Varesi Valerio - Bersaglio, l' Oblio

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VALERIO VARESI

Bersaglio, l'oblio

Edizioni Diabasis

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© Edizioni DiabasisCollana: Il Pomerio. Biblioteca padana

Prima edizione in Biblioteca padana, 2000.Seconda edizione in Emilia Suite, 2006

ISBN-13: 978-8881031856In copertina: R. B. Kitaj, L'autunno nel centro di Parigi

(da Walter Benjamin), 1972-73.Progetto grafico e copertina, Studio Bosio, Savigliano (CN)

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IndiceNote di copertina.......................................................................................................5Capitolo primo...........................................................................................................6Capitolo secondo.......................................................................................................7Capitolo terzo..........................................................................................................10Capitolo quarto........................................................................................................12Capitolo quinto........................................................................................................17Capitolo sesto..........................................................................................................19Capitolo settimo.......................................................................................................23Capitolo ottavo........................................................................................................24Capitolo nono..........................................................................................................29Capitolo decimo.......................................................................................................32Capitolo undicesimo................................................................................................37Capitolo dodicesimo................................................................................................40Capitolo tredicesimo................................................................................................46Capitolo quattordicesimo.........................................................................................48Capitolo quindicesimo.............................................................................................52Capitolo sedicesimo.................................................................................................54Capitolo diciassettesimo..........................................................................................60Capitolo diciottesimo...............................................................................................62Capitolo diciannovesimo.........................................................................................68Capitolo ventesimo..................................................................................................70Capitolo ventunesimo..............................................................................................80Capitolo ventiduesimo.............................................................................................82Capitolo ventitreesimo.............................................................................................92Capitolo ventiquattresimo.......................................................................................94Capitolo venticinquesimo........................................................................................99Capitolo ventiseiesimo..........................................................................................103

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Note di copertina

L'ispettore Soneri, buongustaio e amante dei sigari toscani, viene chiamato a risolvere un difficile caso di omicidio. Un delitto misterioso, per molti versi anomalo, tra la nebbia e lo sfondo di una città della provincia padana. A questa corre parallela un'altra vicenda di misteriosi e altrettanto anomali delitti, maturati nell'ambiente dello spaccio di droga, di cui è protagonista un altro poliziotto, Bondan, che ha alle spalle qualche compromissione con il traffico di eroina della città e non esita a eliminare tutti coloro che sono a conoscenza dei suoi scomodi trascorsi.

Valerio Varesi, giornalista nella cronaca bolognese di «Repubblica», vive a Parma. Ha studiato filosofia a Bologna, dove si è laureato con una tesi su Sòren Kierkegaard.

L'esordio da romanziere è del '98 con Ultime notizie di una fuga (Mobydick). Nel 2000 pubblica Bersaglio l'oblio (Diabasis), finalista al "Premio Scerbanenco" e un racconto, Via del ritorno, nella raccolta di undici storie gialle Aelia Laelia. Un mistero di pietra (Diabasis). Due anni più tardi vede la luce Il cineclub del mistero (Passigli], vincitore con Marcello Fois del "Premio Fedeli", assegnato dal sindacato di polizia (Siulp) di Bologna al miglior poliziesco dell'anno. Il fiume delle nebbie (Frassinelli, risale al 2003 e figura tra i 12 finalisti dello Strega. Ambientato sul Po, è stato tradotto in Germania e in Spagna. Nel 2004 e nel 2005 vengono pubblicati L'affittacamere (Frassinelli) e Le ombre di Montelupo (Frassinelli).

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Capitolo primo

Una lettera può mettere in apprensione se si teme che arrivi.Quel mattino Bondan la trovò nella cassetta. Una busta dozzinale che gli

ricordava altri brutti messaggi. La buttò sul tavolo e attese qualche minuto prima di aprirla. Al tatto gli parve subdolamente flessibile.

L'indirizzo era scritto con precisione, specificando l'interno barrato e persino la scala. Del mittente nessuna traccia, ma dal timbro si capiva che era stata impostata in città.

Lacerò la busta lentamente infilando il coltello sotto l'orlo. Dentro c'era solo un foglio strappato a metà sul quale erano state incollate lettere disuguali ritagliate dai giornali.

«Siamo contenti di averti ritrovato» era scritto con terrificante cordialità.Rilesse osservando i caratteri malassortiti, prima di abbandonarsi disteso

sul divano.Non sarebbe sfuggito al suo passato. Era stato sciocco pensarlo quindici

anni prima, quando aveva scelto di cambiare aria. Certi debiti non si saldano mai.

I suoi ragionamenti lo portavano sempre alla stessa conclusione: doveva affrontarli. Una soluzione finale che non aveva mai trovato il coraggio di adottare riducendo la sua vita a un divagare, come l'acqua di una diga che si arresta e s'allarga senza più procedere.

Lasciò la città per la casa di campagna. L'isolamento gli dava l'idea di un avamposto militare. Afferrò la scatola di abete che conteneva le sue pistole e se la depose sulle ginocchia. Quattro armi risaltarono tra i panni. Le prese in mano una dopo l'altra padroneggiandole come in un preliminare di duello. Capì solo allora che la decisione era definitivamente presa.

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Capitolo secondo

Non capiva perché il questore avesse insistito tanto.- Un brutto delitto, Soneri. Un brutto delitto - aveva ripetuto al telefono

alle sette del mattino proprio nel momento in cui la macchinetta del caffè cominciava a ronfare. Gocce fini rigavano il parabrezza: un sabato uggioso che avrebbe trascorso volentieri accanto a un camino. Il parco era stato una vecchia fortezza ottagonale. I contrafforti conservavano un colore rossastro da insaccato dolce e il fossato era abitato da muschi vecchi e spessi.

Quelli della scientifica stavano lavorando da un pezzo. Il magistrato arrivò, invece, contemporaneamente a Soneri. Si avvicinò affrontando il prato melmoso, mentre il commissario si rimboccava l'orlo dei pantaloni come i casari. Intorno al morto era stato tirato un nastro di plastica che vibrava leggermente alla brezza. Al suo arrivo alcuni curiosi si spostarono e di fronte a Soneri apparve un uomo con la faccia nel fango, la testa devastata da almeno tre proiettili. Il cappotto s'era allargato nella caduta e appariva come una bolla di creta chiara nel fango nero.

- Si sa chi è? - domandò all'agente della squadra mobile.- No, disse, non ha documenti e il viso è irriconoscibile.- Chi l'ha trovato?- Un podista - rispose il poliziotto indicando un tizio di mezz'età in tuta

che attendeva paziente in disparte.Soneri indirizzò di nuovo lo sguardo sul cadavere. Intorno c'erano

decine di orme: troppe per poter distinguere qualcosa di utile. Trattenne la stizza per la trascuratezza: l'indagine nasceva male.

- A che ora è morto?- Il medico dice intorno alle tre - affermò l'agente.- Il parco non è chiuso di notte?- Sì, è sempre chiuso. Ci sono due entrate, entrambe sbarrate dopo le

venti.Si fece avanti il custode. Indossava un paio di stivaloni da pescatore, un

maglione spesso color gramigna che lasciava aperta una luna chiara tra la cintura e l'orlo sotto alla sommità dell'enorme ventre.

- Di notte chi resta qui dentro? - domandò Soneri senza presentarsi.- Io, mia moglie, mio figlio e il gestore del camping informò l'uomo.- Quattro persone?- Più gli ospiti del campeggio - aggiunse il custode - ma di questa

stagione...

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Quattro persone in sei ettari di boschi e viottoli chiusi entro bastioni quasi invalicabili. Il caso poteva presentarsi facilissimo o quasi insolubile. Soneri osservò la mole paciosa del custode, il suo naso bitorzoluto e la faccia da buon bevitore: non gli sembrava sospettabile.

Il magistrato intascò la penna dopo aver preso appunti e dettato una sorta di verbale. Ordinò la rimozione del cadavere e si presentò a Soneri: - Franco Rollardi.

Non lo conosceva, ce n'erano sempre di nuovi in procura.Era elegante, ben pettinato con un grosso braccialetto d'oro al polso

sinistro. Soneri pensò a uno fresco di concorso, di quelli che danno di stomaco quando vedono il sangue. Gli raccontò molti particolari inutili. Uno solo lo interessò: l'assassino aveva usato una pistola di grosso calibro, un'arma non molto comune. Quasi certamente una rivoltella a tamburo perché non erano stati trovati bossoli.

Soneri liquidò il magistrato con una stretta di mano e si avvicinò al cadavere. Non era riconoscibile nessun lineamento: al posto del viso una spugna a brandelli ormai dilavata dalla pioggia insistente.

- I colpi sono entrati dalla nuca e fuoriusciti dal viso informò il capo della scientifica. - A quanto pare l'assassino doveva essere nascosto tra le frasche a fianco del sentiero.

Un agguato, dunque.- Avete capito con che calibro ha sparato? - domandò senza scostare lo

sguardo dal morto.- Ipotizziamo un 38. I proiettili erano del tipo dirompente.Un'arma da professionisti, pensò Soneri mentre alcuni flash schiarirono

lo scenario. Un colpo di vento fece sgocciolare i rami e l'acqua scivolò sulla sua coppola di feltro scendendo poi per le basette. Raggiunse di nuovo il viottolo d'asfalto, si accostò all'orlo del bastione e osservò giù: un salto di almeno otto metri lungo una muraglia inclinata verso l'esterno.

Bussò alla porta del campeggio e attese per qualche istante. Lo accolse un uomo alto e secco dall'aspetto austero di vecchio capitano di marina. Indossava una pesante casacca di panno, pantaloni di velluto a coste e un berretto sportivo dalla grande visiera. Si presentò e l'altro gli diede la mano osservandolo con occhi severi. Il suo naso lungo e affilato pareva un mirino con cui lo tenesse sotto tiro.

- Stanotte non ha sentito nulla di strano?- No, niente.- Quando ha saputo del delitto?- Stamattina. Me l'ha detto il custode.

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- Non ha visto il cadavere?- Sono cose che non mi interessano.- Lei passa qui tutte le notti?L'uomo lo guardò con infastidito stupore: - Non ho altro posto se è

questo che voleva sapere.- Il campeggio adesso è vuoto?- No, c'è un cliente.- Chi è?- Un americano. Un giramondo che ama l'Italia - disse l'uomo evasivo -

adesso ha preso un treno e credo sia a Venezia. Tornerà domani, forse.- Come si chiama?- William Blackright, viene da San Francisco - scandì con un po' di

irritazione aggiustandosi un fazzoletto blu di tela grezza che portava al collo.

- Alloggia nelle stanze dell'ostello?- Ha un camper - informò l'uomo.Soneri si girò lasciandosi alle spalle la cordiale ostilità del gestore.- Do un'occhiata al campeggio - avvisò.- Ma chi era quello che hanno ucciso? - chiese l'altro e nella sua voce si

percepiva un vago senso di apprensione.- Non si sa - rispose Soneri. - Blackright ha dormito qui questa notte?- Credo di sì, ma stamattina si è alzato presto. Io non l'ho visto.- Allora, dentro il parco, eravate in cinque più la vittima.O forse in sei, se l'assassino è venuto da fuori - disse il commissario

allontanandosi sotto l'acqua.

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Capitolo terzo

Quella sera gli piacque la Smith and Wesson. Ne sentiva pieno il palmo e la presa salda sul manico zigrinato. La fece roteare e cominciò a inserire i proiettili nel tamburo ribaltato di lato. Le pistole erano per Bondan come un vestito e bisognava intonarle all'umore.

Attese che giungesse la notte, quindi salì sull'auto e si diresse in città. Percorse a piedi un tratto fino a giungere alla stazione ferroviaria. Di fianco a lui sostavano in piedi, immobili, alcuni spacciatori. Attraverso la manovalanza sarebbe risalito ai capi. Uno di loro si spostò con mosse pigre verso l'interno di un giardino e Bondan lo seguì tenendosi a qualche metro: era quello il rituale.

Giunsero a ridosso di una baracca di legno e lo spacciatore lo inquadrò torvo.

- Cerchi roba?- No.- Allora?Bondan si sentì senza parole mentre intorno a lui premeva la consistenza

scura di ramaglie fitte da cui arrivavano effluvi di orina.- Allora? - ripeté l'altro alzando la voce.Non aveva paura. Al contrario, era assolutamente calmo.Non ne provò nemmeno quando si sentì afferrare, tirare di lato e infine

sbattere contro la parete di legno della baracca. Era stato tutto troppo veloce, si sentiva trascinato dai fatti, anticipato, travolto. Una lama spuntò davanti al suo mento e nel buio pareva una virgola argentea.

- L'ho capito subito che sei venuto a spiare - minacciò l'altro premendolo.

Ma Bondan continuava a non avere paura, non si agitava, non opponeva resistenza né cercava di fuggire: era in preda ad un inerte stupore. L'uomo gli alzò la lama davanti agli occhi per poi puntarla contro la gola. Sentiva il coltello premere leggermente come il rasoio del barbiere. Pensò alla fine e si stupì che fosse tanto facile. Eppure rimaneva calmo come se la sua consapevolezza fosse qualche istante indietro rispetto ai fatti.

L'altro si staccò allontanandosi di colpo di un metro.- Chi sei? Cosa vieni a fare qui? - riprese ultimativo ma sbigottito.Doveva fare qualcosa per scuotersi. Così, quando l'uomo alzò

nuovamente il coltello, non trovò altra soluzione che stringere la rivoltella e premere il grilletto. Lo centrò in mezzo al petto dove le sagome del

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poligono recano un circolo rosso.Nei pressi di casa, lasciò l'auto a una certa distanza e proseguì a piedi

tagliando per i campi. Prendeva precauzioni capaci di prevenire il comportamento dei poliziotti.

Riprese in mano la Smith and Wesson, ribaltò il tamburo e osservò i bossoli sui quali il percussore aveva lasciato ammaccature lievemente eccentriche. Li estrasse e li mise da parte.

Quindi accese il camino e quando la fiamma fu avviata, depose i bossoli sugli alari per farli fondere. Poi riprese la rivoltella, la avvolse di nuovo nel panno e infilò il tutto in un sacchetto di nailon ermetico. Scese in cantina, tolse il coperchio al barilotto dell'aceto balsamico e vi lasciò cadere l'involucro.

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Capitolo quarto

Soneri attraversò a piedi il centro. Non pioveva più, ma un'umidità densa ristagnava tra le case. I passanti pigri della domenica uscivano dalle pasticcerie con involti profumati.

Trovò Rollardi seduto in corridoio, sulla panca dove attendevano quelli portati dentro per accertamenti. Il commissario alzò la serranda e tirò le tende per far luce, poi si sedette di fronte al magistrato e lo guardò con attenzione.

- Bisognerà interrogare quelli che abitano dentro il parco disse Rollardi.Soneri trattenne una smorfia d'insofferenza e fece un cenno di assenso.- La scientifica ha già dei risultati? - chiese di rimando.- A me non hanno dato nulla.Compose alcuni numeri interni ma i telefoni squillavano a vuoto: non

c'era nessuno a parte le volanti che continuavano ad andare avanti e indietro nel cortile.

Soneri guardò il giovane sostituto procuratore: - Da quanto è in magistratura? - domandò.

L'altro arrossì leggermente: - Due anni - disse con lo stesso disarmante candore che il commissario aveva conosciuto sul viso di certi ragazzi finiti in brutte faccende.

- E' il suo primo delitto?Rollardi assentì con un certo imbarazzo. Poi Soneri prese il fascicolo

che conteneva solo pochi fogli. Nel primo c'era la ricostruzione del ritrovamento del cadavere e la descrizione del corpo. Si trattava di un uomo di mezz'età alto circa un metro e ottanta centimetri, snello, senza barba né baffi, né occhiali e vestito elegantemente. Il cadavere doveva essere stato spogliato di ogni riconoscimento. Tasche vuote, nessun documento, nemmeno un orologio o un anello. Il viso, come già sapeva, era irriconoscibile.

Soneri rialzò lo sguardo ritrovando il volto lattemiele del magistrato.- Hanno già trovato le schegge dei proiettili?- Mi pare di sì - rispose Rollardi - almeno le stavano cercando.- Bisogna cominciare da lì - aggiunse Soneri - è l'unico appiglio che

abbiamo, per ora.Si alzò di scatto e la sedia scivolò indietro. Il magistrato lo imitò e

uscirono insieme. Soneri non aveva una meta precisa ma sentiva il bisogno di agire per selezionare le decine di congetture che aveva in testa.

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Non trovò Blackright. Il suo camper chiuso appariva una singolare miscela di cromature piuttosto pacchiane. La targa americana era sormontata da un paio di corna di bufalo in cui si era impigliato uno straccio.

Girò intorno al mezzo e si ritrovò di fronte la sagoma affilata del gestore. Dalle carte aveva appreso che si chiamava Tony Rosetta: come il giorno prima, lo scrutava con diffidenza.

- Blackright non è tornato?- A quanto pare no - constatò l'uomo.- Lei non gira mai per il parco di notte?- No.- Perché ha paura?- Qui, di notte, ci conosciamo tutti.- Ma qualcuno potrebbe rimanere dentro nascondendosi prima della

chiusura - insinuò.- Potrebbe. Ma a fare cosa?Soneri rimase per qualche istante in silenzio. Si rendeva conto di porre

domande vaghe.- Dopo la chiusura, il custode l'avverte?- Sì.- Di sera vi vedete qualche volta?- Mai. Non abbiamo nulla da dirci che non possa essere comunicato di

giorno, oppure quando chiude i portoni: lui passa con l'auto e suona il clacson. Altrimenti scende e mi avverte a voce.

- I figli del custode che tipi sono?- Non li vedo mai e non mi interessa la loro vita.- Uno abita ancora coi genitori?- Sì. Se ne va al mattino e torna alla sera.Soneri avrebbe potuto continuare per ore senza riuscire a distogliere il

gestore dalla sua passività. Si allontanò allora dal camper e si avviò per il vialetto.

- Non avrà dei sospetti... - disse l'altro con la stessa incrinatura di preoccupazione che aveva avuto il giorno prima.

- Magari - replicò Soneri - significherebbe avere le idee un po' più chiare.

Lungo la strada vide giungere una macchina della questura e un agente l'avvertì che lo attendevano quelli della scientifica.

L'ispettore Nanetti era riuscito a ricostruire un proiettile mettendo assieme le schegge. Si trattava di un calibro 38 com'era sembrato fin

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dall'inizio. Erano state trovate tracce di polvere da sparo anche sui capelli della vittima, segno che i colpi dovevano essere partiti da vicino.

- L'assassino si trovava probabilmente nascosto tra i cespugli e deve aver agito di sorpresa - informò Nanetti - la balistica dice che la traiettoria è stata quasi orizzontale, leggermente dal basso in alto.

Aveva anche un disegno con la ricostruzione dell'agguato.Soneri lo osservò e rivide il bastione del parco come gli era apparso il

giorno prima: questa volta animato dagli spari.Nanetti era bravissimo nel rappresentare gli accadimenti, ma Soneri si

fidava solo della sua immaginazione che per ora non si illuminava.- Sull'identità, nulla?- Nulla, ma è presto - rispose Nanetti.- Come state procedendo?- DNA, impronte digitali, più i canali tradizionali: lista degli

scomparsi...Ascoltava pensando ad altro. Osservò di nuovo lo schizzo di Nanetti: il

luogo dell'agguato era lontano dal viale asfaltato in un punto in cui nessuno, di notte, sarebbe capitato per caso.

Prese il disegno e alzò il coperchio della macchina fotocopiatrice. Quando schiacciò il pulsante, la spia gli segnalò la mancanza di carta. Mancava da un po' di giorni e non si decidevano a mandargliene qualche risma. Era quasi mezzogiorno quando afferrò il telefono per chiamare il bar.

- Il solito sfilatino al prosciutto e un succo di pera.Mangiò osservando il disegno, quindi pensò di richiamare Nanetti.

L'altro doveva essere a tavola perché si sentiva un tinnire di piatti in sottofondo.

- Dimenticavo - esordì Soneri - avete trovato qualche impronta particolare?

Nanetti deglutì. - C'erano quelle della vittima, quelle dei primi podisti mattutini e quelle del custode. Le altre - disse - non sono state identificate, comprese un paio che sembrano lasciate da un uomo senza scarpe che indossasse una calza di cotone.

- Dov'erano? - chiese Soneri.- Ai bordi del sentiero. Ma quel che è strano - aggiunse Nanetti - è che

sono solo impronte destre e rivolte dalla parte opposta rispetto a quella dov'è caduta la vittima.

Uscì, bevve un caffè al bar e s'incamminò di nuovo verso il parco. Lo attraversò passando sotto una galleria di abeti fino a quando si trovò di

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fronte la casa del custode. Sopra la porta c'era un grande bassorilievo di gesso che rappresentava San Giorgio vittorioso sul drago. Carlo Tolmin, il custode, lo fece accomodare in una cucina larga con in mezzo la stufa economica a legna come in campagna.

Prese una bottiglia di vino rosso dalla tavola ingombra e versò da bere: - Avete trovato qualcosa?

- No - disse Soneri - nemmeno qualcuno che abbia voglia di aiutarci - aggiunse.

L'uomo gli appariva ancora più rubizzo dopo il pasto.Aveva il solito maglione troppo corto per il suo ventre.- Se allude a Tony non ci deve fare caso: è un solitario e parla con poche

persone, figuriamoci con un poliziotto.- Lei chiude il parco alle venti precise?- Beh, la precisione non fa parte di questo mestiere.Chiudo l'entrata secondaria e lascio aperta per mezz'ora la porta piccola

del portone principale: è per far uscire i ritardatari.- E quando chiude definitivamente?- Tre quarti d'ora più tardi, al massimo. D'estate anche dopo un'ora e

mezza.- Ieri sera non ha sentito nulla? Gli spari sono avvenuti a cinquecento

metri da qui...- Ho il sonno duro.- Suo figlio a che ora è rientrato?- Non saprei. S'è svegliato per mangiare, ma ora è tornato a letto.Sentì che non aveva più nulla da chiedere. Tolmin era più gioviale e

ospitale di Rosetta, ma Soneri percepiva al fondo la stessa resistenza passiva. Si sentiva come una mosca che sbatte continuamente contro un vetro.

Vicino al campo sportivo c'era un telefono.- Rollardi, si faccia dare i fascicoli degli ultimi omicidi e veda se trova

qualche similitudine.Nel bastione non c'era nessuno. Perlustrò i dintorni in cui era avvenuto

l'assassinio e gli tornarono in mente quelle strane impronte rilevate dalla scientifica: quelle lisce. La pioggia le aveva cancellate. Si inoltrò fra le ramaglie fino a una piccola balaustra di pali. Guardò giù e vide di nuovo la parete a strapiombo annegata in fondo dal fitto sottobosco.

Ridiscese e uscì dal parco. S'inoltrò lungo la muraglia costeggiandone il bordo esterno. Si trovò immerso in cespugli ed erba alta: le scarpe affondavano nel fango e i rami bassi lo bagnavano strusciandogli i vestiti.

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Camminò lungo quello che era stato il fossato della fortezza ora invaso dalla vegetazione.

A destra le mura alte del parco, a sinistra i giardini delle case celate da piante e siepi. C'erano parecchi sentieri appena abbozzati tra l'erba e gli arbusti. Vide delle siringhe: quella piccola jungla era luogo d'incontro e di commercio.

Arrivò ai piedi del bastione e osservò il muro: il salto appariva ancora più grande dal basso. Perlustrò la parete di mattoni color sangue, sbrecciati dall'umidità e dal gelo. Poi seguì un sentiero che correva parallelo al muro. Scostò un arbusto perché aveva notato qualcosa di più chiaro tra l'erba: un ritaglio umido di giornale con la rubrica dei numeri utili. Ma sotto l'arbusto c'era un avvallamento. Osservò meglio e notò un'impronta liscia, molto affusolata. Si era conservata perché più profonda delle altre e riparata dalla pioggia.

Si sentì fradicio e decise di risalire. Avvertì Nanetti e a quel punto si avviò a casa.

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Capitolo quinto

Non si era mai trovato nei panni di uno che fugge.Percepiva che non c'era odio in chi lo cercava per eliminarlo, ma solo lo

zelo di compiere un lavoro necessario. Si sentiva bene. Le precauzioni gli riempivano la giornata.

Aveva in tasca la Browning. Ogni tanto la stringeva in pugno pensando al suo ruolo ambiguo tra la vittima e l'assassino. I giornali parlavano dello spacciatore ucciso come di un probabile regolamento di conti nel mondo della malavita legata al traffico di droga. Da essi Bondan apprese anche il nome di colui che aveva ammazzato: Khaled Meriudi, un marocchino di ventotto anni. Rilesse più volte gli articoli soffermandosi alla descrizione dell'assassino. Si parlava di un uomo castano, alto e snello. I tratti corrispondevano ai suoi come a quelli di migliaia di altre persone. Malgrado ciò, avvertì un lieve timore. Qualcuno l'aveva visto, almeno come un'ombra tra le frasche del giardino. Sapeva che la polizia non raccontava ai giornali che una minima parte di quel che conosceva, dunque non poteva escludere che possedessero un identikit. Ma quel che lo preoccupava non erano i poliziotti, piuttosto i loro informatori.

Meriudi era uno spacciatore di medio calibro. Controllava lo smercio nella zona della stazione e dava ordini a una decina di pesci più piccoli. Probabilmente, l'organizzazione l'aveva già sostituito ma il colpo subito ledeva il potere che esercitava.

Nei giorni successivi vi fu una serie di agguati in cui vennero ferite alcune persone. Poi più nulla. E fu da quel momento che Bondan cominciò a sentirsi pedinato. Un giorno trovò il finestrino della macchina sfondato e il cassetto a soqquadro.

Col buio si spostava a piedi infossandosi nel cappotto e celando la fronte con un cappello a tese larghe. Talvolta si avvolgeva una sciarpa intorno alla bocca come chi soffre di bronchi. Aspettava un incontro che sapeva sarebbe avvenuto.

Quella sera si chiese come avevano fatto a prevedere il suo itinerario. Forse disponevano di una spia. Dovevano essere le tre quando il muso della sua auto puntò verso una strada stretta tra ville e alte siepi di lauro. La via era deserta tranne qualche gatto che scappava dalla luce.

A una svolta Bondan scorse un'auto parcheggiata e gli parve ci fosse qualcuno dentro. Rallentò, osservò lo specchietto e colse un bagliore: la macchina si muoveva e i fari illuminavano già il buio dietro di lui.

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Troppo tardi per cambiare tragitto. C'era un'altra curva senza visibilità: intuì che l'aspettavano lì dietro. Guardò ancora il retrovisore: l'altra auto si avvicinava lentamente. Per un attimo, si sentì perduto. Rallentò ulteriormente fino in prossimità della svolta, l'affrontò fermandosi a metà, poi aprì di scatto la portiera e si gettò fuori.

Correndo, scorse solo i cassonetti messi per traverso sulla strada, poi udì il primo sparo e un concitato confabulare con parole che non comprese. Viaggiò all'impazzata lungo un viottolo che portava verso un argine. Tutto sobbalzava intorno a lui come dentro un setaccio.

Sentiva i cani abbaiare rabbiosi e ne percepiva la corsa ringhiarne a ridosso delle cancellate. Presto si accorse che non era lui a provocare quel coro che turbava la notte, ma gli spari che ora si susseguivano senza che capisse se tirassero vicino o lontano. Zigzagava nel buio e aveva la stessa possibilità di essere colpito di uno che fosse rimasto fermo.

Strinse la Browning e si mosse tra le piante. Li sentiva vociare a una cinquantina di metri. Avevano perso le sue tracce e ora vagavano nell'erba alta e secca della golena. A sinistra aveva l'argine che costeggiava il torrente, dall'altra un boschetto che conduceva a un guado: una via di fuga.

Erano in quattro. Due andarono a sinistra dal lato senza alberi, gli altri si mossero verso la sponda del torrente. Si accertò che la retina per trattenere i bossoli fosse ben sistemata e si accostò a un grosso albero. Passarono alcuni secondi lunghissimi in cui i due dalla sua parte parevano indecisi se affrontare l'argine o percorrere la bassura. Bondan s'immedesimò in loro inconsapevoli di scegliere tra la vita e la morte. Li sentiva parlottare di sotto, ma i loro sussurri non erano distinguibili.

Uno dei due si scostò e si mise a camminare nella sua direzione. Bondan attese fino all'ultimo, abbassò la Browning quando l'altro scivolò e rimase indeciso a metà della salita.

Allo sparo seguirono dei passi concitati sotto l'argine. Premette ancora il grilletto puntando su ombre vaghe. Solo quando gli rispose uno sparo, capì che stavano fuggendo verso le auto.

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Capitolo sesto

Rollardi entrò nell'ufficio di Soneri con un'espressione sconsolata: - Nulla di buono - disse deponendo sulla scrivania la voluminosa cartella con le indagini sugli ultimi delitti.

- Le armi che hanno sparato sono differenti, i luoghi anche... Niente di paragonabile, insomma.

Soneri rimase in silenzio. In quel momento un agente gli portò il verbale di polizia con le prime dichiarazioni dei testimoni. Lesse quella del podista che aveva trovato il cadavere: nulla di interessante. Batté il palmo sul tavolo: - Tutta carta inutile - biascicò rivolto al magistrato. Poi afferrò il telefono e fece il numero della scientifica: - Mi passi Nanetti.

Sentì un tramestio dall'altro capo, poi la voce del collega.- Hai idea di che impronta possa essere quella trovata sul sentiero?- Me lo sono chiesto, ma non l'ho capito.- Manda qualcuno al parco, lungo il fossato, ai piedi del bastione, ce n'è

un'altra. Fa' controllare tutto il perimetro e dimmi se si tratta dello stesso piede e della stessa impronta.

Riagganciò guardando Rollardi in piedi di fronte a lui.- Per ora dobbiamo accontentarci di questo - disse Soneri.L'odore dei fagioli bolliti si era sparso per il campeggio.Blackright cucinava su un barbecue sotto il quale aveva acceso un fuoco

di carbonella. Era secco, alto e vestito come la caricatura di un pioniere. Aveva un cappello da cowboy, baffi spioventi ormai bianchi, stivaletti e pantaloni da mandriano.

Guardandolo, veniva istintivo chiedersi dov'era il cavallo.Rivolse un largo sorriso a Soneri: - Arriva al momento giusto - disse

mostrando un'orata cosparsa di sale.- Devo ricredermi sugli americani: pensavo mangiassero tutti male -

disse Soneri con una punta di superiorità.- Se sono innamorato di questo Paese è merito della sua cucina -

affermò Blackright.- Parla bene la nostra lingua. E' qui da molto?- Vado e vengo da vent'anni.- Col camper?L'uomo rise: - Sarebbe troppo difficile. Questa è la mia casa e la lascio

sempre qui. Quando voglio andarmene chiudo l'uscio e parto.In quel momento Soneri vide profilarsi di nuovo Rosetta.

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Era entrato silenziosamente nel recinto del campeggio e girava intorno con in mano una grossa forbice da giardinaggio.

Blackright lo salutò levando il braccio con un gesto ampio e Soneri colse nei suoi occhi una familiarità che pareva andare oltre quella tra cliente e gestore.

- Avrà saputo del delitto.- Sì, me l'ha detto Tony. Ma chi era?- Non lo sappiamo ancora. Ha sentito qualcosa di strano?- No. Ho il sonno profondo e il mattino parto sempre presto.- Hanno sparato tre colpi con una calibro 38 e nessuno ha udito nulla -

constatò Soneri cercando di non far trapelare il suo disappunto.- Da quando conosce Rosetta?- Lui abitava a San Francisco, la mia città. Poi ha deciso di tornare in

Italia e da allora lo vengo a trovare. Gli lascio in custodia la mia casa - concluse indicando il camper. - Ma venga, entri, dentro si sta meglio.

Il camper era molto ampio ma dava ugualmente una sensazione di asfissia come i sommergibili. Alle pareti erano appesi fiori secchi e una chitarra. Dall'altro lato, una frusta da cavallerizzo e finimenti per cavalli. Sul letto era abbandonata una vestaglia da donna color turchese ricamata a fiori bianchi.

- Possiede una casa viaggiante e la lascia sempre ferma qui - constatò Soneri.

- Detesto guidare, preferisco il treno.Si accomodarono al tavolo, sotto la luce.- Non le dispiace se mangio vero? - chiese Blackright.Soneri fece cenno di no. L'altro si era tolto il cappello: a sorpresa spuntò

una capigliatura brizzolata ancora folta.- A che ora si è coricato l'altra sera?- Alle dieci e mezza.- E' rientrato prima o dopo la chiusura dei portoni?- Prima, dal pomeriggio non mi sono più mosso.- Ha sentito il custode chiudere?- Ho sentito quando ha fatto il giro in macchina.- Ha guardato l'orologio?- Stavo cenando, quindi dovevano essere le otto.Si udì un rumore fuori: Rosetta circolava intorno.- Conosce il custode?- Come non potrei... Sono qui da tanti anni...- Siete amici?

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Blackright sospirò: - Vorrei, ma tra il custode e Tony...Sono certo che, se lo frequentassi, Tony non me lo perdonerebbe.- Si odiano fino a questo punto?- Non so. Credo ci siano state delle incomprensioni fra loro per motivi di

interesse. Ma qui si può vivere bene lo stesso, non manca lo spazio.- Lei che mestiere fa? - domandò Soneri sforzandosi di non apparire

troppo sospettoso.Blackright rise. Poi alzò le spalle diventando improvvisamente serio: -

Faccio tanti mestieri. Lavoro nei maneggi e giro le piazze per vendere i miei prodotti in cuoio - disse indicando i finimenti appesi.

Blackright uscì per prendere l'orata lasciata al caldo sulla carbonella e Soneri passeggiò nel camper finalmente libero di osservare. Su uno scaffale c'erano molti volumi di piante officinali, nei quali erano inseriti come segnalibri, numerosi biglietti ferroviari. Dietro la porta, che celava l'angolo del bagno, qualcosa lo colpì: un paio di scarpe tagliate a mano simili a quelle degli indiani d'America con le stringhe di cuoio: avevano la suola di caucciù completamente liscia.

Sentì l'uomo arrivare.- Fabbrica lei queste scarpe?- Sì, disse Blackright, piacciono molto.- E come fa a procurarsi le suole?- Quelle si comprano già fatte, io intaglio le tomaie e le cucio.- Dove le prende?L'uomo si fece serio e sospettoso. - Cosa c'entra?- Ha ragione, non c'entra nulla. Il fatto è che sto cercando di capire a che

scarpa appartiene una certa impronta trovata vicino al cadavere. E' l'unico indizio che abbiamo, per ora.

- Non penserà...- No, stia tranquillo. L'impronta non appartiene a quel tipo di scarpa.

Solo la suola è liscia allo stesso modo.- Prendo le suole da un grossista di articoli in gomma: si chiama

Martelli.Si avvicinava l'ora di chiusura del parco. Soneri salutò non prima di aver

dato qualche consiglio a Blackright su come cucinare l'orata col chiaro d'uovo sul sale. Fatti pochi passi fuori dal camper, si accese un toscano e si voltò: l'americano lo guardava e la porta incorniciava di luce il suo profilo magro.

Suggeriva l'idea di un allevatore più che di un ciabattino.Ormai faceva scuro e il parco era deserto. Davanti all'ostello vide la

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sagoma di Rosetta che l'attendeva. Soneri deviò per schivarlo.Martelli era un negozietto dimesso in un borgo del centro.Da esso si accedeva in un cortile con la ghiaia che faceva da anticamera

a un vecchio capannone. Dentro, una grande quantità di pellami e gomme giacevano accatastati su alti scaffali alle pareti e sopra imponenti banconi. Ce n'erano anche appesi al soffitto con ganci da macelleria e l'odore pungente del caucciù dava un senso di soffocamento.

- Cerco una suola liscia che lasci impronte simili a quelle di un piede fasciato da una calza - disse Soneri.

Martelli era un signore anziano, un po' curvo con gli occhi pungenti e il mento sempre in moto per una sorta di tic. Lo pregò di spegnere il sigaro e cominciò a tirare cassetti.

Estrasse parecchie suole, ma nessuna assomigliava alla descrizione.- Può trattarsi di scarpe particolari, di quelle con la gomma fusa alla

tomaia - disse Martelli.- Forse si tratta di scarpe sportive - suggerì Soneri pensando ai podisti

che giravano nel parco.Il vecchio prese la direzione di uno scaffale finora trascurato. - Qui c'è

tanta roba che qualche volta mi dimentico di averla - affermò salendo su uno sgabello. - Forse sono queste che cerca - continuò Martelli mostrando una suola nera di gomma porosa di forma molto incavata.

Poteva essere quella. Controllò, era completamente liscia.- Chi le usa?- Scarpe da alpinismo. Non è un genere che va molto, ecco perché me

n'ero dimenticato.- Scarpe da alpinismo?- Sì, pare che i rocciatori le apprezzino. È come andare a piedi nudi, col

vantaggio che questa gomma speciale fa più aderenza della pelle.Tornò in questura. L'idea che l'assassino fosse salito lungo il muro del

bastione sorprendendo la vittima lo suggestionava.

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Capitolo settimo

Accese il camino. Estrasse la Browning e staccò la retina.C'erano quattro bossoli impigliati come tonni. Tirò fuori il caricatore,

pulì accuratamente l'arma e la sigillò in un sacchetto di plastica dopo averla ingrassata. Quindi scese in cantina e la lasciò cadere nel barilotto dell'aceto.

In casa si sentiva invulnerabile. Aveva immaginato ogni cosa: vie di fuga, trappole, sparatorie. Ripensò all'agguato: la sua condotta era stata perfetta, questa volta non si era lasciato travolgere dagli accadimenti.

Ma sarebbe stato tutto perfetto anche se una pallottola l'avesse centrato mentre scappava: ucciso come un fagiano in volo.

Si alzò, era irrequieto. Dalla libreria prese I Demoni di Dostoevskij e l'aprì. C'era un personaggio che lo affascinava e sapeva esprimere meglio di ogni pensiero ciò che andava cercando nel suo rapporto con la morte: l'aspirante suicida Kirillov.

Lesse: «Immaginate una pietra della grandezza d'una grossa casa; essa è sospesa e voi ci siete sotto; se vi cade addosso, sulla testa, vi fa male?» Bondan si immaginò d'essere inconsapevolmente inquadrato da un mirino mentre pensava a qualcosa di piacevole.

Nessun dolore.Continuò a leggere: «Ma mettetevi sotto per davvero e, finché resterà

sospesa, avrete una gran paura che vi faccia male.Il primo degli scienziati e il primo dei medici, tutti, tutti avranno molta

paura. Ognuno saprà che non fa male, e ognuno avrà paura che faccia male».

Se la pietra doveva cadere su di lui preferiva che ciò avvenisse senza averne coscienza.

Passò alla lettura dei giornali. Seppe di aver ucciso un tale che si chiamava Tonino Spataro, un trafficante, secondo la polizia. Questa volta aveva centrato un bersaglio grosso.

Spataro era stato colpito da un solo colpo calibro 7,65 al cuore: morte all'istante. Secondo i giornali, l'auto ferma in mezzo alla strada con la porta del guidatore aperta, doveva essere quella di Spataro. Tuttavia c'era una stranezza: era stata presa a noleggio una settimana prima da un uomo che aveva dato un documento intestato a Riccardo Furetti.

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Capitolo ottavo

Era tornato un po' di sole. Gli abeti nel cortile della questura sembrarono scrollarsi di dosso l'oscurità nebbiosa.

Dall'androne del settecentesco palazzo prefettizio, Soneri vide arrivare Nanetti coi suoi baffi prussiani, la coppola di panno porpora e l'andatura irregolare di anche malate.

- Abbiamo trovato tracce di gomma sui mattoni del bastione - annunciò dopo aver misurato il silenzio interrogativo di Soneri.

- Quindi qualcuno si è arrampicato...- Sì - replicò Nanetti - a metà del muro c'è anche un gancio per

assicurarsi con le corde, ma è arrugginito. D'altro canto, non è un appiglio da alpinista, pare servisse per un cavo elettrico.

Passato il primo impulso di soddisfazione, Soneri pensò che non significava nulla: chiunque poteva aver scalato la muraglia.

L'ispettore Macciantelli gli aveva appena comunicato al telefono che in provincia c'erano circa trecento praticanti dell'arrampicata libera.

- Il tipo di gomma è lo stesso? - chiese allora.- Sì, coincide con quello delle scarpe da alpinismo.- Tracce recenti?- Due giorni al massimo, precisò Nanetti, c'è anche un mattone

scheggiato di fresco che deve aver causato uno scivolone perché lungo il muro c'è mezzo metro di strisciata.

- Il contrafforte dei bastioni è un luogo d'allenamento?- Sì, ma non dal lato a nord - disse Nanetti. Aveva estratto un taccuino

con degli appunti. - Salire da quella parte è molto più rischioso e poco consigliabile. In basso i mattoni sono coperti di muschio e più in alto l'umidità li ha resi instabili.

- Dunque, chi è salito è un alpinista esperto.- Credo proprio di sì, confermò Nanetti stuzzicandosi i baffi, ci vuole

bravura per arrampicare di notte lungo un muro umido che non si conosce.Soneri si accese il Toscano e alzò il telefono: - Macciantelli è arrivato?

Bene, lo mandi subito qui.Poi si alzò e si sporse nel corridoio: - Juvara!L'ispettore arrivò col passo felpato dei suoi mocassini di para. Era un

uomo meticoloso anche se dall'aspetto trasandato.Sudava sempre troppo e la sua pinguedine si agitava in continuazione

sotto pelle come una bolla d'acqua.- Controlla il tabulato delle chiamate al centralino negli ultimi tre giorni.

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Mi interessa la provenienza.Juvara fece cenno di sì e sparì: in quel tipo di indagine era imbattibile.- Se questo arrampicatore è l'assassino bisogna dire che non manca di

originalità - disse.Nanetti lo guardò riflessivo: - Mica solo originale: quattro ore per la

fuga e assenza di testimoni.Soneri non era molto convinto. Aveva fame e non voleva saperne del

solito sfilatino.- E se andassimo al Milord? - disse rivolto a Nanetti. Il tono

interrogativo era solo il paravento di una decisione già presa.Si erano alzati quando entrò un agente.- Hanno svaligiato un appartamento in centro.- Di chi? - domandò Soneri seccato.- Del cavalier Romualdi al numero sette di via Repubblica.Vide profilarsi ancora lo sfilatino come ormai capitava da troppi giorni.Conosceva il cavalier Romualdi, un ottantenne combattivo già

bersagliato dai ladri, che a quell'ora aveva certo chiamato questore, prefetto e capo di gabinetto. Anche se gli dava noia occuparsi di un furto in appartamento, non poteva trascurare di farsi vedere dal vecchio.

Quest'ultimo si aggirava grifagno nell'immenso salone all'ultimo piano di un palazzo barocco dal quale si dominava tutto il centro. In un angolo singhiozzava la moglie sotto la cornice vuota di quella che era stata una veduta di Venezia attribuita al Canaletto. Soneri venne affrontato dai figli, un avvocato dall'aria incolore e una donna di mezz'età che poteva assomigliare a una preside di scuola media. Ma il vecchio Romualdi li tagliò fuori entrambi come seccatori.

- Un disastro! Il Canaletto, l'argenteria, gli ori di mia moglie - disse girandosi indispettito verso la vecchia che piangeva senza che nessuno le facesse caso.

Poi portò in giro Soneri nell'appartamento, una specie di lezione su come vivevano i ricchi. C'erano almeno dodici stanze, un intero piano con una terrazza colma di verde che guardava verso sud. Il ladro aveva comunque fatto un lavoro da professionista. Nessun disordine, nessuna impronta. Aveva solo portato via ciò che gli interessava. Era entrato dalla porta forzando la serratura con la fiamma ossidrica.

Di nuovo in ufficio spulciò la sommaria ricostruzione fatta dal mattinale. I coniugi Romualdi a svernare a Saint Raphael, la governante in ferie, l'appartamento sorvegliato da un vecchio impianto antifurto disinnescato con facilità dal ladro. Nel verbale, il vecchio Romualdi aveva

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dichiarato che si trattava del secondo furto in soli quattro mesi. Aveva quindi compreso il suo dispetto quando gli si era fatto sotto e con occhi pungenti aveva rimproverato le negligenze della polizia.

Soneri aprì la carpetta e pensò a quel colpo che sapeva di vecchia malavita. Quando squillò il telefono intuì immediatamente chi lo cercava. Passò un quarto d'ora a sfogliare la documentazione ascoltando il questore raccomandargli il caso.

Così, nello stesso momento in cui posò la cornetta, si trovò sotto il naso la descrizione del primo furto subito a casa Romualdi in cui erano spariti ori e gioielli di famiglia. Quattro mesi prima, il ladro era salito arrampicandosi dal tubo di ghisa della grondaia che correva lungo un fianco poco in vista dell'edificio. Poi era entrato da una porta-finestra del terrazzo.

Fu a quel punto che gli venne in mente Sebastiano Spirelli detto Locusta. Era uno capace di raggiungere i posti più impensabili senza lasciare niente sul suo cammino. Una vecchia conoscenza che non si faceva né vedere né sentire da un po' di anni. Ogni tanto qualche colpo, ma la sua disgrazia era che, nell'epoca della criminalità armata, la fantasia di cui era capace, risultava come un'inconfondibile firma.

- Macciantelli, ti ricordi di Locusta?- Certo, come no.- A proposito del primo furto a casa Romualdi... Vedi di scovarlo -

aggiunse.Il cameriere gli portò lo sfilatino e il succo di frutta. Soneri, che pur

aveva fame, continuò tuttavia a dedicarsi al dossier su Locusta. Ritrovò un viso famigliare nella foto segnaletica, poi una sequela di informazioni: altezza un metro e sessantasette, peso cinquantotto chilogrammi, occhi chiari, capelli castani...

Cercò freneticamente il dato che più gli interessava e non trovandolo richiuse la carpetta con stizza. Alzò allora il telefono: - E' l'ufficio matricola? Sono Soneri della questura, da voi è passato un po' di anni fa Spirelli Sebastiano, condannato ripetutamente: l'ultima volta a cinque anni per furto, scasso ed effrazione... Mi interesserebbe sapere che numero di scarpe porta.

Come dice? Sì, lo so, è una richiesta un po' bizzarra, ma le assicuro che è importante.

Ripose la cornetta solo il tempo per riattaccare, quindi compose il numero di Nanetti.

- Senti, l'orma che è stata trovata a che piede corrisponde?

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Udì un fruscìo di carte dall'altro capo: - Al numero quaranta, forse mezzo in meno.

Addentò lo sfilatino pensando al menù del Milord.Dall'ampia finestra entrava un sole bianco che illuminava senza

scaldare. Finalmente squillò il telefono, era l'ufficio matricola che gli comunicava la misura del piede di Locusta: il quaranta.

Le cose cominciavano a funzionare nella ricostruzione che si andava figurando Soneri. Locusta, o uno della sua corporatura, era salito dal bastione cogliendo la vittima alle spalle.

Quest'ultima non avrebbe potuto immaginare che l'assassino arrivasse da quel lato.

Ma Locusta non portava mai armi da fuoco e non era un violento. E poi perché l'ucciso avrebbe dovuto attendere in un posto così buio e appartato visto che nel parco vivevano cinque persone in tutto a quell'ora già a letto?

- Juvara! - gridò Soneri, questa volta senza alzarsi dal suo posto.- Eccomi.- Hai notato qualcosa di interessante sui tabulati?- Diciotto telefonate anonime tutte da apparecchi pubblici.- E allora?Juvara si mostrava sempre un po' agitato prima di dire qualcosa che gli

pareva interessante. Anche in questo caso si aggiustò sulla sedia muovendo la sua mole a stento tra i braccioli.

- In una c'è uno strano messaggio che nessuno è riuscito a decifrare.Soneri si fece attento: - Cioè?- Dice: uno dei vostri è in pericolo. Non si capisce cosa voglia

significare.- Quando è arrivata questa telefonata?- Tre giorni prima del delitto.- E di là, disse Soneri alludendo alla squadra volanti, hanno fatto

accertamenti?- Non mi risulta. È passata per la telefonata di un mitomane.Ce ne sono tanti. Dicono la prima cosa che viene loro in mente e

riattaccano.- Da dove è giunta questa telefonata?- Da un telefono pubblico, ma non da una cabina, sembrerebbe da un

apparecchio a gettoni di un bar.- Si sa la zona?- Più o meno sì, ma sto ancora facendo accertamenti: il telefono deve

essere tra via Curtatone e via Solferino - spiegò Juvara che non capiva

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quale fosse la ragione di tanta curiosità per un fatto del genere.Soneri, invece, si era già inoltrato nelle ipotesi. La zona era vicina al

parco, tutto sembrava coincidere. Tirò fuori il ritaglio di giornale trovato nel fossato.

- Ai piedi del bastione ho trovato questo - disse mostrandolo a Juvara. L'altro capì.

- Cosa pensi che volesse dire quella telefonata?- Mi sembra ovvio che intendesse con uno dei nostri, un nostro

informatore. Forse l'uomo ucciso lo era.Probabile, ma non era ancora stato identificato.- Bisogna cercare il bar - disse Soneri.Nel cortile si arrestò l'auto di Macciantelli.- E' introvabile, ho setacciato ovunque.Anche questo era strano. Locusta si faceva sempre trovare nei posti in

cui bazzicava. Non sfidava i poliziotti con la fuga ma con lunghe battaglie giudiziarie. Contava sul fatto che era talmente bravo da non lasciar tracce e cavarsela in assenza di prove.

- All'osteria dei Corrieri non sanno nulla?- Mi hanno detto che è da un pezzo che non si fa più vedere.Secondo loro ha cambiato giro.Forse Locusta si era messo a trafficare più in grande, o forse aveva

deciso di mettersi in pensione campando come basista: succedeva ai vecchi malviventi.

Il sole stava già calando quando si alzò per uscire. Passò di fronte all'ufficio di Juvara che era al telefono e gli fece cenno di attendere.

- Ho trovato il posto: è il bar Otello di via Curtatone.

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Capitolo nono

Le si accostò come un cliente qualsiasi, quindi la trascinò dietro la siepe del viale. La prostituta non fiatò, sentendo contro la schiena la Beretta calibro 9. Con la destra teneva l'arma, con l'altra le tappava la bocca. Era un'italiana, una tossica che si vendeva per comprarsi le dosi. Da sopra la spalla, Bondan le vedeva i seni liberi dentro la camicia mentre la costringeva a indietreggiare verso il buio. Per tranquillizzarla le disse di obbedire, in cambio non le avrebbe fatto nulla.

- Ma se urli sparo - disse Bondan minaccioso, lasciando progressivamente la presa sulla bocca della donna.

- Cosa vuoi? Scopare gratis? - chiese timida.- No, parlare. Però non devi voltarti mai. Ci sono due cose che non devi

fare: urlare e voltarti - avvertì Bondan altrimenti sei finita.La donna assentì col capo e rimase in silenzio.- Chi è il tuo protettore?- Kalaschi.- Albanese?- Sì.- E da chi ti rifornisci di roba?- Dai marocchini. Non li conosco per nome, sono in tanti - disse la

donna.Parlava a scatti come tra singhiozzi, si capiva che tremava nel buio.- I marocchini sono pesci piccoli: chi controlla il giro?- Ti giuro che non lo so - rispose con voce affiochita.Bondan accentuò la pressione della pistola contro la schiena e per poco

lei non cadde a faccia in giù.Le mise una mano sulla spalla stringendo leggermente laddove

cominciavano i muscoli del collo e il gesto venne interpretato come una mossa ultimativa.

- Aspetta - mormorò - non sparare. Puoi chiedere a Pierre, lui sa tante cose.

- Dove lo trovo?- All'agenzia ippica di via Torleone.- Com'è fatto?- E' alto, ha capelli biondi e porta al dito mignolo un anello di smeraldo.

Non tirarmi in ballo.- Che ruolo ha?

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- Ne parlano come di un pezzo grosso.Bondan allontanò leggermente la pistola: - Se mi hai fregato, sappi che

ti conosco e verrò a cercarti.Lei non disse nulla, sembrava di gesso.- Adesso fa' come ti dico - ordinò con voce autoritaria. Sta' ferma dove

sei senza voltarti per un po', poi ritorna sulla strada come se niente fosse. E non urlare, sappi che ti tengo sotto tiro.

La donna fece sì col capo e Bondan indietreggiò fino nel fitto del giardino, imboccò un vialetto e sparì dall'altra parte dove si confuse con il via vai serale.

Via Torleone era un solco fosco tra case basse e vecchie officine in disuso. A metà, una costellazione di luci da casinò annunciava l'agenzia ippica. Pierre non era ancora arrivato.

Controllò il salone dove una decina di avventori seduti a cavallo delle seggiole seguivano gare e quotazioni su mezza dozzina di televisori.

Tardò mezz'ora nel corso della quale Bondan ispezionò il posto fino a trovare un punto di osservazione sicuro dietro una fila di cipressi dall'ombra densa.

Verso mezzanotte, l'altro uscì in compagnia di una donna bionda fasciata da un vestito lungo da cerimonia. Arrivarono al Cavallino Bianco, un locale dall'aria esclusiva e appartata contornato da alberi che lo rendevano quasi invisibile dalla strada: la notte era ancora lunga per Pierre e la sua compagna.

Bondan attese fino alle tre finché vide spuntare la Porsche rossa dell'uomo nel vialetto. Lo seguì e constatò che era solo.

La bionda doveva essere un' entraineuse. Non percorsero molta strada. Pierre rallentò e da lontano Bondan vide accendersi il lampeggiante giallo del cancello automatico entro il quale l'uomo sparì. Un'alta siepe di biancospino nascondeva in parte la villa.

I delinquenti erano tipi abitudinari. Pierre usciva di casa all'ora di cena, mangiava e poi passava dall'agenzia ippica.

Quindi finiva la serata al Cavallino Bianco. Quando Bondan entrò nella villa, sapeva di avere quattro ore davanti a sé.

La casa era in disordine, vi aleggiava un odore di panni da lavare. Si diresse nello studio, quindi aprì i cassetti della scrivania: l'arredamento essenziale lo aiutava e le carte non potevano che essere lì. Estrasse la piccola macchina fotografica e cominciò a riprodurle. Ogni flash traeva dall'oscurità documenti come apparizioni. Rimise a posto tutto tenendo per sé solo un registro nel quale doveva essere annotata la contabilità.

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Gli rimaneva tempo. Rovistò anche altrove. In un ripiano saltò fuori un sacchettino di cocaina, ma non era che una piccola parte di quella che possedeva Pierre. Poi udì dei rumori.

Non provò paura, si sentiva sicuro. Strinse la Beretta e l'adrenalina lo pervase. Un tonfo soffocato denunciò la presenza di qualcosa che veniva verso di lui. Accese la piccola torcia e inquadrò due occhi gialli: un gatto.

Scese e uscì. Non aveva lasciato traccia, ne era sicuro. Solo la sottrazione del registro poteva svelare il suo passaggio, ma Pierre avrebbe tardato un po' di giorni a capire che qualcuno l'aveva rubato. Prima si sarebbe interrogato a lungo su dove fosse andato a finire.

Fu una lettura di grande interesse benché resa complicata dall'uso di un linguaggio cifrato. Lesse alcune righe a caso: «Presa da B. mezza pila di articolo 15». Oppure: «Dato a T. 100 articoli 20». Davanti a ogni annotazione, la data. Essendo Pierre un trafficante, doveva trattarsi di droga.

Sviluppò le foto ma non apparvero di nessun interesse: Pierre doveva tenere le carte più interessanti da qualche altra parte. Gli apparvero i contorni poco originali del commercio di Pierre: la contrattazione all'estero della droga, l'arrivo dei corrieri e la distribuzione al dettaglio ad opera dei piccoli spacciatori. Niente di nuovo. L'unica abilità era quella di celare tutto dietro altre attività in modo da non farsi incastrare.

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Capitolo decimo

Il bar Otello se l'era immaginato proprio così: un locale piccolo dove si beveva in piedi accanto a un ampio salone con tavolini e biliardo. Al banco, una donna sui quarant'anni piuttosto vistosa con movenze e lingua da maitresse che tutti chiamavano la Rossa.

Ordinò una birra e si accese il sigaro. A turno, gli avventori lo guardavano con diffidenza. Si trattava di gente di mezz'età dall'aria volgare. Una decina stavano intorno al biliardo osservando silenziosi le traiettorie, gli altri chiacchieravano a gruppi accostati ai tavoli dove si giocava a carte. Un ubriaco si trascinò verso il banco tranciando l'aria fumosa e urtando alcune sedie.

- Rossa portami in bagno!- La strada la sai - disse lei noncurante.Le aveva sbarrato il passo: - E con te che ci voglio andare.La donna lo spinse di lato con la mano libera dal vassoio e l'ubriaco

cadde pesantemente su una delle sedie accostate al muro rimanendovi di sghimbescio come addormentato.

La Rossa tornò al banco e Soneri prese il boccale vuoto seguendola. Si trovarono uno di fronte all'altra.

- È da un po' che non si fa vedere Spirelli?- Chi?- Locusta.La donna si fece sospettosa. - Sì, è da un po'.- Quanto?- Non lo so. Ogni tanto capita, non c'è una regola.L'ubriaco miagolò qualcosa d'indistinguibile. Soneri continuò a guardare

la donna che sfaccendava coi bicchieri. Era tutto troppo vecchio lì dentro. Il banco di legno ricoperto di faesite, gli scaffali con le cromature appannate, le sedie da vecchia cucina componibile. Persino le foto alle pareti erano di campioni ormai pensionati. E gli avventori avevano l'aria di essere invecchiati nel ricordo delle loro imprese.

- Ancora un goccio - disse Soneri porgendo il boccale.La Rossa lo prese con freddezza come se l'avesse tratto dal banco e lo

riempì. L'ubriaco si riscosse appena sentì il fruscio morbido della birra che scivolava nel bicchiere.

- Per lui uno piccolo - ordinò Soneri.La Rossa lo guardò severa ma riempì un calice che l'ubriaco afferrò con

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insospettabile sicurezza.- Alla vigilia di una buona bevuta sono sempre sobrio disse l'uomo

appoggiandosi a Soneri e trascinandolo nel salone.- Conosci Locusta?- Sei stato gentile a pagarmi da bere ma se parli sottovoce significa che

hai qualcosa da nascondere - disse l'altro.Uno si girò come messo in allarme. L'ubriaco aveva tuffato le sue labbra

nella schiuma della birra e tutto nel locale pareva procedere in un clima di apatia sospettosa.

- Chi non conosce Locusta? Un buon diavolo. Quando gli va bene non si dimentica mai degli amici - disse. Lui doveva essere uno di quelli.

Soneri abbozzò qualche domanda, ma l'ubriaco già vaporava in un tiepido subconscio. I suoi occhi celesti s'erano abbassati a mezza palpebra e sul suo viso, incorniciato da una bianca barba incolta, era comparsa la beatitudine estatica che dona l'alcol etilico.

- Rossa portami in bagno - biascicò ancora intercettando il profumo pungente della barista. Ma nessuno gli faceva più caso. Il locale era riprecipitato in un fumoso sussurro di cospirazione. Soneri si guardò di nuovo intorno. C'era la foto di una cima alpina che non conosceva e fu allora che ripensò a Locusta: chissà se era salito anche lì.

Fece per alzarsi e andare in bagno, ma l'ubriaco lo precedette zigzagando per il locale. Riaccese il sigaro e aspettò. Non gli dispiaceva l'atmosfera di quel posto che sembrava riportarlo alla giovinezza. Gli schiocchi delle palle da biliardo gli ricordavano certe sere nella cittadella universitaria e anche quella barista che dava confidenza ai clienti abituali gli sembrava una figura sfuggita agli anni.

L'ubriaco non tornava. Allora si alzò a sua volta per andare in bagno. Si immaginava di trovarlo riverso sulla tazza addormentato nel suo vomito. Percorse un corridoio, svoltò a sinistra e aprì la porta del gabinetto: c'era solo una gran puzza d'orina. Dall'altra parte s'apriva un altro uscio che dava su un retrobottega colmo di salumi e casse di vini. Entrò, c'era ancora una porta, ma chiusa a chiave.

Ricordava che la Rossa aveva seguito quasi subito l'ubriaco al punto che aveva pensato lo accompagnasse davvero in bagno. Doveva quindi essere uscito. O forse lei gli aveva consigliato di uscire.

Il bar Otello era vicinissimo al parco. Soneri entrò in una cabina e compose il numero di Macciantelli.

- Manda qualcuno a sorvegliare il bar. Locusta, prima o poi, ci capiterà.- Ho già mandato un paio di agenti - rispose l'ispettore e in quel mentre

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Soneri fece caso a un'auto scura che gli pareva famigliare parcheggiata sotto i tigli del viale.

- Bisogna avvertirli di fare attenzione: il bar ha un'uscita secondaria.- Sul retro?- Sì.- Allora dà verso il fossato del parco - concluse Macciantelli.Soneri rimase in silenzio per qualche istante: la deduzione del collega

gli aveva suggerito un'ipotesi nuova. L'assassino poteva essere partito da lì per tendere l'agguato. Poteva aver atteso le tre nel bar, poi esserne uscito dalla porta sul retrobottega, il tempo di scalare il contrafforte a nord e di attendere la vittima tra i cespugli. Ma le impronte, due, entrambe destre, erano rivolte dalla parte opposta alla direzione di sparo.

Passò sopra il ponte che scavalcava il fossato deciso a tornare nel parco. Stava facendo scuro, però la porta secondaria era ancora aperta. Mentre si apprestava a raggiungere l'ostello, sentì arrivare la piccola Fiat del custode. Si ritirò tra i cespugli e decise di attendere. L'uomo scese, gironzolò sotto il voltone e si accese una sigaretta. Di tanto in tanto si sporgeva lungo il ponte guardando di lato come attendesse qualcuno che giungesse dal fossato. Passarono alcuni minuti, l'uomo gettò il mozzicone, lo schiacciò accuratamente e si appoggiò di spalla allo stipite. Stette un po' così, quindi guardò l'orologio e si mosse per chiudere come se avesse avuto in quel momento la certezza di un appuntamento sfumato.

Si incamminò tra i vialetti. Gli alberi rendevano ancora più buio quell'angolo: il posto ideale per un agguato. Sentì passare l'auto del custode al di là della vegetazione e dopo qualche istante udì un colpo di clacson, il segnale che avvertiva Rosetta della chiusura. Segnali, cenni, sguardi. Soneri si sentiva circondato da un alfabeto di cui ignorava il significato.

Passò di fianco al camper di Blackright avvolto dal buio e quindi tirò dritto verso la salita che portava alla casa del custode. In pochi minuti fu nel cortile, una finestra illuminata permetteva di scorgere il grande San Giorgio sopra l'entrata.

- Buonasera commissario - lo sorprese la voce di Tolmin dal buio. Aveva in braccio parecchi pezzi di legna.

- Salve, rispose Soneri, cercavo suo figlio.L'uomo gli fece strada.- Giacomo, ti presento il commissario - disse il custode.Il ragazzo non aveva fatto caso a Soneri, stava guardando la televisione

coi piedi su una sedia. Si ricompose e abbassò il volume un po' a

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malincuore.- È per il delitto - si scusò Soneri.- Ah, sì - fece l'altro come se si fosse trattato di qualcosa successo

dall'altra parte del globo.- Suo padre mi ha detto che lei è tornato verso le tre sabato mattina.- Non mi ricordo. Non guardo mai che ora è quando rientro, sono loro -

disse indicando il padre - che controllano.- Ma potevano essere le tre o era più tardi?- Sì, potevano esserle, tuttavia, di solito, arrivo più tardi.- Non ha notato nulla? Non ha sentito qualcosa? Rumori?Movimenti insoliti? Dico anche all'esterno.- No, non mi è parso di vedere nulla di strano.- Da quale portone passa quando rincasa?- Ho la chiave di tutt'e due, ma di solito passo dal principale perché è più

corta.- Entra con la macchina?- No, bisognerebbe aprire le due ante dell'ingresso. Uso la porta piccola

e attraverso il parco a piedi.Entrò la moglie del custode, una donna magra e sciupata che dimostrava

di essere più vecchia della sua età. Soneri la salutò e nel frattempo pensava a quanto tempo aveva impiegato il ragazzo per arrivare alla casa sul bastione entrando dall'ingresso principale. Settecento metri circa, quattro, cinque minuti al massimo.

- Di notte rimane qualche luce nel parco?- Rimangono accesi i lampioni nella parte bassa, vicino ai due ingressi e

intorno all'ostello - informò Tolmin.Significava che buona parte del cammino abituale del giovane era al

buio.- Fuori, dove ha parcheggiato la sua auto, ce n'erano altre?- Credo di sì, disse il ragazzo, ce ne sono sempre.- Vuol dire auto che abitualmente stanno lì?- Anche.- Quella sera c'erano macchine che non aveva mai notato?- Non m'è sembrato... Forse una Ford. Una Escort station wagon scura.

Me la ricordo perché era parcheggiata malamente nel viottolo e al buio quasi non l'ho vista.

- Si ricorda qualche particolare della targa?- No. E poi sono in tanti a parcheggiare come capita in quel viottolo:

sanno che di notte non passa nessuno.

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Nei pressi dell'ostello telefonò in questura.- Passami Juvara. Senti, c'è un lavoro un po' complesso...Bisognerebbe procurarsi l'elenco di tutti i proprietari di Ford Escort

station-wagon ultimo modello. Come dici? Sono tanti?Beh, è un altro indizio. Ne abbiamo così pochi che è meglio non

sprecarne nemmeno uno.- C'è il giudice che la cerca da qualche ora - informò poi Juvara.- Digli che sto arrivando.Rollardi lo attendeva con apprensione. Questa volta era andato Soneri

nell'ufficio del magistrato al primo piano della procura, un fatto insolito.- C'è un particolare che non era stato notato in un primo tempo - disse il

magistrato.- Cosa?- La scientifica ha scoperto che dalla camicia della vittima sono sparite

le iniziali ricamate. Sembrava uno strappo, ma da un esame più approfondito s'è capito che è stato usato un paio di forbici.

Soneri immaginò immediatamente la scena: l'assassino che solleva il cadavere su un fianco, apre il cappotto, alza il maglione, taglia le iniziali, rimette tutto a posto e se ne va.

Questo da solo, al buio e senza lasciare impronte.- Dev'essere stato un superprofessionista e forse non era solo.- Anch'io la penso come lei - affermò Rollardi alzandosi in piedi e

camminando lungo la parete dov'era appesa una foto del presidente della Repubblica.

- Un comportamento strano - borbottò fra sé Soneri. Non aveva mai incontrato assassini così preoccupati di celare l'identità della vittima senza occultarne il cadavere. Di solito provvedevano con un rogo o seppellendo il corpo.

- Nessuna novità? - chiese.Dall'altro capo, Macciantelli gli rispose desolato: - No, nessuna.

Abbiamo atteso tutt'oggi senza esito.- Non mollare e tieni d'occhio anche il parco.Chiese poi di parlare a Juvara: - Guarda nel casellario se c'è qualcosa

che riguarda Giacomo Tolmin, è il figlio del custode. Raccogli informazioni in giro.

Aveva fame dopo quel pomeriggio di andirivieni all'umido. Dopotutto, il tavolo del Milord era il miglior luogo in cui riuscisse a riordinare le idee.

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Capitolo undicesimo

Da alcuni giorni un uomo lo seguiva. Sempre lo stesso: un tipo piuttosto tarchiato dall'aria volgare con un cappotto blu, grosse scarpe e cappello di foggia tirolese. I primi tempi lo aveva notato saltuariamente, poi si era accorto di averlo alle calcagna ovunque. Spesso riusciva a seminarlo ma poi lo vedeva ricomparire come se non si fossero mai persi di vista. Doveva essere uno abile anche se dava l'impressione di non voler mai avvicinarsi troppo: più che da sicario, si comportava da spia.

Entrò in un caffè, ordinò la colazione senza perdere d'occhio la vetrina fino a che lo vide passare. Poi uscì di nuovo sul marciapiede: l'uomo camminava lento davanti a lui. Dopo poche decine di metri, quest'ultimo svoltò in un borgo con l'intento di rimettersi di nuovo nella posizione dell'inseguitore.

La stessa tattica dei ciclisti nei velodromi: stessi surplace, stesse finte, stessi scatti improvvisi.

Bondan s'infilò a sua volta in un portone. Rivoltò il cappotto, calò un berretto sul capo, inforcò un paio di occhiali e si applicò un pizzetto di barba sul mento. Era riuscito a invertire i ruoli. Adesso l'uomo camminava con passo indeciso guardandosi attorno. Faceva lunghi giri tagliando ogni tanto per vie interne seguendo l'immaginario diametro dei suoi circoli.

Bondan lo pedinò per ore. L'uomo manifestava crescente apprensione accelerando il passo. Per due volte ritornò dove aveva perso le tracce. Alla fine si incamminò lungo il marciapiede rassegnato. Si fermò di fianco a una Fiat bianca, tirò fuori la chiave e mise in moto. Bondan segnò il numero di targa.

L'auto era intestata alla società Financo con sede in via Palestra 11. Una finanziaria che maneggiava parecchi soldi.

L'amministratore unico risultava essere Francesco Stazzani, il maggiore socio, un nome che gli risultava nuovo.

Nell'ufficio al secondo piano del palazzo lavoravano tre impiegate molto carine e un giovanotto abbronzato dall'aria scema.

Stazzani arrivava sempre verso le cinque del pomeriggio a bordo di una Mercedes nera. Entrava nel cortile, lasciava l'auto nel garage e saliva in ascensore.

Verso sera si ritrovò fra i piedi l'inseguitore. Bondan camminò tranquillo compiendo giri che simulavano commissioni.

Quando cominciò a far scuro, si diresse tra i borghi stretti della città vecchia. Non gli riuscì difficile eclissarsi nell'oscurità di un androne e

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attendere.Lo afferrò con decisione puntandogli la rivoltella contro un fianco.

L'inseguitore obbedì docilmente lasciandosi trascinare all'interno. Bondan lo tastò e gli tolse una piccola pistola a tamburo con la canna corta, poi lo spinse con la faccia contro il muro ordinandogli di tenere le mani larghe lontano dal corpo. L'altro eseguiva come ritenesse ovvio tutto questo.

- Chi ti manda? Pierre o Stazzani?L'uomo stava immobile come inanimato e anche il suo silenzio pareva

irremovibile.- Qui c'è la pistola con le tue impronte. Mi basta premere il grilletto

appoggiandola alla tempia, sistemare il corpo in modo plausibile... Penseranno tutti che sei stato solo un vigliacco.

Nel frattempo, Bondan cominciò a vuotare le tasche dell'uomo. C'erano documenti e varie altre carte che prese senza guardarle.

- Senti - si decise finalmente l'altro - così ci perdo soltanto: facciamo un patto.

- Vale a dire?- Io ti aiuto, ma tu dovrai accettare che ti segua ancora, così non si

accorgeranno di nulla - Volevi uccidermi?- No, non spetta a me - si affrettò a dire - ma non lo dico per cavarmi

fuori. E' così.- A chi spetta?- Non so, giuro. Io porto solo informazioni.- Per chi?- Per Pierre - Qual è il vero nome di Pierre?- Piero Ridolfi.Bondan s'illuminò: era Ridolfi allora. Aveva rimesso in piedi

un'organizzazione potente, ma non capiva perché mai dovesse ricattarlo ora che lui, Bondan, era uscito dal giro e da quasi vent'anni non aveva più avuto rapporti con quella banda. Cosa voleva in cambio del silenzio?

- E Stazzani che ruolo ha?- Si occupa di reinvestire i quattrini ripulendoli.Bondan spostò inavvertitamente la canna della pistola lungo la schiena

dell'uomo che s'irrigidì di paura.- Se parli non ti ammazzo - disse pensando a quanto fosse facile entrare

nei giochi criminali comportandosi con gli stessi metodi dei sicari.- Ne hai già fatti fuori due... - si giustificò l'altro - ma per chi lavori?- Per nessuno. Vi odio e basta.L'uomo non parlò ma si intuiva che non credeva a quelle parole.

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- E adesso cosa dirai a Pierre?- Non gli dirò nulla.- Ascolta con attenzione - riprese Bondan con una voce talmente calma

che impressionò anche se stesso - voglio sapere come arriva la droga a Pierre, come la nasconde e con che canali la smista.

L'uomo rimase in silenzio per alcuni secondi. Tutto taceva nel buio del portone e, in quella quiete d'attesa, Bondan udì dei passi. Poteva essere qualcuno che rincasava, ma l'uomo ebbe un piccolo sussulto. Capì al volo. Col calcio della pistola gli sferrò un colpo sulla nuca con tanta rabbia che l'altro scivolò lungo il muro afflosciandosi. Poi s'inoltrò nell'androne e salì le scale. Al primo piano trovò un terrazzo, lo percorse in diagonale e si sporse sul bordo. Salendo gli era parso di udire un'imprecazione più in basso, ma soffocata, tra i denti.

Non aveva scelta. Intascò la pistola e si aggrappò alla grondaia. Scivolò cautamente lungo il tubo fino a quando gli parve di essere a un paio di metri dal terreno, quindi si lanciò, atterrando sull'erba del giardino.

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Capitolo dodicesimo

A metà del savarin di riso, il telefono interruppe il pasto del commissario. Alceste si offrì di tenere in caldo il piatto ma Soneri gli fece cenno di lasciar stare: gli ricordava tristi menage coniugali.

- Abbiamo controllato tutte le Ford- esordì Juvara - e c'è un particolare interessante.

Si immaginava l'ispettore sudato dall'altra parte del telefono. - Quale?- Una di queste vetture appartiene a un noleggio e alcuni giorni fa

l'hanno affidata a un tizio con un nome che è risultato falso. L'auto non è stata riconsegnata e il padrone ha fatto denuncia di furto.

- Che nome ha dato il ladro?- Procioni, Riccardo Procioni.- Naturalmente gli omonimi hanno alibi di ferro...- Ce ne sono quattro: due sono pensionati senza patente, uno fa il

rappresentante e viaggia sempre all'estero e il quarto è un fabbro piuttosto anziano.

- Controlla tutti gli altri noleggiatori, vedi se fra i loro clienti, negli ultimi mesi, c'è stato qualcuno che ha dato nomi falsi.

Ritornò al tavolo. Il savarin era freddo. Pensava alla Ford che era comparsa la notte del delitto. Che fosse la stessa?

Ordinò una tagliata alla Robespierre e una bottiglia di grignolino. Ma appena accostò il bicchiere alle labbra, arrivò un'altra chiamata.

Questa volta era Macciantelli. - I miei hanno notato dei movimenti poco chiari nel parco.

- Cosa? - chiese precipitosamente Soneri.- Verso le nove e quarantacinque, qualcuno è entrato dall'ingresso

secondario, ma non hanno fatto in tempo a capire chi.- Un uomo?- Sì, un uomo. Gli agenti l'hanno visto fermo di fronte alla porta come se

aspettasse e quando hanno tentato di avvicinarsi, qualcuno ha aperto dall'interno e quel tizio è entrato.

- Niente dal bar Otello?- Niente. Ho l'impressione che si siano accorti della sorveglianza.- Lasciate perdere il bar. Piuttosto, tenete d'occhio le entrate del parco.- Ma Locusta...- Non si farà vedere tanto presto lì, è furbo. E poi potrebbe passare da

dietro.

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Questa volta riuscì a mangiarsi la carne in pace, ma i pensieri lo tormentavano più del telefono. Alceste, che osservava l'inquietudine di Soneri, di tanto in tanto cercava di inserirsi tra i pensieri del commissario con qualche battuta.

Chi poteva essere entrato a quell'ora? E chi gli aveva aperto? Rosetta? O Tolmin?

- Commissario, un'altra telefonata.Si alzò di scatto facendo cadere in terra il tovagliolo, attraversò di nuovo

la sala da pranzo sotto gli occhi incuriositi degli altri clienti e afferrò la cornetta.

- Mi ha chiamato ora il magistrato - disse Juvara, sempre concitato. - Gli ho detto della Ford rubata al noleggiatore e lui si è ricordato che anche l'auto ritrovata sul luogo del delitto Spataro era stata presa a noleggio con un nome falso.

- È vero - ricordò Soneri - non mi viene in mente.- Riccardo Furetti. Abbiamo controllato, anche in questo caso tutti gli

omonimi non c'entrano.- Rollardi vuole vedermi?- Ha detto che non era urgente. Però ha voluto che le dicessi questo.Tornò al tavolo. C'era tempo per un dolce? Ordinò una mousse coi

biscotti savoiardi e cambiò di nuovo vino. Chiese un bicchiere di passito di Lampedusa. Furetti, Procioni...

Non erano invenzioni casuali. E poi quella costante nel nome: Riccardo.Di nuovo il telefono: - Commissario abbiamo preso Locusta - disse

Macciantelli.- Dove?- Al bar Otello. Non l'abbiamo proprio preso... E accaduto un fatto

strano, molto strano...- Cosa? - urlò dentro la cornetta Soneri al punto che molti in sala si

girarono.- Stavamo per andarcene, quando abbiamo visto del movimento davanti

al locale. A un tratto è comparso Locusta, un po' brillo, è venuto verso di noi e si è consegnato.

- Vengo subito - annunciò Soneri.Gettò il tovagliolo sul primo tavolo che gli capitò a tiro, afferrò il

montgomery dall'attaccapanni dell'ingresso e uscì sotto gli occhi sorpresi di Alceste. Salì sull'Alfa e si diresse in via Costa.

Locusta l'attendeva nel suo ufficio con la consueta aria tranquilla fino alla spavalderia. Non si era tolto il giubbotto di pelle malgrado il caldo

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della stanza e passandogli vicino, Soneri percepì lo stesso odor di fumo che ristagnava al bar Otello.

Si sedette di fronte all'uomo e lo guardò. Il suo corpo era sempre atletico ma qualcosa suggeriva l'incipiente vecchiaia.

Le tempie erano ormai screziate di bianco e i capelli radi agli angoli della fronte. Soneri riconobbe con disagio le trasformazioni che aveva notato in se stesso.

- Ci si ritrova - disse rompendo il silenzio.- Come ai vecchi tempi capo, no?Soneri non disse nulla. Sembrava che l'altro avesse indovinato il suo

stato d'animo.- Questa volta c'è di mezzo un delitto.- Non sono cambiato, sa che non uso le armi.- C'è sempre una prima volta. Hanno trovato impronte che

corrispondono al tuo piede di fianco al cadavere.- Non significa nulla e lei lo sa - tagliò corto Locusta. Chiunque

potrebbe avere il mio stesso numero di scarpe e di arrampicatori ce n'è tanti.

Soneri rifletté: era vero, al massimo poteva ritenerlo un indiziato.- Posso sempre fermarti per il furto in casa Romualdi minacciò.Locusta sbuffò spazientito: - Roba vecchia, io non c'entro.E poi non avete uno straccio di prova.Eravamo al solito, succedeva sempre così con Locusta.Soneri faticò a stare calmo, sentiva che l'uomo poteva essergli

utilissimo. Se si era consegnato lo aveva fatto certo con uno scopo. Accese il toscano un paio di volte fino a che si formò una brace spessa. Tirò alcune boccate e guardò Macciantelli che stava alle spalle di Locusta. Quest'ultimo gli fece un cenno come quello dei giocatori di carte: nessuna prova.

In quel momento squillò il telefono. Era Juvara nell'altra stanza che avvertiva degli ultimi accertamenti su Locusta: esito negativo. Soneri sentì montare una rabbia impotente.

Biascicò il sigaro mentre pensava che nulla gli permetteva di trattenere quell'uomo dopo averlo tanto cercato. Finalmente, quando ormai non sapeva più cosa dire, pose la domanda più semplice: - Perché ti sei consegnato?

- Non è la prima volta - rispose Locusta con candore.Era vero anche quello. Aveva fatto un'altra mossa falsa.Gli sembrò di intravedere un sorriso ironico sul volto di Macciantelli.

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- Ci vuoi sfidare, insomma.- No, sorrise Locusta, voglio solo chiarire alcune cose.- Quali?- L'ha detto lei: questa volta c'è di mezzo un delitto.Comparve nella memoria del commissario il corpo di quell'uomo

sfigurato. Era sicuro che Locusta l'avesse visto.- Quando ho saputo che mi stavate cercando, ho capito che su di me ci

sono sospetti, ma vi sbagliate.- Però ne sai parecchio - disse Soneri seguendo l'intuito.- Qualcosa so - rispose l'uomo improvvisamente turbato.E dopo qualche istante aggiunse con voce appena percettibile: -

Purtroppo.Soneri capì che si trattava di un segnale. Si comportava come se si

sentisse incastrato.- Ho paura - sbottò - una paura tremenda. Credo che mi stiano cercando

anche altri: in fondo è per questo che mi sono consegnato. Ho scelto il posto più sicuro.

- Chi ti cerca? - chiese Soneri.- Quelli che hanno fatto fuori quel tizio.- Non hai idea di chi fossero?- No. Quando sono arrivato lassù doveva essere successo da poco. Ma

colpi non ne ho sentiti, forse avevano un silenziatore, forse lungo il muro non arrivano i rumori...

- Come fai a dire che era appena accaduto?- Non so, mi è parso di vedere un braccio del cadavere muoversi. Una

contrazione a piccoli scatti come un fremito.Poi più nulla. Il silenzio era quasi irreale, profondissimo come il buio

che stava di fronte a me tra i cespugli verso l'interno del parco. Avevo una piccola torcia ed è stato quando l'ho puntata che ho visto il corpo e quel tremore. Mi sono avvicinato, ma avevo paura come non ne ho mai avuta in vita mia.

Percepivo la presenza di qualcuno al di là del fogliame, ne ero sicuro, certo.

- Allora cosa hai fatto?- Mi sono avvicinato lentamente e ho visto che i proiettili avevano

devastato il volto. Dev'essere stato in quel momento che ho lasciato le impronte: accanto al cadavere c'era parecchia melma, era caduto in una specie di pozzanghera.

- Ti sei avvicinato come? - incalzò Soneri.

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- Dando le spalle al muro.- E il morto era steso nella direzione opposta al tuo cammino?- Sì, è la testa che ho sfiorata per prima passandogli accanto.Soneri richiamò le immagini del luogo del delitto. Tutto collimava.

Locusta si era avvicinato posando il piede destro nella melma di fianco al cadavere lambendolo dalla parte del muro di cinta. Il piede sinistro aveva camminato sull'erba e non aveva lasciato impronte.

- Perché sei salito lassù?- Una stupida scommessa! Lei non ci crederà, ma si tratta solo di una

scommessa. Ero al bar Otello verso mezzanotte e c'era un bel clima come non capitava da tempo. Abbiamo cominciato a giocare a carte e puntare forte. Verso le tre, c'era gente a secco e io fra quelli. Così ho pensato di rifarmi. Tutti sanno che so arrampicare benissimo, così ho cominciato a dire che sarei salito sul muro del parco in meno di un quarto d'ora. Si sono messi a puntare, ma qualcuno, non ricordo chi, ha rilanciato forte: ci avrebbe messo cinque milioni se fossi stato in grado di salire dal bastione a nord. Lì non c'è mai salito nessuno, è tutto coperto di muschio e i mattoni sono intaccati dal gelo... Ma di fronte ai cinque milioni ho accettato.

- Che ora era?- Precisamente non lo so, in certe sere d'allegria il tempo non conta.

Saranno state le tre. Ricordo che mentre attraversavo il fossato s'è udita lontano una sirena di ambulanza e lì ho pensato: ecco, questa è la volta che cado e mi rompo l'osso del collo.

- Poi?- Poi ho cominciato a salire. Non si vedeva granché e si scivolava sul

muschio come se i mattoni fossero cosparsi di melma. Ho rischiato di cadere molte volte e sotto sentivo gli scommettitori fare previsioni. Quando ho messo una mano in cima, tremavo per lo sforzo. Mi sono tirato su e ho fatto un doppio segnale lampeggiando con la torcia a quelli che erano rimasti in basso. Se c'era ancora qualcuno nei paraggi, deve aver notato la luce e forse s'è messo al riparo: il bastione è fitto e di notte è impossibile scovare qualcuno. Ma sono sicuro che non ero solo.

- In che posizione era il morto?- Era steso faccia in giù col braccio sinistro piegato sotto e le gambe

divaricate.- Aveva il cappotto?- No, non indossava nessun cappotto. Aveva un giubbotto scuro, mi pare

di pelle.- Abbottonato?

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- Mi è parso di sì, stava aderente al corpo.- Se è così avevi intuito giusto: c'era qualcuno nei paraggi.E quel qualcuno deve aver sentito i rumori o le voci degli altri giù

altrimenti...- Mi avrebbe fatto fuori, dice?- Forse. Dev'essere stato quel segnale con la torcia. Se si fosse accorto

che tu stavi salendo gli sarebbe bastato attenderti sull'orlo del muro e darti una spintarella. Gli altri non avrebbero pensato che alla sfortuna proprio a un passo dalla meta... Scommessa persa. Ma una volta su non poteva più sbarazzarsi facilmente di te senza mettere in allarme tutto il bar Otello. Chi ha sparato deve avere parecchio sangue freddo.

Locusta ascoltava giocherellando con la cerniera del giubbotto.- Poi, come sei sceso?- Non mi sono fidato a scendere dalla stessa parte. Ho camminato sul

muro di cinta e sono tornato giù da una parte più agevole illuminata dai lampioni della strada.

- Hai detto qualcosa al bar?- Non ho detto nulla. Tutti mi hanno fatto i complimenti per la vincita e

s'è parlato solo di quello. Io ero molto scosso, così ho cominciato a bere fino a sbronzarmi. Mi sono svegliato nel mio letto dodici ore dopo. Non so nemmeno chi mi abbia portato a casa.

Soneri sollevò lo sguardo soddisfatto e incontrò i suoi occhi.- Forse sarebbe meglio che ti trattenessi qui, non credi?Rimase in silenzio. Il commissario era sicuro che avrebbe rifiutato, ma

l'altro, a sorpresa acconsentì.- Conosco bene i vostri divani - aggiunse e a Soneri vennero in mente

tutte le volte che l'aveva arrestato dopo interminabili schermaglie verbali. Anche in questo caso sentì pesargli il ricordo di una gioventù entusiasta.

- E per il furto a casa Romualdi come la mettiamo?- Dica ai giornalisti che è per questo che m'ha fermato.Non parli del delitto - rispose Locusta.

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Capitolo tredicesimo

Esaminò le carte che aveva sottratto al suo inseguitore.Dalla patente risultava che si chiamasse Gianguido Tonetti.Guardò attentamente il documento: pareva autentico.L'agenda telefonica conteneva pochi numeri e accanto a essi non c'era

nessun nome. Tuttavia erano annotati sotto lettere differenti. La pistola era un'arma di scarso valore, mentre il portafogli conteneva cose che nessuno avrebbe immaginato portasse con sé un sicario: un santino di padre Pio, una foto di donna e un piccolo amuleto contenuto in una busta di carta velina.

All'azienda telefonica risalì agli intestatari dei numeri di telefono. C'era quello di Pierre, quello della Financo e quello di Meriudi. I contorni della banda cominciavano a delinearsi.

Ciò che ancora gli sfuggiva era il perché ci fossero anche i numeri di sette aziende cittadine: un paio piuttosto note, le altre quasi sconosciute.

Mise i documenti in una busta che sistemò nella piccola cassaforte a muro. Poi sedette sul divano e venne colto da un fastidioso senso di inedia. La mente immaginò fughe e rischi.

Magari la grande pietra si sarebbe finalmente staccata per cadere su di lui senza preavviso. Ma i delinquenti non erano poi così sagaci come se li era immaginati.

Afferrò la Beretta. Verificò tutti gli automatismi, il caricatore, il carrello, il percussore. Li fece scattare più volte.

Decise quindi di agire subito.Aveva ripassato in successione tutte le mosse. Un'azione spregiudicata,

da vero commando. Amava immaginarsi come un condannato che preferisce sfidare i mitra delle sentinelle piuttosto che attendere il fuoco del plotone d'esecuzione.

Arrivò in via Palestra verso le quattro del pomeriggio.Stazzani sarebbe giunto quarantacinque minuti dopo.Conosceva a memoria il tragitto della Mercedes nera dal cancello

automatico al garage e decise dove si sarebbe appostato.Mezz'ora prima dell'appuntamento, controllò di non essere osservato o

seguito. Poi entrò nell'edificio, scese fino allo scantinato e attese. Quando giunse l'auto di Stazzani, strinse la Beretta tastando la sicura abbassata e il caricatore di riserva.

Udì il motore arrestarsi, la portiera richiudersi e i tacchi sbattere

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ritmicamente sul pavimento. Avvitò il silenziatore e attese. L'ascensore venne chiamato dal mezzanino da cui si dominavano i garage e lui discese con esso. Si sentì trasportare verso un appuntamento inevitabile. Una lieve compressione, l'ascensore si arrestò morbido. Qualche istante ancora e la porta si dischiuse mostrando Stazzani uno spicchio per volta. La pistola fu l'ultima cosa che parve notare nel suo stupore d'uomo pieno di certezze. Ma non ebbe il tempo di inquietarsi perché già Bondan aveva premuto il grilletto e l'arma aveva sparato tre volte.

Stazzani cadde all'indietro sospinto sulla schiena dai colpi. Bondan raccolse la borsa con la tranquillità di un facchino e la sistemò sul sedile anteriore della Mercedes. Poi aprì il baule e vi sistemò il corpo di Stazzani. Quindi salì al terzo piano agli uffici della Financo.

In ascensore rimise nel caricatore i tre colpi esplosi e premette il pulsante.

- Entra senza strillare! - sibilò Bondan all'impiegato sospingendolo dentro l'ufficio. L'altro obbedì tremando.

Premendo con la canna contro la schiena lo indirizzò in una stanza senza telefono che serviva da sala d'aspetto. Lo chiuse dentro e si diresse verso l'ufficio dove lavoravano le tre impiegate. Anche per loro la sorpresa fu così grande che ubbidirono passive muovendosi a passettini da sonnambule. Chiuse anche loro in sala d'aspetto e poté così disporre di almeno un quarto d'ora per rovistare fra i documenti.

Mentre il telefono squillava, afferrò i dischetti del computer: sapeva di trovarvi ciò che cercava. Quindi scese, infilò tutto nella borsa di Stazzani e mise in moto. Fece un giro veloce fino a giungere a due passi dalla questura. Parcheggiò e si allontanò infilando le chiavi della Mercedes nella grata di un tombino.

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Capitolo quattordicesimo

- Juvara! - urlò Soneri senza alzarsi dalla scrivania.L'ispettore comparve riempiendo lo spazio della porta.- Vorrei che facessi accertamenti su alcune persone. Vedi di sapere il

più possibile su William Blackright, Tony Rosetta, Carlo Tolmin e il figlio Giacomo. Per il primo chiama l'Interpol.

Juvara scivolò via com'era comparso. Soneri alzò quindi il telefono e chiamò Macciantelli.

- Voglio un controllo del parco di notte. Manda qualcuno a sorvegliare le entrate, ho l'impressione che ci sia un gran via vai.

Locusta era stato chiaro: la vittima, al momento dell'omicidio, indossava un giubbotto di pelle non il cappotto che gli era stato trovato addosso. Ma perché l'assassino aveva deciso di sbarazzarsi del giubbotto? Le domande rimbalzavano nella sua mente senza approdare a nulla.

Squillò il telefono, era Rollardi.- Quelli delle volanti hanno interrogato i due noleggiatori che hanno

affittato le macchine a Procioni e Furetti. Solo uno ha saputo ricordare con precisione l'uomo a cui ha affidato l'auto: un tipo alto circa un metro e ottanta, snello, senza barba né baffi. Non è granché - concluse il magistrato.

Soneri riattaccò nervoso. Dieci volte era stato convinto di aver trovato la via giusta e poi tutto era sfumato. Rigirò la mazzetta dei giornali con la notizia del fermo di «un indiziato per il delitto del parco». Alcuni scrivevano che si trattava di una svolta nelle indagini e la cosa accrebbe l'irritazione di Soneri.

Faceva scuro. I fari delle volanti mostravano la nebbia galleggiante nell'aria ferma del cortile della questura.

Ubbidendo a un impulso uscì. Passò al Milord e si fece dare da Alceste un involto da picnic con grana stravecchio e culatello.

Quindi si incamminò verso il parco. La porta piccola era ancora aperta e alcuni ritardatari stavano uscendo a passo svelto.

Entrò e si diresse sul prato umido dove non arrivava la luce dei lampioni. Quindi risalì verso i bastioni scalando la scarpata aggrappandosi a gaggie dalla corteccia ispida.

Aveva raggiunto un buon punto d'osservazione. Scorgeva il camper di Blackright, una macchia chiara nella luce gialla del lampione, e anche la casa di Rosetta con il faretto sopra la porta e una sola finestra illuminata.

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Infine, poteva controllare il viottolo d'accesso all'abitazione del custode.Dopo un quarto d'ora si profilò la macchina di Tolmin per il giro di

chiusura. Ritornò e cambiò strada per passare davanti all'ingresso di Rosetta. Lì si arrestò e il custode diede i soliti due colpi di clacson.

Si apprestava a passare una notte in un parco quasi disabitato. Eppure gli pareva che quel mondo protetto da mura, traspirasse un'animazione particolare.

Addentò due scaglie di grana e sentì accendersi in bocca un fuoco sapido, lo stesso calore del sigaro fumato dalla parte della brace. Mise il culatello nella tasca del montgomery: il clima da golena l'avrebbe conservato meglio di una cantina.

Stava decidendo se fare un giro o attendere, quando vide aprirsi la porta di Rosetta. La luce illuminò una parte di cortile all'oscuro e un'ombra lunga si disegnò sulla ghiaia. Ancor prima che uscisse riconobbe Blackright col cappello texano in mano e il consueto aspetto da cowboy.

Indugiò sull'uscio, poi uscì infilandosi il copricapo con un gesto veloce camminando verso il camper. Aprì la porta, si guardò a lungo intorno come un animale dalla tana, quindi richiuse.

Soneri aveva addentato un'altra scaglia e intanto osservava.Tutti, nel parco, si muovevano con circospezione come perennemente in

attesa di qualcosa. Blackright era già tornato dal suo viaggio ed era andato a trovare Rosetta? Forse aveva mangiato da lui?

Si accomodò contro un albero mentre lembi di nebbia scendevano mollemente nel catino del parco scavalcando le mura. Fu in quel momento che scorse qualcuno camminare dai bastioni verso l'ostello. Qualcuno che percorreva il viottolo di casa Tolmin. Si trattava di Giacomo, il figlio più giovane del custode.

Si diresse prima verso l'ostello, poi, dopo aver dato un'occhiata dentro le finestre del pianterreno, puntò sul camper. Una volta di fronte all'uscio, bussò gettando un paio di occhiate intorno, finché Blackright non aprì. La visita non durò più di dieci minuti. Il ragazzo uscì, riattraversò lo spazio illuminato dal lampione, e si reimmerse nella penombra del viottolo.

Soneri fu tentato di seguirlo e bloccarlo a metà della salita.Provò ad allungare il passo per tagliargli la strada, ma una gamba gli si

impigliò nelle ramaglie e rischiò di ruzzolare.Doveva aver fatto rumore, perché il ragazzo si arrestò nel suo cammino

mettendosi in ascolto come una bestia in allarme.Dopo qualche istante ricominciò a camminare più svelto.Si districò dal groviglio solo dopo che l'altro fu scomparso dentro casa.

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Verso mezzanotte Blackright uscì dal camper. Era vestito come quando aveva lasciato la casa di Rosetta, compreso il cappello. Richiuse l'uscio e si incamminò per i vialetti che attraversavano diametralmente la parte bassa del parco.

Decise di seguirlo. Percorse lo spazio aperto vicino all'ostello e il suo passo dinoccolato aveva un che di vagabondo.

Soneri non poteva avvicinarsi se non camminando ai bordi della macchia. Blackright passò di fronte a casa di Rosetta e parve in quel momento che il gestore avesse dischiuso l'uscio per dirgli qualcosa. L'americano si fermò, infatti, un istante, poi proseguì, mentre Rosetta fece scattare il catenaccio.

Il silenzio era profondo nella notte autunnale. Solo un brusio di fondo manifestava l'esistenza della città intorno a quelle mura che custodivano un mondo indipendente, schivo a qualsiasi giurisdizione. Blackright risalì uno dei viottoli che conducevano sui bastioni dov'era il percorso dei podisti.

Appena fu nella penombra, Soneri non lo vide più distintamente, ne intuiva solo i contorni.

Si spostò velocemente al riparo di una fila di abeti: gli alberi erano spogli tranne le ramaglie sempreverdi e le conifere.

L'americano passava ora in uno slargo fiocamente illuminato e Soneri avrebbe dovuto attendere al riparo prima di spostarsi di nuovo. Partì quando l'altro scomparve nel buio ma forse si mosse troppo velocemente. Di nuovo al riparo cercò Blackright con lo sguardo e lo scorse nel punto di prima, nello slargo: guardava verso di lui. Prese il piccolo binocolo da teatro e intercettò uno sguardo febbrile, sospettoso e impaurito.

L'aveva visto? Si fermò appiattendosi il più possibile dietro i cespugli. L'americano si guardava intorno come una sentinella in allarme. Appariva certo che doveva aver notato qualcosa, ma la sua suscettibilità non era normale, nasceva da una paura pregressa. Il silenzio sembrava congelare ogni movimento finché si sentì lontano una sirena e Soneri si ricordò che avrebbe dovuto chiedere a Juvara di scoprire a che ora era uscita l'ambulanza che Locusta aveva detto di aver udito la sera del delitto.

Si spostò leggermente e sentì la pistola nella fondina sotto la giacca. Gli infuse un senso di sicurezza inusuale per Soneri.

Blackright si mosse pigramente. Sembrava averlo preso una sorta di riluttanza. Qualcosa ora lo tratteneva. Alla fine si decise a percorrere il sentiero dei podisti che descriveva un'ansa profonda dentro il bastione. L'avrebbe perso di vista.

Tentò di spostarsi e di usare il binocolo ma l'intreccio dei rami e

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l'oscurità gli impedirono di vedere. Attese allora che l'americano rispuntasse dall'altra parte, ma capiva di perdere così mosse importanti.

Aspettò una decina di minuti. Blackright ricomparve con uno strano passo saltellante. Rallentò solo quando fu sul viale dei bastioni: ma Soneri non capì se quella fretta era dovuta al sollievo di aver compiuto una missione importante o alla paura.

Cosa aveva fatto dentro il bastione? Se lo chiese più volte.C'era andato per cercare qualcosa o si era semplicemente nascosto

perché aveva scorto dei movimenti nel parco? Soneri rimase senza risposta. Nel frattempo l'americano stava rapidamente ridiscendendo verso l'ostello. Si era calcato il cappello sul viso come se si apprestasse a un galoppo. Passò di fronte all'uscio di Rosetta, attese un poco e mentre Soneri si aspettava che quest'ultimo aprisse la porta, il gestore comparve dalla direzione opposta.

I due si incontrarono proprio sotto il lampione. Li vide confabulare e poi l'americano fece un gesto circolare con l'indice e girò lo sguardo tutt'attorno come evocando chissà quale spirito. I due si lasciarono e nel silenzio risuonò ancora il catenaccio dell'uscio di Rosetta. Blackright, invece, si diresse al camper e una volta infilatosi dentro, prima di chiudere, guardò ancora a destra e sinistra sporgendo la testa.

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Capitolo quindicesimo

Avvolse la Beretta nella busta di nylon dopo averla ingrassata e la lasciò cadere nel barilotto dell'aceto balsamico. Poi accese il camino e dispose sopra gli alari i bossoli. Attese fino a quando il calore cominciò a fonderli. La cassa delle pistole era rimasta aperta e ormai vuota. Vide l'ultima della collezione, la più pregiata: la vecchia Mauser, un'arma da guerra di cui conosceva le detonazioni secche e la terribile efficacia.

L'uccisione di Stazzani era un colpo capace di scuotere la città. Si trattava di un finanziere stimato di cui nessuno conosceva la doppia vita. Svuotando la sua valigetta, in cui comparivano rendiconti coi movimenti del denaro occulto e agende con nomi prestigiosi di studi e capitani d'industria, Bondan ne avrebbe ricostruito il lato oscuro, gli affari nascosti da ineccepibili coperture. Ma rimaneva Ridolfi, il cui nome compariva ripetutamente nei promemoria di Stazzani.

Le informazioni contenute nei dischetti gli permisero di ripercorrere la rete di affari sporchi che si celava dietro l'attività della Financo. Sette imprese riciclavano i soldi che provenivano dal commercio della droga, mentre una costellazione di studi forniva i documenti di copertura.

Infilò tutto nella borsa di pelle che apparteneva al finanziere, aprì la cassaforte a muro e ve la sistemò. Si adagiò sul divano deluso d'essere giunto al termine della sua indagine.

La Mauser gli apparve tra i panni con la sua canna lunga e il mirino dritto come una cresta di gallo. Era l'arma degli ufficiali tedeschi. Quella delle esecuzioni sommarie, dell'estrema difesa o della liberazione da troppe angosce.

Riprese dallo scaffale I demoni e si mise a rileggere i dialoghi di Kirillov. Sentiva che per lui, come per il personaggio dostoevskijano, era giunto il momento della stretta finale. Gli restava ormai poco tempo.

Si preparò per uscire. Si sentiva indifferente come poteva esserlo solo un moribondo. Prese la Mauser, la strinse sentendola aderire ad ogni centimetro del palmo come un guanto, quindi la depositò nella fondina interna sotto il giubbotto.

Portò con sé un caricatore di riserva e dei proiettili.Fece alcuni passi verso il cancello dove un lampione proiettava un po' di

luce, ma prima di arrivarvi intravide una macchia scura nel giardino. Un cane morto, un bastardo di mezza stazza che aveva deciso di accasarsi lì scodinzolando ogni volta che lo incrociava. Qualcuno gli aveva calato una

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bastonata in testa.Un fremito nell'ombra dell'argine completò l'intuizione di Bondan. E

appena ebbe coscienza d'essere sotto tiro, si buttò in terra. Vide sul muro scheggiare via le pallottole di rimbalzo lasciando rose incise sull'intonaco. Sparavano con rivoltelle ammutolite dal silenziatore. Colpi smorzati ma secchi.

Impugnò la Mauser e si trascinò verso le scale al riparo: ora sì aveva l'idea dell'ultimo assalto al bunker.

In un istante il fuoco cessò. Nel buio cercava di capire che intenzioni avessero.

Erano almeno tre. Dedusse che cercavano di aggirarlo dagli scalpiccii che provenivano dalla strada. Spostando il tiro l'avrebbero stanato e spinto nel mirino di un sicario appostato.

Non ci pensò che un attimo. Sbucò dal sottoscala con la rapidità di un serpente e cominciò a sparare nell'argine dove li pensava accucciati in una guerra tra ciechi, a tentoni. Corse verso il retro della casa inseguito dai proiettili dei sicari colti di sorpresa. Anche loro tiravano a caso in direzione di passi che sentivano tra la cadenza irregolare dei colpi. Bondan correva e su tutti sentiva l'assolo fragoroso della Mauser a dettare la cadenza. Correva col fiato corto, sparando. Ecco, era in quel momento che avrebbe voluto essere colpito. Si sentiva davvero come un fagiano che cade dal suo cielo per una palla spersa, per una fucilata in aria in una festa di paese. Più per fatalità che per intenzione.

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Capitolo sedicesimo

Soneri arrivò tardi in ufficio, ma benché avesse dormito pochissimo, era di ottimo umore. Percorse fischiettando i corridoi della questura e al suo passaggio, gli agenti si voltarono presi da quell'insolito spettacolo.

Sull'uscio dell'ufficio di Juvara si arrestò e mise la testa dentro: - Senti al pronto soccorso quante ambulanze sono uscite con la sirena la notte del delitto.

L'ispettore annuì e siccome il telefono prese a squillare, gli fece cenno che si sarebbero visti dopo. Prima che arrivasse nella sua stanza, la segretaria lo fermò per alcune firme e in quel mentre arrivò Macciantelli.

- Locusta l'attende da più di un'ora, dice che deve parlarle.Era spettinato e aveva un'aria da notte in bianco.- Non avete più i divani di una volta - esordì l'uomo mentre Soneri

entrava.- I divani sono sempre gli stessi, siamo noi che invecchiamo - rispose

osservando Locusta che si massaggiava la schiena.Erano pensieri che lo infastidivano e per questo ritornò all'indagine.- So che hai chiesto di parlarmi...L'altro chinò leggermente il capo: - C'è una cosa che non ho detto ieri...- Quale?- Quella telefonata, quella anonima.Per un attimo Soneri annaspò nei ricordi: - Quella d'avvertimento?- Proprio. Avevo sentito dire che c'era uno dei vostri in pericolo. Lei sa

che in fondo non sono una cattiva persona...- Lo so. Ma non capisco chi potrebbe essere.Soneri passò in rassegna i possibili bersagli fra gli ispettori gli agenti più

esposti a vendette. E finora non era mai successo che si attentasse a uno dei suoi. Ma la cosa, senza che sapesse perché, lo inquietava e incuriosiva al tempo stesso.

- Hai telefonato dal bar Otello vero?- Sì. E lì che ho sentito quelle voci.- Cosa in particolare?- Beh, parlavano di uno a cui l'avevano giurata e che aveva i giorni

contati.- Chi diceva questo?- Non lo conosco, è un tizio che frequenta raramente il bar: si fa vedere

ogni tanto ma non ci parliamo.

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- Un malavitoso?- Vai a capire. Lei sa com'è il bar Otello: difficile distinguere chi sta da

una parte o dall'altra. L'unica cosa che so è che si tratta di uno che bazzica nel giro delle scommesse.

- Che tipo di scommesse?- Un po' di tutto, cavalli in particolare.- È quello che ha puntato su di te?- No - negò recisamente Locusta - non c'era quella sera.Ripeto, non lo conosco.- L'hai visto almeno in faccia, sai descriverlo?- Un tipo biondo, alto, gran donnaiolo. Ogni volta ne ha una diversa.- Possibile che tu non lo conosca? - sogghignò Soneri accendendosi il

toscano.- Un'altra generazione. Quelli come me ormai sono fuori esercizio.Soneri pensò che era vero. Quando Locusta aveva vent'anni tutti si

dedicavano al furto d'appartamento. Ora era rimasto il solo a praticare se si eccettuava qualche nomade.

Tirò grandi boccate appoggiandosi allo schienale e meditando. Chi poteva essere minacciato? Se così fosse l'avrebbe senza dubbio saputo. Entrò Juvara.

- La sera del delitto sono uscite solo tre ambulanze con la sirena accesa: a mezzanotte e quindici per un infarto nella zona del vescovado, all'una e trenta per un tentato suicidio alla stazione e alle quattro e cinque per un incidente stradale.

- Hai controllato i tragitti? Potevano essere udite dal parco? - chiese Soneri.

- Quella delle quattro e cinque sicuramente, forse anche quella intorno a mezzanotte. L'altra lo escludo, ha percorso strade troppo lontane.

Doveva per forza trattarsi dell'ambulanza delle quattro. Ma Locusta aveva affermato che forse potevano essere le tre, l'ora del delitto.

- Commissario, lei sa come vanno queste cose. Gliel'ho detto: il tempo... Di notte, quando si è in buona compagnia se ne perde la nozione.

- Quindi potevano essere anche le quattro?- Non lo escludo di certo.- Ma sei sicuro di aver visto il corpo contrarsi? Se il delitto è avvenuto

intorno alle tre...- Di quello sono sicuro, non c'è dubbio. E sono sicuro anche che c'era

qualcuno lì intorno. Non dimentichi che sono del mestiere.Era vero. Locusta aveva capacità da sensitivo nel percepire la presenza

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di qualcuno al buio. Una facoltà che gli aveva permesso di sfuggire parecchie volte.

Soneri alzò il telefono: - Pronto, è la medicina legale?Vorrei il dottor Piazzi per favore.Il commissario mise una mano sul ricevitore e si rivolse a Juvara: - È

lui, vero, quello che ha eseguito l'autopsia?L'ispettore assentì col capo mentre dall'altra parte rispondeva il medico.- Buongiorno dottore, la chiamo per il delitto del parco.Nel referto lei ha stabilito intorno alle tre l'ora del decesso, si tratta di

un'ora presumibile o bisogna considerarla certa?Come dice? Una tolleranza di non più di un quarto d'ora?Un'altra domanda dottore: è possibile che, a distanza di un'ora dalla

morte, il corpo possa ancora avere contrazioni? Lei dice che può essere? Ah, specie in un corpo giovane? Come? Accade quasi sempre nelle rimozioni? Non lo sapevo, la ringrazio.

Soneri posò il ricevitore e rimase in silenzio dubbioso.- Penso che tu possa uscire senza pericolo - disse rivolto a Locusta

benché quest'ultimo e Juvara non capissero cosa intendesse dire.- Credo che quelli di cui hai percepito la presenza non fossero gli

assassini - aggiunse poi.- Beh, dopotutto non potevo dormire su questi divani per un mese - disse

Locusta alzandosi.Rimasero soli il commissario e Juvara. Quest'ultimo tirò fuori una

cartelletta che conteneva parecchi appunti.- Ho preso le informazioni che mi aveva chiesto - affermò tirandosi

sotto la sedia e scuotendo il ventre gelatinoso.- La figura più strana appare l'americano, ha qualcosa che non mi

convince.Soneri lo ascoltava fumando e lavorando di mente. Il pensare gli

procurava fame tale e quale passeggiare. Guardò l'orologio: era quasi mezzogiorno, ma Juvara proseguiva imperterrito.

- Ha un cospicuo patrimonio: una casa a Venezia vicino al canal Grande, un appartamento a Firenze, uno a Roma dove vivono occasionalmente suoi connazionali. Quel che non si sa è dove ha trovato i soldi per tutto questo.

- Non fa il maniscalco e lavora le pelli?- Sì, e pare sia anche molto bravo, ma esercita solo saltuariamente da

quel che si sa: due volte al mese se va bene.- Dove?

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- In posti da ricchi. Maneggi in particolare.- Anche lui coi cavalli - buttò lì Soneri.- Oltretutto, dei suoi viaggi non c'è riscontro - aggiunse Juvara.- Come sarebbe a dire non c'è riscontro?- Non si sa dove vada. Non si sa nemmeno se parte davvero o se

sparisce semplicemente.Soneri rimase in silenzio: - E gli altri due?- Rosetta ha conosciuto Blackright a San Francisco dov'era emigrato

anni fa. Il loro legame va al di là dell'amicizia...- Vuoi dire che sono... - fece un cenno unendo i due indici.- Sì, omosessuali - tagliò corto Juvara. - Ma questo ha solo

un'importanza secondaria a mio parere - aggiunse con una sorta di noncuranza. - Quel che conta è che l'americano esercita su Rosetta una netta supremazia. In altre parole, lo tiene in pugno.

Soneri considerò l'atteggiamento sospettoso del gestore, le gelosie con Tolmin a proposito dell'americano: le rivelazioni di Juvara sembravano completare un mosaico di supposizioni.

- Del custode cosa sai?- Lui e la moglie mi paiono una coppia insignificante.Sono ex contadini alla buona con scarsi interessi fuorché il mangiar

bene.- Tutto qui?- C'è un figlio tossico - buttò lì l'ispettore con un pizzico di teatralità.- Da quanto tempo?- Tre anni.- Di cosa si fa?- Eroina.Soneri cercava di valutare l'importanza di quella notizia.Poteva essere rilevante e insignificante al tempo stesso.- Sai dove si rifornisce?- E' questo che incuriosisce - disse Juvara con un sorrisetto. - L'abbiamo

pedinato, ma non risulta conosciuto dai principali spacciatori cittadini.- Avrà altri giri.Juvara non appariva granché convinto. Approfondiremo - si limitò a dire

con un'espressione da cui traspariva scetticismo.- E l'altro figlio di Tolmin?- Si sa poco o nulla. Viaggia e viene raramente a trovare i genitori.Squillò il telefono: era Rollardi. Chiedeva di poter parlare con Soneri e

si diedero appuntamento a pranzo.

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- Al Milord-disse il commissario e dovette spiegare al magistrato la sua allergia alle tavole fredde.

- Vieni anche tu Juvara?L'ispettore lo guardò quasi con astio: da due settimane era a dieta.- A proposito - disse quest'ultimo - Blackright è un ottimo cuoco, lo

sapeva?Fu a quel punto che si ricordò dell'orata cucinata dall'americano.- Un motivo in più per non fidarsi, constatò Soneri, controlla i suoi

spostamenti, cerca di capire che giri ha.Prima di uscire chiamò Macciantelli: - Hai il rapporto di stanotte?- Sì, ma dice ben poco - rispose l'ispettore.- Non s'è visto nessuno?- Nessuno. Entrambe le entrate del parco sono rimaste chiuse. Solo

qualche coppietta nelle vie intorno.- Continuate a sorvegliare - ordinò Soneri - prima o poi credo che

succederà qualcosa.Rollardi sembrava imbarazzato di fronte ad Alceste. Si sarebbe detto

che in vita sua non avesse mangiato che alla mensa universitaria.Soneri, invece, aveva fame avendo saltato la cena della sera prima. E

prevedendo di saltarne un'altra, ordinò un piatto di tortelli di zucca. Rollardi fece lo stesso soggiogato dalla conoscenza gastronomica del commissario. Poi dovette confessare di essere astemio quando Soneri chiese un gutturnio fermo in previsione di un piatto di ossibuchi con crocchette.

- Gli astemi non sono dei buoni investigatori - tagliò corto il commissario. - Per capire la realtà a volte è indispensabile alterarne un po' i confini. E allora il vino...

Rollardi lo osservò arrossendo leggermente, forse per vergogna, forse un po' stupito.

- Questi delitti... - cominciò a dire il magistrato cambiando discorso. - Passano per regolamenti di conti, ma i nostri informatori non ne sanno nulla. Anche il capo della sezione narcotici è apparso perplesso.

- Chi, Marieddu?- Dice che si tratta di omicidi all'apparenza immotivati. C'è una sola

organizzazione che controlla lo spaccio senza infiltrazioni di altre bande. E poi ci sono le auto prese a noleggio, come nel caso del delitto Spataro, e uno che dà falsi nomi che appaiono inventati apposta: Procioni, Furetti...

- I sicari usano sempre la stessa arma: è un mestiere rischioso e bisogna fidarsi di quel che si maneggia - avvertì in modo un po' troppo professorale

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Soneri.- Due pistole differenti, è vero... - mormorava meditando Rollardi

mentre il commissario osservava con un sorrisetto il piatto di verdure alla griglia del magistrato.

- Tuttavia l'identikit di chi ha noleggiato le macchine è stato riconosciuto nei due autosaloni...

Soneri continuava a mangiare e sentiva crescergli dentro un certo fastidio nei confronti dell'argomento. Non erano casi suoi quelli, ne aveva abbastanza del delitto nel parco. Ma l'andamento per ipotesi dei ragionamenti del giovane sostituto procuratore aveva finito per istillargli un dubbio in più.

E poi non si poteva escludere nulla.- So che sta indagando sugli abitanti del parco - disse Rollardi.

– Sì, di questo volevo informarla - rispose Soneri sollevato di poter cambiare ragionamento. - Sto vagliando le posizioni di tutti. Ci sono cose poco chiare, ma per ora si tratta ancora di sospetti, nient'altro.

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Capitolo diciassettesimo

Diede un colpo al vetro dalla parte del guidatore col calcio della Mauser. Lo sportello si aprì e Bondan cominciò a collegare i fili sotto il cruscotto. Pochi istanti dopo si trovò al volante di un'auto popolata di oggetti che richiamavano un'intimità a lui estranea. Guidava veloce nella notte, dominato dall'adrenalina. I fari si incrociavano sfavillando ma i due anabbaglianti che lo seguivano da alcuni minuti non si spostavano come dipinti su un fondale.

Ecco di nuovo l'azione, ciò che preferiva e che cercava: una specie di anestetico che addormentava solo i pensieri.

Non rifletteva, calcolava. Il suo comportamento era ridotto a una specie di istinto geometrico. Non pensava nemmeno più a morire.

Destra, sinistra, stridori di gomme per allontanare i fari che si ostinavano a non più di dieci metri dal suo paraurti. A un tratto un rumore secco come una sassata lanciata contro la carrozzeria. Poi ancora un urto, questa volta con l'accompagnamento di un vetro che si frantuma. Gli sparavano approfittando di un rettilineo in cui le auto viaggiavano nella stessa traiettoria.

Bondan diede colpi di sterzo da una parte e dall'altra per non offrire un bersaglio fisso. Gli sembrava di udire il sibilo dei proiettili ma forse era l'aria che sfrigolava da qualche angolo ammaccato. Davanti aveva urtato qualcosa. Si vedeva solo il cofano rialzato.

Il viale era lungo e rettilineo. Aveva fatto un errore a imboccarlo offrendo così un vantaggio agli inseguitori che avevano un motore più potente.

Un'altra decisione lucida e improvvisa: impugnò la Mauser e se la depose in grembo, si spostò a sinistra sulla carreggiata e quando intravide interrompersi lo spartitraffico, frenò strisciando le gomme sull'asfalto e girò invertendo la marcia.

La manovra era riuscita. La macchina gli parve un cavallo che scarta di lato trattenuto a forza di redini. Ma fu solo un momento: l'auto di Bondan si trovò nel controviale, mentre quella che l'inseguiva doveva ancora effettuare il mezzo giro per invertire la marcia. Erano quasi parallele come in un tornante. Bondan afferrò la Mauser e tese il braccio fuori dal finestrino. Non contò le volte che premette il grilletto, vide solo altre auto spostarsi bruscamente e dietro il buio: finalmente il buio.

Li aveva colpiti? O aveva semplicemente fatto perdere loro il controllo

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della macchina? Lo specchietto gli aveva mostrato solo uno sventolio di fari beccheggiante. Rallentò fino a marciare come un qualsiasi automobilista serale. Ma sapeva che quell'auto sarebbe stata presto ricercata: doveva abbandonarla.

Quando scese si sentì improvvisamente calmo. Passeggiò a lungo nelle strade della periferia che riconobbe per avervi abitato qualche mese tempo prima. Poi imboccò una via alberata che conduceva in centro. Pensava che anche questa volta un'occasione era stata mancata. Eppure poco prima aveva volato come un fagiano: era stata questione di centimetri.

Poi allontanò da sé il pensiero della morte trasferendolo su Pierre. Ora era lui a dover morire perché ultimo custode del ricordo di quel suo sbaglio di tanti anni prima.

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Capitolo diciottesimo

Dentro il parco faceva già scuro benché il sole galleggiasse ancora sul profilo frastagliato dei tetti. Da lontano, Soneri vide le braci di un fuoco nel campeggio: Blackright stava cucinando con la carbonella. Mentre si avvicinava, nella penombra tra gli alberi, il commissario sentiva i crepitii del fuoco e l'odore della carne abbrustolita.

- Scottadito di agnello.L'americano si voltò di scatto come se avesse udito un ringhio. Ma il suo

viso si distese nello spazio di un attimo: - Non l'ho sentita arrivare - si scusò.

- La sua cucina si mantiene raffinata vedo.- Un piatto facile - minimizzò Blackright porgendo un pezzo di carne a

Soneri.Mangiò: la polpa si staccava perfettamente dall'osso e possedeva

un'invitante fragranza di spezie.- E' così abile anche nel maneggiare zoccoli?- Me la cavo - rispose l'americano mostrandosi di colpo infastidito.- Dove va in questo periodo?- Sono stato alcuni giorni in un maneggio vicino a Firenze e domani

riparto per Venezia.In quell'istante Soneri sentì dei passi al di là della siepe che delimitava il

campeggio. Scostò le frasche di lauro e vide Rosetta che si dirigeva verso l'ostello. Allo scuro risaltò una bendatura candida che sporgeva dalla manica del maglione. Gli parve che avesse anche un braccio sorretto da un grande foulard appeso al collo.

- Cos'è capitato a Rosetta? - chiese Soneri.- E chi lo sa. Sarà caduto dalle scale. Perché lo chiede a me?- So che vi conoscete molto bene...- Beh, io non gli ho ancora parlato da quando sono tornato - tagliò corto

Blackright di nuovo infastidito - piuttosto, vuole favorire?Soneri osservò le costolette abbrustolite e il barolo che l'americano

aveva appena stappato, ma sentì arrivare l'auto di Tolmin per il solito giro di chiusura.

- Purtroppo non posso - disse - buon viaggio domani aggiunse dirigendosi lungo i vialetti prima che il custode lo scorgesse.

Si appostò sul bastione dirimpetto al campeggio: avrebbe trascorso lì la sua seconda notte di veglia.

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Il parco era completamente deserto quando Tolmin ripassò con l'auto al minimo. Come tutte le sere si arrestò di fronte all'ostello e suonò il clacson per poi risalire verso casa. Il commissario udì il motore dell'utilitaria arrestarsi dietro gli alberi e osservò il catino più in basso coi pochi lampioni accesi nella spessa oscurità autunnale. Nel profondo di quel buio, come dentro la cavità di un vulcano morente, le braci rossocupe di Blackright.

Aveva bisogno urgente di telefonare. Scese cautamente verso l'entrata secondaria dov'era una cabina.

- Sei tu Macciantelli? Hai messo gli uomini nel solito posto? Domattina presto di' loro che controllino se esce l'americano, sai quello del camper? Metti anche qualcuno di guardia alla stazione, voglio sapere a che ora parte e con quale treno.

S'incamminò di nuovo lambendo la porta senza rete di un campo da calcio, quando sentì avvicinarsi un passo pesante.

Scivolò dietro agli arbusti come dovesse tendere un agguato e vide spuntare Tolmin che si dirigeva verso l'entrata secondaria.

Si scorgeva la sua sagoma massiccia e la brace della sigaretta ondeggiare con la stessa cadenza dell'andatura.

Il custode arrivò al portone, estrasse un mazzo di chiavi, aprì la serratura della porta piccola e l'accostò. Quindi si appoggiò con la spalla allo stipite e finì tranquillamente di fumare la sigaretta.

Nel buio della volta Tolmin si scorgeva appena, soprattutto grazie alla lunula bianca sottopancia lasciata scoperta dal maglione e dal giubbotto. Si accese un'altra sigaretta e il cerino gli illuminò fiocamente il viso. Soneri, invece, aveva rivolto il sigaro mettendo la brace in bocca finché non si fosse spenta.

L'attesa durò quasi mezz'ora nel corso della quale Tolmin era rimasto immobile accanto alla porta. Poi, improvvisamente, quest'ultima si spalancò come per un colpo di vento e il vano venne illuminato dalla luce della strada. Un uomo di statura media, piuttosto tarchiato, entrò con un fare così deciso che contrastava con l'atmosfera di circospezione che regnava nel parco. Quindi si diresse con sicurezza verso il campeggio. Soneri avrebbe giurato che i due non si erano scambiati nemmeno una parola. Tolmin seguiva l'altro con aria dimessa, quasi in soggezione. Finché, arrivati a un certo punto, il custode risalì in direzione di casa e l'uomo puntò invece verso il camper di Blackright.

L'americano gli aprì e l'altro passò dalla porta mettendosi di fianco. Poi ritornò il silenzio e l'immobilità assoluta.

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Soneri riaccese il sigaro: di tanto in tanto pescava da un involto scaglie di grana stravecchio. Per un po' non accadde nulla se si eccettuava uno strano andirivieni di luci nell'ostello: pareva che Rosetta salisse e scendesse precipitosamente le scale da un piano all'altro passando di stanza in stanza.

Finalmente lo scatto dell'uscio e dal camper, con lo stesso piglio padronale di quand'era arrivato, scese l'uomo. Giunto a metà del viale, gli si accodò Tolmin misteriosamente comparso dalla vegetazione. Il visitatore venne riaccompagnato all'uscita secondaria e il custode risalì di nuovo il bastione.

Un quarto d'ora dopo, Rosetta spuntò e si diresse verso il campeggio. Quasi simultaneamente, anche Blackright uscì e i due si incontrarono a metà strada proprio sotto al lampione che ne illuminava i profili. Soneri vide così chiaramente il gestore e notò che era ferito al braccio. Confabularono per un po' e l'americano appariva nervoso. Parlava gesticolando così platealmente che pareva appena scampato a un pericolo.

Ma Soneri non udiva nulla di quel che diceva.A un certo punto i due si divisero. Blackright si diresse dalla stessa parte

della notte precedente, mentre Rosetta s'avviò dal lato del commissario. Soneri dovette così spostarsi verso l'interno del bastione mentre Rosetta si avvicinava con passo titubante. Percorreva alcuni metri e poi si fermava, osservava l'oscurità intorno e ascoltava. Quindi proseguiva sul sentiero battuto di giorno dai podisti.

Soneri era passato al di là della staccionata che precedeva di poco lo strapiombo delle mura. Si guardò intorno e scoprì che si trattava dello stesso luogo del delitto. Un metro dietro di sé aveva l'orlo del muro e se si fosse affacciato avrebbe scorto tra gli alberi l'edificio del bar Otello. Davanti, invece, c'era quella strana figura un po' sinistra che procedeva lentamente con un braccio solo disteso lungo il corpo e l'altro invisibile ripiegato contro il busto.

L'aveva a una decina di metri. Il profilo di Rosetta, il suo naso lungo e appuntito come un becco di picchio, risaltavano scuri contro il cielo irraggiato dalle luci della città. L'uomo stette fermo per lunghissimi istanti. Che avesse udito qualcosa o intuito la presenza di Soneri? Poi, con una decisione repentina, si accostò a un ceppo, si chinò e estrasse un involto di nylon che intascò rapidamente dileguandosi lungo il percorso da cui era venuto.

Soneri si accostò al ceppo e notò che aveva una cavità.L'interno era liscio e sembrava scavato apposta. Quando tornò verso il

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campeggio, riuscì a scorgere Rosetta che camminava già sulla ghiaia del cortile. Lo udì entrare e chiudere l'uscio col chiavistello. Attese una decina di minuti e vide spuntare Blackright dall'altra parte. Camminava tranquillo. Attraversò il campeggio buio dove aleggiava ancora l'odore della carbonella e si eclissò nel camper.

Il mattino successivo Soneri fu svegliato poco prima di mezzogiorno da una telefonata. Macciantelli era ansioso di comunicargli le sue scoperte: Blackright era uscito dal parco alle sette meno un quarto prima dell'apertura dei portoni e un agente l'aveva seguito. Non si era diretto alla stazione, ma aveva gironzolato in città prima di entrare in un palazzo di via Garibaldi da cui non era stato più visto uscire.

- E' chiaro che l'ha seminato - tagliò corto Soneri - avete notato qualcos'altro?

- Tre quarti d'ora dopo la chiusura si è presentato un tizio all'ingresso secondario: è entrato uscendo un'ora più tardi.

- Lo so. Sapete chi può essere?- Siamo riusciti a fotografarlo e a prendere il numero di targa dell'auto: è

intestata alla finanziaria Financo.Il commissario tacque per qualche secondo: aveva già sentito parlare

della società ma non ricordava in che circostanza.- Continuate a seguire gli spostamenti dell'americano ordinò - e

preparati a passare una notte in bianco nascosto nel parco.Subito dopo chiamò Juvara. - Conosci la Financo?- È una società finanziaria - rispose prontamente l'ispettore.- Malavitosa?- Sospetti, nessuna prova.- Prendi informazioni, ho idea che non si occupi solo di finanza.- Anch'io lo penso specie dopo quel che si è saputo stamattina.- Cosa? - domandò Soneri incuriosito.- Stazzani, il titolare della Financo, è scomparso da giorni.- C'è una denuncia dei famigliari?- Macché, la cosa è piuttosto strana: l'abbiamo saputo da una soffiata.- Di chi?- Un informatore che bazzica nell'ambiente delle scommesse. Pare che

un tizio armato si sia presentato negli uffici della Financo, abbia rinchiuso gli impiegati in uno sgabuzzino e abbia portato via tutta la documentazione.

- E si è portato via anche Stazzani.- Non si sa. Sta di fatto che nello stesso giorno è sparito.

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Alle tredici ha pranzato con alcuni clienti, nel pomeriggio ha presenziato a un consiglio di amministrazione e poi più nulla: in ufficio, dove passa sempre verso le diciassette e trenta, non si è mai visto.

- Strano - borbottò Soneri - guarda caso, proprio stanotte, un tizio che ha a che fare con la finanziaria, è entrato nel parco come avesse un appuntamento. Quando è sparito Stazzani?

- Esattamente dieci giorni fa, ma si è saputo solo oggi.Fece il calcolo a ritroso: la scomparsa era antecedente il delitto.Riagganciò, ma dopo pochi minuti richiamò Macciantelli.- Manda un paio di uomini dentro il parco a controllare quel che accade

di giorno sui bastioni. Senza dare nell'occhio, mi raccomando. Fate caso se qualcuno prende o nasconde qualcosa da qualche parte.

Dopo aver impartito questi ordini si accorse di essere ancora in pigiama. Si preparò con cura e sentì tuttavia una certa pesantezza per le due notti insonni. Quando si fu vestito, infilò il montgomery e osservò l'orologio: era giusto l'ora di pranzo.

Appena seduto al Milord, si ricordò degli scottadito di Blackright e ordinò quindi delle costolette alla griglia con un contorno di pomodori ripieni alla provenzale. Quando Alceste gli stappò il barolo per l'assaggio gli sembrò di vedere l'americano nel suo camper circondato dal pellame e dall'odore della concia come un pioniere. Era possibile bere un barolo in un ambiente simile?

Dopo il secondo bicchiere il commissario cominciò a riflettere meglio, il vino funzionava come un lubrificante. Un uomo era stato ucciso verso le tre in un parco con una pistola di grosso calibro che l'aveva reso irriconoscibile. Al momento del delitto erano presenti nel parco stesso solo quattro persone, cinque con la vittima, sei se l'assassino non era uno che abitava fra quelle mura: il custode con la moglie, il gestore del campeggio e uno strano ospite, un americano da tempo in Italia. Più tardi era arrivato Giacomo, il figlio minore del custode. Non si sa chi è l'assassinato, ma qualcuno, oltre un'ora dopo il delitto, spoglia il morto del giubbotto di pelle, elimina le iniziali dalla camicia, toglie le etichette dai vestiti e si prende i documenti. Poi riveste il morto con un cappotto color cammello.

Questi i fatti, pensava il commissario segnandosi il tutto su un taccuino. E intorno una girandola di strani movimenti: l'americano che vive in un camper e racconta di singolari viaggi, probabilmente mai compiuti, fra maneggi e cavalli. Un gestore di campeggio suo amante che cammina di notte. Un ambiguo personaggio che entra a ore insolite nel parco, con la complicità del custode, dopo essere sceso da un'auto intestata a una società

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il cui titolare è scomparso nel nulla da dieci giorni. E poi l'ombra di delitti pregressi, tutti compiuti con pistole diverse ma stranamente ricorrenti per un particolare, un'atmosfera, una circostanza apparentemente insignificante.

Un altro sorso di barolo. Alceste comparve porgendo un assaggio di pesto di cavallo al ginepro. I cavalli, ecco una pista trascurata, pensa Soneri. Chi scommette su Locusta è un tizio che punta sui cavalli, chi entra nel parco di notte bazzica anch'egli negli ippodromi e Blackright mette ferri sotto gli zoccoli e cuce finimenti.

Meditando, il commissario attende però che accada qualcosa. Qualcosa che si immagina debba succedere quel pomeriggio.

Ordina una crepes suzette e un bicchiere di chablis e si mette a mangiarla adagio tagliando la pasta con l'orlo del cucchiaio. E quando ha quasi finito, ecco che Alceste lo chiama al telefono.

- Abbiamo visto tutto - spiega Macciantelli con aria concitata.- In che zona?- In quella dov'è avvenuto il delitto, sotto un ceppo.- Chi è stato?- Un tizio che passava di corsa. Si è fermato, ha fatto finta di allacciarsi

una stringa e ha infilato il pacchetto.- Nient'altro?- No. Cosa faccio?- Lascia qualcuno fino all'ora di chiusura e vieni via.Stanotte avremo del lavoro. Di' ai tuoi che non intervengano, che

osservino e basta.

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Capitolo diciannovesimo

Chi poteva garantirgli che Pierre non avesse già spifferato tutto ai suoi nuovi complici? Doveva continuare a inseguire altri oltre a lui, ammesso che non finisse in un agguato?

Oppure doveva tornare a fuggire, scomparire, aggiungersi al lungo elenco di persone inghiottite dal nulla in qualche angolo di mondo?

E poi, perché si ostinavano a ricattarlo con una pervicacia così costante nel tempo? Cosa volevano da lui? Che tornasse a lavorare per loro approfittando della posizione in cui si trovava ora?

Camminava lungo le strade di una città semideserta nella notte feriale d'autunno. Si accorse di aver imboccato il viale che portava alla stazione ferroviaria, lo stesso della sera in cui aveva ucciso Meriudi. Allora cambiò tragitto ma ormai percepiva l'inutilità di tutte quelle precauzioni. Il nemico era una tenia che si riproduceva all'infinito e la sua compromissione non gli pareva un debito saldabile né col tempo né con le armi.

Fu a quel punto che li vide. Un'auto chiara con quattro persone dentro. Viaggiava lentamente lungo il viale: cercavano sicuramente lui. Quegli occhi che scrutavano i marciapiedi sotto gli alberi l'incalzavano con un'ansietà di morte.

Gli furono quasi a ridosso, non gli restò che saltare un cancello, correre in discesa lungo un cortile buio, arrampicarsi sopra una rimessa e sperare di trovare dall'altra parte un passaggio sicuro. Quando giunse sul tetto dei garage, sentì uno scalpiccìo sull'asfalto e da quello comprese che lo stavano inseguendo. Intravide lo scheletro di un albero oltre il muro e lo puntò. Un salto, un brevissimo senso di vuoto precipitando e infine un atterraggio soffice tra i radicchi appassiti di un orto.

Un'altra corsa, un altro cancello, la strada e un viottolo inghiaiato a fianco di una costruzione bassa, forse un asilo.

Ecco, improvvisamente, le luci sulla facciata di quello che poteva apparire un cinema. Poi, di colpo, si ricordò adocchiando l'indicazione della via Torleone: era l'agenzia ippica.

Si voltò, non vide nessuno, ma sapeva che presto sarebbero arrivati: erano troppo determinati per demordere. E intuiva anche che non c'era luogo più sicuro di un posto che non si vuol compromettere. Non gli avrebbero mai sparato lì dentro rischiando di attirare l'attenzione dei poliziotti su un locale dove si riciclava il denaro. Lo sapeva Bondan che aveva studiato la contabilità di Stazzani e Pierre.

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Attraversò allora la strada, percorse di corsa il piazzale ed entrò nell'agenzia. C'erano una ventina di televisori che trasmettevano corse. A sinistra un banco con qualche avventore, pochi tavolini pieni di scommettitori e una piccola platea di frequentatori abituali che di tanto in tanto si alzava per puntare. Non si accorsero nemmeno dell'arrivo di Bondan. Lui rimase sulla soglia, dalla parte interna alla vetrata ad attendere i suoi inseguitori.

Quando arrivarono e lo videro, scesero dall'auto guardinghi. Lui estrasse la Mauser e fece l'atto di inserire il colpo in canna. Allora, uno dei sicari accennò agli altri di fermarsi.

Bondan girò la pistola verso l'interno e si inoltrò oltre la soglia per non farsi vedere da quelli dentro. Quello che aveva ordinato lo stop girò lo sguardo in direzione dei compagni. Certo si dissero qualcosa, poi ritornarono sui loro passi e salirono in auto. Bondan sentì le portiere chiudersi e il motore ripartire allontanandosi. Lui rientrò come un avventore qualsiasi, si avvicinò al banco e ordinò un caffè.

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Capitolo ventesimo

Macciantelli arrivò verso mezzogiorno. Aveva i vestiti spiegazzati e l'aria malandata di chi ha molto atteso all'umido.

- Stanotte è persino piovuto - si lamentò.Soneri ordinò due bicchieri di novello: - Per tirarti su disse con lieve

ironia.- C'è stato movimento? - domandò poi facendosi di colpo serio.- Un bel giro. Non si dorme granché nel parco.- E si spara anche - aggiunse Soneri. - Le solite passeggiate per i

bastioni?- Sì, verso mezzanotte. L'americano e Rosetta hanno ritirato due

pacchetti. Droga, sicuro.- Eroina e cocaina purissime. I laboratori hanno concluso le analisi

stamattina.- Un affare di miliardi - constatò Macciantelli trangugiando d'un colpo il

vino.- Blackright e Rosetta sono usciti assieme?- No, prima l'americano, poi l'altro. Nell'ostello, verso la mezzanotte,

pareva esserci un gran via vai: le luci si accendevano in continuazione prima a un piano e poi all'altro come se qualcuno andasse di corsa su e giù dalle scale.

- Non c'erano altri, oltre al gestore?- No. Dal momento in cui il custode ha chiuso non è entrato né uscito

nessuno.Soneri fece un breve calcolo: la prima volta i portoni erano rimasti

chiusi tutta la notte. La seconda volta era entrato l'uomo tarchiato e la terza di nuovo non era comparsa anima viva.

Le misteriose visite dovevano essere a giorni alterni.- Hanno ritirato la merce?- Sì. Avevamo controllato i nascondigli e c'erano i soliti pacchetti. Poi li

hanno presi. Pensavo che fosse finita, ma verso le tre Rosetta è uscito di nuovo e si è percorso da solo gran parte del parco. Alla fine abbiamo ricontrollato e c'erano degli altri involti.

- Hai capito come funziona, no?- Credo di sì. E nel parco che lavorano la merce.- Un meccanismo ingegnoso quanto semplice - considerò Soneri.- Resta da capire cosa c'entra con il delitto - disse Macciantelli.

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Era la stessa cosa che stava pensando Soneri. Di nuovo si trovò di fronte l'oscurità ostile di quel caso difficile sul cui sfondo si agitavano i vari personaggi come ombre cinesi.

- Ordina ai tuoi di non abbandonare la sorveglianza.Pedinate l'americano: bisogna scoprire dove va di giorno.Juvara l'attendeva da un po'. Si alzò dal tavolo muovendo il grosso

corpo lievemente appassito dalla dieta e lo seguì.- Bella società questa Financo - esordì aprendo una delle sue cartelle. - Il

solito gioco delle scatole cinesi: la capostipite controlla una decina di aziende intestate a personaggi che hanno l'aria di essere dei semplici prestanome.

Soneri ascoltava con interesse fumando il sigaro e appoggiandosi con tutta la schiena alla poltrona. Riusciva sempre a capire dalla premessa se Juvara aveva scoperto qualcosa di grosso.

- La controllata più importante è la Elledue che lavora nel settore edile...Il commissario si rizzò posando i gomiti sulla scrivania: Ho già sentito

questo nome...Aprì il fascicolo e sfogliò finché non trovò Riccardo Tolmin, il figlio

maggiore del custode, quello che non si faceva mai vedere: risultava impiegato alla Elledue.

- Poi c'è la Pegaso... - continuò Juvara troncando a metà i ragionamenti di Soneri.

Questa volta il nome non gli suggeriva nulla.- Pegaso controlla l'ippodromo e l'agenzia ippica di via Torleone -

suggerì Juvara.Ecco che tornavano i cavalli. Prima o poi doveva decidersi a indagare in

quel mondo. - E le altre società?- Poca roba e di scarso interesse. Alcune sono vive solo di nome, ma

praticamente inattive. Credo che la capostipite se ne serva per operazioni di comodo.

- Bene - disse Soneri alzandosi - tutta questa girandola ci spiega un bel po' di cose. E poi, con un tono lievemente canzonatorio: - Sei sempre a dieta?

Juvara lo osservò torvo immaginando il pasto del commissario e se ne andò silenzioso sulle suole di para.

Ma Soneri non si diresse verso il Milord. Prese per i borghi dove soffiava una nebbia che bagnava il montgomery e faceva sfrigolare il sigaro. Dieci minuti dopo spingeva la vecchia porta a vetri del bar Otello dove stagnava a mezz'aria uno strato di fumo azzurrino mescola di decine

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di tabacchi.Salutò la Rossa che rispose con un cenno diffidente mentre asciugava i

bicchieri. Ordinò una birra, la prese e si inoltrò nella sala alla ricerca di un posto per sedere. Locusta comparve dietro alcuni avventori in piedi. Era seduto al tavolino d'angolo e sbirciava pigramente quattro giocatori di ramino.

- Rieccoci - esordì il commissario.- Non mi porterà cattive notizie?- No. Mi interessa quel tipo biondo e donnaiolo di cui mi parlavi.Locusta si fece serio. - Non mi sembra il posto adatto per queste

domande. Comunque non so nulla: non lo conosco.- Chi lo conosce qui dentro?- Forse la Rossa. Sarà stata certamente una delle sue donne.Gli avventori passavano vicino al commissario lanciandogli occhiate

diffidenti. Spesso, per via del mestiere, gli era capitato di sentirsi un intruso, ma mai come in quel bar. Una patina impermeabile sembrava ricoprire il luogo e le persone che lo abitavano.

Passò l'ubriaco a cui aveva pagato da bere e fece finta di non conoscerlo. Allora Soneri accennò ad alzarsi, ma Locusta lo trattenne per un braccio.

- Tre giorni fa, qualcuno ha scavalcato il muro dalla parte più agevole ed è entrato nel parco di notte.

Il commissario si risedette adagio: - Sai chi?- No, ma deve trattarsi di qualcosa di grosso. Intendo dire non certo una

scommessa come nel mio caso. Chi è entrato l'ha fatto per un motivo molto importante.

Tre notti fa. Si trattava della prima veglia tra le frasche di Soneri ma l'intruso gli era sfuggito. Troppe cose gli sfuggivano del parco. Per esempio quella strana agitazione che pervadeva l'ostello col buio come vi abitasse una scolaresca intera.

E poi l'infortunio di Rosetta.Ma se tutti entravano con la complicità di Tolmin, che bisogno c'era di

scavalcare le mura? Soneri si alzò e si recò al telefono in fondo alla sala.- Mi passi Macciantelli. Ah, dorme? Allora Juvara. Senti, ho bisogno di

un altro controllo... Chiama i posti di polizia degli ospedali e vedi se Rosetta s'è fatto medicare nei giorni scorsi. Nel caso non si trovasse nulla, verifica negli studi privati.

Si risedette e Locusta gli sibilò all'orecchio che doveva andarsene. La polizia veniva spesso per interrogare qualcuno, ma un colloquio oltre i dieci minuti sarebbe stato interpretato come una confidenza.

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Osservò l'altro muoversi tra i tavoli: il suo corpo appariva ancora agile ma senza più guizzi. Si alzò allora e si diresse al banco. Gli avventori sembravano negare persino la sua esistenza e non giravano mai gli occhi verso di lui. La Rossa, invece, fu costretta a guardarlo perché le si piantò davanti fissandola.

- Vuole ancora da bere?- Sì, una piccola. Conosce Pierre?- Ricomincia? - sbuffò la donna.- È il mio mestiere fare domande.- Sì, lo conosco.- Viene spesso?- No, raramente. Ha altri giri lui - aggiunse la Rossa.Gli era parso di cogliere una punta d'astio, l'orgoglio ferito delle donne

lasciate.- Certo lui è ricco... - disse apposta Soneri.- Sì, è ricco - ripeté la donna astiosa - ne può cambiare una alla

settimana.- Tuttavia non si è dimenticato di lei...La donna fece un gesto per dire che non gliene fregava niente.- Allora viene per altri motivi?Sembrò che il suo orgoglio sanguinasse: - Certo che viene per altri

motivi, altrimenti non si porterebbe dietro tutte quelle puttanelle.Era rabbiosa adesso e Soneri ne approfittò immediatamente: - Quali

sono gli altri motivi?La Rossa alzò dapprima le spalle, ma la collera la tradì e non resistette

al desiderio di fare un dispetto all'uomo di cui era stata amante.- Scommesse - sbottò.- Che genere di scommesse?- Oh, di tutto: cavalli, automobili, calcio... Lui ha sempre vissuto

d'azzardo. Ma si tratta di fatti privati, il locale non c'entra. È che lui dà appuntamento qui agli scommettitori.

- Perché qui e non nel suo locale?- Glielo chieda. Forse è un posto più comodo... Sa cosa intendo dire...

Qui la gente si fa i fatti suoi e lui sa di non avere nemici.- Perché è temuto?- Anche per quello. E poi perché è sempre prodigo con tutti: c'è un

mucchio di spiantati bastonati dalla vita e dalla polizia.- Viene solo?- Le ho detto: ha sempre qualche freschetta a far moine e degli amici.

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- Gli stessi ogni volta?- No. Spesso ci sono facce nuove.- Quand'è stata l'ultima volta che è venuto?- Tre sere fa.- Fino a che ora s'è trattenuto?- Saranno state le quattro. Dopo una certa ora tiro giù la saracinesca ma

chi è dentro può restare: non è vietato.- Tre sere fa era con amici?- Una brunetta tutta scosciata e due uomini giovani. Ma a un certo punto

della serata i due se ne sono andati.- Che ora era?- Mi pare le due.- E la ragazza?- È rimasta accanto a lui fino alle tre, poi s'è fatta dare le chiavi della

macchina e se n'è andata anche lei.- Com'è rincasato?La Rossa sbuffò: - Le ho già detto una volta che non faccio la balia a

nessuno: cosa vuole che ne sappia! Lo chieda a quella brunetta!Raggiunse il Milord e l'avvertirono che Juvara aveva chiamato due

volte.- Capo, Rosetta s'è fatto medicare in un ambulatorio privato due giorni

fa e successivamente s'è recato all'ospedale per una lastra al braccio.- S'è capito che razza di ferita sia?- Una botta molto forte all'omero e al gomito, ma niente coltelli o spari.Poteva avere ragione Blackright nel dire che forse era caduto dalle

scale... - Bene, avverti anche Macciantelli.Al Milord ordinò anolini in brodo e una bottiglia di bonarda per

prepararsi a un pomeriggio grigio e umido.Immaginava Rosetta nella cucina dell'ostello mangiare con la mano

sinistra a fatica, un cucchiaio dopo l'altro. O forse c'era il suo amante americano a imboccarlo?

Macciantelli, al telefono, tolse di mezzo questa ipotesi: - Stamattina è uscito alla solita ora e l'abbiamo seguito. E entrato nel palazzo di via Garibaldi, ha infilato il corridoio del cortile interno ed è sparito dentro un magazzino di calzoleria.

- Quello che dà su via Mameli con dentro un tipo anziano piuttosto minuto?

- Sì, il negozio è un buco e nulla più, ma sul retro ha un magazzino molto grande.

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- Torna pure - disse Soneri - sto per andare a scambiare due parole con Rosetta.

Il parco era circonfuso da un'aureola grigia che aveva imbevuto le mura d'umidità fino a conferire loro un sinistro color carne. Mentre passava dal portone principale, l'orlo superiore dell'ex fortezza apparve al commissario come una grande gengiva priva di denti. Benché fosse primo pomeriggio, fra gli alberi e lungo i vialetti non c'era nessuno. Passò di fianco al camper di Blackright e in pochi passi fu alla porta dell'ostello.

Rosetta gli aprì, lievemente sorpreso da quella visita. Aveva la solita aria scostante e severa di marinaio tirato a secco.

Appariva goffo manovrando la sinistra e per giunta impaurito.- Una bella botta vedo... - esordì Soneri.Rosetta non trovò di meglio che guardarsi il braccio come se solo allora

si fosse accorto della fasciatura e dell'arto appeso.- Cosa è successo? - si informò il commissario.- Una caduta - rispose Rosetta togliendosi il berretto di lana. - Tre giorni

fa. Ero salito su una scala per cambiare una lampadina e ho perso l'equilibrio.

Soneri sorrise e il gestore sembrò preoccuparsi. Gli occhi parevano accostarsi sempre più alla radice del suo naso a becco.

- Perché si è fatto assistere da un medico privato? Temeva che al pronto soccorso il suo nome potesse comparire nelle liste del posto di polizia? Meglio non correre rischi?

Soneri si era accalorato e impettito. Non era un gigante ma il piglio con cui aveva parlato lo faceva sembrare intimidente.

- Tre giorni fa è venuto qualcuno qui e lei ha avuto una discussione animata, vero?

Azzardava attenendosi al verosimile, ma Rosetta era impallidito, le mani gli tremavano, specie quella che spuntava dal braccio fasciato e il commissario avrebbe giurato che sudava sotto il maglione. Tuttavia, l'uomo continuava a tacere, non si capiva se per la paura o per l'ultimo tentativo di coprire tutto.

Soneri giocava ormai sul velluto. Era venuto il momento che preferiva nelle inchieste: quando le informazioni accumulate sono sufficienti a mettere in scacco il primo personaggio della vicenda.

- Qui è stato commesso un delitto - ricominciò il commissario sforzandosi di rimanere calmo - e qui viene tagliata la droga destinata alla città. Forse l'ucciso ha a che fare con una serie di delitti fra spacciatori. Ce n'è abbastanza?

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Rosetta diveniva sempre più pallido al punto che il commissario temette uno svenimento. Mosse le labbra e sembrò voler balbettare, ma le parole si spensero in un convulso deglutire. Soneri attese paziente. Tirò fuori il toscano e l'accese.

Nella stanza faceva ormai così scuro che il fumo non si distingueva.Solo la faccia pallida del gestore si stagliava immobile davanti a lui

come marmificata.- Bisognerà che si decida a parlare - disse calmo il commissario. - Non

vedo altra soluzione. A meno che - riprese non preferisca accompagnarmi in perlustrazione per la casa - aggiunse mostrando un mandato di perquisizione firmato da Rollardi.

Questa volta Rosetta trasalì e una specie di violento singhiozzo lo scosse. Un cenno con il capo mostrò la sua resa.

Allora Soneri si adagiò contro lo schienale della sedia, tirò un'ampia boccata dal sigaro e si dispose ad ascoltare.

- Non abbiamo altra scelta - bisbigliò Rosetta con un filo di voce - non avevamo nessuna via di scampo, mi capisce?

Soneri percepiva vagamente ciò che l'uomo intendeva dire, ma si limitò a fare un cenno col sigaro chiedendo di proseguire.

- Ci avrebbero ammazzati come hanno fatto con quello.- Chi era?- Non lo so, glielo giuro. Non lo conoscevamo e se anche lo avessimo

conosciuto, nelle condizioni in cui era...- Non mi fa fesso, gli avete preso i documenti.- Noi no. Quando siamo arrivati i documenti non c'erano già più.- Non vorrà dirmi che avete manomesso il cadavere solo per tagliar via

le iniziali dalla camicia?- No, non per quello.- E allora per cosa?- Per nascondere il giubbotto.- Cosa c'entra?- Gli era stato messo addosso apposta perché il taglio e la fattura

artigianale avrebbero condotto a Blackrigth.Insomma, volevano incastrarci. Ma le giuro che non abbiamo ucciso noi

quell'uomo.- Me ne deve convincere.Rosetta deglutì mentre un velo di minutissime gocce comparve sulle

tempie e sulla rotondità della fronte.- Quella notte sapevamo che doveva succedere qualcosa.

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Appena chiusi i portoni abbiamo percepito una strana agitazione nel parco. Poi, alle tre, abbiamo sentito i colpi sul bastione a nord, ma non siamo andati subito a vedere: avevamo paura. Siamo saliti solo circa un'ora dopo. Quando l'abbiamo scorto, il cadavere aveva addosso un giubbotto scuro.

William ha cercato di capire chi fosse, ma in quel momento è comparsa una luce sul bordo del muro. Siamo rientrati tra le frasche attendendo per un po'. Poi abbiamo deciso di scendere e avvertire Tolmin. Quando siamo risaliti, verso le cinque, abbiamo visto che la vittima aveva addosso un altro giubbotto di fattura artigianale, di quelli che confeziona William.

- Quindi gli avete tolto il giubbotto e gli avete messo un anonimo paltò color cammello. Poi avete strappato tutte le etichette che avete trovato e le iniziali dalla camicia.

Dopodiché - proseguì Soneri - avrete distrutto il giubbotto macchiato di sangue.

- Non avevamo altra scelta... - riprese Rosetta con la cantilena di prima. Un ritornello che dava sui nervi.

- Vi ricattavano lo so - sbottò il commissario - e anche adesso vi ricattano: ma chi?

- Non lo sappiamo. Le facce cambiano spesso, si servono di esecutori pagati per convincere con le spicce. Ma questa volta non avevamo fatto nessun errore... Non capisco perché volessero indirizzare le indagini su di noi con quel giubbotto. È tutto così strano... - brontolava Rosetta a voce bassa.

In quell'istante si sentì bussare alla porta. Il gestore sbiancò ancora e osservò Soneri come per chiedere istruzioni.

- Apra - disse quest'ultimo - tanto sa chi è.L'uscio si aprì e nel vano scuro comparve la figura magra e alta di

Blackright.L'americano fece due passi oltre la soglia e poi si fermò indeciso. Forse,

per un attimo, meditò di scappare ma poi si mosse verso la stanza e andò a sedersi sulla poltrona dov'era poco prima Rosetta. Il commissario notò nei suoi gesti una consolidata padronanza della casa.

- Allora, me lo spiega lei Blackright, chi sono i vostri fornitori?- Le avrà detto Tony che non li conosciamo. E' la verità. Ci portano la

droga, io la taglio e la riconsegno col metodo che lei sa. Ma chi sta in cima all'organizzazione non ci è dato saperlo. Conoscevamo solo Meriudi. E' stato lui a metterci nei guai.

- Meriudi?

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- Lei sa che io e Tony vivevamo a San Francisco: è lì che ci siamo conosciuti. Avevamo un piccolo ristorante italiano che andava bene finché non sono spuntati guai con la giustizia: hanno pescato un tizio con della cocaina e da allora il locale era visitato tutte le sere dalla polizia. Alla fine abbiamo dovuto chiudere e ci siamo beccati le accuse di favoreggiamento e ricettazione. A San Francisco non potevamo più stare così siamo capitati qui. Io mi sono comprato un vecchio camper per darmi arie da giramondo e per salvare le apparenze.

Immagino che saprà già tutto quel che c'è tra me e Tony...Soneri assentì e fece lo stesso cenno di prima col sigaro.- Sarebbe filato tutto liscio - proseguì l'americano - se non fossero

arrivati gli spacciatori...- Meriudi? - ripeté ancora il commissario.- Sì. Nel parco esisteva già un piccolo spaccio, ma Meriudi ci propose di

lavorare la droga: loro ce la portavano e una volta tagliata la riconsegnavamo.

- Non avevamo altra scelta... - ripeteva in sottofondo Rosetta come un sonnambulo.

L'americano lo osservò di sbieco: - Mi dispiace per Tony disse - lui non c'entra: ha il solo torto di essersi messo con me.

Comunque è vero, non avevamo scelta. Meriudi minacciava di rivelare i miei trascorsi e la mia famigliarità con Tony. E poi avevamo un gran bisogno di soldi. Lui avrebbe perso il posto di gestore dell'ostello. Sa, con tutti i pregiudizi su quelli come noi... Qui vengono le scolaresche, se lo immagina!

- E allora avete ceduto.- Ma non abbiamo ammazzato nessuno noi - urlò Rosetta e fu come se si

fosse improvvisamente destato da un incubo.Soneri non si scompose. Si rivolse di nuovo a Blackright: - Cosa c'entra

il magazzino Martelli?- Ultimamente mi avevano chiesto di andare a tagliare la droga anche lì.

Lo spaccio si era allargato e più di tanto non si poteva lavorare nel parco per non destare sospetti. E poi l'organizzazione non voleva dipendere solo da un laboratorio per non correre il rischio di rimanere a secco.

A quel punto il commissario si alzò con le idee molto più chiare. Si diresse soddisfatto verso un angolo e premette l'interruttore. Come dopo la proiezione di un film, la stanza si illuminò di una luce violenta e i visi dei due uomini gli apparvero contratti, quasi indifesi.

- Scusate, ma vi siete dimenticati l'epilogo. Tre notti fa qualcuno ha

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scavalcato il muro di cinta ed è venuto all'ostello. Lei Rosetta lo ha affrontato, ne è nata una discussione che è finita a botte. Ma ho motivo di credere che l'uomo abbia portato qui qualcosa di molto compromettente.

I due si guardarono in silenzio. Dai loro visi inondati di luce era scomparso qualsiasi segno d'intesa. Ma entrambi tacevano ciascuno pensando che toccava all'altro parlare.

- Dagliela - ordinò alla fine Blackright con voce rassegnata e stizzita.Rosetta aprì un'anta e cavò un cassetto. Quindi introdusse tutto il braccio

nell'incavo vuoto e ne tirò fuori una rivoltella che porse a Soneri.Il commissario riconobbe una Smith and Wesson a tamburo col calcio in

legno di radica.- Ci hanno ordinato di tenerla in consegna, ma io ho sospettato

immediatamente che volessero incastrarci informò Rosetta. - In questi giorni abbiamo cercato a lungo un nascondiglio sicuro. Sapevamo che non avremmo avuto molto tempo.

Soneri controllò l'arma: era ancora carica. L'avvolse in un panno e la infilò nella tasca del montgomery. Quando fu sull'uscio, spense di nuovo la luce lasciando che della stanza si impadronisse il riflesso grigio dei lampioni. Poi disse rivolto all'oscurità, dove s'indovinavano le sagome dei due uomini: Vi conviene non far capire a nessuno che ci siamo parlati.

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Capitolo ventunesimo

Un altro calvados. Bondan aveva raggiunto l'euforia necessaria per ricominciare la sua corsa di falena. Dopotutto appariva una persona normale: solo il barista lo guardava con gli occhi un po' foschi di chi ha imparato a riconoscere i disperati. Andò in bagno, mise i piedi sulla tazza e osservò fuori attraverso una finestra grande quanto un boccaporto. Il lato era quello buono. Uscì, imboccò un corridoio buio, forzò una porta dove c'era scritto «privato» e si inoltrò in una stanza oscura.

Qualche secondo dopo camminava sul prato. Scavalcò una recinzione: di nuovo in strada. L'agenzia ippica gli mostrava il retro buio dove crescevano ricoveri dai tetti di lamiera. Gli pareva d'essere un turnista che rincasava. E si sforzava di apparire tale. Era un desiderio che cresceva passo dopo passo.

Ma perché si disperava poi tanto? Non fuggiva quello che fuggivano tutti? E l'epilogo che l'attendeva non era lo stesso che avrebbe attanagliato ciascuno di quelli che intravedeva passare come gatti randagi lungo i marciapiedi? Cosa cercava, quindi, se non una proroga all'esito finale?

Passarono di nuovo. Erano loro, ne era certo, anche se avevano cambiato auto. Non lo videro e lo superarono ma sarebbero ritornati. Per ora gli conveniva scivolare lungo le strade umide più fuori mano, guardingo come un topo. Poi, forse, sarebbe riuscito a passare tra le maglie dei sicari guadagnandosi ore, giorni, anni di tempo per poter ancora illudersi.

Passeggiò nei vicoli. Li conosceva sufficientemente bene per districarsene velocemente in caso di bisogno. Non sapeva valutare gli sguardi freddi di chi lo incrociava o lo scrutava da un portone. Nemmeno quello di un mendicante che lo puntò fisso intercettando il suo cammino. Aveva la mano sinistra tesa, i vestiti sporchi e qualcosa fuori posto. Che fosse quel volto in cui la sofferenza non aveva lasciato alcun tatuaggio? Un volto che pareva più allenato al ghigno che all' estaticità dell'implorazione.

Una moneta? Bondan mise entrambe le mani in tasca frugando e fu allora che l'altro ebbe uno scatto. La mano destra stava per estrarre qualcosa, ma Bondan capì tutto: il sospetto l'aveva tenuto vigile. Partì un calcio al basso ventre e l'altro scivolò indietro accartocciandosi. Poi una seconda botta, questa volta sul naso, mentre il mendicante si rotolava.

Fuggì veloce per sfruttare il mezzo minuto di stordimento.

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Svolte e controsvolte tra i vicoli. Mentre correva sentì uno sparo, ma lontano. Uscì dal dedalo alla ricerca di un angolo scuro.

Entrò in un cortile da un cancello rimasto socchiuso e si diresse verso le autorimesse dove la luce non arrivava. C'era una siepe, la scavalcò inoltrandosi di nuovo nel buio. Camminò sull'erba bagnata e a ogni passo affondava nella terra soffice.

Si profilò una massa scura enorme e compatta. Si avvicinò ancora e capì: era una muraglia. La toccò come per farsela amica e sentì la rugosità dei mattoni. Solo a quel punto comprese: erano le mura del parco.

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Capitolo ventiduesimo

Soneri attendeva con impazienza le conclusioni della scientifica. Per tre volte chiamò invano dopo aver informato Rollardi. Si era anche sbilanciato sugli esiti. Finalmente la voce di Nanetti pose fine alla sua impazienza.

- Impronte?- Ce ne sono troppe per capirci qualcosa.- La pistola ha già sparato in altri casi?- Ha ucciso l'uomo nel parco. La balistica esclude che abbia sparato

negli ultimi delitti - rispose Nanetti.Si sentì tradito dall'intuito. Ancora una volta compariva un'arma usata in

una sola occasione.Posò il ricevitore passando dall'ottimismo al malumore. Il telefono

squillò di nuovo.- Abbiamo trovato Stazzani - annunciò con voce grave Macciantelli.- Dove siete?- Al deposito automezzi dei vigili urbani - rispose l'ispettore - l'attendo

qui.Nanetti l'aveva preceduto e già gironzolava con la sua meticolosità

d'archeologo. Poi sbucò Macciantelli che condusse il commissario verso una Mercedes nera col baule spalancato.

Dal fetore, Soneri avvertì la presenza del cadavere.- E' qui da parecchio - disse l'ispettore - ma il freddo ha fatto sì che si

conservasse per un po'.- Chi l'ha trovato?- Gli operai del gas chiamati per una perdita: loro hanno il naso fino.

L'auto era sistemata in un posto dove non passa mai nessuno.- E com'è che è finita qui?- L'hanno rimossa tre giorni dopo la scomparsa di Stazzani. Era

parcheggiata in divieto di sosta.- Dove?- Dietro la questura.Soneri sentì montare una rabbia sorda. Morse il sigaro e ne sputò il

mozzicone: - Hanno voluto prenderci per il culo - sussurrò a Macciantelli che non osò aprir bocca.

- Voglio sapere che tipo di pistola ha sparato - disse ancora il commissario, questa volta rivolto a Nanetti. Tutti assentivano in silenzio: conoscevano i quarti d'ora di furore di Soneri. Il quale si avvicinò al baule

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della Mercedes senza accorgersi che lì di fianco c'era già Rollardi che dava disposizioni per la rimozione del cadavere.

Stazzani era rannicchiato con le gambe raccolte e la testa ripiegata in una posizione che assomigliava a quella fetale. Il volto e le mani, di un color cera, erano rinsecchiti.

- Forse ha ragione lei - disse Soneri rivolto al magistrato i delitti hanno qualcosa in comune e di certo questo non è solo un regolamento di conti.

Rollardi non disse nulla. Era convinto che fosse così ma non capiva in base a cosa se n'era persuaso Soneri.

- Perquisite ogni centimetro dell'auto - ordinò il commissario mentre il corpo di Stazzani veniva estratto dal portabagagli.

Qualcuno abbassò il pesante baule e solo allora Soneri notò un adesivo che appariva stonato su quell'elegante carrozzeria scura. Riportava una testa equina contornata da un alloro intrecciato a un ferro di cavallo. Sulla circonferenza la scritta: Centro ippico Le coste.

Ancora cavalli. La cosa stava ormai assumendo l'insistenza di un ritornello. Si voltò cercando con gli occhi Macciantelli e lo trovò ancora a fianco della Mercedes. Gli fece cenno di avvicinarsi: - Vai all'agenzia ippica di via Torleone e vedi se c'è traccia di un tipo alto, biondo, distinto: uno pieno di donne.

In questura convocò subito Juvara. - Indaga sul Centro ippico Le coste, ci andava Stazzani.

I cavalli ormai lo ossessionavano. Anche le pistole: una girandola di armi, ogni volta differenti. Oltretutto era convinto che ne mancasse una: non aveva mai pensato che la vittima fosse disarmata.

Un'ora dopo arrivò la telefonata di Nanetti a confermare quella che ormai appariva al commissario una regola.

- Stazzani è stato ucciso da una calibro 9 mai comparsa prima - disse. - Tre colpi di cui due ritenuti e il terzo fuoriuscito.

- Nient'altro? - chiese Soneri.- Niente. Già altre volte è stato così. Abbiamo a che fare con dei

professionisti.Anche questo faceva pensare a una parentela fra tutti quei delitti.- Hai un'idea del tipo d'arma usata?- Se dovessi azzardare un'ipotesi, direi una Beretta. Era una calibro 9

lungo, come quello che usano le nostre armi d'ordinanza.- E l'auto?- Purtroppo nulla di rilevante. Solo un foglietto con dei conti trovato

sotto il tappetino del passeggero. Recava un nome scritto a biro in un

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angolo: Tonetti. Per il resto la macchina sembra essere stata ripulita.- Juvara! - urlò.L'ispettore comparve silenzioso nella stanza.- Controlla le telefonate che sono giunte a casa Tolmin nelle ultime

settimane.L'altro assentì senza dir nulla perché aveva intuito l'idea del

commissario.Quest'ultimo alzò di nuovo la cornetta e compose il numero della

narcotici: - Avete controllato per quella mia richiesta...Sì, Tolmin Giacomo... Ah, ecco, è conosciuto come tossico...Come? E' stato fermato per la prima volta due anni fa? E poi?Ha avuto ancora a che fare con voi? No? Nemmeno una volta?Soneri posò la cornetta dubbioso. Uscì per fare quattro passi

camminando soprappensiero per strada coi passanti che lo urtavano nella nebbia. Poi entrò da Alceste e chiese una grappa stravecchia. Quindi si lisciò i baffi, accese un toscano e si diresse di nuovo verso il parco. Notò la luce accesa al pianterreno dell'ostello e pensò che Rosetta e Blackright stessero cenando sotto la lampadina col paralume di maiolica che pendeva da un trave del soffitto. A quell'ora, dopo aver visto il mandato di perquisizione, dovevano essersi sbarazzati di ogni cosa compromettente.

Marciò spedito verso la parte alta del parco, diretto al bastione dove compariva, a metà cammino, la casa col San Giorgio di gesso scolpito sul frontale.

Era ormai buio di nuovo. Vide un'ombra muoversi nel piccolo cortile e riuscì a scorgere la figura ingobbita e magra della moglie del custode che rientrava con andatura dondolante.

Nell'aria si sentiva l'odore della quercia bruciata. Si avvicinò fino a distinguere la finestra illuminata della cucina.

Giacomo Tolmin era sdraiato su un divano di fronte alla televisione, la madre sfaccendava già intorno alla stufa e il custode era chino sul tavolo con la testa appoggiata alle braccia intrecciate a mo' di cuscino.

Di colpo apparve a Soneri un'immagine di disgregazione in contrasto con quella casa che richiamava un lindore di campagna e di buone tradizioni. Passò da dietro dove non c'era ghiaia. Nel buio scorse il muro di cinta e il vuoto scuro che si apriva poco oltre. L'utilitaria di Tolmin era a pochi passi col motore ancora caldo. Il rapporto di Macciantelli diceva che il custode, nel pomeriggio, era uscito per alcune ore con l'auto e che durante il giro di chiusura non aveva suonato il clacson come di consueto, ma era entrato nell'ostello e vi era rimasto almeno un quarto d'ora.

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Per questo Soneri aveva deciso di tornare nel parco. Dava retta al suo istinto e a null'altro. Un'intuizione: quei due terrorizzati da una perquisizione e il custode che, alla sera dello stesso giorno, sale da Rosetta. Quanto bastava a far scattare nel commissario il sospetto.

L'auto era chiusa, ma il finestrino del passeggero lasciava una fessura. Ci infilò le dita e tirò verso il basso. Il vetro cedette di qualche centimetro tanto da consentire al braccio di entrare e sollevare la sicura. Premette la portiera mentre faceva scattare la serratura. Malgrado ciò, si sentì un rumore soffocato. Allora si ritirò dietro la casa e attese.

Tre minuti lunghissimi, poi uscì e aprì la portiera adagio.Schiuse lo sportello del vano sul cruscotto, vi introdusse la piccola

torcia da paracadutista schermandola in parte col palmo della mano e iniziò a rovistare. Cartacce, sporcizia, documenti e vecchi bolli. Che avesse già trasferito tutto in casa? Mise una mano sotto il sedile dell'autista incontrando una spessa cortina di ragnatele. Nulla. Fece lo stesso nel posto del passeggero e annaspò ancora nel vuoto. Ma mentre ritirava la mano, il dorso fu sfiorato da un lembo di stoffa simile a un panno. Tastò ancora e scoprì un involucro ficcato tra le traverse e le molle del sedile.

Soneri non si era sbagliato. Qualcuno voleva sbarazzarsi di un'arma: l'arma mancante secondo il catalogo del commissario. Richiuse adagio come un topo d'auto e scivolò via ripercorrendo la stessa strada. Si sentiva eccitato: intuì che doveva essere la stessa eccitazione dei ladri. Arrivò in questura, chiuse l'ufficio e depositò l'involto sulla scrivania. Quando ebbe indossato i guanti, squillò il telefono. Alzò e sentì la voce timida di Rollardi.

- Ho interrogato a lungo gli impiegati della Financo, ma non ho cavato granché - disse.

Il commissario sorrise e pensò che ci sarebbero voluti ben altri metodi per convincere a parlare quella gente.

- L'uomo che è stato affrontato per primo ha detto di non aver visto in faccia l'aggressore perché gli ha intimato di non voltarsi, mentre le tre segretarie affermano di essersi trovate di fronte un tizio mascherato con una calza di nylon.

- Le hanno detto quanto era alto e che corporatura aveva?- Circa un metro e ottanta, abbastanza snello.- Bene - concluse Soneri col tono di accomiatarsi, mentre il magistrato

gli faceva notare che i dati ricorrevano spesso.Ma il commissario aveva troppa fretta di tornare a occuparsi della

pistola.

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Svolse l'involto e gli apparve una busta di plastica da cui estrasse un'arma di sinistra bellezza interamente brunita. Non si trattava di una pistola in commercio bensì di una fornitura speciale. Voltò l'arma e sul bordo del calcio si leggeva ancora a fatica: H. Goering. Una pistola da guerra tedesca.

Chiamò Nanetti. Il collega prese in mano la rivoltella con cautela e la osservò da varie angolature facendola danzare sui polpastrelli. Poi estrasse il caricatore col suo carico di proiettili. Infine disinnescò il colpo in canna e posò di nuovo l'arma sulla scrivania.

- Questa perfora un muro - disse cominciando ad osservare i proiettili.- Sono di fabbricazione artigianale - affermò - sembra calibro 9.Nanetti era così preso dall'osservazione che non pose domande.- È la pistola che aveva la vittima del parco - annunciò allora Soneri.- In quell'occasione non ha sparato, vedo - disse l'altro guardando il

caricatore.- No, non c'è stato tempo - riprese con sicurezza il commissario.Bussarono. Entrò Juvara con i tabulati telefonici. Ma anche l'ispettore si

fermò per un po' a osservare quella pistola che aveva un'aria di mortale efficienza.

- Era della vittima del parco, sono sicuro - ripeté il commissario rivolto all'ispettore - per un po' l'hanno tenuta nascosta e ora se ne stavano sbarazzando.

Juvara aveva ordinato i tabulati in una cartella com'era sua abitudine, tanto che Soneri s'immaginava avesse il cervello fatto a scansie.

- Ho trovato cose interessanti, anticipò, al martedì e al venerdì ricorrono telefonate a orari quasi fissi. Intorno alle ventidue e verso la mezzanotte. È una costante: ho esaminato gli ultimi mesi.

Soneri cercò di ricordare l'ora in cui Tolmin apriva l'entrata secondaria. Gli pareva che i tempi delle telefonate e quelli delle sortite notturne fossero compatibili.

- Ci sono chiamate oltre la mezzanotte?- Qualcuna, ma sporadica - disse Juvara - tranne la notte del delitto -

aggiunse poi con quel tanto di teatralità che stizziva il commissario.- Quante? - sbottò impaziente. Non sopportava d'essere tenuto sulla

corda.- Sei in tutto tra ricevute e fatte.- Chi c'era dall'altro capo?- Due telefonate sono arrivate dall'agenzia ippica di via Torleone. Un

paio dall'ostello e poi da casa Tolmin è stato chiamato due volte un

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numero che è intestato a Gianguido Tonetti.Soneri ebbe un sussulto. Tolse il sigaro di bocca e lo schiacciò nel

posacenere.- L'avete rintracciato?- No, sembra irreperibile.Bussarono di nuovo: questa volta era Macciantelli.- Entra, ci siamo tutti ormai - constatò Soneri.Si erano seduti intorno alla scrivania del commissario e al centro, come

un perno attorno al quale ruotasse tutto, c'era la pistola.- Bellissima! - esclamò Macciantelli che aveva la passione delle armi -

la usavano i tedeschi nell'ultima guerra.- Capo - cambiò discorso Macciantelli - il Centro ippico Le coste è un

maneggio piuttosto lussuoso in collina. Risulta intestato a Gianguido Tonetti...

L'ispettore si fermò perché vide gli altri farsi attenti.- Bisogna sapere dov'è e che faccia ha questo Tonetti intervenne Soneri

rivolto a Juvara.Le pistole, i cavalli e adesso Tonetti... Aveva la testa confusa. Le

informazioni superavano di gran lunga la sua capacità di incasellarle con logica allineandole in un'ipotesi.

Nel frattempo Macciantelli tirò fuori una foto: - Questo è l'uomo che entra di notte nel parco.

Il commissario lo osservò con attenzione per imprimerselo nella memoria. Poi passò la foto a Nanetti e Juvara chiedendo se lo conoscevano, ma nessuno sapeva chi fosse. Allora Soneri riprese in mano la foto: un tipo tarchiato dai lineamenti marcati e le braccia tozze da sollevatore di pesi. Dava l'idea di uno spiccio non particolarmente raffinato né intelligente.

Da lontano gli era sembrato diverso e ora gli ricordava qualcuno, ma non sapeva chi.

- E' del tipo biondo che bazzica al bar Otello e all'agenzia ippica, cosa mi dici?

- Si chiama Piero Ridolfi, ma tutti lo chiamano Pierre. E' il proprietario del Cavallino Bianco, quel locale notturno appena fuori città dove si trovano donne e cocaina. Fu chiuso due anni orsono, lui l'ha rilevato, ma forse i soldi li ha messi qualcun altro.

- E' uno che lavora anche nel mondo delle scommesse informò Soneri.- Sì, al pomeriggio è facile trovarlo in via Torleone - disse Macciantelli.Ci fu un minuto di silenzio. Poi il commissario richiuse la Mauser nel

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nylon e la riavvolse col panno così come l'aveva trovata sotto il sedile dell'auto di Tolmin. Nanetti la prese in consegna: - Cerca di capire se è da molto che ha sparato raccomandò Soneri.

Uscirono tutti dall'ufficio e il commissario restò solo. Le idee continuavano a essere molto confuse ma da qualche minuto sentiva emergere con insistenza un'intuizione che aveva resistito alla logica corrosiva dei suoi ragionamenti.

Uscì e si diresse al Milord: aveva bisogno di una buona cena per riflettere. Con un po' d'ironia, le chiamava le sue cene di lavoro per distinguerle da quelle conversazioni inconcludenti e malassortite che gli toccavano col questore o altri funzionari prefettizi. Oltre tutto, non ne aveva mai incontrato uno che capisse di cucina.

Si fece portare un piatto di spaghetti con l'agliata e una bottiglia di ortrugo. Chissà cosa aveva fatto Pierre quel venerdì notte in cui l'uomo era stato ammazzato nel parco. E Tonetti?

Tutto stava nel capire chi fosse quel tizio con la faccia devastata da tre colpi di calibro 38. L'enigma era sempre lo stesso come in principio. Fu allora che gli tornò alla mente il questore e la sua insistenza quel sabato, nemmeno quindici giorni prima.

Si ricordò che avrebbe dovuto telefonargli: ma per dirgli cosa?Per secondo prese un croissant di trota affumicata e un assaggio di torta

al formaggio e porri. L' ortrugo era magnifico e se ne fece portare dell'altro. Finì con una bavarese di albicocche assaporando l'ultimo bicchiere. Era giunto quel momento, alla fine del pasto, in cui Soneri si sentiva su di giri. Un benessere che sposava i buoni sapori alla visione lievemente alterata nell'euforia del vino. Avrebbe potuto starsene al tavolo per ore, magari tutta la notte a osservare gli altri e immaginare delle storie dietro i loro volti.

Per esempio quel Pierre... Tonetti no, non gli ispirava granché. Troppo rozzo nei lineamenti, troppo terragno: sembrava un enorme sasso piantato tra le zolle e non lasciava spazio a grandi fantasie. Invece Pierre... Non l'aveva mai visto in faccia e ciò facilitava il lavoro della sua immaginazione.

Frequentava di tanto in tanto il bar Otello fino a tarda notte. Tre sere fa - aveva detto la Rossa. Fece i conti: significava venerdì sera, una settimana dopo il delitto. E se anche il venerdì prima... Perché no?

La fantasia l'aveva portato a formulare una congettura che aveva svegliato di colpo la sua razionalità di investigatore. Svaporò in pochi istanti quell'atmosfera vagamente sognante, si alzò e uscì. Era quasi

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mezzanotte e allungando il passo sarebbe arrivato al bar Otello prima che la Rossa tirasse giù la serranda.

Il locale era ancora aperto. Dalla vetrina appannata riverberava una luce stenta verso la strada che a malapena illuminava il marciapiede. C'erano pochi clienti che all'arrivo di Soneri cessarono di parlare. Sedette a un tavolino e guardò la sala fumosa. Un gruppo giocava a biliardo con svogliatezza e altri tre tavoli erano occupati da giocatori di carte forse alticci. Fra loro Locusta che gli lanciò uno sguardo d'intesa dal quale Soneri capì che non avrebbe dovuto avvicinarsi.

Attese invano che arrivasse la Rossa. L'aveva visto dal banco ma lo evitava: si era forse resa conto di aver parlato troppo?

Nessuno lo guardava, nessuno gli rivolgeva la parola: era come se non esistesse, una presenza invisibile. Accese il sigaro e piantò i gomiti sul tavolino in attesa. Dopo un po' sentì che la serranda veniva calata e udì il metallo della battuta urtare la soglia di marmo. Davanti al banco non c'era più nessuno, resistevano solo i giocatori di carte e biliardo.

Soneri si alzò e si diresse verso la Rossa. - Non è molto rapido il servizio qui - disse il commissario.

- Dipende chi entra - ribatté la donna che lavorava nel lavello e gli dava le spalle.

- Non sarò l'unico sgradito.- No di certo! - rispose lei e nella sua voce Soneri afferrò di nuovo un

raschio rancoroso.- Pierre le è sgradito?Tacque. Si sentiva solo sciacquare e tinnire i bicchieri.- Viene tutti i venerdì?Di nuovo silenzio. Soneri immaginò il combattimento nell'animo della

Rossa tra l'astio e il desiderio che provava per quell'uomo.Un tipo alto e secco passò dietro Soneri, si chinò afferrando la maniglia

della serranda, l'alzò quanto fu sufficiente per passare e la richiuse posando un piede sulla lamiera della battuta. Dopo pochi secondi ne seguì un altro. Allora la Rossa si girò inviperita: - Non uscirete mica uno alla volta! - disse in malo modo senza che l'altro le rispondesse.

- Perché non li fa uscire dalla parte del parco? - chiese il commissario - farebbero meno rumore.

La donna alzò le spalle e biascicò qualcosa.- E' di lì che esce di solito Pierre?- Sarebbe meglio non si facesse più vedere - sbottò alla fine la Rossa che

tuttavia continuava a dare le spalle a Soneri.

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- Dev'essere una tortura per lei vederlo con tutte quelle donnine...- Me ne frego!Si era girata rabbiosa e quasi urlava. Uno spettacolo comico e il

commissario frenò a stento un sorriso.- La verità è che dà un sacco di noie al locale e la sua presenza lo

dimostra.- Se è per questo me ne vado subito. Mi basta una sola risposta.- Cosa vuole sapere?- Se due venerdì fa Pierre è venuto qui.La donna sbuffò ma fece una sforzo di memoria. Si rivolse anche verso

il calendario per aiutarsi.- Sì era qui - disse poi sicura.- E' rimasto fino al solito?- No, se n'è andato prima.- A che ora?- Non lo so. Aveva detto una sola domanda.- Ha ragione, scusi - disse Soneri. - Le dispiace se passo dal parco?- La porta è aperta - ringhiò la Rossa.Il retro del bar Otello immetteva in una zona a ridosso delle mura dove

non giungeva la luce dei lampioni. Sostò indeciso ai piedi del bastione senza capire se avesse dovuto seguire il muro girando a destra o a sinistra. Fu allora che scorse un'ombra addossata alla macchia di un sempreverde. Si arrestò, poi una piccola luce pungente lampeggiò due volte: capì che era Locusta. Quest'ultimo prese per un braccio il commissario e lo traghettò lontano dal retro del locale.

- Cosa le ha detto la Rossa?- Che due venerdì fa Pierre era qui. Era quello che volevo sapere.- E le ha detto anche il resto?- È andato via prima del solito.- Intorno alle due.- C'è altro?- No, non so null'altro. Comunque era solo. La Rossa le ha detto quasi

tutto.- Pensi che sia strano?- All'Otello non si parla di nessuno con la polizia. Se l'ha fatto è perché

quello ormai puzza.- Non è mai stato dei vostri.- No, l'ha trascinato dentro la Rossa perché se n'era innamorata e lo è

ancora malgrado tutto. Ma ora la sua presenza rischia di portare nei guai il

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locale. Per questo ha parlato.Rimasero uno di fronte all'altro nel buio pesto del fossato.Soneri sentiva salire dalle caviglie un'umidità molesta che lo inzuppava

progressivamente.- Adesso è meglio che ce ne andiamo - disse Locusta segua il muro, ad

un certo punto troverà i lampioni e potrà risalire fino alla strada.Lo sentì allontanarsi nell'erba alta che sgocciolava. Alzò lo sguardo e

vide cupe ramaglie sporgersi dall'orlo superiore del bastione aggettandosi su di lui come creature minacciose.

Affrettò il passo fino alle prime luci.

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Capitolo ventitreesimo

Era finito nel sottobosco più fitto. Aveva i vestiti ormai inzuppati e i rami gli passavano sul viso strofinando le loro foglie fradice. Lì sarebbe stato difficile trovarlo. Ma sarebbe stato difficile anche uscirne. E gli altri lo aspettavano: avevano pazienza, il tempo era loro alleato.

Si trovava vicino alla strada. Arrivava luce fin dentro le ramaglie attraversando strati di umidità grigia. Non esistevano più i colori ma solo tonalità scure. Ceppi già marci esalavano odori di cellulosa e cedevano come spugne gonfie sotto i piedi. Decise di costeggiare la strada percorrendo il fossato alcuni metri più in basso rispetto all'asfalto. Di tanto in tanto estraeva una fiaschetta con del whisky e ne beveva lunghi sorsi benché fosse già alticcio. Pensava ai condannati a morte, all'alcol come ultimo lenitivo. Il pensiero lo fece rabbrividire mentre un impeto lo scuoteva: fuggire, sparire, correre via da una sorte che appariva tanto paradossale da farlo sorridere.

Se la sarebbe cavata, ne era convinto. Toccò la Mauser per averne sicurezza, poi infilò le mani in tasca. C'era una chiave, era quella dell'ultima auto presa a noleggio. Non l'aveva lasciata dalle parti del parco? Si ricordava del bar Otello dove aveva fatto la posta a Pierre e si ricordava anche lo sfondo di una grande muraglia di mattoni: il parco, non c'era dubbio.

Costeggiò ancora la strada stando nel fossato. Non gli importava più di bagnarsi e andava avanti fendendo le frasche con lo stesso cammino rettilineo di un cinghiale. Di tanto in tanto trovava un recinto e allora era costretto a rientrare verso il muro di cinta e addentrarsi nel buio che si addensava tra un bastione e l'altro. Passò dietro al bar Otello. Procedeva lentamente nel timore che spuntasse qualcuno. Poi si riavvicinò alla strada fino a quando non scorse la Ford. Ricordava bene, l'aveva lasciata tra le piante del viale di fronte a un forno da cui anche ora arrivava un intenso odore di pane. Salì, mise in moto e partì cautamente.

Doveva immaginare che gli altri lo attendessero proprio lì.Ormai non restava che tentare di seminarli, ma così facendo facilitava il

loro lavoro. Lontano dal parco avrebbero iniziato a sparare.Rabbrividì di nuovo e si avviò. Percorse un tratto di viale e osservò con

la coda dell'occhio l'insegna del bar Otello che sfilava di lato. Poi rialzò leggermente il piede dall'acceleratore fino a che vide avvicinarsi velocemente l'altra auto. A quel punto diede una sterzata a destra e poi

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dall'altra parte infilandosi di nuovo nel vialetto che portava all'entrata secondaria del parco.

Furono colti di sorpresa. Frenarono di botto, le gomme strisciarono sull'asfalto stridendo, ma l'auto puntò dritto ostinata. Dovettero ingranare la retromarcia indietreggiando tanto da poter imboccare il vialetto. Ma Bondan era già sceso lasciando la Ford quasi in mezzo alla strada. In due balzi fu nel fossato e corse a perdifiato coi piedi che sprofondavano a ogni passo come se posassero su gallerie di talpa. Corse fino a spolmonarsi. Aveva contato due bastioni, era quasi all'entrata principale, dall'altra parte del parco. Vide il ponte che scavalcava il fossato, vi passò sotto e riprese a correre per non essere scorto nel tratto senza alberi illuminato dai lampioni.

Quando si fermò bevve ancora. Aveva la gola arsa dallo sforzo e si sentiva un dannato preso in trappola. Dovevano essere le due. Stava infrascato a pochi metri dal portone deciso ad attendere le mosse degli altri. Aspettò cinque, dieci minuti, un interminabile quarto d'ora. Poi, inaspettatamente, sentì che veniva tolto il rampone e scorreva il chiavistello.

Uscì un uomo: Tonetti. Si allontanò, mentre il custode lo osservava fumando. Attese ancora e quando fu distante una ventina di passi, sbucò dal buio e si gettò contro l'uscio.

Dall'altra parte si sentirono una bestemmia e un tonfo. Non si voltò a osservare, corse verso i vialetti e poi in direzione del buio. Era dentro e non sarebbe stato facile trovarlo. E domani, con la luce...

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Capitolo ventiquattresimo

- Non esiste nessun Tonetti che abbia questa faccia annunciò Juvara.- In altre parole non esiste nessun Gianguido Tonetti?- Solo un omonimo ma non c'entra nulla. E questo chissà come si

chiama - disse l'ispettore mostrando la foto.Soneri accese il sigaro e soffiò a lungo sulla brace.- Un altro di cui non conosciamo il nome - borbottò. Ma Juvara questa

volta non percepì nessuna stizza. Era calmissimo, quasi compiaciuto dei suoi pensieri.

Soneri ripensava alla sera in cui aveva visto l'uomo entrare dentro il parco e dirigersi verso il camper di Blackright.

L'aveva colpito l'apparente indifferenza con cui aveva trattato Tolmin. Un'indifferenza che pareva subentrata con gli anni.

Squillò il telefono, era Macciantelli.- Abbiamo fatto i controlli che ci ha chiesto.- E allora...- Nella spazzatura di casa Tolmin c'erano due siringhe. La scientifica le

ha analizzate e non ci sono dubbi: si tratta di eroina.Il quadro si chiariva ulteriormente. Tutto tornava eccetto quel morto di

cui non si sapeva nulla tranne sommari tratti.Si alzò, gironzolò per la stanza. Era insolitamente calmo.Suonò di nuovo il telefono e dall'altro capo Rollardi lo invitava a pranzo

con il questore.- Mi dispiace, ho un mucchio di cose da fare, oggi salterò disse il

commissario.- Non so cosa si possa dire dei delitti... Stiamo lavorando...Anzi, dica al questore che è questione di pochi giorni. Forse anche solo

uno.Riattaccò, prese il montgomery dal gancio e uscì. Erano le due del

pomeriggio quando salì con la sua Alfa oltre la coltre nebbiosa che ristagnava sulla pianura. Si trovò in un altro mondo: la luce, il sole caldo e la polvere lungo le strade bianche che tagliavano tra le colline, davano l'idea di un'estate artificiale.

Il centro ippico Le coste era una costruzione in legno di stile americano. Anziché ruvidi mandriani, vi circolavano, invece, signore fresche di parrucchiere dall'aria altezzosa.

Passeggiò fino a una staccionata di legno scuro entro la quale un paio di

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cavalli giravano in tondo tenuti con una lunga fune dagli stallieri. Sedette su un sasso osservando le evoluzioni degli animali, mentre il sole caldo che gli batteva sulla schiena, pareva asciugargli le ossa.

Si alzò e camminò fino alle stalle. Una signora dall'aria aristocratica strigliava maldestramente una puledra argentina, mentre gli stallieri andavano e venivano con sporte di biada.

Soneri fermò un ragazzotto: - Dove tenete le selle?- Sotto il portico della dependance - rispose.- Potrebbe mostrarmi quella del signor Tonetti?Il ragazzo lo squadrò: doveva essere abbastanza strano che un tizio

vestito come Soneri si presentasse in un maneggio così esclusivo.- Devo farmene fare una da un artigiano, William Blackright. È lo stesso

che ha costruito quella del signor Tonetti.Il viso dello stalliere si rasserenò: - Se ha scelto Blackright va sul sicuro,

è il miglior sellaio che c'è in circolazione. Comunque, quella del signor Tonetti è l'ultima a destra sul primo ripiano.

Soneri entrò nel portico, si fermò due passi oltre la soglia e si accese il toscano. Individuò la sella. Era di un cuoio chiaro appena imbrunito sui lati dove strofinavano i pantaloni del cavaliere. La tirò fuori un paio di spanne e la esaminò.

Dovette girarla per trovare ciò che cercava. Sul lato sinistro due lettere: R e T. Rimise a posto e uscì.

L'auto incontrò di nuovo la nebbia avvicinandosi alla città.Il pomeriggio scuriva rapidamente ma il commissario conservava ancora

il ricordo di luce e calore delle ore trascorse in collina. Parcheggiò nei pressi del parco ed entrò dal portone secondario. Mentre si avvicinava all'ostello, pensò che avrebbe dovuto dare un'occhiata in archivio a proposito di vecchie indagini sullo spaccio.

Giunse alla porta e suonò. Rosetta gli apparve di fronte con il consueto viso severo e appena lo vide s'irrigidì come un morto.

- Posso entrare? - chiese Soneri. Senza che l'altro gli rispondesse, s'infilò dentro. Rosetta accese la luce e la debole lampadina illuminò la stanza. In un angolo più buio, vicino alla stufa, stava in piedi Blackright col cappello da mandriano spinto indietro sulla fronte fino a scoprire i capelli irti e folti.

Soneri non disse una parola, indicò solo il tavolo e gli altri si sedettero. Li aveva ai lati e i due si lanciavano rapide occhiate nervose. Il commissario ostentava, invece, una oziosa flemma. Si riaccese il sigaro, tirò lunghe boccate e si adagiò contro lo schienale della sedia rilassandosi: sembrava attendere qualcosa, mentre gli altri bollivano a fuoco lento.

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A un tratto l'americano sbottò: - Beh, cos'ha da dirci?- Aspettavo solo che arrivasse il terzo - rispose con una calma che irritò

Blackright. - Ma nell'attesa posso mostrarvi qualcuno che voi certamente conoscerete già.

Mise una mano nell'ampia tasca del montgomery e tirò fuori la foto dell'uomo che doveva chiamarsi Gianguido Tonetti.

- Lo conoscete?Rosetta e l'americano si guardarono con aria smarrita.- Lei, Blackright, dovrebbe sapere qual è il suo nome visto che gli ha

inciso le iniziali sulla sella. Ma ha commesso un errore: anziché la G ha impresso una R come Riccardo. Riccardo come Tolmin. Forse quando è stata fatta non c'era bisogno di nascondersi tanto... Ma a forza di trovarmi intorno maneggi, scommesse e agenzie ippiche m'è venuta una gran curiosità.

- Se sa già tutto, cosa vuole chiederci ancora?- Dettagli - rispose Soneri. - Dove tenevate la pistola da guerra che avete

consegnato al custode?Un'altra occhiata nervosa. Poi Blackright disse: - La tenevo io nel

camper.- L'avete data a Tolmin per paura della perquisizione o ve l'ha ordinato

Tolmin figlio?- Tutt'e due - rispose ancora l'americano.- Com'è finita nel camper?- Tonetti... Mi scusi, Tolmin...- E cosa pensavate di farne?- Di questo non sappiamo nulla - intervenne Rosetta con una voce

improvvisamente stridula. L'amico gli lanciò un'occhiata ammonitrice.- Le abbiamo già spiegato - proseguì poi - che in questo gioco noi siamo

solo pedine. Lavoriamo e smistiamo la droga, questo sì, ma del resto non sappiamo nulla, né ci permettono di sapere.

- Cosa veniva a fare di notte Riccardo Tolmin?- Ci dava degli ordini sulla lavorazione e qualche volta portava lui stesso

la droga e tutto quello che serviva a prepararla.- E poi, una notte, viene ammazzato uno, proprio qui...Strano, no?I due si guardarono allarmati e preferirono tacere. Volute di fumo si

levavano dal sigaro del commissario oscurando come nubi la piccola lampadina dell'ostello. In quel mentre si udì il colpo di clacson del custode. Soneri fece un cenno a Rosetta: - Gli dica di salire, aspettavamo proprio

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lui.L'uomo aprì la finestra e fece solo un gesto. Dopo alcuni minuti

comparve il custode. Indossava i soliti stivali a mezzagamba, un paio di pantaloni di velluto a coste e un giubbetto scuro non abbottonato. Il maglione scopriva sempre una fetta di ventre. Entrando, si era tolto il berretto fino a mostrare una testa quasi calva coi pochi capelli grigi contorti in una sorta di ragnatela. Era a disagio e quando Soneri gli fece cenno di sedere, si accomodò con una mossa frettolosa e goffa.

- Adesso ci siamo tutti - disse il commissario - devo considerarvi complici o ricattati?

La luce sobbalzò e nessuno rispose. Il custode stava a capo chino contemplando il berretto come un collegiale, Rosetta guardava nel vuoto con occhi che parevano di vetro e solo l'americano girava lo sguardo, di tanto in tanto, in direzione di Soneri.

Il silenzio sembrava ora più profondo coi portoni chiusi e il parco separato dal resto della città. Una separazione che forse aveva dato a tutti il senso dell'impunità.

- Dunque, si comincia col ricatto, vero Rosetta? Lei, Tolmin, scopre tutto ma deve aver avuto paura. Due figli uno più sbandato dell'altro... Giacomo, il più piccolo, già si drogava ed è questo che la trattiene dal denunciare, vero? Ha paura della vergogna. E poi è l'organizzazione che rifornisce di eroina Giacomo e basterebbe una dose tagliata male... In più le offrono un impiego per Riccardo: factotum, dirigente di aziende edili, di centri ippici e altri lavoretti meno puliti. Per questo gli danno molti soldi e gli procurano una doppia identità. Cosa pretendeva di più? Ma succede un imprevisto: qualcuno viene ucciso qui dentro, nel luogo meno indicato. Un incidente, non c'è dubbio. E non c'è dubbio che il cadavere doveva essere trasportato altrove per non compromettere tutto. Tuttavia qualcosa salta per una coincidenza casuale. Tra timori e telefonate incrociate passano due ore. Si avvicina l'alba e l'evacuazione diventa troppo rischiosa. Ecco allora che i vostri ricattatori vi scaricano malamente. Mascherano il cadavere in modo da attirare le indagini su Blackright. E' andata così? - domandò infine Soneri.

La stanza rimase in silenzio. La luce saltellò di nuovo palpitando sopra quelle teste immobili. Il primo che si riscosse fu l'americano: - Lei cosa avrebbe fatto?

Soneri vacillò nell'intimo: era proprio sicuro che il suo comportamento sarebbe stato diverso?

Ad un tratto cadde il berretto ai piedi di Tolmin. L'uomo nascondeva il

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viso dietro le grosse mani inadatte ai gesti fini: - Me l'avrebbero ammazzato, ne sono sicuro. Me l'avrebbero di certo ammazzato - ripeteva con una voce divenuta di colpo infantile.

Blackright gli posò un braccio sulla spalla, mentre Rosetta permaneva nella sua rigidezza mortuaria.

- Lo vede? non siamo delinquenti - disse l'americano con vago rimprovero - se lo fossimo ci saremmo già fatti valere in un modo o nell'altro.

Soneri li osservò a uno a uno. Tre individui travolti dalle loro debolezze, dalla paura della vergogna.

Il commissario sollevò il ricevitore: - Mandatemi una macchina - disse e riattaccò immediatamente.

Poi, rivolto a Tolmin: - Venga, andremo loro incontro e lei aprirà la porta secondaria come fa quasi ogni notte. Voi - si rivolse in un secondo momento a Rosetta e all'americano restate qui a disposizione per alcuni giorni.

Scesero le scale al buio e uscirono incamminandosi per i viali. La nebbia velava il catino del parco e Soneri pensò a quel pomeriggio in collina e a quella luce che gli aveva svelato tante cose. Quando giunsero sotto l'arco del portone, Tolmin estrasse un mazzo di chiavi e aprì la piccola porta.

- Quel venerdì dell'omicidio chi è entrato assieme a suo figlio?Il custode lo guardò per qualche istante sbigottito con occhi acquosi e

impauriti. Era paralizzato. Allora Soneri disse: C'era Pierre?Tolmin si appoggiò di schiena alla porta appena richiusa e fece un lieve

cenno di assenso mentre il suo ventre corpulento ansimava. In quel mentre arrivò la macchina.

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Capitolo venticinquesimo

Dai bastioni osservava quel che succedeva nella parte bassa. Era stanco di scappare, le gambe cominciavano a cedere e l'alcol a dare le prime allucinazioni. Il custode era caduto all'indietro quando lui aveva spinto la porta e doveva avere visto solo un'ombra che correva verso l'interno. Pensava a quegli attimi mentre osservava l'uomo camminare svelto percorrendo il viale che portava alla casa col San Giorgio scolpito.

Avrebbe avvertito Tonetti e gli altri. Non ce ne sarebbe stato nemmeno bisogno perché conoscevano già tutto.

In alto faceva più scuro. Tra quella penombra, ogni sfumatura di nero appariva una figura minacciosa. E la luce dei lampioni che saliva dal basso allungava sagome sinistre. Poi rumori, fruscii in mezzo ai cespugli che davano sussulti e accelerazioni al cuore.

Era passata mezz'ora di una notte che appariva insopportabile. La presenza di quelle mura a circoscrivere la sua fuga lo angosciava. Non sapeva perché aveva scelto di entrare lì dentro. Forse per il fatto che non ragionava più, ma funzionava a impulsi. Forse perché era arrivato alla fine della sua corsa e aveva cercato un'ultima tana dalla quale ringhiare come le bestie ferite.

Qualcosa si muoveva, adesso ne era sicuro. Non un'ombra, ma un uomo: il custode che scendeva di nuovo. Lo perse di vista, quindi lo vide riapparire dopo alcuni minuti accompagnato da un tizio massiccio. Si aspettava che i sicari fossero in due, come i norcini. Conosceva quell'uomo? Da lontano non era possibile distinguerlo, ma non importava. E poi non era detto: si sarebbe giocato a guardie e ladri e magari poteva finire che sarebbe stato l'altro a rimetterci. Tirò fuori la Mauser e ne controllò i meccanismi: il caricatore, le munizioni.

I due si divisero. Il custode salì verso casa, l'altro, prese un viale che s'inerpicava sul bastione opposto a quello in cui si trovava Bondan. Bisognava riconoscere che aveva fegato.

Sapeva di trovarsi di fronte uno che sparava. O forse anche a lui non importava poi molto della pelle.

Una notte di tensione gli appariva troppo lunga. Sentiva che la sua attenzione scemava lentamente, le gambe gli si piegavano e i riflessi rallentavano. Avrebbe avuto voglia di dormire, cancellare la realtà intorno a sé. La sola medicina che lo manteneva attento era l'alcol. Tirò fuori di nuovo la fiaschetta e la osservò in trasparenza contro la luce di un

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lampione lontano.Era nemmeno a metà, gli restava poco carburante per il cervello. O forse

era già ubriaco e non se ne rendeva conto.Se non c'era più molto tempo, tanto valeva dare battaglia. Era proprio

sicuro che l'altro volesse farlo fuori? E se avesse voluto proporgli un patto? Avanzò verso il bastione in cui aveva visto inoltrarsi il sicario. Si fece largo tra i rami spogli che gocciolavano umidità scostandoli con la Mauser. Ombre, riflessi, rumori di gocce che cadevano o di passi furtivi. Una tensione che non poteva reggere. Come una corda tirata che vibrasse in mezzo al cervello. Ogni segnale era una nota di dolore che gli trapanava il cranio e scendeva giù fino in fondo alla schiena.

Desiderava che tutto finisse e per questo si agitava troppo.Segnalava la sua presenza e dava così un vantaggio all'altro.Sorsi di alcol frustavano i suoi sensi stanchi per intervalli sempre più

brevi e poi di nuovo un crollo. In un momento di lucidità calcolò che erano tre notti che non chiudeva occhio e che beveva.

Un'altra trafittura, un altro strappo in un punto indefinito tra le orecchie. Come una scossa elettrica direttamente sul cervelletto. Un gatto spaventato correva verso la luce del primo lampione. Mentre lo fissava, le gambe lo tradirono di nuovo.

Vacillò e non seppe se per l'ebbrezza o per quel dolore in testa che gli gonfiava le tempie.

Si appoggiò a un albero, vi aderì con tutto il peso e si sentì scivolare addosso la corteccia rugosa e umida. Lentamente, la guancia si accostò al tronco e vi si adagiò anch'essa. La solidità dell'albero gli fu amica. Era per questo che lo abbracciava. Tirò fuori ancora la fiaschetta, bevve un altro sorso e si abbandonò invocando il nulla.

Passavano fra i pensieri spezzoni di vita, figure incontrate mai più riviste, personaggi, volti spaiati e malassortiti.

Nell'appiattimento onirico del tempo, comparve anche Tonetti.Anzi, Tonetti era una presenza insistente. E parlava.Sembrava chiamarlo, ripetere il suo nome. Poi arrivò di nuovo la scarica

elettrica al cervello. Doveva essere stato uno scossone.Era scivolato? Scoprì di essere sveglio osservando i suoi piedi ancora

piantati nel fango. Non si erano mossi, ma poco più avanti ce n'era un altro paio. Sollevò lo sguardo e s'accorse di Tonetti, come materializzato dal sogno.

Così la fuga era finita, il contatto avvenuto. Con un gesto più di paura che di offesa, impugnò la Mauser. L'altro non si scompose: aveva di nuovo

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la sensazione che anche a lui non dispiacesse finire bene, sorpreso da una pallottola.

- Non è il caso - disse Tonetti accennando all'arma dobbiamo parlare, non credi?

Bondan sapeva che non gli restava grande scelta: o sparava e chiudeva il conto o sarebbe andata a finire male. Non riusciva a seguire i movimenti e le parole dell'altro che sembrava farlo apposta a spostarsi mentre parlava. Prese la fiaschetta e bevve ancora. Gliene restava poco e le trafitture proseguivano inesorabili. Se n'era accorto Tonetti perché ogni volta Bondan aveva un fremito come un brivido di freddo.

- Tutto sommato ci hai fatto un favore - disse.Bondan cercò l'altro. Dov'era finito l'altro? Quello biondo? Si girò

tentando di non perdere d'occhio chi gli stava di fronte. Ma era uno sforzo troppo grande e la vista vacillava.

Il breve orizzonte di alberi e mura ondeggiò paurosamente.E poi ancora quel dolore a impulsi insopportabili che premeva dietro gli

occhi e sembrava voler scardinare gli ancoraggi del cervello.- Stazzani morto è quello che tutti noi ci auguravamo da un po' di

tempo, ricominciò Tonetti con una voce flautata che scandiva le parole senza fretta, i depositi all'estero li conosco solo io e pochi altri: sono soldi che attendono un padrone.

L'altro, dov'era l'altro?- Cerchi Pierre? Non preoccuparti, ci lascerà soli per un po' - disse

Tonetti con uno sghignazzo soffocato, continuando a camminare di fronte a lui.

Era chiaro che voleva esasperarlo. Mostrò di nuovo la pistola e l'altro si fermò. Poi riprese a sorridere: avrebbe voluto essere rassicurante e invece insospettiva.

- Dov'è l'altro - riuscì finalmente a dire Bondan - dov'è Pierre - ripeté. La Mauser gli pesava in mano e si accorse di tremare. Così non avrebbe centrato un pagliaio.

- Sei informato su di noi - constatò Tonetti con tono sinistro - non pensi che potremmo accordarci? Ci abbiamo già provato una volta, ricordi? Con Pierre, purtroppo, non ci sono riuscito.

Abbiamo avuto una discussione e... Beh, sai cosa succede nel nostro mondo quando non ci si mette d'accordo, no?

Si sentì stremato, curvo, con la mano tremante e una fitta in testa che sembrava volerlo paralizzare. Tonetti lo frastornava.

L'aveva fatto fuori quindi. L'ultimo custode di quel segreto

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imbarazzante, fonte di tanti ricatti, ammazzato in un regolamento di conti. Gli sarebbe bastato attendere che si compisse la faida interna alla banda. Tutto ciò pareva talmente paradossale che non era ancora ben sicuro di essersi svegliato.

- Prendi - ricominciò Tonetti porgendogli la fiaschetta tanto non ti può far più male di così.

Non si era nemmeno accorto che gli era caduta sfilandosi dalle sue dita ormai insensibili.

- Io ti ho risparmiato una volta - disse Bondan, ma non sapeva nemmeno lui perché parlava. O forse sì: perché aveva ormai paura. Il sonno, che lo prendeva per brevi attimi, gli suggeriva la fine. Si ricordava di Kirillov: era sotto la grande pietra e non riusciva a immaginare quando sarebbe caduta.

Sentiva soltanto questa specie di anestesia fatta di stanchezza e alcol. Anche la vecchiaia l'aveva sempre pensata come una forma di anestesia, però più crudele.

Un'altra trafittura lo fece trasalire. Non era possibile che fosse sveglio se non riusciva a schiodarsi dall'albero a cui stava appoggiato da più di un quarto d'ora. No, si trattava proprio di sonno. Appoggiò la testa alla corteccia e sentì una benefica frescura. L'immagine di Tonetti saltellò di fronte a lui, si sfocò, scomparve e riapparve. Era un altro scherzo del suo sognare agitato, un'intermittenza progressivamente più flebile finché il buio del bastione sembrò diventare sempre più fitto, entrargli negli occhi fino a imporre il suo colore prepotente e definitivo.

In quel momento, un'altra trafittura lo assalì, ma questa volta fu come un urto che lo spinse in avanti staccandolo dalla sua fissità tutt'uno con l'albero. Poi un'altra, bruciante e veloce come una vampa di saetta. Non erano delle solite, queste strappavano qualcosa dentro. Qualcosa che sfuggiva sul davanti come per un'esplosione dei lineamenti. Infine arrivò un terzo strappo, ma tuttavia meno avvertito, come se avesse infilato una traiettoria già percorsa. Il naso parve volersi ribaltare sulla fronte, gli occhi premettero contro le orbite, la bocca divenne uno spezzatino e i denti frullarono via incidendo le labbra come rasoi.

Ma fu la sensazione di un attimo, mentre una forza irresistibile lo piegava in avanti e lui si abbandonava remissivo.

Quando la terra lo accolse, gli parve di poter finalmente dormire.

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Capitolo ventiseiesimo

Soneri si era svegliato come al solito intorno alle quattro.Poi aveva poltrito ascoltando lo sgocciolio della grondaia, ma verso le

sei era sceso dal letto in preda a una sorta di impazienza. Mezz'ora dopo, camminando con passo veloce tra borghi deserti, era arrivato in questura. Non aveva nemmeno accennato a imboccare il corridoio al pianterreno verso le stanze della Mobile. Al contrario, s'era infilato sullo scalone e, divorando i gradini due alla volta, era salito fino ai locali mansardati dell'archivio.

Conosceva quell'antro di polvere e carta, memoria di tante indagini. Scelse la chiave e aprì l'armadio metallico. Rovistò per dieci minuti cercando di orientarsi tra le pile di incartamenti. Poi cominciò ad aprire i cassetti sotto gli scaffali. Uno era occupato interamente da un voluminoso contenitore senza intestazione. Lo estrasse: custodiva il grosso delle inchieste su droga e riciclaggio svolte negli ultimi dieci anni. Forse Rollardi aveva ordinato una ricerca del genere?

Volle controllare anche nell'archivio tematico: i fascicoli erano al loro posto. Qualcuno aveva dunque duplicato i documenti. Guardò l'orologio e si accorse che passavano da poco le sette. Troppo presto per telefonare al magistrato.

Non si ricordava di aver ordinato dossier né a Juvara né a Macciantelli.Cominciò a sfogliare le carte. La loro successione nel falcione

descriveva esattamente la cronologia dei fatti. Chi aveva messo mano ai documenti sapeva molto della vicenda.

Pensò ancora a una iniziativa di Rollardi e guardò di nuovo l'orologio a muro. Ricompose la pila dei documenti. Da un bordo spuntava un pezzo di carta, una pagina strappata per ricavarne un segnalibro. Lo tirò fuori e lo osservò. Si trattava di un foglio intestato: dottor Piras, l'indirizzo e una data di un paio di mesi prima scritta a penna.

Richiuse il fascicolo, se lo mise sottobraccio e discese nel suo ufficio. C'era solo il piantone di guardia a quell'ora e nessuno fece caso al commissario. Si sedette dopo aver spalancato la finestra per togliere l'odore di fumo vecchio che stagnava nella stanza e rimase immobile nella penombra.

Alle sette e mezza non ne poté più di attendere e telefonò a Rollardi. Il magistrato gli rispose con un certo ritardo.

- Ha chiesto un dossier su spaccio e riciclaggio?

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Dall'altra parte si udì un mugugno e si sentì qualcosa cadere: - Non ho ordinato nulla. Ho solo chiesto i fascicoli degli omicidi. A proposito, nessuna notizia dei due latitanti?

- Li stanno cercando e prima o poi li troveranno - disse Soneri alludendo a Pierre e Tolmin.

Ma i pensieri del commissario già erano interamente assorbiti da quello strano fascicolo. Perché era stato messo da parte adombrando uno scopo diverso da quello d'ufficio?

Sfogliò l'elenco del telefono cercando il dottor Piras. Si sentiva molto nervoso e per calmarsi accese il sigaro.

Non si era accorto dell'arrivo di Juvara. Pensava ancora a quel che avrebbe detto al questore, a quella situazione ridicola in cui si trovava l'indagine. Non gli era mai capitato di conoscere gli assassini ignorando l'identità del morto e il movente.

- Sono arrivati altri esami dell'autopsia - disse l'ispettore.- Cosa dicono?- La vittima aveva lo stomaco pieno d'alcol.Probabilmente era ubriaco al momento della morte.- Meglio per lui - disse cinico Soneri - nient'altro?- Responsi poco utili per l'indagine. L'uomo era sano, si notano solo i

postumi di una frattura al femore, probabilmente in età giovanile, e una macchia polmonare dovuta forse a una pleurite o una broncopolmonite.

Soneri ascoltava scrutando le pagine dell'elenco telefonico. Finalmente arrivò a Piras che era scritto in grassetto: dottor Giovanni Elia Piras, pneumologo, specialista in malattie respiratorie.

Il commissario si sentì avvampare il viso. Un sospetto che aveva covato per lungo tempo spuntava ora con veemenza.

- Juvara, ti ricordi quel messaggio? Quello che avvertiva del pericolo per uno dei nostri?

- Certo.Ma il commissario non proseguì, come se non trovasse le parole.Erano le otto e un quarto, chissà se il dottor Piras era già in ambulatorio.

Provò a comporre il numero: il telefono squillava a vuoto. Allora chiamò Macciantelli.

- Contate di prenderli?- Ancora no - rispose l'ispettore - ho paura che siano filati all'estero.

Seguiamo una traccia che dovrebbe portarci a Tolmin, ma di Pierre s'è persa anche l'ombra.

Si sentiva il rumore di un motore in sottofondo.

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L'ispettore parlava al telefonino.- Hai, per caso, ordinato all'archivio un dossier sullo spaccio? -

domandò Soneri.- No, forse l'ha fatto Rollardi.- Nemmeno lui - rispose il commissario, ma era tutto quel che voleva

sapere e troncò la conversazione malgrado Macciantelli desiderasse chiedere istruzioni.

Riprovò il numero di Piras: niente. Allora uscì dal retro del palazzo per non essere visto ed entrò in un piccolo bar poco frequentato. Ordinò la colazione, sfogliò il giornale per controllare cosa scriveva del delitto, ma vide che non c'era nessuna novità: un articolo tanto per stare sull'argomento.

Mangiò con appetito lasciando che il tempo scorresse: erano quasi le otto e trenta. Prima di pagare girò verso la toilette dov'era un telefono a muro. Rifece il numero che ormai conosceva a memoria. L'apparecchio squillò a lungo e quando stava per riattaccare gli rispose una voce leggermente trafelata.

- Pronto? Il dottor Piras?Dall'altra parte si udì solo un «sì» tra il sorpreso e lo scocciato.- Sono il commissario Soneri della questura.Il medico non disse nulla e inghiottì la saliva.- Ho bisogno di qualche informazione, posso passare da lei?- Credo di sapere di cosa si tratta, rispose il dottore, venga anche subito.Mise dentro l'apparecchio un'altra moneta:-Juvara, starò via per un po'.

Se mi cercano riferisci che mi sto occupando di una faccenda delicata e che mi farò vivo non appena si chiarisce.

Chiuse la comunicazione mentre l'ispettore cercava di saperne di più. Ma Soneri era come invasato dal sospetto e in quei momenti si comportava da automa.

Dieci minuti dopo saliva le scale che conducevano allo studio del dottor Piras. Il medico era solo in un ambulatorio, molto grande e pieno di scaffali. Sedette dove abitualmente stavano i pazienti, di fianco al lettino per le visite e a destra della grande lavagna luminosa per osservare le lastre.

Piras si accomodò di fronte a lui, posò i gomiti sul tavolo, congiunse le mani e iniziò a parlare ancor prima che Soneri avesse il tempo di fargli domande.

- Come le ho detto al telefono, mi aspettavo questa visita.- Per quale motivo?

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- Tempo fa è venuto da me un uomo per un caso di broncopolmonite - disse esitante Piras - e sarebbe dovuto tornare dopo una settimana...

Il medico s'interruppe imbarazzato e al commissario scappò una sollecitazione un po' troppo brutale: - E allora?

- Beh, non si è più fatto vivo e al numero che mi ha lasciato non risponde nessuno.

- Tutto ciò non significa nulla - concluse Soneri deluso.- Anch'io ero della stessa convinzione, ma mi sono ricordato che il

paziente mi aveva detto di chiamarsi Procioni. E proprio alcuni giorni fa sul giornale ho letto il particolare delle auto a noleggio sotto falso nome...

Soneri rimase in silenzio per qualche istante.- So che avrei dovuto farmi vivo prima - riprese Piras - ma il riserbo

professionale... E poi temevo un caso di omonimia: rischiavo di mettere in piazza uno che non c'entrava nulla.

- Mi dia quel numero, quello a cui non rispondeva nessuno - tagliò corto il commissario.

Il medico si mise a cercare tra le schede di cartoncino. Poi porse quella buona a Soneri che annotò.

- Mi dica, è successo qualcosa di grave?- Credo di sì, ma stia tranquillo, lei non c'entra.Si alzò con uno dei suoi abituali scatti. Il medico sembrava curvato da

un peso. Gli tese la mano e gli indicò la strada.Mentre il commissario usciva, sentì un tonfo attutito nello studio e intuì

che Piras s'era lasciato andare di nuovo a sedere sulla poltrona.Entrò in una cabina e chiamò Juvara.- Mi ha cercato qualcuno?- Rollardi e il questore.- Di' loro che tornerò verso sera.Poi chiamò l'azienda dei telefoni per sapere a chi era intestato il numero

avuto da Piras.- Mi dispiace, si tratta di un'utenza riservata - disse l'impiegata.- Sono il commissario Soneri della polizia - insistette.- Per telefono non diamo informazioni nemmeno ai poliziotti - ribadì la

donna con puntiglio.Guardò l'orologio fremente: aveva la soluzione a portata di mano ma

non riusciva a vincere la diffidenza di un'impiegata dei telefoni. Chiamò un informatore dentro l'azienda e alla fine ottenne l'indirizzo: - Via Provinciale 116, località Fornello.

Conosceva il posto. Salì sull'Alfa e vi si diresse. Era una casa isolata tra

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campi, collegata all'asfalto da una strada bianca.La percorse dopo aver lasciato l'auto distante. Sentiva d'istinto che si

avvicinava al cuore del mistero. Gli apparve di fronte una grande dimora padronale, sul davanti dominata da un doppio scalone. Girò intorno per cercare l'entrata più facile e dovette farsi largo tra i rovi che ormai davano l'assedio ai muri. C'era una finestra sul retro con le stecche delle persiane corrose dall'umidità. Le forzò e cedettero una a una finché gli fu possibile allungare un braccio e aprire dall'interno.

Quindi diede un colpo al vetro e fece lo stesso con l'imposta.Saltò dentro accolto dall'odore di naftalina e vecchi cappotti. Accese la

torcia da paracadutista e si sentì a disagio in quel buio carico di mistero. Gli riecheggiarono più volte negli orecchi le parole di quella telefonata d'avvertimento sul pericolo che minacciava «uno dei vostri». Un brivido gli corse la schiena: nessuno sapeva che era lì, in quel posto isolato dove non passava mai anima viva. Se aveva lasciato la sua Alfa rossa ben in vista sulla Provinciale era per via di un certo disagio avvertito fin dall'inizio.

Giunse all'interruttore generale e lo inserì. Poi accese tutte le luci senza aprire nemmeno una finestra. Quando arrivò in cucina notò una cassa d'abete aperta e vuota. Sul tavolo resti di cibo tra cui giravano piccoli insetti velocissimi e sul divano una vecchia vestaglia. Aprì gli armadi e i mobili: c'erano vestiti da donna e abiti maschili di taglio antiquato.

Niente che potesse confermargli il suo sospetto.Percorse le pareti con lo sguardo imbattendosi nei ritratti di qualche

parente defunto. Seminascosta in un angolo, una piccola cassaforte. Aprì i cassetti e provò tutte le chiavi fino a che trovò quella giusta. Dentro c'era solo una borsa di pelle colma di documenti. In una tasca interna una carta d'identità: Francesco Stazzani, via Vitruvio 37.

Scostò i lembi della borsa: conteneva numerose cartelle.Lesse solo alcune intestazioni di sguincio. Su una c'era scritto: Piero

Ridolfi detto Pierre. Un'altra recava il nome di Blackrigth e un'altra ancora quello di Gianguido Tonetti.

Posò tutto sul tavolo. Si sentiva comunque insoddisfatto. Chi aveva abitato quella casa?

Aprì un uscio che conduceva alle cantine. Un'aria umida e muffosa saliva portando con sé un odore di salumi. Soneri ne fu attratto e scese. Una luce di poche candele illuminava vecchie tine capovolte e assalite dalle ragnatele. Dal soffitto pendevano salami e coppe, una vescica di maiale ormai secca e un prosciutto col gambo foderato di stagnola. Sui

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ripiani c'erano alcune damigiane che il commissario stappò per sentirne l'odore: malvasia, moscato e lambrusco.

Passò vicino a un barilotto e vi batté le nocche. Il suono lo dava pieno. Sollevò la finestrella sulla sommità delle doghe e vi accostò il naso: aceto. Puntò la torcia dentro l'apertura e scrutò il liquido scuro. Un odore intruso aveva colpito Soneri che conosceva perfettamente numerose varietà di aceti. La torcia, infatti, mostrò una chiazza oleastra sulla superficie.

L'intuito e il sospetto gli suggerirono il resto. Afferrò una lunga stecca di legno che serviva per mescolare il mosto e l'affondò nel barilotto. C'era qualcosa di solido sul fondo.

Prese una bacinella e cominciò a svuotare l'aceto facendolo scorrere dal rubinetto. Gli rincresceva, doveva essere ottimo.

Alla fine capovolse il barilotto fino a che uscirono tre buste di plastica: le pistole che cercava.

Risalì e le osservò ancora nel nylon velato di rosso. Erano una Browning, una Beretta e una Smith and Wesson. Il contenitore di quest'ultima, più pesante delle altre, aveva ceduto e la pistola contaminato l'aceto col suo grasso.

Alzò il telefono e chiamò Juvara.Gli lesse il numero di matricola della Beretta.- Controlla fra i nostri a chi appartiene. Chiamerò fra dieci minuti.Mise le armi in fila sul tavolo di fianco alla cassa d'abete.Solo allora si accorse che ne mancava una, la Mauser. Girò per la stanza

da pranzo e si arrestò di fronte alla libreria. Cercava di capire, anche se sapeva che si trattava di uno sforzo inutile.

Al massimo si poteva tentare d'interpretare con la speranza di andarci vicino.

C'era un volume posato sullo scaffale. Lo prese e vide che si trattava de I Demoni di Dostoevskij. Un segno e una vistosa piegatura sul dorso gli indicarono le pagine più lette. L'aprì allora in quel punto e lesse il solitario delirio di Kirillov.

Chi avrebbe mai saputo la vera motivazione di quella catena di delitti? Lasciava l'interpretazione ai magistrati o ai criminologi. Lui, Soneri, si accontentava di aver trovato i colpevoli. E anche se percepiva qualcosa di poco nobile dietro quella storia, aveva la certezza che le apparenze sarebbero state salvate. Insomma, non valeva la pena ficcarci troppo il naso.

Compose di nuovo il numero di Juvara: - Commissario, la pistola è di Federico Bondan, uno dell'archivio.

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Rimase zitto: ci aveva pensato senza il coraggio di confessarlo nemmeno a se stesso.

Sferrò un pugno sul tavolo facendo sobbalzare le pistole nelle buste. Lui, Bondan, non l'avrebbe mai perdonato.