Rassegna stampa 6 dicembre 2019...2019/12/06  · messaggistica come WhatsApp e Facebook...

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 6 dicembre 2019 SOMMARIO “La schermata del pc sembra tratta da un film di cyberspionaggio - osserva oggi Gigio Rancilio su Avvenire -. È la pagina principale di quello che si presenta come «il software di monitoraggio più potente del mondo per computer, telefoni cellulari e tablet». In pratica, «controlla a distanza tutto». La versione più potente permette infatti di «spiare i messaggi e le email, intercettare le chiamate, tracciare gli sms, guardare le foto e i video presenti nello smartphone, attivare il microfono del telefono a distanza, sapere dove si trova il suo proprietario, controllare le app di messaggistica come WhatsApp e Facebook Messenger». Ho aperto questa pagina mentre stavo parlando con mia moglie a proposito della chat di classe su WhatsApp di nostra figlia. Volevo dimostrarle com’è facile «spiare i propri figli» in maniera legale, visto che spesso i ragazzi sono minorenni e usano telefoni di proprietà dei genitori. Quindi, tecnicamente, chi spia sta controllando un «suo» apparecchio. Farlo su quello di un altro, invece, è illegale. Di software spia ne esistono diversi. Alcuni venduti anche da società che hanno nomi simili a quelle originali, e che sono state aperte con l’unico scopo di truffare i genitori impauriti. Il punto infatti è questo: noi genitori, davanti alle tecnologie, ci spaventiamo. Quando leggiamo di chat di adolescenti che grondano sesso, volgarità e messaggi nazisti (è successo, poco tempo fa, a Torino) rischiamo di farci prendere dal panico. Ed ecco che il mercato ci offre quella che sembra essere «la soluzione»: spiare le vite digitali dei nostri figli. Non costa poco, ma neanche moltissimo, visto che le cifre per usare un software spia oscillano dai 150 ai 350 dollari l’anno. Senza arrivare a installare 'spy software' sui cellulari dei nostri figli, sono tante le soluzioni tecnologiche che promettono ai genitori un controllo sulle vite digitali dei ragazzi. Persino Google ne offre una. Si chiama Family Link. Al proposito, sulla rivista «Vita e Pensiero» dell’Università Cattolica, Pier Cesare Rivoltella (che dirige il Cremit, cioè il Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia), scrive: «È interessante che chi detiene i dati di oltre due miliardi di persone e in virtù di questo vola in Borsa e può prevedere dove vadano desideri e tendenze dell’umanità, poi si preoccupi che i più piccoli navighino protetti. Non è che anche Family link, alla fine, serva a sapere cosa i ragazzi vorrebbero fare in rete?». C’è un secondo aspetto importante nel ragionamento del professor Rivoltella: «Controllare non è educare. Mai. Se decido di controllare mio figlio, se ritengo che questo sia l’unico modo per tenerlo al sicuro dai rischi della Rete, ho almeno due problemi. Il primo, il principale, è che questo significa che ho provato a educare, ma non ci sono riuscito. Il controllo è sempre il risultato di un fallimento o della consapevolezza di un’incapacità educativa». Per Rivoltella occorre governare, cosa ben diversa dal controllare. Perché chi controlla – continua – «prova a eliminare la possibilità del rischio per il minore. E questa è la conferma che chi controlla non ha capito il senso dell’educare. Perché non c’è educazione che non comporti rischi. Chi educa responsabilizza il bambino, il ragazzo, ma poi lo lascia andare, lascia che agisca e in questa fase delicata ma essenziale – il lasciar andare – il rischio va messo in conto. Ma si tratta di un rischio calcolato. L’educazione, e l’educazione ai media non fa eccezione, sviluppa il senso critico. L’obiettivo è l’autoregolazione, creare le condizioni perché si sviluppi la responsabilità». Lo scrivo da padre: aiutare i ragazzi a sviluppare un senso critico anche nell’uso degli strumenti digitali è un compito non facile e faticoso. Ma pensare che basti un software spia per farli crescere, oppure affidarci a giganti come Google che hanno come ultimo loro interesse quello educativo, rischia di costarci molto di più” (a.p.) 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Se il sapere non diventa servizio non può esserci sviluppo

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 6 dicembre 2019

SOMMARIO

“La schermata del pc sembra tratta da un film di cyberspionaggio - osserva oggi Gigio Rancilio su Avvenire -. È la pagina principale di quello che si presenta come «il

software di monitoraggio più potente del mondo per computer, telefoni cellulari e tablet». In pratica, «controlla a distanza tutto». La versione più potente permette infatti di «spiare i messaggi e le email, intercettare le chiamate, tracciare gli sms,

guardare le foto e i video presenti nello smartphone, attivare il microfono del telefono a distanza, sapere dove si trova il suo proprietario, controllare le app di messaggistica come WhatsApp e Facebook Messenger». Ho aperto questa pagina

mentre stavo parlando con mia moglie a proposito della chat di classe su WhatsApp di nostra figlia. Volevo dimostrarle com’è facile «spiare i propri figli» in maniera legale, visto che spesso i ragazzi sono minorenni e usano telefoni di proprietà dei genitori.

Quindi, tecnicamente, chi spia sta controllando un «suo» apparecchio. Farlo su quello di un altro, invece, è illegale. Di software spia ne esistono diversi. Alcuni venduti

anche da società che hanno nomi simili a quelle originali, e che sono state aperte con l’unico scopo di truffare i genitori impauriti. Il punto infatti è questo: noi genitori, davanti alle tecnologie, ci spaventiamo. Quando leggiamo di chat di adolescenti che grondano sesso, volgarità e messaggi nazisti (è successo, poco tempo fa, a Torino) rischiamo di farci prendere dal panico. Ed ecco che il mercato ci offre quella che

sembra essere «la soluzione»: spiare le vite digitali dei nostri figli. Non costa poco, ma neanche moltissimo, visto che le cifre per usare un software spia oscillano dai 150 ai

350 dollari l’anno. Senza arrivare a installare 'spy software' sui cellulari dei nostri figli, sono tante le soluzioni tecnologiche che promettono ai genitori un controllo sulle

vite digitali dei ragazzi. Persino Google ne offre una. Si chiama Family Link. Al proposito, sulla rivista «Vita e Pensiero» dell’Università Cattolica, Pier Cesare

Rivoltella (che dirige il Cremit, cioè il Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia), scrive: «È interessante che chi detiene i dati di oltre due miliardi di persone e in virtù di questo vola in Borsa e può prevedere dove vadano desideri e tendenze dell’umanità, poi si preoccupi che i più piccoli navighino

protetti. Non è che anche Family link, alla fine, serva a sapere cosa i ragazzi vorrebbero fare in rete?». C’è un secondo aspetto importante nel ragionamento del professor Rivoltella: «Controllare non è educare. Mai. Se decido di controllare mio figlio, se ritengo che questo sia l’unico modo per tenerlo al sicuro dai rischi della

Rete, ho almeno due problemi. Il primo, il principale, è che questo significa che ho provato a educare, ma non ci sono riuscito. Il controllo è sempre il risultato di un

fallimento o della consapevolezza di un’incapacità educativa». Per Rivoltella occorre governare, cosa ben diversa dal controllare. Perché chi controlla – continua – «prova a

eliminare la possibilità del rischio per il minore. E questa è la conferma che chi controlla non ha capito il senso dell’educare. Perché non c’è educazione che non comporti rischi. Chi educa responsabilizza il bambino, il ragazzo, ma poi lo lascia

andare, lascia che agisca e in questa fase delicata ma essenziale – il lasciar andare – il rischio va messo in conto. Ma si tratta di un rischio calcolato. L’educazione, e l’educazione ai media non fa eccezione, sviluppa il senso critico. L’obiettivo è

l’autoregolazione, creare le condizioni perché si sviluppi la responsabilità». Lo scrivo da padre: aiutare i ragazzi a sviluppare un senso critico anche nell’uso degli strumenti digitali è un compito non facile e faticoso. Ma pensare che basti un software spia per

farli crescere, oppure affidarci a giganti come Google che hanno come ultimo loro interesse quello educativo, rischia di costarci molto di più” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Se il sapere non diventa servizio non può esserci sviluppo

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Il Papa definisce le Pontificie accademie un modello di sinodalità Decisioni efficaci per salvaguardare la casa comune Ai donatori dell’albero e del presepe Francesco ricorda la tempesta che ha devastato lo scorso anno i boschi del Triveneto AVVENIRE Pag 1 Umanesimo controcorrente di Stefania Falasca La possibile Giornata della fratellanza Pag 23 Udine, è morto l’emerito Brollo di Francesco Dal Mas Ha guidato anche la diocesi di Belluno – Feltre. Aveva 86 anni. Domani i funerali 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Spiare i figli online è facile ma educare è un’altra cosa di Gigio Rancilio 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA AVVENIRE Pag 4 “Noi, in strada per salvare i ragazzi”. La guerra di Mestre alle overdose di Viviana Daloiso L’emergenza dimenticata CORRIERE DEL VENETO Pag 13 La squadra speciale per fermare i pusher. B&b e case nel mirino di Eleonora Biral Masciopinto: lavoro su più fronti. Bettin: anche sociale. Doppia overdose, muore un giovane LA NUOVA Pag 21 Nel degrado assoluto delle Muneghette dove vivono ancora quattro irriducibili di Eugenio Pendolini Già intimato lo sgombero per ricavare una mensa dei poveri ma c’è chi non sa più dove andare e preferisce restare. Sistemazione per quattro ospiti, gli altri (per ora) in hotel IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Muneghette, in sette non accettano le alternative. La Caritas sta trattando di Claudia Meschini 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pagg 2 – 3 I presepi della discordia. Soldi a 21 scuole veneziane ed è di nuovo polemica di Laura Berlinghieri L’assessore Donazzan: “Un messaggio bellissimo, anche per i bimbi di altre religioni”. Il sindacalista Giordano: “Un’iniziativa in chiave elettorale, i fondi alla scuola servono per altro” CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il sacerdote venetista scrive al prefetto: “Ci mette a disagio” di Renato Piva Don Floriano: “Accolgo la persona, rifiuto la funzione” … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Discutere di Europa fa solo bene di Federico Fubini

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Trattati e politica Pag 21 La Consulta boccia la legge anti-moschee: “Limita la libertà di culto” di Luigi Ferrarella LA REPUBBLICA Pag 1 Se la Nato perde il profilo dell’Occidente di Ezio Mauro AVVENIRE Pag 5 Droga, una vittima ogni 26 ore di Vincenzo R. Spagnolo Crescono i decessi nel 2018, raddoppiati quelli delle donne. L’allarme per le nuove sostanze sconosciute IL FOGLIO Pag 1 I cristiani in Africa li chiamano “i bianchi” di Giulio Meotti IL GAZZETTINO Pag 1 Giustizia, compromesso con troppe ambiguità di Carlo Nordio LA NUOVA Pag 5 La rigidità eccessiva e controproducente dell’Ue sul Mes di Maurizio Mistri

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Se il sapere non diventa servizio non può esserci sviluppo Il Papa definisce le Pontificie accademie un modello di sinodalità «L’Accademia è un luogo dove il sapere diventa servizio, perché senza un sapere che nasce dalla collaborazione e sfocia nella cooperazione non c’è sviluppo genuinamente e integralmente umano». Di più: «è, nel campo che le è proprio, un’esperienza e un modello di sinodalità». Lo scrive Papa Francesco nel messaggio per la XXIV solenne seduta pubblica delle Pontificie accademie, svoltasi nel pomeriggio di mercoledì 4 dicembre a Roma presso il Palazzo della Cancelleria. Il testo è stato letto dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin prima di consegnare il premio delle Pontificie accademie, che quest’anno è andato a Carme López Calderón e Ionu-Cătălin Blidar. Al Venerato Fratello Cardinale GIANFRANCO RAVASI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e del Consiglio di Coordinamento tra Accademie Pontificie. Mi rivolgo a Lei in occasione della XXIV Solenne Seduta Pubblica delle Pontificie Accademie, circostanza che caratterizza, grazie alla riforma voluta da San Giovanni Paolo II nel 1995, il cammino delle sette Accademie riunite nel Consiglio di Coordinamento, da Lei presieduto, e che trova nella consegna del Premio un momento non secondario del loro impegno a servizio della teologia, della cultura e della vita pastorale della Chiesa. Porgo il mio cordiale saluto ai Cardinali, ai Vescovi, agli Ambasciatori, ai membri delle Accademie e a tutti gli amici presenti. L’Accademia è un luogo dove il sapere diventa servizio, perché senza un sapere che nasce dalla collaborazione e sfocia nella cooperazione non c’è sviluppo genuinamente e integralmente umano. L’Accademia è, nel campo che le è proprio, un’esperienza e un modello di sinodalità. È anche una forza di evangelizzazione, che appartiene al presente della Chiesa e della sua missione (cfr. Esort. ap. Evangelii gaudium, 83). E il Premio che oggi ho il piacere di assegnare vuole essere un invito a celebrare il sempre fecondo legame tra Vangelo e cultura. Questa XXIV edizione è stata organizzata dalla Pontificia Academia Mariana Internationalis, che proprio quest’anno festeggia il 60° anniversario della sua istituzione, ad opera di San Giovanni XXIII, l’8 dicembre 1959. Mi compiaccio con il Rev.do P. Stefano Cecchin e i

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rispettivi Accademici, per il loro impegno nel promuovere la scienza mariologica e favorire un’autentica pietà mariana. Questa Accademia viene così a caratterizzarsi come luogo simile alla “Casa di Maria”, dove Gesù crebbe in «età, sapienza e grazia» (Lc 2, 46), e dove la Vergine, quale madre accogliente e sposa premurosa, insegna ad essere un “cenacolo” vivente. Il tema scelto per questa Seduta Pubblica, «Maria, via di pace tra le culture», riassume idealmente il cammino di questi sessant’anni. L’esperienza drammatica delle due guerre mondiali spinse Pio XII a mostrare, nel segno dell’Assunta, un faro di pace all’umanità inquieta e impaurita. Il Concilio Vaticano II, poi, ha indicato nella Madre del Signore il modello di una Chiesa “maestra in umanità”, perché serva delle aspirazioni più profonde del cuore umano. In San Paolo VI il legame tra la Santa Vergine e il popolo credente risuona alto, chiaro, consapevole e appassionante. Così egli scrisse nella Marialis cultus: «All’uomo contemporaneo, non di rado tormentato tra l’angoscia e la speranza, prostrato dal senso dei suoi limiti e assalito da aspirazioni senza confini, turbato nell’animo e diviso nel cuore, con la mente sospesa dall’enigma della morte, oppresso dalla solitudine mentre tende alla comunione, preda della nausea e della noia, la Beata Vergine Maria, contemplata nella sua vicenda evangelica e nella realtà che già possiede nella Città di Dio, offre una visione serena e una parola rassicurante: la vittoria della speranza sull’angoscia, della comunione sulla solitudine, della pace sul turbamento, della gioia e della bellezza sul tedio e la nausea, delle prospettive eterne su quelle temporali, della vita sulla morte» (n. 57). San Giovanni Paolo II fece in modo che la Madre del Redentore diventasse motivo e ispirazione per un rinnovato incontro e una ritrovata fraternità quali vie di accesso della Chiesa e del mondo nel nuovo millennio. Per questo, volle che la mariologia avesse il debito ruolo nella formazione teologica universitaria e nel dialogo tra i saperi. Auspicò anche che la mariologia entrasse nelle questioni cruciali del nostro tempo. Infine, Benedetto XVI esortò gli studiosi ad approfondire maggiormente il rapporto tra mariologia e teologia della Parola. «Da ciò - disse - potrà venire grande beneficio sia per la vita spirituale che per gli studi teologici e biblici. Infatti, quanto l’intelligenza della fede ha tematizzato in relazione a Maria si colloca nel centro più intimo della verità cristiana» (Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 27). La Pontificia Academia Mariana Internationalis ha accompagnato il Magistero universale della Chiesa con la ricerca e il coordinamento degli studi mariologici; con i Congressi Mariologico-Mariani Internazionali, di cui il 25° sarà celebrato il prossimo anno; collaborando con i vari centri di studio ecclesiastici e laici; e, infine, attraverso la cooperazione con diverse istituzioni accademiche. Questi impegni sono una chiara testimonianza di come la mariologia sia una presenza necessaria di dialogo fra le culture, capace di alimentare la fraternità e la pace. Desiderando, pertanto, promuovere e incoraggiare la ricerca teologica, e particolarmente quella indirizzata ad approfondire i temi mariologici, sono lieto di assegnare il Premio delle Pontificie Accademie, ex aequo, alla dottoressa Carme López Calderón, per l’opera Grabados de Augsburgo para un ciclo emblemático portugués. Los azulejos de la iglesia del convento de Jesús de Setúbal, e al Reverendo dott. Ionu-Cătălin Blidar, per lo studio dal titolo L’umanità immacolata di Maria - icona del logos di Dio, compimento della stirpe eletta e frutto dell’albero della croce. Un approccio ecumenico alla mariologia immacolatista greco-latina (sec. II-XIV). Inoltre, sono lieto di assegnare la Medaglia del Pontificato all’Istituto Mariologico Croato. Affido ciascuno di voi alla Vergine Maria, Madre di Tenerezza, perché accompagni il vostro cammino personale e accademico. Di vero cuore imparto a tutti voi e alle vostre famiglie e comunità una speciale Benedizione Apostolica. Dal Vaticano, 4 dicembre 2019 Decisioni efficaci per salvaguardare la casa comune Ai donatori dell’albero e del presepe Francesco ricorda la tempesta che ha devastato lo scorso anno i boschi del Triveneto Le calamità naturali abbattutesi lo scorso anno sui boschi del Triveneto sono «segnali d’allarme» che «ci chiedono di prendere subito decisioni efficaci per la salvaguardia della nostra casa comune». Lo ha detto Papa Francesco ricevendo in udienza giovedì mattina, 5 dicembre, nell’Aula Paolo VI, i donatori dell’albero e del presepe allestiti in piazza San Pietro.

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Cari fratelli e sorelle! sono lieto di accogliervi nel giorno in cui vengono presentati il presepe e l’albero di Natale, allestiti in Piazza San Pietro, legati insieme dal comune ricordo della tempesta dell’autunno scorso che devastò molte zone del Triveneto. Saluto tutti voi, ad iniziare dai fratelli Vescovi, che ringrazio per le loro parole. Esprimo viva riconoscenza alle Autorità civili, che hanno sostenuto il dono di questi due simboli religiosi natalizi. Essi manifestano l’affetto della gente delle Provincie di Trento, di Vicenza e di Treviso, segnatamente di alcune località poste nei territori delle diocesi di Trento, Padova e Vittorio Veneto. L’incontro odierno mi offre l’opportunità per rinnovare il mio incoraggiamento alle vostre popolazioni, che l’anno scorso hanno subito una devastante calamità naturale, con l’abbattimento di intere zone boschive. Si tratta di eventi che spaventano, sono segnali d’allarme che il creato ci manda, e che ci chiedono di prendere subito decisioni efficaci per la salvaguardia della nostra casa comune. Questa sera verranno accese le luci che ornano l’albero. Esso resterà accanto al presepe fino al termine delle festività natalizie, ed entrambi saranno ammirati dai numerosi pellegrini, provenienti da ogni parte del mondo. Grazie, cari amici, per questi doni, e anche per gli alberi più piccoli destinati ad altri ambienti del Vaticano. Ho appreso con piacere che, in sostituzione delle piante rimosse verranno ripiantati 40 abeti per reintegrare i boschi gravemente danneggiati dalla tempesta del 2018. L’abete rosso che avete voluto donare rappresenta un segno di speranza specialmente per le vostre foreste, affinché possano essere al più presto ripulite e dare così inizio all’opera di riforestazione. Il presepe, realizzato quasi interamente in legno e composto da elementi architettonici caratteristici della tradizione trentina, aiuterà i visitatori ad assaporare la ricchezza spirituale del Natale del Signore. I tronchi di legno, provenienti dalle zone colpite dai nubifragi, che fanno da sfondo al paesaggio, sottolineano la precarietà nella quale si trovò la Sacra Famiglia in quella notte di Betlemme. Anche il presepe artistico di Conegliano, collocato nell’Aula Paolo VI, aiuterà a contemplare l’umile grotta dove nacque il Salvatore. Come sapete, pochi giorni fa sono stato a Greccio a visitare il luogo dove San Francesco fece il primo presepe. Da lì ho pubblicato una Lettera proprio sul presepe, che è un segno semplice e mirabile della nostra fede e non va perduto, anzi, è bello che sia tramandato, dai genitori ai figli, dai nonni ai nipoti. È una maniera genuina di comunicare il Vangelo, in un mondo che a volte sembra avere paura di ricordare che cos’è veramente il Natale, e cancella i segni cristiani per mantenere solo quelli di un immaginario banale, commerciale. Cari amici, auguro di cuore a voi, ai vostri concittadini e a tutti gli abitanti delle vostre Regioni di trascorrere con serenità e fraternità il Natale del Signore. La Vergine Maria, che ha accolto il Figlio di Dio nella debolezza della natura umana, ci aiuti a contemplarlo nel volto di chi soffre, e ci sostenga nell’impegno di essere solidali con le persone più fragili e più deboli. Vi benedico di cuore, e vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie! AVVENIRE Pag 1 Umanesimo controcorrente di Stefania Falasca La possibile Giornata della fratellanza «Onorate tutti, amate la fratellanza». È alla lettera quello che Pietro nella sua Prima lettera chiede ai fedeli. In pratica l’abc del nostro futuro. Ed è alla lettera, proprio con la 'fratellanza' – parola che viene dal Vangelo e sta alla base della visione cristiana dell’umanità – che papa Francesco ha voluto segnare il 2019 come aveva dato già a intendere nel suo messaggio Urbi et Orbi dello scorso Natale. Un sigillo posto in febbraio nel Golfo Persico insieme al grande imam sunnita di al-Azhar, Ahamad al-Tayyeb, con una solenne doppia firma a un documento comune sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Appello congiunto senza precedenti rivolto «a tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana». Per «unirsi e lavorare insieme» perché «diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli». Ora – come già annunciato dal Comitato nato ad agosto per l’applicazione di quel documento – arriva anche la proposta di una Giornata mondiale della fratellanza umana da celebrarsi il 4 febbraio con la richiesta alle Nazioni Unite di partecipare, insieme alla Santa Sede e ad al-Azhar, all’organizzazione in un

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prossimo futuro di un summit mondiale sulla fratellanza umana. È un gesto in piena continuità con il Concilio che nella Gaudium et spes, apprezzando l’operato delle istituzioni internazionali come strumento di sviluppo e di riconciliazione, dichiarò che «la Chiesa si rallegra dello spirito di vera fratellanza che fiorisce tra cristiani e non cristiani e dello sforzo d’intensificare i tentativi intesi a sollevare l’immane miseria». Al termine della dichiarazione Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane il Concilio si era espresso con parole simili: «Non possiamo invocare Dio come Padre di tutti gli uomini se ci rifiutiamo di comportarci da fratelli verso gli uomini che sono creati ad immagine di Dio». Da allora in avanti la fratellanza ha assunto il ruolo di categoria orientatrice nella dottrina sociale cattolica. Così, in continuità con i Pontefici che l’hanno preceduto, papa Francesco con il dialogo di rispetto e amicizia, in parole e in opere, non cessa di esortare il mondo e tutte le persone di buona volontà a promuovere tre cose: fraternità, pace e convivenza. In pratica i tre elementi essenziali se si vuole veramente far guarire le ferite del nostro mondo. In questo delicato momento storico è ai responsabili delle religioni, forse come mai in passato, che spetta il compito non più rimandabile di contribuire attivamente a smilitarizzare il cuore dell’uomo. L a corsa agli armamenti, l’estensione delle zone di influenza con politiche aggressive a discapito degli altri dicono che a queste condizioni non ci sarà mai stabilità perché la guerra non sa creare altro che miseria, le armi nient’altro che morte. Proprio la fratellanza umana pertanto pone ai rappresentanti delle religioni il dovere di bandire ogni sfumatura di approvazione dalla parola 'guerra'. Come sappiamo, la polemica occidentalista nei confronti dell’islam ha conosciuto varie gradazioni. Papa Francesco non ha mai preso la postura del 'grande precettore' dell’islam, chiamato a favorire il suo adattamento a una modernità multiculturale e multireligiosa. Il Papa e i suoi collaboratori non hanno mai avuto nemmeno intenzione di passare per quelli che danno lezioni all’islam e a nessun altro. E forse proprio per questo il documento di Abu Dhabi si presenta come una mappa condivisa senza riserve e resistenze anche da parte islamica su come camminare insieme e vivere la fede in Dio nell’attuale assetto del mondo. Nel contempo, senza bandire guerre sante, nel testo sottoscritto con il grande imam si riafferma anche la sostanziale comunanza d’intenti nella custodia della legge naturale. Papa Francesco e al-Tayyeb ripetono che l’ingiustizia e la distribuzione iniqua delle risorse naturali «hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali»; che la famiglia è «essenziale» come nucleo decisivo della società e dell’umanità «per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale»; che la vita è un dono del Creatore «che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento», da custodire «dal suo inizio fino alla morte naturale», contrastando anche «l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo». Anche così, senza temere di esporsi ad accuse di oscurantismo, un Papa e un imam sperimentano la riscoperta della fraternità dei figli di Dio anche come riserva di pensiero critico nei confronti delle nuove idolatrie individualiste e liberal che inondano il tempo della globalizzazione. Pag 23 Udine, è morto l’emerito Brollo di Francesco Dal Mas Ha guidato anche la diocesi di Belluno – Feltre. Aveva 86 anni. Domani i funerali Udine. E’ morto, dopo una lunga malattia, a 86 anni Pietro Brollo, arcivescovo emerito di Udine e in precedenza vescovo di Belluno-Feltre. Nato a Tolmezzo il 1° dicembre 1933, laureatosi in teologia alla Pontificia Università Lateranense, Brollo è stato ordinato sacerdote nel Duomo di Tolmezzo il 17 marzo 1957 dall’allora arcivescovo di Udine, Giuseppe Zaffonato. Sempre in questo luogo di culto vi celebrò la sua Prima Messa il 19 marzo seguente. Rettore del Seminario, nel 1976 diventò parroco di Ampezzo in Carnia; dopo 5 anni passò a Gemona del Friuli, la “capitale” del terremoto, per provvedere alla ricostruzione. Il 4 gennaio 1986 veniva consacrato vescovo dall’allora arcivescovo di Udine, Alfredo Battisti, diventando suo ausiliare nella diocesi del Friuli. Dieci anni dopo, Giovanni Paolo II lo inviava nella diocesi di Belluno-Feltre dove rimaneva per 4 anni. Nel 2000 ritornava nella Chiesa friulana dove concludeva il suo servizio episcopale nel 2009. «Il Signore lo ha chiamato a sé – ha spiegato l’attuale arcivescovo di Udine e diretto successore di Brollo, Andrea Bruno Mazzocato – dopo un ultimo periodo di malattia davvero faticoso, ma che lui aveva ammirevolmente affrontato con grande fede e con

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straordinaria forza d’animo». E ha aggiunto: «In questo momento tutta la famiglia diocesana - il sottoscritto, i sacerdoti, i laici - si stringe nelle preghiera per affidare al Signore questo pastore, e figlio di questa terra, che ha suscitato attorno a sé profonda stima e grande affetto per il suo stile buono, signorile, disponibile, sempre rispettoso». Proprio nei giorni scorsi nell’ultimo numero del settimanale La Vita Cattolica Mazzocato aveva chiesto a tutte le comunità cristiane una preghiera speciale a Dio Padre chiedendo per l’arcivescovo Brollo «forza e serenità spirituale in questo tempo di debolezza e di Croce». Domani, alle 14.30, nella Cattedrale a Udine le esequie. I funerali saranno trasmessi in diretta radiofonica dall’emittente diocesana Radio Spazio La voce del Friuli e in streaming sul sito diocesano. La salma di Brollo è stata accolta ieri nel Duomo di Tolmezzo alla presenza di tutti i sacerdoti della Carnia, dove resterà fino a domani mattina, quando alle 9 sarà trasferita in Cattedrale per il funerale e la sepoltura. Tutte le campane della Carnia hanno suonato in contemporanea in memoria dell’arcivescovo emerito, mentre si moltiplicano Messe e veglie, sia in Friuli sia nella diocesi di Belluno-Feltre. «L’amore di vita e di ministero, la salda fede, la nobiltà del tratto, la gentilezza dei rapporti che intratteneva sono vivi nel cuore delle comunità parrocchiali della sua e nostra Chiesa di Belluno Feltre – ha testimoniato l’attuale vescovo di Belluno- Feltre, Renato Marangoni –. Restiamo nella preghiera in questo avvento dell’incontro con il Signore della storia». In Friuli Brollo ha raccolto l’eredità profetica di Battisti e del Sinodo diocesano cercando di concretizzarne le intuizioni, attraverso la “pastorale di comunione” fra tutti i ministeri, sacerdoti, religiosi e laici. Con un’attenzione particolare ai friulani impegnati nella rinascita dal terremoto del 1976, perché non perdessero l’anima, come aveva peraltro raccomandato Giovanni Paolo II nel corso della visita in Friuli nel 1992. Significativo è stato il ricordo del nipote Francesco: «Per i fedeli delle diocesi di Udine, di Belluno e Feltre è stato l’arcivescovo, per me “zio don Pietro”. Di lui piangiamo la carismatica capacità di coinvolgimento attraverso l’entusiasmo della fede declinata col sorriso». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 2 Spiare i figli online è facile ma educare è un’altra cosa di Gigio Rancilio La schermata del pc sembra tratta da un film di cyberspionaggio. È la pagina principale di quello che si presenta come «il software di monitoraggio più potente del mondo per computer, telefoni cellulari e tablet». In pratica, «controlla a distanza tutto». La versione più potente permette infatti di «spiare i messaggi e le email, intercettare le chiamate, tracciare gli sms, guardare le foto e i video presenti nello smartphone, attivare il microfono del telefono a distanza, sapere dove si trova il suo proprietario, controllare le app di messaggistica come WhatsApp e Facebook Messenger». Ho aperto questa pagina mentre stavo parlando con mia moglie a proposito della chat di classe su WhatsApp di nostra figlia. Volevo dimostrarle com’è facile «spiare i propri figli» in maniera legale, visto che spesso i ragazzi sono minorenni e usano telefoni di proprietà dei genitori. Quindi, tecnicamente, chi spia sta controllando un «suo» apparecchio. Farlo su quello di un altro, invece, è illegale. Di software spia ne esistono diversi. Alcuni venduti anche da società che hanno nomi simili a quelle originali, e che sono state aperte con l’unico scopo di truffare i genitori impauriti. Il punto infatti è questo: noi genitori, davanti alle tecnologie, ci spaventiamo. Quando leggiamo di chat di adolescenti che grondano sesso, volgarità e messaggi nazisti (è successo, poco tempo fa, a Torino) rischiamo di farci prendere dal panico. Ed ecco che il mercato ci offre quella che sembra essere «la soluzione»: spiare le vite digitali dei nostri figli. Non costa poco, ma neanche moltissimo, visto che le cifre per usare un software spia oscillano dai 150 ai 350 dollari l’anno. Senza arrivare a installare 'spy software' sui cellulari dei nostri figli, sono tante le soluzioni tecnologiche che promettono ai genitori un controllo sulle vite digitali dei ragazzi. Persino Google ne offre una. Si chiama Family Link. Al proposito, sulla rivista «Vita e Pensiero» dell’Università Cattolica, Pier Cesare Rivoltella (che dirige il Cremit, cioè il Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Informazione e alla Tecnologia), scrive: «È

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interessante che chi detiene i dati di oltre due miliardi di persone e in virtù di questo vola in Borsa e può prevedere dove vadano desideri e tendenze dell’umanità, poi si preoccupi che i più piccoli navighino protetti. Non è che anche Family link, alla fine, serva a sapere cosa i ragazzi vorrebbero fare in rete?». C’è un secondo aspetto importante nel ragionamento del professor Rivoltella: «Controllare non è educare. Mai. Se decido di controllare mio figlio, se ritengo che questo sia l’unico modo per tenerlo al sicuro dai rischi della Rete, ho almeno due problemi. Il primo, il principale, è che questo significa che ho provato a educare, ma non ci sono riuscito. Il controllo è sempre il risultato di un fallimento o della consapevolezza di un’incapacità educativa». Per Rivoltella occorre governare, cosa ben diversa dal controllare. Perché chi controlla – continua – «prova a eliminare la possibilità del rischio per il minore. E questa è la conferma che chi controlla non ha capito il senso dell’educare. Perché non c’è educazione che non comporti rischi. Chi educa responsabilizza il bambino, il ragazzo, ma poi lo lascia andare, lascia che agisca e in questa fase delicata ma essenziale – il lasciar andare – il rischio va messo in conto. Ma si tratta di un rischio calcolato. L’educazione, e l’educazione ai media non fa eccezione, sviluppa il senso critico. L’obiettivo è l’autoregolazione, creare le condizioni perché si sviluppi la responsabilità». Lo scrivo da padre: aiutare i ragazzi a sviluppare un senso critico anche nell’uso degli strumenti digitali è un compito non facile e faticoso. Ma pensare che basti un software spia per farli crescere, oppure affidarci a giganti come Google che hanno come ultimo loro interesse quello educativo, rischia di costarci molto di più. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA AVVENIRE Pag 4 “Noi, in strada per salvare i ragazzi”. La guerra di Mestre alle overdose di Viviana Daloiso L’emergenza dimenticata Mestre (Venezia). Il lungo sballo del weekend inizia venerdì pomeriggio nel sottopasso della stazione di Mestre, direzione Marghera. I gruppetti di ragazzini fanno avanti indietro. «Il fumo lo dividiamo, però tu devi smetterla di fare il furbo» alza la voce lei. Avrà sì e no 15 anni, i capelli corti e gli occhiali. Ed è già su di giri. La discussione viene interrotta dal campanello della bicicletta, che schizza alla velocità della luce: lo spacciatore non ha niente addosso, si ferma, consegna, riparte. La scena si ripete: stavolta le ragazze sono due, a braccetto. Il pusher arriva sempre su due ruote, lungo la pista ciclabile che corre parallela al passaggio pedonale. Lo salutano per nome, lui si ferma, sorride, consegna, se ne va. Mentre il mondo guarda Venezia sprofondare e riemergere dall’acqua, la droga di qua dalla Laguna è una ferita che si riapre, e si riapre ancora, in silenzio. Ai primi di ottobre tre casi di overdose in cinque giorni hanno fatto temere d’esser tornati al 2018, quando Mestre deteneva il tragico primato di 21 morti di droga in un anno e l’eroina gialla impazzava a destra e a manca senza controllo. Otto volte più potente di quella normale, e venduta a bassissimo costo per sbaragliare la concorrenza. «Da allora molto è stato fatto» spiega l’assessore alle Politiche sociali Simone Venturini, che lo slogan di “capitale delle overdose” non vuole più sentirlo, complice il nuovo triste primato della cugina Vicenza. «A cominciare dal maxi-blitz in stazione di un anno fa, e nella tristemente famosa via Piave». Dice il vero: lì le frotte di spacciatori affiliati alla mafia nigeriana oggi sono scomparse, il parchetto un tempo arena dello spaccio è presidiato da camionette dell’esercito e volanti della polizia. «E sull’eroina gialla abbiamo imparato tutto – continua Venturini –, le nostre unità di strada hanno fatto un’informazione capillare, mettendo in guardia sui rischi, sul come riconoscerla ». Parola d’ordine, arginare i danni. Un po’ come col naloxone, l’antidoto all’eroina distribuito in quantità di notte per salvare la vita a chi si fa, o a chi potrebbe farsi. «Se non possiamo evitare che accada tra i ragazzi – taglia corto Alberto Favaretto, responsabile dei servizi di Prossimità del comune di Venezia – almeno cerchiamo di accompagnarli, per evitare che si distruggano». E la riduzione del danno è l’obiettivo raggiunto, nell’impegno di anni. Il male dei più giovani, però, resta. È il buco nero

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dentro cui i servizi sociali precipitano, senza rete. A guardarlo in faccia c’è Angelo Benvegnù, presidente del Coges don Lorenzo Milani e vicepresidente della Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict). Non era più facile negli anni Ottanta, quando don Franco De Pieri – il prete di strada che per primo s’è occupato dei tossicodipendenti a Mestre – lavorava a testa bassa per recuperare le giovani generazioni: «Continuare quella missione è la sfida che abbiamo raccolto e declinato in questo tempo complicatissimo, in cui l’età dell’abuso di sostanze è scesa drammaticamente. E appena prima della droga c’è l’alcol a inghiottire i nostri adolescenti». L’emergenza a Mestre e Venezia è un fiume in piena, con numeri da capogiro in linea col già drammatico trend regionale: il consumo di alcolici coinvolge il 65% della popolazione, il 26% dei giovani ammette di praticare il binge drinking (il consumo smodato concentrato in una serata) con un aumento del 6% negli ultimi 4 anni nella fascia d’età 11-15 anni. Delle 4.500 persone che in un anno si rivolgono al Serd locale articolato nelle sue cinque sedi (12 volte tanto il numero che dovrebbe essere gestito da un singolo servizio), la maggior parte lo fanno proprio per dipendenza da sostanze (2.493 nel 2018) e alcol (1.093) o, più spesso, tutte e due. Di più: 1 su 4 ha meno di 26 anni, il 15% fra questi è minorenne, la metà arriva lì dopo aver compiuto reati e perché segnalato dall’autorità, piuttosto che accompagnato dalla famiglia. Un deserto educativo dentro cui muoversi è impresa titanica «soprattutto coi mezzi che abbiamo – confessa Alberto Manzoni, responsabile del Serd di Mestre e anima dell’Osservatorio locale delle dipendenze patologiche –. Una legge vecchia, risorse umane insufficienti, centri pensati per accogliere le situazioni più disparate senza alcuna specificità, dall’ottantenne che brucia la pensione alle slot al tossicomane in cerca di metadone, fino al ragazzo finito in coma etilico il sabato sera ». E là fuori, oltre il Serd, il muro delle liste d’attesa che intasano le comunità di recupero (3 mesi a Mestre), con una sola struttura per minori in tutta la Regione – a Conegliano – che sembra un miraggio e le semplici comunità educative zeppe di ragazzi con dipendenze che non sono attrezzate per curare. Le ricette del passato non bastano più. Verrebbe da arrendersi, «e invece arrendersi non si può – continua Benvegnù –, in ballo c’è una generazione». Il Coges – prima che nella comunità di recupero Soranzo, un centro all’avanguardia che raccoglie tre distinte strutture – ha deciso di ripartire dai più piccoli fuori da scuola, nei parchi e sui tavolini dei bar con gli educatori di strada: giovani psicologi preparati al confronto senza giudizio come Tiziana, che ai ragazzi si mescola quasi tutti i giorni. «Siamo punti intermedi tra l’emergenza e i servizi, il nostro ruolo è stare lì, fare domande, molto più spesso semplicemente ascoltare». Perché questi “bimbi sperduti” – con una media di 50 euro di paghetta per fine settimana – quando incontrano qualcuno che li ascolta «hanno molto da dire». Poi c’è lo spazio diurno nella struttura al centro di Mestre, a metà fra un oratorio e un centro ricreativo: «Tanti anni fa, quando è nato, l’abbiamo chiamato Nse, Non solo ecstasy – spiega Angelo –. Oggi l’emergenza delle pasticche è superata, siamo nel pieno di tutto il resto». Anche degli psicofarmaci, che i ragazzi fanno a gara per mescolare a drink e cannabinoidi per vedere l’effetto che fa: «Il mercato delle ricette è fiorente – racconta ancora Tiziana –. Ci sono pusher anche per quelle». Si cercano cure, si cercano le famiglie soprattutto, «sempre portatrici di grande sofferenza ed impotenti, talvolta persino “colpevolizzanti” rispetto al servizio di cura» spiega Laura Suardi, del Serd di Dolo. Servizi e comunità e istituzioni: a Mestre si prova a lavorare tutti insieme, anche per colmare l’assenza dei genitori «che sono gli altri malati di questo tempo – aggiunge Benvegnù –. Solo che ancora non lo sanno». CORRIERE DEL VENETO Pag 13 La squadra speciale per fermare i pusher. B&b e case nel mirino di Eleonora Biral Masciopinto: lavoro su più fronti. Bettin: anche sociale. Doppia overdose, muore un giovane Mestre. Tra Mestre e Marghera sono almeno una trentina. Le zone di spaccio sono sempre le stesse: il «quadrilatero» della stazione ferroviaria e il sottopasso ciclopedonale, via Cappuccina, via Ulloa. Sono loro ad essere cambiati. Tra il 2017 e il 2018 a fare da padroni erano i pusher nigeriani, i cosiddetti «mercanti di morte» che si erano presi l’intero mercato grazie all’eroina gialla, più pura e più forte ma con effetti

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devastanti. Di fatto, avevano smantellato i concorrenti tunisini che, dopo la maxi retata del 10 luglio 2018, ne avevano approfittato per rimettersi nel mercato. Per un periodo c’era stata una tregua tra le due fazioni ma adesso sembra proprio che i pusher nigeriani si siano riorganizzati, andando a sostituire gli oltre 40 colleghi arrestati l’anno scorso. I nuovi spacciatori sono per lo più ex vedette ed ex corrieri che, adesso, sono passati alla vendita e hanno tutta l’intenzione di riprendersi i clienti e le zone che avevano perso. Dopo un periodo di tregua, nelle ultime settimane sono ricominciate le tensioni: risse, liti e aggressioni sono all’ordine del giorno. «La situazione è molto rischiosa», dice Gianfranco Bettin, presidente della Municipalità di Marghera. Martedì sera due pusher nigeriani hanno chiesto aiuto alla polizia ferroviaria dicendo di essere stati aggrediti da dieci tunisini. Gli arresti avvengono quasi quotidianamente: i carabinieri due giorni fa hanno fermato un 29enne del Mali e un 30enne del Gambia con quattro etti di marijuana. La situazione, che a sentire residenti e commercianti è tornata insostenibile, sembra destinata a peggiorare. Ed è per questo che il questore di Venezia, Maurizio Masciopinto, sta organizzando una squadra speciale, mettendo insieme uomini e forze per combattere ancora una volta un fenomeno difficile da contenere quando ci sono migliaia di consumatori che, come dimostra la tragedia avvenuta ieri, percorrono anche centinaia di chilometri per acquistare la droga a Mestre. Costa meno (anche 5 euro a dose), è più buona, ce n’è sempre. «Io lo chiamerei gruppo di lavoro - dice Masciopinto -. Ho messo nero su bianco una serie di disposizioni scritte per l’organizzazione di questo gruppo, del quale faranno parte uomini della squadra mobile, guidati dal dirigente Giorgio Di Munno, e dei commissariati. Lavoreremo su diversi fronti». Il primo è quello delle espulsioni, allontanando i soggetti pericolosi e intervenendo con pareri negativi nel caso in cui abbiano richieste di permesso di soggiorno in corso. Il secondo fronte riguarda la prevenzione e la repressione. «Il gruppo di lavoro, oltre a potenziare i controlli, in collaborazione con la polizia locale farà una serie di verifiche dal punto di vista amministrativo - aggiunge il questore -. Mi riferisco alle strutture in cui alloggiano questi soggetti». Appartamenti, bed and breakfast. Ma, a fronte delle azioni delle forze dell’ordine, «serve un lavoro altrettanto efficace dal punto di vista sociale - dice Bettin -. Serve che il Comune metta in campo più operatori di strada, ad esempio». Da parte dell’amministrazione, «c’è il massimo impegno - interviene l’assessore alla Sicurezza, Giorgio D’Este -. Stiamo mettendo in campo tutte le nostre forze con la polizia locale, con tutte le difficoltà del caso, come la complessità di assicurare gli spacciatori alla giustizia. È un problema che va condiviso con l’intero Paese, rivedendo disposizioni e trattati esteri e trovando una soluzione capace di assicurare misure restrittive di un certo tipo». Mestre. Stazione ferroviaria di Mestre, tarda mattinata. Il viavai è continuo: pendolari che vanno al lavoro, turisti che arrivano o che ripartono. L’ingresso è affollato, come a tutte le ore del giorno. Tra i passanti c’è un ragazzo, si sente male e improvvisamente collassa a terra. Gli agenti della polizia ferroviari lo soccorrono e poco dopo arriva l’ambulanza. I dubbi sono pochi: è una sospetta overdose. Gli operatori riescono a rianimare il giovane, lo caricano a bordo e lo portano in ospedale. Alcune ore dopo, a metà pomeriggio, il suo cuore smette definitivamente di battere. È un 24enne friulano, C.D.S., l’ultima presunta vittima della droga a Mestre. La conferma arriverà con un’eventuale autopsia che la procura nelle prossime ore deciderà se disporre, ma l’ipotesi degli investigatori è che questa morte sia legata all’eroina. E sarebbe una delle tante, l’ultima, che si aggiunge a una lunga lista di almeno una ventina di persone che dal 2017 ad oggi hanno perso la vita, facendo diventare Venezia la capitale dei decessi. Ventenni, quarantenni, chi ha assunto l’ultima dose in casa, da solo, chi in compagnia del fidanzato e chi in macchina o, addirittura, in strada. Arrivano da tutte le province e anche da fuori regione, come il ragazzo di Osoppo, in provincia di Udine, che è morto ieri. È di qualche settimana fa il caso di due tossicodipendenti multati perché scoperti dalla polizia locale a farsi a drogarsi sul marciapiede, in mezzo alle auto in sosta, in pieno giorno. «Una situazione incontrollabile, invivibile, spaventosa», sono le parole dei residenti e dei commercianti del quartiere Piave, che ogni giorno fanno i conti con episodi di violenza e liti tra spacciatori. «Sono ovunque, a ogni angolo della strada, di giorno e di notte - dice una cittadina che abita nella zona dei giardini di via Piave -. Chiamiamo continuamente la polizia, ma queste persone ovviamente scappano e se

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vengono arrestate poi vengono anche rilasciate». Molti sono «armati». «Hanno coltelli, si colpiscono tra loro con bottiglie di vetro rotte», dice un commerciante. Spacciatori nigeriani, tunisini, anche qualche italiano, che girano con solo una dose nascosta in bocca proprio per evitare di essere fermati in caso di controllo e nascondono le altre dosi tra le auto, nei cestini della spazzatura, nei giardini condominiali e perfino nelle fessure sul muro della chiesa. Quello di ieri, nel caso in cui arrivi la conferma dell’overdose da eroina, è solo l’ultimo dramma in una città che, con i suoi cittadini e i comitati non si è mai girata dall’altra parte ma, anzi, ha sempre denunciato a gran voce (anche sui social). E non è stato l’unico. Dopo il 24enne soccorso purtroppo inutilmente ieri mattina, a metà pomeriggio un altro uomo di 28 anni di Belluno è andato in overdose. Questa volta, però, gli operatori del 118 sono riusciti a salvarlo. L’uomo è stato raggiunto all’altezza del sottopasso ciclopedonale di via Dante (una delle zone dello spaccio), ed è rimasto cosciente. LA NUOVA Pag 21 Nel degrado assoluto delle Muneghette dove vivono ancora quattro irriducibili di Eugenio Pendolini Già intimato lo sgombero per ricavare una mensa dei poveri ma c’è chi non sa più dove andare e preferisce restare. Sistemazione per quattro ospiti, gli altri (per ora) in hotel Venezia. «Un tetto sopra la testa è meglio di un mese in albergo». Soprattutto quando ancora non c'è garanzia di una nuova sistemazione. Anche a costo di vivere nel degrado più totale, quello vissuto dagli inquilini delle Muneghette. Senza gas, riscaldamento, né acqua calda. Con un portone d'ingresso senza serratura, le infiltrazioni dal tetto, calcinacci e rifiuti lungo le pareti. E con un fornello a forma di scatoletta di tonno riempita di uno straccio imbevuto di alcol, su cui riscaldare un po'd'acqua per concedersi una doccia. Sono le condizioni in cui vivono, ancora oggi, almeno otto inquilini nel complesso di Castello gestito dalla Caritas e di proprietà dell'Ire. Famiglie, coppie in difficoltà, pensionati, malattie croniche (bronchiti, reumatismi) e casi di invalidità. A giugno, alla ventina di residenti è stato intimato di andare via. Oltre al progetto di una struttura con mensa e alloggi per poveri, il pensionato - è stato spiegato - deve essere «liberato perché non a norma e per urgenti lavori di straordinaria manutenzione e messa in sicurezza, in modo da non mettere in pericolo la vita delle persone che sino ad oggi lo hanno abitato». Una situazione bloccata fino a oggi, quando qualche inquilino ha trovato sistemazioni d'emergenza da amici o familiari. Altri hanno accettato di essere ospitate al City of Art Venice Lloyd di Marghera. Altri ancora non intendono muoversi. Anche se, come denuncia un video del Gruppo 25 Aprile, lì dentro le condizioni di vivibilità mancano da tempo. E si sono aggravate dall'ondata di acqua alta eccezionale del 12 novembre. Da quando, con la corrente ancora in funzione, la caldaia è fuori uso. Ma di riparazioni, nemmeno l'ombra. Eppure, lì dentro ci si continua a vivere. Sul portone d'ingresso, un cartello a firma Caritas vieta l'ingresso "ai non autorizzati". La serratura è sfondata, basta una leggera spinta per entrare. Nei corridoi laterali, elettrodomestici e carcasse di letti accatastati. Umidità e freddo attraversano le pareti. «In albergo non ci vado, passerò un po'di giorni da qualche parente. Ma dal primo gennaio non so dove andare», racconta un'ottantenne, badante in pensione, residente a Venezia da dieci anni e da due dentro un monolocale da poco più di nove metri quadri. È una delle inquiline che è riuscita a trovare una sistemazione alternativa. Momentanea, però. Perché un tetto per il 2020 ancora non ce l'ha. Superata la corte interna, con scope e stendini lungo i corridoi, una scala porta al primo piano. Qui vivono M. D. , 43 anni, e la compagna, V. B, entrambi da sei anni nel complesso. Lui, una vita a spaccarsi la schiena, ora si arrangia con qualche lavoretto. Lei con una psoriasi degenerativa e il 75 per cento di invalidità. Tra cibo e farmaci, in tasca a fine mese resta poco o nulla. «La manutenzione qui dentro non è mai stata fatta», dicono. «Noi da qui ce ne andiamo solo se ci trovano un'altra sistemazione. Ma se ci sradicano da Venezia, per noi ripartire diventa impossibile». Indossano un poncho realizzato con gli avanzi di coperte, si lavano riscaldando l'acqua nelle pentole. Al secondo piano, i vestiti appesi agli stendini sono di una famiglia della Costa d'Avorio, con due figli minorenni ospitati da qualche giorno da amici in terraferma. Tre appartamenti sono sbarrati con il nastro rosso dopo che le chiavi sono scomparse. Nel numero 26, però, si entra dalla finestra: c'è un letto

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preparato con lenzuola, e un cuscino. «Chi ci dorme qui? Non lo sappiamo. Noi qui la notte la passiamo con la pelle d'oca». Venezia. Una sistemazione definitiva, da parte del Patriarcato, è stata trovata. Riguarda però solo quattro delle otto persone che fino a ieri hanno dormito nel complesso delle Muneghette. Si tratta di una famiglia di origini marocchine composta da due figli minorenni, il padre e la madre, incinta al sesto mese. Nei prossimi giorni saranno trasferiti dall'edificio di Castello, dell'Ire e gestito dalla Caritas, in un appartamento di Mestre. In attesa del trasloco definitivo, il Patriarcato fa sapere che con ogni probabilità saranno ospitate per qualche giorno in un istituto religioso nei pressi di San Marco. E gli altri otto fino a ieri ancora nell'edificio? Se la famiglia originaria della Costa d'Avorio (due genitori più due figli) sembra aver trovato una soluzione da amici in terraferma, per le altre quattro persone una risposta al momento non c'è. «Abbiamo rinnovato la proposta di trasferimento temporaneo in albergo, in attesa di trovare una sistemazione in un'altra realtà con l'aiuto dei servizi sociali», fa sapere il Patriarcato. Nel frattempo, il Gruppo 25 Aprile - che ha documentato il livello di degrado del complesso fornendo assistenza agli attuali inquilini - ha ieri diramato una lettera aperta al Patriarca di Venezia. L'associazione in prima linea sul tema della residenzialità a Venezia, cita le parole usate dallo stesso Patriarca a proposito della necessità di ripensare la stessa città lagunare. »Se l'intento è quello di "non tagliar fuori nessuno" - si legge nella lettera - come non pensare agli ospiti delle Muneghette fra cui ci sono famiglie con bambini in tenera età e una donna incinta al sesto mese, persone anziane (80 anni) e persone invalide. Parlare di "occupazione abusiva" potrà anche essere corretto sul piano giuridico, una volta scaduti i termini legali impartiti per lo sgombero coatto dei luoghi, ma ci pare poco consono alla "pietas" e alla "caritas" cristiana»". L'associazione se la prende anche con la mancanza di manutenzione dentro il complesso da parte di Caritas: "L'acqua alta del 12 novembre è diventata pretesto per lasciare senza riscaldamento e senza acqua calda, senza gas e senza luce nelle parti comuni, persone fragili per accelerarne la partenza". IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Muneghette, in sette non accettano le alternative. La Caritas sta trattando di Claudia Meschini Venezia. Sono attualmente ancora sette le persone che, in attesa di una soluzione definitiva, hanno deciso di non lasciare le proprie stanze alle Muneghette, l'edificio di proprietà dell'Ire gestito, in comodato d'uso gratuito, dalla Caritas. L'altra sera il Patriarcato pareva avesse trovato la soluzioe per tutti, eccetto che per 3 inquilini, ma a ieri nessuno dei 7 rimasti hai accettato le soluzioni abitative temporanee proposte dalla Caritas. Un uomo di origine marocchina, vive da 5 anni alle Muneghette con la moglie e due bimbi di 4 e 6 anni: «In questi giorni - spiega - la Caritas mi ha proposto il trasferimento temporaneo in uno spazio all'interno dell'Istituto San Giuseppe a Palazzo Papafava, a Castello. Si tratterebbe di un momento di passaggio in attesa del trasloco definitivo in un appartamento, dicono. Sinceramente con due bimbi piccoli, uno dei quali sarà operato a Padova mercoledì prossimo e mia moglie incinta di sei mesi, non me la sento di affrontare due traslochi a breve distanza. Aspetterò che sia disponibile per me e la mia famiglia una soluzione definitiva». «Conosciamo la situazione - spiega la Caritas - infatti stiamo già provvedendo per velocizzare il trasferimento della famiglia in un appartamento in terraferma». La famiglia marocchina ha abitato in questi anni in un piccolo bilocale alle Muneghette pagando un affitto tra i 150 ed i 200 euro al mese, utente comprese, ad esclusione dell'ultimo anno e mezzo, cioè da quando la Caritas ha deciso che lo stabile doveva essere sgomberato per ragioni di sicurezza e per dare inizio ai lavori di restauro. «Da quel momento il canone d'affitto non è stato più accettato, spiega il caòpofamiglia. Anche una signora che soffre di bronchite cronica, non ha accettato il trasferimento temporaneo all'hotel City of Art Venice Lioyd di Marghera, proposto come soluzione alternativa temporanea dalla Caritas. Resterà al momento alle Muneghette, in attesa di soluzioni definitive, anche una coppia che per circa un anno e mezzo ha svolto le funzioni di vice responsabile delle Muneghette e di tuttofare, mansioni per cui la conna riceveva da parte dell'assistente sociale del Comune 250 euro al mese, di cui 200 servivano per pagare l'affitto dei locali che condivide con il

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compagno. «Anche noi da circa un anno non paghiamo più l'affitto anche perché non ho più ricevuto i 250 mensili. Oggi vivo con la mia pensione d'invalidità di 285 euro al mese», spiega la donna che soffre di psoriasi eritrodermica di grado severo. Una volta che il complesso sarà liberato dagli ultimi abitanti potranno iniziare i lavori di restauro per la creazione di nuovo centro multifunzione della Caritas diocesana. Secondo il progetto presentato dalla Diocesi di Venezia e affidato alla Caritas, l'immobile Le Muneghette, dopo la radicale trasformazione già prevista, sarà destinato a diventare un luogo di accoglienza delle persone in stato di disagio con la presenza di una decina di piccoli alloggi per nuclei familiari o persone singole che necessitano di essere accompagnate per un periodo di 6-12 mesi. La seconda funzione del complesso sarà quella dell'accoglienza temporanea e d'emergenza per donne in difficoltà. Alle Muneghette troverà spazio anche una sala da pranzo per la refezione, dove sarà dato un pasto ai poveri e a chi è in difficoltà. Infine ci sarà una quarta funzione, del tutto innovativa. Uno spazio servirà, infatti, come foresteria per gruppi, soprattutto parrocchiali, che vorranno fare esperienza di servizio e di formazione a Venezia. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST LA NUOVA Pagg 2 – 3 I presepi della discordia. Soldi a 21 scuole veneziane ed è di nuovo polemica di Laura Berlinghieri L’assessore Donazzan: “Un messaggio bellissimo, anche per i bimbi di altre religioni”. Il sindacalista Giordano: “Un’iniziativa in chiave elettorale, i fondi alla scuola servono per altro” Venezia. Cinquantamila euro, di cui 46 mila da ripartire tra gli istituti vincitori del bando e i rimanenti 4 mila destinati alla scuola polo, individuata nell'educandato statale San Benedetto di Montagnana, nel Padovano. A tanto ammonta la somma stanziata dalla Regione per la realizzazione dei presepi in 178 istituti del Veneto (sui 309 che ne avevano fatto richiesta), tra scuole statali, paritarie e centri di formazione professionale. Alle prime saranno destinati 38 mila euro, alle seconde 6. 750 e ai cfp 1. 250, secondo il numero di studenti ospitato. Nella provincia di Venezia, a beneficiare del contributo saranno 21 istituti statali (5 sono rimasti fuori dalla graduatoria), 2 paritarie e 2 cfp. Dati che faticano a essere letti come semplici numeri, visto il ruolo "altro" ricoperto dal presepe: sempre più "bandiera" di un pensiero ai limiti del politico, oltre che simbolo della natività cristiana. La scuola è in crisi. Lo è sul piano didattico, come rivela l'ultimo studio dell'Ocse, che evidenzia come gli studenti italiani siano sempre più in difficoltà. E lo è per le sue strutture, con edifici vecchi, spesso troppo caldi d'estate e troppo freddi in inverno e strumenti anacronistici nella rivoluzione digitale di questi tempi. Per questo sono in molti a ritenere che la cifra stanziata dalla Regione avrebbe potuto essere destinata ad altro: all'acquisto di materiali, alla modernizzazione delle aule. Senza contare, lamentano alcuni, la non opportunità dell'inserimento di un oggetto della simbologia cristiana in strutture laiche. Anche se, spiega la Regione, la realizzazione del presepe supera persino il muro della religiosità. «Questa iniziativa si pone la finalità di promuovere nelle scuole di ogni ordine e grado il presepe, secondo la tradizione storica e culturale propria del nostro territorio - si legge nel decreto regionale -, valorizzare la natura di simbolo non solo religioso, ma anche quale parte integrante della storia e della tradizione culturale e artistica italiana, che rappresenta la famiglia, la concordia, la maternità e che richiama valori di pacificazione e speranza nel futuro». La questione si ripresenta puntuale a ogni Natale. Il caso più recente è quello della primaria Marco Polo di Zerman, a Mogliano: "niente presepe" , la decisione degli insegnanti. Una notizia che ha fatto il giro della Penisola, stigmatizzata non solo dal sindaco di Mogliano Bortolato e dall'assessora Donazzan, ma persino dal leader della Lega Matteo Salvini. Poi tutto è rientrato, con la decisione della dirigente della scuola di regalare lei stessa il presepe ai bambini. Intanto, lontano dalle polemiche, i ragazzi lavorano per la costruzione delle statuine. A ciascuna scuola sarà consegnato un contributo di 250 euro. Per le scuole del Veneziano, quindi, la somma totale ammonta a 6.250 euro. Tra le beneficiarie, la

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secondaria di primo grado Giulio Cesare, in via Cappuccina. Con i suoi 930 studenti, di cui 600 stranieri, capofila dell'istituto comprensivo più multietnico della provincia.Come ogni anno, Francesca Geraci, docente di educazione artistica, ha chiesto ai ragazzi di preparare le statuine del presepe, che nei prossimi giorni sarà allestito all'ingresso: i 250 euro della Regione sono stati spesi per l'acquisto del materiale. «Lo abbiamo sempre fatto, per noi è assolutamente normale e nessun genitore si è mai lamentato. Anzi, per noi è un fattore aggregativo, visto che i Re Magi provenivano dall'Oriente» spiega la dirigente Michela Manente. «Giusto l'altro giorno parlavo con la mamma di un bambino straniero, che mi confermava che ormai il 25 dicembre anche per loro è Natale. I loro bambini aspettano Babbo Natale, proprio come quelli italiani». I ragazzi della Giulio Cesare provengono da tutti i continenti: dalla Cina, chi dal Bangladesh, dall'India e chi dall'est Europa. Per la maggior parte si tratta di stranieri di seconda generazione: il cognome può essere Wang, Popescu o Kumar, ma poi i nomi sono Davide, Mattia, Eleonora. Insomma, sono italiani a tutti gli effetti. «A questa età, i ragazzi vogliono mescolarsi senza distinzioni» spiega ancora la dirigente. «È possibile che più avanti desidereranno riconnettersi con la propria cultura. Ma sono italiani a tutti gli effetti». Tra i sostenitori del finanziamento regionale per l'allestimento dei presepi nelle scuole c'è ovviamente l'assessora all'istruzione Elena Donazzan. Rivendica la decisione presa dal Consiglio regionale, criticando con veemenza i docenti della primaria Marco Polo di Mogliano che avevano messo il veto sull'allestimento del presepe: decisione che pur aveva trovato concorde il vescovo di Treviso Michele Tomasi. Perché Sì al presepe nelle scuole? «Perché è un messaggio bellissimo. I bambini sono felici di realizzare il presepe e sono felici di comunicarlo alla Regione. La cifra di 250 euro è quasi simbolica». Sono 50 mila euro: potevano essere investiti nell'edilizia scolastica... «Certo, anche 100 mila, 200 mila, un milione: se solo li avessimo». Cinquantamila, però, li avevate e li avete investiti per finanziare i presepi. «È stata una decisione del Consiglio regionale. La maggioranza è di centrodestra e noi questo facciamo». In una Regione multietnica come il Veneto, non pensa che il presepe possa essere divisivo?«Le uniche polemiche sono arrivate dagli insegnanti della scuola di Mogliano: professori che evidentemente hanno avuto un'infanzia allucinante. Ma se queste persone, sono state dei bambini tristi e per questo hanno dei problemii, non vedo perché debbano rendere tristi anche i loro studenti». Che funzione ha il presepe per un bambino non cristiano? «Come facciamo a spiegare a un bambino del Bangladesh perché a dicembre farà una lunga vacanza, se non spieghiamo che è la gioia dello stare in famiglia? Una gioia che deriva dalla nascita di Gesù. Perché qui siamo in Europa, in Italia, in Veneto dove, da sempre, la scansione temporale della vita civile e personale è fatta di cristianesimo. Una volta che un bambino straniero avrà fatto il presepe a scuola, chiederà di farlo anche a casa sua». Ma sono bambini di altre religioni. Se portassero le loro tradizioni a scuola, sarebbe d'accordo? «A casa loro, che facciano quello che vogliono. Ma a casa mia il presepe ha un capanna, un bue e un asinello. Dipende da cosa intendiamo per integrazione. È giusto riconoscere che i bambini stranieri abbiano le loro storie e conoscerle è util, ma ègiusto che chi viene a vivere in Italia capisca quali sono le nostre tradizioni e la nostra cultura». Una critica al finanziamento regionale e una critica all'idea stessa dell'allestimento del presepe nelle scuole pubbliche. È la posizione espressa da Daniele Giordano, segretario generale di Fp Cgil regionale, che non riesce a non vedere un disegno politico - meglio: elettorale - dietro al contributo della Regione per i presepi nelle scuole del Veneto. Perché non vuol il presepe nelle scuole? «Perché una scuola dovrebbe essere laica. Non ho nulla contro il presepe in sé, ovviamente, ma è giusto che ognuno viva il Natale come crede, nell'intimità della propria casa, senza la necessità di ostentare il proprio credo. Io stesso provengo da una famiglia in cui il presepe è sempre stato fatto. Chi si riconosce nella simbologia cristiana deve essere libero di fare il presepe a casa propria, ma non nella scuola pubblica, scontrandosi con le libertà degli altri. In questa situazione, è la cornice a essere sbagliata, non l'oggetto. E non trovo opportuno che le scuole siano costrette a rincorrere la Regione per ottenere una mancia». Che cosa intende? «Questo finanziamento mi sembra una "marchetta" per la campagna elettorale in vista delle prossime elezioni regionali, più che un finanziamento alla scuola pubblica, che certo ha ben altri problemi». Ritiene che fosse più opportuno investire i soldi diversamente? «Alle

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scuole pubbliche servono tante cose, ma non certo i presepi. Intanto, risorse per i materiali e per gli strumenti scolastici. Ci sono istituti del Veneto in cui mancano i pennarelli o persino la carta igienica nei bagni. In queste situazioni limite, il presepe non è certo la priorità. Bisogna investire sulla scuola pubblica. Lo dimostra anche il recente rapporto Ocse, che è un campanello di allarme che ci dice che dobbiamo essere più attenti agli studenti, che dobbiamo difendere l'alto valore della nostra scuola pubblica». Tornando al presepe: se non fosse finanziato dalla Regione, lo ammetterebbe nelle scuole? «Non sono contrario, ma penso che la decisione dovrebbe essere presa dal consiglio di istituto con i genitori. Soprattutto nelle grandi città, la presenza di studenti di altri Paesi e di altre religioni è alta ed è giusto che ci sia un confronto. La scuola dovrebbe essere un luogo di inclusione». CORRIERE DEL VENETO Pag 5 Il sacerdote venetista scrive al prefetto: “Ci mette a disagio” di Renato Piva Don Floriano: “Accolgo la persona, rifiuto la funzione” Belluno. «Patti chiari e amicizia lunga, si dice...». Don Floriano riassume così il senso della lettera aperta che, giusto l’altro giorno, ha «spedito» al nuovo prefetto di Belluno. «Eccellenza – il testo del parroco di Coi, alta Val di Zoldo -, anche lei è dunque venuto qua... a tenerci sotto gli ordini, le leggi e, non da ultimo, le forze armate che fanno capo a Roma... Come sacerdote le auguro ogni bene; come prete del popolo veneto, le auguro di sentirsi a disagio tra noi o, almeno, di rendersi conto che noi proviamo disagio per la presenza di persone rivestite del suo ruolo». Il «saluto» alla messinese Adriana Cogode, a pochi giorni dall’insediamento nel Bellunese, compare su Baliato dai Coi , «blog istituzionale della comunità morale tra i villaggi di Coi e Col», di cui Floriano Pellegrini, 61 anni, è la prima voce. Una sorta di benvenuto? «Non dei più cortesi», ammette il prete venetista. Il prefetto non ha risposto e nulla dice; don Floriano ribadisce: «Se si vuole andare avanti, bisogna anche cominciare a liberarsi di altre cose...». Il fatto è che per don Pellegrini il potere del prefetto «è legale, ma illegittimo». Lui rincorre un passato in cui la vita del territorio «in Veneto e Friuli, un unicum diviso arbitrariamente, era regolata dalle libere comunità, autonomamente strutturate secondo i propri bisogni». Province, distretti, Comuni, frazioni: realtà con cui si deve far di conto ma che il prete di Coi ritiene imposizioni dall’alto: «Anche Sgorlon (scrittore friulano, scomparso nel 2009, ndr ) parlava di comunità. Le comunità ci salveranno, ma non se intese come unità amministrative. Le persone sono fragili, ecco perché si uniscono. Bisogna stare insieme, formare gruppi: per lo sport, per unire una passione, un lavoro...». Un mondo di comunità grandi e piccole: «Una comunità non è mai piccola. È come una persona, giovane o adulta sempre persona è». Floriano Pellegrini è per le Regole dell’area dolomitica, gestione collettiva del territorio che funziona da secoli; non ama, invece, i prefetti. Resta comunque un prete: «La chiesa apre le porte a tutti e sotto il tetto della chiesa tutti sono uguali. La persona (anche di un prefetto, ndr ) si accoglie, si aiuta e si rispetta ma la funzione...» è altra cosa. Nessun contrasto tra sacerdote e politico? «No». Il credo politico di don Floriano è manifesto. Il 19 ottobre, a Padova, c’era anche lui alla fondazione del Partito dei veneti, unione di una dozzina di gruppi di indipendentisti e autonomisti: «Mi hanno invitato degli amici per benedire la nuova formazione, ma poi non erano neanche tutti d’accordo». Resistenze laiche? Eccesso di autonomismi, fa intendere il don. Gli chiediamo, anche alla luce del suo venetismo spinto, cosa pensi del vicentino don Carmelo Prima, che, martedì scorso, a Bruxelles, ha cercato e trovato Matteo Salvini, per regalargli un’immaginetta della Madonna «di conforto e a protezione dai tanti attacchi» che subisce il capo del Carroccio. «A me non piace fare teatro. Non corro dietro a nessuno, né con santini, né con l’acqua santa. Vado incontro, non contro, e la gente viene. Sono come anime che vengono a ricevere un abbraccio e mi chiedono di pregare. Lo faccio ben volentieri; che importa come si chiamino e cosa pensino? Non credo che un padre spirituale domandi ai figli la carta d’identità o il certificato penale, sia pure dell’anima». Salvini, però, ora insegue il sovranismo: «Ce ne fossero di Salvini! Però non lo appoggio più, politicamente, da quando ha trasformato la Lega in partito nazionale anziché valorizzarla come partito territoriale veneto o veneto-lombardo». Nato a Coi, don Pellegrini deve la fede «alla musica e al canto in chiesa. Vedevo, io piccolino, quegli uomini grandi che appoggiavano

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il cappello e cantavano. Non capivo ma ero rapito. Poi, alle medie, ho collegato melodia e testo: era il Te Deum . É obbligatorio nelle messe solenni: Natale, Pasqua, 31 dicembre. Tante cose, però, sono cambiate. Adesso in chiesa cantano i gruppi, una volta cantava il popolo». Si è sfaldata la comunità... Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Discutere di Europa fa solo bene di Federico Fubini Trattati e politica Nel 1979 tre psicologi di Stanford . Charles Lord, Lee Ross e Mark Lepper . tentarono un esperimento per capire come funziona una comunità divisa. Distribuirono a due gruppi di persone, il primo favorevole e il secondo contrario, una descrizione della pena di morte. Al termine della lettura, i favorevoli erano ancora più radicati nella loro idea e i contrari anche. Questa è la definizione stessa di una società polarizzata: più passa il tempo e più le opinioni contrapposte diventano estreme, al punto che i due schieramenti in conflitto giungono a conclusioni antitetiche di fronte agli stessi fatti. A noi italiani Lord, Ross e Lepper dovrebbero dare da leggere la bozza di riforma del trattato sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes). Come con quel testo sulla pena di morte, dopo averlo letto ne trarremmo conclusioni inconciliabili tra loro. Per alcuni è alto tradimento, raggiro a favore delle banche tedesche, prelievo dai nostri conti «di nascosto» e «nottetempo». Per altri non è praticamente niente: solo un aggiustamento che cambia di poco le regole europee già esistenti e, nel complesso, lo fa soprattutto per migliorarle. Negli ultimi giorni il Corriere ha spiegato in dettaglio in cosa consiste la revisione del Mes e dove in particolare il governo potrebbe cercare di modificarla un po’. Sicuramente non ci sono furti nottetempo e altre favole inventate per risvegliare le paure e alimentare la polemica. Altrettanto certo è che quel trattato sarebbe un po’ diverso, se a scriverlo fosse stata solo l’Italia e non fosse invece un compromesso fra diciannove governi. Resta comunque un accordo utile per le banche e in sé non rappresenta una minaccia per il debito maggiore di prima. C’è però una buona notizia che, dilaniandoci, rischiamo di non vedere. Nel caos, in ritardo, fra falsi d’autore e mezze verità, per la prima volta la democrazia italiana ha un dibattito pubblico accanito su quale sia il nostro interesse in una decisione da prendere a Bruxelles. Per la prima volta si confronta fino in fondo su quale sia il senso di un’istituzione dell’euro. I politici sono costretti a leggere le carte (non sempre...), gli elettori si sforzano di capire problemi di cui non avevano mai sentito parlare. Non era affatto questo l’obiettivo di chi ha scatenato la battaglia sul Mes, ma questo è il risultato. E non è male. Come nota Wolfgang Münchau, un osservatore tedesco dell’area euro, con l’Italia in passato spesso era andata in modo diverso: avevamo firmato tutto e il nostro silenzio non ha fatto bene all’Europa. In realtà negli ultimi trent’anni i governi di Roma avevano accettato molte delle indicazioni che arrivavano dalla Germania per ragioni via via diverse. Dapprima perché l’Europa e il suo vincolo esterno erano rimasti la sola risposta possibile a una società e una politica perse nella corruzione, nel clientelismo e nel debito come tampone di tutte le falle. Più tardi, a crisi ormai deflagrata, firmavamo tutto perché l’equilibrio finanziario del Paese era così precario che nessun ministro italiano si è mai sentito in grado di contrastare le indicazioni di Berlino. Andò così nel negoziato sul Fiscal Compact, un disegno troppo rigido che un’Italia sul ciglio del precipizio non poteva contrastare. Andò così anche sulle norme che colpiscono automaticamente i risparmiatori delle banche in dissesto. In quei casi nel Paese non ci fu alcuna discussione né comprensione della sostanza di ciò a cui ci impegnavamo. Il solo premier che si oppose con forza alla linea tedesca è paradossalmente quello a cui questo coraggio viene riconosciuto meno: Mario Monti, nel giugno del 2012. Per la prima e ultima volta  bloccò un Consiglio europeo in piena notte, fino a quando non ebbe dalla Germania ciò che chiedeva (all’epoca, in piena crisi del debito, l’impegno di principio a uno «scudo» contro la speculazione). Ora il Paese è cambiato. Forse, disordinatamente (come sennò?), sta persino maturando. Non senza rischi, in questa atmosfera da guerra civile fra culture sulla questione europea. Per

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esempio fra gli europeisti italiani è così forte il timore che di ogni loro critica a Bruxelles si impossessino gli antieuropei, che la tentazione dell’autocensura è fortissima. Fra gli anti-europei d’Italia si trovano anche soggetti opachi, indifferenti alla verità, pronti a raccogliere qualunque materiale trovino sulla strada per stravolgerlo e piegarlo alla loro propaganda. Finisce così che gli europeisti italiani a volte tacciono, omettono, chiusi a riccio in una rappresentazione molto tedesca delle scelte di Bruxelles per evitare che qualunque loro dubbio venga strumentalizzato. C’è da capirlo, ma non è di questo che abbiamo bisogno per crescere. Gli italiani oggi sono pronti per un confronto aperto, adulto e soprattutto onesto sul nostro posto in Europa. Non l’abbiamo mai avuto. Non è tardi per provarci. Pag 21 La Consulta boccia la legge anti-moschee: “Limita la libertà di culto” di Luigi Ferrarella Senza il diritto di avere spazi adeguati per poterla concretamente esercitare, la libertà di culto non esiste: e siccome invece è garantita dall’articolo 19 della Costituzione, il legislatore non può fare come gli pare, ma deve tener conto della necessità di non ostacolare l’insediamento di luoghi dove pregare secondo la propria fede. La Consulta ha perciò dichiarato incostituzionale la legge che la Regione Lombardia, all’epoca della presidenza leghista di Roberto Maroni, nel 2015 deliberò sulla localizzazione dei luoghi di culto. Due le norme bocciate dalla sentenza (relatrice Daria De Pretis) che accoglie un ricorso sollevato dal Tar Lombardia (relatrici Floriana Di Mauro e Silvana Bini). Una condizionava l’apertura di qualsiasi nuovo luogo di culto all’esistenza del PAR-Piano per le Attrezzature Religiose: e qui la Consulta affonda l’assolutezza della norma, che a prescindere dal loro impatto urbanistico non faceva differenza tra tutte le nuove attrezzature religiose, e riservava questo trattamento solo ad esse e non anche alle altre opere di urbanizzazione secondaria. La seconda, invece, prevedeva che il PAR potesse essere adottato solo contestualmente al PGT-Piano di Governo del Territorio: il che, dipendendo dalla totale discrezionalità del Comune nel fare o no il PGT, rendeva del tutto incerta e aleatoria la realizzabilità di nuovi luoghi di culto. Esito incostituzionale, per la Consulta, era che così la legge leghista della Lombardia determinasse una forte compressione della libertà religiosa, senza peraltro che a ciò corrispondesse alcun reale interesse di buon governo del territorio. «Non si sente certo il bisogno di un’altra Consulta islamica...», è il sobrio commento del segretario leghista Matteo Salvini, che per il resto o non legge o mostra di non comprendere la sentenza nel momento in cui aggiunge la domanda retorica: «Reciprocità e rispetto delle nostre leggi e regole per aprire moschee e altri luoghi di culto, chiediamo troppo?». E l’attuale presidente leghista della Regione, Attilio Fontana, che è avvocato, dice «non conosco nel dettaglio le motivazioni della Consulta», ma poi si domanda e si risponde: «Era giusto andare avanti, come avveniva in un paese in provincia di Cremona, con locali che di giorno erano macellerie islamiche e di notte moschee abusive? Secondo me, no». LA REPUBBLICA Pag 1 Se la Nato perde il profilo dell’Occidente di Ezio Mauro Testo non disponibile AVVENIRE Pag 5 Droga, una vittima ogni 26 ore di Vincenzo R. Spagnolo Crescono i decessi nel 2018, raddoppiati quelli delle donne. L’allarme per le nuove sostanze sconosciute L’utilizzo di droghe, in Italia, miete quasi una vittima al giorno: 334 nel 2018, 38 in più dell’anno precedente. In media, una ogni 26 ore. Fra i più giovani, sono 660mila gli studenti che hanno fatto uso, nell’ultimo anno, di almeno una sostanza illegale: cannabis in testa (25,6%), ma seguita dalle Nps, le nuove (e micidiali) sostanze psicoattive come il Fentanyl, col 7%. In generale, il costo annuo per la cura e il trattamento delle tossicodipendenze è quantificabile in poco meno di «due miliardi di euro», in base a «una stima sicuramente in difetto», perché non tiene conto delle patologie correlate ai

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comportamenti a rischio legati al consumo, come le malattie infettive (Epatite B e C, Hiv e Aids). Sono alcuni dei dati, non certo rassicuranti, contenuti nella Relazione annuale al Parlamento sul fenomeno delle tossicodipendenze per il 2019, realizzata dal Dipartimento politiche antidroga della Presidenza del consiglio. Lo scorso 29 ottobre, il testo è stato trasmesso alla Camera dei deputati dal ministro per i Rapporti col Parlamento Federico D’Incà e potrebbe essere diffuso in queste ore. Ieri Avvenire ha potuto visionarlo: in 283 pagine, suddivise in sei capitoli, contiene la fotografia più aggiornata (basata su dati consolidati relativi al 2018) del consumo di sostanze, del trattamento sanitario, del contrasto giudiziario e delle attività di prevenzione nel nostro Paese. Cannabis, regina del mercato - Nel 2018, le operazioni antidroga sono state 25.596. E fra i 123.186 chilogrammi di droghe sequestrate, la cannabis resta la sostanza più diffusa, con una «spesa stimata intorno ai 4,4 miliardi di euro l’anno» e «una percentuale di purezza alta» (12% per la marijuana, 17% per l’hashish). Dosi o carichi di “erba” o di “fumo” vengono scoperti nel 58% delle operazioni antidroga e assommano al 96% del totale di sequestrati. Inoltre, l’80% delle segnalazioni di consumo (illecito amministrativo ai sensi del noto articolo 75 del Dpr 309/1990) e il 48% delle denunce alle autorità giudiziarie sono relative ai cannabinoidi (marijuana, hashish e piante di cannabis). Un terzo degli studenti delle superiori ha “fumato” almeno una volta, con una «iniziazione» spesso intorno ai 15-16 anni. Inoltre, sono circa 150mila gli studenti tra i 15 e i 19 anni che potrebbero necessitare di un sostegno clinico. Nps, la nuova minaccia online - Attraverso il web, iniziano ad arrivare in Italia «nuove sostanze psicoattive»: cannabinoidi, catinoni e oppioidi sintetici (come il famigerato Fen- tanyl, responsabile quest’anno negli Usa di 72mila decessi), in genere ordinati su Internet e ricevuti per posta. Sono «oltre 400», si legge a pagine 246, i «siti/ forum/account social molto usati soprattutto dai giovani», come «piattaforme di vendita online», per i quali sono state «avanzate al ministero della Salute, 17 proposte di oscuramento di siti». Le indagini hanno «portato al sequestro di quasi 80 kg e 27mila dosi di sostanze sintetiche». E nel solo 2018, 5 decreti del ministero della Salute hanno inserito 49 nuove droghe nelle tabelle delle sostanze illegali. E il «Sistema nazionale d’allerta precoce» (Snap) «permette di identificare in tempi sempre più ridotti nuove sostanze in circolazione»: 39 nuove molecole scoperte nel 2018 (soprattutto catinoni sintetici e triptamine), in 15 casi con esami su persone «giunte in pronto soccorso per intossicazioni acute». Coca e incidenti stradali .- Il mercato della “neve” è stabile ma fiorente, con una spesa stimata di «6,5 miliardi». Dopo la cannabis resta «la sostanza maggiormente consumata dai poliutilizzatori» e uno «dei pericoli sociali di maggiore rilevanza », per gli incidenti stradali dovuti al suo abuso. Quella in circolazione adesso è più pura: dal 33% di principio attivo del 2016 è passata al 68% nell’ultimo biennio, con ricoveri e casi di decesso cresciuti rispettivamente del 38% e 21%. Eroina per quindicenni - Sul fronte degli oppiacei, i dati mostrano una crescita: nel 2018, una tonnellata di eroina è stata sequestrata dalle forze dell’ordine; il principio attivo è del 18%, più alto che in passato; sale il prezzo di spaccio e raddoppiano le denunce per traffico. Ne fanno uso 6 persone ogni mille. Soprattutto, ed è l’aspetto più allarmante, «l’aumento della disponibilità di eroina » si accompagna alla crescita della percentuale dei giovani fra 15 e 19 anni, che l’hanno provata almeno una volta: «Dall’1,1 all’1,5%». Decessi e ricoveri d’urgenza - Di droga si muore di più di prima: «Si è verificato un incremento dei decessi direttamente droga-correlati», passati «dai 296 casi del 2017 a 334 nel 2018». Una vittima ogni 26 ore, per intendersi. Con un inquietante raddoppio («+92%») dei decessi fra «le donne over 40». In generale, s’incrementa il numero delle persone «in trattamento» per l’uso di stupefacenti (con un 14% di «nuovi utenti») per un totale di 133.060 (88% uomini, dipendenti soprattutto da eroina e coca). Ma se i 568 servizi pubblici per le dipendenze e le 839 strutture socioriabilitative censite (su 908 presenti) notano un «invecchiamento della propria utenza», sono i dati sui ricoveri a indicare come molti assuntori non siano consapevoli dei rischi. In un anno, infatti, sono state 7.452 persone finite in ospedale, più di 20 al giorno. E «più della metà di tali diagnosi fa riferimento a sostanze miste o non conosciute», col sospetto che sia la punta dell’iceberg di una «popolazione insorgente di utilizzatori di sostanze sintetiche e Nps, in maggioranza giovani».

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Il dramma delle carceri - Secondo la relazione, sale la cifra dei «soggetti segnalati per detenzione di sostanze per uso personale» (cannabis in 8 casi su 10). Resta invece stabile il numero dei denunciati alla magistratura per traffico, spaccio e altri reati; 35.745 persone, con aumento degli over 35 e delle donne. Il narcomercato genera «conseguenze nell’ambito penitenziario»: la popolazione carceraria «è costituita per un terzo da detenuti» per reati collegati alle droghe e «per un quarto da soggetti tossicodipendenti» in cura. Prevenzione nelle scuole - Il Dipartimento politiche antidroga ha siglato un accordo con la direzione generale per lo studente del Miur e ha promosso progetti e convenzioni (circa 70) con università ed enti non profit. «Gli interventi di prevenzione – osservano gli esperti del Dpa – rivestono un ruolo fondamentale, in particolar modo in ambito scolastico» per «identificare tempestivamente i comportamenti a rischio e le condizioni di vulnerabilità » dei ragazzi. IL FOGLIO Pag 1 I cristiani in Africa li chiamano “i bianchi” di Giulio Meotti Roma. "I cadaveri mutilati delle donne. Quest'uomo a cui viene chiesto di abiurare la fede e che viene fatto a pezzi con un machete. Questa bambina strangolata con la catenina della croce. Quest'altro, frantumato contro un albero. E ogni volta, questa banalità di un male di cui loro stessi non capiscono come sia stato in grado di impadronirsi di pastori che, dopo tutto, sono dannati di questa terra. E il richiamo delle moschee radicalizzate dei Fratelli musulmani, che si moltiplicano nella misura esatta in cui bruciano le chiese". E' un pezzo dell' inchiesta drammatica di Bernard-Henri Lévy pubblicata ieri su Paris Match e dedicata ai cristiani nigeriani. Il filosofo parla di "metodica pulizia etnica e religiosa". L'odio è viscerale. "Ci sono 'troppi cristiani a Lagos', ringhia Abdallah, il più loquace e minaccioso. 'I cristiani sono cani e figli di cani. Tu dici cristiani. Ma, per noi, sono traditori. Hanno assunto la religione dei bianchi. Non c'è posto qui per gli amici dei bianchi, questi impuri. Il venditore di cartoline mi offre ritratti di Erdogan e Bin Laden e dice che i cristiani alla fine se ne andranno e che la Nigeria, quindi, ad Allah piacendo, sarà libera". Bernard-Henri Lévy paragona la situazione dei cristiani nigeriani a quanto è successo in Darfur "o anche prima, in Ruanda, in quei giorni della primavera del 1994, quando nessuno voleva credere che il quarto genocidio del XX secolo fosse in corso. La storia si ripeterà in Nigeria? E resteremo seduti pigramente mentre l' internazionale islamista, contenuta in Asia, combattuta in Europa, sconfitta in Siria e in Iraq, apre un nuovo fronte su questa immensa terra dove i figli di Abramo hanno convissuto a lungo? Questo è il significato di 'SOS cristiani in Nigeria' che lancio qui oggi". Bernard-Henri Lévy non è il solo umanitarista appena tornato dal più grande paese africano. C'è appena stata anche la Baronessa Caroline Cox, che denuncia una politica di islamizzazione all' insegna del motto "la tua terra o il tuo sangue". "Ho visitato molte delle aree colpite e ho visto le tragedie della morte e della distruzione. Un sopravvissuto mi ha detto: 'I Fulani hanno attaccato con un machete. Ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliato, ho visto mia figlia a terra. Era morta, con il mio dito tagliato in bocca'". Si stima che oltre mille cristiani siano stati uccisi soltanto da gennaio a oggi e che quasi due milioni di persone siano state sfollate internamente in Nigeria, in gran parte a causa degli attacchi di estremisti islamici come Boko Haram e i Fulani. Nel 2018 i cristiani uccisi per la propria fede nel mondo, secondo Open Doors, sono stati 4.305. Di questi, 3.731 sono stati uccisi in Nigeria. "Quasi ogni giorno, mi sveglio con messaggi dagli amici in Nigeria, come questo di oggi: 'I pastori hanno pugnalato a morte un contadino Ogan'", ha detto l'avvocato per i diritti umani Ann Buwalda. I media ne parlano spesso come di un conflitto economico e sociale. Ma come ha recentemente spiegato suor Monica Chikwe, "è difficile dire ai cristiani nigeriani che questo non è un conflitto religioso poiché ciò che vedono sono combattenti Fulani vestiti interamente di nero, che cantano 'Allahu akbar!' e che urlano 'morte ai cristiani'". E il mattatoio ha esondato nei paesi vicini alla Nigeria. In Burkina Faso, nei giorni scorsi, estremisti islamici hanno ucciso quattordici persone dentro a una chiesa protestante (molti i bambini fra i morti). Sono nere le vittime e i carnefici, ma gli islamisti chiamano i cristiani così, "i bianchi", portano i segni di una fede più ancestrale dell' islam in terra

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africana, ma considerata come estranea e quindi da eliminare. Sono i figli di un dio minore. IL GAZZETTINO Pag 1 Giustizia, compromesso con troppe ambiguità di Carlo Nordio Pare che il governo, e la legislatura, non cadranno a causa del conflitto emerso nella maggioranza sulla legge che sospende la prescrizione. La politica è l'arte del possibile e anche dell'impossibile, e nulla impedisce che le parti invertano i ruoli e si confondano in una ennesima transazione compromissoria, arbitrata da un premier che si è sempre definito soprattutto un avvocato. Sappiamo che le parti si sono avvicinate e che un compromesso è all'orizzonte sulla riforma del processo breve. I grillini insistono sull'entrata in vigore immediata; i democratici la subordinano all'approvazione di una riforma del processo penale; i renziani, consapevoli che questa riforma è di là da venire, si dicono pronti a votare con l'opposizione per un rinvio. Qualcuno può anche pensare, e molti lo pensano, che il dissenso della vigilia occulti un più generale sfaldamento della maggioranza, nel cui ambito si affronterebbero due forze: l'una decisa a stare al proprio posto per il bene del paese o, come insinuano i maligni, per salvare la poltrona; l'altra convinta che la corda, ormai troppo tirata, si debba spezzare, per non arrivare logorati alle prossime elezioni regionali e comunque per non assecondare un inarrestabile declino lasciando il posto a nuove formazioni più o meno spontanee. Non intendiamo attribuirci funzioni oracolari davanti all'enigma avvolto in un indovinello dentro un mistero che è oggi la nostra direzione politica. Ma ci preme sottolineare che, ancora una volta, il contrasto più dirimente si è acceso sulla giustizia. Ma mentre un tempo gli schieramenti erano, sia pur grossolanamente, identificabili e definibili, oggi il tradizionale binomio tra la sinistra giustizialista e la destra del Cavaliere, può dirsi sfumato. Ne è esempio lo stesso ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, che, pur nella sua concezione essenzialmente giacobina, ha proposto il sorteggio dei membri del Csm, tesi che i magistrati respingono con orrore e che a suo tempo è stata sostenuta da varie formazioni garantiste. D'altro canto, contro questa mostruosità della prescrizione si sono pronunciati illustrissimi giuristi mai sospettati, né sospettabili, di simpatie berlusconiane. Tutto questo avviene mentre la credibilità della nostra Giustizia è caduta a livelli algebrici: lo Stato non riesce a recuperare i miliardi delle multe irrogate ai condannati; inchieste lunghe e costose si concludono con generalizzate archiviazioni; il destino della più grande acciaieria italiana è ipotecato da due inchieste giudiziarie virtualmente incompatibili, con la prospettiva bizzarra che la soluzione venga demandata al tribunale civile; Renzi, e non solo, lui, guarda perplesso a centinaia di perquisizioni presso terzi non indagati; mentre tutti aspettano l'esito dell'inchiesta che ha decapitato il Csm, e che dopo le fulminanti rivelazioni sul giudice Palamara si è assopita in un limbo insondabile. In questo deplorevole sfacelo, che tra l'altro ci costa quasi due punti di Pil, raziocinio vorrebbe che la politica si attivasse ad abbreviare i processi penali e civili, render più certe le sanzioni, evitare le inchieste evanescenti e le intercettazioni invasive, modificare la carcerazione preventiva, eliminare i reati inutili, cambiare un codice penale firmato da Mussolini, e tante altre cose, per coniugare le garanzie degli imputati con quelle delle vittime. Ecco invece che si impantana in una questione che per coscienza civica e vincolo costituzionale dovrebbe essere semplicemente rimossa: perché, ripetiamolo, con questa riforma sulla prescrizione, i processi si allungheranno all'infinito. Ben più grave di questa conseguenza devastante, è comunque l'atteggiamento ondivago del governo. Il premier Conte e il ministro Bonafede avevano solennemente promesso che questa riforma sarebbe stata contestualmente accompagnata da quella volta a ridurre i tempi processuali, mentre ora pare viaggiare da sola. Mancare alla parola data, non è una bella cosa, neanche nello spregiudicato anfiteatro della politica. Prendiamo dunque per buona l'intenzione del compromesso che arriverebbe a consegnare entro l'anno un impegno solenne che accompagni la prescrizione lunga al processo breve. Di sicuro, se realizzata, sarebbe un segno di ravvedimento. Che poi sia dettata più dall'istinto di sopravvivere dei governanti o da un soprassalto garantista del Pd, poco importa. L'importante è che sia messa nero su bianco. E che metta al riparo i cittadini dal terribile rischio di una doppia mannaia.

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LA NUOVA Pag 5 La rigidità eccessiva e controproducente dell’Ue sul Mes di Maurizio Mistri Doccia gelata sul governo italiano da parte dell'Ue che intende varare la nuova versione del Fondo salva Stati, chiamato Mes. Ora il governo italiano deve studiare possibili strategie di risposta, tra le quali ci potrebbe essere anche il ricorso al veto. Tuttavia, non credo che una simile arma avrebbe effetti positivi per una economia, come quella italiana, esposta ai venti dei mercati finanziari. L'accelerazione che l'Ue vuole imporre alla approvazione del Mes mi pare che tenda a mettere l'Italia con le spalle al muro; quindi non è un buon metodo negoziale. Luigi Einaudi diceva "conoscere per deliberare", una frase breve ma ricca di saggezza. Tra i difetti che si possono trovare nelle procedure dell'Ue sta quello di pensare che armonizzando tra loro le regolamentazioni nazionali si massimizzino i risultati derivanti dall'integrazione europea. È un'idea sbagliata perché evidenti sono le differenze tra le strutture economiche, nonché le culture di politica economica, dei diversi paesi membri dell'Ue. Ne deriva che applicando regole rigide a realtà diverse c'è il rischio che si accrescano le asimmetrie tra tali realtà. Occorre prudenza nell'accettare impegni che nel tempo rischiano di divenire vincolanti perché solo attraverso una conoscenza chiara della natura e delle conseguenze di tali impegni è possibile metabolizzare quanto di meglio ci può offrire un modello di interazione europea che, purtuttavia, è lontano dall'essere un modello federalista. In una certa misura una chiave esplicativa per comprendere come dovrebbe essere il metodo di lavoro dell'Ue può essere trovata nel libro del premio Nobel per l'economia Thomas Schelling, La Strategia del Conflitto, da tempo anche in versione italiana. Schelling sostiene che vi sono situazioni nelle quali alcuni paesi vivono reciproche esperienze conflittuali, ma che tali paesi possono superare la fase conflittuale rinvenendo motivi per una cooperazione. Dopo la seconda guerra mondiale i paesi dell'Europa occidentale sembravano orientati a continuare una sorta di guerra trovando, ma sono riusciti a dar vita a processi di cooperazione economica. Processi sintetizzabili nella Ceca, poi nel Mec ed oggi nell'Ue. Processi che rappresentano un modo diverso di condurre un conflitto, comunque latente, per l'egemonia in Europa. Un modo che si è tradotto in regole che, tuttavia, non sono neutre rispetto ai guadagni e le perdite che ogni paese potrebbe trarre. Schelling spiega con chiarezza come quelle tensioni che si determinano tra paesi che pur cooperano, allorquando qualcuno di essi ritenga che i risultati di nuove regole non sono equi possono trovare una garanzia nella scomposizione di un processo negoziale in più sotto-processi negoziali secondo una sequenza temporale.A volte rinviare una decisione ad una fase successiva può consentire di valutare gli effetti delle decisioni prese nella prima fase, introducendo correttivi. Così, ritengo che sarebbe stato opportuno dividere l'intero processo negoziale sul Mes in una sequenza di sotto-processi. Torna al sommario