RELIGIONI NELA METRO RELIGIONI NELLE METROPOLI · Da cosa nasce questo ritorno alla ... narrazione...

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Il mondo globalizzato, tecnologi-co, laico, ateo e materialista, sem-brerebbe non aver alcun bisognodelle religioni. Così quello che erastato definito l’“oppio dei popoli”potrebbe apparire oggi come unmostro patetico e innocuo. Nientedi più sbagliato. Le cronache ditutti i giorni ci raccontano di unpianeta in cui soprattutto i grandimonoteismi universalistici, il cristia-nesimo e l’islam, hanno riacquista-to un potere immenso.Da cosa nasce questo ritorno allatrascendenza e alle “chiese” checostruiscono identità collettive? Esoprattutto in che relazione è que-sto fenomeno con un aspetto cen-trale del mondo con¬temporaneo,quello della metropoli e del consu-mo, che sembrerebbe del tuttoimpermeabile rispetto a rigurgitioltremondani? È possibile che lereligioni agiscano sull’apparenteassetto egemonico del consumo,al punto da limitarne l’onnipoten-za, gli effetti e la portata? O alme-no di caratterizzarlo in manieradifferenziata e in relazione allepeculiarità culturali, geografiche,storiche?Il libro affronta la questione dadiversi punti di vista disciplinari(dalla sociologia alla filosofia) egiovandosi del contributo di esper-ti specializzati nello studio dellesingole religioni.

RELIGIONI NELLA METROPOLI

a cura di F. TARZIA

€ 14,00

Gli autoriFabio Tarzia (curatore)Marco BrunoDonatella CapaldiGiulio Cesareo Fabio Di Pietro Rino Genovese Roberto Gritti Emiliano Laurenzi Emiliano Ilardi Vincenzo Pace

in copertina:Shutterstock Inc.

RELIGIONIMETROPOL I

TRA FONDAMENTALISMI E CONSUMIa cura di FABIO TARZIA

NELLE

COP RELIGIONI 1_VISIONARI FASSIO NICOLOSI 27/03/18 16:36 Pagina 1

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RELIGIONI NELLA METROPOLI

TRA CONSUMO E FONDAMENTALISMO

a cura di Fabio Tarzia

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© 2018 La talpa srl - manifestolibriVia della Torricella 46, Castel San Pietro Romano (RM)

ISBN 978-88-7285-900-1

[email protected]

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INDICE

Fabio TarziaMonoteismi al bivio? 7

Rino GenoveseLa secolarizzazione e il suo contrario 17

Fabio TarziaEbraismo: il consumo come funzione della diaspora? 23

Vincenzo PaceConsumare islam. Da Mecca-Cola a Dolce&Gabbana 31

Marco Bruno e Roberto GrittiTra fede e mercato. L’economia e una cultura globale islamica 43

Emiliano LaurenziIl capitalismo come religione. Culto del consumo e islam 63

Giulio CesareoFede cattolica e consumo nel tempo della secolarizzazione: il mondo come sacramento 73

Fabio Di PietroLo spazio del consumo nella dottrina sociale della chiesa 87

Emiliano Ilardi e Donatella CapaldiUn puritano al centro commerciale. Gli evangelici americani e il consumo come salvezza 97

GLI AUTORI 110

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TRA FEDE E MERCATO. L’ECONOMIA E UNA CULTURA GLOBALE ISLAMICA

di Marco Bruno, Roberto Gritti1

1. Religione ed economia, una economia “islamica”

Religione ed economia sono sfere sicuramente intrecciate e, nel-l’epoca della globalizzazione, si rinnovano interrogativi etici e visio-ni dell’economia che chiamano in causa la tradizione religiosa. Perun verso, scienziati sociali ed economisti riconoscono il peso delladimensione religiosa nella spiegazione di comportamenti sociali edeconomici, sia sul piano individuale che collettivo; per l’altro, stu-diosi e attivisti religiosi provano a superare gli approcci economicitradizionali, ritenuti troppo secolarizzati, mirando a subordinarel’economia agli imperativi religiosi.

La prima tendenza ha una lunga e consolidata tradizione, bastipensare all’opera weberiana; la seconda – il tentativo di fondare lasfera economica sulle tradizioni religiose e sui testi sacri – haanch’essa un lungo passato, ma assume oggi caratteri di novità, perlo più a causa dei movimenti fondamentalisti. Emersi negli ultimidecenni in varie parti del mondo globalizzato, hanno come ultimoscopo il riaffermarsi dell’autorità religiosa in alcune delle sfere socia-li che la modernizzazione ha contribuito a secolarizzare2. I fonda-mentalismi hanno quindi un’agenda economica, affermano l’insepa-rabilità dell’economia dalle altre dimensioni dell’attività umana eattaccano le dottrine economiche secolari per l’indifferenza sul con-tenuto morale delle scelte economiche individuali. Tra i temi ricor-renti, come si vedrà poco oltre, vi sono certamente l’eguaglianza e laredistribuzione della ricchezza.

Per tornare all’islam in quanto tale, indipendentemente dalle sueversioni più fondamentaliste, va detto che dalla sua fondazione e,potremmo dire, anche in base alla composizione sociale dei suoimembri delle origini, l’islam ha una visione positiva del commercio;si pensi anche solo alla centralità della borghesia mercantile per lasua diffusione, o al ruolo del suk e del mercato nella forma organiz-zativa urbana di molte città musulmane. Ad esempio, a partire dalXV-XVI secolo l’islam fu un potente strumento di espansione del-

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l’economia mercantile e, attraverso l’islam, dal Maroccoall’Indonesia, si affermò un sistema legale e commerciale sufficiente-mente omogeneo, in cui – ad esempio – le lettere di credito rilascia-te in Egitto venivano onorate in Malesia. Trattandosi di una religio-ne dell’ortoprassi, i testi sacri islamici hanno una dimensione pre-scrittiva maggiore e differente rispetto, ad esempio, a quelli cristia-ni; il Corano contiene dei riferimenti espliciti all’economia (pur nonessendo assimilabile, ovviamente, a un trattato di economia), inoltre,secondo molte interpretazioni, si basa sul principio di tassativitàdelle regole religiose, vale a dire che ogni contratto (o clausola con-trattuale) sarebbe da considerare lecito in assenza di una norma reli-giosa esplicita che lo vieti3.

L’islam non è in contraddizione con una economia di tipo capita-listico, “incoraggia gli aderenti a lavorare duramente per il guadagnoeconomico, a competere negli affari, a detenere proprietà privata e aintraprendere rischi d’investimento”4. Va ricordato che, anticamen-te, mentre nelle terre cristiane la proprietà privata, secondo i princi-pi della patristica, era di Dio e quindi non poteva essere possedutaprivatamente, nell’islam ciò non esisteva. E anche le donne avevanodiritto alla proprietà privata attraverso la loro titolarità all’eredità.Per molto tempo l’idea di un’economia “islamica” è rimasta esclusi-vamente un esercizio intellettuale. È con il XX secolo e con l’emer-gere delle correnti del fondamentalismo islamico nella sua accezione“puritana”5, che l’opzione islamica diventa interessante anche sulpiano economico.

L’ideologo pakistano Sayyid Mawdudi (1903-1979) ha coniatonegli anni quaranta il termine economia islamica. Per lui la zakatdoveva essere obbligatoria e gestita dallo stato, i suoi obiettivi eranoabbattere la povertà, far crescere la produttività, migliorare la mora-lità e diminuire la disoccupazione. L’idea era che con il colonialismomolti paesi musulmani avessero abbandonato la legge islamica,incluso la zakat (l’elemosina rituale); in questo modo si costruiva unanarrazione e una ideologia comune ai diversi movimenti fondamen-talisti. Grazie a Mawdudi e al suo riformismo islamista, quindi,l’economia islamica diventa parte della nuova ortoprassi islamica.

Questa dottrina economica, che emerge alla fine del periodocoloniale in India, è soprattutto uno strumento di identità e prote-zione per la minoranza musulmana che si basa su un’idea di separa-tezza culturale. In questo senso, l’economia islamica nasce come

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movimento ideologico anti-imperialista e rappresenta il veicolo perprovare a ristabilire una influenza islamica. Questa opzione politico-economica si inserisce quindi pienamente nel contesto della secon-da metà del XX secolo, configurandosi quasi come (ennesima) terzavia, e comunque nell’ambito di una concezione dirigista dell’econo-mia: quasi tutti gli stati musulmani, infatti, all’epoca della colonizza-zione adottarono, sia pure con intensità differenti, strategie di piani-ficazione nell’ambito di un’economia dirigista.

Dunque, l’economia islamica si sviluppa per inserire il filtro dellamorale islamica nelle decisioni economiche, tuttavia, in realtà, sitratta essenzialmente di servire fini politici e culturali.

2. L’islam e l’ortoprassi

Come accade per tutte le religioni6, le prescrizioni e i divietiriguardano normalmente specifiche aree della vita che, utilizzandocategorie contemporanee, sono riassumibili in: 1. il corpo e il com-portamento sessuale; 2. il rapporto con la divinità e l’idolatria; 3. lerestrizioni alimentari; 4. gli oggetti considerati “immondi”, comefonte di contaminazione. In questo senso, il giusto comportamentoriguarda tutte le tradizioni religiose, anche se è evidente che nel-l’ebraismo e nell’islam questo assume una centralità maggiore,intrecciata con il ruolo della legge divina.

Entrambe le tradizioni concepiscono un sistema religioso e lega-le onnicomprensivo che abbraccia tutti gli aspetti della vita, sia inrelazione a Dio sia in rapporto agli altri individui. Entrambe dannopiù valore all’obbedienza della legge sacra ed enfatizzano l’ortopras-si (appunto, la giusta condotta) rispetto all’ortodossia (la giusta dot-trina) come invece accade nel cristianesimo che, anche in virtù di undifferente modello organizzativo-istituzionale (quello della chiesa)su questa costruisce anche l’idea di dogma.

Senza entrare nel merito di una questione che sarebbe più teolo-gico-dottrinaria che sociologica, l’islam è quindi una religione dellalegge, nel senso che essa avrebbe una illimitata supremazia nei con-fronti del vissuto, religioso e profano, dei musulmani.

Ovviamente, il passaggio dall’ortoprassi islamica a una qualcheforma di comportamento etico nella vita quotidiana, e quindi neiconsumi, non è lineare, tuttavia è possibile affermare che esso ha a

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che fare con i più conosciuti concetti di halal e haram. È a questiconcetti che la maggior parte dei musulmani si riferisce nella discus-sione su ciò che è permesso (halal) o non consentito (haram), ciò conle diverse declinazioni di puro o impuro, bene o male. La questione,quindi, assume una dimensione dicotomica e questa dicotomia degliopposti è usata dalla maggior parte dei musulmani nel decidere sequalcosa è in accordo o no con la religione. Questo stile di pensierodicotomico sembra funzionale a un “desiderio di certezza” e ha la“capacità di dare risposte chiare”7, e quindi è usato in molti aspettidella vita e a livello specifico diventa una fonte di ancoraggio simbo-lico molto potente per individui che, ad esempio, vivono una condi-zione di scarso o conflittuale radicamento identitario: si pensi a per-sone appartenenti alla “diaspora” islamica conseguenza dei flussimigratori, oppure che vivono una condizione esistenziale transna-zionale (dai businessmen globali ai lavoratori stagionali). Inoltre,come afferma Rippin, questa rappresentazione dicotomica “fornisceun elemento [di] fondazione di un’etica islamica”8 che chiaramentepuò riflettersi anche nella pratica quotidiana dei musulmani.

In realtà, il sistema è più sofisticato, e nella vita reale assume dicerto importanza tutto quello che si colloca in mezzo a questa dico-tomia9, in quel continuum in cui, effettivamente, si situano le dispu-te per l’interpretazione e, quindi, le diverse concezioni dell’essere“islamico” nell’era contemporanea.

Infatti, la dicotomia halal/haram appare come una semplificazio-ne di ciò che effettivamente si trova nel corpus giurisprudenzialeufficiale islamico, il quale – pur fondandosi su essa – presenta clas-sificazioni più sofisticate. Questo sistema (chiamato al-ahkamalkhamsa) classifica ogni atto in cinque categorie: obbligatori(wajib), raccomandati (mandub), permessi (mubah o halal), disap-provati (makruh) o proibiti (haram). In linea teorica, un musulmanodovrebbe aderire alle regole relative all’obbligatorietà e ai divieti(che ignorati porterebbero a punizioni nell’aldilà), mentre per i casiin dubbio, tipici delle categorie degli atti “raccomandati” o “disap-provati” il sistema appare più fluido con, ad esempio, ricompenseper chi compie atti “raccomandati” ma senza particolari conseguen-ze per chi non li compie. Tutti gli altri atti, considerati neutrali, sonoclassificati come ammissibili10.

Tuttavia, come detto, questa complessità da un lato configura unapproccio nel complesso pragmatico, dall’altro lato diventa abba-

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stanza teorica poiché molti musulmani sono solo vagamente consa-pevoli di questa categorizzazione, più spesso usata dagli studiosi isla-mici che nella pratica quotidiana dei fedeli praticanti.

3. Dall’ortoprassi alle prescrizioni in materia economica

Appurato che l’islam pone ai propri fedeli una serie di obblighi edivieti, è il caso di soffermarsi pur brevemente su come questo siste-ma prescrittivo tratti la sfera economica. Anche in questo caso nonè possibile inoltrarsi nel dettaglio sulle diverse interpretazioni, mapuò essere utile riassumere alcuni elementi distintivi dell’approccioislamico all’economia, i quali ovviamente derivano da principi piùgenerali che riguardano il denaro, la proprietà, il lavoro.

La proibizione dell’interesse (riba). Il Corano bandisce il riba, chein realtà era la pratica pre-islamica di raddoppiare il debito a chi nonera in grado di ripagarlo. Dunque, più che l’interesse si bandival’usura, fonte di acute frizioni sociali. Ad ogni modo, e comunemen-te a quanto accaduto per altre confessioni, il divieto di trarre profit-to dal prestito di denaro risiede nell’idea che la moneta debba esse-re un mezzo e non un fine e che non ci debba essere scambio dimoneta per moneta; l’obiettivo supremo dell’economia islamicasarebbe proprio l’eliminazione del tasso di interesse e ciò effettiva-mente avviene, almeno formalmente, in molti paesi.

In realtà, in senso pragmatico, da tempo sono in uso pratichefinanziarie che, pur rispettando il divieto, consentono forme diremunerazione dei capitali affidati alle banche o ad altri privati, adesempio comprendendo una quota di profitto nello scambio, oppu-re creando partecipazioni e joint venture. Sono stati inventati, infat-ti, numerosi espedienti giuridici (hiyal) per aggirare l’interdizionedel prestito; storicamente quello più diffuso era quello della mukha-tara, una sorta di doppia vendita adottata anche nel mondo cristia-no a partire dal XIV secolo e noto in Italia sotto vari termini: scroc-co, barocco, retrangolo, ciavanza.

Anche perché alcuni pensatori liberali hanno contestato che lariba sia un male di per sé, intendendo che il vero problema, fin dalleorigini, fosse l’eccesso di interesse, quindi l’usura.

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Il sistema redistributivo dell’elemosina rituale (zakat). L’originedell’elemosina, terzo tra i pilastri del comportamento del buonmusulmano, si situa proprio in una idea di purificazione del proprioguadagno e della proprietà. Le destinazioni possibili di questa formadi autotassazione hanno portato spesso a una centralizzazione e auna statalizzazione del prelievo a fini redistributivi, anche perchéeffettivamente alta era la quota di elusione. Volontaria in principioma in realtà obbligata da uno stato, la zakat diventa, più che unostrumento economico, un aspetto soprattutto politico e simbolico.La statalizzazione della zakat è stata spesso osteggiata, trasforman-dola in un tema altamente politicizzato.

In età contemporanea, in alcuni paesi (Yemen, Arabia Saudita,Malesia, Libia, Pakistan e Sudan) si è creato un sistema della zakatdi tipo statale o comunque pubblico, e dunque obbligatorio. Vadetto che nel sistema tradizionale era una tassa sulle persone, neisistemi moderni riguarda anche le imprese. I trasferimenti volontarisono alquanto limitati, invece la zakat ha un ammontare sensibilesolo nei sistemi statali o pubblici; per questi sistemi, di fatto i bene-ficiari della zakat statale sono i funzionari dello stato, il clero, le isti-tuzioni religiose. Va detto che tutti i sistemi di zakat hanno avuto unimpatto minimo sulla povertà e certo non sono migliori di quellisecolari; l’idea della zakat come mezzo di redistribuzione della ric-chezza e di equità sociale è sostanzialmente un mito. Per certi versi,è indubbiamente più importante il ruolo delle fondazioni caritatevo-li nell’aiuto ai poveri. Tuttavia, come detto, la zakat resta un poten-te richiamo simbolico ai temi dell’equità e della giustizia sociale.

Il filtro della morale islamica nelle decisioni economiche. Più in gene-rale, si può dire che queste prescrizioni si inseriscono nella linea per cuil’economia, pur lasciando campo libero all’intraprendenza individuale,avrebbe in primis degli obblighi di tipo sociale, limitazione dei mono-poli, azioni di tipo redistributivo. Si tratta, quindi, di una dimensioneetico-valoriale ma che si riflette su un’ideale sociale nel complessoegualitario (aspetto spesso tralasciato quando si analizza il corpus ideo-logico dei movimenti fondamentalisti). Come si è visto, il richiamo aun’economia islamica ha soprattutto una finalità politico-sociale, tutta-via questa dimensione ha implicazioni pratiche quali l’avversione per ilmonopolio, il divieto di introdurre nei contratti elementi di incertezza,o l’uso, commercio o investimento in attività o beni proibiti (haram)11

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4. L’economia e la finanza islamica

Sulla base della proibizione del riba, in alcuni paesi come ilPakistan è vietata l’attività delle banche convenzionali basate sullaconcessione di un tasso d’interesse. Tuttavia, come visto poco sopra,il sistema bancario islamico ha individuato formule rispettose deiprecetti ma in grado di remunerare gli investimenti. Proprio i casidelle banche e della finanza islamica offrono un quadro interessantedi applicazione dell’economia islamica. Rispetto ad altre (economiacristiana o induista) quella islamica si caratterizza, anzi, per aver rea-lizzato nella pratica almeno alcuni dei suoi principi. Indubbiamentel’economia islamica non ha rivoluzionato le relazioni economiche,tuttavia a partire dagli anni settanta sono stati fatti importanti passiin avanti per provare a mettere in pratica questi ideali. Lo sforzo diristrutturare in profondità l’economia sulla base dei principi islami-ci ha riguardato in questi anni qualche decina di paesi e – soprattut-to – un settore specifico, quello bancario. In più di sessanta paesioperano banche islamiche, vale a dire intermediari finanziari chedichiarano di non applicare un tasso d’interesse, ritenendosi cosìmoralmente superiori al sistema bancario tradizionale. La maggiorparte di queste banche sono di derivazione araba come il gruppo Al-Baraka e Dar al-mal al-islami. In paesi come Egitto o Kuwait, dovele banche islamiche competono con quelle convenzionali esse sonoin grado di attrarre il 20-30% di tutti i depositi. I titolari dei depo-siti non ricevono interessi ma partecipano ai profitti (e alle perdite)della banca che tendono a fluttuare. Non tanto casualmente lo sche-ma del “profit shares” è quasi identico al tasso d’interesse.

Più in generale, la finanza islamica “può essere definita come l’in-sieme delle attività finanziarie che, seppur soggette alle leggi statali diogni singolo paese (alla giurisdizione nazionale secolare), sono svoltesenza infrangere i principi della Sharia”12. In questo senso le bancheislamiche svolgono un ruolo centrale nella circolazione e nell’investi-mento del denaro, con un peso finanziario equivalente al complessodel mercato di merci e servizi definibili come “islamici” o halal, per-messi, come si vedrà nel paragrafo successivo. Interessante anche ilruolo dell’Islamic Development Bank, con sede a Gedda, in ArabiaSaudita, fondata nel 1974 dall’organizzazione dei paesi islamici(OIC) per trasferire – con strumenti che non prevedono tassi d’inte-resse – petrodollari a paesi musulmani in via di sviluppo.

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A partire dal settore finanziario, ci sono poi numerosi soggettiimprenditoriali che si definiscono islamici (case editrici, commer-cianti al dettaglio, investitori, costruttori). Si tratta dell’emergere diun sottosistema economico islamico in cui non ci sono solo le banchea reclamare la propria identità islamica. Sempre più attività econo-miche e soggetti imprenditoriali, infatti, si dichiarano come operan-ti secondo i principi islamici. Si possono trovare ad esempio negozidi alimenti islamici che non vendono liquori, le boutiques islamicheche non vendono bikini e perfino teatri islamici o software islamici.

Un modo con cui le imprese sostengono la “causa” è quella dilavorare solo con altre imprese che hanno la stessa “sensibilità reli-giosa”, e di incanalare parte dei profitti verso enti caritatevoli, scuo-le e organizzazioni politiche islamiche. Si crea così un’economiaparallela e una sorta di sistema di welfare parallelo. È un sottosiste-ma escluso o parallelo rispetto al circuito economico principale, enel quale queste aziende si ritagliano un mercato di nicchia. È evi-dente che le imprese islamiche ricercano il profitto esattamentecome tutte le altre imprese capitalistiche e in questo senso la sceltadi connotarsi “islamicamente” può rivelarsi anche determinante.

5. Una economia globale “islamicamente” orientata

Un dato certo è che, pur in presenza di dati eterogenei tra i diver-si settori, l’economia dei paesi a maggioranza musulmana è piena-mente inserita all’interno dei flussi commerciali e finanziari dell’eco-nomia mondiale, e non solo rispetto al prevedibile impatto dei mer-cati di materie prime e risorse energetiche. Dal punto di vista piùgenerale, gli Stati definibili come “musulmani” presentano perfor-mance molto diverse tra loro, anche se alcuni di questi sono sicura-mente in posizioni significative; tra le cosiddette “tigri asiatiche” duesono paesi musulmani, Indonesia e Malesia (anche se in tutta que-st’area è importante il ruolo della forte comunità cinese), ed è evi-dente il ruolo dei Paesi del Golfo all’interno dei mercati globali.

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Tabella 1. PIL pro capite (in US$) membri dell’OIC (Organizzazione dellaCooperazione Islamica), primi 30 paesiFonte: Fondo Monetario Internazionale, World Economic OutlookDatabase, Ottobre 2012

Qatar 102.769Brunei Darussalam 50.526United Arab Emirates 48.992Kuwait 43.846Oman 28.512Bahrain 28.182Saudi Arabia 25.722Gabon 17.339Malaysia 16.942Lebanon 15.884Turkey 15.029Kazakhstan 13.920Libya 13.303Iran 13.104Suriname 12.255Azerbaijan 10.685Tunisia 9.698Maldives 8.730Turkmenistan 8.469Albania 7.976Guyana 7.950Algeria 7.522Egypt 6.557Jordan 6.044Pakistan 5.876Morocco 5.257Syria 5.041 (2010)Indonesia 4.958Iraq 4.620Bangladesh 4.504

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Venendo invece al “sottoinsieme” della cosiddetta economia isla-mica, molto interessante è il GIEI, un indicatore dell’economia isla-mica (predisposto da Thomson Reuters) che stima stato, crescita eimpatto dell’“ecosistema economico islamico”, quello con un riferi-mento esplicitamente halal, distinto per settore e calcolato per 73paesi13. Come negli anni precedenti (tabella 2), al vertice di questoindice vi sono Malesia (soprattutto per quanto riguarda la finanzacioè le banche islamiche), Bahrain e Emirati Arabi Uniti (considera-to un hub globale delle merci halal di tutti i settori), seguitidall’Arabia Saudita. Poi con tassi di penetrazione molto minori cisono Oman, Pakistan, Kuwait, Qatar, Giordania, Indonesia,Singapore, Brunei.

Tabella 2. Posizionamento top 15 Paesi per Indicatore GIE (Economia glo-bale islamica), per settori

Fonte: Thomson Reuters, State of the Global Islamic EconomyReport 2016/17, p. 10.

Top 15 Countries

GIE

Indicator

Score

Islamic

Finance

Halal

Food

Halal

Travel

Modest

Fashion

Halal

Media and

Recreation

Halal

Pharmaceutical

& Cosmetics

Malaysia 121 189 55 70 25 38 61 United Arab Emirates 86 92 75 81 67 137 78 Bahrain 66 90 45 30 26 58 36 Saudi Arabia 63 83 50 35 17 33 48 Oman 48 51 54 36 16 40 40 Pakistan 45 47 56 11 19 8 52 Kuwait 44 51 43 29 13 45 29 Qatar 43 47 45 35 15 46 32 Jordan 37 35 45 39 19 31 49 Indonesia 36 38 40 35 21 9 41 Singapore 32 22 39 44 26 75 56 Brunei 32 27 45 22 12 30 39 Sudan 28 30 33 23 5 17 23 Iran 28 30 29 36 10 20 27 Bangladesh 26 31 26 10 25 3 25 !

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Figura 1. Settori Economia globale islamica, dimensioni e percentuale sulsettore generale

Fonte: Thomson Reuters, State of the Global Islamic EconomyReport 2016/17, p. 10.

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La cosiddetta economia islamica valeva nel 2015 circa 2000miliardi di dollari, una cifra analoga al valore della finanza islamica,pari a circa l’1% delle attività delle banche commerciali a livello glo-bale. I settori più importanti dell’economia islamica sono:

– finanza, banche commerciali e investimenti halal, 2004 miliardidi dollari pari all’1% del settore globale;

– alimentare, cibo e bevande halal, settore che nel 2015 valeva1173 miliardi di dollari pari al 17% del mercato globale della spesaalimentare;

– abbigliamento e moda halal (ovvero il settore modest fashion omoda islamica) che nel 2015 valeva 243 miliardi di dollari pari al 10% del mercato globale dell’abbigliamento;

– settore media ricreativo e cultura, nel 2015 valeva 189 miliardidi dollari pari al 5% della spesa globale nel settore;

– turismo halal, nel 2015 valeva 151 miliardi di dollari pariall’11% della spesa globale nel settore;

– settore farmaceutico halal, nel 2015 valeva 78 miliardi di dolla-ri pari al 6% della spesa globale nel settore;

– settore cosmetico, nel 2015 valeva 56 miliardi di dollari pari al7% della spesa globale nel settore.

Si può notare che i diversi settori (figura 1), sviluppando volumifinanziari diversi, rappresentano anche quote molto differenti rispet-to al corrispondente settore generale, per cui si va dal 17% sul totaledel settore alimentare halal all’1% del settore finanziario, che però –ovviamente – corrisponde a volumi finanziari molto maggiori.

L’osservanza religiosa è anche un potente motore di diversifica-zione e caratterizzazione del prodotto. In questo senso, un “consu-mo musulmano” si configura sia come un sottoinsieme di quello chein senso lato può definirsi “consumo etico”, in cui le scelte di con-sumo sono guidate in primo luogo da principi etici; sia come insie-me di pratiche che si inscrivono nella tendenza globale alla differen-ziazione e identificazione del consumatore sulla base di scelte consa-pevoli, si pensi alla galassia molto differenziata di concetti e praticherappresentata dalle svariate forme di consumerismo, consumo criti-co, responsabile, etc.14.

Inoltre, l’intero mercato halal e nello specifico quello alimentare,lungi dall’essere solo un set di restrizioni e pratiche personali o al piùstrettamente comunitarie, si presenta come un campo attraversatoda potenti rappresentazioni e discorsi sul ruolo dell’individualismo,

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della secolarizzazione, del riconoscimento e della diversità, del ciboma non solo, nel mercato globale15.

Come spesso accade, siamo di fronte a una dinamica che puòapparire sia come un paradosso sia come una precisa strategia delcapitalismo globale. Al pari delle formule di cosiddetto greenwashing, la dimensione etico-valoriale, in questo caso con l’esplicitorichiamo islamico al concetto di halal, consente di espandere e diver-sificare la propria presenza sul mercato. Le grandi multinazionali,quindi, ma anche piccole e medie imprese spesso occidentali, modi-ficano le loro strategie di marketing e si certificano come halal inmodo da esportare e vendere per il consumo religioso islamico.

In questo senso, si genera anche una sorta di “indotto” (societàdi certificazione, etc.) ma soprattutto si articola un mercato in espan-sione che offre opportunità per le aziende. Anche i paesi occidenta-li, infatti, contribuiscono alla crescita della economia islamica, adesempio Australia e Brasile sono i primi tra i primi quattro esporta-tori di cibo halal, mentre l’Italia è al quinto posto, primo tra i paesioccidentali, per l’esportazione di abbigliamento definito islamico (omodest fashion, cui si accenna poco oltre), al settimo posto per i pro-dotti cosmetici e personal care16. Simile il discorso per i più diffusiprodotti finanziari islamici (azioni, sukuk e fondi comuni di investi-mento) per i quali, però, si segnala l’interesse “per le società quota-te italiane di essere incluse nei principali indici Shari’ah compliant,indici presi tipicamente a riferimento dai gestori del risparmio isla-mico. […] Il peso delle società quotate italiane in tali indici, infatti,è largamente inferiore a quello delle società quotate delle principalieconomie avanzate”17.

6. Il quotidiano del consumo nella cultura islamica globale. I musul-mani e le modernità multiple

Un caso indubbiamente interessante è quello dell’abbigliamento,in particolare femminile. Va detto che la questione velo (nelle suevarie forme e più in generale il tema dell’abbigliamento per le donnemusulmane) è un tema spinoso sul quale si gioca una partita simbo-lico-identitaria assolutamente centrale18. Non è qui possibile riassu-mere, neanche per sommi capi, gli estremi del dibattito. È indubbioche da un lato il ruolo della donna – e il suo abbigliamento così

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come il suo ruolo nella società, temi troppo spesso sovrapposti inmodo superficiale – sia realmente un banco di prova dei processi disecolarizzazione e del tema dei diritti, anche in società non piena-mente democratiche, cui è sottoposto l’intero mondo musulmano;dall’altro molte posizioni nel dibattito sono strumentali e stereotipeo, soprattutto, finiscono per considerare la donna appunto come“territorio” di conflitto, evidente ennesimo esempio di spersonaliz-zazione e non riconoscimento della sua soggettività e libertà. E ciò èsicuramente vero per i fondamentalisti, ma in parte lo è anche peralcune voci “occidentali” contro il velo, che ad esempio non ricono-scono né l’adesione volontaria e consapevole a queste pratiche diabbigliamento, né gli usi “tattici” della velatura da parte delle nuovegenerazioni, come pratica espressiva di moda e come adesione sub-culturale, né l’esistenza di svariate forme di attivismo, compreso il“femminismo” islamico, che non considerano o prescindono dalladimensione esteriore della velatura, conducendo richieste di ricono-scimento e forme di lotta inedite in alcuni paesi musulmani19.

Come detto, quindi, è qui possibile centrare l’attenzione solosulla dimensione economica o di consumo dell’abbigliamento fem-minile halal, ma ciò non significa sottovalutarne il portato sociale epolitico.

Tra i valori che vengono recuperati dalla tradizione culturale ereligiosa, indubbiamente centrale per quel che riguarda l’abbiglia-mento è quello della “modestia” (unito al pudore, al riserbo, alla fru-galità, etc.), tema che in realtà accomunerebbe le prescrizioni per gliuomini e quelle per le donne. In questo senso, al di là delle diverseforme di copertura più o meno integrale, e non solo del volto ma ingenerale del corpo, l’interpretazione più stringente attribuirebbe auna generale modestia nel vestire una patente di conformità ai det-tami religiosi. Nasce così la cosiddetta modest fashion, pensata e rea-lizzata come una sorta di compromesso orientato alla sobrietà,rispettoso delle tradizioni ma al tempo stesso “moderno” e “allamoda”20.

In realtà, anche uscendo da una dimensione appiattita sullo stilee sulla moda, il conflitto e, potremmo dire, il gioco nell’abbigliamen-to femminile tra modestia e vanità sottende una tensione forse piùsignificativa per i consumatori islamici tra diventare moderni e farparte della globalizzazione e rimanere leali alle prescrizioni religiosee tradizionali21. Il velo elegante (magari brandizzato Prada, Gucci o

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Louis Vuitton) diventa strumento di una volontaria auto-stigmatiz-zazione con la motivazione di vivere pienamente la propria identitàe la propria fede. In questo conflitto e relativo compromesso traessere virtuose e moderne si manifesta probabilmente una doppiaresistenza: verso le culture locali tradizionali ma anche verso l’occi-dente e la sua idea di una sola forma di modernità.

Appare evidente che l’attributo di “islamico” a oggetti e pratichedi consumo si configura come un riferimento connotativo molto piùlegato alla dimensione pragmatica della vita quotidiana che a quellastrettamente dottrinario-religiosa. Anche perché, come vienemostrato bene dall’ambito finanziario, i “compromessi” tra rispettodei dettami religiosi e pragmatismo capitalista sono spesso formeabbastanza “ipocrite” di rimodellamento della tradizione o di gestio-ne à la carte del repertorio religioso.

Il consumo ispirato religiosamente, o che comunque alla religio-ne fa in qualche modo riferimento, è quindi una forma di compro-messo con la modernità. Si tratta, infatti, di una accettazione parzia-le e di una negoziazione simbolica sul significato della religiositànella vita quotidiana contemporanea. Siamo quindi in presenza dellacostruzione di una identità musulmana moderna, che dialoga enegozia significati con la modernità e le sue varie forme. In questosenso, questa cultura islamica globalizzata sembra essere esempio e,al tempo stesso, si interfaccia con esse, delle modernità multiple dicui parlava Eisenstadt22.

I paesi di cui stiamo parlando sono mercati emergenti caratteriz-zati da una crescita economica elevata, dal formarsi di una nuova evasta classe media23, da una popolazione molto giovane (i millen-nials); in particolare ciò è vero se li confrontiamo con gli analoghidati delle società occidentali. I nativi digitali di queste societàmostrano usi maturi e consapevoli delle tecnologie digitali, tanto daattirare l’attenzione anche dei media e della pubblicistica occidenta-le: quelli che sono stati definiti come Mipsterz (“Muslim hipsters”dalla CNN) o GUMmies (“Global Urban Muslim Consumers” daun articolo di Forbes)24.

Si può quindi parlare di un consumatore globale musulmano.Laddove l’aspetto di transnazionalità e globalità risiede in una suffi-ciente quota di uniformità negli stili di consumo così come nelle pra-tiche culturali ed espressive in differenti contesti nazionali a maggio-ranza musulmana (che si tratti di Dubai o di Kuala Lumpur), cui –

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pur con molte cautele – vanno aggiunti alcuni contesti di insedia-mento musulmano in Europa formatisi in conseguenza dei flussimigratori (non tanto immigrati, quindi, quanto seconde e terze gene-razioni). Il secondo attributo, musulmano, riguarda una dimensionedi affiliazione identitaria ed etico-religiosa, in cui tali riferimentiinseriscono un grado di specificità che contraddistingue queste pra-tiche di consumo rispetto ad altre forme di consumo globale, defini-te, ad esempio, da un comune orizzonte generazionale (o di genere,etc.).

Si articola quindi uno spazio di consumo islamico all’interno delquale le pratiche configurano una complessa articolazione dei rap-porti tra soggetti, spazi espressivi e dettami culturali o religiosi. Lacrescita del consumo islamico potrebbe suggerire l’ipotesi di unamaggiore autonomia degli individui; in realtà ciò è avvenuto in uncontesto sociale e politico che spesso ha teso a limitare gli spazi dilibertà di espressione individuale. In molti stati “musulmani”, conevidenti deficit sul piano democratico, la crescita del consumo reli-gioso islamico suggerisce quindi che molte persone non hanno inte-resse per l’attivismo politico e pubblico ma preferiscono aderire aivalori del mercato e della globalizzazione attraverso l’espressione digusti personali nelle scelte di consumo. Il parallelismo operato pocosopra con alcune forme di consumerismo, consente anche di segna-lare la dimensione di crescente individualizzazione e privatizzazionedella sfera politica, sociale e, a questo punto, religiosa, in continuitàcon quella che anche per i musulmani – con particolare riferimentoa quelli europei – è stata definita come secolarizzazione delle prati-che individuali25. La crescita del consumo islamico corrisponde auna sorta di privatizzazione della politica, cioè il ritirarsi o astenersidalla politica attiva e pubblica. Comprare “musulmano” invece che“occidentale” o “americano” è diventata una forma di imitazione eal tempo stesso di opposizione all’egemonia culturale ed economicadell’occidente. Essere islamicamente moderni significa anche averesuccesso economico e potersi permettere un alto livello di consumofiltrato attraverso l’apprendimento e la coscienza religiosa.

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NOTE

1 I contenuti di questo contributo sono stati discussi e condivisi dagli auto-ri. Se necessaria un’attribuzione, Roberto Gritti ha redatto i paragrafi 1, 2e 3, Marco Bruno i paragrafi 4, 5 e 6. 2 R. Gritti, La politica del sacro. Laicità, religioni e fondamentalismi nelmondo globalizzato, Milano, Guerini e Associati, 2004.3 S. Alvaro, “La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico ita-liano”, in Quaderni giuridici, Consob, n. 6, luglio 2014, p. 8; P. Uberoi, Anintroduction to islamic derivatives, Practice Law Company, 2010(http://us.practicallaw.com/8-501-6191): “the principle of permissibility(ibaha) under estabilished religious principles in generally taken to meanthat all commercial transactions are shari’ah compliant in the absence of aclear and specific prohibition by way of religious censure (taqlid)”.4 H. Askari, R. Taghavi, “I fondamenti di principio di un’economia islami-ca”, in Moneta e Credito, 2005, 63, 232, pp. 175-194.5 R. Gritti, La politica del sacro. Laicità, religioni e fondamentalismi nelmondo globalizzato, Milano, Guerini e Associati, 2004.6 B. Moore, Le origini religiose della persecuzione nella storia, Palermo,Sellerio, 2002.7 M. de Koning (2008, p. 228), citato in F. van Warden, R. van Dalen,“Crisis in the Halal market. Intra-and national cooperation for an(inter)national halal norm”, Paper for the Conference “Politicologenetmaal2010”, Leuven, (27-28 may), 2010.8 A. Rippin, Muslims: their religious beliefs and practices, London,Routledge, 2005, p. 30.9 F. van Warden, R. van Dalen, “Crisis in the Halal market. Intra-and natio-nal cooperation for an (inter)national halal norm”, Paper for theConference “Politicologenetmaal 2010”, Leuven, (27-28 may), 2010, p. 9.10 A. Rippin, Muslims: their religious beliefs and practices, London,Routledge, 2005, p. 97.11 S. Alvaro, “La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico ita-liano”, in Quaderni giuridici, Consob, n. 6, luglio 2014, p. 10.12 S. Alvaro, La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico italia-no, in Quaderni giuridici, Consob, n. 6, luglio 2014, p. 8.13 Per dettagli anche di tipo metodologico, T. Reuters, State of the GlobalIslamic Economy Report 2016/17, p. 9. (https://ceif.iba.edu.pk/pdf/ThomsonReuters-stateoftheGlobalIslamicEconomyReport201617.pdf).

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N.B.: I settori considerati sono sette, anche se in alcuni dati, anche tra quel-li qui presentati, i settori farmaceutica e cosmesi sono presentati accorpati.14 R. Paltrinieri (a cura di), Cum sumo. Prospettive di analisi del consumonella società globale, Milano, Franco Angeli, 2006; P. Rebughini, R.Sassatelli (a cura di), Le nuove frontiere dei consumi, Verona, Ombre corte,2008; M. Bruno, “La politica con altri mezzi? Consumerismo, critical livinge «politiche del quotidiano», tra azione individuale e dimensione colletti-va”, in E. Cioni, A. Marinelli (a cura di), Le reti della comunicazione politi-ca, tra televisioni e social networks, Firenze, Firenze University Press, 2010.15 Sul tema, si veda anche S.R. Mukherjee, “Global Halal: meat, money,and religion”, in Religions, 2014, 5, pp. 22-75.16 Thomson Reuters, State of the Global Islamic Economy Report 2016/17,p. 106 e segg.; p. 162. (https://ceif.iba.edu.pk/pdf/ThomsonReuters-stateoftheGlobalIslamicEconomyReport201617.pdf).17 S. Alvaro, “La finanza islamica nel contesto giuridico ed economico ita-liano”, in Quaderni giuridici, Consob, n. 6 - luglio 2014.18 R. Pepicelli, Il velo nell’islam. Storia, politica, estetica, Roma, Carocci,2012.19 K. Waninger, The Veiled Identity: Hijabistas, Instagram and Branding InThe Online Islamic Fashion Industry, Institute for Women’s, Gender, andSexuality Studies, Georgia State University, 2015; B. Kilcibay, M. Binark,“Consumer culture, Islam and the politics of lifestyle: fashion for veiling incontemporary Turkey”, in European Journal of Communication, 2002, 17,pp. 495-511; R. Lewis, “Veils and sales: muslims and the spaces of postco-lonial fashion retail”, in Fashion Theory, 2007, 11 (4), pp. 423-442; R.Lewis, “Marketing muslim lifestyle: a new media genre”, in Journal ofMiddle East Women’s Studies, 2010, 6 (3), pp. 58-90.20 Si noti che molte recenti polemiche, che hanno raggiunto anche i mediae il pubblico non specializzato, hanno riguardato proprio queste forme“ibride” o moderne di abbigliamento etichettato come “islamico”, magaripensato con una buona dose di sapienza commerciale e rivolto a determi-nate categorie di donne e ambiti, si pensi al “burkini” o ad alcune soluzio-ni in ambito sportivo. In questo filone si collocano etichette, e anche inquesto caso ben definite tendenze adeguatamente sovraesposte dal marke-ting, come “muslimchic”, “islamcool”, etc. 21 H.M. Akou, “Building a New «World Fashion»: Islamic Dress in theTwenty-first Century”, in Fashion Theory, 11 (4), pp. 403-421.22 S.N. Eisenstadt, “Multiple modernities”, in Daedalus, 2000, 129 (1), pp.1-29. Cfr. anche R.W Hefner., “Multiple modernities. Christianity, Islam

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and Hinduism in a globalizing age”, in Annual Review of Anthropology,1998, 27, pp. 83-104.23 Sul tema, si veda anche L. Wong, “Market cultures, the middle classesand Islam: consuming the Market?”, in Consumption, Markets and Culture,2007, 10 (4), pp. 451-480.24 Thomson Reuters, State of the Global Islamic Economy Report 2016/17,p. 16. (https://ceif.iba.edu.pk/pdf/ThomsonReuters-stateoftheGlobalIslamicEconomyReport201617.pdf). 25 O. Roy, Global muslim. Le radici occidentali del nuovo islam, Milano,Feltrinelli, 2003; O. Roy, La santa ignoranza. Religioni senza cultura,Milano, Feltrinelli, 2009.

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