Rassegna stampa 4 marzo 2015 - WebDiocesi · Salute nel corso di una conferenza stampa ripresa oggi...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 4 marzo 2015 SOMMARIO Ricerca, formazione e divulgazione scientifica con l’obiettivo di creare una rete culturale di ispirazione cattolica attenta ai cambiamenti della società nei settori socio-economico, giuridico e politico: queste le linee guida per l’attività della Fondazione Marcianum di Venezia nel biennio 2015-2016 presentate ieri mattina alla Salute nel corso di una conferenza stampa ripresa oggi dai giornali. Dopo la profonda riorganizzazione che ha portato a ridefinire la struttura interna e ad aggiornare il progetto culturale pluriennale, la Fondazione Marcianum sta operando a pieno regime per riaffermare il suo ruolo di polo culturale, scientifico e sociale nella città di Venezia, inserita nel più ampio contesto internazionale. In particolare, quattro sono le aree di progettazione: innovazione tecnologica e le sue implicazioni etico giuridiche, nuove frontiere del diritto e libertà religiosa, sviluppo territoriale tramite innovazione sociale strategica e promozione dei beni culturali di interesse religioso. “L’innovazione sociale nel Paese e sul territorio rappresenta il filo conduttore di tutte le attività della Fondazione” - ha sottolineato Paolo Lombardi, amministratore delegato della Fondazione, illustrando metodo di lavoro e obiettivi -. “La caratteristica distintiva del Marcianum è il riferimento alla cultura cattolica come parte integrante del sapere, per favorire uno sviluppo umano integrale. Ritrovato un equilibrio sostenibile tra costi e ricavi, finanzieremo lo sviluppo delle nuove attività chiedendo di sostenere gli specifici progetti a chi sappiamo interessato alla loro realizzazione”. Il prof. Sergio Belardinelli, Vice Presidente della Fondazione e Presidente del Comitato Scientifico, ha poi illustrato nello specifico i contenuti alla base del programma di attività 2015 e 2016. I principali appuntamenti in agenda: dal 9 all’11 marzo prossimi si terrà la “Moot Court Competition Law and Religion”, una simulazione processuale che affronta il tema delle implicazione sociali e giuridiche della libertà religiosa e della libertà di espressione. Da maggio a luglio, in concomitanza con Expo2015, è prevista l’inaugurazione della mostra fotografica "Reflective Landscape" realizzata in collaborazione con Confagricoltura. L’1 e il 2 ottobre si svolgerà il consueto appuntamento dello IEC – International Ethics Conference, indirizzato ad affrontare ogni anno un diverso tema declinato secondo il paradigma della ICSS: Innovazione, Creatività, Sviluppo, Sostenibilità. È stato avviato, con Università Ca’ Foscari Venezia, il Master in Management dell’Innovazione Sociale Strategica (MUMISS) Master Universitario di primo livello, che si propone di formare la figura del Manager dell’Innovazione sociale strategica. Prosegue la collaborazione con l’ateneo veneziano nell’ambito del Dottorato di ricerca Diritto Mercato e Persona, mentre nel secondo semestre sarà avviato il sostegno a progetti di ricerca in ambito etico-giuridico, con particolare attenzione alle grandi tematiche dell’evoluzione degli ordinamenti giuridici nella società contemporanea trasformata dalla diffusione accelerata delle nuove tecnologie. Il processo di rinnovamento di Fondazione Marcianum coinvolge ovviamente anche il web, con il lancio del nuovo sito internet e lo sviluppo dei canali social, Twitter, Facebook e Youtube, strumenti che consentiranno aggiornamenti costanti e immediati su tutte le proposte della Fondazione e amplieranno il dialogo con la società e la divulgazione dell’innovazione. 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Quando il Signore esagera Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 3 La contro-rivoluzione rosa per ricomporre la persona di Andrea Galli Il rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo: donne, un nuovo protagonismo

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 4 marzo 2015

SOMMARIO

Ricerca, formazione e divulgazione scientifica con l’obiettivo di creare una rete culturale di ispirazione cattolica attenta ai cambiamenti della società nei settori socio-economico, giuridico e politico: queste le linee guida per l’attività della

Fondazione Marcianum di Venezia nel biennio 2015-2016 presentate ieri mattina alla Salute nel corso di una conferenza stampa ripresa oggi dai giornali. Dopo la profonda riorganizzazione che ha portato a ridefinire la struttura interna e ad aggiornare il

progetto culturale pluriennale, la Fondazione Marcianum sta operando a pieno regime per riaffermare il suo ruolo di polo culturale, scientifico e sociale nella città di

Venezia, inserita nel più ampio contesto internazionale. In particolare, quattro sono le aree di progettazione: innovazione tecnologica e le sue implicazioni etico

giuridiche, nuove frontiere del diritto e libertà religiosa, sviluppo territoriale tramite innovazione sociale strategica e promozione dei beni culturali di interesse religioso. “L’innovazione sociale nel Paese e sul territorio rappresenta il filo conduttore di tutte

le attività della Fondazione” - ha sottolineato Paolo Lombardi, amministratore delegato della Fondazione, illustrando metodo di lavoro e obiettivi -. “La

caratteristica distintiva del Marcianum è il riferimento alla cultura cattolica come parte integrante del sapere, per favorire uno sviluppo umano integrale. Ritrovato un equilibrio sostenibile tra costi e ricavi, finanzieremo lo sviluppo delle nuove attività chiedendo di sostenere gli specifici progetti a chi sappiamo interessato alla loro realizzazione”. Il prof. Sergio Belardinelli, Vice Presidente della Fondazione e

Presidente del Comitato Scientifico, ha poi illustrato nello specifico i contenuti alla base del programma di attività 2015 e 2016. I principali appuntamenti in agenda: dal 9 all’11 marzo prossimi si terrà la “Moot Court Competition Law and Religion”, una simulazione processuale che affronta il tema delle implicazione sociali e giuridiche

della libertà religiosa e della libertà di espressione. Da maggio a luglio, in concomitanza con Expo2015, è prevista l’inaugurazione della mostra fotografica "Reflective Landscape" realizzata in collaborazione con Confagricoltura. L’1 e il 2

ottobre si svolgerà il consueto appuntamento dello IEC – International Ethics Conference, indirizzato ad affrontare ogni anno un diverso tema declinato secondo il paradigma della ICSS: Innovazione, Creatività, Sviluppo, Sostenibilità. È stato avviato, con Università Ca’ Foscari Venezia, il Master in Management dell’Innovazione Sociale Strategica (MUMISS) Master Universitario di primo livello, che si propone di formare la figura del Manager dell’Innovazione sociale strategica. Prosegue la collaborazione con l’ateneo veneziano nell’ambito del Dottorato di ricerca Diritto Mercato e Persona, mentre nel secondo semestre sarà avviato il sostegno a progetti di ricerca in ambito etico-giuridico, con particolare attenzione alle grandi tematiche dell’evoluzione degli

ordinamenti giuridici nella società contemporanea trasformata dalla diffusione accelerata delle nuove tecnologie. Il processo di rinnovamento di Fondazione

Marcianum coinvolge ovviamente anche il web, con il lancio del nuovo sito internet e lo sviluppo dei canali social, Twitter, Facebook e Youtube, strumenti che

consentiranno aggiornamenti costanti e immediati su tutte le proposte della Fondazione e amplieranno il dialogo con la società e la divulgazione dell’innovazione.

3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Quando il Signore esagera Messa a Santa Marta AVVENIRE Pag 3 La contro-rivoluzione rosa per ricomporre la persona di Andrea Galli Il rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo: donne, un nuovo protagonismo

in difesa dell’umano Pag 14 Economia, pubblicati gli Statuti di Gianni Cardinale On line l’organizzazione delle strutture finanziarie vaticane CORRIERE DELLA SERA Pag 29 Meno potere al cardinale Pell. La scelta del Papa sull’economia di M. Antonietta Calabrò IL SOLE 24 ORE Finanza Vaticana, il Papa «bilancia» i poteri di Carlo Marroni ITALIA OGGI Il denaro serve anche per il bene di Gianfranco Morra È anticristiano solo l'uso egoistico della ricchezza IL FOGLIO Pag 1 San Francisco contro il vescovo che vuole il rispetto dei valori cattolici nelle scuole cattoliche: “Chi sei tu per giudicare?” di Matteo Matzuzzi WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Nuovi statuti dell'Economia, né vincitori né vinti di Andrea Tornielli Il dibattito interno sui poteri da attribuire alla Segreteria guidata dal cardinale Pell ha portato a un risultato equilibrato. E ancora migliorabile 4 – MARCIANUM, ASSOCIAZIONI, ISTITUZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Il Marcianum riparte come polo culturale di Paolo Navarro Dina Il bilancio della fondazione è stato riportato in pareggio CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Rivoluzione al Marcianum. Moraglia “taglia” il bilancio. “Solo progetti selezionati” di Alice D’Este LA NUOVA Pag 39 Marcianum. Etica, religione e i paesaggi in una mostra Expo di Nadia De Lazzari 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 4 Paritarie: “Saltato il bonus? Troppa ideologia” di Franca Giansoldati Delusione e rammarico dei vescovi: “E’ una scelta di libertà” 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Profughi, rivolta a Trivignano di Elisio Trevisan I cittadini pronti a organizzare picchetti per impedire la ristrutturazione dell’ex scuola. L’incubo del bis di via del Gaggian: “Divenne un covo di sbandati” LA NUOVA Pag 19 Tagli a posti di lavoro e servizi sociali di Enrico Tantucci Venezia: si profila una manovra “lacrime e sangue” per recuperare 56 milioni. Nel mirino politiche educative, mense e asili nido. Baretta: “Vanno previste entrate extra dal turismo” 8 – VENETO / NORDEST

CORRIERE DEL VENETO Pag 9 A messa con Sanremo, l’Isis e le slide. Le moderne omelie di don Gerardo di Mauro Pigozzo Usa Facebook e i nuovi linguaggi: “Ma ora faccio una pausa” LA NUOVA Pag 1 In Veneto la partita è nazionale di Giorgio Sbrissa … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Diritti (e doveri) dei nuovi italiani di Gian Antonio Stella Immigrazione e identità Pag 11 Le tensioni dell’opposizione avvantaggiano Palazzo Chigi di Massimo Franco Pag 18 Uno Stato palestinese è garanzia per Israele di Amos Oz L’alternativa è una dittatura dei fondamentalisti ebraici o un unico Paese in mano araba che ucciderebbe il sogno sionista IL GIORNALE La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell'islam di Renato Farina AVVENIRE Pag 1 Un “freddo” benedetto di Vittorio E. Parsi Tra Obama e Netanyahu Pag 7 A parole tutti per la legalità. Il malaffare ormai è nell’anima Pag 20 Armeni, la lezione del genocidio di Herman Vahramian IL GAZZETTINO Pag 1 La sfida a Obama di Netanyahu, mossa elettorale di Mario Del Pero LA NUOVA Pag 1 Il Pd si liberi dell’acqua sporca di Gianfranco Pasquino

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA L’OSSERVATORE ROMANO Pag 8 Quando il Signore esagera Messa a Santa Marta Continuano - seguendo la quotidiana liturgia della parola - le riflessioni di Papa Francesco sul tema della conversione. Dopo l’invito di lunedì «ad accusare noi stessi, a dirci la verità su noi stessi, a non truccarci l’anima per convincere che siamo più buoni di quello che realmente siamo», nella messa celebrata martedì 3 marzo a Santa Marta, il Pontefice ha approfondito «il messaggio della Chiesa» che «oggi si può riassumere in tre parole: l’invito, il dono e la “finta”». Un invito che, come si legge nel libro del profeta Isaia (1, 10.16) riguarda proprio la conversione: «Prestate orecchio all’insegnamento del nostro Dio. Lavatevi, purificatevi!», ovvero: «Ciò che voi avete dentro che non è buono, quello che è cattivo, quello che è sporco, deve essere purificato». Di fronte alle

sollecitazioni del profeta: «Allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni», «Cessate di fare il male! Imparate a fare il bene», c’è chi dice: «Ma, Signore, io non faccio il male; vado a messa tutte le domeniche, sono un buon cristiano, faccio tante offerte». A costoro ha idealmente chiesto Francesco: «Ma tu sei entrato nel tuo cuore? Sei capace di accusare te stesso nelle cose che trovi lì?». E nel momento in cui si avverte la necessità della conversione, ci si può anche chiedere: «Ma come posso convertirmi?». La risposta viene dalla Scrittura: «Imparate a fare il bene». «La sporcizia del cuore» infatti, ha puntualizzato il Papa, «non si toglie come si toglie una macchia: andiamo in tintoria e usciamo puliti. Si toglie col fare». La conversione è «fare una strada diversa, un’altra strada da quella del male». Altra domanda: «E come faccio il bene?». La risposta viene ancora dal profeta Isaia: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova». Indicazioni che, come ha spiegato Francesco, ben si comprendono in una realtà come quella di Israele, dove «i più poveri e i più bisognosi erano gli orfani e le vedove». Per ognuno di noi significa: vai «dove sono le piaghe dell’umanità, dove c’è tanto dolore; e così, facendo il bene, tu laverai il tuo cuore. Tu sarai purificato! Questo è l’invito del Signore». Conversione significa quindi che siamo chiamati a fare il bene «ai più bisognosi: la vedova, l’orfano, gli ammalati, gli anziani abbandonati, che nessuno ricorda»; ma anche «i bambini che non possono andare a scuola» o i bambini «che non sanno farsi il segno della Croce». Perché, ha evidenziato con amarezza il Pontefice, «in una città cattolica, in una famiglia cattolica ci sono bambini che non sanno pregare, che non sanno farsi il segno della Croce». E allora occorre «andare da loro» a portare «l’amore del Signore». Se faremo questo, si è chiesto il Papa, «quale sarà il dono del Signore?». Egli «ci cambierà», ha detto riprendendo la frase in cui il profeta Isaia afferma: «Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve; se fossero rossi come porpora, diventeranno come la lana». Persino di fronte alla nostra paura o titubanza - «Ma, padre, io ho tanti peccati! Ne ho fatti tanti, tanti, tanti, tanti!» - il Signore ci conferma: «Se tu vieni per questa strada, nella quale io ti invito, anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve». Ha commentato il Pontefice: «È una esagerazione! Il Signore esagera; ma è la verità», perché Dio, di fronte alla nostra conversione, «ci dà il dono del suo perdono» e «perdona generosamente». Dio non si limita a dire: «Ma io ti perdono fino a qui, poi vedremo il resto...». Al contrario, «il Signore perdona sempre tutto, tutto». Ma, ha puntualizzato Francesco chiudendo il suo ragionamento, «se tu vuoi essere perdonato» devi incamminarti sulla «strada del fare il bene». Dopo l’analisi delle prime due parole proposte all’inizio dell’omelia - l’«invito», ovvero: mettiti in cammino per convertirti, per fare il bene; e il «dono», cioè: «ti darò il perdono più grande, ti cambierò, ti farò purissimo» - il Papa è passato alla terza parola, la «finta». Rileggendo il brano del Vangelo di Matteo (23, 1-12) in cui Gesù parla degli scribi e dei farisei, Francesco ha fatto notare che «anche noi siamo furbi», da peccatori: «sempre troviamo una strada che non è quella giusta, per sembrare più giusti di quello che siamo: è la strada dell’ipocrisia». Proprio a questo si riferisce Gesù nel brano proposto dalla liturgia. Egli «parla di quegli uomini cui piace vantarsi come giusti: i farisei, i dottori della legge, che dicono le cose giuste, ma che fanno il contrario». A questi “furbi”, ha spiegato il Pontefice, piacciono «la vanità, l’orgoglio, il potere, il denaro». E sono «ipocriti» perché «fanno finta di convertirsi, ma il loro cuore è una menzogna: sono bugiardi». Infatti «il loro cuore non appartiene al Signore; appartiene al padre di tutte le menzogne, a satana. E questa è la “finta” della santità». È un atteggiamento contro il quale Gesù ha usato sempre parole molto chiare. Egli infatti preferiva «mille volte» i peccatori agli ipocriti. Almeno «i peccatori dicevano la verità su loro stessi: “Allontanati da me Signore, che sono un peccatore!”» (Luca, 5, 8). Così, ha ricordato il Pontefice, aveva fatto «Pietro, una volta». Un riconoscimento che invece non affiora mai sulla bocca degli ipocriti, i quali dicono: «Ti ringrazio Signore, perché non sono peccatore, perché sono giusto» (cfr. Luca, 18, 11). Ecco allora le tre parole su cui «meditare» in questa seconda settimana della quaresima: «l’invito alla conversione; il dono che ci darà il Signore e cioè un perdono grande»; e «la “trappola”, cioè “fare finta” di convertirsi e prendere la strada dell’ipocrisia». Con queste tre parole nel cuore si può partecipare all’Eucaristia, «la nostra azione di grazie», nella quale si sente «l’invito del Signore: “Vieni da me,

mangiami. Io cambierò la tua vita. Fai la giustizia, fai il bene ma, per favore, guardati dal lievito dei farisei, dall’ipocrisia”». AVVENIRE Pag 3 La contro-rivoluzione rosa per ricomporre la persona di Andrea Galli Il rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo: donne, un nuovo protagonismo in difesa dell’umano Alla fine dello scorso dicembre la Gran Bretagna ha diffuso dati che riguardano un settore in cui è tra i leader mondiali per competenze tecniche e giro d’affari: quello della fecondazione in vitro. Nel 2013 Oltremanica è stato registrato il più alto numero di donne che sono ricorse alla Fivet negli ultimi 35 anni, ossia dalla nascita di Louise Browne, la prima bimba di sempre concepita in provetta: sono state per la precisione 49.636, come ha comunicato l’Authority che si occupa di monitorare questo tipo di cliniche e di ricerca, la Hfea. In aumento il numero di coppie dello stesso sesso che ricorrono alla fecondazione assistita ovviamente con gameti di 'donatori', circa 2.300 nel 2012, così come i trattamenti dove sia seme che ovuli non provengono dalla coppia che cerca un figlio. Allan Pacey, presidente della British Fertility Society, ha commentato i dati con soddisfazione, facendo notare come il ricorso alla fecondazione in vitro sia diventato qualcosa di normale, un tipo di intervento «praticato più di altri che suonano familiari, come la rimozione delle tonsille, che sono state effettuate 47.141 volte nel 2013». D all’Europa 'avanzata' a un pezzo d’Africa profonda, martoriato da una lunga guerra civile conclusasi negli anni 90: il Mozambico. Tre settimane fa questo Paese di 21 milioni di abitanti, che continua ad avere indicatori economici tra i più bassi al mondo, ha legalizzato l’aborto sul modello delle legislazioni europee: rendendolo possibile entro le dodici settimane in caso di pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in pratica senza vincoli. È la quarta nazione del continente ad aver allargato le maglie fino a questo punto, dopo Sud Africa, Capo Verde e Tunisia. La decisione non nasce dal nulla, è il frutto di una pressione iniziata all’indomani della Conferenza dell’Onu sulla donna, Pechino 1995, e attuata da Ong straniere per la promozione della 'salute riproduttiva', ovvero promotrici di contraccezione sterilizzazione e aborto, come la statunitense PathFinder. Non è nemmeno bastata l’opposizione della Chiesa cattolica a fermare la spinta abortista in un Paese dove i cattolici sono maggioranza relativa. Dall’Africa al Sud America, dove uno dei problemi sociali posti meno sotto la luce dei riflettori ma dalle ricadute più pesanti è quello della ragazze madri, o madri abbandonate, o costrette a crescere sole i propri figli. Secondo la World Family Map 2014, l’autorevole rapporto sullo stato delle famiglie nel mondo elaborato dall’istituto di ricerca ispano-americano Social Trends Institute, la Colombia è il Paese con il più alto numero di madri non sposate al mondo. L’84% dei figli nasce fuori dal matrimonio e la percentuale di adulti sposati è di solo il 20%. Chiaramente situazioni simili sono terreno propizio per la propaganda e le diffusione della contraccezione, spacciata come soluzione rapida ed efficace a gravidanze extrafamiliari. In Argentina, per dire, lo scorso luglio il ministero della salute ha sponsorizzato l’impianto contraccettivo ormonale sottocutaneo, efficace fino a tre anni, reso disponibile gratuitamente a determinate condizioni per la ragazze dai 15 ai 19 anni. Poche settimane fa a Orán, nella provincia argentina di Salta, l’applicazione gratuita è stata estesa fra non poche polemiche a partire dai 12 annidi età. Citiamo questi esempi recenti, che hanno come soggetto o oggetto di sperimentazione comune la donna, perché possono aiutare a capire il titolo di un volume da poco pubblicato dalle edizioni Cantagalli: 'La rivoluzione della donna, la donna nella rivoluzione'. Si tratta del rapporto sulla dottrina sociale della Chiesa nel mondo – alla sua sesta edizione, riguardante l’anno 2013 – realizzato dall’Osservatorio internazionale cardinale Van Thuan, presieduto dall’arcivescovo di Trieste Giampaolo Crepaldi, in collaborazione con l’Università Cattolica San Paolo di Arequipa (Perù), la Fondazione Paolo VI di Madrid e il Cies, Centro di investigazioni di etica sociale di Buenos Aires. Secondo le finalità con cui è nato, dell’anno analizzato il rapporto raccoglie gli interventi magisteriali più significativi appunto sulla dottrina sociale della Chiesa, a partire da quelli papali, fa una silloge di notizie significative che fotografano mutamenti culturali a livello globale e focalizza l’attenzione su un tema forte. Quest’ultimo, 'la donna nella rivoluzione' spiega Crepaldi nella presentazione, «indica che le donne sono state oggetto

di una rivoluzione che le ha spesso trasformate, ha loro imposto ruoli e comportamenti differenti dal passato. Ciò è avvenuto in molti modi, ma soprattutto mutando la percezione del proprio corpo e, di conseguenza, quella della relazione con l’altro sesso, con la procreazione, con la famiglia e la filiazione. È stata una rivoluzione molto profonda che ha trasformato significativamente la società e nella quale la donna è stata, diciamo così, parte passiva». C’è poi la seconda parte del titolo, 'La rivoluzione della donna', che suggerisce come le donne siano state nello stesso tempo il primo soggetto della rivoluzione in atto. «L’evoluzione del femminismo delle origini e molte sue derive – continua Crepaldi – hanno prodotto seri cambiamenti di cui sono state protagoniste le donne. E questo, si noti, non riguarda, come si potrebbe pensare, solo i Paesi sviluppati e modernizzati, ma tutti i Paesi del mondo, naturalmente fatte le debite distinzioni. Il prodotto finale di questi cambiamenti sembra essere la tecnicizzazione che, dall’indifferenza all’identità sessuata arriva alla composizione e scomposizione delle relazioni con la conseguente distruzione della famiglia e di ogni riferimento naturale». Posto questo, il rapporto mette in evidenza un altro aspetto, anche con l’intervento centrale affidato ad Eugenia Roccella: che la ripresa di un alfabeto delle relazioni, a partire dalla complementarietà dei sessi, di un rapporto umano tra tecnica e corporeità, passa in gran parte per la donna. «È significativo che a fondare il movimento francese Manif pour Tous siano state tre donne – ricorda sempre l’arcivescovo di Trieste – che a reagire all’invasione dell’ideologia del gender nelle scuole pubbliche siano soprattutto le mamme, che si collegano tra loro e formano comitati di sostegno e azione, che vengano pubblicati studi sulla nuova configurazione delle donne scritte da donne». È una contro-rivoluzione rosa che trova linfa in quella mulieris dignitas richiamata potentemente da Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI e oggi anche da papa Francesco. Pag 14 Economia, pubblicati gli Statuti di Gianni Cardinale On line l’organizzazione delle strutture finanziarie vaticane A un anno dalla loro istituzione sono stati pubblicati gli Statuti dei tre organismi creati da papa Francesco per riformare le strutture economico-finanziarie vaticane: il Consiglio per l’economia, la Segreteria per l’economia e il Revisore generale. Il Consiglio per l’economia è «l’ente della Santa Sede competente a vigilare sulle strutture e attività ammini-strative e finanziarie dei dicasteri della Curia Romana, delle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento ad essa e delle amministrazioni del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». Lo Statuto parla di un «elenco» di enti in allegato che però non è stato reso noto. Il Consiglio, che ha poteri di indirizzo e si riunisce di norma quattro volte l’anno, è composto da 15 membri, di cui 8 cardinali e vescovi e 7 «esperti» laici «di varie nazionalità». L’organismo è presieduto da un cardinale coordinatore (l’arcivescovo di Monaco Reinhard Marx) assistito da un vicecoordinatore (il maltese Joseph Zahra) e da un prelato segretario (monsignor Brian Ferme). Alle sue riunioni partecipano, senza diritto di voto, il segretario di Stato e il prefetto della Segreteria per l’economia. Per la loro validità è sufficiente la presenza di dieci membri mentre le decisioni necessitano del voto positivo di almeno otto membri (in entrambi i casi il voto dei membri laici ha lo stesso valore di quello degli ecclesiastici). La Segreteria per l’economia è «il dicastero competente per il controllo e la vigilanza in materia amministrativa e finanziaria sui dicasteri della Curia Romana, sulle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento ad essa e sulle amministrazioni del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». La Segreteria, che svolge quotidianamente la sua attività secondo gli indirizzi proposti dal Consiglio e approvati dal Papa, risulta articolata in due sezioni. La prima, «per il controllo e la vigilanza», si occupa di controllare e vigilare le attività riguardanti la pianificazione, la spesa, i bilanci di previsione e consuntivi, gli investimenti, la gestione delle risorse umane, finanziarie e materiali degli enti controllati. La seconda, quella «amministrativa », si occupa invece di offrire «indirizzi, modelli procedure in materia di appalti volti ad assicurare che tutti i beni e i servizi richiesti dai dicasteri della Curia Romana e dalle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento a essa siano acquisiti nel modo più prudente, efficiente ed economicamente vantaggioso, in conformità a controlli e procedure interne appropriati » La Segreteria per l’economia «agisce in collaborazione con la Segreteria di Stato, la quale ha competenza esclusiva sulle materie afferenti alle relazioni con gli Stati

e con gli altri soggetti di diritto pubblico internazionale ». Essa è presieduta da un prefetto (il cardinale George Pell) assistito da un prelato segretario generale per la prima sezione (monsignor Alfred Xuereb) e da un prelato segretario per la seconda (carica ancora non assegnata). Tra i poteri del prefetto della Segreteria per l’economia è contemplato quello di dare - nei casi stabiliti con criteri determinati dal Consiglio per l’economia - «la sua approvazione ad validitatem» di «ogni atto di alienazione, acquisto o di straordinaria amministrazione posto in essere dai dicasteri della Curia Romana o dalle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento ad essa». È sempre la Segreteria per l’economia poi che «cura gli adempimenti giuridico-amministrativi relativi al personale dei dicasteri e degli uffici della Curia Romana e, su specifico mandato, quello di altre istituzioni collegate », fermo restando però «che spetta alla Segreteria di Stato l’accertamento dei requisiti di idoneità dei candidati all’assunzione». Lo terzo Statuto infine, quello del Revisore generale, stabilisce che sarà «coadiuvato da due revisori aggiunti». Si tratterà quindi di un ufficio non monocratico ma collegiale per la verifica contabile e amministrativa sugli enti. Gli Statuti - approvati ad experimentum senza però che ne venga specificato la durata - non fanno cenno ai beni immobili che un motu proprio del luglio dello scorso anno trasferiva dall’Apsa alla Segreteria per l’economia. Né in essi si trova riferimento al Vatican Asset Management di cui il cardinale Pell aveva parlato in una conferenza stampa in cui era stato presentato il predetto motu proprio. Curiosamente nel primo Statuto, quello del Consiglio per l’economia, non è presente l’articolo 15: si passa infatti direttamente dall’articolo 14 al 16. Mentre in tutti e tre gli Statuti, viene ufficializzato che in dicasteri vaticani la lingua utilizzata non è quella di Dante ma sono due; e cioè, nell’ordine, «l’inglese e l’italiano». Il Consiglio per l’economia, la Segreteria per l’economia e il Revisore generale - i tre organismi di cui ieri sono stati diffusi gli Statuti - vengono creati da papa Francesco con il motu proprio «Fidelis dispensator et prudens» del 24 febbraio 2014. La creazione di questa nuova struttura di coordinamento per gli affari economici e amministrativi della Santa Sede e dello Stato della Città del Vaticano fa seguito alle raccomandazioni giunte dalla Commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa della Santa Sede (Cosea). A guidare la Segreteria per l’economia viene messo fin da subito il cardinale australiano George Pell, mentre il 3 marzo successivo il monsignore maltese Alfred Xuereb ne diviene prelato segretario generale. L’8 marzo 2014 sono poi nominati i quindici membri del Consiglio per l’economia: otto cardinali (tra cui il tedesco Reinhard Marx come coordinatore) e sette laici (tra cui il maltese Joseph Zahra come vice). Il 22 marzo viene nominato prelato segretario del Consiglio il monsignore anglo-australiano Brian Ferme. Il revisore generale non è stato ancora nominato. I tre nuovi Statuti, approvati da papa Francesco il 22 febbraio scorso, sono entrati in vigore il 1° marzo. È prevista la loro pubblicazione negli Acta Apostolicae Sedis. I media vaticani (Bollettino della Sala Stampa, L’Osservatore Romano, Radio Vaticana) non ne hanno dato notizia. Ieri comunque sono stati inseriti nel sito della Santa Sede, nella finestra riservata ai 'motu proprio' di papa Francesco. CORRIERE DELLA SERA Pag 29 Meno potere al cardinale Pell. La scelta del Papa sull’economia di M. Antonietta Calabrò «Questo decido e stabilisco, nonostante qualsiasi disposizione in contrario». Così termina, il Motu Proprio con il quale Papa Francesco, in italiano, ha promulgato il 22 febbraio gli Statuti, cioè le leggi che regolano i nuovi organismi economici vaticani, nati esattamente un anno fa, come parte sostanziale della riforma della Curia. E cioè: la Segreteria dell’Economia, guidata dal «superprefetto» George Pell, il Consiglio per l’Economia, guidato dal cardinale Reinhard Marx, e l’Ufficio del Revisore generale. La pubblicazione degli Statuti era molto attesa perché da quanto scritto, nero su bianco, si sarebbe potuto valutare se Pell sarebbe stato o no, come lo ha subito soprannominato la stampa anglosassone, lo «zar» delle finanze vaticane. Un appellativo che da solo basta a evocare un potere assoluto di vita e di morte su tutte le attività economiche del piccolo Stato e della Santa Sede. Non sarà così. Gli statuti affidano alla Segreteria per

l’Economia funzioni di controllo e vigilanza sulle attività economiche di dicasteri e uffici vaticani (con poteri rinforzati rispetto a quelli finora esercitati dalla Prefettura degli Affari economici). Ma quelle di amministrazione si limiteranno ad appalti e forniture (acquisti di beni e servizi) e alla gestione del personale (le assunzioni rimangono sotto il controllo della Segreteria di Stato). La segreteria per l’Economia, soprattutto, non gestirà i beni di proprietà del Vaticano in particolare gli immobili, come invece veniva indicato dal Motu Proprio dell’ 8 luglio 2014 con cui Francesco trasferiva al nuovo superdicastero guidato da Pell la «sezione ordinaria» (cioè quella immobiliare) dell’Apsa, lasciando a quest’ultima le funzioni di «banca centrale» del Vaticano e di Tesoreria dello Stato. Di tutto questo non c’è più traccia nei nuovi Statuti. Né la Segreteria di Pell amministrerà il patrimonio inestimabile di Propaganda Fide. E neppure il Fondo pensioni dei dipendenti e dei cardinali (cui fornirà solo assistenza tecnica) che continuerà a essere in carico alla Segreteria di Stato. Un segno, questo, che le obiezioni (formali e sostanziali) ai «superpoteri» affidati a luglio al «Ranger» hanno convinto Francesco, che peraltro ha coniato il soprannome. La formula: «Questo decido e stabilisco, nonostante qualsiasi disposizione in contrario», abroga, infatti, quanto deciso precedentemente, sia pure ad experimentum, cioè in prova. IL SOLE 24 ORE Finanza Vaticana, il Papa «bilancia» i poteri di Carlo Marroni Il principio della «divisione dei poteri» è salvo. Nella struttura delle finanze vaticane la Segreteria per l' Economia, dicastero nato un anno fa con l'idea che diventasse un «super-ministero delle finanze» avrà poteri di controllo e gestione ordinaria sul funzionamento della Santa Sede, ma non avrà la gestione del patrimonio, né quello immobiliare né quello finanziario. Ieri sono stati pubblicati i nuovi statuti dei tre organismi nati un anno fa - il Consiglio per l'Economia, la Segreteria per l'Economia e il Revisore Generale - firmati da Papa Francesco pochi giorni fa e in vigore dal primo marzo, dai quali emergono molte novità rispetto a quanto previsto (e in parte deciso) il luglio scorso, quando appariva chiaro che la Segreteria, guidata dal prefetto cardinale George Pell, avrebbe concentrato su di sé la gran parte dei poteri sulle finanze, sia nel controllo che nelle gestione. Ma questo non avverrà: il Papa ha tenuto conto dei suggerimenti - da lui richiesti - del Pontificio Consiglio dei Testi Legislativi, guidato dal cardinale Francesco Coccopalmerio, che ha riscritto parte dei contenuti, tanto che lo stesso Pell di recente ha fatto interviste con l'evidente scopo di frenare il nuovo corso. Ma ormai il Papa aveva deciso. Anzitutto, contrariamente a quanto previsto a luglio 2014, non avverrà il trasferimento alla Segreteria della sezione «ordinaria» dell' Apsa, quella competente sugli immobili. Quindi il dicastero del Patrimonio resterà integro (l'altra sezione è quella straordinaria del portafoglio finanziario) anche se perderà alcune competenze, specie sugli acquisti per i Sacri Palazzi. La Segreteria per l'Economia avrà due sezioni, con a capo ciascuna un Prelato (uno dei due è Generale, quindi vice del cardinale): la prima sezione per il controllo e la vigilanza e la sezione amministrativa. Le due sezioni avranno competenze per il budget annuale, la gestione delle risorse umane (ma a quanto pare non per il Governatorato, dicastero che sovrintende alla funzione dello "stato", dove rimangano le competenze della Segreteria di Stato, che su tutto ha comunque una collaborazione), gli acquisti, il nulla-osta sulle vendite di immobili in base a criteri ancora di redigere, la redazione di un rapporto annuale. Una serie di competenze, quindi, che non comprendono né gli immobili né gli asset finanziari. Infatti, era prevista dentro la Segreteria la nascita del "Vam", Vatican Asset Management, una sorta di «super private bank» dotata di ampi poteri di gestione accentrata di tutti i portafogli finanziari sparpagliati tra i vari dicasteri, dal Governatorato a Propaganda Fide. Il "Vam" avrebbe dovuto essere affidato alla guida di Jean Baptiste de Franssu, presidente dello Ior, considerato molto vicino a Pell, come l'economista maltese Joseph Zahra, vice del Consiglio per l'Economia. La cancellazione del Vam riporta al centro del dibattuto la riforma dello Ior, che il Papa vuole ricondurre alla funzione originaria di assistenza alle opere di religione, cancellando l'idea tuttora ben radicata - come alcuni casi recenti sembrerebbero avvalorare - che possa agire come banca d'affari sganciata da qualsiasi logica «di carità». Arrivano le regole per il Revisore Generale, organismo «autonomo e indipendente» che passerà al setaccio i bilanci e gli atti della Santa Sede,

collaborando con l'Aif. La novità è che l'ufficio sarà composto da un Revisore, coadiuvato da due revisori aggiunti: a questa ultima previsione Pell si sarebbe opposto. Infine il Consiglio per l'Economia, presieduto dal cardinale tedesco Reinhard Marx, vede confermate le proprie competenze in materia di indirizzo, ma anche di ruolo attivo nel promuovere revisioni specifiche senza è passare per la Segreteria, andando direttamente a richiedere al Revisore. Gli statuti firmati dal Papa sono la conclusione di un processo andato avanti per mesi, e che ha visto riemergere dei contrasti dentro i Sacri Palazzi, dove erano cresciuti progressivamente dei dubbi sull'eccessivo potere che, in nome di un processo di rinnovamento, si stava concentrando nelle mani di Pell, come ha rivelato pochi giorni fa Vatican Insider. L'insofferenza verso il porporato (definito dal Papa «un ranger») era scoppiata quando in una intervista al Catholic Herald aveva parlato di soldi «nascosti» nelle pieghe del Vaticano, affermazione che aveva determinato addirittura una precisazione della sala stampa. ITALIA OGGI Il denaro serve anche per il bene di Gianfranco Morra È anticristiano solo l'uso egoistico della ricchezza Con decisione e perentorietà papa Francesco ha ripreso una espressione che condanna il danaro come «sterco del diavolo». Lo ha fatto mosso non solo dall'amore per i poveri, ma anche dalla preoccupazione per la salvezza delle anime, che il denaro troppo spesso corrompe. Come quella borsa piena di monete, che gli affreschi medievali mettevano al collo dell'avaro (allora avaritia significava avidità), per mostrare che precipiterà nell'inferno. Cosa giusta e del tutto consona con la tradizione (se non sempre con la prassi) della Chiesa cattolica. Di solito quella frase viene attribuita a Lutero; ma già la troviamo in un padre greco del quarto secolo, Basilio di Cesarea. Ed è, soprattutto, la parola di Cristo: «Non potete servire insieme Dio e il denaro» (Mt 6 24; Lc 16, 3). La moneta ha sempre due facce: può essere strumento del peccato, ma anche mezzo di carità. Non è un caso che il sistema bancario (Monti di pietà) sia stato istituito nel Quattrocento proprio dalla Chiesa cattolica. Che, per alcuni secoli, aveva proibito il prestito del denaro, tanto che lo esercitavano gli ebrei. Era l'economia curtense dell' Europa medievale. Il grande storico francese Jacques Le Goff ce lo ha fatto capire con una fortunata opera, che l'editore Laterza volle intitolare moralisticamente Lo sterco del diavolo, mentre nell'edizione originale era Le moyen âge et l'argent (2010). Dopo le crociate, quando questa economia chiusa decadde, mentre nascevano città e traffici, la Chiesa capì che doveva regolamentare il prestito, in modo da renderlo meno esoso. E fu proprio S. Tommaso a darne una giustificazione teologica. Egli, come già Platone e Aristotele, condanna l'usura, ma ammette un compenso per il prestito del danaro, nel caso in cui chi lo concede si privi della possibilità di guadagnare investendo quei soldi che ha prestato. L'usura non è più il prestito, ma l'eccesso dell'interesse. Le affermazioni perentorie non possono mancare nel discorso religioso, che è sempre (come ha mostrato Charles Morris) «prescrittivo-stimolante». Ma la realtà è più complessa e la religione stessa introdurrà distinzioni e sfumature. Come ha fatto la Chiesa cattolica in tutta la sua storia. Già nel Duecento, mostrando gli eccessi dei movimenti pauperistici e distinguendo, col settimo successore di S. Francesco, San Bonaventura, tra un possesso personale, vietato ai frati, e uno conventuale, necessario per poter esercitare l'assistenza ai poveri. L'attaccamento al denaro e l'uso egoistico della ricchezza è anticristiano. Rimane tuttavia una verità incontrovertibile: per distribuire ricchezza alle classi povere (beneficienza o welfare) occorre prima produrla, con quel denaro che non è sempre e solo sterco del diavolo. La storia mostra che i miglioramenti delle condizioni di vita dei ceti subalterni sono avvenuti soprattutto nelle nazioni occidentali, in non casuale coincidenza con lo sviluppo dello spirito acquisitivo del capitalismo. A partire dai paesi protestanti, nei quali il guadagno verrà usato largamente da enti e istituzioni private per fini di assistenza (scuole, ospedali, ricoveri). Occorre dunque guadagnare per aiutare chi ha bisogno, dato che, come Cristo ci ha detto, «i poveri li avrete sempre». Ha detto anche «Guai ai ricchi», ma il vero povero evangelico non è il non-ricco, che odia i ricchi perché vorrebbe avere la loro ricchezza, ma il povero «nello spirito», che si libera della ricchezza per una vita più autentica. Una povertà, dunque, non sociologica, ma volontaria. Una «Chiesa dei poveri», che facesse per loro una «scelta preferenziale»,

non sarebbe più una Chiesa universale, ma una succursale delle utopie comuniste. Come nel Sud-America con la «teologia della liberazione». L'attivismo lavorativo e accumulativo dell'Occidente non è in contrasto col Vangelo, quando si traduce in uso del danaro anche per fini di benessere generale. Mentre quelle utopie populiste, che combattono il denaro, conducono sempre ad una miseria diffusa. Con tutti i limiti e i pericoli che il guadagno comporta, esso è necessario per l'assistenza. Profitto e solidarietà sono interdipendenti. Papa Francesco lo sa bene: come potrebbe il Vaticano mantenere i preti senza l'otto per mille? e aiutare i poveri senza le sue ricche banche? Questo denaro non è sterco del diavolo. Ricordo che nel 1987, in un dibattito a Bologna, l'economista Romano Prodi, allora presidente dell'Iri, riprese, col suo consueto sorriso, questa frase: «Il denaro è lo sterco del diavolo». E il card. Biffi, arcivescovo di Bologna, aggiunse: «È vero, ma può servire a concimare i campi di Dio». Avevano ragione entrambi, ma Biffi era più completo, in quanto mostrava che quello sterco del diavolo può essere utilizzato anche per fini di bene comune.

IL FOGLIO Pag 1 San Francisco contro il vescovo che vuole il rispetto dei valori cattolici nelle scuole cattoliche: “Chi sei tu per giudicare?” di Matteo Matzuzzi Roma. "In questa città che ha contribuito a dar vita al movimento per i diritti dei gay", come scrive il New York Times, una cosa così non si sarebbe mai potuta immaginare. L'arcivescovo Salvatore Cordileone ha firmato e promulgato un regolamento in cui si chiarisce che nelle scuole superiori cattoliche della diocesi da lui amministrata i docenti dovranno tener presente, d'ora in poi, quelli che sono ancora i princìpi della morale cattolica. Non è opportuno, quindi, che davanti al crocifisso appeso al muro si dica agli studenti che "gli atti omosessuali non sono contrari alla legge naturale", che la contraccezione non è "intrinsecamente una cosa negativa" e che la ricerca sulle cellule staminali è una grande conquista della scienza. In pratica, è quel che fa ogni azienda che si rispetti con il codice deontologico fatto imparare ai propri dipendenti, in cui si mettono nero su bianco i limiti da non valicare. Ma a San Francisco le rimostranze si sono presto trasformate in una quasi sommossa. "La nostra comunità è addolorata, i nostri insegnanti sono terrorizzati", dice quasi tra le lacrime miss Jessica Hyman, da parecchi lustri docente in una delle quattro scuole raggiunte dalle regole fissate dal vescovo. Le sigle lgbt hanno subito steso lunghi comunicati di condanna in cui tirano in ballo, ça va sans dire, Papa Francesco, accusando il capo della diocesi californiana di "chiudere la porta" anche a "professionisti qualificati, tra cui molti fedeli cattolici gay". Altri, parlano addirittura di un regolamento che sa tanto di "test di purezza", evocando il ritorno all' Europa degli anni Trenta. La protesta è montata, tra studenti e professori, tanto che è stata organizzata una marcia silenziosa illuminata dalle candele verso la cattedra le di St. Mary, il cui profilo moderno la fa sembrare un centro benessere. Qua e là, nel buio della sera, qualche cartello con la celeberrima frase papale "chi sono io per giudicare?", stampata in ogni carattere disponibile su Word e declinata ormai in ogni contesto utile a mettere contro gerarchie episcopali e desiderata personali. Un docente all'istituto del Sacro Cuore, tale Gus O' Sullivan, candela alla mano ha spiegato di essere lì raccolto in preghiera "per l'arcivescovo, il cui cuore è cambiato". Ma quale "caccia alle streghe!", ha reagito mons. Cordileone: "Qui nessuno vuole licenziare nessuno". I punti del documento tanto contestato, ha spiegato, sono tutti "presi dal catechismo della chiesa cattolica, e non contengono nulla di nuovo". Semmai, in un'epoca contrassegnata da dibattiti scottanti su fede e morale, il presule conservatore (gli viene rinfacciato dai contestatori il no ai matrimoni tra persone dello stesso sesso e la partecipazione - nonostante gli appelli di vip e decine di intellettuali - alla Marcia per la vita di Washington dello scorso anno) ha detto di aver ritenuto "importante aiutare gli insegnanti a fornire ai propri studenti valide prospettive" su argomenti che potrebbero dare adito a qualche confusione di troppo: "Le nuove generazioni sono oggi sotto la forte pressione di chi li vuole conformati a certi standard contrari a ciò in cui crediamo". Una motivazione che non ha però convinto otto legislatori locali, i quali hanno chiesto a Cordileone di ritirare immediatamente "le norme discriminatorie". L'accusa è di "aver usato la religione come un cavallo di Troia per privare i nostri concittadini dei loro diritti fondamentali".

WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT Nuovi statuti dell'Economia, né vincitori né vinti di Andrea Tornielli Il dibattito interno sui poteri da attribuire alla Segreteria guidata dal cardinale Pell ha portato a un risultato equilibrato. E ancora migliorabile La pubblicazione avvenuta ieri mattina sul sito web della Santa Sede dei nuovi statuti che regolano le attività della Segreteria per l'Economia, del Consiglio per l'Economia e del Revisore generale (saranno tre, non soltanto uno) si è prestata e si presterà a diverse letture. La prima è quella che vede in quei testi una sostanziale vittoria del cardinale australiano George Pell, prefetto della Segreteria per l'Economia: i poteri del suo dicastero sono infatti considerevoli, sia per quanto riguarda le facoltà di vigilanza e controllo, sia per quanto riguarda la possibilità di fornire indirizzi e criteri per regolare le spese, sia per quanto riguarda la gestione del personale. In realtà nessuno immaginava che il porporato definito «ranger» ma anche «zar» delle finanze vaticane, venisse depotenziato o addirittura disarcionato a un anno di distanza dalla sua nomina. La seconda è quella che vede nei nuovi statuti una sconfitta per il porporato e per i suoi collaboratori, dato che nel documento approvato da Papa Francesco viene revocato il passaggio alla Segreteria per l'Economia, stabilito lo scorso luglio, della gestione degli immobili vaticani dell'Apsa. E appare chiara la volontà di mantenere distinta la vigilanza, il controllo sulle spese e sulla gestione del personale dalla gestione dei beni - mobili o immobili - che lo stesso Pell avrebbe desiderato includere nella seconda sezione della Segreteria, definita «amministrativa». Anche in vista della nascita del VAM (Vatican Asset Management), una struttura autonoma alla quale affidare la gestione di tutti gli investimenti, che secondo i progetti allo studio si sarebbe dovuta affidare alla direzione del presidente dello Ior Jean-Baptiste de Franssu, uomo di fiducia dello stesso cardinale Pell. Leggendo i nuovi statuti, promulgati «ad experimentum» e dunque passibili di modifiche o aggiustamenti in corso d'opera - anche per questo è impossibile oggi pronunciare una parola definitiva sull'assetto delle strutture economico-amministrative vaticane - si comprende che la Segreteria dell'Economia, pur dotata di notevoli poteri, non sarà un «superdicastero» sovrastante tutto e tutti. Alla luce di quanto accaduto, si può concludere che dopo i nove mesi di «gestazione» dei nuovi statuti da parte degli esperti della Segreteria dell'Economia, nell'ultimo periodo è avvenuto un confronto interno - a tratti anche aspro - che ha portato al risultato di un lavoro collegiale, con vari enti, istituzioni e persone che hanno contribuito attraverso consigli, suggerimenti, osservazioni. In questo senso, sia la prima che la seconda lettura appaiono fuori luogo: con la promulgazione dei nuovi statuti non ci sono né vincitori né vinti. C'è soltanto il tentativo, che va al di là delle persone, di costruire un sistema di «check and balances» in grado di funzionare e garantire maggiore trasparenza e razionalizzazione delle spese. Un dato poco sottolineato che emerge dagli statuti riguarda la maggiore autonomia rispetto alle iniziative della Segreteria per l'Economia di cui sembra godere il Governatorato della Città del Vaticano, sottoposto insieme agli uffici e alle istituzioni della Santa Sede al potere di vigilanza del nuovo dicastero guidato da Pell, ma più libero per quanto riguarda la gestione del personale e delle risorse. Fin dagli ultimi mesi dello scorso anno c'è chi ha presentato il confronto interno in atto, come lo scontro tra due mentalità: quella anglosassone, incarnata da Pell, intenzionato a introdurre Oltretevere le regole del buon management e della trasparenza non sempre seguite; e quella incarnata dai curiali italiani, che resisterebbero a queste regole della buona amministrazione, nostalgici, in qualche caso, delle operazioni opache del passato più o meno recente. Ora, è indubbio che anche negli ultimi anni la cronaca ci abbia consegnato episodi poco edificanti riguardanti lo Ior e l'Apsa, e più in generale una certa gestione «italiana». Ma questa rappresentazione della realtà appare troppo semplicistica. Non è forse inutile ricordare che negli ultimi decenni, in ruoli chiave per la gestione delle finanze vaticane si sono trovati ecclesiastici non italiani quali il vescovo Paul Marcinkus o il cardinale Edmund Casimir Szoka. Considerare ogni obiezione alla creazione del «superministero» economico come una «resistenza» italiana alle regole della buona amministrazione è semplicemente riduttivo. Con i tre nuovi statuti Francesco mostra di voler continuare con decisione sulla strada intrapresa, quella della trasparenza,

avvalendosi dei nuovi e dei vecchi collaboratori, in una Curia collegiale, dove rimane significativo il ruolo della Segreteria di Stato. Un revisore generale «coadiuvato» da altri due revisori, una Segreteria dell'Economia forte nel settore della vigilanza, in grado di controllare e di dare indirizzi per la corretta gestione delle risorse umane e materiali. Ma quello istituito un anno fa e guidato dal cardinale australiano George Pell non diventa un «superdicastero» con poteri sia di controllo che di investimento e di spesa, come più volte prospettato. Il Papa ha infatti stabilito che la Segreteria rimanesse un ente con poteri simili a una Prefettura per gli affari economici potenziata, che assomma in sé alcuni poteri dell'Apsa e che ha la capacità di regolarizzare i budget. Dalla lettura degli statuti della Segreteria, del Consiglio per l'economia e del Revisore generale, resi noti oggi ma approvati dal Papa il 22 febbraio prima della partenza per gli esercizi spirituali, emerge come Francesco abbia tenuto conto dei più significativi suggerimenti arrivati dal Pontificio consiglio per i testi legislativi, che aveva consigliato di aumentare i revisori e tenere separate la vigilanza e la gestione. I documenti approvati dal Papa sono tre. E tutti sono entrati in vigore «ad experimentum» a partire dal 1° marzo. La formula utilizzata, trattandosi di istituzioni nuove, permetterà di fare aggiustamenti ed eventuali correzioni nei prossimi mesi. «La Segreteria per l’Economia - si legge nel primo articolo dello statuto - è il dicastero della Curia Romana competente per il controllo e la vigilanza in materia amministrativa e finanziaria sui dicasteri della Curia Romana, sulle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento a essa e sulle amministrazioni del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano». «La Segreteria agisce in collaborazione con la Segreteria di Stato, la quale ha competenza esclusiva sulle materie afferenti alle relazioni con gli Stati e con gli altri soggetti di diritto pubblico internazionale», precisa la nuova legge. Che aggiunge: «La Segreteria garantisce che le materie riguardanti gli enti e amministrazioni di cui all’art. 1 siano trattati tenendo nel debito conto l’autonomia e le competenze di ciascuno di essi». Il dicastero guidato da Pell ha due sezioni, «la sezione per il controllo e la vigilanza» e «la sezione amministrativa». Ci saranno due prelati segretari (il primo con il titolo di «segretario generale»), per sovrintendere le due sezioni. La prima sezione si occupa di controllare e vigilare le attività riguardanti la pianificazione, la spesa, i bilanci di previsione e consuntivi, gli investimenti, la gestione delle risorse umane, finanziarie e materiali degli enti controllati: si tratta, in qualche modo, di un rafforzamento dei poteri fino a oggi affidati alla Prefettura degli Affari economici, istituita nel 1967 da Paolo VI con il compito di verificare i bilanci. Il lavoro di controllo e vigilanza ora sarà anche preventivo e il dicastero avrà molta più libertà di movimento e di intervento, promuovendo ispezioni. «Quando questa Sezione viene a conoscenza di possibili danni al patrimonio degli enti e amministrazioni di cui all’art. 1, essa assicura che siano adottate misure correttive ivi incluse, ove opportuno, azioni civili o penali e sanzioni amministrative». La seconda sezione, quella amministrativa, si occupa invece di offrire «indirizzi, modelli procedure in materia di appalti volti ad assicurare che tutti i beni e i servizi richiesti dai dicasteri della Curia romana e dalle istituzioni collegate alla Santa Sede o che fanno riferimento a essa siano acquisiti nel modo più prudente, efficiente ed economicamente vantaggioso, in conformità a controlli e procedure interne appropriati». Darà dunque delle direttive per ottimizzare la gestione delle risorse, per evitare gli sprechi, per razionalizzare le spese. Questa sezione si occuperà anche di seguire l'elaborazione degli stipendi e delle nuove assunzioni, «fermo restando che spetta alla Segreteria di Stato l’accertamento dei requisiti di idoneità dei candidati all’assunzione». Una sottolineatura, quest'ultima che attesta come la Segreteria di Stato conservi una sua influenza. Dalla lettura del primo articolo dello statuto dedicato a questa seconda sezione amministrativa della Segreteria per l'Economia, sembra di capire che mentre l'attività di vigilanza (prima sezione) viene esercitata sugli uffici della Santa Sede e anche sul Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, l'attività di indirizzo sulle procedure (seconda sezione) riguarda soltanto i dicasteri della Santa Sede e le istituzioni collegate, ma non lo Stato della Città del Vaticano. Nulla si dice, negli statuti, della possibilità che la Segreteria dell'Economia assuma dunque la gestione dei beni immobili e mobili fino a oggi amministrati dall'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica), come avrebbe voluto Pell, anche in vista dell'ipotizzata nascita del VAM, Vatican Asset Management, un nuovo organismo per la gestione unificata degli

investimenti sotto l'egida della Segreteria, da affidare al presidente dello Ior Jean-Baptiste de Franssu. L'Apsa rimane dunque titolare delle sue competenze nella gestione dei beni e i suoi poteri non sono trasferiti alla Segreteria per l'Economia. Il nuovo statuto del Consiglio dell'Economia, definito «ente competente a vigilare sulle strutture e sulle attività amministrative e finanziarie dei dicasteri della Curia romana e del Governatorato», prevede che il Consiglio si dedichi a tutelare i beni degli enti, a ridurre i rischi finanziari, a razionalizzare le risorse umane e finanziarie. Il Consiglio verificherà i bilanci preventivi e consuntivi annuali e consolidati e li sottoporrà all'approvazione del Papa. È composto da 15 membri, 8 cardinali o vescovi, 7 laici esperti; e avrà un prelato segretario. Si riunirà quattro volte l'anno. Eserciterà un'influenza significativa sulla policy in questa materia, ma non avrà la possibilità di creare legislazione. Infine, Francesco ha approvato anche lo statuto del revisore generale, che - come suggerito dal Pontificio consiglio per i testi legislativi - sarà «coadiuvato da due revisori aggiunti». I revisori dunque saranno tre, per garantire maggiore autonomia al loro lavoro, un controllo reciproco, e anche una maggiore indipendenza rispetto ad eventuali pressioni provenienti dall'esterno dell'ufficio. Si occuperanno di fare la verifica contabile e amministrativa sugli enti. Riceverà segnalazioni sulle anomalie, farà revisioni specifiche in presenza di attività che si discostino «in modo sostanziale» rispetto agli «indirizzi» e ai «bilanci preventivi approvati». Si occuperà delle eventuali irregolarità nella concessione di appalti o di contratti per servizi esterni, o «nelle transazioni o alienazioni». Nei tre nuovi statuti, quello della Segreteria, quello del Consiglio e quello del Revisore generale, si afferma che la documentazione acquisita è coperta da segreto d'ufficio. Significativamente si afferma che le lingue utilizzate sono «inglese e italiano». Dalla lettura dei tre documenti, ormai da alcuni giorni appesi alla bacheca nel cortile di San Damaso, si comprende come il lavoro della Segreteria dell'Economia per la loro preparazione, durato nove mesi, sia stato integrato con altre proposte e osservazioni. Appare dunque frutto di un lavoro collegiale che ha tenuto conto delle sensibilità diverse per cercare di creare un sistema in grado di funzionare bene. Torna al sommario 4 – MARCIANUM, ASSOCIAZIONI, ISTITUZIONI, MOVIMENTI E GRUPPI IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Il Marcianum riparte come polo culturale di Paolo Navarro Dina Il bilancio della fondazione è stato riportato in pareggio Lo sforzo che si sta compiendo è importante. Ma soprattutto è l’occasione per dare un nuovo volto al Marcianum. Dopo la "burrasca" giudiziaria che ha coinvolto la Fondazione e il ridimensionamento dell’ente, anche per una drastica riduzione dei finanziamenti, il "think tank" di ispirazione cattolica, che fa direttamente riferimento al Patriarcato di Venezia, punta ad un progetto tutto nuovo: guarda al territorio, all’innovazione e alle trasformazioni sociali. L’idea è quella di realizzare un vero e proprio "hub" - una sorta di piattaforma - per valorizzare la riflessione in ambito socio-economico, giuridico e politico. Ed è stato sotto questi auspici che ieri mattina, Paolo Lombardi, amministratore delegato, e Sergio Belardinelli, direttore scientifico della Fondazione, insieme a Michela Sterpini (segretario generale) e Cristiano Rigoni (settore amministrativo) hanno voluto illustrare i piani per il prossimo futuro, in un incontro nella sede del Seminario patriarcale. Ma prima di tutto i riflettori sono stati accesi sullo stato di salute del Marcianum: «Il budget approvato per il 2015 ammonta a 700 mila euro, con costi e ricavi in pareggio. - ha detto Lombardo - E arrivare a fine anno in pari è un bel risultato per una fondazione. In questi ultimi otto mesi abbiamo ottenuto risultati positivi, con un conto economico 2015 in equilibrio, dopo aver ereditato un 2014 da un milione e 600 mila di spese e un milione e duecentomila di ricavi. Il programma a budget dello scorso anno è stato completato, sostenendo il disavanzo economico, ma è cambiato ora l'atteggiamento, perché le risorse sono limitate e le vogliamo spendere bene. Attendiamo ancora il saldo dei finanziamenti per il 2013, e la quota 2014, ma abbiamo chiesto un contributo per il 2015 per un ammontare di 130 mila euro. Per quel che riguarda il persona in esubero siamo riusciti a ricollocare 9 su 13 dipendenti, i restanti

quattro contiamo di farlo nel breve periodo». Intanto l’attività culturale e didattica sta riprendendo. E in questo senso è toccato a Belardinelli presentare le nuove iniziative. «Detto del corso di Management che è iniziato alcuni giorni fa - ha spiegato - la nostra intenzione è quella di approfittare della centralità di Venezia per discutere temi che sono all’ordine del giorno e che sempre più lo saranno. Ci sono argomenti come il rapporto tra implicazioni sociali ee giuridiche, la libertà di religione e altresì la libertà di espressione ci sono parsi fondanti della proposta del "nuovo" Marcianum». A giorni i primi appuntamenti importanti: il Moot Court, una sorta di simulazione di un processo nel quale gruppi di studenti italiani e stranieri si schiereranno e discuteranno su diritto e religione (9-11 marzo). Poi la Conferenza internazionale sull’etica (1-2 ottobre), mentre proseguiranno o verranno attivati alcuni corsi, tra i quali il dottorato di ricerca in Diritto Mercato e Persona. Tra le altre iniziative anche una mostra fotografica, in occasione dell’Expo, che si terrà nel chiostro del Seminario dal titolo "Reflective Landscapes" in collaborazione con Confagricoltura su nutrizione, agricoltura e sviluppo. Infine il rinnovamento della "task force" del Marcianum sarà anche nei social media. I vertici della Fondazione hanno annunciato il restyling dei profili sul web (Facebook, Twitter, YouTube). CORRIERE DEL VENETO Pag 11 Rivoluzione al Marcianum. Moraglia “taglia” il bilancio. “Solo progetti selezionati” di Alice D’Este Venezia. Un bilancio con entrate (ed uscite) pressoché dimezzate. Una Fondazione più contenuta, lontana dai «fasti» del passato in osservanza all’indicazione chiara del patriarca Francesco Moraglia, senza dimenticare però le linea guida che le hanno dato i natali. E’ una rivoluzione che cambia il volto alla Fondazione Marcianum, quella cominciata otto mesi fa e della quale ieri sono stati presentati i primi risultati dall’ad Paolo Lombardi e da vicepresidente (e presidente del Comitato scientifico) Sergio Belardinelli. Un ridimensionamento che racconta tra le righe il profondo processo di riorganizzazione voluto da Moraglia. Dopo l’inchiesta sulle tangenti del Mose il patriarca aveva deciso di troncare il rapporto esistente con il Consorzio Venezia Nuova, socio fondatore, e aveva chiesto nuovo rigore. E ora si fano i primi conteggi. «Per il 2015 abbiamo un budget di 700 mila euro con costi e ricavi in pareggio - dice Lombardi -. La rivoluzione è anche questa: nel 2014 avevamo avuto 1,6 milioni di spesa e 1,2 di ricavi. Ora viaggiamo a risorse limitate che vogliamo spendere bene solo per le cose essenziali». Il bilancio preconsuntivo 2014 mostrava un disavanzo di 480mila euro (coperto poi da accantonamenti degli esercizi precedenti), mentre nel 2015 il bilancio preventivo ipotizza un attivo di 3316 euro (così come nel 2013 l’attivo fu di 8478mila euro, nel 2012 di 9836, nel 2011 di 39879). Oggi tra i soci finanziatori non c’è il Consorzio Venezia Nuova ma rimangono Assicurazioni Generali, Banca popolare di Verona, la Fondazione Patriarca Carlo Agostini e la Regione Veneto che deve ancora approvare lo stanziamento 2015 (si discuterà nelle prossime settimane) ma dalla quale la Fondazione Marcianum si aspetta 130 mila euro. Negli anni precedenti i finanziamenti erano stati di 200 mila nel 2012, 2013 e 2014, 250 mila euro nel 2011. Il cambiamento del Marcianum di oggi si legge (soprattutto) nei numeri. Del resto il primo obiettivo tra i tre elencati dall’ad è proprio «una gestione economica sostenibile». «Avremo obiettivi concreti, finanziabili in modo certo - continua Lombardi - faremo meno cose ma selezionate sulla base della coerenza con il progetto generale». «Le linee guida per il prossimo periodo prevedono quattro aree di progettazione - precisa Belardinelli - l’innovazione tecnologica e le sue implicazioni etico-giuridiche, le nuove frontiere del diritto e la libertà religiosa, lo sviluppo territoriale tramite l’innovazione sociale strategica e la promozione dei beni culturali di interesse religioso». Tra i principali appuntamenti in agenda la «Moot court competition law and religion», una simulazione processuale che si occuperà di diritto e religione (dal 9 all’11 marzo), la mostra fotografica realizzata in collaborazione con Confagricoltura da fine maggio a luglio e un convegno sulla sostenibilità dell’innovazione. Continuerà anche la partnership con Ca’ Foscari per il Master in Management dell’innovazione e il dottorato in diritto mercato e persona. Scomparso dal 2009 invece il sostegno alla Fondazione Oasis, la Fondazione Marcianum con il 2014 ha chiuso anche il suo sostegno economico all’Istituto superiore di scienze

religiose San Lorenzo Giustiniani che finanziava con 130 mila euro e alla Facoltà di diritto canonico che finanziava con 100mila. LA NUOVA Pag 39 Marcianum. Etica, religione e i paesaggi in una mostra Expo di Nadia De Lazzari Il Marcianum cambia rotta, da polo pedagogico– universitario a polo culturale, scientifico e sociale. Costituito nel 2004 con i fondi della Legge speciale, 50 milioni di euro destinati al disinquinamento della Laguna, e dirottati dalla Regione, fu fortemente voluto dall’allora cardinale Scola (ora arcivescovo di Milano). L’Ente – ha sede nel Seminario Patriarcale – aveva gettato le basi per una proposta educativa pluriforme e onnicomprensiva per «rispondere alla necessità di valorizzare il proprio ricco patrimonio culturale, innestandolo organicamente nella vita». Ora la Fondazione – il Gran Cancelliere è il Patriarca Moraglia e il Presidente è Gabriele Galateri di Genola – ha presentato il programma biennale e le aree di progettazione. Ad illustrarle ieri l’amministratore delegato Paolo Lombardi e il vice presidente del Marcianum epresidente del Comitato Scientifico Sergio Belardinelli. Ovvero l’innovazione tecnologica e sociale nel territorio, il diritto e la libertà religiosa, la promozione dei beni culturali di interesse religioso. Belardinelli si è soffermato sul ritrovato equilibrio tra costi e ricavi: «Ammonta a 700 mila euro. Per il 2015 abbiamo presentato alla Regione una richiesta di contributo di 130 mila euro». Il nuovo Consiglio di amministrazione ha ridimensionato l’organico, da 18 dipendenti a 5. «Per 13 persone è stata avviata la procedura di mobilità, nove hanno trovato un nuovo impiego, per gli altri quattro la ricerca sta proseguendo». Gli appuntamenti in programma: dal 9 all’11 marzo si terrà la “Moot Court Competition Law and Religion”, una simulazione processuale con la partecipazione di studenti europei e americani. Da maggio a giugno, in concomitanza con Expo2015, è prevista l’inaugurazione della mostra fotografica “Reflective Landscope” in collaborazione con Confagricoltura. L’1 e il 2 ottobre si svolgerà il tradizionale incontro dell’International Ethics Conference. Tra le novità: il Master in Management dell’Innovazione Sociale Strategica in collaborazione con l’Università Ca’ Foscari, il sito internet e lo sviluppo dei canali social. Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO IL GAZZETTINO Pag 4 Paritarie: “Saltato il bonus? Troppa ideologia” di Franca Giansoldati Delusione e rammarico dei vescovi: “E’ una scelta di libertà” Delusione, rammarico, irritazione. «Siamo dispiaciuti che sia saltato il bonus delle paritarie. La verità è che molti nostri partiti sono troppo ideologizzati» ha commentato monsignor Nunzio Galantino, segretario della Cei. Le scuole paritarie «sono un fatto culturale. Si tratta di guardare non tanto ad un semplice beneficio nei confronti delle famiglie quanto ad una scelta di libertà». La questione è annosa e giace sul tappeto da anni, sostanzialmente irrisolta, governo dopo governo. Da una parte c'è la Chiesa che difende le scuole gestite da enti religiosi, dall'asilo fino al liceo, dall'altra ci sono forze politiche contrarie a garantire finanziamenti diretti o indiretti a realtà non statali. Il nodo è sempre quello. Stavolta l'ipotesi sul tavolo del Consiglio dei Ministri era di detrarre dalle tasse una percentuale della retta pagata dalle famiglie. L'ultima volta che il premier Renzi ne aveva parlato con esponenti ecclesiastici, lo aveva fatto con il cardinale Bagnasco e con il cardinale Parolin, in occasione dell'annuale ricevimento per la firma dei Patti Lateranensi. Renzi aveva rassicurato che non si poteva non prestare ascolto ad un settore così importante, anche se le risorse effettivamente a disposizione non erano poi tante. Parolin gli aveva fatto notare che la scuola cattolica resta un valore per tutti e non solo per i cattolici, svolgendo un servizio importante per la crescita delle future generazioni, tale da contribuire alla costruzione di una società civile, matura e responsabile. Insomma, una risorsa più che una zavorra come diversi

parlamentari continuano a martellare. Dunque non un aggravio economico per le finanze pubbliche ma un risparmio generale, a fronte del servizio reso a bilancio. Papa Bergoglio finora ha lasciato il compito di intervenire nel dibattito pubblico ai vescovi italiani, competenti in materia, e al suo segretario di Stato per non entrare a gamba tesa nell'arena politica con dichiarazioni che avrebbero avuto un peso nella vita interna dello Stato italiano. Francesco ha scelto il rispetto delle sfere di influenza, secondo una divisione molto netta tra Chiesa e Stato, all'insegna di una sana laicità. Ma visto che in questi anni troppi istituti cattolici hanno chiuso i battenti, impotenti nell'affrontare gli effetti della crisi economica che ha colpito tante famiglie che non possono più permettersi di pagare le rette, si vedrà. Forse qualche parola potrebbe dirla. In Italia su 13 mila scuole, 63% sono cattoliche. Gli asili rappresentano il 71%. Se fino alla scuola media gli istituti cattolici costituiscono la maggioranza, alle superiori la percentuale si ribalta e prevalgono quelle di matrice laica. In ogni caso si tratta di una realtà che il Paese non può di certo ignorare. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IX Profughi, rivolta a Trivignano di Elisio Trevisan I cittadini pronti a organizzare picchetti per impedire la ristrutturazione dell’ex scuola. L’incubo del bis di via del Gaggian: “Divenne un covo di sbandati” Pronti ai picchetti per bloccare la ristrutturazione della ex scuola che ospiterà una nuova ondata di profughi. Ieri mattina a Trivignano, mentre i tecnici del Comune verificavano i lavori indispensabili per poter accogliere i richiedenti asilo, una cinquantina di residenti si sono riuniti fuori annunciando che, se servirà, sono pronti a distendersi sulla Castellana per bloccarla. Uomini contro uomini: fiaccati da una crisi che ha sconvolto le loro vite e di cui solo la Bce vede la fine, o fuggiti da patrie che non sono più madri ma aguzzine. In mezzo ci sono le Istituzioni, che a Trivignano vedono più lontane dei profughi che stanno per piombare nel cuore del paese, anche se i palazzi del Comune e della Prefettura sono a un tiro di schioppo. Attorno c’è la paura: del diverso e di essere abbandonati com’era accaduto fino a metà dell’anno scorso in via del Gaggian alla Cipressina, dove una settantina di richiedenti asilo sono stati abbandonati per due anni nella sede dell'Opera Santa Maria della carità che fu costretta più volte a chiedere lo sgombero dell’edificio. Ieri mattina, mentre i tecnici procedevano nel sopralluogo, i residenti facevano le prove di resistenza, lungo la Castellana, la strada che taglia in due il paese come una ferita con la quale hanno imparato a convivere traendone anche vantaggi perché è di gran passaggio. E se si decide di bloccarla si manda in tilt il territorio. «Contro la crisi che uccide l’economia, siamo riusciti a portare quattro nuovi negozi ma i commercianti adesso minacciano di chiudere perché nessuno verrà più in centro a fare le spese» spiega Bruno Lazzaro, ex consigliere comunale del Pd, personaggio di riferimento per Trivignano. Solida formazione democratica, «non ce l’ho con gli stranieri e sono convinto pure che bisogna accoglierli ma così non va. Questa scuola è nel cuore del paese: in un raggio di 200 metri c’è tutto, negozi, artigiani, il panificio, la chiesa, la nuova scuola. La nostra vita, insomma. E i profughi li vogliono mettere giusto in mezzo, come se decidessero di sistemarli in piazza Ferretto». Rino Lazzaro annuncia che non li voterà più, Sandra Calzavara ha la casa che confina con l’ex scuola, come Luigi Dalla Porta, Renzo Bortolozzo e Claudio Lazzaro, Adriano Campagnaro organizzerà i picchetti, Claudio Sbrogiò lo aiuterà, Paolo Scroccaro vede già la morte del paese, Silvano Volpato chiede come le istituzioni pensano («se ci hanno pensato») di garantire l’ordine pubblico «dato che qui a Trivignano non vediamo mai un vigile urbano, un carabiniere, un poliziotto». Sandra Calzavara ha paura, come molti degli altri 3 mila abitanti del paese, vive con un figlio e una figlia e, davanti alla finestra della cucina, ha la scuola: «Perché il prefetto non viene a dormire una notte a casa mia?». Ricordano che quella scuola era stata dichiarata inagibile per i bambini che ora frequentano il nuovo edificio: «Piove dal tetto, i bagni sono inutilizzabili, e ora decidono che gli immigrati possono starci?». L’anno scorso a luglio Bruno Lazzaro e gli altri cittadini avevano organizzato

un’assemblea con oltre 250 persone, e in tre giorni raccolsero mille firme: «Il prefetto si rese conto che servivano più di 200 mila euro per sistemarla e ne aveva solo 50 mila a disposizione». Quindi il progettò finì in congelatore, pronto per essere scongelato alla bisogna, cioè oggi. «È una dittatura nascosta dalla democrazia» si scaldano, e preparano le barricate. Via del Gaggian, a due passi dal centro di Mestre, non è lontana dal centro di Trivignano. E gli abitanti dei due avamposti lungo la Castellana si conoscono bene tra di loro. La villa dell’Opera Santa Maria della carità fu invasa da un’ottantina profughi: dovevano restarci il tempo che la Caritas portasse a termine il progetto di aiuto legato all’emergenza provocata dallo scoppio della guerra in Libia. Ma la casa divenne un covo di disperati e spacciatori, più di qualcuno arrestato dalle forze dell’ordine: erano arrivati in quaranta, censiti e autorizzati, alla fine si sono ritrovati in 77, giunti non si sa da dove, in condizioni igieniche meno che precarie. «Ormai era un ghetto, per gli immigrati e per la gente che viveva in zona - ricorda Bruno Lazzaro -. Ora vogliono fare la stessa cosa in centro a Trivignano». Le occasioni di attrito con la popolazione, in via del Gaggian, erano sempre più frequenti, «la gente non riusciva più a stare in casa propria e nemmeno a uscire la sera. D’altro canto nessuno controlla gli immigrati e sono liberi, ci mancherebbe non sono mica prigionieri». Sicuramente sono buone persone, commenta Rino Lazzaro, «ma in mezzo ci sarà anche qualche testa calda» e Paolo Scroccaro non si fida più di mandare i due figli in centro, «soprattutto la mia figliola, con quello che si sente in giro. Ci chiudiamo in casa». LA NUOVA Pag 19 Tagli a posti di lavoro e servizi sociali di Enrico Tantucci Venezia: si profila una manovra “lacrime e sangue” per recuperare 56 milioni. Nel mirino politiche educative, mense e asili nido. Baretta: “Vanno previste entrate extra dal turismo” «Una bozza di bilancio lacrime e sangue». L’ha definita così dal palcoscenico del teatro Toniolo, il subcommissario Vito Tatò. È quella che il commissario straordinario per il Comune Vittorio Zappalorto lascerà comunque in eredità al nuovo sindaco della città che sarà eletto entro la fine di maggio. Perché se il commissario e i suoi collaboratori non sono in grado di approvare un bilancio con un “buco” di quasi 56 milioni di euro sul fronte della spesa corrente, vogliono comunque stilare una bozza che, almeno formalmente, lo riporti in bilancio. Ma per farlo - visto che il piano triennale sull’elasticità delle entrate del Comune ha poche possibilità di essere accolto dal Governo, come riferiamo a parte - dovrà necessariamente toccare la “carne viva” dei conti di Ca’ Farsetti: retribuzione dei dipendenti, servizi e di conseguenza anche posti di lavoro. Qualche milione sarà recuperato - come ha anticipato Tatò - con ulteriori tagli di spesa rispetto alle richieste delle varie direzioni di settore comunali. Ma non si fa fatica a intuire, che - viste le dimensioni di costo delle direzioni - sarà sul capitolo delle politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza, che «vale» da solo 37 milioni e mezzo di euro, che probabilmente si concentreranno le attenzioni di Zappalorto e Tatò e il welfare veneziano fiore all’occhiello delle amministrazioni passate, rischia perciò di essere seriamente compromesso, dopo che già primi interventi in questa direzione sono stati compiuti, con l’abbassamento della soglia Isee da 60 mila a 20 mila euro e l’aumento delle rette di mense e asili nido. Il problema è che la riduzione o la soppressione di servizi in questa direzione, si trascinerebbe dietro anche i relativi posti di lavoro, con conseguenze devastanti sul piano sociale. Ma anche dal settore delle Politiche Educative, della Famiglia e sportive, che pesa altri 5 milioni e 300 mila euro arriveranno i tagli. Non si salverà dalla scure di Zappalorto - in questa chiave - anche parte della retribuzione integrativa dei dipendenti comunali, già più volte scesi in piazza per difenderla, e che vale altri 9 milioni di euro annui. «Noi presenteremo al nuovo sindaco una bozza con le nostre scelte per riportare almeno formalmente in pareggio il bilancio 2015 - ha spiegato ancora Tatò - poi starà al nuovo sindaco eventualmente modificarle nel modo in cui riterrà più opportuno». Il prodotto finale, però, non dovrà cambiare, perché sempre di recuperare 56 milioni di euro si tratta e la spesa corrente del Comune - depurata da tutte le voci che non dipendono direttamente da Ca’ Farsetti, come il trasporto pubblico

locale, lo smaltimento rifiuti e il Casinò - è di circa 324 milioni e mezzo di euro. Si tratta di ridurla di circa il 17 per cento, consapevoli del fatto che quasi 126 milioni di quei 324, cioè più di un terzo, è rappresentato dagli stipendi dei dipendenti comunali. Già da queste cifre si capisce come la situazione del bilancio comunale sia ormai gravissima e come tagliare oggi quei 56 milioni - senza aiuti dallo Stato in varia forma - significhi letteralmente smantellare il Comune di Venezia nei suoi servizi. Impossibile inoltre aumentare ancora le imposte locali - lo ha detto lo stesso Tatò anche l’altro giorno - perché sono in molti casi già ai massimi. E per il nuovo sindaco, chiunque sia, sarà durissima. «I problemi di bilancio del Comune possono essere affrontati solo con un piano di rientro pluriennale dal suo deficit che preveda anche l’adozione di misure di incremento delle entrate relative al turismo. È un piano che il Governo - già quando abbiamo discusso dell’emendamento per la limitazione degli effetti negativi dello sforamento del Patto di Stabilità 2014, poi approvato - aveva mostrato disponibilità ad ascoltare. Ma è necessario che sia il nuovo sindaco a presentarlo, perché l’impegno sarà pluriennale, il commissario Vittorio Zappalorto potrebbe intanto impostarlo». Il sottosegretario veneziano all’Economia Pier Paolo Baretta disegna così il quadro della situazione da parte del Governo nei confronti del Comune e della sua difficilissima situazione di bilancio, ma è anch’egli scettico - come già il suo collega Enrico Zanetti - sul fatto che il Governo possa dare il via e in tempi brevi, come chiede Zappalorto, al piano triennale di deroghe sulla spesa che consenta di utilizzare buona parte degli introiti di oneri di urbanizzazione, imposta di soggiorno e multe per violazioni al codice della strada - oggi vincolati per destinazione - anche per ridurre il «buco» della spesa corrente e di usare anche il ricavato di nuove alienazioni immobiliari allo stesso scopo. «Per quanto riguarda gli oneri di urbanizzazione - commenta ancora Baretta - già la Legge di Stabilità di quest’anno consente di utilizzarli per la spesa corrente, ma per il resto credo che più che a un provvedimento di questo tipo, il Governo possa dare appunto il via libera eventualmente a un piano organico che abbia un orizzonte più ampio di soli tre anni e che impegni la prossima amministrazione comunale nel risanamento del bilancio, limitando al massimo i disagi proprio attraverso una rateizzazione più lunga del rientro dal debito. Su questa base potranno essere presentate anche misure che riguardino nuove entrate dal turismo, che si tratti di una city tax o di altre forme di beneficio fiscale, legate, ad esempio all’Iva». Insiste intanto sul tema della responsabilità «romana» dell’attuale situazione del bilancio, l’ex assessore comunale Gianfranco Bettin, che ricorda come «dei 55,8 milioni di scostamento previsti, oltre 40 derivano direttamente da scelte dello Stato. Per questo, serve portare a Roma il “caso Venezia”, perché a Roma è in gran parte nato. Chi dice il contrario, chi smentisce le chiarissime cifre, non è che un complice dei governi centrali e/o un nemico di Venezia». Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO Pag 9 A messa con Sanremo, l’Isis e le slide. Le moderne omelie di don Gerardo di Mauro Pigozzo Usa Facebook e i nuovi linguaggi: “Ma ora faccio una pausa” Castello di Godego (Treviso). Raccontano che il Vescovo di Treviso, Gian Franco Agostino Gardin, lo abbia incrociato dopo una liturgia e che lo abbia salutato ridendo: «Don Gerardo, adesso mi parli o mi mostri le tue slide?». I suoi parrocchiani lo adorano e lo taggano su Facebook prima ancora di vederlo comparire per le celebrazioni della domenica. Qualche anziano in compenso arriccia il naso, perché le messe durano una manciata di minuti in più. Il protagonista, don Gerardo Giacometti, ascolta tutti e per tutti ha una parola, spesso digitale. «L’importante è far passare il messaggio del Vangelo», ripete. «Bisogna saper comunicare alle anime e ai cuori, questa è la priorità». Siamo a Castello di Godego, nel Trevigiano. Settemila abitanti e un campanile, che dal 28 settembre dello scorso anno suona solo per il nuovo parroco, don Gerardo appunto. Il

quale dal primo giorno si è fatto conoscere per la passione per il PowerPoint. Appena arrivato, ha fatto installare un videoproiettore, dove durante la messa fa danzare immagini e parole per spiegare meglio i concetti che ruotano attorno alla liturgia. Domenica scorsa ha destato particolare clamore: ha usato infatti il volto di Jihadi John, il 27enne inglese divenuto boia per l’Isis, come metafora delle trasformazioni che vive l’animo umano. «E’ la vicenda di un uomo che ha perso sé stesso, può capitare a tutti», ha detto il sacerdote dal pulpito, articolando poi il ragionamento. La notizia è volata di bocca in bocca in tutto il paese – e non c’è voluto molto, considerato che alla messa delle 9.30 ormai in molti restano in piedi – e ha travalicato i confini di Godego, diventando un caso. Il boia dell’Isis che entra in chiesa. In foto, peraltro. Dalla Curia di Treviso, però, nessuna critica. Il vicario per la pastorale, don Mario Salviato, mette solo alcuni paletti. «La messa va colta nella sua interezza, non solo in una parte, ossia l’omelia», distilla. «Si devono evitare eccessi di spettacolarizzazione. Ma se capita ogni tanto e ciò serve a far passare un messaggio, possono servire anche i proiettori e le immagini forti, come quella dell’Isis». Peraltro, il Vescovo dal 15 al 22 marzo sarà in visita pastorale nella Castellana, e dunque sarà lui a far sintesi. Nell’attesa, don Gerardo ascolta i commenti di chi lo circonda. Il suo profilo Facebook, ieri, era tempestato di complimenti ed elogi. Dalla parrocchia di Sant’Agnese, a Treviso, dove è vissuto per 16 anni, c’è chi rimpiangeva la sua dipartita. Il blog dove carica le sue omelie «Nel mondo ma non del mondo» ha registrato un picco di accessi, e in molti si sono riletti le sue riflessioni quando aveva citato Nek durante San Remo e quando spiegava il ruolo dell’arte per interpretare le parabole evangeliche. Ed è salito pure il contatore delle visualizzazioni delle sue omelie su YouTube. Perché, da qualche settimana a questa parte, la moda a Godego è quella di andare a messa con l’iPad per poi caricare il video on line. Di fronte a tanta notorietà il sacerdote, che da poco ha compiuto 50 anni, non si scompone. «Dentro la comunicazione c’è l’uomo, serve saperla usare per diffondere i messaggi di Cristo» dice. D’altro canto, la sua esperienza nel settore è notevole. Da direttore dell’ufficio catechistico diocesano aveva spiegato le sue tecniche a tutti i catechisti; da fondatore e direttore dell’Istituto superiore di scienze religiose di Treviso e Vittorio Veneto aveva applicato gli strumenti della moderna tecnologia. «Adesso, però, per un paio di settimane mi prenderò una pausa», salutava ieri, sornione. «Non vorrei troppa pubblicità. E poi: arriva il Vescovo, adesso l’omelia la farà lui…». LA NUOVA Pag 1 In Veneto la partita è nazionale di Giorgio Sbrissa Gli inglesi la chiamano “l’alternativa del diavolo”, ovvero fai una scelta e sei morto, scegli la seconda e non sei più vivo. Flavio Tosi, segretario nathional della Liga Veneta, vi è stato posto di fronte: se resta in Lega è condannato alla marginalità, se esce rischia di scomparire; salverebbe però la faccia e lui è uomo d’onore. Il dubbio è se romperà già domani al Consiglio nathional, esigendo le liste dei candidati dai segretari provinciali, o lunedì, quando scadrà l’ultimatum della Lega. La visita di ieri ad Alfano non può essere casuale. Al sindaco di Verona hanno giocato proprio un brutto tiro, come quelli che tirava lui, del resto: l’avessero espulso sarebbe stato tutto più facile. Avrebbe potuto appellarsi all’autonomia veneta calpestata, all’orgoglio del leone ferito. Così non è stato, Salvini ha forse ascoltato i consigli dei vecchi sodali bossiani, da Gobbo a Stefani, dalla Dal Lago a Da Re (gran parte di loro sono stati vittima delle purghe tosiane), imponendo come mediatore-commissario Gianpaolo Dozzo, veneto e leghista di lungo corso, che nessuno può accusare di comportamenti settari o estremisti, ma che è stato giubilato proprio da Tosi nel 2013. E la volontà premeditata dei salviniani di far fuori Tosi senza sembrare Jihadi John, lo dimostra il fatto che Luca Zaia nonostante sia stato più volte invitato a parlare di liste e candidature, fino all’ultimo sms di domenica sera, non ha mai risposto al sindaco di Verona. Dozzo dispensa miele a piene mani, ma è lui per primo a sapere, come sanno tutti, che Tosi non ha alcun futuro politico se resta in Lega. Perciò se ne andrà, forte di quel sondaggio che ha commissionato a Swg che darebbe una sua lista intorno al 10% in Veneto, correndo con la Lega. Trasferire automaticamente questa benzina su una corsa in solitaria, si sa, è un’altra cosa, seppure Verona conti per circa un quinto dell’elettorato e nel Veronese Tosi farebbe man bassa. Bisogna vedere allora cosa farà il resto degli attori del coro di centrodestra. E qui la partita si fa molto più

vasta e importante. Per dirla tutta, si gioca qui ed è una partita nazionale. Finora la Lega nella squadra di centrodestra aveva portato sangue e braccia. Ma a giocare da centravanti e da regista era sempre stato Berlusconi. Salvini s’è stancato di vedere il Carroccio correre da comprimario e mai prima d’ora i sondaggi avevano dato la Lega davanti a FI. Non è facendo corsa solitaria in Veneto, come avrebbe voluto Tosi, che otterrà però il suo scopo. Salvini non vuole contrapporsi a Berlusconi, vuole prosciugarlo. A Salvini sta bene che in Forza Italia nascano i “ricostruttori”, resti la spaccatura con Alfano e l’Ncd, si rafforzi Fratelli d’Italia, l’Udc, Passera e mille altri restino a bagnomaria. Salvini sa anche che da qui alla vera sfida con Renzi mancano tre anni. Un’eternità in politica, necessaria però a far emergere pienamente la sua leadership in quella parte del campo. Fa il lepenista per rafforzare se stesso, ma è pronto anche a cambiare in corsa i partner e a scaricare alleati scomodi qualora questi si trasformassero in zavorra. E siccome in questo momento i moderati guardano tutti a Renzi, non ha nulla in mano per farli girare dalla sua parte. Fantapolitica, si dirà: esattamente quella per cui Salvini nel fu Parlamento leghista era il capo dei Comunisti padani e Tosi ha rischiato di essere espulso da Bossi perché era «uno stronzo che riempiva la Lega di fascisti». Quello stesso Bossi che gigioneggiava sabato davanti alle braccia tese schierate in formazione da parata militare in piazza del Popolo. A Salvini questi tre anni servono per far piazza pulita prima di tutto del rivale interno e più pericoloso, proprio Tosi che ha avuto la visione di unire tutti i moderati del centrodestra nel postberlusconismo e perciò ha acceso il faro di “Ricostruiamo il Paese” che doveva andare oltre le frontiere tradizionali del leghismo prima che il Matteo lombardo fondasse il «Noi con Salvini» al Sud. Spazzato via Tosi, conquistato il centrodestra, Salvini si dà il tempo e fissa le tappe per la conquista di Roma. Una partita che ha un solo punto debole: il Veneto. Dovesse, contro ogni previsione, perderlo il leader della Lega vedrebbe crollare il suo piano. Chissà se Tosi lo sa. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Diritti (e doveri) dei nuovi italiani di Gian Antonio Stella Immigrazione e identità Mohamed Emwazi, il boia dell’Isis detto «Jihadi John», ha dato una coltellata anche ai sogni di tutti quei bambini e ragazzi figli di immigrati che sono nati in Italia, parlano italiano, tifano per la nazionale italiana e aspirano a diventare italiani. La riforma della legge sulla cittadinanza del ’92, quando a Palazzo Chigi stava Andreotti e gli immigrati erano un decimo di oggi, rischia infatti di arenarsi nella poltiglia della rissa politica. Di qua quanti vedono in ogni immigrato, fosse pure buddista, indù o cristiano, un potenziale tagliagole. Di là quanti credono che sia irragionevole pretendere dei «buoni cittadini senza cittadinanza» ma anche che, di questi tempi, occorra andar coi piedi di piombo. Tanto che lo stesso Renzi sembra aver un po’ accantonato questo che gli pareva «un problema urgente». Peccato. Non solo perché l’avventura «a cercar la bella morte» nel nome dell’Isis, come si è visto anche negli occhi delle ragazzine fotografate in fuga all’aeroporto, c’entra forse con la crisi di identità culturale e poco coi documenti di identità personale. Ma perché noi stessi abbiamo bisogno che quanti più nuovi italiani possibile si riconoscano nei nostri valori, nel nostro sistema di diritti, nella nostra Patria. Certo, tanto più coi flussi caotici in arrivo dalle aree di guerra, occorre andar cauti con lo ius soli automatico. Come dice uno studio di Graziella Bertocchi e Chiara Strozzi, solo gli Stati Uniti hanno conservato il diritto al passaporto a chi nasce sul loro territorio. Tutti gli altri Paesi che l’avevano (il 47% degli Stati censiti nel ‘48) hanno via via abbandonato lo ius soli integrale per un sistema misto. Scelto anche da chi, come la Germania, veniva come noi dallo ius sanguinis . Ormai indifendibile. E bene ha fatto il premier fiorentino a battere sulla necessità di uno ius soli che tenga conto di un certo numero di anni di residenza, del percorso scolastico, della padronanza della lingua, dell’obbligo di giurare fedeltà. Insomma, è bene che i paletti siano ben conficcati. Ma come ha detto Napolitano non possiamo rinviare in eterno «la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia

da immigrati. Negarla è un’autentica follia, un’assurdità». Gli stessi italiani del resto, dice una ricerca Istat di pochi giorni fa, sono sì preoccupati per i nuvoloni minacciosi spinti su di noi dai venti di guerra e in tanti vorrebbero che fosse data la precedenza ai «nostri» nelle case popolari e sul lavoro. Ma allo stesso tempo sono in larghissima maggioranza a favore della cittadinanza agli immigrati inseriti e ai loro figli. Prova provata che, non andando a caccia di voti, loro non fanno di ogni erba un fascio... Pag 11 Le tensioni dell’opposizione avvantaggiano Palazzo Chigi di Massimo Franco L’insistenza con la quale Forza Italia evoca il suo ritorno alla «centralità» insieme a Silvio Berlusconi sembra un modo per cancellare una sensazione crescente di subalternità. Subalternità a una Lega con la quale è costretta ad allearsi per le prossime Regionali, senza avere ottenuto dal leader del Carroccio, Matteo Salvini, nessun riconoscimento del proprio peso. E al Pd di Matteo Renzi, che dalle divisioni del centrodestra può guadagnare tempo e spazio politico. Non solo: nel «partito della Nazione di destra» tra Berlusconi e Salvini si intravede il tentativo di copiare l’idea che il premier sta accarezzando da mesi. La spaccatura in Veneto tra il governatore leghista Roberto Zaia e il sindaco di Verona, Flavio Tosi, ha assunto contorni tali da mettere in forse la permanenza nel Carroccio del primo cittadino. L’ultimatum di Salvini a lui e ai suoi sostenitori a scegliere entro lunedì tra appartenenza alla Fondazione di Tosi e alla Lega, azzera i margini per un compromesso. O il sindaco si piega, o è fuori. Non è ancora chiaro quali effetti tutto questo avrà sul risultato del Veneto. L’alleanza con FI dovrebbe garantire margini tali da assicurare la vittoria nella regione. Anche se qualche dubbio comincia a serpeggiare. «Ci auguriamo che per colpa dei veti di Salvini non vengano consegnate altre regioni, come il Veneto, al Pd», accusa il Nuovo centrodestra, che si trova nella posizione scomoda di alleato di Renzi a Roma, e di Lega e FI a livello locale. Il colloquio di ieri sera tra il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e Tosi, conferma implicitamente l’incompatibilità di un’alleanza tra il cartello Salvini-Berlusconi e il Ncd. La resurrezione del Popolo della libertà si allontana, insomma, a conferma di quanto siano cambiati i rapporti di forza; e di come non solo il capo di FI ma anche del Carroccio fatichino a evitare rotture interne. È una confusione che avvantaggia Palazzo Chigi, confortato anche dai giudizi lusinghieri raccolti nella sua visita ufficiale in Europa dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. La Commissione Ue ha cominciato a usare parole più concilianti sugli sforzi fatti in materia di riforme dal governo italiano. Piuttosto, è dal Pd che Renzi continua a ricevere messaggi controversi. L’esito delle primarie in Campania è la vittoria di un candidato osteggiato da Palazzo Chigi: l’ex sindaco di Salerno, Vincenzo De Luca, decaduto dopo una condanna in primo grado per abuso d’ufficio. Il governatore uscente, Stefano Caldoro, berlusconiano, lo ricorda agli elettori. Per la legge approvata quando Guardasigilli era Paola Severino, anche vincendo De Luca non potrebbe governare. Il problema di Renzi, ora, è come superare l’ostacolo, dopo avere predicato e praticato un rinnovamento radicale del Pd. «Al momento non è allo studio da parte del governo nessuna ipotesi di modifica della legge Severino», fa sapere il ministro delle Riforme, Maria Elena Boschi. «Al momento»: viene da pensare che una decisione sia ancora da prendere, nessuna esclusa. E questo mette in allarme le opposizioni in Parlamento. Pag 18 Uno Stato palestinese è garanzia per Israele di Amos Oz L’alternativa è una dittatura dei fondamentalisti ebraici o un unico Paese in mano araba che ucciderebbe il sogno sionista Iniziamo dalla cosa più importante, una questione di vita o di morte: Se non ci saranno due Stati, ce ne sarà solo uno; Se ce ne sarà uno solo, sarà arabo; Se sarà arabo, chissà quale sarà il futuro dei nostri e dei loro figli. Uno Stato arabo, quindi, dal mare al fiume. Non uno stato binazionale, poiché gli stati bi e multinazionali (tranne l’eccezione svizzera) non hanno un futuro promettente: difatti tendono a frantumarsi o a dissanguarsi fino all’annientamento. E difatti, immaginare che palestinesi e israeliani, che si sono inflitti finora reciprocamente tante e tali sofferenze, siano disposti all’improvviso a voltar pagina e ad accogliere una pacifica ed equa convivenza, appare a

dir poco una chimera. Dopo un’eventuale separazione, in un futuro lontano, potrebbero anche adottare una qualche forma di cooperazione, ma non prima che i palestinesi abbiano avuto modo di sperimentare la libertà e la dignità che - come ben sappiamo - scaturiscono dall’indipendenza. Pertanto, esclusa la realtà di due Stati, e relegato al dominio della fantasia l’ipotesi del binazionalismo, ecco che avanza minacciosa la prospettiva di un unico Stato arabo in grado di cancellare il nostro sogno sionista. Nel tentativo di arginare una visione così funesta, questa terra - dal fiume Giordano al mar Mediterraneo - potrebbe essere governata da una dittatura di fondamentalisti ebraici, caratterizzata dal fanatismo razziale e capace di imporre la sua volontà sia alla maggioranza araba che all’opposizione ebraica. Come si è visto in gran parte delle dittature delle minoranze nell’era contemporanea, anche questa non durerà. Dovrà fare i conti con il boicottaggio internazionale, assistere a bagni di sangue interni, o entrambe le cose, finché non sarà costretta a cedere davanti all’inevitabile: uno Stato arabo dal fiume Giordano al mar Mediterraneo. E la soluzione dei due Stati? Molti di noi, che appoggiano questa prospettiva, sostengono che l’attuale conflitto non può trovare soluzione in altro modo. Ai loro occhi, Yasser Arafat era troppo forte e intransigente, ma il suo successore Mahmoud Abbas (Abu Mazen), uomo ponderato e ragionevole, è troppo debole. Pertanto si manterrebbe in vita l’opzione dei due Stati tramite un’operazione di «gestione del conflitto». Ma ahimè, solo l’estate scorsa abbiamo vissuto sulla nostra pelle il significato di questa «gestione», che ci condanna alla prossima Guerra del Libano, e a un’altra ancora; alla prossima Guerra di Gaza, e a tutte le successive; come pure alla terza, quarta e quinta Intifada a Gerusalemme e in Cisgiordania, combattute nelle nostre strade. Il collasso inevitabile dell’Autorità palestinese vedrebbe l’emergere di Hamas o di un successore ancor più estremista, mentre tutti sarebbero testimoni di un’infinità di morti da una parte e dall’altra. Questa è la realtà della «gestione del conflitto». Infine, l’idea di una possibile risoluzione del conflitto merita uno sguardo più approfondito: da un centinaio di anni a questa parte, non c’è stato un momento più favorevole alla fine delle ostilità come oggi. Non che i nostri vicini si siano convertiti al Sionismo, né abbiano di colpo accettato il nostro diritto a questa terra. Il motivo invece sta nel fatto che i principali attori politici della regione - Egitto, Giordania, Arabia Saudita, gli altri Stati del Golfo e del Nord Africa - si ritrovano ad affrontare una minaccia di gran lunga più imminente e catastrofica a lungo termine rispetto a Israele. Per alcuni di loro, l’Iran è al vertice nella classifica delle forze del male. Per altri, questa minaccia si chiama Isis. Ma sia Teheran che l’Isis sono la causa delle molte notti insonni in tutte le capitali del Medio Oriente, e su questo sfondo oggi Israele appare come parte della soluzione, se solo la collaborazione con noi fosse legittimata e rafforzata con la fine dell’occupazione dei Territori palestinesi e con il riconoscimento delle aspirazioni dei palestinesi verso uno Stato proprio. Dodici anni fa ci è stata proposta l’Iniziativa saudita per la pace, in seguito sottoscritta (con qualche modifica) anche dalla Lega araba. Non suggerisco di adottarla a occhi chiusi, ma certamente vorrei che venissero coinvolti i sauditi ed altri partecipanti in una discussione sui nostri dubbi e le nostre riserve. Una nostra risposta condizionata, ma positiva, a questo rovesciamento storico dell’antica posizione araba di rifiuto e chiusura totale sarebbe altamente auspicabile, e spalancherebbe la porta alla collaborazione sia sulla proposta dei due Stati che sulla sicurezza regionale. La verità ineluttabile - per quanto controversa - è che la Guerra dei sei giorni, nel 1967, ha segnato la nostra ultima vittoria decisiva. Da allora, nessun risultato ottenuto può essere considerato una vittoria, perché in guerra il vincitore non è necessariamente colui che infligge le distruzioni peggiori, ma colui che ottiene il suo scopo. Non avendo fissato alcun obiettivo politico per le guerre più recenti, non abbiamo potuto né aspettarci né dichiarare vittoria, e l’assenza di obiettivi è il riflesso di una realtà in cui nessuno dei nostri obiettivi nazionali è più raggiungibile con la forza. Con questo non intendo dire che la forza militare sia ormai inutile. Anzi, essa è essenziale alla nostra stessa sopravvivenza. Fin troppo spesso ci ha protetto dall’annientamento, ed è servita sia come deterrente, ma anche per sconfiggere tutti i nostri avversari laddove la deterrenza è fallita. La forza militare ha svolto egregiamente i suoi compiti. Ma non confondiamo la legittima autodifesa - dove non possono esserci compromessi - con l’illusione di imporre con la forza la nostra volontà politica sugli altri. È questa la realtà dei limiti della forza militare, com’è stato dimostrato a più riprese negli ultimi decenni, ed è per questo che sono giunto alla conclusione che la cosiddetta «gestione del

conflitto» è la ricetta di nuove sventure. Essa è destinata a fallire e dovrebbe, anzi, cedere il passo a uno sforzo sincero e duraturo verso la soluzione del conflitto. Fin troppi israeliani si sono convinti che basta utilizzare un bastone più grosso e far mostra di maggior risolutezza per «educare» gli arabi a sottomettersi alla nostra volontà. Tuttavia, nel centesimo anniversario di questo concetto fasullo, davanti alla prova schiacciante che il nostro bastone sempre più grosso si rivela ogni volta inadeguato, è giunto il momento di riconoscere l’arroganza e la futilità del voler «convincerli della nostra supremazia». Eppure, la nostra politica è ancora concepita per imporre la nostra volontà con l’uso della forza. Di conseguenza, in Cisgiordania, l’Autorità palestinese è sul punto di crollare da un momento all’altro, sbattendo la porta su importanti operazioni di coordinamento per la sicurezza e lasciandola invece spalancata a Hamas e ad altri gruppi di estremisti pronti a occupare gli spazi lasciati liberi. I coloni e i loro sostenitori in patria e all’estero ripetono che questa terra è nostra per diritto. E quale sarebbe questo diritto? Non hanno ancora capito che il mondo - tra cui la maggioranza degli Stati arabi - riconosce il nostro diritto allo Stato di Israele all’interno della «linea verde» ma respinge senza mezzi termini la nostra occupazione dei restanti territori? Che riconosce il diritto dei palestinesi ad uno Stato accanto al nostro, ma respinge ogni pretesa di ampliamento? Questi coloni, molto simili in questo alla loro controparte estremista tra i palestinesi, sembrano aver dimenticato che i diritti - per quanto divini - se privi di legittimità internazionale devono restare confinati alle sacre scritture, non entrare a far parte del programma di governo. Quando vantano il diritto esclusivo alla Terra di Israele si rifanno al precetto religioso… (il resto dell’articolo non è disponibile). IL GIORNALE La strage degli armeni. Un popolo cristiano prigioniero dell'islam di Renato

Farina Il genocidio degli armeni, è stata la prima immensa strage del 900. Ci appartiene. Forse gli armeni sono un indizio del nostro destino. Furono eliminati per odio religioso e razziale dai musulmani turchi. Quest'anno se ne celebra il centenario, nella data simbolica del 24 aprile. La stupefacente mostra che si inaugura domani al Vittoriano, nella corpo stesso dell' Altare della Patria, è insieme di oro e di sangue. Ci sono tesori antichi e la voce di italiani che denunciarono la strage sin da pochi mesi dopo gli eccidi di Anatolia e Cilicia. Un milione e mezzo di morti. Paolo Kessisoglu (quello di Luca e Paolo: è figlio di sopravvissuti del genocidio scampati in Italia) leggerà le pagine di Filippo Meda, Antonio Gramsci, del console d'Italia a Trebisonda, Giacomo Guerrini. Preme subito dirlo. Non è una mostra sul genocidio. Le testimonianze al proposito occupano solo una delle sette sezioni. Domina da ogni parte il monte biblico Ararat, dove si arenò - dicono oramai anche gli archeologi - l'Arca di Noè. Insomma: l'Armenia non è il luogo del Diluvio Universale, ma della rinascita dopo la tragedia. E prima ancora che diventassero cristiani, quando nacquero come popolo, tramandarono nel settimo secolo avanti Cristo di essere discendenti di Noè, da Iafet, che diede il primo vino al mondo attraverso gli armeni. E il distillato Ararat, che se ne ricava, ha un profumo uguale e diversissimo dal cognac. Sa di miele di roccia ma di albicocca. Fu da qui che i romani la portarono in Italia, ed in Veneto si chiama ancora «armellino». Venezia in particolare ha mescolato la sua laguna con le acque caucasiche e orientali di questi cristiani a cui fu donata un'isola, san Lazzaro, dove stamparono i loro libri meravigliosi con quell'alfabeto che a solo guardarlo induce a pensare il dolore del mondo. Non è una mostra sul genocidio, ma lo spiega. Si capisce perché li odiano. Perché li vogliono distruggere. Gli armeni non si sottomettono, non possono farlo. C'è un fuoco dentro questo popolo. Da loro sgorga una bellezza nell'arte, nella lingua, nei libri, nelle loro liturgie insopportabile per chi sia convinto che fuori dal Corano non c'è salvezza. Ma visto che è il centenario non possiamo prescindere da quell' abisso di male. Eppure la croce armena è fiorita. Non è mai scolpita, disegnata, colorata, senza contenere un germoglio (una parte della mostra è dedicata a questo susseguirsi di strane croci). Come si dice in un testo liturgico tradotto sin dal 1816 in italiano si spiega perché: «Fin dal principio dei tempi apparve la Croce fiorita nel Paradiso piantato da Dio: segno di consolazione a Set, e pegno di speranza al padre Adamo». Gli armeni non riescono a non vedere, a differenza degli ebrei di cui condividono il marchio della persecuzione, spuntare un fiore dal male

assoluto. Si racconta che Komitas, il genio musicale armeno, sopravvissuto per miracolo al genocidio, dopo quella tragedia sia rimasto in silenzio: per vent'anni, fino alla morte. Bisogna romperlo quel silenzio. Parlare dell'Armenia. Gli armeni! Che ne sappiamo? Poco. A Venezia c'è la loro meravigliosa biblioteca dove stanno monaci dalle grandi barbe. Nei film americani sono figure simpatiche di numerosa famiglia. È un popolo dalla schiena diritta. Sono stato in Armenia e ne ho studiato (poco) la storia. Il sole è accecante, la terra arida, che si dischiude su acque di laghi turchese. Nella capitale Erevan c'è il monumento dell'orrore, avvolto di pietà, perché gli armeni coltivano anche il perdono. Popolo grande, ma l'Armenia è ridotta a un fazzoletto di terra, meno di 30mila km quadrati, inferiore alla decima parte dell'Italia, in realtà meno del 90% del territorio che storicamente le apparterrebbe, ma è di dominio turco. Che bella gente quella armena. Chiedono che la Turchia chiami le cose con il loro nome, omicidio l'omicidio, genocidio il genocidio. Il Parlamento italiano, nel 2000, all'unanimità ha riconosciuto il genocidio armeno. Ma ora, per non turbare la Turchia, il governo italiano è molto timido sul tema. Sulla verità non lo si dovrebbe mai essere. Per ragioni strategiche dovremmo tollerare una Turchia che non riconosce l'orrore della propria storia? Tirarci in Europa una realtà di menzogna? Bisogna ricordare. Ricordiamolo a noi stessi, mettiamolo nell'agenda del nostro governo. Nel cuore del Caucaso c'è un piccolo Stato cristiano. Noi non lo sapevamo - non sappiamo mai niente di importante - ma è l'ultima propaggine dell'Europa e dell'Occidente. Anche se le cartine della geografia dicono Asia, questa è Europa. Prima che noi diventassimo cristiani, loro lo erano già. È un cristianesimo che non è cattolico latino ma non si è mai separato aspramente da Roma: c'è dai tempi del Vangelo. Gli armeni hanno avuto la sfortuna di essere abitanti di un territorio troppo strategicamente decisivo: tra il Mar Nero e il Mar Caspio, difesi dalle montagne a Nord e Sud. Chi possiede questa terra ha in mano il perno dell'Asia e dell'Europa. I romani avevano già preso sotto di sé questa regione con Pompeo, nel 69 avanti Cristo. Data dal 301 la decisione di dichiarare il cristianesimo religione di Stato, primi al mondo. Arrivarono mongoli, turchi, arabi, persiani e poi ancora turchi, a divorarsela, quindi i comunisti sovietici: ma questo punto di cristianesimo e di occidente, di valore dato all' individuo e al popolo che lo difende, ha tenuto. Si rifugiavano sulle montagne o fuggivano all' estero, portando con sé i loro libri e trascrivendoli. La loro cultura è infinita. Non solo nel senso della quantità, ma in quello strabiliante della forza dell'identità. Questi sanno chi sono. Per questo sono un patrimonio imperdibile proprio per noi che non sappiamo più chi siamo ma guardando loro abbiamo nostalgia. Ora questo popolo, che ha ritrovati magri confini, è circondato dall'Islam. Ha preservato una roccaforte di straordinaria bellezza tra i monti azeri, il Nagorno Karabakh, ma muore praticamente di fame e di solitudine. Scrive lo storico armeno Leonzio nel medioevo: «Ormai secche le rose e le violette armene». Ma rifioriscono ogni volta. AVVENIRE Pag 1 Un “freddo” benedetto di Vittorio E. Parsi Tra Obama e Netanyahu «Solo retorica». Le parole con cui la Casa Bianca ha commentato l’intervento del premier israeliano Bibi Netanyahu di fronte al Congresso degli Stati Uniti non potevano essere più icastiche. E rappresentano il coronamento ideale degli altri gesti determinati con cui l’amministrazione di Barack Obama ha trattato il tour americano del non gradito ospite: nessun incontro con i vertici dell’Esecutivo e nessuna photo oportunity né con Obama né con il vicepresidente Biden e neppure con il segretario di Stato Kerry. Netanyahu lo sapeva benissimo, del resto la sua non era una visita di Stato, ma solo il frutto dell’invito da parte della potente lobby filoisraeliana di Washington, quella la cui denuncia sul piano scientifico è costata l’ostracismo accademico a professori di chiara fama come John Mearsheimer e Stephen Walt alcuni anni fa. Ciò che Bibi cercava era semplicemente qualcosa da mostrare in campagna elettorale all’elettorato ultraortodosso e conservatore, per provare a fugare i dubbi del crescente isolamento dello «Stato degli ebrei» (come Netanyahu vorrebbe venisse chiamato Israele) nella comunità internazionale. La raffica di riconoscimenti dello Stato palestinese da parte di molti Parlamenti europei – ma non del nostro, che per ora ha solo finto di compiere un passo storico – ha innervosito parecchio il Likud e i suoi alleati. Ma soprattutto ha chiarito che

la deriva sempre più apertamente segregazionista adottata dal governo di Netanyahu sta riuscendo nell’incredibile impresa di alienare a Israele le simpatie dell’Europa, il continente in cui si compì la tragedia dell’Olocausto... E indirettamente proprio a questa ha voluto alludere il premier israeliano, quando ha sostenuto sulla base di nessuna evidenza concreta: «Sono qui per parlare di una questione, quella del nucleare in Iran, che minaccia l’esistenza di Israele (…) una minaccia non solo per Israele, ma per il mondo intero». Si tratta di un tentativo, goffo e sgraziato ma non necessariamente inefficace, di entrare a gamba tesa per stroncare le speranze di un possibile accordo tra i '5+1' (Usa, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia e Germania) e l’Iran sull’annoso dossier nucleare della Repubblica degli ayatollah. Mai come in queste settimane la via per un accordo che ponga fine alle sanzioni contro l’Iran e metta sotto controllo il suo processo di sviluppo dell’energia nucleare è sembrata percorribile. Complice la fiducia, guardinga, che circonda il presidente Rohani, in carica dall’agosto 2013, e soprattutto a causa della consapevolezza sempre più diffusa che 'imbarcare' l’Iran è la sola scelta strategica possibile per cercare di abbattere il califfato di al-Baghdadi. Proprio la comparsa dei tagliagole dello Stato islamico ha cambiato il quadro regionale: un fatto, questo, che la leadership israeliana ha tardato a capire. Fin da subito, infatti, il governo del Likud ha tentato la carta dell’equazione tra Hezbollah, Hamas e l’Is nella retorica delle sue dichiarazioni, evocando un «fronte unito contro il terrorismo» che cercava in realtà di sfruttare l’orrore suscitato dai macellai del califfato per arruolare il mondo nella battaglia israeliana contro i propri acerrimi nemici. Ma il tentativo non sembra andato a buon fine, nonostante l’appoggio di tanti media. Passando dalla retorica alla realtà, è invece opaca l’attività di Israele nei confronti di Jabat al-Nusra (al-Qaeda in Siria) e dello stesso Is. La realtà è che la presidenza Obama non ha nessuna intenzione di farsi 'dettare la linea' dal governo di Gerusalemme, tanto più quando sta inviando truppe di terra per condurre l’offensiva contro lo Stato islamico e dopo aver chiesto l’autorizzazione al Congresso per svolgere operazioni militari in Iraq per i prossimi tre anni. Chissà quante volte saranno riecheggiate nelle orecchie del presidente le parole che l’allora generale Petraeus pronunciò in un’audizione al Congresso all’epoca del vittorioso 'surge' nel triangolo di Falluja, riferendosi al pericolo in cui le truppe americane impegnate in Iraq venivano «oggettivamente » messe dalle attività punitive condotte da Israele anche contro civili palestinesi. Obama sa bene quanto è potente la capacità di pressione degli amici di Israele (in realtà dei gruppi neocon alleati del governo del Likud). Ma sa anche che ha davanti a sé la storica opportunità di provare a riscrivere la storia dei rapporti irano-americani, di stabilizzare una regione pronta ad esplodere e di sbaragliare uno dei più insidiosi nemici della civiltà mai comparso al mondo. È in questa prospettiva che la possibilità evocata da Netanyahu che Israele possa agire da solo, scatenando una guerra d’aggressione contro l’Iran dalle conseguenze imprevedibili ma sicuramente disastrose per tutti, si pone come il gesto che potrebbe sancire davvero il tragico, totale isolamento di Israele. Benedetto 'freddo' quello di oggi tra Obama e il premier di Gerusalemme, e che serva a scongiurare nuovi e roventi inferni di domani. Pag 7 A parole tutti per la legalità. Il malaffare ormai è nell’anima No, questa volta non c’entra la mafia. Ma qualcosa di più grave, una cultura che vede nell’illegalità, nel sopruso, nella via oscura della mazzetta, un modo 'normale' per risolvere i problemi. Non c’entra la politica, bersaglio di tante accuse. C’entra, invece, il mondo dell’impresa che in questi anni ha voluto rappresentare una ventata di moralizzazione. L’arresto di Roberto Helg non parla la lingua di 'cosa nostra', quella contro cui l’imprenditore palermitano si era scagliato più volte, ma una lingua comunque 'mafiosa', quel modo di vivere che sceglie scorciatoie e zone grigie. Parole e azioni. Quante volte don Luigi Ciotti ci ha messo in allarme. 'Ci stanno rubando le parole, chi oggi non si dice per la legalità?'. Quanta ipocrisia, quante 'mani pulite' che poi portano a casa il 'pane sporco' della corruzione così ben descritto da Papa Francesco. Perché, anche se in questa occasione i reati sono tecnicamente diversi, qua siamo davvero di fronte ad una corruzione dell’anima, dell’impegno per il bene comune. E questo fa ancora più male nella Sicilia che con la 'primavera' degli imprenditori aveva aperto una nuova stagione di legalità: no al pizzo e fuori chi paga. Ma evidentemente non bastava. Bisogna andare oltre. Perché questa corruzione è più profonda. E nuove e più dure

norme possono anche servire, ma senza un vasto ferreo rifiuto di coscienza le norme non basteranno mai. Pag 20 Armeni, la lezione del genocidio di Herman Vahramian A partire dall’VIII secolo il Medio Oriente divenne teatro di genocidi. Il genocidio e la “soluzione finale”, in quanto elementi risolutivi di una controversia politica e territoriale, divennero la regola. Persiani, georgiani, armeni, greci bizantini ecc. subirono numerosi massacri e/o genocidi – che ridussero di nove decimi il novero della popolazione vivente su quei territori. In epoca moderna, invece, i territori abitati dagli armeni divennero una sorta di “laboratorio sito in periferia”, assai proficuo per l’Occidente al fine di giungere, per mezzo del genocidio, alla soluzione finale di un problema, specialmente se le vittime si presentavano “ben pasciute” – come appunto accadde con gli ebrei europei. Nel 1932 Hitler a Vienna affermò: «Armenizzeremo i giudei ». Il “lardo armeno” – compreso il petrolio di Baku e tutti i beni armeni sparsi nell’impero ottomano e lungo la Via della Seta – servì al governo turco-ottomano per finanziare la Prima grande guerra mondiale. La prima legge turca che cercava di “digerire” i beni depredati agli armeni risaliva al 13 settembre 1915. Più avanti nella storia, il “lardo ebraico” servì alla Germania per finanziare la Seconda guerra mondiale. Le condizioni erano invero eccellenti. L’impero ottomano, ormai in declino, aveva varcato la soglia della trasformazione da vasto impero (comprendente segmenti di Caucaso, Anatolia, Grecia, Balcani, Mesopotamia, svariati litorali mediterranei ecc.) a Stato-nazione di dimensioni ben più ridotte. In questo sistema-nazione non vi era posto per elementi etnici che venivano considerati estranei. Inoltre le rivendicazioni indipendentiste armene, che si aggiungevano a quelle greche e poi curde, irachene, nestoriane, siriane, libiche, balcaniche e arabe in genere, rappresentavano una seria minaccia per la sopravvivenza territoriale della Turchia, ormai ridotta a una misera cosa. A quel punto, su ispirazione germanica e inglese, venne concepito, organizzato e messo in atto il primo tentativo dell’era contemporanea di genocidio su vasta scala – che fu, a dir poco, assai ben riuscito. Nel giugno 1915 Talaat Pascià, uno dei turchi che organizzarono il genocidio armeno, ebbe a dire: «Per volontà divina non ci sono più gli armeni». «Il massacro degli armeni è considerato come il primo genocidio del XX secolo» (sottocommissione Onu dei Diritti umani, 1973). I massacri sistematici di armeni, perpetuati nell’arco dell’ultima decade del XIX secolo, sfociarono, a partire dal 1915 e fino a tutto il 1918, in un genocidio che sterminò tutti gli armeni che vivevano nel territorio della cosiddetta Armenia occidentale (vale a dire nell’odierna Turchia). La penisola anatolica (in greco anatolì, ossia “oriente”) venne svuotata dell’elemento armeno, ebreo, greco, mesopotamico, persiano ecc., “salvando” – sottoforma di “turchi di montagna” – i soli curdi, la cui sopravvivenza, come è noto, è oggi pure seriamente minacciata (35mila morti nell’ultima guerra civile). Nel seno di uno Stato- nazione i cosiddetti “elementi estranei” da sempre contribuiscono allo sviluppo e alla creazione della ricchezza, così come alla sua multiculturalità. Vedi l’esempio degli ebrei d’Europa (quanta povertà ha causato agli europei lo sterminio degli ebrei? Qualcheduno, munito di car- ta e penna, forse un giorno dovrebbe pur iniziare a fare un calcolo di questo tipo). Sarebbe impossibile paragonare la Istanbul di oggi alla Costantinopoli multirazziale e tollerante di un tempo, oppure Izmir alla Smirne greco-turcoarmena, o Tbilisi a Tiflis, e poi Gerusalemme e soprattutto Beirut (ma che bella guerra civile interconfessionale...), Baku, Baghdad, Erevan, Algeri, Sarajevo alle città che furono nel loro passato. In tutti questi luoghi è penetrato come un vento sinistro il nazionalismo più torvo, più cieco, più aberrante, e spesso e volentieri assassino. Vietnam, Ruanda, Bosnia, Cecenia, Kurdistan, Cambogia, Darfur, Ossezia del Sud... Massacri o genocidi? La definizione è labile, la demarcazione incerta. Nel primo caso sono esclusi donne e bambini, nel secondo invece sono compresi. Diecimila, centomila, un milione e mezzo, quattro milioni di vietnamiti, cinque milioni di zingari e ancora sei milioni di ebrei sono tanti o pochi? Dipende... Comunque sia, stranamente, le immagini dei morti che ci sono arrivate e quotidianamente ancora ci arrivano attraverso i mass media – sotto qualsiasi cielo – sono simili tra loro, e inoltre i morti risultano del tutto indifferenti alla diffusione delle immagini dei loro cadaveri. Viceversa, la memoria storica che si crea nella mente dei sopravvissuti, strano a dirsi, non rimane affatto indifferente. Basti come esempio l’accapponarsi della pelle in cui incorre un qualsiasi persiano

contemporaneo – dopo quasi tredici secoli – di fronte all’“arabo” (in Iran la parola “arabo” definisce solo gli arabi sauditi; gli altri per i persiani sono iracheni, libanesi, siriani, libici ecc.); gli “arabi” di oggi sono pur sempre i discendenti di quegli arabi-islamici che in Iran fra il VII e il IX secolo si macchiarono di un genocidio quasi totale. Storicamente, dopo ogni soluzione finale resta un solo problema: il sopravvissuto. Da sempre politica, economia e potere sono anche questione di maggioranze e minoranze. Oggi che massacri e genocidi stanno diventando a poco a poco dei fatti comuni, quotidiani, da consumare comodamente seduti in poltrona con l’ausilio dei vari telegiornali serali, qual è il futuro che si prepara, quando ai sopravvissuti armeni, ebrei, bosniaci, ceceni, zingari, vietnamiti, ruandesi si aggiungeranno i tanti che nel mondo possono candidarsi come possibili oggetti di nuovi genocidi? Herman Vahramian nasce a Teheran il 29 novembre 1939 da genitori armeni. Artista, architetto, intellettuale, editore, è stato una delle voci più interessanti della diaspora armena in Italia e in Europa. È stato anche, a lungo, nostro collaboratore sviluppando acute analisi di geopolitica culturale. È morto a Milano nel 2009 dopo lunga malattia. Si era trasferito in Italia definitivamente nel 1965, a Roma, laureandosi architetto nel 1972. Subito dopo si trasferisce a Milano e fonda l’I/Com (Istituto per la ricerca e la diffusione delle culture non-dominanti); nel 1981, a Monaco di Baviera, l’Istituto Musicam; nel 1985 fonda le edizioni Oemme che pubblicano studi sul patrimonio artistico e culturale armeno. Nel 1995 nasce Pietro, suo figlio, a cui Vahramian dedica la sua ultima fatica, un singolare testamento spirituale e una consegna delle memorie che ora trova forma nel volume Libro per Pietro. Memorie per un figlio edito da Medusa in questi giorni (pp. 224, euro 18), dal quale anticipiamo un brano sul genocidio armeno. IL GAZZETTINO Pag 1 La sfida a Obama di Netanyahu, mossa elettorale di Mario Del Pero Quello di Benjamin Netanyahu e del capogruppo repubblicano alla Camera, John Boehner, che lo ha invitato a intervenire al Congresso, è un gesto di sfida clamoroso. Per quanto si sia cercato negli ultimi giorni di smorzare toni e tensioni, si tratta di una vicenda senza precedenti. Almeno nella storia statunitense recente. Accettando l’invito dei repubblicani, il primo ministro di Israele è entrato a pie’ pari nell’aspro scontro politico in corso negli Usa, denunciando le scelte e la strategia di Obama. E lo ha fatto nel pieno della campagna elettorale per il rinnovo del parlamento israeliano, inserendo quindi nell’equazione anche questa ulteriore variabile. Intendiamoci, che la politica estera degli Usa si muova secondo un responsabile spirito bipartisan e sia impermeabile a pressioni di soggetti esterni è una di quelle leggende che, per quanto diffuse e popolari, sono del tutto smentite dall’esperienza. Eppure a tanto non si era mai giunti, a meno di non voler scomodare i primi anni di storia degli Stati Uniti quando metà o più Congresso era sul libro paga di potenze straniere. Ci si chiede dunque perché Netanyahu abbia azzardato così tanto e cosa ci dica questo dei rapporti tra Israele e il loro alleato e protettore, gli Stati Uniti. È chiaro come a monte abbia agito un calcolo tanto di opportunità quanto di possibilità politiche. In una campagna combattuta, come quella in corso in Israele, alzare la soglia dello scontro con un presidente come Obama, così inviso a larga parte della destra israeliana, può portare evidenti dividendi elettorali. Che non sembrano peraltro imporre contropartite in termini d’immagine e popolarità negli Stati Uniti. Tutti i sondaggi ci rivelano infatti come il consenso di Netanyahu negli Usa rimanga alto e non sia stato comunque danneggiato dalla controversia. Un dato in parte sorprendente, questo, spiegabile con la diminuzione dell’apprezzamento dell’opinione pubblica statunitense verso la politica mediorientale di Obama e la frequente contrapposizione tra la presunta debolezza del presidente e l’acclarata fermezza del governo israeliano. Vantaggi elettorali e praticabilità politica non sono però sufficienti a spiegare la scelta di Netanyahu di accogliere l’invito, di per sé assai strumentale, di Boehner. È evidente come vi sia oggi una marcata differenza nelle visioni strategiche e nelle politiche di sicurezza d’Israele e degli Stati Uniti. Per il primo, l’Iran rimane un avversario assoluto ed esistenziale, al quale va mantenuto uno status di paria nel sistema internazionale corrente. Obama ritiene invece che vi siano differenze e divisioni dentro il regime

iraniano e che queste vadano sfruttate per favorire l’ala più moderata e dialogante. Soprattutto, comprende l’importanza crescente dell’Iran nel complesso scacchiere mediorientale e la necessità quindi di coinvolgerlo in un’azione diplomatica multilaterale indispensabile alla stabilizzazione dell’area e al contenimento dell’Islam più radicale. Per Obama i negoziati sul nucleare sono fondamentali anche per i possibili vantaggi collaterali che ne potrebbero conseguire, su tutti la piena cooptazione di Teheran nella gestione dell’ordine regionale. Per Netanyahu, al di là del timore - più o meno fondato, più o meno esagerato - del programma nucleare iraniano, i negoziati in corso minacciano invece di costituire la premessa sia di una piena legittimazione dell’Iran sia di una potenziale, conseguente riduzione dell’importanza della relazione speciale tra Israele e gli Stati Uniti. Anche per questo ha deciso di sfidare così apertamente Obama, trovando ovviamente una sponda nella leadership repubblicana che al Congresso sta cercando in tutti i modi di ostacolare il dialogo tra Washington e Teheran. La ferma e irata reazione dell’amministrazione induce a ritenere che non sia stata una scommessa vincente. Di certo si tratta di un precedente rilevante dentro un dibattito, quello congressuale e politico statunitense, sempre più polarizzato e conflittuale. LA NUOVA Pag 1 Il Pd si liberi dell’acqua sporca di Gianfranco Pasquino Le primarie sono, non soltanto in Italia e neppure soltanto negli Usa, una straordinaria opportunità democratica. Ridimensionano significativamente il potere dei politici di mestiere di designare i candidati a cariche elettive importanti: sindaco, presidente di Regione, Capo del governo (e, persino, parlamentari) e lo consegnano ai cittadini elettori. Votando nelle primarie i cittadini elettori riacquistano quel potere di scelta che, in Italia, è stato loro tolto in maniera sgradevole con la legge elettorale Porcellum e che viene loro riconsegnato soltanto molto parzialmente con l’Italicum. Naturalmente, come molti strumenti delle democrazie neppure le primarie rasentano la perfezione, ma i molti milioni di italiani che lo hanno usato sanno che lo strumento è buono. Non sono le primarie che debbono essere criticate, ma il comportamento dei politici che vorrebbero continuare a controllare le candidature, a promuovere i loro amici e seguaci che promettano fedeltà e obbedienza e che allarghino la loro sfera di potere, a dimostrare che sono potenti. È sempre possibile inquinare, più o meno, le primarie. Probabilmente è stato fatto in Liguria, ma non in maniera tale da sovvertire le preferenze espresse dalla maggioranza degli elettori. È stato fatto su larga scala nelle primarie per il sindaco di Napoli che, infatti, furono annullate. Non sembra che si siano verificate violazioni gravi nelle primarie del Partito democratico per la recentissima scelta del candidato alla presidenza della Regione Campania. Nel complesso, anche se pochi commentatori lo sanno, non avendo letto gli ormai numerosi studi in materia, nel corso di una decina d’anni, il Partito democratico ha organizzato più di seicento primarie, in pochissime delle quali vi sono state contestazioni. I candidati democratici che, spesse volte, erano più di uno (come è stato sia in Liguria sia in Campania sia a novembre in Emilia-Romagna), hanno vinto in circa l’80 per cento dei casi, ma la notizia eclatante è sempre e soltanto quando vince un candidato non Pd. In più del 60 per cento dei casi il vincitore delle primarie democratiche ha anche conquistato la carica elettiva. Tutto bene, dunque, contrariamente alle non fondate critiche degli opinionisti, da ultimo di Roberto Saviano, che ha dimostrato di saperne davvero poco? Nient’affatto. A tutt’oggi il Pd non ha, in parte, saputo, in parte, voluto, procedere alla stesura di un regolamento chiaro, preciso, semplice, ma tassativo. Al proposito, alcune indicazioni sono sostanzialmente imprescindibili. Bisogna stabilire chi si può candidare e a quali condizioni, evitando di essere troppo restrittivi, poiché è opportuno premiare il coraggio di chi desidera candidarsi, e di essere troppo permissivi, poiché non è proprio il caso di agevolare candidature folcloristiche alla ricerca di pubblicità. Bisogna stabilire chi può votare nelle primarie favorendo i cittadini-elettori che desiderano esprimere la loro preferenza, ma tenendo alla larga chi vuole inquinare il voto. Quindi, no alle minoranze etniche, più o meno organizzate e reclutate a pagamento. Quello di pensare che le primarie servano a offrire un percorso per l’integrazione degli immigrati mi pare un’illusione nient’affatto pia. È certamente possibile respingere alle urne gli elettori noti di altri partiti politici, ma è un successo delle primarie se elettori di quegli altri partiti stanno cambiando oppure

hanno cambiato idea e sono disposti a pagare un paio di euro e farsi “schedare” in un apposito registro dei votanti. Infine, un partito deve sapersi dotare anche di regole e procedure che puniscano chi, in special modo fra i suoi dirigenti e i suoi iscritti, cerca di manipolare le primarie. Quello che, invece, in una democrazia di qualità non proprio scintillante, non bisogna fare è abbandonare le primarie. Buttare le bambine perché qualcuno ha sporcato l’acqua è un rimedio molto peggiore di qualsiasi inconveniente finora prodottosi. Torna al sommario