Recensione a Stare Al Mondo Di Salvatore Natoli - Gianfranco Bertagni

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Recensione a Stare Al Mondo Di Salvatore Natoli

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Natoli, Salvatore, Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente Milano, Feltrinelli (Serie Bianca), 2002, pp. 208, Euro 12,00, ISBN 88-0717-062-0 Recensione di Gianfranco Bertagni - 04/05/2002 Parole chiave: filosofia contemporanea, etica, globalizzazione, tecnica. Salvatore Natoli è oggi un filosofo ormai noto anche al di fuori dello stretto ambiente di cui fanno parte i filosofi di professione, gli studiosi e studenti di filosofia. Insieme ad altri pensatori italiani come Massimo Cacciari, Umberto Galimberti o Gianni Vattimo – per citarne solo tre, del resto molto diversi tra loro quanto a prospettive e a sensibilità speculativa –, il suo è un nome che circola tra i lettori di saggistica italiana. Natoli si è guadagnato la sua fama grazie a lavori pregevoli come L’esperienza del dolore (1986) e La felicità (1994), e riscuote un certo interesse anche in ambienti cattolici, vista la sua particolare attenzione rivolta al cristianesimo e al suo rapporto con la modernità: si pensi al Dizionario dei vizi e delle virtù (1996) – che raccoglie gli interventi del filosofo tra il ’95 e il ’96 nella rubrica Altritermini dell’Avvenire – e a Dio e il divino (2000). Ma la politica editoriale, si sa, ha le sue regole. E dunque capita che all’intellettuale che, volgarmente detto, vende, si chieda, quando non sia lui stesso a proporlo, un tentativo di aprirsi ad un pubblico più vasto, intellettualmente e culturalmente meno attrezzato rispetto a quello a cui di solito si rivolge. Insomma, quella parolina magica che piace tanto: divulgazione; arte assai ardua e niente affatto disprezzabile, anzi. E allora che sia benvenuta una buona divulgazione anche in campo filosofico. Salvatore Natoli ha provato a seguire questa strada. In realtà, già il tentativo c’era stato un paio d’anni fa all’epoca de La felicità di questa vita, trascrizione del suo più sostanzioso lavoro sullo stesso tema. Quest’anno esce invece Stare al mondo. Escursioni nel tempo presente. Si tratta di trentatré capitoli (più una prefazione) suddivisi in sei macro-temi (società, rischio, cura di sé, affetti, secolarizzazione, sapienza), nei quali Natoli vuole “decifrare i segni del tempo, leggerne i sintomi, disegnarne le oscillazioni (…). Bisogna saper disegnare, e con perizia, carte di viaggio, tracciati ideali e provvisori per il mare aperto e senza strade della nostra contemporaneità” (p. 14). Insomma, un libro – conclude lo stesso Autore – come una cassetta di attrezzi. Un tentativo, visti i propositi, impegnativo. È impossibile dunque riassumere un libro come questo in una tesi centrale cui si perviene attraverso una serie di argomentazioni, trattandosi invece di diverse e numerose escursioni. Si possono comunque citare alcune "idee forti" che lo percorrono e che fanno parte ormai da anni della proposta filosofica di Natoli. Ne proponiamo tre: la secolarizzazione della secolarizzazione, una lettura atea del cristianesimo, e soprattutto l’etica del finito. Di secolarizzazione della secolarizzazione Natoli aveva già parlato nel suo Dio e il divino. È la fase successiva alla secolarizzazione del cristianesimo. È ciò che principalmente distingue il moderno dal contemporaneo: nel primo i contenuti cristiani vengono abbassati e reinterpretati in un’ottica storica e immanentistica, per cui – l’esempio, si sa, è classico – la tensione apocalittico-escatologica della storia diventa la fede nel progresso come soluzione al male; nel secondo caso invece decadono anche i valori nati dalla prima secolarizzazione (la scienza, la tecnica, la politica, la rivoluzione…): “Le ideologie rivoluzionarie sono tramontate e la tecnica, che pure ha portato all’umanità immani vantaggi, sembra oggi generare controfinalità e immettere pericoli. (…) In questo quadro non si può tacere della perdita sempre più generalizzata di riferimenti stabili di condotta, altrimenti designata come fine dei valori” (p. 11). Insomma, quella che viene a mancare nel mondo contemporaneo è la stessa idea di salvezza, dalle antiche origini cristiane, successivamente cancellate e sostituite dal mito faustiano/prometeico dell’uomo che si salva da sé. Tuttavia, anche quest’ultimo rimpiazzamento avrà il fiato corto. Se “la modernità la si interpreta come una «secolarizzazione dell’idea cristiana di salvezza», la contemporaneità è invece caratterizzata dalla secolarizzazione dell’idea di salvezza. Infatti non si sente più il bisogno di una salvezza incondizionata dal dolore e

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dalla morte” (p. 40). L’epoca attuale si configura più esattamente come età del rischio (le controfinalità della tecnica!), per cui l’autocomprensione in termini di progresso indefettibile ha lasciato il posto alla consapevolezza di vivere in un “mare di incertezza” (p. 69). Non c’è più il posto e il tempo per le nostalgie dei tempi (e dei valori assoluti) andati; anzi, non se ne sente neppure la necessità, la contingenza domina, e con essa la nuova (ma quanto nuova?) presa di coscienza di essere in viaggio (cfr. p. 149). Al nichilismo – e anche al pensiero debole –, Natoli oppone l’etica del finito. Si relativizzano le varie promesse di salvezza, ma senza rifiutarle. Quasi come dire: siamo oltre il moderno, e quindi possiamo anche riscoprire la moderazione. Sì alla tecnica (tecnica scientifica e politica), ma “per amministrare, al meglio, il limite” (pp. 150-151). Nietzsche non è passato invano (e tutta l’opera di Natoli è assai debitrice del filosofo di Röcken): i valori nella loro incondizionatezza sono tramontati, ma restano come soluzioni contingenti e provvisorie ai problemi che via via sorgono nel corso della storia. “Il compito degli uomini non è più quello di dirigere la storia, ma di dominare il contingente” (p. 82). L’etica del finito è la conseguenza della semplice e obiettiva constatazione del fatto che siamo esseri limitati, non onnipotenti. Morale e finitezza sono l’una la conseguenza dell’altra: per questo il prometeismo deve essere finalmente abbandonato: “Siccome non siamo onnipotenti c’è etica soltanto se c’è amministrazione della propria finitezza e si è costitutivamente immorali se ci si ritiene onnipotenti” (p. 92). In questo passaggio all’etica contemporanea, quale è il posto per il fatto religioso? Che significato (se ce ne sarà ancora uno) rivestirà la parola fede? Ci sarà ancora la possibilità per credere, assicura Natoli, ma in un nuovo senso rispetto al passato. La fede si inserirà sempre meno in una logica di verità per realizzarsi sempre più come “adesione a un’offerta di salvezza” (p. 150), “un’offerta di senso” che non può essere esclusa a priori (p. 162). Quella che Salvatore Natoli vede nell’epoca attuale è “la possibilità sempre più diffusa di una lettura profana e atea del cristianesimo. Un’interpretazione che spinge sempre di più sullo sfondo «resurrezione dei morti» e «vita eterna» […] per vivere il cristianesimo come assoluta fedeltà al presente nella forma della pura e semplice pratica della carità, divenuta nel parlare comune «condivisione», «fratellanza», soprattutto «solidarietà»” (p. 11). E allora, in questa lettura atea del cristianesimo, i segni propriamente cristiani continuano a parlare all’uomo contemporaneo. L’eremita, con il suo silenzio e la sua fuga, addita la fine del mondo; ma non più in senso escatologico, bensì nella stessa prospettiva in cui si inserisce l’etica del finito. Questa terra “non può essere considerata come il luogo definitivo” (p. 166). L’eremita è “segno dell’altro”, “promessa di avvenire”; l’eremita indica – del mondo – “il suo possibile oltrepassamento” (p. 166). Eppure Natoli è, a tratti, un nostalgico del cristianesimo dei novissimi, un nostalgico (forse per questo) che – come spesso ha ripetuto – non crede in Dio. E non è semplice fare convivere le sue posizioni, quella di una lettura atea del cristianesimo (della salvezza proposta dal cristianesimo, scrive: “la ritengo poco persuasiva e, per quanto mi riguarda, non necessaria per vivere bene”, p. 154) e quella per esempio ravvisabile nelle sue seguenti parole: “Cristiano in senso stretto [quindi anche oggi] è solo colui che vive in attesa del ritorno del Signore” (p. 167). Natoli è “incuriosito da coloro che credono, […] attratto e inquietato”, nell’epoca in cui si fa sempre più certa la capitolazione del cristianesimo dalle vette metafisiche e teologiche su cui risiedeva nel suo passato glorioso. Una lenta morte che non coincide però con la nullificazione del “bisogno di credere”. “Ma in che cosa? Non più nel cristianesimo, almeno in quello della tradizione. Allora in un nuovo cristianesimo? O in altro?” (p. 162). Quale sarà il dio in cui si potrà ancora credere? “Non più un Dio che salva, ma soprattutto un Dio che comprende, non un Dio onnipotente, ma un Dio che sostiene, un Dio impotente che è compagno fidato degli uomini nel loro faticoso cammino sulla terra” (p. 158). Ma poco dopo è l’altro Natoli che parla e dichiara che uno dei pericoli maggiori oggi per i credenti è proprio considerare Dio alla stessa altezza dell’uomo, cioè limitato, impotente, bisognoso. E dunque, quale dio per Natoli? Ma purtroppo e soprattutto Stare al mondo, nel suo tentativo di presentarsi come manuale per i naviganti nel mondo contemporaneo, scade continuamente nel luogo comune, nel giudizio banale. Dall’autore di Ermeneutica e geneaologia (1981) ci aspettavamo di più, anche in sede

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divulgazionistica. Il libro si apre con un saggio sulle vicende dell’11 settembre (si sa, l’attualità spinge e vende), nel quale non sono del tutto assenti elementi di un certo interesse: per esempio l’ultimo Novecento come passaggio del paradigma della guerra da igiene dei popoli che vede nell’altro stato l’hostis schmittiano, a bene dell’umanità contro il delinquente. Non più “capi di stato, ma volgari dittatori, non nemici da vincere e con cui eventualmente trattare, ma banditi da consegnare ai tribunali internazionali” (p. 22). Oppure, ancora, l’America come forma di vita che ha “disattivato i dispositivi di razionalità” della antiche civiltà e che ha modernizzato attraverso “il più grande sincretismo della storia del mondo”: Cristo insieme alla Coca-Cola, la new-age, Maometto e lo yoga (p. 30). O, in ultimo, il confronto tra, da una parte, il mondo di ieri, nel quale la differenza tra il centro e la periferia permetteva la dislocazione ai margini delle contraddizioni nonché lo scarico del potenziale di violenza, e, dall’altra, il mondo della globalizzazione, nel quale non sono più circoscrivibili i conflitti (cfr. p. 31). Ma che dire di affermazioni dalla disarmante banalità riguardo alle diverse forme di terrorismo come le seguenti: “I terrorismi in genere riescono a funzionare solo come gruppi separati. Separati e segreti. Sono tali evidentemente negli ambienti nemici in cui operano. Sono ambienti ad alto rischio dove è necessario risultare invisibili. Il nascondimento e la segretezza sono la condizione sine qua non per riuscire nei colpi” (p. 26)? Forse più interessante sembra il secondo capitolo (Lealtà civile), certo più corto ma anche più denso. Certe analisi rischiano di non cogliere nel segno: “Anche nel mondo antico o orientale c’è pietas, il sentirsi parte della natura, ma sempre in una logica di realizzazione complessiva” (p. 59). Cosa vuol dire mondo antico o orientale? Tutto il mondo antico? Tutto il mondo orientale? È vero che ovunque domini quel sentimento del sentirsi parte della natura? In chi? Nel cittadino comune, in Aristotele, in Confucio, nel Buddhismo originario? Non sembra. E per realizzazione complessiva cosa si intende precisamente? Qualcosa di analogo ricompare nei due capitoli dedicati al politeismo (antico e moderno): “Nel mondo antico il sentimento dell’uno era presente nella modalità singolare del sentirsi parte, del percepirsi come momento di una totalità” (p. 172); “Il politeismo percepisce il divino in tutte le cose” (p. 174). Anche qui, quanto si è ancora incatenati a letture romantiche della classicità? Altre riflessioni, sul politeismo moderno, sono più convincenti, facendo tornare alla mente i testi dei vari elogiatori del politeismo: da Nietzsche a Weber, da Blumenberg a Miller, da Marquard a Volli (riferimenti che però mancano nel testo di Natoli). Ma sono le affermazioni lapalissiane a farla da padrone. Sulla tecnica: “Oggi la tecnica sembra aver definitivamente perduto il suo alone ottocentesco di gloria e viene spesso associata al pericolo. Nel contempo nessuno riesce a rinunciare facilmente ai suoi benefici. Di qui un inevitabile, inestricabile circolo vizioso” (p. 68). Sul senso della vita: “Ognuno di noi nasce per caso, se i nostri genitori avessero fatto l’amore una sera dopo noi non saremmo nati, siamo insomma creature del tutto casuali” (p. 95). Su esistenza e follia: “Le turbe della mente – e nella forma estrema la follia – non sono dominabili dalla ragione. Nella follia ne va della ragione stessa, è la ragione a essere messa in pericolo” (p. 99). Ma Foucault non parlava anche della ragione insita nella follia? Sulla carità: “Non si deve dire come sono buono perché aiuto ma come è brutto che io debba aiutare, come è squallido. Molto spesso i cristiani dimenticano questo e gioiscono incautamente di sé: «Come sono buono»” (p. 111). Oppure sul rapporto tra donne e lavoro: le donne “riescono con difficoltà a sostenere insieme il peso del lavoro e quello della famiglia. E ciò anche per il fatto che gli uomini per tradizione secolare, nonostante le buone intenzioni, non sempre riescono a essere sufficientemente collaborativi” (p. 119). Una superficiale lettura – più che altro, un riassunto – di un film che meritava qualcosa di più (American Beauty), e come conclusione: “Queste cose non succedono solo nei film, ma accadono anche nella vita” (p. 132). Si sciupano anche alcune parole vane su un regista come Tarkovskij, la cui arte è così alta e pura che forse meriterebbe più silenzio che commenti retorici. Riflessioni sul dolore già sentite: “Il danno mutila, abbrutisce, distrugge, sfigura, spinge l’uomo verso la morte, lo riduce a cosa” (p. 134), davanti alle quali sarebbe meglio andarsi a rileggere alcune pagine di Simone Weil. Come sarebbe tutto sommato preferibile citare l’originale – Kierkegaard – invece che tradurlo, trasformando le sue riflessioni in una canzone d’organetto, in poche parole come queste: “Alla fede non c’è passaggio. Essa resta essenzialmente un salto. Come

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ogni atto di fiducia è un rischio. Per questo può essere sempre perduta, dev’essere a ogni momento guadagnata” (p. 162). Oppure assumere la posa di chi fa nuove rivelazioni sulla natura del cristianesimo: “Ma il cristianesimo – al contrario di quanto comunemente si crede – non nega affatto il mondo” (p. 165). Anche il capitolo dedicato a Socrate, nonostante alcuni spunti interessanti, non è privo di facili verità. Per esempio: Socrate “è davvero persuaso di «sapere di non sapere». […] Egli sa di non sapere e perciò sa già di più dei suoi interlocutori” (p. 177). Analogo discorso per i capitoli finali, dedicati al libro di Qohelet, nel quale Natoli in un certo senso si identifica: “La sofferenza di Giobbe, lungi da quel che si crede, non è in fondo né immotivata né arbitraria, ma è un escamotage, è semplicemente una prova di fedeltà” (p. 188). Verrebbe da chiedersi chi possa pensare diversamente dopo avere semplicemente letto l’Ecclesiaste. Più avanti: “La fiducia di Giobbe è certamente drammatica, è una fiducia tentata, ma non cede all’infedeltà” (p. 189). Commento più che superfluo. Più interessante il confronto tra Giobbe e Qohelet, come anche il dio di Qohelet stesso, lontano dall’idea tipicamente veterotestamentaria, un dio impersonale, davanti al quale svanisce l’amore lasciando spazio solo al timore. In conclusione, non sembra che il tentativo compiuto da Natoli in questo suo ultimo libro giunga ad un esito felice. Gli argomenti trattati sono tanti, forse troppi: la semplificazione sembra la sua imprescindibile premessa, oltre che deludente il risultato. Molti dei temi solo sfiorati trovano una più appropriata cornice in altre opere dello stesso filosofo, ben più meritevoli di attenzione da parte del lettore non totalmente sprovveduto. Indice Prefazione – Nodi del presente Società

1. Geopolitica 2. Lealtà civile 3. Politica e valori 4. Intelligenza plastica e società complessa 5. Diritti non elemosine 6. Vocabolario della solidarietà

Rischio 7. Produrre, consumare, distruggere 8. Tecnica e catastrofe 9. L’ansia del risultato 10. Incertezza e rischio

Cura di sé 11. Il self-help 12. Esistenza e follia 13. Legami di libertà 14. L’obbedienza è ancora una virtù

Affetti 15. Madri 16. E adesso parliamo di donne 17. Il disamore 18. Il dolore tra danno e senso 19. Lo spettacolo del dolore e le icone della sofferenza 20. Don Giovanni o dell’escalation perversa

Secolarizzazione 21. L’ultimo nulla 22. Il paradosso cristiano 23. Quale Dio?

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24. Aver fede 25. Del silenzio 26. Eremiti moderni 27. Il “mondo dietro il mondo” 28. Anche qui sono presenti gli dei

Sapienza 29. Il verso dell’ironia 30. “Molta sapienza, molto affanno” 31. Sapere e dolore 32. Eternità 33. Il timore di Dio

Indice dei nomi L'autore Salvatore Natoli è nato a Patti (Me) il 18 settembre 1942. Già docente di Logica presso la facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Venezia, attualmente insegna Filosofia della politica presso la facoltà di Scienze Politiche dell'Università di Milano. Ha collaborato a molte riviste, tra cui Prospettive settanta, Il centauro, Democrazia e diritto, Religione e società, Leggere, Bailamme e Metaxù. Tra le sue pubblicazioni, oltre a quelle già citate, ricordiamo: I nuovi pagani (Milano 1995), Teatro filosofico. Gli scenari del sapere tra linguaggio e storia (Milano 1991), Vita buona, vita felice. Scritti di etica e politica (Milano 1990) e L'esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (Milano 1986). Links http://lgxserver.uniba.it/lei/rassegna/natoli.htm http://www.emsf.rai.it/biografie/anagrafico.asp?d=207 http://www.mediamente.rai.it/home/bibliote/biografi/n/natoli.htm http://www.viator.it/HTML/felinatoli.html http://www.dossetti.com/06%20riflessioni/rif.lafede.htm http://www.dossetti.com/02%20convegni/convMarghNatoli.htm