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RASSEGNA STAMPA di venerdì 4 marzo 2016 SOMMARIO “Ci sono anche cristiani tra i sudditi della galassia jihadista che ancora contende un bel pezzo di Siria al governo di Damasco e ai suoi alleati russi e sciiti - scrive oggi Gianni Valente sul portale Vatican Insider -. Sono pochi, poveri, anziani e malmessi, ma ce ne sono. E al loro fianco ci sono i Francescani della Custodia di Terrasanta, che proprio nelle ultime settimane hanno rinnovato la scelta di non abbandonare quel piccolo resto di uomini e donne che portano il nome di Cristo nelle terre in mano ai miliziani islamisti. Succede a Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh, i paesini della Valle dell’Oronte, dove circa quattrocento battezzati continuano a vivere, pregare e partecipare alle messe celebrate nelle tre parrocchie cattoliche spogliate delle campane, delle croci e delle statue dei santi. Sono gli ultimi rimasti, quelli che non sono riusciti ad andar via perché non avevano i mezzi o l’età per scappare altrove. E i due frati che stanno con loro sono gli unici sacerdoti e religiosi cristiani rimasti nelle terre dove dettano legge le corti islamiche imposte dalle milizie jihadiste. Negli ultimi tempi, anche i figli di San Francesco si sono chiesti se fosse ancora possibile e giusto rimanere, esponendosi ai nuovi rischi di violenze e ritorsioni, divenuti ancor più incombenti nella fase incerta in cui è entrato il conflitto siriano. A porre la questione in termini brutali e non più aggirabili per la Custodia francescana è stato l’ennesimo sequestro di Dhiya Azziz, il frate iracheno quarantenne che guidava la parrocchia di Yacoubieh. Una detenzione durata 12 giorni, conclusasi con una liberazione annunciata dalla Custodia lo scorso 4 gennaio senza ulteriori dettagli. La vicenda ha riproposto ai frati della Custodia un interrogativo cruciale: è bene ed opportuno restare nelle parrocchie dei villaggi siriani sotto il controllo delle forze islamiste avversarie del governo di Damasco, anche se il numero dei cristiani locali continua a scemare perché molti se ne vanno? O è meglio ripiegare in attesa di tempi migliori? Lo stesso Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, ha chiamato tutti i frati della Custodia a farsi carico della sofferta decisione, chiedendo loro consiglio sulla scelta da prendere. Nelle settimane successive, tanti frati hanno fatto riferito a voce o in forma scritta le loro considerazioni a padre Pizzaballa, che in un messaggio riportato anche dal sito Terrasanta.net ha raccontato l’esito del discernimento comunitario: «Le vostre opinioni» riferisce il Custode nel messaggio rivolto ai suoi confratelli «sono state di grande aiuto e hanno reso meno faticosa la decisione da prendere… Nella quasi totalità avete espresso con chiarezza il parere che sia doveroso restare nei villaggi, senza considerazione per il numero dei parrocchiani, e nonostante il pericolo». Poi, Pizzaballa aggiunge considerazioni che lasciano intravedere da dove attinge forza tale scelta, così intimamente connaturale al carisma dei figli di San Francesco: «La Custodia – soggiunge – non ha mai abbandonato i luoghi e la popolazione che la Chiesa le ha affidato, anche a rischio di pericolo. Non pochi tra i nostri martiri, anche nel periodo recente, sono morti in circostanze non troppo dissimili dalla situazione attuale. Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo». Con questo spirito, il Custode di Terra Santa annuncia che a Yacoubieh, al posto di fra Dhiya, è arrivato da Betlemme Louay Bhsarat, il giovane frate giordano che aveva dato la sua disponibilità ad andare in Siria «fin dall’inizio della guerra». Nella vicenda delle piccole comunità cristiane dell’Oronte custodite dai Francescani si coglie l’ordito più intimo e prezioso dell’esperienza martiriale vissuta da tante comunità cristiane nella Siria martoriata dalla guerra. Già nel 2011 quell’area nel nord-ovest siriano era caduta sotto il controllo dei ribelli anti-Assad: prima i tagliagole dello Stato Islamico, e poi i quaidisti di Jabhat al-Nusra. A quel tempo, molte cancellerie occidentali esaltavano la rivolta contro il regime di Damasco, e in Occidente i cristiani siriani venivano accusati di essere quinte colonne degli apparati di Assad. Quando in quel lembo di Siria erano

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RASSEGNA STAMPA di venerdì 4 marzo 2016

SOMMARIO

“Ci sono anche cristiani tra i sudditi della galassia jihadista che ancora contende un bel pezzo di Siria al governo di Damasco e ai suoi alleati russi e sciiti - scrive oggi

Gianni Valente sul portale Vatican Insider -. Sono pochi, poveri, anziani e malmessi, ma ce ne sono. E al loro fianco ci sono i Francescani della Custodia di Terrasanta, che proprio nelle ultime settimane hanno rinnovato la scelta di non abbandonare quel piccolo resto di uomini e donne che portano il nome di Cristo nelle terre in mano ai miliziani islamisti. Succede a Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh, i paesini della Valle dell’Oronte, dove circa quattrocento battezzati continuano a vivere, pregare e partecipare alle messe celebrate nelle tre parrocchie cattoliche spogliate delle

campane, delle croci e delle statue dei santi. Sono gli ultimi rimasti, quelli che non sono riusciti ad andar via perché non avevano i mezzi o l’età per scappare altrove. E i due frati che stanno con loro sono gli unici sacerdoti e religiosi cristiani rimasti nelle terre dove dettano legge le corti islamiche imposte dalle milizie jihadiste. Negli ultimi tempi, anche i figli di San Francesco si sono chiesti se fosse ancora possibile e giusto rimanere, esponendosi ai nuovi rischi di violenze e ritorsioni, divenuti ancor più

incombenti nella fase incerta in cui è entrato il conflitto siriano. A porre la questione in termini brutali e non più aggirabili per la Custodia francescana è stato l’ennesimo sequestro di Dhiya Azziz, il frate iracheno quarantenne che guidava la parrocchia di

Yacoubieh. Una detenzione durata 12 giorni, conclusasi con una liberazione annunciata dalla Custodia lo scorso 4 gennaio senza ulteriori dettagli. La vicenda ha riproposto ai frati della Custodia un interrogativo cruciale: è bene ed opportuno restare nelle parrocchie dei villaggi siriani sotto il controllo delle forze islamiste

avversarie del governo di Damasco, anche se il numero dei cristiani locali continua a scemare perché molti se ne vanno? O è meglio ripiegare in attesa di tempi migliori? Lo stesso Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, ha chiamato tutti i frati della Custodia a farsi carico della sofferta decisione, chiedendo loro consiglio sulla

scelta da prendere. Nelle settimane successive, tanti frati hanno fatto riferito a voce o in forma scritta le loro considerazioni a padre Pizzaballa, che in un messaggio riportato anche dal sito Terrasanta.net ha raccontato l’esito del discernimento

comunitario: «Le vostre opinioni» riferisce il Custode nel messaggio rivolto ai suoi confratelli «sono state di grande aiuto e hanno reso meno faticosa la decisione da

prendere… Nella quasi totalità avete espresso con chiarezza il parere che sia doveroso restare nei villaggi, senza considerazione per il numero dei parrocchiani, e nonostante il pericolo». Poi, Pizzaballa aggiunge considerazioni che lasciano

intravedere da dove attinge forza tale scelta, così intimamente connaturale al carisma dei figli di San Francesco: «La Custodia – soggiunge – non ha mai abbandonato i luoghi e la popolazione che la Chiesa le ha affidato, anche a rischio di pericolo. Non pochi tra

i nostri martiri, anche nel periodo recente, sono morti in circostanze non troppo dissimili dalla situazione attuale. Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un

pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo». Con questo spirito, il Custode di Terra Santa annuncia che a Yacoubieh, al posto di fra Dhiya, è arrivato da Betlemme Louay Bhsarat, il giovane frate giordano che aveva dato la sua disponibilità ad andare in Siria «fin dall’inizio della guerra». Nella vicenda delle

piccole comunità cristiane dell’Oronte custodite dai Francescani si coglie l’ordito più intimo e prezioso dell’esperienza martiriale vissuta da tante comunità cristiane nella Siria martoriata dalla guerra. Già nel 2011 quell’area nel nord-ovest siriano era caduta sotto il controllo dei ribelli anti-Assad: prima i tagliagole dello Stato Islamico, e poi i quaidisti di Jabhat al-Nusra. A quel tempo, molte cancellerie occidentali esaltavano la rivolta contro il regime di Damasco, e in Occidente i cristiani siriani venivano accusati di essere quinte colonne degli apparati di Assad. Quando in quel lembo di Siria erano

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arrivati i ribelli, alcuni cristiani e un prete ortodosso erano dovuti fuggire, perché era nota la loro vicinanza con i governativi. I Francescani, invece, erano rimasti con i loro

parrocchiani, e non erano stati espulsi. Non per una scelta di campo a favore dei nuovi arrivati. Ma solo perché, nella loro inermità, non ostentavano nessuna militanza

o contiguità con fazioni politiche. E fino a quel momento si erano solo limitati a rispettare l’ordine costituito. Sotto il dominio jihadista, i cristiani dei tre paesini sull’Oronte hanno dovuto cancellare ogni visibilità pubblica della vita ecclesiale: niente campane, niente processioni, niente croci sulle chiese, niente statue della Madonna o dei santi esposte all’aria aperta. Nell’autunno 2014 anche padre Hanna Jallouf, il parroco di Knayeh, era stato posto in stato di detenzione dai jihadisti insieme ad alcuni giovani della parrocchia. Era accaduto dopo che il religioso

francescano si era recato di persona al Tribunale islamico della zona, dove aveva provato a denunciare i crescenti soprusi perpetrati dalle brigate di islamisti ai danni del convento. Col suo gesto, padre Hanna aveva provato a verificare se davvero il «nuovo ordine» imposto dai jihadisti poteva garantire i diritti limitati di un suddito

cristiano, come prescriverebbe la Sharia, anche nelle sue interpretazioni più rigoriste. E la rappresaglia subita da lui e dai suoi parrocchiani bastava da sola a smascherare le

parole d’ordine del marketing islamista. In questi anni, nei giochi delle opposte propagande, i cristiani siriani sono stati denigrati o blanditi, maltrattati ed esposti come trofei. Circoli d’Occidente, dove prima venivano insultati, vorrebbero ora etichettarli addirittura come vittime di un inesistente «Genocidio», magari per

giustificare in loro nome qualche operazione militare. Mentre anche Assad, dal canto suo, continua a coltivare l’immagine del leader arabo «amico dei cristiani». Nella loro

fragilità disarmata, i Francescani della Custodia e i loro amici hanno mostrato al mondo che si può sempre provare a vivere da cristiani sotto chi comanda pro

tempore, chiunque sia. Anche se sono quelli del Califfato Islamico. E la loro inerme perseveranza potrà aiutare a custodire chi rimane anche nel futuro, qualsiasi sia il

futuro della Siria” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I Francescani: non lasciamo le terre occupate dai jihadisti di Gianni Valente Ci sono ancora centinaia di cristiani in un angolo di Siria dove dettano legge i miliziani islamisti. E i frati della Custodia hanno scelto di rimanere con loro. Pizzaballa: «Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo» L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Il Papa e i pesci rosa di Jean Pierre Denis Incontro con un gruppo del cristianesimo sociale francese Pag 8 Valore da proteggere Alla Pontificia accademia per la vita Francesco sottolinea la centralità dell’uomo anche in ambito scientifico AVVENIRE Pag 23 Il Papa penitente e confessore di Mimmo Muolo e Stefania Careddu Il sacramento del Perdono al centro di “24 ore per il Signore”. Il bresciano don Mori: “In confessionale mi sento davvero prete” Pag 23 Mestre. Il libro-intervista del Pontefice presentato da Tornielli, Moraglia, Tarquinio, Olivero e Koll Pag 24 Abusi, Pell incontra le vittime: “Troppo anche un solo suicidio” di Gianni Cardinale

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L’impegno a cooperare coi sopravvissuti CORRIERE DELLA SERA Pag 21 La resa di Pell sugli abusi: “Avrei dovuto fare di più” di Gian Guido Vecchi Il cardinale per 20 ore davanti ai commissari. Poi incontra le vittime LA REPUBBLICA Pag 23 Abusi, il cardinale Pell incontra le vittime: “Sono addolorato” di Paolo Rodari Roma, otto rifiutano il faccia a faccia IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Il patriarca sul libro del Papa Stasera in Duomo LA NUOVA Pag 37 Il Papa racconta la misericordia di Dio alle anime perse di don Marco Pozza In una conversazione con il vaticanista Andrea Tornielli Bergoglio ribadisce la volontà di non abbandonare nessuno IL METROPOLITANO Anno Santo, Anno di Misericordia di Alvise Sperandio Il Giubileo straordinario nelle Diocesi metropolitane e venete: tra arrivo dei turisti e grande partecipazione dei fedeli 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Narcisismo di massa di Paolo Di Stefano Condividiamo ogni esperienza, anche banale, e misuriamo la soddisfazione in “like”. Ecco perché il digitale ci rende autoreferenziali AVVENIRE Pag 21 “Leggere le email di notte? Una delle nuove dipendenze” di Andrea Lavazza 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “Mose, i lavori non sono stati fatti bene ma rispetteremo la scadenza del 2018” di Alberto Zorzi Magistro: a Mazzacurati non daremo più nulla. Chiesti 60 milioni alle imprese LA NUOVA Pag 22 Tempio Votivo, restauri a rischio per la burocrazia di Simone Bianchi Manca l’accordo tra l’Esercito e la Curia. Il progetto fermo in Soprintendenza, in bilico 1,6 milioni di fondi Pag 23 Migranti, sì a 559 posti sui 1778 necessari di Francesco Furlan Poche adesioni al bando della Prefettura. E alcune realtà che lavorano con i profughi hanno deciso di non partecipare. I sindaci contestano la mancanza di decisione e chiarezza di Roma e Bruxelles IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Migranti, poche adesioni al bando di Paolo Navarro Dina e Gabriele Pipia

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Scarse offerte d’accoglienza nei comuni della provincia: trovati 559 posti su un totale di 1.788. Il fronte dei sindaci Pag XXI Caorle: scuola materna in difficoltà, avviata una raccolta di fondi di Riccardo Coppo 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Pietro e il passato che torna di Massimiliano Melilli Maso e le minacce Pag 7 Maso era al telefono con il prete e l’ex moglie. Le sorelle: abbiamo paura di Laura Tedesco Le minacce: “Devo finire il lavoro di 25 anni fa” IL GAZZETTINO Pag 15 “Sprechi, non c’è la volontà di tagliare” di Gianluca Amadori Dura denuncia del procuratore regionale della Corte dei Conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il caso Mose … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il dovere di agire di Franco Venturini Pag 9 Cautela bipartisan sull’opzione militare di Massimo Franco Pag 9 Intervista all’ambasciatore americano: “A voi la guida in Libia, ci aspettiamo 5 mila uomini” di Maurizio Caprara Pag 26 Così l’Europa rischia di andare in frantumi di Bernard Henri Lévy Pag 27 La corsa senza personalità per la poltrona di sindaco di Antonio Macaluso LA REPUBBLICA Pag 1 Nella trappola del Califfo di Bernardo Valli LA STAMPA Sara e Rachele l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi di Riccardo Di Segni AVVENIRE Pag 1 Il valore delle regole di Assuntina Morresi Tra “nuovi diritti” e saldi argini IL FOGLIO Pag 4 Per la Casa Bianca “non c’è alcun genocidio di cristiani in medio oriente” di Matteo Matzuzzi IL GAZZETTINO Pag 1 La posta in gioco nella guerra contro i terroristi di Alessandro Orsini Pag 1 Se il premier promette il taglio delle imposte di Bruno Vespa LA NUOVA Pag 1 Chiarire cosa è accaduto a Sabrata di Renzo Guolo

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Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT I Francescani: non lasciamo le terre occupate dai jihadisti di Gianni Valente Ci sono ancora centinaia di cristiani in un angolo di Siria dove dettano legge i miliziani islamisti. E i frati della Custodia hanno scelto di rimanere con loro. Pizzaballa: «Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo» Ci sono anche cristiani tra i sudditi della galassia jihadista che ancora contende un bel pezzo di Siria al governo di Damasco e ai suoi alleati russi e sciiti. Sono pochi, poveri, anziani e malmessi, ma ce ne sono. E al loro fianco ci sono i Francescani della Custodia di Terrasanta, che proprio nelle ultime settimane hanno rinnovato la scelta di non abbandonare quel piccolo resto di uomini e donne che portano il nome di Cristo nelle terre in mano ai miliziani islamisti. Succede a Knayeh, Yacoubieh e Jdeideh, i paesini della Valle dell’Oronte, dove circa quattrocento battezzati continuano a vivere, pregare e partecipare alle messe celebrate nelle tre parrocchie cattoliche spogliate delle campane, delle croci e delle statue dei santi. Sono gli ultimi rimasti, quelli che non sono riusciti ad andar via perché non avevano i mezzi o l’età per scappare altrove. E i due frati che stanno con loro sono gli unici sacerdoti e religiosi cristiani rimasti nelle terre dove dettano legge le corti islamiche imposte dalle milizie jihadiste. Negli ultimi tempi, anche i figli di San Francesco si sono chiesti se fosse ancora possibile e giusto rimanere, esponendosi ai nuovi rischi di violenze e ritorsioni, divenuti ancor più incombenti nella fase incerta in cui è entrato il conflitto siriano. A porre la questione in termini brutali e non più aggirabili per la Custodia francescana è stato l’ennesimo sequestro di Dhiya Azziz, il frate iracheno quarantenne che guidava la parrocchia di Yacoubieh. Una detenzione durata 12 giorni, conclusasi con una liberazione annunciata dalla Custodia lo scorso 4 gennaio senza ulteriori dettagli. La vicenda ha riproposto ai frati della Custodia un interrogativo cruciale: è bene ed opportuno restare nelle parrocchie dei villaggi siriani sotto il controllo delle forze islamiste avversarie del governo di Damasco, anche se il numero dei cristiani locali continua a scemare perché molti se ne vanno? O è meglio ripiegare in attesa di tempi migliori? Lo stesso Custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa, ha chiamato tutti i frati della Custodia a farsi carico della sofferta decisione, chiedendo loro consiglio sulla scelta da prendere. Nelle settimane successive, tanti frati hanno fatto riferito a voce o in forma scritta le loro considerazioni a padre Pizzaballa, che in un messaggio riportato anche dal sito Terrasanta.net ha raccontato l’esito del discernimento comunitario: «Le vostre opinioni» riferisce il Custode nel messaggio rivolto ai suoi confratelli «sono state di grande aiuto e hanno reso meno faticosa la decisione da prendere… Nella quasi totalità avete espresso con chiarezza il parere che sia doveroso restare nei villaggi, senza considerazione per il numero dei parrocchiani, e nonostante il pericolo». Poi, Pizzaballa aggiunge considerazioni che lasciano intravedere da dove attinge forza tale scelta, così intimamente connaturale al carisma dei figli di San Francesco: «La Custodia – soggiunge – non ha mai abbandonato i luoghi e la popolazione che la Chiesa le ha affidato, anche a rischio di pericolo. Non pochi tra i nostri martiri, anche nel periodo recente, sono morti in circostanze non troppo dissimili dalla situazione attuale. Un pastore non abbandona il suo gregge e non si chiede se le sue pecore valgano molto o poco, se siano numerose o giovani. Per un pastore tutte le pecore sono importanti e le ama tutte allo stesso modo». Con questo spirito, il Custode di Terra Santa annuncia che a Yacoubieh, al posto di fra Dhiya, è arrivato da Betlemme Louay Bhsarat, il giovane frate giordano che aveva dato la sua disponibilità ad andare in Siria «fin dall’inizio della guerra». Nella vicenda delle piccole comunità cristiane dell’Oronte custodite dai Francescani si coglie l’ordito più intimo e prezioso dell’esperienza martiriale vissuta da tante comunità cristiane nella Siria martoriata dalla guerra. Già nel 2011 quell’area nel nord-ovest siriano era caduta sotto il controllo dei ribelli anti-Assad: prima i tagliagole dello Stato Islamico, e poi i quaidisti di Jabhat al-Nusra. A quel tempo, molte cancellerie occidentali esaltavano la rivolta contro il regime

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di Damasco, e in Occidente i cristiani siriani venivano accusati di essere quinte colonne degli apparati di Assad. Quando in quel lembo di Siria erano arrivati i ribelli, alcuni cristiani e un prete ortodosso erano dovuti fuggire, perché era nota la loro vicinanza con i governativi. I Francescani, invece, erano rimasti con i loro parrocchiani, e non erano stati espulsi. Non per una scelta di campo a favore dei nuovi arrivati. Ma solo perché, nella loro inermità, non ostentavano nessuna militanza o contiguità con fazioni politiche. E fino a quel momento si erano solo limitati a rispettare l’ordine costituito. Sotto il dominio jihadista, i cristiani dei tre paesini sull’Oronte hanno dovuto cancellare ogni visibilità pubblica della vita ecclesiale: niente campane, niente processioni, niente croci sulle chiese, niente statue della Madonna o dei santi esposte all’aria aperta. Nell’autunno 2014 anche padre Hanna Jallouf, il parroco di Knayeh, era stato posto in stato di detenzione dai jihadisti insieme ad alcuni giovani della parrocchia. Era accaduto dopo che il religioso francescano si era recato di persona al Tribunale islamico della zona, dove aveva provato a denunciare i crescenti soprusi perpetrati dalle brigate di islamisti ai danni del convento. Col suo gesto, padre Hanna aveva provato a verificare se davvero il «nuovo ordine» imposto dai jihadisti poteva garantire i diritti limitati di un suddito cristiano, come prescriverebbe la Sharia, anche nelle sue interpretazioni più rigoriste. E la rappresaglia subita da lui e dai suoi parrocchiani bastava da sola a smascherare le parole d’ordine del marketing islamista. In questi anni, nei giochi delle opposte propagande, i cristiani siriani sono stati denigrati o blanditi, maltrattati ed esposti come trofei. Circoli d’Occidente, dove prima venivano insultati, vorrebbero ora etichettarli addirittura come vittime di un inesistente «Genocidio», magari per giustificare in loro nome qualche operazione militare. Mentre anche Assad, dal canto suo, continua a coltivare l’immagine del leader arabo «amico dei cristiani». Nella loro fragilità disarmata, i Francescani della Custodia e i loro amici hanno mostrato al mondo che si può sempre provare a vivere da cristiani sotto chi comanda pro tempore, chiunque sia. Anche se sono quelli del Califfato Islamico. E la loro inerme perseveranza potrà aiutare a custodire chi rimane anche nel futuro, qualsiasi sia il futuro della Siria. L’OSSERVATORE ROMANO Pag 5 Il Papa e i pesci rosa di Jean Pierre Denis Incontro con un gruppo del cristianesimo sociale francese Nel pomeriggio del 1° marzo il Papa ha incontrato a Santa Marta una trentina di aderenti al movimento del cristianesimo sociale francese dei Poissons Roses e al connesso laboratorio di idee Esprit Civique. Sui contenuti dell’incontro pomeridiano, protrattosi per circa un’ora e mezza, il direttore del settimanale «La Vie» ha scritto sul sito internet della rivista un accurato resoconto dal titolo “Conversazione politica con Papa Francesco”, che pubblichiamo quasi per intero in traduzione italiana. Dove va la Francia? Dove va l’Europa? Come rispondere alla crisi spirituale che il nostro Paese e il nostro continente attraversano? Come formulare una critica alla modernità che non sia reazionaria? Non ci si stupirà dunque se lo scambio verterà ampiamente sulla politica, nel senso lato del termine, includendo la sua dimensione spirituale. Ma al di là dei discorsi tenuti e dei temi affrontati, è lo stile a colpire. La semplicità evangelica, il contatto immediato, l’attenzione intensa. La disponibilità. L’uomo d’intuito non viene schiacciato dal peso dell’istituzione, cosa che sconvolge tanto i puristi attaccati a un papato gerarchico o dogmatico. All’inizio e alla fine del colloquio, non c’è una mano che non si sia stretta con attenzione, un volto che non si sia stato guardato. Davvero. Senza stancarsi. Il Papa stesso a un certo punto si alzerà per andare a cercare dell’acqua. Non per lui, ma per Carmen, la giovane traduttrice che ha fatto sedere al suo fianco, di fatto una militante di Esprit Civique. Ovvero come distinguere un maestro spirituale da una celebrità. «Emmanuel Lévinas fonda la sua filosofia sull’incontro con l’altro» riassume Francesco. «L’altro ha un volto. Occorre uscire da se stessi per contemplarlo». L’avventura delle caravelle avrebbe dunque qualcosa di metafisico? «Da Magellano in poi, si è imparato a guardare il mondo a partire dal sud. Ecco perché il mondo si vede meglio dalla periferia che dal centro e io capisco meglio la mia fede a partire dalla periferia: ma la periferia può essere umana, legata alla povertà, alla salute, o a un sentimento di periferia esistenziale». Si capisce così l’importanza che questa tematica ha

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assunto nella predicazione di Francesco. Da qui una riflessione su ciò che gli ispanici e gli anglofoni chiamano “globalizzazione” e noi “mondializzazione”. «C’è qualcosa che mi preoccupa», dice il Papa. «Certo, la globalizzazione ci unisce e ha dunque aspetti positivi. Ma credo che ci siano una globalizzazione buona e una meno buona. La meno buona può essere rappresentata da una sfera: ogni persona si trova a eguale distanza dal centro. Questo primo schema distacca l’uomo da se stesso, lo uniformizza e alla fine gli impedisce di esprimersi liberamente. La globalizzazione migliore sarebbe piuttosto un poliedro. Tutti sono uniti, ma ogni popolo, ogni nazione, conserva la sua identità, la sua cultura, la sua ricchezza. La posta in gioco per me è questa globalizzazione buona, che ci permette di conservare ciò che ci definisce. Questa seconda visione della globalizzazione permette di unire gli uomini pur conservando la loro singolarità, il che favorisce il dialogo, la comprensione reciproca. Affinché ci sia dialogo, c’è una condizione sine qua non: partire dalla propria identità. Se non sono chiaro con me stesso, se non conosco la mia identità religiosa, culturale, filosofica, non posso rivolgermi all’altro. Non c’è dialogo senza appartenenza». «L’unico continente che può apportare una certa unità al mondo è l’Europa», aggiunge il Papa. «La Cina ha forse una cultura più antica, più profonda. Ma solo l’Europa ha una vocazione di universalità e di servizio». Francesco ritorna allora sul tema del suo discorso di Strasburgo, del 25 novembre 2014, quando ha paragonato l’Europa a una nonna un po’ stanca. «Ma ecco la madre è diventata nonna» sorridecon un filo di ironia. Penso ai racconti biblici, alla vecchia Sara che ride quando viene a sapere che rimarrà incinta. La domanda può sembrare strana, ma non riesco a non farla. È troppo tardi? La nonna può ridiventare una giovane madre? «Un capo di Stato mi ha già posto questa domanda» mi risponde il Papa. «Sì, può. Ma ad alcune condizioni. La Spagna e l’Italia hanno un tasso di natalità vicino allo zero. La Francia se la cava meglio, perché ha costruito una politica familiare che favorisce la natalità. Essere madre significa avere dei figli». Ma il rinnovamento non può essere solo quantitativo. «Se l’Europa vuole ringiovanire, deve ritrovare le proprie radici culturali. Tra tutti i Paesi occidentali, l’Europa ha le radici più forti e più profonde. Attraverso la colonizzazione, queste radici hanno raggiunto persino il nuovo mondo. Ma dimenticando la propria storia, l’Europa s’indebolisce. È allora che rischia di divenire un luogo vuoto». L’Europa è diventato un luogo vuoto? La frase è forte. Centra l’obiettivo e fa male. Ed è anche angosciante. Perché nella storia delle civiltà il vuoto chiama sempre il pieno. E allora il Papa fa un’analisi clinica. «Possiamo parlare oggi di un’invasione araba. È un fatto sociale» afferma con distacco, come se osservasse che il tempo è freddo. Ma aggiunge subito - e i teorici della “grande sostituzione”, cara all’estrema destra, resterebbero allora delusi - «quante invasioni ha conosciuto l’Europa nel corso della sua storia! Ma ha sempre saputo superare se stessa, andare avanti per ritrovarsi poi come accresciuta dallo scambio tra le culture». Quale uomo di Stato porterà un simile rinnovamento? «A volte mi domando dove troverete uno Schumann o un Adenauer, questi grandi fondatori dell’Unione europea» sospira il Papa. E continua a parlare della crisi in Europa, minata dagli egoismi nazionali, dai piccoli mercanteggiamenti e dai giochi poco lungimiranti. «Si confonde la politica con soluzioni di circostanza. Certo, occorre sedersi al tavolo dei negoziati, ma solo se si è consapevoli che bisogna perdere qualcosa perché tutti ci guadagnino». «La vostra laicità è incompleta... Occorre una laicità sana». Restaurare la grande Europa, reinventare la Francia. «Siamo venuti per parlarvi del nostro Paese» afferma Philippe de Roux [fondatore dei Poissons roses]. «La Francia ha bisogno di essere scossa... Quale messaggio desidera trasmetterle?». Il Papa sorride, con tono scherzoso: «Nel mondo ispanico si dice che la Francia è la primogenita della Chiesa, ma non per forza la figlia più fedele». Ma, pur affermando di doverle molto sul piano spirituale, il Papa ammette di conoscere male la realtà del nostro Paese. «Sono stato solo tre volte in Francia, a Parigi, per riunioni con i gesuiti, quando ero provinciale. Non conosco dunque il vostro Paese. Direi che esercita un certo fascino, ma non so esattamente in che senso... In ogni caso, la Francia ha una fortissima vocazione umanistica. È la Francia di Emmanuel Mounier, di Emmanuel Lévinas o di Paul Ricoeur». Un cattolico, un ebreo, un protestante! «Da un punto di vista cristiano, la Francia ha dato i natali a numerosi santi, uomini e donne di finissima spiritualità. Soprattutto tra i gesuiti, dove accanto alla scuola spagnola, si è sviluppata una scuola francese, che io ho sempre preferito. La corrente francese comincia molto presto, fin dalle origini, con Pierre Favre. Ho seguito questa corrente, quella di padre Louis Lallemant. La mia spiritualità è

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francese. Il mio sangue è piemontese, è forse questa la ragione di una certa vicinanza. Nella mia riflessione teologica mi sono sempre nutrito di Henri de Lubac e di Michel de Certeau. Per me, de Certeau resta a tutt’oggi il più grande teologo». E su un piano politico? «La Francia è riuscita a instaurare nella democrazia il concetto di laicità. È una cosa sana. Oggi uno Stato deve essere laico. La vostra laicità è incompleta. La Francia deve diventare un Paese più laico. Occorre una laicità sana [saine]». Una laicità santa [sainte], riprende garbatamente la nostra interprete, Carmen Bouley de Santiago. In poche parole, si capisce che la “sana laicità” di cui parla il Papa si oppone comunque un po’ a quella santa laicità che è divenuta la nostra religione civile. È una laicità inclusiva, che lascia spazio al senso, allo spirituale, all’espressione delle convinzioni. «Una laicità sana include un’apertura a tutte le forme di trascendenza, secondo le differenti tradizioni religiose e filosofiche. D’altro canto anche un laico può avere un’interiorità» aggiunge il Papa, accompagnando la parola con un gesto della mano che parte dal cuore. «Perché la ricerca della trascendenza non è solo un fatto [hecho], ma un diritto [derecho]». Gioco di parole molto spagnolo tra hecho e derecho che si applica perfettamente a una laicità troppo francese, che prende in considerazione il “fatto religioso”, pur volendo negare alla religione il diritto di cittadinanza rinchiudendola nella sfera privata. «Una critica che faccio alla Francia è che la laicità risulta talvolta troppo legata alla filosofia dell’illuminismo, per il quale le religioni erano una sottocultura. La Francia non è ancora riuscita a superare questo retaggio». Discorsi che non mancheranno di preoccupare coloro per i quali l’illuminismo deve restare un indispensabile punto di riferimento della Repubblica, posta al di sopra di ogni sospetto, persino della filosofia del sospetto. Ma che fanno anche reagire Jérôme Vignon [presidente delle Settimane sociali di Francia], il quale considera il quadro della laicità alla francese un po’ troppo nero e non vuole che a Roma si creda che la Chiesa è schiacciata o si schiaccia. «La sua analisi è un po’ dura, Santo Padre. In Francia si sta svolgendo un vero dibattito sulla laicità e il clero difende la visione della laicità da lei evocata». «Tanto meglio!», esclama Francesco, con aria sinceramente allegra. Il fondo della critica rimane ed è incisivo. Una laicità troppo rigida crea un vuoto che altre forze colmano. «Quando un Paese si chiude a una concezione sana della politica finisce per essere prigioniero, ostaggio di colonizzazioni ideologiche. Le ideologie sono il veleno della politica. Si ha il diritto di essere di destra o di sinistra. Ma l’ideologia toglie la libertà. Già Platone solleva la questione in Gorgia quando parla dei sofisti, gli ideologi dell’epoca. Diceva che erano per la politica come i cosmetici per la salute. Gli ideologi mi fanno paura». In un contesto caratterizzato dall’aumento dei populismi, sul quale lo interroga in particolare il deputato Dominique Potier [presidente e cofondatore del laboratorio di idee Esprit Civique], il Papa fa riferimento a un’altra pratica della politica, fondata sulla ricerca del consenso, il senso delle responsabilità, il superamento dei divari. «Se si vuole evitare che tutti vadano verso gli estremi, occorre nutrire l’amicizia e la ricerca del bene comune, al di là delle appartenenze politiche». «Il mio avversario è la finanza» diceva Hollande. Ma che i Poissons roses mi perdonino, questa volta è per davvero. «L’ideologia e l’idolatria del denaro» sono i due grandi mali siamesi che il Papa denuncia, collegando in modo molto originale i due concetti, per non dire due strutture di peccato, in apparenza molto distanti. «Gli avversari di oggi sono il narcisismo consumistico e tutte le parole che finiscono in “ismo”» insiste. «Ci siamo rinchiusi in una dipendenza più forte di quella provocata dalle droghe, accantonando l’uomo e la donna per sostituirli con l’idolo del denaro. È la cultura del rifiuto». Si potrebbe tradurre anche con esclusione. El descarte dice in spagnolo questo Papa, che spesso parla di “cultura dello scarto”, a proposito del modo in cui vengono trattati i più deboli, le persone anziane. «Un ambasciatore venuto da un Paese non cristiano mi ha detto: ci siamo smarriti nell’ideologia del denaro. Ecco il nemico: la dipendenza dal vitello d’oro. Quando leggo che il venti per cento dei più ricchi possiede l’ottanta per cento delle ricchezze, non è normale. Il culto del denaro è sempre esistito, ma oggi questa idolatria è diventata il centro del sistema mondiale». Davanti a questo areopago di cristiani sociali, il Papa si lancia quindi in un inaspettato elogio di Christine Lagarde, a capo del Fondo monetario internazionale (Fmi). «Una donna intelligente. Sostiene che il denaro deve essere al servizio dell’umanità e non il contrario». Per il Papa, che dice di non avere la fobia del denaro, la posta in gioco consiste nel «collegare la finanza e il denaro a una spiritualità del bene comune». Per il Papa il rinnovamento del cristianesimo passa, come si sa, per la misericordia. «In latino è il cuore che si china davanti alla

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miseria. Ma se si segue l’etimologia ebraica, non è più solo il cuore a essere toccato, ma anche le viscere, il ventre materno, quella capacità di sentire in modo materno, dall’utero. In entrambi i casi si tratta di uscire da se stessi». Decentrarsi, andare verso, rischiare il dialogo. Il tema ricorrente della conversazione è quello del pontificato. La misericordia, d’altronde, per il Papa venuto dal Sud, è l’altro nome dell’umanesimo. «Mettiamo da parte la dimensione religiosa» osa dire Francesco. «La misericordia è la capacità di commuoverci, di provare empatia. Consiste anche, dinanzi a tutte le catastrofi, nel sentirsene responsabili. Nel dirsi che bisogna agire. Non riguarda quindi soltanto i cristiani, ma tutti gli esseri umani. È un appello all’umanità». La delegazione comprende una intellettuale musulmana, Karima Berger. La nuova presidente dell’associazione degli scrittori credenti di lingua francese, che lei stessa ha ribattezzato Écriture et Spiritualités, è molto soddisfatta. L’impatto del tema della misericordia, di fatto, va al di là del mondo cristiano. Nell’islam Dio viene definito misericordioso, osserva. Il Papa coglie la palla al balzo. È rimasto visibilmente colpito dal suo recente viaggio nella Repubblica Centrafricana. «Lavoriamo molto al dialogo tra cristiani e musulmani. In Centrafrica c’era armonia. D’altronde è un gruppo che del resto non è musulmano ma che ha cominciato la guerra. La presidente di transizione, cattolica praticante, era amata e rispettata dai musulmani. Sono andato nella moschea. Ho chiesto all’imam se potevo pregare. Mi sono tolto le scarpe e sono andato a pregare. Ogni religione ha i suoi estremisti. Le degenerazioni ideologiche della religione sono all’origine della guerra». Francesco ci annuncia quindi che sta preparando un importante incontro con la più alta istituzione del mondo sunnita, l’università di Al Azhar, al Cairo, che ha avuto relazioni tese con il Vaticano in particolare ai tempi di Benedetto XVI. «Bisogna dialogare, dialogare ancora» conclude, riprendendo l’imperativo categorico che aveva formulato a proposito della globalizzazione e che è forse il segreto della sua pedagogia, della sua singolarità e della sua popolarità. Il tempo di consegnargli una copia di «La Vie» e purtroppo il nostro dialogo si conclude. Ma tutto è chiaro. Il Papa informale sa bene dove vuole portare la Chiesa: fuori dalle mura, al rischio dell’incontro. Pag 8 Valore da proteggere Alla Pontificia accademia per la vita Francesco sottolinea la centralità dell’uomo anche in ambito scientifico «La cultura contemporanea conserva ancora le premesse per affermare che l’uomo, quali che siano le sue condizioni di vita, è un valore da proteggere; tuttavia, essa è spesso vittima di incertezze morali, che non le consentono di difendere la vita in maniera efficace»: lo ha ricordato Papa Francesco durante l’udienza ai partecipanti all’assemblea generale della Pontificia accademia per la vita, ricevuti giovedì mattina, 3 marzo, nella Sala Clementina. Cari fratelli e sorelle, porgo il mio benvenuto a tutti voi, convenuti per l’Assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita. Mi fa piacere particolarmente incontrare il Cardinale Sgreccia, sempre in piedi, grazie! Questi giorni saranno dedicati allo studio delle virtù nell’etica della vita, un tema di interesse accademico, che rivolge un messaggio importante alla cultura contemporanea: il bene che l’uomo compie non è il risultato di calcoli o strategie, nemmeno è il prodotto dell’assetto genetico o dei condizionamenti sociali, ma è il frutto di un cuore ben disposto, della libera scelta che tende al vero bene. Non bastano la scienza e la tecnica: per compiere il bene occorre la sapienza del cuore. In diversi modi la Sacra Scrittura ci dice che le intenzioni buone o cattive non entrano nell’uomo dall’esterno, ma scaturiscono dal suo “cuore”. «Dal di dentro - afferma Gesù -, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male» (Mc 7, 21). Nella Bibbia il cuore è l’organo non solo degli affetti, ma anche delle facoltà spirituali, la ragione e la volontà, è sede delle decisioni, del modo di pensare e di agire. La saggezza delle scelte, aperta al movimento dello Spirito Santo, coinvolge anche il cuore. Da qui nascono le opere buone, ma anche quelle sbagliate, quando la verità e i suggerimenti dello Spirito sono respinti. Il cuore, insomma, è la sintesi dell’umanità plasmata dalle mani stesse di Dio (cfr. Gen 2, 7) e guardata dal suo Creatore con un compiacimento unico (cfr. Gen 1, 31). Nel cuore dell’uomo Dio riversa la sua stessa sapienza. Nel nostro tempo, alcuni orientamenti culturali non riconoscono più l’impronta

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della sapienza divina nelle realtà create e neppure nell’uomo. La natura umana rimane così ridotta a sola materia, plasmabile secondo qualsiasi disegno. La nostra umanità, invece, è unica e tanto preziosa agli occhi di Dio! Per questo, la prima natura da custodire, affinché porti frutto, è la nostra stessa umanità. Dobbiamo darle l’aria pulita della libertà e l’acqua vivificante della verità, proteggerla dai veleni dell’egoismo e della menzogna. Sul terreno della nostra umanità potrà allora sbocciare una grande varietà di virtù. La virtù è l’espressione più autentica del bene che l’uomo, con l’aiuto di Dio, è capace di realizzare. «Essa consente alla persona, non soltanto di compiere atti buoni, ma di dare il meglio di sé» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1803). La virtù non è una semplice abitudine, ma è l’attitudine costantemente rinnovata a scegliere il bene. La virtù non è emozione, non è un’abilità che si acquisisce con un corso di aggiornamento, e men che meno un meccanismo biochimico, ma è l’espressione più elevata della libertà umana. La virtù è il meglio che il cuore dell’uomo offre. Quando il cuore si allontana dal bene e dalla verità contenuta nella Parola di Dio, corre tanti pericoli, rimane privo di orientamento e rischia di chiamare bene il male e male il bene; le virtù si perdono, subentra più facilmente il peccato, e poi il vizio. Chi imbocca questo pendio scivoloso cade nell’errore morale e viene oppresso da una crescente angoscia esistenziale. La Sacra Scrittura ci presenta la dinamica del cuore indurito: più il cuore è inclinato all’egoismo e al male, più è difficile cambiare. Dice Gesù: «Chiunque commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34). Quando il cuore si corrompe, gravi sono le conseguenze per la vita sociale, come ricorda il profeta Geremia. Cito: «I tuoi occhi e il tuo cuore non badano che al tuo interesse, a spargere sangue innocente, a commettere violenze e angherie» (22, 17). Tale condizione non può cambiare né in forza di teorie, né per effetto di riforme sociali o politiche. Solo l’opera dello Spirito Santo può riformare il nostro cuore, se noi collaboriamo: Dio stesso, infatti, ha assicurato la sua grazia efficace a chi lo cerca e a chi si converte «con tutto il cuore» (cfr. Gl 2, 12 ss.). Oggi sono molte le istituzioni impegnate nel servizio alla vita, a titolo di ricerca o di assistenza; esse promuovono non solo azioni buone, ma anche la passione per il bene. Ma ci sono anche tante strutture preoccupate più dell’interesse economico che del bene comune. Parlare di virtù significa affermare che la scelta del bene coinvolge e impegna tutta la persona; non è una questione “cosmetica”, un abbellimento esteriore, che non porterebbe frutto: si tratta di sradicare dal cuore i desideri disonesti e di cercare il bene con sincerità. Anche nell’ambito dell’etica della vita le pur necessarie norme, che sanciscono il rispetto delle persone, da sole non bastano a realizzare pienamente il bene dell’uomo. Sono le virtù di chi opera nella promozione della vita l’ultima garanzia che il bene verrà realmente rispettato. Oggi non mancano le conoscenze scientifiche e gli strumenti tecnici in grado di offrire sostegno alla vita umana nelle situazioni in cui si mostra debole. Però manca tante volte l’umanità. L’agire buono non è la corretta applicazione del sapere etico, ma presuppone un interesse reale per la persona fragile. I medici e tutti gli operatori sanitari non tralascino mai di coniugare scienza, tecnica e umanità. Pertanto, incoraggio le Università a considerare tutto questo nei loro programmi di formazione, affinché gli studenti possano maturare quelle disposizioni del cuore e della mente che sono indispensabili per accogliere e curare la vita umana, secondo la dignità che in qualsiasi circostanza le appartiene. Invito anche i direttori delle strutture sanitarie e di ricerca a far sì che i dipendenti considerino parte integrante del loro qualificato servizio anche il tratto umano. In ogni caso, quanti si dedicano alla difesa e alla promozione della vita possano mostrarne anzitutto la bellezza. Infatti, come «la Chiesa non cresce per proselitismo ma “per attrazione”» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 14), così la vita umana si difende e promuove efficacemente solo quando se ne conosce e se ne mostra la bellezza. Vivendo una genuina compassione e le altre virtù, sarete testimoni privilegiati della misericordia del Padre della vita. La cultura contemporanea conserva ancora le premesse per affermare che l’uomo, quali che siano le sue condizioni di vita, è un valore da proteggere; tuttavia, essa è spesso vittima di incertezze morali, che non le consentono di difendere la vita in maniera efficace. Non di rado, poi, può accadere che sotto il nome di virtù, si mascherino “splendidi vizi”. Per questo è necessario non solo che le virtù informino realmente il pensare e l’agire dell’uomo, ma che siano coltivate attraverso un continuo discernimento e siano radicate in Dio, fonte di ogni virtù. Io vorrei ripetere qui una cosa che ho detto parecchie volte: dobbiamo stare attenti alle nuove colonizzazioni ideologiche che subentrano nel pensiero umano, anche cristiano,

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sotto forma di virtù, di modernità, di atteggiamenti nuovi, ma sono colonizzazioni, cioè tolgono la libertà, e sono ideologiche, cioè hanno paura della realtà così come Dio l’ha creata. Chiediamo l’aiuto dello Spirito Santo, affinché ci tragga fuori dall’egoismo e dall’ignoranza: rinnovati da Lui, possiamo pensare e agire secondo il cuore di Dio e mostrare a chi soffre nel corpo e nello spirito la sua misericordia. L’augurio che vi rivolgo è che i lavori di questi giorni possano essere fecondi e accompagnare voi e quanti incontrate nel vostro servizio in un cammino di crescita virtuosa. Vi ringrazio e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. Grazie. AVVENIRE Pag 23 Il Papa penitente e confessore di Mimmo Muolo e Stefania Careddu Il sacramento del Perdono al centro di “24 ore per il Signore”. Il bresciano don Mori: “In confessionale mi sento davvero prete” Roma. Il sacramento della Riconciliazione offerto a tutti. In tutte le diocesi del mondo. A partire dalle 17 di questo pomeriggio, quando nella Basilica di San Pietro sarà il Papa a presiedere la celebrazione penitenziale di apertura. E fino al tardo pomeriggio di domani. È l’iniziativa 24 ore per il Signore, giunta alla sua terza edizione, che in occasione del Giubileo della misericordia riceve, come sottolinea l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione, «nuova linfa». Ci saranno delle novità in questa terza edizione? Nessuna novità rispetto ai due anni precedenti. Oggi pomeriggio il Papa darà inizio alle 24 ore facendosi penitente tra i penitenti e confessore tra i confessori. Abbiamo pensato che non fosse necessario introdurre novità perché la tradizione ha bisogno di impiantare radici. Ma le adesioni si stanno estendendo a macchia d’olio in tutte le diocesi del mondo. E anche l’espressione “24 ore per il Signore” è sempre più utilizzata. C’è comunque una naturale familiarità di questa iniziativa con l’Anno Santo della misericordia. Indubbiamente. L’iniziativa si pone come segno tangibile della possibilità di incontrare il Signore e di incontrarlo, come ci dice papa Francesco, nel sacramento del Perdono. Dunque siamo provocati su più fronti. Il primo è quello di incentivare il più possibile il momento della riconciliazione con Dio. La misericordia non è una parola astratta, ma un segno concreto e uno dei segni concreti con cui la possiamo sperimentare è proprio la confessione. D’altra parte l’edizione giubilare delle 24 ore è una forte provocazione per noi sacerdoti. Il Papa ha invitato le Chiese locali a trovare ogni occasione utile per avvicinare i fedeli al confessionale, soprattutto invitando i missionari della misericordia come segno della presenza del Pontefice in mezzo alle nostre comunità. E da questa prospettiva ricaviamo un’indicazione pastorale tutt’altro che secondaria. Quella di mettere al centro della vita ecclesiale il sacramento del Perdono. È in sostanza un invito ai sacerdoti a trascorrere più ore in confessionale? Proprio così. Non è il massimo vedere in alcune chiese cartelli su cui è scritto: «Per le Confessioni venire il giorno tale all’ora tale». So che c’è carenza di sacerdoti, ma dobbiamo dire che spesso noi ci dibattiamo in tante iniziative che non sono di nostra competenza specifica, mentre il sacramento della Riconciliazione – specie in questo anno – dovrebbe avere priorità assoluta. L’invito del Papa non è quello di dare un appuntamento, ma cercare la pecorella e caricarsela sulle spalle. Con il Giubileo e le 24 ore sta cambiando qualcosa in tal senso? Molte diocesi hanno recepito l’invito che veniva già dal Sinodo sulla nuova evangelizzazione, e cioè che in ogni diocesi ci sia almeno una chiesa, un santuario o una parrocchia in cui 24 ore su 24 i sacerdoti sono disponibili per le confessioni. L’altro giorno ero in una prefettura qui a Roma, dove per tutta la Quaresima le parrocchie a turno svolgono questo servizio. È uno degli effetti di quel grandioso spot a favore delle confessioni che è stata le venerazione delle reliquie di san Pio e san Leopoldo Mandic? È stata un’esperienza unica. Molte chiese e la stessa Basilica di San Pietro hanno visto lunghe code ai confessionali. E questo non fa altro che confermare l’intuizione di papa Francesco per questo Giubileo: la presenza di due santi che hanno dedicato tutta la loro

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vita alle confessioni ha veramente toccato il cuore di tante persone che hanno riscoperto la via della riconciliazione. Lei accennava ai missionari della misericordia. Ci sono già i primi «ritorni» della loro esperienza? È presto. Faremo un primo bilancio dopo Pasqua. Per il momento registriamo una grande carica di entusiasmo da parte di tutti. Le “24 ore per il Signore” continueranno anche oltre l’Anno Santo? Sì, l’iniziativa del resto è nata prima del Giubileo, quest’anno vogliamo viverla con un ardore e un entusiasmo più forte e sicuramente continuerà in futuro come espressione di nuova evangelizzazione. Le «24 ore per il Signore» prenderanno il via questo pomeriggio, nel giorno dedicato alla devozione al Cuore di Gesù. Alle 17 si comincia e si andrà avanti sino alle 17 di domani, 5 marzo. A Roma sarà papa Francesco a presiedere la celebrazione penitenziale di apertura nella Basilica di San Pietro. Altre liturgie sono annunciate nelle diverse Chiese locali. Sempre a Roma, alle 21 è in programma l’inizio delle confessioni e adorazione eucaristica nelle chiese di Nostra Signora del Sacro Cuore (piazza Navona); Santa Maria in Trastevere (piazza di Santa Maria in Trastevere); e Sacre Stimmate di San Francesco (largo Argentina). Le chiese rimarranno aperte ininterrottamente, con la presenza di sacerdoti per le confessioni, fino a notte inoltrata. Domani alle 10 le confessioni e l’adorazione eucaristica proseguiranno nella chiesa di Nostra Signora del Sacro Cuore. Si proseguirà senza interruzione con la presenza di sacerdoti per le confessioni fino alle 16. Alle 17 la celebrazione conclusiva di ringraziamento presieduta dall’arcivescovo Rino Fisichella presso Santo Spirito in Sassia. «Umanamente noi ragazzi non riusciremmo a perdonare gli sbagli più gravi, ma a tutti va data una seconda possibilità. Anche perché quando una persona ha troppi pesi, ha bisogno di qualcuno che lo aiuti». Al sacerdote che chiede se è il caso che lui vada in giro per l’Italia a perdonare chi vuole confessarsi o se forse, in questo momento, alla gente non serva altro, un gruppetto di adolescenti schietti e dai modi decisi, cresciuti nella periferia est di Brescia, risponde così. Senza giri di parole, andando al cuore di quella che è la missione del confessore: aiutare le persone a rialzarsi, a camminare con un passo nuovo e con la certezza di non essere sole. «La confessione non lava via magicamente tutto, ma è l’inizio di un percorso che l’anima fa: se scopri che puoi essere più bello, non lo diventerai di colpo ma farai il possibile per andare avanti e non cedere al brutto», spiega don Marco Mori, viceparroco a San Polo storico, il prete della diocesi di Brescia che ha voluto conoscere l’opinione dei “suoi” ragazzi prima di accettare la sfida di diventare missionario della misericordia e di ricevere da papa Francesco la facoltà di assolvere anche i peccati riservati alla Santa Sede, cioè quelli molto gravi per cui scatta la scomunica latae sententiae. «Non è automatico che noi preti siamo convertiti alla misericordia: in un tempo come il nostro, siamo tentati di pensare che serva forza, chiarezza, strategia, mentre il Papa ha ragione a ricordarci che la medicina più potente è la misericordia», osserva il sacerdote sottolineando l’importanza della delicatezza. «La misericordia, che è un’esperienza concreta e che va provata – dice – non fa a pugni con la chiarezza», neppure quando ci si trova davanti a casi particolarmente difficili. È lì, nel confessionale, «che ti senti più prete, completamente uomo, padre: assolvere dai peccati significa infatti far rinascere le persone, dare vita », confida don Mori per il quale quello della riconciliazione «è un ministero che ha bisogno della totalità della persona». «Cerco di dire tutto quello che è necessario da un punto di vista umano, facendo riferimento ai miei studi e alle esperienze fatte e cercando un equilibrio tra l’educativo, il psicologico, la sensibilità e l’ascolto, ma poi non posso che annunciare che Dio ci vuole bene, che c’è qualcosa di più grande di quel dolore e di quello che io potrei fare per sanarlo», racconta il sacerdote evidenziando che «questa è una grazia enorme perché è Dio che agisce». E contrariamente a una certa opinione comune che vede il confessore come qualcuno che deve ascoltare per ore, e dunque in un certo senso subire, storie di peccato, per don Mori «vedere la grazia di Dio che opera direttamente è tutt’altro che opprimente, è liberatorio». «Ciò che è pesante è il non poter assolvere, è questa la sofferenza più grande», ammette. «Sono proprio le persone che non puoi assolvere –

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conclude – quelle che ricordi, che ti porti nel cuore e per le quali preghi di più perché possano trovare pace e la loro situazione trovi uno sbocco». Pag 23 Mestre. Il libro-intervista del Pontefice presentato da Tornielli, Moraglia, Tarquinio, Olivero e Koll Un dialogo a cinque voci sul magistero di papa Francesco. È quello in programma questa sera alle 20.30 nel Duomo di San Lorenzo a Mestre. L’occasione è data dalla presentazione di Il nome di Dio è Misericordia, il libro-intervista di Jorge Mario Bergoglio con lo scrittore e vaticanista de La Stampa Andrea Tornielli (edito da Piemme). All’incontro organizzato dal patriarcato di Venezia interverranno il giornalista Andrea Tornielli, il patriarca Francesco Moraglia, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, l’attrice Claudia Koll e il fondatore del Sermig-Arsenale della pace di Torino Ernesto Olivero. Il libro è una sorta di punto di riferimento che accompagna il tempo del Giubileo straordinario in quanto aiuta a scavare nelle motivazioni profonde che hanno indotto Francesco a sottolineare, in modo così solenne, il tema della misericordia. Pag 24 Abusi, Pell incontra le vittime: “Troppo anche un solo suicidio” di Gianni Cardinale L’impegno a cooperare coi sopravvissuti Roma. Il cardinale George Pell ha incontrato ieri un gruppo di vittime di abusi sessuali provenienti dalla diocesi di Ballarat in Australia, sua città d’origine. È avvenuto al termine delle quattro audizioni in video-conferenza con la Commissione governativa australiana d’inchiesta «sulla risposta delle istituzioni ai casi di abusi sessuali su minori». Dopo l’incontro il prefetto della Segreteria per l’economia, riconoscendo «il male che è stato fatto», ha assicurato il suo impegno a lavorare con la gente di Ballarat affinché questa possa diventare «un centro e un esempio di sostegno concreto per tutti coloro che sono stati feriti dal flagello degli abusi sessuali». Il porporato australiano si è inoltre impegnato ad aiutare il gruppo di sopravvissuti con le istituzioni presenti nella Chiesa «e in special mondo con la Pontificia Commissione per la protezione dei minori». «Ho incontrato una dozzina dei sopravvissuti di Ballarat, e ho ascoltato ciascuna delle loro storie e delle loro sofferenze, è stata dura», ha dichiarato l’ex arcivescovo di Sydney. «Anche un solo suicidio è troppo, e vi sono stati molti tragici suicidi», ha poi sottolineato, impegnandosi «a lavorare con il gruppo di sopravvissuti per porre un termine a ciò, in modo che il suicidio non sia più un’opzione per coloro che soffrono». «Nonostante la distanza – ha proseguito – vorrei anche lavorare perché Ballarat sia un modello e un luogo migliore per la guarigione e per la pace». «Ora non dovrei promettere ciò che è impossibile da mantenere – ha aggiunto – tutti sappiamo quanto è dura che le cose vengano fatte, ma voglio che sappiate che sostengo il lavoro di istruttoria per valutare la creazione di un centro di ricerca per la guarigione e l’aumento della protezione dei minori». Il porporato ha concluso facendo appello ai fedeli della diocesi di Ballarat, «noti per lealtà e carità», affinché continuino «a cooperare con i sopravvissuti per migliorare la situazione». Subito prima delle dichiarazioni del porporato australiano, David Ridsdale, portavoce delle vittime e nipote del prete stupratore seriale Gerald Ridsdale, frequentemente citato durante le audizioni di Pell, era uscito dall’Hotel Quirinale dove si era svolto l’incontro e a nome di tutti i sopravvissuti aveva annunciato di aver «avuto un incontro estremamente toccante con il cardinale Pell». «Stiamo ancora aspettando – aveva aggiunto – ma è allo studio una eventua- le visita dal Papa. Saremmo felici se succedesse». Udienza che comunque non ha trovato conferme, mentre sembra confermato che oggi ci sarà un nuovo incontro delle vittime alla Gregoriana. Ieri mattina infatti lo stesso Davis Ridsdale, insieme con altre due vittime aveva incontrato presso la celebre Università pontificia il gesuita tedesco Hans Zollner, membro residenziale della citata Commissione per la tutela dei minori e direttore del “Centro per la protezione dei minori”, creato dall’ateneo per la prevenzione degli abusi. «Abbiamo avuto un dialogo estremamente positivo», aveva dichiarato Ridsdale a conclusione dell’incontro. «Le nostre posizioni – aveva spiegato – sono state ricevute molto bene». Nella sua ultima audizione con la Commissione governativa, Pell ha compiuto delle ammissioni sul suo atteggiamento riguardo al fenomeno degli abusi.

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«Avrei dovuto fare di più», ha detto ribadendo comunque che non aveva «idea delle dimensioni del fenomeno». Il porporato ha poi fatto marcia indietro rispetto a quanto dichiarato in precedenza, e cioè che quella di padre Gerald Ridsdale era stata «una storia triste ma non di grande interesse per me». Il cardinale ha così corretto il tiro: «Mi rammarico per la scelta delle parole. Ero molto confuso. Ho risposto male». Pell ha anche ammesso di essersi «sbagliato» nel fidarsi del cappellano riguardo alle storie di abusi riguardante la scuola dei Fratelli Cristiani di Ballarat. Intanto il cardinale Gerhard Ludwig Müller, prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, in un’intervista a un quotidiano tedesco ha voluto precisare che il fenomeno degli abusi è circoscritto a un certo numero di chierici non motivati dal loro ufficio sacerdotale, ma invece «disturbati o immaturi». Il porporato ha osservato che «purtroppo nessuno aveva chiare le conseguenze a lungo termine di questi abusi» e «si pensava che tutto potesse essere risolto ammonendo il colpevole». CORRIERE DELLA SERA Pag 21 La resa di Pell sugli abusi: “Avrei dovuto fare di più” di Gian Guido Vecchi Il cardinale per 20 ore davanti ai commissari. Poi incontra le vittime Città del Vaticano. Quasi distaccato, o forse solo stanco. Quattro deposizioni notturne in collegamento video con l’Australia da un hotel di Roma, venti ore passate a rispondere alla Royal commission governativa e a ripetere di non avere responsabilità nella copertura dei preti pedofili negli anni Settanta e Ottanta, di essere stato ingannato dai superiori sul trasferimento di criminali seriali quand’era consulente del vescovo a Ballarat e ausiliare a Melbourne, il tutto tra fischi ricorrenti delle vittime arrivate a Roma e mentre i commissari lo incalzavano su casi singoli e avevano l’aria di non credergli affatto, «non ha assolutamente senso», «è completamente implausibile», e così via. È stata durissima, per il cardinale George Pell. Sono accuse che braccano da anni l’ex arcivescovo di Melbourne e Sydney, dal 2014 «ministro» vaticano dell’Economia; già nel 2010 doveva arrivare a Roma come prefetto dei vescovi ma per prudenza non se ne fece nulla. Giusto alla fine, ieri mattina, il cardinale è riuscito a recuperare un po’. Ha incontrato una dozzina di vittime - altri non se la sono sentita - e fuori dall’hotel ha letto una dichiarazione reggendo un foglio, un po’ impacciato, tra telecamere e taccuini: per dire «il male che è stato fatto», garantire che «continuerà a collaborare» anche per la creazione di «un centro per le vittime», sillabare che «un solo suicidio è troppo, e ce ne sono stati tanti». A parlargli, «un incontro toccante», c’era tra gli altri David Ridsdale, nipote e vittima del pedofilo seriale Gerald Ridsdale. Non c’era Anthony Foster, una figlia suicida, un’altra paralizzata da un incidente dovuto all’alcolismo, entrambe abusate da bambine: «La mia famiglia perfetta è stata distrutta dalla Chiesa». È stato uno spaccato su «un mondo di crimini e occultamenti», come lo ha definito Pell. L’ultima notte è stata drammatica: «Con l’esperienza di quarant’anni dopo, convengo che avrei dovuto fare di più», ha ammesso. Era il 1974 e uno studente del St. Patrick’s College gli disse che il «fratello cristiano» Edward Dowlan «si comportava male» con i ragazzi. «Lo disse in una conversazione, casualmente, non mi chiese di fare qualcosa… Supposi fosse tecnicamente una lamentela». Quando gli hanno chiesto cosa fece, Pell ha riposto: «Non ho fatto niente». Alla fine parlò con il cappellano della scuola, il quale replicò che l’ordine dei Fratelli cristiani «se ne stava occupando». Dowlan fu arrestato solo nel 1996 e continuò ad abusare di ragazzini, almeno venti. Pell ha ripetuto per quattro notti di essere stato sempre «tenuto all’oscuro», pur riconoscendo che «in quel tempo, se un prete negava, io ero incline a credergli». Ha definito «una coincidenza disastrosa» che ci fossero almeno cinque preti pedofili a Ballarat. «Per carità cristiana» accompagnò al processo Ridsdale, 54 bimbi violentati, ma non sapeva. Ha chiesto scusa per la frase «è una storia triste e non era di grande interesse per me», sospirando: «Ero molto turbato, ho risposto male». Le vittime ripartono oggi, sperano ancora di vedere il Papa ma ieri hanno incontrato padre Hans Zollner, della Commissione per la tutela dei minori voluta da Francesco. L’8 giugno, Pell compirà 75 anni, l’età alla quale i cardinali di Curia sono «tenuti» a presentare rinuncia. LA REPUBBLICA

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Pag 23 Abusi, il cardinale Pell incontra le vittime: “Sono addolorato” di Paolo Rodari Roma, otto rifiutano il faccia a faccia Città del Vaticano. George Pell, il "canguro", come lo chiamano Oltretevere per le sue origini australiane, appare provato e affaticato quando scende i gradini che lo separano dalla hall dell'Hotel Quirinale, in centro a Roma. Sospira prima di entrare nella porta girevole che affaccia su via Nazionale. Fuori c'è un nugolo di giornalisti ad attenderlo. Ha appena incontrato, in una stanza riservata dell'hotel, dodici vittime di abusi sessuali commessi da sacerdoti nella diocesi dove è nato, Ballarat, suffraganea della più grande Melbourne. Otto vittime, invece, hanno preferito non essere presenti: «La mia famiglia perfetta è stata distrutta», dice poco prima, a incontro in corso, Anthony Foster, padre di tre figlie, due delle quali abusate da piccole dallo stesso prete. Una, racconta mostrando una foto, si è suicidata, l'altra è diventata un'alcolizzata e guidando ubriaca ha fatto un incidente che l'ha lasciata paralizzata. «Quanti sono i casi? Migliaia, migliaia», mormora ricordando le 800 denunce arrivate in Vaticano in un solo anno, duecento i casi italiani negli ultimi dieci anni. «Il fenomeno è circoscritto ad un certo numero di individui non motivati dal loro ufficio sacerdotale, ma invece "disturbati o immaturi"», prova a minimizzare in proposito, in una intervista al quotidiano tedesco Kolner Stadt Anzeiger, il cardinale Gerhard Müller, prefetto della Dottrina della fede. Che poi dice: oggi nella Chiesa c'è un'attenzione «per le vittime, le loro sofferenze». L'ultima notte ha portato consiglio. Pell, rispondendo fino alle tre del mattino alla Royal Commission che indaga sugli abusi commessi quando era vescovo a Melbourne e Sydney, ha continuato a dirsi non colpevole dall'accusa di aver coperto, non convincendo in questo senso la Commissione. Ma insieme ha ammesso che «la Chiesa troppo spesso non si è adeguatamente preoccupata delle vittime». E ancora: «Avrei potuto fare di più. Ho letto molte storie di ragazzi abusati. Sono racconti strazianti e mi sento profondamente addolorato per loro». L'ultima audizione è stata anche l'occasione per riaggiustare il tiro su dichiarazioni rilasciate la prima sera in merito al prete pedofilo Gerald Ridsdale. «Era una storia triste ma non di grande interesse per me», disse. Ieri, invece, la correzione: «Mi rammarico per la scelta delle parole. Ero molto confuso. Ho risposto male». Infine, un'ammissione di colpa sugli abusi commessi nell'istituto dei Fratelli Cristiani: «Ho sbagliato a fidarmi del cappellano», ha detto Pell circa una confidenza ricevuta da un giovane ma non adeguatamente verificata. In mattinata tre vittime sono ricevute in Gregoriana da Hans Zollner (un secondo incontro c'è oggi), gesuita tedesco membro della Commissione vaticana per la tutela dei minori, e poco dopo avviene la svolta. All'Hotel Quirinale, Pell accetta un incontro, in attesa, così sperano le vittime, che anche qualcuno più in alto accetti di riceverli: «È allo studio una eventuale visita dal Papa. Saremmo felici se succedesse», dice David Ridsdale, nipote di padre Ridsdale che, anni fa, abusò di lui. L'incontro dura due ore, dalle undici alle tredici. Alle tredici e un quarto Pell si avvicina alla hall. Imbocca la porta girevole e, un foglio fra le mani, legge ai giornalisti una dichiarazione. Parole non di circostanza per le vittime che oggi, rispetto ai giorni passati, sembrano, per quanto possibile, più sollevate (prima che il cardinale lasci l'hotel, sorridono mentre si fanno immortalare abbracciati in una foto di gruppo). «Anche un solo suicidio è troppo, e ce ne sono stati tanti», dichiara Pell senza mai alzare gli occhi dal foglio. «Voglio continuare a lavorare con il gruppo di sopravvissuti», continua. E poi altre parole che intendono significare apertura: «Non posso promettere l'impossibile, è dura, ma voglio dare il mio contributo per la creazione di un centro per le vittime. Ho incontrato le vittime e ho ascoltato ogni singola storia. È stato doloroso, un incontro tristemente toccante». Pell non dice altro dell'incontro che, voluto in forma privata, tale resta. Sale in macchina e torna in Vaticano dove, assicura il suo braccio destro Danny Casey, «non c'è nessuna pressione affinché si dimetta. Il cardinale ha il pieno sostegno del Santo Padre». L'atteggiamento duro dei primi giorni, quando all'hotel giunse accompagnato da dei seminaristi convocati per sostenerlo con preghiere - «Non è stata una bella immagine per noi», ammette una vittima - non c'è più. Ciò che resta sono le drammatiche storie delle vittime ridiventate attuali. Accaddero fra gli anni '60 e gli '80. Ma trenta, quarant'anni, non sono nulla per chi ha subìto abusi. Oggi resta solo la soddisfazione per un incontro avvenuto, un incontro «toccante»,

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spiega Ridsdale. Ma insieme una distanza per un dolore irrisarcibile. «Non molleremo», chiosa ancora Ridsdale. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag X Il patriarca sul libro del Papa Stasera in Duomo Stasera, alle 20.30 nel Duomo di Mestre, il patriarca Francesco Moraglia presenta il libro di Papa Francesco "Il nome di Dio è misericordia". Intervengono il coautore Andrea Tornielli, il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, l'attrice Claudia Koll e il fondatore del Sermig Ernesto Olivero. LA NUOVA Pag 37 Il Papa racconta la misericordia di Dio alle anime perse di don Marco Pozza In una conversazione con il vaticanista Andrea Tornielli Bergoglio ribadisce la volontà di non abbandonare nessuno Il rimorso è un soliloquio, il perdono è un dialogo. A chi vorrà cimentarsi nell’azzardo di decifrarne la bellezza, sarà vietato l’uso dei trattati e dei saggi. Dell’amore e delle sue peripezie non si potrà parlarne se non conversando, laddove uno dei due s’aspetta un cenno dall’altro. Armato del linguaggio dei bambini - quasi allergico a quello consunto dei rabbini - papa Francesco ha intessuto una conversazione con il giornalista Andrea Tornielli, in capite alla quale ha messo da subito le cose in chiaro: “Il nome di Dio è Misericordia” (Piemme, 15 euro, 120 pagine). Con la maiuscola, a ribadire - se ancora ce ne fosse bisogno - che la misericordia, stavolta, non è un teorema astruso, nemmeno un saggio nato per ingarbugliare le idee. Misericordia è una presenza, la più ambiziosa e paradossale: Gesù di Nazareth. Alle lamentele di André Gide - «Comandamenti di Dio, avete indolenzito la mia anima!» - il Papa risponde con le care imperfezioni di Francesco di Sales: «(Dio), in un certo senso, ama le mancanze in quanto gli danno l’occasione di mostrare la sua misericordia». Punto, a capo. Quello che Francesco, confidandosi, ritrae è un Dio-restauratore: le strade slabbrate, le esistenze deragliate, gli istanti frantumatisi, gli stupori smunti sono circostanze da Lui ambite: nell’immondizia non tutto è spazzatura. C’è del Paradiso anche nell’apparente inferno: «La colpa ci ha giovato più di quanto non ci abbia nociuto, poiché essa ha dato occasione alla misericordia divina di redimerci» annotava Ambrogio di Milano. Entrare in conversazione con Francesco è, dunque, fare i conti con un Dio che le prova tutte - proprio tutte verrebbe da dire leggendo - per dare all'uomo la percezione di quanto manchi al suo cuore d’Amante. Anche d’Amore e d’Amato: un’esagerazione d’amore. È su quest’immagine di misericordia - il rovescio della creatura che torna dal Creatore - che il papa argentino fa sgorgare lo stupore: non è la pecora che, smarrita, va ricercando il Dio-pastore. È il pastore che, sperimentando una mancanza, s’infila «nel buio, nella notte che attraversano tanti nostri fratelli». È il volto suadente della misericordia: di Zaccheo, dell’emorroissa, di Maddalena e di Levi. Di tutte quelle canaglie verso le quali Dio non ha mai celato la sua predilezione, con le quali ha mostrato di saper vincere giocando d’anticipo: la carezza al posto del rimbrotto, lo stupore alla regola, la gioia alla paura. Governare così, è roba-da-Dio, lasciarsi rimettere in forma da Dio è il segreto della santità. Certe cadute sono annunciazioni: «A volte mi sono sorpreso a pensare che ad alcune persone tanto rigide farebbe bene una scivolata, - confessa il Papa - perché così, riconoscendosi peccatori, incontrerebbero Dio». Prospettive rovesciate, o forse raddrizzate, dopo annate di volontarismo titanico, più o meno ortodosso, quasi al limite della sopportazione. È un Dio degli spiragli, il Nazareno dei pertugi, il Cristo delle crepe: segni quasi infinitesimali, percezioni più che evidenze, desideri prima che realtà. Un Dio che, quando c’è in ballo il destino anche della creatura più giamburrasca, non lascia nulla d’intentato: la spina dorsale della salvezza non è stata costruita con architravi di calcestruzzo, ma con stecchini di legno. Le pietre ieri scartate sono, oggi, pietre angolari: una meraviglia per la vista, a prima vista. Misericordia a tutti i costi: misericordia a basso costo? Nient’affatto, tutto all’opposto: «Il peccato è più di una macchia. Il peccato è una ferita». Vietato leccarla, raccomanda Francesco. Meglio coglierla da terra e, pur cenciosi a noi stessi, portarla a Dio come l’ultima cosa rimastaci:

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«Il nostro peccato diventa quasi un gioiello (…) Si fa i signori quando si regalano i gioielli, e non è sconfitta, ma gioiosa vittoria lasciar vincere Dio». Certe partite, il Papa mostra d’esserne al corrente, non finiscono mai in parità, com’è strana usanza all’oratorio. Quando ad essere sfidato è Dio, perdere è ritrovarsi. Ritrovarlo. I perdenti ringraziano per la conversazione: sembra scritta apposta per loro. IL METROPOLITANO Anno Santo, Anno di Misericordia di Alvise Sperandio Il Giubileo straordinario nelle Diocesi metropolitane e venete: tra arrivo dei turisti e grande partecipazione dei fedeli Papa Francesco, la Porta Santa, l’ha aperta prima a Bangui, capitale della Repubblica Centrafricana, a fine novembre; quindi a San Pietro, in Vaticano, lo scorso 8 dicembre, festa dell’Immacolata. Ma il Giubileo straordinario della Misericordia, indetto a cinquant’anni dalla conclusione del Concilio Vaticano Secondo, non è solo un evento che coinvolge la Chiesa mondiale, ma tutte le sue singole articolazioni territoriali. E così, anche nel Patriarcato di Venezia e nelle Diocesi dell’area metropolitana, sono molte le iniziative in atto per vivere questa speciale ricorrenza che si protrarrà fino al prossimo 20 novembre, festa di Cristo Re dell’universo e termine dell’anno liturgico. Nella Basilica di San Marco, il Patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, ha spinto la Porta Santa di San Clemente (quella di destra rispetto all’ingresso principale) il 13 dicembre pronunciando la formula “Aprite le porte della giustizia” e varcandola per primo, seguito via via da una nutrita folla di fedeli che ha assistito sul sagrato della cattedrale. “L’Anno santo è un cammino di conversione, personale e comunitaria”, ha detto il presule, che, nell’omelia della messa, ha poi affidato un compito particolare ai numerosi presenti: “Gesù ci chiede di aprirci al prossimo, che non è quello che io sono disposto a riconoscere come tale, ma colui, chiunque sia, che ha bisogno di me, che mi tende la mano e che io sono nelle condizioni di poter soccorrere. La prossimità va riscoperta, ripensata e ridisegnata alla luce del Vangelo e non dei convincimenti personali o a partire dal comune modo di pensare che per il cristiano dev’essere sempre sottoposto al vaglio della Parola di Gesù”. Da un paio di mesi, il passaggio attraverso la Porta Santa, mediante un’apposita passerella, con successivo transito per il Battistero e uscita per la cappella Zen, è costante. “Alcuni gruppi di turisti, sia italiani che stranieri – dice don Gianmatteo Caputo, direttore dell’ufficio per la Pastorale del Turismo – ci chiedono informazioni di carattere spirituale e pastorale e domandano anche di poter celebrare la messa. In chiesa ci sono percorsi differenziati e degli spazi appositamente riservati alla preghiera, inoltre abbiamo predisposto delle visite guidate su come il tema giubilare della Misericordia viene rappresentato nei mosaici”. Sempre nel Patriarcato, ci sono altre quattro Porte Sante. Le prime due, aperte nel tempo natalizio, sono molto speciali, perché sono quelle del carcere maschile di Santa Maria Maggiore e del penitenziario femminile della Giudecca: “Perché la Misericordia di Dio è capace di trasformare le sbarre in esperienza di libertà”, ha spiegato monsignor Moraglia richiamando le parole del Santo Padre. Le altre due, inaugurate nella prima metà del mese di gennaio, sono quelle del santuario mariano di Borbiago intitolato a Santa Maria Assunta e tradizionale meta di pellegrinaggio, e quella della chiesa parrocchiale di Santa Maria Concetta di Eraclea. “La preghiera e il grazie possono essere la cifra di questo Anno Giubilare. La preghiera perché è la bussola che ci permette di camminare guardando la stella che è il Cristo. Il grazie perché non tutto è dovuto e invece tutto è grazia”, ha sottolineato il Patriarca nella prima occasione, mentre nella seconda ha parlato così: “La Porta Santa che abbiamo aperto è la porta del popolo di Dio: il varco che ciascuno di noi deve riprendere ad attraversare. L’Anno Santo ci riguarda tutti in prima persona: dobbiamo riscoprire il ritorno a Dio come risposta ai nostri problemi. La fede deve essere vista come un nuovo modo di pensare, ponendoci delle domande sulla nostra vita e cercando di riscoprire i nostri fondamentali, a partire dal concetto di comunità. Siamo un popolo di persone fatte con un cuore, da cui nascono tutte le cose belle di una frazione, un paese o una città”. Durante il periodo di Quaresima che prepara alla Pasqua di Risurrezione, si terranno otto pellegrinaggi vicariali, cioè per singole zone, con i fedeli che in maniera organizzata vivranno il senso pieno del Giubileo: per ottenere l’indulgenza, è necessario passare sotto la Porta Santa, confessarsi, ricevere la comunione, recitare il Credo e

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pregare il Pontefice secondo le sue intenzioni. “Soprattutto nel periodo di Avvento, prima di Natale, sono state molte le persone che si sono messe in fila per passare la Porta Santa di San Marco. La consapevolezza dei fedeli rispetto il significato e la portata di questo evento voluto dal Santo Padre sta andando oltre le aspettative”, riferisce monsignor Orlando Barbaro, delegato patriarcale per il Giubileo. Che smentisce il rischio di una possibile inflazione delle iniziative, visto che il Giubileo è arrivato dopo l’Anno della fede e prima della Visita pastorale diocesana: “Al contrario, nella gente c’è il desiderio di spiritualità e di ricerca interiore e l’Anno santo può dare una spinta importante al lavoro personale di ciascuno”. Ma è in tutto il Veneto che si moltiplicano le celebrazioni e le iniziative per non perdere l’appuntamento eccezionale. A Treviso, la Diocesi ha deciso di concentrare tutto sulla Cattedrale, così come a Belluno e Feltre. A Padova, dove il Messaggero di Sant’Antonio ha anche pubblicato “Giubiliamo”, un vademecum con tutte le informazioni utili, ci sono ben cinque Porte della Misericordia: nella Basilica pontificia di Sant’Antonio, nella Cattedrale di Santa Maria Assunta, nella cappella della casa di reclusione Due Palazzi, nel Santuario di San Leopoldo e in quello di Terrassa padovana di Conselve. A Chioggia è in programma per l’estate il Giubileo dei turisti e quello dei pescatori sull’isoletta di fronte all’imbarcadero della città e la chiesetta di San Domenico con il suo crocefisso miracoloso, mentre il 4 agosto si aprirà la Porta Santa al santuario della Madonna dell’Apparizione a Pellestrina. A Vicenza, la Porta Santa è stata aperta nella Cattedrale di Santa Maria Annunciata, ma poi anche nel Santuario di Monte Berico, in quello di Santa Maria della Salute degli infermi a Scaldaferro e nella Pieve francescana di Chiampo. A Verona, la Porta Santa è aperta nella chiesa di Sant’Anastasia alla Cattedrale, in quella di Santa Maria di Lourdes, Santa Teresa di Tombetta, alla Madonna della Corona, della Salute di Legnago, della Bassanella a Soave, in quella del Frassino a Peschiera sul Garda e alla Madonnina del Carmine ancora più in là, in terra ormai bresciana. La Diocesi di Vittorio Veneto ha puntato anch’essa sulla Cattedrale, il Santuario di Madonna delle Grazie di Motta di Livenza e, naturalmente, sulla spiritualità tutta cistercense dell’antica e suggestiva Abbazia di Follina. Nella parte più orientale della regione, invece, nella Diocesi di Concordia-Pordenone è aperta la Porta Santa della Cattedrale di Santo Stefano di Concordia, quella del Santuario di Nostra Signora di Fatima a Portogruaro, retto dai frati Cappuccini, e di San Michele al Tagliamento, mentre il 27 maggio, all’inizio della stagione balneare, sarà aperta quella della chiesa parrocchiale di Santa Maria Assunta di Bibione. Se il Giubileo si sta dimostrando in grado anche di attirare i turisti, con possibilità di affari per l’indotto in particolare nel campo dell’accoglienza e della ristorazione, non si può non rilevare come dovunque la mobilitazione dei residenti sia stata straordinaria, con cerimonie partecipatissime anche in caso di maltempo, segno che l’Anno Santo della Misericordia è visto come l’occasione per ribadire le radici e l’identità fortemente cristiane del popolo e del territorio, metropolitano e veneto. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Narcisismo di massa di Paolo Di Stefano Condividiamo ogni esperienza, anche banale, e misuriamo la soddisfazione in “like”. Ecco perché il digitale ci rende autoreferenziali Nella psicologia dell’era digitale, una delle voci più rilevanti è quella del Narcisismo. Per la verità, un «classico» molto dibattuto di Christopher Lasch, datato fine anni 70, ci aveva spiegato quanto già allora la nostra vita fosse fondata su un individualismo esasperato diffuso a tutti i livelli: indubbiamente aveva visto lontano, non potendo immaginare che un giorno sarebbe arrivata la cosiddetta «sindrome selfie o Instagram». Nel 2007, Jean Twenge, psicologa dell’Università di San Diego ed editorialista del Time , aveva battezzato come Generation Me (ovvero Generazione Io, titolo di un suo famoso saggio) la deriva narcisistica, segnalandola come uno dei tratti più notevoli dei giovani americani. Dimostrando peraltro come l’«epidemia narcisistica», dal 1980 a oggi, sia cresciuta nella stessa misura dell’obesità. Del resto, anche in Italia, su questa strada

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abbiamo avuto numerose e significative diagnosi, a cominciare dallo studio sociologico di Vincenzo Cesareo e Italo Vaccarini che assume il narcisismo come una sorta di metafora della contemporaneità. «Io io io»: è un trionfo ovunque, in tv, sui giornali, nel web, nella vita quotidiana. Ora, il Guardian , chiamando in causa Elan Golomb (autrice del celebre Trapped in the Mirror, «Prigionieri dello specchio») e un altro specialista, Pat MacDonald, rilancia l’allarme sociale: «È diventata una routine per le celebrità trasmettere le più banali informazioni e riempire Instagram con le fotografie dei momenti più importanti della loro giornata: il principio è che, per un personaggio famoso, nulla è banale». Il che fa pensare a Mark Zuckerberg che getta in pasto al clic compulsivo del popolo di Facebook le sequenze della neonata Max al primo vagito, al primo bagnetto, alla prima vaccinazione... È palese che la tecnologia funziona da volano orbeterraqueo per la propria autostima: e la quantità di «like» e di «follower» finisce per misurare il grado di soddisfazione degli interessati. Ma che cosa succede quando il meccanismo autopromozionale più comodo per personaggi mediatici tipo Paris Hilton o Cristiano Ronaldo diventa un modello davvero «virale», da imitare, anche per un adolescente di Abbiategrasso? Cesare Viviani, che è poeta e psicanalista, oltre che autore di acuti aforismi sui cambiamenti della vita sociale, ha una sua interpretazione del fenomeno: «Da una parte il narcisismo è il ripiegamento in sé dell’energia vitale, sottratta all’investimento negli altri: cioè alla possibilità di arricchirsi attraverso lo scambio di esperienze e al tempo stesso alla possibilità di perdere un po’ delle proprie certezze e della propria fisionomia mettendosi in gioco. D’altra parte il narcisista, con il suo senso di onnipotenza, negando l’esperienza vitale nega anche il limite della morte». Una sorta di risparmio energetico emotivo che si oppone all’iperattività nel consumo materiale: «La civiltà tecnologica - prosegue Viviani - invita a risparmiarsi sul piano affettivo e a evitare le occasioni di confronto con gli altri, proprio mentre ti sollecita a consumare il massimo di tutto: si tende a sostituire le relazioni umane con l’investimento sugli oggetti, che rimangono dove li lasci, senza mettere in gioco la tua personalità». È anche vero che la capacità progettuale di individui appagati di sé finisce per essere necessariamente debole, se non assente: e quando questo diventa un male collettivo è l’intera società a soffrirne. Qui, secondo Viviani, entra l’aspetto educativo: «La tendenza dei genitori ad appagare ogni desiderio dei figli, per evitare anche il minimo conflitto, ha conseguenze nella crescita psichica. Sottrarre i propri figli alla prova dell’impegno, della responsabilità e anche della frustrazione... contribuisce a creare generazioni autogratificate e autoriferite per le quali l’altro è solo una presenza disturbante». Tra gli esempi più recenti del trionfante narcisismo, l’editorialista del Guardian Zoe Williams non esita a collocare il candidato repubblicano Donald Trump, capigliatura dorata da conduttore di varietà, eccentricità carnevalesca come sinonimo di successo e di ricchezza compiaciuta di sé. «L’esposizione in politica della propria onnipotenza - dice Viviani - è una mina vagante, non solo per sé ma anche per gli altri». Certo, neanche in un romanzo di Philip Dick si riuscirebbe a immaginare un’America abitata da milioni di Trump. Ma è iperrealistico immaginare un mondo che aspiri a diventarlo. AVVENIRE Pag 21 “Leggere le email di notte? Una delle nuove dipendenze” di Andrea Lavazza Un ricercatore che si sveglia nel cuore della notte per controllare la posta elettronica, anche se non attende una comunicazione urgente da Los Angeles o da Tokyo, verrà forse giudicato un esponente della nuova classe di professionisti che non dormono mai. Un manager che rifiuta una vacanza con la famiglia se la destinazione è una località a rischio di black-out per cellulari e Internet sarà considerato un fanatico del lavoro, ma certamente apprezzato dai colleghi e superiori in azienda. In realtà, potrebbero essere casi di nuove dipendenze – non più da sostanze o da oggetti, come nelle più classifiche tossicomanie o nello shopping compulsivo – dipendenze sempre più diffuse e da non sottovalutare. Si tratta di patologie ancora poco studiate, e per questo è significativo il convegno internazionale che si svolge oggi all’Università Cattolica di Milano dedicato a 'Vecchie e nuove dipendenze nel corso della vita' (via Nirone 15, dalle 9.30). Tra gli organizzatori, Michela Balconi, docente di Neuropsicologia e Neuroscienze Cognitive. Professoressa Balconi, si parla di dipendenze da comportamenti. Di che cosa si tratta?

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Sono condotte che dall’abuso portano alla vera dipendenza. Inserita tra la patologie compulsive, la 'dipendenza da internet', o 'cyber-dipendenza', definisce ad esempio comportamenti disfunzionali legati all’uso del web con riferimento particolare ai giochi in rete, i social network e i siti web perlopiù a contenuti sessuali. La dipendenza si manifesta come esigenza che diventa vitale per il benessere fisico (presunto) o il mantenimento dell’equilibrio psicologico (presunto). In questi, casi come per la dipendenza da sostanze, si hanno fenomeni di tolleranza, che include la necessità di un aumento della quantità per raggiungere lo stesso effetto o un effetto diminuito con la stessa quantità, e di astinenza, con i sintomi di ansia relativi. Ma si può parlare di dipendenza da comportamenti come il controllo ripetuto delle email o la frequentazione di una palestra? Per parlare di dipendenza è necessario un aspetto psicologico di compulsività e di incapacità di provare benessere se si è privati del comportamento di cui si abusa. Ma è necessaria anche la presenza di uno stato fisiologico di neuroadattamento, prodotto dal ripetuto svolgimento della condotta, con il bisogno di continue ripetizioni per prevenire l’insorgenza di una sindrome d’astinenza. Deve esservi quindi un correlato bio-chimico nell’organismo, come nella dipendenza da sostanze, che affianchi l’assenza di controllo volontario. Le modificazioni disfunzionali degli stili di vita diventano poi il segno manifesto della disfunzionalità dei comportamenti di dipendenza. Nelle nuove dipendenze prevale comunque il versante psicologico, con difficoltà relazionali, autoisolamento e conseguenze economiche. La gravità delle nuove dipendenze deriva dal fatto che spesso manca la consapevolezza del disagio e che l’oggetto della dipendenza è un comportamento o un’attività socialmente approvata o comunque socialmente tollerata. I più a rischio sono i giovani… Certamente. I meccanismi della ricompensa, quelli che ci spingono a cercare situazioni da cui trarre soddisfazione immediata, sono modulati dai circuiti del neurotrasmettitore dopamina, che nei ragazzi è ancora in fase di maturazione. Pertanto, i giovani sono maggiormente a rischio anche dal punto di vista fisiologico, oltre che psicologico, rispetto condotte che promettono di dare piacere e che 'catturano' il sistema dopaminergico. Ma un nostro recente studio indica che, con semplici test, potremmo individuare i giovani più esposti a cadere nella trappola delle dipendenze. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DEL VENETO Pag 11 “Mose, i lavori non sono stati fatti bene ma rispetteremo la scadenza del 2018” di Alberto Zorzi Magistro: a Mazzacurati non daremo più nulla. Chiesti 60 milioni alle imprese Venezia. «Trenta giugno due-mi-la-e-di-ciot-to». Luigi Magistro lo scandisce bene e cita George W. Bush padre, che nel 1988 vinse le presidenziali americane «ipnotizzando» gli elettori: «Read my lips, no new taxes», cioè «guardate le mie labbra, basta tasse». Anche Magistro, uno dei tre commissari del Consorzio Venezia Nuova, chiede di guardargli le labbra mentre ribadisce che il cronoprogramma resta lo stesso: il Mose sarà terminato a metà del 2018. L’ex colonnello della Guardia di Finanza presenta il bilancio 2015 (il primo dell’amministrazione straordinaria, dopo il commissariamento del dicembre 2014) e non nasconde che la strada per arrivare a quel taglio del nastro è irta di incognite, dopo gli arresti del 4 giugno di due anni fa. Ci sono le «criticità» delle opere costruite finora, ci sono i rischi dei finanziamenti e i timbri della Corte dei Conti. «Dopo tutto quello che è successo, il primo problema è stato vedere se i lavori erano stati fatti bene - spiega Magistro - Perché la vera domanda è: per quale motivo venivano pagate le mazzette?». La risposta del commissario, che due decadi fa era in forze al pool investigativo di Mani Pulite a Milano, non è diretta, ma il suo pensiero si intuisce: per azzerare i controlli, fare i lavori alla bell’e meglio e razziare quanti più utili possibili. Il jack-up ai box, la lunata crollata, il cassone rotto, il problema alla porta della conca di navigazione. «Io credo che il Mose funzionerà - dice Magistro - ma bisogna risolvere i

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problemi e capire se derivano da errori progettuali o di esecuzione». Sullo sfondo è evidente la tensione con le imprese, a cui Magistro e i suoi colleghi Francesco Ossola e Giuseppe Fiengo hanno presentato un conto da capogiro. A bilancio sono segnate richieste per 60 milioni di euro, 33,2 per le false fatture e 27 per il disavanzo del bilancio 2014: il «rosso» era di 28 milioni, uno è stato recuperato grazie all’attivo di quest’anno. «Non ci speravo nemmeno io in questo risultato», ammette Magistro. Anche perché quest’anno le entrate per gestire la macchina del Consorzio sono state di 16 milioni di euro, contro i 60/70 degli «anni d’oro». «Era stato creato un sistema di anticipazione degli oneri del concessionario, per cui nei primi anni sono arrivati molti più soldi rispetto al 12 per cento previsto e oggi ne paghiamo le conseguenze - spiega - Allo stesso modo nei primi anni si sono costruiti i cassoni e tutte le opere che facevano fare più utili alle imprese, mentre ora ci troviamo a gestire paratoie e impianti, che sono le parti più delicate». Intanto il Consorzio sta studiando l’avviamento della gestione per i 2-3 anni successivi. «Non abbiamo ancora definito i costi di manutenzione, ma posso promettere che non ci saranno molti guadagni per il Consorzio - spiega - sarà un altro film rispetto a quello di chi pensava che ci fossero dei maxi-utili». Tensioni con le imprese anche sui dipendenti. Dai consorziati erano arrivate forti pressioni per ridurre l’organico, ora di 115 unità. «Siamo riusciti a non toccare nessuno, grazie ai contratti di solidarietà e un generale taglio del costo del lavoro», dice Magistro. Nel 2010 il Consorzio aveva 180 dipendenti e 12 dirigenti. Questi ultimi erano poi scesi a 7, ora sono 2. «Il costo del vertice del Consorzio era di 5/6 milioni, ora siamo a un milione», continua Magistro. I tre commissari percepiranno nel 2016 un compenso complessivo di 703 mila euro. I risparmi (tra cui anche il secondo jack-up, che non si farà più) saranno intanto messi da parte per eventuali spese per le «criticità» suddette. Quanto all’ex presidente Giovanni Mazzacurati, Magistro conferma l’intenzione di tenere duro su quell’ultimo milione e 154 mila euro della maxi-liquidazione da 7 milioni: «Dalle casse del Consorzio sono spariti una montagna di soldi e vogliamo recuperare fino all’ultimo centesimo - continua - A Mazzacurati non daremo nulla senza che lo dica un giudice». Quanto al futuro, quest’anno in bilancio si prevedono cantieri per 264 milioni e a novembre arriveranno le prime paratoie dai cantieri di Brodosplit. Quanto alle manutenzioni all’Arsenale, su cui la Soprintendenza aveva espresso qualche riserva, Magistro conferma: «Sono previste lì, anche perché sono stati investiti decine di milioni di euro». LA NUOVA Pag 22 Tempio Votivo, restauri a rischio per la burocrazia di Simone Bianchi Manca l’accordo tra l’Esercito e la Curia. Il progetto fermo in Soprintendenza, in bilico 1,6 milioni di fondi Lido. Il restauro del Tempio Votivo è a rischio. Il progetto per eseguire i lavori è fermo in Soprintendenza, e manca un accordo sulla convenzione tra Commissariato Generale Onor Caduti e Curia veneziana. Quest'ultima è proprietaria del sacrario militare, mentre l'Esercito ne ha la concessione. A complicare ancor più la vicenda ci sono undici loculi realizzati anni fa per ospitare le salme di altrettanti caduti, sepolti al cimitero di San Michele. Un trasferimento mai completato. Ballano così 1,6 milioni di euro in fondi comunitari che dovrà erogare la Regione, ma i tempi stringono e senza accordi salterà tutto, con il finanziamento europeo che finirebbe in quel caso su altre opere. «Il Comune sta facendo di tutto e di più per salvare quei fondi» assicura l'assessore ai Lavori pubblici, Francesca Zaccariotto. «Una volta perso quel denaro, non se ne avrebbe altro per questo intervento». I lavori prevedono la manutenzione esterna del sacrario, nuovi impianti elettrici e di riscaldamento, un ascensore per raggiungere il piano superiore che dovrebbe essere sistemato come sala espositiva, e poi interventi ai servizi igienici e alle sale interne. «Purtroppo la gara doveva partire già a dicembre, e così abbiamo già avuto una decurtazione del 2 per cento sul finanziamento» aggiunge l'assessore Zaccariotto. «Ora c'è tempo fino al 31 marzo per approvare o modificare il progetto attuale, perché va anche capito, facendo la sala espositiva, come dovrà essere poi usato il sacrario. Ma senza accordo tra Curia ed Esercito non se ne verrà fuori. In quel caso non ci sarebbero i tempi tecnici per procedere alla gara e per iniziare i lavori in giugno, così come stabilito negli accordi. Inoltre c'è anche il problema di una firma da risolvere: inizialmente sul progetto è stata apposta quella del parroco di Santa Maria Elisabetta, ma per gli accordi

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serve quella della Curia». Insomma, un autentico ginepraio burocratico. È quindi incerto il futuro del sacrario militare costruito negli anni Venti del secolo scorso e nel quale riposano 3.790 caduti dei due conflitti mondiali, tra cui eroi come Nazario Sauro e i corpi dei 46 ufficiali trucidati a Trjli nella ex Jugoslavia. Tempio Votivo che venne progettato dall'architetto Giuseppe Torres e voluto dal cardinale Pietro La Fontaine, quale voto alla Madonna affinché proteggesse Venezia dai bombardamenti. Pag 23 Migranti, sì a 559 posti sui 1778 necessari di Francesco Furlan Poche adesioni al bando della Prefettura. E alcune realtà che lavorano con i profughi hanno deciso di non partecipare. I sindaci contestano la mancanza di decisione e chiarezza di Roma e Bruxelles Il Veneziano, come da bando, deve prepararsi ad accogliere 1778 migranti ma dalle cooperative, dalle associazioni e dalle parrocchie sono arrivate domande che permettono di coprire appena 559 posti. Se non è una débâcle, ci manca davvero poco anche perché molte realtà che già ospitavano e ospitano migranti hanno fatto un passo indietro. Diciassette comuni. A fornire i dati, ieri sera, è stato il prefetto di Venezia, Domenico Cuttaia, nell’incontro avuto a Ca’ Corner con sindaci o assessori dei 18 comuni nei quali è prevista la presenza di strutture e appartamenti per l’ospitalità dei migranti. La prima conseguenza di un numero così basso di richieste - meno di un terzo del totale - è che nonostante la buona volontà sarà per il momento impossibile risolvere la situazione dell’ex base militare di Cona dove oggi sono ospitati quasi seicento migranti. Il prefetto, parlando con i sindaci, ha spiegato che conta comunque di alleggerire la situazione per alcune decine di unità, un intervento che comunque non modificherà la situazione. Il passo indietro. La seconda conseguenza è che quando i migranti arriveranno - perché ci sono pochi dubbi sul fatto che l’esodo dal Nord Africa non si fermerà - la prefettura dovrà procedere ad assegnazioni dirette, con il rischio che si verifichino casi analoghi a quello di Cona, dove la base è gestito dalla padovana Eco-officina, al centro delle polemiche per la qualità dell’accoglienza anche in altre strutture del Padovano. Ma un altro dato preoccupante che è emerso nell’incontro di ieri sera è che anche realtà che già operano con i profughi hanno deciso di non partecipare al nuovo bando. Da Mira, ad esempio, sono arrivate richieste per un numero minore di profughi rispetto a quelli oggi ospitati. Da Chioggia, dove oggi sono alloggiati circa cento migranti, invece non è arrivata una sola domanda. Molte realtà hanno deciso di fare un passo indietro per i ritardi con cui arrivano i pagamenti, un ritardo maggiore - secondo le associazioni - rispetto alle altre prefetture venete. C’è da chiedersi allora che fine faranno, da quando a metà marzo entrerà in vigore il nuovo bando, gli ospiti di queste strutture che hanno deciso di mettere fine all’esperienza dell’accoglienza? Rinnovo dei contratti. Il prefetto Cuttaia ha spiegato che chiederà alle realtà che già ospitano i migranti ma che non hanno partecipato al nuovo bando di mantenere i rapporti oggi in essere. E’ grazie alla somma tra i posti attualmente coperti - nella speranza di convincere le cooperative al rinnovo - e le nuove domande arrivate che Cuttaia conta di riuscire a spostare una settantina di migranti da Cona. Sono però calcoli fatti sulla carta e che difficilmente reggeranno alla prova dei fatti. Anche perché, come osserva il sindaco di Cona, che differenza farebbe ridurre il numero degli ospiti da 600 e 500? La nota di Cuttaia. Dopo la polemica con il leader del Carroccio sul piano di accoglienza dei migranti, ieri Cuttaia ha ribadito in una nota la parte centrale del suo ragionamento: «Ho detto e ribadisco che qualora dovessero presentarsi ritiri delle offerte già formulate disporrò accertamenti da parte degli organi di polizia per verificare se si siano avuti condizionamenti, pressioni o altro nei confronti dei privati offerenti, situazioni queste che in una procedura di gara, costituiscono precise fattispecie criminose. Questa non è una minaccia ma una pretesa di legalità che chi ha pratica di corrette procedure di gara ben comprende». È difficile trovare un sindaco che esca con il sorriso sulle labbra dall’incontro di ieri sera in prefettura. Tra i più arrabbiati c’è sicuramente il sindaco di Cona, Alberto Panfilio, ben conscio che difficilmente la situazione dell’ex caserma di Cona sarà risolta in tempi brevi. «È stato sbagliato il bando perché è ovvio che se diminuisce il numero di posti disponibile per comune obblighi i privati a fare offerte su numeri più bassi che non si reggono in piedi da un punto di vista del conto economico». Il prefetto ha detto che

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conta di alleggerire Cona di almeno 70 migranti. «Ma per farlo deve convincere le strutture che oggi ospitano i migranti e non lo vogliono più fare a rinnovare il bando. E non è detto che ce la faccia. E poi cambierebbe poco alleggerire la sede di 70 migranti. Torno a dire che il bando è stato sbagliato fin dall’inizio: condivisibile nella carta ma incapace di portare a risultati concreti». Per il Comune di Venezia c’era invece l’assessore Simone Venturini. In diverse strutture sparse tra il centro storico e la terraferma il comune ospita e continuerà ad ospitare poco meno di 300 migranti, compresi i 106 della rete Spraar. «Subiamo l’effetto di una mancanza di decisione a Roma come a Bruxelles», dice Venturini, «prefetture e comuni si muovono come possono, parano il colpo. Ma nessuno ci dice che ne sarà di questi profughi quando terminerà il periodo di accoglienza». Sono le stesse domande che si è fatto anche il sindaco di Scorzè, Giovanni Mestriner. Nel suo comune saranno otto i migranti ospitati. «Ma nessuno sa», dice, «che fine faranno sia nel caso in cui venga loro concesso lo status di rifugiato, sia nel caso in cui venga negato». A Santa Maria di Sala, sindaco Nicola Fragomeni, ne ha e continuerà ad averne 6 - gestiti dalla Villaggio Globale. «Gli operatori sono bravi», dice il sindaco, «ma la gestione nazionale dell’emergenza è assurda». «Chiedo al ministro dell’Interno, Angelino Alfano se è a conoscenza e quali iniziative e provvedimenti intende assumere per tutelare il prefetto di Venezia, Domenico Cuttaia, attaccato sui social network dal segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini». Inizia così l’interrogazione a risposta orale che il deputato del Pd, Davide Zoggia, ha presentato al responsabile del Viminale - interrogazione sottoscritta da tutti i parlamentari Pd del Veneziano - dopo che il leader del Carroccio, in un post pubblicato l’altro giorno su facebook, aveva attaccato il prefetto veneziano. Un post nel quale Salvini scriveva: «Il prefetto di Venezia, il signor Domenico Cuttaia, minaccia di denunciare alla magistratura per turbativa d'asta i sindaci veneti che si oppongono all'arrivo nel loro paese di immigrati: è pagato per difendere i cittadini, non per fare l'affittacamere per migliaia di finti profughi». Nello stesso post Salvini scriveva che «il prefetto di Venezia, vergognoso, dovrebbe essere licenziato» pubblicando il numero telefonico della prefettura di Venezia, invitando i lettori ad usarlo «per salutare il signor prefetto, educatamente come ovvio, e magari per chiedergli una casa». Una scelta - quella di pubblicare i numeri di telefono dei suoi obiettivi politici - che Salvini usa spesso. L’anno scorso ad esempio, restando a Venezia, aveva pubblicato il numero della colonia del Lido «responsabile», a suo dire, di ospitare i profughi. Secondo Zoggia «le parole dell’esponente politico appaiono, inquietanti e alimentano un clima di tensione rispetto ad un argomento dal forte impatto sulla opinione pubblica». IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Migranti, poche adesioni al bando di Paolo Navarro Dina e Gabriele Pipia Scarse offerte d’accoglienza nei comuni della provincia: trovati 559 posti su un totale di 1.788. Il fronte dei sindaci Le parole di Domenico Cuttaia, prefetto di Venezia, sono state chiare: attenzione a non tirarsi indietro dagli obblighi delle pubbliche amministrazioni in materia di emergenza profughi. Un monito importante proprio in occasione del nuovo bando per l’assistenza ai rifugiati che, non solo sta creando più di qualche malumore a sfondo politico, ma allo stesso tempo sta vedendo una scarsa adesione da parte dei sindaci della provincia. Insomma, il solito "braccio di ferro" tra primi cittadini recalcitranti e Prefettura che, secondo criteri di solidarietà stabiliti a livello centrale, si adopera per dare un tetto e una sistemazione a casa nostra. E pensare che, al di là delle difficoltà e degli ostacoli messi qua e là da qualche ente locale, la situazione nel Veneziano è sicuramente buona. Nel complesso sono presenti 1331 profughi ai quali vanno aggiungersi 127 richiedenti asilo. In totale 1.458 persone. Insomma, obiettivo di solidarietà praticamente quasi raggiunto se si pensa che la quota assegnata a Venezia dal Governo è di 1502 unità. In pratica, salvo una ridistribuzione di persone (alquanto improbabile adesso, ma che potrebbe cambiare se ritornassero gli sbarchi con la primavera inoltrata) in provincia di Venezia ci sarebbe posto per altre 44 persone. Ma ora da sciogliere c’è la scarsa adesione al nuovo bando per l’accoglienza con un atteggiamento dei sindaci quanto meno tiepido per dirla

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con un eufemismo. E anche ieri in Prefettura per un ennesimo vertice sull’emergenza migranti erano proprio pochi i sindaci presenti (Mira, Scorzè, Santa Maria di Sala, Salzano, Venezia con l’assessore Simone Venturini, Marcon) oltre a Maria Rosa Pavanello, sindaco di Mirano e presidente dei comuni del Veneto. «Quello che registriamo - ha detto Cuttaia - è che il bando punta a mettere a disposizione 1788 posti: finora ne abbiamo registrati circa un terzo, solo 559. Troppo pochi». E il rappresentante di governo lo ha detto senza polemiche, anzi ribadendo quanto aveva annunciato nei giorni scorsi in una riunione a Salzano, mettendolo per iscritto anche in una nota della Prefettura: «Lo scorso anno - puntualizza il rappresentante di governo - l’esito della gara aveva dato un certo risultato, ma dopo qualche giorno la maggior parte delle offerte pervenute venne ritirata, con la conseguenza di impedire l’attuazione del piano di distribuzione sul territorio per piccoli gruppi come era stato predisposto. Se si dovessero verificare ritiri delle offerte già formulate disporrò degli accertamenti da parte degli organi di polizia per verificare se vi sono stati condizionamenti, pressioni o altro nei confronti dei privati offerenti, tanto che queste situazione possono costituire fattispecie criminose come la turbativa d’asta». Nella riunione, infine, è stato lanciato anche un altro allarme riguardante le persone alle quali viene riconosciuto l’asilo politico. A queste la procedura prevede che una volta riconosciuto lo status, non venga più concessa l’assistenza umanitaria diretta, quindi perdendo il rapporto con il sistema delle Prefetture. I sindaci hanno fatto presente che queste persone, da un giorno per l’altro lasciate sole, bussano alle loro porte in cerca di aiuto e sostegno che non sempre le Amministrazioni comunali riescono a dare. «Chiederò urgentemente un incontro a livello nazionale. L'esito di questo bando dimostra ancora una volta che i numeri assegnati al Veneto sono insostenibili». Maria Rosa Pavanello parla da sindaco di Mirano ma soprattutto da presidente dell'Anci. Rappresentando tutti i sindaci veneti, ieri sera al termine del tavolo in Prefettura ha confermato la propria preoccupazione. «I problemi continuano ad esserci, bisogna assolutamente riuscire ad alleggerire Cona che non può continuare ad ospitare 500 persone. La situazione è notevolmente cambiata rispetto al passato: un tempo il Veneto aveva percentuali alte di immigrati anche perché c'era molto lavoro e dunque molto bisogno di manodopera, ora il contesto è completamente diverso e va fatta dunque una nuova riflessione sui numeri». Se la Pavanello mantiene un tono istituzionale e non perde occasione per sottolineare che «il prefetto ha un compito difficile e sta facendo il possibile», il collega di Scorzé Giovanni Battista Mestriner è invece decisamente più schietto nel proprio attacco: «Questa politica della micro-accoglienza serve solo a nascondere la polvere sotto il tappeto. È una vergogna». Il Comune di Scorzè attualmente non ospita alcun rifugiato ma, dalle offerte comunicate ieri in Prefettura, è emerso che in questo Comune arriveranno otto migranti (4 in via Matteotti e 4 in via Speri). Nei giorni scorsi il sindaco aveva polemizzato duramente con Domenico Cuttaia dichiarando la propria contrarietà all'ospitalità e annunciando un consiglio comunale straordinario, ieri sera ha rincarato la dose: «Abbiamo chiesto quanto staranno queste persone e chi le controllerà, ma abbiamo avuto risposte vaghe. Ormai è tutto in carico alle comunità, ma non c'è capacità di assorbimento». Più moderato il commento del collega di Santa Maria di Sala, Nicola Fragomeni: «Il problema è grande e adesso la priorità è alleggerire Cona: per questo ognuno dovrà farsi carico di un pò di offerte». Sulla stessa linea Andrea Follini, sindaco di Marcon: «Ci stiamo interrogando su come affrontare la situazione di Cona. Va poi fatto un ragionamento più ampio su come gestire queste persone a lungo termine, una volta terminata la prima fase d'assistenza. Inutile comunque parlare ora di numeri, attendiamo comunicazione della chiusura del bando». Pag XXI Caorle: scuola materna in difficoltà, avviata una raccolta di fondi di Riccardo Coppo Caorle - Continua l'attività di sostegno economico alla scuola materna «Madonna dei Pescatori» di Santa Margherita. Da oltre cinque anni, la gestione dell'asilo è passata dal Comune di Caorle alla parrocchia Santa Margherita per la quale non è facile far quadrare i conti. I costi di gestione sono alti, soprattutto dopo l'addio delle Suore Dimesse di Padova che non potevano più assicurare la loro presenza nell'asilo. Per questo, la

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parrocchia e soprattutto i genitori degli stessi iscritti organizzano costantemente iniziative volte a raccogliere fondi da devolvere alla scuola materna. L'ultima, in ordine di tempo, è la decorazione delle uova di cioccolato. In previsione della Pasqua, alcune volontarie della parrocchia stanno abbellendo delle uova di cioccolato che, una volta pronte, saranno presentate ai fedeli. In cambio di una modica offerta, ci si potrà assicurare una di queste uova. «La disponibilità dei genitori dei bambini e dei nostri parrocchiani è un dono della provvidenza - ha commentato Don Gino Zuccon, parroco di Santa Margherita - Grazie a loro, ed al contributo del Comune di Caorle, riusciamo a tenere aperto l'asilo, garantendo un servizio alle famiglie del quartiere. A chiunque in questi anni si sia prodigato per la nostra scuola va il mio più sincero ringraziamento». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Pietro e il passato che torna di Massimiliano Melilli Maso e le minacce Un finale da (ri)scrivere. Come nella migliore tradizione dei noir o nella peggiore dei fatti di cronaca, l’epilogo è ancora tutto da scoprire. Per gli amanti delle storie a lieto fine sarà pure una delusione ma il caso Pietro Maso non è chiuso. Di più. E’ tornato drammaticamente di attualità. Venticinque anni dopo l’omicidio di papà Antonio e mamma Mariarosa, 1.095 giorni dopo la fine della condanna a 22 anni di carcere, una cosa è certa: Pietro non è mai andato oltre «l’evento» che gli ha cambiato la vita. Anzi. Con la mente e il corpo è rimasto quasi inchiodato a quel «plot» di sangue. Tanto che in due intercettazioni acquisite dagli investigatori nei giorni scorsi, Pietro dice testualmente: «Le mie sorelle? Su di loro devo finire il lavoro di 25 anni fa...». Non solo gli inquirenti stanno indagando su di lui da gennaio per un tentativo di estorsione ai danni di un ormai ex amico veronese. Per Pietro c’è una nuova grana: le minacce di morte contro Nadia e Laura, costrette a convivere con un incubo senza fine e ora sottoposte ad un servizio di protezione più elevato. Il 21 dicembre scorso, le due sorelle hanno descritto così Pietro: «Completamente alterato, irriconoscibile, in preda a un delirio di onnipotenza». Un passaggio poi fa venire i brividi: «Nei suoi occhi, abbiamo rivisto quelli della stessa persona che si macchiò di un crimine tanto efferato venticinque anni fa». Circostanza che l’8 gennaio scorso ha indotto le due sorelle a presentare un esposto contro il fratello. Pag 7 Maso era al telefono con il prete e l’ex moglie. Le sorelle: abbiamo paura di Laura Tedesco Le minacce: “Devo finire il lavoro di 25 anni fa” Verona. «Terrorizzate che Pietro possa tornare a Verona». Prima le minacce di morte ricevute dal fratello, poi i carabinieri che vigilano sulla loro incolumità attraverso un servizio di protezione discreto quanto costante. Erano già «fortemente preoccupate» prima, Nadia e Laura Maso. Ma adesso che hanno saputo del foglio di via obbligatorio da Milano fatto notificare martedì a Pietro dal questore meneghino, le sorelle stanno «ancora peggio» . Perché il timore, ora, è che - come emerge dal loro legale - «lui possa far ritorno qui a Verona». Con tutti i rischi che un simile evento potrebbe comportare per Nadia e Laura. «Su di loro devo finire il lavoro di 25 anni fa...», avrebbe detto Pietro al telefono riferendosi alle sorelle. Secondo gli inquirenti le avrebbe minacciate nel corso di due conversazioni al cellulare intercettate dagli investigatori che lo tengono sotto controllo da quando, a gennaio, è stata aperta contro Pietro un’inchiesta per tentata estorsione ai danni di un veronese con cui era stato legato fino a qualche mese fa da un rapporto di amicizia. Si tratta di telefonate a due persone diverse, e adesso si scopre che una di loro sarebbe don Guido Todeschini, la guida spirituale di Maso, e l’altra Stefania, la donna che lui ha sposato dopo essere tornato in libertà ma da cui, alcuni mesi fa, ha deciso di comune accordo con lei di separarsi. Annunci di possibili ritorsioni contro Nadia e Laura, quelli rivolti al loro indirizzo dal fratello in due differenti telefonate captate nei

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giorni scorsi, che sono stati ritenuti «fondati e gravi». Tanto da aver indotto, a partire da martedì mattina, i carabinieri a intensificare il servizio di «vigilanza dinamica» attuato già da un mese per proteggere l’incolumità di Nadia e Laura. Minacciate da quel fratello che nel 1991, nella loro casa di Montecchia di Crosara, ammazzò i genitori Antonio e Mariarosa per appropriarsi dell’eredità. Scontati 22 dei 30 anni di carcere a cui venne condannato in primo grado dalla Corte d’assise di Verona, sembrava che per Pietro la seconda vita potesse viaggiare sui giusti binari. Sposato con Stefania Occhipinti, un lavoro prima a Milano e poi a Telepace, pareva finalmente una persona diversa e matura. Qualcosa tuttavia nella seconda parte del 2015 era cambiato. La separazione dalla moglie, il licenziamento da entrambi i lavori, una permanenza in Spagna da settembre a dicembre. Quando Pietro rientrò in Italia secondo le sorelle appariva una «persona cambiata». Sembrava «alterato e irriconoscibile». Fu sempre in quei giorni a cavallo tra fine anno e inizio 2016, che a Nadia giunse per errore dal telefonino del fratello quell’sms: «Adesso F. pensaci bene, domani ti chiamo, e se rispondi bene e fai quello che devi fare, o vengo lì e ti stacco quella testa di cazzo che hai». Erano state proprio quelle parole così minacciose e violente a indurre le sorelle a presentare il doppio esposto contro di lui ai carabinieri di San Bonifacio. Era l’8 gennaio 2016, e da lì scattò la nuova inchiesta della procura di Verona contro di lui. «Ma stavolta non ho fatto nulla», aveva risposto Maso al telefono, raggiunto a Milano dal Corriere del Veneto. E il messaggio intimidatorio a Fabio per chiedergli altri soldi arrivato per errore al cellulare della sorella Nadia? «Non ho bisogno di spiegare nulla e non ho bisogno di difendermi da nulla perché non ho fatto nulla. Stavolta non ho commesso niente di grave», aveva aggiunto. A quell’intervista, l’avvocato Agostino Rigoli che tutela le sorelle da 25 anni aveva reagito definendolo «una persona intelligente, tutt’altro che stupida, ma con due personalità». Il problema è che «Pietro non ha capito che le sorelle, denunciandolo, lo volevano aiutare». Ma lui non l’ha evidentemente compreso. Tanto da volersi ora vendicare. IL GAZZETTINO Pag 15 “Sprechi, non c’è la volontà di tagliare” di Gianluca Amadori Dura denuncia del procuratore regionale della Corte dei Conti all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il caso Mose «Non vi è la reale volontà di affrontare il problema degli sprechi e della corruzione nella pubblica amministrazione, di garantire effettivi controlli sull’attività degli amministratori pubblici». È dura la denuncia lanciata dal procuratore regionale della Corte dei conti, Carmine Scarano, nel corso dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, celebrata ieri mattina a Venezia, alla Scuola di San Giovanni Evangelista. Il magistrato ha portato l’esempio eloquente dello scandalo Mose: le questioni che hanno causato la mala gestio dei lavori, costati centinaia di milioni di euro più del previsto, erano state segnalate dalla Corte dei conti fin dal 1997 (e poi nel 2009) a presidenza del Cosiglio e ai vari ministeri competenti, ma invano. Tutto è proseguito come nulla fosse, alimentando corruzione e favori a causa di mancanza di concorrenza, aggio eccessivo, subappalti. Oggi è cambiato ben poco: invece di rafforzare le strutture esistenti, invece di fornire uomini, mezzi e strumenti alla Corte dei conti, «si preferisce inventare ogni volta qualcosa di nuovo, che quasi mai funziona», denuncia Scarano. É il caso delle numerose "autorities", che hanno innescato «una burocratizzazione del sistema... La corruzione continua a venir fuori come l’eruzione dell’Ena... ma tutti continuano a predisporre lunghi ed elaborati piani triennali anticorruzione...». Per non parlare della tendenza ricorrente, dimostratasi fallimentare, di volersi affidarsi «all’uomo forte in grado di risolvere tutti i problemi irrisolti e irrisolvibili». Il procuratore ha elencato i risultati ottenuti grazie all’impegno di magistrati, forze dell’ordine e personale di cancelleria, ricordando i principali fronti di contrasto a sprechi e malaffare, tra cui truffe nell’utilizzo di fondi per la formazione professionale e i progetti per l’agricoltura, nonché irregolarità nel settore della Sanità. Un capitolo è stato dedicato alla questione del project financing, ed in particolare ai due progetti veneti - Pedemontana e Progetto integrato Fusina - evidenziando il problema di tempi infiniti e lievitazione dei costi. Breve, ma incisiva, la replica del presidente della Regione, Luca Zaia, il quale ha lamentato le difficoltà che gli amministratori hanno nel gestire i project in assenza di norme adeguate, e nel garantire i controlli, in mancanza di

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strutture sufficienti. Quanto alle consulenze esterne, spesso censurate dai giudici, ne ha rivendicato l’esigenza per poter gestire questioni sempre più complesse, con controparti private sempre più forti. Il Governatore ha avanzato la richiesta di poter usufruire di «consulenze preventive» da parte della Corte dei conti, per poter lavorare meglio. E, infine, ha denunciato la "moda" di presentare ricorsi alla Procura, chiedendo che vengano sanzionati quelli palesemente infondati. Il presidente della Corte, Guido Carlino, ha elencato le varie riforme che interessano la giustizia contabile, lamentando il previsto accorciamento dei tempi di prescrizione e centrando l’attenzione in particolare sulla questione delle società a partecipazione pubblica e sulla necessità di sottoporre i loro amministratori (che gestiscono soldi pubblici) al controllo della Corte dei conti. Una recente legge sul servizio pubblico radiotelevisivo ha invece stabilito che per gli eventuali danni realizzati da amministratori Rai è possibile solo avviare cause di responsabilità in sede civile. Quanti agli organici, Carlino ha evidenziato come la Corte veneziana abbia lavorato per tutto il 2015 con soli 4 magistrati (oltre al presidente) a fronte degli otto previsti in organico. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Il dovere di agire di Franco Venturini Ora che il sangue italiano ci ha fatto entrare in casa una minaccia da tempo individuata e da tempo denunciata su queste colonne, diventa necessario compiere sul caso Libia una operazione chiarezza che militanze diverse e diverse retoriche hanno talvolta offuscato. Sulla natura dell’Isis e del suo tentativo di insediarsi stabilmente a poche centinaia di chilometri dalle nostre coste non dovrebbero più esistere dubbi. Il suo radicalismo ideologico-religioso e la sua inaudita crudeltà sono noti, al pari delle sue iniziative terroristiche. Vanno aggiunti i contatti stabiliti dall’Isis con i jihadisti del Sinai, del Mali settentrionale e del sud dell’Algeria, con al Qaeda nel Sahel, con Boko Haram in Nigeria, con i Shabab in Somalia, nell’intento evidente di infiltrare buona parte dell’Africa. Si moltiplicano le indicazioni (le ultime ieri dal Marocco) sulla disponibilità da parte dell’Isis di armi chimiche e batteriologiche. La «rivincita sunnita» che l’Isis incarna in forma parossistica è forse in parziale arretramento in Siria e in Iraq, ma è di certo in espansione numerica e geografica in Libia e dintorni. E se si aggiunge che l’Italia ha da tutelare i suoi rifornimenti energetici, e deve prevenire ulteriori sfruttamenti dei flussi migratori, la conclusione, malgrado il comprensibile timore di rappresaglie, può essere una soltanto: l’Isis va fermato. La questione tuttora irrisolta riguarda il «come». E qui l’Occidente, che come sempre si proclama unito, unito non è. Occorre partire dai pericoli strategici che un intervento comporta. Se i libici di tutte le bandiere sentissero violata dallo straniero la loro sovranità, molti finirebbero per ingrossare le file dell’Isis. Un boomerang, il secondo dopo quello confezionato nel 2011. Da questa analisi praticamente unanime nascono due vie distinte. Una è quella percorsa con tenacia perfino eccessiva dall’Italia, in sintonia con la mediazione Onu: prima deve nascere un governo di unità nazionale, e soltanto dopo, in presenza di una legittimante richiesta d’aiuto, potranno partire missioni militari di supporto d’intesa con i libici, dunque non offensive verso la loro sovranità. Ineccepibile sulla carta, questo piano è ormai svuotato nella realtà. La tessitura diplomatica dura da un anno e mezzo, l’attuale governo unitario fatica ad essere ratificato persino dal parlamento «amico» di Tobruk e non saprebbe dove insediarsi, la sua base politica e militare in Libia è minima, in definitiva la sua nascita è diventata irrilevante. Perché se la richiesta di aiuto giungesse da un organismo così poco rappresentativo, servirebbe sul fronte interno di ogni Paese pronto a intervenire ma non in Libia. La seconda via è quella seguita da Usa, Gran Bretagna e Francia. Questi tre governi auspicano come l’Italia e per gli stessi motivi la nascita di un governo libico unitario. Ma hanno da tempo preso le sue misure reali, e perciò hanno cercato e raggiunto accordi con i veri poteri libici anti Isis: milizie, tribù, autorità locali, brandelli di esercito, tutti purché libici e disposti ad accettare senza offesa l’appoggio di forze speciali ridotte ed efficaci. Che sono sul campo da parecchie settimane, e da

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Bengasi a Tripoli aiutano senza clamore chi combatte le forze del Califfato. Le «missioni segrete» concordate localmente con i libici sono destinate a moltiplicarsi, e l’Italia si prepara con ritardo a parteciparvi anche perché non sarà richiesto un voto del Parlamento e occorre dare contenuto al «ruolo guida» che abbiamo reclamato e a parole ottenuto. Se davvero l’Italia si affiancherà con i suoi uomini alle forze speciali degli alleati, diventerà prezioso per stabilire nuove intese con i libici il lavoro fatto sul campo dai nostri Servizi. E troverà conferma il ruolo anch’esso prezioso svolto dalla Marina, mentre resta dubbio che l’Italia voglia partecipare a bombardamenti aerei. E se poi giungesse anche il governo unitario, tanto meglio. Ma il punto sul quale serve consenso è che non lo si può più aspettare, e dunque occorre dosare le modalità di intervento dedicandosi a una collaborazione con frammenti di Libia contro l’Isis. Una ipotesi di peace enforcing con migliaia di soldati a terra sarebbe tutt’altra storia. Una storia assai più complessa e senza prevedibili vie d’uscita. È preferibile aiutare i libici ad estirpare l’Isis, senza retorica e con poco rumore. Pag 9 Cautela bipartisan sull’opzione militare di Massimo Franco La pressione per un’azione militare in Libia aumenta, come era prevedibile dopo la morte di due italiani avvenuta ieri. Rimane tuttavia soprattutto la cautela, ed è più che giustificata. Il governo di Matteo Renzi ha davanti gli effetti a dir poco controversi dell’intervento voluto da Francia e Gran Bretagna nel 2014 contro il regime di Gheddafi; e in qualche modo subito dall’allora governo di Silvio Berlusconi. La frantumazione tribale e il terrorismo ne sono il sottoprodotto. L’insistenza su una copertura internazionale e su una richiesta del governo libico, nascono dalla memoria degli errori commessi. A preoccupare è una saldatura tra tribù e Isis in chiave antioccidentale. Il tema è delicato, perché incrocia l’allarme che il populismo europeo fomenta in materia di immigrazione. Matteo Salvini, capo della Lega, accusa il premier e il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di essere «o matti o complici». Di Renzi arriva a dire che «ha le mani sporche di sangue» per la morte dei due ostaggi. Quanto a FI, Paolo Romani insiste sull’«urgenza» di un intervento. E denuncia l’«assenza» del governo. Il quadro sembra destinato a inasprirsi. Quanto si delinea prescinde da un’analisi dell’accaduto. Esaspera posizioni latenti, marcate in modo strumentale. Eppure, Berlusconi ammette il «rischio di vittime innocenti, se si intraprendono interventi frettolosi»: d’accordo con l’ex presidente della Commissione Ue, Romano Prodi, per il quale ora «non ci sono le condizioni per intervenire». In Libia mancano interlocutori: un’anarchia alla quale hanno contribuito i bombardamenti del 2014, decisi senza calcolare i contraccolpi del dopo-Gheddafi. Per questo si ripete che l’opzione militare «è sul tavolo», senza darla per scontata. È una cautela che Mattarella condivise col presidente Usa, Barack Obama, nell’incontro dell’8 febbraio alla Casa Bianca. È nota la presenza in territorio libico di reparti speciali statunitensi, inglesi e francesi. E i servizi di sicurezza italiani si muovono da sempre in quell’area, nella quale i nostri interessi energetici, petrolio e gas, sono corposi anche dopo la caduta del regime e la frattura geografica e politica della Libia. Il problema è se e quanto un’eventuale intensificazione dell’allarme per gli attacchi dell’Isis cambierà il tipo di risposta. Ma il rischio di una reazione influenzata dalla paura dell’opinione pubblica aggiungerebbe, non sottrarrebbe incognite. Per questo, è prevedibile che di qui alla fine della settimana saranno prese solo le decisioni più urgenti. Per arginare le polemiche delle opposizioni, dal Carroccio al Movimento 5 stelle, il 9 marzo il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, andrà in Parlamento a illustrare la situazione. In una settimana, il quadro libico dovrebbe forse risultare meno confuso di quanto fosse ancora ieri sera. E ci sarà stato anche il vertice sui migranti tra capi di governo europei e Turchia, in programma il 7 marzo a Bruxelles. L’obiettivo è quello di tenere distinta la crisi dei profughi dalla minaccia terroristica; e soprattutto, di evitare che un’azione militare evochi quella «Guerra Santa» con l’Occidente, fortemente cercata dai macellai di Daesh per mettere la loro ipoteca sull’Islam. Pag 9 Intervista all’ambasciatore americano: “A voi la guida in Libia, ci aspettiamo 5 mila uomini” di Maurizio Caprara

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«Questo tipo di tragedie, con criminali e terroristi che rapiscono persone per riscatti e le usano come scudi umani, sottolineano l’esigenza di indurre i libici a concordare un governo di unità nazionale per ristabilire la sicurezza e avere uno stato di diritto», dice l’ambasciatore degli Stati Uniti a Roma John R. Phillips rispondendo alla richiesta di una sua valutazione sulla morte di Fausto Piano e Salvatore Failla, data per possibile dalla Farnesina vicino Sabratha. La sorte dei due italiani catturati nel luglio scorso da sequestratori si aggiunge inevitabilmente agli argomenti da trattare nell’intervista per il Corriere. In quasi un’ora, l’avvocato conosciuto per campagne anti-corruzione mandato nel 2013 da Barack Obama a guidare l’ambasciata di via Veneto riferirà che i militari italiani da impegnare in Libia potranno essere «fino a circa cinquemila». Nel respingere le accuse al suo Paese di spionaggio verso Silvio Berlusconi, Phillips aggiungerà che sulla raccolta di informazioni c’è «stretta collaborazione» con l’Italia e che «l’intelligence non è trasparente per definizione». L’ambasciatore spiegherà che a Washington non si aspettano impieghi in bombardamenti degli aerei Tornado italiani già attivi sull’Iraq, mentre ritengono di aver atteso «troppo» per vedere in funzione il sistema di comunicazione satellitare Muos in Sicilia e non desiderano ammorbidimenti nelle sanzioni alla Russia. Nel suo studio, simile per decorazioni dorate e ampiezza a vari uffici di istituzioni italiane, l’ambasciatore riserverà poi un appoggio senza incertezze al presidente del Consiglio Matteo Renzi: «Gli va dato credito. Il referendum sulla riforma costituzionale in ottobre sarà importante. È una riforma necessaria». Sui due italiani che sono considerati uccisi stava dicendo? «Mando le mie condoglianze sincere alle famiglie di Piano e Failla, ai loro cari e all’Italia». Finora la scelta italiana è stata evitare che la Libia diventasse come la Siria, un Paese nel quale a una guerra civile se n’è sovrapposta una tra Stati. La considera giusta? «Sì. Stiamo lavorando accuratamente con l’Italia. La mancanza di un governo stabile ha reso la Libia un posto attraente per i terroristi. Non possiamo forzare un accordo, però si va verso un governo di unità nazionale che, sulla base della risoluzione dell’Onu, potrà domandare al vostro Paese e ad altri di andare a Tripoli per creare isole di stabilità e progredire da queste. La Libia è la maggiore priorità per voi ed è molto importante anche per noi. È importante che prendiate la guida dell’azione internazionale». A suo avviso che cosa dovrebbe mobilitare l’Italia per la «forza di sicurezza e stabilizzazione» da mandare in Libia che il ministro della Difesa Roberta Pinotti chiama Liam? «L’Italia potrà fornire fino a circa cinquemila militari. Occorre rendere Tripoli un posto sicuro e far in modo che l’Isis non si più libero di colpire». Il contributo statunitense in che cosa consisterà? Navi, aerei e niente truppe? «Uno dei sostegni sarà l’intelligence, non abbiamo discusso di nostre truppe». Nell’utilizzare la base di Sigonella per missioni sulla Libia chiedete qualcosa di più all’Italia? «Collaboriamo in numerose basi, Sigonella ne è una. Abbiamo da voi 16 mila militari, con i famigliari 32 mila persone. I militari l’anno scorso sono aumentati di un migliaio». Secondo documenti pubblicati da Wikileaks il suo Paese ha spiato conversazioni di Silvio Berlusconi mentre guidava il governo, di suoi consiglieri e di un diplomatico. Lei è stato alla Farnesina per dare spiegazioni. Che cosa prova l’ambasciatore di una superpotenza a essere convocato nel ministero degli Esteri di un Paese alleato più piccolo? Nell’ufficio del segretario generale della Farnesina Michele Valensise che cosa pensava? «Conversazione amichevole. Circa Wikileaks la politica di Obama dal 2014 rese chiaro che verso Paesi alleati non raccogliamo quelle informazioni su capi di Stato, di governo e altri». E’ ancora attivo lo Special collection service? Secondo Wikileaks è l’ufficio che nelle vostre ambasciate raccoglie informazioni su governi per la National security agency. Funziona anche adesso in questo palazzo? «Nulla da confermare. Non discutiamo di queste materie in pubblico. Ne parliamo con i nostri partner». Il ministro per i Rapporti con il Parlamento Maria Elena Boschi ha detto che dopo la sua convocazione lungo i «canali tecnici di collaborazione» continueranno sul caso «ulteriori approfondimenti» con gli Stati Uniti. Come?

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«Non so di preciso a che si riferisse. Continua la stretta collaborazione con il governo italiano sulle informazioni di intelligence». L’Italia manderà in Iraq soldati a difendere la diga di Mosul e ha già inviato Tornado e istruttori per la sicurezza. Vi basta? «In Iraq l’Italia è uno dei migliori partner, questo mese o il prossimo risulterà il secondo Paese per contributo allo sforzo di 28 nazioni contro l’Isis. Non abbiamo altro che complimentarci per quanto fa». Secondo alcuni vorreste che i Tornado bombardassero. «Ci sono contributi diversi da ogni Paese. Sorvegliare dall’altro e rifornire aerei in volo è importante. A bombardare provvedono altri». In Siria un «cessate il fuoco» è stato possibile dopo un’intesa tra Usa e Russia. Il governo italiano farebbe bene a chiedere di alleggerire le sanzioni imposte a Mosca in seguito all’annessione della Crimea? «No. Non c’è alcuna connessione». Renzi dichiara che con le sue riforme sta cambiando l’Italia. Secondo lei è vero? «Certo. Da Obama e dal vicepresidente Joe Biden ho sempre sentito appoggiare la sua agenda di riforme: di istituzioni, lavoro, giustizia, pubblica amministrazione». A suo avviso perché? «Negli ultimi 15 anni l’Italia non agito bene come avrebbe potuto: ha il Prodotto interno lordo che aveva nel 2000. Una causa? Serve flessibilità nel lavoro. I manager americani interessati a investire si dicono scoraggiati da come funziona il sistema giudiziario: troppo tempo per far entrare in vigore i contratti. Avevamo problemi simili negli Usa, abbiamo compiuto progressi. Per le aziende il processo decisionale è lento: Renzi lavora per liberare energie. Ma è opportuno tener presente una cosa». Quale? «Occorre tempo. Nuovi posti di lavoro non si hanno subito, anche se il Job act sembra vada bene. Sulla riforma costituzionale il referendum in ottobre sarà importante. È una riforma necessaria. Darà stabilità, elemento utile». Quanto aspetterete per la realizzazione della stazione del programma di comunicazione satellitare Muos, voluta dal Pentagono in Sicilia e approvata nel 2011? «Abbiamo aspettato troppo. Una corte locale ne ha ritardato ripetutamente la realizzazione. Non sarà a beneficio degli Usa, ma della sicurezza di Italia, Nato e Ue: il governo italiano faccia il possibile perché sia operativa». Pag 26 Così l’Europa rischia di andare in frantumi di Bernard Henri Lévy Un Paese dell’Unione Europea che richiama il proprio ambasciatore da un altro Paese dell’Unione Europea. Un altro, o lo stesso, che, a dispetto di tutte le regole di solidarietà fra Stati membri, diventa un centro-raccolta per migranti rifiutati, un luogo al bando, una banlieue, simile ai lebbrosari giganteschi e isolati del Medio Evo. Lo spazio Schengen che va in frantumi. I vertici ufficiali che si susseguono e le cui decisioni vengono derise, come la settimana scorsa in Austria, da sottovertici regionali, privi di legittimità, illegali. La legge dell’ognuno per sé, dunque il rischio di anarchia. Il ritorno degli egoismi nazionali, dunque la legge della giungla, quella vera, ben più spaventosa della giungla di Calais. Insomma, è l’Europa in quanto tale che la cosiddetta crisi dei migranti sta facendo esplodere. È lo spirito stesso d’Europa che, abbandonato al solo volere di rappresentanti timorosi e privi di progetti, va in catalessi. Siamo forse davanti a quello che né la crisi greca dell’anno scorso, né la débâcle finanziaria del 2008, e nemmeno le manovre di Vladimir Putin erano riuscite a provocare: la morte del grande e splendido sogno di Dante, Husserl e Robert Schumann. Questo non sorprenderà chi da un certo tempo si preoccupa - come nella mia opera teatrale Hôtel Europe... - nel constatare che il governo di Bruxelles diventa una burocrazia immobile e obesa, popolata da «impiegatucci incoronati», di cui già Paul Morand si prendeva gioco nel suo ritratto dell’imperatore Francesco Giuseppe e di cui un altro scrittore, testimone della stessa disgregazione, diceva che erano i prìncipi della «norma», i re dei «pesi e delle misure» e della «statistica», ma che per loro l’idea di confrontarsi con la grande Storia, o anche con la grande Politica, era divenuta inimmaginabile: una nuova Kakania, insomma...un nuovo regno dell’assurdo guastato, come l’altro, dalla routine e sul punto di morire per mancanza di slancio, di progetti, di stelle fisse che guidassero la sua corsa... un secondo

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«laboratorio del crepuscolo» (Milan Kundera) dove dirigenti sonnambuli ripeterebbero, in un’estasi morbosa e beata, tutti gli errori dei loro predecessori... E la catastrofe, se andasse avanti fino in fondo per forza d’inerzia, rientrerebbe purtroppo nell’ordine del grande errore che alcuni di noi denunciano da decenni: l’Europa non è un’evidenza iscritta nella natura delle cose né tantomeno nel senso della Storia; nemmeno l’Italia, secondo il re di Sardegna nella sua famosa risposta a Lamartine, si farà da sé, anche se non si fa nulla. E se si dimenticasse questa legge, se si cedesse al provvidenzialismo e al progressismo pigri, questa Europa, la nostra, sarebbe come l’Europa romana, come quella di Carlo Magno poi di Carlo V, come il Sacro impero romano germanico, l’impero degli Asburgo o anche l’Europa di Napoleone: tutte queste Europe che erano già Europe, vere e belle Europe, i cui contemporanei avevano creduto, come a nostra volta noi crediamo, che fossero stabili, solide come roccia, incise nel marmo di regni in apparenza eterni, sono tuttavia crollate. Resta il fatto che anche il peggio non è sicuro. C’è ancora tempo, c’è sempre ancora tempo per provocare un balzo in avanti politico e morale che si serva delle lezioni del passato; che parta dal principio secondo cui l’Europa, senza la volontà testarda, contro natura, quasi folle, dei propri dirigenti, ha sempre avuto tutte le ragioni, assolutamente tutte, di sfasciarsi; e che, così, scongiurerebbe l’inevitabile. Delle due l’una. O non facciamo niente; ci lasciamo sopraffare dal si-salvi-chi-può generalizzato e osceno; e la rabbia nazionale prevarrà, definitivamente, su un sogno europeo ridotto soltanto alle conquiste già ottenute di un grande mercato unico che, se soddisfa il mondo globalizzato degli affari, certo non soddisfa i popoli e la loro aspirazione a più democrazia, pace, diritto. Oppure le 28 nazioni europee si ravvedono; si decidono a seguire la linea tracciata da Angela Merkel sulla questione dell’ospitalità, moralmente infinita e politicamente condizionata, che dobbiamo ai «fratelli in umanità» che bussano alla porta della Casa comune; e a seguire quella tracciata da François Hollande sulla questione della Siria e della duplice barbarie che, svuotando il Paese dei suoi abitanti e gettandoli, a milioni, sulle strade dell’esilio, è la vera origine dell’attuale tragedia. I due dirigenti non omettono di ascoltarsi e di apprendere l’uno dall’altro le loro rispettive parti di verità che, solo se unite, potranno rendere anima e corpo all’asse franco-tedesco senza il quale tutto sarà perduto. Allora, soltanto allora, l’Europa, con le spalle al muro, potrà ripartire con nuovo slancio e, con un po’ di coraggio, avrà una possibilità di sopravvivere e anche, chissà, di rimettersi in moto. Infatti, la scelta è più che mai chiara: Europa o barbarie; Europa o caos, miseria dei popoli, regresso politico e sociale; un passo vero in avanti, nel senso di una integrazione politica che è l’unica risposta possibile alle terribili sfide odierne, oppure la garanzia del declino, dell’uscita dalla Storia e forse, un giorno, della guerra. Pag 27 La corsa senza personalità per la poltrona di sindaco di Antonio Macaluso C’era da aspettarselo: scoccati quattro mesi circa dalla sua nomina a Commissario straordinario del Comune di Roma, il prefetto Francesco Paolo Tronca ha annunciato urbi et orbi di essersi innamorato del Campidoglio. L’enorme carico di problemi e di insidie, lungi dallo scoraggiarlo, ha nutrito il desiderio di far qualcosa per questa città abusata. Quello che era meno prevedibile è che molti romani, tanti, ricambino questo sentimento, percependo Tronca come l’uomo che, dopo tanto tempo, sta seriamente provando a invertire una rotta pericolosamente orientata verso un buco nero finanziario, gestionale, di vivibilità e di immagine. Qualcosa si muove, piccoli (talvolta impercettibili) segnali cominciano a dare la sensazione che del buono si possa fare, che non è vero - come da diffusa litania un po’ qualunquista - che «chiunque sieda lassù ormai può fare ben poco», che tutto è perduto. L’energia e la concretezza del prefetto venuto dal Nord (ma di sangue palermitano) cominciano a diffondere come un venticello l’idea che non sarebbe male se la sua permanenza in Campidoglio fosse prolungata. In un bar, su un taxi, all’ufficio postale o dal barbiere, capita di sentir caldeggiare questa ipotesi che poggia su due pilastri: la crescente fiducia verso l’uomo e una conferma dell’assunto che, fuori dalle pastoie della politica, tutto sia più facile (e «pulito»). Un crinale pericolosissimo, certo, ma che non arriva per caso e all’improvviso. Dopo quello che si è visto e sopportato per troppo tempo nel governo della Capitale, non può stupire che l’antipolitica sia vissuta come un fresco, ristoratore «ponentino». Di più. I partiti sembrano non aver compreso fino in fondo questo stato d’animo, che non è proprio solo

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degli abitanti delle sterminate periferie, ma che alberga nella parte più colta e benestante della città. Del resto, sempre di cittadini romani si tratta, i disagi sono più o memo gli stessi per tutti, come una feroce, democratica livella al ribasso. A fronte di tutto questo, basta guardare quello che sta accadendo nei vari schieramenti - le tattiche, le accuse, i candidati veri o presunti - per capire come mai tanta gente provi diffidenza, sfiducia o perfino disgusto nei confronti di questa politica e preferisca un facile «lasciateci Tronca». Del resto, a destra non si capisce cosa stia accadendo (non lo capiscono neanche loro): c’è un candidato ufficiale - Guido Bertolaso - che si filano in pochi e attaccano in molti, accanto al quale fioriscono le ipotesi più divertenti: la milanese (una milanese sindaco di Roma?) Irene Pivetti, molti anni fa presidente della Camera per caso, poi scomparsa dai radar della politica e nota più che altro per essere la sorella della simpatica attrice Veronica; Francesco Storace, (in)dimenticato presidente della Regione Lazio più apprezzato per le battute fulminanti che per le cose fatte; Alfio Marchini, che si presenta da solo, che non è di destra ma che viene visto da molti elettori moderati come l’unico volto in grado di opporsi al Pd e al M5S. Il Movimento di Beppe Grillo, ha indicato - con 1764 voti, non proprio a furor di popolo - l’ex consigliera comunale Virginia Raggi come propria candidata. Le polemiche hanno subito investito la giovane avvocatessa per il fatto di aver lavorato in uno studio legale che ha assistito Cesare Previti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e Mediaset tutta. Il che non pare aver scalfito la possibilità del Movimento di conquistare Roma (un voto che premia come già in passato il «marchio» più che i singoli) ma certo non garantisce che il profilo sia quello giusto per cimentarsi con una mission impossible come il governo della Capitale. E veniamo al Pd, che sceglierà nel fine settimana il suo candidato. A correre sono in sei ma il vero duello è tra Roberto Giachetti, sostenuto da Renzi, e Roberto Morassut, sul quale convergeranno dalemiani, bersaniani, veltroniani e - insomma - tutto ciò che renziano non è. Un bel duello, tra due persone perbene ma che, dal punto di vista dello spessore politico e della competenza di gestione, hanno la consistenza delle ombre di quello che dovrebbe essere il prossimo sindaco di Roma. Quello della Rinascita. Con tutto il rispetto, non assomigliano neanche lontanamente a Francesco Rutelli e Walter Veltroni. Se questo è il quadro - e, senza presunzione di analisi, lo è - non c’è da aspettarsi la corsa alle urne. C’è, semmai, da constatare che, ancora una volta, i partiti hanno perso l’occasione per puntare in alto, per mettersi in gioco con la scelta di personalità più che di persone. Certo, non sfugge che, con questi chiari di luna, sarebbe stato difficile convincere qualche peso massimo a candidarsi ma proprio questa è la controprova della scarsa credibilità di un intero sistema politico. Dunque, che dire: vinca il meno peggio. LA REPUBBLICA Pag 1 Nella trappola del Califfo di Bernardo Valli Il viaggio è lungo tra Sirte e Sabrata. Prima il litorale fino a Tripoli, poi ancora la strada costiera fino all'antico porto, che fu cartaginese e poi romano. Ci sono anche le scorciatoie nel deserto, ma per muoversi da Sirte, dove si sono incrostati, e raggiungere Sabrata, dove sono stati uccisi Fausto Piano e Salvatore Failla, gli uomini di Daesh (acronimo del nome arabo di Is) devono avere un certo controllo del territorio libico. Non come se fossero in casa propria, ma quasi. La loro disinvoltura comporta dei rischi. Hanno compiuto importanti progressi da quando nell' autunno del 2014, aiutati dagli islamici locali, una corrente di Ansar al Sharia, hanno cominciato la conquista di Sirte per farne il loro principale bastione. La loro "capitale" in Libia, che hanno perduto e poi riconquistato. Adesso controllano almeno duecento chilometri di costa, e il retroterra per una profondità di quaranta chilometri. Ma le operazioni avvengono a un più largo raggio. Fino a Sabrata, ad esempio, che è a ovest, vicino al confine tunisino. Se si guarda una mappa, si vede che la Wilaya (provincia) libica occupata da Daesh, attorno a Sirte, dove è nato ed è stato suppliziato e giustiziato Gheddafi, è a ridosso dei terminali e delle raffinerie da cui parte il quaranta per cento del petrolio esportato. Da tempo, ma con crescente attenzione, il dinamismo di Daesh su larga parte del territorio libico, non lontano dalla costa italiana, è considerato dall' intelligence, dai militari, e dai governi occidentali un'evidente minaccia. Ma anche una trappola. L'uccisione dei nostri connazionali a Sabrata, durante uno scontro tra gli uomini dello Stato islamico e quelli delle tribù locali, è un episodio di sangue che prefigura quel che potrebbe accadere a

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una spedizione occidentale impigliata, come Piano e Failla, ma su larga scala, nella mischia libica. Eppure la minaccia c'è, ed è giudicata concreta. Si annunciano con discrezione e si smentiscono sottovoce preparativi a Roma; l'aviazione americana moltiplica le incursioni (una delle più recenti è avvenuta il 19 febbraio sulla zona confinante con la Tunisia, dove sono stati uccisi i due italiani); forze speciali americane,inglesi, francesi compiono rapidi interventi al di là del Mediterraneo. Ed altrettanto starebbero per fare gli italiani. Ma per un'operazione coordinata, tesa a preparare e stabilizzare le forze libiche contro Daesh bisogna aspettare la formazione di un governo di unità nazionale votato dal parlamento di Tobruk, il solo riconosciuto sul piano internazionale. E tuttavia la nascita di quel legittimo esecutivo tarda a venire. Essa darebbe la benedizione alle incursioni aeree in particolare su Sirte, e consentirebbe l'appoggio alle truppe libiche amiche. Il parlamento di Tobruk, frantumato come il paese da clan e tribù, non riesce però a partorire una maggioranza. Nell' attesa gli occidentali ricorrono a una guerra "segreta", di cui i soli a non parlare apertamente sono i governi che la fanno. In realtà di conflitti se ne possono contare tanti in Libia. Ce ne sono di tutte le dimensioni. Sono quelli che creano una trappola infernale. Allo scoppio della guerra civile, nell'estate del 2014, tre anni dopo la caduta del regime di Gheddafi, il paese si è spaccato in due: da un lato i partigiani e dall'altro gli avversari di un Islam politico. La frattura era tutt'altro che netta. Non lo è neppure oggi. I clan, le tribù, le clientele moltiplicatesi con l'inurbamento della società e con l'assenza di uno Stato (surrogato da Gheddafi con un regime basato sull'abuso e la repressione) hanno dato il via a una rissa armata che sembra inarrestabile. In questo mosaico di rivalità sono emerse due coalizioni. In quella di Fajr Libya (Alba della Libia) si sono raccolti i gruppi islamici e i commercianti di Misurata, richiamandosi ai principi del 17 febbraio, giorno dell' inizio dell'insurrezione contro Gheddafi, nel 2011, a Bengasi, capoluogo della Cirenaica. La seconda alleanza ha preso il nome di Karama (Dignità) e riunisce nazionalisti, liberali, tribù un tempo vicine al regime di Gheddafi e non pochi dignitari di quell' epoca. In appoggio di Fajr Libya si sono dichiarati la Turchia e il Qatar. E in favore di Karama l'Egitto e gli Emirati arabi uniti. La divisione è diventata territoriale durante gli scontri armati. A Tobruk, a Est, in Cirenaica, si è installata Karama; e a Tripoli, a Ovest, e in quasi tutta la Tripolitania, Fajr Libya. Il governo votato dal Parlamento di Tobruk, e riconosciuto da Tripoli, dovrebbe essere di unione nazionale. Gli interminabili, tormentati negoziati hanno condotto a questa formula magica: l'unione nazionale significherebbe infatti la fine del conflitto tra le due grandi alleanze e consentirebbe la richiesta di un intervento straniero. Per ora considerato un'invasione nemica da combattere sia da Tripoli sia da Tobruk. Senza la maggioranza che tarda a formarsi in Parlamento, l'approdo sulle spiagge libiche di truppe occidentali equivarrebbe a cadere in una trappola. Gli innumerevoli gruppi armati, non controllati ma spesso manovrabili dalle due grandi alleanze riconciliate, potrebbero attaccare gli stranieri invasori. E alimentare l'ostilità della popolazione. La guerra "segreta" evita questi pericoli nell'attesa che a Tobruk si formi un governo e un fronte comune contro Daesh. Il quale nel frattempo da Sirte si espande nel resto del paese, imponendo le sue leggi e crocifiggendo chi non le accetta. Come accade nella città "liberata". Di fronte alla minaccia di Daesh e al rischio di una trappola l'intelligence, i militari, i politici sembrano a corto di idee. La perplessità è giustificata. Si tratta di ristrutturare un paese. Di creare uno Stato. C'è persino, in Occidente, chi rimpiange Gheddafi. Lui controllava il paese. Per la verità gran parte della popolazione non sopportava più le sue follie. Ed è insorta. L'errore non fu di contribuire alla sua fine, di fermare la repressione, ma di non preparare la transizione. Di bombardare e di andarsene. Cinque anni dopo il problema si ripropone. In forma più grave. E con un più profondo esame di coscienza. Dopo l'Iraq e la Siria. LA STAMPA Sara e Rachele l’utero in affitto ai tempi dei patriarchi di Riccardo Di Segni Pubblichiamo stralci dell’articolo tratto da «Pagine Ebraiche» Nella animata discussione che si sta sviluppando sul tema della maternità surrogata è stata tirata in ballo la matriarca Rachele come modello antico e sacro. La storia biblica racconta che la moglie prediletta del patriarca Giacobbe non riusciva ad avere figli e

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questo la faceva molto soffrire, fino al punto di offrire al marito la serva Bilhà: «unisciti a lei, che partorisca sulle mie ginocchia, e anche io possa avere figli da lei» (Gen. 30:3). Giacobbe obbedisce, Bilhà partorisce e Rachele dice: «il Signore mi ha giudicato e ha anche ascoltato la mia voce e mi ha dato un figlio» (v. 6). Il paragone con la maternità surrogata starebbe nel fatto che una donna che non riesce ad avere figli ricorre a un’altra donna per averli. Ma fino a che punto il paragone regge? Intanto bisogna ricordare ai frequentatori casuali della Bibbia che la storia di Rachele che citano è la seconda di questo tipo, essendo preceduta da quella di Sara, moglie di Abramo, nonno di Giacobbe. Al capitolo 16 della Genesi si racconta che Sara non avendo figli consegna al marito Hagàr, la sua serva con la speranza di avere figli da lei; Abramo obbedisce, la mette incinta e a questo punto si scatena un dramma tra le due donne che porta alla cacciata di Hagàr, poi al suo ritorno e alla nascita di un figlio: «Abramo chiamò il nome di suo figlio che aveva generato Hagàr, Ismaele» (v. 15; si noti l’attribuzione della paternità e maternità). Anche qui c’è una situazione di sterilità che viene gestita con l’aiuto di una seconda figura femminile. L’analogia con la maternità surrogata ci sarebbe solo nel primo caso, ma con una fondamentale differenza: nella surrogata («in affitto») la madre biologica scompare del tutto di scena, nella storia biblica la madre affronta diverse vicende: Bilhà resta in famiglia, fa un altro figlio e alla morte di Rachele diventa la favorita; Hagàr entra in contrasto definitivo con Sara che la caccia via di nuovo e per sempre (almeno finché vivrà Sara); quanto ai figli, altra differenza essenziale: quelli di Bilhà, benché Rachel dica «mi ha dato un figlio», restano figli della madre biologica, divenuta «moglie» (Gen. 37:2), e quello di Sara rimane legato al destino di Hagàr e per questo vittima di una violenta reazione di rigetto («caccia via questa amà e suo figlio», ibid. 21:10). Nel caso di Rachele, quindi, il tentativo di appropriarsi di un figlio altrui sottraendolo alla madre biologica riesce solo in parte e questa madre non scompare; nel caso di Sara tutta la procedura sembra essere piuttosto una cura contro la sterilità, e il legame naturale tra madre e figlio non si interrompe. Tutto molto diverso dalla maternità surrogata. E ovviamente non si può dimenticare l’altra differenza: l’inevitabile necessità – in tempi biblici – di ricorso alle vie naturali di procreazione, mentre, e solo ai nostri giorni, queste possono essere sostituite dalla più asettica e certo meno appassionante soluzione della provetta. In più il modello biblico è quello di una famiglia patriarcale dove c’è un uomo fecondo con la sua signora sterile, diverso da alcune situazioni di single o di coppia in cui oggi si ricorre alla maternità surrogata; nella Bibbia in queste storie si apprezza il desiderio di maternità, non quello di paternità. Il messaggio biblico poi insegna una morale: nel caso di Bilhà il dramma si ricompone integrando in famiglia madre e figli, che però restano con una connotazione un po’ secondaria, come figli di una madre meno importante; nel caso di Sara c’è solo dramma, e addirittura, secondo la spiegazione di Nachmanide, questo dramma starebbe all’origine del risentimento storico dei discendenti di Ismaele nei confronti dei discendenti del figlio naturale di Sara, Isacco. Come a dire: andiamoci piano con certe procedure. Un’ultima considerazione: le persone che vengono usate per questo «esperimento» biologico sono delle serve. Se si fanno confronti tra maternità surrogata e storia di Rachele e Sara, per dire che c’è un precedente che la giustifica, va tenuto ben chiaro che si tratta di sfruttamento di persone non libere. Il che non è un bel modo per giustificare moralmente una procedura attuale. AVVENIRE Pag 1 Il valore delle regole di Assuntina Morresi Tra “nuovi diritti” e saldi argini Eutanasia, cannabis, utero in affitto: sono l’oggetto di diverse proposte di legge, per alcune delle quali sta iniziando l’iter alla Camera dei deputati. Insomma, il calendario dei lavori non si fa mancare niente in quanto a tematiche antropologicamente sensibili, considerando anche che prosegue il cammino della legge sulle unioni civili – passata a Montecitorio – mentre inizia la discussione sul testamento biologico in commissione Affari sociali. I tempi per arrivare alla votazione finale sulle diverse proposte entro questa legislatura ci sono tutti (anche se per la maternità surrogata, presentata finora solo in conferenza stampa, l’aria è quella di una provocazione con scarse possibilità di esiti concreti): è innegabile una pressione sempre più pesante, un vero e proprio assedio

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culturale, mediatico e, inevitabilmente, anche politico, che mira a costruire un Mondo Nuovo in cui si scardinano le certezze delle relazioni fondanti che da sempre hanno caratterizzato l’umanità. Un Mondo Nuovo in cui non ci sono più padri e madri ma genitori a numero progressivo (uno, due, tre...), definiti da appositi contratti commerciali, in cui si vendono, si comprano o si affittano parti del corpo e bambini, a seconda delle necessità; un Mondo Nuovo in cui la solidarietà verso chi soffre non significa più condividere bisogni e alleviare il dolore, ma offrire la morte in una solitudine medicalmente assistita; un Mondo Nuovo in cui è legittimo spiaccicarsi cervello e volontà nei cosiddetti 'paradisi artificiali', e pazienza se sono i più giovani a farlo. Un Mondo Nuovo che però non ha dietro di sé reali richieste popolari: non ci sono maggioranze nel Paese a rivendicare tutto questo, quanto piuttosto circoli ed élite iper-rappresentati nel dibattito pubblico, che utilizzano il mantra della «regolamentazione ». Il ragionamento è semplice: siamo davanti a fenomeni nuovi, che esistono e si stanno diffondendo sempre di più, e per questo li dobbiamo «regolamentare», cioè accettare, rendere legittimi, far entrare nel quadro normativo. Ma perché non il contrario? Per quale motivo 'mettere una regola' ai contratti di utero in affitto, all’eutanasia, alla droga deve sempre e comunque significare aprire le porte a tutte queste pratiche, anziché chiuderle? Perché deve significare 'sfrenare' e non piuttosto 'arginare'? Il fatto è che la regolamentazione non è intesa nelle centrali di certe iniziative legislative come un modo per limitare i danni e presidiare l’umano (dopo la sentenza che tracciato la via per portare alla mo rte di Eluana Englaro, per esempio, anche sui queste pagine ci si è battuti per una legge sul «fine vita» capace di impedisse che altre persone morissero come lei, a causa della negazione di acqua e cibo), ma è diventata la strada per realizzare il 'lo facciamo perché è possibile': se qualcosa si può realizzare, e io lo voglio, diventa un mio diritto poterlo fare, e quindi ci deve essere una legge per disegnare questo 'diritto'. Qualcuno li ha chiamati i 'diritti insaziabili', quelli su cui si basa il Mondo Nuovo, quelli in cui a ogni desiderio corrisponde un diritto, che quindi richiede una legge che lo 'regoli', cioè lo renda legittimo ed esigibile. E quando questo non accade, allora c’è sempre qualcuno che parla di 'vuoto normativo', e per questo a gran voce invoca la legge che realizzi il desiderio, trasfor-mandolo in diritto, in un crescendo vorticoso di desideri, diritti e leggi come quello a cui stiamo assistendo in questi tempi nella nostra società e, negli ultimi mesi, nel nostro Parlamento. Un quadro davanti al quale dovremmo piuttosto fermarci, e riflettere se è veramente questo Mondo Nuovo che davvero vogliamo. IL FOGLIO Pag 4 Per la Casa Bianca “non c’è alcun genocidio di cristiani in medio oriente” di Matteo Matzuzzi Roma. In Siria e Iraq non è in corso alcun genocidio contro i cristiani. A dirlo, nel briefing di routine con i giornalisti accreditati, è stato il portavoce della Casa Bianca, John Earnest: "Il mio pensiero è che l'uso di questa parola (genocidio, ndr) comporti una vera determinazione legale, che al punto in cui ci troviamo non c'è. Da tempo - ha aggiunto Earnest - abbiamo espresso le nostre preoccupazioni in merito alla tattica impiegata dall' Isis per massacrare le minoranze religiose in Iraq e Siria. Ricorderete che proprio all' inizio della campagna militare contro lo Stato islamico condotta dai nostri militari alcune delle prime azioni ordinate dal presidente Obama avevano come obiettivo la protezione degli yazidi, messi con le spalle al muro sul monte Sinjar dai miliziani". La Casa Bianca recepisce dunque pressoché alla lettera il rapporto della missione effettuata nella piana di Ninive dallo U.S. Holocaust memorial museum. Dall'indagine, risalente all'agosto 2014, emergeva che "sotto l'ideologia dello Stato islamico, gli aderenti a religioni considerate infedeli o apostate - inclusi gli yazidi - sono costretti alla conversione o uccisi, e i membri di altre religioni - come i cristiani - sono soggetti a espulsione, estorsione o alla conversione forzata". Questione di semantica, insomma. E pazienza se un successivo dossier, stavolta messo nero su bianco dal Comitato per i diritti umani dell' Onu, abbia certificato che "gli atti di violenza perpetrati contro i civili a causa della loro affiliazione (o presunta affiliazione) a un gruppo etnico o religioso possono essere considerati un genocidio". Poco prima di Natale, quando le indiscrezioni su una presa di posizione assai prudente della Casa Bianca sulla questione iniziavano a circolare, al dipartimento di stato fu recapitata una lettera in cui diverse personalità - tra

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cui l'arcivescovo di Washington, il cardinale Donald William Wuerl - chiedevano all'Amministrazione di fondare ogni decisione circa la questione in oggetto sulla base di quanto prevede la Convenzione sul genocidio del 1948. Il documento è chiaro quando afferma che per genocidio si deve intendere una serie di "atti commessi con l'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso". Carl A. Anderson, cavaliere supremo dei Cavalieri di Colombo, intervenendo lo scorso dicembre dinanzi al sottocomitato della Camera dei rappresentanti, chiedeva al Congresso di fare il possibile per scongiurare quello che sarebbe "un grande errore" nel non riconoscere il genocidio contro i cristiani. La posizione della Casa Bianca, però, è un'altra. Davanti ai giornalisti, il portavoce ricorda che "siamo stati abbastanza chiari ed espliciti riguardo al fatto che le azioni dello Stato islamico meritino la robusta risposta che la comunità internazionale sta conducendo. E quelle azioni includono la volontà di colpire le minoranze religiose, compresi i cristiani". Machiavellismi che hanno portato Robert P. George e Cornel West, entrambi professori alla Princeton University, a lanciare un appello che ha come destinatario l'organigramma politico americano al completo: "In nome della decenza, dell'umanità e della verità, chiediamo al presidente Obama, al segretario di Stato John Kerry e a tutti i membri del Senato e della Camera dei rappresentanti di riconoscere e di dire pubblicamente che i cristiani in Iraq e Siria - insieme a yazidi, turcomanni, shabak e musulmani sciiti - sono vittime di una campagna di genocidio condotta contro di loro dallo Stato islamico". George e West, nell'appello pubblicato sulla rivista First Things, chiedono "che questo genodicio sia riconosciuto e chiamato con il suo nome". Sulla stessa linea si è espresso anche Stephen Colecchi, direttore dell' Ufficio per la giustizia internazionale e la pace della Conferenza episcopale americana: "Lo Stato islamico ha pubblicamente dichiarato che il suo intento è di rimuovere la presenza cristiana dalla regione. Questo è un atto di genocidio". IL GAZZETTINO Pag 1 La posta in gioco nella guerra contro i terroristi di Alessandro Orsini Per anni l’Italia ha investito nelle forze armate, e nel comparto sicurezza, in proporzione al suo coinvolgimento nelle guerre, che è stato nullo. Non avendo mai colpito, non siamo stati mai attaccati. Quando accadde a Nasiriya, il 12 novembre 2003, il nostro Paese fu sconvolto. La morte di diciannove italiani impegnati in una missione di costruzione e mantenimento della pace, provocò un trauma collettivo, con mobilitazioni di massa e la proclamazione del lutto nazionale nel giorno dei funerali di Stato alla presenza delle massime autorità. Negli Stati Uniti, che sono abituati alla guerra come noi siamo abituati alla pace, una reazione del genere sarebbe inimmaginabile. Come mi disse poche settimane fa un soldato americano, che aveva partecipato alla guerra in Iraq: «Che cosa vuoi che siano 5000 soldati morti per conquistare un Paese intero? Una guerra in cui perdi 5000 soldati non è nemmeno una guerra». Privi di un seggio nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, e con interessi limitati all’estero, gli italiani hanno vissuto un tempo mitico, in cui Montecitorio conteneva tutta la politica del mondo. Il risveglio, per alcuni ancora lento, è stato causato da due omicidi legati al terrorismo. Il primo è quello di Valeria Solesìn, la giovane dottoranda di ricerca, uccisa dall’Isis nella strage di Parigi del 13 novembre 2015; e il secondo è quello dei due lavoratori italiani a Sabrata: Fausto Piano e Salvatore Failla. Entrambi hanno perso la vita in seguito a uno scontro a fuoco tra le milizie jihadiste e quelle legate al governo di Tripoli. Entrambe le uccisioni sono avvenute a due passi da casa nostra, in una sorta di marcia di avvicinamento verso l’Italia annunciata anche nella relazione annuale dei servizi di intelligence, in cui si legge che: «L’Italia appare sempre più esposta quale target potenzialmente privilegiato sotto un profilo politico e simbolico/religioso». È l’Isis ad annunciare la guerra; non siamo noi. Il fatto che, dal novembre 2015 a oggi i miliziani dell’Isis in Libia siano passati da 3 mila a circa 6 mila dice tutto ciò che occorre sapere. In questo contesto, l’Italia sarà alla guida delle tre più grandi potenze dell’Occidente: Stati Uniti, Francia e Inghilterra, gli unici paesi occidentali a occupare un seggio permamente nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu, che decide il destino dei popoli. Il nostro ruolo sarà militarmente rilevante, questo è certo, ma siamo preparati sotto il profilo culturale e politico a guidare qualunque tipo di missione in un Paese che, per essere stabilizzato, deve necessariamente sconfiggere le milizie dell’Isis? A giudicare dalla reazione ai morti di

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Nasiriya, siamo un popolo molto emotivo, dotato di una sorta di purezza infantile, che amo molto, ma con cui saremo chiamati a fare i conti. Sotto il profilo culturale, poi, le tre culture politiche che sono oggi a fondamento della vita repubblicana - quella socialista, quella cattolica e quella liberale - sono tutte basate sul principio della sacralità della vita umana, essendo state permeate dalla religione cristiana. Ma è soprattutto la politica – intesa come l’insieme dei politici di professione che guidano un paese – a mostrare importanti fragilità. Per guidare i più potenti Stati occidentali nel contrasto al terrorismo, con tutto ciò che ne consegue, occorre un sentimento d’identità nazionale che, forte in Germania, Francia, Inghilterra e Stati Uniti, è ben più debole in Italia. Il sentimento d’identità nazionale si esprime in molti modi, in base ai momenti storici e alle sfide politiche, ma, quando si tratta di fronteggiare un nemico esterno, che colpisce la popolazione in maniera indiscriminata, si esprime nella compattezza intorno a un governo, di qualunque orientamento esso sia, dopo avere concordato una linea di politica estera che sia la migliore per difendere la vita dei propri cittadini. Ecco perché l’Isis impone alla politica italiana di cambiare. Gli Stati Uniti non sono più in grado di difenderci come accadeva durante la guerra fredda. Un tempo, potevamo concederci il privilegio di attribuire più importanza al dibattito sull’uso delle auto blu che alla guerra civile in Yemen o in Siria. Quel tempo mitico è finito per sempre. L’Isis si è espanso, vertiginosamente, fondando otto province ufficiali in Egitto, Libia, Algeria, Nigeria, Pakistan, Afghanistan, Nord del Caucaso e Yemen. Si tenga presente che il suo raggio d’azione va oltre le sue province ufficiali, come dimostrano le stragi realizzate in Turchia, Libano, Kuwait, Arabia Saudita, Francia e Tunisia, ed è difficile immaginare che Teheran rimarrà illesa ancora a lungo. A differenza di ciò che molti credono, in Libia non ci attende il petrolio, ma la sicurezza della Repubblica. Pag 1 Se il premier promette il taglio delle imposte di Bruno Vespa Quando arriverà la mitica riduzione delle imposte promessa da Matteo Renzi? L’altra sera a ‘Porta a porta’ ho avuto di fronte l’anti Renzi per eccellenza, che non è né Bersani e nemmeno D’Alema. E’ Mario Monti. L’abbiamo definitivo ‘il Presidente dell’Austerità’. Nonostante l’Europa di oggi non piaccia nemmeno a lui, nonostante riconosca che l’austerità ha di fatto paralizzato l’economia italiana (ma a suo giudizio ha salvato l’Italia), Monti ha una concezione della politica economica opposta a quella del suo non immediato successore. Per fare un esempio, lui rimise la tassa sulla prima casa tolta da Berlusconi, Renzi l’ha eliminata. E guarda con grande sospetto a gran parte degli ultimi sgravi. Il premier ha varato infatti altri provvedimenti significativi in questo senso: gli 80 euro, il bonus da 500 per i giovani, la defiscalizzazione dei contributi nel Jobs Act, la riduzione dell’Irap. Ma ha la sensazione che l’opinione pubblica sia rimasta piuttosto fredda. Ecco allora il fuoco d’artificio: la riduzione delle imposte sul reddito delle imprese e soprattutto su quello delle persone fisiche. Poiché i ceti sociali di minore reddito o non pagano le tasse o hanno avuto il bonus degli 80 euro, Renzi si sta concentrando sulla fascia media: quella che una volta si chiamava borghesia e che via via è scomparsa. La riduzione delle imposte, dunque, ci sarà. Già, ma quando? Se le elezioni politiche si svolgeranno all’inizio del 2018, è improbabile che i fuochi d’artificio avvengano con grande anticipo. Eppure Renzi deve confrontarsi col suo carattere, che predilige la tattica alla strategia di lungo periodo. Le decisioni immediate e sorprendenti ai piani quinquennali. E’ perciò probabile che qualche promessa scappi al premier magari non prima delle elezioni amministrative di giugno, ma alla vigilia del referendum di ottobre, da attuare magari l’anno prossimo con immediato sollievo per i lavoratori che hanno la busta paga e di tutte le denunce dei redditi da presentare nel ’18, anno elettorale. Un fatto è certo. Renzi è un uomo fortunato. Berlusconi aveva promesso la riduzione delle imposte (il famoso 23/33 per cento, ricordate?), ma aveva accanto Tremonti che gli faceva da bastian contrario essendo di fatto un suo competitore politico sostenuto dalla Lega. Nel novembre 2011 si rifiutò di firmare il decreto legge che forse avrebbe evitato al premier il massacro francotedesco di Cannes, la vera spinta alle dimissioni. Monti e Letta erano (o sembravano) troppo legati alle ‘buone pratiche’ di Bruxelles e troppo nei guai per immaginare qualunque sgravio. Renzi si trova a cavalcare la ripresina e soprattutto ha accentrato la politica economica a palazzo Chigi senza che nessuno batta ciglio. Meglio di così…

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LA NUOVA Pag 1 Chiarire cosa è accaduto a Sabrata di Renzo Guolo La morte di due degli ostaggi italiani in Libia ci ricorda, drammaticamente, il quadro in cui si colloca l’ormai prossimo intervento militare nel Paese. Intervento, in realtà, già in corso dal momento che vi operano forze speciali americane, britanniche e francesi, impegnate nel contrasto all’espansione del Califfato, che presto saranno affiancate da analoghe unità italiane. Nei giorni scorsi, infatti, il Consiglio supremo di Difesa ha stabilito che gli effettivi di unità speciali, impegnati in missioni decise e coordinate da Palazzo Chigi e dirette dall’Aise, il servizio d’informazione e sicurezza esterno, avranno le garanzie funzionali che spettano agli agenti segreti. È, dunque, probabile che gli incursori del Col Moschin possano già partire nelle prossime ore. La missione vera e propria sarà avviata se, e non appena, il nuovo governo di unità nazionale libico chiederà sostegno. Una situazione, politico e militare, per niente semplice. Perché, come già accade in Siria, per molti degli attori locali che dovrebbero cooperare con il contingente a guida italiana, il principale problema non è l’Is ma le forze interne ed esterne che sponsorizzano i due quasi uscenti governi rivali: quello di Tobruk, sostenuto da ex-gheddafiani e dall’Egitto e quello di Tripoli, appoggiato dai Fratelli musulmani e da Qatar e Turchia. Il grande caos libico, segnato anche dal conflitto tra centro e periferia, tra Tripolitania e Cirenaica, lievita poi perché le molte milizie locali, alleate armate dell’uno o l’altro esecutivo, hanno “feudalizzato” il territorio e non accettano di rinunciare alla loro sfera d’influenza. Quanto all’Is, si sta rafforzando per effetto dell’arrivo di molti mujahidin provenienti da Siria , Iraq e Africa subsahariana e per l’assorbimento delle forze jihadiste locali. Anche se alcune di esse, come Ansar al Sharia, restano legate ai fratelli-rivali di Al Qaeda. Come è accaduto in Iraq, gli jihadisti legati a Al Baghdadi contano sull’intervento occidentale per riunire sotto il vessillo nerocerchiato, in una jihad funzionale più che dottrinale, tutte le forze che vi si oppongono. In questo senso la memoria coloniale, coltivata in passato da Gheddafi in chiave nazionalistica, certo non aiuta e l’Is potrebbe rilanciarla in funzione mobilitante. La frammentazione delle forze in campo e la presenza di soggetti, non solo politici, con interessi diversi, aumentano le difficoltà sul terreno. Si guardi alla stessa vicenda degli ostaggi. È probabile che i tecnici della Bonatti siano stati sequestrati da una milizia locale che controllava il territorio tra Zuara e Tripoli e faceva capo a Jaysh Al Kabael, l’Esercito delle tribù. Milizia coinvolta nel traffico di armi e il contrabbando di petrolio ma con propaggini anche nella filiera di custodia e sfruttamento dei migranti diretti in Italia. È altrettanto probabile che il gruppo, interessato soprattutto al denaro, abbia venduto, o semplicemente ceduto, gli ostaggi italiani all’Is quando questo si è avvicinato a Sabrata: il loro valore politico cresce notevolmente nella prospettiva di un intervento militare guidato da Roma. Una prospettiva, quella di un sequestro che assume un forte impatto politico e mediatico, purtroppo, non ancora del tutto scongiurata dal momento che due dei quattro sequestrati, separati dai loro colleghi, sono ancora in mano dei rapitori. Liberarli ed evitare possibili proclami o esecuzioni collegate all’intervento che si sta preparando è sempre stato l’obiettivo dei servizi italiani: purtroppo, parzialmente svanito. Diventa così necessario un chiarimento su quello che è davvero avvenuto: blitz mirato o scontro occasionale. Anche se l’imperativo, ora, è la salvezza dei due tecnici rimasti vivi. Torna al sommario