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RASSEGNA STAMPA di venerdì 7 gennaio 2011 SOMMARIO Cristiani martiri e rapporti con l’islam: su questi argomenti, di fortissima attualità, il Corriere pubblica oggi un’intervista al Patriarca Scola – sotto il titolo “Tra i musulmani è in corso una lotta di idee, oltre che di armi” - mentre nella pagina degli editoriali di Avvenire si può trovare l’intervento di Martino Diez, direttore di ricerca della Fondazione Internazionale Oasis, sul tema “Sradicare l’albero del terrorismo. Le violenze ai copti e l’Islam che s’interroga”. “Il bambino davanti al quale i Magi si prostrano adoranti ci apre al Mistero di Dio. L’Onnipotente, il Signore dell’universo, l’Eterno, il Santo, cioè l’Altro per eccellenza, si svuota della sua divinità per identificarsi in questo bambino”: il Patriarca ha iniziato così, ieri mattina a S. Marco, la sua omelia durante la messa celebrata nella solennità dell’Epifania del Signore e che ha rappresentato anche, rinnovando una bella e consolidata tradizione, un particolare momento di preghiera e vicinanza nei confronti dei missionari veneziani (sacerdoti, religiosi, religiose e laici) impegnati in varie parti del mondo. “Dei Magi – ha, quindi, proseguito il card. Scola - non sappiamo con certezza il nome, non conosciamo bene neppure il numero, non ci è noto il paese di origine. Sappiamo soltanto dove vanno: vanno in cerca del Re dell’universo per adorarlo. Un drappello di uomini - dotti, ricchi e stranieri - assetati d’infinito. Al loro comparire essi meravigliano, fino all’irritazione, l’umanità che attraversano. Camminano tra uomini bloccati su se stessi, che hanno soffocato la loro attesa nella smania di conservare il loro potere (Erode) o il loro sapere - anche su Dio - (i capi dei sacerdoti e gli scribi), e sono considerati dei folli, come ha genialmente colto Eliot: «Preferimmo alla fine viaggiare di notte, dormendo a tratti, con le voci che cantavano agli orecchi, dicendo che questo era tutto follia». Invece la loro è la posizione più ragionevole… Noi, uomini post-moderni, non sappiamo più che cos’è la preghiera di adorazione. Ci è più familiare (quando c’è) la preghiera di supplica e più raramente quella di ringraziamento. Perché prostrarsi e adorare vuol dire riconoscere Colui che è più grande e sottomettersi a Lui, accettando di appartenerGli. Questo impegna tutta la nostra libertà anche quando fa cambiare direzione alla nostra vita. La nostra tentazione è invece la «superbia della vita». Ingombrati quotidianamente dall’autoaffermazione del nostro io, lasciamo Dio nella dimenticanza e nell’oblìo”. Ma nella messa dell’Epifania di quest’anno non poteva mancare uno speciale ricordo per “i tanti cristiani chiamati a dare la loro vita per Cristo mentre sono in preghiera nelle Chiese o stretti nelle loro case con i loro cari”. “Il sangue benedetto dei martiri dei nostri giorni - ha ancora aggiunto il card. Scola - non ridonda solo sui cristiani, ma su tutta la famiglia umana perché ci insegna la grande legge dell’esistenza: la vita ci è data, nessuno può autogenerarsi, e ci è data per essere donata. Nel riconoscimento di questa verità l’uomo incontra la possibilità di relazioni buone con Dio, con il prossimo, con se stesso. Sono il fondamento di ogni società veramente civile e, nello stesso tempo, di un ordine mondiale che supera ogni logica di violenza e di terrore contro ogni rischio di scontro di civiltà. I martiri danno la vita per Cristo, guidati non solo da una stella, come i Magi, ma dallo Spirito di Gesù morto/risorto per noi. Per tutti gli uomini credenti o non credenti essi indicano la via della libertà religiosa e della pace”. Testo integrale dell’omelia su www.angeloscola.it (a.p.) 1 - IL PATRIARCA CORRIERE DELLA SERA Pag 12 Scola: “Tra i musulmani è in corso una lotta di idee, oltre che di armi” di M. Antonietta Calabrò Il patriarca di Venezia replica all’invito dell’imam Al Tayeb al Papa

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 7 gennaio 2011

SOMMARIO

Cristiani martiri e rapporti con l’islam: su questi argomenti, di fortissima attualità, il Corriere pubblica oggi un’intervista al Patriarca Scola – sotto il titolo “Tra i

musulmani è in corso una lotta di idee, oltre che di armi” - mentre nella pagina degli editoriali di Avvenire si può trovare l’intervento di Martino Diez, direttore di ricerca della Fondazione Internazionale Oasis, sul tema “Sradicare l’albero del terrorismo.

Le violenze ai copti e l’Islam che s’interroga”.

“Il bambino davanti al quale i Magi si prostrano adoranti ci apre al Mistero di Dio. L’Onnipotente, il Signore dell’universo, l’Eterno, il Santo, cioè l’Altro per eccellenza, si svuota della sua divinità per identificarsi in questo bambino”: il Patriarca ha iniziato così, ieri mattina a S. Marco, la sua omelia durante la messa celebrata nella solennità

dell’Epifania del Signore e che ha rappresentato anche, rinnovando una bella e consolidata tradizione, un particolare momento di preghiera e vicinanza nei confronti dei missionari veneziani (sacerdoti, religiosi, religiose e laici) impegnati in varie parti

del mondo. “Dei Magi – ha, quindi, proseguito il card. Scola - non sappiamo con certezza il nome, non conosciamo bene neppure il numero, non ci è noto il paese di origine. Sappiamo soltanto dove vanno: vanno in cerca del Re dell’universo per

adorarlo. Un drappello di uomini - dotti, ricchi e stranieri - assetati d’infinito. Al loro comparire essi meravigliano, fino all’irritazione, l’umanità che attraversano.

Camminano tra uomini bloccati su se stessi, che hanno soffocato la loro attesa nella smania di conservare il loro potere (Erode) o il loro sapere - anche su Dio - (i capi dei sacerdoti e gli scribi), e sono considerati dei folli, come ha genialmente colto Eliot:

«Preferimmo alla fine viaggiare di notte, dormendo a tratti, con le voci che cantavano agli orecchi, dicendo che questo era tutto follia». Invece la loro è la posizione più ragionevole… Noi, uomini post-moderni, non sappiamo più che cos’è la preghiera di adorazione. Ci è più familiare (quando c’è) la preghiera di supplica e più raramente quella di ringraziamento. Perché prostrarsi e adorare vuol dire riconoscere Colui che è più grande e sottomettersi a Lui, accettando di appartenerGli. Questo impegna tutta

la nostra libertà anche quando fa cambiare direzione alla nostra vita. La nostra tentazione è invece la «superbia della vita». Ingombrati quotidianamente

dall’autoaffermazione del nostro io, lasciamo Dio nella dimenticanza e nell’oblìo”. Ma nella messa dell’Epifania di quest’anno non poteva mancare uno speciale ricordo per “i tanti cristiani chiamati a dare la loro vita per Cristo mentre sono in preghiera nelle Chiese o stretti nelle loro case con i loro cari”. “Il sangue benedetto dei martiri dei nostri giorni - ha ancora aggiunto il card. Scola - non ridonda solo sui cristiani, ma su tutta la famiglia umana perché ci insegna la grande legge dell’esistenza: la vita ci è

data, nessuno può autogenerarsi, e ci è data per essere donata. Nel riconoscimento di questa verità l’uomo incontra la possibilità di relazioni buone con Dio, con il prossimo,

con se stesso. Sono il fondamento di ogni società veramente civile e, nello stesso tempo, di un ordine mondiale che supera ogni logica di violenza e di terrore contro ogni rischio di scontro di civiltà. I martiri danno la vita per Cristo, guidati non solo da una stella, come i Magi, ma dallo Spirito di Gesù morto/risorto per noi. Per tutti gli uomini credenti o non credenti essi indicano la via della libertà religiosa e della

pace”. Testo integrale dell’omelia su www.angeloscola.it (a.p.)

1 - IL PATRIARCA CORRIERE DELLA SERA Pag 12 Scola: “Tra i musulmani è in corso una lotta di idee, oltre che di armi” di M. Antonietta Calabrò Il patriarca di Venezia replica all’invito dell’imam Al Tayeb al Papa

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CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Epifania, Scola ricorda i martiri AVVENIRE Pag 4 “La via della pace”: ventuno rose in San Marco di Francesco Dal Mas IL GAZZETTINO Pag 7 Scola: i martiri indicano la via della pace IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Scola: “No alla violenza contro le minoranze” di Manuela Lamberti L’omelia del Patriarca sui morti di Alessandria IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag VII Scola: “Preparatevi al riscatto” di G.P.B. Giudecca: ieri la visita del Patriarca alle detenute del carcere LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 14 L’abbraccio del Patriarca con le detenute di Nadia De Lazzari Scola fresco di nomina papale al dicastero per l’evangelizzazione CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 9 Regalo di Miroslawa al patriarca Scola. «Dopo il carcere ci sia una nuova vita» di Alice D’Este 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 19 Zelarino, corso per animatori IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Carpenedo: la natività sotto il portico di una casa di campagna Il presepe allestito dai volontari della parrocchia dei Ss. Gervasio e Protasio IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag XXXII Ventotto Natività a Sant’Ignazio del Lido di T.B. Mostra di presepi 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 1 Quel segno che svela di Marina Corradi Il Papa e la lezione dei Magi Pag 13 Divorziati e risposati. Se anche la fede è ferita di Viviana Daloiso Chiesa e sposi in difficoltà: in un libro il complesso rapporto. Le testimonianze di Luca e Margherita Pag 17 “Nel Creato la firma di Dio ma è la Parola la vera stella” Il Papa: nei Magi il volto dell’intera umanità in ricerca Pag 17 L’Angelus: “Chiamati a riflettere la luce di Gesù” Pag 24 Là dove la Bibbia incontrò la scienza di Lorenzo Fazzini A Gerusalemme l’École biblique festeggia i 120 anni di vita IL FOGLIO Pag 3 Perché la chiesa copta è lontana dall’universalismo di Roma Natale copto tra dolore e apprensioni. Cosa divide il 117esimo successore di san Marco

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dal 264esimo successore di san Pietro L’OSSERVATORE ROMANO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 7 Oggi Dio si lascia piegare dalla sua compassione di Manuel Nin L'Epifania nell'innografia di Romano il Melode AVVENIRE di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 La luce sul vuoto di Pierangelo Sequeri L’occasione dell’Epifania Pag 2 Nel nome di Mariam la forza della nostra stirpe di Davide Rondoni La Madre celeste e la vittima dell’attentato Pag 4 «In ogni bambino c’è il volto di Dio» Benedetto XVI: qui si fa concreto l’amore per i bisognosi Pag 5 Il Papa commosso tra i piccoli malati di Salvatore Mazza Ai bambini del Gemelli: la mia preghiera e il mio affetto per darvi forza nella sofferenza Pag 21 Il Papa: con l’Incarnazione la verità entra nella storia La prima catechesi del nuovo anno dedicata al tempo natalizio: «Va riscattato da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale» Pag 21 Nuova evangelizzazione, nominati i membri di M. Mu. LA STAMPA di giovedì 6 gennaio 2011 I cristiani colpiti nelle chiese di Enzo Bianchi IL FOGLIO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 2 Ratisbona e ritorno. Perché sull’islam la chiesa ha idee contradditorie di Paolo Rodari 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO AVVENIRE Pag 2 Quegli anziani troppo soli “figli” del calo demografico di Francesco Riccardi In Cina la legge obbligherà a occuparsi dei genitori Pag 31 Pur separati, restare genitori (lettere al direttore) IL GAZZETTINO Pag 1 Crisi, i tre ostacoli sulla strada di Tremonti di Oscar Giannino CORRIERE DELLA SERA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 La sinistra e il mercato, un’antica diffidenza di Giuseppe Bedeschi CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 5 Il Patriarcato si schiera: «Basta lavorare così, non copiamo la Cina» di Alessio Antonini Monsignor Longoni: non può essere tutto merce 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 13 La Mondadori ha chiuso, l’arrivederci di cuore da migliaia di veneziani di Manuela Pivato L’ultimo giorno di apertura della libreria Pag 15 I musei civici prenotano l’Arsenale di Enrico Tantucci

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Nasce un polo d’arte contemporanea alle tese di San Cristoforo IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Mondadori chiusa: spazio da riconquistare di Tiziano Graziottin Pag X Lucciole, clienti più giovani di Monica Andolfatto I dati della Polizia locale ad un anno dall’applicazione dell’ordinanza. Sui quarant’anni, per lo più rodigini e trevigiani, alcuni sono habituée. In totale 550 multe per un gettito effettivo di oltre 192mila euro LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 16 Al via i saldi, affare da 100 milioni di Gianluca Codognato Solo a Mestre interesseranno 60 mila famiglie: spesa media 413 euro. Gli sconti saranno intorno al 40%: negozi aperti anche domenica prossima, i consigli degli esperti. Lotteria Italia senza fascino, meglio «grattare»: vendita dei biglietti crollata di un terzo, sotto l’albero i cartoncini con vincita immediata CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 10 Sos per l’anno senza ponti. «Slittano le aperture balneari» di Mauro Zanutto Albergatori: un mese di lavoro in meno per gli stagionali IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag XII Il Palaplip si apre alla vita “condivisa” di Maurizio Dianese 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 11 E’ veneto il 22 per cento delle aziende italiane che operano in Romania di Paola Benvenuto Le nuove frontiere dell’imprenditorialità veneta. “Efficienza più che delocalizzazione” LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 8 Sposarsi, poco e tardi I matrimoni in regione sono calati del 16,6 per cento. A Venezia il civile supera il rito religioso Pag 9 Galan: «Addizionale Irpef, una follia» di Filippo Tosatto Il ministro boccia Zaia: vergognoso aumentare le tasse a servizi invariati 10 – GENTE VENETA Tutti gli articoli segnalati di seguito sono pubblicati sul n. 1 di Gente Veneta in uscita sabato 8 gennaio 2011: Pag 1 Debito pubblico, un onere che toglie futuro ai giovani di Paolo Fusco Pagg 1, 15 – 17 E adesso a chi lascio il bebè? di Serena Spinazzi Lucchesi Nonni, nido o baby sitter: come scegliere in 7 mosse. Il rientro al lavoro delle mamme dopo il parto impone la ricerca della miglior soluzione. Che non è una sola per tutti Pag 5 9 gennaio: il Sudan vota per dividersi in due e trema di Silvia Tessari Vota solo il sud cristiano e povero del Paese, che punta a separarsi dal Nord islamico e più agitato. Il pericolo è che riprenda la guerra civile. Reportage sulle nozze in Sudan: cristiane, tribali e… hollywoodiane Pag 7 Il Patriarca presenta la Verbum Domini di Alessandro Polet Venerdì 14 gennaio, alle ore 20.45 al Teatro Toniolo di Mestre, il primo di tre appuntamenti rivolti a tutti i cristiani (e non solo) del territorio

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Pag 8 Ordo Virginum: è pronto il regolamento diocesano di Paolo Fusco Un anno dopo la consacrazione delle prime laiche che vivono il proposito della verginità nella vita quotidiana sono stati pubblicati i “lineamenta” che dettano norme sull’accesso e la vita delle consacrate: il carisma, la regola di vita, la fase della formazione e il servizio da prestare nella Chiesa locale Pag 10 Stranieri residenti oltre il 10%, gran balzo dei moldavi di Giorgio Malavasi Molto più prolifici dei veneziani: sono figli loro il 20% dei bambini fra 0 e 5 anni, stabile il totale della popolazione. I trentamila immigrati fra noi, opportunità e ricchezza per la città di Venezia. Oggi più di ieri Pag 11 Don Francesco: “In Cina scappavo di casa in casa” di Giorgio Malavasi Un giovane sacerdote cinese, oggi studente a Venezia, racconta la storia della sua conversione e vocazione: “Celebravo solo nelle case private, mai nello stesso posto. E vivevo grazie alla carità dei fedeli” Pag 13 E’ a Carpenedo la fabbrica delle adozioni di Laura Campaci Gruppo missioni Terzo Mondo: mille i bambini attualmente sostenuti a distanza, duemila quelli sinora aiutati. Intanto un “loro” ragazzo indiano è diventato ingegnere e ora adotta cinque bambini Pag 23 Tra cielo e terra di Laura Campaci Daniele Garota interverrà domenica a Gambarare: “Avevo un sogno. Coltivare fede, famiglia e campi. L’ho realizzato” All’interno di GV il nuovo numero dell’inserto speciale che, ogni settimana, prepara alla visita del Papa (7 – 8 maggio 2011) … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Indignarsi non basta di Ernesto Galli della Loggia Caso Battisti, immagine italiana Pag 1 Un’inutile tempesta di Franco Venturini Pag 1 Le doppie verità di Fiorenza Sarzanini Pag 1 Le radici dell’odio contro i cristiani di Vittorio Messori Pag 10 Tremonti parafulmine del primato leghista e di opposizioni divise di Massimo Franco Pag 40 L’Italia e il fattore Berlusconi. Come si costruisce un “nemico” di Giorgio Fedel Politica e passioni AVVENIRE Pag 2 Sradicare l’albero del terrorismo di Martino Diez Le violenze ai copti e l’Islam che s’interroga Pag 23 Credere, tra Bonhoeffer e Severino di Roberto Timossi LA NUOVA Pag 4 Chi stacca la spina a Berlusconi di Renzo Guolo CORRIERE DELLA SERA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Nord – Sud, troppi luoghi comuni di Angelo Panebianco

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Pag 2 «Colpiremo ancora i cristiani in Egitto» di Cecilia Zecchinelli Minacce alla vigilia del Natale ortodosso. Il governo: no alle ingerenze. Nella favela del Cairo copto: «Siamo pronti al martirio» Pag 3 «Il Papa invii un messaggio di pace ai musulmani» di Antonio Ferrari L’imam Al Tayyeb: «Può creare malintesi l’appello del Pontefice alla difesa dei fedeli» Pag 3 Ma non vede chi sono le vere vittime del fanatismo di Luigi Ippolito Pag 5 «L’alpino Miotto caduto in piena battaglia» di Fabrizio Caccia e Marco Nese Non è stato il colpo isolato di un cecchino a uccidere il nostro militare il 31 dicembre. Così è cambiata la ricostruzione della tragedia. E i dubbi della prima ora vengono confermati Pag 6 Il monito leghista punta a ottenere il sì dell’opposizione di Massimo Franco Pag 10 Il 2011? L’elettore pdl vede rosa, il leghista nero di Renato Mannheimer Spaccatura sulle prospettive personali e dell’Italia. Pessimista anche chi vota Pd e Idv LA REPUBBLICA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Il Cavaliere tra cachemire e finte tresche, gossip per far dimenticare gli scandali di Filippo Ceccarelli LA STAMPA di giovedì 6 gennaio 2011 Due visioni sul futuro degli Usa di Boris Biancheri IL GIORNALE di giovedì 6 gennaio 2011 Il Colle non diventi lo sportello reclami delle banalità di Mario Giordano AVVENIRE di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 5 «È vita vera quella di mio figlio intubato» (lettera di Luca Russo) Pag 8 Nozze-unioni omosex. La Consulta ribadisce: non sono equiparabili di Pierluigi Fornari e Viviano Daloiso Mirabelli: «Ciò che non è legge si esige per sentenza» Pag 25 Geografia dei martiri di Daniele Zappalà Non solo Egitto e mondo arabo: dalla Cina alla Cecenia cresce la persecuzione dei cristiani nel mondo. Un libro-inchiesta in Francia Pag 26 Baldassarre il 'mago' d’Africa di Franco Cardini Dalle poche notizie sui magi, fornite dal Vangelo di Matteo, è nata la più bella storia di tutti i tempi. La singolare figura del re 'moro', il più giovane e popolare dei tre, quello che porta i regali ai bambini Pag 31 Bestemmia tv e incivili indulgenze (lettere al direttore) IL GAZZETTINO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Il dovere di raccontare la verità di Ulderico Bernardi Pag 1 Il padre dell’alpino: “Spero sia l’ultima versione” di Giuseppe Pietrobelli Una morte al fronte con troppe “verità” LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Battisti e ignoranza militante di Vittorio Emiliani

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1 - IL PATRIARCA CORRIERE DELLA SERA Pag 12 Scola: “Tra i musulmani è in corso una lotta di idee, oltre che di armi” di M. Antonietta Calabrò Il patriarca di Venezia replica all’invito dell’imam Al Tayeb al Papa Roma - Ieri ventuno rose rosse, ventuno «bocoli», sono state offerte all’altare della Madonna Nicopeia nella Basilica di San Marco al termine della messa presieduta dal Patriarca, cardinale Angelo Scola. Un gesto speciale per ricordare il martirio dei cristiani nel mondo e la strage di 21 persone che ha colpito la comunità copta ad Alessandria d’Egitto, una chiesa particolarmente vicina a quella di Venezia, perché nate entrambe dalla predicazione dell’evangelista Marco. Cardinale Scola, l'imam Al Tayyeb, capo della moschea di Al Azhar, ha chiesto in un’intervista al Corriere un segnale del Papa per ristabilire la fiducia. Lei, da decenni, si occupa della presenza dei cristiani in Medioriente anche attraverso la Fondazione Oasis. Cosa pensa delle parole di Al Tayyeb? «Prima di tutto bisogna prendere atto che sappiamo ancora poco gli uni degli altri. Lo prova il fatto che nessun cristiano praticante si riconoscerebbe nell’immagine della sua fede che è corrente tra i musulmani e viceversa. Poi è urgente affrontare il grande nodo del rapporto tra verità e libertà. Si tratta di un equilibrio sempre da riconquistare perché senza verità l’uomo si smarrisce, ma senza libertà l’uomo si ritrova schiavo. La violenza nasce anche da qui». Ma i cristiani non hanno minacciato nessuno, semmai sono vittime di chi in nome della religione fa stragi e semina paura e morte. «Purtroppo le percezioni sono radicalmente diverse tra una sponda e l’altra del Mediterraneo. Molti in Occidente si sentono sotto attacco da parte dell’Islam, mentre in Oriente molti ritengono che sia l’Islam a essere sotto attacco. I media hanno una responsabilità in questo. Tuttavia dobbiamo rimanere aderenti ai fatti: non per la prima volta, alcuni terroristi che sostengono di agire in nome dell’Islam hanno perpetrato un esecrabile attentato suicida in una Chiesa in cui erano radunati in preghiera diversi fedeli cristiani». Benedetto XVI ha chiesto protezione per tutti i cristiani. Come spiega che questa posizione venga etichettata come un'ingerenza? «Il Papa non chiede alcun trattamento privilegiato per i cristiani. Chiede il rispetto dei diritti fondamentali di ogni uomo, tra i quali c’è evidentemente quello a vivere, a professare pubblicamente la religione e a non essere cacciati dal proprio Paese. Siccome negli attentati di Alessandria, come a Bagdad in ottobre, come a Nag Hammadi un anno fa, come in Pakistan molto di frequente, come in India o in Cina, a essere colpiti sono i cristiani, il Papa, che porta la responsabilità di più di un miliardo di fedeli, ha ritenuto doveroso attirare l’attenzione del mondo sul problema della persecuzione dei cristiani». Quale ruolo per l’Europa? «L’Europa deve operare in modo molto più deciso per il rispetto dei diritti fondamentali, avendo il coraggio di non subordinarli agli interessi economici. Inoltre può promuovere, nei fatti, un modello di società plurale nella quale le diverse componenti si riconoscano a partire dal bene pratico dell’essere insieme. È un’idea su cui si possono incontrare laici e credenti delle varie religioni. Un’idea che, nel medio termine, può essere un paradigma per tutti i Paesi». Proprio il giorno dell’attentato di Alessandria, il Papa aveva reso noto che ad ottobre parteciperà all'incontro interreligioso di Assisi... «L’incontro di Assisi ha esattamente questo significato: il terrorismo, prima ancora di essere un problema di sicurezza e di intelligence, solleva una questione di esperienza e di cultura. Esiste una violenza che viene perpetrata in nome di Dio. Occorre che le religioni tolgano ogni legittimità a questi atti criminali. Non dobbiamo dire solo che è sbagliato, ma anche perché è sbagliato». I kamikaze musulmani si ritengono martiri. Anche per i cristiani i martiri sono chiamati a dare testimonianza a Cristo nel modo più alto e definitivo. Che differenza c’è? «La differenza tra un martire e un terrorista suicida è radicale. Il primo abbraccia anticipatamente nella sua offerta il proprio persecutore. Il suo perdono previo vince così un male ingiustificabile. Il terrorista suicida si dispone a morire, ma il suo gesto è rivolto all’annientamento dell’altro. Perciò è intrinsecamente un male, è una negazione dell’umano». Cristiani ed ebrei nei secoli passati sono stati costretti a vivere da «dhimmi», da assoggettati, sotto l'Islam. Ciò è ineluttabile? «Assolutamente no. Le parole dell’imam Al Tayyeb nell’intervista che lei citava sono molto chiare. E a onor del

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vero l’imam ha già espresso questa posizione anche in altre circostanze, ad esempio in un’intervista al giornale libanese an-Nahar di qualche mese fa. Ne ho potuto leggere in anteprima un sunto preparato per la prossima newsletter di Oasis. Nel mondo musulmano è in corso una battaglia delle idee, accanto a quella delle armi che tutti possono vedere: sbaglierebbe chi pensasse che nulla si muove». CORRIERE DEL VENETO Pag 9 Epifania, Scola ricorda i martiri Venezia - «Come non ricordare in questo momento i tanti cristiani chiamati a dare la loro vita per Cristo mentre sono in preghiera nelle chiese o stretti nelle loro case con i loro cari?». Lo ha detto il patriarca di Venezia, Angelo Scola, nell’omelia per la festa dell’Epifania, facendo un implicito richiamo alla strage avvenuta in Egitto. Il patriarca ha ricordato che i martiri indicano la via della libertà religiosa e della pace. Scola ha espresso l’auspicio che «il sangue dei martiri produca per noi ed in noi, ad opera dello Spirito Santo» il riscatto. E dodici boccioli di rosa hanno ricordato proprio i cristiani martiri di Alessandria d’Egitto, durante la messa solenne presieduta dal Patriarca di Venezia. AVVENIRE Pag 4 “La via della pace”: ventuno rose in San Marco di Francesco Dal Mas

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IL GAZZETTINO Pag 7 Scola: i martiri indicano la via della pace

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VIII Scola: “No alla violenza contro le minoranze” di Manuela Lamberti L’omelia del Patriarca sui morti di Alessandria

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IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag VII Scola: “Preparatevi al riscatto” di G.P.B. Giudecca: ieri la visita del Patriarca alle detenute del carcere «Dovete superare questo momento in cui state scontando la pena, preparandovi alla libertà futura». Il Patriarca Angelo Scola, come è ormai tradizione da nove anni, ha celebrato ieri la messa nel carcere femminile della Giudecca. Per Scola l’incontro con le detenute è un momento particolare di questo periodo delle festività natalizie e proprio da questo aspetto è partito il suo appello alle donne che vivono un periodo complesso. «Durante le festività è più difficile per voi perché rispetto a tante altre persone e alle vostre famiglie - ha detto Scola - non avete la libertà piena, ma anche in questa fase serve un impegno forte finalizzato a creare rapporti buoni. Insomma, siete in una fase della vostra vita in cui state pagando, ma contestualmente state cercando il riscatto che dovrà essere totale». Nel carcere della Giudecca, dove attualmente vivono un centinaio di detenute, c’è un’ampia varietà di etnie e religioni. Non a caso la cerimonia è iniziata sulle note di un canto africano e poi sono state fatte le letture in varie lingue, anche alla luce del richiamo del Patriarca al confronto diretto tra cattolici, ortodossi e musulmani. Le detenute, ma anche il personale della polizia penitenziaria, i religiosi e i volontari, hanno risposto con entusiasmo e calore all’incontro di ieri pomeriggio. Al Patriarca, quindi, sono stati donati i profumi, vestiti e anche alimenti che vengono realizzati proprio in carcere. E in vista del battesimo di una detenuta è stato poi consegnato il pane realizzato direttamente alla Giudecca. Finita la cerimonia c’è stato un breve incontro. Tra le varie domande fatte a Scola va segnalata quella di una donna musulmana, originaria dell’Albania, che ha annunciato di volersi convertire alla religione cattolica. Il patriarca Scola ha colto l’occasione al balzo per spiegare che quello del cambiamento di religione è un tema ancora poco discusso in questi nostri anni. «Penso che in ogni caso sia necessario - ha detto Scola - affrontare l’argomento provando intensamente la tradizione religiosa dalla quale si proviene. Solo dopo averla conosciuta molto bene si potrà pensare a passare a quella religione che noi, in base alla nostra esperienza e al nostro modo di pensare, sentiamo più vicina». LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 14 L’abbraccio del Patriarca con le detenute di Nadia De Lazzari Scola fresco di nomina papale al dicastero per l’evangelizzazione «Accettiamo il nostro richiamo di cambiamento e conversione. Vi invito al riscatto totale, al cambiamento del cuore e della mente». E’ la vigilia dell’Epifania. Nella cappella del carcere femminile della Giudecca risuona forte il messaggio del patriarca Angelo Scola, fresco di nomina papale, membro del dicastero del pontificio consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Ad ascoltarlo le sue «carissime amiche» con un bimbo di 11 mesi. I loro occhi guardano lontano. Oltre le sbarre ci sono la libertà, la famiglia e spesso, purtroppo, anche l’emarginazione. Il clima è di festa natalizia, quella che intenerisce i cuori. In un angolo il presepe allestito dalle detenute cattoliche, ortodosse, musulmane. In un altro i doni, cosmetici, pane, ortaggi. Ad accogliere il presule la direttrice Gabriella Straffi, la polizia penitenziaria, il cappellano padre Nilo Trevisan, il direttore della Caritas monsignor Dino Pistolato, don Antonio Biancotto, padre Andrea Cereser, religiose e volontari. Le donne, 95, pregano, cantano, ascoltano il pastore Angelo: «Qui in piccolo è riunita tutta la famiglia umana con diverse religioni, culture, ceti, sensibilità». Il Patriarca si avvicina alle recluse e mostra loro il volto di padre affettuoso. Ribadisce la vicinanza della Chiesa veneziana alle situazioni di sofferenza poi porge la mano a quel mondo che svela lineamenti anche extracontinentali. Lo perdona, lo consola, lo incoraggia: «La vostra presenza è dolorosa, provata dalla distanza dei vostri cari, dal mancato realizzarsi di una libertà. Chiedete una pace santa». L’appello non cade nel vuoto, coinvolge una detenuta: «Ho sbagliato. Da domani vorrei cambiare. Ci riuscirò?». Dopo la messa il Patriarca si sposta in una sala limitrofa. Le detenute lo seguono, inizia un dialogo fatto di confidenze e fraternità. Il porporato si congeda con un: «Tornerò a rivedervi». Dentro quelle mura lascia solidarietà concreta e speranza. Oggi in Basilica, alle 10.30, il Patriarca presiede il Pontificale dell’Epifania. Sono previsti due momenti: la preghiera simultanea in comunione con i missionari veneziani presenti

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nel mondo e il gesto di dodici rose rosse a ricordo del martirio dei cristiani. Oggi, secondo il calendario giuliano, ricorre il Natale ortodosso. In città suggestive le veglie natalizie nelle chiese di San Giorgio dei Greci e di San Zandegolà. CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 9 Regalo di Miroslawa al patriarca Scola. «Dopo il carcere ci sia una nuova vita» di Alice D’Este Venezia - Per lei questo è stato l'ultimo Natale in carcere. Lo racconta col sorriso sulle labbra, Katharina Miroslawa, l'ex ballerina polacca in carcere per l'omicidio dell'industriale parmense Carlo Mazza, avvenuto nel 1986. Poi si avvicina al patriarca Angelo Scola, venuto al carcere della Giudecca per celebrare l’Epifania con le detenute, per consegnargli un regalo simbolico. «Ho passato undici natali qui - racconta - questo però sarà l'ultimo e non potevo fare a meno di dare a lei e alla direttrice questo pensiero. Ho disegnato un segnalibro personalizzato e vi ho scritto qualche riga, ma non vorrei leggerla ora». È bella, Katharina, come sempre. Tacchi a spillo neri, completo castigatissimo, capelli rossi tirati su, ma il carisma, nascosto per prudenza nel silenzio, le esce comunque dagli occhi. Dal gruppo di ragazze si alza una voce: «Dai, Kathy, che quest'anno è finita». Qualcun’altra parla sottovoce, la guarda male, disapprova il suo discorso e i suoi modi, il suo essere al centro dell’attenzione. Sembra salita su un palcoscenico, saluta i presenti e poi seria racconta: «Potevo essere già fuori - dice - ma non è successo. L'ho presa come un'occasione, un altro Natale in carcere, un momento per riflettere, per festeggiare con chi, in questi anni, è stato davvero la mia famiglia». E alla riflessione su se stessi e sul proprio percorso personale, a volte tortuoso, non sempre facile, ha fatto riferimento anche il patriarca durante i diversi momenti di riflessione che hanno scandito la festa durata tutto il pomeriggio di ieri. Prima la Santa Messa dell'Epifania, poi un momento comune di ritrovo, tra le letture delle detenute in tutte le lingue presenti (più di una decina), i canti, i balli africani, le offerte simboliche al patriarca dei prodotti fabbricati in carcere: le verdure degli orti, i cosmetici preparati dalle ragazze e il pane, presentato da Maria e Dana, come simbolo di una richiesta particolare: essere battezzate. «In ognuno di noi c'è della regalità che nessun luogo di pena può stravolgere e lo stesso vale per la libertà interiore - ha detto Scola - voi siete qui, state pagando di persona per una colpa presunta o reale. Ma questa situazione temporanea deve essere per voi un'occasione di riflessione per ricominciare una nuova vita, per ripartire senza dimenticare il passato» . Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE LA NUOVA Pag 19 Zelarino, corso per animatori Inizia il 14 gennaio l’edizione 2011 del corso per animatori di patronato, organizzata da «Noi Insieme» di Venezia e dalle Pastorali dello sport e tempo libero e giovanile della diocesi. Gli incontri si terranno nella sede del centro pastorale di via Visinoni. Primo appuntamento in programma il 14 gennaio dalle 20.30 alle 22.15 sul tema «Animare con» per il primo livello e «Dinamiche con i bambini» per il secondo. Altri incontri a Jesolo. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag XII Carpenedo: la natività sotto il portico di una casa di campagna Il presepe allestito dai volontari della parrocchia dei Ss. Gervasio e Protasio Testo non disponibile IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag XXXII Ventotto Natività a Sant’Ignazio del Lido di T.B. Mostra di presepi

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Lido di Venezia - Ventotto presepi di varie dimensioni sono esposti nelle sale del patronato della parrocchia di Sant’Ignazio di Loyola, a Ca’ Bianca del Lido di Venezia. Sono stati realizzati con materiali diversi, dal piombo, al vetro con la stoffa, pasta, ferro, gusci d’uovo e resina, fino ad arrivare ai materiali classici quali il legno e il gesso. Singolari anche le ambientazioni delle Natività, che richiamano paesaggi anche non strettamente legati al territorio geografico classico. Il parroco monsignor Cesare Zanusso è intenzionato a formare un gruppo di Amici del presepio per programmare un’attività finalizzata ad organizzare ogni anno una mostra come questa, un po’ come avviene nella chiesa della Maddalena a Venezia. La mostra a Sant’Ignazio sarà visitabile fino a domenica 16 gennaio negli orari di apertura del patronato, dalle 15,30 alle 18. L’iniziativa è stata curata da Gianni Moretti e Stefania Mirarchi, che si sono impegnati a raccogliere i presepi e che si propongono di trovarne altri di originali per il prossimo anno. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA AVVENIRE Pag 1 Quel segno che svela di Marina Corradi Il Papa e la lezione dei Magi E mentre volge al termine l’arco delle feste, e i Magi hanno raggiunto la grotta, e si ripongono i presepi; mentre ricominciano i giorni ordinari e l’anno davanti un po’ ci turba con il suo tempo intonso, Benedetto XVI nell’omelia dell’Epifania si domanda: ma chi erano, che genere di uomini erano quei tre re, che inseguirono una stella? Non erano maghi o astrologhi che almanaccassero il futuro dalla lettura del cielo, ma erano, dice il Papa, uomini in ricerca: uomini certi che «nella creazione esiste quella che potremmo definire la “firma” di Dio, una firma che l’uomo può tentare di scoprire e decifrare». Uomini sanamente inquieti, dunque, e non paghi della immediata apparenza delle cose; convinti che dietro questa apparenza, come in filigrana, stia un disegno, e non un caso. Certi che il Creatore può essere intravisto nel creato; e attenti, alacri, tenacemente in cammino dietro a ciò che intuivano esserne l’orma. Ti immagini quei tre in marcia da lontano, per montagne e deserti, in silenzio; forse di giorno incerti, quando il sole alto sembrava negare la realtà di ciò che andavano inseguendo; rinfrancati al tramonto nel ritrovare la loro stella, lucente nell’immenso cielo dell’Asia. Ma, in cosa ci riguardano quei remoti sapienti incamminati verso un evento ignoto, tracciato nella trama delle Scritture ma misterioso e nascosto, tanto che i più degli uomini non se ne sarebbero accorti? Quegli uomini, ripete Benedetto, cercavano le tracce di Dio, «con gli occhi profondi della ragione alla ricerca del senso ultimo della realtà». Ciò che dovremmo fare noi; ciò che siamo stati disabituati a fare da un positivismo di cui siamo inconsapevolmente intrisi, per cui realtà è solo ciò che possiamo scientificamente misurare, sezionare, scomporre. Cosa sarebbe stata quella stella, in questa logica puramente scientista? Un fenomeno astronomico comunque analizzabile nella sua natura, e archiviabile. Nient’altro: ignorata la profonda natura di “segno”, e nessuno in cammino verso quella grotta. I Magi, nel loro incerto andare, si rivolgono a Erode; e quello è preso dallo sgomento, all’idea di un re più potente di lui. Quel bambino va dunque soppresso, per restare il padrone del mondo. Ma non c’è forse qualcosa di Erode anche in noi?, chiede sommessamente il Papa. Noi, «ciechi davanti ai suoi segni, perché pensiamo che non ci permetta di disporre della esistenza a nostro piacimento». Già, c’è un che di noi in Erode, il potente che sussulta al sentire della stella, e si affanna a annientare ciò di cui quella stella è segno. Ammettere Dio e un suo disegno riconoscibile nel creato, non è forse il detestabile limite alla totale autonomia dell’uomo, non è la lotta di una modernità che si pretende libera e completamente artefice del suo destino? Ma quei tre, tenaci a inseguire, per tenebre e deserti, il segno. Certi, come per un’originaria memoria, che un Dio ha lasciato la sua firma nell’universo. Nelle stelle e anche nella umile quotidianità con cui ci si palesa la natura, il corso delle stagioni e della vita. La natura che, come disse san Tommaso, è “arte divina insita nelle cose”: per cui la

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materia, che non ha conoscenza, tende a raggiungere ciò che è vitale non per caso, ma come la freccia lanciata da uno sconosciuto arciere. Un disegno dunque anche dietro la gatta che difende fiera la sua cucciolata, e dietro le gemme dure e chiuse che spunteranno dai rami nel gelo di febbraio. Trama che non sappiamo più riconoscere, perché l’orgoglio della modernità misura, analizza, seziona ma non ammette che le cose celino in sé una firma - che rimandino ad altro, ad un altro. E quei tre Magi dunque così remoti, nel loro faticoso assurdo inseguire per notti e deserti una stella; così vicini, nella domanda che spesso non ascoltiamo - eppure preme in noi, inesorabile, come scritta dentro. Pag 13 Divorziati e risposati. Se anche la fede è ferita di Viviana Daloiso Chiesa e sposi in difficoltà: in un libro il complesso rapporto. Le testimonianze di Luca e Margherita Testo non disponibile Pag 17 “Nel Creato la firma di Dio ma è la Parola la vera stella” Il Papa: nei Magi il volto dell’intera umanità in ricerca Pubblichiamo il testo dell'omelia che il Papa ha pronunciato giovedì, solennità dell'Epifania del Signore, celebrando la Messa nella Basilica vaticana. Cari fratelli e sorelle, nella solennità dell’Epifania la Chiesa continua a contemplare e a celebrare il mistero della nascita di Gesù salvatore. In particolare, la ricorrenza odierna sottolinea la destinazione e il significato universali di questa nascita. Facendosi uomo nel grembo di Maria, il Figlio di Dio è venuto non solo per il popolo d’Israele, rappresentato dai pastori di Betlemme, ma anche per l’intera umanità, rappresentata dai Magi. Ed è proprio sui Magi e sul loro cammino alla ricerca del Messia (cfr Mt 2,1-12) che la Chiesa ci invita oggi a meditare e a pregare. Nel Vangelo abbiamo ascoltato che essi, giunti a Gerusalemme dall’Oriente, domandano: "Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo" (v. 2). Che genere di persone erano, e che specie di stella era quella? Essi erano probabilmente dei sapienti che scrutavano il cielo, ma non per cercare di "leggere" negli astri il futuro, eventualmente per ricavarne un guadagno; erano piuttosto uomini "in ricerca" di qualcosa di più, in ricerca della vera luce, che sia in grado di indicare la strada da percorrere nella vita. Erano persone certe che nella creazione esiste quella che potremmo definire la "firma" di Dio, una firma che l’uomo può e deve tentare di scoprire e decifrare. Forse il modo per conoscere meglio questi Magi e cogliere il loro desiderio di lasciarsi guidare dai segni di Dio è soffermarci a considerare ciò che essi trovarono, nel loro cammino, nella grande città di Gerusalemme. Anzitutto incontrarono il re Erode. Certamente egli era interessato al bambino di cui parlavano i Magi; non però allo scopo di adorarlo, come vuole far intendere mentendo, ma per sopprimerlo. Erode è un uomo di potere, che nell’altro riesce a vedere solo un rivale da combattere. In fondo, se riflettiamo bene, anche Dio gli sembra un rivale, anzi, un rivale particolarmente pericoloso, che vorrebbe privare gli uomini del loro spazio vitale, della loro autonomia, del loro potere; un rivale che indica la strada da percorrere nella vita e impedisce, così, di fare tutto ciò che si vuole. Erode ascolta dai suoi esperti delle Sacre Scritture le parole del profeta Michea (5,1), ma il suo unico pensiero è il trono. Allora Dio stesso deve essere offuscato e le persone devono ridursi ad essere semplici pedine da muovere nella grande scacchiera del potere. Erode è un personaggio che non ci è simpatico e che istintivamente giudichiamo in modo negativo per la sua brutalità. Ma dovremmo chiederci: forse c’è qualcosa di Erode anche in noi? Forse anche noi, a volte, vediamo Dio come una sorta di rivale? Forse anche noi siamo ciechi davanti ai suoi segni, sordi alle sue parole, perché pensiamo che ponga limiti alla nostra vita e non ci permetta di disporre dell’esistenza a nostro piacimento? Cari fratelli e sorelle, quando vediamo Dio in questo modo finiamo per sentirci insoddisfatti e scontenti, perché non ci lasciamo guidare da Colui che sta a fondamento di tutte le cose. Dobbiamo togliere dalla nostra mente e dal nostro cuore l’idea della rivalità, l’idea che dare spazio a Dio sia un limite per noi stessi; dobbiamo aprirci alla certezza che Dio è l’amore onnipotente che non

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toglie nulla, non minaccia, anzi, è l’Unico capace di offrirci la possibilità di vivere in pienezza, di provare la vera gioia. I Magi poi incontrano gli studiosi, i teologi, gli esperti che sanno tutto sulle Sacre Scritture, che ne conoscono le possibili interpretazioni, che sono capaci di citarne a memoria ogni passo e che quindi sono un prezioso aiuto per chi vuole percorrere la via di Dio. Ma, afferma sant’Agostino, essi amano essere guide per gli altri, indicano la strada, ma non camminano, rimangono immobili. Per loro le Scritture diventano una specie di atlante da leggere con curiosità, un insieme di parole e di concetti da esaminare e su cui discutere dottamente. Ma nuovamente possiamo domandarci: non c’è anche in noi la tentazione di ritenere le Sacre Scritture, questo tesoro ricchissimo e vitale per la fede della Chiesa, più come un oggetto per lo studio e la discussione degli specialisti, che come il Libro che ci indica la via per giungere alla vita? Penso che, come ho indicato nell’Esortazione apostolica Verbum Domini, dovrebbe nascere sempre di nuovo in noi la disposizione profonda a vedere la parola della Bibbia, letta nella Tradizione viva della Chiesa (n. 18), come la verità che ci dice che cosa è l’uomo e come può realizzarsi pienamente, la verità che è la via da percorrere quotidianamente, insieme agli altri, se vogliamo costruire la nostra esistenza sulla roccia e non sulla sabbia. E veniamo così alla stella. Che tipo di stella era quella che i Magi hanno visto e seguito? Lungo i secoli questa domanda è stata oggetto di discussione tra gli astronomi. Keplero, ad esempio, riteneva che si trattasse di una "nova" o una "supernova", cioè di una di quelle stelle che normalmente emanano una luce debole, ma che possono avere improvvisamente una violenta esplosione interna che produce una luce eccezionale. Certo, cose interessanti, ma che non ci guidano a ciò che è essenziale per capire quella stella. Dobbiamo riandare al fatto che quegli uomini cercavano le tracce di Dio; cercavano di leggere la sua "firma" nella creazione; sapevano che "i cieli narrano la gloria di Dio" (Sal 19,2); erano certi, cioè che Dio può essere intravisto nel creato. Ma, da uomini saggi, sapevano pure che non è con un telescopio qualsiasi, ma con gli occhi profondi della ragione alla ricerca del senso ultimo della realtà e con il desiderio di Dio mosso dalla fede, che è possibile incontrarlo, anzi si rende possibile che Dio si avvicini a noi. L’universo non è il risultato del caso, come alcuni vogliono farci credere. Contemplandolo, siamo invitati a leggervi qualcosa di profondo: la sapienza del Creatore, l’inesauribile fantasia di Dio, il suo infinito amore per noi. Non dovremmo lasciarci limitare la mente da teorie che arrivano sempre solo fino a un certo punto e che – se guardiamo bene – non sono affatto in concorrenza con la fede, ma non riescono a spiegare il senso ultimo della realtà. Nella bellezza del mondo, nel suo mistero, nella sua grandezza e nella sua razionalità non possiamo non leggere la razionalità eterna, e non possiamo fare a meno di farci guidare da essa fino all’unico Dio, creatore del cielo e della terra. Se avremo questo sguardo, vedremo che Colui che ha creato il mondo e Colui che è nato in una grotta a Betlemme e continua ad abitare in mezzo a noi nell’Eucaristia, sono lo stesso Dio vivente, che ci interpella, ci ama, vuole condurci alla vita eterna. Erode, gli esperti delle Scritture, la stella. Ma seguiamo il cammino dei Magi che giungono a Gerusalemme. Sopra la grande città la stella sparisce, non si vede più. Che cosa significa? Anche in questo caso dobbiamo leggere il segno in profondità. Per quegli uomini era logico cercare il nuovo re nel palazzo reale, dove si trovavano i saggi consiglieri di corte. Ma, probabilmente con loro stupore, dovettero costatare che quel neonato non si trovava nei luoghi del potere e della cultura, anche se in quei luoghi venivano offerte loro preziose informazioni su di lui. Si resero conto, invece, che, a volte, il potere, anche quello della conoscenza, sbarra la strada all’incontro con quel Bambino. La stella li guidò allora a Betlemme, una piccola città; li guidò tra i poveri, tra gli umili, per trovare il Re del mondo. I criteri di Dio sono differenti da quelli degli uomini; Dio non si manifesta nella potenza di questo mondo, ma nell’umiltà del suo amore, quell’amore che chiede alla nostra libertà di essere accolto per trasformarci e renderci capaci di arrivare a Colui che è l’Amore. Ma anche per noi le cose non sono poi così diverse da come lo erano per i Magi. Se ci venisse chiesto il nostro parere su come Dio avrebbe dovuto salvare il mondo, forse risponderemmo che avrebbe dovuto manifestare tutto il suo potere per dare al mondo un sistema economico più giusto, in cui ognuno potesse avere tutto ciò che vuole. In realtà, questo sarebbe una sorta di violenza sull’uomo, perché lo priverebbe di elementi fondamentali che lo caratterizzano. Infatti, non sarebbero chiamati in causa né la nostra libertà, né il nostro amore. La potenza di Dio si manifesta in modo del tutto differente: a Betlemme, dove incontriamo

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l’apparente impotenza del suo amore. Ed è là che noi dobbiamo andare, ed è là che ritroviamo la stella di Dio. Così ci appare ben chiaro anche un ultimo elemento importante della vicenda dei Magi: il linguaggio del creato ci permette di percorrere un buon tratto di strada verso Dio, ma non ci dona la luce definitiva. Alla fine, per i Magi è stato indispensabile ascoltare la voce delle Sacre Scritture: solo esse potevano indicare loro la via. E’ la Parola di Dio la vera stella, che, nell’incertezza dei discorsi umani, ci offre l’immenso splendore della verità divina. Cari fratelli e sorelle, lasciamoci guidare dalla stella, che è la Parola di Dio, seguiamola nella nostra vita, camminando con la Chiesa, dove la Parola ha piantato la sua tenda. La nostra strada sarà sempre illuminata da una luce che nessun altro segno può darci. E potremo anche noi diventare stelle per gli altri, riflesso di quella luce che Cristo ha fatto risplendere su di noi. Amen. Pag 17 L’Angelus: “Chiamati a riflettere la luce di Gesù” Riportiamo il testo dell'intervento di Benedetto XVI in occasione della recita della preghiera mariana dell'Angelus insieme ai fedeli e ai pellegrini riuniti in Piazza San Pietro nella solennità dell'Epifania del Signore. Cari fratelli e sorelle! Celebriamo oggi l’Epifania, la manifestazione di Gesù a tutte le genti, rappresentate dai Magi, che giunsero a Betlemme dall’Oriente per rendere omaggio al Re dei Giudei, la cui nascita essi avevano conosciuto dall’apparire di una nuova stella nel cielo (cfr Mt 2,1-12). In effetti, prima dell’arrivo dei Magi, la conoscenza di questo avvenimento era andata poco al di là della cerchia familiare: oltre che a Maria e a Giuseppe, e probabilmente ad altri parenti, esso era noto ai pastori di Betlemme, i quali, udito il gioioso annuncio, erano accorsi a vedere il bambino mentre ancora giaceva nella mangiatoia. La venuta del Messia, l’atteso delle genti predetto dai Profeti, rimaneva così inizialmente nel nascondimento. Finché, appunto, giunsero a Gerusalemme quei misteriosi personaggi, i Magi, a domandare notizie del "re dei Giudei", nato da poco. Ovviamente, trattandosi di un re, si recarono al palazzo reale, dove risiedeva Erode. Ma questi non sapeva nulla di tale nascita e, molto preoccupato, convocò subito i sacerdoti e gli scribi, i quali, sulla base della celebre profezia di Michea (cfr 5,1), affermarono che il Messia doveva nascere a Betlemme. E infatti, ripartiti in quella direzione, i Magi videro di nuovo la stella, che li guidò fino al luogo dove si trovava Gesù. Entrati, si prostrarono e lo adorarono, offrendo doni simbolici: oro, incenso e mirra. Ecco l’epifania, la manifestazione: la venuta e l’adorazione dei Magi è il primo segno della singolare identità del figlio di Dio, che è anche figlio della Vergine Maria. Da allora cominciò a propagarsi la domanda che accompagnerà tutta la vita di Cristo, e che in vari modi attraversa i secoli: chi è questo Gesù? Cari amici, questa è la domanda che la Chiesa vuole suscitare nel cuore di tutti gli uomini: chi è Gesù? Questa è l’ansia spirituale che spinge la missione della Chiesa: far conoscere Gesù, il suo Vangelo, perché ogni uomo possa scoprire sul suo volto umano il volto di Dio, e venire illuminato dal suo mistero d’amore. L’Epifania preannuncia l’apertura universale della Chiesa, la sua chiamata ad evangelizzare tutte le genti. Ma l’Epifania ci dice anche in che modo la Chiesa realizza questa missione: riflettendo la luce di Cristo e annunciando la sua Parola. I cristiani sono chiamati ad imitare il servizio che fece la stella per i Magi. Dobbiamo risplendere come figli della luce, per attirare tutti alla bellezza del Regno di Dio. E a quanti cercano la verità, dobbiamo offrire la Parola di Dio, che conduce a riconoscere in Gesù "il vero Dio e la vita eterna" (1 Gv 5,20). Ancora una volta, sentiamo in noi una profonda riconoscenza per Maria, la Madre di Gesù. Ella è l’immagine perfetta della Chiesa che dona al mondo la luce di Cristo: è la Stella dell’evangelizzazione. "Respice Stellam", ci dice san Bernardo: guarda la Stella, tu che vai in cerca della verità e della pace; volgi lo sguardo a Maria, e Lei ti mostrerà Gesù, luce per ogni uomo e per tutti i popoli. [Il Papa ha poi salutato i pellegrini in diverse lingue. In Italiano ha detto:] Rivolgo di cuore il mio saluto e i più fervidi auguri ai fratelli e alle sorelle delle Chiese Orientali che domani celebreranno il Santo Natale. La bontà di Dio, apparsa in Gesù Cristo, Verbo incarnato, rafforzi in tutti la fede, la speranza e la carità, e dia conforto alle comunità che sono nella prova. Ricordo poi che l’Epifania è la Giornata Missionaria dei

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Bambini, proposta dalla Pontificia Opera della Santa Infanzia. Tanti bambini e ragazzi, organizzati nelle parrocchie e nelle scuole, formano una rete spirituale e di solidarietà per aiutare i loro coetanei più in difficoltà. È molto bello e importante che i bambini crescano con una mentalità aperta al mondo, con sentimenti di amore e di fraternità, superando l’egocentrismo e il consumismo. Cari bambini e ragazzi, con la vostra preghiera e il vostro impegno voi collaborate alla missione della Chiesa. Vi ringrazio per questo e vi benedico! Saluto infine con affetto i pellegrini di lingua italiana, in particolare i giovani dell’Oratorio San Vittore di Verbania e i partecipanti al corteo storico-folcloristico, che quest’anno è animato dalle famiglie di Città di Castello e dell’Alta Valle del Tevere. A tutti auguro una buona festa dell’Epifania. Pag 24 Là dove la Bibbia incontrò la scienza di Lorenzo Fazzini A Gerusalemme l’École biblique festeggia i 120 anni di vita Testo non disponibile IL FOGLIO Pag 3 Perché la chiesa copta è lontana dall’universalismo di Roma Natale copto tra dolore e apprensioni. Cosa divide il 117esimo successore di san Marco dal 264esimo successore di san Pietro Roma. Tra misure di sicurezza speciali, in Egitto e in tutti i luoghi della numerosa diaspora - in Italia la comunità copta è stimata in oltre 30 mila fedeli - la chiesa copta celebra oggi il proprio Natale nel ricordo dell'attentato di Alessandria del 31 dicembre e nel timore delle nuove minacce indirizzate al patriarca Shenouda III, Papa dei copti e 117esimo successore dell'apostolo Marco. Anche ieri Papa Benedetto XVI, 264esimo successore dell'apostolo Pietro, ha fatto sentire la sua voce in difesa delle "comunità che sono nella prova", confermando, almeno sotto il profilo mediatico, un ruolo di portavoce vicario di tutte le comunità del medio oriente, anche non cattoliche, vittime della crescente "cristianofobia". In difesa dei copti si sono fatti sentire anche altri esponenti della gerarchia cattolica: dal presidente della Cei, Angelo Bagnasco, a Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano dove risiede una delle comunità copte più grandi d'Italia. Eppure per la chiesa di Roma, in evidente sofferenza nei confronti di un islam sempre più aggressivo e violento, non è facile prendere le misure del rapporto con l'antica chiesa autoctona egiziana, così poco "occidentale" e gelosa della propria autonomia. Con una punta polemica, ieri lo storico Alberto Melloni notava al Foglio, che il Vaticano sembra parlare coi copti "solo ora che sono stati uccisi", suggerendo che "Il dialogo interreligioso non può dimenticare quello ecumenico". I motivi di questa situazione sono molteplici. Da un lato il Vaticano fatica a trovare interlocutori anche nell'islam "moderato” egiziano (vedi la risposta data a Ratzinger dall'imam di al Azhar, Ahmed al Tayeb). Dall'altro ci sono motivi 'antichi, connaturati al particolare, unico, cristianesimo "etnico" dei copti. Copto è parola greca, significa Egitto. E' una chiesa autoctona, figlia della predicazione di Marco, e la rivendicazione della propria natura segna la sua storia. Una chiesa che nasce, si potrebbe dire, "nazional-popolare" contro l’occupazione bizantina e divisa da Costantinopoli da ragioni teologiche fin dal Concilio di Calcedonia del 451. Nazionalisti, profondamente identificati con la propria tradizione, i copti sembrarlo la smentita storica di un cristianesimo inteso come religione dell'occidente. E anche della sua vocazione universale. Questo ha contribuito a farli resistere più e meglio di altre chiese. E, in tempi più recenti, ha permesso loro di sviluppare un nazionalismo che lì fa sentire profondamente egiziani, nonostante la crescente arabizzazione iniziata con Nasser. Anche la struttura interna della chiesa copta è unica nel panorama mediorientale. Ha da sempre nel monachesimo la truppa scelta e propulsiva (i suoi vescovi provengono dai monaci, celibi). Ha una vivacità notevole nel corpo sociale, consolidata sul territorio grazie alle scuole domenicali, all'istruzione del clero, a una dimensione comunitarista sconosciuta in altre chiese del mondo arabo. Attraverso una personalità come Papa Shenouda i copti hanno conservato la capacità di fare sentire la propria voce. Ciò nonostante la situazione è peggiorata. Wael Farouqi docente di Lingua araba all'American University del Cairo, ha scritto recentemente che "gli egiziani musulmani pensano che la chiesa copta sia diventata uno stato dentro lo

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stato, perché non accetta di sottomettersi alla legge". Padre Rafiq Greiche, responsabile delle comunicazioni della chiesa cattolica in Egitto, ha recentemente scritto, per il sito della fondazione Oasis, che la chiesa copta ha "bisogno di aprirsi" alla società egiziana e alle altre chiese e comunità cristiane. L'attuale tragica contingenza potrebbe spingere in questa direzione. L’OSSERVATORE ROMANO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 7 Oggi Dio si lascia piegare dalla sua compassione di Manuel Nin L'Epifania nell'innografia di Romano il Melode Presente in tutte le tradizioni cristiane di oriente, l'Epifania è una festa liturgica che celebra la manifestazione del Verbo di Dio incarnato, in un contesto trinitario e cristologico. I testi liturgici del 6 gennaio riassumono i principali misteri della fede cristiana: quello trinitario, l'incarnazione del Verbo di Dio, la redenzione ricevuta nel battesimo. Evento, quest'ultimo, specialmente celebrato durante la liturgia della grande benedizione delle acque che ricorda e celebra il battesimo di Cristo e di ognuno dei fedeli cristiani. I grandi innografi cristiani orientali hanno dedicato dei testi poetici alla contemplazione di questa celebrazione: Efrem (†373), Romano il Melode (†555), Sofronio di Gerusalemme (†638), Germano di Costantinopoli (†733), Andrea di Creta (†740), Giovanni Damasceno (†750), Giuseppe l'Innografo (IX secolo). Sono testi dove sono messi in evidenza lo stupore e la meraviglia del Battista e di tutta la creazione - gli angeli, il firmamento, le acque del Giordano - di fronte alla manifestazione umile del Verbo di Dio incarnato che si avvia a ricevere il battesimo da Giovanni. Romano il Melode, nei suoi due kontàkia - poemi che per intero o in parte entreranno nell'uso liturgico delle Chiese bizantine - per la festa dell'Epifania mette in risalto alcuni aspetti teologici importanti. In primo luogo Romano accosta diverse volte la nudità di Adamo e del genere umano con il battesimo e il vestito nuovo lì indossato, vestito che è Cristo stesso: «Perciò noi, nudi figli di Adamo, riuniamoci tutti, rivestiamoci di lui per ricevere il suo calore! Riparo per i nudi e luce per quanti sono al buio tu sei venuto, sei apparso, luce inaccessibile». Molto spesso per via di contrasto, l'innografo insiste sul fatto che la nudità di Adamo disubbidiente porta Dio, per poterlo salvare e per poterci salvare, a spogliarsi e farsi uomo, spogliato come Adamo: «Dio, con la sua santa voce chiamò il disubbidiente: Dove sei, Adamo? Voglio vederti! Anche se nudo sei, anche se povero sei, non avere vergogna, perché io mi sono fatto simile a te. Tu che volevi diventare Dio non ci sei riuscito: io invece mi sono fatto carne». L'incarnazione del Verbo di Dio è paragonata da Romano a un grande abbraccio in cui Dio elargisce all'uomo la sua misericordia, con un retroterra molto chiaro della parabola del figlio prodigo: «Dalla mia compassione mi sono lasciato piegare, misericordioso quale sono, e mi sono avvicinato a ciò che ho plasmato, tendendo le mani per abbracciarti. Non provare vergogna dinanzi a me: per te che sei nudo io mi denudo e mi battezzo». L'autore quindi accosta la nudità dell'uomo all'incarnazione di Cristo vista come denudarsi e farsi uno di noi, con un gioco di parole tra il denudarsi dell'incarnazione e il denudarsi per il battesimo. In diverse delle strofe del primo kontàkion, Romano fa parlare in forma dialogica Cristo e Giovanni Battista, come se fosse un dialogo in prosecuzione di quello della pericope evangelica del battesimo di Cristo nel Giordano. Da parte di Giovanni c'è lo stupore e la paura, mentre che da parte di Cristo c'è la forza e l'incoraggiamento: «Giovanni fu sconvolto dalla paura e disse: Fermati, o Salvatore, e non insistere: a me basta essere stato considerato degno di vederti! Che cosa richiedi a un uomo, tu, amico del genere umano? Perché chini il tuo capo sotto questa mia mano? Essa non è abituata a reggere il fuoco! Tu vieni da me, ma il cielo e la terra guardano se compirò l'atto temerario». E Cristo risponde al Battista, il Precursore (pròdromos): «Tu hai un incarico da assolvere per me. Una volta ho mandato Gabriele e ha svolto bene il suo compito per la tua nascita: manda anche tu la tua mano come un angelo, per battezzare. Prestami soltanto la destra! Battezzami e attendi in silenzio ciò che avverrà». Il battesimo di Cristo è un dono dello Spirito a tutta la Chiesa affinché anch'essa diventi luogo di salvezza per i battezzati: «Io sto per aprire i cieli, far discendere lo Spirito e darlo in pegno. Battezzatore e contestatore, preparati non alla controversia ma al servizio! Io qui disegnerò per te la soave e splendente figura della Chiesa, accordando alla tua destra quel potere che poi attribuirò alle mani dei discepoli e dei sacerdoti». In entrambi i

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kontàkia dell'Epifania, Romano accosta la nudità dopo il peccato di Adamo, spogliato dall'immagine di cui fu creato, alla nudità di Cristo incarnato e pronto a essere battezzato: «Giovanni contemplò con rispetto le membra ignude di colui che impone alle nuvole di avvolgere il cielo come un mantello, e vide in mezzo ai flutti colui che era apparso in mezzo ai tre fanciulli, la rugiada di fuoco». Il Melode sviluppa ancora il tema e della nudità e della cecità di Adamo dopo il peccato, presentate come conseguenza della sua caduta: «Ad Adamo accecato nell'Eden è apparso un sole da Betlemme ed egli ha aperto le sue pupille, detergendole con le acque del Giordano. Quando Adamo per sua volontà perse la vista per aver assaggiato il frutto che rende ciechi, subito fu denudato: trovandolo cieco, colui che gli aveva tolto la vista lo privò dei vestiti. A tale vista colui che per natura è compassionevole si avvicinò a lui dicendo: Nudo ed accecato io ti accolgo». Per Romano, quindi, l'incarnazione e il battesimo di Cristo sono realtà finalizzate a riportare e ricreare Adamo nella condizione di figlio: «Inneggia, inneggia a lui, o Adamo; adora colui che ti viene incontro! Mentre tu ti ritraevi, egli si è mostrato a te affinché tu potessi vederlo, toccarlo e riceverlo. Lui è sceso sulla terra per portarti lassù, è diventato mortale affinché tu potessi diventare dio e rivestirti della primitiva dignità, per riaprire l'Eden ha preso dimora a Nazaret». Verso la fine del secondo dei suoi poemi, Romano riprende il tema del vestito bianco indossato dai battezzati, vestito intessuto dallo Spirito Santo nell'incarnazione del Verbo di Dio, divenuto agnello di Dio: «È stata ormai strappata la veste del lutto, abbiamo indossato l'abito bianco, intessuto per noi dallo Spirito col vello immacolato dell'Agnello e Dio nostro. Quale messaggio del Battista e quale mistero in esso! Chiama agnello il pastore, e non semplicemente agnello, ma agnello che libera dalle colpe». Per il poeta le teofanie veterotestamentarie sono soltanto ombre, prefigurazioni della grande e piena teofania del Verbo di Dio nella sua incarnazione; esse si compiono pienamente nella nascita e nell'epifania del Logos divino, che diventa visibile agli occhi di tutti: «Quando Dio apparve ad Abramo si mostrò come un angelo. Ora invece è apparso a noi col suo vero aspetto, perché il Verbo si è fatto carne: allora l'oscurità, ora la chiarezza; ai padri le ombre, ai patriarchi le figure, ai figli invece la verità in persona! Colui che Ezechiele vide in forma umana su un carro di fuoco e Daniele come figlio d'uomo e antico di giorni, vecchio e giovane, proclamando solo Signore colui che è apparso e ha illuminato ogni cosa». Una delle strofe, la prima del primo kontàkion sull'Epifania del Melode, è quella che è entrata nell'ufficiatura bizantina e che raccoglie tutta la teologia della festa: «Ti sei manifestato oggi al mondo, e la tua luce, o Signore, ha impresso il segno su di noi che, riconoscendoti, eleviamo a te il nostro inno: Sei venuto, sei apparso, luce inaccessibile». AVVENIRE di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 La luce sul vuoto di Pierangelo Sequeri L’occasione dell’Epifania Non prendiamocela con le lucine. Nella mia città un artista-studente ha realizzato, per una scultura di post-modernità osservante allocata presso una stazione ferroviaria in zona centro, una elegantissima velatura di lucine, con calde sfumature di colore. Ne sortiva un effetto d’anima, una circolazione di presenza incandescente e di intimità discreta, che solcava l’intero enorme piazzale, greve di penombre lattiginose (insomma, il demoralizzante effetto-città dell’illuminazione pubblica). L’installazione trasformava la scultura originale in un vero punto-presepe. Un nodo caldo di luce e penombra: intenso e vivo, non chiassoso né invadente. Infine – proprio come il presepe delle nostre case e delle nostre chiese – un morbido cordone ombelicale, in cui batte il respiro di un appena-nato: che riscalda il sangue nelle vene di tutti. Lo sguardo stesso se ne appropriava, portandolo con sé, trasferendo quei piccoli palpiti di luce vivente nei punti più lontani del grande perimetro. Le ombre morte se ne riscaldavano, gli ottusi cementi se ne addolcivano, la sgangherata colonna sonora del traffico andava miracolosamente in sordina. Per un momento, fermava il tempo e il respiro. Estirpato. In pochissimi giorni, la lesa maestà d’Autore ha rivendicato il suo legittimo diritto. E noi abbiamo perso un battito del cuore. Non ho potuto fare a meno di pensare a questo, leggendo le parole pronunciate ieri dal Papa sull’effetto-Epifania per l’intero mistero natalizio. Benedetto XVI si è sottratto allo stereotipo delle critiche di maniera, ormai adottate anche dagli osservatori ai quali del Natale cristiano non importa nulla. «La festa di Natale affascina

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oggi, come una volta, più di altre grandi feste della Chiesa; affascina perché tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesù ha a che fare con le aspirazioni e le speranze più profonde dell’uomo». Non sono le luci della festa, e il calore intimo che vi si avvolge, la pietra dello scandalo. È il vuoto di realtà che vi si installa, il nostro problema. Natale è un punto di tangenza con il mistero della nostra origine e della nostra destinazione. Dio non è mai stato così vicino agli esseri umani, come in quel giorno. Quando non vediamo più, quando non siamo più toccati – e persino feriti – dai segni di quella presenza, possiamo allungare le prediche e accendere i fari quanto vogliamo. L’occasione è persa. Il consueto traffico riprende. Se invece batte il cuore, per la nostalgia della Presenza bambina di Dio, allora tutto può di nuovo accadere. «Il consumismo può distogliere da questa interiore nostalgia – prosegue il Papa – ma se nel cuore c’è il desiderio di accogliere quel Bambino che porta la novità di Dio», allora anche «le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si è accesa con l’incarnazione di Dio». Trafitto mille volte, questo Natale. Dagli aguzzi profili delle nostre insensibili città di pietra, dove si tollerano luci solo per gli ultimi nati di Mammona. Dalle terribili ombre di un risentimento disperato e distruttivo, che viene da oscuri fraintendimenti del Sacro. Eppure, mai così vicino al nostro impotente senso di struggimento per il vuoto che lascerebbe, se fosse spento. Guardate i vostri figli. Cercate il respiro della carne del Figlio. E non avvilite piccoli poeti e piccoli santi, che – giovani e ostinati – accendono lucine per tutti noi. Pag 2 Nel nome di Mariam la forza della nostra stirpe di Davide Rondoni La Madre celeste e la vittima dell’attentato Ancora nel nome di Mariam. Noi andiamo avanti ancora per quel nome. Che è il nome dell’ave Maria piena di grazia, della Ragazza che sta nei cieli ed è anche il nome della ragazza martire. Il nome di Lei che fu trafitta da sette spade. E di lei che ha conosciuto la trafittura delle schegge, e perduto il corpo, la voce, il bel viso nella deflagrazione. Mariam aveva 22 anni. È una delle vittime di Alessandria. Una cristiana uccisa mentre usciva di chiesa. Il suo viso e i suoi messaggi sono diventati uno dei simboli dell’assurdità di quel gesto che fa tremare. Per se stesso – vile, sprezzante di ogni cosa e soprattutto di Dio – e per quel che tale gesto segnala. Ma noi di fronte a queste ombre, alla oscura semina che in tanti stanno facendo, alla astuta micidiale strategia di persecuzione, noi andremo ancora avanti nel nome di Mariam. Nel nome dei suoi 22 anni. Della sua fede semplice. Della sua speranza. Che è la speranza invincibile dei cristiani. Della stirpe che qualcuno vorrebbe tirare via dal mondo. La stirpe che non dipende dalle logiche del sangue e del potere. Andremo avanti nel nome di Mariam. Come lei, con il suo sorriso. Con la speranza ragazza. Con quella giovinezza di fede che han voluto troncare e ora – come sempre accade per il sangue dei martiri – invece si dissemina, si amplifica, da frutti, nel pianto e nell’amore. Frutti già lì, in Egitto, dove a il Cairo recentemente un Meeting gemello a quello dei cristiani a Rimini è sorto per volere di autorevoli musulmani come incontro tra amici di fedi diverse. Siamo sotto attacco ma non ci sentiamo in una guerra tra civiltà perché il cristianesimo non è una civiltà, e dunque non è una civiltà opposta alle altre. Ma siamo una stirpe. Un popolo che vive in tante civiltà e a tutte collabora. Se lo lasciano vivere. Se non gli gettano bombe contro o leggi discriminanti. La nostra stirpe è antica e giovanissima. Ha più di duemila anni, con Maria che conobbe i dolori del parto, e ha poco più di vent’anni, con la fede di Mariam. E poi la vera bomba, noi della sua strana stirpe lo sappiamo, è lei. La vera 'arma', quella che nessuna bomba può eliminare, che nessuna spada può separare dalla sua gioia, la vera arma è Mariam. Una ragazza. Una giovane donna che conosce l’amicizia del Dio fatto carne. Finché esisterà una ragazza così la nostra stirpe sorriderà nel mondo. Lei non era apparentemente niente di speciale, poca cosa, ventidue anni, i gusti normali, i vestiti come tutti. Ma ora sarà lei un’altra protettrice della nostra stirpe. Si aggiunge alla schiera di grandi santi e sconosciuti ragazzi, alla schiera invincibile di uomini umili o eccelsi il cui cuore ardeva per Cristo, e che ci donano il sorriso anche nelle tenebre. Che ci donano il dono della pace. Che suggeriscono con la loro santa pazienza qual è la vittoria della nostra stirpe: l’abbraccio al prossimo. No, non abbiamo paura delle ombre che qualcuno vuole portare nel mondo: abbiamo una ragazza in cielo e una ragazza nel cuore e il loro sorriso è il segreto della nostra stirpe. Chi getta bombe, chi butta irrisione

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e disprezzo non lo sa, o forse si accanisce proprio perché lo capisce: non sono altre armi le nostre vere forze. La nostra stirpe prende le sue forze da eventi d’amore, da ragazzi e ragazze come Mariam. Dal miracolo di Cristo che chiama nel fuoco della giovinezza e che ora ha chiamato Mariam anche nel fuoco delle bombe. La nostra stirpe nasce e rinasce dal sorriso di lei che incontra il sorriso di Lui. Chi non ha idea, chi non ha esperienza di questo non potrà mai capire la dolce invincibilità della stirpe dei cristiani. Pag 4 «In ogni bambino c’è il volto di Dio» Benedetto XVI: qui si fa concreto l’amore per i bisognosi Pubblichiamo le parole pronunciate da Papa Benedetto XVI mercoledì pomeriggio visitando il Policlinico “Agostino Gemelli” di Roma in occasione della solennità dell'Epifania. Signor Cardinale, cari Sacerdoti, Autorità Accademiche, Dirigenti, Personale medico e paramedico, cari bambini, genitori, amici! Perché sono venuto qui, in mezzo a voi, oggi, giorno in cui iniziamo a celebrare la Solennità dell’Epifania? Prima di tutto per dire grazie. Grazie a voi bambini che mi avete accolto: voglio dirvi che vi voglio bene e che vi sono vicino con la mia preghiera e il mio affetto, anche per darvi forza nell’affrontare la malattia. Vorrei ringraziare poi i vostri genitori, i parenti, i Dirigenti e tutto il personale del Policlinico, che con competenza e carità si prendono cura della sofferenza umana; in particolare vorrei ringraziare l’équipe di questo reparto di Pediatria e del Centro per la cura dei bambini con spina bifida. Benedico le persone, l’impegno e questi ambienti in cui si esercita in modo concreto l’amore verso i più piccoli e i più bisognosi. Cari bambini e ragazzi, ho voluto venire a trovarvi anche per fare un po’ come i Magi, che celebriamo in questa Festa dell’Epifania: essi portarono a Gesù dei doni - oro, incenso e mirra - per manifestargli adorazione e affetto. Oggi vi ho portato anch’io qualche regalo, proprio perché sentiate, attraverso un piccolo segno, la simpatia, la vicinanza, l’affetto del Papa. Ma vorrei che tutti, adulti e bambini, in questo tempo di Natale, ricordassimo che il più grande regalo l’ha fatto Dio a ciascuno di noi. Guardiamo nella grotta di Betlemme, nel presepe, chi vediamo? Chi incontriamo? C’è Maria, c’è Giuseppe, ma soprattutto c’è un bambino, piccolo, bisognoso di attenzione, di cure, di amore: quel bambino è Gesù, quel bambino è Dio stesso che ha voluto venire sulla terra per mostrarci quanto ci vuole bene, è Dio che si è fatto come voi bambino per dirvi che vi è sempre accanto e per dire a ciascuno di noi che ogni bambino porta il suo volto. Ora, prima di concludere, non posso non estendere un cordiale saluto a tutto il personale e a tutti i degenti di questo grande Ospedale. Incoraggio le diverse iniziative di bene e di volontariato, come pure le istituzioni che qualificano l’impegno al servizio della vita, penso in particolare, in questa circostanza, all’Istituto Scientifico Internazionale "Paolo VI", finalizzato a promuovere la procreazione responsabile. Grazie ancora a tutti! Il Papa vi vuole bene! Pag 5 Il Papa commosso tra i piccoli malati di Salvatore Mazza Ai bambini del Gemelli: la mia preghiera e il mio affetto per darvi forza nella sofferenza Commozione, tanta. E non solo dei bambini, o dei loro genitori. S’è commosso anche lui. Il Papa. Succede, in un reparto pediatrico. Facilmente. S’è commosso nel salutare i bambini, e nel consegnare i doni che aveva portato per loro. «Qualche regalo – ha detto – proprio perché sentiate, attraverso un piccolo segno, la simpatia, la vicinanza, l’affetto del Papa». E, soprattutto, per dire che «Dio stesso ha voluto venire sulla terra per mostrarci quanto ci vuole bene, e si è fatto bambino come voi per dirvi che vi è sempre accanto e per dire a ciascuno di noi che ogni bambino porta il suo volto». Il pomeriggio di Benedetto XVI al Policlinico «Agostino Gemelli» dell’Università Cattolica è trascorso così, tra emozione e festa. Alla vigilia dell’Epifania «anche per fare un po’ come i Magi, che portarono a Gesù dei doni, oro, incenso e mirra, per manifestargli adorazione e affetto». Arrivato puntuale alle 17.15, accolto dal cardinale vicario di Roma Agostino Vallini, dal rettore dell’Università Cattolica, Lorenzo Ornaghi e da tutta la dirigenza dell’ateneo, papa Ratzinger s’è subito recato a visitare il dipartimento di pediatria, accompagnato dal direttore dell’unità Costantino Romagnoli, fermandosi con tutti i 53 ospiti attualmente ricoverati nelle tre sezioni, consegnando a ciascuno un regalo –

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carillon e peluche per i più piccoli, libri per i più grandi – e con i loro genitori. Un momento «a dir poco commovente – avrebbe raccontato più tardi lo stesso Romagnoli – su ogni bambino si è soffermato, ha chiesto ai medici come stava e come intendevano curarlo. E in particolare si è commosso guardando le incubatrici dei prematuri, perché li ha visti infinitamente deboli». Dal reparto Benedetto XVI s’è quindi trasferito nella hall del Policlinico universitario, dove s’è svolta la parte pubblica della visita. A salutarlo, a nome di tutti, è stata Francesca, adolescente in carrozzina affetta da spina bifida e ricoverata presso il centro specializzato del Dipartimento, che, inaugurato qualche anno fa, Benedetto XVI ha voluto ieri benedire. «Caro Santo Padre, a nome di tutti i bambini del Gemelli: benvenuto, sono emozionata, ma anche tanto contenta di questa tua visita», ha detto Francesca nel dargli il benvenuto. «Anche noi – ha aggiunto con commozione la ragazza – abbiamo bisogno di incontrare Gesù. Il nostro cielo si era fatto scuro di nuvole minacciose. Oggi si accende la luce della stella: una speranza nuova. Per questo ti ringraziamo, Padre Santo». Quindi è stato papa Ratzinger a prendere la parola, a concludere quella che Ornaghi ha definito «una giornata bellissima una grande dimostrazione di tenerezza da parte del Santo Padre verso i bambini, soprattutto quelli in condizioni difficili che sono il segno della bellezza della vita. Questo momento suggella il rapporto tra il Pontefice e il Policlinico Gemelli». Tanto più, come sottolineato dal direttore del policlinico Cesare Catananti, «con le parole di sostegno e di incoraggiamento per l’impegno che tutto il personale ogni giorno profonde nella cura dei malati». A ricordo della visita, i pazienti pediatrici del Centro per la spina bifida hanno regalato a Benedetto XVI tre statuine raffiguranti i Magi, in terracotta e stoffa pregiata, parte della collezione «Antiche meraviglie» realizzati in unico esemplare dall’artigianato artistico lucano di Franca Daria di Grassano (Matera). Inoltre il rettore dell’Università Cattolica ha donato al Papa una riproduzione anastatica dello spartito autografo del compositore italiano Licino Refice del Mottetto «Tu es Petrus». Durante la visita al reparto di pediatria l’Associazione dei genitori dei bambini prematuri del Gemelli (Genitin) ha inoltre regalato al Papa una maglietta con il logo dell’associazione e la scritta «Nati per vivere», che «il Pontefice ha apprezzato molto», ha detto ancora Romagnoli, raccontando che Benedetto XVI «ha subito preso la maglietta, che aveva la scritta tradotta in diverse lingue, tra cui il tedesco, e se l’è messa al braccio». Fra le molte persone presenti all’evento anche l’attore Tullio Solenghi, testimonial di molte campagne sulla spina bifida, per il quale «la visita del Papa testimonia l’importanza che la prevenzione e la conoscenza di questa malattia hanno acquisito negli ultimi anni». Pag 21 Il Papa: con l’Incarnazione la verità entra nella storia La prima catechesi del nuovo anno dedicata al tempo natalizio: «Va riscattato da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale» Pubblichiamo il testo dell'intervento pronunciato questo mercoledì da Benedetto XVI durante l'Udienza generale svoltasi nell’Aula Paolo VI. Cari fratelli e sorelle! Sono lieto di accogliervi in questa prima Udienza generale del nuovo anno e di tutto cuore porgo a voi e alle vostre famiglie fervidi auguri. Il Signore del tempo e della storia guidi i nostri passi sulla via del bene e conceda a ciascuno abbondanza di grazia e prosperità. Ancora circondati dalla luce del Santo Natale, che ci invita alla gioia per la venuta del Salvatore, siamo oggi alla vigilia dell’Epifania, in cui celebriamo la manifestazione del Signore a tutte le genti. La festa del Natale affascina oggi come una volta, più di altre grandi feste della Chiesa; affascina perché tutti in qualche modo intuiscono che la nascita di Gesù ha a che fare con le aspirazioni e le speranze più profonde dell’uomo. Il consumismo può distogliere da questa interiore nostalgia, ma se nel cuore c’è il desiderio di accogliere quel Bambino che porta la novità di Dio, che è venuto per donarci la vita in pienezza, le luci degli addobbi natalizi possono diventare piuttosto un riflesso della Luce che si è accesa con l’incarnazione di Dio. Nelle celebrazioni liturgiche di questi giorni santi abbiamo vissuto in modo misterioso ma reale l’ingresso del Figlio di Dio nel mondo e siamo stati illuminati ancora una volta dalla luce del suo fulgore. Ogni celebrazione è presenza attuale del mistero di Cristo e in essa si prolunga la storia della salvezza. A proposito del Natale, il Papa san Leone Magno afferma: "Anche se la successione delle azioni corporee ora è passata, come è stato

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ordinato in anticipo nel disegno eterno…, tuttavia noi adoriamo continuamente lo stesso parto della Vergine che produce la nostra salvezza" (Sermone sul Natale del Signore 29,2), e precisa: "perché quel giorno non è passato in modo tale che sia anche passata la potenza dell’opera che allora fu rivelata" (Sermone sull’Epifania 36,1). Celebrare gli eventi dell’incarnazione del Figlio di Dio non è semplice ricordo di fatti del passato, ma è rendere presenti quei misteri portatori di salvezza. Nella Liturgia, nella celebrazione dei Sacramenti, quei misteri si rendono attuali e diventano efficaci per noi, oggi. Ancora san Leone Magno afferma: "Tutto ciò che il Figlio di Dio fece e insegnò per riconciliare il mondo, non lo conosciamo soltanto nel racconto di azioni compiute nel passato, ma siamo sotto l’effetto del dinamismo di tali azioni presenti" (Sermone 52,1). Nella Costituzione sulla sacra liturgia, il Concilio Vaticano II sottolinea come l’opera della salvezza realizzata da Cristo continua nella Chiesa mediante la celebrazione dei santi misteri, grazie all’azione dello Spirito Santo. Già nell’Antico Testamento, nel cammino verso la pienezza della fede, abbiamo testimonianze di come la presenza e l’azione di Dio sia mediata attraverso i segni, ad esempio, quello del fuoco (cfr Es 3,2ss; 19,18). Ma a partire dall’Incarnazione avviene qualcosa di sconvolgente: il regime di contatto salvifico con Dio si trasforma radicalmente e la carne diventa lo strumento della salvezza: "Verbum caro factum est", "il Verbo si fece carne", scrive l’evangelista Giovanni e un autore cristiano del III secolo, Tertulliano, afferma: "Caro salutis est cardo", "la carne è il cardine della salvezza" (De carnis resurrectione, 8,3: PL 2,806). Il Natale è già la primizia del "sacramentum-mysterium paschale", è cioè l’inizio del mistero centrale della salvezza che culmina nella passione, morte e risurrezione, perché Gesù comincia l’offerta di se stesso per amore fin dal primo istante della sua esistenza umana nel grembo della Vergine Maria. La notte di Natale è quindi profondamente legata alla grande veglia notturna della Pasqua, quando la redenzione si compie nel sacrificio glorioso del Signore morto e risorto. Lo stesso presepio, quale immagine dell’incarnazione del Verbo, alla luce del racconto evangelico, allude già alla Pasqua ed è interessante vedere come in alcune icone della Natività nella tradizione orientale, Gesù Bambino venga rappresentato avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro; un’allusione al momento in cui Egli verrà deposto dalla croce, avvolto in un lenzuolo e messo in un sepolcro scavato nella roccia (cfr Lc 2,7; 23,53). Incarnazione e Pasqua non stanno una accanto all’altra, ma sono i due punti chiave inseparabili dell’unica fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio Incarnato e Redentore. Croce e Risurrezione presuppongono l’Incarnazione. Solo perché veramente il Figlio, e in Lui Dio stesso, "è disceso" e "si è fatto carne", morte e risurrezione di Gesù sono eventi che risultano a noi contemporanei e ci riguardano, ci strappano dalla morte e ci aprono ad un futuro in cui questa "carne", l’esistenza terrena e transitoria, entrerà nell’eternità di Dio. In questa prospettiva unitaria del Mistero di Cristo, la visita al presepio orienta alla visita all’Eucaristia, dove incontriamo presente in modo reale il Cristo crocifisso e risorto, il Cristo vivente. La celebrazione liturgica del Natale, allora, non è solo ricordo, ma è soprattutto mistero; non è solo memoria, ma anche presenza. Per cogliere il senso di questi due aspetti inscindibili, occorre vivere intensamente tutto il Tempo natalizio come la Chiesa lo presenta. Se lo consideriamo in senso lato, esso si estende per quaranta giorni, dal 25 dicembre al 2 febbraio, dalla celebrazione della Notte di Natale, alla Maternità di Maria, all’Epifania, al Battesimo di Gesù, alle nozze di Cana, alla Presentazione al Tempio, proprio in analogia con il Tempo pasquale, che forma un’unità di cinquanta giorni, fino alla Pentecoste. La manifestazione di Dio nella carne è l’avvenimento che ha rivelato la Verità nella storia. Infatti, la data del 25 dicembre, collegata all’idea della manifestazione solare – Dio che appare come luce senza tramonto sull’orizzonte della storia –, ci ricorda che non si tratta solo di un’idea, quella che Dio è la pienezza della luce, ma di una realtà per noi uomini già realizzata e sempre attuale: oggi, come allora, Dio si rivela nella carne, cioè nel "corpo vivo" della Chiesa peregrinante nel tempo, e nei Sacramenti ci dona oggi la salvezza. I simboli delle celebrazioni natalizie, richiamati dalle Letture e dalle preghiere, danno alla liturgia di questo Tempo un senso profondo di "epifania" di Dio nel suo Cristo-Verbo incarnato, cioè di "manifestazione" che possiede anche un significato escatologico, orienta cioè agli ultimi tempi. Già nell’Avvento le due venute, quella storica e quella alla fine della storia, erano direttamente collegate; ma è in particolare nell’Epifania e nel Battesimo di Gesù che la manifestazione messianica si celebra nella prospettiva delle attese escatologiche:

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la consacrazione messianica di Gesù, Verbo incarnato, mediante l’effusione dello Spirito Santo in forma visibile, porta a compimento il tempo delle promesse e inaugura i tempi ultimi. Occorre riscattare questo Tempo natalizio da un rivestimento troppo moralistico e sentimentale. La celebrazione del Natale non ci propone solo degli esempi da imitare, quali l’umiltà e la povertà del Signore, la sua benevolenza e amore verso gli uomini; ma è piuttosto l’invito a lasciarci trasformare totalmente da Colui che è entrato nella nostra carne. San Leone Magno esclama: "il Figlio di Dio … si è congiunto a noi e ha congiunto noi a sé in modo tale che l’abbassamento di Dio fino alla condizione umana divenisse un innalzamento dell’uomo fino alle altezze di Dio" (Sermone sul Natale del Signore 27,2). La manifestazione di Dio è finalizzata alla nostra partecipazione alla vita divina, alla realizzazione in noi del mistero della sua incarnazione. Tale mistero è il compimento della vocazione dell’uomo. Ancora san Leone Magno spiega l’importanza concreta e sempre attuale per la vita cristiana del mistero del Natale: "le parole del Vangelo e dei Profeti … infiammano il nostro spirito e ci insegnano a comprendere la Natività del Signore, questo mistero del Verbo fatto carne, non tanto come un ricordo di un avvenimento passato, quanto come un fatto che si svolge sotto i nostri occhi… è come se ci venisse ancora proclamato nella solennità odierna: «Vi do l’annunzio di una grande gioia, che sarà per tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore che è il Cristo Signore»" (Sermone sul Natale del Signore 29,1). Ed aggiunge: "Riconosci, cristiano, la tua dignità, e, fatto partecipe della natura divina, bada di non ricadere, con una condotta indegna, da tale grandezza, nella primitiva bassezza" (Sermone 1 sul Natale del Signore, 3). Cari amici, viviamo questo Tempo natalizio con intensità: dopo aver adorato il Figlio di Dio fatto uomo e deposto nella mangiatoia, siamo chiamati a passare all’altare del Sacrificio, dove Cristo, il Pane vivo disceso dal cielo, si offre a noi quale vero nutrimento per la vita eterna. E ciò che abbiamo veduto con i nostri occhi, alla mensa della Parola e del Pane di Vita, ciò che abbiamo contemplato, ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo fatto carne, annunciamolo con gioia al mondo e testimoniamolo generosamente con tutta la nostra vita. Rinnovo di cuore a tutti voi e ai vostri cari sentiti auguri per il Nuovo Anno e vi auguro una buona festività dell’Epifania. Pag 21 Nuova evangelizzazione, nominati i membri di M. Mu. Roma. Comincia a prendere forma il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione. Il Papa, infatti, ha nominato ieri i membri del nuovo dicastero, da lui stesso creato nel corso del 2010 ed affidato alla presidenza dell’arcivescovo, monsignor Rino Fisichella. In totale si tratta di 19 ecclesiastici, fra i quali nove cardinali, otto arcivescovi e due vescovi. I nove porporati sono Christoph Schönborn, arcivescovo di Vienna (Austria); Angelo Scola, patriarca di Venezia; George Pell, arcivescovo di Sydney (Australia); Josip Bozanic, arcivescovo di Zagabria (Croazia); Marc Ouellet, prefetto della Congregazione per i vescovi; Francisco Robles Ortega, arcivescovo di Monterrey (Messico); Odilo Pedro Scherer, arcivescovo di San Paolo (Brasile); William Joseph Levada, prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede e Stanislaw Rylko, presidente del Pontificio Consiglio per i laici.Vi sono poi gli otto arcivescovi: Claudio Maria Celli, presidente del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali; Nikola Eterovic, segretario generale del Sinodo dei vescovi; Pierre-Marie Carré, coadiutore di Montpellier (Francia); Timothy Michael Dolan di New York (Stati Uniti d’America); Robert Zollitsch di Friburgo (Germania); Bruno Forte di Chieti-Vasto; Bernard Longley di Birmingham (Gran Bretagna) e André-Joseph Léonard di Malines-Bruxelles (Belgio). Infine i due vescovi sono Adolfo González Montes di Almería (Spagna) e Vincenzo Paglia di Terni-Narni-Amelia. Come si vede, dunque, su 19 membri il Papa ha scelto solo cinque membri della Curia romana. Tutti gli altri sono a capo di Chiese locali di tre continenti. Moltissimi, naturalmente, gli europei. Dieci sui 14 arcivescovi e vescovi residenziali. Vi sono poi un rappresentante per ciascuna parte dell’America (nord, centro e sud) e un australiano. Gli italiani sono quattro, tre fra arcivescovi e vescovi residenziali e un esponente della Curia romana. In tal modo vengono riportate all’interno del nuovo Pontificio Consiglio tutte le voci e le sensibilità dei territori destinatari, in prospettiva, di una nuova evangelizzazione.

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LA STAMPA di giovedì 6 gennaio 2011 I cristiani colpiti nelle chiese di Enzo Bianchi In questi stessi giorni, un anno fa, un attentato che aveva provocato una decina di morti tra i fedeli copti che uscivano dalla chiesa di Nagaa Hamadi in Egitto, ci aveva portato a riflettere, sempre sulle colonne di questo giornale, sulla persecuzione che i cristiani subiscono in varie parti del mondo, in contesti socio-culturali diversi e in situazione di minoranza religiosa che diviene, come in Medio Oriente, sempre più precaria. Il sanguinoso attentato di Alessandria d’Egitto, che ha colpito ancora una volta la chiesa copta, ha riportato l’attenzione dei media mondiali su un tragico fenomeno che non ha cessato di ripresentarsi in tutta la sua brutalità e che ancora poche settimane fa aveva fatto la sua irruzione in una chiesa di Baghdad: in molti Paesi si paga con la vita il semplice fatto di essere discepoli di Gesù di Nazareth e di testimoniare la propria fede nella vita quotidiana. Purtroppo una strage ci scuote dal torpore dell’assuefazione solo quando la sua efferatezza coinvolge un Paese geograficamente, storicamente o culturalmente più vicino a noi. Allora ci si incammina in pericolose generalizzazioni: i musulmani nel loro insieme e l’islam come religione vengono identificati con l’integralismo dei suoi estremismi, dimenticando le vittime che il fondamentalismo religioso miete in tutti i campi; allora le analisi superficiali e liberatorie si sprecano: si colorano conflitti sociali o etnici con le tinte sanguinarie del fondamentalismo religioso, si dimentica il peso della storia e degli errori commessi ancora ai nostri giorni nel mescolare politica e religione, si chiudono al dialogo porte che non si sono mai volute davvero aprire. In controtendenza va sottolineato il gesto di grande sapienza e profezia con cui papa Benedetto XVI ha voluto unire alla condanna del crimine assassino e all’appello a un’autentica libertà religiosa l’invito rivolto «ai fratelli cristiani delle diverse confessioni, agli esponenti delle tradizioni religiose del mondo e, idealmente, a tutti gli uomini di buona volontà», per ritrovarsi insieme ad Assisi a «rinnovare solennemente l’impegno dei credenti di ogni religione a vivere la propria fede religiosa come servizio per la causa della pace»: un incontro in quello spirito di dialogo che Giovanni Paolo II seppe destare venticinque anni or sono nella città di san Francesco. Chi in questi anni è stato sovente criticato dentro e fuori la chiesa per questo «spirito di Assisi» oggi riceve gli elogi da quanti devono constatare che la fiaccola del dialogo e dell’ascolto reciproco è stata tenuta accesa nonostante il vento tirasse in altra direzione: penso a tanti che nella chiesa perseguono il dialogo interreligioso con spirito cristiano, senza fare politica né perseguire vantaggi personali. Assisi non sarà un incontro delle religioni «contro» chi religioso non è, ma un confronto per riaffermare la coerenza delle religioni con la pace e il dialogo, per mostrare la volontà di porsi a servizio dell’umanità e delle culture. Quello ad Assisi potrà essere davvero un’opportunità forte perché ogni religione esprima accanto alle altre il cuore del proprio messaggio. E qui vorrei sottolineare un dato che emerge dalle più recenti stragi di cristiani, a Baghdad come ad Alessandria, come in tanti altri luoghi: le vittime vengono colpite mentre sono riunite in preghiera nelle assemblee domenicali, mentre celebrano il mistero cruciale della loro fede. Se da parte dei terroristi può essere solo un calcolo assassino per mietere un maggior numero di vittime, non dobbiamo trascurarne la valenza simbolica e la sua centralità nel discorso della libertà religiosa. Garantire a ogni cittadino la libertà di professare in privato e in pubblico la propria fede è ciò di cui ogni Stato di diritto dovrebbe farsi carico, ma per i cristiani l’eucarestia domenicale è ben di più di un gesto «pubblico»: è l’evento comunitario per eccellenza, è il luogo e il tempo che costituisce come tale una comunità cristiana. Non si tratta di avere uno spazio in cui potersi riunire o manifestare, un luogo e un giorno che potrebbero quindi variare di volta in volta per ragioni di sicurezza, ma di ritrovarsi nel «giorno del Signore» per celebrare la «cena del Signore», per riconoscersi comunità convocata dalla parola di Dio e chiamata a formare un corpo e un’anima sola. Per questo i cristiani, anche minacciati di morte, non rinunciano a ritrovarsi in chiesa come assemblea di credenti, come hanno ribadito i cristiani in Egitto e in Iraq in questi giorni. Non a caso già negli «Atti dei martiri» dei primi secoli troviamo testimonianze limpidissime in questo senso. Durante la persecuzione di Diocleziano (304 d. C.), al proconsole di Abitene - nell’odierna Tunisia - che lo accusava di aver ospitato nella sua casa assemblee domenicali cristiane contro l’editto dell’imperatore, il martire Emerito rispose: «Non potevo proibire loro di entrare in casa, perché senza l’eucaristia

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domenicale non possiamo esistere». È su questa consapevolezza del profondo legame tra fede personale ed espressione comunitaria del culto che si radica il cristianesimo: non su identità culturali reali o immaginarie, non su astratte convergenze di idee, ma sul vissuto quotidiano nella comunità dei credenti, sulla trasparenza di una testimonianza di fratellanza e di amore universale. Questo non va dimenticato da chi vive in Paesi fino a ieri considerati cattolici, come il Belgio o il Canada, e nei quali assistiamo a un anticristianesimo culturale che - pur non esprimendosi assolutamente in termini persecutori - mostra una crescente diffidenza con ricadute anche nella vita della polis e negli stessi orientamenti politici. Sanno oggi le chiese discernere la diversità di queste situazioni e leggerle come segni dei tempi che chiedono una risposta trasparente, evangelica, magari anche scandalosa per il pensiero omologato di tante nostre società? Sì, questi tempi sono decisivi per il modo di stare nel mondo delle chiese, per delineare il futuro del cristianesimo nel tessuto delle nazioni e dei popoli della Terra. E in questo discernimento, a noi tranquilli cristiani d’Occidente giunge, drammatico ma saldo nella fede, l’insegnamento dei nostri fratelli e delle nostre sorelle vittime di violenze e di persecuzioni. IL FOGLIO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 2 Ratisbona e ritorno. Perché sull’islam la chiesa ha idee contradditorie di Paolo Rodari Roma. Mentre vengono macellati i cristiani nel mondo arabo il Vaticano s'interroga sul da farsi ma non è facile. Al suo interno ci sono più linee quanto ai rapporti con l'islam, posizioni assai divergenti che faticano a esprimere una visione globale. Così sembrava non dovesse essere, all'inizio del pontificato di Joseph Ratzinger. Quando nel febbraio del 2006 il Papa tolse a Michael Fitzgerald la presidenza del "ministero" per il dialogo interreligioso designandolo nunzio apostolico in Egitto, alcuni osservatori parlarono della volontà di abbandonare la linea del dialogo morbido con l'islam proprio dell'era wojtyliana in favore di una strategia più identitaria e competitiva. L’interpretazione parve suffragata poco dopo da due fatti importanti: il declassamento del "ministero" che era di Fitzgerald, il Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso (ogni competenza venne data al settore culturale del Vaticano) e l'uscita del Papa a Ratisbona, con l'abbandono dell'irenismo che non aveva mai avuto il coraggio di denunciare chi è ancora incapace di coniugare ragione, fede e nome di Dio: appunto l'islam. E poi? Il vaticanista Sandro Magister invita a leggere il discorso del Papa alla curia romana pronunciato di lì a poco. Era il dicembre del 2006. Ratzinger confermò quanto detto a Ratisbona entrando in maniera ancor più potente nel cuore del problema. Si chiese: qual è il compito dell'islam oggi? Elaborare, quella giusta sintesi tra la fede e "le vere conquiste dell'illuminismo" che i cristiani hanno raggiunto in secoli di "ricerca faticosa" e "mai definitiva". Insomma, una linea chiara: un dialogo più fattivo dei consueti abbracci cerimoniali. E la constatazione di come la strada andasse percorsa anzitutto dall'islam. E oggi? Ratzinger non ha cambiato idea. Ma, dice Magister, "la sua linea si scontra col fatto che nell'islam questa rivoluzione illuminista non c'è. La situazione è di stallo. Il Papa ha chiaro il tragitto ma manca chi lo faccia proprio". Non a caso il dialogo con 138 musulmani che scrissero al Papa dopo Ratisbona, seppure incanalatosi su binari positivi, procede a rilento. La linea identitaria è portata avanti da diversi "ratzingeriani" che lavorano nella segreteria di stato. Il corso Dominique Mamberti, responsabile dei rapporti con gli stati, non è certo un crociato dell'ultima ora ma la sua conoscenza dél mondo islamico gli dà competenza 'e realismo: nato a Marrakech, è stato rappresentante pontificio, oltre che in Cile e alle Nazioni Unite, anche in paesi dove l'islam ha una forte connotazione, Algeria, Libano, Kuwait, Arabia Saudita, Sudan, Eritrea e Somalia. Se da un punto di vista teorico la linea del Papa non è mai mutata quanto all'islam, da un punto di vista pratico è evidente che qualche concessione alle'altre linee di dialogo ha dovuto farle. Il Consiglio per il dialogo interreligioso precedentemente declassato, infatti, ha ritrovato dopo la crisi diplomatica di Ratisbona un suo spazio autonomo e Ratzinger l'ha affidato al cardinale Jean-Louis Tauran. Questi è uomo di scuola wojtyliana: già segretario per i rapporti con gli stati nel 1990-1991 e alla fine del pontificato di Wojtyla, fu tra i primi a definire l'intervento militare in Iraq guidato dagli Stati Uniti "un crimine contro la pace". Diplomatico di razza, molto preparato Circa i risvolti sociali, politici e culturali del medio

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Oriente, cerca il dialogo con tutti seppure non sia facile trovare interlocutori credibili nell'islam. Un caso emblematico è quello dell'imam di al Azhar, Ahmed al Tayyeb. Massima autorità islamica egiziana, frequenta gli incontri di preghiera promossi da Sant'Egidio ma critica il Papa. Certo il dialogo serve: non a caso Cl al Cairo ha organizzato quest'anno un meeting tra le diverse religioni. Ma in molti nella chiesa chiedono uno sguardo più guardingo sull'islam. Tra questi Piero Gheddo: missionario del Pime, mesi fa il fondatore di Asianews paventava sul Daily Telegraph, il rischio della conquista dell'Europa da parte dell'islam. Dice lo storico Alberto Melloni: "Che in Vaticano ci siano posizioni diverse è evidente. Come è evidente che servirebbe una visione globale, investendo però anche il dialogo ecumenico. Mi ha colpito che il Vaticano parli coi copti Solo ora che sono stati uccisi. E' una visione tiepida delle cose. Il dialogo interreligioso non può dimenticare quello ecumenico, ovvero le tante minoranze protestanti presenti nei paesi arabi. Anche loro, che sovente la chiesa cattolica definisce sette, hanno i propri martiri. Serve una visione globale". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA / LAVORO AVVENIRE Pag 2 Quegli anziani troppo soli “figli” del calo demografico di Francesco Riccardi In Cina la legge obbligherà a occuparsi dei genitori Per un secolo sono stati gli Usa ad anticipare tendenze che si sarebbero riproposte dopo qualche anno anche da noi. Ora è la Cina – alle prese con un drammatico problema di abbandono degli anziani – a rappresentare probabilmente l’avanguardia di un fenomeno sociale, che potrebbe diventare comune a buona parte delle società occidentali. Il governo cinese, infatti, sta predisponendo in questi giorni un emendamento alla legge sulla protezione degli anziani, per obbligare i figli adulti a visitare regolarmente i propri genitori, a garantirne il mantenimento, ma soprattutto a occuparsi dei loro bisogni psicologici, perché non si sentano trascurati o isolati. Secondo alcune stime, infatti, la metà circa dei 167 milioni di cinesi anziani vive da solo, spesso senza alcun aiuto e con pochi contatti sociali. Così anche le associazioni di volontariato saranno incoraggiate a fornire servizi a domicilio e maggiore assistenza alla popolazione più vecchia. Il fatto che – in una società orientata a tributare onore ai propri genitori, com’è nella tradizione asiatica – si debba ricorrere addirittura a una norma imperativa per garantire compagnia e assistenza agli anziani, la dice lunga sulla dimensione e profondità del problema. Che è insieme economico, sociale e culturale, ma trova le sue radici più profonde nella questione demografica. E quest’ultima – ecco il nodo – è comune anche a tante società europee. Il rovesciamento della piramide dell’età della popolazione – con un numero crescente di anziani, sempre più vecchi, a fronte di classi di giovani e bambini sempre più esigue – sta mettendo in crisi i sistemi economici e di welfare, tanto delle società occidentali quanto di quelle nuove tigri della produzione industriale, che hanno adottato politiche di stretto controllo delle nascite. Le maggiori spese per previdenza e cure sanitarie, infatti, devono essere finanziate attraverso le imposte e i contributi di un numero minore di giovani, creando scompensi e distorsioni. Inoltre, i progressi della medicina e l’allungamento della vita media hanno accresciuto enormemente il numero di persone della "quarta età" con problemi di autosufficienza. Genitori anziani e anzianissimi, che non vivono più in grandi famiglie allargate, ma la cui cura ricade invece sulle spalle di uno, massimo due figli. Nelle società occidentali, il problema – pure già avvertito – non è ancora esploso, perché a doversi occupare oggi degli 80-90enni è ancora una generazione molto ampia, quella degli attuali 40-50enni nati durante il boom economico. Nel caso della Cina, invece, la questione si è già fatta allarmante adesso, perché da 30 anni viene applicata la sciagurata politica del figlio unico. Che ha decimato le nascite e indotto alla selezione dei maschi ai danni delle femmine (tra l’altro più inclini ai compiti di cura familiare). La progressiva industrializzazione, con i fenomeni correlati di inurbazione e di migrazione per lavoro, ha fatto il resto, allontanando i figli dai genitori, che si trovano così senza assistenza e spesso senza mezzi. Ora, è chiaro che non c’è legge dello Stato che possa supplire alla mancanza di amore di un figlio verso il

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proprio genitore. Davvero, come dice un adagio napoletano, «’Na mamma campa cento figli, ma cento figli nun campano ’na mamma». Ciò che però dovrebbe preoccupare e far riflettere anche noi è soprattutto l’emergere progressivo di un’impossibilità materiale – vuoi per lontananza, vuoi per mancanza di tempo e risorse – per tanti figli di occuparsi pienamente dei genitori. A meno che il futuro che immaginiamo per i nostri vecchi non sia quello di affidarsi solo a case di riposo e a badanti. Se ce le si potrà permettere, beninteso. Pag 31 Pur separati, restare genitori (lettere al direttore) Caro direttore, sento il desiderio di avere suoi consigli sul trauma delle coppie separate con particolare riguardo alla figura del padre. Oggi sono sempre di più i padri separati lasciati a se stessi in condizioni di vario disagio. Ma non sono la povertà e le difficoltà a spaventarmi: la povertà spesso avvicina a Dio… La cosa che mi fa riflettere di più e che mi amareggia è la tendenza a sottrarre ai figli la figura del padre, un padre che educhi, un padre che possa trasmettere le proprie esperienze, un padre che possa amare liberamente chi è nato anche da lui. Per mia esperienza posso dirle che la separazione di una famiglia è una cosa bruttissima, orrenda, che non dovrebbe mai accadere. Oggi, purtroppo, ci si separa con troppa facilità e le conseguenze ricadono su entrambi i genitori e soprattutto sui figli. Spesso si dice con troppa facilità che questo è il prezzo del progresso… Sarà, ma io lo chiamo regresso. Quando ci presentiamo davanti a Dio e ci giuriamo fedeltà eterna e diciamo che «solo la morte ci può separare», pronunciamo parole forti, che mettono i brividi e fanno quasi paura. Però adesso tanti le dimenticano e non le rispettano, quasi con indifferenza. E così ti accorgi anche tu che le cose cambiano, che non sei più accettato per questo o per quel motivo… E ti ritrovi fuori di casa, a vivere da precario in luoghi provvisori. Ti senti indesiderato dalla tua stessa famiglia, e ti vedi puntato il dito contro senza aver capito quali siano le tue colpe; ti senti dire che le storie iniziano e finiscono (però, loro, si tengono il figlio e la casa che hai contribuito a comperare...) e se anche ottieni l’affidamento condiviso, ti trovi con tuo figlio per mano in luoghi precari o poco idonei… Tanti di noi padri devono sopportare tutto questo, e altro ancora, anche se a chiedere il divorzio è tua moglie. Caro direttore, io non credo che la nostra società futura sarà migliore basandosi su coppie di fatto, con figli di padri diversi. Al contrario, basterebbe capire che la visione cattolica del matrimonio e della famiglia non ha lo scopo di schiacciarci, ma di rendere la nostra vita più serena e piena di amore. Credo che sia ora di fare marcia indietro, di ritrovare i valori della famiglia, della dolcezza, di andare a Messa assieme, di condividere l’amore reciproco e di donarlo a Dio… Solo così la nostra società potrà crescere. (lettera di Marco Palazzi) Risponde Marco Tarquinio: Apprezzo molto, caro signor Palazzi, il tono che lei riesce a mantenere nel descrivere con passione e delicatezza la sua condizione di padre separato. E mi colpisce – anche se so bene che ogni persona, come ogni storia di persone, è diversa dalle altre – la sua capacità di cogliere e proporre qualcosa che ci riguarda tutti in ciò che sta vivendo sulla sua stessa pelle e su quella delle persone a lei care. Vorrei avere consigli da darle, ma – da padre di famiglia quale sono anch’io – me ne permetto con timore e tremore soltanto uno: con la stessa passione e con ancora maggiore delicatezza, trasmetta a suo figlio i valori in cui crede, le convinzioni che ha rafforzato, il senso della sua esperienza. Non rinunci, insomma, a essere padre, e padre cristiano. Si è sentito – e si è ritrovato – rifiutato come sposo, e però nessuno mai potrà privarla della sua paternità. Si impegni – e, se necessario, si batta – per stare accanto a suo figlio. Gli dica anche così della sua umanità e dei motivi per cui è bello vivere e voler bene. Nulla le sarà facile (e questo lo sta già provando), ma il mestiere di padre non è mai stato facile e non lo sarebbe neanche se lei, caro amico, lo vivesse in una condizione diversa, più giusta e più serena. La ringrazio per avermi coinvolto così profondamente nella sua riflessione. E mi scusi per il mio povero consiglio. IL GAZZETTINO Pag 1 Crisi, i tre ostacoli sulla strada di Tremonti di Oscar Giannino

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Testo non disponibile CORRIERE DELLA SERA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 La sinistra e il mercato, un’antica diffidenza di Giuseppe Bedeschi Nel suo editoriale del 2 gennaio sul Corriere («Meno illusioni per dare speranza») Mario Monti, per spiegare la mentalità rivendicativa di ampi settori della sinistra italiana, ha richiamato il forte influsso esercitato su di essi dalla dottrina di Marx: nel senso che, una volta fallito il sogno del superamento del capitalismo e della instaurazione di una società più equa ha prevalso in Italia, in una parte dell’opinione pubblica e della classe dirigente, una rivendicazione essenzialmente ideale. Una rivendicazione essenzialmente ideale, basata su istanze etiche, «rispetto alla rivendicazione pragmatica, fondata su ciò che può essere ottenuto, anche con durezza ma in modo sostenibile, cioè nel vincolo della competitività» . Credo che questa analisi di Monti possa essere condivisa, ma, a mio avviso, con alcune importanti integrazioni. Io ritengo che su alcuni gruppi politici e sindacali continui a pesare un passato che, in realtà, non è affatto passato. Nell’età della Prima repubblica, la sinistra italiana guidata dal Partito comunista non è mai riuscita a elaborare una cultura all’altezza di una moderna società industriale. Rifacendosi all’opera di Gramsci (che tanto negli scritti del 1919-20 quanto nelle note carcerarie su Americanismo e fordismo aveva sostenuto che il capitalismo maturo portava alla stagnazione produttiva, scientifica e tecnologica), i comunisti italiani hanno sempre visto nel capitalismo un freno allo sviluppo economico. Basti pensare che nel 1956 - dopo le «rivelazioni» di Krusciov su Stalin e sul suo potere terroristico, e dopo i moti popolari in Polonia e in Ungheria: dunque in una fase di ripensamento di tutte le loro posizioni, i comunisti italiani sostenevano ancora, all’VIII congresso del loro partito, che «il capitale finanziario-monopolistico non soltanto saccheggia sistematicamente la massa dei consumatori, ma orienta anche, ai fini del proprio massimo profitto, il processo produttivo stesso di milioni di piccoli e medi imprenditori, "indipendenti" di nome, ma di fatto ridotti alla funzione di commessi del monopolio». Dunque, all’inizio di quel formidabile processo di sviluppo che è passato alla storia con la denominazione di «miracolo economico», nel quale avrebbero avuto un ruolo decisivo proprio i piccoli e medi imprenditori, e che in meno di un decennio avrebbe fatto dell’Italia una delle massime potenze industriali del mondo, i comunisti italiani indugiavano ancora in una visione del capitalismo come freno alle forze produttive, come asservimento dei piccoli e medi imprenditori, impossibilitati così a espandersi, come saccheggio dei consumatori! Difficile immaginare una posizione più anacronistica. E così non può stupire l’atteggiamento negativo dei comunisti italiani (che nel 1957 votarono contro i trattati di Roma) verso il Mercato comune europeo, del quale essi non vedevano le immense opportunità economiche e tecnologiche, e insistevano piuttosto su un’ «irrimediabile» frattura dell’Europa e sui pericoli, che a loro avviso ne sarebbero derivati, alla nostra indipendenza nazionale. Era un’ispirazione, questa, destinata a durare nel tempo. Del resto, nella stessa richiesta di una politica di «austerità» , avanzata da Enrico Berlinguer nel 1977, non era difficile scorgere le apprensioni dei comunisti italiani verso lo sviluppo capitalistico in quanto tale. Quella richiesta aveva certo una valenza politica positiva (poiché agiva da freno sulle rivendicazioni salariali in un momento assai difficile per il Paese, incalzato dalla crisi economica), ma il suo fondamentale motivo ispiratore era il rifiuto dello sviluppo capitalistico, caratterizzato - diceva Berlinguer - dal «particolarismo» e dall’ «individualismo più sfrenati», dal «consumismo più dissennato». Qui era difficile sottrarsi all’impressione che l’ideale del leader comunista fosse una società povera e virtuosa (e virtuosa proprio perché povera). Credo che questa incapacità dei comunisti italiani di elaborare una cultura all’altezza di una società industriale avanzata abbia pesato molto negativamente sulle loro posizioni, precludendogli una teoria e una pratica di riformismo realistico e incisivo: un riformismo capace di affondare le sue radici nello sviluppo e non nel rifiuto dello sviluppo; capace di individuare tutte le opportunità e tutte le risorse del cambiamento, per trarne vantaggio grazie a una efficace politica sindacale (la quale può essere efficace solo se tiene ben presenti i limiti della sostenibilità, ovvero i vincoli della competitività). Questa eredità negativa pesa ancora molto, a mio avviso, su ampi settori della sinistra (non su tutti, per fortuna), i quali non riescono ad affrontare il cambiamento, l’innovazione, la

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trasformazione, e si arroccano in una posizione di pura e semplice negazione. Di qui un grave danno per la sinistra nel suo complesso, poiché solo se essa riesce a elaborare una cultura all’altezza dei processi sempre più impetuosi che caratterizzano il mondo globalizzato, può avanzare una sua proposta di governo (concreta, realistica, credibile), e assicurare al Paese quell’alternanza che è il sale di qualunque democrazia liberale. CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 5 Il Patriarcato si schiera: «Basta lavorare così, non copiamo la Cina» di Alessio Antonini Monsignor Longoni: non può essere tutto merce Venezia - «Critichiamo continuamente le imprese cinesi che hanno registrato vertiginosi aumenti della produzione facendo lavorare i loro dipendenti dodici ore al giorno, tutti i giorni. Poi ci comportiamo allo stesso modo chiedendo ai nostri lavoratori di tenere aperti i negozi anche durante le feste. Non possiamo distruggere il nostro sistema di regole appiattendoci sulla globalizzazione. Una vita e una società fondate sul consumo non hanno senso: la persona deve essere sempre al centro e le regole del lavoro devono essere in equilibrio con i diritti dei singoli». Monsignor Fabiano Longoni, delegato pastorale del patriarca di Venezia per l’azione sociale, il lavoro e la giustizia, interviene sulle polemiche scatenate dalla proposta dei sindacati di boicottare il lavoro festivo. Dunque il patriarcato si schiera con i sindacati contro i commercianti? «Non ho detto questo. Non è compito del patriarcato regolare il commercio o stabilire le regole per le aperture domenicali. Ci sono periodi dell’anno in cui è anche comprensibile la richiesta di aperture straordinarie, ma questo non deve essere la regola: il rischio è che l’assenza di spazi temporali concordati rovini i rapporti interpersonali». Non è un problema religioso? Le messe domenicali... «No. Non è solo un problema di messe o cerimonie religiose perché ormai ci sono funzioni anche al sabato e alla domenica proprio perché la società è cambiata e con essa è il lavoro. Ma resta comunque il bisogno di un giorno festivo inteso come spazio temporale per riflettere, dedicarsi a Dio, stare con la propria famiglia e aiutare i fratelli che hanno bisogno di noi: i malati, i poveri e gli emarginati. Se non lo facciamo almeno un giorno alla settimana la nostra società si disgregherà completamente». I commercianti però sono convinti che le persone preferiscano fare compere di domenica e il rischio è che i negozi chiudano per sempre. Le conseguenze sul lavoro e sulla società non sarebbero più gravi? «Certo. Ma non si può pensare di risolvere il problema del calo degli acquisti legato alla grave situazione di crisi aumentando le aperture domenicali. I sabati sarebbero già sufficienti. Bisogna proprio ripensare al fatto che non possiamo vivere in una società fondata solo sul consumo e sulla spesa» . Può spiegare meglio? «Facciamo le battaglie in chiave ecologica per non distruggere l’ambiente, per non consumarlo o devastarlo. Bisogna imparare a fare anche delle battaglie in difesa dell’ecologia umana trovando il tempo per i propri cari e i bisognosi. Il consumo non è un dio che dispone degli individui». Anche se sono gli stessi consumatori a preferire le domeniche? «Questo è da vedere. Ma se è vero che i consumatori preferiscono fare acquisti nei giorni festivi il patriarcato si rivolgerà proprio ai consumatori. Bisogna trovare un sano equilibrio tra le esigenze della vendita e i bisogni delle persone». Resta però il problema economico. «È chiaro che in questi anni di crisi c’è stato un grande cambiamento e, senza entrare nel merito della questione, tutta la vicenda Marchionne è un esempio di come la situazione di oggi sia diversa dal passato. È un fatto oggettivo che il cambiamento vada metabolizzato, ma non si può pensare che una società si rialzi spendendo tutti i suoi soldi in prodotti». Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA LA NUOVA Pag 13 La Mondadori ha chiuso, l’arrivederci di cuore da migliaia di veneziani di Manuela Pivato L’ultimo giorno di apertura della libreria

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La libreria Mondadori si congeda con la coda alla cassa, le scale intasate, l’ascensore che continua a portar su gente. Tremila solo ieri pomeriggio, cinquemila in due giorni. Vendite record come nemmeno a Natale. Per essere una fine è una fine in gloria, accompagnata dal cuore e martellata da un qualcosa che è già nostalgia e anche un po’ rabbia. Dopo sette anni di onorato servizio, dopo aver ospitato nel suo SpazioEventi più di 1.200 appuntamenti culturali, dopo aver accolto un pubblico complessivo - a spanne - di 75 mila persone; dopo aver fatto da fulcro, da perno e da centro per il semplice fatto di esserci, la Mondadori chiude a testa alta. Sopraffatta dalle leggi di mercato che hanno fatto preferire ai Benetton (proprietari dell’immobile) le borse di Louis Vuitton piuttosto che i libri, lascia il suo segno con una festa di arrivederci che nessuno store di maglioni si è mai sognato nemmeno per la sua inaugurazione. Mezza città, ieri pomeriggio, l’ha omaggiata e il fatto che i volumi fossero in vendita col 20 per cento di sconto è solo un dettaglio. Lo sente Giovanni Pelizzato, che nel febbraio del 2003 aveva inaugurato la libreria pazzo di gioia e ora, incassato il colpo, prepara la controffensiva. Alla Toletta, da domani. E, ieri, con un aperitivo che ha detto molte cose. Per non chiamarla chiusura, perché faceva troppa tristezza, Pelizzato l’ha voluta chiamare «controinaugurazione» ma fa lo stesso. Ci sono tutti. Anzi di più. Riccardo Calimani, Marino Folin, il ladro diventato scrittore Vincenzo Pipino, Carlo Montanaro, Daniele Del Giudice, Tiziano Scarpa. Ci sono gli aspiranti scrittori, i lettori bulimici, quelli che ogni settimana erano lì a controllare la vetrine, quelli che si davano appuntamento alla Mondadori per smorosare e quelli che non hanno mai comprato un libro e ora se ne pentono. Alcuni recuperano, con scorte da supermercato. C’è il rettore dello Iauv Amerigo Restucci, che bacchetta: «Se si vuole governare bisogna stare attenti alle esigenze dei cittadini. E poi non ci si venga a lamentare che siamo sotto i 50 mila abitanti». Non c’è ombra, invece, delle istituzioni. Pelizzato, visto che era una «controinaugurazione» non ufficiale, non ha invitato nessuno. Non sarebbe stato comunque facilissimo, per sindaco o assessori, presentarsi alla chiusura di uno dei luoghi più amati dai veneziani che per salvare la Mondadori avevano raccolto migliaia di firme, fatto decine di appelli, rotto le scatole. Nè sarebbe stato semplice per sindaco e assessori spiegare che, visto il risultato, nulla hanno saputo fare per preservare non un museo o un palazzo ma una - una - libreria. «La città non è morta ma è vivissima» dice intanto Pelizzato che mentalmente deve rivivere quella serata di sette anni fa, quando la Mondadori inaugurò con migliaia di persone in coda per vedere, almeno una volta, come fosse fatto qualcosa che non era un emporio di maschere o un discount di vetri. La Toletta arte diventerà Toletta kids, quella di architettura si stringerà un pochino per far posti ai libri d’arte e quella che ospita la narrativa accoglierà anche i volumi per gli stranieri. La Mondadori chiude ma la sua anima - insieme a casse di libri - si trasferisce dietro l’Accademia, dove il titolare Giovanni Pelizzato sta già riorganizzando gli spazi in vista dell’inaugurazione della seconda vita della Toletta a febbraio. «Lo spirito con il quale, sette anni fa, mi sono cimentato nell’impresa di offrire alla mia città uno spazio culturale aperto, innovativo, “popolare” nel senso migliore del termine, non abdica - spiega il libraio - Da subito è la Toletta il punto di riferimento poi chissà. L’intento è di rincominciare l’avventura in tempi brevi, con una squadra di collaboratori rodata e competente». Al momento non ci sarebbero all’orizzonte soluzioni concrete per un’alternativa. L’ipotesi più probabile è che i Benetton, che hanno deciso di affittare lo spazio della libreria a una grande firma, accolgano nuovamente la Mondadori nel Fondaco dei Tedeschi dove hanno progettato di realizzare un centro commerciale. Pag 15 I musei civici prenotano l’Arsenale di Enrico Tantucci Nasce un polo d’arte contemporanea alle tese di San Cristoforo Due nuovi spazi dell’Arsenale recuperati e a disposizione della città, in attesa di una decisione definitiva sulla proprietà del complesso, che il Comune vorrebbe “ereditare”. Gli spazi sono entrambi nell’area nord dell’Arsenale, a disposizione del Demanio civile: sono la Torre di Porta Nuova e le Tese di San Cristoforo. La Torre - già data dal Demanio in concessione al Comune - diventerà a regime il nuovo Centro studi dell’Arsenale e il luogo per la comunicazione e gli incontri pubblici delle istituzioni che hanno già piede all’Arsenale: dalla Biennale, al Consorzio Venezia Nuova, alla stessa Biennale.

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L’intervento di recupero è in corso da parte della Sacaim, che ha vinto la gara bandita da Arsenale Venezia spa - la società mista costituita da Comune e Demanio che si occupa della gestione e della ricerca di nuove destinazioni per l’area - e si concluderà a marzo. L’inaugurazione seguirà subito dopo la fine dei lavori. In particolare, nei 328 metri quadrati di superficie della Torre sviluppata in verticale su quattro piani sarà appunto realizzato il Centro Studi dell’Arsenale. I lavori che si stanno concludendo riguardano il consolidamento e il restauro delle strutture esistenti, l’installazione di impianti centralizzati esterni e l’infrastrutturazione interna per la realizzazione di spazi espositivi attrezzati, per un importo di circa circa 4 milioni. La Torre di Porta Nuova farà «sistema» sul piano artistico e culturale con le vicine Tese di San Cristoforo, già recuperate da circa un anno e utilizzate per mostre collaterali legate alla Biennale Arti Visive e altri eventi temporanei. Ma ora nei circa tremila metri quadrati di spazi espositivi, si insedierà la Fondazione Musei Civici per svilupparvi un proprio polo legato all’arte contemporanea. L’accordo tra Demanio e Comune per la cessione dello spazio è alle ultime battute e Ca’ Farsetti lo cederà poi alla Fondazione museale ora guidata dal nuovo presidente Walter Hartsarich. L’idea dell’istituzione è di fare delle Tese di San Cristoforo uno spazio dedicato a mostre di arte contemporanea che ora non possiede all’interno delle sue sedi, soprattutto per installazioni e opere di grande volume. L’obiettivo è quello di utilizzare lo spazio di archeologia industriale già nel prossimo giugno, in occasione della nuova edizione della Biennale Arti Visive, per una mostra organizzata direttamente dalla Fondazione musei oppure ospitata. Ma le Tese entreranno a far parte a tutti gli effetti del sistema espositivo dei Musei Civici anche per il futuro. Il prossimo pezzo di Arsenale recuperato sarà quello della Tesa 105 i cui lavori sono avviati e dove troveranno posto, secondo i programmi già definiti, gli ingressi all’Arsenale nord, un bar, un punto di informazione, book-shop e un incubatore di imprese. Da parte sua, nella parte sud dell’Arsenale - quello sotto il controllo della Marina e del Ministero della Difesa - la Biennale sta avviando il recupero delle cinquecentesche Sale d’Armi, concessegli in uso, dove saranno ospitati i padiglioni espositivi di Paesi che li hanno richiesti attualmente ne sono privi. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag I Mondadori chiusa: spazio da riconquistare di Tiziano Graziottin Testo non disponibile Pag X Lucciole, clienti più giovani di Monica Andolfatto I dati della Polizia locale ad un anno dall’applicazione dell’ordinanza. Sui quarant’anni, per lo più rodigini e trevigiani, alcuni sono habituée. In totale 550 multe per un gettito effettivo di oltre 192mila euro Testo non disponibile LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 16 Al via i saldi, affare da 100 milioni di Gianluca Codognato Solo a Mestre interesseranno 60 mila famiglie: spesa media 413 euro. Gli sconti saranno intorno al 40%: negozi aperti anche domenica prossima, i consigli degli esperti. Lotteria Italia senza fascino, meglio «grattare»: vendita dei biglietti crollata di un terzo, sotto l’albero i cartoncini con vincita immediata Che senso ha comprare scarpe, cappotti, maglioni, pantaloni a Natale quando un paio di settimane dopo gli stessi articoli costano molto meno? È questo il ragionamento che hanno fatto a dicembre sette famiglie veneziane su dieci, proprio quelle che, a partire da oggi, si metteranno a caccia dell’occasione. Insomma, si aprono le danze: stamattina cominciano i saldi invernali. Vera e propria ancora di salvezza per commercianti e consumatori. I conti. La Confesercenti provinciale calcola che in provincia saranno circa 243 mila le famiglie pronte a sfruttare i saldi (60 mila a Mestre), in pratica 7 su 10. In media ogni nucleo spenderà poco più di 400 euro a testa (413 euro) per un volume d’affari totale pari a circa 100 milioni (25 in terraferma). I saldi invernali rappresentano la più importante ancora di salvezza per i commercianti. «Dopo un Natale abbastanza

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deludente - spiega Maurizio Franceschi, direttore dell’associazione di categoria - i negozianti attendono sempre con ansia questo periodo che in genere produce circa un quarto del fatturato annuo. Come sempre tutto si concentrerà nei primi dieci giorni di saldo, poi gli acquisti si trascineranno senza picchi fino al 28 febbraio». Occasioni. Gli sconti di fine stagione metteranno anche quest’anno in evidenza la crisi economica che ha colpito molte famiglie. Infatti, sottolinea ancora Franceschi, «una volta l’acquisto in saldo era una cosa in più, aveva un valore emozionale. Oggi, invece, è un acquisto mirato, ragionato, oculato. Il 70 per cento dei consumatori acquista durante questo periodo articoli che aveva già adocchiato nel periodo natalizio. Naturalmente si parla soprattutto di scarpe e capi spalla». Anche lo sconto medio, secondo la Confesercenti, sarà superiore rispetto agli anni passati. Dal 30 per cento, si passa al 40, toccando picchi del 60-70%. Speranza. Secondo Giannino Gabriel, presidente provinciale di Federazione Moda Italia di Confcommercio, «l’andamento stagionale ha determinato stock di invenduto molto alti, una vera occasione per i saldisti. I negozi dispongono di una varietà ampia sia per qualità che quantità di prodotti, in particolare per i capospalla sono previsti sconti molto elevati mediamente attorno al 40%. Questo ci fa ben sperare in una buona stagione di saldi che potrebbe rappresentare quel tanto atteso segnale di inversione di tendenza». Deroghe. L’apertura dei saldi invernali presuppone due giornate di deroga all’obbligo di chiusura festiva dei negozi. Dunque, secondo una ordinanza diffusa ancora a novembre dall’assessore al Commercio Carla Rey, oggi e domenica prossima le attività commerciali potranno tenere le serrande alzate, così da accogliere i clienti che nel primo weekend di sconti sono spesso numerosissimi. Consigli. L’Adico di Venezia ricorda ai consumatori le principali regole per non incappare in brutte sorprese. «Anzitutto - ricorda il presidente dell’associazione, Carlo Garofolini - bisogna essere molto accorti quando si promettono liquidazioni fino a esaurimento. Poi è necessario scegliere punti vendita che normalmente garantiscono prodotti di qualità e confrontare il prezzo del prodotto scelto prima e dopo l’avvio della campagna dei saldi. Molto importante verificare bene il prodotto che viene posto in vetrina e quello che viene offerto in negozio. È meglio diffidare delle offerte similari a prodotti di marca e conservare sempre lo scontrino fiscale per far rispettare il diritto di cambio del prodotto se difettoso entro 8 giorni dall’acquisto. Controllate etichetta e misure per essere sicuri di comprare il prodotto scelto e confrontate più offerte. Diffidare degli sconti superiori al 50%». Fino a qualche anno fa rappresentava un rito irrinunciabile: comprarne uno era quasi un dovere, come regalarlo per il compleanno o a Natale. Ora invece il biglietto della Lotteria Italia ha perso il proprio fascino e la sua vendita ha subìto il crollo di un terzo. «A Natale si regalano i “gratta e vinci” - racconta Maria Bonaldo, responsabile provinciale della Fit (Federazione italiana tabaccai) perché la gente ama i giochi istantanei, quelli in cui è possibile vincere subito, al momento dell’acquisto». Insomma, anche le famiglie mestrine hanno perso l’abitudine a comprare i biglietti della Lotteria Italia e così l’estrazione in programma stasera non calamiterà l’interesse del passato. «Neppure le trasmissioni collegate hanno più grande successo - spiega ancora Bonaldo - Alla fine siamo noi che consigliamo ai clienti di partecipare a questa lotteria, che permette comunque vincite importanti. Ma ci accorgiamo che c’è poco da fare: le persone preferiscono di gran lunga grattare e sapere immediatamente se hanno guadagnato qualche premio». Fra le novità degli ultimi tempi, ricorda la rappresentante di categoria, c’è quella di mettere sotto l’albero di Natale i «gratta e vinci». Un gesto figlio di questi anni, durante i quali sono esplose le lotterie istantanee della Lottomatica e il «Win for life» della Sisal. I biglietti della Lotteria Italia, invece, restano relegati nella tabaccherie, quando una volta, alla vigilia dell’estrazione, risultavano introvabili. D’altra parte, in questo periodo di crisi i giochi istantanei hanno registrato un boom senza precedenti. «Questo perché - sottolinea Bonaldo - le vincite, anche grosse, non mancano e vengono pubblicizzate abbondantemente». La Lotteria Italia risulta molto più avara di sorprese. Bianco, nero, blu, grigio. Sono questi i soli colori con i quali i commercianti che lavorano nelle zone del centro storico, di maggior pregio, possono allestire i cartelli che annunciano i saldi. La novità, imposta dalla Soprintentendenza per i beni architettonici e paesaggistici di Venezia e laguna, fa storcere il naso ai commercianti della piazza

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Ferretto e delle aree limitrofe. «Posso anche essere d’accordo sulla necessità del decoro - spiega Andrea Rubbini, portavoce di una parte dei negozianti del centro - ma è assurdo imporre queste caratteristiche quando le vie in cui lavoriamo sono piene di scritte, sporcizia, escrementi di colombi. E poi moltissimi colleghi non hanno ancora ricevuto comunicazione di questa novità e hanno già preparato i cartelloni con altri colori. Adesso dovranno cambiarli a rischio di prendere una multa». Le indicazioni della Soprintendenza, tradotte in ordinanza dal Comune lo scorso novembre, riguardano tutti i tipi di vendita che richiedono una pubblicità: saldi, vendite promozionali, liquidazioni, ribassi. Per quanto riguarda le tonalità, si dice chiaramente che «sarà necessario evitare colori che mal si conciliano con le esigenze di tutela storico artistica della città antica, ovvero colori fluorescenti, cangianti, ecc. In particolare le installazioni dovranno seguire i seguenti criteri: colori dello sfondo e dei caratteri bianco, nero, blu, grigio. Il messaggio potrà essere collocato solo all’interno dei locali di vendita o sul filo interno del foro vetrina». Sanzioni salate per i trasgressori. CORRIERE DEL VENETO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 10 Sos per l’anno senza ponti. «Slittano le aperture balneari» di Mauro Zanutto Albergatori: un mese di lavoro in meno per gli stagionali Venezia - Cecchini del ponte festivo, vacanzieri pronti a piazzare il giorno di ferie nel mezzo di una festività infrasettimanale per prendere al volo 4 i giorni di villeggiatura: il 2011 per voi sarà funesto. Il motivo? Mai come quest’anno c’è stata una carenza di festività infrasettimanali. Perché in dodici mesi avremo solo sette festività fuori dal fine settimana e tre di queste saranno di lunedì. Se l’addio a tanti sogni di mini-vacanze sarà reale per gli amanti del mordi e fuggi, altrettanto deleteria sarà tuttavia la mancanza di ponti festivi per le località turistiche veneziane. Prendi Bibione e Jesolo, per esempio, dove l’assenza di festività rischia di far slittare le aperture degli alberghi a fine maggio con tagli connessi anche per chi vive di lavoro stagionale. Per Venezia il peggio sarà invece a fine anno con Natale e Capodanno di domenica. Calendario alla mano, il lungo elenco dei mini-viaggi sfumati inizia dal 25 aprile che cade il lunedì di Pasquetta, già giorno di festa. La lista prosegue poi con il tradizionale giorno della «gita fuori porta», 1 maggio (domenica), e se il 2 giugno e 8 dicembre saranno di giovedì, e l’1 novembre di martedì, a dare l’ultimo colpo di grazia a vacanzieri ed operatori turistici saranno Ferragosto di lunedì, Natale e Capodanno entrambi di domenica. «Abbiamo già ben in mente il brutto calendario 2011 e confermo che non sarà certo favorevole per gli operatori del balneare - commenta il presidente dell’Associazione Jesolana Albergatori, Massimiliano Schiavon -. L’inizio stagione rischia di slittare di un mese perché con i mancati ponti di 25 aprile e 1 maggio, la crisi e gli elevati costi di gestione, molti albergatori intendono aprire dopo il 20 maggio. Ma penso anche ai problemi per tutti quei lavoratori stagionali che si ritroveranno con un mese di lavoro in meno» . Sullo stesso piano anche Bibione, località da 6 milioni di presenze turistiche l’anno, dove l’apertura delle attività ricettive appare oramai segnata: «Che l’inizio stagione non sarà positivo è un dato di fatto - conferma il presidente degli albergatori Gianni Carrer -. A giugno, con il ponte del 2 e le festività di Pentecoste, avremo molte presenze ma non bastano per tranquillizzare il settore alberghiero costretto a fare i conti con ricavi sempre più ridotti all’osso». Dove il turismo si fa tutto l’anno, come a Venezia, l’assenza delle festività infrasettimanali rischia di ridurre ai minimi termini le prossime vacanze di fine anno. Che fare allora? Gli albergatori sono pronti a lanciare pacchetti vacanza a basso costo e grandi eventi per convincere i vacanzieri del ponte festivo a non rinunciare alla mini vacanza, ma nel contempo cercano di auto-convincersi che inseguendo il pessimismo si rischia di tagliare la stagione estiva di un mese. «L’ideale per Jesolo è anticipare Miss Italia nel Mondo che si svolge a giugno, ma stiamo pensando di lanciare una serie di pacchetti vacanza straordinari di inizio stagione», annuncia Massimiliano Schiavon da Jesolo. Bibione punta sullo sport: «Avremo una serie di eventi sportivi a maggio quindi mi auguro che l’alberghiero sia pronto a cogliere questa opportunità», aggiunge Carrer. «Per Venezia il problema è semmai posticipato - precisa dal canto suo il presidente Apt di ambito, Elio Dazzo -. Così, sulla scia dello scorso fine anno, nel 2011 punteremo sul turismo straniero che non risente delle nostre festività. Con Venezia

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Marketing Eventi stiamo inoltre già pensando di organizzare più eventi il prossimo Natale, allo scopo di raddoppiare la tradizionale settimana di vacanza natalizia a quindici giorni». IL GAZZETTINO DI VENEZIA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag XII Il Palaplip si apre alla vita “condivisa” di Maurizio Dianese E’ il gran momento del risparmio. E della condivisione dei beni. Non si tratta solo di una necessità dettata dalla crisi, ma anche di una vera e propria filosofia di vita mutuata da Internet. I surfisti del web hanno iniziato condividendo musica e video e adesso Internet ospita la generazione della sharing life cioè della vita in condivisione. Perché comprare una macchina per usarla solo un’ora al giorno quando si può affittare? Chi l’ha detto che per viaggiare bisogna per forza avere soldi? Si può anche dormire su un divano in casa di qualcuno. Gratis. In Internet ormai si trova di tutto e le nuove generazioni composte soprattutto da precari si stanno abituando all’Altra Economia, quella fatta di beni in comune. L’importante non è possedere, ma usare. Nei Paesi del Nord Europa questa filosofia da tempo si è trasformata in bar e ristoranti in supermercati e uffici. Adesso un gruppo di 4 associazioni punta a trasformare il Palaplip di Carpenedo in un mega centro dell’Altra Economia. «Vuol dire - spiega David Marchiori, presidente della Cooperativa Sesterzo, che si candida a gestire il Papaplip - avere in un posto solo i gruppi di acquisto solidale, ma anche la banca del tempo libero, i negozi di prodotti a chilometro zero, ma anche uno sportello della banca etica. E poi l’Osteria dei sapori e dei saperi e cioè un posto dove si educa la gente a mangiare e a bere bene e dove si preparano anche i futuri osti». Marchiori con le Acli, Lorenzo Miozzi con il Movimento consumatori, Roberto Cargnelli con Mandragola, Mauro Richeldi con Emù, hanno dimostrato che questa filosofia può diventare una realtà economica che dà lavoro ad un sacco di gente nel momento in cui risponde alle esigenze dei cittadini. Che sono sempre più attenti al portafogli, ma anche ad avere tutto senza pagarlo uno sproposito. Basti pensare ai Gruppi di acquisto solidale. Le Acli hanno messo in piedi una rete di acquisti in gruppo che abbatte i prezzi e offre prodotti di altissima qualità. Vuol dire che si riesce a mangiare buono, sano e a prezzi da supermercato. Sembrava impossibile coniugare risparmio e alta qualità e invece ci sono riusciti. Insomma queste associazioni hanno dimostrato di saper lavorare e lavorare bene nel comune di Venezia e con il Comune di Venezia. Adesso fanno il passo in più e cioè concentrano tutto quello che serve per vivere bene, risparmiando, in un unico posto. Al Palaplip chi vuol farsi furbo ed evitare di buttare i soldi dalla finestra troverà tutto il supporto possibile e immaginabile. Quando si comincia? «Dovremmo essere pronti nel giro di qualche mese - dice Marchiori - Abbiamo avuto qualche problema burocratico e tecnico per aprire l’osteria. Ma ormai le idee sono chiare e anche i tubi per allacciare il bar sono autorizzati». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pag 11 E’ veneto il 22 per cento delle aziende italiane che operano in Romania di Paola Benvenuto Le nuove frontiere dell’imprenditorialità veneta. “Efficienza più che delocalizzazione” Treviso. Da Timisoara ai Balcani. Analisi del mondo imprenditoriale veneto in Romania: il coordinamento delle azioni è la chiave vincente per le aziende in tempo di crisi. Luca Serena, 48 anni trevigiano, imprenditore di quarta generazione, è arrivato per la prima volta in Romania nel 1999 per creare un punto di riferimento e di assistenza per gli imprenditori di Unindustria Treviso. Ora è presidente di Unindustria Romania e neo vicepresidente vicario di Confindustria Balcani, oltre che presidente di Euroholding group (gruppo Peruzzo) che raggruppa aziende in vari settori. Confindustria Balcani è costituita dalle associazioni imprenditoriali di Bulgaria, Romania, Serbia, Macedonia, Bosnia Herzegovina, Albania, Croazia. «Le associazioni di imprenditori intendono coordinare le proprie azioni nell’area balcanica, ma anche essere un punto di riferimento per le

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aziende italiane del sistema Confindustria interessate a quell’area», afferma Serena. «L’area balcanica ha un ruolo molto importante, spesso sottovalutato. Basti pensare che l’Italia nel 2009 qui ha effettuato esportazioni per oltre 10 miliardi di euro, pari a quanto la stessa Italia esporta in Cina, Brasile ed India messi assieme. Il modello di impresa italiano è un modello di Pmi, quindi ha la necessità di trovare un supporto per le proprie strategie di internazionalizzazione e politiche di import/export». Timisoara per i veneti è stata la prima città di riferimento, sia per vicinanza geografica, sia per il fatto che in città si è creata una sorta di distretto del sistema moda. Timisoara è ancor oggi un’area con una forte realtà veneta, anche se nel tempo la presenza si è diluita, da un lato per l’arrivo di aziende provenienti da altre regioni italiane, dall’altro per l’avvio di attività venete in altre zone della Romania. Nel 2005 la rilevazione del Centro estero delle Camere di Commercio del Veneto citava una presenza di imprese venete pari a 2.578 unità, ovvero il 22% del totale delle 11.656 imprese italiane in Romania. «Oggi - afferma Serena - la presenza veneta rimane importante, anche se non più così prevalente rispetto ad altre aree dell’Italia operanti in Romania. I vantaggi sono molti. Innanzitutto la Romania è il paese più orientale d’Europa, quindi costituisce una buona piattaforma produttivo-logistica per altri paesi. E’ il secondo paese dell’Europa dell’Est dopo la Polonia per numero di abitanti, dunque offre un potenziale mercato di assorbimento. Come nuovo stato membro della Ue, beneficia di importanti somme nei fondi strutturali per lo sviluppo del paese e per gli investimenti anche privati. Durante la crisi il valore medio degli stipendi è sceso e i costi sono tornati competitivi anche per le lavorazioni ad alta intensità di manodopera e c’è una buona preparazione di base degli addetti ai settori del legno, metalmeccanico, tessile, abbigliamento, calzaturiero». Serena illustra poi gli aspetti negativi: «Gli svantaggi sono rappresentati da un insufficiente sistema delle infrastrutture (in tutta la Romania oggi ci sono solo 300 km di autostrade funzionanti), da una endemica carenza di programmazione pluriennale in quasi tutti i settori dell’apparato statale, dalla difficoltà di gestire e utilizzare i fondi europei». Considerando l’attuale panorama mondiale l’imprenditore veneto dà un’interpretazione degli effetti della crisi che riguarda il Nordest. «La crisi fa emergere anche i punti deboli del sistema nordestino. Il Nordest è un territorio a micro imprenditorialità diffusa, scarsamente capitalizzato, non sufficientemente strutturato per affrontare la ricerca e il presidio di mercati che possono attrarre produzioni oggi non assorbite dal Nordest e dall’Italia in generale, oppure richieste in quantità decisamente inferiori rispetto al recente passato. La crisi in Romania comunque è molto più forte e sentita che in Italia. Il sistema economico romeno, essendo giovane, è molto debole. La crisi ha fatto chiudere oltre diecimila aziende romene in questi mesi del 2010, privando quindi anche le imprese italiane, ma non solo, di un sistema di aziende collegate a filiera e della subfornitura». Per l’imprenditore trevigiano è difficile immaginare cosa accadrà in futuro. «E’ sempre un esercizio arduo, specialmente in questo periodo di forte discontinuità. Credo che la Romania rimarrà, almeno per il prossimo decennio, un paese con buone potenzialità di sviluppo. Non va dimenticato che prima della crisi mondiale la Romania aveva una crescita del Pil di circa il 5% annuo, con una punta di oltre il 7% nel 2008». Venezia. In passato gli spostamenti dell’attività d’impresa sono stati numerosi, dal Veneto alla Romania. Le aziende infatti tendono a ricercare condizioni di mercato favorevoli allo sviluppo e alla massimizzazione della redditività. Per Antonio Bianchin, attuale direttore generale della Banca Italo-Romena, ora però non si può parlare di de-delocalizzazione, perché i flussi non sono costanti e consistenti. La crisi si fa sentire, ma le banche, per reagire, propongono offerte differenziate. Bianchin ha esperienza di economia rumena: dopo un intenso percorso professionale in Veneto Banca, è arrivato a Bucarest nel maggio 2007 con la funzione di direttore generale. All’epoca la Banca Italo-Romena contava dieci filiali in Romania, oltre alla sede centrale di Treviso. Oggi ne ha ventidue: cinque a Bucarest e diciassette nelle più importanti città del Paese. «La nostra banca - spiega Bianchin - è nata nel 1980 come primo esempio di joint-venture tra Italia e Romania nel settore bancario. L’acquisizione nel 2000 da parte di Veneto Banca ha creato in Romania un punto di appoggio bancario per i numerosi imprenditori italiani che hanno delocalizzato le loro attività produttive. Le imprese venete sono presenti in modo particolare nella parte ovest, attorno alla città di Timisoara che è chiamata “l’ottava

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provincia veneta”. A Timisoara l’istituto ha iniziato l’attività dopo essere entrato a far parte del Gruppo». Nel tempo la banca si è gradualmente aperta al mercato, rivolgendosi anche agli operatori romeni, alle famiglie e alle istituzioni. «Siamo entrati sul mercato romeno - precisa Bianchin - come banca orientata verso il segmento corporate, con prodotti dedicati agli imprenditori italiani che avevano delocalizzato. Col tempo abbiamo cominciato a rivolgerci anche alle aziende romene. Oggi, circa il 70% della nostra clientela è fatta di Pmi italiane e romene. La banca è riuscita anche a penetrare nel segmento retail. Inoltre lavoriamo pensando alle diverse necessità dei romeni: abbiamo lanciato il Mutuo Giovani Coppie, che offre condizioni agevolate alle giovani famiglie che vogliono comprarsi la prima casa, oppure il Credito senza frontiere, rivolto ai romeni che hanno rapporti di lavoro stabili in Italia e desiderano comprare una casa in Romania. Abbiamo carte di debito collegate simultaneamente a due conti correnti - uno in ron e l’altro in euro. Negli ultimi due anni ci siamo concentrati sui romeni che lavorano in Italia e per loro è nato il Conto senza frontiere. Per le imprese abbiamo soluzioni pensate in funzione delle necessità dei clienti, del settore produttivo, della dimensione del business. Per le attività commerciali, è attivo il servizio di pagamento tramite i Pos». Gli effetti della crisi si sono fatti sentire a livello di prodotti e servizi offerti dalle banche, oltre che per l’atteggiamento nei confronti dei clienti. Bianchin informa: «Nel 2009, anno nel quale si è assistito ad una diffusa stretta del credito a livello mondiale, la nostra banca non ha avuto irrigidimenti nelle condizioni praticate. Gli impieghi accordati sono cresciuti del 6% rispetto al 2008, arrivando a 988,6 milioni euro. Il 2010 continua a rappresentare un’ulteriore sfida per la maggior parte delle aziende e per l’intero sistema economico romeno. Ci proponiamo di continuare lo sviluppo di prodotti e servizi con pagamenti dotati di chip che offrono maggior sicurezza. E abbiamo arricchito la nostra offerta con altre due carte di debito e lanciato il servizio Direct Debit». LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 8 Sposarsi, poco e tardi I matrimoni in regione sono calati del 16,6 per cento. A Venezia il civile supera il rito religioso Venezia. Matrimoni in netto calo in Veneto, dove negli ultimi anni (dati relativi al 2008) il numero delle coppie che si sono dette sì davanti al prete o al sindaco è calato del 16,6%. Nel 2008 sono stati celebrati in regione 18.661 matrimoni, circa 4 ogni mille abitanti, nel 1998 la media era di 5 ogni mille abitanti. Lo rende noto l’ultimo numero monografico del 2010 della pubblicazione periodica Statistiche flash della Regione, dal titolo «Sposarsi in Veneto». Dai dati risulta che il rito religioso è ancora preferito nel 56,1% dei casi, ma nella provincia di Venezia il rito civile (53%) sorpassa quello religioso e in quella di Verona si registra una sostanziale parità. Cresce invece la tendenza a formare una famiglia senza sposarsi e il fenomeno delle convivenze diviene sempre più comune. La statistica - rileva il vicepresidente della giunta veneta Marino Zorzato - ha assunto un ruolo sempre più importante come strumento di supporto alle politiche regionali». Che i modi di fare famiglia stiano cambiando trova conferma anche dalle informazioni sulle nascite: nel 2008 in Veneto il 21% dei figli è nato fuori dal matrimonio, quota triplicata rispetto al 1995. A incidere sulla diminuzione dei matrimoni è soprattutto il calo delle prime nozze, che all’ inizio degli anni Ottanta costituivano in Veneto il 96% delle unioni formali, oggi l’83%. Le prime nozze risultano sempre più posticipate: l’età media al primo matrimonio è di 34 anni per gli uomini, 31 per le donne. Altri dati riguardano i matrimoni con sposi stranieri (nel 2008 un quinto del totale), le separazioni e i divorzi (dal 1992 al 2008 più che raddoppiati). Infine la statistica relativa ai matrimoni successivi al primo: circa il 17% di tutti i matrimoni celebrati in Veneto hanno almeno uno dei due partner per il quale si tratta di seconde nozze. La tipologia più frequente nelle seconde nozze è quella in cui lo sposo (età media 49 anni), è divorziato e la sposa (media 43 anni) è nubile. Pag 9 Galan: «Addizionale Irpef, una follia» di Filippo Tosatto Il ministro boccia Zaia: vergognoso aumentare le tasse a servizi invariati

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Venezia. Sanità veneta commissariata e addizionale Irpef allo 0,9% per tutti? «E’ una follia, così si aumentano le tasse a servizi invariati. Mi chiedo: qual è, ammesso che esista, il disegno della Regione in materia sanitaria?». Parole di Giancarlo Galan, ministro dell’Agricoltura, predecessore del governatore Zaia a Palazzo Balbi. «La deriva commissariale non è affatto obbligata, risponde a una scelta. Qualcuno oggi scopre che la sanità è in deficit ma il disavanzo, da quindici anni a questa parte, è sempre lo stesso: 130 milioni o giù di lì. Noi avevamo scelto di ripianarlo, di destinare questa somma alle categorie più deboli: gli anziani, i disabili, i non autosufficienti. Perché l’attuale amministrazione non fa lo stesso? Trovino questi soldi risparmiando altrove. Il capo della Lega ha fatto la campagna elettorale denunciando sprechi nel Veneto: ebbene, se ci sono, li eliminino e impieghino le risorse per la sanità. La verità è che era una bugia a scopo di propaganda». Luca Zaia attribuisce il «buco» della sanità al mancato introito dell’addizionale regionale Irpef, che lei ha sospeso. Ciò, unitamente ai tagli di bilancio imposti dal Governo, ha mandato i conti in rosso. «Questo è assurdo e non corrisponde a verità. Io sono contro le tasse, le considero una limitazione della libertà. Ho tolto l’addizionale, dopo averla costantemente abbassata per anni, perché l’esercizio del buon governo ci ha consentito di farlo. I veneti meritano meno pressione fiscale degli altri, aumentare la tassazione è la scelta più facile per reperire risorse; è la politica storica della sinistra: più tasse e migliori servizi. Ma qui, addirittura, si vogliono far pagare di più le stesse prestazioni con un’aliquota elevata al tetto massimo e generalizzata. Non sta né in cielo né in terra, sarebbe una vergogna. Confido che i miei la impediscano». Resta il problema di reperire risorse in tempi di vacche magre, con tagli di bilancio e costi elevati. «Noi le abbiamo sempre trovate senza infilare le mani nelle tasche dei cittadini. Non ci sono buone ragioni per inasprire le tasse in Veneto, semmai ce ne sarebbero per abbassarle, se il contesto economico generale lo consentisse. Intanto voglio complimentarmi con il presidente Zaia perché, almeno a Treviso, ha sconfitto, insieme al sindaco Gobbo, la fazione leghista contraria al “financial project”, cioè al ricorso dei capitali privati per realizzare le grandi opere. Prima l’hanno demonizzato, poi, fortunatamente, hanno seguito il mio esempio per costruire il nuovo ospedale trevigiano. Mi auguro facciano altrettanto per Padova». C’è chi legge nel commissariamento del sistema sanitario, ormai inevitabile alla luce di bilanci, l’esito di un’astuta manovra di Luca Zaia che, in un sol colpo, otterrebbe due risultati: finanziamenti pari a 1,2 miliardi in tre anni (grazie all’addizionale) e azzeramento, per legge, dei vertici delle Usl, con la chance di procedere alla nomina di nuovi direttori generali, più “graditi”... «Non voglio neppure pensarlo. Lo escludo. Sarebbe una mascalzonata, ho troppa stima verso il mio predecessore al ministero per prendere in considerazione un’ipotesi del genere. Il rinnovo dei manager della sanità è fisiologico nei tempi stabiliti cioè alla scadenza degli incarichi. Suggerisco di resistere alle pressioni di partiti e lobby, privilegiando la competenza. Io ho fatto così». Il welfare sanitario, oltre che il più ingente business, è anche è il fiore all’occhiello del Veneto. Non è che il suo baricentro si stia spostando, in sintonia con la staffetta Pdl-Lega al timone della Regione? «Io dico questo: per me il cuore della nostra sanità è Padova, con la sua scuola medica d’eccellenza. Poi c’è Verona, polo più recente e in crescita. Ebbene, se la Regione vuole capovolgere questo rapporto, abbiamo il diritto di saperlo. Per me sarebbe una sciagura, perché Padova esige non soltanto la manciata di posti letto che qualcuno vorrebbe assegnarle, ma un campus universitario e un grande polo ospedaliero d’eccellenza. Domanda: in quale direzione si vuole andare?». Verona ha sponsor politici influenti e una Fondazione bancaria che eroga finanziamenti cospicui. «Ce li aveva anche ai miei tempi. La domanda è: ci accontentiamo di primeggiare su Campania e Calabria o affrontiamo la sfida con l’Ile de France, la Catalogna, la Baviera. Insomma con le punte avanzate dell’Europa?».

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Restando a Verona, il sindaco Tosi, delegato alla sanità nella sua ultima giunta e criticato da più parti per il mancato taglio dei rami secchi, mantiene uno zampino in Regione attraverso l’assessore Coletto, suo uomo di fiducia. «Per tutti i veronesi che hanno guidato la sanità vale una considerazione: hanno privilegiato la ricerca del consenso rispetto alla gestione virtuosa. Io mi sono trovato sottosegretari, da Brancher alla Martini, che sfilavano per impedire la chiusura di piccoli ospedali costosi e indifendibili. Carlo Bernini era trevigiano eppure, ai suoi tempi, ha saputo compiere scelte lungimiranti e impopolari a Treviso, che ora ne raccoglie i frutti. Anch’io ho cercato di farlo. Altri agiscono diversamente, ma i nodi verranno al pettine». Beh, il vicepresidente Zorzato ha ridotto numero e indennità dei dirigenti di Palazzo Balbi. Una scelta nel segno del rigore. O no? «Bene, allora impieghino le risorse liberate per garantire i servizi sanitari che finora abbiamo assicurato ai nostri concittadini. Senza aumentare il prelievo fiscale, però. Avrei potuto farlo anch’io, magari a scapito dei redditi alti, così nessuno avrebbe protestato. Ho agito diversamente perché, a differenza dei demagoghi, credo nel federalismo vero». Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Indignarsi non basta di Ernesto Galli della Loggia Caso Battisti, immagine italiana Per motivi fin troppo ovvii il caso Battisti mette in questione l’immagine dell’Italia, ci obbliga a considerare come il mondo. ci vede. Certo, Brasile e Francia non sono il mondo. Sono pur sempre, tuttavia, due grandi Paesi rappresentativi di interi universi culturali. Due Paesi che contano. Ebbene, «Il Brasile - ha scritto a ragione Peppino Caldarola sul Riformista - ha trattato il nostro Paese come un alleato minore cui assestare uno schiaffo con la certezza di non subire conseguenze . Dalla Francia, invece, una fitta schiera di autorevoli intellettuali, oltre a trovare tutte le scuse possibili e impossibili (in verità esclusivamente quest’ultime, direi) per il pluriomicida Battisti, non ha mancato di impartirci la lezione del caso sul terrorismo, sugli «anni di piombo», sulla giustizia, sulle nostre supposte manchevolezze in tutti questi ambiti e in molti altri ancora. Nel primo caso la diplomazia risponderà come deve. In quanto opinione pubblica, invece, sarebbe sbagliato se la nostra reazione si limitasse a quella degli offesi, se fosse la reazione adontata e dai toni vagamente sciovinisti echeggiati per esempio in certe dichiarazioni governative. Meglio faremmo a renderci conto che quanto accaduto nei giorni scorsi rispecchia piuttosto un dato permanente. E cioè che presso la stragrande maggioranza dei pubblici stranieri l’Italia così com’è è una realtà largamente ignorata. È ignorata la sua storia unitaria, e in modo particolarissimo quella degli ultimi quindici anni. È perlopiù sconosciuto il modo di funzionare dei suoi organi costituzionali (i loro poteri, le loro prerogative) e specialmente della giustizia. Egualmente pressoché sconosciuti sono il tono effettivo della nostra vita pubblica e politica, la variegata qualità delle nostre relazioni sociali, dei nostri costumi e comportamenti collettivi, direi anche la qualità del nostro dibattito intellettuale. Anche per gli stranieri colti, troppo spesso l’immagine attuale dell’Italia è schiacciata sotto il peso di tre stereotipi: Berlusconi (vissuto come un mistero orripilante, premessa di ogni male), l’onnipotenza della mafia e della camorra, il pervadente oscurantismo del Cattolicesimo. Per il resto: approssimazione, inefficienza, arbitrio. Insomma, il solito folklore mediterraneo. Ma se le cose stanno così la colpa è soprattutto nostra. Per esempio del nostro ministero degli Esteri, che per una pitoccheria suicida lascia da anni nel più completo abbandono la rete dei nostri istituti culturali all’estero (di un numero ridicolmente elevato e quindi anche per questo con scarsissime risorse, scoordinati, privi di un indirizzo unitario); che cura in modo assolutamente inadeguato i corrispondenti della stampa estera in Italia non fornendo loro occasioni significative per conoscere più approfonditamente il Paese; che non si preoccupa di finanziare in misura significativa la traduzione di opere italiane, di mantenere stabili rapporti con i numerosi dipartimenti di studi italiani nelle università straniere, di avere una politica favorevole e larga di occasioni per tutti coloro (e sono

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ancora molti) che all’estero si occupano in modo serio d’Italia e di cose italiane. Un’altra parte non indifferente di responsabilità ce l’hanno poi gli ambienti intellettuali di casa nostra. Troppi nostri scrittori, artisti, uomini di cultura, sembrano farsi quasi un punto d’onore nel compiacere senza fiatare le opinioni più raffazzonate e sommarie che capita loro di ascoltare da amici o colleghi stranieri quando si parla dell’Italia. E il loro più o meno tacito assentire ha peso, conta. In essi mostrarsi ostili al governo di destra in carica, così raccogliendo il quasi certo consenso dell’interlocutore, ha in genere la meglio su qualsiasi sforzo volto per esempio a chiarire le ragioni di fondo, i motivi complessi, che spesso spiegano per non piccola parte tanti aspetti negativi della nostra situazione. Per quanto almeno mi è capitato di vedere, quella cosa che si chiama «carità di patria» - e che per l’appunto dovrebbe indurre, non certo a nascondere la propria opinione, ma almeno ad accompagnarla con discorsi più alti e con un certo distacco - non è merce molto diffusa tra gli italiani colti quando si trovano fuori casa. Si aggiunga poi il nostro invincibile provincialismo culturale, il quale tende troppe volte a farci apparire bello ciò che non è italiano. E che per esempio qualche tempo fa ha spinto anche una casa editrice come Laterza (ma non è certo la sola!) a tradurre un libro come quello di Christopher Duggan, La forza del destino, un libro che offre una versione della storia italiana negli ultimi 150 anni che dire caricaturale è dire poco. Noi stessi contribuendo in tal modo ad accreditare un punto di vista circa il nostro passato che non aiuta certo a capire nulla del nostro presente. È così - è anche, e anzi soprattutto, così - che quando poi capita che l’Italia debba misurare il peso e la qualità della propria immagine nell’arena internazionale, essa si ritrova con il bel risultato che le ha riservato il caso Battisti. Un Paese che vuole contare ed essere preso sul serio dagli altri è innanzi tutto un Paese di cui gli altri conoscono a sufficienza la storia e la realtà attuale, un Paese che, se è l’Italia, non deve, o non dovrebbe, essere scambiato per la Macedonia o per la Colombia (con buona pace di entrambe). Pag 1 Un’inutile tempesta di Franco Venturini Le polemiche di casa nostra sono talvolta davvero difficili da comprendere, quasi che a farle nascere fossero improvvise crisi di astinenza causate da un giorno festivo o da un insolito momento di calma. L’ultima di queste tempeste in un bicchier d’acqua, tuttavia, fa più male delle altre: perché ci ricorda la morte di Matteo Miotto e perché ci fa temere che nemmeno un evento tragico riesca a tenere a bada la politica. Il ministro della Difesa La Russa afferma pubblicamente di essere «arrabbiato» con i militari. I comandi lo avrebbero inizialmente informato che la perdita di Matteo Miotto era dovuta a un cecchino, mentre soltanto in un secondo tempo il ministro ha saputo che l’episodio si era svolto nell’ambito di un scontro che aveva coinvolto «più di quattro» talebani. Donde il rimbrotto ai generali, accusati di reticenza o almeno di incompletezza nell’informazione. La Russa non si ferma qui. A suo avviso quanto è accaduto «è il riflesso di un vecchio metodo in uso nei passati governi», quando si preferiva «indorare la pillola» invece di ricorrere alla massima trasparenza in vigore ora. Per le risposte dei militari rimandiamo all’intervista di Marco Nese al generale Camporini. Personalmente ritengo possibile che qualche comandante abbia inizialmente parlato solo dell’aspetto tecnico decisivo, quello del cecchino, rimandando a dopo una descrizione più completa dei fatti. Se così è andata, si è trattato di un errore in un mondo e verso una famiglia che giustamente pretendono la verità tutta e subito. Ma siamo al cospetto di omissioni gravi che giustificano la polemica verso «passati governi» e la buttano così in politica? I cecchini sono tiratori scelti particolarmente equipaggiati che possono agire da soli o con altri. Anche nel mezzo di una battaglia, come avveniva normalmente nella Prima guerra mondiale, come è avvenuto nella Seconda a Stalingrado e in tanti altri luoghi. Matteo Miotto, anche La Russa lo conferma, è stato colpito da un cecchino dotato di fucile di precisione, da una distanza tra il chilometro e il chilometro e mezzo. La prima versione è dunque esatta, ma le mancava che il cecchino ha sparato durante uno scambio di colpi durato diversi minuti. Davvero si tratta di una dimenticanza fuorviante? È davvero tanto diverso morire colpiti dalla pallottola di un cecchino o morire colpiti dalla pallottola di un cecchino mentre intorno anche altri sparano? Lo abbiamo detto, siamo per la verità tutta e subito. Ma quando l’oggetto del contendere è di lana caprina, quando si apre un vulnus tra ministro e militari nel bel mezzo di una missione che è, sì, anche di guerra,

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quando tutto ciò serve da trampolino per criticare altri governi o altre parti politiche, allora credo che venga meno un dovere più alto della polemica di giornata. Pag 1 Le doppie verità di Fiorenza Sarzanini C'è un rapporto riservato, trasmesso alla magistratura militare e a quella ordinaria, che descrive le fasi dello scontro a fuoco durante il quale è stato ucciso il 31 dicembre scorso il caporalmaggiore Matteo Miotto. È arrivato negli uffici giudiziari ieri mattina, ma è stato stilato il 3 gennaio 2011. Tre giorni dopo la morte dell’alpino italiano la polizia militare delegata agli accertamenti aveva dunque già ottenuto la versione che il ministro della Difesa Ignazio La Russa denuncia aver appreso soltanto quarantotto ore dopo. E ulteriori accertamenti erano stati affidati ai carabinieri del Ros. Nelle relazioni coperte dal segreto e destinate a chi deve stabilire l’esistenza di eventuali reati commessi dai responsabili del contingente che si trova in Afghanistan, sono state subito elencate le circostanze che hanno portato alla tragedia. E questo mentre a livello mediatico e politico, stando a quanto dichiarato dallo stesso La Russa, veniva accreditata - o quantomeno non smentita - una ricostruzione ben diversa, che avvalorava l’ipotesi del cecchino solitario. È il problema della «doppia verità» che più volte si è posto da quando le truppe sono impegnate in Afghanistan e prima in Iraq. Perché in realtà rimane irrisolto il nodo che fa da sfondo alla missione: le regole di ingaggio e i cosiddetti caveat, le limitazioni imposte al momento dell’invio dei reparti, votati dal Parlamento. Ufficialmente l’Italia è in missione di peacekeeping. Vale a dire che tra i suoi compiti c’è quello di mantenere la pace tra le parti in conflitto e l’addestramento della polizia locale. La verità è però ben diversa: il contingente è infatti schierato in «teatro di guerra» e viene sempre più spesso coinvolto in vere e proprie battaglie al pari di statunitensi e britannici. Basti pensare che gli italiani hanno il comando di un’intera area e quale sia il livello di rischio è dimostrato dalla scelta - effettuata prima dal governo guidato da Romano Prodi e poi da quello di Silvio Berlusconi - di potenziare gli armamenti e i mezzi blindati a disposizione proprio per cercare di limitare al massimo i pericoli. I casi di versioni modificate, o addirittura clamorosamente smentite, riguardano soprattutto la missione irachena, quando i militari» italiani erano di stanza a Nassiriya. Bisogna dunque tornare al 2004 e all’ormai famosa «Battaglia dei ponti» che nell’agosto di quell’anno vede i soldati impegnati in un conflitto andato avanti per giorni. L’indagine della procura militare e di quella ordinaria vengono avviate dopo il rilascio del giornalista statunitense Micah Garen, sequestrato per dieci giorni dai miliziani dell’Esercito del Mahdi il 12 agosto 2004. È il portavoce del leader sciita Moqtada Al Sadr ad affermare: «È un messaggio di pace. Lo abbiamo liberato anche perché ha fatto chiarezza sull’operato dei militari italiani». Era stato proprio Garen, dopo la Battaglia dei ponti, a filmare un’ambulanza e accusare i soldati impegnati nella missione «Antica Babilonia» di averla fatta esplodere uccidendo almeno una donna incinta e un anziano. Sino ad allora era stato addirittura negato che i soldati italiani avesse partecipato agli scontri e dopo le affermazioni dei guerriglieri l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini dichiarò: «Non è vero che si trattava di un mezzo di soccorso, era un’autobomba». Per scoprire che cosa fosse accaduto sono trascorsi due anni. La procura militare procede per il reato di uso aggravato delle armi. Il 25 gennaio 2006 convoca come indagato il caporalmaggiore Raffaele Allocca, torrettista e capo arma del mezzo anfibio d’assalto AAV7 dei lagunari «Serenissima». E lui ammette: «Sparai contro il mezzo perché così mi fu ordinato dal maresciallo Stival. Se mi fossi accorto che si trattava di un’ambulanza mai e poi mai avrei sparato e avrei chiesto spiegazioni al superiore». Doppia verità anche per la morte di Simone Cola, il mitragliere ucciso a Nassiriya il 21 gennaio 2005. «Una pattuglia aerea - è scritto nella prima relazione della polizia militare - è stata colpita mentre era in missione di soccorso alle unità di terra portoghesi». Ma con il trascorrere delle ore questa versione viene corretta a aggiustata. Si scopre infatti che quando Cola è stato colpito, i portoghesi erano già rientrati alla base. E arriva la precisazione: «I soldati italiani erano usciti in attività di ricognizione in seguito a un attacco e sono stati presi di mira da almeno sei guerriglieri». Una «correzione » che non basta a fugare i dubbi. Non viene infatti chiarito come mai si sia deciso di esporre i militari a un rischio così alto se l’allarme era rientrato. E alla fine si scopre che in realtà l’elicottero Ab412 è finito sotto il fuoco di decine di kalashnikov nel corso di un attacco che aveva come obiettivo proprio

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le truppe italiane. Recentemente è stato un report pubblicato dal sito Wikileaks a mettere in dubbio quanto raccontato su Salvatore Marracino, il soldato che, secondo la versione ufficiale, «morì per un incidente causato dalla sua arma» il 15 marzo 2005 sempre a Nassiriya. Secondo un documento classificato degli Stati Uniti reso noto dal blog di Julian Assange nell’ottobre scorso «alle ore 13 un militare italiano che stava prendendo parte a un’esercitazione di tiro a Nassiriya è stato accidentalmente colpito alla testa». Nessun cenno al fatto che si sia sparato da solo. La Procura militare guidata da Marco De Paolis ha acquisito copia del notam, ma ha ritenuto che non ci fossero gli estremi per riaprire l’inchiesta. Le testimonianze dei commilitoni e dei superiori acquisite all’epoca sono state ritenute convincenti e si è così deciso di confermare la ricostruzione iniziale. Pag 1 Le radici dell’odio contro i cristiani di Vittorio Messori Credo che tutti, anche i cristiani, avrebbero da imparare da quell’agnostico - ma non ateo -, da quell’anticlericale - ma rispettoso del Vangelo -, che fu Benedetto Croce. Sosteneva, quel grande realista, che la conoscenza della storia è il miglior antidoto a ogni estremismo, a ogni spirito di crociata. La storia - ricordava Croce - non è mai in bianco e in nero, non è la lotta dei cattivi contro i buoni, ma è un palcoscenico dove vittime e carnefici si scambiano i ruoli appena possono. Così, per stare a noi, anche la solidarietà per le vittime, l’orrore per la violenza omicida di Alessandria d’Egitto hanno diritto a un inquadramento storico che non giustifichi, certo, ma eviti di sbagliare prognosi e diagnosi. Restiamo, dunque sulle sponde del Nilo, cominciando da quando - circa a metà del settimo secolo - vi giunsero i cavalieri di Allah che sbucavano dai deserti d’Arabia. Erano coraggiosi ed esaltati dalle parole di Muhammad il profeta, ma erano ben pochi, non avevano né vera organizzazione militare né macchine da guerra. I mille garibaldini, insomma, contro i duecentomila soldati dei Borboni. Mai, quegli incursori, avrebbero potuto vincere l’esercito di Bisanzio, alla quale apparteneva l’Egitto, se le truppe cristiane non si fossero sbandate prima ancora dell’urto e se le popolazioni non avessero acclamato gli invasori come liberatori. L’Egitto, infatti, aveva accettato presto il cristianesimo, con un fervore persino eccessivo. Ne nacquero le vette ascetiche degli eremiti nel deserto, ma ne venne anche un pullulare di eresie in guerra, spesso sanguinosa, tra loro. Tutti gli egiziani, comunque, erano uniti quando si trattava di lottare contro la dipendenza dall’odiata Costantinopoli. Sta di fatto che alla notizia che contro l’Impero romano d’Oriente si erano avventati quegli arabi, le truppe, formate in gran parte da mercenari egiziani, si rifiutarono di combattere e, soprattutto ad Alessandria, si giunse a preparare archi di trionfo per gli invasori. Del resto, non saranno dei cristiani a chiamare in Spagna la Mezzaluna per faide interne tra visigoti? E la Francia non sarà sempre, persino a Lepanto, dalla parte del Turco? L’entusiasmo degli egiziani doveva presto spegnersi: i musulmani non forzavano alla conversione (anzi, spesso tentarono di frenarla, perché ogni convertito in più era un sottomesso da spremere in meno), ma il loro regime spietato di sudditanza del credente nel Vangelo al credente nel Corano indusse la maggioranza dei battezzati a cambiare fede. Quelli che non vollero apostatare furono detti «copti», deformazione araba del termine greco «egizi», ad indicare che si trattava dei discendenti di coloro che gli arabi avevano trovato in quella terra. La resistenza di questo zoccolo di battezzati, che dopo qualche secolo si stabilizzò su una percentuale simile a quella attuale - circa il 10 per cento - suscita ammirazione e riconoscenza da parte di ogni cristiano ed è il segno della fortezza della fede, malgrado il cedimento di tanti. Ma va pur detto che, per ogni regime musulmano succedutosi in Egitto, i copti furono in qualche modo la spina dorsale. In effetti la loro cultura maggiore della media, la loro intraprendenza, il loro desiderio di mostrarsi zelanti per allentare i carichi da cui erano gravati, fecero sì che fosse essenziale la loro presenza nella politica, nell’amministrazione, nell’economia. Così, le guerre sostenute contro i cristiani - a cominciare dalle crociate - furono vinte dagli islamici anche grazie al sostegno fedele dei copti ortodossi. Questi, tra l’altro, non furono affatto fraterni, bensì spietati, contro i copti cattolici e anche contro gli altri ortodossi, greci e slavi, che rifiutavano il monofisismo. Così , sin dai lontani inizi, la storia dell’Egitto musulmano è un intreccio - anche se spesso fecondo e culturalmente prestigioso - di complicità reciproche tra Dio e Allah. Ma è, purtroppo, anche una storia

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di contrasti sanguinosi tra i cristiani di varia obbedienza. In ogni caso, sino a tempi recenti la convivenza, cementata da tanti secoli, non è mai stata messa seriamente in discussione. Che è avvenuto, dunque, da qualche tempo? Credo non abbia torto - almeno in questo - il Grande Imam del Cairo, Al Tayyeb, nell’intervista di ieri al Corriere: «L’attentato criminale di Alessandria non è un attacco ai cristiani ma all’Egitto intero». In effetti, tutti i governi di tutte le nazioni islamiche sono sotto lo tsunami che ha avuto come detonatore l’intrusione violenta del sionismo che è giunto a porre la sua capitale a Gerusalemme, città santa per i credenti quasi alla pari della Mecca. Ira, umiliazione, senso di impotenza hanno dato avvio a un panislamismo che intende demolire le frontiere e i regimi attuali per giungere a un blocco comune e ferreo di fedeli nel Corano. Una sorta di superpotenza che possa sfidare persino gli Stati Uniti, padrini di Israele. Il successo indubbio dell’azione dell’11 settembre 2001 ha infiammato gli entusiasmi, mostrando che la guerra vittoriosa è possibile. Se in Egitto, e altrove, si attaccano i cristiani, in Iraq si ammazzano gli sciiti che, per i panislamisti, non sono veri musulmani e dunque non possono far parte del Grande Fronte. I cristiani vanno messi in fuga, alla pari di ogni altro che non faccia parte della sacra Umma. Se la diagnosi è questa, ci sono «cure», come quelle alla Bush, che aggravano ed esasperano il male. Onore ai cristiani uccisi, memoria sincera alla loro testimonianza: ma proclamare crociate contro Paesi, come l’Egitto, vittime anch’esse di un disegno imperiale, significherebbe - come constatano gli americani, ormai sconfitti in Iraq e in Afghanistan - aggiungere solo altre vittime e gettare benzina sul fuoco coranico. Pag 10 Tremonti parafulmine del primato leghista e di opposizioni divise di Massimo Franco L’idea che Giulio Tremonti possa diventare la nuova icona dell’opposizione fa un po’ sorridere. Sorprende soprattutto che il suo allarme su una crisi finanziaria dalle prospettive tuttora imprevedibili sia usata dai finiani di Futuro e libertà per attaccare Silvio Berlusconi. Uno dei motivi per i quali a primavera si ruppe il sodalizio fra il premier e Gianfranco Fini fu infatti la politica economica perseguita da Tremonti; e considerata troppo filo leghista dalla corrente del presidente della Camera. Ma l’ansia di cercare un motivo di rivincita sul governo, e gli attacchi di alcuni settori berlusconiani al ministro stanno creando una situazione singolare. È quella che individua nel titolare dell’Economia l’uomo chiamato a dargli la spallata dall’interno del centrodestra. La tesi è suggestiva, anche perché si salda con quella di quanti nel Pdl sognano da tempo di regolare i conti con un Tremonti avaro di risorse per i ministeri; ossessionato dalla spesa pubblica; ed assente dalle polemiche politiche più roventi. La sua presa di posizione di ieri da Parigi, peraltro non nuova, su una crisi non ancora finita, è stata interpretata come l’ennesimo «controcanto » all’ottimismo berlusconiano. E ne è stata ricavata la conferma che il ministro segue un proprio percorso autonomo: anche troppo, secondo Palazzo Chigi. L’unico aspetto che salta agli occhi è la vicinanza sempre più evidente fra Tremonti e la Lega. Più che un campione dell’opposizione, il ministro dell’Economia continua ad apparire il puntello dell’alleanza fra Pdl e Umberto Bossi. Il fatto che il Carroccio non smentisca di vederlo bene in prospettiva a Palazzo Chigi rende il suo profilo più indigesto ad alcuni settori del centrodestra. Ma l’insofferenza di alcuni compagni di partito non dipende dalla sintonia di Tremonti con l’opposizione: riflette piuttosto quella del Pdl verso il protagonismo finora vincente della Lega. Eppure la consapevolezza che la crisi è europea, rende i margini di manovra economica quasi inesistenti; e comunque ipotecati dalle decisioni delle istituzioni sovranazionali. Non solo. L’idea che i contrasti sui tagli alla spesa pubblica possano riflettersi sul centrodestra è destinata a rivelarsi infondata. Se anche fosse vero che Tremonti «svela la fiction di Berlusconi», come sostengono i finiani, la contraddizione è destinata a ricomporsi nell’alveo del centrodestra. E comunque hanno buon gioco i berlusconiani che ricordano a Fli ed al centrosinistra gli attacchi dei mesi scorsi contro le scelte tremontiane, e la difesa fattane in Parlamento dal premier. Questo non significa che la Lega rinunci ad una propria politica con il centrosinistra; e ad accarezzare un’evoluzione dei rapporti di forza a proprio favore, magari dopo un passaggio elettorale. Di fronte ad un Berlusconi che ironizza sui «postcomunisti in cachemire» Bossi replica: «Io con loro devo trattare», perché altrimenti la riforma federalista non passa. Non è da escludersi

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neppure che alla lunga Tremonti possa diventare un fattore di contrasto. Per ora, però, è un ministro difficilmente sostituibile. Ma soprattutto, come ieri ha spiegato Bossi, esistono dei «riti anti-rottura» che impediscono a Pdl e Carroccio di litigare davvero: tanto più sul ministro dell’Economia, e con tempeste finanziarie e venti elettorali non ancora scongiurati. Pag 40 L’Italia e il fattore Berlusconi. Come si costruisce un “nemico” di Giorgio Fedel Politica e passioni Vi è un aspetto della cultura politica italiana che merita attenzione. Da più di un quindicennio abbiamo una fortissima corrente di denigrazione e di aperta ostilità che investe Silvio Berlusconi. Questa corrente include una varietà di soggetti: partiti e movimenti, intellettuali, giornalisti, conduttori televisivi, normali cittadini. In effetti, per un’intera porzione della società italiana, quando il riferimento va a Berlusconi, scompare ogni visione moderata. Egli è il nemico per antonomasia, una fonte intrinseca di pericolosità, da cui ci si può difendere solo combattendolo rostris et unguibus. Qualsiasi prova è superflua: dagli epiteti impiegati («caimano», «stupratore della democrazia», «corruttore») alla tesi circa l’esistenza di un’analogia tra Berlusconi e Mussolini; e il «berlusconismo» indica che il Paese si trova intrappolato nelle spire di un regime autoritario, guidato da una figura politica nefasta. Quale la spiegazione di tutto ciò? Certo, la politica è conflitto e non sorprende il fatto che vi sia una corrente di delegittimazione contro un avversario (cosa già conosciuta in Italia). Sorprende semmai il grado estremo dell’intensità dell’avversione (a volte sconfinante nell’odio). Probabilmente sono in gioco più fattori convergenti. Vediamo. Alcuni fattori rinviano alle caratteristiche personali di Berlusconi, e sono facili da intuire perché sotto gli occhi di tutti. Berlusconi è un imprenditore economico che ha accumulato una grande fortuna; e incarna (e avvalora) il modello dell’american way, secondo il quale è cosa buona e giusta il far denaro grazie alla libera iniziativa e capacità dell’individuo comune, di modo che se questi diventa un «pezzo grosso», un «capitano d’industria», merita ammirazione e riconoscimento sociale. È appena il caso di notare che da questo punto di vista Berlusconi fornisce un bersaglio più che idoneo su cui indirizzare l’aggressività e il risentimento contro la ricchezza alimentata dal capitalismo e la sua componente individualistico liberale: sentimenti questi sempre presenti nella cultura italiana ancora segnata da una psicologia di tipo collettivistico e postcomunista (sentimenti che si acutizzano nei periodi di crisi economica). Ma v’è di più. Berlusconi, sempre in connessione con la sua sfera personale, è protagonista di ripetuti scandali sessuali ed è coinvolto in una molteplicità di indagini giudiziarie. Questo fatto, amplificato dai media, dà la stura a ondate di indignazione, per le quali Berlusconi diventa ancora un bersaglio su cui scaricare questa volta sentimenti di altra natura, quelli tipici (di riprovazione) che si rivolgono a chi infrange i costumi di rettitudine morale (accompagnati pure dall’invocazione di punizione giuridica). In tal modo Berlusconi può essere reputato indegno di occupare cariche elevate dello Stato, che necessitano di eticità, condotta assolutamente legale e decoro. E veniamo ai fattori politici, che sono meno evidenti. Per capire il primo è necessario guardare indietro, ossia alla costrizione internazionale che nella Prima repubblica condizionava l’agire dei partiti in Italia. La competizione politica era cioè subordinata al confronto planetario tra Usa e Urss. Semplificando, vi è la Dc, perennemente al governo perché bastione di difesa del regime democratico assediato: e vi è il Pci, il più grande partito comunista dell’Occidente, alleato dell’Urss, protagonista dell’opposizione di regime, e pertanto escluso per definizione dal governo. Tutto questo configura una politica visibile di aspro scontro ideologico (i partiti proclamano in pubblico le rispettive e contrapposte posizioni e identità); ma anche crea una situazione di potere non modificabile dai partiti. Stante ciò, le élite politiche, nel retroscena, sono costrette dalla logica della coesistenza (mancanza di alternative) a collaborare e a operare con tolleranza e rispetto reciproci. Ora, dietro la Seconda repubblica c’è il venir meno di questa costrizione strutturale (crollo dell’impero sovietico e fine della Guerra fredda). Di conseguenza, viene meno la logica della situazione che imprimeva un tratto collaborativo e di positività ai rapporti personali tra i leader (e si allentano i freni inibitori dell’espressione dell’antagonismo). Inoltre, prende piede, estendendosi a tutte le forze

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politiche, la percezione della modificabilità della situazione di potere (l’aspettativa di andare al governo). Nessun ostacolo dunque si trovano davanti le forze politiche avversarie di Berlusconi; e scaricano su di lui ulteriori tipi di sentimenti ostili, quello di ripulsa di un competitore da abbattere, quello derivante dalla contraddizione netta delle aspettative di potere (se Berlusconi vince le elezioni). Il secondo fattore discende da un’azione specifica di Berlusconi che va a intaccare un ganglio della cultura politica italiana. Berlusconi sposta il principio della legittimazione dall’antifascismo (il fondamento simbolico della Repubblica) al voto popolare, che è la regola che presiede alla formazione del governo nei sistemi liberal-democratici. Dà quindi il massimo rilievo non al patto originario dei partiti della Costituente (il che gli consente di «sdoganare» il Msi), ma alla fonte stessa del potere politico. Questo ha un effetto di spiazzamento, e innesca altre dinamiche negative, innalzando il livello di animosità. Accantonare il principio dell’antifascismo significa aggredire una componente essenziale dell’identità politica degli italiani, nonché svilire un’esperienza sacralizzata dalla retorica istituzionale e dai riti di integrazione nazionale. A questo si reagisce dando sfogo a sentimenti contro-aggressivi che colpiscono Berlusconi, al fine di riaffermare il valore del simbolo da lui offeso. D’altra parte, mettere l’accento, come fa Berlusconi, sulla salienza del voto popolare induce l’idea di un pericolo incombente, vale a dire la possibilità che si generi un blocco di potere che fa capo a Berlusconi, il quale, grazie alle sue ingenti risorse economiche e comunicative - è questa l’accusa - riesce a manipolare la mente dei cittadini, e vincere le elezioni. Così il cerchio si chiude, e ad ostilità si aggiunge ostilità. AVVENIRE Pag 2 Sradicare l’albero del terrorismo di Martino Diez Le violenze ai copti e l’Islam che s’interroga «I copti tra due fuochi»: così Rafiq Greiche, direttore dell’ufficio stampa della Chiesa cattolica in Egitto, descriveva a Oasis la situazione della minoranza cristiana poco prima di Natale. L’attentato alla chiesa dei Santi ad Alessandria ha purtroppo dimostrato che non esagerava. Il primo fuoco è costituito dal governo, o meglio dall’apparato burocratico, che senza grande clamore mette spesso in atto politiche discriminatorie: difficile avere il permesso di costruire nuove Chiese, quasi impossibile per un cristiano accedere agli alti gradi dell’amministrazione, dell’esercito e dell’insegnamento universitario, impossibile veder registrata sulla propria carta d’identità un’eventuale conversione dall’islam al Cristianesimo. Ed è appunto sul governo che si sono appuntate le pressioni internazionali, oltre che la rabbia dei manifestanti copti. Si può confidare che le proteste determineranno qualche mutamento. Tuttavia appare ingenuo pensare che ciò basterà ad arrestare il terrorismo, il secondo fuoco indicato da Rafiq, una realtà che si estende ben oltre i confini egiziani. Dopo l’attentato di Alessandria, come in altri casi analoghi, c’è chi piange e certamente anche chi esulta. Ma sono minoranze. La vera battaglia si gioca a livello della maggioranza silenziosa. Un domenicano iracheno intervistato da Oasis dopo l’attentato alla cattedrale siro-cattolica di Baghdad spiegava: «Ci sono persone molto solidali con noi. Questo atteggiamento si è visto in particolare a Baghdad. Molti giovani musulmani e donne musulmane vengono a pregare per i martiri caduti nella chiesa. Altri sono indifferenti, non vedono, non se ne interessano, e io ho un po’ paura di questa gente [...]. Capita persino che ci prendano in giro». Negli ultimi fatti però entra in scena un fattore sinora inedito: l’immediatezza dei nuovi media. Le immagini dell’attentato, addirittura i profili su Facebook di una delle vittime, le manifestazioni successive, tutto è facilmente reperibile su Internet. Nessuno sa veramente come reagiranno le coscienze. Saranno di più gli egiziani che si chiudono occhi e orecchi o quelli che si mostrano solidali con le vittime? I terroristi, nella loro rincorsa alla spettacolarizzazione dell’omicidio, nello strano impasto di modernità reazionaria che li contraddistingue, hanno fatto una scommessa: saranno di più i conniventi. Ma esiste la possibilità di un effetto boomerang. Perché, nonostante le mille interpretazioni possibili, rimane il fatto nella sua cruda verità: più di venti persone sono state fatte saltare in aria mentre si trovavano in preghiera. Impossibile non chiedersi: «Che cosa hanno fatto di male?». Sull’evidenza della verità scommette con decisione Benedetto XVI dall’inizio del suo pontificato. Ma con una fondamentale aggiunta: bisogna indicare con chiarezza anche la ragione per cui è sbagliato uccidere in nome di

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Dio. Da qui nasce l’invito a ripetere il gesto di Assisi, nella convinzione che non basta condannare i frutti amari del terrorismo, ma bisogna sradicarne l’albero. Che l’islam contemporaneo abbia un problema con la violenza è sotto gli occhi di tutti, prima di tutto sotto gli occhi dei musulmani stessi, che continuano a pagare il maggiore tributo di sangue nella lunga guerra scatenata dai terroristi (basti pensare alle centinaia di migliaia di caduti in Algeria o al recentissimo caso del governatore del Punjab in Pakistan). Avviare una riflessione seria su questo tema è in prospettiva il miglior mezzo per arrestare la spirale di odio. Pag 23 Credere, tra Bonhoeffer e Severino di Roberto Timossi Testo non disponibile LA NUOVA Pag 4 Chi stacca la spina a Berlusconi di Renzo Guolo Il Cavaliere scalpita e pare convinto di poter ancora allargare la maggioranza, con altre operazioni di «compravendita». In realtà teme la tenaglia del duo Bossi-Tremonti. Il primo non ha mai fatto mistero di considerare assai fragile un governo che si regge su pochi voti, e detta nei fatti una sorta di ultimatum: o il federalismo passa in commissione tra il 16 e il 23 gennaio, oppure diventa impossibile portare il provvedimento in Consiglio dei ministri. Una scadenza che, se non rispettata, potrebbe indurre la Lega a staccare la spina. Impossibile, per il Carroccio, rischiare di presentarsi davanti agli elettori, magari dopo un banale incidente parlamentare, senza aver incassato la legge che sostanzia la ragione del partito di Bossi nel governo. Una presenza mai fine a sé stessa, in quanto, contrariamente a quello «personale» di Berlusconi, il Carroccio è comunque un vero partito, con tanto di obiettivi e ideologia, condivisibili o meno, ma non piegati all’interesse primario del suo leader. Mentre per il Cavaliere l’importante è durare, sperando, quando se ne presenterà l’occasione, di salire al Colle come inquilino. La Lega coltiva una doppiezza tattica che non si preclude nessuna strada. Se il Terzo Polo andasse alle urne, magari in alleanza con Montezemolo, l’alleanza Pdl-Carroccio vincerebbe solo alla Camera, dove vige un premio di maggioranza abnorme per lo schieramento che ottiene più voti, ma non al Senato. A quel punto un governo d’unità nazionale sarebbe d’obbligo e per sostenerlo centro e Pd chiederebbero in cambio la fuoriuscita di scena di Berlusconi. In simili circostanze l’unico candidato papabile, sostenuto con forza dalla Lega, sarebbe Tremonti. Una possibilità che il Cavaliere sa molto concreta. Tanto da evitare un’inutile, per i suoi standard propagandistici, «cena degli ossi» con lo stesso ministro dell’Economia e Bossi in Cadore; e da indurlo a rispolverare una datata ma non casuale polemica con i «comunisti in cachemire». Al di là degli stereotipi, Berlusconi condanna l’ideologia, ma in tal modo si candida anche, da vero leader populista, a ereditare il consenso di quel popolo «autentico» che votava per il Pci. Berlusconi sa che D’Alema è favorevole ad appoggiare un simile governo, passo, si rammenti, non certo facile a sinistra; e sa anche che, proprio con quei «comunisti» ormai così poco minacciosi, Tremonti, attraverso l’Aspen, come altri organismi simili inevitabile camera di compensazione delle élites economiche e intellettuali del Paese in un sistema bipolare tanto polarizzato quanto ingovernabile, mantiene buoni rapporti. Così la denigrazione della sinistra ex Pci ha il compito di rendere del tutto indigeribile al suo elettorato, più che a quello tatticamente spregiudicato della Lega, una simile prospettiva. La rottura tra il capo del governo e il suo ministro dell’Economia è, comunque, nelle cose. Il Cavaliere chiede a Via XX Settembre una politica espansiva, risorse per il quoziente familiare, cedolare secca e sgravi fiscali, che, nonostante le promesse elettorali, nessuno ha in tempi di «vacche magre». Ma Tremonti non molla, la sua politica, assai poco anticiclica, ha permesso almeno il contenimento del deficit pubblico, e questo ne fa in Europa, in particolare agli occhi dei tedeschi e della Bce, un interlocutore affidabile. E’ poi convinto che, dopo l’uscita di Fini, la maggioranza sia debolissima. Dunque Berlusconi riesce a piegare Tremonti, ma stando fermo favorisce la costruzione di una successione che probabilmente lo metterebbe ai margini. Sono le contraddizioni del «partito personale», nel quale a contare sono, alla fine, gli interessi del Capo e non del blocco politico e

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sociale che lo esprime. Così, dopo l’ostacolo palese di Fini, il Cavaliere si trova davanti a quello più insidioso di un leader che prepara da tempo le sue mosse. Anche perché l’interlocutore su cui punta per stoppare ogni manovra, Bossi, è quello che con il suo potenziale rivale ha un’intesa di ferro. A meno che, dal corridoio dei Passi perduti, non arrivi il solito «inaspettato» soccorso. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Nord – Sud, troppi luoghi comuni di Angelo Panebianco Umberto Bossi ha indicato date precise: fra il 17 e il 23 gennaio deve passare il «federalismo» , ossia il decreto attuativo più importante, sul fisco municipale. Altrimenti, non resterà che il voto. La scissione dei finiani non è stata in grado di abbattere il governo ma lo ha reso debolissimo nelle Commissioni parlamentari della Camera. Non è facile che il provvedimento passi. Soprattutto, non è facile che passi senza stravolgimenti e senza dilatazione delle spese. Dalle notizie che circolano, sembra inoltre che non ci sia al momento la disponibilità del ministro Giulio Tremonti ad accettare le condizioni (quoziente familiare, cedolare secca sugli affitti) poste dall’Udc di Pier Ferdinando Casini per votare a favore. I giochi sono aperti e tutto da qui alla fine di gennaio può accadere. Per dare un giudizio fondato su che cosa sarà davvero (se sarà) il federalismo in Italia bisognerà aspettare di vedere quale provvedimento, con quali caratteristiche, verrà alla fine varato. Gli esperti sono al momento divisi, danno giudizi discordanti. C’è chi parla di tradimento delle intenzioni federaliste originarie, chi pensa che tutto si risolverà in una partita di giro, un passaggio di mano fra centro e periferia dell’esazione dei tributi, congegnato in modo da non favorire la responsabilizzazione fiscale degli enti locali, e chi invece sostiene che, per l’essenziale, ciò che si sta per varare sia autentico federalismo fiscale. Se guardiamo alle condizioni politiche generali dobbiamo osservare come esse non siano affatto favorevoli alla complessa trasformazione denominata «federalismo fiscale» . Il rischio più forte è che ne esca ulteriormente esasperata la divisione fra Nord e Sud. Si considerino i fatti: o il federalismo fiscale sarà una cosa seria, e allora comporterà tagli drastici alle capacità di spesa di molti comuni del Sud (oltre che di qualche comune del Nord), o questo non avverrà e sarà allora una farsa, una partita di giro appunto. Ma se tagli drastici alle capacità di spesa degli enti locali del Sud ci saranno, come sarà possibile conservare il consenso politico necessario nel lungo arco di tempo richiesto per portare il federalismo a regime? Se sarà solo una partita di giro, le regioni produttive del Nord si sentiranno prese in giro e si accentuerà il loro distacco politico-psicologico dal Sud. Se sarà una cosa seria, provocherà probabilmente la rivolta politica di ampia parte del Sud. Il federalismo richiederebbe una collaborazione senza remore fra le varie aree del Paese, una disponibilità a rimettersi in gioco dove è maggiore il ristagno economico e il fardello di politiche sbagliate unita alla assenza di atteggiamenti inutilmente punitivi da parte delle regioni più produttive e ricche. Collaborazione e disponibilità che non ci sono state. I segnali, anzi, sono di segno opposto. Sono di questi giorni le notizie sulle massicce assunzioni di precari da parte della giunta Lombardo in Sicilia. Nel rigoroso rispetto della tradizione. Ancora qualche anno fa si poteva immaginare il coinvolgimento del Sud in un percorso virtuoso di risanamento, la sua disponibilità a uno scambio fra meno risorse oggi e più sviluppo domani. Adesso che sono sorte (varie) Leghe Sud, quella ipotesi è meno credibile. Comunque vada l’iter parlamentare, si può scommettere che le prossime elezioni si giocheranno (già tanti scaldano i muscoli a destra e a sinistra) sul pericoloso crinale che contrappone Nord e Sud. Pag 2 «Colpiremo ancora i cristiani in Egitto» di Cecilia Zecchinelli Minacce alla vigilia del Natale ortodosso. Il governo: no alle ingerenze. Nella favela del Cairo copto: «Siamo pronti al martirio» Il Cairo - Sospese le licenze e richiamati in servizio migliaia di poliziotti, posti di blocco vicino alle chiese, autoblindo nelle maggiori piazze dell’Egitto per poter intervenire d’urgenza, porti e aeroporti presidiati per bloccare «terroristi stranieri», paura e rabbia

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tra i cristiani, appelli alla calma. Il Natale copto che si celebra questa notte è inevitabilmente segnato dalla strage di sabato ad Alessandria. E dalle minacce che continuano ad arrivare alla minoranza cristiana. Ancora ieri il sito Al Shumukh avvertiva papa Shenouda di un «imminente nuovo attentato» contro i suoi fedeli. «Presto ti arriverà un altro colpo, o stolto. Ti abbiamo avvertito, Allah ne è testimone», firmava «l’emiro di Grozny». Non è la prima volta che il patriarca è minacciato e su Internet c’è tutto e di più. Ma lo stesso sito aveva pubblicato a fine anno la lista delle 50 chiese egiziane da colpire con indirizzi e telefoni, tra cui quella dei Due Santi ad Alessandria. Nelle nuove minacce, diffuse su altri siti qaedisti e salafiti ed estese ai copti in America e Europa nonché al Vaticano, si insiste sulle «due donne convertite all’Islam e tenute prigioniere in un monastero cristiano» . Era già stata usata come «motivazione» per l’attacco a una chiesa di Bagdad in ottobre (58 morti), per quello ad Alessandria, e ieri Al Shumuk è tornato a chiederne la «restituzione o ve ne pentirete». E mentre la Chiesa copta nega che i fatti siano questi (le due donne sono libere e restano cristiane per loro scelta), l’accusa a «Shenouda e seguaci» di voler «cristianizzare» l’Egitto continua a circolare nelle file estremiste, come quella che il governo stia dando armi alle chiese per difendersi, o che nei quartieri copti vi siano cecchini sui tetti. Voci pericolose, a cui si aggiungono nuovi dettagli sui giorni prima della strage di Capodanno. Mentre i soliti siti jihadisti pubblicavano manuali fai da te su come costruire bombe appositamente per l’attacco (gli attacchi) in Egitto, la polizia di Alessandria aveva arrestato alcuni salafiti locali, prevedendo un’azione. E tra quelli in libertà ma presenti (e fotografati) in varie proteste violente anticopti starebbe ora cercando gli attentatori. Perché se l’accusa del governo resta rivolta a «terroristi stranieri», pare sempre più probabile che di straniero ci sia solo, semmai, l’ispirazione. La rudimentale bomba usata dal kamikaze, fatta di tnt e pezzi in metallo, è infatti simile agli ordigni esplosi nel 2009 in una chiesa del Cairo e nel bazar Khan Khalili. Armi di semplice costruzione, facili da nascondere. Con le migliaia di fedeli che questa notte, nonostante la paura, testimonieranno nelle chiese il Natale, garantire la sicurezza sarà un’impresa enorme. La Chiesa copta ha già dato il benvenuto ai tanti musulmani che si sono offerti come «scudi umani» e parteciperanno alla messa. Decisamente diverso il messaggio lanciato ieri sera dal ministro degli Esteri Ahmed Abul Gheit al mondo. «La protezione dei copti e delle loro chiese in Egitto è esclusiva responsabilità del governo egiziano e non permetteremo a nessuna parte straniera di difenderli». E per chiarire ha aggiunto: «La chiesa copta egiziana, indipendente e capace di difendersi, rifiuta protezioni straniere. È più antica del Vaticano». Il Cairo - «Non sarebbe facile per i terroristi arrivare quassù e poi ci sarà polizia ovunque, perfino lungo il bordo della montagna qui sopra, pronta a sparare. E se proprio dobbiamo morire la notte del nostro Natale, sia fatta la volontà del Signore: andremo in Paradiso, saremo martiri». Emile, 21 anni, copto, dice di non temere per la Spazzatura Copti nel quartiere degli zabbalin, i raccoglitori di spazzatura maiali che ora purtroppo non ci sono più». Due anni fa, con la giustificazione della febbre suina, migliaia di animali «impuri» furono abbattuti, privando i 30 mila zabbalin, che li nutrivano con rifiuti organici, di un guadagno importante, sostituito ora in parte da pecore e capre. L’ennesimo attacco alla comunità, avevano protestato invano. «Ma è niente in confronto a quanto successo ad Alessandria - continua Hanna -. Adesso che grazie a San Simone il villaggio ha ritrovato la fede, siamo arrabbiati per la strage dei nostri fratelli ma non abbiamo paura. Dio ci protegge, papa Shenouda ci guida, il governo si è finalmente accorto di noi o così speriamo» . Anche altri, pur devastati dal peggior attacco contro la comunità da un decennio, vedono qualche spiraglio di luce. «Da questa disgrazia terribile, per la prima volta è nata una solidarietà con molti musulmani, forse perché è successo nel centro di una grande città e non nel Sud o nelle periferie come in passato, era ora», dice Christine, che nel villaggio degli zabbalin lavora in un minuscolo emporio vendendo lumini con la Vergine, quadri in gesso di santa Apollonia, sigarette e biscotti. Vestita stranamente elegante visto il posto, una cliente aggiunge: «Ora Mubarak dovrà per forza lasciarci costruire le chiese, dovrà concederci uno statuto personale che ci permetta ad esempio di divorziare e risposarci, cosa vietata a tutti cristiani, credenti e no: non dovrei dirlo, ma è vero che qualche volta ci sono conversioni all’Islam proprio per questo. E soprattutto dovrà far condannare chi ha ucciso cristiani, finora non è mai successo». A un anno esatto dalla strage di Naga Hammadi, non lontano da Luxor,

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quando la messa di Natale si concluse con l’omicidio di otto copti, non c’è ancora nessun colpevole. Né per altri crimini analoghi che negli anni hanno causato decine di morti. «Anzi, siamo noi a finire in galera, ci attaccano, non abbiamo diritti e pure ci arrestano. Ad Omraneiya io c’ero, avevamo ragione ma i cristiani che hanno messo dentro li hanno rilasciati solo dopo la strage di Alessandria e le proteste di piazza», denuncia il tassista Marcel, nell’ingorgo infernale verso la Cairo Copta. Omraneiya, vicino alle piramidi, è il quartiere dove in novembre la polizia attaccò un edificio che i copti stavano trasformando in chiesa dopo aver chiesto invano la licenza. Ci furono due morti cristiani e scontri che segnarono la prima reazione dura della comunità esasperata contro le forze dell’ordine. «Paura di altri attentati? - continua il tassista -. Proprio no: meglio andare in Paradiso che stare in questo inferno. Non credo che cambierà molto per noi, se l’America non interviene saranno ancora guai» . Nella Cairo copta o Babilonia, tra i turisti che visitano il più antico insediamento cristiano con chiese (e sinagoghe) millenarie, a parte i posti di blocco e le decine di poliziotti distratti tutto pare sereno come sempre. Ma davanti alle icone dei santi sono in molti con il viso scuro. «Prego Mar Ghirghis, San Giorgio, perché ho un esame tra poco, di solito non ho paura ma con il clima di terrore che c’è tutto mi pare così difficile ora, è un Natale di sangue», sussurra Terese, piangendo. Il sacrestano la guarda e scuote la testa: «Dio è con noi, ma è vero che è un momento terribile per i cristiani d’Egitto. Speriamo non succeda più niente». Poco più in là, nel centro di informatica per giovani gestito dai religiosi, il «parroco» della chiesa di Santa Barbara condivide i timori. «All’inizio forse cambierà qualcosa ma poi chissà, con tutti i fanatici musulmani che sono in giro - dice Abuna Sarabamun -. Anche tra noi ce ne sono ma non così violenti e pericolosi. E la nostra Chiesa cerca di renderli pacifici, di far capire a tutti quello che diceva San Paolo: la fede è più forte di ogni arma. Ma a poche ore dalla celebrazione del Santo Natale posso dirle che l’allarme è alto. Mi chiede se ci sentiamo al sicuro qui? Lo siamo come lo erano i fedeli di Alessandria all’uscita dalla messa di Capodanno». Pag 3 «Il Papa invii un messaggio di pace ai musulmani» di Antonio Ferrari L’imam Al Tayyeb: «Può creare malintesi l’appello del Pontefice alla difesa dei fedeli» «Spero che Sua Santità Benedetto XVI, che gode di un’autorità morale universale e che porta dunque una responsabilità di importanza straordinaria, decida di inviare un messaggio al mondo islamico. Un messaggio che possa ristabilire i ponti della fiducia e che dissipi le origini dei malintesi. Sarebbe un’iniziativa molto apprezzata». Con la mano tesa ma anche con la convinzione che viene dal suo ruolo di capo spirituale della moschea di Al Azhar, culla teologica sunnita, dal Cairo il Grande imam Ahmed Al Tayyeb risponde al Pontefice attraverso questa intervista al Corriere della Sera. Con prudenza, coniugata alla ferrea volontà di cementare il dialogo e la collaborazione tra le religioni, Al Tayyeb indica quale può essere la strada per riprendere il cammino dopo il feroce e sanguinoso attentato di Alessandria d'Egitto contro la chiesa copta dei Due Santi. Chiesa copta che in queste ore si prepara al proprio Natale. Le sue parole, pronunciate a caldo dopo il discorso di Benedetto XVI all’Angelus di domenica 2 gennaio, hanno creato qualche equivoco. A volte si ascoltano dichiarazioni ma non se ne comprende appieno il senso. Ci vuole spiegare che cosa voleva dire con la sua dichiarazione? «Come lei sa, ho ascoltato le parole di Sua Santità sull’attentato di Alessandria, che è stato un crimine condannato da tutte le religioni e dagli uomini di buona fede del mondo intero. Ho sentito che il Papa ha chiesto protezione per i cristiani d’Egitto. Ora, temendo che le parole di Benedetto XVI possano creare una reazione politica negativa nell’Oriente in generale, e in Egitto in particolare, tengo a precisare tre cose: che i cristiani d’Oriente sono una componente essenziale delle loro società di appartenenza e una fonte di ricchezza della civilizzazione orientale e della tradizione arabo-islamica; che la loro protezione e la sicurezza sono garantite dai loro diritti di cittadini e, secondo la tradizione islamica, attraverso una lunga storia di vita comune basata sul rispetto dell’altro e sulla diversità religiosa e culturale; che queste azioni terroristiche non sono dirette soltanto contro i cristiani ma contro l'intero Egitto con l'obiettivo di destabilizzare il Paese e di attentare alla sua sicurezza e all'unità nazionale». Conoscendola per averla incontrata più volte agli incontri interreligiosi organizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, le chiedo che cosa si può fare per eliminare o almeno attenuare gli effetti di questa

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pericolosa atmosfera che si respira. «Io credo profondamente che la libertà religiosa, etnica e culturale sia una legge divina. Dio ha creato l’Uomo libero di scegliere e libero di decidere secondo coscienza. Di conseguenza non sta a noi, creature di Dio, imporre ai nostri fratelli umani una sola religione o un solo modo di vivere. Nonostante le nostre differenze, abbiamo tutti molti valori comuni: di giustizia, di bene, di compassione, di libertà. Dobbiamo quindi approfondire la mutua comprensione ed eliminare le fonti di pregiudizio e malinteso. Il rispetto Grande imam Ahmed Al Tayyeb, leader spirituale dell’Islam sunnita in Egitto dell'altro e del suo diritto alla diversità è una condizione indispensabile per quel dialogo costruttivo che possa riavvicinarci. Il grande saggio musulmano El Gazali diceva: "L'uomo più saggio è colui che conosce meglio le differenza tra gli uomini"». Ma che cosa propone lei per cementare e quindi consolidare questo dialogo costruttivo? «Glielo ho detto prima con la domanda al Papa di un'iniziativa. Questa iniziativa, questo messaggio potrà aprire la via a un dialogo serio ed efficace tra le civiltà orientali e occidentali che ci spinga a rafforzare la pace e la sicurezza nel mondo». Pensa che in Egitto le relazioni tra musulmani e cristiani si normalizzeranno in fretta? In altre parole, che la tensione di questi giorni svanirà? «Sì, senza alcun dubbio, perché credo sinceramente che la tragedia di Alessandria sia nata come un attentato diretto contro cristiani e musulmani, e quindi contro l'intero Egitto. Il popolo egiziano non ha mai vissuto, durante 14 secoli di vita comune, un conflitto interno per una ragione religiosa o razziale. Questi attentati hanno risvegliato la coscienza collettiva contro i comuni pericoli. Il popolo egiziano ha riaffermato la sua unità nazionale organizzando manifestazioni comuni e spontanee, sollevando, assieme, la croce e la mezzaluna. E'una dichiarazione di incrollabile volontà di vivere assieme. Un solo popolo in una patria eterna». Pag 3 Ma non vede chi sono le vere vittime del fanatismo di Luigi Ippolito Il Grande imam Ahmed Al Tayyeb è un uomo di fede che merita ascolto e rispetto. Ma nelle sue parole - quelle pronunciate il giorno dopo la strage di Alessandria e quelle ribadite oggi al Corriere - c’è qualcosa che stride. È la sua disposizione intellettuale di fondo, si potrebbe dire, che suscita perplessità: all’indomani della più grave strage di cristiani compiuta in Egitto in epoca recente si è sentito in dovere di rimbeccare il Papa che chiedeva protezione per i fedeli in Oriente; e anche adesso è lui che continua a chiedere al Vaticano un gesto distensivo verso i musulmani. Come se sull’altra sponda del Mediterraneo a essere minacciati fossero i seguaci del Corano. Come se la realtà non fosse quella di una comunità cristiana diventata bersaglio privilegiato dello stragismo degli adepti di Bin Laden, dall’Iraq alle rive del Nilo. Il Grande imam sembra prigioniero di uno schema mentale smentito dai fatti: a lui pare che la comunità arabo-musulmana sia perennemente vittima dei «crociati» e dell’Occidente e debba ricevere in qualche modo riparazione sempre e comunque. Mentre invece Al Tayyeb dovrebbe indirizzare le sue esortazioni a quanti dalla sua parte non garantiscono ai cristiani d’Oriente sicurezza e libertà, o a quanti, ancora numerosi, vedono nei cristiani un corpo estraneo da espungere con la violenza da quelle terre, come sta accadendo in Mesopotamia. Pag 5 «L’alpino Miotto caduto in piena battaglia» di Fabrizio Caccia e Marco Nese Non è stato il colpo isolato di un cecchino a uccidere il nostro militare il 31 dicembre. Così è cambiata la ricostruzione della tragedia. E i dubbi della prima ora vengono confermati Herat (Afghanistan) - Dietro le rocce non c'era un cecchino isolato, ma un commando di almeno una decina di uomini. L'agguato dei ribelli era stato studiato bene. Miravano a un'altra strage. E l'avamposto italiano degli alpini, nella Valle del Gulistan, si è trovato all'improvviso sotto una pioggia di fuoco. Così è morto il caporalmaggiore della Julia, Matteo Miotto, che la mattina del 31 dicembre scorso nella base Snow era di guardia, «di pronto impiego» come si dice nel gergo militare, cioè pronto a intervenire in caso di attacco a sostegno del suo commilitone già impegnato in cima alla torretta di avvistamento. Gli afghani erano armati di fucili di precisione, armi di fabbricazione sovietica, i temibili Dragunov anni 50, che negli due ultimi mesi, dice la nostra intelligence, hanno fatto pericolosamente capolino anche al mercato nero di Farah. Il

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conflitto a fuoco - racconta il generale Marcello Bellacicco, comandante del quartier generale di Herat - è durato «parecchie decine di minuti» , quasi mezz'ora e anche una seconda torretta della base è stata investita dal piombo nemico. Matteo, a quel punto, ha raggiunto sulla prima torre il suo compagno e insieme hanno cominciato con le mitragliatrici a rispondere ai colpi dei ribelli. «Un alpino sparava e l'altro si accovacciava» racconta il generale Bellacicco adesso che tutti i «report» degli ufficiali sono arrivati finalmente al suo quartier generale per consentire la ricostruzione completa dell'agguato. «Matteo così è morto mentre si accovacciava, raggiunto alla spalla sinistra da una pallottola di Dragunov che poi è uscita dalla schiena e gli si è fermata nella mimetica…». «Mi hanno colpito» è stata l'unica frase che il ragazzo ha avuto il tempo di dire, poi è spirato. Gli italiani a quel punto hanno chiamato i rinforzi e sulla zona è arrivato un aereo militare americano che ha sganciato una bomba, facendo quattro morti e disperdendo gli altri componenti del commando. L'attacco così era finito, ma gli alpini della Brigata Julia piangevano il loro quinto morto in meno di tre mesi. Il dato è preoccupante, perché come dice anche il ministro della Difesa, Ignazio La Russa, venuto ad Herat per essere vicino alle truppe nel giorno della Befana, «la flessione invernale degli attacchi che tutti ci aspettavamo non c'è stata» e «il rischio ancora non diminuisce» . Perché l'inverno tanto atteso non è arrivato, questa è la verità, non è arrivata la neve e gli insorti perciò hanno piena capacità operativa sul terreno. Il ministro ha a cuore la sorte dei soldati. Confessa che ha in mente di chiedere la riduzione dei turni negli avamposti più pericolosi, il Gulistan e Bala Murghab: «Quattordici giorni mi sembrano troppi». I ribelli intanto hanno modificato la loro strategia offensiva, ora agli attacchi complessi coi mortai - dice il generale Bellacicco - preferiscono la tecnica velenosa del mordi e-fuggi, agguati sporadici, veloci, con le armi portatili, difficili da prevedere e soprattutto da intercettare. I danni causati dalle terribili Ied, le bombe artigianali, per fortuna invece sono in calo grazie anche alla tecnologia avanzata in dotazione al nostro contingente che permette di individuarle prima dell'esplosione. Resta il dubbio, però, sul perché soltanto dopo sei giorni sia stato possibile arrivare a una ricostruzione così dettagliata dell'attacco del 31 dicembre costato la vita a Matteo, mentre all'inizio si era parlato del colpo isolato di un cecchino. «Nessun giallo, nessun mistero - dicono a Camp Arena, la base di Herat -. Il primo report parlava letteralmente di un tiro diretto di armi portatili. La versione dunque non è cambiata, è stata solo integrata dalle testimonianze successivamente acquisite, del resto non era possibile disporre subito di tutti i dati, la base Snow era sotto attacco e si trova a 450 km da Herat. In seguito abbiamo dovuto fare anche delle perlustrazioni per vedere se nelle grotte vicino alla base c'erano tracce di presenza stabile nemica. Ora l'intera zona è stata bonificata…». Anche il ministro La Russa conferma questa spiegazione: «Il caporalmaggiore Miotto è morto colpito dal tiro di un cecchino solo, questo l'abbiamo detto dall'inizio, che ha sparato col suo fucile di precisione. Quello che non abbiamo ancora chiarito è il ruolo degli altri insorti. E questo ho spiegato anche al padre di Matteo, che da subito mi ha chiesto di conoscere la verità. E l'avrà completamente». Adesso i capi militari sostengono che questa «è la seconda parte della storia» . Prima hanno raccontato che l'alpino Matteo Miotto era stato ucciso da un proiettile sparato da un cecchino mentre si trovava su una torretta della base avanzata «Snow», a 450 chilometri da Herat. Ora ci informano che invece non fu un cecchino isolato a colpire il giovane militare. Miotto è caduto durante una vera e propria battaglia. Ci dicono ancora i capi militari che fra le due versioni «non c'è contraddizione» . Nel senso che Miotto fu davvero abbattuto mentre si trovava sulla torretta di guardia. In pratica, ci avevano nascosto lo scontro a fuoco e l'assedio che gli alpini hanno dovuto fronteggiare, asserragliati nella base in mezzo alla valle del Gulistan. Il primo ad adombrare dubbi sulla vera dinamica dell'episodio è stato Francesco Miotto, il padre dell'alpino ucciso. «Mi hanno chiamato i suoi comandanti dall'Afghanistan - spiegò il giorno dopo la morte del figlio -. Mi hanno detto che era stato colpito a una spalla. Invece adesso si parla di un colpo che l'avrebbe raggiunto al fianco. I dubbi, come si vede, non li ho avanzati io: ci sono delle versioni che non sono concordanti» . Francesco Miotto aggiunse di non voler «alzare polemiche». Anzi, manifestò comprensione verso i capi militari, gli sembrava possibile che «nei momenti concitati di un fatto come questo ci siano delle versioni

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discordanti. Ma noi famigliari vogliamo capire cosa è successo». Cosa è successo esattamente neanche adesso lo sappiamo con certezza. Lo stesso ministro La Russa ha annunciato di aver chiesto un rapporto in cui vengano resi noti tutti i dettagli. Certo, se rileggiamo le notizie che ci erano state fornite fino a ieri, alla luce delle nuove rivelazioni balza evidente uno strano tentativo di occultare la realtà dei fatti. La notizia dell'uccisione di Miotto arriva il 31 dicembre all'ora di pranzo. Si parla di un cecchino solitario che ha centrato l'alpino. Il giorno dopo, il 1° gennaio, viene aggiunto qualche altro particolare. Dicono che Miotto era di guardia quando il cecchino lo ha colpito. E allora si pensa a un cambio di strategia dei talebani, si ipotizza la possibilità che accanto agli insorti agiscano abili tiratori scelti. Ma qualcosa non quadra. In un primo tempo si dice che il proiettile è entrato sotto l'ascella di Miotto. Poi viene offerta una seconda versione: la parte colpita è il fianco. Lo stesso ministro della Difesa viene indotto a raccontare che si è trattato di «una tragica fatalità, il cecchino ha colpito il militare in una delle poche parti del corpo non protette». Chiediamo spiegazioni direttamente a Herat. E di nuovo ci raccontano la storia del cecchino che ha sparato mentre il caporal maggiore Miotto era di guardia su una delle tre torrette della base «Snow». Della battaglia, dello scontro a fuoco nessun accenno. Ci spiegano solo le difficoltà di operare in un'area rischiosa come il Gulistan che confina con la regione dell'Helmand. Difficoltà comprensibili, visto che nel 2005 e nel 2007 i talebani fecero irruzione in forze nel Gulistan e per stanarli furono necessarie battaglie lunghe e sanguinose. Evidentemente sono tornati. E per gli alpini del 7° reggimento che hanno installato due basi avanzate non sarà facile contrastarli. Rimane però inspiegabile il silenzio sull'attacco del 31 dicembre. Un silenzio che potrebbe avallare i sospetti di chi pensa che in Afghanistan stiamo combattendo una guerra e non si deve dire. Sospetti, per la verità, ingiusti perché finora le notizie sugli scontri a fuoco, per esempio quelli attorno a Bala Murghab, sono state sempre rese note. Perché adesso no? Pag 6 Il monito leghista punta a ottenere il sì dell’opposizione di Massimo Franco Incorniciare l’approvazione del federalismo fra il 17 ed il 23 gennaio è qualcosa di più di un auspicio. Si tratta di una minaccia che Umberto Bossi indirizza non tanto ai propri alleati, ma all’opposizione: seppure addolcita con la disponibilità a trattare con chiunque «non alza muri» . Serve a confermare che, se la riforma voluta dalla Lega non dovesse passare, la strada delle urne sarà obbligata. È un modo un po’ brutale per piegare gli avversari a dare il «placet» alla legge-simbolo del leghismo. Ma probabilmente l’avvertimento servirà. La minoranza non vuole offrire alibi elettorali al Carroccio. E sa che senza un sostegno esterno, il centrodestra non ce la farebbe. Semmai, si tratta di capire se l’eventuale appoggio al federalismo basterà. La tesi berlusconiana è che il governo è in grado di andare avanti. Il partito di Bossi è tentato comunque di interrompere la legislatura. E il contorno di uscite contro le celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia e i dubbi sulla ricandidatura di Letizia Moratti a sindaco di Milano contribuiscono a creare un clima elettorale. Il Pd ne deduce che i lumbard sono i veri padroni del governo. Ma se il federalismo passerà col «sì» dell’opposizione, vorrebbe dire che la Lega condiziona l’intero Parlamento. Ora Bossi vede numeri in crescita a favore del governo. Vuole credere alle promesse del transfuga finiano Silvano Moffa che garantisce dieci voti a Berlusconi, fra i lazzi del Fli; e soprattutto non ha interesse a contraddire il premier. Ma entrambi sanno che non sarà facile prolungare di molto la legislatura. La discordia con la quale Pdl e Lega parlano di elezioni anticipate non può far dimenticare questa consapevolezza comune. Il premier scommette sulla stabilità. Il suo ministro ora lo sconfessa, ora lo asseconda. Questo non esclude che alla fine il contrasto assuma il profilo del gioco delle parti. Per adesso, però, colpisce di più la Padania, quotidiano leghista, che scende in campo per difendere il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, dagli attacchi dei berlusconiani. Ma di qui a tre settimane lo scenario dovrebbe chiarirsi: magari con il presidente del Consiglio nella parte di chi avrebbe voluto governare fino al 2013, mentre gli è stato negato; e con Bossi deciso a tornare alle urne per scongiurare un logoramento simile a quello dell’ultimo governo Prodi. Comunque insieme, da alleati convinti di riuscire a replicare il successo del 2008. Non a caso ieri Bossi ha sostenuto che solo dei «matti» potrebbero bocciare il «legittimo impedimento» all’esame della Corte costituzionale: un attestato di lealtà al Cavaliere. D’altronde,

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seppure in modo diverso, entrambi usano da tempo toni preelettorali. La polemica contro «i post-comunisti in cachemire» e la loro asserita volontà di «eliminare Berlusconi utilizzando i magistrati a loro vicini», è un segnale chiaro. Insomma, magari la speranza di farcela resiste. Ma palazzo Chigi sembra non escludere che alla fine la strada del voto si riveli inevitabile. Pag 10 Il 2011? L’elettore pdl vede rosa, il leghista nero di Renato Mannheimer Spaccatura sulle prospettive personali e dell’Italia. Pessimista anche chi vota Pd e Idv Con l’Epifania si è chiuso il lungo intervallo di festività (durante il quale, tuttavia, solo un terzo della popolazione ha potuto permettersi delle vacanze) che ha caratterizzato la fine del 2010. E ciascuno di noi volge inevitabilmente lo sguardo al futuro, alle prospettive, più o meno felici, per l’anno nuovo. Come vedono gli italiani il 2011 per loro stessi e per l’intero Paese? Le previsioni espresse offrono un panorama articolato. Infatti, riguardo al futuro dell’Italia, i nostri concittadini si dividono in tre gruppi di ampiezza assai simile tra loro e di opinioni contrastanti. Vi è chi ipotizza una situazione migliore (32%, tra i quali il 2%ne prevede una addirittura «molto migliore»), chi pensa che non vi saranno cambiamenti rilevanti nello stato del Paese (33%) e, infine, chi ritiene che il quadro complessivo peggiorerà. Questi ultimi costituiscono, seppur di poco, la maggioranza relativa, il 34%: tra costoro, quasi il 10%è dell’opinione che lo scenario complessivo si offuscherà talmente da divenire «molto peggiore». All’interno di questo quadro, si rileva una differenza rilevante riguardo all’età: tra i giovani al di sotto dei 24 anni è maggiormente presente (45%) una visione positiva delle prospettive del Paese. Tra le nuove generazioni appare più diffuso l’ottimismo, più o meno fondato: i giovani sembrano così «raccogliere» l’appello del presidente Napolitano a occuparsi maggiormente delle loro prospettive. La visione sul futuro dell’Italia nel 2011 varia, naturalmente, anche in relazione all’orientamento politico: gli elettori del Pdl manifestano una visione assai più fiduciosa (46%), mentre quelli della Lega Nord, sono significativamente del parere opposto: tra loro primeggia (46%) il pessimismo, forse legato all’idea, assai diffusa nel partito di Bossi, che alla fine le riforme - il federalismo in primo luogo - non si riusciranno a realizzare. Le differenze di visione tra Bossi e Berlusconi, emerse anche in questi giorni, si ripercuotono dunque in maniera significativa anche sulle loro rispettive basi. La prospettiva negativa sul futuro prevale anche tra i votanti per l’opposizione: quelli del Pd (38%) e, in misura ancora maggiore (43%), quelli dell’Idv di Di Pietro. Il quadro delle previsioni sul proprio destino personale è, contrariamente al passato, solo lievemente diverso da quello relativo all’insieme del paese. Negli anni scorsi, gli italiani hanno sempre manifestato un maggiore ottimismo per le prospettive della propria situazione rispetto a quella dell’Italia nel suo complesso. L’idea sottostante a questo atteggiamento era che ciascuno di noi «riesce a cavarsela», anche indipendentemente dalle sorti della comunità. Anche per il 2011 si registra una differenza di questo genere, ma essa è sensibilmente inferiore da quanto rilevato per gli anni precedenti. Si rileva, per ciò che riguarda il destino individuale, una maggiore diffusione delle previsioni di stabilità rispetto a quelle espresse per il paese nel suo insieme, una minore presenza relativa delle visioni pessimistiche, ma nessuna particolare accentuazione per ciò che concerne gli scenari positivi. Anche in questo caso i più giovani appaiono maggiormente ottimisti: in particolare i laureati (42%), grazie probabilmente alla migliore posizione socioeconomica. Invece, il pessimismo sulla propria situazione personale è, come ci si poteva facilmente aspettare, più diffuso al Sud, tra operai e disoccupati. I meno privilegiati e i più colpiti dalla crisi. Il quadro delle previsioni non appare dunque esaltante. Al consueto terzo degli italiani che si dichiara ottimista (costituito da coloro che, almeno in qualche misura, godono di una posizione sociale migliore, sempre più distante da quella degli altri due terzi) si contrappone una quota rilevante di cittadini che intravedono un futuro peggiore o, se tutto va bene, uguale al passato. LA REPUBBLICA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Il Cavaliere tra cachemire e finte tresche, gossip per far dimenticare gli scandali di Filippo Ceccarelli

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In genere certe storie si capiscono dopo. Quando tutto è finito. E la fine, o almeno qualcosa che assomigli a una "finis regni", è da tempo nell'aria, nonostante tre o quattro voti di maggioranza. Spiace qui dover utilizzare un tono oracolare. E non solo perché il vaticinio sull'esaurimento del ciclo berlusconiano è sempre andato a buca. Ma ancor più dispiace ricorrere a questo timbro vagamente apocalittico perché la materia è quella che è. Materia bassa. Pettegolezzo. Gossip. Più precisamente: un'eventuale "tresca", cioè un intrico amoroso e/o carnale. E presidenziale, tanto per cambiare. Ma da lanciare in una direzione esattamente opposta a quella che finora ha visto il Cavaliere alle prese con minorenni marocchine, o napoletane, escort baresi o reggiane. E quindi: a quale figura accoppiare, sia pure ipoteticamente, Berlusconi per ripulirlo da quel genere di frequentazioni? Facile: a una quarantenne di sinistra. La potenza del gossip sta nell'ambigua concisione e nell'intensità allusiva, oltre che evocativa. Ecco quel che si è potuto leggere lunedì 3 gennaio su Dagospia: "Tra i botti di Capodanno, questa chicca da neurodeliri. Dicono che Berlusconi abbia un flirt con una quarantenne di sinistra". Stop. Dopo di che la vita prosegue, con le sue indispensabili vicissitudini. Due giorni dopo, in un contesto di iper intrattenimento politico, dinanzi a un pubblico di oltre due milioni di telespettatori, su una rete Mediaset, il conduttore Alfonso Signorini, formidabile gestore di gossip e come tale riconosciuto stratega mediatico berlusconiano su faccende obiettivamente delicate (Noemi e Marrazzo) riceve - non si può pensare a sorpresa - una telefonata dal capo del governo e proprietario della sua tv, e gli fa dire sostanzialmente due cose. La prima è che i nemici di Berlusconi, pur restando feroci comunisti, sono ormai stati conquistati e oggi appaiono in balia dei beni di consumo e di lusso che i loro padri identificavano come quelli tipici dei padroni. Costose barche (vedi foto di D'Alema), vacanze a Sankt Moritz (vedi ancora D'Alema), morbide scarpe su misura (qui D'Alema era presente in spirito), caviale, champagne, indumenti di cachemire. Il che, sia pure in parte, è dolorosamente e sciaguratamente acclarato. Ora, riguardo alle spietatezze del comunismo, Berlusconi, che fece affari anche con l'Urss, può sempre chiedere delucidazioni al suo amico Putin. Mentre rispetto al cachemire, a torto o a ragione, occorre riconoscere che nessun politico più di Bertinotti funziona come possibile testimonial. Ma anche in periferia, certo in forme meno innocenti, l'imprenditore che presentava al Cavaliere tante belle ragazze, Tarantini, risulta dagli atti aver regalato un cappotto di cachemire grigio al dalemiano amministratore Frisullo. Ma molto più interessante, almeno per chi voglia applicarsi alla fabbrica del gossip e alla coltivazione dell'immaginario nel tempo della post-politica, è la seconda cosa che Berlusconi sul finire della telefonata si è fatto domandare da Signorini. Se ha mai avuto flirt, appunto, con donne di sinistra. Risposta: no, mai, "posso giurarlo". Siamo ovviamente assai distanti dalle antiche e in fondo tenere relazioni proibite tra onorevoli comunisti e deputate missine di cui si sussurrava nel Transatlantico di Montecitorio. Va da sé che al giorno d'oggi le operazioni di gossip ancora non si certificano dal notaio. Ma lo schema che qui si vorrebbe temerariamente ipotizzare è che se la noticina di Dagospia sulla quarantenne di sinistra corrisponde alla semina, e la domanda concordata di Signorini indica la maturazione del messaggio, la risposta negativa del Cavaliere, quel manicheismo sessuale e rinforzato produce sulla fantasia di quei due milioni di consumatori di spettacoli politici un effetto molto più vario, complesso e sofisticato di quanto si possa in prima battuta immaginare. Da qui a concludere che il Cavaliere si sia cotto, servito e mangiato un gossip per così dire casereccio il passo è breve, ma non verrà compiuto. Eppure, anche se non esiste, o forse proprio perché non esiste, la quarantenne di sinistra, magari con la gonna lunga e le scarpe basse, è lo stesso e comunque una risorsa, forse pure riequilibratrice delle smanie senili, delle abitudini orgiastiche e a quel che si è letto anche a pagamento. Inoltre: "Quando le ideologie e i programmi non funzionano più, giacché non mobilitano più né l'interesse né la passione collettiva - scrive Vincenzo Susca in Gioia tragica (Lupetti, 2010) - gli spin doctor modificano la narrazione e così la scena istituzionale si trasforma nel set di una soap opera". In questo il gossip, nella sua variante "marketing oriented", è decisivo. Ma alla lunga anche rischioso perché la posta in gioco per conquistare l'attenzione si alza ogni giorno di più. Di solito certe storie strane si capiscono quando è troppo tardi, oppure quando non ce n'è più bisogno. LA STAMPA di giovedì 6 gennaio 2011

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Due visioni sul futuro degli Usa di Boris Biancheri Non è la prima volta che un Presidente americano vede, come Obama lo ha visto ieri, una maggioranza parlamentare del tutto diversa da quella che lo aveva accompagnato al potere due anni prima, salire le rampe di Capitol Hill e occupare il Congresso. Questa volta, però, il salto e particolarmente vistoso. Anzitutto per i numeri: i repubblicani hanno alla Camera 49 seggi più dei loro avversari, una maggioranza ampiamente sufficiente per tradurre in realtà un’agenda legislativa. Inoltre, c'è un buon numero di nuovi venuti che appartiene a una generazione ancora in parte sconosciuta di radicalconservatori rabbiosamente ostili a tutti i programmi che Obama ha realizzato o cercato di realizzare nel primo biennio del suo mandato. Più che a una correzione di rotta, ove la loro ottica dovesse prevalere, ci troveremmo di fronte a un’inversione di rotta nel corso politico di questa legislatura. Naturalmente esistono anche delle remore. Anzitutto nel Senato, dove la maggioranza è ancora marginalmente democratica. E poi, beninteso, nel diritto di veto, che il Presidente può sempre opporre in caso di necessità di fronte a una legge che contrasta apertamente con l’indirizzo politico della Casa Bianca. Un atto questo, però, che non può essere usato indiscriminatamente in quanto apre un contrasto esplicito tra governo e Parlamento. Comunque sia, spetta ora ai repubblicani dire cosa vogliono e come intendono impostare la legislatura. Va detto che, se il nuovo Congresso si è inaugurato come sempre a inizio d’anno, già da alcune settimane, dopo le infelici elezioni del 2 novembre, la Casa Bianca aveva incominciato a posizionarsi diversamente in vista dei nuovi equilibri: Obama 2, come alcuni commentatori lo hanno chiamato, è nato infatti due mesi prima di questo Congresso. Per esempio, sulla dibattuta questione della riduzione dei redditi fiscali più elevati ereditata dall’era Bush, che venivano a scadenza con il 2010, Obama è andato di sua iniziativa incontro ai repubblicani accordando una proroga ma barattandola astutamente con l’avallo repubblicano ad alcune voci di spesa per stimolare l’economia che hanno avuto il plauso del proprio partito. Spetta al nuovo speaker della Camera, il repubblicano John Boehner, tradurre in provvedimenti concreti anche le idee che la maggioranza si propone di portare avanti. Nel suo primo discorso tenuto ieri, si è attenuto soprattutto ai temi istituzionali che sono di sua diretta competenza e in particolare sulla necessità di chiarezza e trasparenza nelle procedure e negli atti del Congresso come nelle fasi che li precedono. Il lungo applauso sia dei repubblicani che dei democratici che lo ha accolto sul podio (e che ha destato in noi un triste senso di invidia) lascia bene a sperare. John Boehner è stato in passato un uomo d’affari che ha condotto al successo una media impresa commerciale prima di essere eletto alla Camera dei Rappresentanti nel 1990 e diventare il leader della minoranza repubblicana nel 2008. È un interprete fedele di ciò che è un dogma per tanti americani, vale a dire che compito dello Stato è fare solo ciò e tutto ciò che il privato non può fare e che il modo migliore di contenere il ruolo dello Stato è quello di ridurne il bilancio. Attorno a questo nodo, e al problema che ne costituisce in tempi di crisi come quelli che stiamo ancora vivendo esattamente l’opposto, cioè quello di sostenere e stimolare l’economia con interventi pubblici, si giocherà a Capitol Hill il biennio che abbiamo di fronte. Sarà dunque una battaglia giorno per giorno, legge per legge (e nelle leggi di spesa la Camera è davvero determinante), tra due visioni opposte, quella di Obama di uno Stato che deve essere generoso perché è necessario e quella di Boehner, e di tanti come lui, di uno Stato che va strettamente controllato perché tende ad invadere ciò che non gli appartiene. Se lo scorcio di legislatura passata dopo le elezioni di novembre può darci qualche indicazione in proposito, non sembra da escludere un patteggiamento continuo improntato a realismo: Obama, per parte sua, ha dimostrato finora di essere disponibile a scendere su questo terreno. Le cose diventerebbero evidentemente più difficili se, come l’ala estrema dei repubblicani chiede, la maggioranza si proponesse di abrogare la riforma sanitaria che costituisce forse il maggior risultato del primo biennio di Obama e certo il momento di più alto valore simbolico. Se così fosse, significherebbe che il partito repubblicano si accinge non tanto a portare avanti il lavoro da compiere per gestire il Paese e introdurre quelle correzioni all’impostazione precedente che ritiene necessarie, ma che guarda già alla scadenza del mandato dell’attuale Presidente e si predispone fin d’ora a una lunga campagna elettorale. In materia di relazioni internazionali, il fatto che la maggioranza sia mutata alla Camera non dovrebbe avere necessariamente una diretta influenza se

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non quando ricorrano leggi di spesa; ma senza dubbio essa avrà modo di infastidire l’Amministrazione - e ne ha manifestato l’intenzione -, per esempio con delle commissioni d’inchiesta sull’affare Wikileaks e sulla reazione avuta dal Dipartimento di Stato. Ma, anche in questo caso, è dubbio che ci si accinga a mettere a fondo il dito in una piaga che tocca anche principi e valori di interesse nazionale. Se queste riflessioni della prima ora si rivelassero esatte, potremmo attenderci due anni meno esaltanti (ma sotto certi aspetti anche meno deludenti) dei due anni appena trascorsi; potremmo vedere un Barack Obama meno generoso nel promuovere visioni di denuclearizzazione globale o di cambiamenti climatici perché più impegnato nella sopravvivenza quotidiana. Ma anche consapevole che il compito di ridare spinta propulsiva all’America nella trasformazione della propria società e nella progettazione di nuove strategie mondiali, dovrà attendere, per essere realisticamente affrontato, un suo eventuale futuro secondo mandato. IL GIORNALE di giovedì 6 gennaio 2011 Il Colle non diventi lo sportello reclami delle banalità di Mario Giordano Ci manca solo che intervenga sui turni di conduzione del Tg1, sulla campagna acquisti della Juventus e sulle offerte mese del supermercato Esselunga di Agrate Brianza, e poi fa bingo. Il presidente Napolitano, in effetti, negli ultimi tempi non se ne perde una: l’altro giorno a Napoli, dopo aver annunciato di dover disertare, a causa di una fastidiosa influenza, i funerali dell’alpino morto in Afghanistan, ha ritrovato all’improvviso forze e energie per esternare. E non ha saputo trattenersi dal dire la sua anche sulla Fiat. Azienda privata, dichiarazione pubblica: chissà se nei prossimi giorni vorrà farci sapere che ne pensa del listino prezzi della Barilla e dell’organizzazione interna della Benetton. Nutriamo il massimo rispetto per la carica istituzionale, sia chiaro: ma la carica istituzionale, appunto, che cosa c’entra con le relazioni industriali di Mirafiori? Da quando in qua il capo dello Stato siede al tavolo delle trattative sindacali tra Fim, Fiom, direttore del personale e Ugl? Non che l’uscita («occorre un dialogo più costruttivo») fosse di quelle destinate a passare alla storia, per la verità. Anzi, letta così, di fretta, sembra rientrare a pieno titolo nel repertorio classico di Napolitano, uno che si è spesso distinto in passato per dichiarazioni da Guinness dell’ovvio: meglio un uovo oggi che una gallina domani, una buona pastasciutta è meglio che il pane raffermo, l’Inter è più forte dell’Atletico Forlimpopoli. Non dimentichiamo quello che dicevano di lui i vecchi amici del Pci: «Napolitano, alle riunioni del partito, era il primo a proclamare: bisogna dire le cose come stanno. Ma lui non le diceva mai, però». In realtà, però, l’intervento dell’altroieri sulla Fiat a molti è parso assai più secco e determinato del tradizionale «repertorio Napolitano». Da più parti, infatti, è stato interpretato come un intervento a gamba tesa a favore della Fiom. E per questo fin da subito sui siti Internet sono cominciati a arrivare commenti anche molto duri sul «Napolitano comunista» e «amico della Cgil», commenti che il Corriere.it ha provveduto velocemente a censurare, come ha raccontato ieri il Giornale. Davvero il capo dello Stato voleva dare una mano in modo così esplicito ai compagni metalmeccanici? Difficile dire. Di certo, però, quella frase non suonava benissimo. Se non altro perché il «dialogo» per essere «costruttivo» non può non tener conto delle situazioni complesse in cui ci si trova a operare. E il cambiamento non è facile da comprendere, soprattutto quando si viene da anni di pregiudizi ideologici. Napolitano, lo sa bene, visto che ci ha messo 50 anni per capire che in Ungheria non ci poteva essere dialogo costruttivo con i carri armati sovietici. Possiamo sperare che, nella circostanza, inquadri il problema un po’ più rapidamente? Se poi non lo inquadra, per altro, va bene lo stesso. Anzi, forse meglio. Come dicevamo, non ci sembra che l’organizzazione del lavoro a Pomigliano, i turni di lavoro a Mirafiori e le rappresentanze sindacali dei metalmeccanici siano argomenti su cui è necessario l’intervento del presidente della Repubblica, che fino a prova contraria deve garantire le istituzioni, mica un titolo ai giornali. Anche perché, a dirla tutta, ci preoccupa un po’ questo Napolitano trasformato in «sportello reclami», come l’ha definito l’ Unità, facendolo beatificare da Massimo Cacciari («Napolitano santo subito») e dal lirico Dario Fo («è il confronto di un Paese sbrecciato che sotto il cielo scuro può solo credere ai miracoli»). In effetti, ormai sembra che chiunque abbia un problema in Italia, dal rubinetto che perde al figlio che si sbronza, non può far altro che suonare al campanello del Quirinale. Sportello reclami,

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appunto: secondo l’Unità questo è un modo per rafforzare l’istituzione. Sarà. E pensare che a noi, invece, sembra un modo per svilirla. Fateci caso. Solo per restare agli ultimi tempi, e solo per restare alle cose più note, il presidente Napolitano ha accolto i seguenti lamenti: quello del cantante ribelle Morgan che ha litigato con la moglie Asia Argento per l’affidamento del bebè; quello degli studenti universitari che chiedono al presidente della Repubblica la correzione di una legge mentre la legge è in discussione in Parlamento (mah!); quello dei precari della cultura; quello degli operai della Thyssen; quello di svariate persone con problemi giudiziari e quello di alcuni sindaci, tra cui Salvatore Alaia, primo cittadino di Sperone, provincia di Avellino, che ha messo le tende sul Colle per protestare contro la chiusura dell’ospedale di Bisaccia. Voi capite che dar retta a tutti è un impegno mica da ridere. E spero che questo articolo non lo legga mio figlio, se no la prossima volta che gli dico «stasera non esci», finisce che va pure lui a bussare al Quirinale… Risultato? Davanti al Colle, solo posti in piedi. E così, povero Napolitano, si capisce anche perché poi intervenga su tutto: cerca soltanto di anticipare i tempi. Appena ha visto che montava il caso Fiat, non ci ha pensato due volte: «Perché aspettare che la delegazione Fiom venga a bussare al Quirinale?», si è chiesto. E cercando di evitare la solita sceneggiata (bivacco delle tute blu davanti ai corazzieri, incontro riservato, fotografi schierati, dichiarazioni compiaciute, ecc. ) si è portato avanti con il lavoro. E ha fatto sapere a tutti il suo pensiero sull’argomento. In effetti ci mancava. O forse no. Ma che ci volete fare? Questo è il rischio se si trasforma il Quirinale in uno sportello reclami. Avanti di questo passo e nella Costituzione, come rappresentante dell’unità nazionale, non ci sarà più il capo dello Stato. Basterà Mi manda Lubrano. Con il consenso della Fiom, però. AVVENIRE di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 5 «È vita vera quella di mio figlio intubato» (lettera di Luca Russo) Caro direttore, so che sono fuori tempo ma ho indugiato prima di inviarle questa lettera. Volevo rivolgermi tramite Avvenire a chi giudica 'indegne' le vite come quella di mio figlio. Per questo ho pensato di scrivere questa lettera aperta a Roberto Saviano. Per dirgli: giù le mani da mio figlio! Mentre in tv, caro Saviano, scioglievi parole morbide e vellutate in un fluido racconto mesto e pacatamente avvincente, ricco di gravi imprecisioni, io tenevo – e ancora tengo – la manina debolissima di mio figlio di sette anni, intubato da 23 giorni, sedato con 5 ml/h di non so quale medicina, ventilato 24/24h mentre un infermiere gli aspirava le secrezioni bronchiali ogni 2 ore, alimentato in via enterale, con le mani legate al letto per evitare che potesse tirarsi via aghi, fili e il tubicino della ventilazione, ogni mezz’ora un macchinario gli misurava la pressione, la febbre sempre sotto controllo. Lo stesso giorno, poche ore prima che tu t’improvvisassi profeta dell’ideologia moralistica, con piena coscienza di poter usare un microfono per tirare la linea tra il bene e il male senza concedere a nessuno il contraddittorio dovuto a un buon arbitro di linea, il mio primario mi disse che non c’era altra via che la tracheotomia: mio figlio non respirava più da solo. Pensi che non pianga lacrime stanche per quel piccolo che da sette anni è legato piedi, bacino e spalle a una carrozzina a scorrazzare tra ricoveri e farmacie, a fare lunghe file davanti agli ambulatori e a passare prima di tutti nelle corse in ambulanza a sirene spiegate, a curare il dolore con il cortisone e le canzoncine dello Zecchino? Pensi che non mi feriscano le tue parole irripetibili, di chi difende cause di giustizia senza aver avvicinato il dolore, senza averlo preso in braccio, senza averlo messo nel suo cuore, mentre io sto le ore nelle corsie degli ospedali a bagnare le guance del mio bambino con il pianto della mia impotenza? Mi fai sentire banale in questo continuo credere che ciò che sto guardando è vita, vita a tutti gli effetti e con tutti i diritti. Mi fai sentire sprecato in questo continuo correre come un matto a spezzettare il mio tempo tra mille figli di cui uno attaccato al fiato artificiale di una macchina? Mi fai sentire fallito in questo quotidiano sacrificio del mio corpo, della mia stanchezza, della mia mente, ma anche dei miei figli, della vita con la mia sposa, delle passeggiate, della Messa quotidiana, dei miei familiari, sull’altare della condivisione che mi ha fatto padre di un bimbo disabile che altri non hanno potuto crescere in famiglia? Tu usi il linguaggio dell’ideologia, io pretendo il linguaggio del cuore. Quella che tu chiami assistenza per me è prendersi cura. Quella che tu chiami sorveglianza per me è contemplazione. Tu parleresti di emergenza, io la chiamo paura. Tu diresti

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previsione, io la chiamerei speranza. Quella che tu chiami giustizia io la chiamo vita. Per te ogni malato è il titolare di un diritto, per me sono tutti testimoni di una vita vera, non importa se debole o forte; la qualità non toglie la natura! Seppure debole, la vita è vita e il malato una persona. Non oso mettere la linea che segna la differenza tra ciò che merita di essere vissuto e ciò che non lo merita. Mio figlio non ha mai parlato né sorriso e se nessuno avesse mai provato a cantare una canzoncina lui sarebbe sembrato spesso assente, addormentato, e tutti avremmo nutrito dubbi sul suo stato di coscienza. Eppure mia moglie gli ha cantato Il pulcino ballerino e lui si è svegliato, e le canzoncine le vuole ascoltare anche con la respirazione assistita, anche con quella tracheotomia che ti ha fatto inorridire come la condanna più oscena della qualità della vita umana, mentre io benedicevo il mio primario che tirava fuori dal suo cilindro una nuova speranza di riportare il mio piccolo nella stanza da letto a dormire affianco al lettone. E allora me ne convinco sempre di più: giù le mani da mio figlio, Saviano! Quando vorrai riprendere il microfono in mano, prima di parlare di eutanasia visita le nostre mura. Sta sicuro: non ritornerai con un reportage per una nuova narrazione che invoca giustizia straziando il cuore sensibile degli italiani. Quando ti avvicinerai a casa mia togliti i sandali, perché la tua non sarà una spedizione ma un vero pellegrinaggio da cui ritornerai convertito: avrai visto la vita in faccia! Una famiglia di grandi e bambini che nessuno avrebbe portato a casa sua e che i giusti come te avrebbero lasciato morire ai margini di questa vita solo perché affranti da un handicap grave, o mantenuti in vita da una macchinetta che pompa respiri cadenzati. Nella mia famiglia siamo tutti felici, anche quelli 'attaccati alla spina'. Molti erano stati lasciati per strada, io e la mia sposa gli abbiamo dato il nostro matrimonio, la nostra casa, tutta la nostra vita. E questo mio figlio in lista d’attesa per la speranza di un respiro in più non è nato dalle nostre viscere ma dal nostro amore, perché nessun bambino merita di stare da solo in ospedale senza mamma e papà. Forse non è questa la giustizia per cui battersi? A proposito, qui in ospedale c’è un bimbo abbandonato dai genitori: vieni a prenderlo! Forse non sarai più così 'giusto', ma certamente lui sarà felice. E tu pure. Pag 8 Nozze-unioni omosex. La Consulta ribadisce: non sono equiparabili di Pierluigi Fornari e Viviano Daloiso Mirabelli: «Ciò che non è legge si esige per sentenza» Nuovo stop della Corte costituzionale alla campagna pressante del movimento gay di ottenere il riconoscimento del matrimonio omosessuale per via giudiziaria. La Consulta con una decisione presa il 16 dicembre e depositata ieri con una ordinanza (la 4 del 2011), ribadisce infatti in modo molto netto quanto già stabilito in una sentenza di aprile e in una ordinanza di luglio del 2010: dichiara, cioè, che non possono essere considerate incostituzionali le norme del codice civile che non consentono il matrimonio tra le persone dello stesso sesso. Una ennesima prova, dunque, che la insistenza programmatica dell’attivismo omosessuale non può modificare il senso delle leggi, quando si rispetta il significato autentico delle norme. Da notare infatti che la decisione del tribunale di Ferrara di interpellare la Consulta, nel dicembre del 2009, in merito alle richiesta di sposarsi di una coppia di lesbiche, fu commentata trionfalisticamente da un sito degli omosessuali organizzati: «La campagna di affermazione civile continua». Più sotto l’appello a tutte le lesbiche e gay a presentare richiesta di pubblicazioni matrimoniali, per poi poter impugnare il rifiuto. Ma con la ordinanza di ieri la Corte ha ritenuto, sotto il profilo dell’articolo 2 della Costituzione che riconosce i diritti inviolabili dell’uomo nella sfera individuale e sociale, «inammissibile» la questione di legittimità degli articoli del codice civile che sanciscono che il matrimonio è solo tra un uomo ed una donna. La richiesta promossa dalla coppia di lesbiche è irricevibile, perché, spiega l’ordinanza, «diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata». «Infondata» poi è stato considerato il dubbio di costituzionalità a riguardo dell’articolo 3 della nostra carta fondamentale, sulla uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, richiamato nell’impugnazione delle norme del codice civile, insieme al 29 che riconosce la famiglia come società naturale. In altri termini per il 'giudice delle leggi' è indiscutibile che per la Costituzione l’unico matrimonio possibile è quello tra un uomo ed una donna. Nella sentenza di marzo richiamata nella ordinanza di ieri infatti si affermò che i principi costituzionali vanno interpretati tenendo conto della evoluzione

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della società, ma non fino al punto da «incidere nel nucleo della norma, modificandola in modo tale da includere in essa fenomeni e problematiche non considerati quando fu emanata». L’ordinanza di ieri spiega, poi, che «l’articolo 29 della Costituzione si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica», anche «perché le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio». In conclusione siccome la unione tra due omosessuali non è affatto equiparabile alle nozze tra un uomo ed una donna, non vi può essere nessuna discriminazione nel fatto che il nostro ordinamento non prevede il matrimonio gay. Assai significativo, poi, il fatto che nella ordinanza pubblicata ieri, a differenza della sentenza precedente, non viene richiama affatto la Carta dei diritti fondamentali della Unione europea. Infatti è erroneo ritenere che quel documento estenda le competenze comunitarie, restando la normativa relativa al matrimonio di unica competenza delle legislazioni nazionali. Soffia «un vento forte», in Italia e in Europa. È quello delle forzature ideologiche e culturali “soggettive”, secondo cui ciò che si vuole ottenere per se stessi e per i propri interessi personali, qualora non esista o non venga riconosciuto a livello normativo, viene tentato sul piano giurisprudenziale. In una parola – quella del presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli – «si cerca di ottenere per sentenza ciò che per legge non esiste». E la deriva può diventare pericolosa. Professore, rieccoci a un chiaro “no” della Corte Costituzionale all’equiparazione tra unioni gay e matrimonio. Esatto, è proprio il caso di parlare di una ripetizione. La Consulta, infatti, si era già espressa su questa materia lo scorso aprile, sostanzialmente dicendo le stesse cose. Nel caso della questione di legittimità sollevata stavolta dal Tribunale di Ferrara, l’Alta Corte non fa che ribadire gli stessi princìpi di allora, sintetizzandoli e se possibile rendendoli ancora più incisivi. Di che princìpi si tratta? Primo: le unioni omosessuali non sono omogenee al matrimonio. Dove il concetto chiave, quello da comprendere bene, è proprio quello di omogeneità. Può spiegarlo? La nostra Costituzione indica chiaramente come l’istituto del matrimonio abbia un’identità specifica, un nucleo fondante che lo contraddistingue in quanto tale: quello di essere uno solo, e tra uomo e donna. In questo senso le altre unioni non sono diseguali, né trattate con disuguaglianza (cioè discriminate): semplicemente, in base al dettato costituzionale, non sono comparabili con il matrimonio. Sono altro. Ecco perché la Consulta è tornata anche a ribadire l’impossibilità che il dettato costituzionale sia superato «per via ermeneutica»: significa che le interpretazioni della Costituzione non possono stravolgerla. Come per esempio quella relativa al fatto che i tempi sono cambiati, e che all’epoca della stesura della Carta non esistevano i costumi di oggi... Si tratta proprio di una delle questioni sollevate dal Tribunale di Ferrara, e che ha trovato il “muro” della Corte costituzionale: le cose cambiano, i costumi si evolvono, ma il nucleo fondante del matrimonio così come lo intende la nostra Carta non muta. Quale altro principio ha ribadito la Consulta? Quello che riguarda l’articolo 2 della Costituzione, cioè le formazioni sociali, entro cui secondo il Tribunale di Ferrara si dovrebbero iscrivere a pieno titolo anche le unioni omosessuali. La Corte costituzionale si è espressa anche in questo caso sottolineando l’inammissibilità del ricorso: significa che i giudici non hanno la competenza per intervenire su questo punto. Esso prevede l’inserimento di una nuova norma nell’ordinamento giuridico, che solo il legislatore può inserire, non certo l’Alta Corte. Che idea si è fatto di questo nuovo ricorso e appello alla Consulta? È chiaro che nel nostro Paese, e nel resto d’Europa, soffia un vento forte: è quello della pretesa ideologica – e spesso generata da impulsi soggettivi – di imporre per sentenza ciò che non esiste per legge. E si tratta di una deriva molto pericolosa: se dovessimo assecondare la pretesa dell’equiparazione di tutte le unioni al matrimonio, allora per lo stesso principio – e perché viviamo in una società multiculturale – dovremmo considerare come tale anche la poligamia...

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È stato appena il 14 aprile scorso che la Corte costituzionale si è espressa sull’impossibilità di equiparare le unioni omosessuali al matrimonio, bocciando le richieste avanzate da due tribunali. Allora le questioni di incostituzionalità erano state sollevate dai giudici di Venezia e dalla Corte di Appello di Trento, chiamati a dirimere le vicende di tre coppie gay alle quali l’ufficiale giudiziario aveva impedito di procedere alle pubblicazioni di nozze. Nei ricorsi alla Consulta si ipotizzava il contrasto tra gli articoli del Codice civile sul matrimonio con gli articoli 2, 3, 29 e 117 della Carta, arrivando a lamentare una ingiustificata compromissione di un diritto fondamentale, quello di contrarre matrimonio. Si cercava, tra l’altro, di far leva sulla tesi della disparità di trattamento degli omosessuali nei confronti di chi cambia sesso, visto che a questi ultimi, a mutamento avvenuto, è consentito il matrimonio con una persona del loro sesso originario. L’Alta Corte bocciò tutte le richieste, ritenendole o infondate costituzionalmente o inammissibili, cioè fuori dalla competenza giuridica della stessa Consulta. Pag 25 Geografia dei martiri di Daniele Zappalà Non solo Egitto e mondo arabo: dalla Cina alla Cecenia cresce la persecuzione dei cristiani nel mondo. Un libro-inchiesta in Francia «I cristiani martirizzati in Oriente, nel mondo musulmano e nel mondo induista, sono degli sconosciuti per la maggioranza dei francesi e per l’insieme degli europei». Parte da quest’amara riflessione, una lunga inchiesta che ha cercato di rompere Oltralpe il silenzio ancora diffuso sulle persecuzioni anticristiane. Raphael Delpard, giornalista e militante di lungo corso dei diritti umani, ammette fin dall’introduzione di essere ateo. Ma è stato spinto a scrivere dal bisogno di raccontare l’unica forma di barbarie contemporanea che molti media europei troppo spesso «rifiutano di raccontare». Pubblicata con il titolo La persecuzione dei cristiani oggi nel mondo (edito da Michel Lafon), l’inchiesta è il frutto di numerosi viaggi e di decine d’incontri spesso clandestini in una ventina di Paesi. Dall’Algeria fino alla Corea del Nord, passando per la Bielorussia, l’Iraq o l’Iran. Delpard sottolinea che in molti Paesi le persecuzioni hanno conosciuto di recente un’accelerazione inquietante. È il caso dell’Egitto, dove «gli attacchi assassini contro le chiese copte s’intensificano di anno in anno ». Il volume di Delpard è uscito prima della strage di San Silvestro ad Alessandria e ricorda, fra gli episodi più gravi che continuano a tormentare la memoria della comunità copta, gli assalti avvenuti ad Alessandria nel 2006, una settimana prima della Pasqua ortodossa: «Armati di bastoni e di pietre, delle orde di fanatici musulmani, sotto lo sguardo impassibile dei poliziotti intervenuti solo di fronte ai marciapiedi già cosparsi di morti, hanno attaccato dei cristiani durante i funerali di un copto pu-gnalato il giorno prima». Negli ultimi anni, anche l’atteggiamento del potere centrale è parso sempre meno neutro. Delpard ricorda ad esempio che «il Cairo ha sospeso a tempo indeterminato l’istruzione di un caso di minorenni cristiane rapite, violentate, costrette a convertirsi all’islam e sposate a musulmani praticanti ». Storie come quelle di Ingy Nagy Edwar e Theresa Ghattass, diciannovenni cristiane rapite e convertite in modo forzato, lasciano scie di dolore difficili da cancellare. È anche l’eco terribile di tanti episodi come questi, racconta Delpard, a spingere negli ultimi anni molti egiziani copti verso l’esilio. Ma in generale sono ancora tanti i Paesi in cui «occorre divenire temerari per dichiararsi cristiani». In Turchia, ad esempio, «conviene farsi dimenticare», confidano molti cristiani. In regimi comunisti come quello nordcoreano, poi, «i cristiani sono considerati come i peggiori nemici dello Stato». Un atteggiamento ostile che ha dato vita a un’autentica ossessione anticristiana: «In Corea del Nord, circolano per le strade dei poliziotti in borghese. Se si accorgono di un individuo che chiude gli occhi, sembra parlare a se stesso o meditare, si tratta per loro necessariamente di un cristiano che prega. Procedono allora all’arresto immediato senza fornire la minima spiegazione». Nel Paese, vivono almeno 200 mila cristiani e c’è chi parla di mezzo milione. Ma la stessa Europa non sfugge a forme di discriminazione più o meno gravi. La vita dei musulmani francesi che si convertono al cristianesimo, qualche migliaio ogni anno, «è un calvario». Mantenendo l’anonimato, un ventiseienne nato in Francia confessa che «i suoi genitori, a partire dalla sua conversione, gli voltano le spalle, i suoi amici non gli rivolgono più la parola, e peggio ancora, gli uni e gli altri lo

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accusano d’apostasia ». Delpard ricorda che esistono solo stime più o meno attendibili sul numero di cristiani ancora in prigione per la loro testimonianza di fede in Paesi come Siria, Giordania, Yemen, Sudan, Etiopia e Cina. Risale solo a 3 anni fa un evento rimasto come una ferita indelebile nella memoria della minoranza cristiana in Eritrea: «Il 12 settembre 2007, dieci donne sono arrestate in piena preghiera e condotte in un campo militare dove dovranno subire quotidianamente sedute di tortura, con l’obiettivo di far loro rinnegare la fede cristiana». Dopo aver analizzato nel dettaglio una lunga serie di fatti e destini individuali, Delpard non rinuncia a mettere in guardia sui crescenti rischi futuri dell’attuale indifferenza, ancora diffusa in Occidente, verso il «mondo malato d’anticristianesimo». Per l’autore, occorre infrangere rapidamente il muro di gomma, dato che «restare in silenzio significa accettare il crimine come una sorta di fatalità». Del resto, non esistono scusanti: «I cristiani perseguitati sono lontani dal nostro sguardo, pensiamo talora per giustificare la nostra inazione. Che errore. Vivono a due ore appena dal nostro comfort!». Al termine della sua inchiesta, Delpard abbozza l’attuale 'geografia delle persecuzioni'. Esse riguardano in modo diffuso una cinquantina di Paesi. L’autore cita i casi nazionali «per ordine d’importanza nei cattivi trattamenti»: le 10 situazioni giudicate più gravi in Asia riguardano Corea del Nord, Arabia Saudita, Iran, Maldive, Bhutan, Yemen, Afghanistan, Laos, Uzbekistan e Cina. Questa 'fotografia' risale nondimeno all’anno scorso ed è chiaro che, se venisse scattata oggi, terrebbe conto delle più recenti esplosioni di violenza anticristiana, con un’attenzione forse maggiore ad esempio verso il caso indiano. In Africa, i 10 peggiori persecutori sono considerati Eritrea, Somalia, Isole Comore, Egitto, Zanzibar, Libia, Mauritania, Sudan settentrionale, Algeria, Nord della Nigeria. Fra i Paesi limitrofi dell’Unione europea, figurano anche Cecenia,Turchia, Marocco,Tunisia, Bielorussia. Nel mondo latinoamericano, accanto al caso cubano, viene citata pure la situazione nelle zone di conflitto colombiane. Pag 26 Baldassarre il 'mago' d’Africa di Franco Cardini Dalle poche notizie sui magi, fornite dal Vangelo di Matteo, è nata la più bella storia di tutti i tempi. La singolare figura del re 'moro', il più giovane e popolare dei tre, quello che porta i regali ai bambini Una vecchia tradizione, ancora viva in molti paesi tra Mitteleuropa e Balcani ma non ignota nemmeno nel Settentrione italiano, vuole che le tre lettere CMB, dipinte o scolpite sulle porte o sulle pareti domestiche, proteggano gli abitanti della casa e portino loro fortuna. Si tratta delle iniziali dei nomi dei "tre re magi": Caspare (o Gaspare), Melchiorre, Baldassarre. Oggi tutti sanno che i misteriosi saggi venuti dall’Oriente secondo il vangelo di Matteo erano tre, ch’erano re, che i loro doni al Bambino erano oro, incenso e mirra, che erano di età diversa. Queste cose le sanno anche i bambini: anzi, cerchiamo di fare in modo che non le scordino. Il fatto è tuttavia che l’evangelista Matteo, tutte queste notizie, mica ce le dà. Egli si limita ad affermare, nel suo testo greco (quello aramaico non ci è pervenuto), che di trattava di màgoi (sacerdoti persiani? O semplicemente indovini, ciarlatani?) venuti ef’anatolè (da oriente) e che portarono i tre tipi di doni che sappiamo. Ma non che fossero re, né quanti fossero, né come si chiamassero, né che età avessero. Tutte queste notizie ci pervengono dai vangeli apocrifi, di dubbia tradizione, taluni anche relativamente recenti. Ma il tempo e la tradizione hanno consolidato e complicato i dati in nostro possesso, giungendo alla situazione che ormai conosciamo e che viene espressa in migliaia di rappresentazioni pittoriche e scultoree nonché nei nostri presepi. È anche piuttosto difficile attribuire ai magi i loro rispettivi nomi. Secondo il celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo in Ravenna, Baldassarre era il magio di mezza età, Melchiorre il giovane, Caspare il vecchio. Un dipinto catalano dell’XI secolo chiama invece Caspare quello di mezz’età, Baldassarre il giovane, Melchiorre il vecchio. Nella lunetta del battistero di Parma, Melchiorre è il giovane, Baldassarre quello di mezza età, Caspare il Vecchio (come a Ravenna). Insomma, si tratta di tradizioni incerte. Ma nel paese dove oggi, in senso assoluto, i "tre re" sono più celebri e cari alle consuetudini dell’Epifania, la Spagna – nelle grandi città nelle quali si organizzano ancora splendide feste e cavalcate tra il 5 e il 6 gennaio –, il più popolare è il giovane Baldassarre, ch’è quello che porta i doni ai

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bambini. E ha un’altra particolarità: è nero. Lo si definisce, difatti, moro (un aggettivo d’origine etnica, indicante in origine gli abitanti della Mauritania, e passato in castigliano a indicare, in genere, prima gli arabo-saraceni, los moros, appunto, quindi il colore bruno della loro pelle): e dalla fine del Medioevo lo si raffigura dotato dei caratteri etnici degli africani, cioè non solo con la pelle nera, ma anche con i capelli crespi, il naso camuso, le labbra turgide. Quel che insomma da noi, prima dell’avvento del politically correct, si sarebbe detto "un negro". Da dove proviene quest’usanza? In realtà, essa è venerabilissima, però complessa. Già un testo esegetico altomedievale sostiene che uno dei magi era fuscus, di pelle scura quindi; quando a partire da circa il XII-XIII secolo si volle vedere nei tre magi i sovrani dei tre continenti e delle tre razze umane, al più giovane si affidò il ruolo di re dell’Africa e si attribuì alla sua epidermide il colore nero. Ma non fu così facile. Fino dalle Passiones dei martiri del II-III secolo, i "neri" (egizi, nubiani, etiopi) erano per il loro aspetto e il loro colore associati al diavolo. Neri erano raffigurati sovente gli infedeli al tempo delle crociate, come si vede in un mosaico di Vercelli e in molte miniature che narrano degli scontri epici tra guerrieri cristiani e saraceni. Anche lì, l’equivalenza nero-infedele-mostruoso-demoniaco era evidente. La Chanson de Roland proclama che i nemici della fede sono «neri e cornuti come diavoli». Solo nel Basso Medioevo ebbe speciale impulso il culto di un gruppo di martiri-soldati dell’età di Diocleziano, la Legione Tebana, che provenivano dalla città di Tebe nell’Egitto meridionale, oggi Nubia. Si trattava quindi di nubiani, dalla pelle nera. Il nome del loro capo, ignoto, fu quindi Mauritius, cioè "il Mauritano", "il Nero". Inoltre, cominciavano allora a circolare notizie riguardanti il misterioso imperatore degli etiopi, il Negus, con il quale s’identificava la favolosa figura del "Prete Gianni", di cui parla anche Marco Polo, ma che fino ad allora era stato situato in Asia centrale. Queste nuove tradizioni, che portavano gli uomini dalla pelle nera all’attenzione della cristianità europea, determinarono l’inserimento di uno di loro nel corteo dei re magi: come re d’Africa e della "razza camita", e in genere il più giovane dei tre. Il giovane "mago nero" è figura costante nelle scene d’adorazione medievali e rinascimentali più celebri. Tra esse, due del Mantegna e una nel "Trittico dell’Adorazione" di Hieronymus Bosch oggi conservato al Prado. Con lo sviluppo del colonialismo e l’avvio della "tratta degli schiavi", anche i "santi-negri" si moltiplicarono, assumendo una funzione di patronato degli sventurati venduti come merce umana. Ma già il mosaico della chiesa dei Trinitari di Roma mostrava il Cristo in trono tra due schiavi, uno cristiano dalla pelle bianca e uno musulmano di color nero. Del resto, le avventure del mago Baldassarre non finiscono qui. La nobilissima famiglia provenzale dei Del Balzo, trapiantata in Italia meridionale, lo assunse a suo capostipite e pose la stella dei magi sulla sua arme araldica. Tra Quattro e Cinquecento, ai magi si conferirono anche – com’era giusto, trattandosi di re – stemmi e bandiere. Nel Cinque-Settecento, i magi si videro abbigliati da ambasciatore turchi persiani, come ancora si riscontra negli splendidi presepi napoletani. Insomma, una tradizione inesauribile a illustrare un "semplice" testo evangelico che nell’arco dei secoli si è trasformato nella più bella leggenda di tutti i tempi. Pag 31 Bestemmia tv e incivili indulgenze (lettere al direttore) Caro direttore, vorrei scriverle a proposito del degrado che si sta avendo in televisione. Mi riferisco in particolare a quanto sta succedendo, su Canale 5, nella casa del Grande Fratello dove, non solo chi ha bestemmiato è stato lasciato all’interno della casa stessa, ma chi ha bestemmiato nella scorsa edizione è stato fatto entrare nella puntata di lunedì! Che cos’è? «Più bestemmi più vieni premiato»? Se poi penso che in Rai una persona (Beppe Bigazzi) è stato 'esiliato'per aver detto che in tempo di guerra si mangiavano i gatti... Ma è assurdo! Mi scusi lo sfogo, ma spero che lei possa fare qualcosa. Le invio i miei più cordiali saluti. (lettera di Sara Mandelli) Risponde Marco Tarquinio: Personalmente, cara Sara, qualcosa l’ho fatta già da tempo: ho cancellato la brutta china del Grande Fratello dai miei possibili percorsi televisivi. Rifiutare certi prodotti tv è l’arma più forte di cui disponiamo, ma so anch’io che non è sempre sufficiente. E anche stavolta, purtroppo, ne abbiamo una prova assai chiara. Ci sono ideatori di spettacoli che pur di “fare ascolti” e tenere accesi i riflettori programmano – ma mi verrebbe da dire premeditano – incidenti– esca. Il caso del

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bestemmiatore è emblematico. Dico solo questo: mentre nel mondo ci sono decine di milioni persone che soffrono e vengono uccise per la propria fede, mentre ci sono cristiani condannati a morte per “blasfemia” solo perché non rinunciano alla nostra fede in Gesù Cristo «vero Dio e vero uomo», in Italia – culla del cristianesimo e cuore della cattolicità – non si fa solo spettacolo dell’offesa a Dio e alla buona educazione che accomuna credenti e non credenti, ma si mette in scena anche il rito dell’indulgenza verso un’autentica blasfemia espressa nella sua forma più volgare e urtante. Trovo assai grave, e mi sembra incredibile e incivile, che la dirigenza di Mediaset continui a subire e, dunque, avalli tutto questo. IL GAZZETTINO di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Il dovere di raccontare la verità di Ulderico Bernardi No, non se lo meritava Matteo. Non se lo meritano il nonno che, con la sua storia, gli ha trasmesso valori essenziali, né il papà e la mamma che lo hanno educato, la fidanzata, i nipotini, insomma la comunità familiare tutta di Matteo Miotto, così stabile e degna. Hanno dato al Paese un giovane figlio, generoso, idealista, di fede. E mentre sono ancora fresche le immagini e gli articoli dedicati all’imponente cerimonia che si è svolta a Thiene, esplode questa inaudita notizia riguardo alla situazione in cui il nostro alpino ha perso la vita. Dunque, quei dubbi espressi dal papà fin dall’inizio avevano un fondamento. La domanda che insorge immediata è: perché ci sono voluti cinque giorni per rivelare la realtà cruda di una morte in battaglia? Perché la costruzione artificiosa e pasticciata di uno scenario diverso (era nella garitta, è stato colpito alla spalla, al fianco, al collo non protetto dal giubbotto antiproiettile)? Non era onorevole dichiarare fin da subito la partecipazione a uno scontro a fuoco con gli insorti? Perché spargere diffidenze, equivoci, incertezze? C’entra in qualche modo una violazione delle regole d’ingaggio? Ci sono altre notizie taciute? Perché? Perché appannare l’immagine della giovane vita sacrificata, di un prezioso ragazzo cosciente delle sue scelte, orgoglioso della missione di cui era portatore, del suo essere italiano e veneto, con artifici e traballanti comunicazioni? Anche quella patetica storia del tricolore con lo stemma sabaudo, ritoccata e purificata (“in nome della Repubblica”?), non era sufficiente chiarire che era quella del nonno, e che era con lui che il primo Caporal maggiore alpino voleva stabilire un’ideale continuità, come con le sofferenze di tutti i Caduti in guerra della sua Thiene? Per ogni comunità – familiare, locale, nazionale – il bisogno di verità è sacro. È un bisogno dell’anima, sosteneva Simone Weil. Ma per “soddisfare l’esigenza di verità di un popolo”, continuava, “bisogna trovare uomini che amino la verità”. Il nostro Esercito non ne esce bene. Eppure ha il sostegno degli italiani. Nei paesi e nelle città, in Parlamento. La grandissima parte dei cittadini si rende conto che il duro servizio che le armi italiane stanno svolgendo tanto lontano dalla Patria – non solo in Afganistan – è un dovere dedicato a realizzare un mondo liberato dal terrore e impegnato in una faticosa costruzione della pace, nella giustizia e nella democrazia per tutte le donne e gli uomini del pianeta. Torna, inquietante, l’interrogativo iniziale. Ma la famiglia Miotto, gli Alpini, Thiene, gli italiani, i vivi e i morti in guerra, si meritavano queste menzogne? Qualcuno, si spera, ci risponderà. Pag 1 Il padre dell’alpino: “Spero sia l’ultima versione” di Giuseppe Pietrobelli Una morte al fronte con troppe “verità” Parla papà Francesco: «Questa versione, se è vera, cambia completamente lo scenario della morte di Matteo. Ma attendo comunicazioni ufficiali». Francesco Miotto è tornato da poco dal camposanto di Thiene, dove martedì è stato sepolto suo figlio, nell’area riservata ai caduti di guerra. La notizia lo raggiunge mentre è in casa. Un fulmine a ciel sereno che sembra dare ragione ai dubbi che aveva espresso quando si cominciava a profilare un’altalena di verità dietro la versione ufficiale giunta dall’Afghanistan. Ha retto per cinque giorni. È poi bastato che il ministro della Difesa andasse ad Herat perché si sapesse che il caporal maggiore Matteo Miotto non è stato ucciso da un cecchino, ma nel corso di un attacco talebano all’avamposto del contingente italiano. Ha saputo la notizia?

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«Certo, ne ho appena parlato anche con il sindaco di Thiene. Ma posso dire che ne so quanto voi. Al momento so le notizie che mi vengono riferite dai giornalisti». Un commento? «Non voglio rilasciare alcun commento finché non avrò comunicazioni ufficiali e saprò che è vera». La fonte è più che autorevole, il ministro della Difesa Ignazio La Russa. «Se la notizia fosse vera, credo che dovrebbe cambiare completamente lo scenario della morte di mio figlio». In questi giorni sono girati molti dubbi. Lei se ne è fatto anche interprete, chiedendo di sapere la verità. «Ma l’ho fatto senza alcun intento polemico». Cosa le avevano detto? «Quando ho ricevuto la chiamata da Herat che mi dava la notizia mi hanno detto che Matteo era stato colpito da un cecchino». Perché ha espresso dei dubbi? «Perché poi mi era stata esposta la versione di un colpo al fianco. Ma anche perché penso che se un soldato è di guardia in una garitta, in quella posizione egli debba avere le parti vitali protette. Altrimenti un cecchino può appostarsi a mezzo chilometro di distanza e aspettare il momento buono per sparare. E uccidere chi sta di guardia». Lei lo ha visto? «Ho insistito, me lo hanno fatto vedere. Alla testa non era stato colpito. Ho visto il suo volto, era intatto. Il viso di Matteo era bello come non mai... Era in divisa da alpino. Non mi sono posto il problema del foro d’entrata. Io volevo solo abbracciare mio figlio. E l’ho fatto come ha fatto la Madonna nella Pietà». Eppure ha incontrato il ministro La Russa, il colonnello degli alpini Fregona. «Ma abbiamo parlato di tutt’altre cose che non della dinamica. Non era il momento, con il ministro, né in chiesa a Roma, né al cimitero a Thiene». Adesso, che idea si è fatto? «Io mi attengo a quello che dice l’Ansa, a quello che ha detto il ministro La Russa. Ma non voglio fare commenti, aspetto di avere ulteriori informazioni. Deve capire il nostro stato d’animo, siamo affranti dal dolore». In serata La Russa ha informato i genitori di quella che egli ha definito «un’integrazione della dinamica». Ma Francesco Miotto replica: «Ero in attesa di sapere prima e resto in attesa ora. Speriamo che sia l'ultima versione». LA NUOVA di giovedì 6 gennaio 2011 Pag 1 Battisti e ignoranza militante di Vittorio Emiliani Molti italiani si stanno domandando come mai un condannato a vari ergastoli per aver partecipato direttamente, da terrorista dei proletari Armati per il Comunismo, ad altrettanti fatti di sangue non sia stato estradato in Italia, anni fa dalla Francia ed ora dal Brasile. E’ passato un trentennio da quei crimini e però di crimini sempre si tratta e non di partecipazione «ideologica». Per essi Cesare Battisti ha scontato in Italia soltanto un breve periodo di carcere preventivo essendo evaso e avendo poi trovato, nel lontano 1981, rifugio in Francia. Qui egli - che proveniva dalla malavita comune (furti, rapine, sequestri) - ha potuto fruire della cosiddetta «dottrina Mitterrand». Cioè della linea politica generale elaborata nell’85 dal presidente socialista francese che, considerando troppo repressiva la legislazione italiana degli «anni di piombo», concedeva asilo ai ricercati «per atti di natura violenta ma di ispirazione politica», purché gli stessi non si fossero macchiati di delitti. Di tale “dottrina” ispirata alla tradizionale accoglienza nei confronti dei rifugiati politici (gli esuli antifascisti), hanno fruito Toni Negri e Oreste Scalzone, ma, assai più impropriamente, terroristi responsabili di fatti di sangue come Battisti o come Marina Petrella non estradata tuttavia dallo stesso Sarkozy per una salute assai precaria (Paolo Persichetti, invece, è stato consegnato nel 2002 all’Italia). A favore di ex terroristi italiani si sono espressi, fin dagli anni ’70-’80, numerosi intellettuali francesi i quali hanno sottovalutato o, peggio, ignorato la carica di violenza omicida del terrorismo nostrano: chi ha seguito i fatti di Bologna del 1977 ricorda bene il filosofo e psicoanalista francese Félix Guattari arrivato, insieme a Maria Antonietta Macciocchi, a dare lezioni di democraticità ai colleghi italiani. In base alla «dottrina

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Mitterrand» - apprezzabile in taluni casi - Parigi diede asilo pure ad alcuni terroristi baschi dell’ETA, cosa che, mi disse con estrema durezza nell’83 a Madrid il premier socialista Felipe González, costituiva un episodio “de bandolerismo politico”, di banditismo politico. Questo per dire quanti equivoci e dissapori essa abbia creato, anche fra governanti socialisti. Certo, Cesare Battisti si è costruito a Parigi una personalità nuova, come traduttore di romanzi “noir” e poi come scrittore in proprio, pubblicando, nel ’99, dal prestigioso Gallimard. Nel ’91, arrestato per le condanne subite in Italia, è stato dichiarato non estradabile dalla Chambre d’accusation di Parigi. Non solo: gli è stata concessa la cittadinanza francese. Sommiamo tutto ciò alla concezione che un certo milieu intellettuale d’Oltralpe ha della legislazione italiana sul terrorismo, e capiremo meglio perché, malgrado l’evidenza dei fatti criminosi, Battisti abbia, presso scrittori come Levy, Sollers, Pennac o la nota giallista Fred Vargas, l’aureola di “martire politico” venendo grottescamente accostato all’iraniana Sakineh. Diciamocelo: ci vuole un bel po’ di spocchia, e di “ignoranza militante”, come l’ha chiamata Barbara Spinelli su “Repubblica”. Torna al sommario