RASSEGNA STAMPA BALCANI - webdiocesi.chiesacattolica.it · vissuto l’esperienza della missione....

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Reggio Terzo Mondo Rassegna Stampa Balcani Delegazione Caritas dell’Emilia Romagna “Pertej detit…” Anno 5 Numero 7 Pagina 1 RASSEGNA STAMPA BALCANI < DELEGAZIONE CARITAS DELL’EMILIA ROMAGNA Sommario Editoriale Pag.2 Condividere la fede: 10 mesi di servizio in Albania Pag.3 Albania: la Chiesa, uscita dalle catacombe, punta sui giovani. Pag.4 E così, comincia il turismo in Albania Pag.6 Giornalisti come soldati Pag.6 Montenegro, un anno dopo Pag.9 UE: in Albania senza passaporto Pag.11 Le vergini giurate Pag.11 Vukovar, divisa da una via Pag.13 Meno cinque Pag.15 Tutti pazzi per Bush Pag.17 Zoran Milanovic, l’erede di Racam Pag.20 Piccolo è bello Pag.21 Albania a stelle e strisce Pag.23 La memoria di Sarajevo Pag.25 Kosovo: Serbia offre autonomia; Ahtisaari: indipendenza nel 2007 Pag.29 Iniziative e appuntamenti - Campi Missionari Estivi Pag.29 - Seminario sul Kosovo Pag.30 Pertej detit... Luglio 2007 Anno 5 Numero 7 ---------------- Comitato di Redazione : - Alessandra Odone - Denis Turci - M M irko Baccarani - Silvia Riva

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Reggio Terzo Mondo Rassegna Stampa Balcani

Delegazione Caritas dell’Emilia Romagna “Pertej detit…”

Anno 5 Numero 7 Pagina 1

RASSEGNA STAMPA BALCANI

<

DELEGAZIONE CARITAS DELL’EMILIA ROMAGNA

Sommario

Editoriale Pag.2Condividere la fede: 10 mesi di servizio in Albania Pag.3Albania: la Chiesa, uscita dalle catacombe,punta sui giovani.

Pag.4

E così, comincia il turismo in Albania Pag.6Giornalisti come soldati Pag.6Montenegro, un anno dopo Pag.9UE: in Albania senza passaporto Pag.11

Le vergini giurate Pag.11Vukovar, divisa da una via Pag.13Meno cinque Pag.15

Tutti pazzi per Bush Pag.17Zoran Milanovic, l’erede di Racam Pag.20Piccolo è bello Pag.21Albania a stelle e strisce Pag.23La memoria di Sarajevo Pag.25Kosovo: Serbia offre autonomia; Ahtisaari:indipendenza nel 2007

Pag.29

Iniziative e appuntamenti- Campi Missionari Estivi Pag.29- Seminario sul Kosovo Pag.30

Pertej d

etit...

Luglio 2007

Anno 5

Numero 7

----------------

Comitato di

Redazione :

- Alessandra

Odone

- Denis Turci

- MMirko

Baccarani

- Silvia Riva

Reggio Terzo Mondo Rassegna Stampa Balcani

Delegazione Caritas dell’Emilia Romagna “Pertej detit…”

Anno 5 Numero 7 Pagina 2

Editoriale

Carissimi amici,prosegue anche nel periodo estivo l’appuntamento con la Rassegna Stampa Balcani. Il Numero 7 di

Pertej detit … si apre con due testimonianza:La prima di Lisa Gandolfi (volontaria del Centro Missionario Diocesano di Reggio Emilia) che ci parla

dell’anno di Servizio Civile Volontario trascorso a Gomsiqe, nella missione della diocesi di Reggio Emilia inAlbania.

La seconda testimonianza, è il testo dell’intervista che Edoardo Tincani (direttore del settimanalecattolico “La Libertà”) ha realizzato nelle scorse settimane durante la visita a Reggio Emilia di Mons. Lucjan

Avgustini (Vescovo della Diocesi di Sapä - Albania).Crediamo sia molto importante ascoltare le impressioni, le sensazioni e le riflessioni di chi vive e ha

vissuto l’esperienza della missione. E’ solo quando si vive con i poveri e si condivide con loro i problemi, che sicapisce qualcosa dei loro drammi.

Nella sezione Iniziative - Appuntamenti trovate: il cartellone con le proposte dei campi missionari chealcune realtà della Diocesi di Reggio Emilia - Guastalla propongono per l’estate 2007 e l’invito per il Seminariosul Kosovo che si svolgerà il 9 luglio alle ore 17.00 alla Casa del Popolo (Firenze) con la partecipazione delProf. Alberto Tarozzi.

In questo editoriale, cogliamo l’occasione per fare i nostri più cari auguri ad Alessandra Odone (membradella redazione di “Pertej Detit…”) che lo scorso giugno si è sposata.Un forte abbraccio e un ricordo nella preghiera da tutti gli amici di CARITAS, RTM e del CMD!

Inoltre vi invitiamo nuovamente a collaborare alla realizzazione della Rassegna Stampa Balcani, anchesemplicemente attraverso la segnalazione di articoli, eventi, corsi, libri, ecc. oppure facendoci pervenire vostrisuggerimenti, osservazioni e proposte. Vi ringraziamo fin da ora della collaborazione che potrete fornirci,ricordandovi che potete scriverci a [email protected] .

Ora vi lasciamo alla lettura della Rassegna Stampa Balcani, augurando a tutti una buona estatemissionaria.

Alessandra, Denis, Mirko e Silvia

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Condividere la fede: 10 mesi

di servizio in Albania

Riportiamo di seguito la testimonianza di

Lisa Gandolfi che ha svolto un anno di

Servizio Civile nella missione di Gomsiqe in

Albania.

Mi chiamo Lisa, ho 20 anni e ho vissuto per 10mesi in Albania ,a Gomsiqe, un villaggio del norddell’Albania, sede della missione diocesana diReggio Emilia…Prima di partire ho trascorso un mese nella casadella carità di “S. Giuseppe”. Dicevano che per chipartiva era obbligatorio conoscere le case ma solodopo averci passato un mese ho capito il motivo…Ho scelto di partire perché mi sono sentitachiamata…c’era una piccola vocina dentro di me,forse proprio quella del Signore, che mi ha dato ilcoraggio di dire “SI, vado e condivido la mia fedecon un altro popolo” e sono partita…i motivi sonotanti ma non si capiscono mai fino in fondo, c’èbisogno di tempo e disponibilità ed è così che siriesce a trovare la giusta via…passo dopo passoseguendo il Signore…In casa della carità ho imparato a vedere il Signorenelle persone più piccole e più deboli, ad aiutarlenelle più semplici cose di vita quotidiana,a farglicompagnia quando si sentivano sole e avevanovoglia di parlare…ad amarle come le ama ilSignore…Dopo il mese intenso in cdc mi sono catapultata inuna realtà completamente diversa…ho iniziato a

conoscere questa realtà diversa per cultura,tradizioni,lingua,storia…Sono partita sicura solo del fatto che dovevomettermi in gioco e affidarmi al Signore (lui giàsapeva tutto)Mi sono trovata da subito come a casa…le personesono state molto accoglienti sia quelle dellacomunità sia quelle del villaggio…Ho “lavorato” soprattutto con i bambini nelcatechismo e oratorio; con le ragazze nel lavorodelle vestine da battesimo e nella “legione di Maria”(momento di incontro di preghiera per le donne eragazze del villaggio); nella visita alle famiglie deinostri villaggi per scoprire i vari disagi e le variepovertà che li colpiscono cercando poi di aiutarlecome ci era possibile, e aiutando il don nellecelebrazioni del sabato e domenica.Ripensando un po’ a questa esperienza (difficile dariassumere in poche righe) ho trovato alcuni valoriche mi hanno aiutata…

Innanzitutto la fede, la capacità e la volontà dicredere nel Signore, di fare quello che lui michiede… il coraggio di buttarmi perché anche sequalche volta sbaglio lui c’è sempre ad aiutarmi…non c’è stato bisogno che io facessi coseimpossibili, ma ero lì con loro facendo ciò di cuic’era bisogno, condividendo la vita di tutti i giorni

con chi è più povero…La carità… servire gli ultimi, ascoltarli, dedicare aloro il mio tempo coinvolgendoli nella mia vita,amarli…loro ti danno tutto quello che hanno, siprivano del loro cibo per offrirtelo, per essereospitali…i bambini offrono il loro sorriso,unabbraccio, camminano dandoti la mano… per certepersone possono sembrare cose inutili senzaimportanza ma per me è la cosa più bella…amare edessere amata…

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Il rispetto…sono andata in un paese totalmentediverso dal mio, un altro mondo ad un’ora di aereodall’Italia…il rispettare la loro tradizione, anche sealcune volte dato che sono una ragazza significavaevitare atteggiamenti per noi normali, mi ha aiutataad essere rispettata a mia volta e a sentirmi semprepiù membro di una grande famiglia…

La vita comunitaria, scandita giorno per giornodalla preghiera, dai momenti di lavoro, diconfidenza,di gioco e di difficoltà…persone cheprima non si conoscevano neanche, o comunquemolto poco, si sono trovate a condividere le stessecose a vivere sotto uno stesso tetto…personecompletamente diverse per carattere,età che si sonotrovate per un unico motivo…il Signore.

Lisa Gandolfi

Volontaria del Centro Missionario Diocesano

di Reggio Emilia

Albania: la Chiesa, uscita dalle

catacombe, punta sui giovani

Mons . Luc janAvgustini è statonominato vescovodi Sapë (Albania)sei mesi fa (12dicembre),r i c e v e n d o l aconsacrazione il 5g e n n a i o d iquest’anno.Ma per diversotempo,all’indomanidell’ordinazionepresbiterale(avvenuta il 15 agosto1989), si è occupato proprio di editoria cattolica,preparando libri liturgici in lingua albanese escrivendo articoli per la rivista Drita ("Luce"), nonsenza ostacoli di natura politica.Nato in Kosovo (ex Jugoslavia), mons. Avgustini,44 anni, ha studiato a Zagabria (oggi capitale della

Croazia) e dal 1994 lavora in Albania comesacerdote fidei donum. In particolare, è stato primaparroco poi vicario generale nella diocesi di Scutari.A Gomsiqe e dintorni, dove la nostra diocesi ha lasua missione, ha conosciuto don Carlo Fantini,attuale vicario generale a Sapë, e il diacono AntonioFerretti, presenze stabili di una Chiesa fortementemissionaria come quella reggiano-guastallese.

Eccellenza, qual è il significato della sua venuta

nella nostra diocesi?

Nel 50° dell’enciclica Fidei donum (1957), tra iprimi atti del mio episcopato ho desideratoincontrare i Vescovi dalle cui diocesi provengono isacerdoti che lavorano a Sapë. Ho iniziato daReggio Emilia. Devo ringraziare il VescovoCaprioli, e con lui Caritas e Centro Missionario, peril clima di accoglienza che qui si respira e perchéportano davvero la missione nel cuore. Nella visita(19-26 giugno, ndr) sono rimasto colpito anche dallevostre Case della Carità, dalla pastorale per imigranti e dal paziente lavoro di questa Diocesi afianco dei detenuti della casa circondariale edell’Opg. In carcere ho sentito dire, nella mialingua: “Solo la Chiesa si ricorda di noi”. “Unalbero che cade fa più rumore di una foresta checresce”, si dice, e così un intero popolo, quelloalbanese, rischia di essere identificato con chi hacommesso crimini…Ma agli albanesi che vivono qui, in questi giorni, horipetuto che, nonostante le diversità culturali,formiamo un’unica famiglia, riunita nella Chiesa.

Che diocesi è Sapë?

Fino al 2000 la diocesi di Sapë era sotto la curadell’Arcivescovo di Scutari come “sede vacante”.Poi mons. Dodë Gjergji vi è stato nominatoamministratore apostolico e, nel 2006, pastore. Iogli sono subentrato un anno dopo, quando è statodestinato al Kosovo. Oltre a me operano a Sapëquattro preti albanesi, tutti ordinati dopo il 2000,altrettanti sacerdoti dall’Italia e tre religiosi: uncappuccino, un francescano (dei frati minori) e unrogazionista, benché non residenti.Il territorio, vasto più o meno come la provincia diReggio Emilia, è per il 70% montuoso. Gli abitantisono 200.000, per metà cattolici e per metàmusulmani. I cattolici vivono prevalentemente nellepianure.

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Come giudica i rapporti interreligiosi?

In diocesi sono decisamente buoni. In zonelimitrofe qualche elemento fondamentalista hatentato di infiltrarsi, ma non ha attecchito. Pensi chealla mia ordinazione episcopale erano presenti duemuezzin, un imam e due sacerdoti ortodossi.

Quali sono le sue prime preoccupazioni

pastorali?

Il problema più sentito dai fedeli che ho visitato è lamancanza di sacerdoti, specie in montagna. Ci sonovillaggi in cui la Messa si celebra una volta al mese.Meno male che in queste zone, le più povere delladiocesi, prestano servizio le suore francescane delSacro Cuore: due italiane, una filippina eun’indiana. Queste religiose, presenti da 14 anni,offrono un formidabile aiuto sia pastorale chesocio-assistenziale. Anche i sacerdoti della pianuradanno una mano, impegnandosi periodicamente acelebrare sui monti. Il che non è facile: parliamo divillaggi distanti fra loro, privi di strade, che ininverno restano isolati anche per mesi…

Come vanno le vocazioni sacerdotali?

Il seminario interdiocesano di Scutari vive tempi di“vacche magre”, ma ringraziando Dio ci sonoancora giovani attratti dalla vita consacrata.

Dunque il periodo del regime comunista non ha

soffocato la fiammella della fede?

Sia pure nelle catacombe, e con i battesimiclandestini, la fede è rimasta radicata. Nonni enonne hanno insegnato le nostre preghiere ai nipoti,accettando il grave rischio a cui esponevano lefamiglie durante la dittatura comunista. Lospionaggio era assai diffuso, anche nelle scuole. E ifamiliari dei bambini che mostravano anche solo diconoscere il segno della croce finivano in prigione,minimo 10 anni, o venivano trasferiti nei campi deilavori forzati.

Si può dire che sono stati gli anziani a salvare la

Chiesa albanese?

Si può dire certamente che gli anziani hannoconservato la fede, preservandola dall’invadenzadei lefebvriani, che con la Messa in latino sipresentavano come i veri cattolici (ricordiamo che ifedeli albanesi non avevano neppure sentito parlaredel Vaticano II), dalle errate interpretazioni delConcilio e dalle contaminazioni delle settereligiose.

A livello pastorale, le difficoltà vengono ancor oggidagli atei, nati durante il comunismo, “né caldi néfreddi”. Poi, naturalmente, lavoriamo soprattuttocon le nuove generazioni…

I giovani albanesi sognano di fuggire o

preferiscono restare?

Nei giovani la voglia di andar via è dominante,perché in Albania non vedono una speranza dilavoro. Molti finiscono la scuola e non trovanooccupazione. I posti “pubblici” scarseggiano e, inagricoltura, lo Stato lascia che entrino nel Paeseprodotti agricoli provenienti dalla Grecia o dallaMacedonia, di prezzo e qualità inferiori ai nostri.Purtroppo tanti ragazzi pensano che l’Europa sia la“terra promessa” che vedono in tv: lusso, soldifacili, macchine potenti...

E la Chiesa quali opportunità offre loro?

Soprattutto la fede e l'educazione ai valori. Maanche delle opportunità di formazione e avviamentoal lavoro, così da contribuire allo sviluppo delPaese. Nella mia diocesi esistono per questo duescuole cattoliche riconosciute dallo Stato. La primaè un corso di “agrobusiness”, per valorizzare l’olio eil vino della nostra terra. L’altra è una falegnameria:le attrezzature ci sono state donate da un benefattoredi Albano (Roma) e serviranno a confezionaremobili di pregio e a formare maestranze e operaispecializzati.Dopo l’ateismo di Stato, quali sono le minaccespirituali con cui oggi fate i conti?Il rischio è quello di un ateismo di ritorno, a base diconsumismo, materialismo ed edonismo. I rischi ditutto l'Occidente.

Edoardo Tincani

direttore del settimanale “La Libertà”

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E così comincia il

turismo in Albania…

Un gruppo di giovani albanesi ha creato un

modo veramente originale per fare impresa:

promuovendo il turismo in Albania.

Riportiamo il testo di presentazione che ci

hanno inviato.

“Siamo un gruppo di ragazzi albanesi che vogliamostudiare e lavorare nella nostra Albania, costruendocosi il nostro presente e futuro nel nostro paese.Amiamo la nostra terra e siamo fieri di averla cometerra madre.Siamo convinti che l'Albania è un paese ricco divalori e tradizioni e che dobbiamo essere noi avalorizzarlo ed apprezarlo per primi. È un paesebellissimo che dobbiamo essere noi a costruire, permantenerlo così bello. Questo è il motivo che ci hapor ta to a c rea re il progetto turisticoBathoreBeach.net, che crescendo, insieme a noi, èdiventato VIVALBANIA. Tutto è nato nel 2005 da un'idea pensata perrimanere in Albania a costruire il nostro futurosenza dover cercare "fortuna" in altri paesi.Si concretizza quindi l'idea di dare ospitalità aituristi nelle nostre case, portandoli a scoprire lemeraviglie del nostro paese. Questo ci permettecosì di pagare gli studi e crearci un lavoro per ilfuturo.Dopo la bellissima esperienza dell'estate scorsa,dove abbiamo ospitando più di 80 persone (rimastecontentissime), con tanta voglia abbiamo coinvoltoaltri ragazzi (ora siamo in 14 da tante partidell'Albania) per dare un servizio di accoglienzasempre più completo.

Il nostro progetto è un esempio di come siapossibile creare qualcosa in Albania senza doverandare all'estero. Quest’anno abbiamo allargato ilprogetto facendolo diventare nazionale. Abbiamo creato 6 nuovi programmi che prevedonola visita e la conoscenza di tutta l'Albania.L'ospitalità, la conoscenza della cultura e delle

tradizioni, la possibilità di visitare le bellissimemontagne del nord e il fantastico mar Ionio e tantoaltro ancora… Crediamo fortemente nei nostri sogni, crediamofortemente nelle potenzialita del nostro paese, e contanta voglia, invitiamo tutti quelli che voglionoconoscere la nostra bellissima Albania a contattarciper vivere insieme una vacanza veramente bella. Info:

Sito: www.vivalbania.net

e.mail: [email protected]. 00355.69.23.35.353

I ragazzi di VIVAlbania.net

Bukurie, Artin, Blerta , Elvira, Visar , Rajmonda,

Erjon, Blerta , Marinela, Aleksander , Vjollca ,

Roland, Moxart , Drilona

Giornalisti come soldati

Soldatini fedeli, che giurano sul nome del

padrone? E' questo il futuro del giornalismo

albanese? Il giornalismo tra etica e ubbidienza in

questo commento di Fatos Lubonja pubblicato

sul quotidiano nazionale Bota shqiptare.

In queste ultime settimane, un progetto del governoalbanese riguardante i media, ha riaperto laquestione del rapporto tra i proprietari dei media e igiornalisti che lavorano alle loro dipendenze. Quelloche più mi ha colpito in alcuni dibattiti su questoargomento, è l’infiltrazione sempre maggiore dellaconvinzione che i proprietari dei media debbanocontrollare i propri media, cosa che comunque viene

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applicata ampiamente (per fortuna non da tutti). Siè anche tentato di legittimare questa situazione,mentre di recente sembra si sia a favore di tutelarlacome un palese diritto dei proprietari dei media, esu questo si stanno battendo persino i giornalisti.

Più esplicitamente questa convinzione l’hosentita esprimere da un giornalista durante unatrasmissione televisiva che trattava di questoargomento. Il giornalista ha detto più o meno che seun proprietario di un media è anche attivonell’ambito dell’edilizia, e quindi è interessato aincentivare le costruzioni, allora è più che normaleche il suo organo di informazione promuoval’edilizia. Sempre secondo questo punto di vista, unaltro proprietario dei media, che ha altri interessirispetto a quello precedentemente citato, può anchelui dire la sua e arriveremo così al pluralismo delleopinioni.

Ma com’è possibile ridurre così il ruolo deimedia e dei giornalisti, come sta disgraziatamenteaccadendo ora nel nostro paese delle meraviglie,grazie anche al contributo dei giornalisti? Tenteròdi indicare – senza addentrarmi nei retroscena delpessimo utilizzo dei media, e neanche nei legamitra i media e la politica, ma semplicementepartendo dalla convinzione di suddetto giornalista –solo alcune ragioni per cui non la si può pensare inquesto modo.

Innanzitutto pensare che i media esistanosolo in funzione dei loro proprietari, e non infunzione dei giornalisti che vi lavorano, e che lipongono in essere con i loro sforzi, la loropreparazione e il loro impegno, è un’affermazionedrammatica per quei giornalisti che sono di questaopinione. Anche quando si tratta di produrre mercimolto meno complesse di un giornale o di unatrasmissione televisiva, esse vengono consideratecome frutto del lavoro di un gruppo di persone chevengono remunerate in base ai loro meriti e alcontributo dato, e godono anche dei diritti previstida un contratto, escludendo quindi che una mercesia merito di una singola persona o di alcunepersone isolate.

In secondo luogo, i media, siano essistampati o televisivi, anche se appartengono a unprivato, rimangono sempre parte della cosapubblica. Non bisogna dimenticare che molti mediasono sostenuti anche da diversi sponsor come adesempio AMC (compagnia di telefonia mobileestesa in alcuni paesi balcanici) o Vodafone in basea delle leggi che le esonerano da alcune tasse perfar sì che l’informazione giunga a un pubblico più

vasto. Ma a finanziare i media possono essere ancheenti statali come ad esempio il ministero dellaCultura. Se i media lavorassero solo per gli interessidei loro proprietari, allora sarebbe opportuno che loStato cambiasse immediatamente la legge suifinanziamenti ai media e facesse anche in modo cheenti come il ministero della Cultura non versasserole tasse degli albanesi a questi media.

In terzo luogo: l’utilizzo dei media infunzione degli interessi privati dei proprietari mettea nudo la questione dell’ineguaglianza delle aziendetra di loro, ma soprattutto è preoccupantel’ineguaglianza del semplice cittadino rispettoall’uomo d’affari proprietario dei media. Perché,sempre riferendosi all’esempio di prima, se unproprietario che investe nell’edilizia, può usare isuoi media per promuovere i suoi affari, un comunecittadino o un’associazione di ambientalisti che nevengono danneggiati e che vorrebbero proporrel’altro lato della medaglia, non dispongono deglistessi mezzi per tirare acqua al proprio mulino. Ma c’è qualcosa di ancor più drammatico sela questione la si volge verso un altro aspetto, e sipone il quesito: qual è il ruolo del giornalista neimedia? Qual è la verità del giornalista? Puòquest’ultima distinguersi dalla verità delproprietario oppure bisogna che coincida con essa?Ci si può interamente attenere alla verità, a quellache interessa al pubblico, se si trasmettono solo gliinteressi di alcuni proprietari dei media?

Si rischia che il giornalista si riduca ad unoscrivano, che mette il suo talento da scrivano aservizio di un proprietario. Si finisce per ottenerecosì la figura del giornalista sfacciato che non haidee sue. In Albania questo avviene sul serio e ilnumero dei giornalisti sfacciati o che stanno perdiventarlo sta aumentando in modo drammatico.

Questo tipo di giornalista è anche privo diresponsabilità su quello che dice o che scrive poichéin fin dei conti egli può giustificarsi dicendo chequesta era la volontà del suo capo. Sostanzialmentequesto tipo di giornalista finisce per assomigliare algiornalista dei tempi del comunismo cheovviamente parlava e scriveva in nome del regimeche lo pagava, senza avere né libertà né una suapersonalità. Non è un caso che 45 anni digiornalismo del periodo comunista non abbianolasciato niente e neanche un nome che sia degno diessere chiamato giornalista.

Mi sembra che una buona parte deigiornalisti, in questo nostro capitalismo selvaggio,siano egualmente anonimi e allo stesso tempo

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violatori della verità e del vero interesse delpubblico. Intanto bisogna tenere in considerazioneche neanche negli eserciti dei paesi democraticil’uomo può spogliarsi della sua personalità e dellasua integrità come vogliono fare i proprietari deinostri media, o come fanno da soli i nostrigiornalisti. Un soldato oggi nel mondo democraticoè tutelato per legge e può opporsi all’ordine dicompiere un atto voluto dal suo superiore se per suacoscienza crede che questo possa ledere i dirittidella persona. Invece l’idea di cui si sta dibattendoin Albania sembra mirare a trasformare i giornalistiin soldati ubbidienti incivili che giurano sul nomedel padrone.

Se i media devono lavorare in funzione delloro proprietario, si va a finire che il lavoro delgiornalista valga e venga misurato, e poi anchecompensato, come il lavoro del portavoce delproprietario. Un giornalista verrebbe diconseguenza compensato di più o di meno aseconda del profitto negli affari del suo capo, e diconseguenza è ovvio che uno che investenell’edilizia avrà più mezzi per stimolare i proprigiornalisti rispetto a un’associazione ambientalistache riesce appena a stampare i suoi volantini grazieai finanziamenti che ottiene dagli occidentali – aprescindere dal fatto che le verità del giornalistadell’edilizia abbiano minor peso per il pubblicorispetto alle verità del giornalista ambientalista.

Allo stesso modo non può mai succedere chela verità e la problematica di un pugno diproprietari copra tutta la verità e tutta laproblematica di una società. Si tratta di un settoremolto più ampio e spesso contrastante con gliinteressi degli altri affari dei loro capi. Non solo, lamaggior parte dei nostri proprietari dei media, haavuto ed ha interesse a nascondere molte verità e adesagerarne molte altre, e le conseguenze di questiatteggiamenti si trovano ovunque nella situazionedel comune cittadino che non ha né potere politico,né mediatico, né finanziario per difendere i propriinteressi.

Il danno che ha provocato l’industria edile, dicui i maggiori investitori, sono anche proprietari dimedia, insieme alle violazioni delle leggi necostituiscono un esempio tangibile. Oppure, giustoper fare un esempio, una TV locale di Tiranaqualche giorno fa ha occupato 3/4 del suotelegiornale parlando del fatto che a Scutari leavevano tolto un trasmettitore, che tra l’altro avevainstallato in modo illegale, non tenendo conto chequesta notizia non è la più importante e neanche

l’unica notizia per il pubblico, e neanche la suamaggiore preoccupazione.

Ho elencato solo alcuni argomenti che misembrano sufficienti a provare che il tentativo perlegittimare l’idea che i proprietari possano utilizzarei loro giornalisti come soldati in regime di dittaturain funzione dei propri interessi sarebbe un ulteriorepasso lo sfiguramento dei nostri media e dellamissione mediatica già gravemente sfigurata. Il fattoche anche nel mondo democratico i media ognitanto, qui e là non riescano a sfuggire alle richiestedei loro proprietari privati non può venire usato perlegittimare il male come facciamo noi di solitoaccogliendo e spesso applicando come norma gliestremi del male in occidente.

Il giornalista deve essere una personalità, conuna propria visione del mondo, una sua sensibilità, isuoi sogni riguardo la società, e allo stesso tempodeve essere indipendente dal potere sia politico cheeconomico. I giornalisti che vengono uccisistendendo cronache di guerra o che vengonoliquidati dalla mafia non lo fanno né per iproprietari dei media per cui lavorano, né per i lorosoldi, bensì per una vocazione molto superiore chedà un senso alla loro esistenza sociale.

La verità del giornalista ovviamente non puòessere l’unica verità che vi sia, essa ha da competerecon le verità degli altri, ma la verità del giornalistadeve avere come fonte le sue convinzioni, la suaappartenenza sociale e culturale, e non deve maidipendere dal portafogli del proprietario dei mediaper cui lavora. Altrimenti il giornalista svuota disenso la sua nobile professione, rivestendolo delsenso dell’infima posizione del qehaja (funzionarionel sistema ottomano, sottomesso al servizio deibeg).

di Fatos Lubonja

Osservatorio Balcani 31/05/2007

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Anno 5 Numero 7 Pagina 9

Montenegro, un anno dopo

Circa un anno fa, con un referendum popolare e conuna maggioranza appena sufficiente ma tuttaviavalida, il Montenegro sanciva il suo distacco daquello che rimaneva della ex Jugoslavia di Tito: laconfederazione serbo-montenegrina. Il fattoimportante, più o meno sottolineato dalla stragrandemaggioranza degli osservatori, era stato che tutto siera svolto in maniera pacifica, cosa alla quale non siera più abituati da almeno due decenni nellarisoluzione delle controversie balcaniche. Difficoltàe contraddizioni tuttavia si notano e nel panoramaodierno dei Balcani occidentali, sicuramente alsecondo posto dopo il Kosovo, il piccolo Statoconcentra su di sé molta attenzione, talvoltaaccompagnata da una certa apprensione suipossibili sviluppi politici e sul rispetto dellalegalità.

Indubbiamente il Montenegro vanta unatradizione storica particolare: di fatto sempre alleatodella Serbia dai tempi della comune lotta control’impero ottomano, aveva però perso la propriasovranità dopo la prima guerra mondiale per finireinglobato nel regno dei serbi, croati e sloveni.Anche una parvenza di regno – ripristinata nelcorso dell’occupazione dell’Asse – non avevasoddisfatto le aspettative nazionaliste deimontenegrini e successivamente, dalla rivoltascoppiata nel 1942, si erano gettate le basiinteretniche del movimento partigiano guidato da

Tito. Dopo questo fatto, il legame con la Serbia –almeno nelle dichiarazioni ufficiali – si erarafforzato, ma la crisi degli anni Novanta avevafinito per metterlo definitivamente in crisi. Lasituazione creatasi con la guerra per il Kosovo –quando il Montenegro fu bombardato – era statainfine l’ultimo evento che aveva giocato a favoredei separatisti, fino appunto al referendum delloscorso anno.

Sul Montenegro da tempo grava un’immaginetutt’altro che positiva. In pratica – secondo lastampa internazionale e numerosi altri osservatori –la cosa pubblica è fortemente influenzata daorganizzazioni illegali internazionali colluse con ilpotere politico. In altre parole, alle organizzazionimafiose autoctone, che pure vantano una storiagloriosa, si è ora aggiunta anche la mafia russa einsieme esse esercitano un vero e proprio controllosulla vita politica del piccolo Stato. Le critiche allaclasse dirigente non si fermano però qui: l’ultimaviolenta polemica mediatica riporta all’attenzioneinternazionale il periodo della guerra di Bosnia el’atteggiamento di questa nomenklatura quasiimmortale è stato nuovamente oggetto di accusepesanti e – in una visione occidentale – quasiinfamanti. Numerosi rifugiati bosniaci, sfuggiti allapulizia etnica nel loro Paese, sarebbero statiriconsegnati alla Republika Srpska e di loro èscomparsa ogni traccia. Secondo Dragan Prelavic,che difende alcune famiglie degli scomparsi,nonostante la smentita del ministro della Giustiziadel Montenegro, si tratterebbe al contrario di unodei fatti – o misfatti, in questo caso – piùdocumentati di tutta l’ecatombe balcanica.

Per comprendere meglio la situazioneodierna, diventa indispensabile ripartire dalla datadel maggio 2006, e cioè dall’indipendenza.All’indomani, il primo grande obiettivo politicoespresso, come per altre entità balcaniche, ful’adesione alla Unione Europea e nel novembre2006 la Commissione pubblicava il primo ProgressReport annuale. In tal modo le trattative con ilnuovo Stato riprendevano dopo l’interruzioneprovocata dalla Unione che, a seguito della noncollaborazione serba nei confronti del Tribunaledell’Aja, aveva interrotto le trattative iniziate nel2005, quando cioè il Montenegro faceva ancoraparte della federazione serbo-montenegrina.

A gennaio di quest’anno, nel corso dellariunione dei ministri degli Esteri dell’Unione,venivano stabiliti obiettivi, priorità e condizionidella partnership e alcuni impegni venivano messi a

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scadenza: due o tre anni per le riforme indeterminati settori o tre o quattro in altri. Una prassiinsomma regolare. Il governo del Montenegro nelfrattempo individuava alcune aree in cui erarichiesto il maggior impegno: al primo posto,ovviamente, la Costituzione e l’assetto giuridicocomplessivo. Seguivano le riforme economiche, lafunzione pubblica, il ruolo del parlamento, lacooperazione regionale e la collaborazione conl’UE per la realizzazione di queste riformeindispensabili all’adesione. In tal modo, avendoindividuato degli ambiti precisi, è ora possibileseguirne alcuni sviluppi o anche rallentamenti.

Più o meno tutte le componenti politicherappresentate a Podgorica hanno convenutosull’identificazione dei settori in vista dell’obiettivoeuropeo e solo il leader dei serbi del MontenegroAndrjia Mandic ha obiettato che, sulla base di unanuova legge di cittadinanza come quella richiestadall’Unione, i serbi del Montenegro sarebberodiventati minoranza etnica. Non senza una certaenfasi da ambo le parti, il 15 marzo scorso è statoinfine siglato il documento preliminare all’Accordodi Associazione e Stabilizzazione. Lungo questopercorso tuttavia non si nascondono varie difficoltà.In primo luogo, in una repubblica multietnica comeil Montenegro, sin dai risultati del referendumhanno cominciato a manifestarsi delle tensioni inpassato sconosciute, non sempre direttamentecollegabili però alla delusione dei serbi per lavittoria separatista.

Seri motivi di preoccupazione non mancano.A nord, nella zona di Beran, secondo fontigiornalistiche balcaniche, si è insediato addiritturaun cartello di trafficanti di stupefacenti (soprattuttococaina) sul modello di quelli sudamericani.L’organizzazione prospera per i legami con lamafia turca e le altre organizzazioni criminalieuropee ed è situata in una zona di transitoimportante da cui è possibile raggiungere sia laBosnia che il Sangiaccato serbo con relativafacilità. La disoccupazione e il ristagno economicofanno il resto. Più recenti invece sono ledichiarazioni degli organi di sicurezza delMontenegro che hanno fornito la descrizione deiprincipali clan malavitosi e indicato le lorospecializzazioni: droga, traffico di armi e di esseriumani sono gestiti da otto organizzazioni (due aPodgorica, due a Bar, due a Rozanjie, una a Beran euna a Niksic) che mantengono contattiinternazionali e godono della copertura di politicilocali.

Se il quadro della criminalità comune nonfosse sufficiente, esiste anche una misteriosaguerriglia albanese. Tuttavia il processo che si èaperto da poco con albanesi della minoranza diMalesija (nei pressi di Podogorica) come imputatisembra dimostrare infondatezza e strumentalitàdelle accuse. Il 6 settembre scorso, durante unaoperazione di polizia ampiamente diffusa dai media,erano stati arrestati 14 albanesi, numerosi dei qualicattolici e nemmeno originari del Montenegro, conl’accusa di voler incendiare moschee e scatenareuna guerriglia per imprecisati motivi. Sebbene partedella stessa stampa montenegrina abbia definito ilprocesso come una montatura, il procuratore hacomunque rigettato le istanze della difesa cherichiedevano di dichiarare illegittimi numerosi attiistruttori.

Prescindendo anche dalla situazionedell’ordine pubblico, a impensierire gli osservatoriinternazionali è anche il confronto in atto sullanuova Costituzione. Le formazioni politichemontenegrine sono apertamente divise. Il principalepartito di opposizione (Movimento per ilcambiamento, Pzp) si è espresso a favore dellanuova carta costituzionale, ma alla condizione che –dopo l’approvazione, per la quale sono richiesti idue terzi dei voti – il Parlamento sia sciolto evengano indette nuove elezioni. I partiti di governosono ovviamente contrari e – a questo punto –l’approvazione parlamentare non è più scontata e siprofila l’ombra di un referendum popolare amaggioranza semplice. Sembra insomma che inquesto dibattito si siano trasferiti in differita i toni diinsoddisfazione per il risultato del referendum perl’indipendenza svoltosi lo scorso anno. Altretensioni sono costituite dall’uso della linguanazionale e dalla protezione alla chiesa ortodossa,argomenti fortemente sostenuti dall’opposizionefiloserba. I partiti al governo hanno dichiarato diessere pronti a riconoscere la lingua serbo-montenegrina come lingua ufficiale, ma non sitratterebbe di un compromesso gradito ai serbi.

La questione della chiesa ortodossarappresenta infine un problema nel problema. Comeè noto, le chiese ortodosse balcaniche sonoautocefale, ovvero organizzate sulla base dellesingole realtà territoriali politiche. In passato eraesistita una chiesa ortodossa montenegrina, ma dopoil 1918 era stata inglobata nella chiesa ortodossaserba. L’indipendenza del piccolo Stato hapermesso alla vecchia chiesa del Montenegro (chenon si è ancora proclamata tale) di rivendicare

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soprattutto le proprietà a suo tempo trasferite allachiesa di Belgrado e che dal 1920 risultano ben650. Centinaia di fedeli ortodossi montenegrini sisono radunati nello scorso mese di aprile davanti almonastero di Cettigne inneggiando al metropolitaMihailo ma fallendo nel tentativo di celebrare unaliturgia nel monastero, ben presidiato dalla polizia.

Giovanni Punzo, 6 giugno 2007

IPSIA - Istituto Pace Sviluppo Innovazione

[email protected]

www.ipsia.acli.it

Unione Europea:

in Albania senza passaporto

Niente passaportoper i cittadinieuropei che sir e c a n o i nAlbania, basteràpossedere unacarta di identitàv a l i d a p e rl’espatr io. Ladecis ione delConsigl io dei

Ministri della Repubblica di Albania è stataconfermata dal competente degli Affari Esterialbanese e diffusa pochi giorni fa dall'Ambasciatad'Italia a Tirana. In particolare la nota specifica chel'ingresso in Albania è consentito senza visto,muniti della sola carta d'identità e previopagamento della tassa d'ingresso. Una volta arrivatialla frontiera è infatti necessario pagare una tassa di10 euro che copre le spese di registrazione sulterritorio albanese.

ANSA 12 giugno 2007

Le vergini giurate

Un antico fenomeno sociale disciplinato dal

diritto tradizionale e dal Kanun. Il diritto della

donna di proclamarsi uomo, di comportarsi

come uomo e di acquisire tutti i diritti che il

Kanun riserva esclusivamente agli uomini.

In Kosovo e nelle zone montuose dell’Albaniasettentrionale si possono tuttora trovare dei residuidi antichi fenomeni sociali che tendonoprogressivamente a estinguersi. Da qualche tempo siè incominciato a parlare del fenomeno dellaconversione delle donne in uomini, unametamorfosi sociale mossa da ragioni tutt’altro chepsico-sessuali come potrebbe venir facileinterpretare oggi una definizione del genere.

Si tratta in realtà di un fenomeno anticodisciplinato dal diritto tradizionale e soprattutto dalmaggiore dei codici giunti fino ad oggi, dal Kanundi Lekë Dukagjini. Si riconosce in tal senso il dirittoalla donna di proclamarsi uomo, di comportarsicome uomo e di acquisire tutti i diritti che il Kanunriserva esclusivamente agli uomini. Dell’esistenzadi questo fenomeno si hanno testimonianze daalmeno 200 anni, ma sembra che la sua diffusionesia stata sempre esigua e solo uno strumentoestremo per evitare penalizzazioni condizionatedalle regole sociali e dallo stesso Kanun.

Oggi si tratta di casi isolati, si contano unadecina di donne in tutto, tra il Kosovo e le areeconfinanti in Albania, mentre prima il fenomeno eraconosciuto anche in Serbia, in Montenegro e inBosnia. In Albania il fenomeno è stato a lungo solo

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un argomento in mano a un’élite ristretta diantropologi ed etnologi mentre la maggior partedella popolazione, tranne gli originari del profondonord albanese o del Kosovo, ne ignoravano del tuttoo quasi l’esistenza.

E’ un fatto dovuto ovviamente a una notevolemancanza di interesse verso la propria culturatradizionale in nome della tendenza xenofila di tuttigli albanesi nel post-comunismo e anche del rifiutodell’idea comunista che puntava all’esaltazione ealla mitizzazione della propria cultura in quantoqualcosa di particolare, di inconfondibile con lenazioni confinanti, elemento poi che divennefondamentale per l’identità nazionale e diconseguenza anche sinonimo dell’isolamento pluri-decennale. Il fenomeno è stato comunque pococonosciuto anche durante il comunismo nonostantel’ideologia nazional-comunista abbia costruito ilmito del Malësor (montanaro), guerriero coraggioso– simbolo dell’indipendenza secolare dagliottomani. Si cercava nello stesso tempo di disfare illoro mondo tradizionale che mal si adattava alcontrollo da parte del regime comunista.

Si è cominciato a parlare delle donne fattesiuomini, quando la scrittrice e giornalista albaneseElvira Dones, realizzò un documentario conprotagoniste 6 donne anziane che vivono comeuomini. La scrittrice albanese aveva scopertol’esistenza di queste donne per caso in una foto diuna famiglia kosovara dove spiccava un uomo dalvolto estremamente femminile. Fu così che Donesavviò le sue ricerche scoprendo storie che lacolpirono al punto da scrivere il romanzo “Hana”(Luna in albanese gheg) la cui protagonista è unadonna fattasi uomo che emigra negli Stati Uniti perrecuperare la sua femminilità. Qualche anno fal’antropologa Antonia Young aveva trattatoampiamente il fenomeno nel suo “Women whobecome men”. Ma nei primi del ‘900 di questoaveva scritto anche Edith Durham, la viaggiatriceinglese che innamorata degli albanesi più che diogni altro popolo balcanico, non mancò diammirarlo come un’espressione affascinante divirtù.

La conversione assume una dimensionesociale che fa acquisire alla donna uno status pari aquello dell’uomo. Questo viene espressamente dettonella raccolta degli usi tradizionali scritti daShtjefën Gjeçovi dove la donna è trattata in manieraparticolarmente inferiore rispetto all’uomo. Com’ènoto la donna aveva minime capacità decisionali,non aveva diritti di proprietà, e non veniva inclusa

nelle faide della vendetta. Nonostante non manchichi considera le interpretazioni riguardo la posizionedella donna nel Kanun come imbevute diqualunquismo, non si può negare che la vita delladonna fosse fortemente condizionata dalla figuramaschile.

Si presume che la donna debba esserevergine, e di conseguenza la conversione avvenivaal sopraggiungere della maturità sessuale, e si esigela totale astensione dalla vita sessuale, motivo percui queste donne vengono anche conosciute come leVergini Giurate (Virgjinat e bitume). Nel Kanun siriferisce a loro con la definizione le donne vestite dauomini, poiché l’abbigliamento maschile venivavisto come un elemento che legittimava ilgiuramento della conversione fatto davanti a 12uomini del villaggio. Dopo il giuramento Virgjina

(la vergine) assumeva un comportamento maschile,prendeva un nome da uomo, si armava, e potevafumare, bere e mangiare con gli uomini nella stanzadove alle donne non era permesso restare. Inoltreacquisiva il diritto di vendere, comprare e gestireproprietà e poteva anche partecipare in guerra enella vendetta tra i clan, di pari diritti agli altriuomini.

Sull’origine di questo fenomeno si continuatuttora a discutere. Di recente alcuni l’hannosottoposto a un’ottica molto moderna vedendo inquesto fenomeno un modo di manifestarel’omosessualità, fatto che l’antropologa AntoniaYoung ha completamente rigettato dato che in unasocietà estremamente maschilista come quellavoluta dal Kanun l’omosessualità era un tabùindiscutibile, mentre l’omosessualità femminile nonrisulta sia mai stata presa in considerazione. Tral’altro vi è da considerare che la sessualità di questedonne era del tutto repressa e non faceva in alcunmodo parte del loro nuovo status.

Johann G. Von Hahn, un diplomaticoaustriaco che viaggiò a lungo nel nord albanese,scriveva nel 1863 che probabilmente questa era laversione albanese della devozione cristiana, vistoche durante i suoi numerosi viaggi nel norddell’Albania il console austriaco aveva notato lamancanza di conventi cattolici. Secondo lui ilconcetto cattolico era stato poi adattato al caratterecombattivo del popolo albanese. Ma il fenomenodelle vergini giurate conta sia donne cattoliche siamusulmane. Studiosi come Milenko Filipovic,Andromaqi Gjergi, e Karl Kaser notano unareminiscenza del fenomeno delle amazzoni.L’antropologo albanese Moikom Zeqo evidenzia

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invece una reminiscenza di un fenomeno che risalealla crisi del matriarcato da aggiungere a una seriedi altri fenomeni bizzarri come il Kuvada (il ritosecondo cui l’uomo imita la moglie quando haappena partorito il loro figlio, fingendosi donna,accogliendo gli ospiti sdraiato nel letto vestito dadonna, al posto della neo-mamma) che sonosopravvissuti da culture addirittura preindoeuropeenelle zone montuose che grazie all’isolamentooffrono ottime possibilità di conservazione di riti eusi remoti.

Ma la conversione delle donne in uominiaveva soprattutto una funzione socio-economica. Siusava infatti far convertire una figlia se non siavevano figli maschi per poter far ereditare leproprietà della famiglia, mentre in linea femminile(linja e tamblit) questo non era possibile. Era ancheun ottimo mezzo per evitare lo scaturire di nuovevendette, se una ragazza rifiutava il fidanzamentoche le era stato prescelto, l’orgoglio feritodell’uomo rifiutato faceva scaturire la vendetta tra idue clan. Se invece la donna giurava astensionedalla vita sessuale e rinunciava alla propriafemminilità, l’obbligo di vendetta si annullava. Manella stampa albanese si è parlato anche di donneche hanno scelto volontariamente di diventareuomini , per essere più l ibere, perun’interiorizzazione dei valori maschili che sonostati tradizionalmente professati nella societàalbanese, dove chiamare una donna “burrneshë” (inalbanese da burrë-uomo, – neshë un suffissofemminilizzante) è espressione di grande stima,qualcosa di quasi epico. Elvira Dones ha incontratodonne che non si erano pentite di aver fatto questascelta, ma anche qualcun’altra che avrebbe volutoavere figli.

Nel suo libro “Women who become men”,Antonia Young aveva valutato questo fenomenocome quasi estinto però aveva anche previsto unsuo risveglio in Kosovo, come conseguenza dellecrisi degli anni ’90. Ad ogni modo i forticambiamenti sociali che hanno interessato le zonepiù remote dell’Albania e del Kosovo, e soprattuttole forti tendenze migratorie verso le grandi cittàpare che facciano cessare i motivi che rendevanoutile la conversione in uomini. Tutte le Virgjinatsono ora delle donne anziane, che sono parte di unantico fenomeno eccezionale.

di Marjola Rukaj

Osservatorio Balcani, 23 maggio 2007

Vukovar, divisa da una via

A Vukovar, una delle città simbolo della guerra

in ex Jugoslavia, un’associazione di veterani ha

pensato di intitolare una via ad un soldato serbo

che difese la

città accanto

ai suoi com-

pagni croati.

Un modo per

far progredi-

re la ricon-

ciliazione che

però si è

trasformato

n e l s u o

opposto.

La proposta di dare ad una via di Vukovar il nomedel difensore Predrag Gagic, ha diviso leassociazioni dei veterani della città croata. Gagic èserbo di nazionalità, e la città di Vukovar è uno deisimboli delle sofferenze che hanno sopportato icroati nella sanguinosa guerra avvenuta con ladissoluzione della Jugoslavia. Vukovar, cosa chefino ad oggi per lo più veniva taciuta, insieme aicroati fu difesa anche dai residenti serbi, e PredragGagic e suo fratello Nenad furono tra questi.

“Con l'iniziativa di intitolare a Predrag Gagicuna via di Vukovar abbiamo voluto mostrare chechiunque abbia contribuito alla società croata e allaformazione dello stato croato, può essere decorato,ricevere la sua via e andare avanti in questasocietà”, dice Zoran Sangut, il presidente di unadelle associazioni croate dei veterani di guerra,l'iniziatore dell'idea di intitolare la via a Gagic.“Non bisogna giudicare le persone secondo lanazionalità a cui appartengono, ma bisognaapprezzarli a seconda della loro azioni”.

Ma Slavko Juric, il presidente di un'altraassociazione dei veterani è contrario a questa idea.“Apprezziamo il ruolo di tutti i serbi che hannodifeso la Croazia, ma non vogliamo dividere idifensori secondo l'appartenenza nazionale. Sequesto dovesse essere fatto, allora bisognerebbetener conto delle proporzioni, perché è illogico chesu tre vie di Vukovar che hanno avuto il nome deidifensori croati, si aggiunga anche la via di un

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difensore serbo. Nella difesa di Vukovar ci sonostati in modo imparagonabile molti più croati”.

Così l'idea secondo la quale dare ad una viadi Vukovar il nome di un difensore serbo avrebbepotuto contribuire ad una migliore intesa,riconciliazione e diminuzione delle tensioni fracroati e serbi, si è trasformata nel suo opposto. Letensioni hanno appena iniziato a bollire, mostrandoquanto in questa città - una di quelle più colpitedalla guerra, dove fu commesso anche un orribilecrimine di guerra, l'assassinio di più di 200 feritidell'ospedale di Vukovar - tutto poggi ancora sufragili fondamenta e servirà ancora molto tempo perripristinare una vita normale.Predrag Gagic, serbo di Vukovar e figlio di unsacerdote ortodosso di Vukovar, si unì ai croatidella città subito all'inizio della guerra. La maggiorparte dei serbi di Vukovar abbandonò invece la cittào si unì alle unità dell'Esercito popolare jugoslavo(JNA) e alle forze paramilitari serbe, che per mesitennero la città in stato di assedio e la sottoposeroad una pesante distruzione. Ma Predrag Gagicrimase insieme ai croati e mantenne una delleposizioni più difficili sul fronte della zona, quellosulla strada di Trpinj, nota come il “cimitero deicarri armati”. Proprio là le forze serbe subirono leperdite maggiori. Alla fine del settembre 1991, sulfronte di Vukovar, a Predrag si unì anche il fratelloNenad, che viveva a Zagabria. Entrambi eranomitraglieri, coraggiosi e impavidi, e siccome spessorischiavano la vita, i compagni di armi lichiamavano “i folli Gagic”.

“Predrag, come anche suo fratello Nenad, sisono comportati da veri patrioti e io apprezzo il lorocontributo alla difesa di Vukovar. Più volte ho dettoche, per esempio, se fossi vissuto a Cacak, inSerbia, e se qualcuno avesse attaccato quella città, ilmio obbligo morale e umano sarebbe stato didifenderla, nonostante io non sia serbo. Perciòapprezzo eccezionalmente il fatto che i fratelliGagic si siano comportati in questo modo” -afferma Zarko Pavletic, uno dei comandanti diVukovar, di nazionalità croata.

Sia Predrag che Nenad fino all'ultimodifesero Vukovar. Quando la resistenza della cittàdopo un assedio di più mesi fu rotta e quando vientrarono le forze serbe, entrambi furono arrestati efinirono nei lager in Serbia. “Ci trattarono moltopeggio di come ci avevano trattato i croati”, diceNenad, il fratello di Predrag. “Noi eravamo itraditori del popolo serbo e ci picchiavano dibrutto”. A causa delle conseguenze delle botte,

delle difficili condizioni di vita nei lager e delleferite subite difendendo Vukovar, Predrag Gagicmorì alcuni anni dopo. È sepolto fra i suoi compagnidi battaglia, croati, al Cimitero delle rimembranze diVukovar.

“Abbiamo soltanto difeso la nostra città e lapatria dove siamo nati. Non vorrei doverlo fare dinuovo, ma se dovesse esserci bisogno, farei dinuovo la stessa cosa”, dice Nenad Gagic, che èsopravvissuto all'inferno bellico di Vukovar. Èconsapevole, invece, del fatto che la maggior partedei croati non tiene in considerazione questo fatto,mentre la maggior parte dei serbi - visto che sonostati dalla parte dei croati - li percepisce cometraditori nazionali.

“L'iniziativa di intitolare a Predrag Gagic unavia di Vukovar sarebbe anche una forma diriconoscimento per la minoranza nazionale serba,perché anche alcuni loro membri insieme a noihanno combattuto per Vukovar”, dice Zoran Sangut,il presidente di una delle associazioni dei veterani diVukovar. “In questo modo mostreremmo che lastoria della guerra di Vukovar non è in bianco enero, ma che ci sono tanti colori e ancora di piùtante sfumature. La mia tesi è che la guerra aVukovar non è stata una guerra fra serbi e croati mauna guerra fra aggressori e patrioti”.

Tuttavia, gli altri non la pensano così. SlavkoJuric, la cui associazione dei veterani si oppone aquesta proposta, crede che dare il nome di PredragGagic ad una via contribuirebbe soltanto alledivisioni presenti a Vukovar. “Gagic non è mortodifendendo Vukovar. E' morto alcuni anni dopo.Invece ci sono molte persone che sono mortedifendendo la città, e che non hanno la loro via.Sono sicuro che questo provocherebbe la rivolta diquelle famiglie delle quali il figlio o il marito sonostati uccisi difendendo Vukovar”, spiega Juric.

Ad ogni modo, la proposta di dare il nome diPredrag Gagic ad una via di Vukovar si trova sultavolo della sindaca di Vukovar, Zdenka Buljan. Masullo stesso tavolo si trova anche la letteradell’associazione dei veterani che si oppone aquesta iniziativa. Nemmeno oggi, 15 anni dopo lafine della guerra, la vita a Vukovar è semplice. Perquesto neanche la decisione su cosa fare dellaproposta di intitolare una via di Vukovar ad unserbo che ha difeso questa città sarà semplice.

di Drago Hedl

Osservatorio Balcani, 24 maggio 2007

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Meno cinque

Era stato il vice di Ratko Mladic, e poi aveva

collaborato ad organizzare la latitanza di

quest'ultimo. Zdravko Tolimir è stato arrestato

a fine maggio, non è ancora chiaro se in Bosnia o

in Serbia. Ora sulla lista dei latitanti ricercati

dall'Aja rimangono in cinque

Secondo le comunicazioni ufficiali del MUP(Ministero degli Affari Interni) della RepublikaSrpska (RS) e del MUP della Serbia, il generaledell'Esercito della Repubblica Srpska e accusato dalTribunale dell'Aja, Zdravko Tolimir, è statoarrestato l'ultimo giorno del mese di maggio vicinoa Ljubovija, mente cercava di attraversare in modoillegale la frontiera.

Come è stato reso noto dai primi comunicati,il MUP della RS ha arrestato Tolimir, mentre imembri della polizia in Serbia erano pronti areagire nel caso Tolimir avesse cercato di passare lafrontiera ed entrare in Serbia.

Secondo le quanto riportato dal MUP dellaRS, Tolimir è stato trattenuto nella sede dellapolizia di Banja Luka, dove sono giunti ilrappresentante del governo della RS per lacollaborazione con il Tribunale dell'Aja e irappresentanti del Tribunale. Tolimir è statotrasportato alla prigione di Scheveningen con unaereo della NATO dalla base militare di Butmir, ilprimo giugno scorso. Prima del trasferimentoall'Aja, Tolimir, che ha già avuto due ictus, è statovisitato dai medici per stabilire le sue condizioni disalute ed eventuali rischi durante il trasferimentoall'Aja.

A molti Tolimir è noto come uno dei piùimportanti latitanti ricercati dall'Aja. Tolimir untempo era il più stretto collaboratore di Ratko

Mladic, e i due hanno mantenuto rapporti strettianche dopo la guerra, quando Tolimir ha partecipatoad organizzare la latitanza di Mladic.

Il tribunale dell'Aja accusa il generaleTolimir, insieme a Milan Gvero e Radivoje Mileticdi crimini contro i musulmani bosniaci diSrebrenica, Zepa e dintorni. Già nel 2005, ilTribunale dell'Aja aveva sollevato contro di luil'accusa di genocidio, associazione a scopo digenocidio, crimini contro l'umanità e violazionedella legge e delle consuetudini di guerra.

Dopo l'arresto di Zdravko Tolimir, sulla listadei latitanti dell'Aja si trovano ancora cinqueaccusati, Radovan Karadzic, Ratko Mladic, l'expresidente della RSK (Repubblica serba di Kraijna)Goran Hadzic, il capo del Centro di sicurezza aBanja Luka Stojan Zupljanin e il generale dellapolizia Vlastimir Djordjevic per il quale si crede siada tempo nascosto in Russia.

Sull'arresto di Tolimir si sono espressi inmodo positivo i rappresentanti della nuovamaggioranza parlamentare e politica in Serbia, chehanno definito questo atto come una chiaraindicazione del desiderio da parte del governo dirispondere il prima possibile a tutte le richieste chearrivano dal Tribunale dell'Aja.

Durante il comitato generale del Partitodemocratico (DS), tenutosi domenica scorsa, ilpresidente di questo partito nonché presidente dellaSerbia, Boris Tadic, ha sottolineato i meriti dei suoiuomini che durante la campagna elettorale avevanopromesso una fattiva collaborazione con l'Aja e laripresa del processo di inegrazione europea.

Il presidente del Consiglio nazionale per lacollaborazione con il Tribunale dell'Aja RasimLjajic, in una dichiarazione per l'agenzia Fonet, haaffermato che “Tolimir per un periodo haorganizzato la latitanza di Ratko Mladic ed eranonascosti insieme” aggiungendo che i due ex generaligià da tempo non sono più insieme e che quindi“l'arresto di Tolimir non significa essere più vicini aMladic”. Alla domanda dei giornalisti sul luogodove Tolimir era nascosto fino ad ora, Ljajic harisposto che “le esperienze avute con gli accusatidell'Aja che sono stati consegnati, hanno mostratoche loro generalmente si nascondevano nella fasciaconfinante fra la Serbia e la Republika Srpska”.Ljajic dice che questo ultimo arresto avrà senz'altroun'influenza positiva per creare di nuovo un climadi fiducia fra il Tribunale dell'Aja e Belgrado.

Nelle prime reazioni sull'arresto, ilCommissario europeo per allargamento Olli Rehn,

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ha affermato che questo rappresenta un passoimportante nel portare di fronte alla giustizia tuttigli accusati di crimini di guerra. Cristina Gallak,portavoce dell'Alto rappresentante per l'UE, HavierSolana, nella dichiarazione per l'agenzia Beta, hasottolineato che “l'arresto di Tolimir è moltoimportante e rappresenta un adeguato sviluppo siasul campo della politica interna in Serbia che in RS,sia per i loro futuri rapporti con l'UE”.

Durante la prima apparizione all'Aja, lunedìscorso, Tolimir si è rifiutato di parlare sino a chenon verranno chiariti i dettagli sulla suacittadinanza, il suo status e le modalità del suoarresto. Tolimir ha dichiarato infatti di essere statoarrestato in Serbia, e poi trasferito in RepublikaSrpska, prima a Bjeljina, poi a Bratunac, per finire aBanja Luka, dove, come sostiene, i membri delministero di Giustizia gli hanno offerto facilitazioniper la famiglia nel caso accettasse di esserecittadino della RS.

La dichiarazione di Tolimir, di essere statoarrestato in Serbia, ha suscitato una certaconfusione fra l'opinione pubblica locale. I mediaserbi stanno speculando sul fatto che Tolimir siastato arrestato a Novi Beograd e poi trasferito inRepublika Srpska.Zoran Loncar, ministro serbo e membro delConsiglio nazionale per la collaborazione con ilTribunale dell'Aja afferma che Tolimir è statoarrestato in RS. Nella dichiarazione trasmessa daB92, Loncar dice che “il riferirsi di Tolimir al fattoche si nascondeva sul territorio della Serbia e che ècittadino della Serbia conferma soltanto cheesisteva un chiaro obbligo degli organi statali dellaSerbia di partecipare all'azione comune durante laquale Tolimir è stato arrestato".

L'opinione pubblica è confusa. Il famosoanalista militare Zoran Dragisic, partecipando comeospite presso l'emittente Studio B, dice di noncapire quale sia il motivo delle informazionicontraddittorie sull'arresto. L'analista crede che nonci sarebbero stati rischi di sicurezza durantel'arresto in Serbia, e che quindi si stupisce che irappresentanti del governo abbiano deciso di“fingere” il suo arresto in RS. Dragisic aggiungeche “esistono due dichiarazioni opposte, quella diLoncar e quella di Tolimir, e non ci resta checredere all'uno o all'altro. Non capisco perché luisarebbe stato trasferito in RS. Se dovessi scegliere achi credere, crederei prima a Loncar”.

I deputati dell'opposizione, il Partito radicaledella Serbia (SRS), il Partito socialista della Serbia

(SPS) e il Partito liberale democratico (LDP) hannochiesto che vengano esaminate le circostanzeriguardanti l'arresto di Zdravko Tolimir. Hannochiesto che i ministri della Difesa e della Polizia, eil capo della BIA (l'intelligence serba) stilino unrapporto sull'arresto. I radicali hanno consegnato larichiesta di una mozione di sfiducia al governoperché il Partito radicale sa che Tolimir è statoarrestato a Belgrado e non in RS.

Sulla mozione di sfiducia voterà l'SPS,mentre la posizione del LDP è attesa nei prossimigiorni. La proposta di votare la sfiducia al governosarà accettata se per essa voterà più della metà deideputati, e se questo dovesse accadere il presidentedella Repubblica ha il dovere di avviare laprocedura per eleggere il nuovo governo. La buonanotizia è che i radicali non potranno usare questomeccanismo ogni tre per due, così se questa volta laloro proposta non verrà accolta, per poter farloun'altra volta dovranno aspettare alcuni mesi. Fontivicine a questo partito dicono che l'SRS sia deciso afare ostruzione in parlamento e inasprire la suaretorica: per contrapporsi ad una popolarità delgoverno in crescita e mantenere la presa sul propriobacino elettorale.

Fra l'altro, lunedì scorso a Belgrado è arrivatala procuratrice capo del Tribunale dell'Aja, per unavisita di quattro giorni. Ma questa volta il suo arrivoè stato accolto con più ottimismo, e l'atmosfera,secondo le testimonianze degli alti funzionari dellaSerbia che hanno preferito rimanere anonimi, è stataun po' più rilassante e calorosa.

La Del Ponte si è espressa in modo positivosui primi passi del nuovo governo per quantoriguarda la collaborazione con l'Aja, e ha persinofatto qualcosa che fino a poco tempo fa nemmeno ipiù grandi ottimisti avrebbero potuto aspettarsi: icomplimenti al capo dell'Agenzia d'informazione esicurezza (BIA) Rade Bulatovic.

Il primo giorno della visita Carla del Ponte siè incontrata con il premier Kostunica, con ilprocuratore per i crimini di guerra Vukcevic e conaltri alti funzionari. La cosa interessante è che neiprimi minuti della riunione la Del Ponte ha mostratoal procuratore Vukcevic il manifesto sul quale sivedono i rimanenti latitanti dell'Aja.

Il secondo giorno della visita a BelgradoCarla del Ponte lo ha trascorso in riunioni con glioperativi, dopo di che non si è rivolta ai media. Havalutato in modo positivo l'arresto di Tolimir,aggiungendo che i dati del Tribunale dell'Ajasull'arresto combaciano con quello che ha detto

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Tolimir, di essere stato arrestato in Serbia e poitrasferito in RS. Come comunica B92, la Del Ponteha sottolineato che è interessante il fatto che icoordinatori del Piano d'azione Rasim Ljajic eVladimir Vukcevic e il capo del VBA (Intelligencemilitare) Svetko Kovac non sapessero nulladell'azione in corso. La Del Ponte ha sottolineatoche questo “fatto non è decisivo, ma che è un chiaroindice su chi sono le persone in Serbia che, quandovogliono, possono trovare ed arrestare i latitanti”.

La procuratrice dell'Aja fornirà un giudiziosulla collaborazione di Belgrado con il Tribunaledell'Aja al suo rientro dalla Serbia, dopo di che èattesa un'eventuale ripartenza delle trattative conl'UE.

di Danijela Nenadi_

Osservatorio Balcani 06/06/2007

Tutti pazzi per Bush

Grande attesa in Albania per l’arrivo del

presidente americano George W. Bush, che sarà

a Tirana il prossimo 10 giugno. La reazione delle

forze politiche, le opinioni degli analisti e, su

tutto, l’ombra del Kosovo

La lieta novella

Il 24 aprile la Casa Bianca ha annunciato che ilpresidente degli Stati Uniti, George W. Bush, saràin visita a Tirana il prossimo 10 giugno. Unanime lareazione delle forze politiche e dei media albanesi,che hanno definito la Grande Venuta “un eventostorico”: Bush sarà infatti il primo presidente USAa recarsi in Albania, coronando la serie di illustrivisite americane susseguitesi dalla fine delcomunismo in poi.

L’apertura delle danze toccò al segretario diStato James Baker, accolto nel 1991 da una follaeuforica assiepata dall’aeroporto fino alla capitale.Seguirono ex presidenti (Jimmy Carter e BushPadre) e segretari di Stato (Madleine Albright eColin Powell), mentre sfumò la visita di BillClinton, prevista nel 1999 – un “pacco” che suscitòsomma delusione.

Il giorno dopo il Grande Annuncio, a mo’ diarcangelo Gabriele, è apparso a Tirana l’exgeneralissimo NATO Wesley Clark, stavolta nellaveste di consigliere economico della canadese“Bankers Petroleum Ltd.”, che ha preso inconcessione i pozzi petroliferi di Patos, nell’Albaniameridionale. Clark ha incontrato il presidente dellaRepubblica Alfred Moisiu, il presidente delConsiglio Sali Berisha e l’ex premier Fatos Nano. Inquesta circostanza, Moisiu ha dichiarato che “gliUSA sono l’alleato principale dell’Albania el’Albania sarà sempre al loro fianco”, mentre lavisita di Bush “è una riconferma delle splendiderelazioni tra Albania e Stati Uniti, un eventoprofondamente simbolico: una superpotenza intesserelazioni con un piccolo paese come il nostro,dimostrando l’alto valore della democraziaamericana, fonte d’ispirazione del nostro tempo”.

“Vergin di servo encomio…”: il gaudio di

Berisha

Ancora più sviolinante la Presidenza del Consiglio,il cui comunicato definiva il 10 giugno “un giornobenedetto e lungamente atteso da tutti gli albanesi”.Berisha si è detto grato perché “gli USA hannosempre tutelato i diritti e la libertà degli albanesi” e,rievocando gli inizi della storia nazionale, hadenunciato i “piani razzisti miranti all’ulterioreframmentazione dello Stato albanese”, sventati da“uno dei più grandi americani, il presidenteWilson”.

Berisha ha ringraziato Bush Padre per “averfermato Milo_evi_, il Saddam dei Balcani, inKosovo nel 1992”, garantendo che “il sognoalbanese-kosovaro di uno Stato indipendente trovasostegno nell’amministrazione di George W. Bush”.Promettendo che “l’Albania e gli albanesi sarannoal fianco degli Stati Uniti in ogni circostanza”, ilpremier ha infine descritto la visita di Bush come“un’innegabile approvazione per le riforme attuatedal nostro governo, tese all’integrazione nellaNATO e nell’UE”.

Il gabinetto governativo ha perfinoconfezionato uno spot televisivo di benvenuto al

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presidente USA – immagini degli incontri tradiplomatici americani e politici albanesi, col granfinale del messaggio di Berisha. L’AmbasciataUSA ha però precisato che Bush verrà in Albania“per tutti gli albanesi”, mossa che la stampa disinistra interpreta come “una bacchettata aigovernanti albanesi, che hanno tentato di trarreprofitto politico dalla visita”.

Una data emblematica

Secondo la scaletta ufficiale, Bush approderà aTirana dopo aver partecipato al G8 diHeiligendamm, in Germania; il suo tour europeotoccherà la Repubblica Ceca, la Polonia, Roma e ilVaticano, per concludersi nei Balcani con Albania eBulgaria. Nel Paese delle Aquile, oltre a incontrareil capo dello Stato e quello del governo, Bushconvocherà i primi ministri di Croazia e Macedonianel quadro del summit “Adriatico 3”. Gli USAhanno infatti espresso sostegno all’adesioneatlantica dei tre paesi balcanici, più la Georgia el’Ucraina – e l’Albania attende con ansia il granmomento, previsto per il 2008.

Questo il motivo ufficiale della tappa di Busha Tirana, ma gli analisti albanesi non ci stanno.Anche perché Bush ha scelto di atterrare in Albaniaproprio il 10 giugno, un giorno emblematico nelcalendario locale: il 10 giugno 1878 nasceva laLega di Prizren, il primo movimento nazionalistaalbanese; il 10 giugno 1999, al termine deibombardamenti NATO sulla Ex-Jugoslavia, venivastilata la risoluzione 1244 dell’ONU e le truppeserbe iniziavano a ritirarsi dal Kosovo; e il 10giugno 2003 il presidente kosovaro Ibrahim Rugovaparlava al Parlamento Europeo di Bruxelles. PerchéBush ha scelto proprio il 10 giugno 2007 per laprima visita di un presidente americano in Albania?

Le opinioni degli analisti e l’ombra del Kosovo

Da destra a sinistra, gli analisti hanno evidenziatodue fattori che motiverebbero la Grande Venuta, inprimo luogo l’esito della questione Kosovo, da tuttiindicato come un’“imminente indipendenza” che lavisita di Bush verrebbe ad avvallare. In secondoluogo il “riconoscimento dell’impegno nella lottacontro il terrorismo”, data la partecipazionealbanese alle missioni in Afghanistan e Iraq.

Tutti concordi, dunque, che “il sostegno alKosovo è una delle vere ragioni della visita” e che“il fatto che Bush venga proprio a Tirana e non

altrove esprime un forte supporto per gli albanesi,specie quelli del Kosovo”, per dirla con Arben Vata,caporedattore della TV “Top Channel”.

Secondo il direttore della TV “Ora News”,Alfred Peza, “la visita di Bush aiuterà a correggere95 anni d’ingiustizia, vale a dire la divisione deglialbanesi e dei loro territori”. E per Mimoza Dervishidel quotidiano “Shqip” “finalmente anche l’Albaniaha il suo peso nella questione del Kosovo, mentreprima eravamo impotenti nei confronti della nostrametà martire”.

A metà maggio la TV croata HRT1 avevaaddirittura annunciato che Bush sarebbe stato anchea Pri_tina, “per sancire il riconoscimento delKosovo da parte americana”, notizia smentitadall’USA Office di Pri_tina, secondo il quale non cisono piani in tal senso. Ma la montagna può andareda Maometto e, secondo l’agenzia ellenica“Forthnet”, migliaia di albanesi del Kosovointendono marciare verso Tirana, “per esprimere illoro filoamericanismo”, mentre i dirigenti kosovariavrebbero confermato che incontrerannoufficialmente Bush in Albania.

I “maligni”

Alcuni analisti fanno notare che dietro la visita delpresidente USA potrebbe celarsi anche un’altraragione. Arian Çani osserva dalle colonne di“Mapo” che “Bush vuole dimostrare al mondointero che anche un paese musulmano comel’Albania può essere grande amico degli USA”. Eauspica che il presidente non vada a “piegare il c…nella moschea di Ethem Bey, perché altrimentimetterebbe sull’Albania il timbro definitivo di paeseislamico”.

Della stessa opinione Erion Veliaj, capo dellapotente ONG “Mjaft”: “L’Albania è un paese moltofiloamericano, ma è anche un paese musulmano eun evento del genere fa presa sui media USA,perché oggi sono pochissimi i paesi islamiciinnamorati dell’America. Dato il calo di popolaritàdi Bush, questo evento potrebbe impressionare unpubblico stanco della guerra in Iraq”.

Tale è l’idea che sembra circolare nellasinistra albanese, soprattutto nel Partito Socialista(PS) riformato dal leader Edi Rama, entro il quale“Mjaft” sta assumendo un peso visibilmentecrescente. L’organizzazione è vicina all’Istituto peruna Società Aperta del miliardario-filantropoGeorge Soros che, alla vigilia delle presidenzialiUSA del 2004, definì la rimozione di Bush come

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“l’obiettivo chiave della sua vita” e donò 23 milionidi dollari ai gruppi impegnati a sconfiggerlo.

La scarsa simpatia per Bush da parte dellasinistra albanese può riassumersi in una gag dellastriscia satirica “Fiks Fare”, su “Top Channel”,dove il conduttore si domanda: “Ma chi l’hainvitato Bush in Albania? Non lo sa che qui da noi,chi viene senza invito, trova la tavola vuota?”.

Grandi addobbi e massima sicurezza

Non appena ricevuta la lieta novella, Berisha si èattivamente dedicato ai lavori di casa, dallaristrutturazione della Presidenza del Consiglio aquella della villa dove Bush pranzerà con Berisha,col premier macedone Nikola Gruevski e conquello croato Ivo Sanader. Le spese sono top-secret,ma si calcola che le cinque ore in cui Bush starà inAlbania costeranno al paese circa un milione dieuro. Il gruppo di lavoro del premier ha assegnatola massima importanza agli addobbi: tutta Tirana ela strada dall’aeroporto alla Presidenza dellaRepubblica saranno rallegrate da un turbinio dibandiere albanesi e americane e da miriadi dicartelloni declamanti: “Welcome President Bush!”.

Saranno mobilitate 15.000 unità armatealbanesi, mentre il presidente sarà scortato da più di500 militari americani, cui il Parlamento albaneseha concesso di usare la forza se necessario – ilMinistero della Difesa ha ammesso di non potergarantire la sicurezza dell’ospite. La sinistra ha cosìaccusato Berisha di “aver ceduto lo Stato” e di“mentire quando dichiara che il paese è sicuro”.

Purtroppo, a metà maggio 10 grammi didinamite sono esplosi in un bar accantoall’Ambasciata USA, provocando un ferito, mentreil mese si è chiuso col ritrovamento di rudimentaliordigni nei pressi dell’Ambasciata USA e dellaPresidenza della Repubblica, in due facoltàuniversitarie. E mentre i servizi segreti albanesimarcano strette le fondazioni di beneficenzaislamiche, la Comunità musulmana ha espresso ilproprio benvenuto a Bush. Unica voce apertamentecontraria alla visita è quella del minuscolo PartitoComunista (PK), che intende protestare contro “ilpeggior terrorista del mondo”. Al contrario, analisticome Arben Muka e Hamdi Jupe garantiscono che“non ci saranno manifestazioni antiamericane comeaccade in paesi più avanzati e con democrazie piùsviluppate”.

L’Albania di Bush: “una bella costa, una storia

interessante, gente musulmana che vive in pace”

E il diretto interessato George W. Bush, cosa pensadi tutto ciò? Nell’intervista concessa alla TValbanese “Vizion Plus”, il presidente ha spiegatoche verrà in Albania “affinché gli albanesicapiscano che l’America sa che esistono e chestanno compiendo scelte difficili per cementare unasocietà libera”, aggiungendo di “essere rimastoimpressionato dalla leadership albanese, checondivide gli stessi valori degli USA e crede incerte libertà”.

Riguardo all’adesione NATO, Bush haesortato l’Albania a “lavorare duramente persoddisfare gli standard richiesti dai partnersatlantici”, mentre ha ribadito il pieno sostegno degliUSA al Piano Ahtisaari sul Kosovo, pur definendo“spinose” le trattative con Putin. E infine, alladomanda “cosa le viene in mente quando sente laparola Albania”, Bush ha risposto: “una bella costa,una storia interessante e gente musulmana che vivein pace”.

Gente musulmana che vive in pace”: pareproprio che i “maligni” avessero capito tutto.

di Francesca Nicolai

Durazzo, 05/06/2007

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Zoran Milanovic, l’erede di

Racam

In pochi se l'aspettavano. E' il volto nuovo

dell'SDP e della politica croata. Zoran Milanovic

è stato eletto alla presidenza dei

socialdemocratici e raccoglie l'eredità politica di

Ivica Racan che ha guidato il partito dal 1990.

Zoran Milanovic (40) è il nuovo presidente delPartito socialdemocratico della Croazia (SDP). Il 2giugno, al secondo turno di votazioni dellaconvention elettorale del partito, Milanovic haottenuto 828 voti, 153 in più di Zeljka Antunovic,che ha guidato il partito dall’11 aprile di quest’annoda quando Racan ha dato le dimissioni. CosìMilanovic è diventato l’erede di Ivica Racan,l’uomo che ha guidato l’SDP dalla sua nascita, nel1990, in seguito alla trasformazione da partitocomunista in partito socialdemocratico. Dopo la suabreve malattia e cura del carcinoma, scoperto infase avanzata, Racan è morto il 29 aprile diquest’anno a 63 anni.

La scelta di Milanovic rappresenta una certasorpresa. Perché si credeva che l’SDP avrebbefavorito “una politica della continuità” e che, inquesto senso, Zeljka Antunovic sarebbe stata unascelta in questa direzione. Tutto è diventato moltocomplicato quando il potente sindaco di ZagabriaMilan Bandic ha annunciato la sua candidatura.Bandic dietro di sé aveva la più forteorganizzazione dell'SDP in Croazia, quella diZagabria, per cui in alcuni ambienti era consideratoil favorito. Ma Bandic - come accaduto anche aTonino Picula, ex ministro degli Affari Esteri

quando Racan era capo del governo di coalizionedel centro sinistra (2000- 2003) - è uscito già alprimo turno.

Nonostante sia Bandic che Picula abbianosuggerito ai loro elettori di dare al secondo turno iloro voti a Zeljka Antunovic, la maggior parte deidelegati non si è curata dell'indicazione, e così acapo del più forte partito d’opposizione è arrivatoMilanovic.

Nelle prime analisi di quanto accaduto sisottolinea che la scelta di Milanovic evidentementetestimonia il desiderio all’interno del partito di voltinuovi. Questo lo confermano anche i risultati delsondaggio che il 27 maggio – una settimana primadella scelta di Milanovic - ha fatto il settimanale“Nacional”. Il sondaggio, fatto fra gli elettorisocialdemocratici, ha del tutto previsto l’ordinedelle preferenze espresse dai delegati allaconvention elettorale dell'SDP.

Dragan Antulov, commentatore del notoportale web Index.hr, afferma che Milanovic è unpolitico “la cui immagine rappresenta la rotturasimbolica con il passato”, mentre il commentatoredel quotidiano “Jutarnji list”, Davor Butkovicsottolinea che Milanovic “è il primo volto nuovodella politica croata dopo tantissimo tempo”. “Lascena politica croata è satura di persone che sitrovano nelle alte gerarchie della politica statale o dipartito già da quindici anni”, aggiunge Butkovic.

Anche alcuni politici croati fra i quali lapresidentessa del partito liberale (HSLS), DjurdjaAdlesic condividono l’opinione espressa neicommenti giornalistici. “Milanovic rappresenta unanuova generazione di politici giovani nonappesantiti dagli anni ‘90. Questo è un SDP del tuttonuovo”.

Proprio il fatto che si tratti di “una faccianuova” potrebbe essere l’asso dell'SDP alle elezioniparlamentari che si terranno a novembre diquest'anno. Gli ultimi sondaggi dell’opinionepubblica hanno mostrato che l’SDP si trova al primoposto con il 28,7%, mentre la HDZ ha il sostegnodel 24, 5% degli elettori. Anche l’Istitutointernazionale repubblicano (IRI) recentemente haavuto risultati simili, solo che il vantaggio dell'SDPrispetto all'HDZ adesso è ancora più marcato.

Il sondaggio secondo il quale l’SDP è diquattro punti percentuali davanti all’HDZ - partitodell’attuale premier Ivo Sanader - è stato realizzatosolo una settimana prima della votazione diMilanovic. Sarà interessante vedere in che modo lascelta di Milanovic si rispecchierà sul rating

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dell'SDP, ma gli analisti sin da ora sono d’accordoche questo contribuirà all’ulteriore rafforzamento diquesto partito. Pare che la scelta di Milanovic comenuovo leader dell'SDP abbia innervosito parecchiol’HDZ.

“Questa scelta all’SDP è ottima per l’HDZperché né il signor Milanovic, come nessuno altrodei tre candidati ha il coraggio, la capacità né leidee per guidare lo stato”, ha detto alla conferenzastampa il membro della presidenza dell’HDZ,Gordan Jandrokovic, subito dopo che i risultati delvoto erano stati resi pubblici. In questa arrogantefrase gli analisti hanno subito riconosciuto la paurache proprio Milanovic potrebbe essere unconcorrente molto pericoloso per Sanader.

Nella trasmissione della Televisione croata“Nedjeljom u 2” (di domenica alle 2) moltoguardata dove Milanovic ha partecipato il giornodopo la sua elezione a presidente del SDP, il 54%dei telespettatori (65.000) che hanno partecipato altelevoto, ha detto di considerare Milanovic unpolitico migliore rispetto all’attuale premier epresidente del HDZ, Ivo Sanader.

“Andiamo avanti! Andiamo avanti verso lavittoria delle elezioni!. Nel modo in cui l’avrebbevoluto Ivica Racan se fosse fra di noi, per unire enon per dividere. In Croazia ci sono tante personerispettabili che lavorano in modo faticoso per unpezzo di pane. Noi siamo il loro partito”, ha dettoMilanovic subito dopo la vittoria elettorale.

Gli analisti credono, visto che si tratta di unafaccia nuova, colta e non appesantita dagli scandaliche si trascinano dietro molti politici, che proprioquesta “gente rispettabile che lavora con fatica perun pezzo di pane” potrebbe portare a Milanovic e alsuo SDP la vittoria alle elezioni che si terranno inCroazia fra meno di sei mesi.

di Drago Hedj

Osijek 04/06/2007

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Piccolo è bello

Il microcredito in Kosovo. Un fenomeno in

continua espansione. Lo scorso aprile a Pristina

due giornate dedicate a fare il punto della

situazione.

Poche pratiche economiche nel campo dellosviluppo, negli ultimi anni, hanno attirato piùattenzione del microcredito, il prestito cioè dipiccole somme di denaro basato non sul principio disolvibilità, ma su quello della fiducia. Basti pensareall' “Anno Internazionale del Microcredito”,lanciato dalle Nazioni Unite nel 2005 e al premioNobel per la Pace ricevuto, un anno più tardi,dall'economista del Bangladesh Muhanmad Yunus,fondatore della Graamen Bank e uno dei massimitorici di questa forma di sostegno alle popolazionitagliate fuori dai tradizionali canali delfinanziamento. Naturalmente, nel dibattito sulmicrocredito non mancano voci critiche, soprattuttodi chi sostiene che- affidare ai soli prestiti lesperanze di riscatto economico potrebbe portare aduna sostanziale “privatizzazione” delle politichesociali, giustificando un sempre minor impegnodelle istituzioni pubbliche.In Kosovo, istituzioni di microcredito hanno iniziatoad operare già dai primi mesi successivi alla fine delconflitto, nel 1999, all'inizio principalmentenell'ottica di supporto alla ricostruzione, per poipassare col tempo ad una prospettiva di sviluppo diun nuovo tessuto economico. Oggi in Kosovooperano 14 organizzazioni di microfinanzariconosciute, di cui 9 riunite nell'AMIK(Association of Microfinance Istitutions of Kosovo),che conta al momento un portfolio di 43 milioni dieuro e più di 33mila clienti, una realtà significativaed in crescita. Infatti, se nel 2002 il microcreditorappresentava il 15% del settore creditizio nellaregione in termini di fondi erogati, nel 2005 era

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passato al 25%. Dato ancora più interessante, aquesta data il 75% dei kosovari che hanno chiestoun prestito, lo hanno fatto attraverso istituzioni dimicrocredito.Un momento di incontro e riflessione per chi lavoranel settore è stata la Finance Fair 2007, tenuta aPristina l'11 e 12 aprile scorsi. Punto centrale, ladiscussione sulle numerose sfide che questo tipo diintervento deve oggi fronteggiare: da una parteriuscire a quantificare l'impatto avuto fino ad orasull'economia, ma anche sullo sviluppo sociale insenso più ampio del Kosovo, dall'altra risponderead esigenze e richieste nuove da parte del tessutosocioeconomico, ritagliandosi uno spazio d'azioneche, pur conservando gli obiettivi sociali, riesca adessere finanziariamente sostenibile sul lungoperiodo.La prima grande difficoltà da affrontare, nel 2000, èstata quella di restituire fiducia nel sistemacreditizio”. Ed Greenwood è il direttore di FINCAKosovo (Foundation for International CommunityAssistance), che ha cominciato ad operare nellaregione grazie ai fondi USAID. “Con le guerrebalcaniche, molti hanno perso tutti i propririsparmi, depositati allora nelle banche jugoslave.L'altro problema veniva invece dalla distribuzione,da parti di un'ampia costellazione di operatori dellacooperazione, di fondi gratuiti e a pioggia,soprattutto nei primi anni dopo il '99. Quando sipuò accedere a denaro “facile”, è difficile farpassare l'idea che i soldi prestati vanno restituiti”.La strategia scelta dalle istituzioni di microfinanzaper costruire e consolidare il rapporto con i propripotenziali clienti è stata basata innanzitutto su unaforte presenza sul territorio, ma anche su unamodalità graduale di erogazione di prestiti basata sucicli, che viene utilizzata ancora oggi. Un esempio:chi chiede un prestito per l'agricoltura aBeselidhja/Zavet, organizzazione che opera inmolte municipalità kosovare con clienti sia albanesiche serbi, potrà accedere inizialmente ad unmassimo di 3mila euro da restituire in 24 mesi conun interesse dell'1,90%, ma già al secondo ciclopotrà richiedere fino a 5mila euro, da restituire in36 mesi e coll'1, 80% di interessi, e col terzo ciclopotrà avere condizioni ancora più vantaggiose.La maggior parte dei prestiti vengono richiesti inaree rurali, ma se guardiamo l'entità dei prestitistessi, si nota che quelli erogati in aree urbane sonomolto più consistenti, tendenza che rispecchia ilrapido spostarsi del baricentro sociale edeconomico della società kosovara, soprattutto nella

sua componente albanese, dalle campagne ai centriurbani.Proprio nella dicotomia città-campagna sembrarisiedere uno dei possibili sbocchi dellamicrofinanza in Kosovo. In città, ormai, le banchetradizionali hanno cominciato a costituire un fattoredi vera concorrenza al microcredito, e grandi gruppicome “Pro-credit” e “Raffaisen” hanno offerte dicredito di piccola o piccolissima entità. Nellecampagne le cose sono diverse. “I nostri clienti siriuniscono in associazioni di villaggio, che fanno damediatore, svolgono la funzione di sportello eeliminano costi e necessità di recarsi a lontanisportelli bancari”, spiega Agron Spahju, internal

auditor della KRK (Kreditimi Rural i Kosoves),specializzata nel microcredito in aree rurali. Unsistema che funziona particolarmente bene in unasocietà ancora basata soprattutto su i rapportipersonali, come succede in Kosovo. KRK, che oggilavora con 37 associazioni di villaggio distribuite su8 diverse municipalità, con un totale di 14.500 soci,non teme la concorrenza delle banche, e si lamentadi non poter rispondere a tutte le richieste difinanziamento che riceve dai propri clienti.Oltre al mondo rurale, altre possibilità concrete allamicrofinanza in Kosovo vengono dall'imprenditoriaal femminile, mondo a cui questo settore haguardato con grande interesse fin dalle sue origini.Le donne infatti si sono rivelate particolarmenteaffidabili, sia nella valorizzazione del denaro presoin prestito che nella sua restituzione. In Kosovooggi, su circa 50mila attività economiche registrate,appena l'1% risulta però essere proprietà di unadonna. Nella regione, a parte limitazioni di carattereculturale, il principale freno all'imprenditoria e alcredito verso le donne è il fatto che queste nonrisultano quasi mai proprietarie di beni, mobili oimmobili, e quindi non hanno accesso al creditotradizionale, in quanto non solvibili. Una rispostadata dalle istituzioni di microcredito per aumentarela presenza femminile nell'economia è stata quelladi incoraggiare i prestiti collettivi,e di offrirepacchetti indirizzati specificatamente alle donne. Irisultati sembrano essere positivi: FINCA, adesempio è passata dalle 418 clienti del 2004 alle3164 del febbraio 2007Anche il framework legislativo in Kosovo si staadeguando, seppur lentamente, alle nuove necessitàdel settore. La riforma più importante, però, non èstata ancora portata a termine, ed è quella chepermetterà alle istituzioni di microfinanza di potergestire depositi, oltre a erogare crediti. “Sono i

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nostri clienti a chiederlo”, ci dice Blerta Qerimi,presidente dell'AMIK. “Rispetto a una realtà comequella della Bosnia, dove il microcredito funzionadal '95, siamo ancora indietro, ma in questi anniabbiamo accumulato molta esperienza. Se ci verràdata la possibilità di operare in un ambientefavorevole, sono convinta che il microcredito inKosovo abbia grossi margini di crescita neiprossimi anni”.

di Francesco Martino

12/06/2007 Osservatorio Balcani

Albania a stelle e strisce

Una giovane albanese racconta come

l'accoglienza per Bush sia una vecchia

tradizione.

Lo scorso 10 giugno Tirana è diventata protagonistanella maggior parte dei media europei che hannodescritto e commentato una città paralizzata,blindata dai marines, con le forze nazionalidisarmate, coperta di stelle, strisce e slogan chelodavano l’amicizia albano-statunitense. Infine ilsurreale bagno di folla di Bush, che nessuno siaspettava potesse succedere. Si è trattata diun’ottima organizzazione, ideata e messa a puntodall’élite al governo dell’Albania di oggi. Ma agliocchi di un albanese, per quanto sontuoso espettacolare, il tutto assomigliava a un déjà vu a cuisi è fin troppo abituati.

Una vecchia tradizione. I giornali albanesi nonhanno esitato a rispolverare le varie accoglienze dipersonaggi importanti, di volta in volta alleati delle

élite di turno a Tirana, che formano una galleriaricca ed eterogenea: Vittorio Emanuele II, il Duce,Kruscev, Chu En Lai, James Baker, MadeleineAllbright, il papa Giovanni Paolo II e tanti altri.Personalità diverse, epoche diverse, ma stessasceneggiatura. La prima spiegazione possibile diquesto atteggiamento ha a che fare con unacaratteristica intrinseca nella mentalità albanese, ilmust della proverbiale ospitalità (anche balcanica),che faceva violare persino obblighi altrimenticogenti del diritto tradizionale, e che in seguito èdiventato parte di un’etica formale a cui gli albanesinon possono sfuggire.Vi è senza dubbio notevole americanofilia in questaaccoglienza. Ardian Vehbiu, noto intellettualealbanese, ha analizzato a lungo questo fenomeno,sotto più aspetti, sostenendo che almeno in politicaestera ciò che muove di solito la classe politicaalbanese è da sempre un “levantismo”, che sitraduce puntualmente nello scegliere la super-potenza di turno da cui farsi proteggere, come ètoccato di volta in volta all’Urss, alla Cina e ora agliUsa. Ma questo atteggiamento adesso, come moltianalisti hanno sottolineato, è tipico dei tempi delcomunismo, quando gli albanesi hanno imparato avenerare acriticamente i leader politici per poi trarneun vantaggio socio-politico o economico in basealle regole del sistema.

Slogan di regime. E Tirana addobbata di frasi comeProud to be partners ricorda molto un filmalbanese, molto apprezzato a Cannes, di qualcheanno fa, intitolato “Slogans”, dove gli alunni di unascuola in un villaggio sperduto dovevano ricoprirele montagne di slogan del genere, per accogliere unapersonalità del partito che sarebbe passato per casoda quelle parti senza neanche fermarvisi. Non

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sorprende affatto la somiglianza con quei tempi chegli albanesi tanto deridono, visto che la classepolitica di oggi è erede diretta di quella del regime,se non la stessa. In molti sostengono infatti che ilproblema dell’Albania di oggi sia una classepolitica che non ha subito il ricambio, e che nonriesce a tenere il passo con le esigenze della società.Si tratta infatti di un élite dalle idee poco chiare,dove la morte delle ideologie, come si suol dire, fadistinguere poco la destra dalla sinistra, sia inpolitica interna sia in politica estera. Una classepolitica che rimane al quanto disorientata, come si èvisto pochi giorni prima della visita di Bush,quando il ministro della cultura Ylli Pango ha avutoun incontro con il suo omologo iraniano, in vista diinteressi reciproci e collaborazione. La stampaalbanese ha ampiamente considerato questa mossacome l’ennesima gaffe della diplomazia albanese,che sembra ispirarsi più dalla claustrofobia inreazione al brutto ricordo del passato che a unquadro coerente di relazioni internazionali.

Tirana e il suo futuro. Ma aldilà della politica, pergli albanesi gli Stati Uniti assumono un significatoche va oltre le apparenze. Si tratta di un’opinionepubblica bombardata da slogan elettorali cheriportano, puntualmente, il legame inscindibiledell’integrazione nel Patto atlantico, nell’Ue e ilsostegno degli Usa e dell’Europa, e questo fa sì che,nell’immaginario comune degli albanesi, tutti questielementi facciano parte di quel mondo dai valoridemocratici a cui si aspira aderire. Non a caso si èriservato lo stesso entusiasmo a George W. Bush ea Papa Giovanni Paolo II negli anni Novanta.L’equiparazione tra l’Ue e gli Usa sotto ladenominazione comune dei valori occidentali, concui gli albanesi si identificano, già dal regime di reZog negli anni Venti, rimane immutabile anche acausa di un’enorme mancanza di informazione,poiché i media locali tendono a seguire

puntigliosamente solo la politica interna, nonlasciando che un piccolo spazio da notizie flash pertutto ciò che riguarda la politica internazionale. Diconseguenza in un paese dalle idee politicheconfuse, non è facile prendere posizione di fronte ascelte di portata internazionale, e l’apatia che disolito caratterizza i paesi ex-comunisti davanti a unaclasse politica stagnante fa sì che si sia in tal sensotuttora intorpiditi mantenendo vivo il mitodell’occidente che viene accettato quasiacriticamente. Per questo motivo l’Albania rimanel’unico paese che non si oppone agli interventi inIraq, o in Afghanistan, visto che il paese è convintodi essere chiamato a sostenere quelli che vengonopercepiti come i valori occidentali. A questo vaaggiunto anche il complesso di essere un piccolopaese che, in questo caso, sfrutta la rara occasionedi contribuire alla politica internazionale.

Stati Uniti d'Europa. La visita di Bush è statapercepita anche come una gratifica per 'buonacondotta', ed è stato ampiamente commentato siadal presidente Alfred Moisiu che dal premier SaliBerisha come un avvicinamento del paese al mondooccidentale con cui vuole relazionarsi. Per quantosia complessa e frammentata, la politica albanesevede tutte le forze al suo interno convergere suquesto punto: la cosiddetta integrazione “euro-atlantica”. Secondo uno studio condotto dall’istitutoalbanese per la Democrazia e la mediazione (Idn) epubblicato dall’autorevole giornale Shqip, il 90percento della popolazione albanese è favorevoleall’entrata del paese nella Nato, e l'83,3 percento vivede un processo strettamente connessoall’integrazione nell’Ue. Risulta però che si abbiascarsa informazione sui benefici e sugli obblighi chequesta adesione comporta. In un altro sondaggio,condotto nei primi mesi dell’anno, sull’integrazioneeuropea dell’Albania, i risultati sono stati analoghi:l'80 percento degli intervistati era favorevoleall’entrata dell’Albania nell’Ue, e affermava di non

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vedere altro futuro per il paese. E in egual modo siè mostrato che i vantaggi che gli albanesi vivedevano erano soprattutto l’opportunità diviaggiare liberamente e di relazionarsi con l’EuropaOccidentale.Si tratta infatti di un’interiorizzazione dei modellioccidentali che tutte le élite albanesi hanno sempreimposto dal momento dell’acquisizionedell’indipendenza dall’Impero Ottomano.Sostanzialmente è un fenomeno molto balcanico, inquanto la contrapposizione ai valori orientali especialmente all’Islam visto come sinonimodell’Impero Ottomano e dell’occupazioneplurisecolare, è parte dell’identità nazionale inmodo imprescindibile. E oggi è evidente che inAlbania le religioni non sono state in grado didecollare, mentre l’Islam è la religione che vi trovaminor sostegno in una società estremamentelaicizzata, dove da più di 50 anni quasi nessunoporta più nomi musulmani. La definizione “statomusulmano” infatti suscita sempre indignazionepresso gli albanesi che non vi si rispecchiano perniente. Tra l’altro i vertici dell’Islam albanesehanno accolto calorosamente il presidente Bush,confermando per l’ennesima volta che l’Albaniarimane un paese da interpretare al di fuori deglischemi classici.

Verso ovest. Anche se è stato spesso detto chel’Albania deve la sua esistenza agli Stati Uniti,riferendosi soprattutto alla dottrina Wilson, el’ovvia importanza che questa visita ha avuto per ilKosovo, il premier Berisha ha dichiarato che loscopo di questa visita non aveva a che fare con ilKosovo, ma solo con l’Albania e la suaintegrazione euro-atlantica. Sono stati migliaia ikosovari che hanno varcato il confine per trovarsi inpiazza ad accogliere Bush. Ma in Albania si hapoca coscienza balcanica, e Tirana si vede tuttaproiettata verso occidente, prendendosicostantemente le accuse di indifferenza e arroganzada parte degli albanesi ex-jugoslavi. Dopol’apertura infatti e l’instaurazione di rapporti con gli

albanesi oltre confine, ci si è accorti della diversità,socio-economica, linguistica, e infine anche intermini di identità nazionale. Mentre in Kosovo staprendendo piede sempre di più la tendenza adaffermare una propria identità diversa da quelladell’Albania, gli albanesi entro i confini continuanoad avere difficoltà a dire se una città albanofona sitrova in Montenegro, in Kosovo o in Macedonia.L’Albania è così un paese dove non esistono partitidi orientamento apertamente nazionalista, dovel’occidente costituisce un’aspirazione quasiidentitaria che isola dal resto dei Balcani, e dove lebandiere dell’Ue sventolano fianco a fianco a quellealbanesi, in ogni istituzione pubblica, anche sel’adesione non sembra essere proprio dietrol’angolo.

di Marjola Rukaj

Peace Report 13/06/07

La memoria di Sarajevo

Incontro con Mirsad Toka_a, presidente del

Centro di ricerca e documentazione di Sarajevo.

Oggi ha presentato nella capitale bosniaca i

risultati definitivi della ricerca sulle vittime della

guerra in Bosnia Erzegovina. Dalle politiche

della memoria alla cultura della memoria

Di cosa si occupa il Centro di ricerca e

documentazione di Sarajevo?

La nostra organizzazione lavora nel campo dellaricerca, in particolare relativamente al periodo dellaguerra 1992-1995 in Bosnia Erzegovina. Il nostroobiettivo è dare un contributo in due settori: quellodei processi per crimini di guerra, davanti aitribunali internazionali e locali, e quello chedefiniamo la «constatazione della verità con l'aiutodei fatti». Noi raccogliamo le prove dei criminicommessi, e le depositiamo in una base di dati.Inoltre, uno dei progetti più importanti a cui stiamolavorando in questo momento è quello relativo alnumero delle vittime. Cerchiamo di dare un'identitàa tutte le persone che hanno perso la vita durante laguerra e di definire il numero delle vittime.

Collaborate con altre istituzioni a livello

regionale?

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Sì, per questo progetto lavoriamo in partenariatocon la Fondazione per il diritto umanitario diBelgrado e Documenta di Zagabria. Noi, qui aSarajevo, siamo i promotori e per primitermineremo la parte che ci compete: a fine giugno[oggi, ndr] presenteremo i risultati definitivirelativamente al numero delle vittime. Poi sarà lavolta del Kosovo, di Serbia e Croazia. Così avremoper l’intera regione una lista di nomi e cognomi, diidentità, un numero totale di vittime che in futuropotremo esporre in caso di manipolazioni o dimemorie storiche inventate.

Quante sono le vittime della guerra 1992-95 in

Bosnia Erzegovina?

Prima di costituire il nostro Centro, c’eranoposizioni completamente contrapposte. Si andavadalla completa negazione che fossero avvenuti deicrimini, con numeri attorno alle 20, 25.000 vittime,bazzecole, fino all’esagerazione di 300-350.000vittime e più. Noi siamo arrivati oggi ad individuareun numero di 98.000 [97.207 secondo i risultatifinali presentati oggi dal Centro, ndr] cittadini dellaBosnia-Erzegovina, civili e militari, che sonovittime dirette della guerra. Si tratta di personeuccise dai cecchini, dalle granate, dai proiettili,dalle bombe o nei campi di concentramento. Esistepoi un'altra parte di vittime, di cui ci occuperemonel prosieguo delle nostre ricerche, che sono lecosiddette vittime indirette: morti per fame, permancanza di aiuti sanitari o per i motivi assurdi peri quali si può morire durante la guerra, come quelliche spinti dalla fame sono morti mangiando funghiavvelenati, o il caso ad esempio dei 12 bimbi diBanja Luka che sono morti per la mancanza diossigeno. La terza fase del progetto consisterà neldeterminare la dimensione demografica dellaguerra, ovvero il calo naturale della popolazionedeterminato dalla guerra.

E per quanto riguarda gli scomparsi?

Il numero di cui vi ho parlato include anche lepersone scomparse. Cioè nei 98.000 sono inclusianche tutti gli scomparsi che, in Bosnia-Erzegovina,al momento sono più di 13.000. Queste in realtànon sono esattamente persone scomparse, mapersone uccise i cui corpi o resti non sono ancorastati ritrovati. Noi sappiamo chi sono questepersone e come sono state uccise. Collaborando conle istituzioni che si occupano della ricerca degliscomparsi, le sposteremo dalla categoria“scomparsi” a quella “uccisi”. Si tratta di esumare i

corpi, dare definitivamente un’identità a questi restie inserirli nella nostra base di dati.

Perchè avete iniziato a lavorare a questo

progetto?

In questa regione, non solo in Bosnia Erzegovinama nei Balcani in generale, il problema dellamanipolazione del numero delle vittime è emersoesplicitamente subito dopo la seconda guerramondiale. Consideriamo ad esempio il caso diJasenovac. Perfino nell'ultima manifestazione diStato in cui sono stati ricordati quei tragici eventisono state citate cifre che rispecchiano ipotesi maiconfermate, 700.000 vittime. Ci sono ricerchescientifiche che parlano di un numero molto minore,tra le 70 e le 100.000. Si è trattato di una tragediaenorme, Jasenovac era un luogo di crimini orribili,ma abbiamo una situazione in cui esagerando dicontinuo i numeri o utilizzando ideologicamente lamemoria si rischia di ottenere l’effetto contrario.

Ci sono state delle omissioni nelle politiche della

memoria della Jugoslavia socialista?

In Jugoslavia, dopo la seconda guerra mondiale, nonsi è mai fatta una lista con i nomi delle vittime. E'stato utilizzato in maniera ideologica il numerodelle vittime da un lato per sottolineare la grandezzadella vittoria dei partigiani, dall'altro comestrumento per ottenere più alte riparazioni di guerradalla Germania. Inoltre sono stati costruitimonumenti che glorificavano la lotta partigianadappertutto. Ovunque fosse caduto un partigiano, lìè stato eretto un monumento. Ma è pericolosa lamitizzazione del ricordo, e creare il mito dideterminati avvenimenti storici produce ogni volta ilsuo contro-effetto e fa dubitare. Infine è statolasciato uno spazio non chiarito, che è statoutilizzato dai nazionalisti alla vigilia delle guerredegli anni '90 per manipolare la gente, mostrandoloro che erano minacciati di morte dai propri vicini.

Qual è la rappresentazione ufficiale della guerra

1992-95 in Bosnia Erzegovina oggi?

La battaglia politica sul tema del ricordo continua. Eil modo in cui si spiega il passato di questo Paeserischia di determinarne il futuro: una memoriadistorta, un'errata ricostruzione dei fatti, tropposcarse sentenze per crimini di guerra. L’impunità siaccompagna alla distorsione dei fatti.

Che tipo di monumenti vengono costruiti in

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Bosnia Erzegovina oggi, per ricordare le guerre

recenti?

Purtroppo, nella storia recente della Bosnia-Erzegovina, sono avvenute cose ancor peggioririspetto al periodo successivo alla seconda guerramondiale. In molti luoghi si erigono monumenti cheglorificano i crimini commessi. Se andate aPrijedor, in centro trovate un monumento all’uomoche ha ispirato i crimini che sono stati commessinell’intera regione: Jovan Ra_kovi_. Troveretemonumenti dedicati ai fascisti della seconda guerramondiale, come quello a Dra_a Mihailovi_ vicinoal confine con la Serbia, nei pressi di Vi_egrad. Cisono diversi monumenti che esaltano i criminali e iloro crimini senza prendere in considerazione levittime. Poto_ari può essere un esempio dimonumento dedicato alle vittime, anche se non èancora stato terminato. Le manifestazioni cheavvengono nel periodo in cui viene messo in rilievoil genocidio di Srebrenica, tuttavia, spessoassumono una dimensione politica. Credo che noidobbiamo liberare questi avvenimenti dall’utilizzopolitico. Srebrenica e il monumento di Poto_aridevono servire a farci ricordare il genocidio. Non sideve partecipare con qualche programma politico.

Come dovrebbero essere i monumenti che

ricordano le guerre degli anni '90?

Secondo me il memoriale di Poto_ari è un buonesempio. E' il luogo in cui sono state sepolte levittime, e allo stesso tempo è anche un luogo diespressione artistica, in cui gli artisti possono inqualche modo rendere onore alle vittime. Penso chesia un buon esempio proprio perchè le vittime sitrovano qui, insieme. La gente viene il giorno delricordo per rendere omaggio. Questo per me èmolto importante. Ovviamente le vittime sonoriconosciute, qui si trovano le tombe di questepersone, con nomi e cognomi. Spero che siprosegua con la creazione del Parco, nel nome delrispetto dei fatti. E’ estremamente importante chevengano date informazioni su quanto è avvenuto ein quali circostanze. Da questi posti non deve uscirealcun tipo di messaggio ideologico. La caratteristicadei monumenti dopo la seconda guerra mondialeera il fatto di mandare dei messaggi chedifendevano una determinata ideologia. In questocaso io credo che non sia assolutamente necessario.Dobbiamo scegliere molto attentamente il modo incui conserveremo il ricordo delle vittime di questacittà estrema.

Qual è la metodologia di lavoro del vostro

Centro?

Quando abbiamo iniziato questo progetto sullevittime eravamo consapevoli della sua complessitàe, soprattutto, del fatto che avrebbe richiesto unintenso lavoro di ricerca sul campo. In qualchemodo abbiamo combinato la metodologia di ricercaquantitativa con quella qualitativa. Abbiamo usatola tecnica quantitativa prendendo le basi di datiesistenti in Bosnia-Erzegovina, basi di dati di organiufficiali, informazioni pubblicate sui media. Poiabbiamo utilizzato moltissime interviste, più di8.000, con le famiglie delle vittime. Abbiamocercato non solo di determinare nomi e cognomi,ma anche di accertare le circostanze delle violenze,lo status delle vittime prima della guerra, cosafacevano, chi erano... Abbiamo cercato diraccogliere fotografie di queste persone e dideterminare i luoghi in cui sono state seppellite,insomma di completare la loro storia. La grandemaggioranza di loro è stata uccisa in manieracriminale, un determinato numero invece è morto incombattimento. Questa identificazione, questarestituzione dell’identità alle vittime, èestremamente importante. Noi crediamo sia unasorta di Memoriale. Stiamo cercando di erigere unasorta di Memoriale in cui vengono custoditi i nomidelle persone, che verrà utilizzato in modoscientifico e storico. La gente può venire e vederequesti dati, e questo è davvero importante.

In che modo le famiglie delle vittime

contribuiscono con questo lavoro?

Noi ci basiamo principalmente sulla comunicazionecon le famiglie delle vittime. I familiari hanno leinformazioni, sanno chi erano queste persone, hannole foto, sanno cos’è accaduto alle loro vittime. Noiviaggiamo nelle varie comunità locali, cerchiamo dicapire cos’è accaduto in questa o quella regione.Abbiamo uffici a Br_ko, Prijedor, Gora_de, ungrande ufficio che copre tutta la zona della Podrinje.Abbiamo visitato più di 360 cimiteri, civili emilitari, trovando anche lì molte informazioni.

Chi vi sostiene finanziariamente, lo Stato

bosniaco?

L’intero progetto è finanziato dal governonorvegese, lo Stato bosniaco purtroppo non ci hadato un solo euro. Il problema sono le scaramuccepolitiche. Esistono delle élite etno-nazionali, o etno-religiose, che vogliono tenere le vittime divise

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secondo un criterio etnico. Il grande problema è cheogni gruppo etnico, religioso, ha utilizzato ilnumero delle vittime in modo diverso. Per la primavolta, con questo progetto, noi abbiamo messo tuttele vittime, cittadini della Bosnia-Erzegovina, nellostesso posto. E questo è estremamente importante.Le vittime si possono dividere secondo criteriideologici, come ha fatto Tito dopo la secondaguerra mondiale. Tito non aveva fatto scrivere tra levittime i soldati collaborazionisti dei fascisti.Quindi, in pratica, i cittadini jugoslavi che avevanocollaborato coi fascisti erano stati dimenticati.Come se non si trattasse di esseri umani.Questa è stata una sorta di discriminazioneideologica, di separazione ideologica delle persone.Nel nostro caso, qui, oggi, c’è invece un approccioetnico-religioso alle vittime, e si cerca di tenerleseparate in questo modo. Noi non abbiamoconsiderato se le vittime fossero serbi, croati,bosgnacchi, albanesi, oppure ortodossi, cattolici,musulmani, ebrei: tutti sono stati messi assiemenella nostra base di dati. Non abbiamo permessouna tale divisione dei cittadini della Bosnia-Erzegovina.

Perché lei, Mirsad Tokaca, ha cominciato questo

lavoro?

La mia famiglia viene dalla Bosnia orientale. Icetnici hanno ucciso quasi tutti i miei familiaridurante la seconda guerra mondiale, mia mamma èsopravvissuta per miracolo. Suo padre e i suoifratelli sono stati uccisi. Questa però è sempre statauna memoria interna alla nostra famiglia, non c’èmai stato un riconoscimento del crimine né tantomeno una punizione. Quando è arrivato il 1992, e lestesse cose sono cominciate ad accadere, ho iniziatoa lavorare come segretario generale dellaCommissione di Stato per i crimini di guerra. Homantenuto questo ruolo fino alla fine della guerra,quando lo status di questa Commissione è statomesso in discussione e sono cominciate le pressionipolitiche. Allora ho deciso di creare il Centro diricerca e documentazione, per continuare a lavorarein maniera indipendente e su basi durature alproblema dei crimini di guerra. I miei motivi sonoquesti. Provengo da una famiglia che è stata vittimanella seconda guerra mondiale e che non ha maiavuto la soddisfazione di vedere giustizia, che lamemoria della tragedia fosse custodita e che iresponsabili dei crimini venissero puniti.

Come è accolto il vostro lavoro nella società

bosniaca?

Nonostante l’opposizione, le minacce, pressioni divario tipo, io sono soddisfatto. Dopo più di 3 anniche lavoriamo a questo progetto di ricerca, lamaggior parte della società bosniaca ha presoconsapevolezza della necessità di fare questo tipo dilavoro. La gente percepisce che con la verità deifatti si restringe lo spazio per nascondere quanto èavvenuto. Questa verità porta a ciò di cui le personehanno bisogno: gli arresti e i processi di quantihanno commesso crimini, la riconciliazione sociale,la giustizia.

Che giudizio date del lavoro dei Tribunali?

Nonostante la sua debolezza, nonostante il fatto chead oggi Karadzi_ e Mladi_ non siano ancora staticatturati, penso che possiamo dare un voto moltopositivo al Tribunale dell’Aja. Ha avuto un ruoloparticolarmente importante nel mandare questosemplice messaggio: i crimini non resterannoimpuniti. Il processo Krsti_ ha confermato che aSrebrenica è stato commesso un genocidio.Attraverso le inchieste e i processi sono statiricostruiti determinati fatti storici, in un modo cheinciderà con forza sulla memoria della gente. Non sitratta di un percorso concluso, dovremo occuparcidei crimini di guerra in Bosnia-Erzegovina ancoraper più di un decennio. I Tribunali bosniaci, lagiustizia, le leggi di questo Paese contribuirannoalla memoria.

La memoria sarà modellata dal lavoro dei

Tribunali?

Esistono altri aspetti: il contributo che ad esempioarriva da parte delle associazioni. In Bosnia-Erzegovina è molto forte il movimento delle vittimee dei familiari. Ance noi naturalmente, in quantoprimo Centro di ricerca indipendente, daremo ilnostro contributo. Soprattutto, è importante che siparli, che il dibattito a livello sociale su quanto èavvenuto durante la guerra resti aperto. Non si devepermettere che lo Stato, l’ideologia, i partiti politici,abbiano il diritto esclusivo a testimoniare il passato.La società intera deve partecipare al dibattito suquanto è avvenuto. Solo in questo modo saremo ingrado di sviluppare ciò che io vorrei definire una“cultura della memoria”, non la politica ma lacultura della memoria.

di Andrea Rossini

Ipsia – ACLI 21 giugno 2007

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Kosovo: Serbia offre autonomia;

Ahtisaari: indipendenza nel 2007

(AGI/AFP/EFE) - Atene, 19 giu. - La Serbia e'"pronta a stringere un accordo" sul futuro status delKosovo ed e' disposta a concedere l'autonomia el'autogoverno della sua provincia per prevenirel'instabilita' nei Balcani. "La Serbia vuole parlare, laSerbia vuole un compromesso", ha affermato ilministro degli Esteri serbo, Vuk Jeremic, al terminedi un colloquio ad Atene con la collega greca, DoraBakoyannis. "Non possiamo rinunciare allasovranita' e all'integrita' territoriale del nostro Paese- ha sottolineato Jeremic - ma siamo pronti aconsiderare qualsiasi tipo di autonomia equiparabileall 'autogoverno per la nostra provinciameridionale". Le nuove idee, come ha spiegato ilministro serbo per il Kosovo, Slobodan Samardzic,sono contenute in un piano che e' gia' statoconsegnato alla Russia e in seguito sara' annunciatopubblicamente. L'apertura di Belgrado arriva all'indomani dellapresa di posizione del governo kosovaro che haescluso nuovi negoziati con la Serbia e lapossibilita' di modificare il piano Onu che prevedeun'indipendenza sotto una supervisioneinternazionale. E l'autore di quel piano, il mediatoreinternazionale Martti Ahtisaari, ha affermato inun'intervista alla tv finlandese che il Kosovo sara'indipendente entro la fine dell'anno.

Anche se Mosca porra' il veto al Consiglio disicurezza dell'Onu, infatti, per Ahtisaaril'indipendenza sara' riconosciuta dagli Stati Uniti eda alcuni Stati membri dell'Ue. (AGI)

IPSIA – ACLI

20 giugno 2007

Iniziative - Appuntamenti

Campi Missionari Estivi

Quest’estate noi andiamo in missione, a scuola dipopoli che possono farci crescere con la lorodiversità culturale, sociale e religiosa vissuta incondizioni pesanti; popoli con il sorriso sulle labbra,capaci di una gioia a noi spesso sconosciuta.A noi non interessa “andare lontano”, a noi interessa“andare vicino”,vicino a quella gente perconfrontarci, per condividere e cambiare, inprofondità.Per questo “mettiamo in banca” il nostro tempo e inostri soldi: li mettiamo nella banca del servizio,vicino ai nostri missionari, ai nostri volontari e ailoro amici.

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Anno 5 Numero 7 Pagina 30

Seminario sul Kosovo

Lunedì 9 luglio, ore 17

Casa del Popolo “Andrea del Sarto”

Via Manara 6 – Firenze

Con la Partecipazione del Prof. Alberto Tarozzi

Nel quasi assoluto silenzio dei media, l'evolversidella situazione nei Balcani si degradaprogressivamente in modo allarmante, con pesantianalogie con quella che si era creata agli iniziodegli anni 90, con le conseguenze ''inattese'' a tuttiben note.

Lo scenario più probabile vede al momento unallungamento di qualche mese dei tempidecisionali, che consentiranno però solo piccolevariazioni, visto che la componente kossovaroalbanese è già sostanzialmente soddisfatta del“piano Ahtisaari” e non è dunque propensa a recedere da una opzione per l'indipendenza che saràsicuramente sostenuta dagli Stati Uniti, determinatia versare benzina sul fuoco.La decisione delle Nazioni Unite per l'indipendenzanon può essere compresa ed accettata dai Serbi, chevedrebbero sottratto al proprio Paese un 15 percento del territorio che era stato viceversamantenuto nonostante la guerra della Nato ai tempidi Milosevic. Tale posizione è stata ribadita anchenella recente visita del Ministro degli esteriD’Alema.Sul piano internazionale si prefigura una violazionedall'alto dei confini nazionali di uno Stato: unprecedente che allarma, per ovvi motivi, numerosiPaesi europei come Spagna e Grecia, oltrenaturalmente alla Russia.Ci si avvia comunque ad una decisione delleNazioni Unite per l'indipendenza del Kosovo, allaquale verrà probabilmente opposto il veto dellaRussia, e al successivo riconoscimento unilateraledel Kosovo da parte degli Stati Uniti, riproducendouna situazione perfettamente analoga alriconoscimento di Croazia e Slovenia agli inizidegli anni 90, che fu il punto di partenza delmassacro in ex Jugoslavia. ... e poi?

In quelle zone vi sono 2.000 nostri soldati.

Nell’indifferenza generale, sono generali italiani,come Mini (ex-comandante NATO nel Kosovo),che vedono nell'indipendenza del Kosovo elementifonte di possibili nuovi conflitti (v. intervista alManifesto, 16 gennaio 2007, ALLEGATA).

Data la sostanziale rimozione di questi nodi neimedia e nell’opinione pubblica, a fronte dei rischiconcreti di esplosione di nuovi conflitti nei Balcani,riteniamo fondamentale riunirci per una discussioneampia e approfondita.

Rassegna stampachiusa in redazione

il 04/07/2007