e di vis activa, sembrerebbe andare proprio in dire-zione della rivalutazione di quel platonismo criticato in ambito teoretico da Nietzsche. Nonostante questa parziale differente coloritura che, come si è cercato di mostrare, nella stessa rifles-sione nietzschena presenta delle differenti declinazioni e una ri-modulazione in ambito pratico, tutti gli elementi che animano l’argomentazione di Nietzsche intorno al tema della memoria e dell’oblio sembrano essere recuperati e quasi riconnessi nella presentazione del personaggio di Funes.

È dunque plausibile che lo scrittore argentino, che in altri racconti e in altre opere di carattere saggistico aveva dato prova di conoscere la riflessione di Nietzsche, avesse presenti le argo-mentazioni nietzscheane nella stesura del racconto, argomen-tazioni che sembrano essere in ogni caso rilevanti per una più profonda comprensione sia della specifica creazione narrativa

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borgesiana, sia del più generale rapporto e capovolgimento tra «pretesto» filosofico e letteratura che percorre tutta la sua opera.

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