Ravello 1234 Di Renato Papale - Però Ch’Amore No Si Po’ Vedere…

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    Ravello 1234

    Però ch’amore no si po’ vedere…-------------------

    Questo racconto è in gara in un concorso europeo.Il tema è un edificio storico. Io ho scelto la Villa Rufolo a Ravello.

    Qui è il link  alla paginaVOTAMI ! (mi raccomando: 5 stelle, non una di meno!)...

     “ Amo chi nasce giovane!”. La frase declamata a voce alta le era sgorgata spontanea,insieme al sorriso che le riempiva la faccia, mentre scalzava le lenzuola e gioiosa si alzavadal letto. La luce dell’aurora riflessa dal mare, attraverso le grandi finestre appannate,riempiva del colore d’arancio la sua camera.

    La servetta la guardò stupita. Sigilgaida si rese conto all'istante di quanto poco sensoavesse quell’asserzione, che pure esprimeva in pieno il suo pensiero. Come se dovesse inqualche modo chiarire, aggiunse: “ Ammiro assai le persone che per tutta la vita sannomantenersi curiose e sincere, come sei tu ora, piccola Maria... Aiutami a pettinarmi ”.

    Non a Maria era rivolto il suo pensiero, ma a Messer Pietro: tra poco l’avrebbe rivisto, dopocosì tanti anni. Sapeva bene che, più che l’eccitazione per la grande festa che da mesistava organizzando e che si sarebbe tenuta la sera, era quella gradita presenza il motivodell’improvvisa allegria giovanile.

    Con sua immensa sorpresa, l’arrivo di Pietro in casa sua le era stato rivelato la seraprecedente, quando era già molto tardi, e lei era già preparata per la notte. A stento avevapotuto trattenersi, come le convenzioni imponevano, dal correre subito ad accoglierlo. Leiin veste da camera, lui in abiti da viaggio… quale profonda scortesia sarebbe stata, qualeimbarazzo per tutti!

    Pietro era arrivato a cavallo, da Napoli, insieme a Messer Nicola, concedendo una pausa aiconvegni giuridici dello Studium. Un grande regalo le aveva fatto il marito, a convincere ilLogotheta di Sua Maestà l’Imperatore ad arrampicarsi con lui fino a Ravello, per onorare iconcerti ed i balli in casa Rufolo!

    Maria spazzolava i capelli chiari di lei, e li raccoglieva e legava in sottili ciocche che poi, atre a tre, avrebbe annodato in lunghe trecce da avvolgere sulla testa, a conocchia. E facevaattenzione a spingere i fili bianchi nel mezzo di quelli ancora biondi, perché non apparisseroalfine nell’acconciatura. Muovendo il piccolo specchio a mano, Sigilgaida si ammiravasoddisfatta, dal basso, dall’alto, di profilo; e poco le importava oggi di quei capelli cheschiarivano, perché l’avvicinavano alla maturità dell’amico che con impazienza attendeva dirivedere.

    Chioma bionda, occhi verdi, alta quanto un uomo: il suo corpo dichiarava da sé la nobilediscendenza normanna; ma il suo cuore, la sua istruzione, la sua parlata, facevano di leiuna donna di cultura aperta e moderna, fieramente araba.

    Messer Pietro le riportava indietro la memoria, alla sua infanzia. Alla sua meravigliosa e

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    brillante città di Palermo; alle interminabili mattinate di studio dei classici latini, nelchiostro della Cattedrale; alle giornate passate a Corte, nello splendore delle mille e unastanze del Càssero intarsiate di mosaici multicolori, occupata a discorrere in arabo e ingreco con ospiti e ambasciatori portati dal Mare; ai pomeriggi trascorsi a perdifiato, a piedinudi nella Kalza, tra i vicoli dal tracciato ricurvo ed involuto come l’eloquio arabo, viuzzestrette incise nella pietra di Palermo come su una pagina di al-Quran.

    Ed infine alle serate estive, sotto la luna nei giardini di Genoàrd profumati di zagara, lungoi corsi d’acqua e le fontane della Cuba, ad esercitarsi al liuto. Lei a toccare le corde,mentre una variegata platea di eruditi (e talvolta, tra loro, lo stesso Federico), misuravanoil suono dei loro versi in quella lingua dei volgari, nella quale gente del popolo colto e nobilidi corte erano usi stimolarsi a vicenda e gareggiare, in un gioco di intelligenza e dipassione, di scaltrezza (e talvolta di insolenza verso l’autorità) nel quale tutto erapermesso declamare, anche ciò che altrimenti sarebbe stato punito, purché fosse recitatoin versi, nel nome dell’Amore e dell’Arte… e quasi sempre c’era ad ammirarla in quelle nottiil tenero e gradevole Messer Pietro; il più dotto nelle argomentazioni, il più sincero e sicuronei giudizi.

    Per quella serata di fine estate a Ravello, Sigilgaida aveva organizzato nel suo giardinoqualcosa che sperava fosse all’altezza dei suoi ricordi. Lei avrebbe troneggiato in quellanotte, al pari di Federico, indossando in pubblico il diadema che Nicola aveva fattopreparare, d’oro tra i suoi capelli un tempo d’oro. Foggiato a gusto bizantino, comebizantino era il gusto ed il pensiero del suo nobile marito. Lei, per sé, si sarebbe invecedisegnato un monile di tratto leggero e floreale, al tempo stesso Arabo e Romano… mapoco importava: quel gioiello comunque stava ad affermare ciò che a tutti era già chiaro:che lei era Signora di quelle costiere e delle Terre d’Amalfi.

    Una serata di musica, programmata in una notte di luna piena, per l’inaugurazione diun’altra nuova ala della Villa. Una manifesta dichiarazione di potenza e di ricchezza, urlata

    alle stelle di tutto il firmamento, al Mare che la Villa già sovrasta e, non ultimo, ainumerosi vassalli che da giorni le inviavano omaggi e versi di canzoni, desiderosi di essereammessi a partecipare.

    E adesso, l’inaspettata presenza a quell’evento della più grande personalità del Regno, dopoFederico stesso: Messer Pietro da Vigna. Non era soltanto la soddisfazione di accogliere ilNotabile che eccitava Sigilgaida, ma il piacere di rivedere il suo antico maestro, l’uomoammirabile, il visionario edotto in ogni cosa e di ogni cosa esperto, eppure modesto ed’animo buono, socievole con ogni persona, disponibile a parlare con ognuno ed ascoltaretutti… insomma, l’amico che le mancava da tempo.Una smania all'istante la prese: non c’era più tempo da spendere a pettinarsi.

     “Finiremo l’acconciatura più tardi, Maria”. Si alzò dal suo sedile. Avvolse il corpo in unchador di seta pesante del Catai a disegni multicolore, un lembo del quale copriva anche latesta e la sua pettinatura ultimata a metà. Ed uscì nel giardino, in direzione della terrazzasul mare.

    Fuori, sempre maggiore era il chiarore del cielo. Un coro assordante di mille differentiuccelli, annidati tra i rami delle acacie e delle querce salutava l’oramai imminente ritornodel Sole. Il profumo dei limoni, coltivati a terrazza tra la villa e la sommità del colle,copriva quello della brezza marina. Sotto la torre antica padronale in massiccia muratura dipietra calcarea, stavano allineati gli edifici più recenti ed aggraziati, nelle cui forme adarchi intrecciati danzavano leggeri il tufo giallo di Pozzuoli, il grigio di Cuma e il verded’Epomeo. Le pitture con colori ad acqua esaltavano la delicatezza delle linee curve. Nonc’era un minimo elemento di quelle strutture, decorativo o funzionale, che lei non avessediscusso personalmente e a lungo col capomastro. Per la scelta dei materiali, della forma,del disegno, della prospettiva.E, giustamente, del frutto di quei lavori andava fiera.

    Non aveva mai avuto occasione, come avrebbe gradito, di visitare le grandi città d’Islam,ma ne conosceva (o ne immaginava) le forme ed il paesaggio, dalle sue letture e dairacconti dei molti viaggiatori che aveva incontrati a Palermo o che riceveva nelle terred’Amalfi. Vedeva chiaramente nella mente la meraviglia di quelle moderne composizioni

    architettoniche, il funzionamento di quei sistemi di circolazione dell’acqua nei giardini edell’aria nelle abitazioni, per averne discusso con i suoi architetti fatimidi e nel ricordo delpalazzo di al-Aziz in Palermo. A quegli schemi si era ispirata per ampliare la villa di suomarito.

    Attraversò lo snello colonnato del chiostro, sottile e slanciato come una foresta di stelifrondosi di papiro irrigiditi nel marmo di Carrara, tuffandosi in un’orchestra di molti ediversi profumi. Una folla di serventi stava già in alacre attività preparando e irrorando conschizzi d’acqua dai catini, con gesti rapidi, le numerose composizioni di fiori freschi e tralcid’alloro da collocare sulle balaustre, sotto i tendaggi dove sarebbe stato apparecchiato ilbanchetto, sui palchi in legno preparati per il concerto e lungo tutto il percorso degli ospiti.

    E poi di nuovo all’aperto, tra ruscelletti artificiali inondati di petali freschi, e fontane ezampilli, di lato alla spianata aperta verso il mare da cui si accedeva al nuovo cantieredelle opere di recente ultimate. Il suono squillante dell’acqua si mescolava alla voce e aicanti dell’imam, che stava officiando la preghiera del mattino per le maestranze

    inginocchiate sui tappeti, tutti rivolti verso Est. Scavalcando il crinale dell’aguzzo monteFalerzio, che da sempre ospita rovine di edifici sacri ad antiche religioni, Il sole inquell’istante stava sorgendo, illuminando le figure umane allineate, nei loro lenti gestirituali. Sembrava un culto antico, di saluto al carro d’Apollo che quotidianamente ci riportail sole mattutino… come forse nel tempo antico si recitava all’alba, e proprio in questoluogo.Sigilgaida scacciò questo pensiero pagano e scosse la testa.

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    Oltre gli uomini in preghiera, stavano allineati i profili di altri volumi ordinatamenteintrecciati: quelli dei nuovi Bagni appena costruiti, che stasera sarebbero stati inaugurati.C’erano stanze con acque fredde e termali, sale per uomini e per donne, locali dimassaggio, di cura, di riposo; sedili e lucide vasche maiolicate in disegni ora floreali orageometrici, nei colori del giallo cromo, del verde ramina, che risaltavano sull’ingobbiobianco di caolino. Nessuno degli ospiti ne sarebbe rimasto deluso. Aveva scelto leipersonalmente ogni decoro, ogni arabesco di frutti o di animali, perché ciascun locale fossediverso e collegato al precedente ed al seguente in un percorso di affinità di stili e di colori.

    Appena alla sua destra, oltre il grosso tronco di un secolare cedro d’Oriente, si apriva laterrazza, a cui si accedeva scendendo una breve scalinata. Sigilgaida appoggiò la mano aquella ruvida corteccia accarezzandola, perché ne restasse sul palmo il dolce profumoresinoso. E sporse la testa per sbirciare.

    Da un lato del belvedere stava la lunga tavola, che aveva richiesto di far apparecchiare perla colazione. Fichi, mandorle, miele e ricotta erano disposti in abbondanza tra grandi fettedi pane caldo e fragrante, uscito appena dal forno delle cucine. Come lei aveva ordinato(senza chiedersene il motivo), nessun servitore attendeva alla mensa.

    Pietro era da solo, in piedi, di lato alla balaustra che affaccia sul mare, vestito con abiti damattina semplici ma con molta cura, come conveniva al suo rango. I capelli incanutiti emolto più radi, la barba fitta, la figura appesantita lo facevano molto diverso dal ricordo.Ma qualcosa di quell’uomo lo rendeva inconfondibile dopo molti anni: lo sguardo vivace concui conquistava ciò che guardava.

    Pietro si era alzato presto. Non era la colazione a riscuotere il suo interesse, e nemmeno lastraordinaria vista sul golfo, che pure stava fissando: era lì per aspettare lei. E lei simostrò, in pieno sole, avvolta di seta. Ferma, di lato al cedro in cima alla scalinata. Non civolle più che un istante perché Pietro alzasse la testa, le sorridesse e la catturasse tutta

    intera nei suoi occhi; per poi seguire con attenzione e impazienza la sua figura scendere ipochi gradini.

    Alcuni piacevolissimi secondi e quindi se lo trovò di fronte. Le era venuto incontro;accennando un inchino le stava tendendo la mano, per aiutarla nell’ultimo scalino.

     “Quale grande onore ci fate, Messer Pietro, con questa Vostra improvvisata. La miafamiglia Vi è molto grata. Come sta Vostra moglie Costanza? ”. Sigilgaida era meravigliatadi sé stessa e di quello che stava dicendo... dopo anni di lontananza e di nostalgia, le primeparole di benvenuto che sapeva rivolgere all’amico erano per ricordargli ciò che liseparavano: la famiglia di lei, la moglie di lui. Se Pietro avesse ricambiato facendo le lodidi Messer Rufolo, l’incanto di quella mattina sarebbe immediatamente svanito.

    Ma Pietro fu assolutamente perfetto: si scusò brevemente per l’assenza di Costanza (ladecisione di partire per Ravello era stata troppo rapida per poter preparare una carrozza,ma la moglie salutava e porgeva gli auguri; e si augurava di averla presto ospite nel loro

    palazzo di Napoli, affacciato sul Cardo Maggiore…) e subito rivolse tutta l’attenzione allasua ospite, riempiendola di complimenti per il suo splendido aspetto, di come ritrovasseuna Signora assai più incantevole di come lui ricordasse la giovinetta in età da marito che

     “lo” aveva lascia to per salpare da Palermo verso Amalfi. E di ammira zione per la sua casa,di come l’avesse concepita, nella complessità imposta dalla costa scoscesa del colle…Si! Parlando dei tempi di Palermo, Pietro affermava con intenzionale noncuranza di esserestato lasciato…

    Sigilgaida si costrinse a giudicare quelle parole come uno scherzo, e non volle darglirilievo. Ringraziò invece dei complimenti. Soprattutto la lusingava sentirsi apprezzare per ilsuo gusto nell’ideare gli spazi ed equilibrare i volumi fabbricati. Sapeva di avere finalmenteun interlocutore intelligente e attento, e quindi non si fece scrupolo di addentrarsi nelladescrizione di come avesse indirizzato le sue scelte generali e posta attenzione ai moltiparticolari.

    Ma mentre parlava di forme d’arcate e di colori delle pietre naturali, non poteva impedirealla sua mente, sollecitata dalle parole di Pietro, di tornare a quei giorni di grande

    fermento, molti anni prima, quando nel porto di Palermo giungeva da Amalfi il riccomercante Nicola Rufolo con metà della sua flotta. Quasi avesse l’ardire di un corsaro, quelgiovane schietto, bruno e riccioluto era lì per incontrare la famiglia Della Marra e chiederela mano della più ambita delle fanciulle dell’aristocrazia di Palermo.

    Era stata grande l’eccitazione con cui Sigilgaida aveva affrontato quel matrimonio e poiquel breve viaggio per mare verso la sua nuova vita, che immaginava appagante eavventurosa.No! Non aveva poi avuto l’avventura.

    Ma Nicola in fondo le aveva dato tutto ciò che le era stato promesso: non scorrerie perl’oceano verso misteriose terre ma una molto rispettabile posizione, una famiglia, dei figli,la piena indipendenza e la sovranità sulla sua casa e su quello spicchio di Mondo col qualela natura era stata così generosa…

    Davanti a lei non c’erano più i suoi sogni di ragazza ma stava Pietro, che arricchiva quella

    conversazione d’architettura che lei aveva iniziato, descrivendole le migliorie che volevaapportare alla sua casa di campagna.

    Il paese di Vigna da cui proveniva, vicino Capua, al Ponte d’Annibale, era minuscolo: pocopiù che una masseria fortificata. Non distante da quello, in aperta campagna, lui avevafatto edificare un casale, sopra le antiche cisterne Romane alle pendici del boscoso colledel Tutulo. E aveva richiamato da Palermo maestranze per acconciarlo come casa di svagoe di caccia. Le raccontava dei giochi d’acqua che aveva architettato per il giardino, e di

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    come avrebbe voluto mostrarglieli e godere insieme della loro vista. Anzi di più: di comeavrebbe desiderato poterli progettare insieme. Di come, ideandoli, lui avesse cercato diimmedesimarsi nel gusto e nella capacità d’invenzione di lei…

    Sigilgaida era stupita ed incantata. Aveva sempre riconosciuto (compiacendosene)un’affinità di pensiero con quell’uomo che ammirava. Ma constatare che anche lui ne avessecoscienza e che l’apprezzasse, fu una rivelazione. Ciononostante non tradì alcuna sorpresa,e abbandonò il discorso.

    Pietro stava tirando fuori da un risvolto dell’abito un foglio di pergamena. Glie lo porse conevidente compiacimento: era un sonetto. Sigilgaida lo prese, lo srotolò e iniziò ad altavoce: “Però ch’Amore no si po’ vedere /e no si tratta corporalemente /manti ne son di sìfolle sapere /che credono ch’Amor sia niente…”

     “L’ho scritto per Voi. Voglio dire, intendo meglio: per contribuire al Vostro concerto di questa sera. Sono venuto a portarlo di persona. Spero vogliate scegliere Voi stessa lamusica adatta…”

     “Quale ulteriore sorpresa ci fate, Messer Pietro. Qui siamo lontani da Palermo, ma noncrediate che non ci arrivi notizia di ogni novità nel campo letterario. Poco purtroppoabbiamo letto di Voi, in questi anni, e la cosa ci ha rattristato grandemente… Ora vedo unVostro fresco sonetto sulla materia di cui è fatto l’Amore… e lo tengo nelle mie mani… chegrande commozione!Ci ha appassionato la recente disputa tra il falconiere Jacopo Mostacci e il nobile Giacomoda Lentini, sulla natura dell’Amore… Messer Pietro, questa vostra composizione ci svela il Vostro convincimento in quella tenzone? ”

     “Certamente, mia Signora. Quello che scrivo è ciò di cui ho convinzione. Io credo che Amore sia la forza che pervade tutta la Creazione Divina. Amore attira i corpi e le stelle del 

    Cielo e dona loro il movimento. Amore attira il mio ed il vostro corpo verso questo mare profondo che ci rimane da basso, oltre la scoglier a. Ed è soltanto un’esile balaustra che ci sostiene e protegge dal salto.

     Amore attira verso il basso ma anche verso l’alto, e sostiene il mio pensiero.Ha indirizzato in questi anni ogni mia azione solo perché Voi ne aveste notizia; ha ispiratoogni mio scritto solo nella speranza che Voi lo leggeste; ha incoraggiato ogni mia operasolo perché Voi possiate forse un giorno guardarla…

     Amore è la sola forza naturale ed invincibile, mia Signora, che attira il mio pensiero versodi Voi, il mio corpo verso il Vostro…”

    Nella progressione del discorso che aveva tante volte in cuor suo immaginato, ma che nonimmaginava di saper mai pronunciare, Pietro aveva superato ogni indugio che purecontraddistingueva il suo carattere, e aveva finalmente sfiorato la mano di Sigilgaida. Leinon l’aveva impedito. Anzi restava, serena ed immobile, immersa negli occhi di lui.

    Non riconosceva più in quell’uomo l’amico sereno di un tempo, eppure ammetteva di aver

    sempre visto in quegli occhi la forza naturale ed invincibile d’Amore, di cui il sonetto e leparole raccontavano la consistenza. La stessa attrazione che aveva per lei quel mareprofondo, come Pietro precisamente descriveva.

    Immaginò in quell’attimo, come spesso amava fare, di potersi lanciare in un tuffo liberatoreoltre una balaustra irreale verso quell’uomo, come dalla terrazza verso l’ignoto di terre egenti distanti, che si univano a lei attraverso il mare da basso.

    Ma fu solo un attimo. Come le altre volte, d’improvviso se ne ridestò, lodando in cuor suola saldezza della balaustra che la tratteneva dalla follia.

    Temette di arrossire, di dar mostra di qualche debolezza. Improvvisamente si rese conto diquale situazione stava permettendo che si creasse; e per di più in casa sua! Di quanto ilsuo incompleto abbigliamento troppo generosamente stava concedendo alle fantasiedell’amico…

    Con molto garbo rispose a Pietro, ignorandone ogni discorso. Se ne congedò, accampando

    doveri sociali, familiari… un’acconciatura da terminare…

    Con femminile codardia si protesse dietro il nome del marito che, promise, avrebbe inviatoall'istante per tener compagnia all’ospite in sua vece.Pietro restò solo, a maledire se stesso e la stupidità dei suoi sentimenti.

    Messer Nicola non tardò ad arrivare. E fu garbato, amabile ed ospitale nell’intrattenere ilprezioso invitato. Il sole si fece alto, e poi discese oltre il colle alle loro spalle, mentrediscorrevano senza alcuna passione di mercatura e di Diritto, di geografia e di arte,assaggiando frutti freschi, frutti secchi e canditi delle terre campane. Con sollievo, vennel’ora di prepararsi alle feste.

    Curato che ebbe la sua persona, Pietro tornò sulla terrazza che ora, a buio, eraapparecchiata con lampade, palchi, fiori, tendaggi e sedili. Rivide Sigilgaida, già seduta inposizione centrale di fianco al marito. Fu accompagnato a sedersi alla sua destra, nel postoriservato all’ospite d’onore.

    Quella sera fu una serata perfetta: la luna piena non riusciva con la sua luce ad offuscarele innumerevoli stelle che brillavano in alto nel blu profondo del cielo sereno, come inbasso le fioche lampade da pesca disseminate sul golfo dello stesso colore. Musici ecantanti allietarono gli ospiti, che erano perfettamente a proprio agio dopo le visite ai Bagnitermali, da cui erano usciti ristorati da lavaggi e massaggi, ciascuno profumato dall’essenzache meglio ne rappresentava l’umore.

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    Nicola aveva scelto legno di sandalo. Si sentiva padrone della sua vita come un predone deldeserto, appagato e fiero di quella donna che aveva scelto e che gli sedeva accanto.Pietro invece profumava di bergamotto. La cupa ed acre essenza restituiva l’immagine dellasua vergogna ed imbarazzo.

    Dell’aroma di un altro agrume si era rivestita Sigilgaida: del verginale fiore di zagara.Come una vergine si sentiva difatti nuovamente quella notte, libera da vincoli e da ognipena; vestita come la dea Diana o forse nuda come Venere, si immaginava di correre nelgiardino di Genoàrd tra piante ed animali esotici, braccata da versi di poesia cheinseguivano quella sua traccia odorosa. Per poi darsi finalmente, almeno per una notte, alsuo Pietro. Come fosse da ultimo la confidente, la consolatrice, la Musa, l’amante; in unasola parola “la Femmina”, che non era mai stata per lui e che lui aveva continuato afantasticare per anni.

    Questo pensiero riempiva e compiaceva la sua mente. Ma verso il Pietro reale, quello chesedeva al suo fianco, per tutta la sera non scambiò che poche parole cortesi e formali. Unabalaustra di convenienze trattenevano il suo corpo e lo proteggevano da quel tuffo che lesarebbe stato fatale.Sapeva che dopo quella sera non si sarebbero mai più incontrati. E questo, ad un tempo, ledava dolore e sollievo.

    Di fronte a loro, sui palchi, le musiche proseguivano, gaie o melanconiche. Ciascuna di essein quella nottata sembrava bellissima e armoniosa, tanto che un giudizio sarebbe statoinfine arduo.

    Venne il turno del sonetto di Pietro, per accompagnare il quale Sigilgaida aveva sceltopersonalmente le note di una maliziosa cantata popolare di quelle terre.

    Si era raccomandata con i musici di arricchire il preludio di liuto con alcuni accorti assoli di

    flauto, che avrebbero accresciuto l’aspettativa della voce del soprano.La quale, infine, attaccò: con un passaggio lieve e poi un improvviso gorgheggio scandìdistintamente il verso iniziale “Però ch’Amore no si po’ vedere…”.

    Fu in quell’istante che ciascuno dei due, pure distante dall’altro e racchiuso nelle propriecontrastanti emozioni, ebbe simultaneamente l’identico pensiero, a riprova della completaaffinità tra quelle due menti:

     “Quale fortuna sia, ch’Amore no si possa vedere!”…

    Renato Papale, febbraio 2016

    Sigilgaida Della Marra

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