INTRODUZIONE 1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA ... · 1.Paul Ricoeur, La memoria, la...

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Indice INTRODUZIONE 2 1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA? 7 I. Il fallimento della teodicea e la realtà del Male 10 II. Il male umano: la colpa 26 III. Pensare il male alla luce dei drammi storici del XX secolo: il recupero del concetto kantiano di male radicale 44 2. LIBERARE L'INDIVIDUO E LA STORIA: IL PERDONO 68 I. Risollevarsi dal male: il perdono. Una genealogia 70 II. Il perdono e l' ossessione del passato 71 III. Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia 106 Conclusione 118 Bibliografia 121 1

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Indice

INTRODUZIONE 2

1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA? 7

I. Il fallimento della teodicea e la realtà del Male 10

II. Il male umano: la colpa 26

III. Pensare il male alla luce dei drammi storici del XX secolo:il recupero del concetto kantiano di male radicale 44

2. LIBERARE L'INDIVIDUO E LA STORIA: IL PERDONO 68

I. Risollevarsi dal male: il perdono. Una genealogia 70

II. Il perdono e l' ossessione del passato 71

III. Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia 106

Conclusione 118

Bibliografia 121

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Introduzione

La condizione umana è immersa nell'esperienza del male. La stessa riflessione filosofica

nasce, in parte, come riconoscimento di quest'esperienza: quando riferiamo ad Aristotele

l'affermazione secondo la quale la filosofia nascerebbe dalla meraviglia, si tradisce il

significato originario di quel testo, perché thauma non va tradotto con meraviglia. Thauma

vuol dire semmai angosciato terrore. Quindi la filosofia nasce piuttosto dal terrore, dalla

paura. Anche Nietzsche afferma che la filosofia nasce dalla paura, ma non fa che riproporre

quello che già diceva Aristotele. La filosofia, tematizzando questioni come la libertà, la

felicità, la giustizia, l'essere, il logos e la razionalità, non può fare a meno di porsi anche il

problema del male, visto, di volta in volta, come non essere, infelicità, ingiustizia, morte,

disordine.

Prima di costituire una tematica fondamentale dell'indagine razionale, il problema del male

costituisce il nucleo essenziale del mito e della religione. Nella narrazione mitica e religiosa il

male è posto all'origine dell'essere e dell'esistenza, nella duplice immagine della nascita del

mondo dal caso della caduta dell'uomo per un atto di superbia, che corrompe un ordine

armonico e segna la nascita della storia come decadenza e prevalere del male.

Ma è solo con l'esperienza del male nella storia che nasce un'ermeneutica del male, ovvero la

necessità di render conto del male, di dare di esso un'interpretazione che consenta di

comprenderlo e giustificarlo per offrire un senso all'esistenza. Nella storia l'uomo ha fatto

esperienza del male in molteplici forme, ma l'evento paradigmatico della Shoah, nel XX

secolo, ha dato all'ermeneutica filosofica del male una svolta impossibile da sopravvalutare.

Con Auschwitz entra in crisi qualsiasi ermeneutica del male elaborata nel corso del pensiero,

e tutte le precedenti concezioni ottimistiche della storia, dell'uomo e della razionalità vengono

superate. Crolla definitivamente anche la fiducia razionalistica di poter comprendere il male,

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e, con essa, ogni tentativo di teodicea, di cui risulta ormai evidente e inaccettabile il vizio

conciliatorio. Ben più del terremoto di Lisbona e dei disastri delle guerre, che avevano scosso

l'ottimismo razionalista del Settecento, è la pratica concentrazionaria e i campi di sterminio

che rendono impossibile pensare il male come una semplice privazione di bene, o

giustificarlo in un disegno di giustizia provvidenziale. O, soprattutto, perdonarlo. Privata di

qualsiasi mezzo, fosse anche quello della riflessione, per rispondere a questa nuova

manifestazione del male, tanta riflessione novecentesca avrà l'esito inquietante di porlo nella

ragione e in Dio stesso.

Fra tutte le definizioni complessive tentate per il Novecento, infatti, quella che più lo

rispecchia sembra proprio “secolo del male”. E non è tanto la Grande guerra a far esplodere la

questione, quanto la realtà dei totalitarismi, la Seconda guerra mondiale e, soprattutto, a cose

fatte, la persecuzione e lo sterminio degli ebrei europei, e di altre minoranze. Con Auschwitz

il male cambia faccia, ritorna “male assoluto”, male indicibile. Sotto il profilo che qui

cerchiamo di mettere a fuoco, relegata ogni teodicea fra le illusioni ottimistiche del passato, è

la razionalità stessa a entrare nel dominio del male; è l'idea stessa di poter comprendere il

male ad apparire ridicola e oltraggiosa; è, soprattutto, l'ombra del male che entra nella stessa

essenza di Dio a decretarne, soprattutto agli occhi degli ebrei, l'impotenza.

L'irrompere del male storico spalanca le porte ad un altro problema, quello della memoria. La

giornata per commemorare le vittime dell'Olocausto, una ricorrenza internazionale celebrata

ogni 27 Gennaio, si chiama proprio “Giorno della Memoria”, e si ha certo ragione di invocare

il dovere della memoria contro la tentazione di dimenticare i periodi bui della storia

collettiva: contro l'oblio, quel «termine eblematico della condizione storica»1, come lo

definisce Ricoeur, che è anche emblema della sua vulnerabilità. Ma se, in prima istanza, la

memoria è in tutto e per tutto una lotta contro l'oblio, allo stesso tempo non

raccomanderemmo mai una memoria che non dimenticasse niente. La riterremmo, anzi, quasi

1. Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003, p. 589.

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mostruosa, come Funes il Memorioso, protagonista di una favola di Borges:

«Ho più ricordi io da solo di quanti ne avranno avuti tutti gliuomini da che mondo è mondo» E disse anche: «I miei sogni sonocome la vostra veglia» – E anche, verso l’alba: «La mia memoria,signore, è come un immondezzaio». (…) Non so quante stellevedeva nel cielo. (...) In effetti, Funes non solo ricordava ognifoglia di ogni albero di ogni montagna, ma anche ogni volta chel’aveva percepita o immaginata. Decise di ridurre ciascuno dei suoigiorni passati a un settantamila ricordi, da definire in seguito concifre. Lo dissuasero due considerazioni: la consapevolezza che ilcompito era interminabile e che era inutile. Pensò che all’ora dellasua morte non avrebbe ancora finito di classificare tutti i ricordidella sua infanzia. (…) Gli era molto difficile dormire. Dormire èdistrarsi dal mondo; Funes, sul letto, nell’ombra, si figurava ognifessura e ogni rilievo delle case precise che lo circondavano.(Ripeto che il meno importante dei suoi ricordi era più minuzioso epiù vivo della nostra percezione d’un piacere o d’un tormentofisico)2.

Un'etica della memoria è un'etica dell'oblio tanto quanto un'etica del ricordo. La memoria,

quindi, dovrebbe scendere a compromessi con l'oblio per trovare, tentativo dopo tentativo, un

giusto equilibrio con esso. Per farle raggiungere quest'equilibrio, potrebbe esserle d'aiuto ciò

che Ricoeur chiama «orizzonte comune della memoria, della storia e dell'oblio»3: il perdono.

Il perdono, lo vedremo, è un concetto con una lunga storia alle sue spalle che affonda le radici

nella visione religiosa, ma è anche un concetto estremamente moderno, e che ci è

particolarmente caro: la nostra cultura venera l'idea di perdono, e impiega spesso questo

termine per parlare di comportamenti ritenuti utili nella gestione della rabbia e delle sue

manifestazioni.

Non si tratta di un concetto univoco: c'è il perdono condizionale, concesso solo nel caso in cui

venga esplicitamente richiesto («Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono?

Soltanto la disperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e una ragion d'essere

al perdono»4, scrive Vladimir Jankélévitch), e c'è il perdono incondizionato, che pur di non

lasciarsi dominare dallo stesso calcolo sceglie di posarsi anche su chi non ha espresso il suo

pentimento. Poi, a prescindere da quale di queste due modalità si prenda in considerazione,

2. Jorge Louis Borges, Finzioni, Mondadori, Milano 1997, pp. 707-715.3. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 649.4. Vladimir Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina Editore, Firenze 1987, p. 40.

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resta comunque da stabilire quali rapporti intrattenga con l'oblio. Perché se dimenticare un

torto compiuto nei nostri confronti è un'impresa che, oltre a metterci duramente alla prova,

appare eticamente discutibile, dimenticare il passato lo è ad un livello superiore: il passato,

infatti, è qualcosa a cui è necessario rendere giustizia, tanto più se l'imperativo di giustizia

riguarda un passato di crimini contro l'umanità. Ci si aspetta che i fatti vengano

definitivamente qualificati, così da essere sottrati all'assoluzione del tempo, che rischia di

consacrare un'azione criminosa fino a quando essa non venga giudicata.

Oltre a ciò, la mancata esposizione di un'offesa da parte della giustizia legale determina il

prevalere, dopo il patimento di tanti mali, di una reiterazione delle violenze: la vendetta, che

in epoca arcaica rappresentava la risposta primaria ai torti subiti («Nell'antico mondo delle

Erinni», osserva Nussbaum, «la famiglia, l'amore e l'amicizia erano gravati dalla continua

esigenza di vendicare qualcosa»5) deve cedere il posto al diritto. È sbagliato, infatti, credere

che la sofferenza del colpevole possa ricostituire un passato lacerato: la rabbia per il male

ricevuto dovrebbe evolversi, piuttosto, in una punizione ragionevole che castighi in vista del

futuro. Posizionandosi fra la vittima e la violenza patita, la giustizia imparziale dovrebbe

favorire un distacco assente nel sistema ateniese, dove la persona offesa si sentiva obbligata

ad un'estenuante caccia al colpevole.

Nel quadro della giustizia c'è posto anche per l'amnistia (o, come la definisce Ricoeur, «forma

istituzionale dell'oblio»6), che, per quanto animata da buone intenzioni, rifiuta il diritto di

appellarsi alla comunità giuridica al fine di ottenere un riconoscimento pubblico e ufficiale

della loro qualità di vittime, finendo per decretare la rimozione della realtà ad opera del

potere.

Ma non sembra esserci posto per il perdono. Da una parte, esso sembra essere «per sua natura

(...) amondano, ed è per questo, piuttosto che per la sua rarità, che è non solo apolitico ma

5. Martha Nussbaum, Rabbia e perdono, Il Mulino, Bologna 2017, p. 16.6. Ivi, p. 693.

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antipolitico»7; dall'altra viene da chiedersi se, di fronte alla distruzione dell'umano perpetrata

dai crimini contro l'umanità, il perdono sia un'iniziativa eticamente ammissibile. Se non sia

meglio lasciarlo così com'è, «morto nei campi della morte»8. Con il rischio, però, di non

essere mai liberi dal peso della storia e dal sentimento d'impotenza dovuto ad un passato

irreparabile.

7. Hannah Arendt, Vita Activa, Bompiani, Milano 1994, p. 179.8. Jankélévitch, Perdonare?, p. 40.

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1. IL PROBLEMA DEL MALE: FALLIMENTO DELLA FILOSOFIA?

“Chi o che cosa è responsabile del fatto che ilmondo nel suo complesso sia com'è, che vi

esistano dolore e peccato, questo male totale?(...)

La colpa dell'uomo relativa alla possibilitào alla necessità di diventare colpevole

sta forse in un altro prima di lui?Chi è dunque colpevole?

Un essere soprasensibile? Un'origine cosmica? Qualcosa di creato da Dio?

Dio stesso?”(Karl Jaspers, La fede filosofica di fronte

alla rivelazione)

«Nell'autocoscienza dei contemporanei il XX secolo è stato il secolo del male»: questa la

considerazione introduttiva de I Concetti del Male, testo a cura di Pier Paolo Portinaro1, il

quale, con la cospicua partecipazione di filosofi ed intellettuali, si propone di affrontare il

fenomeno del male sotto le sue molteplici manifestazioni. E in effetti dallo scorso secolo si

riscontra un diffuso ritorno d'interrogazioni sul male, di fronte al quale la filosofia si sente

chiamata ad armarsi di nuovi strumenti concettuali, in grado, se non di eludere il problema,

quanto meno di razionalizzarlo.

Ma, se è indubbio che il fenomeno del male è qualcosa che chiede di essere spiegato e

compreso, non sempre l'approccio razionalizzante delle teodicee si è rivelato adeguato a

restituirne la carica distruttiva, oltre ad avere la colpa di aver giustificato (e dunque abolito) il

male morale riconducendolo ad un Male metafisico e necessario: e, come afferma L. Pareyson

in Ontologia della libertà, un male necessario non può più definirsi “male”2.

Questa prima parte dell'elaborato tenterà di affrontare l'argomento in modo meno astratto e

1. I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, Biblioteca Einaudi, Torino 2002, p. VII.2. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p.187.

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rigoroso, come la natura stessa dell'oggetto richiederebbe: per questo scopo ci serviremo del

contributo di pensatori i quali, dopo gli orrori dell'Olocausto e di Auschwitz, hanno sentito la

necessità di ritornare sulla questione. Specificamente, si sono chiesti quale tipo di relazione

intercorra tra i due aspetti del male sopracitati, quello morale, sussunto sotto la categoria di

“colpa/peccato”, e quello metafisico, “metaempirico”, come direbbe Vladimir Jankélévitch3.

Il genocidio ebraico del XX secolo, infatti, è stato un esempio così sconvolgente ed estremo

del primo tipo di male da rappresentarne il parossismo, da riattivare le discussioni anche sul

suo secondo aspetto, sul Male: di fronte ad un orrore sovrumano e incommensurabile si è

sentito il bisogno di sconfinare nella metafisica, quando non nella Satanalogia4. La vera sfida,

quindi, sarà la seguente: rendere conto del male presente nel mondo risalendo ad un livello

superiore a quello dell'etica senza per questo doverne sacrificare la connotazione più

propriamente morale.

Quest'ultimo avvertimento è di primaria importanza, tanto più che la negazione del male è

stata ed è una delle grandi menzogne del secolo da poco concluso: con i suoi miti di

progresso, infatti, ha operato un ridimensionamento del peccato e promesso l'eliminazione

della sofferenza. I regimi totalitari, le guerre mondiali e i genocidi del secondo dopoguerra

hanno ampiamente dimostrato che la promessa di neutralizzazione del male è stata disattesa:

ecco che quindi, dopo il risveglio intellettuale suscitato dal terremoto di Lisbona del 1755, il

male torna a porsi come «il punto critico di ogni pensiero filosofico»5, pensiero che, se vuole

esaurire la profondità dell'oggetto affrontato, dovrà esporsi a tal punto da ipotizzare la

presenza del male in Dio, per quanto sotto forma di possibilità.

I tre capitoli che seguono saranno così disposti: il primo, dopo aver brevemente ripercorso i

tentativi fallimentari di teodicea, tratterà del male preesistente agli uomini e che li affligge

loro malgrado, quello metafisico. In questo senso, il linguaggio del mito fornirà un contributo

3. V. Jankélévitch, Il male, Marietti, Genova-Milano 2003.4. P. Ricouer, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, p. 527.5. I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, p. X.

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importante. Il secondo cercherà di determinare il contributo umano a questo male, per così

dire, “necessario”, soffermandosi sul concetto estremamente moderno di “Dio sofferente”. Il

terzo prosegue il ragionamento affrontando la categoria di “male radicale”, per come, dopo la

tragedia ebraica, è stata ripresa e aggiornata da Hannah Arendt e Karl Jaspers.

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1)Il fallimento della teodicea e la realtà del Male

La divinità o vuole abolire il male e non può; o può e non vuole; onon vuole né può; o vuole e può. Se vuole e non può, bisognaammettere che sia impotente, il che è in contrasto con la nozione didivinità; se può e non vuole, che sia malvagia, il che è ugualmenteestraneo all’essenza divina; se non vuole e non può, che sia insiemeimpotente e malvagia; se poi vuole e può, sola cosa convenientealla sua essenza, donde provengono i mali e perché non li abolisce?[fr. 374 Usener: LATTANZIO, De ira Dei, 13, 20].

Come si evince da questo frammento di Epicuro, già alcuni pensatori greci avanzarono

ricorrenti critiche contro il modo, tipico di una teodicea, di impostare il rapporto tra Dio e il

male.

Quasi due millenni più tardi, dopo secoli di intermittenti riflessioni sull'incompatibilità tra

bontà divina e mali naturali, al modo di pensare criticato da Epicuro saranno dedicate testuali

parole: «Per teodicea s'intende la difesa della somma saggezza del creatore del mondo dalle

accuse mossele dalla ragione per quel che di contrario al fine si riscontra nel mondo». Tale la

definizione di “teodicea” data da Immanuel Kant nel saggio Sul fallimento di tutti i tentativi

filosofici in teodicea1. È opportuno precisare che, con «quel che di contrario al fine si

riscontra nel mondo», Kant si riferisce indistintamente tanto al male morale quanto a quello

fisico, oltre che alla non-corrispondenza fra i delitti e le pene osservabile tra gli uomini.

È opinione condivisa che proprio con questo testo del 1791 si sia dichiarato concluso il tempo

della teodicea: tempo, a onor del vero, piuttosto breve, se si considera che lo scritto

leibniziano che inaugurò il termine, Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell'uomo

e l'origine del male, risale solo al 1710. Prima di Leibniz, infatti, il termine “teodicea” non

era ancora moneta corrente, per quanto il lamento di Giobbe contenuto nell'Antico

Testamento2, lamento di un uomo dalla condotta irreprensibile eppure vessato da implacabili

1. I. Kant, Scritti sul criticismo, Laterza, Bari 1991, p. 131.2. «La domanda di Giobbe è da sempre il problema fondamentale della teodicea», scrive Hans Jonas ne Ilconcetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il melangolo, Genova 2004, p. 21. Anche secondo quanto

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sofferenze, avesse già sensibilizzato pensatori devoti, fra cui Sant'Agostino.

Già in questo autore sono presenti le componenti caratteristiche delle future teodicee, che si

ergono, appunto, a difesa «della somma saggezza del creatore»: la funzionalizzazione del

male, interpretato come mezzo necessario di un fine buono, la sua comprensione in senso

estetico, che lo giustifica in quanto elemento che concorre ad accrescere l'armonia del

mondo, e, ciò che in questa sede più ci interessa, la negazione della sua assolutezza e

dunque la sua riduzione a privatio boni, vale dire a limite creaturale e mancanza d'essere.

Perché, se tutto ciò che esiste è opera di Dio e Dio è indiscutibilmente buono, deve pertanto

essere un bene: quel che chiamiamo male non esiste in senso proprio, mancando di una causa

o di un principio da cui scaturisca e che si opponga alla positività divina. Tutto il male a cui

assistiamo giorno dopo giorno va ricondotto alla finitezza che ci contraddistingue, in quanto

creature inevitabilmente più imperfette del loro artefice3.

È su quest'ultima questione che le teodicee moderne presentano un elemento di forte

differenziazione, determinante per la fisionomia che assumeranno e quindi per le critiche

corrispondenti. È bene tenere a mente, infatti, che le metafisiche razionaliste del Settecento

sono figlie della rivoluzione teologica cartesiana: Cartesio, infatti, aveva scelto di fondare la

sua scienza su un'idea chiara e distinta di Dio, reso così avvicinabile dalla mente umana. Da

tale pretesa di intellegibilità prenderanno ispirazione certe soluzioni avanzate dalle teodicee

moderne, che le esporranno all'accusa di eccessiva razionalizzazione: la tendenza

predominante da Leibniz in poi sarà quella di spiegare il male riscontrabile nel mondo

ritenendolo inevitabile e necessario anche per Dio stesso, il quale, per motivi che variano da

filosofo a filosofo, non avrebbe potuto creare né un mondo diverso dall'attuale né uno

afferma Paul Ricoeur ne Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 22-23,per la discussione stimolata dalla discrepanza tra il male fisico e il male morale e per la risposta enigmatica diDio del finale, il Libro di Giobbe occupa di diritto un posto di primaria importanza fra i testi sacri.3. Come osserva P. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, Morcelliana, Brescia 1993, p. 26, sesi fa coincidere il male prima col peccato e poi con la pena (che sola ne assicura l'espiazione), il rischio è quellodi approdare ad «una visione penale della storia»: le sofferenze di ciascuno, anche le più inspiegabili esconcertanti, finiscono per essere giustificate secondo un'ottica retributiva che non contempla l'esistenza di undolore ingiusto.

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migliore. La necessità del suo assetto, quindi, comprende anche ciò che noi chiamiamo

“male”, e un male divenuto necessario può ancora aspirare al titolo di male?

Intendiamoci: il fenomeno del male, a differenza del bene, è qualcosa che chiede di essere

spiegato, come afferma Jankélévitch4. È tutto ciò che devia dalla norma, è lo scarto, il rifiuto:

accoglierne la manifestazione senza proferir parola non sarebbe un atteggiamento né umano

né tanto meno filosofico. Perfettamente condivisibile, quindi, il tentativo manicheo di andare

oltre i singoli atti malvagi per attingere ad un principio metafisico che ne spieghi l'insorgenza,

apparentemente così contraria alla nostra destinazione morale. Ma un'operazione di questo

tipo ha delle conseguenze.

Una è già stata esplicitata: convogliando tutta la sua attenzione sul male ontologico, pone in

secondo piano «il vero male» secondo Jankélévitch, vale a dire «quello umano, relativo,

mescolato»5. Se esiste un male necessario, non esiste una malvagità necessaria.

In secondo luogo, un procedimento di questo tipo è tacciabile di immoralità: come si potrebbe

mai pensare, infatti, che la saggezza divina giudichi secondo criteri morali diametralmente

opposti ai nostri? Se le teodicee finiscono per concedere al male l'attributo della necessità,

l'oggetto della loro giustificazione non sarà tanto Dio, ma il male stesso: ci sentiremo così

autorizzati ad accettarlo, e la nostra propensione a sdegnarci di fronte ad esso sarà troncata sul

nascere6.

Per queste ed altre ragioni l'interpretazione del male offerta dalle teodicee era destinata a

sperimentare una crisi, acuita in modo irrimediabile dalla riflessione sulla Shoah, che sembra

aver definitivamente congedato l'idea di un male strumentale e di un Dio alchimista in grado

di trarre il bene dal suo opposto. Già secondo Kant l'unica teodicea autentica era quella di

Giobbe, che di fronte ai ragionamenti degli amici, volti ad identificare una qualche colpa che

4. V. Jankélévitch, Il Male, Marietti, Genova-Milano, pp. 69-71.5. Ibidem.6. Un simile effetto è avvicinabile a ciò che Jankélévitch definisce “machiavellismo”, ne Il male, pp. 34 ss., e checorrisponde ad una scorciatoia fornita alla coscienza dall'astuzia filosofica: innalzando il Male al livello diperfezione dei principi metaempirici il machiavellismo assolve l'uomo dal peso della responsabilità, poiché lovede costretto a soccombere di fronte all'ineluttabilità di una forza superiore.

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motivi le sue sofferenze e scagioni Dio da eventuali accuse, sceglie di sottomettersi

completamente alla Sua volontà: e infatti, tra un fervore speculativo ed una devota umiltà,

sarà quest'ultima ad essere premiata7.

Ma anche dopo la considerazione di Kant secondo la quale «fino ad oggi nessuna teodicea ha

realizzato ciò che aveva promesso»8, la filosofia continua a coltivare tale fervore e ad essere

attratta da un aggiramento del problema fondato su giustificazioni razionali, rifiutandosi di

prendere atto «della necessità di porre un limite alle nostre pretese riguardo a ciò che non è

alla nostra portata»9.

Perché il male, con il suo carico di sconvolgimenti e calamità insondabili, se non altro ci ha

insegnato questo: quando si cerca di comprendere oggetti di un certo tipo, una riflessione

filosofica che persegue il rigore del concetto e si impone uno sguardo disincantato potrebbe

rivelarsi del tutto inutile. È quanto argomenta Pareyson dopo aver dichiarato il fallimento

della filosofia di fronte al problema del male10: innanzi tutto, il punto di vista filosofico ha

costantemente ignorato la centralità del quesito, restringendolo ad un ambito puramente

etico. Ma una disquisizione che non vada oltre questo aspetto non sarebbe mai in grado di

esaurire il mistero del male, che sottintende un universo di concetti molto vari e irriducibili

l'uno all'altro: peccato, dolore, sofferenza, punizione sono solo alcune delle spoglie di cui esso

può ammantarsi.

Se ci si ostina a pensare un evento così sfaccettato ricorrendo alla coerenza logica (che

obbliga, come scrive Ricoeur, alla totalità sistematica e alla non contraddizione11) non si sarà

mai in grado di abbracciarlo nella sua interezza. Non senza accettare di addentrarci nella

7. Kant, Scritti sul criticismo, pp. 142-143.8. Ivi, p.139.9. Ivi, p. 140.10. L. Pareyson, Ontologia della libertà, Biblioteca Einaudi, Torino 2000, p.187, pp. 151-156.11. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, pp. 7-9. Questo modo di pensare, sostiene Ricoeur, èlo stesso prevalso nei saggi di teodicea, che si proponevano di sostenere assieme l'esistenza del male e gliattributi divini di bontà e onnipotenza. È a causa di un procedimento simile che la teodicea ha ritardatoconsiderevolmente un'adeguata analisi del problema del male e una presa di coscienza della sua ampiezza ecomplessità.

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profondità abissale da cui si dipana. Una filosofia che rifugga questo rischio per conservare il

solito frasario metafisico, oltre a tradire la natura dell'oggetto affrontato, lo rende inoffensivo

agli occhi degli uomini, così che si finisce per non avvertirne più il potenziale distruttivo.

Asserisce infatti Pareyson:

(...) ogni metafisica è tendenzialmente una teodicea; il pensierooggettivante razionalizzerà il male cercandone il posto nell'universoo la funzione nella vita umana (…) La stessa “potenza delnegativo” da fertile spunto di pensiero tragico si trasformerà in unostabile fulcro di ottimismo (…) liquidando (…) il terribile scandalodella sofferenza dei giusti, degli innocenti, degli animali, etrascurando con impassibile indifferenza le durissime concezionireligiose dell'onnicolpevolezza umana e della reversibilità dellesofferenze12.

Perchè il male è una struttura innanzi tutto negativa, e la filosofia concepisce con grande

difficoltà un ente che abbia come attributo necessario proprio la negatività: cosa significa,

infatti, che non appena si cerca di definire positivamente il male questo si dissolve, finendo

per diventare qualcos'altro? L'alternativa è davvero quella tra la comprensibilità e la realtà del

negativo, tra il riconoscerlo come tale e l'annientarlo sotto il peso di una definizione13? Il

fallimento dei tentativi filosofici che si erano prefissi di comprenderlo sembrerebbe suggerire

una risposta positiva. Arrivati a questo punto, quindi, il limite della filosofia è manifesto: sia

che essa banalizzi il male così da renderlo inoffensivo, sia che lo fagociti in un sistema che ne

sancisca la necessità, «la comprensione del male è per lei inaccessibile»14. Come osserva

Ricoeur, infatti, l'intreccio di filosofia e teologia che sino a quel momento si era dedicato al

problema non aveva mai davvero compreso quanto esso esprimesse «in modo molteplice la

condizione umana nella sua unità profonda»15, perchè è come se da sempre si avesse «il

sentimento di appartenere ad una storia del male, sempre già là per qualcuno»16.

Avvertita la centralità del fenomeno nella vita dell'uomo, è ancora più frustante che nessun

12. Pareyson, Ontologia e libertà, pp. 154-155.13. Ivi, p. 154.14. Ricoeur, Finitudine e colpa, Morcelliana, Bologna 1970, p. 623.15. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 13.16. Ibidem.

14

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contributo filosofico sia stato in grado di verbalizzarla; e una certa spossatezza data dal

susseguirsi dei tentativi indurrebbe a rinunciare definitivamente ad ulteriori trattazioni. Al

contempo, però, come abbiamo accennato, verrebbe poco naturale arrestarsi e sospendere il

giudizio di fronte alla terribile realtà del male, e quindi, motivati a proseguire la ricerca, ci

chiediamo se piuttosto non convenga volgere lo sguardo da un'altra parte.

Per non trovarsi in quest'impasse, ad esempio, Ricoeur lancia una nuova sfida alla

speculazione, invitandola a pensare il male in modo diverso, non più succube del modo di

ragionare lineare e esente da contraddizioni proprio delle teodicee: quella di Ricoeur è «una

provocazione a pensare di più, addirittura a pensare altrimenti»17, cioè a non combattere più il

male con una compostezza pericolosa ma a riconoscerne e penetrarne a pieno la serietà. A

cominciare dalle sue origini.

E quando si parla di origini, un arresto della continuità della riflessione è inevitabile: se si

vuole attingere al male nella sua purezza, infatti, ci si dovrà servire o di un linguaggio mitico

(sarà la strada intrapresa da Ricoeur e Pareyson), teologico (Karl Barth), o quantomeno di un

linguaggio filosofico insolito, interessato ad esplorare il non-afferrabile e a scandagliare

l'Assurdo (Jankélévitch). Ciò che accomuna questi tre approcci è il proposito di andare oltre il

male etico e fenomenico, quello compiuto e sofferto dagli uomini; «il lato oscuro della

creazione», come direbbe Barth18. Perché il dolore e la sofferenza che imperversa nel mondo è

così impressionante che persino una religione monista come quella cristiana fatica a liberarsi

dalla personalizzazione del principio subalterno del male, suggerendo che non tutte le sue

manifestazioni possono essere riferite alla libertà responsabile dell'uomo. D'altra parte, se si

priva il male di un riferimento a Dio, suo antagonista assoluto, si rischia di banalizzarlo, di

renderlo anonimo e burocratico (ma non per questo meno pericoloso) come quello che ebbe

luogo durante lo Shoah. Quando invece già il tema del serpente, spiega Ricoeur,

17. Ricoeur, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 7.18. Karl Barth, Dio e il Niente, Morcelliana, Brescia 2000, p. 23.

15

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rappresenta (…) il primo passo sulla via del tema satanico (…); iltema satanico consente almeno di compensare il movimento diconcentrazione del male nell'uomo con un secondo movimento chene riporta l'origine in una realtà demonica pre-umana. (…) l'uomonon è il malvagio assoluto; è solo un malvagio in seconda, unmalvagio a causa della seduzione (…). Peccare è cedere19.

Anche nel mito adamitico, quindi, che per la prima volta riferisce l'origine del male ad un

antenato non diverso da noi20 (e che per questo si merita l'appellativo ricoueriano di “mito

antropologico”), si insinuano altre figure che, pur non sopprimendo il primato di Adamo,

distribuiscono la responsabilità del male originario anche tra altri personaggi, uno dei quali, il

serpente, ha un chiaro significato simbolico.

Assente nel progetto di Dio e di una creazione che, coerentemente con la sua bontà assoluta,

non può che essere buona, il male si insinua quindi nelle misteriose forme del serpente, al

rango di qualcosa che non dovrebbe esserci eppure c'è. Vista in questo modo, sembra quasi

che solo l'assoluta bontà di Dio possa conferire al male la sua esistenza, e probabilmente è

anche per tale paradosso che l'origine del male è stata così spesso spostata dal piano

metafisico a quello morale, facendolo coincidere con un peccato del primo uomo o con quello

di una creatura sovracosmica. Ma, fermo restando che Dio è onnisciente, perché avrebbe

dovuto masochisticamente consentire una messa in discussione della sua onnipotenza? La

contraddizione non è facile da sciogliere.

Certo è che una volta riconosciuta la sua complessità e la ricchezza dei suoi piani di lettura,

scopriamo che nel mito adamitico la profondità enigmatica del mistero del male è stata

esplicitata più di quanto non saranno in grado di fare anni e anni di filosofia consolatoria.

Questo perché, sempre secondo Ricouer, il mito ha una grandezza diversa da quella della

speculazione filosofica, una grandezza che sta nel saper riassumere la simbologia

dell'impurità, del peccato, della colpevolezza, avvalendosi di un'ermeneutica più vicina alla

19. Ricouer, Finitudine e colpa, p. 526.20. È proprio in ragione di tale umanità condivisa che Ricoeur contesta il termine “caduta”, che suggerirebbe unacondizione umana superiore a quella attuale. Ricoeur, infatti, preferisce leggere il mito adamitico come “mitodello scarto”, Ivi, p. 498.

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realtà dell'esperienza rispetto a quella maneggiata dalla filosofia. Come asserisce Pareyson,

infatti,

Il male e il dolore, occultati e fatti scomparire nel mondorazionalizzato della filosofia, sono invece ben presenti nel mito, nelsenso profondo e intenso del termine, cioè nell'arte e nellareligione, ed è lì che la filosofia deve andare a cercarli (…). È delresto ormai tempo che la filosofia (…) rinnovi i suoi contenutiattingendo al mito, e anzi ne tragga spunto per ritrovare se stessarecuperando la propria natura mitica originaria (…). La necessitàdel ricorso al mito deriva dunque dal fallimento della filosofia difronte al problema del male21.

Da qui la scelta di intraprendere un'ermeneutica del racconto biblico del peccato originale,

quella narrazione che riunisce tutti gli uomini sotto un'unica colpevolezza e li instrada verso

un comune destino di espiazione. Tutto a causa di quel gesto provocatore che secondo molti

inaugurò il dominio della storia umana, e che sancì una volta per tutta la sostituzione della

nostra libertà a quella divina. Dio aveva scelto il bene, l'essere, e per farlo aveva lasciato

dietro di sé il caos, destinandolo al passato e ad un oblio eterno: a partire da Gen., 1, 3 sgg. la

creazione consiste in una vera e propria separazione tra la luce e le tenebre, e se queste ultime

in qualche modo conturbano l'opera divina resteranno comunque sempre e solo «un'ombra

fuggente, un limite che si ritrae»22.

Ma se Dio si è lasciato alle spalle il male e lo ha ridotto a mera rappresentazione della sua

non-volontà (Unwillen), come si spiega allora la realtà di questo non-volere contrario a Dio?

Come si affronta il male e il dolore nel mondo, questa «satira vivente e costante contro la

filosofia che pretenda di eluderli o minimizzarli o esorcizzarli o addirittura scotomizzarli»23?

Pur asserendo l'equazione Male-Niente (Nichts) («(...) il Niente è il male (das Böse)»24),

anche K. Barth è costretto a concedere al male un barlume di esistenza concreta:

(…) risulta inammissibile ogni concezione del Niente in cui la suaesistenza, nel confronto con Dio, sia negata e spiegata come una

21. Pareyson, Ontologia della libertà, pp. 156-157.22. Barth, Dio e il Niente, p. 152.23. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 155.24. Barth, Dio e il Niente, p. 154.

17

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pura e semplice apparenza. Entro i limiti indicati, il Niente non èapparenza, ma realtà: è non-volere contrario a Dio, è quel totaleopus alienum della collera e del giudizio divino, ma, in questopreciso senso, è realtà, non apparenza25.

Ma in questo preciso senso, il male, secondo Barth, è conoscibile. Solo se lo intende come

mano sinistra di Dio/opus alienum l'uomo è in grado di pensarlo e farsi un'idea della sua

struttura; nel nostro mondo, infatti, non si fa esperienza del Niente vero e proprio, piuttosto si

entra in contatto con il lato oscuro della creazione, con qualcosa quindi che le è perfettamente

connaturato e che non presenta in alcun modo il carattere distruttivo che il Male vero e

proprio ricopre tanto per l'uomo quanto per Dio stesso. La portata cosmica del male non ha

niente a che vedere con il risvolto notturno della creazione, anzi, confonderli significa

disconoscere il Niente, un disconoscimento che comporta gravissime conseguenze. Mentre

siamo intenti a dirigere la nostra attenzione all'aspetto negativo del mondo creato, infatti, il

Niente vero e proprio tesse la sua tela del tutto indisturbato: e di cosa deve essere accusata la

teodicea se non di questo, di distogliere cioè l'attenzione degli uomini dall'unico male

veramente minaccioso? Scrive infatti Barth:

Accade evidentemente che non lo si vede e non lo si prende più sulserio in quanto Niente reale, ma lo si comprende inserendolo inun'immagine del mondo, lo si spiega e lo si giustifica in terminidefinitivi, lo si considera e lo si tratta, in sostanza, non per la suanatura di Niente, ma come un suo elemento essenziale e necessario.Nè potrebbe essere altrimenti: a quella confusione non corrispondenessuna realtà. Noi possiamo errare e ingannare gli altri,rinvenendo nel lato oscuro della creazione il Niente. Ma il nostroerrore e inganno non possono cambiare il fatto che quel lato oscuroappartiene al Dio buono e alla perfezione della creazione (…)26.

Lo sbaglio di coloro che hanno «perorato la causa di Dio», come direbbe Kant, secondo Barth

non è tanto quello di aver reso necessario un male umano e contingente, ma quello di aver

confuso quest'ultimo (per Barth sì, necessario) con il Niente reale, con la minaccia suprema,

che, ripetiamo, non è intuibile da quanto di doloroso e drammatico vediamo verificarsi

25. Ibidem.26. Ivi, p. 31.

18

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attorno a noi. Il Niente, infatti, l'unico autentico, «è l'anormale e il non-misurabile per

eccellenza. Ciò che è comprensibile, segue qualche legge. Ma il Niente non segue alcuna

legge. Non è che deroga e violazione, vale a dire essenzialmente male. Perciò resta

inseplicabile, e si può solo constatare come ripugnante in sè»27.

Ma il male che esperiamo nel corso della nostra vita, davvero non lo diremmo reale? Sì, il

male è una realtà negativa che per secoli la filosofia ha preferito palliare con i mezzi più

svariati, ma ciò non significa che non sia reale: «Il male», dice Pareyson, «(...) è realtà, più

precisamente realtà positiva nella sua negatività»28. Piuttosto che una privazione e mancanza

d'essere, il male storico è una vera e propria trasgressione, un atto di ribellione e distruzione

che, lungi dal rappresentare un'attenuazione del caos originario, lo ratifica e corrobora

implacabilmente, con un effetto spirale/valanga29 che presenta tutti i caratteri dello scandalo30.

Quindi, Barth ha le sue ragioni per sostenere la nostra incapacità di assimilare e dominare il

male (o il Niente) con mezzi razionali, ma tale complicazione è da ricondurre

all'inadeguatezza del mezzo filosofico, e non ad una presunta inconsistenza del male

compiuto e sofferto. Se ragioniamo in questi termini, la tragedia autentica dell'uomo, che si

sente prigioniero della sua malvagità e sofferenza, non viene riconosciuta, esattamente come

avveniva nelle teodicee.

Chi invece, come accennato sopra, ipotizza un collegamento tra il male pre-umano e quello

storico perpetuato dagli uomini è Pareyson, e in modo differente Jankélévitch, che per

definire i due tipi di male adopererà un linguaggio molto personale e svincolato da

27. Ivi, p. 156.28. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 167.29. Queste le espressioni utilizzate per definire l'escalation del male rispettivamente da Pareyson, Ontologiadella libertà, p. 191 e p. 208, e Jankélévitch, Il male, p. 21.30. Il termine “scandalo” per indicare il male che imperversa nel mondo è molto frequente: lo si trova in primoluogo in Jankélévitch, ma ne fanno uso anche Pareyson e Ricoeur, seppur con significati un po' diversi; ma intutti e tre i casi la scelta di questo vocabolo attesta la reazione di sdegno che avvertiamo di fronte alla malvagitàimperante, e la domanda che ne segue: “perchè?”.

19

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presupposti religiosi.

Dato che abbiamo appena illustrato il punto di vista di un teologo, proseguiremo con l'esporre

le dottrine di Pareyson, fortemente radicate nel cattolicesimo e volte a ridefinire l'operato

divino all'alba della creazione.

(...) un rinvio a Dio è inevitabile, perchè c'è un senso in cui il malepreesiste all'uomo, ed è in questa sua preesistenza che risiede ilcarattere ontologico che gli compete. Non si può ammettere chel'uomo abbia tanta creatività da inventare il male: egli, ch'è l'unicoautore del male, non può tuttavia esserne l'inventore31.

Ad uno studio sul male, asserisce Pareyson, non si addice la dialettica logica della necessità,

espediente vuoto e formale basato sull'alternanza di positivo e negativo; e questo perchè le

vicissitudini del male sono sottotrame della più vasta storia della libertà, che in quanto storia

chiede di essere raccontata con un linguaggio narrativo e mitico.

Quando Dio creò questo mondo decretando la vittoria dell'essere sul nulla, lo fece tramite un

atto di libertà, e la libertà è sempre costituita da una coesistenza di ontologia e meontologia

che informa anche il momento originario. Il fatto che sia la libertà ad essere il fondamento di

tutto, tanto dell'iniziativa divina che di quella umana, getta sulla questione una luce del tutto

diversa rispetto a quella irradiata dalle osservazioni di Barth:

V'è sì la positività originaria, cioè l'essere e il bene, ma entrambi inquanto voluti dalla libertà, e in quanto tali costantementeaccompagnati da un alone di negatività: l'essere implica vittoria sulnulla, il bene implica vittoria sul male. Come libertà, Dio è l'essereche ha voluto essere, e quindi è vittoria sul nulla, e ne contiene lapossibilità; è scelta del bene, e quindi è vittoria sul male, e necontiene la possibilità. (...) C'è dunque un senso in cui si puòsostenere la presenza del male in Dio, in quanto la sua positività siafferma come vittoria sulla negatività considerata quale possibilitàprospettata e contemplata, anche se in definitiva domata esoccombente. (…) Si ha l'impressione che il nulla sia ancora inagguato, come una costante minaccia, e che il male latente e sopitopossa ridestarsi. La negatività e il male presenti in Dio (…)possono ancora costituire un pericolo32.

31. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 184.32. Ivi, pp. 176-179.

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“Male in Dio”: un'espressione che Pareyson riconosce essere raggelante, ma che se non altro è

«perfettamente adeguata a significare l' incomprensibilità del male. (…) significa che ogni

sforzo è stato fatto per comprendere il male e non resta altra conclusione se non riconoscere

ch'esso è inspiegabile»33. Questa teoria, continua Pareyson, è in grado di tenere assieme la

realtà del male e la sua preesistenza al mondo umano senza dover ricorrere ad una

demonizzazione della divinità: «si può respingere il Dio levigato della teodicea, e ravvisare in

Dio qualcosa di opaco, quasi un'ombra, senza perciò satanizzarlo»34.

Certo è che se siamo arrivati al punto di dover cercare in Dio l'origine del male è segno che si

è infranta ogni speranza di rinvenirla ad un livello inferiore, e che nella divinità si può

scorgere un fondo oscuro destinato a tentarci fino alla fine dei tempi. Mentre il tempo storico,

quindi, come approfondiremo nel secondo capitolo, è il palcoscenico del male “agito” e messo

in atto, l'origine del male è invece da ricercare retrospettivamente, in quella struttura eterna e

atemporale presidiata dalla divinità.

Approfondendo l'espressione “il male in Dio”, diremo che quando ancora sussisteva tale

struttura atemporale, sul male Dio era in grado di esercitare un certo controllo, mantenendolo

dentro di sé «quasi celato e furtivo»35: in Pareyson il negativo, il Niente era nato come vinto,

un'opportunità trascorsa che non poteva essere afferrata se non dall'irrompere di una scelta

spericolata e distruttiva. Barth, invece, ne annuncia la capitolazione storica, ritenendolo

definitivamente vinto in Gesù Cristo, che lo ha disinnescato sacrificandosi sulla croce; oramai

il Niente avrebbe per noi solo un'apparenza minacciosa se la sua fine fosse stata rivelata a tutti

gli uomini. Invece Dio fa sì che noi vediamo il Niente “come se” non fosse ancora del tutto

annientato, così che questa misteriosa entità in un certo senso esiste solo grazie ad una sua

disposizione; in un ragionamento di questo tipo non è difficile avvertire gli echi delle recenti

teodicee, in particolar modo se ci si sofferma sulle considerazioni finali:

33. Ivi, p. 180.34. Ivi, p. 182.35. Ibidem.

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L'avversario di Dio, il nemico che Egli ha vinto, è divenuto unservitore di Dio. Ben strano servitore, in realtà, e tale resterà (…)Ma ancor più importante è considerare che Egli si è adoperatoaffinchè anche il Niente appartenesse alle cose di cui è stato dettoche concorrono al bene di coloro che amano Dio (corsivo mio)36.

Niente di più distante dal pensiero di Pareyson, per il quale, se mai il male è stato asservito

alla potenza divina, questo è avvenuto al principio dei tempi, quando, sì, il male era in Dio,

ma nel senso che era vinto in Dio. Il principio del male di cui discettano i manichei non esiste:

c'è un solo principio, che ab aeterno (ma non per sempre) contiene in sé un aspetto tenebroso

e oscuro, ma che riesce a padroneggiare e, soprattutto, a far convivere con il bene, suo

opposto inseparabile. Proprio tale inseparabilità di bene e male, questa «placata dialettica

dell'eternità»37 ha fatto sì che, per tutto il tempo che era Dio a tenere le fila del mondo, i due

opposti confinassero senza mai imbracciare le armi. L'ontologia e la meontologia originarie,

componenti necessarie di qualsiasi atto di libertà (che nel suo scegliere un'alternativa ne

esclude inevitabilmente un'altra), erano inseparabili accompagnatrici. Eppure il male che oggi

ci perseguita affonda le sue radici proprio là, in quell'opzione che sub specie aeternitatis

venne esclusa ma non per questo resa fuori portata: e il pericolo non è rappresentato dal fatto

che essa sia alla portata di Dio, che ha già voluto il bene una volta per tutte, ma a quella degli

uomini, i quali renderanno il bene e il male, da contrari pacificati, opposti inconciliabili,

gettati in una guerra destinata a non finire mai. Perchè, se contenere il male dentro di sè

significa custodirne l'origine, non per questo ci si può dire responsabili anche del suo

compimento, ed è esattamente questo il ruolo ambiguo che, nella disamina di Pareyson,

riveste il Creatore. Identificandolo sin dal principio come libertà, e come libertà positiva, si fa

sì che esso «possa essere origine del male senza esserne anche l'autore», depositario del

male possibile ma non di quello reale. Ma non è forse il male reale quello da cui ci sentiamo

vessati, e per cui leviamo i nostri lamenti al cielo?

36. Ibidem.37. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 164.

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La situazione tragica dell'uomo, quindi, è qualcosa su cui è difficile soprassedere, e forse la

filosofia è una disciplina troppo razionale per comprenderla in modo adeguato. Anche perché,

senza per questo rigettare un punto di vista teoretico, la sua trattazione richiederebbe un

approccio un po' diverso:

La tragicità dell'esistenza deve essere presa sul serio. (…) la serietàè dibattito dialettico e relatività feconda. Tanto la smorfia dellelacrime e la contorsione del riso si apre lo spazio per la serenitàironica, equanime, distesa (distesa, non impassibile) del sorriso.(…) la serietà dunque fonda la vera spensieratezza, che è filosofia(…). Non bisogna prendere l'assurdità né tragicamente né allaleggera, ma semplicemente sul serio38.

Ma con quali strumenti è possibile discutere di un oggetto se questo svanisce non appena si

tenta di fermarlo con una definizione? Perché è in questi termini che Pareyson aveva parlato

del male, e attribuendogli la qualifica di “Assurdo” Jankélévitch non sembra porsi al di fuori

dell'alternativa immobilizzante. Oppure, il linguaggio del filosofo francese, prototipo di un

pensiero che esplora ciò che non è direttamente afferrabile, sempre al confine tra l'essere e la

sua privazione, è più adatto di altri per parlare di nozioni negative; infatti, se Pareyson si

limitava ad attribuire una certa contraddittorietà al fenomeno del male, Jankélévitch la

riferisce alla vita nella sua totalità, ed ogni sua opera esemplifica la volontà di non rifuggire

quest'intima contraddizione. Solo con un lessico del paradosso, solo con l'ironia è possibile

riflettere su ciò che a prima vista appare inafferrabile, su «una contraddizione intestina,

insolubile, inconciliabile, che fa della vita l'impossibile possibilità di ogni giorno,

l'Impossibile realizzato»39.

E anche Il male, pagina dopo pagina, non abbandona mai il suo paradosso di partenza, che

discende dall'ambivalenza del male stesso: da una parte il Male metafisico, ciò che

Jankélévitch definisce “l'Assurdo” e di cui ci siamo occupati in queste pagine, dall'altra il

male umano, “lo Scandalo”, di cui parleremo meglio in seguito.

38. Jankélévitch, Il male, pp. 27-28.39. Ivi, p. 9.

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La relazione che intercorre tra i due non è molto chiara: in più punti si ha l'impressione che

vadano tenuti ben distinti, tanto che Jankélévitch raccomanda un atteggiamento di

rassegnazione nei confronti dell'Assurdo, come un qualcosa che esiste nostro malgrado, ma di

protesta contro lo Scandalo, contro quelle ingiustizie, cioè, di cui siamo interamente

responsabili. Se non che il loro rapporto è anche caratterizzato da una circolarità che in parte

smentisce la separatezza di fondo: è l'Assurdo, infatti, a procurare allo Scandalo l'occasione

per attualizzare la sua malevolenza, malevolenza che, una volta concretizzata, va a ratificare e

a potenziare l'Assurdo stesso. E anche sull'inevitabilità o meno di questo potenziamento ad

opera dell'uomo, come vedremo, ci si può interrogare.

Per quanto pertiene a questo capitolo, è importante sapere che per Jankélévitch

La malvagità è un caso privilegiato del disordine generale. Il maledell'uomo denominato malvagità atterrebbe quindi alla cattivaqualità dell'Essere; in questo mondo c'è dell'imperfezione; l'Essereè cioè raffazzonato, potrebbe essere meglio di quanto non sia, è ciòche non dovrebbe essere. (…) la malevolenza, che è il maledell'iniziativa umana, attiene alla cattiva costituzione dell'Essere.(...) La malvagità umana è la pietra di paragone dell'imperfezionemetafisica (…) Il prototipo di questo disordine si trova nel mondometempirico, poiché la nostra Babele umana rappresenta l'icona diuna confusione più profonda sul piano delle norme...Ma èveramente ontologica la confusione? Certamente (...)40

La volontà umana, quindi, si colloca tra le due “zone” del male: una dalla quale prende

l'ispirazione per concretizzare i suoi piani malevoli, un'altra che viene a configurarsi una volta

che tale concretizzazione ha avuto luogo. La prima zona, quella che adesso ci interessa, rivela

un Essere lontano tanto dall'Essere di cui parla Barth che da quello di Pareyson: è un Essere

«di cattiva qualità», a tal punto da invitarci alle azioni più oltraggiose41.

Essendo disinteressato a eventuali risvolti religiosi, e quindi alle beghe teologiche che una

considerazione di questo tipo potrebbe sollevare, Jankélévitch dà per acquisito il concetto di

un male ontologico e di un difetto costitutivo all'Essere, che definisce «insufficienza

40. Ivi, pp. 3-14.41. In Pareyson invece, Ontologia della libertà, p. 186, è la positività divina «la grande tentazione dell'uomo»,che non concepisce altro modo per affermare la propria libertà se non quello della disobbedienza e della rivolta.

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metempirica»42, la cui esistenza ci è accessibile grazie ad una certa confusione che

riscontriamo a livello normativo.

Se c'è qualcosa che non è risolvibile dalla riflessione, e che dunque è destinato a rimanere

fallace, è proprio questo: la nostra «visione (...) orgiastica dei valori»43, prova

incontrovertibile del loro «sporadismo». Semplificando l'artificiosità linguistica di

Jankélévitch, potremmo dire che, a livello ontologico e non a causa di nostri difetti percettivi,

i valori (Bene, Bello, Verità e via dicendo) sono in uno stato di perenne conflitto, e ognuno di

essi, incurante degli altri, si professa il più importante.

Così, la zona del male che esiste a prescindere da un'iniziativa umana ha come caratteristica

principale quella di negarci una gerarchia valoriale che orienti la nostre azioni; è quanto

Jankélévitch definisce «mistero dell'Assoluto plurale». Come può essere plurale un'entità

assoluta, cioè autonoma e autoriferita per definizione? Eppure lo osserviamo ogni qual volta

ci si appresta ad agire: ogni norma si presenta come assoluta a discapito delle altre,

determinando una collisione di doveri in cui non tutti gli uomini sono ugualmente propensi a

mettere ordine. Come è stato detto, infatti, il disordine metempirico esistente per se stesso è

allettante per una malevolenza che non vede l'ora di realizzarsi, e in questo modo di

accrescere il quantitativo di male già presente: come Ricoeur e Pareyson anche Jankélévitch

non accetta di ridurre il male alla sua manifestazione empirica, ma non per questo acconsente

a renderci innocenti o a qualificarci costantemente come vittime.

Ma in cosa consista il contributo umano al Male, e sino a che punto possa essere

determinante, è ancora da stabilire.

42. Jankélévitch, Il male, p. 14.43. Ivi, p. 15.

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2) Il male umano: la colpa

Come si vede, si torna sempre al problema dell'ambivalenza del male: qualunque sia la strada

percorsa, ciò che si trova è la percezione immediata di un accavallarsi di piani, un'

inscindibile polarità, che è la ragione del mistero di questa esperienza.

L'uomo che è caduto, infatti, spesso non sa spiegare né il come né il perché della sua caduta,

si confessa responsabile del male che ha compiuto, ma al tempo stesso afferma di aver agito

come preso da una forza estranea. Questo perché nell'esperienza della colpa si sovrappongono

due concezioni del male, con cui la coscienza ha tentato nel corso della storia di elaborare

questo trauma: la percezione del male come un quid negativo, qualcosa di oggettivo e

preesistente, come quello sin'ora esaminato, e come scelta dell'uomo, come cominciamento,

decisione libera, atto nuovo e responsabilmente posto.

È come se l'uomo, proprio nel momento in cui più afferma se stesso, quando cioè si allontana

dalla legge morale per sostituirle la propria, fosse prigioniero di una forza che lo avvince. Ed

è per questo che prima di esaminare il male commesso dagli uomini è stato necessario far

riferimento a quello che sentiamo esistere nostro malgrado, alla tragedia preesistente che fa da

sfondo ai nostri crimini e li rende così profondi e inquietanti:

Quando la tragedia è assente (…) il peccato (…) non trascina nientecon sé, non tocca qualcosa d'essenziale, non mette nulla in pericolo,non trova da nessuna parte risonanze metempiriche. Quel chedovrebbe alleggerire la colpa, la rende al contrario pesante sullanostre spalle: il peccatore non è più solo, ma ha dietro di sé ildisordine stesso delle norme che giustifica in qualche misura la suaperversità, benché a dire il vero vi aggiunga sempre qualcosa; ivalori lo incoraggiano alla confusione dandogli l'esempio: ilpeccatore è questa volta sostenuto e in un certo senso spalleggiatodall'intero universo1.

Da una certa prospettiva l'uomo può effettivamente apparire «un malvagio in seconda, un

1. Jankélévitch, Il male, p. 57.

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malvagio a causa della seduzione. (…) si fa malvagio (…) per consenso ad una sorgente del

male che l'ingenuo autore del racconto biblico dipinge come un astuto animale. Peccare è

cedere»2. Ma bisogna tenere presente che, tanto adesso quanto al tempo della caduta, non

sussiste alcun piano predisposto in base al quale l'uomo dovrebbe abbandonarsi al peccato.

Per quanto i nostri cedimenti da una parte possano essere perdonati, poiché riconducibili

all'insufficienza ontica immanente, al contempo e da un altro punto di vista sono

imperdonabili «perchè sempre evitabili»3: come Adamo nel giardino dell'Eden era libero di

confermare la positività della creazione4, così, ogni qual volta ci troviamo a reiterare l'

insubordinazione di quel primo uomo, non possiamo dirci costretti a farlo.

Anzi, oltre a riconoscere la nostra percentuale di colpevolezza, dovremmo anche considerare

l'eventualità che solo il male agito possa dirsi propriamente male, e questo perché «Solo la

colpa (…) è veramente malvagia; solo la colpa, di conseguenza, è il male colto in flagrante,

cioè in atto»5, reso vivibile e sensibile dall'iniziativa umana. Se, come ritiene Pareyson, quel

male che nell'eternità era allo stato latente imperversa e risulta costantemente vittorioso nel

dominio della storia, ciò deve essere ricondotto ad un «ridestatore del male»6, e non può

trattarsi di Dio stesso, che scegliendo il bene aveva ridotto il male a traccia inconsistente. Già

nel 1786 Kant scriveva che la storia della libertà inizia con il male in quanto è opera

dell'uomo, allo stesso modo in cui la storia della natura ha inizio con il bene in quanto opera

di Dio7.

Difatti, anche quando si parla di quella colpa originaria in cui «s'incontrano due tempi e due

libertà»8, quello dell'eternità (Kant direbbe della natura) e quello della storia, l'ambiguità del

2. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 526.3. Jankélévitch, Il male, p. 31.4. «La caduta dell'uomo (…) poteva non accadere, se non altro perchè non doveva accadere», sintetizzaPareyson in Ontologia della libertà, p. 186.5. Jankélévitch, Il male, p. 42.6. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 190.7. Kant, Congetture sull'origine della storia umana, in Scritti politici, a cura di N. Bobbio, L. Firpo, V. Mathieu,UTET, Torino 1971, pp. 202.8. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 186.

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divieto9 e l'intervento di un “tentatore” non devono far dimenticare l'intento essenziale del

racconto: quello di concentrare «in un sol uomo, in un sol atto, cioè in un unico avvenimento,

tutto il male della storia»10 : con il passaggio dalla bontà dell'uomo creato alla malvagità

dell'uomo storico comincia il tempo della maledizione, e per quanto l'efficacia del male

ridestato non si estenda all'eternità ma si circoscriva «nell'ambito che le è proprio, ch'è il

tempo e la storia»11, da quel momento in poi è destinato ad un «incremento continuo dovuto

alla sua stessa accumulazione, ciò che rende sempre più terribili le conseguenze della scelta

del male fatta originariamente dall'uomo. (…) da allora l'uomo non fa che scelte negative,

perchè il peccato è la prima pena del peccato»12.

«Che vi sia un uomo, questo è il male»13, sembra dire con Ricoeur il mito della caduta.

Come abbiamo già avuto modo di vedere, la nozione di peccato originale (quando non è stata

marginalizzata quale mito non più accettabile da parte di un'umanità adulta) ha richiamato

l'attenzione di molti filosofi, che vi hanno visto l'unica possibilità di fare luce sul mistero della

presenza del male attuale nel mondo e nella vita dell'uomo. Per avvalorare l'esistenza di un

male pre-umano ci eravamo serviti di sue letture in chiave di tentazione, per le quali la figura

del serpente simboleggia l'esperienza storica dell'uomo in cui «ciascuno trova il male già lì;

nessuno gli dà inizio in senso assoluto (…). Il male (…) è trasmesso, è tradizione e non solo

avvenimento; vi è quindi un'anteriorità del male a se stesso, come se il male fosse ciò che

sempre si precede (...)»14. Dopotutto, quando l'uomo compie il suo primo (nefasto) gesto nel

giardino dell'Eden, il serpente c'era già, e questo perchè «non si può ammettere che l'uomo

9. Riguardo la proibizione di nutrirsi all'albero della vita, Ricoeur sottolinea che «per una libertà innocentequesto limite non sarebbe affatto sentito come un'interdizione; ma non sappiamo più ciò che è questa autoritàoriginaria, contemporanea alla nascita stessa della libertà finita; in particolare non sappiamo più ciò chepotrebbe essere un limite che non opprima ma orienti e custodisca la libertà; non abbiamo più accesso a questolimite creatore. Conosciamo solo il limite costrittivo; sotto il regime della libertà decaduta l'autorità divienedivieto», Finitudine e colpa, p. 516.10. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 509.11. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 180.12. Ivi, p. 191. Ne Il concetto dell'angoscia, SE, Milano 2007, p. 35, Kierkegaard dice qualcosa di simile: «(...) ilpeccato entrò nel mondo con un peccato (…), spiegazione dalla quale risulta la profonda conclusione che ilpeccato presuppone se stesso; che esso viene nel mondo in modo che, mentre è, esso è già presupposto».13. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 497.14. Ivi, p. 525.

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abbia tanta creatività da inventare il male»15, data la limitatezza della sua potenza.

Ma una certa ermeneutica, della quale ancora una volta si fa portavoce Ricoeur, riconosce sì

nel serpente un simbolo del male, ma di un male che io continuo ogni qual volta lo

incomincio e introduco nel mondo, e il «sempre già qui» del male è l'altro aspetto di questo

male di cui tuttavia io sono responsabile. «(…) L'uomo conosce il male solo come ciò che egli

inaugura»16. Anche perchè, continua Ricoeur, per quanto ci si possa spingere in là sulla strada

della satanologia «non so ciò che è Satana, chi è Satana, neppure se è qualcuno (…) Ecco

perchè il mito biblico (…) rimane “adamitico”, cioè antropologico»17.

Alla lettura del mito come dramma di tentazione, infatti, Ricoeur ne affianca una che

sottolinea il carattere istantaneo della caduta18, come anche il nome stesso suggerisce: una

frattura e uno scarto, qualcosa che, in fin dei conti, era del tutto imprevedibile e che non si

inserisce in un flusso temporale più ampio; che, soprattutto, pone in secondo piano il

personaggio del serpente, e con lui i vari significati che gli sono stati via via attribuiti. Non

vittima quanto promotrice del caos, è la creatura a stabilire una volta per tutte la piega che

prenderà la relazione tra lei e il suo creatore, e tutto questo con un solo, unico gesto.

Gesto che solo in una lettura del peccato originale come avvenimento istanteneo può dare

un'idea della contingenza di un male radicale che, afferma Ricoeur, «il penitente è sempre sul

punto di chiamare la sua natura malvagia»19. Come vedremo meglio nel prossimo capitolo,

Kant lo aveva già compreso con mirabile vigore nel suo Saggio sul male radicale: l'uomo è

un essere destinato al bene ma incline al male, e tutto il senso del simbolo della caduta si

concentra in questo paradosso.

15. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 184.16. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 527.17. Ibidem.18. Già solo la compresenza di due esegesi così diverse del peccato originario, causa e modello di quelli che da lìin poi gli uomini commetteranno, ci porta al cuore del mistero della colpa e della drammaticità diquest'esperienza: del fatto, cioè, che chi ha commesso il male si sente spesso al contempo colpevole e vittima,libero eppure avvinto, in una affermazione di sé che allo stesso tempo è alterità a se stesso, sperdimento.19. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 518. D'altra parte, però, non si capisce come il primo uomo abbia potutoincorrere nel peccato se il germe del male non era già in lui in qualche modo presente: anche per consentire a unmale antecedente è infatti necessario essere predisposti ad accoglierlo...

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Anche Jankélévitch, pur non interrogandosi sulla bontà o malvagità della natura originaria

dell'uomo, con il suo invito a protestare contro il male dello Scandalo fissa la sua non

ineluttabilità:

La saggezza ci indica quindi chiaramente il cammino: bisognarassegnarci al principio metempirico dell'assurdo, contro loscandalo invece bisogna protestare. Ma come folli facciamo tutto ilcontrario, rassegnandoci allo scandalo differibile, protestandocontro l'Alternativa ineluttabile. (…) La rassegnazione all'Assurdoè la saggezza stessa, ma la condiscendenza allo scandalo è di per séuno scandalo20.

Tanto più che l'Assurdo, per Jankélévitch, non è niente di “essente”, non è qualcosa di

tangibile su cui cui posso dirottare le mie azioni. Il peccato non va ricercato in qualcosa verso

cui si indirizzerebbe il mio volere, ma nell'avverbio che qualifica questo volere stesso: il

peccato è malevolenza, volere male, un attributo qualitativo che antepone l'intenzionalità della

colpa al suo contenuto. «È (…) l'intenzionalità della colpa che costituisce la colpa stessa.

Ecco perchè fare del male può accompagnarsi alla benevolenza e fare del bene alla

malevolenza. (…) È l'intenzione ad essere viziata»21. Quando gli uomini accusano Satana di

averli tentati non si rendono che, compiendo azioni motivate da un proposito malvagio e

finalizzato a ingenerare la confusione, sono più diabolici di lui22, che se non altro, nello

scenario del male storico, ha un ruolo meno determinabile del nostro.

Ma tanto addurre la dissonanza ontica come circostanza attenuante che addossarci l'intera

responsabilità del male che imperversa significa disattendere quanto qua ci proponiamo di

fare, cioè comprendere «il mistero di una libertà schiava»23. L'ermeneutica della colpa rimedia

solo parzialmente alle debolezze della teodicea: scavare impietosamente nella coscienza per

20. Jankélévitch, Il male, pp. 33-34.21. Ivi, p. 49.22. Anche nelle pagine in cui parla del mito della caduta, Jankélévitch conferma la teoria sull'origine endogenadel peccato. Adamo è costretto ad ammettere che i quattro personaggi dell'uomo tentato, della tentatrice tentata,del tentatore stesso, e della cosa tentante, «(...) ne compongono uno solo, e che quell'unico personaggio è luistesso: si assiste così a una compenetrazione progressiva dei differenti personaggi di quel dramma, che sifondono poco a poco l'uno nell'altro. Questa semplificazione del processo satanologico indica chiaramente che latentazione è in noi, che il tentatore siamo noi stessi (…)», Ivi, pp. 83-84.23. Ivi, p. 44.

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trovare un male nascosto e invisibile all'esterno non rende giustizia né alla complessità del

sentimento di colpa nè alla portata cosmica del male, proprio come fanno gli amici di Giobbe,

araldi di una società che definisce e imputa colpe.

Un'istanza di colpevolizzazione di questo tipo, infatti, isola l'individuo e gli rende

inaccessibile la tragicità del conflitto in cui incorre nell'istante del peccato, tragicità che

Kierkegaard e Ricoeur hanno reso perfettamente con il concetto di “vertigine”24 (in

Kierkegaard quasi sinonimo di “angoscia”), che ci soverchia quando siamo in procinto di

compiere il «salto qualitativo»25 dall'innocenza alla colpevolezza:

(…) colui che, mediante l'angoscia, diventa colpevole è di certo innocente; infatti non era lui, ma l'angoscia, una potenza estranea, che lo prese; una potenza che egli non amava, ma di cui si angosciava...; eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell'angoscia che egli, pur temendo, amava. Non c'è nel mondoniente di più ambigui di questo26.

A differenza di quanto afferma Jankélévitch, che fa scaturire il male dello scandalo da

un'iniziativa individuale, potrebbe esserci «una vertigine che dalla debolezza conduce alla

tentazione e dalla tentazione alla caduta. Così il male, al momento stesso in cui io confesso di

porlo, sembra nascere dalla limitatezza stessa dell'uomo attraverso la transizione continua

della vertigine»27. Descrivere a parole l'attimo della frattura, il lampo in cui la libertà è

precipitata a forza di osservare la sua creaturale finitezza, è quasi impossibile, e anche l'analisi

psicologica di Kierkegaard, dall'istante precedente il peccato, di cui si occupa ne Il concetto

dell'angoscia, passa subito a quello immediatamente seguente, che ne La malattia mortale

dice essere contraddistinto dal sentimento della disperazione.

Certo, il verificarsi della caduta si comprende meglio tenendo conto della limitazione umana,

che è da intendersi come una limitazione a sé stante e non come caso particolare di una

24. Kierkegaard, Il concetto dell'angoscia, p. 61; Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 242.25. Kierkegaard, Il concetto dell'angoscia, p. 49.26. Ivi, p. 45.27. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 242

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limitazione generale: l'eccezionalità della limitazione umana sta tutta nel «rapporto

sproporzionato tra finitezza e infinità», in un collocarsi tra l'essere e il nulla che fa di lei «il

sinonimo della fallibilità». La fallibilità, la fragilità originaria inerente all'essere dell'uomo

come unione di infinità e finitezza, è luogo, possibilità, potere del male. Si dirà quindi a

ragione che la limitazione specifica «rende il male soltanto possibile; si indica allora come

fallibilità l'occasione, il punto di minore resistenza per il quale il male può penetrare

nell'uomo; la mediazione fragile appare allora semplicemente come spazio si apparizione del

male»28.

Ma, anche per Ricoeur, il passaggio da questa possibilità alla realtà, da un male potenziale al

male in atto, prevede «un salto», e il fatto che utilizzi lo stesso termine di Kierkegaard

conferma la vicinanza dei due autori: «da questa possibilità alla realtà del male», sostiene

Ricoeur, «vi è uno scarto (…): è tutto l'enigma della colpa»29. Perché è vero che «la regione e

la struttura della realtà (…) per la loro minore resistenza offrono un luogo al male»

(collaborazione simile a quella dell'Assurdo in Jankélévitch) e che «il salto, la posizione del

male possono essere compresi a partire dalla fallibilità», ma non di meno «è sempre attraverso

il decaduto che l'originario traspare». E se la sproporzione dell'uomo lo rende effettivamente

capace di fallire, ciò non implica che gli precluda l'alternativa del bene.

Anche Ricoeur, quindi, non trova una via d'uscita al paradosso proprio della simbolica del

male, e all'affermazione secondo cui «la limitazione propria ad un essere che non coincide con

se stesso è la debolezza originaria da cui il male procede», fa seguire la precisazione che

«tuttavia, il male non procede da questa debolezza se non per il fatto che si pone». È la stessa

ambivalenza che, nell'affrontare il mito della caduta, Ricoeur aveva descritto come un male

insorgente nell'Istante (il salto, lo scarto) che al tempo stesso progredisce nella Durata (il

dramma di tentazione): due letture che si compenetrano e tra le quali è difficile trovare una

28. Ivi, pp. 228-229.29. Ivi, pp. 237-240.

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mediazione.

Per quanto riguarda la gravità del male compiuto dagli uomini, però, Ricoeur propone una

teoria piuttosto ottimista, secondo cui «l'uomo può essere malvagio solo lungo le linee di

forza o di debolezza delle sue funzioni e della sua destinazione», e quindi «non può inventare

che disordini e mali umani (…) i mali della chiacchiera, della menzogna, dell'adulazione sono

quindi possibili»30.

Su un versante radicalmente opposto si colloca Pareyson, secondo il quale

(…) nel compiere il male l'uomo dimostra una potenza francamentesproporzionata alle sue forze reali, perché può diventare una speciedi diabolico e più che prometeico anti-Dio: col ridestare ciò cheDio ha già vinto, si rende capace di estendere lo spirito dinegazione così provocato all'intero universo, facendone una forzadistruttiva, volta a minare le fondamenta del mondo, come unaspecie di discreazione31.

Come Jankélévitch, anche Pareyson non ritiene l'uomo colpevole di aver inventato il male: ma

prima che l'uomo lo rinvenisse, quest'entità giaceva sopita e sconfitta nell'Eternità, poiché,

dirigendo la sua libera scelta sul Bene e sull'Essere, il Creatore aveva provveduto a scartarla

per sempre. Di quest'alternativa ormai latente l'uomo «è riuscito a fare una forza terribile, cioè

una realtà efficace, capace di vincere il bene, anzi di trionfarne, e di diventare in tal modo una

potenza negativa»32, quella potenza che nel dominio della Storia si scontra ripetutamente col

Bene e il più delle volte ne esce vittoriosa.

E se anche la scelta dell'uomo non dovesse scalfire l'Eternità, che in quanto dimora di Dio è

orientata al Bene a prescindere dalle iniziative umane, quella caduta rappresenta «un autentico

cataclisma, una vera e propria catastrofe, le cui disastrose conseguenze non toccano soltanto

l'uomo ma si ripercuotono sull'intera realtà», ma soprattutto «apre la via alla sofferenza che

dilaga nell'universo, senza che l'uomo abbia alcun diritto di lamentarsene»33. E questa

30. Ivi, p. 242.31. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 192.32. Ibidem.33. Ivi, p. 194.

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sofferenza, come vedremo, è talmente onnipervasiva da trascinare nel suo vortice anche Dio

stesso: dal peccato originale, infatti, col quale aveva decretato il fallimento dell'opera divina

della creazione, l'uomo è implicato in un processo di sempre maggiore peccaminosità, a cui

solo una sofferenza di respiro universale sembra in grado di porre riparazione.

Ma prima di dedicarci alla sofferenza di Dio, è opportuno analizzare il legame che intercorre

tra l'esperienza della sofferenza e quella della colpa, così da giustificare l'unitarietà di due

concetti che, per quanto vengano spesso pensati assieme, presi isolatamente risultano

abbastanza distanti.

La filosofia e la teologia hanno spesso concepito il peccato e la sofferenza, due tra le forme

fondamentali del male, come due concetti interdipendenti, in virtù di una convergenza tra

male commesso e male sofferto. Ma come possiamo pensarli sotto una luce unica? La

sofferenza attiene al piano sensibile, ed esprime quel doloroso stupore di fronte al male che

subiamo da altri uomini, dal mondo o dalla nostra condizione umana, mentre la colpa attiene

al piano morale e designa il consapevole allontanarsi dal bene.

Una prima sovrapposizione tra questi due piani ha una motivazione fattuale: il male compiuto,

infatti, rende il colpevole oggetto di biasimo, condannandolo ad una punizione per quanto ha

commesso, punizione che è sofferenza, fisica (perdita della libertà, punizione corporale) o

morale (vergogna, rimorso). In questo modo la pena inflitta, nel suo essere sofferenza per una

colpa commessa, «scavalca la frattura tra il male commesso e il male subito»34.

D'altro lato, il male che uno compie, a causa della struttura relazionale che contraddistingue il

male stesso, cade sempre, più o meno direttamente, a danno di un altro, facendo sì che ogni

male commesso corrisponda ad una sofferenza inflitta. Anche in questo secondo senso,

quindi, peccato e sofferenza vengono a coincidere. Anzi, è proprio «in questo punto di

34. Ricoeur, Finitudine e colpa, p. 13.

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maggiore intersezione che il grido della lamentazione è più acuto, quando l'uomo si sente

vittima della malvagità dell' uomo»35.

Su questa base, il pensiero ha costruito una coincidenza ancora più profonda tra i due termini,

e dal fatto che ogni punizione sia una sofferenza inflitta per una colpa commessa ha dedotto

che ogni sofferenza sia a sua volta una punizione per una colpa personale, collettiva o avita,

commessa consapevolmente o meno: è il così detto “paradigma della retribuzione”, che ha

avuto grande fortuna nell'Occidente di tradizione giudaico-cristiana. E se ancora ci influenza

nel nostro modo di guardare al male è perché fornisce uno schema razionalizzante e

rassicurante, entro cui situare e quindi rendere comprensibile l'esperienza della colpa: se chi

soffre o fallisce sconta una qualche colpa il male ne esce giustificato, e il colpevole, almeno in

parte, confortato.

Ma se l'ermeneutica della colpa, che va alla ricerca di un male nascosto nei recessi della

coscienza, può considerarsi un rimedio temporaneo alle debolezze della teodicea, ha lo

svantaggio di isolare l'individuo36 e di disconoscere la tragicità del conflitto morale. «Non c'è

più nessun tragico, ma soltanto il male»37, questo, secondo Kierkegaard, l'approdo del lavorio

cristiano sul sentimento di colpa in età moderna, lo stesso lavorio perpetrato dagli amici di

Giobbe, determinati a definire e imputare colpe a motivo di un male apparentemente

inspiegabile.

Più che nei rimbrotti dei suoi amici, la percezione della sofferenza che si sviluppa nel

Novecento trova un riscontro nella stessa protesta di Giobbe: «le immani tragedie che si sono

succedute», infatti, «hanno messo definitivamente in crisi i modi tradizionali di interpretare e

spiegare la sofferenza: e una sofferenza alla quale non si riesca a dare spiegazione e senso

35. Ibidem.36. Secondo Carlo Ciano, l'esperienza di solitudine è uno dei volti della sofferenza odierna, che «è di per séesperienza di interruzione, di intralcio nello scorrere fluido della vita, di scambio non ben regolato con l'esternoo fra parti diverse di un organismo o di un corpo sociale. (…) La sofferenza è, in questo modo, esperienza di nonperfetta appartenenza alla totalità, minaccia di esclusione dal suo processo (…) in questa disappartenenza l'esseresofferente sta per se stesso, è isolato e contratto nella sua individualità», in Sofferenza, ne I concetti del male, acura di P. P. Portinaro, p. 329.37. Kierkegaard, Aut-aut, Mondadori, Milano 2002, p. 45.

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diventa una sofferenza raddoppiata»38. Non di meno, giustificare la sofferenza altrui è un

compito ambiguo, che spesso diventa un'occasione per assottigliare la propria responsabilità e

per presentare il dolore dell'altro uomo come un un fatto ineluttabile. È in questo senso che,

secondo Dorothee Sölle, la giustificazione della sofferenza somiglia alle derive più sadiche

della teodicea, perché «Ogni interpretazione della sofferenza che chiude gli occhi dinanzi alle

vittime e s'identifica con una giustizia che dovrebbe stare dietro la sofferenza, è già in

cammino verso il sadismo teologico che vuole intendere Dio come colui che tormenta»39.

A questo punto sembreremmo giunti ad un vicolo cieco. Se scegliamo di assumere un

atteggiamento che intenda dare senso alla sofferenza altrui ci avviciniamo pericolosamente

agli amici di Giobbe, la cui unica preoccupazione era quella di giustificare Dio e di apparire

devoti ai suoi occhi. D'altra parte, se rifuggiamo ogni tentativo di spiegare la sofferenza, si

rischia di negarle senso una volta per tutte, e di leggerla semplicemente come un fatto assurdo

che siamo costretti ad accettare. Quale modo può esserci, quindi, di avvalorare la nostra e

altrui sofferenza tenendo ferma la sua assoluta e evidente mancanza di senso?

Come precisato da Claudio Cancio, «Quest'ultima questione si pone in modo particolarmente

acuto di fronte alla sofferenza inutile», e questo perché la sofferenza inutile non è solo un caso

particolare della sofferenza. È una sofferenza esemplare. Il motivo di tale esemplarità lo

espone Pareyson:

Rispetto alla peccaminosità universale nessuno è propriamenteinnocente, perché tutti sono peccatori. L'idea di peccato originalecontiene l'onnicolpevolezza umana, la solidarietà originaria degliuomini nella colpa (…) tutti gli uomini sono sotto il dominio delpeccato. (…) Nessuno è innocente, dunque, perché a causa dellacaduta esser uomo significa esser peccatore. Alla solidarietà degli uomini nella colpa corrisponde la solidarietàdegli uomini nel dolore (…): se tutti sono peccatori, tutti devonosoffrire. (…) A rigore, nessuno è veramente innocente (…); su tuttigli uomini, uniti da un'originaria solidarietà nella colpa, grava undestino d'espiazione, sì che anche gli «innocenti», nella misura incui se ne può parlare, sono chiamati a soffrire per gli altri, ondelavare la colpa comune, e il male è così ingente nel mondo che

38. Carlo Cianco, Sofferenza, ne I concetti del male, a cura di P. P. Portinaro, p. 328.39. Dorothee Sölle, Sofferenza, Queriniana, Brescia 1976, p. 51.

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proprio su di essi finisce col ricadere la maggiore sofferenza, colche lo scandalo del male raggiunge il suo estremo40.

Il male che imperversa nel mondo ha vastità e profondità tali che la anche sofferenza di tutti i

peccatori non sarebbe mai sufficiente a riscattarlo. Per questo bisogna ricorrere anche agli

innocenti, e «al tanto temuto e deplorato principio della reversibilità delle sofferenze degli

innocenti in favore dei peccatori»41. E fra gli innocenti bisognerà includere i bambini, i

minorati, e tutti gli inermi della terra. Era di questo, dopo tutto, che già si scandalizzava Ivan

ne I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, il cui pensiero, secondo Pareyson, «è di eccezionale

importanza per un ritrovamento odierno del cristianesimo»42. Nel capitolo La rivolta, Ivan e

suo fratello Alëša si incontrano quasi per caso in una taverna, e cenano insieme rivelandosi

reciprocamente le profondità del loro animo. Subito Ivan pone, come quesito, la realtà di una

sofferenza che non si spiega e non trova ragione di esistere: la crudeltà di un mondo che

prevede la sofferenza dei poveri bambini indifesi. Protesta infatti Ivàn:

(…) Vuol dire che gli uomini stessi hanno colpa di questo: è statoconcesso loro il paradiso, ma essi hanno voluto la libertà e hannorubato il fuoco dal cielo, pur sapendo che sarebbero diventatiinfelici, quindi non c'è tanto da impietosirsi per loro. La mia poveramente, terrestre ed euclidea, arriva solo a capire che la sofferenzac'è, che non ci sono colpevoli, che ogni cosa deriva dall'altradirettamente, semplicemente, che tutto scorre e si livella - maqueste sono soltanto baggianate euclidee, io lo so, e non possoaccettare di vivere in questo modo! (…) Io voglio vedere con imiei occhi il daino sdraiato accanto al leone e la vittima che si alzaad abbracciare il suo assassino. Voglio essere presente quando d'untratto si scoprirà perché tutto è stato com'è stato. Tutte le religionidi questo mondo si basano su questa aspirazione, e io sono uncredente. Ma ci sono i bambini: che cosa dovrò fare con loro? Èquesta la domanda alla quale non so dare risposta. Per la centesimavolta lo ripeto: c'è una miriade di questioni, ma ho preso soltantol'esempio dei bambini, perché nel loro caso quello che voglio direrisulta inoppugnabilmente chiaro. Ascolta: se tutti devono soffrireper comprare con la sofferenza l'armonia eterna, che c'entrano qui ibambini? Rispondimi, per favore. È del tutto incomprensibile ilmotivo per cui dovrebbero soffrire anche loro e perché tocca pure aloro comprare l'armonia con le sofferenze. Perché anch'essidovrebbero costituire il materiale per concimare l'armonia futura diqualcun altro? La solidarietà fra gli uomini nel peccato la capisco,capisco la solidarietà nella giusta punizione, ma con i bambini non

40. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 196.41. Ibidem.42. Ivi, p. 204.

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ci può essere solidarietà nel peccato, e se è vero che essi devonocondividere la responsabilità di tutti i misfatti compiuti dai loropadri, allora io dico che una tale verità non è di questo mondo e ionon la capisco. Qualche spiritoso potrebbe dirmi che quel bambinosarebbe comunque cresciuto e avrebbe peccato, ma, come vedete,egli non è cresciuto, è stato dilaniato dai cani all'età di otto anni.Oh, Alëša, non sto bestemmiando! Io capisco quale sconvolgimentouniversale avverrà quando ogni cosa in cielo e sotto terra si fonderàin un unico inno di lode e ogni creatura viva, o che ha vissuto,griderà: "Tu sei giusto, o Signore, giacché le tue vie sono staterivelate!" Quando la madre abbraccerà l'aguzzino che ha fattodilaniare suo figlio dai cani e tutti e tre grideranno fra le lacrime:"Tu sei giusto, o Signore!": allora si sarà raggiunto il coronamentodella conoscenza e tutto sarà chiaro. Ma l'intoppo è proprio qui: èproprio questo che non posso accettare. E fintanto che mi trovosulla terra, mi affretto a prendere i miei provvedimenti. Vedi, Alëša,potrebbe accadere davvero che se vivessi fino a quel giorno o serisorgessi per vederlo, guardando la madre che abbraccia l'aguzzinodi suo figlio, anch'io potrei mettermi a gridare con gli altri: "Tu seigiusto, o Signore!"; ma io non voglio gridare allora. Finché c'ètempo, voglio correre ai ripari e quindi rifiuto decisamentel'armonia superiore. Essa non vale le lacrime neanche di quella solabambina torturata, che si batte il petto con il pugno piccino e pregain quel fetido stambugio, piangendo lacrime irriscattate al suo"buon Dio"! Non vale, perché quelle lacrime sono rimasteirriscattate. Ma esse devono essere riscattate, altrimenti non ci puòessere armonia. Ma in che modo puoi riscattarle? È forse possibile?Forse con la promessa che saranno vendicate? Ma che cosa me neimporta della vendetta, a che mi serve l'inferno per i torturatori, checosa può riparare l'inferno in questo caso, quando quei bambinisono già stati torturati? E quale armonia potrà esserci se c'èl'inferno? Io voglio perdonare e voglio abbracciare, ma non voglioche si continui a soffrire. (…) Non voglio l'armonia, è per amoredell'umanità che non la voglio. Preferisco rimanere con lesofferenze non vendicate. Preferisco rimanere con le mie sofferenzenon vendicate e nella mia indignazione insoddisfatta, anche se nondovessi avere ragione. Hanno fissato un prezzo troppo alto perl'armonia; non possiamo permetterci di pagare tanto per accedervi.Pertanto mi affretto a restituire il biglietto d'entrata43.

Ora capiamo perché Dostoevskij scriveva: «Il problema principale, che sarà trattato in tutte le

parti di questo libro, è lo stesso di cui ho sofferto consciamente o inconsciamente tutta la vita:

l’esistenza di Dio»44. Infatti, il percorso religioso di Dostoevskij, affidato alle singole voci dei

personaggi, porta con sé il problema del male come la grande obiezione alla Sua esistenza.

Ivan Karamazov, la creazione più complessa fra i personaggi dei romanzi di Dostoevskij, è un

Karamazov razionale, dotato di rettilinea e radicale lucidità. Afferma di essere ateo ma in

realtà il problema religioso lo tormenta. Il lungo e drammatico colloquio che intesse con

43. F. M. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, Mondadori, Milano 2014, pp. 253-257.44. I. Sibaldi, “Postfazione” in F. M. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, cit., 820.

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Alëša, un ragazzo molto giovane intriso di spiritualità monastica, nasce da una vocazione

comune: la ricerca di Dio. Ivan ammette l’esistenza di Dio, sebbene si tratti di un’idea

inaccessibile alla sua mente euclidea, vincolata alla consistenza concreta. Ciò che non riesce

ad accettare è il male del mondo che si traduce nella sofferenza degli innocenti. Il loro

patimento appare non solo inaccettabile, ma addirittura scandaloso: se il nostro mondo è

basato sulla necessità della sofferenza dei bambini, esso è un mondo assurdo, illogico e

immorale e, come tale, del tutto inaccettabile. Di fronte a questi terribili e raccapriccianti casi

di sofferenza inutile, Ivan proclama il suo rifiuto, e non ammette che un supplizio del genere

possa essere redento dall'amore di Dio.

La risposta di Alëša alle proteste del fratello, secondo Pareyson, si dimostra più vicina alla

sensibilità dell'uomo contemporaneo di qualsiasi teologia, e per questo il filosofo sceglie di

farne un approfondimento della sua idea di «Dio sofferente». Ecco di cosa si tratta.

Di fronte ai casi di assoluta ingiustificabilità della sofferenza, Pareyson riconosce che

possiamo ancora mantenerla in un orizzonte di senso soltanto portandola in Dio: perché se

davvero gli innocenti, in nome di un principio intollerabile quale quello della reversibilità

delle sofferenze, devono soffrire per lavare la colpa comune, Dio, deposto l'aspetto di Dio

dell'ira con cui talvolta è stato identificato, dovrà riconoscere che la sua creazione è

fallimentare oltre l'immaginabile. Lo scandalo ha ormai assunto dimensioni così smisurate che

«(...) la sofferenza degli innocenti diventa tollerabile solo sullo sfondo d'uno scandalo ben

maggiore: l'estensione del dramma dell'uomo a Dio stesso, cioè la realtà del Dio sofferente. Si

capisce allora come tutti, i peccatori e gli innocenti, l'uomo e il mondo, l'umanità e la divinità,

vengano implicati in un'unica (…) tragedia cosmoteandrica»45.

Da una lato, il dolore di creature innocenti accresce a tal punto la quantità di male già presente

nell'universo che «ne diventa impossibile l'espiazione senza ricorso alla sofferenza divina»46;

45. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 197.46. Ibidem.

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dall'altro è come se Dio in prima persona si assumesse la responsabilità del fallimento della

sua creazione, e acconsentisse a soffrire per espiare la colpa degli uomini. È questa la forma

di salvezza cristiana che, a differenza di quelle irrise da Ivan, non corrisponde né ad una

miracolistica riduzione, né ad una cancellazione della sofferenza: con la sua assunzione da

parte di Dio si ha piuttosto una sua estensione, in nome di una complicità dell'uomo con Dio

che fa del creatore un essere conflittuale e dialettico tanto quanto la sua creatura. Talmente

dialettico che, per descrivere la sua sofferenza, Pareyson ripropone la teoria di Alëša, cioè il

paradosso del Dio contro Dio, che si realizza nel momento della crocifissione di Gesù:

La sofferenza del Cristo è tanto più infinita e terribile se si pensache in lui è Dio stesso che ha voluto soffrire e ha sofferto. (…) lasofferenza del Cristo ha conosciuto culmini particolarmente tragicie dolorosi, e indubbiamente il più drammatico è il momento in cuiegli sulla croce si è sentito abbandonato da Dio (…) Dio ha rispostocol suo silenzio al grido del Cristo, il che è doppiamente crudele daparte di Dio, perchè Dio non soltanto ha voluto che il Figliosoffrisse, ma lo ha abbandonato nel momento della sofferenza. Ciòsignifica che Dio è crudele innanzi tutti con sé: egli stesso vuolsoffrire, e si abbandona perciò alla crocifissione; non ha risparmiatosuo Figlio, cioè se stesso, e in una forma di sublime masochismoc'è messo contro di sé.(…) Quando con le parole di Alëša Dostoevskij propone il Cristosofferente come una vivente smentita alla duplice idea delfallimento della creazione e della redenzione, introduce lasofferenza in Dio rendendola infinita e (…) implica la presenzadella negazione in Dio, cioè contiene l'idea di un momento ateodella divinità. Dio nega Dio, secondo l'anonimo detto Nemo contraDeus nisi Deus ipse47.

La vittoria sul male e sul dolore è concepibile solo ammettendo questa lotta di Dio contro Dio,

e l'assunzione di tutte le sofferenze da parte di Cristo, l'unico che può portarle fino in fondo e

decretarne l'annullamento48. Ora è chiaro in che senso, nel Cristo sofferente, «nasce il concetto

d'un Dio dialettico, che ha in se stesso l'antinomia e la contraddizione, l'opposizione e

il contrasto, il dissidio e il conflitto. D'un Dio che per amore (verso l'uomo) è crudele (verso

di47. Ivi, pp. 198-200.48. Anche Barth riconosce l'importanza del personaggio di Cristo, poiché è grazie alla sua morte e resurrezioneche la minaccia del Niente è stata definitivamente sventata e sconfitta. Scrive infatti Barth, in Dio e il Niente, pp.56-57: «Lo stare di fronte al Niente è divenuto reale nell'aver sofferto la morte, anzi quella morte: la morte di uncondannato (…) per annientare la morte con la sua morte, vale a dire la morte reale, la morte come condanna eannientamento della creatura, come offesa al suo Creatore, la morte come nemico definitivo. È nella resurrezionedi Gesù Cristo dalla morte che Dio ha rivelato questa vittoria».

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sé sino a voler soffrire e verso il Figlio sino ad abbandonarlo»49.

Lungi dall'accusare Dio del male del mondo, bisognerebbe rendersi conto che il primo a

disperarne, a soffrirne fino alle lacrime, è proprio Dio stesso. È questa, in definitiva, la

risposta di Alëša Karamazov alla contestazione mossa dal fratello, «E forse il silenzio di Dio,

ch'è così terribile per l'uomo gettato nel baratro della sua peccaminosità e della sua angoscia,

non è di chi tace perché non c'è, o di chi tace perché abbandona, ma di chi tace perché piange,

e tace appunto per piangere»50.

Quando la sofferenza raggiunge il suo apice perde anche la capacità d'espressione e diventa

mutismo, inibizione del pensiero e paralisi dell'azione. Il silenzio di Dio, invece, è stato

spesso interpretato come segno di una sua lontananza, ostilità o impotenza: l'inabissarsi di

un'ultima possibilità di risposta e il completo naufragio del senso.

Anche Hans Jonas, nel celebre scritto Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, si

interroga sul silenzio di Dio, e, specificamente, sul suo silenzio in risposta alle voci che si

levano straziate dai campi della morte. Per spiegarlo senza dover ricorrere alla nota sentenza

nietzschiana, Jonas propone di «ripensare radicalmente Dio»51, in un modo che, nuovamente,

contempli la possibilità di un Dio sofferente. Ma il Dio sofferente di Jonas è diverso da quello

di Alëša e di Pareyson. La sua non è una sofferenza che si somma a quella dei bambini e degli

innocenti in generale, e questo perché non si manifesta solo nei momenti in cui vengono

commesse ingiustizie: «il rapporto tra Dio e mondo», infatti, «dal momento della creazione, e

in modo certo, dal momento della creazione dell'uomo, comporta per Dio una certa dose di

sofferenza»52. Così Jonas ci sottopone l'immagine di un Dio che soffre nell'atto stesso di

creare, un'immagine non facile da ammettere per la teologia, ma che certi passi della Bibbia

ebraica, dove incontriamo un Dio «che si sente ignorato e misconosciuto dall'uomo e di ciò si

49. Pareyson, Ontologia della libertà, p. 201.50. Ivi, p. 221.51. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz. Una voce ebraica, il melangolo, Genova 2004, p. 11.52. Ivi, p. 28.

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rattrista»53, sembrerebbero confermare.

È evidente che per concepire una divinità di questo tipo bisogna innanzi tutto privarla

dell'attributo dell'onnipotenza54, anche perché

Dopo Auschwitz possiamo e dobbiamo affermare con estremadecisione che una Divinità onnipotente o è priva di bontà o ètotalmente incomprensibile (nel governo del mondo in cui noiunicamente siamo in condizione di comprenderla). Ma se Dio puòessere compreso solo in un certo mondo e in un certo grado, allorala sua bontà (cui non possiamo rinunciare) non deve escluderel'esistenza del male; e il male c'è solo in quanto Dio non èonnipotente55.

Anzi, la Trascendenza acquista piena consapevolezza di se stessa solo con la comparsa (e la

creazione) dell'essere che la limita, «e da quel momento ne segue l'agire trattenendo il respiro,

sperando e corteggiandolo, con gioia e con tristezza, con soddisfazione e disinganno; e, come

credo, facendosi sentire, senza entrare direttamente nella dinamica del dramma che si svolge

sul palcoscenico del mondo»56. Nel momento della creazione Dio scelse di autolimitarsi, di

abdicare ad ogni potere di intervento negli eventi del mondo fisico. E fu per tenere fede a

questo giuramento originario che non pose fine agli orrori di Auschwitz con un intervento

miracoloso: «Dio tacque.», afferma Jonas, «Ed ora aggiungo: non intervenne, non perché non

lo volle, ma perché non fu in condizione di farlo»57.

Ma la verità è che, di fronte alla sofferenza di milioni di innocenti, «Tutto ciò è un

balbettio»58. Perché, pur ammettendo che la sofferenza di Dio possa essere una risposta alla

protesta di Giobbe, gli eventi del secolo appena trascorso hanno determinato una svolta

decisiva nella concezione del male e della colpa in particolare.

Per capire come abbia potuto imporsi un simile ripensamento, ci dedicheremo ad uno scritto

53. Ivi, p. 29.54. Per una trattazione esaustiva sulla problematicità del concetto stesso di onnipotenza, v. Ivi, pp. 34-35.55. Ivi, p. 35.56. Ivi, p. 27.57. Ivi, p. 36.58. Ivi, p. 41.

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kantiano che sin'ora abbiamo trascurato, e in cui è contenuta la dottrina del male radicale.

Questa teoria è fondamentale per almeno due motivi: per se stessa, in quanto offre una lettura

del concetto di colpa alternativa a quella del peccato originale, e per l'influenza che avrà su

quei pensatori che, nel secondo Novecento, torneranno sull'argomento. E dopo l'esperienza,

più o meno diretta, della realtà dello sterminio totale, un'acme di malvagità che due secoli

prima nessuno sarebbe stato in grado di prevedere, ci si chiederà se la dottrina kantiana non

torni ad essere d'aiuto.

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3) Pensare il male alla luce dei drammi storici del XX secolo: il recupero del

concetto kantiano di male radicale

Auschwitz rappresenta oggi tutto quel che intendiamo quando usiamo la parola“male”: un'azione assolutamente immersa nell'errore che non lascia spazio amotivazioni o espiazioni(S. Neiman, Qual è il problema del male?, in Ripensare il male, a cura di M. P.Lara, Meltemi, Roma 2003, p. 54).

Il problema del male sarà la questione fondamentale della vita intellettualeeuropea nel dopoguerra(H. Arendt, “Incubo e fuga”, in Archivio Arendt 1. 1930-1968, a cura di S. Forti,Feltrinelli, Milano 2001, p. 168).

L'intento di questo capitolo è di stabilire uno spazio in cui la nostra consapevolezza del male

possa basarsi su tragedie come l'Olocausto, che ci hanno costretti ad apprendere e

riconsiderare i significati concreti delle opere malvagie. E sviluppare una concezione del male

che tenga conto degli orrori del XX secolo non è compito facile. Non è facile innanzi tutto

perché ci costringe ad allontanarci dalle precedenti concezioni del male, a realizzare che tutte

quelle categorie di pensiero e quei criteri di giudizio che abbiamo faticosamente appreso

«sembrano esploderci in mano nel momento in cui proviamo ad applicarli»1.

La nostra appartenenza ad un'era postmetafisica, è vero, non ci aiuta in tal senso. Dire che

viviamo in un mondo postmetafisico, infatti, equivale a dire che abbiamo oramai perduto la

credenza in un ordine diffuso che fonda e permea il mondo come un tutto. Ma se il terremoto

di Lisbona nel 1755, un disastro naturale estraneo alla sfera dell'azione umana, aveva

collaborato al crollo definitivo di tutto questo, cosa possiamo dire di Auschwitz?

Auschwitz ci ricorda che, oltre ad averci sottratto importanti punti di riferimento, questo

nostro mondo postmetafisico ci impone anche dei doveri. Al contrario di terremoti e

inondazioni, che abitano ai margini della significazione umana, il male che si è verificato ad

1. Arendt, Mankind and Terror, in Essays in Understanding 1930-1954, a cura di J. Kohn, Harcourt Brace & Co.,New York 1994, p. 302.

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Auschwitz è qualcosa su cui sentiamo di dover riflettere, riflettere in vista di comprendere.

Ma cosa ne è del problema del male in un'epoca come la nostra, in cui la filosofia non è più

legata o sostenuta dalla metafisica?

A partire dallo scritto kantiano del 1791 già citato, infatti, né Dio né i suoi propositi possono

essere oggetto del discorso filosofico. Da quel momento in poi, sembra suggerirci Kant,

dovremo “rassegnarci” a vivere come Giobbe: senza fondamenti e sostenuti solo da un saldo

carattere morale, unica base possibile per una fede autentica e sincera. Nei suoi amici, invece,

decisi a voler dimostrare quanto non potrà mai essere dimostrato e a difendere a spada tratta

l'operato divino, sono esemplificati quei processi di ragionamento tipici di una metafisica di

stampo leibniziano che è opportuno lasciarsi alle spalle.

Due anni dopo aver dichiarato finito il tempo delle teodicee, Kant completa la sua transizione

da una prospettiva metafisica a una morale con La religione entro i limiti della sola ragione,

compiendo una vera e propria rivoluzione concettuale nel campo della riflessione filosofica: a

partire da questo scritto, infatti, il male si impone definitivamente come oggetto dell'attività

umana e della scelta morale. L'analisi del primo capitolo sarà il nostro punto di partenza,

perché qua è contenuta la teoria del male radicale, un concetto che molti contemporanei del

filosofo tedesco avversarono o comunque ritennero secondario rispetto al resto della sua

produzione.

L'espressione “male radicale”, in effetti, sarà caratterizzata da una singolare rarità di

occorrenze. Quel che a noi interessa è che rientrerà nell'uso lessicale proprio nel Novecento, e

proprio nell'ambito della riflessione sul totalitarismo. Perché, forse, il «fondo demonico della

libertà umana»2, come scrive Ricoeur, che Kant è stato in grado e ha avuto il coraggio di

vedere, potrà contribuire a guidare la riflessione su quel male di cui siamo stati testimoni nel

corso del XX secolo.

2. Ricouer, Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 34.

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«Quando, nel 1793, apparve La religione nei limiti della semplice ragione – opera di cui

il concetto di male radicale, nuovo per lo stesso Kant, rappresenta il cardine –, Goethe

scrisse a Herder le celebri parole secondo cui Kant avrebbe “ignominiosamente

imbrattato il suo mantello filosofico con la macchia infamante del male radicale”. Non

può stupire che, muovendo dalla stessa idea, Schiller abbia qualificato l'accettazione

kantiana di una tendenza al male come “rivoltante”»3.

La reazione tiepida che accolse uno dei «più essenziali enigmi»4 della filosofia kantiana è in

parte dovuta ai rapporti che il concetto di male radicale, a prima vista, sembra intrattenere con

la prospettiva cristiana: con contenuti di fede quali il peccato originale, la grazia, la

resurrezione, tutti ugualmente invisi agli esponenti del nuovo spirito umanistico.

«Solo, peccato che l'espressione “male radicale” derivi da Kant in un senso del tutto diverso,

che neanche Goethe e Schiller hanno afferrato», recita la lettera di Jaspers ad Arendt del

22 ottobre 19635. Innanzi tutto, se con il concetto di “radice”6 Kant torna alla

fonte dell'antropologia cristiana, lo fa scongiurandone le conseguenze

deresponsabilizzanti, in modo da coniugare la consapevolezza della malvagità umana

(compresa dal cristianesimo), con la dimostrazione del carattere libero della perversione del

volere umano.

Ma andiamo con ordine. Quand'è che, per Kant, è lecito definire cattivo un essere umano?

Per dire cattivo un uomo bisogna poter risalire a priori da alcune azioni cattive, o anche da una sola azione, compiute coscientemente, ad una massima cattiva posta a loro fondamento, e, da questa massima, ad un principio generale, che, a base di tutte le massime particolari, moralmente cattive, si trova nel soggetto e, a sua volta, è esso stesso una massima. Ma, per non inciampare subito nel termine natura, che, se (come avviene comunemente) dovesse designare il contrario del

3. Jaspers, Il male radicale in Kant, Morcelliana, Brescia 2011, p. 43.4. Ivi, p. 32.5. Carteggio 1926-1969, Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, Feltrinelli, Milano 1989, p. 561.6. «La metafora della radice cattiva da cui possono provenire solo frutti velenosi viene usata molto presto nellaBibbia per rappresentare il carattere del singolo uomo o dell'umanità tutta (…). Nel linguaggio figuratoquest'immagine rende percepibile l'idea di una tendenza insopprimibile perché indipendente dal libero arbitrio ederivante piuttosto dal determinismo naturale. (…) L'evocazione del carattere di radicalità di un vizio come diuna virtù mira a mettere in luce la loro indipendenza dalla deliberazione consapevole dell'uomo e soprattuttodall'efficacia completa del suo volere», scrive M. A. Pranteda nel capitolo Male radicale, in I concetti del male, acura di P. P. Portinaro, pp. 159-160.

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fondamento degli atti di libertà sarebbe in contraddizione direttacon i predicati di moralmente buono o di moralmente cattivo;bisogna rilevare che qui, con le parole «natura dell'uomo», siintende unicamente il fondamento soggettivo dell'uso della libertàumana in generale (sotto le leggi morali oggettive)(…) Quando noi dunque diciamo che l'uomo è per natura buono oper natura cattivo, vogliamo semplicemente significare con ciò cheegli ha in sé un fondamento originario (…) pel quale egli adottamassime buone o cattive (opposte alla legge) (…)Diremo dunque di ciascuno di questi caratteri (…) che esso è innatoin noi; e tuttavia ammetteremo sempre che non la natura ne porta lacolpa (se l'uomo è cattivo) o il merito (se l'uomo è buono); ma chel'uomo stesso ne è autore.7

Più che il singolo atto malvagio, quindi, è l'intenzione dell'agente a decidere il suo carattere

morale, perché «l'intenzione dell'agente (…) di fronte alla legge morale non resta mai

indifferente, non è mai neutra: né buona, né cattiva»8. Ciascun giudizio sulla nostra condotta

etica deve riguardare la coscienza della legge, legge che direziona il nostro agire con una

necessità che non subiamo, ma «che noi stessi propriamente siamo»9: quel che mi dice

l'imperativo categorico (forma della legge in generale), infatti, è di agire come se la massima

che dirige la mia azione potesse sempre valere da principio di legislazione universale. La

persona che sono e il mondo che abito vengono alla luce e si riconfigurano ogni volta che

agisco. Questo punto, come vedremo, è di fondamentale importanza, perché Adolf Eichmann,

durante il celebre processo tenutosi a Gerusalemme l'11 Aprile 1961, tirando in ballo proprio

l'imperativo categorico, mise in scena una spiazzante “difesa kantiana”.

Ma se ci fosse solo l'obbligatorietà della legge morale, che ci si impone «irresistibilmente, in

virtù della disposizione morale che l'uomo ha», e che, «se nessun altro movente lo spingesse

in senso contrario» l'uomo assumerebbe nella sua massima come principio sufficiente a

determinare l'arbitrio, non potremmo che essere moralmente buoni. Ovviamente non è così: la

natura umana presenta tanto una disposizione al bene che una tendenza al male. La prima, lo

sappiamo, ha il suo fondamento nella legge morale, rappresentazione razionale del bene. Ma

la seconda?

7. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, Editori Laterza, Bari 2004, pp. 18-20.8. Ivi, p. 23.9. Jaspers, Il male radicale in Kant, p. 44.

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Ma qui è questione solo della tendenza al male propriamente detto,cioè al male morale; il quale – poiché è possibile solo comedeterminazione del libero arbitrio, e questo a sua volta può esseregiudicato buono o cattivo solo per le sue massime – bisogna checonsista nel fondamento soggettivo della deviazione dellemassime dalla legge morale, e, se questa tendenza puòlegittimamente essere ammessa come inerente in modo generaleall'uomo (per conseguenza al carattere della sua specie), essa saràchiamata una naturale tendenza al male.10

Nell'uomo la tendenza al male equivale alla deviazione delle massime, via via adottate, dalla

legge morale. Come ciò possa avvenire è presto detto: accanto al movente della legge morale,

che fa riferimento alla nostra origine razionale – Kant la chiama “intellegibile” – , l'uomo, in

virtù della sua disposizione naturale e ugualmente innocente, dipende anche dai moventi della

sensibilità, e quindi dall'amor proprio. Ma la tendenza al male celata da questi moventi non è

fisica, cioè appartenente all'arbitrio dell'uomo in quanto essere naturale, perché ciò

equivarrebbe a dire che gli esseri umani peccano a causa delle loro inclinazioni naturali e dei

loro impulsi sensibili. La tendenza al male, invece, è una tendenza morale, «cioè appartiene

all'arbitrio dell'uomo in quanto essere morale»11, ed ha a che fare con un'erronea

gerarchizzazione dei due moventi che lo compongono. Noi non agiamo mai per mezzo delle

nostre inclinazioni sensibili se non nella misura in cui acconsentiamo a farlo, includendole

nella nostra massima: il male morale, infatti, deve scaturire dal libero arbitrio e da un atto di

volontà. Volontà che, spesso, non è propriamente cattiva, ma soltanto debole o impura.

Nella maggior parte dei casi, infatti, l'uomo subordina il movente della legge morale a quello

dell'amor proprio (che dovrebbe invece esserne condizionato) senza che alla base vi sia una

vera e propria intenzione12, che è la sola a poterci informare sulla bontà o malvagità delle

10. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 28-29.11. Ivi, p. 31.12. Riguardo questo punto, Jaspers, ne Il male radicale in Kant, p. 58, afferma «Quando chiarifico a me stessosecondo ragione l'intenzione rispetto ai princìpi delle azioni che intendo compiere o che ho compiuto, in nessunmodo sono in grado di provare di aver agito, anche nella mia reale intenzione, in conformità a quei princìpi. Inogni circostanza, l'oggettività del principio e l'oggettività della legge – benché senza di essi non si diano azionibuone né cattive – mi rendono impossibile sapere se, agendo, io sia buono o cattivo. Non lo si può mai sapere.Posso conoscere sempre solo la legalità delle mie azioni, mai la moralità della mia intenzione. Non posso maisapere ciò che autenticamente sono: se, per il fatto di avere agito bene, possa considerarmi buono». Comevedremo, il rapporto tra legalità e moralità di un'azione sarà di primaria importanza per comprendere l'operaredei funzionari nazisti e di Eichmann in particolare.

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azioni: il presupposto dal quale bisogna partire, infatti, è che l'uomo non è mai un essere

diabolico. Può fallire nell'attualizzare il movente della legge a causa della sua fragilità, può

peccare di impurità inquinando la sua massima, altrimenti morale, con moventi egoistici, per

poi illudersi che un'azione conforme al dovere sia stata effettivamente compiuta puramente

per dovere, ma anche nel caso che Kant definisce «perversità del cuore umano», in cui, come

già suggerisce il nome, si ha un vero e proprio pervertimento dell'ordine dei moventi e la

maniera di pensare è corrotta nella sua radice (corsivo mio), «L'uomo (anche il peggiore),

quali che siano le sue massime, non trasgredisce la legge morale per il semplice spirito di

rivolta (mediante il rifiuto di obbedienza)»13.

Perché, se è pur vero che l'origine di questo male è insondabile, non di meno siamo in grado

di dire dove il fondamento di questo male non va ricercato14: e così come non si annida nella

nostra sensibilità e nelle inclinazioni naturali, allo stesso modo non riflette una corruzione

della ragione moralmente legislatrice. E questo perché, se da una parte «la sensibilità contiene

troppo poco per ridurre l'uomo ad una condizione ferina», «una ragione malvagia, una

volontà cattiva in quanto tale contiene troppo, poiché l'opposizione alla legge morale sarebbe

elevata a movente e il soggetto diventerebbe un essere diabolico. Ma l'uomo non è né bestia

né diavolo»15. Per dirla con le parole di Kant:

Per offrire dunque una spiegazione del male morale nell'uomo, lasensibilità contiene troppo poco, perché essa, eliminando i moventiche possono derivare dalla libertà, fa dell'uomo un esserepuramente animale; mentre una ragione, che si sottragga alla legge

13. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, p. 37.14. Come ricorda Jaspers, ne Il male radicale in Kant, pp, 50-53, «(...) il male in sé non appare mai. Il male (…) non è per nulla un elemento dell'esserci che si lasci esaminare, e neppure costituisce una forza naturale che si ponga come oggetto di una ricerca empiricamente cogente e in grado di approdare a risultati universalmente validi. (…) Il male, laddove venga chiarificato essenzialmente in me stesso, si traduce in un pungolo che non lascia alcun riposo, rigettando senza posa l'uomo all'indietro, verso la sua radice, affinché non si perda nei piani più superficiali. Tutte le considerazioni sul male nel mondo, nelle discussioni relative ai domini della psicologia, della speculazione metafisica, sono forme di elusione dell'essenziale». Anche Ricoeur ammirava questo rifiuto kantiano dell'oggettivazione del male. Afferma infatti: «Kant ha visto il fondo demonico della libertà umana, ma con la sobrietà di un pensiero sempre attento a non trasgredire i limiti della conoscenza e a preservare lo scarto tra il pensare e il conoscere un oggetto» (Il male. Una sfida alla filosofia e alla teologia, p. 34). Anche facendo propria la narrazione della Scrittura, osserva Kant a p. 46 de La religione entro i limiti della sola ragione, nel sostenere che l'uomo è caduto nel male per tentazione e non come corrotto nel suo fondo, la questione rimane insoluta: «donde proviene il male in quello spirito?», si domanda infatti Kant riferendosi alla figura del serpente.15. Ivi, p. 65.

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morale, come a dire: una ragione malvagia (una volontàassolutamente cattiva) contiene invece troppo; perché, in tal modo,l'opposizione contro la legge stessa sarebbe elevata a movente (nonpotendo l'arbitrio determinarsi, senza alcun movente); ed allora ilsoggetto sarebbe trasformato in un essere diabolico. Ma nessuna di queste due conclusioni è riferibile all'uomo.16

Il male radicale, quindi, non viene mai perseguito direttamente dagli esseri umani, non può

essere voluto per se stesso. Solo se, agli occhi dell'uomo, assume le sembianze di un bene, il

male può essere ammesso dalla ragione, e questo perché qualsiasi movente che non sia quello

della legge morale è razionalmente irrappresentabile, compreso quello che le si oppone. Ecco

perchè è impossibile che gli uomini compiano il male per il male17.

È una teoria, quella di una volontà umana essenzialmente buona, piuttosto antica nella storia

della filosofia. Già Platone, nel Protagora, era convinto che nessuno compia azioni malvagie

pensando che lo siano: gli uomini commettono azioni malvagie trascinati dalle loro erronee

concezioni del bene. E Kant argomenta nella stessa direzione quando, ripetiamo, afferma che

«l'uomo (anche il peggiore), quali che siano le sue massime, non trasgredisce mai la legge

morale per il semplice spirito di rivolta (mediante il rifiuto di obbedienza)». Una ragione

esentata dalla legge morale, una ragione perversa così come una volontà assolutamente cattiva

non possono, secondo Kant, essere forme umane di ragione: esse possono appartenere

esclusivamente ad una creatura demoniaca. L'individuo malvagio si distingue da quello

buono solo per via della precedenza che accorda ai moventi sensibili sulla legge morale nel

determinare i princìpi della propria condotta: «l'uomo (…) è cattivo perché nelle sue massime

capovolge l'ordine morale dei moventi in cui li accetta»18.

16. Kant, La religione entro i limiti della ragione, p. 36.17. A questo proposito meritano una menzione le riflessioni di Alessandro Ferrara, contenute nel capitolo Il male che gli uomini compiono, in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara. Scrive Ferrara, p. 311: «(...) il primo punto da comprendere è che una concezione demoniaca di quanto è accaduto ad Auschwitz e in altri luoghi similari, in quanto incarnazione del male, equivarrebbe a un riconoscimento postumo della concezione hitleriana dell'universo morale come teatro di una battaglia tra bene e male. Quel che fu fatto ad Auschwitz fu compiuto in nome del bene, una specifica concezione del bene per una specifica comunità. Non venne fatto con il fine intenzionale di negare la legge morale, ma come una sua deliberata affermazione. Come diceva Hitler (cit. in Bernauer 1989, p. 49): “Solo il popolo tedesco ha fatto della legge morale un principio sovrano dell'azione”. Non dovremmo mai sottovalutare questo fatto, e prestare invece attenzione a comprendere il punto in cui i nazisti hanno commesso l'errore».18. Ivi, p. 39.

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Sebbene Kant non sfrutti al meglio il potere esplicativo della nuova nozione, limitandosi a

dire che esiste in noi questa certa propensione al male, non di meno è stato il primo a

motivarla ipotizzando la presenza di un principio malvagio accanto a quello della moralità. E

il male radicale, radicale perché «corrompe il fondamento di tutte le massime e,

contemporaneamente, come tendenza naturale, non può essere distrutto mediante le sole forze

umane», per Kant non è altro che l'inversione dell'ordine dei moventi.

Non si tratta quindi di una tendenza totale a rifiutare la legge e a respingere qualsiasi

considerazione morale (questo, lo abbiamo visto, viene considerato incompatibile con la

nostra predisposizione al bene), ma piuttosto di una sradicabile tendenza a subordinare le

considerazioni di tipo morale a quelle che derivano dall'amore per se stessi. Prosegue infatti

Kant: «(…) noi riconosciamo realmente la validità dell'imperativo categorico e (…) (nel pieno

rispetto per esso) semplicemente ci permettiamo alcune eccezioni a cui non conferiamo

grande importanza e consideriamo quasi inevitabili». Molti commentatori19, a tal proposito,

hanno parlato di un autoinganno della ragione: la ragione cioè sbaglia nel giudicare la

rappresentazione fenomenica di natura antropologica superiore a quella noumenica della

legge, e in questo modo cade in un errore di giudizio di cui essa per prima non si avvede,

trattandosi di un errore tutto interno alla sua facoltà rappresentativa. Come avremo modo di

vedere, anche questo aspetto del male radicale, che in un certo senso determina una perdita di

contatto con la realtà, sarà ripreso dalle riflessioni sull'Olocausto e sulla condotta dei

carnefici.

È quindi del tutto ammissibile che Allison parli de La religione entro i limiti della sola

ragione nei termini di «un'antropologia morale a base empirica»20, tanto più che, poche pagine

più avanti, il filosofo tedesco, creando un collegamento tra male e cultura, inaugura un

19. Faccio particolarmente riferimento al capitolo Male radicale di M. A. Pranteda, in I concetti del male, a curadi P. P. Portinaro, pp. 159-183.20. H. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale), in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, Meltemi,Roma 2003, p. 164.

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paradigma completamente nuovo: posto infatti che il male sia profondamente radicato

nell'amor proprio, qualora ci trovassimo immersi in contesti sociali competitivi ne

scaturirebbero molto facilmente reciproche ostilità. Ecco il brano a cui si riferisce Allison:

(…) si troverà nei vizi della cultura e della civiltà (i più umilianti ditutti) quanto basta per distogliere piuttosto lo sguardo dalcomportamento degli uomini, al fine di non procacciarsi da se stessiun altro vizio: quello della misantropia. Se, dopo ciò, non si èancora contenti, si può prendere in esame la situazioneinternazionale risultante in modo meraviglioso dallagiustapposizione dei due precedenti stati, naturale e civile: ivi lenazioni stanno le une di fronte alle altre secondo i rapporti delrozzo stato di natura (stato di guerra perpetua), dal quale esse hannoanche fermamente deciso di non uscire mai (…) di modo che ilchiliasmo filosofico, che spera in uno stato di pace perpetua,fondato sulla federazione dei popoli come repubblica mondiale è(…) messo generalmente in ridicolo come una stravaganza.21

I vizi che provano l'efferatezza dell'uomo nei confronti di altri uomini, quindi, non sono così

lontani dalla semplice subordinazione delle considerazioni morali all'amor di sé, anzi: un

amor proprio originariamente innocente, se incoraggiato da un contesto sociale competitivo e

da un certo ideale di autorappresentazione, può alla fine generare i crimini più terribili.

Questo aspetto sarà ripreso da Hannah Arendt, quando si occuperà del male non più da un

punto di vista politico, ma morale: ne La banalità del male, infatti, scritto nel 1961, dove si

indaga anche il funzionamento soggettivo dei docili funzionari, Arendt sembra ammettere che

il carattere di Eichmann fosse stato forgiato e corrotto dal suo contesto sociale. Se la

menzogna venisse eretta a qualità specifica del carattere nazionale, infatti, i doveri morali

e quelli legali continuerebbero a coincidere? Non ci troveremmo di fronte ad uno di quei

casi particolari in cui «non si ha né la facoltà né il dovere di obbedire»22? Scrive Arendt:

(…) il caso di Eichmann è diverso da quello del criminale comune.Questo può sentirsi ben protetto, al riparo dalla realtà di un mondoretto, soltanto finché non esce dagli stretti confini della sua banda.Ma ad Eichmann bastava ricordare il passato per sentirsi sicuro dinon star mentendo e di non ingannare se stesso, e questo perché luie il mondo in cui aveva vissuto erano stati, un tempo, in perfettaarmonia. (…) l'abitudine di ingannare se stessi era divenuta così

21. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 34-35.22. Ivi, p. 46.

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comune, quasi un presupposto morale per sopravvivere, che ancoraoggi, a vent'anni dal crollo del regime nazista, (…) si è portati acredere che il mendacio sia divenuto parte integrante del caratteretedesco.23

Durante il Terzo Reich, un istinto di per sé innocente come quello dell'autoconservazione è

stato contaminato da teorie deliranti sulla purezza razziale, considerate in quanto mezzo per

aumentare le possibilità di sopravvivenza di un popolo: ecco come la pura propensione al

male di cui parla Kant può dar conto del male in quanto fenomeno culturale. La sua psicologia

morale, quindi, dispone di risorse in grado di esplicitare le motivazioni di malfattori come

Eichmann, anche grazie alla trattazione dei «vizi della civiltà», che, al massimo della loro

espansione, possono divenire «vizi malvagi», a maggior ragione se divengono parte integrante

di una cultura morale: è forse questo il significato che, ai nostri giorni, potremmo attribuire

all'espressione «male radicale» (e che dunque si discosta da quello kantiano)? Sarebbe cioè

radicale quel male che Alessandro Ferrara definisce “paradigmatico”, e che appartiene «a una

cultura morale nel suo insieme e a quelle azioni che consideriamo rappresentative di quella

cultura morale»24?

La prima pensatrice del Novecento che adotta la nozione kantiana di male radicale allo scopo

di interpretare l'Olocausto, è Hannah Arendt. Queste riflessioni, oltre che negli scambi

epistolari col suo maestro Karl Jaspers, vengono ampiamente sviluppate già ne Le origini del

totalitarismo, opera conclusa nel 1949 e pubblicata nel 1951.

Il recupero arendtiano del termine “male radicale”, però, ha poco a che fare con il concetto a

sfondo morale coniato da Kant: il suo intento, infatti, era di rappresentare un esempio storico

concreto di un qualcosa che Arendt pensava non avesse precedenti, cioè la disumanizzazione

sistematica degli esseri umani.

23. Arendt, La banalità del male. Eichmanna Gerusalemme, Feltrinelli Editore, Milano 2011, pp. 60-61.24. Alessandro Ferrara, Il male che gli uomini compiono, in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 318.

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È quindi un tipo specifico di male politico che Arendt chiamò male radicale, quello del

totalitarismo, che in questo modo veniva distinto da tutte le altre forme di dominazione da

parte dei regimi politici: la sua appropriazione della nozione morale kantiana di male radicale,

quindi, è finalizzata alla costruzione di una teoria politica del male, diversa ma non alternativa

a quella che Arendt svilupperà dieci anni (e un processo) più tardi.

Nelle pagine conclusive de Le origini del totalitarismo Arendt afferma che l'esperienza

dell'Olocausto avrebbe messo in questione la filosofia in generale e quella kantiana in

particolare, e proprio sul terreno del male. Difatti:

È conforme alla nostra tradizione filosofica non poter concepire un“male radicale”, e ciò vale tanto per la teologia cristiana, che haconcesso persino al demonio un'origine celeste, quanto per Kant,l'unico filosofo che, nella terminologia da lui coniata, deve avereperlomeno sospettato l'esistenza di questo male, benché l'abbiaimmediatamente razionalizzato nel concetto di malvolerepervertito, spiegabile con motivi intellegibili. Quindi non abbiamonulla a cui ricorrere per comprendere un fenomeno che ci sta difronte con la sua mostruosa realtà e demolisce tutti i criteri digiudizio da noi conosciuti (…). Le soluzioni totalitarie potrebberosopravvivere alla caduta dei loro regimi sotto forma di tentazionidestinate a ripresentarsi ogni qual volta appare impossibile alleviarela miseria politica, sociale, od economica in maniera degnadell'uomo.25

Recuperando il concetto di male radicale Arendt si sforzava di dare un nome al male che

aveva segnato il suo secolo, una catastrofe che ha frantumato ogni continuità col passato e che

tuttavia non può non avere legami con la nostra tradizione, di cui la filosofia è una delle

componenti più emblematiche. Ma ora che i criteri etici tradizionali sono irrimediabilmente

esplosi, il male radicale non può più consistere in una “controllata” inversione di moventi

(non a caso Arendt rimprovera a Kant di non aver approfondito a sufficienza la gravità del

male di cui si limitò a sospettare l'esistenza): nell'epoca dei totalitarismi il male radicale si

rivela nel progetto di un' Unica Umanità, basato sulla volontà di costruire una natura

dell'uomo da cui estirpare ogni tratto non sussumibile sotto una legge universale. Che dopo gli

orrori dei totalitarismi il male radicale possa ancora limitarsi ad essere la corruzione del

25. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino 2004, pp. 628-629.

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fondamento di tutte le massime, per Arendt è qualcosa di inammissibile.

Riutilizzando il concetto kantiano con una forzatura di significato, Arendt, oltre a tentare di

comprendere l' (apparentemente) incomprensibile, aveva già intuito che il vocabolario morale

e politico allora a disposizione, compreso il senso originario di “male radicale”, non era più

sufficiente. Ma sono dieci gli anni che ancora ci separano dal processo Eichmann e dal conio

dell'espressione “banalità del male”, per il quale, oltre che l'esperienza diretta al Tribunale

Distrettuale di Gerusalemme, deve aver svolto un ruolo significativo anche l'influenza di Karl

Jaspers, maestro e amico col quale Arendt tenne una densa corrispondenza epistolare.

Negli scritti tra La banalità del male e La vita della mente Arendt si avvicina alla tesi kantiane

di Jaspers, con il quale finirà per condividere un “kantismo” che, per quanto possa suonare

paradossale, non avrebbe mai potuto accomunare i due pensatori se Arendt avesse mantenuto

quella definizione di “male radicale”.

Per chiarire meglio a cosa ci riferiamo, ecco quanto Arendt obietta a Jaspers il 17 Agosto

1946, in una lettera inserita nella discussione relativa alle lezioni del filosofo sulla

Schuldfrage:

Un'altra cosa mi sta a cuore: la Sua definizione della politicanazista come delitto (“colpa criminale”) mi pare discutibile. Similidelitti, mi sembra, non sono più concepibili dal punto di vistagiuridico, e proprio in ciò è la loro mostruosità. Per delitti di talfatta non c'è più alcuna punizione adeguata; intendiamoci,impiccare Göring è necessario, ma del tutto insufficiente. Insomma,questa colpa, diversamente da ogni altro crimine, sopravanza einfrange qualsiasi ordinamento giuridico. (…) I tedeschi stannoportando il peso di migliaia o di decine di migliaia o di centinaia dimigliaia di uomini per i quali non esiste più, all'interno di unsistema giuridico, un castigo adeguato (...)26.

In queste righe Arendt manifesta perplessità nei confronti della nozione jaspersiana di “colpa

criminale”: la politica nazista, a suo modo di vedere, non appartiene più all'ambito dei delitti

in senso giuridico, ma inaugura una nuova categoria (disumana) di colpa: la mostruosità,

definibile secondo i criteri dell'imperdonabilità, dell'impunibilità, e dell'incomprensibilità

26. Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, p. 67.

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delle motivazioni che ne stanno alla base.

Poiché la nozione kantiana di “male radicale” non prevede l'esistenza di una volontà malvagia

(il che deriva direttamente dalla tesi secondo la quale dobbiamo continuare a rispettare

l'imperativo categorico anche quando lo violiamo), possiamo affermare che, nel periodo in

cui lavorava a Le origini del totalitarismo, Arendt aveva una concezione del male

piuttosto distante da quella del filosofo di Königsberg: l'incomprensibilità delle motivazioni

da cui si origina la mostruosità non può trovare un rispecchiamento in quelle

«motivazioni comprensibili», come l'interesse personale e l'amore di sé, con cui Kant tentò

di spiegare il male.27 Ciò che a Kant non poteva venire in mente, una volta realizzato, si

presenta come «un male assoluto, impunibile e imperdonabile che non può più essere

compreso e spiegato con i malvagi motivi dell'interesse egoistico, dell'avidità, dell'invidia,

del risentimento, della smania di potere, della vigliaccheria»28.

La replica di Jaspers alla lettera di Arendt, datata 19 ottobre 1946, è di grande interesse,

principalmente per ragioni terminologiche. Scrive infatti Jaspers:

Secondo Lei, ciò che i nazisti hanno fatto non sarebbe concepibilecome “delitto”; ebbene, la sua visione mi appare un pocoinquietante, dal momento che la colpa, che supera ogni colpacriminale, assume così inevitabilmente un tratto di “grandezza” – disatanica grandezza –, ciò che è estraneo ai miei sentimenti di fronteal nazismo, così come il discorso sul “demoniaco” in Hitler econsimili. Mi sembra, poiché così è, che si debbano assumere lecose nella loro totale banalità (corsivo mio), nella loro piatta nullità– i batteri possono provare epidemie capaci di annientare interepopolazioni, e tuttavia restano solo batteri. (…) E uno Shakespearenon potrebbe mai rappresentare questo soggetto in modo adeguato– senza falsificazioni di natura estetica – né gli sarebbe perciòconsentito. Nel nazismo non c'è alcuna idea né essenza. Siesaurisce come oggetto della psicologia e della sociologia, dellapsicopatologia e della giurisprudenza.29

Non appare arbitrario ipotizzare che il concetto di banalità del male reso celebre da Arendt

27. Premettiamo che Arendt, anche ne La banalità del male, non giunse mai a parlare del male in termini dimotivazioni comprensibili. Se, infatti, ne Le origini del totalitarismo la gravità degli orrori esclude l'esistenza dimoventi umanamente concepibili, dopo il processo di Gerusalemme sosterrà che tali motivazioni sonosemplicemente assenti.28. Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 628.29. Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, p. 71.

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cinque anni più tardi avesse come remota fonte d'ispirazione Jaspers stesso, il quale, infatti,

accoglierà positivamente la sua svolta ermeneutica dalla teoria della radicalità a quella della

banalità, interpretandola come un sorta di scivolamento dall'analisi di un male storico

determinato ad una teoria generale del male.

La celebre lettera con cui Arendt sigilla lapidariamente questa svolta risale al 24 luglio 1963,

ed è indirizzata a Gershom Scholem. Scrive Arendt:

Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”,ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né unadimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondointero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso“sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca diraggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento incui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua“banalità”. Solo il bene è profondo e può essere radicale.30

Oltre alla ripresa del termine “banalità”, è da segnalare una certa contiguità tra i “batteri” di

cui parlava Jaspers e il “fungo” di Arendt: non un male trasgressivo quindi, ma un'attiva

passività che, per quanto svuotata di ogni grandezza, è comunque in grado di contaminare il

mondo intero.

Da Basilea, così Jaspers reagiva al passo della lettera a Scholem, scrivendo all'antica allieva il

22 ottobre 1963: «Ecco qui la parola decisiva contro il “male radicale”, contro la Gnosi! Tu

stai dalla parte di Kant, che dice: l'uomo non può mai essere un demonio, e io sono con te»31.

Come ben sintetizzato da Allison, «Poiché il rifiuto da parte di Kant della possibilità di una

volontà malvagia è un tratto essenziale della sua analisi del male radicale, laddove Arendt vi

30. Arendt, Lettera a G. Scholem (24 Luglio 1963), in Id., Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano2003, p. 227.31. Carteggio 1926-1969. Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, pp. 204-205. A dire il vero, quasi due mesipiù tardi, Jaspers accentuò le sue perplessità riguardo a quel brano epistolare. Osserva infatti, rispetto all'idea di“banalità del male”: «Io penso: l'idea è splendida, e, come sottotitolo del libro, felice. Significa: questo male èbanale, non il male. La tua risposta a Scholem non mi è piaciuta del tutto, nella sua formulazione, su questopunto. Ciò che il male è, sta pur dietro l'espressione con cui caratterizzi Eichmann. E il problema è tale che,di fatto, è assai improbabile che vi si possa rispondere in modo soddisfacente. Nella lettera mi pare che la tuarisposta sia insieme troppo drasticamente alternativa e troppo debole», p. 561. Le ragioni teoretiche di taliperplessità emergono più chiaramente nel saggio sul male radicale in Kant, già citato e scritto quasi un trentennioprima: al filosofo di Königsberg, secondo Jaspers, occorre rivolgersi per non illudersi di poter catturare il malein un concetto o in un sistema che pretendano di esibirne la natura sostanziale.

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fa appello proprio quando nega che il male possa essere radicale – non dovremmo

sorprenderci del fatto che i due siano giunti a condividere lo stesso punto di vista attraverso

percorsi del tutto diversi»32. Nel momento in cui respinge l'idea di motivazione malvagia,

infatti, Arendt si avvicina all'idea kantiana più di quanto non avesse fatto ne Le origini del

totalitarismo in cui aveva aperto le porte al concetto. Al contrario di quanto aveva fatto in

quel testo, parlando degli orrori del XX secolo in termini di banalità (termine che, precisiamo,

non deve evocare una profanazione degli stessi), Arendt non li imputa più ad una repubblica

di diavoli, preferendo calarli in una zona grigia fatta di uomini comuni, le cui nature e

personalità non rappresentano eccezioni e non rivelano patologie; e sono proprio questi

uomini comuni, esemplificati nella figura di Eichmann, a rimettere in moto l'interrogazione

arendtiana, questa volta per rilanciare questioni non più politiche, ma etiche, e quindi più

vicine all'approccio kantiano.

Con La banalità del male, Hannah Arendt fa un passo oltre Kant verso una teoria

postmetafisica, principalmente per due motivi: innanzi tutto perché coniando il termine

“banalità ha soddisfatto l'esigenza, generalmente avvertita, di un nuovo vocabolario morale, e

in secondo luogo perché ha avuto la lucidità di distinguere due tipi di giudizio, quello politico

e quello etico, che non possono più esser confusi, e ancor meno identificati. Perché si

arrivasse a tali risultati era stato necessario abbandonare l'approccio metafisico e politico al

problema del male, che aveva guidato Le origini del totalitarismo, disinteressarsi ai “poteri

demoniaci” detenuti dagli esecutori e prepararsi ad entrare in una mente consapevole (ma fino

a che punto?) di intraprendere un atto malvagio: un approccio, quest'ultimo, molto simile a

quello che anima La religione entro i limiti della sola ragione.

32. H. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale), in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, Meltemi,Roma 2003, p. 157.

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Respingendo l'idea di un male generato da una motivazione malvagia e sostituendola con

la teoria di un male banale e senza spessore, Arendt, lo abbiamo detto, si avvicina

sensibilmente a Kant. Ma cosa significa davvero il termine “banalità” riferito al male, e

non ad un male ordinario, ma a quello senza precedenti perpetrato dal nazismo? Non rischia

di restare, come scrisse Scholem, un semplice slogan privo di un'analisi convincente

e bisognoso di approfondimento filosofico?33 Richiamandoci alla tesi di Allison,

sosteniamo che Kant sia in grado di fornire un quadro di riferimento filosofico in cui il

concetto di banalità possa essere parzialmente compreso e la figura sfuggente di Eichmann

riesca ad assumere tratti umani. Dopotutto, tra Kant e lo stesso Eichmann non manca un

collegamento diretto. L'imputato, infatti, durante la sua difesa al processo

dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i princìpidell'etica kantiana, e in particolare conformemente a unadefinizione kantiana del dovere. L'affermazione era veramenteenorme, e anche incomprensibile, poiché l'etica di Kant si fondasoprattutto sulla facoltà di giudizio dell'uomo, facoltà che escludela cieca obbedienza. (…) il giudice Raveh (…) decise di chiederechiarimenti all'imputato. E con sorpresa di tutti Eichmann se neuscì con una definizione più o meno esatta dell'imperativocategorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che ilprincipio della mia volontà deve essere sempre tale da poterdivenire il principio di leggi generali” (…). (…) procedette aspiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzionefinale aveva smesso di vivere secondo i princìpi kantiani, e che neaveva avuto coscienza (…). Alla Corte non disse però che in questoperiodo di “crimini legalizzati dallo Stato” – così ora lo chiamava –non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non piùapplicabile, ma l'aveva distorta facendola divenire: “agisci come seil principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore odella legge del tuo paese”, ovvero, come come suonava ladefinizione che dell' “imperativo categorico nel Terzo Reich” avevadato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: “agisci in unamaniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe”(Die Technik des Staates, 1942, pp. 15-16). Certo, Kant non si eramai sognato di dire una cosa simile34

Perché il fatto che Eichmann abbia obbedito alla legge legale, a quella cioè del territorio, non

è sufficiente a giustificare le sue azioni da un punto di vista morale. La concezione morale

dell'imputato era sicuramente distorta, e il suo non ritenersi colpevole di quanto intrapreso

33. G. Scholem, Lettera a H. Arendt (23 giugno 1963), in Id., Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, pp.220-221.34. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pp. 142-143.

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derivava dal presupposto (indiscusso) che la propria volontà si debba identificare col principio

che soggiace alla legge. A nche a quella nazista. Ma cosa potrebbe spiegare lo sviluppo di

convinzioni morali così sbagliate?

La spiegazione più conosciuta è che Eichmann non abbia realmente pensato a quanto stava

facendo: «Eccezion fatta per la sua eccezionale diligenza nel pensare alla propria carriera, egli

non aveva motivi per essere crudele, e anche quella diligenza non era, in sé, criminosa; è certo

che non avrebbe mai ucciso un suo superiore per ereditarne il posto. Per dirla in parole

povere, egli non capì mai che cosa stava facendo (corsivo mio)»35..

Il non pensare, nel suo caso particolare, aveva a che fare col rifiutarsi di porre in questione la

natura dei fini cui certi mezzi (impartire un ordine, apporre la propria firma) servivano; ed è

difficile parlare di mezzi e di fini, specialmente in un contesto del genere, senza ricordare il

secondo imperativo categorico kantiano, quello che ci impone di trattare gli altri esseri umani

non come mezzi per nostri scopi, ma come fini in se stessi, come persone. Mentre l'incapacità

di pensare da imputare ad Eichmann sembrava equivalere a «un'incapacità (…) di pensare dal

punto di vista di qualcun altro. Comunicare con lui era impossibile, non perché mentiva, ma

perché le parole e la presenza degli altri, e quindi la realtà in quanto tale, non lo toccavano» 36.

L'osservazione di Arendt trova un rispecchiamento nelle parole di Ferrara, secondo il quale

L'orrore che proviamo quando pensiamo all'Olocausto (…) è legatoall'orrore (…) di fronte all'idea della perdita totale di contatto con larealtà così come viene vista da altri esseri umani, o la chiusuraentro un mondo (…) in cui il significato che attribuiamo alle nostreazioni è completamente scollegato da quello che acquisiscono nelmondo di tutti gli altri esseri umani. Quando guardiamo al maleradicale dal punto di vista delle vittime, l'orrore è suscitatodall'abisso che separa la loro innocenza dalla loro sorte, cioè,ancora, dall'insensatezza, dal loro punto di vista, dei tormenti subìtio dalla totale mancanza di relazione tra le loro azioni e la lorosorte37.

Questa la cecità morale di cui “soffriva” Eichmann, senza la quale la sua convinzione di aver

35. Ivi, p. 290.36. Ivi, p. 57.37. Ferrara, Il male che gli uomini compiono, in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 330.

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sempre evitato di provocare sofferenze non necessarie rimarrebbe insensata38: per esseri

umani pensanti, ovviamente, rimane una convinzione folle, nella misura in cui

Se qualcuno è un essere pensante, radicato nei propri pensieri ericordi e per cui sa che deve vivere con se stesso, ci saranno limiti aciò che permetterà a se stesso di fare. E questi limiti non gli siimporranno dall'esterno ma saranno per così dire autoposti; questilimiti possono certo cambiare da persona a persona, da paese apaese, da secolo a secolo. Ma il male estremo e senza limiti esistesoltanto dove queste radici sono completamente assenti. Ed essesono assenti ovunque gli uomini scivolano sulla superficie deglieventi, dove consentono a loro stessi di volgere lo sguardo senzapenetrare nella profondità di cui potrebbero essere capaci39.

Dove la capacità di pensare è assente, quindi, là si trova potenzialmente la banalità del male.

E in tale prospettiva resistere al male significa esercitare il pensiero a interrogare

costantemente se stesso, impedendo che un principio egemonico come quello nazista metta

fine al dialogo.

Ciò che in questa sede ci interessa è che nella mancanza d'idee di Eichmann, la quale, come

abbiamo visto, si traduce nell'impossibilità di conferire agli altri la loro umanità, Arendt

intravede delle radici kantiane. Come emerge dal suo lavoro pubblicato postumo Lectures on

Kant's Political Philosophy (Teoria del giudizio politico), «la strana combinazione tra la

preoccupazione di evitare sofferenze gratuite e l'assoluto disinteresse per lo sterminio di

massa»40 può essere ulteriormente analizzata servendosi, piuttosto che della Critica della

ragion pratica o della Religione entro i limiti della sola ragione, della Critica del giudizio, un

testo in cui Arendt intravedeva un'implicita filosofia politica, per l'importanza rivestita dal

giudizio riflettente.

Nella terza critica il resoconto del giudizio riflettente, soprattutto di quello di gusto,

38. Arendt., La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, pp. 116-117.39. Arendt. Some Questions of moral Philophy cit., pp. 60-61 (traduzione mia). Sull'indifferenza come assenzadella capacità di sentire e di mettersi nei panni degli altri, scrive Jaspers ne La questione della colpa, RaffaelloCortina Editore, Milano 1996, pp. 71-72: «Anche per chi doveva rassegnarsi nella sua impotenza rimanevasempre lo spazio per qualche efficace attività, prendendo ogni cautela e correndo qualche rischio. Nel fatto cheper paura si è trascurato di farlo, ciascuno riconoscerà la propria colpa morale: l'essere rimasti ciechi di frontealla sventura degli altri, questa specie di mancanza d'immaginazione da parte del cuore e il non sentirsiinteriormente colpiti da quelle sofferenze che si avevano innanzi agli occhi».40. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale), in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 162.

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«presuppone la capacità di astrarre dagli interessi individuali e di considerare l'oggetto

estetico (o la sua rappresentazione) da un punto di vista universale. (…) Arendt considera la

capacità di giudizio in questo senso – o, in termini kantiani, la capacità di adottare il principio

di un modo di pensare ampliato – essenziale non solo per l'estetica, ma anche per la vita

morale e la politica»41. Eichmann, quindi, potrebbe essere di un caso estremo di incapacità di

giudizio, incapacità che Arendt sostiene più volte essere stata caratteristica di tutto il

periodo nazista.

Un altro tema tipico della Critica del giudizio che ha una forte attinenza con il caso

Eichmann riguarda l'incapacità di comunicare, che Kant ritiene inseparabile da quella di

giudicare: uno degli aspetti più sconcertanti del comportamento di Eichmann è proprio il

suo utilizzo del linguaggio, che, intessuto di luoghi comuni, rispondeva perfettamente alla

volontà nazista di offuscare il vero statuto morale delle loro azioni servendosi di termini

freddamente tecnici (l'espressione “soluzione finale” è in questo senso massimamente

esplicativa):

(…) tutta la corrispondenza relativa alla questione doveva rispettare rigorosamente un determinato “gergo”, e se si eccettuano i rapporti degli Einsatzgruppen è raro trovare documenti in cui figurino parole come “sterminio”, “liquidazione”, “uccisione”. Invece di dire uccisione si dovevano usare termini come “soluzione finale”, “evacuazione” (Aussiedlung), e “trattamento speciale” (Sonderbehandlung); invece di dire deportazione bisognava usare parole come “trasferimento” o “lavoro in oriente” (Arbeitseinatz im Osten), oppure se si parlava di persone dirette a Theresienstadt (il cosidetto “ghetto dei vecchi”, per categorie privilegiate di ebrei), si doveva dire “cambiamento di residenza”, in modo da darel'impressione che si trattasse di provvedimenti temporanei42.

Data questa trattazione della mancanza d'idee e dell'ottundimento attraverso il linguaggio,

Arendt si pone la seguente domanda retorica: «È questo un esempio di malafede, un ingannare

se stesso, congiunto a un'enorme stupidità? O è semplicemente l'eterna storia di un criminale

che non si pente?»43; il primo interrogativo ricorda da vicino il concetto kantiano di malvagità,

41. Ibidem.42. Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, p. 93.43. Ivi, p. 59.

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che il filosofo reputava possibile solo nella misura in cui il soggetto si impegni in una sorta di

sistematico autoinganno. La risposta che si dà A rendt stessa, per quanto

non venga puntualmente esplicitata, è che anche un umanissimo autoinganno diviene

criminale quando è finalizzato ad evitare che chi lo pratica si confronti con il vero

carattere morale delle proprie azioni e con la responsabilità ultima per esse.

Tuttavia, porsi il quesito è comunque lecito: potrebbe essere, anche il caso di

Adolf Eichmann, l'esempio di una ragione che “ingenuamente” si autoconvince di

avere intenzioni morali?

Come osserva Alison, molto probabilmente Kant è stato tra i primi a

comprendere che l'autoinganno rappresenta «il meccanismo principale messo in atto

dagli esseri umani per sfuggire alle loro responsabilità»44. Ne La religione entro i

limiti della sola ragione, infatti, quando affronta il tema della fragilità e dell'impurità

umana, Kant ne parla in termini di autoinganno: il primo riguarda lo scambio di uno

stato mentale corrotto per un caso di cattiva sorte morale, il secondo la certezza di agire

solo per dovere quando in realtà abbiamo bisogno di qualche movente exra-morale per

convincerci a fare quanto il dovere stesso richiederebbe. Per di più, ne La metafisica dei

costumi, quando tratta della menzogna, pone l'accento proprio su quella interiore:

Per altro la mancanza di sincerità nei giudizi che si pronunciano sunoi stessi, merita il biasimo più severo; perché, partendo da un basecosì debole (la falsità, che sembra avere le sue radici nella naturaumana), il flagello della dissimulazione si estende anche allerelazioni con gli altri uomini, una volta che sia stato violato ilprincipio supremo della veridicità45.

Ma il concetto kantiano di autoinganno può davvero essere impiegato al fine di gettare luce

sul caso Eichmann? Non è scontato, infatti, che un uomo vissuto senza riconoscere gli

obblighi più basilari (ricordiamo il noto concetto kantiano secondo cui, anche per gli individui

più malvagi, la consapevolezza di quale sia il proprio dovere non viene mai meno) e incapace

44. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale), in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 174.45. Kant, La metafisica dei costumi, Laterza, Bari 1970, pp. 289-290.

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di provare rimorsi di coscienza possa esser decifrato in termini kantiani. Affinché ciò sia

plausibile, è necessario riprendere in considerazione la concezione kantiana riguardo la

capacità di decisione morale: come già sappiamo, si tratta del primo imperativo, quello che

impone di sottoporre la propria massima alla verifica della generalizzabilità. Quest'aspetto

della teoria morale di Kant, osserva Allison, viene spesso messo in discussione

(…) da quei critici che denunciano come praticamente ognimassima, se formulata nel modo appropriato, è in grado disuperare tale verifica. (…) credo che questo problema lungamentedibattuto segnali l'incapacità di riconoscere la complessità dellapsicologia morale di Kant, piuttosto che i limiti della sua teoriamorale. Qui basti dire che è proprio la verifica delle massime afornire l'occasione preminente di autoinganno, che in questo casodiventa la pratica di distrarci dalla vera natura delle massime inbase a cui agiamo. In breve, sembra che le massime immoralisuperino la prova di universalizzazione solo perché ignorano oeclissano alcuni tratti, fondamentali dal punto di vista morale, diuna data situazione. (…) Lungi quindi dal dimostrare la vacuitàdell'imperativo categorico, la verifica kantiana dimostra comel'imperativo possa essere applicato in modo scorretto da queisoggetti radicalmente malvagi che tuttavia ne riconosconol'autorità46.

I tratti “fondamentali dal punto di vista morale” di cui parla Allison, nel caso di Eichmann

consistono nella consapevolezza di avere a che fare con altri esseri umani, un dato per il quale il

carnefice ostentava un'estrema indifferenza. Data l'inconfutabile rilevanza morale di

tale aspetto è comprensibile che Allison possa reputare Eichmann «un caso limitativo di

malvagità in senso kantiano», anche perché, «se questa indifferenza è in qualche modo

volontaria, e deve esserlo se vogliamo sia imputabile, allora diventa difficile capire come si

possa evitare di farla risalire a qualcosa di simile a una tendenza al male»47.

Il concetto di banalità applicato al male, quindi, non è uno slogan vuoto, come insinuato da

Scholem. Esemplifica la necessità e lo sforzo di trovare un nome ad un male “nuovo”, di

46. Allison, Riflessioni sulla banalità del male (radicale), in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 176.47. Ivi, p. 147.

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fronte al quale, se non può esserci d'aiuto un'etica religiosa (la quale, sin dal mito della caduta,

concepisce il male in termini di trasgressione), anche quella offertaci dalla filosofia si

dimostra del tutto inadeguata.

Innanzi tutto, non è più concepibile un comportamento morale inteso quale adattamento del

particolare alla legge universale: se il «tu devi», infatti, rimane vuoto e viene utilizzato come

condizione necessaria del comportamento morale effettivo, si può arrivare a giustificare tutto,

compresa l'impossibilità di resistere al male. E il comandamento del nazismo, afferma Arendt,

non recitava più «non uccidere», ma «tu devi uccidere», il che, unito al principio supremo

dell'obbedienza senza il quale non si riteneva possibile mantenere alcuna comunità politica,

ha fatto sì che l'uccisione della popolazione ebraica venisse giudicata un dovere morale, il

nuovo imperativo categorico. Infatti,

(…) come nei paesi civili la legge presuppone che la voce dellacoscienza dica “Non ammazzare”, (…) così la legge dellaGermania hitleriana pretendeva che la voce della coscienza dicessea tutti: “Ammazza” (…). Il male, nel Terzo Reich, aveva perduto laproprietà che permette ai più di riconoscerlo per quello che è – laproprietà della tentazione. Molti tedeschi e molti nazisti dovetteroessere tentati a non uccidere, a non rubare a non mandare a morire iloro vicini di casa; e dovettero essere tentati di non trarre vantaggida questi crimini e divenirne complici. Ma Dio sa quanto beneavessero imparato a resistere a queste tentazioni48.

«La coscienza di Eichmann» scrive Arendt «era come un contenitore vuoto; essa non aveva

un proprio linguaggio, ma articolava la lingua della società rispettabile»49. Eichmann, dunque,

come il resto degli allineati al regime, non era sordo alla voce della coscienza, perché in preda

alla schiavitù delle passioni o perché vittima del delirio della ragione; “banalmente”, ascoltava

la sua coscienza, la quale si esprime nella lingua della collettività, a sua volta connessa al

contenuto e alla vigenza della nuova legge.

Se per la tradizione filosofica a cui eravamo abituati era fondamentale stabilire un contributo

soggettivo per il mantenimento di un ethos condiviso, la preoccupazione che adesso percorre

48. Arendt, La banalità del male, p.157.49. ID., Some Questions of Moral Philosophy cit., p. 30.

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le riflessioni sul giudizio morale è precisamente l'opposta, e ci si chiede se e come sia

possibile resistere al conformismo di un ethos condiviso. Il male del XX secolo è

banale anche per questo, non perché sia un male meno orribile, ma perché è «avviluppato

alla vita quotidiana, un male come forma condivisa di vita invece che drammatica

frattura di una forma di vita, o, per usare un'altra formulazione, un male che ha perso

la sua natura di tentazione per diventare un'abitudine»50.

È per questo che A rendt, nell'ultima parte della sua vita, si occupò del giudizio riflettente

kantiano: perché l'inesorabile banalità del male, forse, potrebbe arrestarsi solo attraverso un

giudizio ricalcato su quello estetico, e quindi in grado di distinguere, in assenza di leggi e

criteri condivisi, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Come fattualmente esemplificato da

quei pochi che rifiutarono il loro consenso al regime, infatti, una volta azionato il meccanismo

del pensiero si rendeva se non altro possibile non collaborare e non accondiscendere ad alcun

tipo di azione.

A desso è chiaro che ad Eichmann non va concesso alcun genere di “difesa kantiana”. La

distanza tra l'imperativo categorico così come Kant lo intese, rispetto a come Eichmann lo

fece proprio, risiede nella fonte della legge: essa per Kant derivava dalla ragion pratica,

mentre per Eichmann dal Führer-Befehl (ordine del Führer); è proprio questo che fece

di Eichmann un cittadino ligio alla legge, come la Arendt lo definisce e intende. Per Kant

«ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la

ragion pratica ciascuno trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi della

legge»; per Eichmann, invece, «essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire,

ma anche agire come si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce».

50. Ferrara, Il male che gli uomini compiono, in Ripensare il male, a cura di M. P. Lara, p. 316.51. Arendt, La banalità del male, pp. 156-157.

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L'etica di Kant, a differenza di quella di Eichmann è fondata primariamente sulla facoltà di

giudizio dell’uomo e non sulla cieca obbedienza.

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2. LIBERARE L'INDIVIDUO E LA STORIA: IL PERDONO

“Accecato dalle sue stesselacrime e dalla luce della graziadivina, egli chinò il capo e udì legravi parole di assoluzione escorse la mano del prete levatasu di lui in segno di perdono.”(James Joyce, Ritratto dell'artistada giovane, cap. 4)

«Certamente, la colpa inespiata e, più ancora, il male stesso formano la materia del perdono;

l'esistenza del male è, se non, per essere esatti, la “ragione” del perdono (…), almeno la sua

ragion d'essere»1. Questa considerazione di Jankélévitch, contenuta in un testo del 1967

intitolato Il perdono, ci viene in aiuto per giustificare l'introduzione del tema del perdono, su

cui sarà incentrata la seconda parte dell'elaborato, proprio dopo esserci confrontati con quello

del male. E, ancor più che con quello del male, con quello della colpa: sembra infatti che non

sia concepibile perdono se non là dove le varie azioni malvagie possano essere ricondotte ad

un autore, e che quindi sia il male umano, tanto individuale che collettivo, a circoscrivere il

suo campo d'azione.

Perché, abbiamo visto affermare Kant ne La religione entro i limiti della sola ragione, l'uomo

può sempre contare su di un' «originaria disposizione al bene», disposizione che non potrà

mai andare perduta: se la si perdesse, infatti, non saremmo più in grado di riconquistarla. La

seguente trattazione del perdono partirà proprio da qui, dal sentimento di colpa che blocca il

soggetto agente e dalla sua soppressione; dopo aver tentato un'indagine storica del concetto di

perdono, che è paragonabile a quello di male in quanto a difficoltà di definizione,

1. Jankélévitch, Il perdono, Edizioni IPL, Milano 1968, p. 225.

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affronteremo questioni come la sua parentela, in primo luogo linguistica, con il dono, e quella

con l'amore.

Nel secondo paragrafo, dedicato all'aspetto collettivo (e quindi, per così dire, “storico”) del

perdono, Ci chiederemo se, come sostiene Henry Rousso, oltre che a liberare la coscienza del

singolo, un perdono autentico non sia anche un antidoto a quelle “ossessioni del passato” che,

in seguito alla cessazione di conflitti bellici o di eventi altrettanto traumatici, rischiano di

affliggere una popolazione. Facendo particolare riferimento alla Shoah, terremo conto anche

dei pericoli insiti nella memoria censurata e/o manipolata, perché «il pericolo principale, al

termine del percorso, sta nella trattazione della storia autorizzata, imposta, celebrata,

commemorata – della storia ufficiale»2. Quale atteggiamento è consigliabile adottare in casi

come questi? L'invito a perdonare, ad esempio, rischia spesso di ribaltarsi in un'apologia

dell'oblio e della dimenticanza.

La transizione politica da un regime autoritario verso uno democratico pone anche questioni

di ordine giuridico e legale: “È preferibile fare i conti senza mai chiuderli veramente, o

chiudere i conti senza averli mai fatti?” è una domanda che, da quando si è acquistata piena

consapevolezza dell'universo concentrazionario, è tornata a condizionare i processi legali e

amministrativi. I quali, data la sua natura extra-giuridica ed extra-legale, non sembrano

disponibili ad accogliere il perdono fra le loro opzioni risolutive. Il terzo e ultimo capitolo si

occuperà della “giustizia di transizione”, di come, cioè, si debbano sì fare i conti con il

passato, ma senza che questo significhi dimenticare , vendicare, o precludere ad un popolo la

possibilità di un futuro libero da rancore e propositi di vendetta.

2. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, Raffelli Cortina Editore, Milano 2003, p. 636.

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1) Risollevarsi dal male: il perdono. Una genealogia

La colpa, lo abbiamo visto, consiste in una cattiva azione, e, a questo titolo, condannabile.

Nel vocabolario del saggio kantiano sulle grandezze negative, la colpa è una grandezza

negativa della pratica.1 Ma se, a questo primo titolo, la colpa è limitata tanto quanto la

regola che infrange, le cose vanno diversamente quando spostiamo l'attenzione

sull'implicazione dell'agente nell'atto: questa, infatti, equivale a rendere illimitata «la

risonanza sulla coscienza di ognuna delle nostre azioni»2, in virtù di un'inadeguatezza

riscontrata dall'io rispetto al suo desiderio più profondo, il desiderio di integrità.

Non senza ragioni, quindi, Jaspers include la colpa tra le “situazioni limite”3, vale a dire

tra quelle determinazioni dell'esistenza che troviamo sempre già là, quali la morte e la

sofferenza: ma se questo genere di esperienze, da una parte, ci coglie inermi e impreparati,

dall'altra ci sollecita alla riflessione, ci dà a pensare. E, per quanto riguarda l'esperienza della

colpa, ci dà da pensare sulla struttura dell'imputabilità delle nostre azioni, nella quale essa si

inscrive. «In effetti», afferma Ricoeur, «non può esserci perdono se non là dove si può

accusare qualcuno, presumerlo o dichiararlo colpevole. E non si possono accusare che

azioni imputabili a un agente, il quale si ritiene il loro vero autore. In altri termini,

l'imputabilità è quella capacità, quell'attitudine, in virtù della quale le azioni possono essere

messe in conto a qualcuno»4. È come se l'articolazione fra l'atto e l'agente, che è ciò

in cui consiste l'imputabilità, nell'esperienza della colpa fosse ferita da una penosa

afflizione. Ed è proprio a questo punto, prosegue Ricoeur, che entra in gioco il perdono:

1. Kant, Tentativo per introdurre nella filosofia il concetto di quantità negative, in Scritti precritici, a cura di P.Carabellese, R. Assunto, R. Hohenemser, Laterza, Bari 1953, pp. 257-301.2. Jean Nabert, Elementi per un'etica, La Garangola, Padova 1975, p. 11.3. Jaspers, Chiarificazione dell'esistenza, Libro II, Sezione III, L'esistenza come incondizionatezza nellasituazione, la coscienza e l'azione, pp. 676-819.4. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, Raffelli Cortina Editore, Milano 2003, p. 653.

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«la colpa», infatti, «è il presupposto esistentivo del perdono»5. C'è anche chi ha visto

nella colpevolezza una condizione così intrinseca alla condizione umana da reputare il

perdono un vero e proprio male morale, che metterebbe la libertà umana a disposizione

di Dio e offenderebbe la nostra libertà: una colpa, quindi, imperdonabile non di fatto ma

di diritto, poiché «L'essere colpevole di un'azione cattiva non può essere tolto a

nessuno, perché è indivisibile dal colpevole (…) Vi è certo, moralmente, un

superamento del male (…) ma non una nullificazione della colpa come tale»6. Eppure,

«risuona la proclamazione che questa semplice espressione riassume: “C'è il

perdono”»7.

Ma che cos'è il perdono? E in cosa consiste, concretamente, la sua azione liberatrice?

Definire il perdono non è meno difficile che definire il male. Nel perdono, infatti

c'è una sorta di laconismo soprannaturale: la parola si pronuncia spesso nel silenzio e non ha altro commento che il bacio paradossale, l'ingiusto e incomprensibile bacio, lo scandaloso bacio dato al persecutore; ma il bacio non è parola, come le lacrime non sono “linguaggio”; l'abbraccio è piuttosto un gesto (…); se si parlasse invece di dare silenziosamente il bacio della pace, sarebbe per snocciolare obiezioni contro il perdono, per argomentare contro di esso, per provare l'intera responsabilità del colpevole, o, tutt'affatto il contrario, per dimostrare la necessità dell'indulgenza e perorare le circostanze attenuanti; infatti si parla per accusare e si parla altresì per scusare (…); insomma, solo il perdono non ha niente da dire8.

Sull'attimo dell' “acumen veniae”, come lo definisce Jankélévitch, sembra non essere rimasto

niente da dire. Ciò su cui pare più opportuno (e semplice) soffermarsi è il perdono come

concetto: non che la questione del perdono non sia anche sotto quest'aspetto un enigma, come

la definisce Ricoeur, ma se non altro è un enigma che ha qualcosa da dirci e rispetto a cui una

qualche genealogia del termine può venirci in soccorso.

Nell'Annotazione generale de La religione entro i limiti della sola ragione, intitolata “Del

modo come l'originale disposizione al bene si ristabilisca nella sua forza”, Kant scrive:

5. Ivi, p. 652.6. Nicolai Hartmann, Etica, III: metafisica dei costumi, Guida, Milano 1972, p. 248.7. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 661.8. Jankélévitch, Il perdono, pp. 172-173.

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(…) poiché, secondo quello che abbiamo finora ammesso, unalbero buono originariamente (per la sua disposizione) ha tuttaviaprodotto frutti cattivi e la caduta dal bene al male (se si riflette beneche il male proviene dalla libertà) non è comprensibile più di quelche lo sia il risollevarsi dal male al bene; così non può esserenegata la possibilità di questo risollevamento. Poiché, dopo questacaduta, risuona, tuttavia con forza non attenuata nella nostra animail comando: «noi dobbiamo diventare migliori»; conseguentementenoi siamo di necessità anche in condizione di poter diventaremigliori, anche se ciò che possiamo fare dovesse essere, di per sésolo, insufficiente e perciò dovesse soltanto renderci atti a ricevereun soccorso superiore, per noi inesplicabile9.

Trattando dell'inscrizione dello spirito di perdono nelle operazioni della volontà, Kant si

limita quindi a richiamare una “cooperazione soprannaturale”, senza la quale l'individuo non

sarebbe mai in grado di completare l'accoglimento del movente morale nella sua massima.

Anche se Kant non parla esplicitamente di perdono, quanto piuttosto di grazia, optando per

questo termine riconduce la remissione delle colpe ad un intervento dall'alto, senza

menzionare la possibilità di uno “scambio” interumano tra il colpevole e l'eventuale vittima di

un torto: ma il perdono vero e proprio consiste in una relazione orizzontale di scambio o

emerge dalla dissimmetria di una relazione verticale? E, conseguentemente, presuppone una

domanda di perdono o va intenso in senso non-condizionale, vale a dire come un atto

spontaneo e privo di calcolo che prescinde da un pentimento precedente? Vedremo che anche

la storia del concetto di perdono non si presta a risposte univoche.

Sia Martha Nussbaum in Rabbia e perdono che Avishai Margalit ne L'etica della

memoria ne ripercorrono la genealogia, pur con propositi differenti: Nussbaum con

l'intento di «cogliere gli elementi di aggressività, controllo e infelicità»10 che cela la

nostra idea di perdono, Margalit per approfondire la relazione che intercorre tra l'atto

di perdonare e quello di dimenticare. La nostra idea di perdono fu inizialmente

introdotta, e così persistette per millenni, in rapporto a tutta una serie di concetti

e comportamenti religiosi: la legge del perdono è la grande rivoluzione spirituale che il

Cattolicesimo ha introdotto nel mondo,9. Kant, La religione entro i limiti della sola ragione, pp. 47-48.10. Martha Nussbaum, Rabbia e perdono, Il Mulino, Bologna 2017, p. 95.

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insieme al concetto di amore. Per i popoli antichi esisteva la legge del “taglione”, ossia “fai

all’altro quanto egli ha fatto a te”: in parole povere, nei confronti di chi ci aveva arrecato

un danno si rispondeva con la vendetta. A ciò facevano eccezione i Giudei, che erano

obbligati, sulla base delle loro norme religiose, a perdonare il proprio nemico dopo la sua

terza richiesta in tal senso.

Il perdono divino, secondo il rito cattolico, prevede la remissione dei peccati, che consiste

l’assoluzione delle colpe concessa da Dio al peccatore pentito che le riconosce, le confessa al

sacerdote e fa promessa di abbandonare il suo peccato. Nella chiesa cattolico-romana al

perdono divino è connessa la pratica dell’indulgenza plenaria o parziale, cioè la remissione di

tutta la pena, o di una parte di essa, che il peccatore dovrà scontare a causa delle sue

colpe, anche se perdonato da Dio.

Partendo dal presupposto che vari aspetti del perdono sono difficilmente separabili da tale

contesto di origine, tanto Nussbaum che Margalit esaminano la visione religiosa in cui

questo concetto affonda le sue radici.

Premettiamo un dato importante: «La Bibbia usa la parola ebraica salakh, che

significa perdonare, solo per il perdono di Dio. Non la usa per una persona che ne

perdona un'altra, come nel caso dell'ebraico moderno. La parola prevalentemente usata

nella Bibbia per quest'ultimo proposito è nasa, che significa “sostenere” o “portare»11.

Nelle Sacre Scritture, quindi, il processo indipendente di perdono da umano a umano e il

perdono di Dio significano cose diverse, e se il primo nell'ebraismo già rivestiva un

ruolo di secondo piano, nel cristianesimo verrà eliminato del tutto: ogni perdono viene

da Dio, e l'unica mediazione ammessa è quella del clero: «La confessione cattolica lo

esplicita bene: il prete, nel nome di Dio, può assolverci dalla trasgressione interpersonale, e

non abbiamo bisogno di fare o dire nulla all'altra persona, a meno che non lo ingiunga il

prete stesso»12. 11. Avishai Margalit, L'etica della memoria, Il Mulino, Bologna 2006, p. 153.12. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 112.

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Ma se nella Bibbia ebraica non c'è nessun dovere di perdonare, il Nuovo Testamento, invece,

contiene un'esplicita esortazione a farlo: «Se voi infatti perdonerete agli uomini le loro colpe,

le rimetterà anche a voi il padre vostro celeste, se invece non le perdonerete agli uomini,

neppure il Padre vostro perdonerà le vostre colpe» (Matteo 6, 14-15). L'idea è che non c'è

nessuno che non abbia bisogno di perdono: «non c'è uomo giusto sopra la terra che faccia

sempre il bene e non pecchi mai» (Ecclesiaste 7,20). Dal momento, poi, che l'individuo ha

comunque bisogno del perdono per via del peccato originale, e che quindi «per un solo errore

la condanna si è estesa a tutti gli uomini» (Romani 5,18), siamo tutti in una condizione di

colpevolezza: dal che consegue che non solo abbiamo tutti bisogno di perdono, ma che

dobbiamo anche esser capaci di perdonare.

Quel che ci interessa è che sia quando nega che quando afferma la possibilità di una

remissione delle colpe da uomo a uomo, il contesto religioso del peccato e del perdono

suggerisce una varietà di immagini relative a come il peccato può essere perdonato o

dimenticato. Le immagini proposte da Margalit13, coerentemente con l'impostazione

complessiva del testo, riguardano l'atto del cancellare e dell'occultare; gli atteggiamenti

rinvenuti da Nussbaum14 nella tradizione giudaico-cristiana, invece, criticano l'assunto

secondo il quale l'unica forma di perdono mai conosciuta da questa tradizione sia stata quella

transazionale15. L'approccio differente dei due testi, comunque, non vieta di ricercare tra le

alternative rispettivamente offerte significativi punti di tangenza, e la loro ricerca di fondo,

per quanto prevalentemente religiosa16, si inserisce nel dibattito sorto all'ombra delle dittature

13. Nella Bibbia Margalit individua quattro immagini differenti del perdono: prendere un peso14. su di sé, occultamento, cancellazione, e annullamento di un debito.15. Si tratta del perdono transazionale, del perdono incondizionato e dell'amore e generositàincondizionati. Anche se, come per Margalit, non tutte le immagini sono fondamentali per i nostri scopi,le ritroveremo a più riprese nel proseguo dell'indagine.16. Con “forma transazionale” Nussbaum si riferisce alla definizione più classica del perdono, che prevedeuna struttura condizionale dello stesso: affinché il perdono gli venga concesso, l'attore responsabile devechiederlo esplicitamente alla vittima, dopo aver condannato le proprie azioni e aver espresso unsincero rimorso alla persona offesa. A nche Ricoeur, ne La memoria, la storia, l'oblio, p. 663, riconoscecon Derrida che «il comandamento di perdonare ci è trasmesso da una cultura determinata, lacui ampiezza non riesce a dissimulare la limitazione. Come nota Derrida, il linguaggio,che si tenta di aggiustare all'imperativo, appartiene "a un'eredità religiosa, diciamo abramica, perraccogliervi l'ebraismo, i cristianesimi e l'islam"».

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del XX secolo, e che si interrogava sulle strategie morali e politiche da adottare in merito

al ricordo del male: processo e punizione? Perdono e/o oblio?

Nei Vangeli, afferma Nussbaum, il tipo di perdono condizionale è quello prominente.

Dice infatti Luca 17, 3-4: «se tuo fratello commetterà una colpa, rimproveralo; ma se si

pentirà, perdonagli. E se commetterà una colpa sette volte al giorno contro di te e sette volte

ritornerà a te dicendo: “Sono pentito”, tu gli perdonerai». Lo stesso sacramento del

battesimo, condizione preliminare della salvezza promessa (la morte di Cristo sulla

croce, infatti, lo prevede come passaggio necessario17), offre un perdono dei peccati

concepito come assolutamente transazionale: «i peccati del bambino», osserva

Nussbaum, «sono rimessi condizionalmente a patto della contrizione e della rinuncia dei

gentitori e/o del padrino e della madrina»18.

Il sacramento del battesimo evoca l'idea del peccato come macchia di sangue, e

della purificazione/espiazione come eliminazione della macchia: un'immagine potente che

ricorre spesso nella Bibbia, e che è espressa nel versetto «Fossero pure i vostri peccati come

scarlatto, saran bianchi come neve» (Isaia, 1,18). Ma quale interpretazione va data, si

chiede Margalit, alla metafora del lavarsi? “Smacchiarci” di un peccato significa

cancellarlo (e quindi dimenticarlo completamente) o occultarlo (che equivarrebbe ad

ignorarlo senza però dimenticarlo)?

La lettura del peccato come cancellazione è suggerita anche dal verbo greco per

“perdono”, aphinmai, utilizzato nel Nuovo Testamento (Matteo, 18,21) («quante volte

peccherà contro di me il mio fratello e gli dovrò perdonare?»): aphinmai è una parola che

significa “cancellare un debito”, e rimanda ad un'altra importante immagine biblica del

peccato e del perdono: il Libro divino.

17. Così sembra essere inteso da Giovanni, l'iniziatore della pratica del «battesimo di conversione per il perdonodei peccati»: questa frase, sostiene Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 108, deve significare che non esistebattesimo senza pentimento. Anche il fatto che Giovanni non pretenda sacrifici e offerte, sembra suggerire chequesto rituale di pentimento sostituisca l'espiazione ebraica.18. Ivi, pp. 108-109.

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È un oggetto che compare nel contesto del giorno del giudizio (il Dies Irae medievale),

giudizio che si baserà proprio su quanto suddetto libro contiene: tutto ciò che è nascosto verrà

alla luce, nulla rimarrà invendicato («quidquid latet, apparebit: nil inultum remanebit»).

Anche se talvolta sembra trattarsi di un libro contenente una lista nomi, dalla quale vengono

cancellati quelli di coloro condannati a morire per via dei loro peccati («Siano cancellati dal

libro della vita, con i giusti non siano iscritti») (Salmi 69,29), la concezione più diffusa lo

vede come un libro dei conti, in cui le azioni sono riportate sia nella colonna dei crediti che in

quella dei debiti, e i peccati in quest'ultima («Ecco, ciò m'è scritto davanti, non avrò posa se

non avrò ripagato le colpe vostre») (Isaia 65,6): la preghiera di perdono sembrerebbe quindi

consistere in una preghiera per la dimenticanza, nel senso della cancellazione del debito.

A questo proposito, rammentiamo ciò che scriveva Ricoeur riguardo al perdono facile, e,

specificamente, riguardo ad una delle sue forme, quella del perdono di indulgenza:

Più sottile è il perdono di indulgenza, dalla cui parte sta un ramo della tradizione teologica, secondo la quale il perdono significa assoluzione: il Padre Nostro non parla forse di «rimettere i debiti»?È dunque in causa il trattamento in profondità del concetto di debito-colpa. A un primo grado, la remissione del debito suggerisce l'idea di un bilancio di debito e credito, come se sulla tabella degli acquisti la colonna del debito venisse magicamente cancellata. Non solo non siamo usciti dalla logica delle retribuzione (…), ma questa cancellazione, che abbiamo appena definito magica, va nella stessa direzione dell'oblio peggiore, e cioè di quella forma di oblio profondo (…) che consiste nell'usura delle impronte, nella distruzione da parte del tempo stesso – dice Aristotele – delle iscrizioni antiche19.

Ma, dopo la Shoah, altre domande urgono conseguentemente in tema di soggetti ed oggetti

del perdono, in un dedalo intellettuale che reclama di essere dipanato ai fini di una memoria

che possa dirsi efficace e attualizzata. È possibile darsi ragione di una morte ripetitiva,

scientifica, impersonale e tuttavia personalissima, originalissima per ciascuna delle vittime?

E, ammesso che pur di fronte a tali atrocità il perdono sia cosa possibile? Chi perdona a chi, e

a quali condizioni? Si avverte la necessità di un nuovo rapporto col perdono, più ampio, meno

19. Paul Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, Il Mulino, Bologna 2004, p. 112.

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normativo e normalizzante, e che scongiuri l'insidia dell'oblio.

Una critica al perdono transazionale e asservito alla «logica della retribuzione», ad esempio,

viene mossa da Derrida, che in Perdonare, proponendo la scissione tra perdono domandato e

perdono accordato, riferisce il perdono condizionale ad un' «economia corrente del perdono

che domina la semantica religiosa, giuridica, addirittura politica e psicologica del perdono, di

un perdono mantenuto nei limiti umani o antropoteologici del pentimento, della confessione,

dell'espiazione, della riconciliazione o della redenzione»20, e che rappresenta la logica

dominante, esemplarmente condensata da queste parole:

Il perdono! Ma essi ci hanno mai domandato perdono? Soltanto ladisperazione e la solitudine del colpevole darebbero un senso e unaragion d'essere al perdono21.

Il popolo tedesco non ha mai domandato perdono, e come si può pensare di perdonare chi non

ha mai domandato perdono?, è quanto si chiede Jankélévitch. La questione presuppone che, se

l'aggressore avesse chiesto perdono, perdonargli sarebbe stata una prospettiva accettabile. Ma

tale presupposizione si oppone frontalmente ad un altro modello di perdono, non meno

diffuso del primo: per quanto, infatti, il perdono transazionale sia stato profondamente

incorporato nella pratiche della chiesa (il sacramento della confessione) e in tanti aspetti della

relazioni personali e politiche (è indicativo il moltiplicarsi delle amnistie, delle scene di

pentimento, di confessione e di perdono che ha caratterizzato la scena politica a partire

dall'ultimo dopoguerra), già a partire dai Vangeli è affiancato da un modello diverso. Questo

intrattiene con quello condizionale un rapporto difficile da definire, poiché «l'incondizionale e

il condizionale sono, certo, assolutamente eterogenei, per sempre, da entrambe le parti di un

limite, ma sono anche indissociabili. C'è nel movimento, nella mozione del perdono

incondizionale, un'esigenza interna di divenire-effettivo, manifesto, determinato, e, nel

20. Jacques Derrida, Perdonare, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, p. 44.21. Jankélévitch, Perdonare?, Giuntina Editore, Firenze 1987, p. 40.

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determinarsi, di piegarsi alla condizionalità»22.

L'incondizionale di cui parla Derrida corrisponde a ciò che Nussbaum definisce

“perdono incondizionato” (“amore e generosità incondizionati”, se preso nella sua

espressione più pura) e che spesso prevede una rivalutazione dell'idea di dono, posta alla

base di quella di perdono. Un'operazione di questo tipo richiede che la colpa, dal regime

unilaterale dell'accusa e della punizione, venga trasportata in quello dello “scambio”. Ma

tale operazione non è priva di difficoltà.

L'affinità semantica tra i due concetti, comunque, è indubbia:

Questo legame verbale tra il dono e il perdono, che si mostra nellelingue latine, ma non per esempio (…) in greco, questo legame èpresente anche in inglese e in tedesco. In inglese: to forgive,forgiveness, asking for forgiveness, e vengono opposti to give e toget (…) nell'espressione to forgive versus to forget, perdonare non èdimenticare, altro problema senza fondo. In tedesco, nonostanteverzeihen sia più comune – Verzeihung, jenen um Verzeihungbitten, domandare perdono a qualcuno (…) –, nonostante si utilizzispesso Entschuldigung (…), vi è tuttavia in tedesco una famiglialessicale che conserva questo legame tra il dono e il perdono;vergeben vuol dire “perdonare”, “ich bitte um Vergebung”, “iodomando perdono” (…)23

«L'etimologia e la semantica di numerose lingue», conferma Ricoeur, «incoraggia questo

accostamento: don-pardon, gift-forgiving, dono-perdono, Geben-Vergeben...»24; ma, prosegue,

«(...) anche l'idea di dono ha le sue trappole». Il nodo critico sta innanzi tutto nel sapere in che

misura il dono corrisponda allo scambio: sembra infatti che la stessa idea di dono come

qualcosa che è elargito gratuitamente non si possa coniugare con l'aspettativa normativa di

essere ricambiati con un altro dono. Perché, se così fosse, gli scambi di regali sarebbero

difficilmente distinguibili dalle transazioni economiche.

È una questione che ha attirato l'attenzione di antropologi a partire dal libro di Marcel

Mauss25, e sulla quale non intendiamo soffermarci troppo. Ci limitiamo a ricordare quanto

22. Derrida, Perdonare, pp. 91-92.23. Derrida, Perdonare, pp. 25-26.24. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 680.25. È suo il libro classico sul dono: Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche,Einaudi, Torino 2002.

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osserva Ricoeur:

(…) il testo classico di Marcel Mauss sul dono, forma arcaica delloscambio, ci deve mettere in allerta. Mauss non contrappone il donoallo scambio, bensì alla forma commerciale dello scambio, alcalcolo, all'interesse: “ricambiare regalo con regalo”, si legge in unvecchio poema scandinavo. La controparte del dono, infatti, non èricevere, bensì dare in cambio, rendere. Quello che il sociologoesplora è un tratto “profondo ma non isolato; il carattere volontario,per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligatoe interessato di queste prestazioni” (“Saggio sul dono”, p. 157). Laquestione è la seguente: “Quale forza contenuta nella cosa donata fasì che il donatario la ricambi?” (ibidem, p. 158). L'enigma risiedenel legame fra tre obbligazioni: di dare, di ricevere, di rendere.L'energia di siffatto legame, ad avviso dei portavoce di questepopolazioni, sottende l'obbligazione del dono in cambio;l'obbligazione di rendere procede dalla cosa ricevuta, la quale non èinerte (…)26.

Quel che ci serve sapere è se il modello arcaico, così rivisitato, sia in grado di offrire un

appoggio sufficiente per il risolvere i dilemmi del perdono. Per quanto concerne la bilateralità

e reciprocità del perdono, la risposta può essere positiva. L'obiezione riguarda piuttosto ciò

che abbiamo già avuto modo di mettere in luce: facendo coincidere in maniera pura e

semplice dono e perdono, il modello non permetterebbe più di distinguere quest'ultimo dalla

retribuzione. Se preso da quest'angolatura, il dilemma è di difficile risoluzione. Ma dono e

perdono, forse, possono essere paragonati e accostati anche sotto altri aspetti, ugualmente

importanti, che Margalit e Jankélévitch ci aiutano a focalizzare.

Margalit, ad esempio, li associa in base alla loro natura relazionale, per poi distinguerli in

base ad una differenza importante:

Una risposta più complessa dovrebbe includere almeno unacomponente centrale: i doni sono volti a formare o a rafforzare deilegami sociali fra chi fa un dono e chi lo ricambia. (…) Perciò unaspetto centrale del fare regali è spesso la natura non utilitaristicadel dono, come la sua funzione decorativa. (…) L'idea che vorreiproporre qui è che i doveri implicati nel perdono, sia quelli di chi lochiede, sia quelli di chi lo concede, sono simili ai doveri implicatinello scambio di doni. In entrambi i casi lo scopo ha a che fare conla natura della relazione personale che esisteva prima che venissecommesso il torto. Ma rimane una differenza. Il perdono, adifferenza dei doni ordinari, non è volto a formare o a rafforzareuna relazione, ma piuttosto a ripristinarla nel suo stato precedente.

26. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, pp. 680-682.

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Rifiutare una richiesta di perdono è come rifiutare un regalo. Inentrambi i casi c'è bisogno di una ragione seria27.

Jankélévitch è più netto nel constatare la “superiorità” del perdono sul dono, quando afferma

che

Il perdono è al tempo stesso più e meno del dono; è evidentementemeno del dono, perché quanto a “donare” non “dona” niente, sicontenta di dimenticare l'ingiuria, non vuole tenerne conto, laconsidera nulla. Bisogna riconoscere che la remissione di un debitoè un regalo assai negativo, quel “regalo”, se c'è regalo, è piuttostometaforico! Il dono, dando almeno qualcosa, è meno reattivo, piùgeneroso del perdono. Ma è forse il caso di ricordare a questoproposito un celebre paradosso di Kant: ci sono casi in cui lanegatività è più positiva della positività, in cui il Meno è più delPiù! Evidentemente la remissione di un debito non è materialmenteun regalo, ma è meglio di così, poiché costituisce per il debitore lafine di una schiavitù, il sollievo subentrante all'angoscia, e per ilcreditore la rinuncia a un diritto. (…) Il perdono, per il colpevole, ha più intensità e fervore deldono; per chi perdona soprattutto costa di più, in quanto implica undramma e deve risolvere una crisi. Non che il dono sia necessariamente espansione spontanea oeffusione senza intralci, (…) ma anche in questo caso il sacrificioconcerne solo l'avere e i possessi del donatario; al possessore costacaro separarsi dai suoi possessi, ecco tutto. Al contrario, il perdono,che è un dono senza cosa donata, una datio senza donum, ilperdono deve in ogni caso superare un ostacolo e passare oltre unosbarramento: sbarramento e ostacolo che, secondo i casi, sonol'ingiuria subita dall'offeso o la colpa commessa dal peccatore (…). Né nel primo caso né nel secondo si tratta di proprietà di unproprietario: colui che perdona ha bisogno di tutto il suo coraggioper sacrificare non già una parte del suo avere, ma il suo proprioessere stesso, e più ancora, per sfidare i tabù sociali, per rifiutare ildovere di punire (…). La decisione di perdonare oppone al gestopartitivo di donare, in altre parole di offrire questo o quello, ilparadosso iperbolico di un dono totale. Lo stesso Aristotele haconosciuto il dono; ma il Vangelo soltanto ha veramente conosciutoil perdono28.

Nell'argomentare questa sua posizione, Jankélévitch porta ad esempio la parabola del figliol

prodigo (Luca 15, 12-34), asserendo che «come c'è più gioia per un convalescente al termine

delle peripezie che per un uomo in buona salute, più gioia per il figliol prodigo rientrato

all'ovile che per il figlio saggio, (…) così il beneficiario del perdono, dispensato dal un

meritato castigo, conoscerà gioie che il semplice dono non procura a nessuno, e primo luogo

27. Margalit, L'etica della memoria, p. 160.28. Jankélévitch, Il perdono, pp. 185-186.

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la gioia della liberazione dall'oppressione»29. Anche Nussbaum riporta la stessa parabola, ma

non nel contesto del perdono transazionale o del perdono incondizionato: invece di

rappresentare, come viene generalmente sostenuto, un esempio di perdono “classico”, a

detta della studiosa il figliol prodigo apparterrebbe ad un“contro-filone” riconoscibile in

alcune parti dei Vangeli, “l'etica dell'amore incondizionato”, che «si stacca del tutto dal

percorso di giudizio, confessione, contrizione e conseguente dispersione della rabbia»30. E

non è certo la sola ad accostare la pratica del perdono al sentimento dell'amore.

Scrive infatti Nussbaum:

(…) quando il figlio buono, che si è sempre comportato bene,esprime disappunto riguardo al festeggiamento del fratello, il padrenon dice: «Vedi, si è pentito e io l'ho perdonato». Invece, purrinnovando al figlio maggiore il suo amore e il suo sostegno, conparole d'affetto («Tu sei sempre con me»), egli dice soltanto: «Sonotanto felice che sia ancora vivo». Insomma, non c'è alcunriferimento al perdono in questa storia, nessun riferimento allacontrizione, tranne che nelle espressioni, forse ambigue, del figlioritornato. (…) Questo padre, invece, è guidato dall'amore. (…) Ladirezione di questo sentimento è transizionale: il suo amore guardaal futuro, e quel futuro quasi certamente conterrà consigli. Mal'impulso iniziale verso il figlio non nasce da consiglio o dacalcolo31.

A differenza del perdono, il quale non si libera mai del tutto dalla rabbia che lo ha

determinato, questo «amore radicale e incondizionato» è l'unico atteggiamento che permette

di guardare al futuro senza che alcun rancore residuale ce lo impedisca: anche il modello

incondizionato di perdono, infatti, «rimane rivolto all'indietro e non è transizionale. Non dice

nulla sulla costruzione di un futuro produttivo. Può rimuovere un impedimento al futuro, ma

di per sé non punta in tale direzione»32.

Quest' “etica dell'amore incondizionato” ha molto in comune con il “perdono-limite” di cui

parla Jankélévitch:

29. Ibidem.30. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 124.31. Ivi, pp. 127-128.32. Ivi, p. 122.

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Esiste dunque un perdono-limite che è perdono iperbolico e cheperdona senza ragioni. Questo moto immotivato non può esserealtro che un puro slancio efferente privato di contorni psicologici edi spessore vissuto. Il perdono reprime i riflessi vendicativi dellalegge del taglione, ma questo evidentemente non basta giacché essopotrebbe sospendere la vendetta al fine di ritardarla, di esacerbarla,al fine di riserbarsi rappresaglie a lunga scadenza (…). Colui cheperdona (…) rinuncia perfino alla giustizia stessa33!

E così come il padre della parabola, ci dice Nussbaum, alla vista del figlio che ritorna, «viene

colto da una violentissima emozione» tanto da non esigere alcuna contrizione e andare «dritto

a festeggiare»34, allo stesso modo il perdono-limite di Jankélévitch «perdona nella notte come

il rimorso soffre nella notte, ma questa notte è il presentimento di un'aurora, questa notte non

è mai la notte buia della disperazione. Il perdono-limite, se è vero che è privo della speranza

mercenaria, non è tuttavia privo della gioia»35.

Ma al di là di queste analogie, per Jankélévitch il perdono-limite non appartiene alla famiglia

dell'amore come per Nussbaum: a differenza di quest'ultimo, infatti, che

può amare l'amabile altrettanto che il detestabile, il perdono-limite «è specializzato nel peccato: è la sua ragion d'essere e la sua vocazione, la sua cara complicazione, che esso sceglie, che preferisce a tutto il resto. (…) Al perdono non basta amare i cattivi in genere, esso prende di mira una cosa che il cattivo ha fatto, un atto che il cattivo ha commesso, un torto che il cattivo ha avuto, una colpa di cui il cattivo si è reso colpevole; il perdono non perdona solamente all'essere, perdona il fare o piuttosto l'aver fatto, perdona il misfatto di questo essere, perdona all'essere di tale misfatto. (…) E benché il perdono e l'amore per il detestabile riposino tutti e due su un effetto di rilievo e siano tutti e due a contrario, il perdono è con il suo peccato in un contrasto più violento di quanto non sia l'amore col suo detestabile, e il cammino dal peccato al perdono è anch'esso, malgrado l'istantaneità della decisione, infinitamente più lungo, giacché deve affrontare una rottura e attraversare la prova della conversione radicale. L'amore che si rivolge al malvagio ha un bell'essere paradossale, esso, ama, in ultima analisi, il suo malvagio! Mentre il perdono, nel momento in cui perdona deve fare un violento sforzo su se stesso per assolvere il colpevole invece di condannarlo36.

Il perdono-limite, quindi, è da ammirare ben più dell'amore per “il detestabile”, che non

33. Jankélévitch, Il perdono, pp. 176-177.34. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 127.35. Jankélévitch, Il perdono, p. 178.36. Ivi, p 184.

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necessita di percorrere il tortuoso cammino che dalla colpa commessa conduce all'assoluzione

del colpevole, e che invece assicura al perdono tutta la sua sproporzione.

Lungo l' “Epilogo” de La memoria, la storia, l'oblio Ricoeur parla a più riprese di una

differenza di altitudine tra la profondità della colpa e l'altezza del perdono, e, nel mettere in

luce questa disparità verticale, se da un lato la colpa viene avvicinata alla pratica della

confessione, dall'altra si sottolineano le affinità fra la concessione del perdono e il discorso

dell'inno; anche qua, non senza un riferimento alla tematica dell'amore. «Il “c'è” della voce

del perdono», spiega Ricoeur,

lo dice a modo suo. Per questo motivo, parlerò di tale voce come diuna voce che viene dall'alto. Essa è dall'alto, come la confessionedella colpa procedeva dalla profondità insondabile dell'ipseità. Èuna voce silenziosa, ma non muta. Silenziosa, poiché non è unclamore al pari di quella degli infuriati, non muta, poiché non privadi parola. Un discorso appropriato, infatti, è a essa dedicato, quellodell'inno. Discorso dell'elogio e della celebrazione. Esso dice: c'è(…) Poiché l'inno non ha bisogno di dire chi perdona e a chi. C'è ilperdono come c'è la gioia, come c'è la saggezza, la follia, l'amore.L'amore, precisamente. Il perdono appartiene alla stessa famiglia37.

Ricoeur prosegue richiamando l'inno all'amore proclamato da San Paolo nella Prima Epistola

ai Corinzi, in cui l'apostolo dispiega un lungo discorso sulla carità: essa, afferma, discende nel

luogo dell'accusa (ciò che precedentemente abbiamo indicato come “imputabilità”), e «Non

tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto

copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta» (1 Cor 12, 31). Prerogativa della carità e

dell'amore, quindi, sembra essere quella di perdonare anche e soprattutto l'imperdonabile:

«Non si può o non si dovrebbe perdonare, non c'è perdono, se ce ne fosse, se non là dove c'è

l'imperdonabile»38.

Un altro celebre testo che si sofferma sulla prossimità del perdono con l'amore è Vita Activa di

Hannah Arendt; ma, rispetto al modo in cui la questione veniva affrontata da Ricoeur, che,

ricordiamo, faceva scaturire il perdono dall'alto, la posizione assunta dalla studiosa denota una

37. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, pp. 661-662.38. Derrida, “Le siècle et le pardon”, in Le monde des débats, dicembre 1999.

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distanza significativa. Dopo aver definito il perdono e la promessa, rispettivamente, una

replica all'irreversibilità e all'imprevedibilità, sottolinea che tale rimedio «non scaturisce, vien

detto, da un'altra facoltà superiore, ma è una delle potenzialità dell'azione stessa»39. Arendt

parla infatti di «facoltà di perdonare» e di «facoltà di fare e mantenere delle promesse», ed

entrambe queste facoltà «dipendono dalla pluralità»40, in quanto esperienze che nessuno può

fare nella solitudine e che, anzi, si fondano interamente sulla presenza dell'altro. Per

avvalorare questo punto Arendt riporta un passo evangelico che abbiamo già incontrato e che

si presta molto alla sua interpretazione: se, secondo quanto là si afferma, gli uomini possono

sperare nel perdono di Dio soltanto se prima imparano a perdonarsi tra loro, il potere di

perdonare deve essere un potere principalmente umano. «Solo attraverso questa costante

mutua liberazione da ciò che compiono», nota Arendt, «gli uomini possono rimanere agenti

liberi», liberandosi da quella «risonanza sulla coscienza di ognuna delle nostre azioni» di cui

parlava Nabert.

In quanto appartenenti al dominio della pluralità, la facoltà del promettere e quella di

perdonare dovrebbero avere una sfera di esercizio eminentemente politica. Ma se la facoltà di

dominare l'avvenire propria della promessa trova la sua inscrizione politica nella conclusione

dei patti e dei trattati, una politica del perdono somiglia più ad un miraggio che ad una

possibilità attuabile, e ciò proprio a causa della contiguità di amore e perdono:

Anche questo fu chiaramente riconosciuto da Gesù (“I suoi peccati,che sono molti, saranno perdonati; perché essa ha molto amato:poco ama chi poco è stato perdonato”), ed è la ragione dellaconvinzione corrente che solo l'amore ha il potere di perdonare.Infatti l'amore (…) possiede un insuperato potere di autorivelazionee permette una visione eccezionalmente chiara per discernere il chi,proprio perché è indifferente (fino al punto di disinteressarsicompletamente del mondo) a ciò che la persona amata può essere,alle sue qualità e ai suoi limiti, come pure alle sue realizzazioni,fallimenti e trasgressioni41.

39. Arendt, Vita Activa, p. 175.40. Ibidem.41. Ivi, p. 178.

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L'avvenimento dell'amore, quindi, «uno degli avvenimenti più rari nella vite umane», si rivela

estraneo al mondo, e, per questa ragione, non soltanto apolitico ma antipolitico, «forse la più

potente di tutte le forze umane anti-politiche»42. È a causa di questa asimmetria tra il livello del

perdono e quello della promessa (solo parzialmente celata dalla simmetria tra

irreversibilità e imprevedibilità) che l'autrice acconsente a riconoscere nel rispetto un valido

sostituto dell'amore:

tuttavia, l'equivalente dell'amore, nella sua sfera strettamente circoscritta, è il rispetto nella più vasta sfera degli affari umani. Il rispetto, non dissimile alla philia politikè di Aristotele, è una specie di “amicizia” senza intimità e senza vicinanza; è un riguardo per la persona dalla distanza che lo spazio del mondo mettere tra noi, e questo riguardo è indipendente dalle qualità che possiamoammirare o dalle realizzazioni che possono stimare43.

Lo slittamento dalla pienezza del sentimento amoroso ad un'amicizia senza intimità e

prossimità è funzionale a trasportare la pratica del perdono nello spazio di visibilità della sfera

pubblica, perché, se intenso nel senso che ci è stato trasmesso dai testi evangelici, «Come

ricorda (…) Jankélévitch in Il perdono, il perdono del peccato è una sfida alla logica

penale»44: «La sola idea di un diritto al perdono lo distrugge»45. Ma se Arendt acconsente a

scendere a compromessi in vista di un perdono istituzionale, anche a costo di “tradire” la sua

vocazione originaria, lungi dal rinnegarla ne Il Perdono Jankélévitch ne sottolinea tutta

l'attualità: solo il perdono folle, il perdono immotivato che perdona il non scusabile e di cui

non si può dire alcunché è il perdono nella sua veste più autentica. Ricercare delle

giustificazioni, dei pretesti su cui far poggiare il perdono non ha senso: «Si perdona perché

non si hanno ragioni per farlo»46. Contaminare il perdono con una motivazione significa

togliergli la sua ragion d'essere, svuotarlo della sua essenza: il perdono iperbolico di cui parla

42. Ivi, p. 179.43. Ibidem.44. Derrida, Perdonare, p. 32.45. Jankélévitch, Il perdono, p. 23.46. Ivi, p. 185.

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Jankélévitch (e con lui Derrida47) è per natura ingiusto, come quello che il padre concedeva al

figlio ritornato a casa, e che Nussbaum preferiva chiamare amore. Il perdono è un “dono

totale”, è l'unico dono che attenta alla logica del dono stesso: quando perdono non sacrifico

una parte del mio avere quanto del mio essere, e senza aspettarmi nulla in cambio.

Ancora una volta, troviamo la prima critica all'economia del dono in bocca a Gesù: poco dopo

il richiamo della Regola d'Oro (che raccomanda di fare agli altri quello che vorremmo fosse

fatto a noi e di non fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi), infatti, si legge:

«Se amate quelli che vi amano, che merito ne avrete? Anche i peccatori fanno lo stesso. (…)

Amate invece i vostri nemici, fate del bene e prestate senza sperare niente in cambio» (Lc 6,

32-35). «La critica precedente», osserva Ricoeur,

si trova così radicalizzata: l'amore dei nemici è la misura assoluta del dono, alla quale è associata l'idea di prestito senza speranza di ritorno. Lungi dallo smussarsi, si radicalizza sotto la pressione di un comandamento (quasi impossibile). (…) Il comandamento di amare i propri nemici comincia con lo spezzare la regola della reciprocità, esigendo l'estremo: fedele alla logica evangelica dell'iperbole, si vorrebbe che, solo, fosse giustificato il dono alnemico, da cui, per ipotesi, non ci si attende nulla in cambio48.

Sull'amore incondizionato cui fanno riferimento i Vangeli non poteva non soffermarsi anche

Nussbaum, data l'importanza che attribuisce alla cosiddetta «etica dell'amore incondizionato»:

Nel Discorso della montagna Gesù dice: «Amate i vostri nemici e

47. In Perdonare Derrida osserva un'evoluzione nel pensiero di Jankélévitch , che, da una concezione delperdono come gesto folle e che prescinde da qualsiasi esigenza di giustizia (come si apprende da Il perdono,scritto nel 1967), passa ad una posizione dura e intransigente che professa l'inopportunità e l'immoralità delperdono (che è quanto viene affermato ne L'imprescrittibile, a partire dall'avvertenza al testo intitolataPerdonare?, scritta nel 1971). Secondo quanto rilasciato da Jankélévitch in un'intervista del 1977, e che Derridariporta a pp. 44-45, Jankélévitch doveva essere cosciente che gli eventi del secondo dopoguerra lo avevanomosso alla collera e all'indignazione, così da fargli mettere in discussione la teoria “concessiva” e iperbolicaformulata solo quattro anni prima. Teoria con la quale Derrida si trova perfettamente allineato, quando affermache «il perdono, se ce n'è, deve e può perdonare solo l'imperdonabile, l'inespiabile – e quindi fare l'impossibile»,p. 47.48. Ricoeur, Ricordare, dimenticare, perdonare, p. 115. Ricoeur prosegue notando che, in realtà, «l'ipotesi èfalsa: ciò che ci si attende dall'amore è che converga il nemico in amico. Su questo modello estremo gli attiprivati o pubblici di generosità, sempre sospettati di conformarsi segretamente alla logica commerciale, nontroveranno la loro legittimazione ultima se non nella ricostruzione di un legame di reciprocità, al di là dellarinuncia alla riconoscenza e alla restituzione, e questo a un livello non commerciale dello scambio», pp. 115-116.È simile a quanto, abbiamo visto, affermava Margalit riguardo al dono come mezzo per rafforzare i legamisociali fra donatore e destinatario del dono, e sul perdono in quanto ha a che fare con la natura di una relazionepersonale che esisteva prima che venisse commesso il torto.

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pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5, 44-45). Luca riferisce queste parole: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6, 27). I Vangeli fanno numerosi altri riferimenti all'importanza dell'amore liberamente dato. Non è richiesta alcuna condizione. In questi passaggi Gesù non dice affatto: «Amate i vostri nemici se loro si scusano» (sebbene altrove egli parli spesso di perdono condizionale, come abbiamo visto). Egli non sembra parlare nemmeno di perdono incondizionato, perché non c'è nessun riferimento al venir meno di una rabbia precedentemente manifestata. L'amore è una risposta primaria, non il sostituto di un precedente anelito al risarcimento. In altri casi ancora in cui le traduzioni della Bibbia parlano di perdono, quella greca sembra piuttosto riferirsi all'amore. (…) questa visione rifiuta sia il perdono condizionato sia il perdono incondizionato come norme pienamente adeguate, e raccomanda invece un amore cheignori del tutto la rabbia49.

Ma, aldilà delle definizioni che di volta in volta gli sono state attribuite, il perdono autentico,

quello che non fa da schermo né all'autocompiacimento né alla dimenticanza, quello che non

è costretto a convertire in rispetto l'amore dal quale è investito, si è mai verificato e/o può

verificarsi concretamente? O, con Jankélévitch, saremo costretti a constatare che un

avvenimento con quelle caratteristiche «non si è mai prodotto nella storia»50?

Secondo Nussbaum, sì, si è verificato, almeno in un'occasione. È successo a Charleston, nella

Carolina del Sud:

Esiste, comunque, una versione del perdono incondizionato che si avvicina più strettamente all'amore e alla generosità senza condizioni, senza alcuna ombra di superiorità o vendicatività. Questa sorta di perdono incondizionato fu manifestato dai sopravvissuti alla strage a sfondo razzista in una chiesa di Charleston, nella Carolina del Sud, il 17 giugno 2015. Chiamati dal giudice a esprimersi in quanto parti civili, i familiari degli uccisi si rivolsero all'imputato, Dylan Roof (che aveva confessato). In maniera del tutto inconsueta per le cosiddette «dichiarazioni sul danno subito» (victim impact statements), i parenti delle vittime non espressero alcuna vendicatività o desiderio di rivalsa. Né espressero rabbia, tranne in un caso, per riconoscerla come difetto: «Sono un'opera incompiuta, e riconosco di essere molto in collera». Ma unanimemente, pur manifestando profondo dolore, essi offrirono a Roof il loro perdono, voluto per la misericordia divina, nella convinzione che l'amore è più forte dell'odio. «Lei mi insegnò che noi siamo la famiglia costruita dall'amore». Nessuna transizione concreta è prevista, e l'unico futuro menzionato è quello della misericordia divina nel giorno del giudizio. Forse la situazione offriva poco alla transizione. Eppure c'è qualcosa di transizionale nel suo spirito, nell'idea che l'amore prevarrà sull'odio

49. Nussbaum, Rabbia e perdono, pp. 124-125.50. Jankélévitch, Il perdono, p. 14.

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e che il mondo possa essere ricostruito dall'amore51.

Il passaggio «nella convinzione che l'amore è più forte dell'odio» ricorda molto l'Avvertenza

che apre il polemico Perdonare?, dove Jankélévitch confessa l'eterogeneità di quanto segue

con Il perdono, pubblicato quattro anni prima, e la spiega in questi termini:

Ho proposto un'etica che si può qualificare come iperbolica, per la quale il perdono è il comandamento supremo; e d'altra parte, il male appare sempre al di là. Il perdono è più forte del male e il male è più forte del perdono [corsivo mio]. Non posso uscire da qui. È una specie di oscillazione che in filosofia si qualificherebbe come dialettica e che mi sembra infinita. Io credo all'immensità del perdono, alla sua soprannaturalità, penso di averlo detto abbastanza, forse pericolosamente e, d'altra parte, io credo alla cattiveria52.

55

Ma a ridosso degli orrori perpetrati dalla Germania nazista, e ai quali più o meno direttamente

avevano tutti assistito, una forza in grado di sovrastare un male di quella portata doveva

essere difficile da concepire. L'atteggiamento riconciliatorio ostentato dai sopravvissuti a

Charleston è un raro esempio di perdono sincero e disinteressato, ma quando si ha a che fare

con genocidi, stragi, e con tutte quelle tragedie che attraversano la storia, la strada

del perdono diviene ancora più impervia di quanto già non fosse quando atteneva

all'ambito interpersonale. In questa sfera, se non altro, gli effetti di un perdono divenuto

dimenticanza sono meno nefasti, o comunque parzialmente aggirabili.

D'altronde, come rileva Margalit, «Il dimenticare non può essere volontario», e

quindi «se perdonare implica dimenticare, sembrerebbe che non si possa decidere di

perdonare. Quello di perdono non sarebbe un concetto coerente. Che cos'è allora il

perdono?». Margalit, come Arendt, avvicina perdono e promessa, ma non in quanto rimedi

contro l'imprevidibilità dell'azione, quanto piuttosto per la loro natura di atti performativi:

«“io perdono” è un atto performativo, proprio come “io prometto”, e consiste nel

non determinare il proprio comportamento futuro nei confronti dell'offensore sulla base

1. Jankélévitch, Perdonare?, p. 102. Margalit, L'etica della memoria

., p. 164.

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del torto non è una “prova ammissibile”, che non è più una ragione per l'azione». A differenza

del dimenticare, quindi, il perdono è il prodotto di una decisione volontaria nell'ambito

pratico:

Il perdono, in questo senso, è un esempio di ciò che Joseph Raz chiama «ragione escludente», ossia «una ragione a sfavore dell'agire in base a certe ragioni». Nel nostro caso, il perdono è una ragione escludente a sfavore dell'agire in base a ragioni che riguardano l'offesa subita da chi perdona. Il perdono, quindi, è come una promessa che ci impegna a ignorare certe ragioni per l'azione. (…) Così, il perdono è prima di tutto una politica: la politica di adottare una ragione escludente riguardo a qualcuno che ci ha danneggiati. Questa visione è compatibile con l'immagine dell'occultamento, piuttosto che della cancellazione. Ignorare è una decisione, dimenticare non lo è. Di conseguenza il perdono, che è volontario, non dovrebbe essere associato al dimenticare, che è involontario54.

Ma la posta in gioco della storia è ben più alta, ed è la verità nel suo rapporto critico con la

fedeltà della memoria: «il pericolo principale, al termine del percorso, sta nella trattazione

della storia autorizzata, imposta, celebrata, rammemorata – della storia ufficiale»55. Oltre a

interrogarci sulla possibilità di un perdono istituzionale, dobbiamo farlo anche sulla sua

liceità, armati della consapevolezza che il rischio di sconfinare nell'oblio non è mai

scongiurato del tutto, a causa di una radicata tendenza all'evitamento che ci contraddistingue e

che è motivata da una volontà di non informarsi e da un non voler sapere. «L'Europa

occidentale e il resto dell'Europa hanno dato, dopo gli anni di piombo della della metà del XX

secolo, il doloroso spettacolo di quest'ostinata volontà»56. Tra poco vedremo che una simile

ingiunzione a dimenticare, autoimposta o imposta da altri, può implicare gravissime

conseguenze.

L'essenziale adesso sarà distinguere il perdono, istituzionalizzabile o meno, dalle forme,

queste sì, istituzionalizzate, di oblio, in modo da non confondere, neanche quando si parla di

popoli e di nazioni, l'atto di perdonare con quello di dimenticare, come invece sembra fare

54. Ivi, p. 165.55. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 636.56. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 637.

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Jankélévitch sostenendo che sono proprio i così detti «professori del perdono» a

raccomandarci l'oblio57.

57. «(...) raccomandandoci l'oblio, i professori del perdono ci consigliano dunque ciò che non ha nessun bisognodi essere consigliato: gli smemorati si incaricheranno di se stessi, non chiedono che questo», in Jankélévitch,Perdonare?, p. 48.

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2)Il perdono e l'ossessione del passato

“La cicatrice del temposi schiude

e copre di sangue ilpaese –

Nella notte dellaparola imastini

adesso latranodentro di te:

a celebrare la piùselvaggia

sete, la più selvaggia

fame...”(P. Celan, Sera delle parole, in Di soglia in soglia, in Poesie, Meridiani, p. 199)

Lungo i tre capitoli della prima sezione di Ricordare, perdonare, dimenticare,

intitolata “L'enigma del passato”, Ricoeur si propone di giustificare la pretesa di verità

rivendicata dalla storia e quella di fedeltà avanzata dalla memoria. Sono, queste, due

attività che riflettono e agiscono sul passato, un passato che può essere affrontato con

due approcci antitetici: prendendolo isolatamente o in aperta dialettica con gli altri due

orientamenti temporali, il presente ed il futuro. Dopo aver dimostrato l'esito aporetico

di una legittimazione della memoria e della storia incentrata sul passato tout court, Ricoeur

lo inserisce nel più vasto cerchio della temporalità: pur affermando a più riprese, con

l'Aristotele del Perì mnèmes kài anamnèseos, che la memoria e la coscienza storica sono

un dominio del passato, ciò non significa che non le si possa inserire «in un movimento

di scambio con l'attesa del futuro e la presenza del presente, e di chiederci come ci

serviamo della nostra memoria rispetto all'oggi e al domani»1.

Tra passato e futuro si instaura quindi un meccanismo di reciproche influenze che rivestono

1. Ricoeur, Ricordare, perdonare, dimenticare, p. 23. Questa concezione della coscienza storica deve molto allavoro di R. Koselleck Futuro passato. Per una semantica dei tempi storici, Genova, Marietti 1986, pp. 59-60.

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grande importanza per una memoria e una coscienza storica adeguate. Il potere che le

due dimensioni del tempo esercitano l'uno sull'altro, inoltre, non stanno sullo stesso

piano: gli effetti dell'orientamento verso il futuro sulla considerazione del passato

sono, secondo Ricoeur, «la contropartita del movimento inverso»2. Il passato non è

quasi mai un passato chiuso, ma spesso può essere ancora presente, un passato concreto. E

una rappresentazione del passato, per così dire, “patologica”, è in grado di sospendere il

futuro e far sì che niente trascorra: «C'è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso

storico, in cui l'essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di

un popolo, o di una civiltà» 3, leggiamo nella Seconda Inattuale di Nietzsche, appartenente

ad un gruppo di brevi testi volti ad agire «contro il tempo e, in questo modo, sul tempo e,

speriamo, a favore di un tempo a venire».

La Considerazione inattuale che più merita questo titolo è proprio la seconda: scritta tra

il 1873 e il 1874, oltre a criticare un orientamento spirituale (lo storicismo)

profondamente radicato nell'età di Nietzsche, non è altro che una riflessione sul tempo e

contro il tempo e sul rapporto tra passato e presente – dunque sulla storia. Tutta una parte

non trascurabile del saggio di Nietzsche risente delle inquietudini avvertite da non pochi

storici dell'epoca: a cosa serve la storia? Che cosa propriamente si cerca nel passato? E a

queste inquietudini si tenta di trovare una soluzione delineando un modo valido, fondato e

utile di fare storia, che, per quanto radicato in un humus ottocentesco, è aperto a tempi di

là da venire, come quelli che ci riguardano.

La storia esiste perché esiste il passato, e la coscienza di esso. E storia e passato

esistono perché l'uomo non è un animale: mentre l'animale si risolve nel presente e

dunque non ha ricordi, l'uomo ha il suo carattere ontologico più specifico proprio nella

capacità di ricordare. L'uomo è

2. Ivi, p. 36.3. Friedrich Nietzsche, Sull'utilità e il danno della storia, Newton Testi, Roma 1978, p. 39.4. Ivi, p. 36.

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sempre attaccato al passato: per quanto lontano egli corra e perquanto velocemente, la catena lo accompagna. (…) L'uomo (…) sioppone al peso sempre più grande del passato: questo l'opprime olo piega da parte, rende più greve il suo cammino come un fardelloinvisibile ed oscuro che egli può apparentemente rinnegare e chenei rapporti coi suoi simili rinnega perfino troppo volentieri, persuscitare la loro invidia. (…) E tuttavia gli si deve disturbare ilgioco: solo troppo presto viene richiamato dal suo oblio. Imparaallora a comprendere la parola «c'era», quella parola d'ordine concui la lotta, la sofferenza e il tedio si avvicinano all'uomo perricordargli che cos'è in fondo la sua esistenza – qualcosa diimperfetto ma perfettibile5.

Quel che Nietzsche ci invita a considerare è che, sì, avere memoria e mostrare fedeltà verso le

cose passate influenzano in modo importante la nostra serenità e la nostra fiducia nel futuro,

ma tutto ciò dipende, anche, da quella linea

che separa ciò che si può abbracciare con lo sguardo, ciò che èchiaro, da ciò che non si può rischiarare e che è oscuro; dal fattoche si sa dimenticare al tempo giusto tanto bene quanto si sa, altempo giusto, ricordare; dal fatto che con forte istinto si sa avvertirequando è necessario sentire storicamente e quando nonstoricamente. Proprio questa è la tesi che il lettore è invitato aconsiderare: ciò che è storico e ciò che non è storico sonougualmente necessari per la salute di un individuo, di un popolo edi una civiltà6.

Obbligato a ricordare (cioè a fare storia), l'uomo rischia di essere schiacciato dal passato. La

sensazione del tempo può divenire una paralizzante ossessione. Ma il tempo-storia non

è rifiutato in toto da Nietzsche, che, lo abbiamo appena visto, ammette che la storia e il

ricordo sono indispensabili per «la salute (…) di un popolo e di una civiltà». Bisogna solo

non farsene sommergere, evitare un «eccesso di storia»7: e per scongiurare quest'eccesso

è necessario ricorrere a all'oblio, vale a dire alla

condizione più ingiusta del mondo, angusta, ingrata verso ciò che èpassato, cieca ai pericoli, sorda agli avvenimenti, un piccolo vorticevivo in un mare morto di notte e d'oblio: e, tuttavia, questacondizione (…) è la radice non solo di un'azione ingiusta, ma piùancora di ogni azione giusta (…) Come colui che opera è, secondola definizione di Goethe, sempre privo di coscienza morale, così èsempre anche privo di sapere; dimentica la maggior parte dellecose, per fare una cosa sola, è ingiusto verso ciò che si trova dietro

5. Ivi, pp. 37-38.6. Ivi, p. 40.7. Ivi, p. 41.

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E ancora

di lui, e conosce solo un diritto, il diritto di ciò che deve oradivenire8.

Chi non sa sedersi sulla soglia dell'attimo, dimenticando tutto il passato, chi non sa stare dritto su un punto senza vertigini e paura, come una dea della vittoria, non saprà mai che cos'è la felicità (…) Immaginatevi l'esempio estremo, un uomo che non possedesse affatto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere ovunque un divenire (…). Ad ogni azione occorre l'oblio: come alla vita di tutto ciò che è organico occorre non solo la luce, ma anchel'oscurità9.

L'oblio riveste una funzione liberatrice, per molti versi simile a quella osservata nel perdono:

tanto dopo aver dimenticato quanto dopo esser stato perdonato, il soggetto agente si

riappropria della sua autonomia e ritrova una capacità d'azione che aveva perduta.

Anche se l'oblio scaturisce dalla problematica della memoria e della fedeltà al passato e il

perdono da quella della colpa e della riconciliazione con il passato, la problematica dell'oblio

è la più vasta, e finisce per inglobare quella del perdono: questo, infatti, può essere visto

come ciò che permette o quanto meno agevola il lavoro della dimenticanza10, che

Nietzsche auspicherebbe di veder costituirsi in parallelo con l'ars memoriae.

Ma anche l'ars oblivionis presenta i suoi rischi, taciuti nel saggio di Niezsche, ma che

troviamo analizzati nella sezione di La memoria, la storia, l'oblio che Ricoeur dedica agli

usi e agli abusi del dimenticare, con particolare attenzione ai casi di memoria storica

manipolata. Ricoeur parte da una constatazione estremamente lucida: «Se non ci si

può ricordare di tutto, altrettanto non si può raccontare tutto.

L'idea di racconto esaustivo è un'idea performativamente impossibile. Il

racconto comporta necessariamente una dimensione selettiva. (…) l'ideologizzazione

della memoria è resa possibile dalle risorse di variazione, che il lavoro di configurazione nar-8. Ibidem.9. Ivi, pp. 38-39.10. A questo riguardo, Margalit, ne L'etica della memoria, p. 167, osserva che «chi perdona prende una decisioneconscia, almeno nei casi paradigmatici, di iniziare un processo il cui risultato finale è quello di dimenticarel'offesa e di ripristinare la sua relazione con chi l'ha offeso come se l'offesa non ci fosse mai stata».

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rativa offre»11. Le strategie dell'oblio strumentalizzano proprio questo lavoro di

configurazione, così che al termine del percorso «il pericolo principale (…) sta nella

trattazione della storia autorizzata, imposta, celebrata, commemorata – della storia

ufficiale»12: quando un'autorità superiore si assume tutto l'incarico di dirigere l'intreccio, non

solo spossessa gli attori sociali del loro potere (e diritto) di raccontare se stessi, ma finisce per

imporre un racconto canonico che non sopravviverebbe senza una certa complicità degli

“attori spossessati” stessi, complicità che ha tutte le sembianze di un colpevole non voler

sapere. Qua non si tratta di un troppo poco di memoria classificabile come oblio passivo e

quindi innocente, ma di una vera e propria

strategia di evitamento, di elusione, di fuga (…). In quanto attivo, questo oblio comporta la medesima sorta di responsabilità di quella che viene imputata agli atti di negligenza, di omissione, di imprudenza, di imprevidenza, in tutte le situazioni di non-agire, in cui retroattivamente a una coscienza illuminata e onesta appare che si doveva e che si poteva sapere o, per lo meno, cercare di sapere, che si doveva e poteva intervenire. (…) la responsabilità dell'accecamento ricade su ciascuno13.

Tanto in Nietzsche che in Ricoeur è evidente come le manifestazioni individuali dell'oblio

siano inestricabilmente mescolate alle sue forme storiche, al punto che un'esperienza

particolarmente forte di oblio non manifesta i suoi effetti distruttivi se non sulla scala delle

memorie collettive: nelle opere La syndrome de Vichy de 1944 à nos jours, Vichy, un passé

qui ne passe pas e La hantise du passé, Henry Rousso si è assunto il compito di trasporre sul

piano storico «certi concetti psicanalitici, caduti essi stessi nell'ambito pubblico, quali

traumatismo, rimozione, ritorno del rimosso, negazione e via dicendo», così da «costruire una

griglia di lettura dei comportamenti pubblici e privati dal 1940-44 ai nostri giorni sulla base

11. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 636.12. Ibidem. Ricordiamo anche quanto affermato da Tzevetan Todorov nel saggio intitolato precisamente Gliabusi della memoria: qua, osserva Ricoeur, «si può leggere una severa requisitoria contro la frenesiacontemporanea delle commemorazioni, con il loro codazzo di riti e di miti, ordinariamente connessi con glieventi fondatori richiamati sul momento. La presa di possesso della memoria, insiste Todorov, non è specialitàdei soli regimi totalitari; essa è appannaggio di tutti gli zelanti della gloria. Da questa denuncia risulta una messain guardia contro quello che l'autore chiama un “elogio incondizionato della memoria” (Ibidem, p. 32)», Ivi, p.123.13. Ivi, p. 637.

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del concetto di ossessione: l'“ossessione del passato”»14, un contributo che vorrebbe aiutare i

suoi contemporanei ad intraprendere un freudiano “lavoro della memoria”.

Rivolgendoci al versante della memoria collettiva, infatti, non dovremo stupirci di ritrovare, al

suo livello, l'equivalente delle situazioni patologiche con cui ha a che fare la psicanalisi: «La

costituzione bipolare dell'identità personale e dell'identità comunitaria», scrive Ricoeur,

«giustifica (…) l'estensione dell'analisi freudiana del lutto al traumatismo dell'identità

collettiva. Possiamo parlare (…) di traumatismi collettivi, di ferite della memoria collettiva.

La nozione di oggetto perduto trova un'applicazione diretta nelle “perdite” che, nello stesso

modo, segnano il potere, il territorio, le popolazioni, che costituiscono la sostanza di uno

Stato»15. Più precisamente,

ciò che, nell'esperienza storica, fa figura di paradosso, e cioè troppodi memoria qui, non abbastanza di memoria là, si lasciareinterpretare sotto le categorie della resistenza, della coazione aripetere, e finalmente si trova sottoposto alla più difficile prova dellavoro di rimemorazione. Il troppo di memoria richiamaparticolarmente la coazione a ripetere, di cui Freud ci dice che portaa sostituire il passaggio all'atto al vero e proprio ricordo, attraversoil quale il presente potrebbe riconciliarsi con il passato: quanteviolenze nel mondo valgono come come acting out “invece” delricordo! Se si vuole, si può parlare di memoria-ripetizione perquelle celebrazioni funebri. (…)Il troppo poco di memoria dipende dalla stessa reinterpretazione.Ciò che gli uni coltivano con dilettazione morbosa e ciò che gli altrisfuggono con cattiva coscienza, è la stessa memoria-ripetizione. Gliuni amano perdervisi, gli altri hanno paura di esservi inghiottiti. Magli uni e gli altri soffrono della stessa mancanza di critica. Essi nonaccedono a quello che Freud chiamava il lavoro dirimemorazione16.

In fin di conti, l'equiparazione tra lavoro del lutto e lavoro della memoria sostenuta da Freud

nel saggio Lutto e melanconia17 acquista tutto il suo senso sul piano della memoria collettiva,

14. Ivi, p. 638.15. Ivi, p. 113.16. Ivi, pp. 114-115.17. Sigmund Freud, Lutto e melanconia, in Opere di Sigmund Freud, vol. 8, tr. it. Di R. Colorni a cura di C.L.Musatti, Boringhieri, Torino 1978. «L'esame di realtà ha dimostrato che l'oggetto amato non c'è più e comincia aesigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto. Contro tale richiesta si levaun'avversione ben comprensibile», p. 104. Ciò che rende il lavoro del lutto un fenomeno normale, sebbenedoloroso, è che «una volta portato a termine il lavoro del lutto, l'Io ridiventa in effetti libero e disinibito»(Ibidem.). In questo senso, il lavoro del lutto può essere accostato al lavoro della memoria, di cui è, in un certosenso, il prezzo.

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forse ancora di più che su quello della memoria individuale. Trattandosi, infatti, di ferite

inflitte all'amor proprio nazionale, è a ragione che si può parlare di oggetto d'amor perduto. È

quanto affermato da Henry Rousso ne Le syndrome de Vichy, dove ricostruisce

analiticamente la difficoltà dimostrata durante la seconda guerra mondiale dai francesi

nel misurarsi con un regime fascista alleato al Terzo Reich come quello di Petain, durato tre

anni. Il tipo di abuso della memoria messo in atto in quel quadro nazionale riguarda la

memoria censurata, che soppiantò un lavoro del lutto condannato così a restare

incompiuto. Ma non senza evidenti ripercussioni. Ogni storia, infatti, è una storia di ricordi,

e un passato fatto di terrore sociale inizia ad opprimere la gente se si decide di voltargli le

spalle e di cercare di sfuggirgli, se si cerca di rimanere inconsapevoli di tutti quei mali che

uno sa che dovrebbe sapere. L'obbligo di dimenticare ci tiene prigionieri, ci lega a

quell'oblio imposto o auto-imposto, sacrifica quel passato ricolmo di male che, con un

movimento contraddittorio, al contempo si conosce e si nega.

Seguito da un periodo, contrassegnato dalle conseguenze della guerra civile, di epurazione e

di amnistia, il lutto non superato di Vichy sfociò definitivamente in una vera e propria «fase

di rimozione», destinata a rompersi solo negli anni Settanta, quando, dopo trent'anni,

riemergerà in maniera traumatica la memoria di Vichy e della guerra civile, con la «fase del

ritorno del rimosso»: l'incantesimo si spezza, l'effetto del pharmakon comincia a scemare.

Subentra «la fase dell'ossessione, (…) contrassegnata dal risveglio della memoria ebraica e

dall'importanza delle reminiscenza dell'Occupazione nel dibattito politico interno», nella

quale «sembra che ci troviamo ancora»18. L'efficacia dei così detti “ricordi-schermo”,

infatti, non prescinde dalle epoche storiche, e sempre Ricoeur ci ricorda che questi ricordi

funzionano sulla scala della memoria collettiva come su quelladella psicologia della vita quotidiana, grazie all'esaltazionedell'evento della Liberazione: “Con la distanza, la gerarchia dellerappresentazioni ha soppiantato quella dei fatti, che confondel'importanza storica di un avvenimento con il suo carattere positivo

18. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 639.

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o negativo”(Ibidem); ricordo-schermo che permette al grande liberatore di dire che “Vichy fu sempre e rimane nulla e non avvenuta”. Vichy, dunque, sarà messa tra parentesi, occultando così la specificità dell'occupazione nazista. Il ritorno delle vittime dall'universo dei campi di concentramento diventa, così, l'avvenimento rimosso il più presto possibile. Le commemorazioni suggellano il ricordo incompleto e la sua controfigura di oblio19.

L'oblio, lo avevamo già visto con Margalit, non procede in modo automatico: tanto

dimenticare un torto subito personalmente che cancellare un'ingiustizia sofferta da una

collettività hanno ben poco di volontario, e adesso, in aggiunta, sappiamo che questa misura

non è esente da rischi patologici, quali il ritorno del trauma rimosso e la costituzione di

“ricordi-schermo”.

Ma anche il lavoro del lutto, che pretende di ricavare dal tempo passato un presente e un

futuro per qualcosa che, oramai, non esiste più, non rischia di essere un lavoro ostinato e

stupido? Non è forse un lavoro che si infrange, senza alcun riscatto, contro un'ovvia

impossibilità? Freud questo non lo dice, essendo la sua un'economia del profitto:

l'elaborazione del lutto, tempo del distacco con cui l'oggetto perduto viene abbandonato alla

sua assenza di tempo, dà al soggetto sopravvissuto il premio della vita. Come accade quando

si concede o ci viene concesso il perdono, al termine del (lungo) processo le nostre

potenzialità e forza di agire sono di nuovo libere e possono venir investite su nuove iniziative

e progetti disponibili.

Perché fa parte del senso comune l'idea che il tempo guarisca le ferite, mettendo in moto un

processo non molto diverso da quello fisiologico del loro rimarginarsi. Il passato deve

indietreggiare, lasciare il suo posto al presente e al futuro la forza di progettualità: per quanto

continuerà a poter essere evocato e raccontato, sarà inevitabilmente “ingiallito” rispetto alla

presenza del presente vissuto.

Ma i versi di Celan posti in apertura di questo paragrafo ci parlano di un tempo diverso, la cui

opera è abolita, distrutta: inconsapevole del tempo trascorso e ignorando che “il passato è

19. Ivi, pp. 639-640.

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passato”, la ferita si riapre togliendo ad esso l'attenuazione implicita del suo essere stato.

La possibilità di un tempo che non cicatrizzi, di un tempo diverso da quello naturale

e fisiologico, è stata teorizzata da Jean Améry.

Una delle immagini più ricorrenti nelle testimonianze dei Lager, infatti, è quella di un

tempo fisso e bloccato, impossibile ed eterno simile all'assenza di tempo della morte: il

futuro è sospeso e non ha alcuna forza, il presente è inesistente, e lo sguardo rivolto

al passato vorrebbe abolire quanto è stato. Nel testo Intellettuale a Auschwitz, Améry fa del

risentimento il luogo di una rivendicazione morale, che contrasta con il modo naturale

e sociale di considerare il tempo stesso. In un capitolo fondamentale del libro,

intitolato proprio “Risentimento”, quest'emozione si ribella ad un suo dissolvimento nel

consenso collettivo, ed esige che la propria distorsione venga ridefinita «come forma

d'umanità moralmente e storicamente più elevata rispetto alla sana dirittura».

«Devo quindi delimitare il risentimento da due lati», prosegue, «salvaguardarlo da due

definizioni: nei confronti di Nietzsche che lo condannava a livello morale, e nei confronti

della psicologia moderna che lo recepisce solo in quanto elemento di conflitto e

turbativa»20. Améry, infatti, è cosciente di come il risentimento sia

una condizione non solo contro natura ma anche contraddittoria a livello logico. Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato distrutto. Assurdamente esige che l'irreversibile sia rovesciato, che l'accaduto sia annullato. Il risentimento impedisce lo sblocco verso il futuro, la dimensione più autenticamente umana. Me ne rendo conto, il senso del tempo di chi è prigioniero del risentimento è distorto, dissociato, se si preferisce, poiché pretende ciò che è doppiamente impossibile: il cammino a ritroso verso il già vissuto e l'annullamento di ciò che è stato. (…) è questo il motivo per cui l'uomo del risentimento non può unirsi a quell'inno alla pace che ci esorta a non guardare più indietro, ma in avanti, verso un migliore e comune futuro!21

20. Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, Bollati Boringhieri, Torino 1987, p. 119. Poco prima Améry aveva riportato quanto sostenuto da Nietzsche nella Genealogia della morale, dove troviamo scritto che il risentimento «determina quegli esseri a cui la vera reazione, quella dell'azione, è negata e si consolano soltanto attraverso una vendetta immaginaria..l'uomo del ressentiment non è né schietto né ingenuo né onesto e franco con sé stesso. La sua anima svillaneggia; il suo spirito ama cantucci nascosti, vie traverse, porte segrete, tutto quel che se ne sta occultato lo incanta quasi fosse quello il suo mondo, la sua sicurezza, il suo refrigerio...».21. Ivi, p. 120.

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Non molto dissimile è lo sguardo dell'angelo benjaminiano: nella figura dell'Angelus Novus

che Benjamin introduce nella nona Tesi di filosofia della storia, e in cui è stata intravista una

figura profetica delle ceneri della Shoah22 , gli occhi sono rivolti al passato. Là, dove a noi

appare «una catena di eventi», l'angelo vede «una sola catastrofe, che accumula senza tregua

rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi»23. Come il soggetto risentito di cui parla Améry,

egli vorrebbe trattenersi in quel passato e porre fine all'irreversibilità, «destare i morti e

ricomporre l'infranto»24. Ma l'angelo della storia che fissa il suo sguardo su un cumulo di

rovine non riesce in questa sua volontà di redenzione: «una tempesta spira dal paradiso, che si

è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più chiuderle. Questa tempesta lo

spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo di rovine sale

davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, questa è la tempesta»25.

E come il progresso, anche la società esige che i suoi membri distolgano lo sguardo da quanto

è trascorso e si lascino trasportare dal grande flusso dell'oblio e del perdono, che

rappresentano la reazione più naturale e autenticamente umana. Secondo Améry, invece, colui

che perdona

dissolve la sua individualità nella società ed è in grado di comprendersi solo in quanto funzione del sociale; l'ottuso nei sensi e l'indifferente, quindi, perdona veramente. Egli accetta che l'accaduto sia stato ciò che è stato. Accetta che il tempo, come dice il buon senso comune, guarisca le ferite. Il suo senso del tempo non è dissociato, ossia non è trasposto dall'ambito biologico-sociale a quello morale. Componente de-individualizzata, sostituibile del meccanismo sociale, egli vive in accordo con esso (…) Nei due decenni dedicati alla riflessione su ciò che mi accadde, credo di aver compreso che la remissione e l'oblio provocati da una pressione sociale sono immorali. Chi perdona per ignavia e convenienza si sottomette al senso sociale e biologico –abitualmente definito «naturale» – del tempo. Il senso naturale del tempo ha le sue radici effettivamente nel processo fisiologico del rimarginarsi delle ferite ed è entrato a far parte della rappresentazione sociale della realtà. Proprio per questo motivo esso ha un carattere non solo extramorale, ma antimorale. È diritto e privilegio dell'essere umano non dichiararsi d'accordo con ogni

22. Su questo punto cfr. S. Benso, Pensare dopo Auschwitz, Edizioni scientifiche italiane, Napoli 1992, p. 79 esgg.23. Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2006, p. 80.24. Ibidem.25. Ivi, p. 80.

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avvenimento naturale, e quindi nemmeno con il rimarginarsibiologico provocato dal tempo. Quel che è stato è stato: questaespressione è tanto vera quanto contraria alla morale e allo spirito.La resistenza morale ha in sé la protesta, la rivolta contro la realtà,che è ragionevole solo fintanto che è morale. L'uomo moralerichiede la sospensione del tempo; nel nostro caso, inchiodando ilmisfattore al suo misfatto. In questo modo egli potrà, avvenutal'inversione morale del tempo, essere accostato alla vittima inquanto suo simile26.

Piuttosto che nel perdono, quindi, per Améry, la forza risanatrice e morale risiede proprio in

quel sentimento che vorrebbe l'irreversibile rovesciato, una condizione, ripetiamo, «non solo

contro natura ma anche contraddittoria a livello logico».

Lo riconosce anche Jankélévitch, strenuo sostenitore del tempo trascorso, che ne Il puro e

l'impuro evoca un'immagine tanto suggestiva quanto concettualmente densa:

(…) nel tempo, non è la stessa cosa trovarsi a casa senza aver viaggiato o esserci tornato dopo aver fatto le prime esperienze amorose, dopo aver peccato, sofferto, rimpianto e infine riparato la cosa fatta senza abolire l'averla fatta (…) l'incerto non-so-che del tempo diviene l'elemento differenziale e decisivo per eccellenza.(…) sussiste un mondo tra il volto integro di colui che non ha mai peccato e la fronte liscia, distesa, ma invisibilmente preoccupata che il pentimento ha spianato, così come c'è un mondo tra il borghese che non ha mai lasciato la sua Itaca e Ulisse “at home”,intriso di avventure al ritorno dal suo pericoloso periplo27.

Per quanto le conseguenze visibili possano essere occultate, è l'esser-passato in sé che si

ribella ad ogni tentativo di revisione, ed è proprio il tempo a determinare questa

impossibilità: l'Itaca che si ritrova una volta concluso il viaggio/espiazione, non è la stessa che

si era lasciata anni prima e col cuore leggero. Togliere di mezzo l' infra, come se questo non

avesse mai avuto luogo, servendosi magari del risentimento come si sente costretto a fare

Améry, è poco più che un'illusione. Factum fieri non potest infectum, è questa l'implacabile

sentenza ribadita lungo tutto il testo: il fatto non può essere disfatto.

Come abbiamo già anticipato, nel capitolo 33 di Vita Activa intitolato “L'irreversibilità e il

potere di perdonare” anche Hannah Arendt, nell'affrontare il processo irreversibile e

26. Jean Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 224.27. Jankélévitch, Il puro e l'impuro, Einaudi, Torino 2014, p.72.

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imprevedibile che l'homo faber inaugura con le sue azioni, tocca queste tematiche:

La redenzione possibile dell'aporia dell'irreversibilità - non riuscire a disfare ciò che si è fatto anche se non si sapeva, e non si poteva sapere, che cosa si stesse facendo - è nella facoltà di perdonare. (…) il perdonare, serve a distruggere i gesti del passato, i cui “peccati” pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione (…) Senza essere perdonati, liberati dalle conseguenze di ciò che abbiamo fatto, la nostra capacità di agire sarebbe per così dire confinata a un singolo gesto da cui non potremmo mai riprenderci; rimarremmo per sempre vittime delle conseguenze, così come l'apprendista stregone che non aveva la formula magica per rompere l'incantesimo28.

Il fenomeno del perdono possiede due caratteristiche fondamentali: quella di dipendere dagli

altri, che lo costringe a fare i conti con una pluralità di individui e che quindi ne conferma il

carattere politico (riconosciuto, per quanto in senso critico, anche da Améry), e quella

di avere una natura duplice, in quanto reazione-azione. L'atto di perdonare, infatti, è sì

una reazione (all'irreversibilità immobilizzante del passato che necessita di essere sbloccata),

ma così inaspettata e recalcitrante ad ogni programmazione che finisce per somigliare al

ruolo attivo svolto dal passato sul futuro che abbiamo notato nel testo di Ricoeur. Per chi

invece, come Améry, sente di appartenere ad un mondo, ad un'epoca che ha proclamato

l'incolpevolezza collettiva dei tedeschi, è su di sé che sente gravare la colpa collettiva, non

su di loro: «Il mondo che perdona e dimentica ha condannato me, non coloro che

commisero, o non impedirono l'omicidio. (…) Il tempo ha compiuto la sua opera.

Silenziosamente»29. Il risentimento, scrive Améry, rappresenta la sua personale protesta

contro quel rimarginarsi provocato dal tempo che è un processonaturale ma contrario alla morale, e nel quale rivendico un'assurda,ma autenticamente umana inversione del tempo, e (…) unafunzione storica. (…) il conflitto latente tra vittime e carnefici deveessere esteriorizzato e attualizzato se entrambi, sopraffatti esopraffattori, intendono dominare un passato che pur essendoradicalmente antitetico è tuttavia anche un passato comune. (…)Ebbene il problema potrebbe essere risolto facendo sì che in unoschieramento si conservi il risentimento e nell'altro nasca, generatada quest'ultimo, la sfiducia in sé. Pungolato esclusivamente dalnostro risentimento – e nient'affatto da uno spirito di conciliazione

28. Arendt, Vita Activa, pp. 176-180.29. Améry, Intellettuale a Auschwitz, p. 128.

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soggettivamente quasi sempre ambiguo e oggettivamente antisto- rico – il popolo tedesco resterebbe sensibile al fatto che non deve lasciare neutralizzare dal tempo, e deve invece integrare un pezzo della propria storia nazionale30.

Nell'incoraggiamento ad assolvere i tedeschi dalla loro colpa collettiva, quindi, Améry non

vede altro che un invito all'oblio e alla dimenticanza, a cui bisogna rispondere con

un'esteriorizzazione e un'attualizzazione del conflitto tra vittime e carnefici. Un'interpretazione

del perdono più “dinamica” e strutturata ci viene offerta da Jankélévitch, che sempre ne Il

puro e l'impuro introduce la nozione di “pentimento creatore”, il quale, pur non cancellando

l'aver avuto luogo della colpa, non di meno le donerebbe un'utilità, inserendola in una

sintesi assolutamente nuova e preferibile ad una lotta contro il tempo destinata alla

sconfitta. Il pentimento creatore è

una purificazione pneumatica la cui efficacia risulta al contrario dalfatto incancellabile che qualcuno “ha fatto” e che un tempoinsopprimibile è trascorso: l'inconsolabile rimorso smentisce ognisperanza commutativa e mercenaria di annullamento, ma giustifica,per contro, la speranza sovrannaturale di una redenzione concessadalla grazie e di un perdono miracoloso. La cosa fatta (factum) puòessere disfatta, ma il fatto-di-aver-fatto (fecisse) è indisfattibile: sipuò disfare la cosa fatta, ma non si può fare che essa non sia maistata fatta (infectum) (…) La purificazione non cancella l'aver avutoluogo della colpa, ma per lo meno la fa servire a qualcosa; non cirestituisce ciò che abbiamo perduto, ma ci dà qualcosa d'altro,qualcosa di assolutamente nuovo e, tutto sommato, di preferibile31.

«Il pentimento regressivo e depurativo», di cui Améry critica l'amoralità, non è dunque l'unico

possibile: scegliendo l'alternativa di un pentimento «progressivo e purificante»32, il popolo

tedesco rinuncerebbe all'innocenza delle origini e sceglierebbe di fare di meglio. Il

risentimento potrebbe, forse, risvegliare la coscienza della Germania e spronarla ad «integrare

un pezzo della propria storia nazionale», ma, a causa delle fantasie di vendetta che spesso

accompagnano questo sentimento, impedirebbe l'accesso a una totalità nuova e ad una nuova

sintesi messe in atto dalla purificazione. Perché ciò che questa ci restituisce non è «la purezza

30. Ivi, pp. 130-131.31. Jankélévitch, Il puro e l'impuro, p. 71.32. Ibidem.

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asettica, insipida, incolore e inodore, né la bianchezza immacolata dell'innocenza, né

l'assoluta trasparenza del cominciamento...Per contro, la purificazione rende possibile una vita

rigenerata e l'avvento di un'era nuova di cui la gioia è il segno»33.

Ma la gioia è un sentimento difficile da calare nell'ambito della storia dei diritti. La storia dei

diritti, infatti, è la storia della consapevolezza dei soprusi e dei mali commessi.

L'esplosione delle pratiche della memoria ha caratterizzato la cultura dell'Occidente negli

ultimi decenni, e alla convinzione secondo cui ad ogni sconvolgimento politico debba far

seguito un periodo di oblio ne è subentrata un'altra, che incoraggia l'attivazione di una

memoria perenne.

La memoria collettiva, lo abbiamo visto, può essere oggetto di deformazioni ed essere esposta

a strumentalizzazioni: può essere censurata, manipolata, subdolamente imposta. Oltre a ciò, è

esposta da un lato al rischio di una paralisi, dall'altro a quello di un sovraccarico e di una

saturazione. In relazione all'elaborazione del trauma nazionalsocialista, per denunciare una

saturazione che impediva un rapporto normale con la storia, si è parlato di “passato che non

passa”.

Assieme all'interrogazione filosofica sulla responsabilità e sulla colpa, a promuovere la

fioritura della memoria sono anche le indagini giudiziarie, di cui la stessa storiografia ha

appreso a fare un uso sempre più sistematico. Affidare il lavoro della memoria a giudici oltre

che a storici e filosofi concorre ad una finalità comune, quella di evitare che questa, come

spesso accade nella storia, conduca all'incubazione di nuove ostilità.

Nel prossimo paragrafo apprenderemo che anche a livello giuridico sussiste «un'iperpolitica

ma anche un'antipolitica del passato. L'alternativa tra il chiudere i conti con il passato senza

averli fatti e il fare i conti con il passato senza mai chiuderli incombe sempre sulla giustizia di

33. Ivi, p. 73.

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transizione, che tra questi estremi è condannata a muoversi cercando di volta in volta la

soluzione non solo moralmente legittimabile ma anche pragmaticamente perseguibile»34.

34. Pier Paolo Portinaro, I conti con il passato, Feltrinelli, Milano 2011, p. 210.

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3) Il perdono nella giustizia di transizione, fra vendetta e amnistia

Noi riteniamo di essere giudicatriciperfette: nessun'ira da parte nostra

raggiunge chi protende pure le mani, esenza danno egli trascorre la vita:chi

invece, dopo aver commesso unacolpa,come quest'uomo, nasconde mani

insanguinate, noi, presentandoci qualigiuste testimoni di fronte ai morti, alla fine

ci riveliamo a lui come vendicatrici delsangue.

(Eschilo, Eumenidi, Coro,vv. 312-320)

Accetterò di abitare insieme con Pallade...e per la città,io, benignamente profetando, prego che la illustre

luce del sole faccia germogliare dalla sua terravicende di vita in prospero susseguirsi.(Eschilo, Eumenidi, Coro, vv. 916-926)

La rappresentazione giudiziaria dei fatti deve essere compresa come un modo di rendere

contemporanei questi fatti. Nel momento del processo, essi sono presentati oltre la loro pura

effettività a fronte di una ricostruzione legale. Si confida nella giustizia per una loro

qualificazione ufficiale, in modo tale da sottrarli all'assoluzione del tempo. Distinguendo la

verità fattuale da quella giuridica, Améry sostiene che «Il misfatto in quanto tale non ha un

carattere oggettivo. Il genocidio, la tortura, le lesioni di ogni sorta, oggettivamente non sono

altro che un susseguirsi di fenomeni fisici, descrivibili nel linguaggio formalizzato della

scienza: sono dati di fatto all'interno di un sistema fisico, non azioni interne a un sistema

morale»1. Ma contro la memoria del risentimento, che è una memoria congelata, rancorosa e

sterile, quella che segue l'opera di giustizia deve essere una memoria alleviata, perché è solo

1. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, p. 121.

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accettando che il passato si è svolto in un determinato modo che ci sarà permesso di riaprirci

alla vita e ad un'iniziativa orientata al futuro.

Se ci si riferisce ai fatti storici servendosi del passato remoto, l'azione processuale avviene nel

presente: per quanto, ormai, sia contraddittorio negare che quanto è accaduto sia accaduto

realmente, si può comunque contestare l' “approvazione” che il tempo ha concesso a quegli

eventi. Tale «processo di inversione morale del tempo»2 è quanto ci si aspetta dalla giustizia.

Durante un processo, i fatti vengono rievocati e resi per così dire “presenti” al fine di

metabolizzarli e svuotarli della loro dannosità morale. La sanzione giuridica è una possibile

cura al traumatismo ossessivo di cui parlava Rousso: a sentenza emessa, dovremmo sentirci

liberati dal peso della storia, da quel sentimento d'impotenza generato da un passato

irreparabile.

Proprio come avviene nelle Eumenidi, dove il tribunale umano istituito da Atena libera le

Atridi dal peso del tempo e dalle catene implacabili della vendetta.

Gli esseri umani, lo abbiamo visto, non esistono per se stessi: sono il prodotto di un passato

che, talvolta, li opprime. I torti e le ingiustizie subite generano in loro rabbia retributiva, e non

è facile evitare che essa sfoci in estenuanti progetti di vendetta a catena. Le Eumenidi, l'ultima

delle tre tragedie che compongono l'Orestea di Eschilo, mette in scena il superamento di

questa logica ad opera di quella giudiziaria, mostrandone anche l'ambivalenza.

Le antiche dee della vendetta, le Erinni o Furie, che sino a quel momento avevano giudicato i

delitti di sangue, sono sostituite dalle istituzioni giuridiche introdotte da Atena. «Ma», nota

Nussbaum, «le Erinni non vengono semplicemente messe da parte. Atena le convince a unirsi

alla città, assegnando loro un posto d'onore in virtù della loro importanza per quelle stesse

2. Ivi, p. 120.

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istituzioni giuridiche e per il bene futuro della città»1. Ad una condizione: che esse

accantonino le loro smanie di vendetta, si mostrino benevolenti verso la città e rinuncino

definitivamente a perpetrare agitazioni e discordie. Da Erinni divengono Eumenidi

(letteralmente “le Benevole”): perché la giustizia civile

non si limita a costruire una gabbia attorno alla rabbia, bensì latrasforma radicalmente, da qualcosa di poco umano, di ossessivo esanguinario, a qualcosa di umano, ragionevole, calmo, deliberativoe misurato. Inoltre, la giustizia non si rivolge a un passato che nonpuò più essere cambiato, bensì punta a un futuro di benessere eprosperità. Il senso di responsabilità che permea tali istituzioni nonha a che fare con il sentimento retributivo, ma con una valutazioneponderata a difesa della vita presente e futura. Le Erinni sonoancora necessarie perché il mondo è imperfetto e ci saranno semprereati da giudicare. Ma non devono mantenere la loro formaoriginaria. Non sono più le stesse: sono infatti divenute strumenti digiustizia e di benessere. La città (o Stato) è liberata dal flagellodella furia vendicativa, che produce disordini civili e mortiprematura. Al posto della rabbia, la città ottiene la giustiziapolitica2.

Ai vecchi propositi di vendetta e di rivalsa, quindi, subentrano quelli di deterrenza, rivolti non

più al passato ma al futuro, un futuro di maggior benessere personale e sociale. La vendetta

non scompare, ma si ricicla per il bene della città. Le Eumenidi incarnano il ricordo

dell'orrore di un mondo antico, da cui l'istituzione del processo ha voluto farci definitivamente

uscire: la terra è di nuovo feconda, le relazioni serene, ma le Eumenidi sono là, a ricordarci

ciò di cui il nostro mondo fu un tempo capace.

L'ambivalenza delle nuove istituzioni giuridiche, comunque, si spinge oltre. Le Eumenidi,

infatti, sono giudici tutt'altro che perfette, come testimonia il tribunale imparziale che viene

instaurato in loro opposizione, a suggerire che a) c'è un residuo di vendetta al fondo di ogni

pratica giudiziaria, e b) certi delitti sono così imponderabili da essere impossibili da giudicare.

Sono questioni inerenti alla natura stessa della pratica giudiziaria, e tanto più urgenti in quei

processi che riguardano l'uscita da domini violenti e oppressivi: date le pratiche genocidarie

praticate dai regimi del XX secolo, la ricerca di una via d'uscita politicamente negoziata e

1. Nussbaum, Rabbia e perdono, p. 11.2. Ivi, p. 15.

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socialmente condivisibile è diventata una delle preoccupazioni dominanti dell'età

contemporanea. A causa delle sue fondamenta, infatti, così radicate nel cuore del potere

politico, il crimine di massa mette seriamente in discussione le capacità della giustizia umana.

Al di là della definizione di giustizia della società arcaica e delle ritorsioni barbare pretese

dalle Erinni, comunque, diritto e vendetta appaiono effettivamente connessi: oltre a dar forma

ai progetti dell'ira, la vendetta rivendica un contenuto morale, poiché muove dalla volontà di

restaurare un equilibrio da parte delle vittime di torti irreparabili. Come se l'enormità delle

giustizie sofferte, talvolta, potesse legittimare l'assenza di misura delle corrispettive

“riparazioni”, che, nel caso consistano in una vendetta violenta, possono essere definite “rese

dei conti”.

A differenza della problematica istituzionalizzazione del perdono, vi sono forme collettive di

rese dei conti a cui persino il diritto internazionale riconosce una limitata legittimità, come

quella della rappresaglia militare3, ma la storia ha conosciuto rese dei conti collettive al di

fuori di ogni paradigma di legalità, e massacri, espulsioni e deportazioni hanno spesso

contribuito ad alimentare la spirale dell'odio. Come se non bastasse, per secoli

le rese dei conti violente non sono soltanto state la norma, ma hanno goduto spesso anche di una legittimazione orchestrata dall'alto e potenziata dal plusvalore della sacralizzazione. Il massacro di ebrei e musulmani a Gerusalemme, a conclusione della prima crociata (1099), fu festeggiato da processioni e da un grande Te deum; la notte di San Bartolomeo (23 agosto 1472), con il suo strascico di susseguenti massacri che fecero in tutto il regno tra le 20.000 e le 30.000 vittime, fu analogamente festeggiato dal cardinale di Lorena con un Te deum al presenza del papa Gregorio XIII (8 settembre 1472), e non fu oggetto di alcuna sanzione penale4.

Per quanto il processo di civilizzazione si sia incamminato nella direzione di una messa al

bando della vendetta, il XX secolo ha conosciuto molte forme di rese dei conti, tanto che, alla

caduta di dittature e regimi totalitari, si è fatto spesso ricorso alla vendetta spontanea: i

3. Cfr. Portinaro, I conti con il passato, p. 43.4. Ivi, p. 46.

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processi giudiziari del secondo dopoguerra si trovarono a coesistere con espulsioni e

deportazioni, forme collettive di resa dei conti che, a livello giuridico, vengono ritenute in

tutto e per tutto un crimine. Basti pensare alle deportazioni dei polacchi verso l'Asia centrale

dopo l'invasione sovietica, o ai milioni di profughi tedeschi che, alla fine delle Seconda guerra

mondiale, abbandonarono la Polonia, dove le organizzazioni naziste avevano ucciso 6 milioni

di persone tra cattolici ed ebrei. Anche gli Alleati, nell'Europa Orientale, erano soliti tollerare

il ricorso alla punizione collettiva, e nelle zone occupate dai sovietici le persecuzioni si

abbatterono su diverse nazionalità.

Ma il rapporto tra regimi totalitari e vendetta è meno scontato di quanto possa sembrare: con

Portinaro andrebbe osservato che quei regimi operano nel senso di un'istituzionalizzazione

della resa dei conti, così che «la vendetta e il risentimento (…) sono le motivazioni che

sorreggono le innovazioni istituzionali e l'agire ordopoietico di tali regimi. L'immaginario del

totalitarismo è ossessionato dall'imperativo della criminalizzazione del nemico e dalla

coazione a neutralizzare ogni meccanismo inibitorio di una violenza che deve appunto servire

alla resa dei conti conclusiva». Non solo: questi regimi, dopo aver praticato forme disumane

di resa dei conti durante tutta la loro durata, nel momento del loro crollo sono in grado di

inibire episodi collettivi di resistenza e insubordinazione. Nella fase finale della Seconda

guerra mondiale «non fu la popolazione ad abbandonarsi alla resa dei conti con un regime che

l'aveva trascinata nella tragedia, ma il regime a tentare un'estrema, disperata resa dei conti con

il popolo che non lo aveva sostenuto in modo totale». È quest'estenuante incubazione della

violenza, che ebbe la sua apoteosi nell'Italia di Salò, che può spiegare la disumanità

dell'epilogo di Piazzale Loreto, una resa dei conti radicale tanto quanto le attività terroristiche

di un regime totalitario in difficoltà.

Il momento per porre fine a queste ritorsioni violente appartiene alla fase di transizione, che

segna il passaggio dal regime totalitario che le ha incoraggiate ad uno democratico che ne

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sancisca la barbarie. È quanto si incarica di fare la giustizia di transizione, la quale, per quanto

ampiamente presente sin dall'età classica, ha ricevuto un'attenzione particolare soprattutto in

seguito agli episodi che hanno avuto luogo al termine della Seconda guerra mondiale, e non

solo per la sproporzione del delitto in questione. Il destino dei responsabili e delle vittime

dell'Olocausto fornisce, infatti, l'esempio storico più importante del ricorso alla via giudiziaria

nel fare i conti con i crimini di un regime. Le transizioni avviate alla fine della Seconda guerra

mondiale, che consistettero in interventi di tipo giudiziario contro i regimi nazisti e in misure

di risarcimento a favore delle vittime, raggiunsero dimensioni assolutamente senza precedenti

e che restano tutt'oggi senza uguali.

A seguito dell'Olocausto, i crimini contro l'umanità vennero definiti dalle carte dei tribunali

militari internazionali di Norimberga, poi di Tokyo, dell'8 agosto 1945 e del 12 gennaio 1946.

In apertura del primo capitolo di questo elaborato ci si era chiesti se l'esistenza del male non

presagisse il fallimento della filosofia; adesso, in modo non dissimile, dovremmo domandarci

se il crimine contro l'umanità non faccia lo stesso con la comunità giuridica. La specifica

incriminazione per crimini contro l'umanità, infatti, deriva dalla presa di coscienza di

un'inedita violenza, nata talvolta dalla guerra, da cui però finisce per differenziarsi in modo

radicale: se un contesto di guerra “standard” prevede sempre due parti ugualmente armate e

combattenti che si affrontano, i crimini contro l'umanità mostrano una mostruosa

sproporzione fra una parte combattente, beneficiata dallo Stato, e un'altra non combattente,

che si è deciso di espellere dal territorio. Mentre la figura del combattente è una figura attiva,

la vittima assoluta perseguitata dai crimini contro l'umanità incarna un nuovo modo di stare, o

di non stare, al mondo: «Soltanto in questo stadio», scrive Arendt, «in cui la guerra non dà

più per scontata la coesistenza delle parti nemiche e vuole solo risolvere il modo violento i

conflitti creatisi tra loro, la guerra ha davvero cessato di essere uno strumento della politica e

comincia, come guerra di sterminio, a erompere i confini imposti al politico e perciò

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distruggerlo»5.

Con la Convention on Genocide del 1948 delle Nazioni Unite, anche il genocidio viene

assunto per la prima volta a categoria centrale della criminologia politica e del diritto penale6,

dopo che la risoluzione delle Nazioni Unite del 1946 ne aveva dichiarato l'imprescrittibilità,

asserendo che questi crimini sono «imprescrittibili per loro natura». L'imprescrittibilità,

spiega Ricoeur, significa che «il principio di prescrizione non può essere invocato. Essa

sospende un principio che consiste, esso stesso, a fare da ostacolo all'esercizio dell'azione

pubblica. Sopprimendo i termini di perseguimento, il principio di imprescrittibilità autorizza a

perseguire indefinitivamente gli autori di questi crimini immensi»7. A differenza di altri casi,

in cui il tempo può effettivamente usurare i propositi di vendetta, la riprovazione dei crimini

nazisti non conosce limiti temporali, ed è giusto così, tenendo anche conto della facilità con

cui i colpevoli si sottraggono alla giustizia ricorrendo alla fuga e al cambiamento d'identità.

Ma, nonostante la normativa internazionale volta a contrastare i crimini contro l'umanità, la

capacità di prevenzione e sanzione della Convenzione del 1948 si è dimostrata fortemente

carente, e gli sviluppi successivi sul piano del diritto non hanno fatto altro che accentuare la

distanza esistente tra la dimensione normativa e quella fattuale. Nelle zone d'occupazione

occidentali, per esempio,

i tribunali tedeschi (…) si rifiutarono di applicare il diritto degli Alleati e si richiamarono in maniera sempre più esplicita alla tradizione giuridica internazionale. (…) le indagini giudiziarie sui crimini nazisti vennero praticamente accantonate per dar corso alle scarcerazioni e all'amnistia de facto della prescrizione dei reati. Si è parlato a ragione per questa fase di "amnistia fredda". (…) La rimozione e la riluttanza ad avviare procedimenti concernenti il passato recente da parte della magistratura, che in larghissima parte aveva superato indenne lo scoglio della denazificazione,

5.Arendt, Che cos'è la politica?, Edizioni di Comunità, Milano 1995, p. 68.6.All'articolo 2 vi leggiamo la seguente definizione: “Genocide means any of the following acts committed withintent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group, as such: a) Killing members ofthe group; b) Causing serious bodily or mental harm to members of the group; c) Deliberately inflicting on thegroup conditions of life calculated to bring about its physical destruction in whole or in part; d) Imposingmeasures intended to prevent births within the group; e) Forcibly trasnferring children of the group to anothergroup”. Cfr. W.A. Schabas, Genocide in International Law. The Crimes of Crimes, Cambridge University Press,Cambridge 2000.7. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 669.

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costituirono i fattori politico-culturali che più avrebbero condizionato l'intera vicenda dell'elaborazione giudiziaria8.

Ciò che la storia c'insegna, infatti, è che l'alternativa alla vendetta, che ha nel processo la sua

forma legalizzata, è l'amnistia, vale a dire il reciproco oblio dei torti patiti con la messa da

parte della questione sulla responsabilità. Si tratta di una misura non priva di vantaggi, fra i

quali sono da annoverare «il raffreddamento del contenzioso giudiziario, l'interruzione della

catena delle vendette, il bilanciamento delle colpe (…) e il mantenimento della funzionalità

del sistema»9.

Dal momento che rappresenta una necessità della buona coscienza, infatti, la strada del

processo e della punizione tende a polarizzare la società, a dividerla tra colpevoli e innocenti,

buoni e cattivi. Questo destabilizza la vita della comunità, e introduce per altra via tutti i

pericoli che tenta di espellere; poiché ogni transizione contiene in sé molte delle tensioni e dei

conflitti del passato, ad ogni passo si corre il rischio di riprodurre quelle tensioni e quei

conflitti. A tali difficoltà la strada dell'amnistia risponde concentrandosi, piuttosto che sugli

individui e sulle loro rivendicazioni, sul presente e sul futuro, che devono prevedere

istituzioni democratiche e giuste. Ma è in grado di offrire una garanzia di giustizia?

Da un certo punto di vista, infatti, l'amnistia non sembra far altro che calpestare la domanda di

giustizia delle vittime, facendosi portavoce di un'indiscriminata cancellazione delle colpe,

come se odi, rancori e risentimenti potessero estinguersi col solo comando di dimenticare

(quando il dimenticare, lo abbiamo visto con Margalit, è un atto del tutto involontario).

Non è a torto, quindi, che Ricoeur definisce l'amnistia «forma istituzionale dell'oblio»10:

questa, ci viene detto,

8. Portinaro, I conti con il passato, p. 99.9. Ivi, p. 144. Cfr. A. Cassese, Antonio Cassese, Clemency Versus Retribution in Post-Conflict Situations, 46COLUM. J. TRANSNAT'L L. 1, 3-4 (2007): «What are the merits of amnesties? First, by stopping trials againstthe presumed culprits amnesties prevent hatred and grief from invading courtrooms. Second, amnesties impedethe decapitation of the whole political and administrative apparatus of the state when the conflict has resultedfrom an international or civil war against a dictatorship. Third, amnesties, if they benefit all the parties that hadpreviously fought one another to the bitter end, have the meritorious effect of equalizing guilt and responsabilityand thereby introduce some sort of general appeasement».10. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 693.

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in quanto oblio istituzionale, tocca le radici stesse del politico e,attraverso di esso, il rapporto più profondo e più dissimulato con unpassato colpito da interdetto. La prossimità più che fonetica, omeglio semantica, fra amnistia e amnesia segnala l'esistenza di unpatto segreto con la negazione di memoria che, lo vedremo piùtardi, la allontana in verità dal perdono, dopo averne proposto lasimulazione11.

A tal proposito richiama tre episodi. Il primo riguarda il decreto promulgato ad Atene nel 403

a.C., dopo la vittoria della democrazia sull'oligarchia dei Trenta, che ci viene presentato da

Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi. «Le formule negative», osserva Ricoeur, «sono

impressionanti: non ricordare. (…) La guerra è finita, viene solennemente proclamato: i

combattimenti presenti, di cui parla la tragedia, diventano il passato da non ricordare». Ma

abbiamo già valutato l'alto prezzo che un imperativo di oblio è tenuto a pagare.

Non è da meno L'editto di Nantes promulgato da Enrico IV, il quale impone «che sia estinto e

soppresso il ricordo di qualsiasi azione compiuta dalle due parti dal principio del mese di

marzo 1585 sino alla nostra accessione alla Corona e durante gli altri precedenti disordini e al

loro scoppio, come se nulla fosse mai accaduto. (…) Noi proibiamo ai nostri sudditi di

qualsiasi rango o condizione essi siano, di ricordare tali fatti»12.

Per la Repubblica francese, infine, l'amnistia «è un atto politico diventato tradizionale. (…)

l'amnistia mette fine a tutti i procedimenti in corso e sospende tutte le azioni giudiziarie. Si

tratta proprio di un oblio giuridico limitato, ma di vasta portata, nella misura in sui l'arresto

dei processi equivale a spegnere la memoria nella sua dimensione attestataria e a dire che

nulla è accaduto».

Ma siamo davvero pronti a spazzare via di colpo tutto il male che ha invaso le nostre società

in nome del desiderio di avere una vita sociale positiva? Fingere che la nostra vita possa

andare avanti come se il male non ci avesse mai toccati? L'amnistia, al limite,

può avere senso solo come misura temporanea, per rendere

11. Ivi, p. 643 sgg.12. Ivi., p. 644.

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possibile la ripresa di normali relazioni sociali in una situazionenella quale comunque un grande programma di elaborazionegiudiziaria del passato appaia del tutto irrealistico. Ma per risultareaccettabile in un processo di transizione alla democrazia deveaprire e non sbarrare la strada ad altre modalità di politica delpassato, quali i procedimenti giudiziari per i maggiori responsabili,le Commissioni verità e i risarcimenti delle vittime13.

D'altra parte, un mandato assoluto come quello a non dimenticare mai è altrettanto dannoso

per la vita e altrettanto paralizzante del mandato a dimenticare. Non è esatto, infatti, dire che

non dovremmo mai dimenticare i torti commessi o che altri ci hanno inflitto. Esiste una strada

intermedia, la quale non conduce né alla memoria ostinata e vendicativa che spesso affligge i

procedimenti giudiziari, né all'oblio istituzionalizzato appannaggio dell'amnistia. E che, forse,

costeggia il territorio della giustizia senza mai inoltrarvisi. Se non in rarissimi casi.

Una delle originalità, ad esempio, della Commissione per la verità e la riconciliazione

sudafricana14, fu quella di introdurre il perdono in un meccanismo giudiziario, seppur

incidentalmente. Era infatti possibile, per coloro che l'avessero voluto, accordare il perdono al

loro trasgressore. Ma la Commissione stessa avvertì il rischio di creare confusione.

Perché, ci chiediamo, privare l'istituzione di giustizia di uno strumento così fondamentale

come il perdono?

La verità è che l'introduzione del perdono nel corso della giustizia umana va incontro a

numerosi ostacoli. Secondo Derrida, il perdono, in quanto assoluto morale, è incompatibile

con il diritto. Ricordiamo quanto affermava Arendt: solo l'amore può perdonare, ma l'amore,

13. Portinaro, I conti con il passato, p. 144. La cosa importante per la Commissione per la verità e lariconciliazione era ristabilire un rapporto con aggressori e carnefici, come primo passo verso la reciprocitàdemocratica. Mentre il processo penale esclude l'imputato, almeno temporaneamente, la Commissione mirava aduna prospettiva reintegratice.14. Le Commissioni verità è riconciliazione vennero istituite affinché, «facendo luce su ciò che ormai venivaqualificato come “macrocriminalità di Stato”, creassero le condizioni per il ristabilimento di quel minimo direciproca fiducia necessaria alla convivenza civile. Alcune di queste esperienze sono maturate sul continenteeuropeo alla fine del primo e soprattutto del secondo conflitto mondiale, generando un dibattito storico egiuridico senza precedenti. Ma altre hanno avuto luogo ai quattro angoli del pianeta, dando vita a un'ulterioremodalità del processo di globalizzazione – a quella che è stata definita “elaborazione transnazionale del passato”e che, allargandosi il suo raggio d'azione, potremmo appunto designare globalizzazione delle “politiche delpassato», Ivi, p. 12.La Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, inoltre, si distinse dalle altre Commissioniperché concesse la possibilità di concedere l'amnistia a coloro che avessero reso una confessione precisa edettagliata.

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per sua natura, è amondano, e di conseguenza antipolitico. Il corrispettivo nel campo delle

questioni umane, infatti, andava ricercato nel rispetto. Il perdono è una reazione “poetica” di

fronte all'impossibilità pratica e morale. Ciò di cui ha bisogno il perdono è di un evento

interiore, e in questo si pone agli antipodi dello spazio pubblico come luogo di

manifestazione. È probabilmente ciò che intende Ricoeur quando afferma che «il perdono non

può rifugiarsi se non in gesti incapaci di trasformarsi in istituzioni», e che «questi gesti, i quali

costituiranno l'incognito del perdono, designano il posto ineluttabile della considerazione

dovuta a ogni uomo singolarmente colpevole»15.

Mentre lo spazio pubblico, quindi, si costituisce mediante un lavoro di rappresentazione, il

perdono si scontra con l'impossibilità di rappresentare le vittime: certe volte vorremmo

perdonare, ma non sappiamo chi, altre saremmo costretti a perdonare a nome di quelli che

sono morti. Ma si può chiedere perdono a un defunto? E si può concedere il perdono ad un

colpevole che, come grida Jankélévitch a proposito dei tedeschi, non sono non lo chiede, ma

si presenta «grasso, ben nutrito, prospero, arricchito dal “miracolo economico”»? La risposta

è negativa. In questo caso il perdono sarebbe poco più che «uno scherzo sinistro». Meglio,

piuttosto, saperlo «morto nei campi della morte»16. La rappresentazione, quale condizione per

qualsiasi giustizia umana, è anche la dissoluzione del vero perdono, che va al di là. Ed è la

difficoltà centrale in cui si imbatte Jankélévitch: chi sono i tedeschi? E chi siamo noi? Chi è

abilitato a parlare a nome degli ebrei? Se non si è legittimati a parlare in nome di un morto, di

un martire, il perdono non è possibile.

Ma come stanno, allora, i rapporti fra processo e perdono? Siamo davvero costretti a

rinunciare all'innesto di qualche elemento di perdono nella giustizia? Le osservazioni di

Ricoeur sui rapporti fra l'imprescrittibile e l'imperdonabile possono aiutarci a dare una

risposta. Scrive infatti Ricoeur:

15. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, pp. 650-651.16. Jankélévitch, Perdonare?, p. 40 sgg.

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A mio avviso, sarebbe un errore confondere le due nozioni: icrimini contro l'umanità e il crimine di genocidio non possonoessere detti (impropriamente) imperdonabili se non per il fatto chela questione non ha luogo di porsi. Lo abbiamo suggerito poc'anzi:è necessaria che giustizia sia fatta. Non possiamo sostituire lagrazia alla giustizia. Perdonare significherebbe ratificare l'impunità,la quale sarebbe una grande ingiustizia commessa a spese dellalegge, e, ancora di più, delle vittime17.

Il perdono, quindi, non può prendere il posto di un momento di giustizia, e non solo per i

motivi addotti da Ricoeur. Non è raro, infatti, che ci si consideri vittime di un crimine del

quale si potrebbe essere accusati. Sta alla giustizia decidere a chi accordare lo stato di vittima,

che in certi frangenti han ben poco a che fare con una condizione psicologica. Solo in questo

modo, forse, il momento interiore del perdono potrebbe sposarsi con la decisione pubblica che

stabilisce e imputa oltraggi e che riconosce le vittime. Quando si ragiona di violenze

collettive, drammi storici, crimini contro l'umanità e genocidi, non si può concepire alcun

perdono se non quello che ha la sua unica e sola condizione nell'assolvimento della giustizia.

Che, inversamente, può star sempre certa di trovare nel perdono una fonte d'ispirazione e un

valido alleato nella lotta contro il male. Anche se il perdono, infatti, «ha natura essenzialmente

religiosa, può conoscere delle forme sociali e politiche che vi si avvicinano, come se un

irraggiamento attrattivo emanasse dalla sfera religiosa, per giungere a inventare qualsiasi sorta

di procedura e di tentativi di riconciliazione o conciliazione che, senza coincidere con il

perdono evangelico, tentano di dare una risposta al male (corsivo mio)»18.

17. Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblio, p. 670.18. Paul Valadier, Approches politiques du pardon, in «Etudes», giugno 2000, p. 779 (traduzione mia).

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Conclusione

Con questo elaborato si è provato ad affrontare le violenze collettive nei tessuti interni

delle complicità e delle responsabilità che li compongono, per proporli come paradigmi di

lettura di certi meccanismi che tendono a ripetersi, più o meno cruentemente, sempre e

da sempre, perché il male fa parte di noi e della natura umana.

Servendoci della cornice di diversità che qualifica l’essenza dello sterminio ebraico si è

cercato di svelare il nodo di sensi e significati che scorre incessantemente tra

memoria, perdono e giustizia, al fine della costruzione di un percorso formativo che

attualizzi la memoria non tanto per ammonire quanto per porsi domande, con un

atteggiamento dubitativo che tenti di esplorare la natura dell’uomo e il suo modo

di rapportarsi alle nuove manifestazioni del male.

Quelle morti, infatti, sono parte di noi, sono nelle nostre radici, paradossalmente sono parte

della nostra cultura. Che è anche una cultura del male, di cui da sempre si è nutrita e continua

a nutrirsi. Una cultura che da sempre sa anche uccidere per l’interesse di pochi.

« La realtà è che i nazisti sono uomini come noi; l'incubo è che essi hanno mostrato e provato

al di là di ogni dubbio di che cosa è capace l'uomo»1. Occorre ammettere, quindi, attraverso la

memoria, che il male è parte di noi: ogni uomo può essere pronto a non vedere e a non

sapere, può accondiscendere al comando di dimenticare, può, grazie ad un'inquietante

incapacità di pensare e di mettersi nei panni dell'altro, uccidere senza sentirsi in colpa,

al punto da sorprendersi della punizione, se e quando arriva.

Nell'intervista rilasciata a Revillon sulla rivista francese “Panorama” del 1999, Ricoeur invita,

qualora ci si trovi di fronte al male, a non concentrarsi solo sulla ricerca di un colpevole, ma

di «discernere bene la vittima. È una questione», prosegue, «di orientamento dello sguardo.

1. Arendt, Incubo e fuga, in Archivio Arendt 1. 1930-1968, a cura di S. Forti, Feltrinelli, Milano 2001, p. 168.

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Una sottolineatura eccessiva della colpa deve lasciare il posto all’attenzione per la

sofferenza della vittima. Certo, questa cultura della compassione non abolisce l’altra, ma la

colloca nella luce della condivisione fondamentale della sofferenza e della compassione

attiva in vista della diminuzione del male»2.

È giusto, quando si considerano i crimini contro l'umanità, non perdere di vista gli

uomini che, a diversi livelli di responsabilità, hanno reso possibile tutto

questo, ed è giusto interrogarsi sul loro diritto a ricevere il perdono, e a quali

condizioni. Ma la disumanità si estende dalla colpa dei nazisti all'innocenza delle

vittime, poiché «questa stessa innocenza trascende la bontà o la virtù»3: le vittime di

sui si parla sono uomini che non hanno più un posto sulla terra, e a cui è stata tolta

ogni titolarità giuridica. Ciò che si aspettano dalla giustizia è che, sì, questa stia dalla

loro parte, ma che prima di tutto li riconosca. L'etica del risentimento proposta da Améry

può non essere condivisa, ma non per questo è qualcosa di incomprensibile: è vero che la

sua ricerca intellettuale testimonia la scelta di non accogliere la possibilità del perdono, ma

con la sola speranza che, in questo modo, non si corra il rischio di dimenticare il crimine.

Per chi si trova in una condizione di estremo dolore, il risentimento può costituire la

condizione per il riscatto.

La verità è che la scelta del perdono richiede audacia e prudenza. La consapevolezza del

fatto che il male storico è il risultato del nostro modo di porci l'uno nei

confronti dell'altro è difficile da conquistare. Scegliere il perdono non significa

avere assicurato un esito non violento della relazione: per perdonare, lo abbiamo visto,

è necessaria l'audacia di chi non ha paura di amare, e la prudenza di chi è consapevole di

quanto sia complesso il rapporto con il suo prossimo. La ricerca della non violenza,

infatti, può essere portata avanti solo assieme all'altro.

È una rinuncia alla violenza che, a differenza dell'amnistia, non sceglie la strada dell'oblio,

2. Dio non è onnipotente, Intervista di Bertrand Révillon a Paul Ricoeur pubblicata su "Panorama" 340 (1999),pp. 26-30, in Paul Ricoeur: la logica di Gesù. Testi scelti a cura di Enzo Bianchi, Edizioni Qiqajon, Comunità diBose, Magnano (BI), 2009, pp. 135-154.3. Carteggio 1926-1969, Filosofia e politica, a cura di A. Dal Lago, p. 67.

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ma lascia all'altro l'ultima parola.

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