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REALIZZATO DALLA CLASSE III A IPSSAR “P. ARTUSI” ROMA

a.s. 2006/2007 Responsabile Prof.ssa Liana Canichella

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GRUPPO ATTIVITA’

A AVAGLIANO,Cicerchia, Moccia, Petaroscia

Definire il prodotto tipico, denominazione, ruolo economico delle produzioni, normativa. Studio di tre ricette tipiche Traduzione in lingua di parte del materiale prodotto

B BOVE, Visentini, Granirei, Martis, Conocchioli

Prodotti tipici del Lazio (materie prime): storia, provenienza, rapporto con il territorio. Studio di tre ricette tipiche Traduzione in lingua di parte del materiale prodotto

C RICCI, Cioropan, Grossi, Sperati, Duella

Storia della gastronomia, storia dei prodotti tipici in Italia Studio di tre ricette tipiche Traduzione in lingua di parte del materiale prodotto

D RISENI, Del Greco, Fabiano, Vecchioni, Keci,

Abitudini alimentari tipiche del territorio e il legame tra l’ambiente e l’agricoltura tipica del Lazio (questionario ai nonni) Studio di tre ricette tipiche Traduzione in lingua di parte del materiale prodotto

E LO RUSSO, Di Prospero, Toti, Vecera

Ricette tipiche: impostazione del ricettario, scelta delle schede di assaggio Studio di tre ricette tipiche Traduzione in lingua di parte del materiale prodotto

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Il progetto è stato realizzato dagli allievi della III A dell’IPSSAR “P. Artusi” nell’a.s.2006/2007 con l’ausilio dei docenti: Casciato Fiorella Francese Gualtieri Antonietta Scienze dell’alimentazione Musetti Rosa Italiano e storia Richiusa Severino Cucina Schieppati Stefania Inglese Coordinamento e redazione prof.ssa Liana Canichella Le foto sono state scattate da Chiara Bove durante le esercitazioni pratiche di cucina Il Logo della III A e l’ipertesto sono stati realizzati da Chiara Bove I dati delle prove di assaggio sono stati elaborati da Mirko Martis Il ricettario e la scheda di assaggio sono stati elaborati da Francesca Lorusso

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- MAPPA CONCETTUALE pag. 5

PRIMA PARTE

- STORIA DELLA GASTRONOMIA ITALIANA pag. 6 - IL CONCETTO DI PRODOTTO TIPICO pag. 7 - LA NORMATIVA pag. 8 - GRAN PREMIO DELLA TIPICITA’: ruolo economico pag. 12 - IL CONSUMATORE: VECCHI E NUOVI SAPORI pag. 13 - RUOLO DELLA RISTORAZIONE NELLA VALORIZZAZIONE DEI PRODOTTI TIPICI pag. 15 - IL LAZIO: TERRITORIO, STORIA E CUCINA pag. 16 Storia pag. 17 La cucina pag. 19 Roma: piatti tipici e abitudini alimentari pag. 21 Sabina: piatti tipici e abitudini alimentari pag. 24 Ciociaria: piatti tipici e abitudini alimentari pag. 25 Latina: piatti tipici e abitudini alimentari pag. 26 Viterbo: piatti tipici e abitudini alimentari pag. 27 - I PRODOTTI TIPICI DEL LAZIO (MATERIE PRIME) pag. 28

SECONDA PARTE - IL RICETTARIO DEI PRODOTTI TIPICI pag. 43

TERZA PARTE

- LA SCHEDA DI ASSAGGIO: i risultati pag. 82

QUARTA PARTE

- LA GALLERY Pag 87

- BIBLIOGRAFIA pag. 91

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I PRODOTTI TIPICI CLASSE IIIA

Il concetto di prodotto tipico

La normativa

La storia della gastronomia Italiana .

La storia, le caratteristiche

organolettiche e nutrizionali di alcuni prodotti tipici Laziali

(materie prime)

La denominazione dei prodotti tipici

Gran premio della tipicità: ruolo economico

IL LAZIO:

TERRITORIO,

Il legame tra l’ambiente(posizione geografia), agricoltura, storia e cucina del Lazio: ROMA , SABINA, CIOCIARIA ,LATINA, VITERBO. (le abitudini alimentari tipiche del territorio (piatti tipici)

Elaborazione di piatti utilizzando ricette tipiche del territorio Laziale (Il ricettario )

Degustazione delle pietanze realizzate ( la scheda di assaggio), i vini abbinati dalla III B per riscoprire nuovi sapori, confrontarli con i vecchi (pietanze realizzate dalla I B) al fine di utilizzare i propri sensi come strumento di scelta Il Consumatore: nuovi e vecchi sapori

Elaborare il Prodotto Finale in formato cartaceo e in ipertesto

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La letteratura gastronomica italiana conosce la pienezza espressiva con il più antico ricettario medievale il “Liber de coquina”, quasi sicuramente scritto tra la fine del 200 e inizio 300 a Napoli. Questo ricettario venne diffuso in Europa , perché era scritto in latino e si può dire che segna la nascita della “Gastronomia italiana” e dell’interesse di raccogliere ricette e abitudini alimentari. Circa un secolo dopo e fino al XVI secolo, si registra la circolazione di altri ricettari, destinati ad un pubblico borghese. Uno di questi libri molto famoso è il “libro de arte coquinaria “ di Maestro Martino da Como. L’Italia gastronomica al tempo di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V, si estendeva fino a Napoli, non contemplando il Piemonte perché era troppo legato alla cucina francese. Nella sua “Opera dell’arte del cuoco” di cinque libri evidenzia una triplice suddivisione della gastronomia italiana: la Lombardia, cioè l’Italia padana, l’Italia Granducale e Pontificia ed il Regno (cioè tutto il sud e la Sicilia). Tre città in particolare riassumono la gastronomia Milano, Roma e Napoli. Scappi proponeva un Italia “gastronomica” fatta di grandi città nelle quali la tradizione del territorio si fondeva con le tecniche di lavorazioni urbane,in un certo senso riassumendo e incorporando le caratteristiche del gusto tipiche di una regione. Il tentativo di questo autore fu appunto di mettere a confronto le diverse tradizioni regionali Nel 600 questo tentativo fallì. Nel 1634 Giovanni Battista Crisci pubblicò a Napoli la “Lucerna di cortigiani”,un repertorio di menù per le varie stagioni dell’anno. Tra la fine del 600 e la metà del 700, non ci fu nulla di importante nella letteratura gastronomica italiana , ad eccezione del trattato di Latini. Quest’evento era il segno del prevalere in Europa della cucina francese,la gastronomia francese si diffuse in Italia,attraverso il Piemonte . Nel 1766 fu pubblicato” Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi”,fu molto diffuso a Venezia, Milano, Roma e Napoli per la pubblicazione de “Il cuoco galante “Vincenzo Corrado usò il linguaggio francese. Verso la fine dell’800 tra i vari tentativi di unificare le ricette delle gastromie locali, risalta l’opera del finanziere e buongustaio Pellegrino Artusi pubblicata nel 1891 “La scienza in cucina e l’arte di mangiare bene” che costituì un modello di cucina italiano. Egli rielaborò i piatti della cucina signorile come il vitello tonnato o le salse ricche come la besciamella, il suo ricettario si distinse anche per il gran numero di dolci proposti. Egli riuscì ad essere molto famoso in tutta Italia ,perché scelse le ricette a gusto medio,quindi non troppo piccanti , ne troppo pesanti e nemmeno molto costose.

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Dopo l'unità d'Italia, esistevano nel nostro paese una miriade di prodotti agroalimentari e nell'ambito dello stesso prodotto, la forma di diversificazione era grandissima. Il clima, le modalità culturali ed ambientali erano elementi non trascurabili nel processo produttivo che oggi ha subito un radicale cambiamento poiché il mercato ha preteso di uniformare e standartizzare i prodotti per obbedire a rigide leggi. Ma questa esigenza del "mercato", e l'introduzioni di innovazioni tecnologiche hanno modificato i modi con cui si producono, si trasformano e si consumano i prodotti dell'agricoltura e hanno omologato i gusti. La tecnica e la scienza hanno introdotto la catena del freddo, i conservanti, gli aditivi, e i coloranti. L'uomo moderno ha posto maggiore attenzione all'igiene e alla salubrità, riscoprendo il prodotto genuino. Il prodotto tipico è dunque quel prodotto che è frutto di particolari tradizioni ed è legato a determinati luoghi di produzione e con caratteristiche organolettiche particolari. A volte il clima, il terreno, l'acqua, l'esposizione dei campi, il soffiare dei venti, le pendenza di alcuni oliveti e vigneti, le precipitazione che danno una valenza alle coltivazioni ed agli allevamenti e ci consegnano prodotti particolari. Tali fattori, tecniche colturali ed abilità particolari, con l'aggiunta di particolari ingredienti soggettivi trasmessi da padre in figlio, creano il prodotto tipico. Il prodotto tipico è il frutto della tradizione e dell'esperienza di una cultura contadina complessa e ricca, che va estinguendosi. Basti citare, ad esempio, una coltura per tutti gli altri prodotti: lo zafferano.

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Nell’ambito del ricco patrimonio italiano, oltre ai prodotti alimentari, industriali o artigianali con caratteristiche qualitative e igienico sanitarie minime (conformi alle norme europee e nazionali sulla sicurezza ed igiene degli alimenti) oggi vi sono prodotti che sono noti e distinguibili per una differenziazione di gusto che dipende dall’applicazione di metodi di produzione quali tradizione storica, manualità, artigianalità, clima o microclima, In effetti questi prodotti contengono delle peculiarità legate al territorio, all’ambiente e alla tradizione storica e culturale che conferiscono loro dei particolari caratteri distintivi. La specificità di un prodotto tipico è pertanto la risultante di un mix di fattori che dovrebbero trovare nel Disciplinare di produzione, lo strumento di identificazione e la base di riferimento per i controlli e la certificazione. Il Disciplinare è un insieme di indicazioni e/o prassi operative da rispettare dal produttore relativamente a:

• il nome del prodotto agricolo o alimentare DOP o IGP; • la descrizione del prodotto agricolo o alimentare mediante indicazione delle

materie prime, se del caso, e delle principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche c/o organolettiche dello stesso;

• la delimitazione della zona geografica e gli elementi che comprovano il legame del prodotto agricolo o alimentare con la zona geografica di riferimento;

• la descrizione del metodo di ottenimento del prodotto e/o i metodi locali, leali e costanti unitamente agli elementi che comprovano il legame o l'origine con l'ambiente geografico;

• i riferimenti relativi agli organismi di controllo; • gli elementi specifici dell'etichettatura connessi alla dicitura DOP o IGP, a

seconda dei casi, o le diciture equivalenti; le eventuali condizioni da rispettare in forza di disposizioni comunitarie e/o nazionale.

A livello europeo sono stati emanati nel 1992 i Regolamenti n. 2081 e 2082 .Ancora prima di questi, gli stati membri dell’Unione Europea hanno tutelato i prodotti tipici con un marchio nazionale. Il marchio DOC (denominazione di origine controllata),che nasce appunto con l’intento di tutelare, i prodotti originari di una certa zona, la cui realizzazione deve avvenire con l’uso di materie prime locali e con tecniche tradizionali.

Con i regolamenti N.2081 e N 2082, la politica agricola europea ha inteso soddisfare maggiormente le aspettative di qualità da parte dei consumatori, garantendo loro informazioni complete, e tutelando quei produttori che da anni hanno preservato un prodotto, la sua preparazione e la sua storia.

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DOP (denominazione di origine protetta) si intende: “il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all’ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nell’area geografica delimitata” (Art.2 par1) .

IGP (indicazione geografica protetta) E' attribuita a quei prodotti agricoli e alimentari per i quali la qualità, la reputazione e la trasformazione sono determinate in una certa zona geografica e precisamente: “il nome di una regione, di un luogo determinato o in casi eccezionali di un paese che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese e di cui una determinata qualità, la reputazione o un’altra caratteristica possa essere attribuita all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell’area geografica determinata” (Art.2 par1)

L’ente che per primo ha avuto la facoltà di certificare i prodotti tipici è il Ministero delle Politiche Agrarie e Forestali. Successivamente tale compito è stato demandato ad enti privati. E’ necessario, infine specificare che i regolamenti di cui sino ad ora si è parlato, non si applicano al settore vitivinicolo, per il quale, invece esiste il regolamento CEE N. 823/87, che riserva il marchio DOCG (denominazione di origine controllata e garantita) ai “vini già riconosciuti DOC da almeno cinque anni che siano ritenuti di particolare pregio, in relazione alle caratteristiche qualitative intrinseche, rispetto alla media di quelle degli analoghi vini così classificati, per effetto dell'incidenza di tradizionali fattori naturali, umani e storici che abbiano acquisito rinomanza e valorizzazione commerciale a livello nazionale ed internazionale” (art 8 par1).

• IGT Indicazione Geografica Tipica

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Diverso è il concetto di

STG (Specialità Tradizionale Garantita ) disciplinato nel Regolamento Comunitario n. 2082 del 1992. Il carattere di specificità viene intesa come elemento o insieme di elementi che per le loro caratteristiche qualitative e di tradizionalità, distinguono nettamente un prodotto alimentare da altri prodotti simili quelli creati secondo una “Ricetta tipica” al fine di tutelare la specificità. In questo caso quindi vi è un legame con l’ambiente geografico in quanto seguendo i dettami di una “Ricetta tipica” questi prodotti si possono produrre anche al di fuori di una particolare area geografica. Il Regolamento prevede l’istituzione di un albo comunitario delle attestazioni di specificità. “Prodotti tradizionali”: il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali ha emanato il regolamento (decreto n.350 del 8/9/99), per l’individuazione dei “Prodotti tradizionali” intendendo con questo nome un prodotto agroalimentare ottenuto con metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura consolidate nel tempo, per un periodo non inferiore a i 25 anni. Prodotti locali: prodotti tradizionali che si caratterizzano per l’esiguità delle produzioni, per la mancanza di disciplinare e protocolli e per la variabilità delle tecniche di produzione. Per quest’ultimi è in corso un processo di razionalizzazione degli elenchi di prodotti tradizionali con redazione di schede di prodotto. Tale lavoro nel Lazio è curato dall’ARSIA Denominazione divenuta generica (Ddg) Si intende per «denominazione divenuta generica» il nome di un prodotto agricolo o alimentare che, pur collegato coi nome del luogo o della regione in cui il prodotto agricolo o alimentare è stato inizialmente ottenuto o commercializzato, è divenuto, nel linguaggio corrente, il nome comune di un prodotto agricolo o alimentare. Per determinare se una denominazione sia divenuta generica o meno, si tiene conto di tutti i fattori, in particolare:

• della situazione esistente nello Stato membro in cui il nome ha la sua origine e nelle zone di consumo,

• della situazione esistente in altri Stati membri, delle pertinenti legislazioni nazionali o comunitarie Oltre ai tre marchi (DOP, IPG, STG) stabiliti dall'Unione Europea ciascuna regione italiana ha messo a punto propri marchi che vengono dati a quei prodotti sottoposti a controlli regionali.

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I prodotti tipici sono tutelati da Consorzi di tutela che sono organismi composti da produttori e/o trasformatori di un determinato prodotto, il cui scopo è: - vigilare sulla produzione del prodotto - salvaguardare il prodotto da abusi, atti di concorrenza sleale, contraffazioni ed uso improprio della denominazione - promuovere e la valorizzare il prodotto. Esiste inoltre un ente privato riconosciuto dal Ministero delle Risorse Agricole cui fanno riferimento le aziende che hanno il compito di apporre il marchio del prodotto tipico.

Classificazione dei prodotti tipici DOP – IGP – STG Carni fresche, formaggi, altri prodotti di origine animale (uova, miele ecc.). Grassi (oli, burro, margarina ecc.) Ortofrutticoli e cereali, Pesci, molluschi, crostacei e prodotti a base di pesce. Birra, bevande a base di estratti di piante. Prodotti della panetteria, della pasticceria, della confetteria e della biscotteria SOLO DOP - IGP Acque minerali Gomme e resine naturali, oli essenziali Fieno, sughero SOLO STG Cioccolata e altre preparazioni di cioccolata Paste alimentari Piatti composti, salse per condimento Minestre e brodi Gelati e sorbetti

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Da sempre l’Italia si contraddistingue nel panorama agroalimentare mondiale per la qualità e le notorietà delle proprie produzioni. Tra gli alfieri del made in Italy spiccano i prodotti DOP e IGP. Oltre l’Italia è la Francia che contende la metà dei prodotti DOP e IGP, nell’unione Europea. In Italia predominano i prodotti vegetali, le cui DOP e IGP rappresentano il 30% del totale, seguite dagl’oli d’oliva, formaggi e carni preparate, e in piccola parte da spezie, condimenti, e prodotti da forno. A dispetto della numerosità dei prodotti, il valore economico dei prodotti tutelati non rispecchia tali tendenze. Il valore del consumo del paniere DOP e IGP, occupa una piccolissima parte dei consumi alimentari domestici. Anche il resto d’Europa ha gli stessi risvolti economici dell’Italia. Data la delimitazione regolamentata degli areali di produzione, esiste un vincolo fisiologico alla crescita dei volumi, derivato dalla potenzialità produttiva del territorio e del sistema locale. Occorre inoltre ricordare che per ottenere il marchio passa diverso tempo dal momento dell’iscrizione all’albo comunitario, ecco perché su 151 riconoscimenti su prodotti a livello nazionale solo 10 denominazioni sono riconosciute in Europa. Per valorizzare al meglio le produzioni DOP e IGP bisogna guardare i risultati a

livello locale anziché a livello assoluto e nazionale. La spinta economica che questi

prodotti possono dare al sistema agroalimentare è molto ampia. Non bisogna

infatti dimenticare che l’effetto traino che questi prodotti DOP e IGP attivano

sui mercati esteri assume un vero e proprio ruolo di ambasciatore del made in

Italy alimentare. Così come non si può affermare che i prodotti DOP e IGP sono

parte importante della produzione agricola italiana, non si può neanche dire che

questi prodotti siano solo prodotti destinati a pochi intenditori.

Nella consapevolezza del ruolo che questi prodotti possono esprimere nello sviluppo delle aree rurali, la commissione europea ha deciso di inserire un nuovo regolamento per lo sviluppo rurale, strumenti e risorse finalizzati a sollecitare l’adesione delle

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imprese a tali filiere certificate. Occorre infine segnalare, la battaglia della stessa Unione Europea che si sta prestando ad affrontare in sede Wto, l’organizzazione mondiale del commercio sulla costituzione di un registro multilaterale per la tutela mondiale delle indicazioni geografiche.

Gli Italiani consumatori in questi ultimi anni stanno rimettendo in discussione, i propri schemi ed abitudini e stanno riscoprendo vecchi sapori, vecchie tradizioni e l’importanza del rilancio del gusto. Per un lungo periodo è stata crisi; sembrava che si stesse perdendo questo patrimonio (prodotti tipici) a favore dell’omologazione dei sapori e agraria promossa dalle multinazionali che con i loro prodotti hanno insidiato le piccole produzioni. Oggi sembra sia invece in atto un rinascimento della gastronomia italiana, i nostri piatti tradizionali ricchi di sapori, odori e colori sono apprezzati sempre più anche al di fuori del nostro paese; la tipicità è ormai diventata un “Plus valore". Nasce una nuova esigenza: il recupero dell’identità di quello che si mangia. Si tratta di un fenomeno nuovo, impensabile fino a poco tempo fa, che ci fa capire quanto grande sia il bisogno di difendersi dagli eccessi di una società sempre più globalizzata. La cucina tradizionale che fu abbandonata quasi totalmente nel periodo del boom economico degli anni ’60 e ’70 in quanto ritenuta meno attraente e raffinata rispetto ad altri schemi alimentari, è stata rivalutata. Per noi italiani “Recuperare e rivalorizzare” le tradizioni alimentari significa riallacciarsi ad uno schema che ci è sempre stato familiare e al quale possiamo quindi tornare con piacere: tradizione che oggi ci si presenta con maggior validità, sia per la sua riconosciuta adattabilità delle esigenze della vita moderna (piatti unici, risparmio..), sia per la sua qualità internazionalmente comprovata di idoneità a difendere la salute. L’Italia si è rivelata un Paese fortemente interessato alla tutela delle produzioni di qualità questo è ciò che si rileva dai risultati di un’indagine che la Comunità Europea ha commissionato nel 1995 sul peso nei vari paesi dei prodotti cosiddetti CQP (con Caratteristiche di Qualità Particolari) cioè i DOP, IGP, i certificati ecc.. Un prodotto tipico richiama il consumatore al recupero di gusti e sapori antichi. Egli desidera coniugare davanti alla genuinità, anche il requisito della qualità; tali requisiti si concretizzano principalmente in alcuni criteri di scelta: • SALUTE: il consumatore è diventato sempre più parte attiva nella ricerca di

alimenti ed ha acquisito meccanismi d’informazione, che cibi “sani” e “garantiti”

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rappresentano una componente essenziale per lo star bene fisicamente. • SAPORE: si tratta di una aspettativa di buono, in termini di qualità, di sapori, di

leggero, di digeribile. Cibo buono vuol dire anche la soddisfazione di esigenze gustative, olfattive, visive ed estetiche, tattili.

• SUPERNATURALITA': sia nel senso di un prodotto assolutamente naturale, sia

come intervento dell'industria che non solo non penalizza il prodotto naturale, ma consente alla natura di dare il meglio di se. La richiesta rivolta dal nuovo consumatore ai prodotti alimentari, freschi e naturali, diviene un binomio sempre più rilevante, nella scelta del cibo.

• SERVIZIO: la richiesta di servizio nel settore alimentare sta facendosi strada

anche nei settori più tradizionali della popolazione, assumendo quindi una quantità di declinazioni diversa: dalla più ovvia reperibilità, alla rapidità di cottura e preparazione, alla compatibilità con le stoviglie e sistemi di cottura alla comodità di conservazione e alla praticità nell'eliminazione di contenitori, rifiuti e via dicendo.

• SAPERE: oggi il consumatore è esigente e selettivo sui prodotti che acquista, sta

quindi cambiando il costume alimentare degli italiani. Infatti oggi il prodotto deve essere non solo buono, ma anche salutare e naturale.

Il consumatore deve essere molto accorto e combattere una PIRATERIA AGROALIMENTARE che tende a produrre imitazioni dei prodotti tipici PASTA

Uso del grano tenero e alte temperature

OLIO EXTRAVERGINE DI OLIVA Commercializzazione di miscele di oli origine diversa

PROSCIUTTO DI PARMA

Possibilità di affettare fuori dall’area origine

CIOCCOLATO Aggiunta di sostanze grasse vegetali fino 5% diverse dal burro di cacao

Le nazioni coinvolte sono NAZIONE PRODOTTO IMITATO Giappone, Canapa, Argentina, USA PARMESAN

REGIANITO Uruguay, Canapa, Nuova Zelanda PARMESANO REGGIANO Australia PARMESANO

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La ristorazione costituisce una risorsa economica fondamentale per lo sviluppo del nostro Paese. Il modo di consumare dell’utente è in continua e costante evoluzione e il ruolo del settore ristorativo deve evolversi per il continuo evolversi di costumi, usi, consuetudini proponendo prestazioni sempre più aggiornate, qualificate e specifiche. Lo sviluppo dei sistemi territoriali è l’offerta dei prodotti esclusivi a forte identità territoriale. Complessivamente il paniere delle produzioni tipiche italiane riconosciute a livello comunitari con i marchi DOP e IGP conta più di 420 denominazioni. Focalizzando l’attenzione ai soli prodotti agro alimentari , il paniere italiano delle denominazioni tutelate a livello comunitario si compone di ben 133 prodotti, dei quali 89 registrati a marchio DOP e 44 a marchio IGP. L’uso di una “cucina tradizionale” può soddisfare esigenze diversificate: estetiche, culturali, conoscitive, sensoriali e gustative del consumatore, sia esso studente nelle mense scolastiche, sia esso anziano in una casa di riposo, lavoratore in una mensa o turista. Il consumatore potrà così riscoprire vecchi sapori, provarne di nuovi, avere la possibilità di essere educato al gusto che significa anche educare all’identità personale (bambini e adolescenti nelle mense scolastiche). La ristorazione collettiva da un lato può offrire qualità ad altissimo livello e, dall’altro, tendere a recuperare le più antiche tradizioni gastronomiche La ristorazione collettiva ha una buona occasione per favorire una cultura all’insegna della buona e sana alimentazione. In una situazione di crescente complessità e di competitività le ricadute positive di una ristorazione basata sulla tipicità sono, tuttavia, legate al miglioramento delle capacità di marketing, ad una comunicazione efficace tra le diverse componenti che operano nel settore ed al raggiungimento di standard di qualità e soprattutto di una formazione professionale delle risorse da impegnare nel settore mirata.

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Territorio e Agricoltura Il Lazio occupa una porzione centro-occidentale della Penisola affacciandosi sul Tirreno tra la foce del Chiarone e quella del Garigliano. L'economia si basa soprattutto sull'agricoltura e sull'allevamento del bestiame. Tra le colture erbacee primeggiano i cereali e tra questi il grano, seguito dal mais e dall'avena. Importanza notevole hanno le colture agricole: cavoli e cavolfiori, pomodori, carciofi, cipolle e agli, fagioli. Tra le colture arboree hanno la massima importanza la vite e l'ulivo. Nell'allevamento del bestiame predominano gli ovini che trascorrono i mesi estivi in montagna e scendono da metà settembre a giugno nelle pianure tirreniche dove dimorano all'aperto, in recinti circondati da reti, presso le capanne dei loro pastori. I centri principali dove si pratica la pesca sono Gaeta e Civitavecchia cui seguono Anzio e Terracina.

Storia La storia del Lazio e di Roma va inserita dal 1500 al 1870 (breccia di Porta Pia) nella vita dello Stato della Chiesa. Del resto già alla fine del VI secolo la Chiesa possedeva nel Lazio alcuni patrimoni anche se i diritti di sovranità erano esercitati nel Ducato

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Romano dall'Impero d'Oriente. Fra i Papi fu soprattutto Bonifacio VIII fra la fine del XIII secolo e l'inizio del XIV ad adoperarsi per la costruzione dello Stato, nulla tralasciando per abbattere i più forti antagonisti, i Colonna. E anche i disordini degli anni che coincisero con il soggiorno avignonese dei papi (1305-1377) non intaccano la monarchia pontificia. I Papi dimostrarono di essere i più forti riuscendo alla fine del XV secolo di divenire padrona dell'intera regione che con altri territori formò lo Stato della Chiesa. La corte papale per tutto il Rinascimento e nei due secoli successivi visse nel lusso, priva di scrupoli morali e dimostrò il suo potere attraverso le arti e le costruzioni monumentali. Ma la città, nonostante la potenza del periodo papalino nell'arte culinaria non ha assimilato nulla della cucina nobile, complessa e raffinate. La Rivoluzione francese e le vicende napoleoniche investirono anche lo Stato pontificio strappando Roma dalla sua vita sonnolenta. Nel 1797 Giuseppe Bonaparte avanzò dalla Cisalpina su Roma: sotto la protezione delle baionette francesi la sparuta pattuglia dei giacobini locali proclamò in Campidoglio la Repubblica Romana. Mentre il vecchio Papa Pio VI riparava a Firenze, nonostante in città e nelle campagne ci furono tentativi di rivolta nel 1809 i Francesi erano nuovamente padroni di Roma e il Papa iniziava il suo quinquennale esilio in Francia. Per quanto i Francesi si dessero da fare per migliorare in tutti i campi, amministrativo, economico, sanitario, le tristi condizioni della città, i Romani non dimostrarono mai eccessiva simpatia al nuovo regime: non mancano, anzi, specialmente nelle campagne, resistenze aperte e rivolte. Dopo la caduta di Napoleone, si ebbe il ritorno di Pio VII e l'inizio della restaurazione che divenne sempre più rigida e gretta con la successione al trono pontificio (1823) dell'austero e severo Leone XII. Ma sotto la superficiale severità dei costumi introdotta dal nuovo Pontefice, la vita romana continuava a svolgersi come da sempre tra feste e avventure di principi e artisti mentre tra il popolo penetravano le prime idee di libertà e la Carboneria iniziava la sua attività. Le idee carbonare e mazziniane che dilagarono dapprima fra alcuni strati della borghesia, penetravano ormai fra il popolo minuto, così come l'opera di Gioberti. Il clima romano divenne arroventato da passioni che vanno dall'aspirazione alla libertà e alla laicità dello stato a torbidi vagheggiamenti di trasformazioni sociali. Il Papa fugge a Gaeta; viene proclamata (1848) la repubblica romana diretta dal Mazzini che però ebbe vita brevissima perché le forze dell'Europa cattolica accolsero l'appello del Papa esule che poté rientrare a Roma dopo la vittoria delle truppe francesi. Ma anche il destino dello Stato pontificio era segnato. Le riforme tardive introdotte dal pontefice, gli spettacoli offerti, la costruzione della prima linea ferroviaria, non riescono ad arrestare il processo di italianità . La presa di Roma apre un nuovo capitolo nella vita della città, ormai capitale di uno stato moderno. Negli anni seguenti alla

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liberazione di Roma, lo sviluppo cittadino assunse quel carattere di progressiva mescolanza dai più vari apporti regionali che conserverà poi sempre, conseguenza anche del forte richiamo che la nuova capitale esercita come centro d'impiego e di potere. Nel periodo che va dal 1870 alla prima guerra mondiale forti si mantennero a Roma le tradizioni politiche del '49 di origine mazziniana. Accanto a questa Roma sopravviveva la Roma pontificia che dai circoli in cui si era rinserrata dopo la protesta di Pio IX veniva aprendosi con sempre maggior partecipazione dei cattolici alla vita del nuovo stato. Processo questo che nel Concordato (1929) che pose fine alla dicotomia Stato/Chiesa troverà le condizioni per compiersi col riconoscimento al Vaticano del suo tradizionale prestigio. Dopo la caduta del fascismo e la fine del secondo conflitto mondiale, con il ritorno alla libertà poté manifestarsi la vera natura di Roma: cattolica e moderata per un verso, ma con presenze comuniste e socialiste eredi dell'antica tradizione repubblicana e alimentate dall'estremismo sociale della sempre più vasta popolazione abitante nelle borgate periferiche. E Roma diviene una grande metropoli con tutte le sue contraddizioni, con una vita slegata dal resto della regione, protesa all'Italia tutta e al mondo, eppure con forti tradizioni provenienti dal contado, con una cultura popolare (basti pensare alle poesie del Belli e di Trilussa, agli stornelli, a certo teatro) radicatasi anche nella capitale, cultura che è tuttora viva, presente in ogni campo, anche in quello dell'arte della cucina. L'estrazione popolare della cucina romana è innegabile con le sue ricette di cibi poveri, con i consigli di riutilizzazioni, con la semplicità dei piatti e dei menù. Un discorso a parte merita la cucina ebraica che a Roma è molto presente, non solo nell'ambito delle famiglie, ma anche in quello dei ristoranti, delle trattorie, con negozi specifici di antica data. Tale presenza massiccia è dovuta al fatto che in Italia i primi ebrei abitarono a Roma e ancora oggi la capitale accoglie la comunità ebraica più numerosa.

La Cucina La cucina laziale è rappresentata in gran parte da quella romana nella quale sono convogliate tutte le specialità delle tradizioni culinarie della regione divenendo così un ricco e saporoso riassunto di una gastronomia varia nella quale compaiono apporti di zone confinanti e di altre comunità prima fra tutte quella ebraica che ha lontane radici storiche. Una cucina che a Roma ha difeso dall'ingerenza delle mode e del turismo, meglio di quanto sia avvenuto in altre zone laziali e in altre regioni italiane, la propria genuinità; a Roma infatti si rispetta il passato, lo si tiene in vita, seppure ovviamente arricchendo e personalizzando tale eredità, perpetuando la schiettezza e la gustosa semplicità di una cucina di estrazione popolare che in parte ha coinciso anche nei secoli di maggior splendore con quella papalina e aristocratica per la quale questa cucina rappresentava la quotidianità, mentre per il popolo era un'aspirazione che si

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concretizzava occasionalmente. Divisi dal rango e dal censo, popolani e nobiluomini furono sempre accomunati dalla loro innegabile propensione per le amatriciane giunte nella capitale dell'Abruzzo, da Amatrice. La conferma di questo interclassismo è leggibile tra le righe di qualunque menù in vigore nei luoghi base della ristorazione laziale dove netta è la prevalenza delle vivande povere non avendo l'aristocrazia capitolina esportato vivande sontuose come è avvenuto, soprattutto nel Rinascimento, in altre corti. È nota la fortuna che incontrano a Roma e dintorni le frattaglie, le code dei bovini (celeberrima è la vaccinara), le zampe e le guance degli animali da macello, tutto ciò che sotto il Cupolone si chiama il quinto quarto: è la prova incontestabile dello scrupolo che i macellai laziali di una volta mettevano nel recupero d'ogni parte commestibile delle bestie affidate alle loro cure, probabilmente senza prevedere che i rigatoni con la pajata avrebbero conquistato nel XX secolo prìncipi e attori da Oscar. L’abbacchio al forno, re delle mense non solo pasquali, nasce come cibo dei pastori, come dire di una categoria sociale quanto meno periferica. I sapori del Lazio appartengono, per dirla in breve, alla cultura delle circostanti campagne: sono tributari, per gli agnelli e i formaggi, dei pastori abruzzesi, per l'olio e il vino dei vicini Colli Albani e delle modeste alture sabine. La cucina ROMANA vera e propria vanta una serie di piatti che si trovano nelle offerte di molte trattorie della capitale, prime fra tutte quelle del quartiere di Trastevere molto frequentato sia da romani che da turisti. Ne ricordiamo alcuni fra i più tipici e diffusi. I «pomodori interi ripieni» di riso crudo insaporito nell'acqua dei pomodori e un battuto di menta, basilico, aglio e acciughe e cotto in forno per almeno un'ora. I molti modi per usare la mozzarella, dal «pan dorato» al ripieno dei fiori di zucca; ma anche la ricotta è presente oltre che nei ravioli in molte altre preparazioni, sia per condire la pasta che per fare i dolci. Con il semolino si fanno i «gnocchi alla romana» conditi con burro e parmigiano e cotti in forno; e, sempre per rimanere nell'ambito dei primi piatti, molto noti sono gli «spaghetti alla carrettiera» così chiamati perché un tempo erano il piatto preferito dai carrettieri che portavano a Roma il vino dei castelli: si tratta di spaghetti conditi con un sugo fatto con funghi secchi, pomodoro, aglio, prezzemolo e tonno. La cucina laziale è dunque ben rappresentata da quella più propriamente romana essendo essa un saporoso riassunto delle tradizioni culinarie della regione arricchito da piatto di regioni confinanti o di comunità di paesi lontani presenti nell'Urbe. Molti i piatti, gli alimenti e le usanze assunte in Roma dalla campagna, ma specialmente dalla Ciociaria la zona che corrisponde all'incirca alla provincia di Frosinone.

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Roma: piatti tipici e abitudini alimentari

I piatti tipici della capitale italiana sono per lo più di origine popolare: una gastronomia, come già detto, sulla quale domina, ed è caratterizzante il quinto quarto. Il persistere della cucina popolare e il diffondersi della stessa in tutte le classi sociali si può ritenere una delle conseguenze della storia del papato con cui per molti secoli si è identificata quella della città. Dopo i fasti del Rinascimento che hanno raggiunto l'apice nei primi decenni del Cinquecento, ci fu un ritorno al rigore, spiritualità, alla dottrina dei sacri testi. Mondanità, vita ludica e grandi fasti furono banditi e le porte del Vaticano rimasero aperte soltanto per una nobiltà strettamente osservante disposta a rinunciare ai grandi lussi per servire la vita della Chiesa rinnovata in cui ben poco spazio trovarono gli antichi fasti in ogni campo dell'arte e della cultura, naturalmente anche in quella culinaria. E così i piatti popolari si diffusero in ogni ambiente proposti a tutti soprattutto da bettole, osterie e trattorie, che da sempre nella capitale sono assai frequentate, hanno il compito di conservare le più genuine tradizioni anche perché nei romani è radicata l'usanza di mangiare fuori casa. Per incontrare la vera cucina romana bisogna dunque cercarla nelle sempre più rare osterie "fuori porta" e nelle trattorie di Trastevere non ancora guastate dalle falsificazioni del pittoresco-turistico a tutti i costi e da un modo di cucinare convenzionale, approssimativo, spesso greve, che si è diffuso nella capitale minacciando un suo antico primato. «A Roma si

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mangia bene dappertutto», si diceva una volta e con ragione, indicando non solo la qualità delle preparazioni e degli ingredienti, ma anche la simpatia, il calore dell'ospitalità. I locali rimasti autentici offrono l'occasione ideale di conoscere e capire il carattere della città e dei suoi abitanti e sono una esperienza interessante sotto ogni punto di vista. Infatti, vino, cucina e umanità concorrono da sempre a fare della trattoria romana una specie di teatro di popolo, oltre che approdo gastronomico per il pranzo e per la cena, come vengono chiamati qui i due pasti principali. Forse quella romana non è cucina molto ricca di invenzioni, ma certo è ricca di carattere; fondamentalmente è rimasta fedele a se stessa nell'arco di venti secoli. Gli antichi Romani conquistarono il mondo nutrendosi di fave, pecorino e lattuga. Quando una legione piantava un accampamento in zona di conquista e si prevedeva che le cose sarebbero andate per le lunghe, piantava anche la lattuga, verdura preferita dai soldati. Così gli studiosi, per trovare tracce dei campi romani in Britannia, in Iberia, in Gallia cercano i luoghi dove cresce ancora oggi, naturalmente allo stato selvatico, questa umile verdura. I gusti dei concittadini di Catone e di Cicerone non si sono mai smentiti, anche se nel periodo fastoso dell'apogeo dell'impero e nella decadenza alcuni facoltosi romani si distinsero per banchetti "luculliani" cioè opulenti e stravaganti come quelli appunto del ricco Lucullo o del gaudente Trimalcione. Oggi come allora, i cittadini romani amano i cibi semplici e sembrano degni continuatori di quell'ideale piacere della tavola che perseguiva il poeta Giovenale quando invitava l'amico Persico a una gita nella sua villa di Tivoli. Là avrebbero gustato capretto tenerissimo, così tenero "che ancora non abbia brucato la prima erba" e sia perciò "più ripieno di latte che di sangue", asparagi selvatici colti sulla montagna dalla contadina, uova appena tolte dal pollaio, frutta dell'orto. Vivande spontanee, senza elaborazioni o complicazioni, cucina che predilige ricette "povere" e agresti. Il popolino, non potendosi permettere ingredienti costosi, con fierezza affermò che "più se ne spenne, peggio se magna"; infatti dovendosi accontentare delle interiora piuttosto che di tagli pregiati di carne, fece ricorso alla fantasia e arrangiò piatti succulenti che davano anche allo stomaco plebeo il privilegio di digestioni lente e laboriose. Fatto sta che i piatti romani più tipici sono proprio questi: la «coda di bue alla vaccinara», la «pajata» a base di interiora, i legumi, la pastasciutta. Condimento principe della autentica cucina popolare è (o, fino a qualche decennio fa, era) lo strutto; seguono il guanciale, il lardo e l'olio. Osservando i piatti offerti dalla gastronomia romana si notano denominazioni varie, spesso pittoresche, per specialità che nascondono non di rado origini non propriamente romane, ma che tuttavia ormai i romani considerano indubitabilmente "sua", cioè loro. Così per esempio gli «spaghetti all'amatriciana», vengono - come dice il nome - da Amatrice, un paese che fino a non moltissimi anni fa apparteneva alla provincia dell'Aquila, era cioè in Abruzzo e ora invece appartiene alla provincia di Rieti come la Sabina di cui fa parte. Così, i famosi «carciofi alla giudìa» sono stati adottati dalla cucina ebraica: i romani anticamente andavano a gustarli nel Ghetto e se

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ne appassionarono tanto che oggi è piatto ancora diffusissimo. La pizza ha ovviamente origine napoletana, eppure è "sentita" a Roma come cibo locale. Ma esistono naturalmente molti piatti "romani de Roma"; alcuni così celebri che sono fra i "classici" del menù all'italiana. Per gli «gnocchi alla romana» a base di semolino, ci sono contestazioni: questo delicato piatto sarebbe di origine piemontese e non romano. In effetti l'abbondante presenza di burro riporta più alla tradizione della regione settentrionale che a quella romana, ma la disputa è aperta. Le «fettuccine alla romana», fatte in casa e perciò sode ed elastiche come si conviene, che si condiscono con ragù di pomodoro, prosciutto, funghi e rigaglie di pollo. Tra le paste industriali, celebri i già ricordati «bucatini (e gli spaghetti) all'amatriciana», con pancetta e peperoncino, gli «spaghetti alla carrettiera» con tonno, funghi e pomodoro, quelli «alla carbonara» (così chiamata perché pare fosse il piatto tipico di chi lavorava nei boschi, molto nutriente e perciò adatto a nutrire chi era sottoposto a grandi fatiche) con guanciale, pecorino e rosso d'uovo. Ma anche la semplice «pasta ajo e ojo» incontra sicuro entusiasmo a tutte le ore e specialmente la notte, quando dopo i vagabondaggi romani ci si trova in casa di qualcuno della compagnia e si fa festa nel modo più allegro e sano: appunto, cuocendo e divorando un bel piatto di spaghetti odorosi e digestivi. Se alle trionfali pastasciutte preferiamo qualcosa di più leggero, ecco una deliziosa minestra, la «stracciatella», in cui le uova sbattute si gettano nel brodo, "stracciandole", cioè sbattendole con la forchetta. Nella tradizione laziale si trova spesso la classica minestra o zuppa di fagioli, che prende sapore da un battuto di lardo ricco di aromi. Passando ai piatti di mezzo dedichiamo la giusta curiosità alla già citata «coda alla vaccinara»: è un piatto singolare, che ricorda nel nome gli antichi addetti alla scorticatura dei bovini, i "vaccinari". La coda di bue viene unita ai "graffi" o guance dell'animale e viene cotta con un ricco ragù insaporito con uvetta, pinoli, cioccolato amaro e sedano, anzi "sellero", come si dice a Roma, a pezzetti. Altrettanto robusta e popolare è la «pajata», a base di budella di vitello da latte. Si cuoce in un soffritto molto aromatizzato che dà luogo a un intingolo col quale, per tradizione, si condiscono i rigatoni. Certo non si può dire che sia adatto a stomaci delicati, ma può dare soddisfazioni intense. Sempre in tema di interiora, interessante è la «coratella d'abbacchio», ma se questo tipo di cibo non ci convince, ecco la rassegna dei piatti di carne: “l'abbacchio arrosto” o «alla cacciatora»: qui l'intingolo è diverso da quello che si usa nel Nord dell'Italia e anche nel Sud: infatti è a base di aglio, rosmarino, vino bianco, acciuga, peperoncino. Da questo solleticante insieme, le tenere carni dell'agnello vengono magnificamente esaltate. Segue il «garofolato di manzo», la parte del girello che si stecca di lardo e chiodi di garofano e si fa stufare a lungo fino a ottenere un profumatissimo e morbido risultato. Ecco i «saltimbocca», fettine di carne di vitello con salvia e prosciutto arrotolate e fermate da uno stecco in modo da ottenere la forma ricordata nel nome. Nel menù romano non può mancare un fritto scelto e giustamente celebrato (i «pezzetti»): è composto da cervella, animelle, fegato, carciofi, zucchine, ricotta, mele, pere, fette di pane. Il

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«fritto misto» presenta invece fette di carne, costolettine d'abbacchio, verdure passate in padella. Il pesce è presente nella cucina romana, ma i pesci di mare pregiati non uscirono mai dalle mense dei cardinali e principi Per i romani i pesci più pregiati sono (o, meglio, erano) le «ciriole», piccole anguille del Tevere, e il baccalà di importazione; inoltre la gente del popolo cucinava calamaretti, triglie e le "arzille", umili creature del Tevere. Numerosissime le ricette per quelle che certo sono delle stupende protagoniste della tavola romanesca: le verdure provenienti dall'agro romano, superbe per qualità e freschezza. I carciofi sono i più usati, in diverse preparazioni: « carciofi alla romana», cioè imbottiti di aromi e dalla caratteristica forma "in piedi", coi piselli in primavera secondo un tenero e saporoso connubio, sott'olio e « carciofi alla giudìa». Altre verdure molto usate e pregiate sono i broccoli, i piselli e le fave, ancora oggi utilizzate copiosamente, come forse non avviene in nessun'altra parte d'Italia. Sono i romani gli inventori del «pinzimonio», l'uso cioè di portare in tavola una ricca serie di prodotti dell'orto da intingere nell'olio-pepe-sale e da mangiare con le mani in allegria. Nel piatto coloratissimo delle verdure non manca mai il cuore del sedano detto "ciccio", particolarmente ricercato dai romani. Vastissima la schiera delle erbe di campo che dà luogo alla «misticanza», una insalata nella quale trionfa, insieme a erbe selvatiche e domestiche, la rucola o "rughetta", dall'ineguagliabile sapore amarognolo. E non privatevi delle famose «puntarelle», cibo allegro anche nel nome. Sono punte di cicoria amara con un pesto di aglio, olio e acciughe: gusto stupefacente! Nell'arte dolciaria i prodotti locali sono molto pochi, di origine popolaresca legata alle festività religiose come: i quaresimali «maritozzi», pagnottine dolci arricchite di uva passa, pinoli e spesso di frutta candita, o arricchite, indicatissime per la prima colazione, ma anche come dessert. Più che la formula, simile ad altri dolci, incuriosisce l'origine del nome, che qualcuno ritiene sia un peggiorativo di marito. La tradizione di regalare i maritozzi alle fidanzate potrebbe interpretarsi tanto come un augurio quanto come un invito allusivo. Il «pan giallo» natalizio e i «bigné di San Giuseppe»; o di origine giudaica molto più raffinata come dimostrano le offerte delle pasticcerie del ghetto. Fra i dolci più diffusi ricordiamo la «crostata di ricotta» probabilmente per la diffusione e qualità della ricotta romana che ha dato luogo a una serie di preparazioni entrate nella storia e nelle tradizioni della città.

Sabina: piatti tipici e abitudini alimentari La Sabina è la zona del Lazio avente per capoluogo Rieti che comprende i Monti Sabini, la conca di Rieti, la media e bassa valle del Turano, parte delle valli del fiume Velino, del Salto, del Tevere e dell'Aniene. La parte occidentale della Sabina è collinosa ed esposta all'azione mitigatrice del mare, mentre quella orientale, più elevata e montuosa, ha clima più rigido. Quasi tutto il territorio della zona è produttivo: cereali (rinomato è il grano di Rieti), olivi, vite, ma

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anche patate, barbabietole, alberi da frutto e foraggi che rendono possibile un notevole allevamento del bestiame. Ne consegue che nella gastronomia di questa terra si registra un intenso consumo di carne che viene cucinata spesso bollita e offerta in composizione mista molto ricca di ogni parte dell'animale; in alcuni locali il bollito misto prende il nome di «fregnacce». La carne è dunque un elemento di ricchezza nell'ambito di una cucina che - come in tutto il Lazio - è di estrazione popolare, dove molte sono le ricette di cibi poveri, i consigli di riutilizzazione, dove tutto viene utilizzato con risultati sapidi e gustosi. In tutta la regione si mangia robusto e sapido, e ovunque si incontrano sapori genuini. In Sabina sopravvivono piatti antichi che risentono della tradizione abruzzese e si trovano paste fatte a mano assolutamente straordinarie, per esempio i «ciufulitti», una specie di rigatoni che vengono spesso conditi con rigaglie e pomodoro. Le minestre sono varie come in tutto il Lazio, legate agli ortaggi e ai legumi. Ricordiamo ad esempio la «pasta e ceci», che si caratterizza per la presenza di filetti di acciuga a pezzetti e un po' di salsa di pomodoro e, naturalmente, un rametto di rosmarino: si accompagna con i cannolicchi e si mangia ben spolverata di pepe. Ma le minestre costituiscono anche in questa terra un repertorio esteso, vario, assolutamente rispettabile, realizzate con fave e ortaggi di cui tutto il Lazio è ricchissimo. Ricche e fantasiose le frittate ripiene soprattutto con i prodotti dell'orto, diffusi i formaggi fra i quali primeggiano il pecorino e le caciotte che possono essere consumate fresche o stagionate. Fra i latticini, la ricotta è quella che meglio si adatta agli usi della cucina essendo innumerevoli le preparazioni che si prestano al suo impiego. Come in tutte le campagne laziali anche in questa zona è presente la «pizza ricresciuta di Pasqua», ereditata dalla vicina Umbria. L'impasto è identico: si lavora una seconda volta la pasta da pane già lievitata incorporando nuova farina e uova, ma invece di usare pecorino grattugiato si usa la ricotta, profumata con un goccio di mistrà, scorza di un limone e cannella. Tipiche di Carnevale sono le «pizzacce», focacce con ripieno dolce: ricotta condita con zucchero e cannella, marmellata, frutta cotta o altro.

Ciociaria: piatti tipici e abitudini alimentari La Ciociaria è una terra della Regione Lazio che geograficamente non ha confini ben definiti, ma corrisponde all'incirca all'attuale provincia di Frosinone. Deve il suo nome, di uso popolare, alle caratteristiche calzature di antichissima origine fatte da un pezzo di cuoio rettangolare, più grande della pianta del piede, intorno alla quale è rialzato per mezzo di spaghi che passano nei buchi degli orli, s'intrecciano sulla parte inferiore della gamba avvolta da una pezza di tela bianca. Una calzatura tipica dei contadini e dei pastori il cui uso dalla Ciociaria si estende a territori confinanti

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dell'Abruzzo e della Campania. La Ciociaria non ha unità fisica; gli abitanti sono gente robusta, energica e atta al lavoro della terra e della pastorizia, cui sono in massima parte dedicati; hanno un folclore ricco e vario che si basa su tradizioni molto sentite e si manifesta in canzoni popolari, stornelli, processioni e feste religiose. La cucina è molto legata alle attività dei suoi abitanti e, quella genuina, si può gustare soprattutto nelle loro case: i piatti più famosi sono i «maccaruni», tagliolini sottilissimi conditi con rigaglie di pollo al sugo, l'«agnellone garofolato», cotto in tegame steccato con vari odori e lardo e le «coppiette ciociare» che ai tempi del poeta Gioacchino Belli erano di carne di cavallo essiccate e che - con la diminuzione dei cavalli - oggi sono soprattutto di carne suina. Non mancano naturalmente i piatti derivanti dal quinto quarto, da quelle parti dell'animale che altrove sono considerate di scarto come le budelline, le rigaglie ecc. che consentono di preparare piatti "storici" come ad esempio la «pajata». Fra i prodotti derivanti dai suini ricordiamo il prosciutto di Guardino. Fiorente in questa zona è l'allevamento dei bovini che forniscono il latte vaccino; gli animali sono soprattutto bufali con il cui latte si produce la notissima mozzarella, protetta da una denominazione di origine che si estende fino a Paestum. Ma anche gli ovini forniscono in questa terra le loro specialità come ad esempio il «pecorino affumicato», prodotto soprattutto a Guarcino e Vico nel Lazio; vi è poi il «pecorino ciociaro», quello che i pastori ciociari da sempre producono per se stessi o su commissione delle famiglie non dedite all’allevamento. I dolci, come in tutto il Lazio, sono pochi e molto caserecci; il più famoso anche in Sabina è la «torta di ricotta».

Latina: piatti tipici e abitudini alimentari La città di Latina è sorta in posizione centrale nella regione Pontina, in seguito alla bonifica integrale di quelle che erano un tempo le paludi pontine. La provincia di Latina si estende largamente fuori dell'area bonificata, arrivando a Nord fino alle radici dei Colli Albani e affacciandosi al mare da Foce Verde alla foce del Garigliano. In questa parte del Lazio la cucina va dunque divisa in quella di terra e quella di mare. Quella di terra propone i cibi tipici di tutta la regione senza particolari tradizioni anche perché si tratta di una zona molto giovane. Ma tutti i prodotti agricoli presenti nelle colture di questa terra concorrono a offrire piatti saporiti e genuini, piatti poveri ma gustosi, piatti importati dalla capitale la cui cucina domina su tutto il Lazio. Ricordiamo in particolare la «pajata», la «coda alla vaccinara», «l'agnello garofolato» assieme a tutte le altre specialità popolari della cucina romana. Intensa è la produzione di formaggi, fra i quali è certamente il pecorino quello più diffuso e apprezzato. La famiglia di questo formaggio è vastissima e vanta parenti un po' dovunque, particolarmente numerosi nell'Italia centrale; La zona di Latina ha ereditato la tradizione di questa produzione che viene offerta in un'ampia varietà di proposte anche in alcuni punti vendita specializzati. E infine ricordiamo le celebri olive

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di Gaeta anche per l'uso che se ne fa in cucina oltre che per la possibilità di cibarsene come appetizers: una tradizione che ha radici nelle zone meridionali a cui la città appartiene storicamente essendo stata l'ultimo caposaldo borbonico. Le olive di Gaeta e dei centri circostanti vengono conservate in salamoia e hanno un aspetto scuro e vinoso e un particolare sapore amarognolo. Il pesce e i crostacei (tra i quali dominano le aragoste) sono cucinati - per conservarne la meravigliosa fragranza - soprattutto alla brace e vengono proposti con grande abbondanza e ricchezza, in un misto che ricorda i trionfi di antichi splendori; nella cucina di pesce povera ricordiamo i ripieni di calamari e seppie servite con contorni vari. Ottima la pasta cucinata in vario modo: alla pescatora, alle vongole, ai frutti di mare. Un pranzo di pesce si conclude felicemente con il gelato che in questa zona ha una buona tradizione: una vera specialità è quello di marroni che provengono in tutto il Lazio soprattutto dalla zona dei Monti Cimini. Fra i dolci popolari ricordiamo la «pizza dolce», una torta ricca di sapori e di calorie: si fa con farina, strutto, ricotta, uova, latte, rhum, lievito, cannella e naturalmente zucchero.

Viterbo: piatti tipici e abitudini alimentari La città di Viterbo è situata a circa trecento metri sul livello del mare su un piano ondulato, alle estreme falde nord-occidentali dei Monti Cimini, al margine di una vasta pianura (Piano di Viterbo) che si distende fino alle radici dei Volsini alla confluenza del Fosso Mazzetta con il torrente Urciono. La sua provincia - che comprende i due apparati vulcanici dei Volsini e dei Cimini - è essenzialmente agricola con prevalenza di seminativi semplici o alternati ad alberi e di colture legnose. La vite e l'olivo prosperano in maniera eccellente. Molto pregiati i vini di Montefiascone, Gradoli, Vallerano, Vignanello, Latena. Vaste aree sono occupate dalla coltivazione del frumento, mentre l'allevamento del bestiame ha minore importanza, anche se è florido per quanto riguarda l'allevamento del maiale da cui si ricavano alcuni particolari salumi come la scammarita, un prodotto d'origine umbra che ha trovato da tempo cittadinanza nelle contrade del Viterbese. Si tratta di lombo di maiale intero, condito con pepe e aglio e legato avvolto in carta da macellaio come se fosse un salame. Molto diffuso in tutto il Lazio è il guanciale, un salume simile alla pancetta, ma meno grasso con il quale si preparano la «pasta all'amatriciana» la «alla carbonara», le «fave col guanciale». La cucina locale si caratterizza per un uso particolarmente diffuso di legumi e ortaggi che vengono cucinati in vario modo sia come contorni che in forma di frittate. Utilizzati pure piatti come le puntarelle e i carciofi sia «alla romana» che «alla giudia». I prodotti della zona sono molti tra cui: olio, vino (ricordiamo che sulle rive del Lago di Bolsena si produce il celebre "Est est est"), frutta con la quale un po' ovunque si confezionano marmellate artigianali. A questo proposito ricordiamo che a

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Vitorchiano vi è un monastero di suore trappiste che producono e vendono marmellate di tutti i gusti pensabili, assai apprezzate sia dagli abitanti del luogo che dai turisti. I dolci non presentano grandi novità: focacce, focaccine, torte di ricotta e, assai diffuse, le preparazioni legate alle festività religiose come i quaresimali «maritozzi», il «pan giallo» natalizio e i «bignè di San Giuseppe».

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Frutta e Verdura

E’ sufficiente una breve visita al mercato romano di Campo dei Fiori, nel cuore della Roma medievale, per rendersi conto della ricchezza e dell’abbondanza do ortaggi e frutta che offre il Lazio. Sulle bancarelle affluiscono quasi esclusivamente prodotti degli orti attorno a Roma e quelli delle aziende agricole distribuite nelle province laziali. Dai notissimi carciofi alle cipolle bianche di Marino, dai delicatissimi piselli di Frosinone al peperone e ai fagioli del Lago di Bracciano, è un avvicendarsi di primizie che trovano puntuale destinazione nei molti piatti vegetariano della cucina romanesca e, in particolare, di quella ebraica, che della gastronomia romana è parte fondamentale. Un prodotto, soprattutto, è tipico e irreperibile altrove: le puntarelle di cicoria.

o Carciofo romanesco

L’indicazione geografica non deve trarre in inganno: il “romanesco” è una varietà di carciofo, largamente diffusa in varie regioni italiane e assai popolare in cucina, dove si presta a molte ghiotte utilizzazioni, comprese quelle indicate come “alla romana” o “alla giudia”, sicuramente tipiche della capitale. Nel Lazio le zone meglio organizzate per la produzione sono quelle di Cerveteri-Ladispoli a nord dell’Urbe e di Sezze-Priverno-Sermoneta a sud. Le varietà prevalenti sono, appunto, il “romanesco” e quella detta “Castellammare”, con frequenti ibridi. Le carciofaie hanno una durata media di due tre anni. La raccolta inizia solitamente in febbraio e prosegue fino a giugno: nella zona pedemontana di Sezze, a volte si anticipa a Gennaio. Sia Sezze sia Ladispoli hanno in calendario, tra l’ultima settimana d’aprile e la prima di maggio, una sagra del carciofo.

• Castagne e Marroni La regione dei Monti Cimini è da sempre terra di castagne: gli abitanti di Vellerano, Canapina, Ronciglione, Caprarola, Soriano nel Cimino, Carbognano, Vetralla e della

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stessa Viterbo né raccolgono e se né nutrono da tempo immemorabile, esportandone perfino in buone quantità. La castagna dei Cimini è piuttosto grossa, ha colore marrone lucido e sapore notevolmente dolce. Al momente se ne producono dai cinquanta ai sessantamila quintali. Nonostante la sostanziale affinità, possiedono caratteristiche proprie e irriconoscibili le castagne marroni della Tolfa, la zona montana tra Roma e Civitavecchia, e i marroni di Antrodoco, al confine tra Lazio e Abruzzo. Il marrone è più cospicuo e pesante della castagna: quelli di cui parliamo sono tondeggianti e dolci, facilmente sbucciabili.l Già nei primi anni ’30 una parte della produzione di castagne viaggiava alla volta degli Stati Uniti. Per la gente dell’Appennino, la castagna è stata un cibo fondamentale nei secoli della povertà e della fatica. Nel periodo del “miracolo economico” la raccolta fu trascurata. Solo negli ultimi anni l’antica risorsa è tornata in onore, sull’onda del recupero delle regole e delle astinenze di una volta. Soprattutto si sono trovate formule nuove di cooperazione e di commercializzazione del prodotto: un’azienda di Valleranno, che è un po’ la capitale dei castagneti, ha messo in commercio allettanti confezioni di castagne arrostite e surgelate.

• Lenticchie di Onano Onano, Grotte di Castro e San Lorenzo Nuovo sono comuni della provincia di Viterbo nel cui territorio si coltiva un tipo di lenticchia lodato per il sapore eccellente e la buccia tenera. Il colore va dal piombo scuro al cinereo rosato. Lenticchie di grandi qualità, piccole e squisite, vengono anche dalle Isole Pontine, specialmente da Ventotene.

• Nocciole dei Monti Cimini Tra i prodotti che tengono alto il prestigio gastronomico del Lazio merita un posto di riguardo alla nocciola. Negli ultimi cinquanta anni la produzione di questo popolare frutto secco è cresciuta notevolmente: in provincia di Viterbo la superficie coltivata a nocciole è passata tra il 1950 e i giorni nostri da duemila a ventimila ettari. I comuni compresi dei Monti Cimini (Nepi, Ronciglione, Soriano del Cimino, Capranica) si sono convertiti a questo tipo di coltura. Gli esperti attribuiscono alla nocciola viterbese, a forma tonda, appartenente alla varietà “tonda gentile romana”, contenuto di grasso minore di quello che caratterizza la provenienza orientale. Di pari passo con lo sviluppo dei noccioleti è cresciuta nella regione viterbese la produzione delle macchine raccoglitrici: le contadine hanno da tempo delegato questa funzione a efficienti turbo-aspiratrici o raccattatrici.

• Fragole di Nemi Le fragole, anzi le fragoline di bosco, sono l’orgoglio di Nemi, l’antico borgo che dà il nome al lago percorso a suo tempo dalle trireme dell’antica Roma. Naturalmente le fragoline di boscoso vengono dal bosco solo in piccola parte: i produttori, che peraltro

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trattano anche fragole di dimensioni maggiori, assicurano che la lontana origine delle fragoline è sicuramente boschiva. So raccolgono, all’aperto o in serra, per gran parte dell’anno, da maggio a Natale. La sagra delle fragole dura a Nemi quasi due mesi, segnati da una lunga serie d’appuntamenti promossi dall’apposito comitato. Ma la festa vera e propria, il momento risolutivo della lunga celebrazione, coincide con la prima domenica di Giugno, quando decine e decine di fragolane attraversano il paese nei loro antichi coloratissimi costumi offrendo cestini di fragole ai visitatori e ai concittadini. La distribuzione è circa d’otto quintali. Per l’occasione un intero rione è infiorato, come a sottolineare la duplice vocazione della cittadina, dove ancora adesso l’attività dei vivai è fonte di prestigio e di occupazione. Questa sagra è nata dall’iniziativa di un industrioso nemorense, Rivalso Lombi, subito dopo la prima guerra mondiale.

• Tartufo del Cicolano Il Cicolano è un angolo della provincia di Rieti particolarmente importante per i buongustai: a Borgorose, Concerviano, Putrella Salto, Pescorocchiano, Varco Sabino e paesi prossimi la raccolta dei tartufi è praticata da tempo immemorabile. Nelle biblioteche locali documenti che risalgono al duecento parlano di tartufi raccolti in località San Martino. Oltre al tartufo bianco e a quello nero, i cercatori del Cicolano raccolgono quantità significative di “scorzone”, che è una varietà meno pregiata del celeberrimo fungo. Lo scorzone, riconoscibile dalla forma tondeggiante e dal sapore acerbo, costa relativamente poco. E’ una risorsa, da non molti anni, anche per l’economia di alcuni comuni della provincia di Viterbo come Biera, Monte Romano, Tarquinia e Vetralla.

• Puntarelle

Orgoglio dei romani di oggi e di ieri, le puntarelle altro non sono che una varietà di cicoria, quella che si chiama “cicoria di Catalogna”, indicata con il termine botanico di Cichorium intybus. A caratterizzare la vivanda che i romani e visitatori di Roma ben conoscono contribuisce la presentazione in tavola, affidata al fruttivendolo proma ancora che al cuoco. Le sottili strisce ricavate dal corpo centrale della foglia si mettono a bagno in acqua fredda: il risultato è la tipica arricciatura. Si condiscono con

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aglio, filetti di acciuga, aceto di vino e olio preventivamente mescolati fino a ottonerne una poltiglia.

Salumi ed Insaccati

La tradizione salumiera laziale è impostata in prevalenza sulla lavorazione delle carni intere, e molto meno sugli insaccati veri e propri. Importanti sono invece i prosciutti, che hanno caratteristiche di compattezza e di sapidità simili a quelli toscano e umbro, e la lavorazione di pezzi interi dell’animale, che non differisce da quella analoga delle regioni confinanti. Buoni capocolli, dunque, ottimo lardo e soprattutto quel guanciale indispensabile per una vera pastasciutta alla carbonara.

• Coppiette ciociare Nelle osterie romane le coppiette erano ai tempi di Giuseppe Gioacchino Belli, delle striscette di carne di cavallo essiccata, utili (agli osti), soprattutto per incrementare la sete degli avventori e il consumo delle fojette. Si vendevano, come il nome stesso annuncia, due a due. Le mutate abitudini dei romani e la diminuzione del numero dei cavalli, hanno mandato in disuso quel particolarissimo cibo; oggi sono soprattutto di carne suina ma le coppiette sono tenute ancora in onore ad Ariccia (insieme alla porchetta) e in alcuni comuni della provincia di Frosinone, in particolare a Guardino e Vico, che pure hanno aggiornato ai tempi le modalità di produzione, a cominciare dalla materia prima. Le coppiette ciociare, infatti, oggi sono condite con sale e spezie naturali, quindi infilzate con spaghi e canapa e messe a stagionare, l’una separata dall’altra, per sessanta giorni circa. Si mangiano prima, dopo o anche lontano dai pasti, innaffiate dal rosso Cesanese del Piglio o da vini più importanti. • Guanciale Molto diffuso in tutto il Lazio il guanciale, un salume simile alla pancetta per trattamento e utilizzo ma meno grasso. Viene ricavato dalla gola e dalla guancia del maiale, sottoposto a salatura e conciato con pepe. Il guanciale è un ingrediente che compare in molte ricette particolarmente della cucina laziale ma diffuse anche in tutta l’Italia centrale. Quasi sempre tagliato a fettine o quadratini e soffritto nell’olio, definisce e completa ad esempio, il sapore della pasta all’amatriciana e di

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quella alla carbonara. Si accompagna bene anche con i legumi: le fave con il guanciale infatti sono uno dei piatti tradizionali della regione.

• Mortadellina affumicata Prodotto tipico della zona di Amtarice, al confine tra Lazio ed Abruzzo: infatti è lo stesso salume che si produce con modalità del tutto analoghe anche a Poggio Cancelli e Campotosto in provincia dell’Aquila. Si tratta di un salume a grana fine di carne scelta, al centro del quale viene inserito un bastone quadrato di lardo che lo rende inconfondibile. Interessante, nella lavorazione, la consuetudine di unire le mortadelline appena confezionate in mazzetti doppi legati con spaghi tenuti in tensione da speciali chiavi di legno realizzate artigianalmente. La stagionatura si articola in due fasi: la prima davanti al camino, che dà al prodotto una leggera affumicatura; la seconda all’aria, per un periodo complessivo di due-tre mesi. Il colore delle mortadelline è rosa-violaceo, la forma tondeggiante, il sapore tendente al dolce.

• Porchetta di Ariccia Ampia e diffusa la popolarità che ha la porchetta di Ariccia, tradizionale alimento dei laziali itineranti per sagre e fiere. L’animale viene cucinato allo spiedo, gradevolmente aromatizzato con sale, pepe, aglio e finocchio selvatico, ed è di dimensioni medie. La porchetta è tagliata normalmente a fette e venduta a peso con la scorta di pane casereccio che ne fa un pasto abbondante e gustoso. La pelle lucida e croccante è particolarmente apprezzata dai buongustai. Anche se Ariccia è considerata la patria d’elezione di questo specialissimo prodotto a cui dedica una sagra assai nota la prima domenica di luglio, porchette eccellenti vengono anche dal Reatino e dalla Ciociaria.

• Prosciutto di Bassiano Viene prodotto a Bassiano, un borgo della provincia di Latina circondato da robuste mura dove le condizioni climatiche sono particolarmente propizie alla stagionatura. A distinguere il prosciutto dei produttori di Bassiano è un intervento del tutto particolare, diretto ad aromatizzare, con una salsa fatta di vino bianco, aglio e pepe, il prosciutto che poi continua a stagionare per un anno almeno. Basta per dargli un caratteristico sapore speziato. L’ultima domenica di luglio Bassiano dedica un’affollata sagra al “suo“ prosciutto.

• Prosciutto di Guarcino Una tradizione di grande affidabilità e di microclima ideale per la stagionatura (determinato dalla posizione dell’abitato, alla confluenza di due grandi vallate) garantiscono la qualità del prosciutto di Guarcino, centro agricolo a circa venti chilometri da Frosinone. La lavorazione ripete metodi tradizionali, ma per la mistura usata per insaporire il prosciutto è utilizzato il vino rosso di buona struttura, unito a

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spezie, peperoncino e sugna. La stagionatura dura a lungo, almeno quindici-sedici mesi. Il colore del prosciutto è tra il rosso e il rosato semiopaco, la forma leggermente allungata, il sapore molto sapido e aromatico.

• Prosciutto romano Roma e la sua provincia vantano un prosciutto di eccellente qualità apprezzato soprattutto localmente visto che la sua produzione limitata, circa 250 quintali all’ano, non ne consente una commercializzazione molto estesa. La zona di produzione è soprattutto quella più vicina al Lago di Bracciano (Anguillara, Sabazia e Bracciano), cui si aggiungono i comuni di Fiumicino e di Cerveteri.

• Prosciutto di cinghiale La crescente disponibilità di cinghiali ha indotto i produttori di Guardino a lavorare anche un apprezzato prosciutto ottenuto dalle cosce di questi animali. Il colore è rosso cupo, praticamente senza grasso, eppure la carne è morbida e assai saporita; la zampa viene lasciata con lo zoccolo e la parte integra della cotenna presenta il caratteristico pelo ispido. Se ne producono circa 720 quintali all’anno. • Prosciutto di Bassiano Bassano è un borgo della provincia di Latina, dove la coscia del maiale viene aromatizzata con una salsa fatta di vino bianco, aglio e pepe e viene poi stagionata per almeno un anno.

• Salsicce di Monte San Biagio Le salsicce si conservano asciugandole all'aria o mettendole sott'olio (nei tempi andati si usava lo strutto). • Spianata o mortadella romana

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E’ una mortadella cruda, quindi diversa dalla classica mortadella di tutti i giorni, quella per intenderci di Bologna, che viene invece cotta in stufe di pietra prima della stagionatura. La spianata è preparata con una ricetta simile, per ingredienti, a quella della corallina. La differenza sta nelle fasi di insaccamento e di stagionatura; in questo caso viene utilizzato un budello di origine bovina e la carne insaccata viene prima collocata in apposite gabbie metalliche (solo pochi usano lo schiacciamento tra due assi di legno) fatta maturare alcuni giorni in locale con fuoco per poi essere stagionata per alcuni mesi appesa in locali ventilati.

Formaggi e Latticini

Il Lazio è il regno assoluto del pecorino romano intendendo quello di grandi dimensioni e dal sapore lievemente pungente, talvolta con minuscola occhiatura, che si compera a pezzi e si usa sia a tavola sia da grattugia. Non è tuttavia il solo. La regione conferma, sotto il profilo caseario, quelle tradizioni di pastorizia che già la caratterizzavano in epoca latina. Oltre a quello romano esistono altri tipi di pecorino, caratteristici di ben precise aree di produzione. E’ tuttavia un fatto che il solo latte che viene lavorato è quello di pecora. Esiste, è vero, un’area del Basso Lazio, in provincia di Frosinone, dedita all’allevamento vaccino, ma gli animali sono bufali con il cui latte si produce la relativa e notissima mozzarella, protetta da una denominazione di origine che si estende fino a Paestum.

• Caciotta romana L’Italiana centrale conta numerose caciotte basse e generalmente rotonde, di grandezza e peso non elevati (raramente oltre il chilo) e a pasta morbida. E’ un formaggio molto diffuso che può essere consumato fresco o semistagionato. Appartiene alla grande famiglia dei pecorini, ma alcuni produttori mettono dul mercato caciotte di latte ovino e vaccino insieme e perfino di solo latte vaccino. Sono rinomate le caciotte di Subiaco, pregiate quelle di Serrone e di Cassino. La caciotta romana, reperibile nei menù di tutti i ristoranti della capitale, ha i suoi punti di forza nei comuni che circondano il Lago di Bracciano e in quelli della riviera tirrenica settentrionale, da Fiumicino a Civitavecchia. La regola vuole che la caciotta nasca nei più freddi: il latte intero viene scaldato fino a 35-36°C, quando l’operatore aggiunge zafferano e l’indispensabile caglio. Il formaggio resta ancora ventiquattro ore a riposare nelle fascere, poi viene immerso nella salamoia per un tempo breve o lungo, secondo la forma che si è scelta e le caratteristiche che si vogliono ottenere: per le forme piccole e tonde bastano solitamente dieci-quindici giorni, per le caciotte cilindriche si richiedono alcuni mesi. Risultato: più morbide e dolci le prime, di gusto più deciso le altre. La caciotta può

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integrare un secondo piatto leggero o, meglio, sostituirlo. Può servire da merenda, ma anche per condire una buona pasta: c’è chi l’adopera tagliata a fettine sottilissime, per arricchire un’insalata.

• Formaggio di capra e Marzolina Prodotto tipico di Castel Madama, nella Valle dell’Aniene, e dei comuni vicini, dove da tempo immemorabile l’allevamento delle capre è fra le esigue risorse di un’economia povera. Il formaggio di capra fresca è prodotto non salato, povero di grassi e dunque dietetico: colore bianco, forma cilindrica del peso di 250 grammi circa. Se ne fanno in media duecento quintali l’anno. Il latte di capra è la base irrinunciabile di un prodotto caseario del tutto particolare, tipico del Basso Lazio: la marzolina. Si tratta di un formaggio aromatico e lieve, a basso contenuto di grassi, riconoscibile dal colore bianco-ambrato e dalla caratteristica forma conica. Singolari sono le modalità della stagionatura, che talvolta avviene in damigiane di vetro a collo largo dopo un primo appassimento su leggeri graticci di canne disposti all’interno di locali comunque areati e il più possibile freschi. Un formaggio gradevole, digeribile ma non facilmente reperibile, data la modesta produzione. I luoghi d’origine sono in Ciociaria (Amareno, Picinisco, Arpino, Falvaterra, Pico, Vallecorsa, Morolo) e in alcune località della provincia di Latina (Lesola e Campodimele).

• Pecorino affumicato E’ una specialità di Guardino e Vico nel Lazio, comuni ciociari di antica vocazione agricola. Il latte rigorosamente ovino viene riscaldato e arricchito di caglio come il pecorino tradizionale. L’affumicatura avviene contemporaneamente alla stagionatura, che dura circa sei mesi: si usano bracieri costruiti dagli stessi produttori. Il pecorino affumicato è riconoscibile dalla forma leggermente più tonda, dal colore bianco molto opaco e dal caratteristico sapore, aromatico e decisamente sapido. Una piccola parte di quel che si produce è confezionato sotto vuoto.

• Pecorino ciociaro Possiede caratteristiche proprie anche il pecorino che i pastori ciociari da sempre producono per se stessi o su commissione delle famiglie non dedite all’allevamento. La stagionatura è di regola più breve rispetto al pecorino tradizionale, non più di due mesi: si parla infatti di prodotto semistagionato. Il sapore è di conseguenza più aromatico e leggero, il colore giallo paglierino. Il peso oscilla tra i due e tre chilogrammi.

• Pecorino di Amatrice I produttori di Amatrice e di Leonessa, all’estremità settentrionale della regione, usano immergere la pasta in una leggera salamoia, che ne fa un prodotto meno piccante e aspro. La stagionatura del pecorino di Amatrice va dai tre a sei mesi. Le forme sono rispetto al pecorino romano, più piccole: raramente superano i due chilogrammi.

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• Pecorino romano

Il pecorino romano ha una sua dignità speciale ed è di nobiltà antica: i pastori dell'Agro Romano lo producevano già all'epoca di Galeno, Plinio il Vecchio e Virgilio, che ne danno testimonianza nelle loro opere. È lecito dubitare che il sapore fosse all'epoca di Giulio Cesare simile a quello del pecorino odierno: probabilmente era assai più robusto e piccante. La legge attribuisce al pecorino romano la denominazione d’origine controllata ne consente la produzione anche in Sardegna (Cagliari, Nuoro, Sassari). I sardi fanno largo uso di tale possibilità: una quota rilevante del formaggio insignito di questo titolo viene, infatti, dall’isola. Il periodo di produzione va normalmente da novembre a giugno. La tecnica è antica: al latte ovino intero opportunamente riscaldato si aggiunge caglio d’agnello o di capretto. La cagliata viene cotta per un quarto d’ora e quindi distribuita nelle fascere: è abitudine del casaro punzecchiarla con un bastoncino apposito per far uscire il siero. Il formaggio viene poi salato a secco e posto a stagionare per otto mesi almeno in ambiente ventilato e fresco, con l’avvertenza di strofinarne la crosta con olio d’oliva o altri grassi idonei per impedirgli di seccare e spaccarsi. Al termine, le forme sono tinte di marrone con terre speciali. Le caratteristiche organolettiche sono strettamente connesse alla stagionatura, che si compie normalmente dopo la scadenza dell’ottavo mese. Non è difficile distinguere il prodotto stagionato da quello fresco: il primo è di sapore assai più deciso, l’altro è dolce e aromatico. La pasta del pecorino poco stagionato è tenera, al contrario di quella del pecorino che comincia ad invecchiare, dura e spesso granulosa. Le forme sono cilindriche a facce piane, ognuna di un peso che oscilla fra gli otto e venti chilogrammi. La pasta compatta, bianca o leggermente paglierina con un’occhiatura più o meno evidente Il pecorino romano viene utilizzato sia come formaggio da tavola sia da grattugia, a completamento di piatti tipicamente regionali come le paste all’amatriciana, la minestra di broccoli, i rigatoni con la pajata, la pasta cacio e pepe, gli spaghetti alla carbonara. E’ anche il protagonista delle tradizionali merende primaverili che lo vedono magnifico compagno delle fave e dei vini dei Castelli.

• Ricotta di capra della Sabina

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La regione reatina produce una ricotta più dolce, bianca e cremosa di quella tradizionale. E’ fatta con latte di capra. Fra i latticini, la ricotta è quello che meglio si presta agli usi di cucina. Innumerevoli sono le ricette che ne richiedono l’impiego, lunghissima la serie dei dolci di cui è ingrediente essenziale. Il che non impedisce che la ricotta possa essere usata come dessert autonomo, magari irrorata di un liquore dolce o di cioccolata liquida, o per completare un antipasto. Da ricordare la possibilità di inserirla anche nel fritto misto all’italiana.

• Ricotta romana La ricotta è un latticino che nasce sotto molti cieli. Le caratteristiche cambiano secondo le latitudini: la ricotta romana è fra le più lodate d’Italia. A suo modo può essere considerata un archetipo: tradizionalmente fatta con latte di pecora, ha conosciuto in tempi recenti la variante del latte vaccino, che ne modifica sensibilmente il gusto e perfino a digeribilità. La ricotta romana si fa, come tutte le altre, col siero residuato dalla lavorazione del formaggio, che viene riscaldato per la seconda volta (ricotta vuol dire cotta due volte) oltre i 70-75°C, finché dal tutto emerga un coagulo bianco che sale in superficie, dove viene raccolto e trasferito in appositi cestelli, indispensabili per consentire lo sgocciolamento del prodotto. La ricotta fresca non ha bisogno di altri adempimenti; la ricotta salata si ottiene tagliando a fette e mettendo sotto sale quella fresca. La produzione è estesa in tutto il Lazio. L’aspetto è compatto, il colore bianco, la forma abituale a tronco di cono. Il disciplinare di produzione prevede che il siero debba essere ottenuto da latte intero di pecora proveniente dal territorio della regione Lazio e le operazioni di lavorazione, trasformazione e condizionamento dello stesso in ricotta romana devono avvenire nel solo territorio della regione Lazio. La Ricotta Romana DOP è identificabile dal logo che contiene una testa di ovino e le scritte "ricotta" in giallo e "romana" in rosso. La Denominazione di Origine Protetta è stata riconosciuta il 13 maggio 2005.

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Il vino

In questa regione la vite era coltivata già nei secoli precedenti la nascita di Roma (753 a.C.), anche se a quei tempi dominava la pastorizia e il vino, veniva usato soprattutto per offerte a Giove e per sacrifici sacri. Ai tempi di Romolo e Remo cominciò ad essere gustato dalle varie tribù. Sui colli vulcanici dei Castelli Romani, la vite, con l’olivo, trovava i suo habitat ideale ed è ricordata nei loro carmi dai poeti Tibullo, Orazio, Catullo e nalla Naturalis Historia di Plinio il Vecchio. Ma si trattava di un poco apprezzato, frutto di coltivazione e vinificazione realizzata in modo rudimentale. Bisognerà arrivare all’Alto Medioevo, nel XII secolo perché il Lazio elabori una cultura della viticoltura e della vinicultura. Solo nel 1406 al tempo del Papa Gregorio XII le norme che governavano la produzione del vino vennero codificate negli “Statuti dell’agricoltura”. La vitivinicoltura ebbe nel Lazio fasi alterna, una decisa ripresa e una ventata di innovazioni si ebbe con la presa di Roma da parte di piemontesi (1871). Elenchiamo qui di seguito alcuni fra i principali vini della regione divisi per zone che danno spunto a notizie storiche e di carattere mitologico, data la grandezza e importanza di Roma nei secoli.

• Aleatico di Gradoli

Gradoli è il nome del comune sito su un altopiano roccioso a cinquecento metri di altezza su cui domina il palazzo Farnese, già di papa Paolo III, che produce questo vino squisito, rifiutato da papi frugali quali Innocenzo II e Adriano IV, ma gioia di pontefici buongustai, come Martino IV e Benetto X. La zona di produzione comprende pochi comuni della provincia di Viterbo, il cui principale è Gradoli appunto, con tre tipologie di vini. L’ Aleatico di Gradoli ha colore rosso granata più o meno intenso, talvolta con riflessi violacei, odore finemente aromatico, caratteristico, accompagnato da sapore di frutta, fresco, morbido, vellutato, dolce; la sua gradazione minima è di 12°. Il tipo liquoroso ha colore rosso granata più o meno intenso, talvolta con riflessi violacei, odore aromatico, delicato, caratteristico, accompagnato da sapore pieno, dolce, armonico, gradevole e una gradazione minima di 17,5°C. La versione liquoroso riserva, con lo stesso grado, ha colore rosso granata più o meno intenso, tendente talvolta all’arancione con l’invecchiamento; nell’odore è aromatico, caratteristico dell’invecchiamento in botte di rovere, accompagnato da sapore pieno, dolce, più o meno tannico, armonico e gradevole.

• Bianco Capena

Al tempo dei romani il vino Bianco Capena era chiamato Bianco Ferocia, dal nome dell’omonima ninfa, cui si offriva nei sacrifici rituali. LA zona di produzione ha un’antica tradizione viticola, tanto che Orazio e Virgilio magnificavano i prosperosi

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vigneti di Capena, dedita non solo alla produzione d’uva, ma anche a quella di olive, cereali e fiori. Cicerone non esitò a dichiarare: <<Se vuoi vedere campi e vigne ubertose, vai a Capena>>. Ogni anno si tiene a Capena la festa del <<vendemmiale>> ottobrino, in omaggio a quest’uva sempre bella e dorata come nell’antichità. Il bianco Capena ha colore paglierino più o meno intenso, odore leggermente aromatico, fine, caratteristico e gradevole, sapore asciutto o leggermente abboccato, gradevole, e un minimo di 11 °C,Quello migliore prende la qualifica di “superiore”. E’ un vino fine, da consumarsi nell’annata di produzione.

• Castelli Romani Col nome Castelli Romani si indicano i quattordici maggiori centri sui Colli Albani, a sud-est di Roma. E’ una zona di origine vulcanica, che risale al periodo quaternario, i colli sono raggruppati e disposti a semicerchio. Ricchi di vegetazione spontanea al di sopra dei seicento metri, a quote inferiori, però, sono intensamente coltivati a uliveti e soprattutto a vigneti, dalle cui uve si producono i famosi vini bianchi, portanti la denominazione “Castelli Romani”. I vitigni che concorrono con le uve a produrre tali vini sono diversi, da cui si ottengono il bianco che ha colore paglierino più o meno carico, fruttato, intenso, che ricorda l’uva ammostata nel tipo novello, al quale si accompagna sapore fresco, armonico, secco, talvolta frizzante e/o amabile; il suo minimo è di 10,5°; il rosato che ha lo stesso grado, nel colore è rosa più o meno intenso, talvolta con tonalità rubino, nell’odore è fruttato, vinoso, nel sapore è fresco, armonico, secco, talvolta frizzante e/o amabile; il tipo rosso invece, è di 11° con colore rubino più o meno intenso, odore vinoso, persistente, caratteristico, fruttato per il tipo novello. Il sapore è fresco, armonico, secco, rotondo, talvolta frizzante e/o amabile, vivace e fragrante per il tipo novello.

• Cerveteri Una delle più grandi citta dell’Etruria Marittima fu l’antica Cere, oggi Cerveteri, la cui origine risale all’VIII secolo a.C. Grazie all’operosità e all’intraprendenza dei suoi abitanti raggiunse un alto grado di potenza sul Tirreno, combatté con la propria flotta a fianco dei Cartaginesi contro i Greci. Il vino prodotto nella zona, voce importante dell’economia locale, venina esportato in anfore suggellate con stucco e con tamponi imbevuti di olio. Oggi, dopo tanti secoli, è ancora viva la tradizione della sagra dell’uva nell’ultima domenica d’agosto, con un ricco cartellone di manifestazioni che attraggono folle di turisti. La zona di produzione comprende un numero limitato dei comini delle province di Roma e Viterbo, aventi come centro ideale Cerveteri, che da’ il nome a sette vini. Il bianco secco ha colore giallo paglierino più o meno intenso, odore vinoso, gradevole, delicato, accompagnato da sapore secco, pieno, armonico, e un minimo do 11 °.

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Dello stesso grado è il tipo “frizzante”, dal colore giallo paglierino e dall’odore gradevole, delicato; nel sapore è frizzante, vinoso, morbido, talvolta abboccato, con spuma vivace, evanescente. Dello stesso colore e grado è la versione “amabile”, dall’odore fruttato, gradevole, delicato ed amabile nel sapore. Il rosato ha pari grado, colore rosa più o meno intenso, odore fruttato gradevole, delicato ed amabile nel sapore. Il rosso secco ha colore rosso rubino più o meno intenso, odore vinoso, accompagnato da sapore secco, sapido, armonico, di giusto corpo e un minimo di 11,5°. Di colore rosso più o meno intenso è il novello, che all’odore è vinoso, lievemente aromatico, accompagnato da sapore fruttato, vinoso, armonico, vellutato; 11° è il suo minimo. Dello stesso grado, ma con colore più intenso è il tipo amabile, che all’odore è vinoso, gradevole ed ha sapore amabile, vinoso e vellutato.

• Colli Albani

A sud-est di Roma si innalza, isolato, un gruppo di colli vulcanici, dalle pendici rivestite di fiorenti vigneti. I centri addossati ai fianchi delle alture e sulle loro sommità si chiamano impropriamente Castelli Romani, dato che i veri castelli dovrebbero essere altri, ossia Rocca Priora, Montecompatri e Colonna. Si tratta di zone dall’antica vocazione viticola, ricche di tradizioni e di storia, con vini noti sin dall’antichità. Il cardinale Richeliu li aveva fatti conoscere in Francia sia nel tipo bianco, sia nel tipo rosso, pur ritenendo quest’ultimo più salutare del primo. Il papa Paolo III; nei suoi soggiorni estivi in quel di Frascati, a mensa lo preferiva ad altri vini; una spiccata preferenza gli dimostrò anche papa Leone XII. Albano è fra le città laziali più antiche e ricche d eventi storici, a breve distanza da Roma. La vicinanza alla Città Eterna favorì la conoscenza del prodotto di questi vigneti da parte di personaggi illustri, ricevendone vivi apprezzamenti. Il Colli Albani ha un colore che va dal giallo paglierino al giallo carico, odore vinoso e delicato accompagnato da un sapore secco e amabile, morbido, con caratteristico odore fruttato. Il suo minimo è di 10,5°. Sono pure prodotti i tipi “superiore”, “spumante” e “novello”.

• Cori

L’antica cittadina di Cori è famosa per la sua storia e per tre prodotti che, sin dall’antichità, la hanno caratterizzata: le olive nere, l’olio e i vini, bianco e rosso. I monumenti più interessanti sono costituiti dai resti romani e medievali, circondati in buona parte da mura greche, e il tempio di Ercole, eretto un secolo prima della nascita di Cristo da due magistrati della città. Conosciuta sin da tempi remoti, Cori ebbe il privilegio di essere ricordata da Ovidio, da Marziale e da altri poeti della Roma imperiale. I suoi vini venivano serviti sulla mensa pontificia e ai banchetti dei re, in

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quanto prodotti dei quali “tutti si fidavano”. E’ un vero peccato che la vastissima documentazione che raccoglieva gli innumerevoli elogi e apprezzamenti ricevuti da questo vino nel corso dei secoli, sia andata perduta in un incendio che ha distrutto, durante l’ultimo conflitto, l’archivio comunale della città. Il Cori bianco è di colore paglierino più o meno intenso; l’odore è gradevole e caratteristico, accompagnato da un sapore delicato, secco amabile o dolce, e di giusto corpo, armonico; la gradazione minima è di 11°. Va consumato preferibilmente nell’anno di produzione. Il rosso di colore rosso rubino con odore vinoso, gradevole, caratteristico, persistente, è accompagnato da sapore secco, morbido, vellutato, fresco; la gradazione minima di 11,5°.

• Colli Etruschi Viterbesi Con tale denominazione sono prodotte quattordici tipologie di vini in numerosi comuni della provincia di viterbo, che ha come centro della produzione lo stesso capuologo. La città ha conservato quasi intatto l’originale aspetto medievale, di cui restano cospicui monumenti: il palazzo papale del XIII secolo, il duomo in stile romanico, la chiese si San Francesco e di Santa Maria della Verità. Centro etrusco, poi colonia romana chiamata <<castrum Verbi>> dell’VIII secolo, fu più volte residenza papale e sede di numerosi concili. I vini Colli Etruschi Viterbesi sono prodotti da una decina di vitigni coltivati nella zona delimitata. Essi presentano un diverso grado minimo: 10° il bianco, il rosato e il rosso, e tutti gli altri tipi 11°, con eccezione del tipo passito, che presenta un minimo totale di 15,5°. Il Bianco, secco o amabile, ha colore giallo paglierino più o meno intenso, odore delicato, caratteristico; è secco o amabile nel sapore, armonico, caratteristico. Il Procanico nel colore è giallo paglierino chiaro e caratteristico, delicato, gradevole nell’odore; il sapore è secco, fresco, equilibrato. Il Grechetto ha un colore cha varia dal giallo paglierino più o meno intenso al dorato; l’odore è leggermente vinoso, delicato, caratteristico. Al sapore è secco, vellutato, fruttato, caratteristico, talvolta con retrogusto leggermente amarognolo. Il Rossetto, secco o amabile, è paglierino, più o meno intenso nel colore, accompagnato da odore, spiccato, delicato, gradevole, finemente aromatico. Al sapore è secco, amabile, armonico. Dello stesso colore è il Moscatello secco o amabile, che all’olfatto presenta profumo ed aroma caratteristico dell’uva moscato. Con le stesse uve lasciate ad appassire è prodotto il Moscatello passito, che nel colore varia dal giallo oro all’ambrato più o meno intenso, e pure intenso è l’odore, complesso, con sentore muschiato caratteristico. Al sapore è dolce, armonico, aromatico, vellutato. Il rosato secco o amabile, ha colore rosa più o meno intenso, talvolta con riflessi violacei, e odore pure intenso, delicato, gradevole, accompagnato da spore secco o amabile, armonico, equilibrato, talvolta fresco e vivace.

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Dello stesso colore è il sangiovese rosato che all’olfatto presenta odore intenso, delicato, gradevole, al sapore è secco o amabile, armonico, equilibrato, talvolta fresco e vivace. Il rosso, secco o amabile, ha colore rubino più o meno intenso, odore caratteristico, fragrante, più o meno fruttato, sapore pieno e armonico. Il tipo novello, nel colore è rosso rubino pià o meno intenso con sfumature violacee e con odore fruttato e persistente. AL sapore è fresco, armonico, equilibrato, rotondo e talvolta vivace per fragranza e fermentazione. Il Grechetto ha colore rosso rubino più o meno intenso, odore caratteristico, fragrante, più o meno fruttato; al sapore è secco, sapido, armonico, persistente. Di colore più intenso è il Violone: dall’odore caratteristico con retrogusto di marasca; al sapore è secco, pieno, più o meno tannico, armonico. Dello stesso colore rosso rubino intenso è il Canaiolo, che all’odore è caratteristico, aromatico, persistente, accompagnato da sapore amabile, di corpo, più o meno tannico, armonico. Il Merlot è rosso rubino con riflessi violacei; all’odore è gradevole, leggermente erbaceo, nel sapore è pieno, morbido, armonico, giustamente tannico, con leggero retrogusto erbaceo.

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SECONDA PARTE

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Indice I primi piatti Gnocchi di semolino pag. 45 Pasta e broccoli pag. 46 Bucatini all’amatriciana pag. 48 Spaghetti alla gricia pag. 50 I secondi Baccalà in guazzetto pag. 53 Saltimbocca alla romana pag. 55 Abbacchio al forno pag. 57 Trippa alla romana pag. 60 I contorno Verdure gratinate pag. 62 Carciofi alla giudia pag. 63 Carciofi alla romana pag. 65 Puntarelle con alici pag. 66 I dolci Crostata di ricotta pag. 48 Le frappe pag. 70 Le castagnole pag. 73 Maritozzi laziali pag. 75 Il pangiallo pag. 77 Zuppa alla romana pag. 79

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I primi

Nome del piatto:Gnocchi di semolino Foto del piatto

• Origini e storia:

Con la denominazione “gnocchi” vengono definiti molti tipi di gnocchi, dai piu’ diffusi e classici gnocchi di patate a quelli di semolino, detti alla romana, a quelli preparati con farina di mais e tanti altri ancora a seconda della regione e delle diverse tradizioni locali. La storia degli gnocchi precede di molto tempo la data di diffusione della patata in Europa per uso alimentare. La preparazione degli gnocchi era una tradizione culinaria ben radicata sin dai rinascimentali “zanzarelli”, diffusi in Lombardia, impastati con molica di pane, latte e mandorle tritate , verdi se impastati con bietole e spinaci gialli se impastati con zucca o zafferano fino ai “malfatti” del ‘600, preparati con farina e acqua nella ricetta base e arricchiti con uova nelle cucine dei benestanti o ancora con carne di pollo tritata. A partire dal 1800 la patata era ormai diventata un alimento abituale per cui si diffusero gli “Gnocchi di patate” che a Roma ancora oggi sono di casa tant ‘ è che spesso , nelle trattorie del centro, accanto alle stampe di Pinelli, ritrova il cartello “giovedì gnocchi” da non confondere con gli “gnocchi alla romana”. Gli “Gnocchi alla romana” è un piatto tipico della popolare e genuina cucina romana anche se di incerta attribuzione infatti alcuni pensano sia di origina piemontese. In effetti l’abbondante presenza di burro riporta più alla tradizione della regione settentrionale che a quella romana. La tradizione vuole che risalga a Papa Borgia e che era risevato ai poveri.

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• Tipo: Primo piatto • Ingredienti:

250 gr. di semolino 1 l di latte 150 gr. di parmigiano 100 gr. di burro di cui 50 gr. fuso 2 tuorli d’uovo sale noce moscata

• Svolgimento della ricetta: Portare ad ebollizione il latte con il sale e versarvi il semolino mescolando continuamente con un cucchiaio di legno. Far cuocere a fuoco moderato per circa 15 minuti senza smettere di mescolare quindi, fuori dal fuoco, aggiungere una noce di burro, la noce moscata ed i tuorli. Amalgamare con cura e rovesciare il composto su un piano, stendetelo facendo uno strato dello spessore di circa 1 cm aiutandosi con un largo coltello bagnato, coprire con un canovaccio e lasciar raffreddare per almeno un paio d'ore. Con un tagliapasta rotondo o un piccolo bicchiere (4 cm di diametro), ritagliare dei dischi. Imburrare una pirofila, disporre sul fondo i ritagli dell'impasto, quindi la mozzarella tagliata a dadini e spolverare di parmigiano. Fare un secondo strato con i dischi di semolino, accavallandoli leggermente e cospargendoli di mozzarella e parmigiano. Mettere gli gnocchi nel forno già caldo a 200°C per circa 15 minuti, fino a quando la superficie avrà preso un bel colore dorato.

Nome del piatto:Pasta e broccoli

Foto del piatto

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• Tipo: Primo piatto • Ingredienti 400 g di bucatini 600 g di broccoli 1 spicchio d’aglio 1 cucchiaio di olio extravergine di oliva 1 mazzetto di prezzemolo 1 pizzico di peperoncino 1 filetto di acciuga sale, pecorino quanto basta

• Svolgimento della ricetta Mondate i broccoli, tagliateli a cimette e fateli cuocere al vapore lasciandoli un po’ al dente. Nel frattempo preparate un trito di aglio, prezzemolo, acciughe e stufatelo in un dito di acqua, utilizzando quella di cottura dei broccoli, con un cucchiaio di olio extravergine di oliva. Aggiungete un pizzico di peperoncino ed i broccoli cotti al vapore, aggiustando di sale. Scolate la pasta cotta la dente e versatela nel tegame con i broccoli. Mescolate bene, lasciate sul fuoco circa un minuti e servite con aggiunta di pecorino.

Profilo calorico – nutrizionale/per porzione Protidi Lipidi Glucidi Fibre Kcal

100 gr pasta 4,7 0,5 70 1,5 137 150 gr broccoli 4,5 0,6 9,15 4,65 40,5 3 gr olio di oliva / 3 / / 27 5 gr acciughe 1,25 0,15 / 7 6,4 10 gr pecorino 2,5 3,5 / / 40,2 Totale 12,95 7,75 79,15 6,15 251

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Nome del piatto: Bucatini all’amatriciana

Foto del piatto

• Origini e storia: Rigatoni all’amatriciana con pancetta e pomodoro? I puristi avanzeranno non poche critiche. Perché nei ricettari “all’amatriciana” significa: bucatini o perciatelli per la pasta (a malapena son tollerati gli spaghetti) conditi col guanciale e non con la pancetta. Prende il nome dalla città di Amatrice, in provincia di Rieti, ed è uno squisito equivoco della cucina romana, sia per le sue origini, che in realtà sono abruzzesi (perché un tempo Amatrice era in provincia dell’Aquila), sia perché la prima versione era in bianco e si chiamava “alla gricia”. La ricetta del sugo con il pomodoro e la cipolla avrebbe origine dai "matari", gli otri dove i romani conservavano i pomodori, e dal "matricale", una pianta aromatica dell'agro pontino, simboli della cucina romana.

• Tipo: primo piatto • Elaborazione :

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• Ingredienti: 500 grammi di bucatini 125 grammi di guanciale 400 grammi di pomodori 100 grammi di pecorino un goccio di vino bianco secco olio extravergine di oliva peperoncino sale

• Svolgimento della ricetta: Rosolare in un tegame olio, guanciale e peperoncino. Spruzzate con vino e fatelo evaporare. Togliete il guanciale, conservandolo in un posto caldo, e aggiungete i pomodori a pezzi, un po’ di sale e continuate la cottura a fuoco lento per qualche minuto. Dopo togliete il peperoncino, rimettete il guanciale e date un’altra girata alla salsa. Cuocere gli spaghetti in acqua leggermente salata, scolateli al dente, fateli mantecare nel sugo e aggiungere pecorino grattugiato

Profilo calorico – nutrizionale/per porzione Protidi Lipidi Glucidi Fibre Kcal

100 gr pasta 4,7 0,5 70 1,5 137 25gr guanciale 5,2 7 / / 84,25 80 gr pomodoro 0,96 0,4 4,8 0,72 16,8 20 gr pecorino 5,2 6,62 / / 80,4 10 gr olio di oliva / 100 90 Totale 16,0 gr

114,52 gr 74,8 2,22

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Nome del piatto: Pasta alla gricia

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Foto del piatto

• Origini e storia: La pasta alla Grigia secondo alcuni altro non è che la prima versione in bianco e senza cipolla dell’amatriciana. Questa versione della ricetta è un’ulteriore dimostrazione dell’ipotesi secondo cui la cucina romana sarebbe semplicemente una ricca e saporita interpretazione dei piatti di regioni confinanti, personalizzata dalle tradizioni culinarie del Lazio.

Per altri invece è la pasta preparata dai “Grici”, immigrati a Roma che nell’800 nelle loro botteghe vendevano al minuto pane, farine, legumi, derrate alimentari d'ogni genere e che per provvedere alle proprie necessità cucinavano la pasta alla gricia, che rapidamente è diventato un piatto popolare. L’origine del termine risale alla Roma del ‘400 dove “Gricio” era l'appellativo con cui venivano indicati i panettieri, quasi tutti provenienti dalle regioni tedesche del Reno e dal Canton de' Grigioni. Ma “griscium” veniva utilizzato anche con particolare riferimento allo “spolverino” o “sacchetto” grigio che costituiva una sorta di divisa per gli appartenenti alla corporazione dei panettieri (i maestri dell'arte bianca), con la quale usavano difendersi dalla farina. L'appellativo Gricio, oltre al senso positivo del riferimento regionale, rapidamente assunse anche un altro significato dispregiativo, equivalente a burino, per indicare un uomo malvestito e di modi grossolani: i panettieri erano infatti soliti vestire in maniera alquanto trascurata sotto lo spolverino, specie l’estate. La grande abilità professionale, tramandata unicamente all’interno delle cerchie familiari, consentì ai Grici di detenere la supremazia nell’arte bianca a Roma. Nell'ottocento l’appellativo “Gricio” viene usato, oltre che per gli immigrati delle regioni tedesche e svizzere, anche per i nativi della Lombardia settentrionale (Sondrio, ecc.), noti a Roma come montanari rozzi, lavoratori, molto frugali e grandi risparmiatori. I Grici esercitavano il mestiere di orzaroli. L'orzarolo vende al minuto pane, farine, legumi, derrate alimentari d'ogni genere, ma anche stoviglie economiche da cucina, è' costretto a far credito, poco e oculato, ma segna tutto su pezzi di carta, attaccati ar chiodo (di qui il detto: “Er Gricio, si nun fosse rafacano – ossia taccagno, spilorcio - sarebbe puro bbono!”). D'altra parte anche il Gricio deve essere attaccato al chiodo, perchè la bottega è aperta dall'alba alla notte, in attesa che i clienti racimolino i soldi per mangiare; anche per questo i Grici arrivano a Roma in cordate familiari o paesane. Per provvedere alle proprie necessità la bottega del Gricio è fornita di un fornello a carbone, dove

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cucina il suo piatto, la pasta alla gricia, che rapidamente diventa un piatto popolare. Guanciale soffritto in padella, pepe e/o peperoncino, vino, pecorino grattugiato sono il condimento della pasta che deve essere sempre corta, con preferenza per le penne. La pasta corta permette al Gricio di tenere la scodella in un cassetto del bancone da orzarolo; così all'ingresso d'un cliente, il Gricio può chiedere rispettoso: “Cosa posso servire?”, evitando l'offerta di un assaggio!

• Tipo: primo piatto • Elaborazione:

• Ingredienti: per 5 persone: ½ guanciale di maiale al pepe (non la pancetta!) 1 etto abbondante di pecorino ben stagionato, grattugiato. ½ bicchiere di latte fresco ½ Kg. Spaghetti o Vermicelli o bucatini pepe nero da macinare al momento.

Svolgimento della ricetta: Pulire bene il guanciale, asportando la cotenna e tutte le parti gialle. Tagliarlo a fettine spesse ½ cm. e poi ridurle “a fiammifero”. Si raccomanda l’uso del guanciale e non della pancetta. In una padella comoda (meglio se di ferro – come si usava una volta – leggermente unta) far soffriggere, senza nessuna altra aggiunta di olio, il guanciale fino a che non diventa di un bel color “dorato”, con la parte grassa morbida e quella magra croccante. Far cuocere gli spaghetti in abbondante acqua salata e al dente ( 2 minuti in meno, rispetto al tempo consigliato sulla confezione). In una terrina versare la metà del pecorino grattugiato fresco e con l’aggiunta di poco latte fresco freddo, o di acqua fredda, amalgamarlo fino ad ottenere un composto cremoso ed omogeneo. Appena scolati gli spaghetti versarli nella padella e rigirarli nel soffritto di guanciale che avrete fatto riposare da almeno cinque minuti, indi versarvi la “pastellina” col pecorino e mescolarli velocemente. Cospargere con il rimanente pecorino e una buona macinata di pepe nero fresco. Servire subito.

Profilo calorico – nutrizionale/per porzione

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Protidi Lipidi Glucidi Fibre Kcal

100 gr pasta 4,7 0,5 70 1,5 137 25 gr di guanciale 5,2 7 / / 84,25 20 gr di pecorino 5,2 6,62 / / 80,4 15 gr latte 0,5 0,54 1,5 / 9,6 Totale 15,6 14,66 71,5 1,5 311,25

I secondi

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Nome del piatto:Baccalà in guazzetto

Foto del piatto

• Origini e storia:

Il baccalà ha origini molto antiche, risale infatti ai tempi dei vichinghi provenienti dal nord della Norvegia. Questi, grandi navigatori che si spinsero fino ai mari di Groenlandia e d’America, avevano il monopolio sulla pesca del merluzzo. Una volta pescato il merluzzo veniva essiccato all’ aria aperta, nasceva così lo stoccafisso, un alimento leggero, nutriente e di lunga conservazione. Un giorno però i Vichinghi persero il monopolio sulla pesca a causa delle balene che in un primo tempo si trovavano tra la Spagna settentrionale e la Francia, le continue cacce da parte dei baschi costrinsero le balene a fuggire nell’ Atlantico settentrionale, e i baschi dietro loro. Ma quando i baschi arrivarono in quella zona si accorsero che basta mettere una mano in acqua per tirare fuori del merluzzo, da quel momento i baschi tornavano spesso a prendere il merluzzo. I baschi per conservarlo non usavano l’aria ma il sale, nacque così il baccalà. Anche i Vichinghi impararono questa nuova tecnica ma utilizzarono il baccalà anche come barometro. Dopo averlo messo sotto sale, lo appendevano a bordo con delle corde. Quando il baccalà cominciava a gocciolare, voleva dire che era in arrivo una tempesta: la maggiore umidità dell’aria faceva infatti sciogliere il sale. Un’ altra tappa importante del baccalà fu quando nel 1620 i Padri Pellegrini, protestanti in fuga dall’Inghilterra, sbarcarono sul promontorio del nuovo mondo che aveva come nome, “ Capo Merluzzo”. I Padri Pellegrini non essendo portati nell’agricoltura, si diedero alla pesca e in questi luoghi alla pesca del merluzzo. Tutto andò bene tanto che le navi americane partirono da New England stivate e stipate di baccalà con destinazione Portogallo. Negli anni successivi il baccalà divenne merce di scambio per prodotti coloniali (zucchero, melassa, ecc.) ma anche per schiavi che venivano portati in america per lavorare nelle piantagioni. Molti furono gli scontri per il dominio del baccalà che a tutt’oggi detengono gli inglesi. Baccalà o stoccafisso? Se il merluzzo viene subito pulito, messo in un barile e coperto di sale, è chiamato baccalà. Dalla parola fiamminga kabeljaw, che vuol dire bastone di pesce. Il baccalà è insomma il merluzzo pulito, deliscato, salato e imbarilato. Se invece, dopo la pesca, il merluzzo viene

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lasciato ad essiccare all’aria fredda, diventa stoccafisso: da stock, legno, e fish, pesce. Alias bastone di legno, dal suo aspetto. Qualcuno sostiene che la parola provenga dal norvegese Stockfish: pesce da stoccare: da immagazzinare.

• Tipo: secondo piatto. • Elaborazione :

• Ingredienti:

800 gr. di baccalà ammollato, farina bianca, 4 cipolle grandi, 1 spicchio di aglio, 1 acciuga dissalata, 20 gr di capperi, 20 gr di uva passa, 20 gr di pinoli, olio extra vergine d'oliva, 1/2 limone, sale e pepe, prezzemolo tritato

• Svolgimento della ricetta:

Sbucciare le cipolle, affettarle e metterle a bagno in acqua salata. Sciacquare il baccalà e una volta asciugato, tagliarlo a pezzi non troppo grandi. Scaldare poco olio in un tegame. Passare i pezzi di baccalà nella farina e friggerli nel tegame, rigirandoli continuamente. Una volta dorati da ambo le parti, scolarli e tenerli in caldo. Aggiungere ancora olio nel tegame e, dopo averlo leggermente schiacciato, uno spicchio d'aglio che, una volta appassito, va tolto. Scolare le cipolle e adagiarle nel tegame, incoperchiando. Dopo qualche minuto, aggiungere i capperi (lavati e asciugati), l'uvetta (ammollata in acqua tiepida), i pinoli e coprire di nuovo. Nel frattempo, sciogliere in un tegamino con poco olio l'acciuga e unirla al composto nel tegame. Quando le cipolle saranno ben appassite, aggiustare di sale e di pepe e spegnere il fuoco. Preparare in una teglia un letto con il contenuto del tegame e adagiarvi sopra i pezzi di baccalà,

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bagnandoli con l'olio del fondo di cottura. Infornare per 5 minuti in forno caldo. Prima di servire: bagnare con il succo di limone e cospargere di prezzemolo tritato

Nome del piatto:Saltimbocca alla romana “Saltimbocca” à la romaine

Foto del piatto

• Origini e storia: Difficile definire la vera origine di questa ricetta. Pellegrino Artusi l'ha descritta fin dalla fine del l'800. L'aveva assaggiata nella trattoria romana "Le Venete" e sembra che comunque venisse passata come autentico piatto romano almeno in un'altra trattoria storica della Capitale. Qualcuno ha voluto, successivamente, rivendicare un'origine bresciana. Si tratta, in ogni caso, di un piatto ormai conosciuto in tutto il mondo, forse il piatto italiano più noto dopo gli spaghetti all'estero. E' sinonimo della cucina romana a tutti gli effetti. Nel tempo la ricetta ha subito delle varianti; qualcuno infarina i saltimbocca prima di metterli nella padella probabilmente per aumentare la capacità di assorbire i condimenti. Qualcun altro aggiunge il vino invece dell'acqua al fondo di cottura per rendere l'intingolo più saporito oppure addirittura brandy o cognac. Altri arrotolano i saltimbocca dopo averli preparati con tutti gli ingredienti.

• Tipo: Secondo piatto • Elaborazione:

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• Ingredienti: -Fettine di vitello - 400 g (circa 8 fettine dello spessore di circa 5 mm) -Prosciutto crudo, affettato sottile - 120 g -Salvia - 16 foglie -Burro - 40 g -Sale -Pepe

• Ingrédients: -500g de petites tranches de veau -200g de jambon -huile -sel et poivre -beurre -vin blanc -sauge

• Svolgimento della ricetta: Aiutandosi con un coltello affilato, eliminare i nervetti e il grasso dalle fettine di vitello. Disporle sul piano di lavoro e tagliarle in modo da ottenere delle fettine piccole. Tagliare anche le

• Préparation Coupez les petits tranches et posez sur chacune

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fette di prosciutto adattandole alla carne. Lavare ed asciugare le foglie di salvia. Disporre su ciascuna fettina di vitello una fettina di prosciutto, una foglia di salvia e un'altra fettina di prosciutto. Fermare il tutto con uno stuzzicadenti come se si trattasse di uno spillo. Mettere 30 g di burro in una padella a farlo sciogliere; aggiungere i saltimbocca, salarli ed eventualmente peparli. Farli cuocere per 1 minuto su di un lato, girarli e completare la cottura per un altro minuto. Toglierli dalla padella e tenerli al caldo. Aggiungere il resto del burro nella pentola insieme ad un cucchiaio d'acqua; cuocere la salsina su fuoco vivace fino a quando non si restringe. Versarla sui saltimbocca e servire immediatamente.

une feuille de sauge et un petit tranche de jambon que vous pouvez agrafer à la viande avec un cure-dent. Mettez dans une poêle avec de l'huile et du beurre la viande. Salez et Poivrez et laissez cuire à feu vif pendant quelques minutes, en ajoutant une cuillère de vin et d'eau. Dès que la viande est dorée, tournez les petites tranches et disposez sur un plat. Ajoutez un peu de beurre au fond de cuisson. Versez la sauce sur les « saltimbocca » et servez chauds.

Nome del piatto: Abbacchio al forno

Foto del piatto

• Origini e storia:

E’ difficile esaltare l’Abbacchio per quanto vale e quanto merita. A Roma, scrive il Chiappino nel suo Vocabolario romanesco, “si chiama abbacchio il figlio della pecora ancora lattante o da poco tempo slattato”. A Roma la stagione degli abbacchi comincia in autunno e finisce in primavera. Nell’estate non si trovano né abbacchi né agnelli. Se non proprio il

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timone, l’Abbacchio risulta l’albero di maestra, nel magnifico vascello della nostra cucina romana. È talmente familiare, a romani e non romani, da considerarlo quasi parte integrante della natura, del paesaggio romano-laziale. Costituiva infatti una veduta d’obbligo quella che mostrava le greggi al pascolo nella Campagna allora deserta, sotto l’alta protezione degli antichi acquedotti. Basterebbero proprio i cento piatti ai quali l’Abbacchio dà origine, per fare prediligere, ed ammirare, una semplice e altera cucina. “Er fijo de la pecora”, come lo battezzerà nuovamente anche Gigi Fazi. A cominciare dai tipi di pascolo (permanenti e temporanei), e dalle erbe che vi crescevano (prati naturali, artificiali, e marcite). I mesi in cui cadeva la nascita.

• Tipo: Secondo piatto • Elaborazione

• Ingredienti: due chili di agnello (cosciotto e costole, possibilmente con rognone), 4 rametti di rosmarino, 4 spicchi di aglio, 50 gr di strutto, olio extravergine d'oliva, aceto, sale e pepe macinato

• Svolgimento della ricetta:

Praticare sulla carne dei tagli profondi con un coltellino a lama tagliente e sottile, introdurre in ognuno 1/4 di spicchio d'aglio e un ciuffetto di rosmarino. lasciarlo per 2 ore in una marinata preparata con abbondante olio, poco buon aceto, sale e pepe, rivoltandolo qualche volta. al momento di cuocere l'agnello, ritirarlo dalla marinata ben sgocciolato, metterlo in forno caldo (180°) per circa un'ora, fino a quando su è ben rosolato da tutte le parti. cuocere al punto giusto e poi accomodarlo in un piatto di portata e servire caldo.

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Profilo calorico – nutrizionale/per porzione Protidi Lipidi Glucidi Fibre Kcal

200 gr di agnello solo carne

42 18 / / 324

6 gr strutto / 6 53,52 10 gr di olio oliva / 10 / / 90 Totale 42 34 467,52

Nome del piatto:Trippa alla romana

Foto del piatto

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• Origini e storia:

La Trippa è un alimento tipico di tutte le tradizioni gastronomiche contadine. La trippa è una frattaglia costituita dalla parte di apparato digerente del bovino compresa fra esofago e stomaco; dopo la macellazione viene sottoposta a pulizia e bollitura. È composta da rumine (la parte a forma di sacco più grande, detta anche trippa, croce, crocetta, pancia, trippa liscia o busecca), omaso (formato da lamelle, detto anche centopelli o foiolo) e reticolo (o cuffia, un piccolo sacco con aspetto spugnoso, detta anche cuffia, nido d’ape, bonetto o beretta). La trippa è un alimento consumato da lungo tempo: i greci la cucinavano sulla brace, mentre i romani la utilizzavano per preparare salsicce.

• Tipo: secondo piatto

• Elaborazione:

• Ingredienti:

1 kg di trippa precedentemente lessata cipolla,sedano,carote

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pecorino(o parmigiano sale,pepe,peperoncino, mentuccia (menta romana) pomodoro in polpa ½ bicchiere vino bianco secco olio extra vergine d’oliva

• Svolgimento della ricetta: Fate soffriggere per 15 minuti,in olio extra vergine d’oliva,cipolla,sedano,carote e la trippa tagliata a fettucce. Aggiungete mezzo bicchiere di vino bianco e lasciate evaporare. Unite sale, pepe,peperoncino,la polpa di pomodoro e lasciate bollire per 40 minuti. Il sugo deve essere denso. Poi a fuoco spento aggiungete un trito di mentuccia e una manciata di pecorino. N.B: se la trippa non si compra già cotta dal macellaio bisogna procedere cosi:sciacquate la trippa abbondantemente, tagliatela in pezzi grandi e cuocetela in una pentola con sale,cipolla,sedano e una carota. Schiumate di frequente e lasciatela bollire a fuoco moderato per circa 5 ore. Una volta cotta procedere come detto.

I contorni

Nome del piatto: Verdure gratinate

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Foto del piatto

• Tipo: Contorno • Elaborazione:

• Ingredienti: Verdure: melanane, zucchine , cipolle, peperoni

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Farina q.b. Sale Olio Aglio Basilico pane grattugiato

• Svolgimento della ricetta: Lavare e tagliare le verdure a fette. Disporle in fila in una teglia grande da forno oleata. Condirle con aglio, sale, basilico, pane grattugiato, pomodori a pezzettini e abbondante olio. Mettere in forno a 200° per circa 1 ora.

Nome del piatto:Carciofi alla giudia

Foto del piatto

• Origini e storia: Sono propri della tradizione ebraica.

• Tipo: Contorno • Elaborazione:

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• Ingredienti: 8 carciofi 1 limone aceto sale,pepe olio extra vergine d’oliva.

• Svolgimento della ricetta: Secondo un'antica ricetta ebraica “capate” i carciofi cioè toglite le foglie esterne più dure e lasciate un pezzetto di gambo privato della parte dura. Tornite il girello e spuntate la cima. Immergete quindi la verdura in acqua e succo di limone perché non annerisca. Lavateli con acqua acidula e asciugateli. Prendeteli e batteteli contro il tavolo, in modo che il fiore si apra bene e il gambo resti dritto, poi conditeli nell'interno con sale e pepe. Mettete abbondante olio d'oliva in un tegame di terraglia e immergete i carciofi col torsolo in alto e in modo che non stiano troppo pigiati fra di loro. Mantenete la frittura con un fuoco moderato, in modo che i carciofi cuociano piano piano, anche all'interno. Dopo qualche minuto coricate i carciofi e curate la cottura del torsolo e del girello, girando, di tanto in tanto, i carciofi. Quando il girello e il torsolo saranno ben coloriti e avranno perduto la loro durezza, e cederanno leggermente sotto la pressione della forchetta, rimettete i carciofi col torsolo in alto e, ravvivato un pochino il fuoco, appiattiteli, senza romperli, contro il fondo del tegame, affinché le foglie acquistino il colore d'oro scuro e il croccante. A cottura ultimata, il carciofo alla giudia dovrà presentarsi come un crisantemo, cioè piuttosto basso e con le foglie molto allargate. Infine, quando i carciofi sono cotti, immergete la mano in un recipiente contenente acqua fresca e, dall'alto, spruzzate l'acqua sull'olio bollente. Ciò provoca un crepitio che ha per effetto di rendere ancora più croccanti i carciofi.

Nome del piatto: Carciofi alla romana

Foto del piatto

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• Origini e storia: Il carciofo è un antico prodotto della natura, che si mangiava comunemente, sin dal tempo degli egizi. E’ un ortaggio tipico delle terre del mediterraneo e come attestano gli scritti di alcuni antichi autori continuò ad essere apprezzato, all’epoca dei romani. Le prime coltivazioni accertate in Italia risalgono al XV secolo diffuse dapprima in Toscana e poi nelle altre regioni. I carciofi romaneschi sono il simbolo del Lazio vegetale e si presentano grossi e con il capolino quasi rotondo e sono ottimi cucinati ripieni. Sin dall’antichità questo ortaggio era ritenuto in possesso di virtù terapeutiche e salutari grazie alla ricchezza della sua composizione.

• Tipo: contorno • Elaborazione:

• Ingredienti: 8 carciofi ½ bicchiere di vino bianco secco 1 cucchiaio prezzemolo tritato

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8 cucchiai di olio extra vergine d’oliva 1 spicchio d’aglio menta romana sale

• Svolgimento della ricetta: Togliete ai carciofi le foglie esterne,lasciando un pezzetto di gambo,immergeteli in acqua con succo di limone. Tritate il prezzemolo con la menta e l’aglio. Aprite leggermente le foglie dei carciofi e mettete il trito all’interno unitamente al sale. Sistemate i carciofi capovolti in una pirofila dai bordi piuttosto alti. Coprite i carciofi con olio e acqua. Infornate a 200° per un’ora fino all’evaporazione dell’ intero liquido.

Nome del piatto:Puntarelle con le alici

Foto del piatto

• Origini e storia:

Orgoglio dei romani di oggi e di ieri, le puntarelle altro non sono che una varietà di cicoria, quella che si chiama “cicoria di Catalogna”, indicata con il termine botanico di Cichorium intybus. A caratterizzare la vivanda che i romani e visitatori di Roma ben conoscono contribuisce la presentazione in tavola, affidata al fruttivendolo prima ancora che al cuoco. Le sottili strisce ricavate dal corpo centrale della foglia si mettono a bagno in acqua fredda: il risultato è la tipica arricciatura.

• Tipo: Contorno

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• Ingredienti: 800 gr. di puntarelle 8 filetti di acciuga sott’olio 2 cucchiai di aceto 4 cucchiai di olio extravergine di oliva 1 spicchio di aglio sale e pepe

• Svolgimento della ricetta: Preparate un pesto con l’aglio, le acciughe, l’olio e l’aceto. Condite con la salsa così ottenuta le puntarelle lavate e, prima di servirle, aggiungete una generosa manciata di pepe nero.

Profilo calorico – nutrizionale/per porzione Protidi Lipidi Glucidi Fibre Kcal

200 gr di puntarelle 2,4 0,2 6,8 / 24 5 gr di acciughe 1,25 0,15 / / 6,4 5 gr di olio oliva / 5 / / 45 5 gr aglio / / 0,84 / 2 Totale 3,65 5,35 7,64 77,4

I dolci Nome del piatto:Crostata di ricotta Tarte de ricotta »

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Foto del piatto

Origini e storia: Dolce tipico, la sua diffusione probabilmente è dovuta alla qualità della ricotta romana che ha dato luogo a una serie di preparazioni entrate nella storia e nelle tradizioni della città. Le origini della ricotta romana sono antichissime e riferimenti storici risalgono a Marco Porzio Catone che raccolse le norme che regolavano la pastorizia nella Roma repubblicana dove il latte di pecora aveva tre destinazioni: religiosa, come bevanda e la trasformazione in formaggi con l'uso residuo del siero per ottenere appunto la ricotta. Il termine ricotta deriva dal latino recoctus, che indica la ricottura del siero dopo la produzione del formaggio. Il siero migliore è quello intero non scremato. Quella romana ha forma a tronco di cono e pasta solida e asciutta.

Tipo: Dolce • Elaborazione:

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Ingredienti: 400 g di pasta frolla 600 g di ricotta 300 g di zucchero 3 tuorli d’uovo 1 uovo intero buccia d’arancia grattugiata buccia di limone grattugiata 50 g di uva sultanina 40 g di pinoli 30 g di scorza di cedro e arancia canditi 1 pizzico di cannella

Ingrédients : 400 g de pâte brisée 600 g de ricotta (une sorte de fromage frais à pâte molle et granuleuse du vache ou de brebis) 300 g de sucre 3 jaunes d’oeuf 1 oeuf entier Peau d’orange râpée Peau de citron râpée 50 g de raisin sec 40 g de pignon 30 g zeste de cèdre et orange confits Une pincé de cannelle

Svolgimento della ricetta: Mescolate in una terrina la ricotta con lo zucchero, la buccia grattugiata, la cannella,

Préparation : Mélangez la « ricotta » dans un terrine avec du sucre, la peau râpée, la cannelle, les pignons et enfin le confits hacher. Recouvrez le moule avec

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l’uvetta, i pinoli e i canditi tritati.

Ricoprite con la pasta frolla uno stampo da crostata e versatevi il ripieno.

Con la pasta frolla rimasta preparate delle striscioline e disponetele sulla ricotta.

Pennellate con l’albume e cuocete in forno caldo a 190° per circa 45 minuti.

la paté et verse le mélange. Avec le reste de la pâte préparez des petites bandes et disposez sur la « ricotta ».

Badigeonnez avec le blanc d’oeuf et faites cuire au four chaud à 190° pendant 45 minutes.

Nome del piatto: Le Frappe

Foto del piatto

• Origini e storia: Carnevale è festa per il popolo e festa per la gola.

Per Goethe " Il Carnevale di Roma non è una festa che si offre al popolo ma bensì una festa che il popolo offre a se stesso" infatti i romani festeggiavano il carnevale travestiti con costumi multicolori che rappresentavano i mestieri più comuni: il medico, l’avvocato, la popolana. Era l’occasione in cui ci si scambiava i ruoli: il ricco si vestiva da povero, il povero da ricco. Coriandoli di gesso, stravaganti pettinature e riti bizzarri completavano il rituale carnevalesco di Roma. Un tempo veniva organizzata anche la "gara dei moccoletti" i romani si aggiravano per le strade della città con una candela in mano cercando di spegnere le candele altrui.

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Il carnevale è festa anche per la GOLA. Ogni città festeggia con scorpacciate di dolci tipici come le frappe (Roma), galani (Venezia), cenci (Genova), bugie (Firenze), lattughe (Mantova), chiacchiere (Napoli) molti modi per indicare uno stesso dolce a strisce lunghe e fritto in abbondante olio sfrigolante; le castagnole, palline dolci cosparse di zucchero.

Tipo: dolce

• Elaborazione:

• Ingredienti: 200 g farina 50 g burro 1 uovo intero 1 tuorlo 100 g zucchero olio extra vergine di oliva o olio di semi di arachide per la frittura 30 g zucchero a velo

• Ingredients: 200 g farine 50 g beurre fondu 1 oeuf 1 jaune d’oeuf 100 g sucre sail huile extrà verge d’olive sucre en poudre

• Svolgimento della • Preparation :

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ricetta: Preparazione: mescolate la farina con il burro fuso, l’uovo intero ed il rosso, lo zucchero e un pizzico di sale. Fate una sfoglia molto sottile e tagliatele a strisce piuttosto lunghe, le strisce possono essere annodate per dare loro la forma di un fiocco. Friggetele in abbondante strutto o olio bollente. Sistematele su un piatto abbastanza grande e spolverizzatele di zucchero a velo.

Melange le forine avec le beurre foundue, l’oeuf et le jaune, le sucre e le sail. Fair une abaisse becaup mince et coupe-la en bandes long. Frire-le en huile. Ranger le frappe sur un plat grand e pulvériser du sucre en pouche.

Profilo calorico – nutrizionale per sei persone=292

Ingredienti: Acqua Proteine Lipidi Carboidrati Glucidi kcal

200 g farina 28,4 22 1,4 154,6 3,4 680 50 g burro 7 0,4 41,7 0,5 0,5 379 1 uovo intero 38,6 6,2 4,3 tr tr 64 1 tuorlo 26,7 7,9 14,5 tr tr 49 100 g zucchero tr tr tr tr 100 400 1 pizzico di sale olio e.v.o. tr 0 99,9 0 0 60 30 g zucchero a velo tr tr tr tr 30 120

1752

Nome del piatto: Le Castagnole

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Foto del piatto

• Tipo: Dolce • Elaborazione:

• Ingredienti: 200 g farina 2 uova 2 cucchiai di zucchero 50 g burro fuso 1 bicchiere di rum scorza di limone sale olio extravergine di oliva o olio di semi di arachide per la frittura

• ingrédients: 200g farine 2 oeuf 2 cuillere de sucre 50g beurre fondu 1 verre de rum écorce de citron salt huil extra vierge d’olive

• Svolgimento della • Préparations :

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ricetta: Preparazione: Mescolate la farina con le uova, lo zucchero ed il burro fuso, 1 bicchiere di rum, la scorza di limone grattugiata e 1 presa di sale. Amalgamate bene ogni cosa. Scaldate l’olio per friggere e mantenetelo alla giusta temperatura senza farlo scaldare troppo. Con 2 cucchiaini formate delle palline, versatele nell’olio, quando si gonfieranno, toglietele e mettetele ad asciugare su un foglio di carta di paglia. Sistematele e cospargetele di zucchero a velo e cannella.

Remuez la farine avec les oeuf, le sucre, beurre fondu, rum, la écorice de citron rapes et salt. Melanjer bien tout. Frire le castagnole (préparé avec deux cuillere) dans l’huil chout. Disposer dans un plat avec le sucre poudre.

Profilo calorico – nutrizionale

per sei persone= 295,5

Ingredienti: Acqua Proteine Lipidi Carboidrati Glucidi kcal

200 g farina 28,4 22 1,4 154,6 3,4 680 2 uova 77,1 12,4 8,7 tr tr 128 2 cucchiai di zucchero tr tr tr tr 20 80 50 g burro fuso 7 0,4 41,7 0,5 0,5 379 1 bicchiere di rum 68,9 tr 0 tr tr 230 scorza di limone sale olio e.v.o tr 0 99,9 0 0 60

1557

Nome del piatto: Maritozzi laziali

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Foto del piatto

• Origini e storia: Già al tempo dei Romani esistevano delle pagnotte che venivano addolcite con l'aggiunta di miele e uva passa, ed il Maritozzo sembrerebbe derivare da questa antica specialità. In origine era più grande dell'attuale, una sorta di pagnotta impastata con farina, uova, miele, burro e sale. Si racconta che per secoli le donne la facevano per stivarla nelle bisacce di pelle o stoffa dei braccianti che, lontano da casa per tutto il giorno, dovevano portare con se l'essenziale per nutrirsi. Sembra che nel Medioevo queste pagnotelle fossero una sorta di "dolce d'emergenza" che si mangiava soprattutto in Quaresima, preparato in modo leggermente diverso: la pezzatura era minore, il colore più scuro, l’impasto arricchito con uvetta, pinoli, e canditi. “Er santo maritozzo”, detto anche Quaresimale, era una delle poche deroghe concesse al digiuno del periodo. Inoltre, secondo una tradizione successiva, il Maritozzo divenne anche il dono bene augurante che il fidanzato regalava alla promessa sposa il primo venerdì di marzo (odierno San Valentino). In questo caso il dolce aveva in superficie una decorazione di zucchero rappresentante due cuori trafitti, e talora celava un anello o un piccolo oggetto d’oro. L’origine del nome deriverebbe dalla deformazione burlesca di “marito”. Oggi il Maritozzo resta un classico dolce da caffetteria, semplice o ripieno di crema o panna montata, chiamato anche Panmarito, Panparito, Maritello a seconda dell'area dove viene preparato.

• Tipo: Dolce • Elaborazione:

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• Ingredienti: 350 g farina bianca 1 dado lievito di birra 100 g zucchero 1 pizzico di sale 3 cucchiai di olio d’oliva 1 uovo e 1 tuorlo 140 ml circa acqua tiepida 100 g zibibbo 50 g canditi all'arancia •2 cucchiai di pinoli Per decorare: 1 uovo 50 g zucchero 75 ml acqua

• Svolgimento della ricetta: Sciogliete in poca acqua tiepida del lievito di birra e unitelo a della farina; lavorate bene il tutto e lasciatelo riposare in luogo tiepido per venti minuti coperto da un panno. Aggiungete altra farina, uovo, olio d’oliva e poco sale, impastate energicamente e unite dello zucchero. Quando il composto sarà ben amalgamato lasciatelo riposare in luogo tiepido per un’ora coperto da un panno. Una volta che la pasta inizierà a gonfiarsi aggiungeteci zibibbo, pinoli, scorza di un’arancia candita e lavorate il tutto. Ungete d’olio d’oliva una teglia da forno e adagiatevi, a media distanza, dei panini ovali che avrete ricavato dalla pasta; quindi lasciateli in luogo tiepido per almeno sei ore. Spennellare i maritozzi con un uovo sbattuto. Infornare per circa 10-15 minuti a 200°C (forno preriscaldato). Intanto sciogliere in un pentolino zucchero e acqua ed a cottura ultimata spennellare i maritozzi con questo sciroppo, lasciandoli asciugare prima di consumarli.

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Nome del piatto: Il Pangiallo

Foto del piatto

• Origini e storia: Il nome pangiallo deriva dal fatto che anticamente, questo dolce era ricoperto esternamente con acqua di zafferano che conferiva il caratteristico colore giallo. E’ un dolce caratteristico del periodo natalizio. Il Pangiallo nel passato non era un dolce, ma uno dei tanti pani speziati rituali - così chiamato per la presenza di zafferano, che gli conferiva il caratteristico colore - come il "Pane del Vescovo", il "Pane dolce di Bomarzo", la "Pizza di Natale della Tuscania", preparati in occasione del Natale, considerato il giorno del pane. La ricetta che si presenta è quella del Pangiallo attuale, molto simile al Panpepato, che era un antico dolce di miele, canditi, spezie, pepe e mandorle. Verona e Siena si contendono la primogenitura di questo pane che risale al Duecento e che deriva forse dal "Panspeziale" medievale e quindi più vicino a un dolce che non al pane.

• Tipo: Dolce Elaborazione:

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• Ingredienti: 200 g di farina 20 g lievito di birra 1kg e mezzo di zibibbo sciroppo di zucchero 350g di scorzetta di cedro o d’arancia canditi 200g di pinoli 200g di mandorle un misto di cannella,noce moscata ,chiodi di garofano in polvere 4/5 cucchiai di olio extra vergine d’oliva

• Ingredients (for 8 serves):

200g flour, 20 yeast of beer, 1 kg sultanas, sugar syrup, 350 citron or orange zest, 200 g pines, 200g almonds, a mixture of: cinnamon, nut megs, ground cloves, 4\5 spoon olive oil.

• Svolgimento della

ricetta: Impastate la farina e il lievito con acqua tiepida e sciroppo, fino ad ottenere una pasta più morbida di quella del pane. In seguito aggiungete tutti gli ingredienti e cosi otterrete una pagnotta che lascerete riposare per una intera notte in un luogo tiepido. La mattina dopo fate una sfoglia con un po’ di farina, acqua, olio, un pizzico di spezie e un po’ di zucchero, che stenderete sui pani. Cuocere in

forno a fuoco vivace. Togliere quando avranno assunto un colore dorato

• Method: Incorporate the flour and the yeast with the water and the syrup. After add the other ingredients for obtain a round loaf and let it rest for a night in a warm place. Make a batter with the flour, water, oil, spices, sugar and roll out on the round loaf. Bake it at 200°c for 35mins.

Nome del piatto: Zuppa alla romana

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Foto del piatto

• Origini e storia: Nonostante il nome le origini della “zuppa inglese” sembra che siano italiane. Ferraresi, per la precisione: all’antica, nobile città emiliana spetta il merito di aver rielaborato in maniera creativa l’originale ricetta britannica, sostituendo la maggior parte degli ingredienti, e dando vita a quell’insieme equilibrato e armonico di sapori, divenuto poi la specialità dolciaria locale. La storia della zuppa inglese comincerebbe, nel sedicesimo secolo, alla fastosa corte dei Duchi d'Este Frequenti erano i contatti con la casa reale inglese; e sembra che fu proprio uno dei diplomatici estensi, di ritorno da un lungo soggiorno a Londra, a descrivere il favoloso dolce (il trifle, appunto) che lo aveva deliziato in occasione del suo viaggio oltremanica. I cuochi della corte ferrarese provarono a riprodurre la ricetta ma, trovandosi nell’impossibilità di reperire gli ingredienti originali, finirono per rielaborarla con le materie prime che avevano a disposizione. Alla pasta lievitata sostituirono così la “bracciatella” (una morbida ciambella lievitata tipica della cucina emiliana, che si usa consumare accompagnata da vino dolce) e alla panna subentrarono due diversi tipi di creme, una pasticcera e una al cioccolato. Era nata così la zuppa inglese. Nel corso del tempo la ricetta subì ancora qualche modifica: il delicato pan di Spagna prese il posto della bracciatella; per renderlo ancora più gustoso si pensò di inzupparlo con vari liquori, tra cui alchermes e cognac. Man mano che il dolce diventava famoso e oltrepassava i confini di Ferrara, cominciarono a fiorire le diverse varianti come quella alla romana senza panna e con uno strato di meringa.

• Tipo: Dolce • Elaborazione:

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• Ingredienti: 400g di pan di Spagna 400g di crema pasticcera 3 albumi 3cucchiai di zucchero a velo alchermes e rhum per bagnare

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• Svolgimento della ricetta: Tagliate a fette il pan di spagna e bagnatene una parte con il rhum, l’altra con l’alchermes. Disponete delle fette sul fondo di un pirex e copritele con la crema pasticcera . Proseguite con gli strati alternando i sapori e terminando con uno strato di crema. Montate gli albumi con lo zucchero, ricopritene la zuppa inglese e passatela nel forno a 150° per circa 20 minuti

TERZA PARTE

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Piatto:____________________________ Indicatori Scadente

1 Mediocre 2

Sufficiente 3

Buono 4

Ottimo 5 Punti

Aspetto

Qualità

Aromaticità

Cottura

Sapidità

Realizzazione

Totale

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Gli allievi terminata la preparazione hanno assaggiato alcuni piatti e, utilizzando la scheda di assaggio allegata, hanno dato un punteggio di preferenza. Si è così stilata una graduatoria facendo una media tra i punteggi assegnati: BACCALA’ IN GUAZZETTO 28/30 TRIPPA ALLA ROMANA 26/30 SALTIMBOCCA ALLA ROMANA 25/30 ABBACCHIO AL FORNO 25/30 PASTA ALLA GRICIA 24/30 CROSTATA DI RICOTTA 23/30 CARCIOFI ALLA ROMANA 23/30 GNOCCHI DI SEMOLINO 23/30 PASTA E BROCCOLI 23/30 ZUPPA ALLA ROMANA 21/30 VERDURE GRATINATE 17/30 BACCALA’ IN GUAZZETTO INDICATORI PUNTI Aspetto 5/5 Qualità 5/5 Aromaticità 4/5 Cottura 5/5 Sapidità 5/5 Realizzazione 4/5 TOTALE 28 TRIPPA ALLA ROMANA INDICATORI PUNTI Aspetto 4/5 Qualità 4/5 Aromaticità 4/5 Cottura 5/5 Sapidità 4/5 Realizzazione 5/5 TOTALE 26 SALTIMBOCCA ALLA ROMANA INDICATORI PUNTI Aspetto 4/5 Qualità 4/5 Aromaticità 4/5 Cottura 5/5 Sapidità 4/5 Realizzazione 4/5 TOTALE 25

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ABBACCHIO AL FORNO INDICATORI PUNTI Aspetto 5/5 Qualità 4/5 Aromaticità 4/5 Cottura 4/5 Sapidità 4/5 Realizzazione 4/5 TOTALE 25 PASTA ALLA GRICIA INDICATORI PUNTI Aspetto 4 Qualità 4 Aromaticità 4 Cottura 3 Sapidità 5 Realizzazione 4 TOTALE 24 CROSTATA DI RICOTTA INDICATORI PUNTI Aspetto 4 Qualità 3 Aromaticità 4 Cottura 4 Sapidità 4 Realizzazione 4 TOTALE 23 CARCIOFI ALLA ROMANA INDICATORI PUNTI Aspetto 4 Qualità 4 Aromaticità 3 Cottura 4 Sapidità 4 Realizzazione 4 TOTALE 23 GNOCCHI DI SEMOLINO

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INDICATORI PUNTI Aspetto 4/5 Qualità 4/5 Aromaticità 4/5 Cottura 4/5 Sapidità 3/5 Realizzazione 4/5 TOTALE 23 PASTA E BROCCOLI INDICATORI PUNTI Aspetto 3/5 Qualità 4/5 Aromaticità 4/5 Cottura 4/5 Sapidità 4/5 Realizzazione 4/5 TOTALE 23 ZUPPA ALLA ROMANA INDICATORI PUNTI Aspetto 3 Qualità 3 Aromaticità 4 Cottura 4 Sapidità 3 Realizzazione 4 TOTALE 21 VERDURE GRATINATE INDICATORI PUNTI Aspetto 3 Qualità 4 Aromaticità 2 Cottura 3 Sapidità 3 Realizzazione 2 TOTALE 17

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QUARTA PARTE

Classe III A a.s. 2005/2006

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I PROTAGONISTI A LAVORO

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LE PROVE DI ASSAGGIO

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ΒΙΒΛΙΟΓΡΑΦΙΑ Sofia La Francesca: “Alimentazione storia e problemi”. Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. 2002 Salvatore Faro: “Proposte operative di alimentazione sala-bar e cucina. Editrice S. Marco “Breviario della cucina e dei prodotti romaneschi” , ARM (Azienda Romana Mercati) Ministero dell’Agricoltura e Foreste: “L’Italia dei formaggi DOC” a cura dell’UNALAT in collaborazione con l’INSOR. Franco Angeli ARM, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Roma: “Antichi romaneschi a tavola” realizzata a cura della Società Geografica Italiana Roberto Rubino: “I formaggi di Roma e la tradizione casearia della campagna romana” ARM Corriere della Sera 19 ottobre 2005: “La grande cucina regionale” Liana Canichella: relazione dal titolo: “La ristorazione collettiva, opportunità ideale di recupero e di rilancio delle tradizioni, dei gusti, dei valori gastronomici locali” XXVIII Convegno di studio sulla ristorazione scolastica, sanitaria e comunitaria; Sicurezza, tradizione, innovazione per la qualità a tavola nella scuola e nelle collettività Roma 20 novembre 2004 Fiera di Roma La Repubblica 7 febbraio 2006: “Prodotti tipici, il bollino della discordia” Progetto pilota Leonardo da Vinci “PRO TERRIS”: Tecnico superiore per la valorizzazione dei prodotti del territorio e delle risorse naturali e culturali” Report fase II . http://freeweb.supereva.com/aldofabrizi/ricette http://www.superdossier.com/dossierframeleft/gastronomia/cucinetipiche/lazio http://www.emmeti.it/Cucina/Lazio/Storia/Lazio.ART.106.it. http://www.iprimiditalia.it/showPagina.php?idNews=84

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