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RESTAURAZIONE E RIVOLUZIONE IN EUROPA La Restaurazione e il nuovo assetto europeo Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze europee si accordarono per la ricostituzione del vecchio ordine, infranto prima dall'ondata rivoluzionaria poi dalle conquiste delle armate francesi: iniziava l'età della Restaurazione. Restaurazione in primo luogo dei sovrani spodestati, ma anche delle gerarchie sociali tradizionali, degli ordinamenti prerivoluzionari, dei modi di governare tipici dell'ancien régime. Il progetto ottenne alcuni iniziali successi politici, ma ben presto mobilitazioni rivoluzionarie e indipendentiste avrebbero preso il sopravvento. Un programma irrealizzabile I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove spinte di una società in mutamento avrebbero dimostrato che si trattava di un progetto velleitario. Impossibili da rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza del diritto e dell'uguaglianza formale fra i cittadini, ma anche su quello dell'organizzazione burocratica e della razionalizzazione delle attività economiche. Tutto ciò rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia — della proprietà terriera e delle professioni, del commercio e dell'industria — che aveva acquisito una nuova consapevolezza del suo ruolo nella società. Il congresso di Vienna Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con maggior decisione e con risultati più evidenti fu certamente quello dei rapporti internazionali definiti dal congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), il più affollato consesso di sovrani e governanti che mai si fosse visto in Europa. Le decisioni più importanti, tuttavia, vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori potenze vincitrici: Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria. Il ministro degli Esteri austriaco Metternich fu l'autentico regista dei lavori. Ma in questo gruppo riuscì a inserirsi anche il rappresentante della Francia sconfitta, Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della Rivoluzione e dell'Impero. Uomo di grande abilità, Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio del suo paese il principio di legittimità: il principio, cioè, in base al quale dovevano essere anzitutto restaurati i diritti «legittimi» violati dalla Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei

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RESTAURAZIONE E

RIVOLUZIONE IN EUROPA

La Restaurazione e il nuovo assetto

europeo

Dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, le potenze

europee si accordarono per la ricostituzione del vecchio

ordine, infranto prima dall'ondata rivoluzionaria poi dalle

conquiste delle armate francesi: iniziava l'età della

Restaurazione. Restaurazione in primo luogo dei sovrani

spodestati, ma anche delle gerarchie sociali tradizionali,

degli ordinamenti prerivoluzionari, dei modi di governare

tipici dell'ancien régime. Il progetto ottenne alcuni iniziali

successi politici, ma ben presto mobilitazioni

rivoluzionarie e indipendentiste avrebbero preso il

sopravvento.

Un programma irrealizzabile

I cambiamenti intervenuti nelle istituzioni e le nuove

spinte di una società in mutamento avrebbero dimostrato

che si trattava di un progetto velleitario. Impossibili da

rimuovere erano i risultati ottenuti sul piano della certezza

del diritto e dell'uguaglianza formale fra i cittadini, ma

anche su quello dell'organizzazione burocratica e della

razionalizzazione delle attività economiche. Tutto ciò

rispondeva alle aspirazioni e ai bisogni di una borghesia

— della proprietà terriera e delle professioni, del

commercio e dell'industria — che aveva acquisito una

nuova consapevolezza del suo ruolo nella società.

Il congresso di Vienna

Il terreno su cui la volontà restauratrice si manifestò con

maggior decisione e con risultati più evidenti fu

certamente quello dei rapporti internazionali definiti dal

congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), il più

affollato consesso di sovrani e governanti che mai si fosse

visto in Europa. Le decisioni più importanti, tuttavia,

vennero prese tra i delegati delle quattro maggiori potenze

vincitrici: Gran Bretagna, Russia, Prussia, Austria. Il

ministro degli Esteri austriaco Metternich fu l'autentico

regista dei lavori. Ma in questo gruppo riuscì a inserirsi

anche il rappresentante della Francia sconfitta,

Talleyrand, già ministro degli Esteri negli anni della

Rivoluzione e dell'Impero. Uomo di grande abilità,

Talleyrand riuscì a far valere a vantaggio del suo paese il

principio di legittimità: il principio, cioè, in base al quale

dovevano essere anzitutto restaurati i diritti «legittimi»

violati dalla Rivoluzione e, dunque, anche quelli dei

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Borbone di Francia.

L'Europa nel 1815

Il nuovo assetto europeo

Era del resto interesse delle stesse potenze vincitrici fare

della Francia monarchica un pilastro del nuovo equilibrio

conservatore piuttosto che rischiare, umiliandola, di

creare il terreno propizio per nuovi esperimenti

rivoluzionari. Per questo motivo la Francia non subì

alcuna amputazione rispetto alle frontiere del 1791. Il

nuovo assetto territoriale fu realizzato senza il minimo

riguardo per i principi di nazionalità, ma comportò

ugualmente una certa razionalizzazione della geografia

politica europea in relazione ai rapporti di forza che si

erano consolidati nelle guerre antinapoleoniche. Fu

confermata l'abolizione del Sacro romano impero, che era

stato cancellato da Napoleone nel 1806, mentre i

mutamenti più importanti rispetto alla situazione

prerivoluzionaria si verificarono nel Centro e nel Nord

dell'Europa. La Russia si espanse verso occidente,

occupando la Finlandia e buona parte della Polonia.

Anche la Prussia si ingrandì a ovest, annettendo una serie

di territori nella zona del Reno che si sarebbero poi

rivelati di decisiva importanza economica. Gli Stati

tedeschi si ridussero drasticamente di numero e furono

riuniti in una Confederazione germanica, la cui presidenza

era tenuta dall'imperatore d'Austria. L'Impero asburgico,

sotto l'abile guida di Metternich, si affermò come il fulcro

dell'equilibrio continentale ed ebbe riconosciuto un ruolo

egemone sull'intera Penisola italiana. Il Belgio e il

Lussemburgo, uniti all'Olanda, formarono il Regno dei

Paesi Bassi. Nessun mutamento di rilievo si ebbe nella

Penisola iberica, né nei Balcani. La Gran Bretagna non

accampò pretese territoriali sul continente, ma si

preoccupò di assicurare in Europa un equilibrio tale da

impedire l'emergere di nuove ambizioni egemoniche.

L'Italia

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Quanto all'Italia, essa fu riportata, con poche varianti, alla

situazione precedente alle guerre napoleoniche. La

maggiore novità fu il rafforzamento dell'egemonia

austriaca, ottenuta non solo con la sovranità sul

L'Italia nel 1815

Lombardo-Veneto, ma anche attraverso una serie di

legami militari e dinastici con gli altri Stati della penisola,

fra cui il Regno di Napoli, ricostituito sotto la dinastia dei

Borbone e ribattezzato Regno delle Due Sicilie. L'unico

tra gli Stati italiani a mantenere una certa autonomia

rispetto all'Impero asburgico fu il Regno di Sardegna,

ingranditosi con l'acquisto di alcuni territori della Savoia e

soprattutto di una regione ricca e popolosa come la

Liguria.

Le nuove alleanze

A presidio di questi assetti furono varate due alleanze: la

prima fu la Santa alleanza, nata nel settembre 1815 da

un'iniziativa dello zar Alessandro I, cui aderirono anche

l'imperatore d'Austria e il re di Prussia. Si trattava di una

sorta di alleanza personale fra i tre sovrani, il cui testo era

ricco di riferimenti alla religione cristiana. Alla Santa

alleanza aderirono successivamente molti altri Stati

europei, fra cui la Francia. Non vi aderì invece la Gran

Bretagna che, nel novembre dello stesso anno, propose un

secondo accordo alle potenze vincitrici (Austria, Russia e

Prussia), la cosiddetta Quadruplice alleanza: i quattro

contraenti si impegnavano a vigilare contro possibili

tentativi di rivincita da parte della Francia e a intervenire

contro ogni minaccia all'equilibrio europeo.

Questo sistema di alleanze dava vita a una sorta di

direttorio che aveva il compito di risolvere pacificamente

eventuali contrasti fra Stato e Stato. Nasceva così quello

che fu chiamato il concerto europeo, ossia un dialogo

costante fra le grandi potenze che contribuì a ridurre le

tensioni sul continente e ad assicurare all'Europa un

quarantennio di pace.

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Il ritorno all'ordine

Dopo la gran ventata rivoluzionaria e napoleonica si ebbe,

quasi ovunque in Europa, un assestamento degli equilibri

interni in senso conservatore, sostenuto anche

dall'alleanza tra i sovrani e il potere religioso delle Chiese.

In Gran Bretagna

Persino in Gran Bretagna, il paese in cui le istituzioni

parlamentari erano nate, gli anni successivi al 1815 videro

il prevalere dell'ala destra del partito conservatore: quella

che aveva la sua base nell'aristocrazia terriera e nell'alto

clero anglicano. Il dominio della destra tory si tradusse in

una politica volta a favorire gli interessi della grande

proprietà terriera, attraverso l'imposizione di un forte

dazio di importazione sul grano, che proteggeva la

produzione interna e manteneva elevati i prezzi al

consumo. Questa politica sacrificava gli interessi

dell'industria esportatrice — che costituiva da tempo la

vera base della potenza economica britannica — e

inaspriva le tensioni sociali, alzando il costo della vita. Si

ebbero infatti in questi anni numerose agitazioni operaie,

sempre duramente represse, come nel caso del «massacro

di Peterloo» a Manchester nel 1819.

In Spagna e nell'Europa del Nord

La Restaurazione assunse forme particolarmente dure in

Spagna, dove il re Ferdinando VII si affrettò ad abrogare

la «Costituzione di Cadice» del 1812 e mise in atto una

durissima repressione nei confronti delle correnti liberali.

Regimi a base parzialmente rappresentativa (con

parlamenti eletti a suffragio ristretto e dotati di poteri

assai limitati) furono invece mantenuti nel Regno dei

Paesi Bassi e in alcuni Stati della Confederazione

germanica, oltre che in Svezia, Danimarca e Svizzera.

In Francia

Il caso più interessante per i legami col passato e per gli

sviluppi futuri fu quello della Francia. Appena insediato

sul trono, nel giugno 1814, il nuovo re Luigi XVIII aveva

concesso una Costituzione, ma si preferì chiamarla col

nome generico di «Carta», che proclamava l'uguaglianza

di tutti i francesi davanti alla legge, garantiva le libertà

fondamentali (di opinione, di stampa e di culto) e

prevedeva un Parlamento bicamerale, composto da una

Camera dei pari di nomina regia e da una Camera dei

deputati elettiva. Il limitato contenuto liberale della Carta

era ulteriormente diminuito sia dagli scarsi poteri di cui

godeva la Camera dei deputati, sia dal carattere restrittivo

della legge elettorale, che legava il diritto di voto all'età

(30 anni) e al livello di reddito: in pratica godevano di tale

diritto non più di 100 mila cittadini. Nonostante ciò, la

Francia «restaurata» era pur sempre uno dei pochi regimi

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costituzionali esistenti in Europa. Vi furono inoltre

mantenute molte delle più importanti innovazioni del

periodo napoleonico — dal Codice civile all'ordinamento

amministrativo, al sistema scolastico statale — e

soprattutto fu garantita l'inviolabilità di tutte le proprietà

vecchie e nuove, comprese dunque quelle derivate

dall'acquisto di terre confiscate alla nobiltà e al clero. La

moderazione del re scontentava naturalmente i legittimisti

più intransigenti, soprattutto quei nobili emigrati che,

rientrati in patria, si aspettavano di tornare interamente in

possesso dei loro beni e di riprendere gli antichi usi

feudali.

In Italia

In Italia, la restaurazione dei vecchi Stati e delle vecchie

dinastie comportò un arresto del processo di sviluppo

civile e politico che si era avviato durante il periodo

francese.

Nel Regno sabaudo

Il re Vittorio Emanuele I abrogò in blocco la legislazione

napoleonica, epurò drasticamente la pubblica

amministrazione, ristabilì il controllo della Chiesa

sull'istruzione e riportò in vigore le discriminazioni contro

le minoranze religiose (ebrei e valdesi).

Nello Stato della Chiesa

La relativa moderazione del papa Pio VII fu presto

sconfitta dalla linea di pura restaurazione teocratica

sostenuta dall'ala intransigente del collegio cardinalizio e

dalla Compagnia di Gesù (ricostituita nel 1814).

Nel Regno delle Due Sicilie

Nel Regno di Napoli la legislazione antifeudale fu

mantenuta ed estesa anche alla Sicilia. Lo Stato fu

unificato dal punto di vista amministrativo, quando

assunse nel 1816 il nuovo nome di Regno delle Due

Sicilie: un'opera di cauta razionalizzazione, che però, oltre

a suscitare la protesta autonomi stica della nobiltà

siciliana, non comportò alcuna liberalizzazione in campo

politico e culturale né alcun inizio di modernizzazione

economica.

In Toscana e nei Ducati

Da questo punto di vista, le cose andavano meglio nei

territori direttamente amministrati dall'Austria e negli

Stati minori del Centro-nord – Granducato di Toscana,

Ducati di Parma e Modena – da essa controllati. In

Toscana, il governo del granduca Ferdinando III si

riallacciò alla miglior tradizione dell'assolutismo

illuminato. Particolari cure furono dedicate al progresso

dell'agricoltura, sempre caratterizzata dalla prevalenza

della mezzadria. Qualche segno di apertura politico-

culturale poté svilupparsi in un clima di relativa

tolleranza: la rivista «L'Antologia», fondata nel 1821 da

Gian Pietro Vieusseux e Gino Capponi, sarebbe rimasta

per oltre un decennio il principale punto di riferimento per

gli intellettuali liberali di tutta Italia.

Nel Lombardo-Veneto

Autoritarismo e buona amministrazione caratterizzarono il

dominio austriaco nel Lombardo-Veneto. La Lombardia

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continuò a essere la regione economicamente più avanzata

d'Italia, nonostante fosse sottoposta a un regime fiscale e

doganale che ne penalizzava lo sviluppo. Inoltre, lo stretto

controllo esercitato dalle autorità austriache sulla vita

politica e intellettuale non impediva il manifestarsi di una

vivace attività culturale, che aveva le sue radici nella

tradizione dell'Illuminismo settecentesco. Dall'incontro

fra questa tradizione e i nuovi fermenti della cultura

romantica ebbe origine l'esperienza, breve ma

significativa, della rivista «Il Conciliatore». Nata nel

settembre 1818 e soppressa un anno dopo per l'intervento

della censura, la rivista svolse un ruolo importante, come

espressione delle correnti liberali e patriottiche, ma anche

per l'attenzione alle tendenze più avanzate della cultura

europea.

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Aristocrazia e borghesia nell'Europa

restaurata

La borghesia e la proprietà terriera

Nei decenni della Restaurazione in Europa, al sistema di

dominio politico ed economico dell'aristocrazia,

prevalentemente terriera, faceva ormai riscontro l'ascesa

della borghesia: una borghesia che, pur connotata da una

vocazione professionale, commerciale e imprenditoriale,

cercava in molti casi di imitare gli stili di vita e la

propensione alla proprietà terriera tipica dei ceti nobiliari.

Questa commistione avrebbe caratterizzato gran parte

della storia sociale dei ceti superiori nell'800.

Gli effetti della defeudalizzazione

Il periodo dagli anni '20 agli anni '40 del secolo

rappresenta una fase importante di questo processo perché

vede il definitivo smantellamento del sistema dei privilegi

e vincoli feudali che ostacolavano la circolazione delle

proprietà. Zone estese dominate da rapporti ancora feudali

rimarranno ancora nell'Europa orientale fino al 1848 e in

Russia (dove la servitù della gleba costituiva ancora il

fulcro dell'ordine sociale delle campagne) fino al 1861,

ma nel resto del continente la defeudalizzazione era ormai

molto avanzata. In Francia e nei paesi vicini passati

attraverso la dominazione napoleonica come le regioni

occidentali della Germania, i Paesi Bassi, l'Italia

settentrionale la rivoluzione antifeudale si era compiuta in

modo irreversibile e la borghesia aveva aumentato

considerevolmente la sua quota di partecipazione alla

proprietà della terra. Ma ciò non si era tradotto sempre in

una generale modernizzazione delle tecniche agricole né

in un apprezzabile miglioramento delle condizioni di vita

delle masse rurali. La vendita delle terre già appartenenti

al clero e alla nobiltà non aveva in genere avvantaggiato i

piccoli coltivatori e i contadini senza terra, ma era servita

soprattutto a incrementare la grande proprietà borghese.

Nell'Europa del Sud (Penisola iberica, Italia meridionale e

insulare) la defeudalizzazione fu più rapida, ma non

intaccò se non in minima parte le tradizionali gerarchie

sociali né modificò la struttura della proprietà terriera,

caratterizzata dalla persistenza del latifondo e della grande

proprietà ecclesiastica.

I tempi diversi della modernità

Queste trasformazioni confermavano il permanente

sovrapporsi di tradizione e modernità nel mondo rurale,

tanto nei rapporti economici che in quelli tra proprietari e

contadini: una considerazione che vale, in diversi gradi,

per tutta l'Europa se teniamo presenti i diversi livelli dei

punti di partenza. In ogni caso la modernità politica non

abitava le campagne, ma rimaneva espressione

prevalentemente urbana: è dalle città e dai ceti urbani,

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infatti, che si sarebbero mosse tutte le iniziative

rivoluzionarie degli anni successivi.

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I moti rivoluzionari del 1820-21

A partire dall'inizio degli anni '20 l'ordine imposto

all'Europa dalla Restaurazione contrastato da tre

successive ondate rivoluzionarie: nel 1820-21, nel 1830 e

nel 1848-49. Limitate inizialmente ad alcuni paesi,

soprattutto dell'Europa meridionale, più estese nel 1830,

culminarono nella "rivoluzione dei popoli" del 1848-49.

Le sette nell'Europa restaurata

Come governi e regnanti erano uniti dalla trama delle

alleanze, così quanti lottavano contro l'ordine costituito,

per l'affermazione degli ideali liberali, democratici e

nazionali, facevano inizialmente capo a organizzazioni

clandestine che, nate per lo più nel '700 o in età

napoleonica, si diffusero in questo periodo con grande

rapidità: sette e società segrete divennero nell'età della

Restaurazione il principale strumento di lotta politica.

più numerose e importanti erano le sètte di tendenza

democratica o liberale. Alcune di esse traevano origine e

ispirazione dalla Massoneria: a essa era collegata la più

importante e la più diffusa fra quelle attive nell'età della

Restaurazione, la Carboneria, presente soprattutto in Italia

e in Spagna. I carbonari – che riprendevano i loro simboli

e i loro rituali dal lavoro, appunto, dei carbonai (come i

massoni da quello dei muratori) – ispiravano per lo più la

loro azione a ideali di costituzionalismo e di liberalismo

moderato.

I moti del '20-'21

Ma i confini fra le società segrete erano spesso abbastanza

incerti: sia perché le diverse associazioni erano unite tra

loro da molti legami, sia perché la struttura verticistica e

rigorosamente clandestina delle organizzazioni – i cui

aderenti erano per lo più tenuti all'oscuro sia del contenuto

completo del programma sia dell'identità dei capi –

favoriva la coesistenza nella stessa setta di diversi progetti

politici, corrispondenti ai diversi gradi di iniziazione.

A prescindere dai fini che si proponevano, queste

associazioni poggiavano tutte su una base piuttosto

ristretta: pochissimi artigiani e popolani, qualche membro

dell'aristocrazia liberale, qualche esponente della

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borghesia del commercio e delle professioni, ma

soprattutto intellettuali, studenti e militari. Furono i

militari, in particolare gli ufficiali e i sottufficiali formatisi

nel periodo napoleonico, a fornire alle sètte i nuclei più

preparati e intraprendenti: i soli che, potendo disporre di

una «forza armata», fossero in grado di minacciare

seriamente la stabilità di troni e governi.

Le rivoluzioni del '20-'21

Furono i militari a dare inizio alla prima ondata

rivoluzionaria che scosse l'Europa all'inizio degli anni '20.

Il moto parti dalla Spagna, dove era cresciuta la tensione

per la rivolta delle colonie latino-americane, che il re

Ferdinando VII cercò di soffocare inviando oltreoceano

forti contingenti di truppe. Il 1° gennaio 1820, alcuni

reparti concentrati nel porto di Cadice in attesa di essere

imbarcati per l'America si ammutinarono. In pochi giorni

la rivolta si estese ad altri reparti, rendendo vani i tentativi

di repressione e costringendo il re a richiamare in vigore

la Costituzione del 1812 e a indire le elezioni per le

Cortes (ossia la Camera elettiva). In Spagna si costituiva

così un regime liberal-democratico, reso però fragile

dall'ostilità del re e, soprattutto, dallo scarso consenso di

cui godeva presso le masse contadine, influenzate dalla

Chiesa.

Gli avvenimenti di Spagna ebbero come immediata

conseguenza una generale ripresa dell'attività

rivoluzionaria. Nell'estate del 1820, moti insurrezionali,

sempre iniziati da militari, scoppiarono a poche settimane

di distanza nel Regno delle Due Sicilie e in Portogallo.

Nel marzo 1821 una rivolta scoppiò in Piemonte.

L'intervento delle potenze e la repressione

Le rivoluzioni costituzionali di Spagna e d'Italia

rappresentavano una grave minaccia per l'equilibrio uscito

dal congresso di Vienna. Le potenze aderenti alla Santa

alleanza decisero così di intervenire militarmente. Mentre

l'Austria restaurava il potere assoluto di Ferdinando I nel

Regno delle Due Sicilie e aiutava i Savoia a sconfiggere i

rivoluzionari in Piemonte, la Francia si assumeva il

compito di restaurare l'ordine in Spagna sia per ragioni di

politica interna, sia per equilibrare il peso della presenza

austriaca in Italia. Il fronte conservatore usciva rinsaldato

dalla crisi, mentre le forze liberali avevano dato prova di

scarsa unità, di carenze sul piano dell'organizzazione e

soprattutto di un'assoluta mancanza di legami con le

masse popolari.

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L'indipendenza della Grecia

Patria e religione

L'insurrezione dei greci contro il dominio turco,

cominciata nel 1821 e protrattasi per quasi un decennio,

fu l'unica tra le rivoluzioni degli anni '20 a concludersi

con un sostanziale successo. Fu anche la sola che, pur

essendo nata dall'iniziativa delle società segrete, finì con

l'assumere il carattere di una guerra di popolo, nazionale a

fondamento religioso ortodosso ancor prima che politica.

Ma il successo della lotta per l'indipendenza greca si

dovette anche e soprattutto a fattori di carattere

internazionale. Se l'Impero ottomano era considerato

ancora da Austria e Gran Bretagna un prezioso elemento

di equilibrio continentale, altre potenze, come la Russia e

la Francia, erano attratte dalle possibilità di espansione

che il suo indebolimento avrebbe aperto nell'area

mediterranea e nei Balcani.

La debolezza dell'Impero ottomano

In realtà l'antico Impero ottomano faticava sempre più,

come sappiamo, a tenere uniti i suoi vastissimi

possedimenti. Sempre più problematico per il governo

turco era poi il controllo dei popoli balcanici (greci, serbi,

macedoni, albanesi, bulgari, romeni): qui mancava anche

il legame religioso, dal momento che la maggior parte

della popolazione era formata da cristiani ortodossi. Nei

confronti di questi ultimi l'Impero aveva sempre praticato

una politica tollerante sul piano religioso, ma

discriminatoria su quello politico e sociale. In tutta la

Penisola balcanica i cristiani si trovavano nella condizione

di popolo soggetto: non potendo accedere alla proprietà

terriera, detenuta a titolo feudale dai signori turchi, erano

nella grande maggioranza servi della gleba, contadini

poveri, pastori nomadi dediti non di rado al brigantaggio,

ma formavano anche, coi loro strati superiori, la

maggioranza del ceto mercantile e una parte importante

della burocrazia imperiale.

La rivolta

Nel 1815 già i serbi erano riusciti a conquistarsi un'ampia

autonomia. Nel 1821 insorsero i greci che svolgevano un

ruolo chiave nella vita economica dell'Impero ottomano,

grazie a una forte borghesia mercantile che si era

sviluppata nelle isole dell'Egeo, a Smirne, a Salonicco e

nella stessa Istanbul. La setta patriottica greca Eteáa

('associazione, fratellanza'), che organizzò l'insurrezione,

contava numerosi aderenti tra le file di questa borghesia e

trovò immediato sostegno anche fra le masse popolari. Per

fermare la guerriglia, i turchi ricorsero a una serie di

durissime repressioni che suscitarono condanna e

riprovazione in tutta Europa.

Si creò allora in favore degli insorti una forte corrente di

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opinione pubblica internazionale, in cui confluivano

motivazioni politico-ideologiche (la solidarietà con chi

combatteva per la libertà), religiose (la difesa dei cristiani)

e anche culturali, fondate sul mito della Grecia classica.

Da tutta Europa accorsero volontari per unirsi alla

guerra contro i turchi: fra gli altri il poeta inglese Byron e

l'italiano Santorre di Santarosa, che trovarono entrambi la

morte in Grecia. La spinta dell'opinione pubblica impose

una svolta nella politica delle potenze. La Russia, che si

atteggiava a protettrice dei cristiani ortodossi, ruppe nel

'22 le relazioni diplomatiche con la Turchia. La Gran

Bretagna riconobbe nello stesso anno la Grecia come

paese belligerante.

L'indipendenza

Fu proprio l'intervento delle potenze europee – che nel

luglio '27 distrussero a Navarino una flotta turco-egiziana

– a imporre all'Impero ottomano la firma della pace di

Adrianopoli (1829), con cui si riconosceva l'indipendenza

greca. Al nuovo Stato – che nasceva con una estensione

limitata a poco più del Peloponneso e dell'Attica – le

grandi potenze imposero un regime monarchico

costituzionale e come sovrano un principe della casa di

Baviera.

La soluzione della questione greca rappresentò un

precedente di grande importanza per le lotte di

indipendenza nazionale dell'800 e un colpo letale per

l'equilibrio conservatore europeo. Per l'Impero ottomano –

ulteriormente indebolito, nell'estate del 1830,

dall'occupazione di Algeri da parte della Francia (di cui si

leggerà nel paragrafo seguente) – la sconfitta fu la

conferma Ai una lunga crisi, in atto ormai da oltre un

secolo e destinata a protrarsi per altri cent'anni fino agli

inizi del '900.

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I moti rivoluzionari del 1830-31

Nel 1830, una nuova ondata rivoluzionaria partita dalla

Francia portò a trasformazioni profonde e durature negli

assetti politici europei: la cacciata della dinastia dei

Borbone in Francia e l'indipendenza del Belgio.

La rivoluzione in Francia

La rivoluzione che scoppiò a Parigi nel luglio 1830 fu la

diretta conseguenza del tentativo messo in atto dal re

Carlo X (salito al trono nel 1824) e dagli ambienti

ultrarealisti («ultras») di restringere il più possibile le

libertà costituzionali garantite dalla Carta del '14. Contro

la politica di Carlo X si schierarono non solo i

democratici e gli intellettuali liberalmoderati, ma anche la

grande borghesia degli affari e della finanza e un'ala

consistente della stessa aristocrazia. Nelle elezioni del

1827, le forze di opposizione ottennero una netta

maggioranza alla Camera.

Il re scelse allora la strada dello scontro col potere

legislativo e contemporaneamente cercò un diversivo in

politica estera inviando, all'inizio di luglio, un corpo di

spedizione in Algeria. L'occupazione di Algeri, che

costituì la premessa per la successiva espansione francese

in Nord Africa, non ottenne però i risultati sperati. Nelle

elezioni che si tennero subito dopo, l'opposizione fece

ulteriori progressi. A questo punto Carlo X diede avvio a

un vero e proprio colpo di Stato, emanando quattro

ordinanze che sospendevano la libertà di stampa,

scioglievano la Camera appena eletta, modificavano la

legge elettorale rendendola ancora più restrittiva e

convocavano nuove elezioni.

Subito dopo la pubblicazione delle ordinanze, il popolo di

Parigi scese in piazza, come non accadeva più dai tempi

della grande Rivoluzione e, dopo tre giorni di duri scontri

con le truppe regie (27, 28 e 29 luglio), costrinse Carlo X

ad abbandonare la capitale. Il 29 luglio le Camere riunite

in seduta comune dichiaravano la decadenza della dinastia

borbonica e nominavano luogotenente del regno Luigi

Filippo d'Orléans, cugino del re appena deposto. La scelta

di Luigi Filippo – che era stato, negli anni della

Restaurazione, uno dei punti di riferimento

dell'aristocrazia «illuminata» e, in genere, dei gruppi

liberal-moderati – andava incontro in qualche modo alle

richieste della piazza, che chiedeva prima di tutto la

cacciata dei Borbone. Ma d'altra parte aveva lo scopo di

bloccare un processo rivoluzionario di cui erano in molti a

temere gli sviluppi: protagoniste delle tre gloriose

giornate di luglio erano state infatti le masse popolari,

soprattutto artigiane, guidate dai club repubblicani e

giacobini.

Il 9 agosto, Luigi Filippo fu proclamato dal Parlamento

«re dei francesi per volontà della nazione»: una formula

che conciliava il principio monarchico con quello della

sovranità popolare. Il tricolore della Francia

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rivoluzionaria – blu, bianco e rosso –tornò a essere la

bandiera nazionale. Fu varata una nuova Costituzione che

accresceva il controllo del Parlamento sul potere

esecutivo, allargava il diritto di voto, in misura peraltro

modesta, e realizzava una più netta separazione fra Stato e

Chiesa.

I moti in Belgio, Italia e Polonia

Il successo dell'insurrezione di luglio apri nuovi spazi

all'iniziativa delle forze liberali e democratiche europee:

in agosto insorse il Belgio annesso, per decisione del

congresso di Vienna, al Reno dei Paesi Bassi. L'Olanda

chiese l'aiuto delle grandi potenze, ma Francia e Gran

Bretagna si opposero e riconobbero l'indipendenza del

Belgio. Era una decisione di portata storica perché

segnava, col delinearsi dell'intesa franco-inglese, la fine

del sistema di rapporti disegnato nel 1815. Esito diverso

ebbero i moti rivoluzionari scoppiati in Italia centro-

settentrionale e in Polonia. Essi furono schiacciati

dall'intervento militare rispettivamente di Austria e

Russia.

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Liberalismo e autoritarismo

La scelta conservatrice della monarchia di luglio

in Francia

Pur essendo nato da un'insurrezione popolare, il regime

orleanista si resse su una base di consenso piuttosto

ristretta e precaria: la monarchia di luglio finì per

identificarsi gradatamente con i valori e con gli interessi

dell'alta borghesia degli affari, che vide costantemente

crescere il suo peso economico e la sua influenza politica.

L'alta borghesia e l'aristocrazia liberale a essa alleata –

che in pratica detenevano il monopolio della

rappresentanza politica, dato il carattere ristretto del

suffragio – costituivano però uno strato esiguo della

società francese ed erano privi, peraltro, dell'appoggio del

clero.

Sul fronte dell'opposizione, particolarmente attivi furono i

gruppi democratico-repubblicani che erano stati i

protagonisti dell'insurrezione parigina del '30 e che erano

collegati ai primi nuclei socialisti già attivi nei grandi

centri urbani. Organizzati in una fitta rete di associazioni

più o meno clandestine, repubblicani e socialisti

costituirono un costante pericolo per la stabilità del

regime orleanista, costretto a fronteggiare una lunga serie

di agitazioni e di veri e propri tentativi insurrezionali. La

ricorrente minaccia rivoluzionaria provocò per

contraccolpo un'involuzione conservatrice della

monarchia di luglio, che si tradusse in alcune misure

limitative della libertà di stampa e di associazione. Questa

involuzione si accentuò a partire dal 1840, quando

François Guizot divenne la figura dominante della scena

politica francese. Guizot attuò una politica

Moti del '30-'31

sostanzialmente conservatrice, tutta centrata sulla ricerca

dell'ordine e della stabilità, volta a favorire le velleità

speculative della borghesia degli affari. Ciò finì con

l'accentuare i caratteri oligarchici del regime, scavando un

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fossato sempre più profondo fra il paese e la classe

dirigente.

Il liberalismo in Gran Bretagna

Una svolta liberale si era aperta invece in Gran Bretagna

fin dalla metà degli anni '20, quando nelle file del partito

conservatore (tory) si affermò la figura di Robert Peel.

Fino alla metà dell'800 il paese fu guidato dal partito whig

e da quello conservatore alternativamente, sebbene il

primo avesse governato per ben 16 anni e il secondo per

5.

Il diritto di unirsi in libere associazioni

Con Peel furono attuate alcune importanti riforme interne,

prima fra tutte quella del 1824, che riconosceva ai

lavoratori il diritto di unirsi in libere associazioni. Sorsero

così numerose unioni di mestiere, Trade Unions,

organizzate su base di classe, formate cioè dai soli operai

per la tutela dei loro diritti e per il sostegno alle loro

rivendicazioni economiche.

La riforma elettorale e le misure per le classi disagiate

Il nodo principale da sciogliere era tuttavia quello

dell'ampliamento del diritto di voto, allora limitato a una

ristretta minoranza della popolazione (poco più del 3%).

Un problema a sé era poi quello delle circoscrizioni

elettorali, che non tenevano ancora conto degli sviluppi

dell'urbanizzazione legati alla rivoluzione industriale.

Accadeva così che le circoscrizioni urbane fossero

gravemente sacrificate nella distribuzione dei seggi a

vantaggio di quelle rurali: vi erano minuscoli collegi

rurali, i cosiddetti "borghi putridi" (rotten boroughs), in

cui bastavano poche decine di voti per mandare in

Parlamento un deputato, con evidente vantaggio per gli

esponenti della grande proprietà terriera, visto che l'eletto

era spesso il signore del luogo. La legge, approvata dal

Parlamento nel giugno 1832 con un governo a guida

whig, allargava il corpo elettorale di oltre il 50% e, cosa

ancora più importante, ridisegnava le circoscrizioni,

aumentando il numero di quelle urbane. Il sistema restava

censitario, ma era pur sempre il più aperto nell'Europa di

allora. Alla riforma elettorale si accompagnarono, negli

anni '30, misure legislative per migliorare le condizioni

delle classi più disagiate. La legge sul lavoro nelle

fabbriche, del 1833, fissava in dieci ore l'orario massimo

per i ragazzi sotto i diciotto anni e in otto per i bambini

sotto i dodici. La legge sui poveri, del 1834, affidava a

istituzioni ed enti locali l'assistenza ai bisognosi.

Il movimento cartista

Tentativi di modificare ulteriormente il sistema politico

britannico furono avanzati dall'opposizione democratica,

che faceva capo agli intellettuali radicali e agli operai

organizzati nelle Trade Unions. Proprio dai leader delle

Trade Unions partì l'iniziativa di una grande

mobilitazione popolare per imporre alla classe dirigente

l'adozione del suffragio universale, il solo mezzo per far

valere gli interessi dei lavoratori nella Camera e nel

governo. Nel 1838 la Carta del popolo chiedeva, tra

l'altro, il suffragio universale maschile, la garanzia della

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segretezza del voto e una nuova riforma dei collegi

elettorali. Il movimento cartista (così chiamato appunto

dalla Carta del popolo) non riuscì a ottenere tuttavia

alcuno dei suoi obiettivi e, dopo un decennio di lotte, finì

con l'esaurirsi, anche perché i leader delle Trade Unions

abbandonarono progressivamente il terreno della

mobilitazione politica per concentrarsi su quello delle

rivendicazioni economiche.

L'abolizione del dazio sul grano

Tra la fine degli anni '30 e l'inizio degli anni '40, il centro

dell'impegno dei progressisti, appoggiati questa volta dai

Whigs, fu quello per la riforma doganale, e in particolare

per l'abolizione del dazio sul grano (cioè delle Corn

Laws). Questa rivendicazione chiamava in causa i bisogni

delle classi popolari, poiché il dazio protettivo manteneva

elevato il prezzo dei cereali – che sarebbe sceso

detassando le importazioni – a esclusivo vantaggio dei

produttori interni e a scapito dei consumatori. Essa

esprimeva inoltre gli interessi del mondo industriale,

desideroso di veder rimossi tutti gli ostacoli che si

opponevano all'affermazione dei propri prodotti sui

mercati stranieri. Il dazio sul grano era certamente uno di

questi ostacoli, in quanto provocava l'imposizione, da

parte dei paesi esportatori di cereali, di analoghe tariffe

sui prodotti industriali inglesi. Non a caso il movimento

per la riforma doganale ebbe il suo centro a Manchester,

capitale dell'industria tessile, e il suo principale portavoce

in Richard Cobden, industriale cotoniero e deputato

liberale, leader dal 1838 della Lega contro il dazio sul

grano (Anti-Corn Law League), divenuto in questi anni il

più autorevole e popolare assertore delle teorie liberiste.

La battaglia antiprotezionista fu vinta nel 1846 quando il

governo, allora guidato da Peel, sotto la pressione della

grave carestia che stava imperversando in Irlanda, prese la

storica decisione di abolire il dazio di importazione sui

cereali.

Immobilismo e autoritarismo nelle monarchie

dell'Europa centro-orientale

Al dinamismo politico e sociale manifestato dalla Gran

Bretagna e, in minor misura, dalla Francia negli anni

1830-48, faceva riscontro l'immobilismo politico delle

monarchie autoritarie dell'Europa centro-orientale, in

particolare dell'Austria e della Russia.

La chiusura a ogni fermento innovativo, lo strapotere

delle aristocrazie, il rifiuto di introdurre qualsiasi istituto

rappresentativo, la conservazione dei vecchi e arretrati

ordinamenti agrari – caratterizzati in Russia, ma anche in

molte zone dell'Impero asburgico e della Prussia orientale,

dalla permanenza della servitù della gleba – bloccavano il

progresso civile e inasprivano le tensioni economiche e

sociali. Se per la Russia il problema maggiore era

costituito dalle continue rivolte contadine (a carattere

spontaneo e prive di qualsiasi direzione politica), l'Impero

asburgico cominciava a soffrire in questi anni delle

tensioni che lo avrebbero accompagnato sino alla sua

dissoluzione: le spinte autonomistiche delle diverse

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componenti nazionali – cechi e polacchi, italiani e

ungheresi, croati e sloveni – tutte divise fra loro, ma unite

nell'avversione al centralismo di Vienna.

L'Unione doganale tedesca

Elemento di crisi per la monarchia asburgica, il

nazionalismo costituì invece un fattore di coesione per la

Prussia e per gli Stati della Confederazione germanica.

Deluse le speranze di unificazione coltivate negli anni

delle guerre napoleoniche, le aspirazioni della borghesia

tedesca si concentrarono soprattutto sull'attuazione di

un'Unione doganale, Zollverein, fra tutti gli Stati della

Confederazione. L'abolizione dei dazi doganali, avviata

nel 1818, accelerata dopo il 1830 e in gran parte compiuta

nel 1834, rappresentò non solo una tappa importante sulla

via dell'unità politica degli Stati tedeschi. Fu anche un

potente fattore di sviluppo economico, che avrebbe

favorito il loro decollo industriale su un ampio mercato

nazionale, collegato da una fitta rete di vie di

comunicazione stradali e fluviali.

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Le rivoluzioni del 1848-49

Le premesse e i caratteri comuni delle

rivoluzioni

Nel 1848 l'Europa fu sconvolta da una crisi rivoluzionaria

di ampiezza e intensità straordinarie. Non a caso

l'espressione "quarantotto" è diventata da allora sinonimo

di "disordine, sconvolgimento improvviso". Straordinaria

fu innanzitutto l'estensione dell'area geografica interessata

dalle agitazioni. Ma straordinaria fu anche la rapidità con

cui il moto rivoluzionario si diffuse in tutta l'Europa

continentale, dalla Francia all'Italia, all'Impero asburgico

e alla Confederazione germanica. Un moto così ampio

non sarebbe stato possibile se non fosse stato favorito da

alcune premesse comuni, presenti nell'intera società

europea. Un primo elemento comune era dato dalla

situazione economica: nel biennio 1846-47, l'Europa

aveva attraversato una fase di crisi, che aveva investito

prima il settore agricolo, poi quello industriale e

commerciale, provocando carestie, miseria,

disoccupazione. Il disagio economico e l'inquietudine

sociale non sarebbero bastati di per sé a provocare una

crisi di così vaste proporzioni, se su di essi non si fosse

inserita l'azione svolta dai democratici di tutta Europa, in

particolare dagli intellettuali, depositari di una tradizione

comune che affondava le sue origini nella Rivoluzione

francese.

Rivoluzioni del '45-'48

Simile fu il contenuto dominante delle insurrezioni: la

richiesta di libertà politiche e di democrazia, variamente

intrecciata – in Italia, in Germania e nell'Impero asburgico

– alla spinta verso l'emancipazione nazionale. Simile fu

anche la dinamica dei moti, che si svilupparono tutti

secondo lo schema delle «giornate rivoluzionarie»:

iniziarono cioè con grandi dimostrazioni popolari nelle

capitali, sfociate poi in scontri armati.

Il protagonismo delle masse popolari urbane

A Parigi come a Vienna, a Berlino come a Milano, furono

gli artigiani e gli operai a svolgere il ruolo principale nelle

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sommosse. A Parigi la componente popolare e operaia si

mosse in relativa autonomia e, spesso in contrasto con le

forze democratico-borghesi, cercò di imporre propri

specifici obiettivi di lotta.

Nel gennaio del '48, poche settimane prima dello scoppio

dei moti, era stato scritto il Manifesto del Partito

comunista di Marx ed Engels, destinato a diventare in

seguito il testo-base della rivoluzione proletaria. Questa

convergenza di date ci aiuta a capire come mai il 1848 sia

stato spesso considerato l'anno ufficiale di nascita del

movimento operaio.

Le cause della sconfitta democratica

Le rivoluzioni del 1848-49 si chiusero tutte con una

sconfitta: la causa principale di questo generale fallimento

va individuata nelle profonde fratture ideologiche e

programmatiche che attraversavano al loro interno le

forze del cambiamento e della rivoluzione, dividendo

sempre più le correnti democratico-radicali dai gruppi

liberai-moderati. Questi ultimi, spaventati dalla minaccia

della rivoluzione sociale, si riaccostarono alle vecchie

classi dirigenti. I democratici, lasciati soli a sostenere lo

scontro politico e militare con i governi e privi di una

consistente base di massa, erano inevitabilmente destinati

a essere sconfitti.

Paradossalmente in Francia l'esito fu, come vedremo nel

paragrafo seguente, la nascita di un sistema politico

autoritario fondato su un ampio consenso popolare legato

alla tradizione rivoluzionaria di matrice napoleonica.

Altrove la sconfitta dell'ipotesi rivoluzionaria non

cancellò però quanto di nuovo era emerso dall'esperienza

del '48-49. Le aspirazioni verso una più ampia

partecipazione al potere politico e gli ideali di

unificazione e di indipendenza nazionale costituivano

ormai un passaggio obbligato per alcuni paesi europei,

come la Germania e l'Italia.

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Il '48 in Francia. Dalla Seconda Repubblica

al Secondo Impero

La caduta della monarchia liberale

In Francia, la rivoluzione prese avvio ancora una volta da

Parigi. I limiti della monarchia borghese apparivano

ormai intollerabili a un vasto fronte di opposizione che

andava dai liberali progressisti ai democratici, dai

bonapartisti ai socialisti. Per i democratici, in particolare,

l'obiettivo da raggiungere era il suffragio universale, ossia

la concessione del diritto di voto a tutti i cittadini maschi

senza distinzione di reddito o di condizione sociale.

Nettamente minoritari in Parlamento, i democratici

cercarono di trasferire la loro protesta nel «paese reale».

Lo strumento scelto fu la cosiddetta campagna dei

banchetti: grandi riunioni svolte in forma privata che

aggiravano i divieti governativi di riunione e consentivano

ai capi dell'opposizione e ai loro seguaci di tenersi in

contatto e di far propaganda per la riforma elettorale.

L'insurrezione di febbraio

Fu proprio la proibizione di un banchetto, previsto per il

22 febbraio 1848 a Parigi, a innescare la crisi

rivoluzionaria. Lavoratori e studenti parigini

organizzarono una grande manifestazione di protesta. Per

impedirla, il governo ricorse alla Guardia nazionale.

Espressione della borghesia cittadina, la Guardia

nazionale era stata impiegata più volte per reprimere

agitazioni o sommosse operaie. Ma questa volta, chiamata

a difendere un governo largamente impopolare, finì col

fare causa comune con i dimostranti. Dopo due giorni di

barricate e di violenti scontri, che provocarono più di 350

morti, gli insorti erano padroni della città. Il 24 febbraio

Luigi Filippo abbandonò Parigi. La sera stessa veniva

costituito un governo che si pronunciava decisamente a

favore della repubblica — la cosiddetta Seconda

Repubblica, dopo quella rivoluzionaria del 1792 – e

annunciava la convocazione di un'Assemblea costituente

da eleggere a suffragio universale maschile. Nel governo

figuravano tutti i capi dell'opposizione democratico-

repubblicana ed erano presenti anche due socialisti: Louis

Blanc e l'operaio Alexandre Martin, detto Albert.

L'inclusione di due rappresentanti dei lavoratori nel

governo – una novità assoluta nella storia europea –

rifletteva la forza del popolo parigino, protagonista delle

giornate di febbraio, e sottolineava il carattere "sociale"

della nuova Repubblica.

Il diritto al lavoro

Già alla fine di febbraio il governo provvisorio aveva

fissato in undici ore la durata massima della giornata

lavorativa e – cosa ancora più importante – aveva stabilito

il principio del diritto al lavoro: una decisione di portata

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rivoluzionaria, che affrontava per la prima volta un nodo

fondamentale dell'economia capitalistica, quello del pieno

impiego. Per dare attuazione al diritto al lavoro, furono

istituiti degli ateliers nationaux (alla lettera: 'officine

nazionali'). Il nome faceva pensare a quegli ateliers

sociaux che Louis Blanc aveva teorizzato, come vere e

proprie cooperative di produzione, capaci di sostituirsi

all'impresa privata. Ma la realtà era più modesta, legata

com'era alla necessità immediata di aiutare i disoccupati.

Gli operai degli ateliers furono infatti impiegati in lavori

di pubblica utilità (scavo di canali, riparazione di strade) e

posti alle dipendenze del ministero dei Lavori pubblici.

Anche entro questi limiti, l'esperimento poneva gravi

problemi alle finanze statali e introduceva un motivo di

profondo contrasto in seno allo schieramento

repubblicano, la cui ala moderata considerava

incompatibile con i princìpi del liberismo economico un

intervento diretto dello Stato nel mercato del lavoro.

Il governo dei moderati e l'insurrezione di

giugno

Una prima netta sconfitta per le correnti di estrema

sinistra venne dalle elezioni per l'Assemblea costituente,

che si tennero in aprile, a suffragio universale. I vincitori

furono i repubblicani moderati, che costituirono l'ossatura

del nuovo governo dal quale vennero esclusi i socialisti

Blanc e Albert. Il governo emanò subito un decreto con

cui si stabiliva la chiusura degli ateliers nationaux. La

reazione dei lavoratori di Parigi fu immediata e spontanea.

Il 23 giugno, oltre 50 mila popolani (fra cui molti

lavoratori degli ateliers) scesero in piazza. Nei quartieri

popolari ricomparvero le barricate. In risposta,

l'Assemblea costituente concesse pieni poteri all'esercito

per procedere alla repressione, che fu condotta nei giorni

successivi con spietata durezza. Migliaia di insorti

trovarono la morte sulle barricate o nelle esecuzioni

sommarie che seguirono gli scontri. Le tragiche giornate

di giugno segnarono una svolta decisiva nella breve storia

della Seconda Repubblica.

Agli occhi della borghesia di tutta Europa, la rivolta dei

lavoratori parigini dava corpo all'incubo della rivoluzione

sociale, allo «spettro del comunismo». Gran parte della

società francese – dalla borghesia urbana al clero, ai

contadini irritati per l'aumento delle tasse – fu attraversata

da un'ondata di riflusso conservatore.

L'ascesa di Luigi Napoleone Bonaparte

In novembre l'Assemblea costituente approvò a stragrande

maggioranza la nuova Costituzione: una costituzione

democratica, ispirata al modello statunitense, che

prevedeva un presidente della Repubblica eletto

direttamente dal popolo per la durata di quattro anni e

un'unica Assemblea legislativa eletta anch'essa a suffragio

universale. Ma alle elezioni presidenziali (10 dicembre) i

repubblicani si presentarono divisi, mentre i conservatori

fecero blocco sulla candidatura di Luigi Napoleone

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Bonaparte, figlio di un fratello dell'imperatore (quel Luigi

Bonaparte che aveva occupato il trono olandese).

Nonostante avesse un passato da cospiratore, l'allora

quarantenne Luigi Napoleone seppe offrire ampie

assicurazioni alla destra conservatrice e clericale mentre

garantiva, per la sola forza del suo nome, una sicura presa

su vasti strati di elettorato popolare. Il calcolo si rivelò

esatto: una vera e propria valanga di voti si riversò su Bo

naparte. Si chiudeva così definitivamente la fase

democratica della Secondi Repubblica.

La nascita del Secondo Impero di Napoleone III

Nel giro dei successivi tre anni le conquiste democratiche

furono spazzate via. Intorno alla figura del presidente

della Repubblica si raccolse un consenso che poggiava

sugli elementi conservatori, sui clericali e sulla mai sopita

tradizione napoleonica che recluta va aderenti in tutta la

Francia urbana e rurale. Nel dicembre 1851, con un colpo

d Stato sostenuto dall'esercito, la Camera fu sciolta e

diecimila oppositori arrestati deportati. Secondo la prassi

napoleonica un plebiscito a suffragio universale convalidi

l'operato di Bonaparte. La Seconda Repubblica era ormai

tale solo di nome. E la finzione fu abolita, nel dicembre

1852, da un nuovo plebiscito che approvava, con una

maggioranza ancor più schiacciante di quella dell'anno

precedente, la restaurazione dell'Impero. Luigi Napoleone

assumeva così il nome di Napoleone III (veniva dunque

incluso nella serie anche il figlio di Napoleone I, morto

nel 1832 a Vienna) col diritto di trasmettere il titolo

imperiale ai suoi eredi.

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Il '48 nell'Europa centrale

La rivolta nell'impero asburgico

Il moto rivoluzionario iniziato a Parigi alla fine di

febbraio si propagò in poche settimane a gran parte

dell'Europa. Ma, diversamente da quanto era accaduto in

Francia, la componente «sociale» rimase in secondo piano

e lo scontro principale fu combattuto fra le borghesie

liberali – con l'appoggio di consistenti settori delle classi

popolari – e le strutture politiche tradizionali.

Il primo importante episodio insurrezionale ebbe luogo a

Vienna, il 13 marzo. L'occasione della rivolta fu una

grande manifestazione di studenti e lavoratori duramente

repressa dall'esercito. Dopo due giorni di combattimenti,

la corte fu costretta ad allontanare il cancelliere

Metternich: l'uomo-simbolo dell'età della Restaurazione

dovette rifugiarsi all'estero.

Le notizie dell'insurrezione di Vienna e della fuga di

Metternich fecero precipitare la situazione nelle irrequiete

province dell'Impero asburgico e nella vicina

Confederazione germanica. Il 15 marzo vi furono tumulti

a Budapest. Il 17 e il 18 si sollevavano Venezia e Milano.

Negli stessi giorni una violenta sommossa scoppiava a

Berlino, capitale della Prussia. Il 19 marzo i cittadini di

Praga inviavano una petizione all'imperatore chiedendo

autonomia e libertà politiche per i cechi. In maggio

l'imperatore dovette abbandonare la capitale e promettere

la convocazione di un Parlamento dell'Impero, il

Reichstag, eletto a suffragio universale.

La rivoluzione a Budapest e a Praga

In Ungheria le promesse del governo imperiale di

concedere una costituzione e un Parlamento non

riuscirono a fermare l'agitazione autonomista. Sotto la

spinta dell'ala democratico-radicale, che faceva capo a

Lajos Kossuth, i patrioti ungheresi profittarono della crisi

per creare a Budapest un governo nazionale e per agire in

totale autonomia da Vienna. Fu decretata la fine dei

rapporti feudali nelle campagne, una misura che contribuì

a ottenere l'appoggio dei contadini. Fu eletto un nuovo

Parlamento a suffragio universale. In luglio, infine,

Kossuth cominciò a organizzare un esercito nazionale,

primo passo verso la piena indipendenza, che costituiva

ormai l'obiettivo finale degli insorti.

Anche a Praga, in aprile, venne formato un governo

provvisorio. I patrioti cechi, per lo più di orientamento

liberale, non mettevano in discussione i legami con la

monarchia asburgica e si limitavano a chiedere più ampie

autonomie. Ma alcuni incidenti scoppiati fra la

popolazione e i militari fornirono all'esercito il pretesto

per una dura repressione: Praga fu assediata e bombardata

e il governo ceco fu sciolto d'autorità.

La riscossa dell'Austria

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La sottomissione di Praga segnò l'inizio della riscossa per

il potere imperiale. Essa mostrava che l'efficienza e la

fedeltà dell'esercito non erano state intaccate dagli ultimi

rivolgimenti politici. Nel corso dell'estate la svolta si

consolidò. Mentre il Reichstag, riunitosi per la prima

volta in luglio, era paralizzato dai contrasti fra le diverse

nazionalità – l'unica decisione di portata storica fu

l'abolizione della servitù della gleba in tutti i territori

dell'Impero in cui era ancora in vigore –, il governo

centrale riprendeva gradualmente il controllo della

situazione. In agosto, sotto la protezione dell'esercito,

l'imperatore rientrava a Vienna. Ma ai primi di ottobre

nella capitale scoppiava una nuova insurrezione di

studenti e lavoratori per impedire la partenza di nuove

truppe per il fronte ungherese. Alla fine del mese Vienna

fu cinta d'assedio e occupata dopo tre giorni di durissimi

combattimenti. La rivoluzione nell'Impero asburgico

veniva così stroncata nella sua punta più avanzata. Poche

settimane dopo, l'imperatore Ferdinando I abdicava in

favore del nipote, il diciottenne Francesco Giuseppe. Nel

marzo 1849 il nuovo imperatore sciolse d'autorità il

Reichstag e promulgò una Costituzione che prevedeva un

Parlamento eletto a suffragio ristretto e dotato di poteri

molto limitati, e ribadiva al tempo stesso la struttura

centralistica dell'Impero.

L'insurrezione di Berlino e l'Assemblea di

Francoforte

Un corso simile ebbero gli avvenimenti in Germania. A

Berlino, il 18 marzo del 1848, imponenti manifestazioni

popolari costrinsero il re Federico Guglielmo IV a

convocare un Parlamento prussiano (Landtag). Intanto

agitazioni e sommosse erano scoppiate nella

Confederazione germanica. Ne era scaturita, quasi

spontaneamente, la richiesta di un'Assemblea costituente

dove fossero rappresentati tutti gli Stati tedeschi, Austria

compresa. A metà maggio l'Assemblea aprì i suoi lavori a

Francoforte in un clima di generale entusiasmo. Ben

presto fu chiaro però che la Costituente di Francoforte non

aveva i poteri necessari per imporre le proprie decisioni ai

sovrani degli Stati tedeschi e per avviare un processo di

unificazione nazionale. Le sue sorti non potevano che

dipendere da quanto accadeva nello Stato più importante,

la Prussia. Ma proprio in Prussia il movimento liberai-

democratico rientrò rapidamente, anche perché la

borghesia era spaventata dalle agitazioni sociali che nel

frattempo si andavano intensificando (in estate vi furono

sommosse di lavoratori a Berlino, in Slesia e a

Francoforte). Ai primi di dicembre Federico Guglielmo

sciolse il Parlamento prussiano ed emanò una

Costituzione assai poco liberale. Frattanto, i lavori

dell'Assemblea di Francoforte erano quasi completamente

assorbiti dalle dispute sulla questione nazionale e dalla

contrapposizione fra «grandi tedeschi» e «piccoli

tedeschi»: i primi miravano a un'unione di tutti gli Stati

germanici intorno all'Austria imperiale, i secondi

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sostenevano invece uno Stato nazionale più compatto, da

co struirsi intorno al nucleo principale del Regno di

Prussia. A prevalere, dopo lunghe discussioni, fu alla fine

la tesi «piccolo-tedesca». Ma quando, nell'aprile 1849,

una delegazione offri al re di Prussia la corona imperiale,

questi la rifiutò in quanto gli veniva offerta da

un'assemblea popolare, nata da un moto rivoluzionario. Il

rifiuto di Federico Guglielmo segnò in pratica la fine della

Costituente, che fu sciolta nel giugno 1849.

La repressione finale e la sconfitta dei

democratici

Si andavano frattanto spegnendo gli ultimi fuochi della

rivoluzione che, a partire dal marzo 1848, aveva

attraversato l'intero Impero asburgico compresa l'Italia. In

marzo gli austriaci sconfiggevano definitivamente i

piemontesi in luglio si concludeva, grazie all'intervento

francese, l'esperienza della Repubblica romana, in agosto

le truppe imperiali schiacciavano l'ultima resistenza di

Venezia e dell'Ungheria. Per aver ragione degli

indipendentisti magiari, che avevano ripreso il controllo

del paese profittando anche dell'impegno austriaco in

Italia, il governo di Vienna dovette chiedere l'aiuto

militare della Russia. La sconfitta dei democratici era a

questo punto completa.