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RASSEGNA STAMPA di lunedì 27 giugno 2016 SOMMARIO “Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli. È tanto triste che - sia in questo come negli altri due - le grandi potenze guardavano da un’altra parte. Rendo onore al popolo armeno, che, illuminato dalla luce del Vangelo, anche nei momenti più tragici della sua storia, ha sempre trovato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo la forza per risollevarsi e riprendere il cammino con dignità. Questo rivela quanto profonde siano le radici della fede cristiana e quale infinito tesoro di consolazione e di speranza essa racchiude. Avendo davanti ai nostri occhi gli esiti nefasti a cui condussero nel secolo scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio, auspico vivamente che l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori. Si moltiplichino perciò, da parte di tutti, gli sforzi affinché nelle controversie internazionali prevalgano sempre il dialogo, la costante e genuina ricerca della pace, la collaborazione tra gli Stati e l’assiduo impegno degli organismi internazionali, al fine di costruire un clima di fiducia propizio al raggiungimento di accordi duraturi, che guardino al futuro. La Chiesa Cattolica desidera collaborare attivamente con tutti coloro che hanno a cuore le sorti della civiltà e il rispetto dei diritti della persona umana, per far prevalere nel mondo i valori spirituali, smascherando quanti ne deturpano il significato e la bellezza. A questo proposito, è di vitale importanza che tutti coloro che dichiarano la loro fede in Dio uniscano le loro forze per isolare chiunque si serva della religione per portare avanti progetti di guerra, di sopraffazione e di persecuzione violenta, strumentalizzando e manipolando il Santo Nome di Dio. Oggi, in particolare i cristiani, come e forse più che al tempo dei primi martiri, sono in alcuni luoghi discriminati e perseguitati per il solo fatto di professare la loro fede, mentre troppi conflitti in varie aree del mondo non trovano ancora soluzioni positive, causando lutti, distruzioni e migrazioni forzate di intere popolazioni. È indispensabile perciò che i responsabili delle sorti delle nazioni intraprendano con coraggio e senza indugi iniziative volte a porre termine a queste sofferenze, facendo della ricerca della pace, della difesa e dell’accoglienza di coloro che sono bersaglio di aggressioni e persecuzioni, della promozione della giustizia e di uno sviluppo sostenibile i loro obiettivi primari. Il popolo armeno ha sperimentato queste situazioni in prima persona; conosce la sofferenza e il dolore, conosce la persecuzione; conserva nella sua memoria non solo le ferite del passato, ma anche lo spirito che gli ha permesso, ogni volta, di ricominciare di nuovo. In tal senso, io lo incoraggio a non far mancare il suo prezioso contributo alla comunità internazionale”: sono le importanti parole - che hanno suscitato la prevedibile reazione della Turchia - che Papa Francesco ha pronunciato venerdì pomeriggio, davanti alle autorità, nel corso del suo viaggio in Armenia. E poi sabato, durante la messa celebrata nella città di Gyumri, il Santo Padre ha indicato le “tre basi stabili su cui possiamo edificare e riedificare la vita cristiana, senza stancarci. Il primo fondamento è la memoria. Una grazia da chiedere è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, Egli non ci ha dimenticato, ma «si è ricordato» di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con Lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci

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RASSEGNA STAMPA di lunedì 27 giugno 2016

SOMMARIO

“Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali,

ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli. È tanto triste che - sia in questo come

negli altri due - le grandi potenze guardavano da un’altra parte. Rendo onore al popolo armeno, che, illuminato dalla luce del Vangelo, anche nei momenti più tragici della sua storia, ha sempre trovato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo la forza per risollevarsi e riprendere il cammino con dignità. Questo rivela quanto profonde

siano le radici della fede cristiana e quale infinito tesoro di consolazione e di speranza essa racchiude. Avendo davanti ai nostri occhi gli esiti nefasti a cui condussero nel

secolo scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio, auspico vivamente che l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento

ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori. Si moltiplichino perciò, da parte di tutti, gli sforzi affinché nelle controversie internazionali prevalgano sempre il dialogo, la costante e genuina ricerca della pace,

la collaborazione tra gli Stati e l’assiduo impegno degli organismi internazionali, al fine di costruire un clima di fiducia propizio al raggiungimento di accordi duraturi, che

guardino al futuro. La Chiesa Cattolica desidera collaborare attivamente con tutti coloro che hanno a cuore le sorti della civiltà e il rispetto dei diritti della persona umana, per far prevalere nel mondo i valori spirituali, smascherando quanti ne

deturpano il significato e la bellezza. A questo proposito, è di vitale importanza che tutti coloro che dichiarano la loro fede in Dio uniscano le loro forze per isolare

chiunque si serva della religione per portare avanti progetti di guerra, di sopraffazione e di persecuzione violenta, strumentalizzando e manipolando il Santo Nome di Dio. Oggi, in particolare i cristiani, come e forse più che al tempo dei primi martiri, sono in alcuni luoghi discriminati e perseguitati per il solo fatto di professare

la loro fede, mentre troppi conflitti in varie aree del mondo non trovano ancora soluzioni positive, causando lutti, distruzioni e migrazioni forzate di intere

popolazioni. È indispensabile perciò che i responsabili delle sorti delle nazioni intraprendano con coraggio e senza indugi iniziative volte a porre termine a queste

sofferenze, facendo della ricerca della pace, della difesa e dell’accoglienza di coloro che sono bersaglio di aggressioni e persecuzioni, della promozione della giustizia e di

uno sviluppo sostenibile i loro obiettivi primari. Il popolo armeno ha sperimentato queste situazioni in prima persona; conosce la sofferenza e il dolore, conosce la

persecuzione; conserva nella sua memoria non solo le ferite del passato, ma anche lo spirito che gli ha permesso, ogni volta, di ricominciare di nuovo. In tal senso, io lo

incoraggio a non far mancare il suo prezioso contributo alla comunità internazionale”: sono le importanti parole - che hanno suscitato la prevedibile reazione della Turchia -

che Papa Francesco ha pronunciato venerdì pomeriggio, davanti alle autorità, nel corso del suo viaggio in Armenia.

E poi sabato, durante la messa celebrata nella città di Gyumri, il Santo Padre ha

indicato le “tre basi stabili su cui possiamo edificare e riedificare la vita cristiana, senza stancarci. Il primo fondamento è la memoria. Una grazia da chiedere è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e

per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, Egli non ci ha dimenticato, ma «si è ricordato» di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con Lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le

persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci

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risuonano quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la Parola di Dio; nei vostri canti si

fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: Egli non vi ha lasciati soli. Anche fra

tremende avversità, potremmo dire con il Vangelo di oggi, il Signore ha visitato il vostro popolo: si è ricordato della vostra fedeltà al Vangelo, della primizia della vostra fede, di tutti coloro che hanno testimoniato, anche a costo del sangue, che l’amore di

Dio vale più della vita. È bello per voi poter ricordare con gratitudine che la fede cristiana è diventata il respiro del vostro popolo e il cuore della sua memoria. La fede

è anche la speranza per il vostro avvenire, la luce nel cammino della vita, ed è il secondo fondamento di cui vorrei parlarvi. C’è sempre un pericolo, che può far

sbiadire la luce della fede: è la tentazione di ridurla a qualcosa del passato, a qualcosa di importante ma che appartiene ad altri tempi, come se la fede fosse un bel libro di miniature da conservare in un museo. Tuttavia, se rinchiusa negli archivi della storia,

la fede perde la sua forza trasformante, la sua bellezza vivace, la sua positiva apertura verso tutti. La fede, invece, nasce e rinasce dall’incontro vivificante con Gesù, dall’esperienza della sua misericordia che dà luce a tutte le situazioni della vita. Ci farà bene ravvivare ogni giorno questo incontro vivo con il Signore. Ci farà

bene leggere la Parola di Dio e aprirci nella preghiera silenziosa al suo amore. Ci farà bene lasciare che l’incontro con la tenerezza del Signore accenda la gioia nel cuore: una gioia più grande della tristezza, una gioia che resiste anche di fronte al dolore, trasformandosi in pace. Tutto questo rinnova la vita, la rende libera e docile alle

sorprese, pronta e disponibile per il Signore e per gli altri. Può succedere anche che Gesù chiami a seguirlo più da vicino, a donare la vita a Lui e ai fratelli: quando invita,

specialmente voi giovani, non abbiate paura, ditegli di “sì”! Egli ci conosce, ci ama davvero, e desidera liberare il cuore dai pesi del timore e dell’orgoglio. Facendo

spazio a Lui, diventiamo capaci di irradiare amore. Potrete in questo modo dar seguito alla vostra grande storia di evangelizzazione, di cui la Chiesa e il mondo hanno

bisogno in questi tempi tribolati, che sono però anche i tempi della misericordia. Il terzo fondamento, dopo la memoria e la fede, è proprio l’amore misericordioso: è su

questa roccia, sulla roccia dell’amore ricevuto da Dio e offerto al prossimo, che si basa la vita del discepolo di Gesù. Ed è vivendo la carità che il volto della Chiesa

ringiovanisce e diventa attraente. L’amore concreto è il biglietto da visita del cristiano: altri modi di presentarsi possono essere fuorvianti e persino inutili, perché da questo tutti sapranno che siamo suoi discepoli: se abbiamo amore gli uni per gli

altri. Siamo chiamati anzitutto a costruire e ricostruire vie di comunione, senza mai stancarci, a edificare ponti di unione e a superare le barriere di separazione. Che i

credenti diano sempre l’esempio, collaborando tra di loro nel rispetto reciproco e nel dialogo, sapendo che «l’unica competizione possibile tra i discepoli del Signore è

quella di verificare chi è in grado di offrire l’amore più grande!». Il profeta Isaia, nella prima lettura, ci ha ricordato che lo spirito del Signore è sempre con chi porta il lieto annuncio ai miseri, fascia le piaghe dei cuori spezzati e consola gli afflitti. Dio dimora nel cuore di chi ama; Dio abita dove si ama, specialmente dove ci si prende cura, con

coraggio e compassione, dei deboli e dei poveri. C’è tanto bisogno di questo: c’è bisogno di cristiani che non si lascino abbattere dalle fatiche e non si scoraggino per le

avversità, ma siano disponibili e aperti, pronti a servire; c’è bisogno di uomini di buona volontà, che di fatto e non solo a parole aiutino i fratelli e le sorelle in

difficoltà; c’è bisogno di società più giuste, nelle quali ciascuno possa avere una vita dignitosa e in primo luogo un lavoro equamente retribuito. Potremmo però chiederci: come si può diventare misericordiosi, con tutti i difetti e le miserie che ciascuno vede

dentro di sé e attorno a sé? Vorrei ispirarmi a un esempio concreto, ad un grande araldo della misericordia divina, che ho voluto proporre all’attenzione di tutti

annoverandolo tra i Dottori della Chiesa universale: san Gregorio di Narek, parola e voce dell’Armenia. È difficile trovare qualcuno pari a lui nello scandagliare le abissali miserie che si possono annidare nel cuore dell’uomo. Egli, però, ha sempre posto in

dialogo le miserie umane e la misericordia di Dio, elevando un’accorata supplica fatta

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di lacrime e fiducia al Signore, «datore dei doni, bontà per natura [...], voce di consolazione, notizia di conforto, slancio di gioia, [...] tenerezza impareggiabile,

misericordia traboccante, [...] bacio salvifico», nella certezza che «mai è adombrata dalle tenebre della rabbia la luce della [sua] misericordia». Gregorio di Narek è un

maestro di vita, perché ci insegna che è anzitutto importante riconoscerci bisognosi di misericordia e poi, di fronte alle miserie e alle ferite che percepiamo, non chiuderci in noi stessi, ma aprirci con sincerità e fiducia al Signore, «Dio vicino, tenerezza di

bontà», «pieno d’amore per l’uomo, [...] fuoco che consuma la sterpaglia del peccato». Con le sue parole vorrei infine invocare la misericordia divina e il dono di

non stancarci mai di amare: Spirito Santo, «potente protettore, intercessore e pacificatore, noi ti rivolgiamo le nostre suppliche [...] Accordaci la grazia di

incoraggiarci alla carità e alle opere buone [...] Spirito di dolcezza, di compassione, di amore per l’uomo e di misericordia, [...] Tu che non sei altro che misericordia, [...] abbi pietà di noi, Signore nostro Dio, secondo la tua grande misericordia» (Inno di

Pentecoste)” (a.p.)

1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag XIX Il Patriarca fa un giro sull’Ape: “Sembra la Papamobile” A Gambarare mons. Moraglia ha benedetto i mezzi in partenza per Capo Nord e ha voluto “provarli” personalmente LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 27 Gambarare di Mira. Patriarca inaugura la canonica davanti a trecento fedeli di a.ab. 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Zelarino, i residenti si pagano il nuovo patronato. Il parroco: “Realizzato un sogno” di a.spe. All’inaugurazione presenti anche il patriarca Moraglia e il sindaco IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag IV San Pietro, la festa parte tra le polemiche: “Siamo stati snobbati dal Comune” di Claudia Meschini LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 16 Oggi il via alla festa di S. Pietro de Casteo di Nadia De Lazzari Fino al 3 luglio Pag 26 Gambarare. Se n’è andata Aurora Turri detta Jolanda di a.ab. LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 19 Messa per Capovilla a un mese dalla sua scomparsa di n.d.l. A San Giacometto 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 15 Il Papa: “Serve un’altra Ue. La Chiesa si scusi con i gay” di Gian Guido Vecchi e Alessandra Arachi Turchia contro Vaticano: sugli armeni mentalità da crociato Pag 28 La lezione del Papa sul genocidio armeno di Marco Ventura LA REPUBBLICA

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Pag 14 Il Papa: “Ora serve creatività per dare nuova forma alla Ue. Gay, la Chiesa chieda scusa” di Marco Ansaldo IL GAZZETTINO Pag 12 Il timore del Papa: “Troppi muri, l’Europa rischia” di Franca Giansoldati Intervista al Santo Padre di ritorno dal viaggio apostolico in Armenia L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Dalla memoria il futuro di g.m.v. Pag 7 Lezione per l’umanità Papa Francesco ricorda l’immane tragedia del popolo armeno. Mentre le grandi potenze guardavano da un’altra parte Pag 8 Tre basi stabili Durante la messa a Gyumri il Papa indica ai fedeli armeni la strada per riedificare la vita cristiana AVVENIRE di domenica 26 giugno 2016 Pag 27 Samaritano, il prossimo è misericordia di Ambrogio Spreafico Una tra le parabole più celebri riletta dal vescovo di Frosinone–Veroli–Ferentino: la compassione ci rende famigliari con Cristo e i poveri Pag 28 Capovilla: “Caro don Primo…” di Marco Roncalli Una fitta corrispondenza inedita con Mazzolari AVVENIRE di sabato 25 giugno 2016 Pag 14 Il Papa: lo spirito ecumenico, esempio e richiamo per tutti “Mostra alla società una concreta via percorribile per armonizzare i conflitti che lacerano la vita civile” CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 giugno 2016 Pag 32 Il coraggio di Papa Francesco sul genocidio degli armeni di Gian Guido Vecchi LA REPUBBLICA di sabato 25 giugno 2016 Pag 24 Il Papa in Armenia: “Fu genocidio” di Marco Ansaldo Bergoglio a Erevan torna a condannare il massacro del 1915 Pag 24 Sprechi e mala gestione, così il tesoro della Chiesa non basta nemmeno per lo stipendio dei preti di Andrea Gualteri IL FOGLIO di sabato 25 giugno 2016 Pag III Il monaco che non c’è di Matteo Matzuzzi Ma non ci sono più nemmeno i benedettini né i cappuccini. Gli ordini religiosi al tempo di Francesco 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 14 I dieci punti deboli dell’Italia che arranca di Sergio Rizzo Quali sono i motivi per cui non miglioriamo nella classifica dei Paesi dove è facile fare impresa LA STAMPA Familisti e individualisti. Ecco l'identikit degli italiani di Daniele Marini Concentrati su se stessi e con scarsa capacità di avere obiettivi condivisi. Perché le tradizioni sociali e culturali di lungo periodo tendono a prevalere

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7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Se a Venezia spunta la gogna con le foto di borseggiatori di Andrea Pasqualetto IL GAZZETTINO Pag 1 Chisso: “Io libero ma senza un euro cerco un lavoro” di Maurizio Dianese L’ex assessore ha finito di scontare la pena LA NUOVA Pag 11 Brugnaro punta sulla città verticale di Mitia Chiarin Come Cacciari nel 2008, il sindaco di centrodestra propone questo sviluppo, ma tanti progetti in 8 anni sono rimasti fermi Pag 19 Aiuti per i profughi bloccati in Grecia fino a giovedì IL GAZZETTINO di domenica 26 giugno 2016 Pag 11 Venezia, borseggiatori alla gogna di Davide Scalzotto Commercianti in corteo contro gli abusivi e cartelli con le fotografie dei “ladri di portafogli” IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag V Continua la raccolta di generi alimentari per i campi profughi di Atene e del Pireo Pag XI L’allarme della Coges: “Eroinomani a 14 anni. E’ tornata la siringa da sballo come accadeva negli anni ‘60” di Maurizio Dianese Pag XIV Grosso, squadra e deleghe. Cristina Baldoni vicesindaco di Melody Fusaro Quarto d’Altino CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 giugno 2016 Pag 11 Transenne, rampe e lastre “volanti”. Piano di emergenza per i cimiteri di Francesco Bottazzo San Michele a pezzi: marmo sfiora una donna. Giunta in sopralluogo, relazione al sindaco. Il caso: “Il vino che risuscita i morti”. Quelle vigne accanto al convento LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 18 Aiuti ai rifugiati ad Atene, Porto e Caritas in prima linea IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 25 giugno 2016 Pag VI Mostre, convegni, concerti per il 50° dell’Aqua granda di Manuela Lamberti Si mette in moto la macchina organizzativa per ricordare il 4 novembre 1966 LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 30 Il presepe di sabbia di Jesolo arriverà nel 2018 a Roma di g.ca. Annuncio del sindaco 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Referendum, dalla Brexit alla Venexit? di Stefano Allievi Cause, effetti e demagogia … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La stagione dell’incertezza di Aldo Cazzullo

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Da Londra a Madrid Pag 1 E’ l’ora di Milano anche in politica di Ernesto Galli della Loggia Nuovi, credibili stili pubblici Pag 1 Bill Gates: non fermeranno il progresso di Massimo Franco Globalizzazione, migranti e nazionalismi Pag 12 La nuova faglia non corre più tra destra e sinistra di Federico Fubini Pag 17 Così ha vinto un sovranismo ammuffito di Bernard-Henri Lévy Pag 28 Il nostro ruolo in questa Europa di Michele Salvati Pag 29 L’asse tra Renzi e Merkel per rilanciare l’Unione di Wolfgang Münchau LA REPUBBLICA Pag 1 Partiti tradizionali, riscatto a Madrid di Stefano Folli IL GIORNALE Quel vicepremier che usa le parole dei terroristi di Renato Farina IL GAZZETTINO Pag 1 L’unica strada è la grande coalizione di Alessandro Campi LA NUOVA Pag 1 Regno Unito e Italia, due Paesi spaccati di Francesco Jori Pag 2 La sconfitta della finanza speculativa di Maurizio Mistri CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Uno scudo per le banche di Francesco Giavazzi Pag 1 La Ue cambi o fallirà di Angelo Panebianco Pag 26 Per l’Italia meglio rafforzare il potere sovranazionale di Ricardo Franco Levi Pag 27 Perché gli inglesi credono di poter fare tutto da soli di Beppe Severgnini AVVENIRE di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Il grande vaccino di Marco Tarquinio La vocazione “personale” dell’Europa Pag 2 Svegli di colpo, pronti a dormire di Tim Parks Il dopo-referendum d’uno scrittore inglese, ed europeo Pag 5 Il risveglio-choc di Londra: “Ma cosa abbiamo fatto?” di Giorgio Ferrari Dopo il trionfo di Brexit è già l’ora del rimpianto IL GAZZETTINO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Una lezione che la Merkel deve capire di Marco Fortis Pag 1 Ora deve crescere il peso dell’Italia in cabina di regia di Giulio Sapelli Pag 1 Ma l’Inghilterra non era mai entrata in Europa di Mario Ajello LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 3 Coraggio e unità per salvarsi di Renzo Guolo

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Pag 4 La difficile trattativa per l’Exit di Francesco Morosini CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 L’umiltà necessaria di Antonio Polito Pag 1 L’anima perduta di Lucrezia Reichlin Pag 2 La scossa che ha cambiato l’Europa di Federico Fubini Lo 0,008% del pianeta ha scompaginato tutto Pag 9 La Decrepita Alleanza. Lo sgambetto dei nonni alle nuove generazioni di Beppe Severgnini Vecchi contro giovani Pag 32 I Paesi tentati dalla Brexit e i rischi dell’effetto domino di Franco Venturini LA REPUBBLICA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 I leader di domani di Eugenio Scalfari Pag 1 La politica che abdica di Ezio Mauro AVVENIRE di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 La necessaria ripartenza di Andrea Lavazza Pag 3 La lezione al continente tra orgoglio ed egoismo di Mauro Magatti Ricostruire l’Ue dalla dignità della persona umana Pag 3 Ora un cambio di passo su economia e lavoro di Leonardo Becchetti L’Europa deve alzare il livello di solidarietà e diritti Pag 8 Il monito di Bagnasco: l’Europa deve cambiare di Marco Iasevoli “Brexit fatto grave, si rischia l’effetto domino” IL GAZZETTINO di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 Ma la Brexit non è la fine dell’Unione di Romano Prodi Pag 1 Rischio contagio che può colpire anche Renzi di Bruno Vespa LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 La tempesta annunciata e il contagio di Bruno Manfellotto Pag 1 La rivalsa inglese su Bruxelles di Stefano Del Re Pag 1 Ripartire dalla Bce e dall’euro di Gigi Riva

Torna al sommario 1 – IL PATRIARCA IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag XIX Il Patriarca fa un giro sull’Ape: “Sembra la Papamobile” A Gambarare mons. Moraglia ha benedetto i mezzi in partenza per Capo Nord e ha voluto “provarli” personalmente Mira - Il Patriarca Francesco Moraglia ha benedetto le 5 Ape Piaggio in partenza per Capo Nord e gli equipaggi. Venerdì, in occasione dell'inaugurazione della nuova canonica

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di Gambarare di Mira, il Patriarca è stato invitato a benedire i mezzi che intraprenderanno il lungo viaggio a scopo benefico. Dopo la santa Messa e la cerimonia d'inaugurazione, il presule è stato invitato a benedire le Ape: non sapeva del raid. «Monsignor Moraglia si è interessato al nostro progetto e lo ha condiviso - ha riferito il tesoriere di SolidApe Maurizio Salvagno - ci ha augurato di raccogliere più fondi possibili. Ha chiesto di salire sull'Ape bianca, dicendo scherzosamente di averla scelta perché ricordava la la... ’Papamobile’». Il patriarca ha dimostrato di essere molto vicino alla gente, e dopo la benedizione e il giro in Ape, ha fatto diversi "selfie" con i ragazzi presenti, entusiasmando in particolare i giovani. Il 23 luglio le cinque Ape partiranno con 10 membri d'equipaggio, i fondi raccolti saranno destinati a quattro associazioni: Lega Italiana per la lotta contro i tumori, Anffas, Oltre il muro (gruppo di promozione sociale) e La Colonna (Lesioni spinali). Il ritorno è previsto per il 15 agosto. Ai fondi raccolti si aggiungerà il ricavato dalle vendita di due mezzi messi all'asta. LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 27 Gambarare di Mira. Patriarca inaugura la canonica davanti a trecento fedeli di a.ab. Gambarare. C'erano 300 persone ieri a Gambarare di Mira a salutare il Patriarca di Venezia Francesco Moraglia giunto in occasione della festa di San Giovanni Battista e della conclusione dei lavori del restauro della canonica seicentesca della parrocchia. Il Patriarca è giunto a Gambarare per incontrare i ragazzi del Grest e poi ha concelebrato la messa per i ragazzi e i fedeli. Alla fine della messa ha inaugurato la nuova canonica insieme al parroco del paese, monsignor Luigi Casarin. La canonica di Gambarare è stata restaurata con un intervento partito 5 anni fa anche con i fondi della regione. Il Patriarca Moraglia ha espresso la grande gioia per essere a Gambarare per in occasione di un evento di festa come questo. Dopo è seguito un buffet. La canonica avrebbe origini quattrocentesche nonostante la prima descrizione del manufatto risalga ai primi anni del Seicento. Già nel Seicento, però, le dimensioni modeste della canonica spingono il pievano a lamentarsi col patriarca. Fra il 1947 e il 1948 la sala magazzino viene trasformata in cinema parrocchiale. Nonostante i lavori di restauro e manutenzione, la casa canonica continuerà ad essere ritenuta inadatta ad ospitare il parroco e gli uffici parrocchiali. Fu così che il 27 novembre del 1962 si diede inizio alla costruzione di una nuova casa per il parroco, che verrà inaugurata tre anni dopo. Torna al sommario 2 – DIOCESI E PARROCCHIE IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VI Zelarino, i residenti si pagano il nuovo patronato. Il parroco: “Realizzato un sogno” di a.spe. All’inaugurazione presenti anche il patriarca Moraglia e il sindaco Mestre - I cittadini di Zelarino si pagano il nuovo patronato che ieri ha ricevuto la benedizione del patriarca Francesco Moraglia, presente anche il sindaco Luigi Brugnaro. L'opera, progettata da Paolo Favaro, ha previsto un investimento da 930 mila euro, finanziati per 350 mila con un mutuo ventennale aperto in Banca prossima, 150 mila con i fondi dell'8xmille, con il lascito di don Giuseppe Marigo e i contributi volontari di 150 famiglie che hanno deciso di autotassarsi per 5 o 10 euro al mese per dieci anni. Dopo la celebrazione a metà mattina della messa nella chiesa nuova, anch'essa fresca di restauro, i parrocchiani dei Santi Vigilio e Maria Immacolata si sono radunati assieme ai bambini della scuola materna nel cantiere in via di ultimazione. D'altronde, nella gente del posto è molto sentita la necessità di disporre di un luogo dove potersi incontrare, superando la frattura al tessuto urbanistico e sociale rappresentata dalla Castellana. E così la nuova struttura, 600 metri quadrati in classe energetica A, è dotata anzitutto di un ampio salone con le travi a vista sul soffitto, ma anche di una cucina e altre stanze a uso comune: una vera e propria casa polivalente che il parroco don Luigi Vitturi definisce «il segno dell'orgoglio di Zelarino». Moraglia e Brugnaro sono giunti in visita mentre si

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svolge la sagra patronale da sempre molto frequentata e il cui gran finale è in programma stasera con lo spettacolo dei fuochi d'artificio alle 23. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag IV San Pietro, la festa parte tra le polemiche: “Siamo stati snobbati dal Comune” di Claudia Meschini «Il patrocinio del Comune ci è arrivato in extremis e non abbiamo invece ricevuto risposta alla richiesta di tenere una conferenza a Ca’Farsetti per promuovere l'evento», spiega un po' amareggiato Paolo Basili, presidente del comitato promotore della "Festa de San Piero de Casteo". Si tratta di una manifestazione che nasce molto prima di 46 anni fa, come testimonia un quadro del Canaletto datato 1758. «Questa tradizione era andata persa nella prima metà del 1900, ma da 46 anni è rinata grazie agli abitanti della parrocchia di San Pietro - aggiunge Basili - un evento a cui noi di Castello non vogliamo rinunciare perché abbiamo colto l'importanza di conservare le tradizioni e le radici di questa parte di Venezia e della sua isola: l'Olivolo. Nonostante le difficoltà che anno dopo anno incontriamo: mancanza di risorse, permessi, il programma di quest'anno è come sempre variegato e per tutti i gusti. Musica dal vivo, presentazioni di libri, mostre, regate, concerti in basilica, intrattenimenti per i nostri "veci" e per i nostri "fioi", mercatino della solidarietà, stand gastronomici, giri gratuiti in barca dell'isola di San Pietro e funzioni religiose e la presenza del Patriarca di Venezia. Tutto senza alcun scopo di lucro: gli incassi delle diverse iniziative servono infatti a sovvenzionare la festa e a finanziare azioni di solidarietà e beneficenza». Si inizia oggi con il concerto in basilica del coro Big Vocal Orchestra; mercoledì 29 aprono gli stand gastronomici, alle 21 si esibiranno i Vocal Skyline; giovedì 30 alle 21.15 concerto di Cindy & The Rock History. Venerdì 1 luglio alle 19.45 in scena i Buena Onda e alle 21 la star della festa: Lisa Hunt & The Groovy Men, storica corista di Zucchero, con il quale ha lavorato per oltre 15 anni. Lisa Hunt ha cantato anche con Luciano Pavarotti, Ray Charles, Eric Clapton, James Brown, Dionne Warwick, Joe Cocker, Miles Davis e Andrea Bocelli. Sabato 2 sarà la giornata dedicata alle regate, alle 20 concerto dei BlueField e alle 21.30 dei SetteSotto. Domenica 3 alle 10.15, dopo il corteo acqueo, la messa presieduta dal Patriarca Francesco Moraglia con la tradizionale consegna dell'anello piscatorio, alle 11.30 esibizione della banda musicale di S. Erasmo, alle 17, in basilica, concerto del coro polifonico della Biblioteca di Segrate, alle 19.45, in scena i Black Coffee e alle 21.15 gli OndeRadio. Si chiude alle 23 con l'estrazione della lotteria di S. Pietro. LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 16 Oggi il via alla festa di S. Pietro de Casteo di Nadia De Lazzari Fino al 3 luglio Venezia. Arriva la festa di San Pietro di Castello che richiama storia e solidarietà e attira migliaia di residenti e turisti. Inizia oggi con due appuntamenti in Basilica: alle 10 la messa, alle 21 il concerto con 200 voci. La 46ª edizione terminerà il 3 luglio. Il programma è variegato: si alternano musica, cultura, regate, mostre, stand gastronomici, giri gratuiti in barca, lotteria. Ecco in dettaglio gli appuntamenti. Mercoledì 29: ore 18, messa con i parroci e i rettori delle chiese cittadine; ore 21, spettacolo Vocal Skyline. Giovedì 30: ore 17, all'Istituto Buon Pastore "Incontro con i nostri veci" intrattenimento musicale con il complesso I Leoni di San Marco; ore 18,30, presentazione del libro di Gianmario Guidarelli "I patriarchi di Venezia e l'architettura: la cattedrale di San Pietro di Castello nel Rinascimento"; ore 21,15, Cindy & The Rock History, due ore di rock con musica e video: Venerdì 1 luglio: presentazione del libro di Erik Veistrup "I veneziani visti da un danese. 1999 - 2014"; ore 19,45, "Musicaspettando ... in coa" con i Buena Onda; ore 21, Lisa Hunt (tradizione afroamericana della musica gospel) & The Groovy Men. Sabato 2: ore 14,30, eliminatorie regata delle Marie in canale di San Pietro (partenza zona Fari fino al ponte di San Pietro); ore 16,00, XXII regata delle Marie su mascarete; ore 17, spettacolo di burattini "Arlecchino, Brighella e la macchina Cavadolor"; ore 17,15, 40ª regata su sandoli a quattro remi; ore 18, tradizionale gioco veneziano "Il gioco delle Pignatte"; ore 19, trofeo dolce Rita - gara di torte; ore 20, "Musicaspettando ... in coa" con i Bluefield; ore 21,30, spettacolo 7S8

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Settesotto. Domenica 3: ore 9,45, corteo acqueo con partenza dal canale di San Giuseppe; ore 10,15 messa presieduta dal patriarca Francesco Moraglia e tradizionale consegna dell'anello piscatorio; ore 11,30 esibizione della banda musicale di S. Erasmo; ore 17, spettacolo per i bambini con il mago Paul Black; ore 17, in Basilica concerto di musica sacra; dalle ore 19,45 musica; ore 23, lotteria. Il Sestante di Venezia ogni giorno - ore 18, 20, 21,30, con partenza e arrivo davanti alla chiesa di San Piero de Casteo - propone un'escursione con offerta libera della durata di circa 60 minuti per scoprire l'Arsenale con l'imbarcazione ibrida diesel-elettrica. La festa alla quale partecipano oltre 150 volontari è organizzata dall'associazione Comitato San Pietro di Castello. Pag 26 Gambarare. Se n’è andata Aurora Turri detta Jolanda di a.ab. Mira - È morta all'età di 84 anni Aurora Turri conosciuta da tutti a Gambarare e Mira Buse con il soprannome di Jolanda. La donna era una delle fondatrici del "mercatino del mercoledì" della parrocchia di San Giovanni Battista a Gambarare. Si tratta di un gruppo di donne del paese che da anni realizza lavori a maglia o di sartoria o a uncinetto che poi vendono, e il ricavato va in azioni di beneficienza alle persone meno fortunate . Abitava in via Moncenisio 12 e nel corso degli anni ha dato anche un aiuto al figlio Livio che gestisce una edicola cartoleria tabaccheria, in centro a Oriago. Lascia il figlio Livio la figlia Monica, la nuora Annamaria il genero Raffaele i nipoti. I funerali si terranno domani alle 11 nel duomo di Gambarare. LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 19 Messa per Capovilla a un mese dalla sua scomparsa di n.d.l. A San Giacometto Venezia. Ad un mese dalla scomparsa, Venezia ricorda il cardinale Loris Capovilla, già segretario di Papa San Giovanni XXIII. Oggi alle 18 nella chiesa San Giacometto di Rialto don Diego Sartorelli, correttore della Misericordia, presiede la messa in suffragio concelebrata con il rettore don Aldo Marangoni. Il cardinale Capovilla, morto a cento anni a Bergamo, era confratello onorario della Misericordia. Il porporato aveva a cuore la “sua” Venezia e i veneziani. A volerlo cardinale era stato Papa Francesco. Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA CORRIERE DELLA SERA Pag 15 Il Papa: “Serve un’altra Ue. La Chiesa si scusi con i gay” di Gian Guido Vecchi e Alessandra Arachi Turchia contro Vaticano: sugli armeni mentalità da crociato Dal volo papale. Una «sana disunione» per salvare l’Unione europea dopo la Brexit, nel senso di «ricrearla», pensare «un’altra forma di unione» e dare «più libertà e indipendenza» agli Stati membri. Nel volo di ritorno dal viaggio in Armenia, Francesco non sembra avvertire la stanchezza e risponde per un’ora ai giornalisti. Tra l’altro parla pure del «riformatore» Lutero le cui «intenzioni», dice, «non erano sbagliate», e dice di non avere «aperto» alle diaconesse ma «solo di aver chiesto uno studio». Santità, è preoccupato che la Brexit porti alla disintegrazione dell’Europa ed, eventualmente, alla guerra? «La guerra già c’è, in Europa. Poi c’è un’aria di divisione, non solo in Europa ma negli stessi Paesi. La Catalogna, l’anno scorso la Scozia... Queste divisioni non dico siano pericolose ma dobbiamo studiarle bene e prima di fare un passo avanti in quella direzione bisogna cercare soluzioni percorribili. Io non ho studiato quali siano i motivi del perché il Regno Unito abbia voluto prendere questa decisione. L’indipendenza si fa con l’emancipazione: per esempio, nei nostri Paesi latinoamericani, dalle corone. E questa è più comprensibile. Invece la secessione di un Paese, pensiamo alla Scozia, è una balcanizzazione. Per me l’ unità è superiore al conflitto, sempre. E anche la fratellanza - e qui vengo alla Unione europea - è migliore della inimicizia o delle distanze. I ponti

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sono migliori dei muri. Un Paese può dire io sono nella Ue ma voglio avere certe cose che sono mie, nella mia cultura. Il passo che deve fare la Ue per ritrovare la forza delle sue radici è un passo di creatività e anche di sana disunione: dare più indipendenza, più libertà ai Paesi, pensare un’altra forma di unione, essere creativi, nei posti di lavoro, nell’economia: in Italia il 40 per cento dei giovani sotto i 25 anni non ha lavoro. C’è qualcosa che non va in quella unione massiccia, ma non buttiamo il bambino con l’acqua sporca. Cerchiamo di creare e ricreare. Oggi le due parole chiave della Ue sono creatività e fecondità». Perché ha deciso di aggiungere la parola genocidio nel suo discorso? «Ho sempre parlato dei tre grandi genocidi del secolo scorso, quello armeno e poi quelli compiuti da Hitler e da Stalin. L’anno scorso ho visto che l’aveva usata San Giovanni Paolo II e ho citato la sua frase. La Turchia ha richiamato il suo ambasciatore ad Ankara, poi è tornato due o tre mesi fa, c’è stato un digiuno ambasciatoriale, il diritto alla protesta lo abbiamo tutti...Ma nel discorso volevo sottolineare un’altra cosa: in questi tre genocidi le grandi potenze internazionali guardavano da un’altra parte. Si deve fare una domanda storica: perché non avete fatto qualcosa, voi potenze? Non è un’accusa, è una domanda. Questa parola, genocidio, io non l’ho mai detta con animo offensivo, ma oggettivamente». Monsignor Gänswein ha suggerito l’idea di un ministero petrino condiviso. Ci sono due Papi? «In un tempo della Chiesa ce ne sono stati pure tre! Benedetto è Papa emerito: ha detto chiaramente che dava le sue dimissioni e si ritirava ad aiutare la Chiesa con la preghiera. Lui è per me il Papa emerito, è il nonno saggio, è l’uomo che mi custodisce le spalle e la schiena con la sua preghiera. Mai dimenticherò quel discorso ai cardinali il 28 febbraio: tra voi di sicuro ci sarà il mio successore, prometto obbedienza. E lo ha fatto. Poi ho sentito — sono dicerie, ma vanno bene col suo carattere — che alcuni sono andati là a lamentarsi del nuovo Papa e li ha cacciati via, col migliore stile bavarese, educato, ma li ha cacciati. È un uomo di parola, è retto. Io ho ringraziato pubblicamente Benedetto per avere aperto la porta ai Papi emeriti. Con l’ allungamento della vita non si può reggere la Chiesa a certe età o con acciacchi... Magari in futuro ce ne saranno due o tre, di emeriti, ma stanno lì. Però c’è un solo Papa. Questo grande uomo di preghiera e di coraggio è il Papa emerito, non il secondo Papa, un uomo che è fedele alla sua parola ed è un uomo di Dio». Il cardinale Marx ha detto che la Chiesa dovrebbe chiedere scusa alla comunità gay. «Io credo che non solo deve chiedere scusa a queste persone che ha offeso, ma ai poveri, alle donne e ai bambini sfruttati, di avere benedetto tante armi... Dico i cristiani, la Chiesa è santa e i peccatori siamo noi, io per primo, siamo noi cristiani a dover chiedere scusa e perdono non solo su questo». Roma. Nel monastero armeno di Khor Virap - a pochi metri dal confine con la Turchia - Papa Francesco ha firmato una dichiarazione congiunta con il patriarca armeno Karekin II nella quale, parlando dei conflitti a base etnica, politica e religiosa nel Medio Oriente, viene rievocato «il genocidio» subito dal popolo armeno nel 1915, sotto l’impero ottomano. Ed è stata proprio la parola «genocidio» contenuta nella dichiarazione che ha suscitato una dura reazione da parte della Turchia. Nurettin Canikli, il vicepremier, ha parlato in maniera diretta di «parole molto spiacevoli che indicano la persistenza della mentalità delle crociate». Di più, per il vicepresidente del Consiglio «quella del Papa non è una dichiarazione imparziale né conforme alla realtà». Erano nel monastero e hanno fato volare due colombe delle pace, il Papa e il patriarca armeno. Che, nella loro dichiarazione, hanno manifestato la «speranza per una soluzione pacifica riguardanti il Nagorno-Karabakh», mentre dall’altra parte del confine il governo criticava le parole del Pontefice. Contestazioni che hanno spinto il portavoce del Vaticano a intervenire per rispondere alle autorità turche. Padre Federico Lombardi, non si è scomposto davanti alle parole di Canikli, consapevole anche del fatto che l’anno passato per la stessa ragione la Turchia aveva richiamato in patria il suo ambasciatore in Vaticano. «Se si ascolta ciò che ha detto il Papa non c’è nulla che evochi uno spirito di crociata», ha detto Padre Lombardi: «Il Papa non sta facendo crociate, non promuove guerre ma promuove la pace. Francesco ha pregato per la riconciliazione di tutti e non ha pronunciato una

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parola contro il popolo turco. La sua volontà è di costruire ponti al posto dei muri, di creare le condizioni per la pace e la riconciliazione». Pag 28 La lezione del Papa sul genocidio armeno di Marco Ventura Si è chinato davanti alla fiamma eterna del memoriale, papa Francesco, e ha deposto una rosa bianca e una gialla. Più tardi, nello stesso giorno di sabato, davanti ai cinquantamila della piazza della Repubblica di Yerevan, il Pontefice ha commemorato il Metz Yeghérn, il «Grande Male» armeno del 1915. Dagli altoparlanti della piazza si è diffusa la parola chiave: genocidio. Così si era già espresso Francesco, in San Pietro, nell’aprile 2015, in occasione del centenario, e venerdì, nel discorso al Palazzo presidenziale. Senza infingimenti. Senza paura. Genocidio. La reazione turca è arrivata per bocca del vicepremier: per Nurettin Canikli quelle del Papa sono «parole molto spiacevoli che indicano la persistenza della mentalità delle Crociate». Nella sua rozzezza, l’attacco denuncia due inadeguatezze. La prima riguarda il governo turco: tanto lontano dall’Europa e dalla liberal-democrazia; sempre più incapace di gestire il fronte interno e quello esterno e perciò sempre più aggressivo. La seconda riguarda i leader dei Paesi musulmani, privi di visione per i loro popoli e per il mondo, insteriliti dall’istinto dispotico, prigionieri dell’odio religioso. Si staglia, al confronto, la forza diplomatica della Santa Sede, che ha accolto il rientro dell’ambasciatore turco ritirato da Erdogan dopo l’aprile 2015 non con tattica autocensura, ma con la fermezza di chi ha una verità da dire e il coraggio di dirla. Soprattutto, riluce la forza profetica del messaggio di Francesco: a nulla serve la memoria se non porta alla riconciliazione. Dietro il Papa che dice «genocidio» si staglia la cima innevata dell’Ararat, dove si posò l’Arca quando si ritirarono le acque. La religione di chi evoca a sproposito le «Crociate» è in balia dei marosi. Guarda oltre al diluvio, invece, la fede di Francesco. LA REPUBBLICA Pag 14 Il Papa: “Ora serve creatività per dare nuova forma alla Ue. Gay, la Chiesa chieda scusa” di Marco Ansaldo A bordo del volo papale Erevan - Roma. Ci vuole un'altra Europa. Lo dice Francesco, dopo il voto sulla Brexit. Perché la Ue è ormai «massiccia», troppo grande, la guerra è già presente e tira «un'aria di divisione". Bisogna essere creativi, «dare altra forma all'Unione". Ma sul volo di ritorno dal viaggio di tre giorni in Armenia il Pontefice non parla solo delle preoccupazioni per la Brexit. Insiste sul concetto di «genocidio» per i massacri del 1915 contro gli armeni: «Non conosco altra parola», afferma con una dichiarazione che farà infuriare la Turchia dopo le accuse del vicepremier Canikli («nelle attività del Papa è possibile vedere tutte le caratteristiche della mentalità delle crociate»). E poi: le scuse della Chiesa per come ha trattato i gay, e la richiesta di perdono «perché abbiamo benedetto tante armi». O come il Papa emerito Benedetto XVI difende Francesco, cacciando dal suo monastero in Vaticano chi va a parlargli male del successore. E il progetto di visita in silenzio che vuole fare a luglio ad Auschwitz e Birkenau. Ecco un estratto del botta e risposta in volo con i giornalisti. È preoccupato che la Brexit possa portare alla disgregazione dell' Europa e alla guerra? «La guerra c'è già in Europa. C'è un'aria di divisione, e non solo in Europa. Io non ho studiato perché gli inglesi abbiano preso questa decisione. Dietro c'è un pensiero di emancipazione, che è anche comprensibile. Però la balcanizzazione non è emancipazione. E i ponti sono migliori dei muri. Ma tutto questo ci deve far riflettere. Bisogna essere creativi, con un passo anche di sana "disunione", cioè dare più indipendenza e libertà ai paesi dell' Unione, e un'altra forma di unione. C'è qualcosa che non va in questa unione massiccia». Perché a Erevan ha deciso di aggiungere a braccio la parola "genocidio" che non c'era invece nel suo testo scritto? «In Argentina, quando si parlava dello sterminio armeno si parlava sempre di genocidio. Io non conoscevo altra parola. Poi, a Roma, ho saputo che si può dire il Grande Male, il terribile massacro, e infine mi hanno detto che quello era un termine proibito in Turchia. Alcuni dicono che non è stato un genocidio. Io parlo spesso di tre genocidi: armeno,

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nazista e stalinista. L' anno scorso, quando preparavo il discorso per le celebrazioni dei 100 anni del massacro, ho visto che Giovanni Paolo II usava tutte e due le espressioni. E così ho fatto. Ma io dopo aver pronunciato lo scorso anno quella parola a San Pietro, se non l' avessi fatto ora sarebbe suonato molto strano. Volevo sottolineare un'altra cosa: per questo genocidio, come per gli altri due, le grandi potenze hanno girato la testa dall'altra parte». Il cardinale tedesco Marx ha detto che la Chiesa deve chiedere scusa alla comunità gay per avere marginalizzato queste persone. Lei che ne pensa? «Continuo a sostenere che gli omosessuali non vadano discriminati, ma accompagnati pastoralmente. La domanda è: se una persona è in quella condizione, e ha buone intenzioni, cerca Dio, chi siamo noi per giudicare? Credo che la Chiesa debba chiedere scusa ai gay per come sono stati trattati, ai poveri, alle donne stuprate. Perdono perché abbiamo benedetto tante armi. Perdono, Signore. Questa è una parola che dimentichiamo tanto». Il segretario particolare di Benedetto XVI, monsignor Gaenswein, è sembrato suggerire un ministero petrino condiviso. Ma allora ci sono due Papi? «Benedetto XVI è il Papa emerito. Ha detto chiaramente l' 11 febbraio 2013 che avrebbe dato le dimissioni e aiutato la Chiesa con la preghiera. Sono andato a trovarlo, gli telefono. Spesso ho detto che è una grazia avere a casa un nonno saggio. Ho sentito che alcuni sono andati da lui, in Vaticano, per lamentarsi del nuovo Papa, e li ha cacciati via, con stile bavarese. Ha aperto la porta ai Papi emeriti. Ma c'è un solo Papa, l'altro è emerito». Santità, come sarà la sua visita a luglio in Polonia per la Giornata mondiale della Gioventù? «Vorrei visitare i campi di sterminio ad Auschwitz e Birkenau senza discorsi, con poche parole. Nel silenzio. I giornalisti ci saranno. Ma vorrei entrare da solo, pregare. E che il Signore mi dia poi la grazia di piangere». IL GAZZETTINO Pag 12 Il timore del Papa: “Troppi muri, l’Europa rischia” di Franca Giansoldati Intervista al Santo Padre di ritorno dal viaggio apostolico in Armenia Emergenza Brexit. Il pensiero da tre giorni preoccupa Papa Bergoglio che intravede all’orizzonte un possibile rischio di balcanizzazione dell’Europa. Per certi versi ritiene che la guerra nel vecchio continente già ci sia. «Meglio costruire ponti che tirare su dei muri». Più conveniente per tutti. Papa Francesco torna dall’Armenia sognando un Europa più flessibile, maggiormente attenta al futuro dei giovani, alla vita delle persone. Pensa che la Brexit possa portare alla disintegrazione europea e alla guerra? «La guerra già c’è in Europa. Si sente aria di divisione. Non solo nell’Unione ma negli stessi Paesi che la compongono come Catalogna, Scozia. Queste divisioni non dico che siano pericolose ma dobbiamo studiarle bene prima di fare un passo avanti. Bisogna cercare soluzioni praticabili. Ci sono divisioni basate sull’indipendenza che si fanno per emanciparsi, è accaduto in passato in America Latina o in Africa. L’emancipazione è comprensibile. Diverso è il caso delle spinte secessioniste, pensiamo alla Scozia. Mi viene in mente la balcanizzazione. Per me l’unità è superiore al conflitto. La fratellanza è migliore dell’inimicizia. I ponti sono migliori dei muri. Questo momento ci deve fare riflettere. L’Europa deve ritrovare la forza che ha avuto nelle sue radici». Lei sta lasciando il Caucaso, dove sono in corso guerre silenziose... «Spero che il popolo armeno trovi giustizia e pace. Perché è un popolo coraggioso. La settimana scorsa quando ho visto una fotografia del presidente Putin con i due presidenti armeno e azero mi sono rallegrato: almeno si parlano, mi sono detto. Il presidente armeno, nel suo discorso di benvenuto, ha parlato della Turchia: ha avuto il coraggio di dire mettiamoci d’accordo perdoniamoci e guardiamo avanti». Lei ha incoraggiato i giovani di essere autori della riconciliazione con la Turchia e l’Azerbaijan. «Parlerò anche agli azeri, dirò loro ciò che ho visto. La verità, dirò quello che sento, incoraggerò anche loro. Ho già incontrato il Presidente azero. Anche a lui dirò che non fare la pace per un pezzettino di terra (il Nagorno Karabakh, nrd) è qualcosa di

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incomprensibile. Naturalmente l’ho detto anche agli armeni. Forse non si mettono d’accordo sulle modalità della pace, e su questo si deve lavorare». Perché ha aggiunto al suo discorso la parola genocidio? «In Argentina quando si parlava dello sterminio armeno, si usava sempre la parola genocidio. Non conoscevo altra definizione. Mi suona strano non usarla. Solo arrivando a Roma ho appreso il termine Grande Male o Metz Yeghern. Mi è stato spiegato che genocidio è una parola tecnica, che non è sinonimo di sterminio, perché dal punto di vista giuridico implica un’azione di riparazione. Anche Giovanni Paolo II l’ha usata, anzi ha usato tutte e due, Grande Male e genocidio. L’anno scorso non è caduta bene, la Turchia ha richiamato l’ambasciatore, che è un brav’uomo. Poi dopo tre mesi di digiuno ambasciatoriale (ognuno ha diritto alla protesta, lo abbiamo tutti) è tornato». Lei ha accusato le potenze internazionali.. «Io ho sempre parlato dei tre genocidi del secolo scorso. Quello armeno, quello di Hitler e quello di Stalin. In Armenia ho detto che quando era in corso il genocidio armeno, esattamente come avvenne per gli altri due, le grandi potenze internazionali hanno rivolto lo sguardo altrove. Alcune potenze avevano le foto delle ferrovie che portavano ad Auschwitz; avevano la possibilità di bombardare e non lo hanno fatto. Nel contesto della prima guerra mondiale c’è stato il problema degli armeni, nel contesto della seconda guerra mondiale c’è stato il problema di Hitler. Per non dire di cosa è accaduto dopo Yalta. Insomma perché nessuno ne parla?». L’OSSERVATORE ROMANO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Dalla memoria il futuro di g.m.v. La melodia struggente dei flauti ha suggellato a Yerevan l’omaggio reso da Papa Francesco al memoriale di Tzitzernakaberd, il monumento da cui si può vedere in lontananza il monte Ararat coperto di neve e che ricorda con le sue pietre grigie le innumerevoli vittime del “grande male” (Metz Yeghern) abbattutosi spietatamente un secolo fa sul popolo armeno. Uno sterminio spaventoso che poche ore prima, nel palazzo presidenziale, il Pontefice aveva definito «genocidio», scandendo con gravità la parola e ricordando che da questa tragedia le grandi potenze distolsero lo sguardo, come avvenne poi di fronte agli altri due principali stermini del secolo scorso, perpetrati dal nazismo e dal comunismo. Sulla memoria bisogna oggi costruire, senza annacquarla né dimenticarla perché è fonte di pace e di futuro, ha voluto aggiungere di suo pugno il Pontefice firmando il libro d’onore dopo la preghiera nel sacrario dove arde un fuoco, e sintetizzando con queste parole scaturite dal cuore il senso del suo viaggio. Visita con la quale Francesco, ospite a Etchmiadzin di Karekin II, ha voluto ancora una volta rendere onore al popolo armeno e rafforzare il dialogo ecumenico con la Chiesa apostolica sviluppatosi soprattutto negli ultimi anni, anche con lo scambio di visite. Una memoria dunque su cui costruire il futuro, alla ricerca della pace. E proprio la memoria è stata indicata dal Papa come fondamento di questa costruzione, insieme alla fede e all’amore misericordioso, nell’omelia della messa celebrata a Gyumri per la piccola comunità cattolica: memoria personale ma anche del popolo, fede che non appartiene al passato ma di continuo «nasce e rinasce dall’incontro vivificante con Gesù», amore rivolto alla ricerca perseverante di vie di comunione e di ponti per superare ogni separazione. E il primo gesto del Pontefice appena giunto è stato la visita alla Santa Etchmiadzin, dove ha pregato con Karekin II, vescovi e fedeli della Chiesa apostolica. Cristo è il sole dell’Armenia, ha detto il Papa, ricordando che all’inizio del IV secolo il paese fu la prima nazione dichiaratamente cristiana, in anticipo sugli editti di tolleranza emanati nell’impero romano dopo l’ultima grande persecuzione. E la fede in Cristo, ha aggiunto Bergoglio, non è un abito che s’indossa e si smette, bensì una «realtà costitutiva»: dono da accogliere e custodire, come il popolo armeno ha fatto nel succedersi del tempo e a costo anche del martirio, «segno eloquente e santo». Dai cristiani il mondo attende una testimonianza di fraternità e per questo il cammino ecumenico ha oggi un «valore esemplare» anche oltre i confini del cristianesimo; richiama infatti di continuo quanto può unire, impedendo inoltre ogni «strumentalizzazione e manipolazione della fede». Il medesimo appello è risuonato poi con più forza sulla bocca del Papa nel discorso che ha pronunciato al palazzo presidenziale: è infatti di vitale importanza che gli uomini di fede «uniscano le loro forze per isolare chiunque si serva della religione per portare avanti

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progetti di guerra, di sopraffazione e di persecuzione violenta», che strumentalizzano e manipolano il santo nome di Dio. Pag 7 Lezione per l’umanità Papa Francesco ricorda l’immane tragedia del popolo armeno. Mentre le grandi potenze guardavano da un’altra parte Nel tardo pomeriggio di venerdì 24 giugno il Papa ha compiuto la visita di cortesia al capo dello Stato armeno, incontrando successivamente, sempre nel palazzo presidenziale di Yerevan, le autorità del Paese, i rappresentanti della società civile e i membri del corpo diplomatico. Ecco il discorso pronunciato da Francesco in riposta al benvenuto rivoltogli dal presidente Sargsyan. Signor Presidente, Distinte Autorità, Illustri Membri del Corpo Diplomatico, Signori e Signore, È per me motivo di grande gioia poter essere qui, toccare il suolo di questa terra armena tanto cara, fare visita ad un popolo dalle antiche e ricche tradizioni, che ha testimoniato con coraggio la sua fede, che ha molto sofferto, ma che è sempre tornato a rinascere. «Il nostro cielo turchese, le acque chiare, il lago di luce, il sole d’estate e d’inverno la fiera borea, [...] la pietra dei millenni, [...] i libri incisi con lo stilo, divenuti preghiera» (Elise Ciarenz, Ode all’Armenia). Sono queste alcune immagini potenti che un vostro illustre poeta ci offre per illuminarci sulla profondità della storia e sulla bellezza della natura dell’Armenia. Esse racchiudono in poche espressioni l’eco e la densità dell’esperienza gloriosa e drammatica di un popolo e lo struggente amore per la sua Patria. Le sono vivamente grato, Signor Presidente, per le gentili espressioni di benvenuto che Ella mi ha rivolto a nome del Governo e degli abitanti dell’Armenia, e per avermi offerto la possibilità, grazie al Suo cortese invito, di contraccambiare la visita da Lei compiuta l’anno scorso in Vaticano, quando presenziò alla solenne celebrazione nella Basilica di San Pietro, insieme alle Loro Santità Karekin II, Patriarca Supremo e Catholicos di Tutti gli Armeni, e Aram I, Catholicos della Grande Casa di Cilicia, e a Sua Beatitudine Nerses Bedros XIX, Patriarca di Cilicia degli Armeni, recentemente scomparso. In quella occasione si è fatta memoria del centenario del Metz Yeghérn, il “Grande Male”, che colpì il vostro popolo e causò la morte di un’enorme moltitudine di persone. Quella tragedia, quel genocidio, inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l’intento di annientare interi popoli. È tanto triste che - sia in questo come negli altri due - le grandi potenze guardavano da un’altra parte. Rendo onore al popolo armeno, che, illuminato dalla luce del Vangelo, anche nei momenti più tragici della sua storia, ha sempre trovato nella Croce e nella Risurrezione di Cristo la forza per risollevarsi e riprendere il cammino con dignità. Questo rivela quanto profonde siano le radici della fede cristiana e quale infinito tesoro di consolazione e di speranza essa racchiude. Avendo davanti ai nostri occhi gli esiti nefasti a cui condussero nel secolo scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio, auspico vivamente che l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori. Si moltiplichino perciò, da parte di tutti, gli sforzi affinché nelle controversie internazionali prevalgano sempre il dialogo, la costante e genuina ricerca della pace, la collaborazione tra gli Stati e l’assiduo impegno degli organismi internazionali, al fine di costruire un clima di fiducia propizio al raggiungimento di accordi duraturi, che guardino al futuro. La Chiesa Cattolica desidera collaborare attivamente con tutti coloro che hanno a cuore le sorti della civiltà e il rispetto dei diritti della persona umana, per far prevalere nel mondo i valori spirituali, smascherando quanti ne deturpano il significato e la bellezza. A questo proposito, è di vitale importanza che tutti coloro che dichiarano la loro fede in Dio uniscano le loro forze per isolare chiunque si serva della religione per portare avanti progetti di guerra, di sopraffazione e di persecuzione violenta, strumentalizzando e manipolando il Santo Nome di Dio. Oggi, in particolare i cristiani, come e forse più che al tempo dei primi martiri, sono in alcuni luoghi discriminati e perseguitati per il solo fatto di professare la loro fede, mentre troppi conflitti in varie aree del mondo non trovano ancora soluzioni positive, causando lutti, distruzioni e migrazioni forzate di intere

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popolazioni. È indispensabile perciò che i responsabili delle sorti delle nazioni intraprendano con coraggio e senza indugi iniziative volte a porre termine a queste sofferenze, facendo della ricerca della pace, della difesa e dell’accoglienza di coloro che sono bersaglio di aggressioni e persecuzioni, della promozione della giustizia e di uno sviluppo sostenibile i loro obiettivi primari. Il popolo armeno ha sperimentato queste situazioni in prima persona; conosce la sofferenza e il dolore, conosce la persecuzione; conserva nella sua memoria non solo le ferite del passato, ma anche lo spirito che gli ha permesso, ogni volta, di ricominciare di nuovo. In tal senso, io lo incoraggio a non far mancare il suo prezioso contributo alla comunità internazionale. Quest’anno ricorre il 25° anniversario dell’indipendenza dell’Armenia. È una felice circostanza per cui rallegrarsi e l’occasione per fare memoria dei traguardi raggiunti e per proporsi nuove mete a cui tendere. I festeggiamenti per questa lieta ricorrenza saranno tanto più significativi se diventeranno per tutti gli armeni, in Patria e nella diaspora, uno speciale momento nel quale raccogliere e coordinare le energie, allo scopo di favorire uno sviluppo civile e sociale del Paese, equo ed inclusivo. Si tratta di verificare costantemente che non si venga mai meno agli imperativi morali di eguale giustizia per tutti e di solidarietà con i deboli e i meno fortunati (cfr. Giovanni Paolo II, Discorso di congedo dall’Armenia, 27 settembre 2001: Insegnamenti XXIV, 2 [2001], 489). La storia del vostro Paese va di pari passo con la sua identità cristiana, custodita nel corso dei secoli. Tale identità cristiana, lungi dall’ostacolare la sana laicità dello Stato, piuttosto la richiede e la alimenta, favorendo la partecipe cittadinanza di tutti i membri della società, la libertà religiosa e il rispetto delle minoranze. La coesione di tutti gli armeni, e l’accresciuto impegno per individuare strade utili a superare le tensioni con alcuni Paesi vicini, renderanno più agevole realizzare questi importanti obiettivi, inaugurando per l’Armenia un’epoca di vera rinascita. La Chiesa Cattolica, da parte sua, pur essendo presente nel Paese con limitate risorse umane, è lieta di poter offrire il suo contributo alla crescita della società, particolarmente nella sua azione rivolta verso i più deboli e i più poveri, nei campi sanitario ed educativo, e in quello specifico della carità, come testimoniano l’opera svolta ormai da venticinque anni dall’ospedale Redemptoris Mater ad Ashotsk, l’attività dell’istituto educativo a Yerevan, le iniziative di Caritas Armenia e le opere gestite dalle Congregazioni religiose. Dio benedica e protegga l’Armenia, terra illuminata dalla fede, dal coraggio dei martiri, dalla speranza più forte di ogni dolore. Pag 8 Tre basi stabili Durante la messa a Gyumri il Papa indica ai fedeli armeni la strada per riedificare la vita cristiana Nella mattina di sabato 25 giugno, seconda giornata del viaggio in Armenia, il Papa ha dapprima visitato il memoriale di Tzitzernakaberd, quindi in aereo ha raggiunto Gyumri, dove in piazza Vartanànts ha celebrato per la locale comunità cattolica la messa votiva della misericordia di Dio. Era presente il catholicos Karekin II, che in apertura di celebrazione ha rivolto un saluto al Pontefice. Di seguito pubblichiamo il testo dell’omelia di Francesco. «Riedificheranno le rovine antiche, restaureranno le città desolate» (Is 61, 4). In questi luoghi, cari fratelli e sorelle, possiamo dire che si sono realizzate le parole del profeta Isaia che abbiamo ascoltato. Dopo le terribili devastazioni del terremoto, ci troviamo oggi qui a rendere grazie a Dio per tutto quanto è stato ricostruito. Potremmo però anche domandarci: che cosa il Signore ci invita a costruire oggi nella vita, e soprattutto: su che cosa ci chiama a costruire la nostra vita? Vorrei proporvi, nel cercare di rispondere a questa domanda, tre basi stabili cu cui possiamo edificare e riedificare la vita cristiana, senza stancarci. Il primo fondamento è la memoria. Una grazia da chiedere è quella di saper recuperare la memoria, la memoria di quello che il Signore ha compiuto in noi e per noi: richiamare alla mente che, come dice il Vangelo odierno, Egli non ci ha dimenticato, ma «si è ricordato» (Lc 1, 72) di noi: ci ha scelti, amati, chiamati e perdonati; ci sono stati grandi avvenimenti nella nostra personale storia di amore con Lui, che vanno ravvivati con la mente e con il cuore. Ma c’è anche un’altra memoria da custodire: la memoria del popolo. I popoli hanno infatti una memoria, come le persone. E la memoria del vostro popolo è molto antica e preziosa. Nelle vostre voci risuonano

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quelle dei sapienti santi del passato; nelle vostre parole c’è l’eco di chi ha creato il vostro alfabeto allo scopo di annunciare la Parola di Dio; nei vostri canti si fondono i gemiti e le gioie della vostra storia. Pensando a tutto questo potete riconoscere certamente la presenza di Dio: Egli non vi ha lasciati soli. Anche fra tremende avversità, potremmo dire con il Vangelo di oggi, il Signore ha visitato il vostro popolo (cfr. Lc 1, 68): si è ricordato della vostra fedeltà al Vangelo, della primizia della vostra fede, di tutti coloro che hanno testimoniato, anche a costo del sangue, che l’amore di Dio vale più della vita (cfr. Sal 63, 4). È bello per voi poter ricordare con gratitudine che la fede cristiana è diventata il respiro del vostro popolo e il cuore della sua memoria. La fede è anche la speranza per il vostro avvenire, la luce nel cammino della vita, ed è il secondo fondamento di cui vorrei parlarvi. C’è sempre un pericolo, che può far sbiadire la luce della fede: è la tentazione di ridurla a qualcosa del passato, a qualcosa di importante ma che appartiene ad altri tempi, come se la fede fosse un bel libro di miniature da conservare in un museo. Tuttavia, se rinchiusa negli archivi della storia, la fede perde la sua forza trasformante, la sua bellezza vivace, la sua positiva apertura verso tutti. La fede, invece, nasce e rinasce dall’incontro vivificante con Gesù, dall’esperienza della sua misericordia che dà luce a tutte le situazioni della vita. Ci farà bene ravvivare ogni giorno questo incontro vivo con il Signore. Ci farà bene leggere la Parola di Dio e aprirci nella preghiera silenziosa al suo amore. Ci farà bene lasciare che l’incontro con la tenerezza del Signore accenda la gioia nel cuore: una gioia più grande della tristezza, una gioia che resiste anche di fronte al dolore, trasformandosi in pace. Tutto questo rinnova la vita, la rende libera e docile alle sorprese, pronta e disponibile per il Signore e per gli altri. Può succedere anche che Gesù chiami a seguirlo più da vicino, a donare la vita a Lui e ai fratelli: quando invita, specialmente voi giovani, non abbiate paura, ditegli di “sì”! Egli ci conosce, ci ama davvero, e desidera liberare il cuore dai pesi del timore e dell’orgoglio. Facendo spazio a Lui, diventiamo capaci di irradiare amore. Potrete in questo modo dar seguito alla vostra grande storia di evangelizzazione, di cui la Chiesa e il mondo hanno bisogno in questi tempi tribolati, che sono però anche i tempi della misericordia. Il terzo fondamento, dopo la memoria e la fede, è proprio l’amore misericordioso: è su questa roccia, sulla roccia dell’amore ricevuto da Dio e offerto al prossimo, che si basa la vita del discepolo di Gesù. Ed è vivendo la carità che il volto della Chiesa ringiovanisce e diventa attraente. L’amore concreto è il biglietto da visita del cristiano: altri modi di presentarsi possono essere fuorvianti e persino inutili, perché da questo tutti sapranno che siamo suoi discepoli: se abbiamo amore gli uni per gli altri (cfr. Gv 13, 35). Siamo chiamati anzitutto a costruire e ricostruire vie di comunione, senza mai stancarci, a edificare ponti di unione e a superare le barriere di separazione. Che i credenti diano sempre l’esempio, collaborando tra di loro nel rispetto reciproco e nel dialogo, sapendo che «l’unica competizione possibile tra i discepoli del Signore è quella di verificare chi è in grado di offrire l’amore più grande!» (GIOVANNI PAOLO II, Omelia, 27 settembre 2001: Insegnamenti XXIV, 2 [2001], 478). Il profeta Isaia, nella prima lettura, ci ha ricordato che lo spirito del Signore è sempre con chi porta il lieto annuncio ai miseri, fascia le piaghe dei cuori spezzati e consola gli afflitti (cfr. 61, 1-2). Dio dimora nel cuore di chi ama; Dio abita dove si ama, specialmente dove ci si prende cura, con coraggio e compassione, dei deboli e dei poveri. C’è tanto bisogno di questo: c’è bisogno di cristiani che non si lascino abbattere dalle fatiche e non si scoraggino per le avversità, ma siano disponibili e aperti, pronti a servire; c’è bisogno di uomini di buona volontà, che di fatto e non solo a parole aiutino i fratelli e le sorelle in difficoltà; c’è bisogno di società più giuste, nelle quali ciascuno possa avere una vita dignitosa e in primo luogo un lavoro equamente retribuito. Potremmo però chiederci: come si può diventare misericordiosi, con tutti i difetti e le miserie che ciascuno vede dentro di sé e attorno a sé? Vorrei ispirarmi a un esempio concreto, ad un grande araldo della misericordia divina, che ho voluto proporre all’attenzione di tutti annoverandolo tra i Dottori della Chiesa universale: san Gregorio di Narek, parola e voce dell’Armenia. È difficile trovare qualcuno pari a lui nello scandagliare le abissali miserie che si possono annidare nel cuore dell’uomo. Egli, però, ha sempre posto in dialogo le miserie umane e la misericordia di Dio, elevando un’accorata supplica fatta di lacrime e fiducia al Signore, «datore dei doni, bontà per natura [...], voce di consolazione, notizia di conforto, slancio di gioia, [...] tenerezza impareggiabile, misericordia traboccante, [...] bacio salvifico» (Libro delle lamentazioni, 3, 1), nella certezza che «mai è adombrata dalle tenebre della

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rabbia la luce della [sua] misericordia» (ibid., 16, 1). Gregorio di Narek è un maestro di vita, perché ci insegna che è anzitutto importante riconoscerci bisognosi di misericordia e poi, di fronte alle miserie e alle ferite che percepiamo, non chiuderci in noi stessi, ma aprirci con sincerità e fiducia al Signore, «Dio vicino, tenerezza di bontà» (ibid., 17, 2), «pieno d’amore per l’uomo, [...] fuoco che consuma la sterpaglia del peccato» (ibid., 16, 2). Con le sue parole vorrei infine invocare la misericordia divina e il dono di non stancarci mai di amare: Spirito Santo, «potente protettore, intercessore e pacificatore, noi ti rivolgiamo le nostre suppliche [...] Accordaci la grazia di incoraggiarci alla carità e alle opere buone [...] Spirito di dolcezza, di compassione, di amore per l’uomo e di misericordia, [...] Tu che non sei altro che misericordia, [...] abbi pietà di noi, Signore nostro Dio, secondo la tua grande misericordia» (Inno di Pentecoste). Al termine della messa è stato l’arcivescovo Raphaël Minassian, ordinario per gli armeni cattolici dell’Europa orientale, con sede proprio a Gyumri, a rivolgere al Papa un indirizzo di saluto, al quale hanno fatto seguito le parole rivolte da Francesco ai fedeli presenti. Eccone il testo. Al termine di questa Celebrazione desidero esprimere viva gratitudine al Catholicos Karekin II e all’Arcivescovo Minassian per le cortesi parole che mi hanno rivolto, come pure al Patriarca Ghabroyan e ai Vescovi presenti, ai sacerdoti e alle Autorità che ci hanno accolto. Ringrazio tutti voi che avete partecipato, giungendo a Gyumri anche da diverse regioni e dalla vicina Georgia. Vorrei in particolare salutare chi, con tanta generosità e amore concreto, aiuta quanti si trovano nel bisogno. Penso soprattutto all’ospedale di Ashotsk, inaugurato venticinque anni fa e conosciuto come l’“Ospedale del Papa”: nato dal cuore di san Giovanni Paolo II, è ancora una presenza tanto importante e vicina a chi soffre; penso alle opere portate avanti dalla comunità cattolica locale, dalle Suore Armene dell’Immacolata Concezione e delle Missionarie della Carità della beata Madre Teresa di Calcutta. La Vergine Maria, nostra Madre, vi accompagni sempre e guidi i passi di tutti sulla via della fraternità e della pace. AVVENIRE di domenica 26 giugno 2016 Pag 27 Samaritano, il prossimo è misericordia di Ambrogio Spreafico Una tra le parabole più celebri riletta dal vescovo di Frosinone–Veroli–Ferentino: la compassione ci rende famigliari con Cristo e i poveri Un esperto della Legge, la Torà di Israele, pone una domanda a Gesù. La sapienza di un uomo si manifesta sempre nel tenere aperte le domande essenziali della vita. E certo la sua domanda riguardava la vita nella sua interezza, la “vita eterna”. Gesù a sua volta vuole che a rispondere sia lui stesso, che ribadisce il duplice comandamento dell’amore di Dio e del prossimo, compimento della Legge e dei Profeti. A quel punto il maestro di Nazareth non può che esortarlo a vivere ciò che aveva professato: «Hai risposto bene; fa questo e vivrai». È bello questo colloquio dei due, che mostra come Gesù accetta di dialogare con le nostre domande per suscitare in ognuno la ricerca di una risposta. Il colloquio continua, perché quel saggio non si accontenta dell’invito di Gesù. Il vangelo dice che «volendo giustificarsi», chiese a Gesù chi fosse il suo prossimo. Quell’uomo si riteneva giusto. Tuttavia non si chiude nella sua giustizia. Ed ecco la parabola, risposta in forma di racconto. Quante volte l’abbiamo ascoltata, ma la Parola di Dio contiene sempre delle sorprese. Come dice Gregorio magno: «La Bibbia cresce con chi la legge». Quel sapiente ci insegna proprio questo. Mai davanti alla Parola di Dio dare per scontato di aver capito tutto, mai pensare di essere totalmente nel giusto! La parabola è semplice nel suo sviluppo. Un uomo scende da Gerusalemme e Gerico su una strada pericolosa. Infatti incappa nei briganti, «che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto ». Siamo di fronte a un uomo il cui rischio è la morte, date le condizioni in cui viene lasciato dai briganti. La situazione di quell’uomo rappresenta molto bene la condizione di tanta gente del nostro mondo. Pensiamo solo ai profughi che fuggono dai loro paesi per la guerra o per la violenza, l’ingiustizia, la povertà, le calamità naturali. Oppure guardando tanti in mezzo a noi, come gli anziani soli o in istituto, i disoccupati, i sena fissa dimora, gli zingari, e quanti altri che sono considerati “lo scarto” della nostra società, come direbbe papa Francesco. Come

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comportarsi con loro? Sono anche questi il prossimo, cioè persone da amare. Infatti, per quel saggio che interroga Gesù il “prossimo” coincide con i membri del proprio popolo. La domanda posta a Gesù risulta essere fondamentale per il suo e il nostro futuro e per la vita di ogni giorno, sempre che la si voglia vivere in conformità al Vangelo e non a noi stessi. L’incontro con quel poveraccio avviene «per caso», dice il vangelo. Quante volte capita di imbattersi per caso in uomini e donne mezzi morti, magari proprio come quello del vangelo, ai bordi della strada, sui marciapiedi. Cosa avviene davanti a quel malcapitato? Passano un sacerdote e un levita, lo vedono e passano oltre. Il verbo greco antiperxomai è molto interessante. Già di per sé parerxomai significa passare oltre. Quell’antì sottolinea che ce l’avevano proprio di fronte, non potevano non vederlo. Quante volte si vedono donne e uomini bisognosi, ce li troviamo di fronte, siamo quasi costretti a vederli, e si passa oltre. La fretta, la paura di farsi carico di un sofferente, per giunta pure sconosciuto, fanno a volte affrettare il passo. Poi passa un Samaritano, un estraneo rispetto a quell’uomo. Infatti tra abitanti della Giudea e abitanti della Samaria non correva buon sangue, come sappiamo dai Vangeli. Qui tutto cambia. Anche il Samaritano gli passa vicino, e «vedendolo ne ebbe compassione». La Bibbia Cei non traduce in maniera uniforme questo verbo, ma la traduzione “avere compassione” è forse quella più accettabile e comune. Si trova nei Vangeli Sinottici 12 volte: cinque in Matteo, quattro in Marco e tre in Luca. Solo in tre casi il soggetto della compassione non è direttamente Gesù. In Lc 10,33 è il Samaritano, in cui chiaramente, come intesero i Padri, vediamo Gesù stesso. Gli altri due casi si trovano in parabole e sono abbinati a figure di Dio. I casi in cui è Gesù stesso il soggetto sono così distribuiti. In Marco e Matteo i due racconti di moltiplicazione dei pani sono introdotti sempre dalla compassione di Gesù. In altre quattro ricorrenze Gesù “ha compassione” davanti a un malato o a una richiesta di vita (il caso della vedova di Nain in Lc 7,13). In Mt 20,34 Gesù sta di fronte a due ciechi che chiedono la guarigione. Lo stesso in Mc 1,41 davanti a un lebbroso che «lo supplicava» per essere purificato. In Mc 9,22 è il padre di un ragazzo indemoniato che si rivolge a Gesù chiedendogli di avere compassione per il figlio. È significativa la menzione di Mt 9,36. Gesù, seguito da una folla numerosa, vedendola «ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore». Dopo di che chiede ai discepoli di pregare perché il «signore della messe mandi operai nella sua messe». E di seguito egli stesso invia i discepoli in missione. Si potrebbe riassumere il sentimento di Gesù come qualcosa che nasce dal bisogno di fronte a cui si viene a trovare. Ma che cosa è la compassione? Da che cosa nasce e che cosa implica? Il verbo greco deriva da una radice che ha a che fare con il ventre della madre quando ha in sé il figlio, nasce quindi da una relazione di profonda intimità. Il figlio è un tutt’uno con la madre, che ne sente la presenza, i battiti, i sussulti. La madre sente con il figlio. Egli fa parte della sua stessa vita. Così è il sentimento di Gesù, che condivide con Dio Padre e che quindi esprime nella sua esistenza terrena. Noi siamo parte della sua vita, come il figlio è parte della vita della madre specie quando sta nel suo ventre. In questo senso si potrebbe dire, come ebbe a dire Giovanni Paolo II, che Dio è Padre ma anche madre. Gesù viene a condividere la nostra stessa vita. Anzi, egli come una madre ci nutre e ci fa crescere. Si occupa dei suoi figli quando sono colpiti dal male perché riabbiano la vita in pienezza. La compassione nasce quando Dio Padre o Gesù, il figlio, si trovano davanti a una richiesta di aiuto esplicita o al bisogno: il figlio perduto, il servo indebitato, un lebbroso, dei ciechi, un indemoniato, una vedova che piange il figlio morto, una folla numerosa e affamata, un uomo rapinato e mezzo morto. La compassione dovrebbe quindi nascere anche in noi quando qualcuno sceglie di guardare e di fermarsi davanti al bisogno e all’esclusione. La parabola del Buon Samaritano mostra bene questo aspetto della compassione. Infatti la differenza tra il sacerdote, il levita e il samaritano è data proprio della compassione, che introduce una svolta radicale nel racconto e nella vita dell’uomo rapinato e mezzo morto al bordo della strada. La compassione cambia radicalmente il rapporto tra i due soggetti: l’uno sente l’altro come parte della sua stessa vita superando l’estraneità che intercorre tra di loro. Questo aspetto istituisce un nuovo rapporto di familiarità e di intimità, simile a quello della madre per il figlio. Se rileggiamo Mt 25,31 ss, dove Gesù si identifica con i poveri, i poveri sono identificati con Gesù stesso, quindi chi li incontra e li soccorre entra a far parte della famiglia di Gesù, perché i poveri sono «i suoi fratelli più piccoli». Per il discepolo si tratta quindi non solo di assistenza a chi si trova nel bisogno, ma di ingresso

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in un nuovo rapporto con Gesù e i poveri, si potrebbe dire l’ingresso in un nuovo popolo, quello che Sofonia chiama «il popolo degli umili e dei poveri» (Sof 2,3). La “compassione” rende quell’uomo “fratello” da amare come se stesso, secondo l’antico comandamento dell’amore. Al termine del racconto è Gesù che pone una domanda al dottore della Legge: «Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». Come si può sapere «chi è il prossimo?». La domanda di quel saggio appariva piuttosto teorica, forse un po’ come alcune inchieste che, pur necessarie, si limitano a offrire dati statistici. Oppure come certi piani pastorali che offrono delle belle descrizioni della diffusione della povertà senza interrogarsi sulle persone che ne sono colpite e sulle scelte da compiere nei loro confronti. Il prossimo si scopre facendosi prossimi, avvicinandosi a chi è nel bisogno e prendendosi cura di lui. Ciò appare ora chiaro anche a quel sapiente che risponde: «Chi ha avuto misericordia di lui». «Misericordia», e non «compassione», come verrebbe la traduzione della Cei, è la traduzione corretta del greco eleos. Compassione e misericordia nei confronti di quel bisognoso costituiscono l’unico agire possibile per imparare a riconoscere l’altro come “prossimo”, cioè colui che dobbiamo amare. E costui si riconosce incontrando il povero, rappresentato da quel malcapitato incappato nei briganti e abbandonato a sé stesso lungo la strada. Solo attraverso la presa in carico di quel poveraccio i discepoli di Gesù potranno vivere pienamente il grande e unico comandamento dell’amore di Dio e del prossimo e potranno avere la vita eterna, come la parabola del giudizio finale nel vangelo di Matteo esplicita con chiarezza. Perciò la conclusione della parabola con l’invito di Gesù: «Va’ e anche tu fa ugualmente». Pag 28 Capovilla: “Caro don Primo…” di Marco Roncalli Una fitta corrispondenza inedita con Mazzolari «Molto Reverendo Signore! Le scrive un giovane prete che non ha ancora fatto niente di buono e di utile nella sua vita e che solo adesso, anche per merito del suo quindicinale, va prendendo fiato e misura il rischio che costa il dire ciò che si deve e ciò che si pensa, per poter amare perdutamente e concretamente i fratelli affidatici dalla Provvidenza. Ho occupato comunque metà dei miei dieci anni di sacerdozio a curarmi i polmoni malati e credo anzi che il Signore mi dirà un giorno che me li sono guastati per amore dei fratelli. La voce di Adesso entra tutta e calda nel mio cuore e lo sconvolge. Il giorno di Natale parlerò, come ogni domenica, dai microfoni di Radio Venezia alle 12,05 sul tema: - La Voce di Adesso […]. Posso pregarLa di un favore? Metta in ascolto uno dei suoi, che la pensi come Lei, perché io possa sentirmi dire se devo continuare […]: i minuti preziosi voglio spenderli non per fare della elegante esegesi, ma una scuola attiva di cristianesimo da attuarsi subito. [...] È da presuntuoso il dire che sento di amare tanto anch’io la causa che Ella agita in nome di Dio?». È il 20 dicembre 1949 quando il sacerdote trentaquattrenne Loris Capovilla - futuro segretario del patriarca Roncalli poi Giovanni XXIII - scrive questa lettera. Destinatario è don Mazzolari: il parroco di Bozzolo del quale conosce - sin dal seminarista - pensiero e scritti: gli articoli sulle testate cattoliche, e i libri, in particolare Impegno con Cristo, pubblicato alla macchia nel ’43 e subito censurato dall’autorità politica. Alla missiva seguiranno presto incontri nella rustica canonica di don Primo, ma soprattutto altri eloquenti testi epistolari, necessaria premessa di ogni futura biografia di Capovilla e che saranno pubblicati in un saggio sul prossimo numero della rivista Impegno della Fondazione Mazzolari che li custodisce. Già all’avvio del 1950 don Loris manda a don Primo le sue radioconversazioni del 25 e 31 dicembre, allegandogli una copia del settimanale diocesano La Voce di S. Marco, del quale si accinge ad assumere la direzione. «Vorrei che divenisse (salvo purtroppo le convenienze di un tal foglio che non può essere libero!) la voce dei poveri e degli apostoli. Non so come me la caverò. Comunque ho promesso a me stesso e più al Signore di non discostarmi dallo spirito di “Adesso”…», così informa Mazzolari. Verso fine anno, il 26 novembre 1950, invece, Capovilla gli invia la sua adesione al raduno delle avanguardie cristiane condividendo il significato di quest’ appuntamento promosso da Mazzolari e Giulio Vaggi, non senza dispensare altri riconoscimenti al quindicinale “Adesso” e abbozzare un quadro della realtà in cui vive (con più d’un rammarico non taciuto come si legge nel testo integrale riportato per la prima volta in questa pagina). Passa il Natale ed ecco nella corrispondenza il rimando al convegno modenese - quello,

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appunto, delle Avanguardie - nel Centro studi francescani gremito di quattrocento persone (dai cristiani progressisti di Ada Alessandrini ai cristiano-sociali di Gerardo Bruni, da politici come il democristiano Ottorino Momoli o preti come Capovilla, e poi giovani studiosi quali Gozzini, Fabro, Scoppola, tutti decisi a riconoscersi fuori dalle organizzazioni di massa e su posizioni di frontiera). «A Modena abbiamo sofferto con Lei e soprattutto abbiamo avvertito la necessità di una maturazione. Noi lo confessiamo, forse per la prima volta,di non essere ancora capaci di amore. Per fortuna sentiamo il dovere di cominciare il noviziato del Vangelo», scrive Capovilla a don Primo il 17 gennaio ’51. Le lettere continuano ininterrotte. «Credo di aver capito:- Non si vive una cosiddetta “prima ora” in attesa di essere chiamati ai posti di comando, con la segreta speranza di immortalare il nome. Si procede consapevoli di morire un attimo dopo l’altro, sforzandosi di donare amore a tutti, anche a quelli di casa. E dire che fino a “Ieri” credevo che il difficile consistesse nel voler bene al prodigo», annota don Loris il 21 febbraio. Poi postilla: «Capisco che questa non è l’ora dei convenevoli e delle visite ma io vorrei esserLe vicino almeno un’ora. Se ho chiesto al Signore che La lascino un po’ solo accanto al “sepolcro” non voglio turbare il suo raccoglimento; se invece non ha niente in contrario verrò domenica 8 aprile a salutarla assieme a tre giovani amici. Le vogliamo tanto bene e preghiamo poter meritare il suo affetto...». Due anni dopo don Loris verrà chiamato accanto al patriarca di Venezia e avrà occasione di inviare a don Primo segni di amicizia suoi e di Roncalli entrambi pronti ad accoglierlo a parole e con i fatti , in patriarchìo e in Vaticano, nonostante fosse stato sanzionato dal Sant’ Uffizio. «Caro don Loris […] Dì a Sua Eminenza che siamo in tanti che gli vogliam bene! E voglio bene a te che gli sei affettuosamente accanto e l’aiuti», scrive Mazzolari dopo un cenno alla carità «ospitale e benigna» indicata da Roncalli in un messaggio con un riferimento all’imminente congresso socialista a Venezia (il primo senza accenti anticlericali). E il 18 novembre 1958, dopo l’elezione di Roncalli al papato, ecco una lettera di don Primo stracolma di affetto sincero e animata da esclusivo spirito di servizio: «Prego perché tu Gli sia vicino sempre con tutto il tuo grande cuore per consolarne la Solitudine. T’abbraccio», la conclude don Primo (si veda il testo in questa pagina). La corrispondenza non sarebbe cessata: «Mio caro don Primo. Del mio silenzio - attesa la bontà Sua - non avrà pensato niente. A mia discolpa, basti questo: che io le fui e le sono sempre vicino. E parlai di Lei al nostro Santissimo Padre, che pure La ricorda con molta affezione e La benedice. Sento dire che verrà presto a Roma il vescovo di Reggio. Avrò grande piacere di incontrarlo. E parleremo di molte cose...», così Capovilla il 26 gennaio ’59. Dieci giorni dopo infatti, il 5 febbraio Mazzolari - storia ormai nota anche nei retroscena - fu ricevuto da Giovanni XXIII che lo ripagò di tante amarezze. «Esco contento», con queste parole don Primo terminò sul diario il racconto di quell’ udienza. Una consolazione giunta per Mazzolari quasi alla vigilia della morte, il 12 aprile ’59, resa possibile da Capovilla che la strappò alle congiure dei Sacri Palazzi. Uno dei gesti che sigillò quell’amicizia che il cardinal Capovilla, mancato un mese fa, non avrebbe mai dimenticato: considerando Mazzolari - per tutta la vita - l’antico maestro che ai suoi occhi «aveva raggiunto alta quota nella montagna delle beatitudini ». Venezia 26. XI 1950 Reverendissimo e carissimo Don Primo! Benché io non rappresenti niente e nessuno, Le mando la mia adesione al raduno delle “avanguardie cristiane”. Gliela mando in nome di una sofferenza originata di sicuro dalla mia insufficienza intellettuale e morale, ma anche da una rivolta interiore al piccolo mondo che minaccia di soffocarci tutti, impedendo che arrischiamo uno schema nuovo, dove la persona non rinnegando la Verità e l’Amore affermi sé stessa non più in un’accozzaglia chiamata società, ma in una società, fusione di membra vive e sane. Quando io lessi su Settimana del Clero la contorta e accomodata polemica sullo spirito di Adesso, ne conclusi che vi è in molti la preconcetta paura di turbare ciò che si crede equilibrio e mentre si va col rallentatore quando si tratta di dare, si preme sull’accelleratore e si aziona il klaxson quando si fugge a precipizio a rifugiarsi nella legalità per non dare niente: né pane, né amore. L’Adesso non ha sviluppato nei preti e

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laici che lo leggono (lo leggono, non lo condannano dopo averne sorvolato un titolo) i germi di ribellione e di ostilità per questo o per quello. Esso rassoda i buoni fondamenti ed abitua al linguaggio del Vangelo e spinge ad osare l’esperimento cristiano. Io non ho fatto niente finora. Mi giustifico dicendo che non ho avuto né l’opportunità, né i mezzi; ma almeno comincio a credere fermamente che si può prendere sul serio la Parola. E forse siamo in molti a credere finalmente. Pare che, approssimandosi le elezioni, qualche altro senta il dovere che pungola dentro ( L’Italia in data 26-XI) e mediti un esame di coscienza sulla firma da apporre sulla scheda elettorale. Per quanto ne so io, a Venezia, siamo ancora a questo punto, quando non si insinui il peggio: polemica “intelligente”, umorismo salace, “signorile” disprezzo nei riguardi degli altri, Mi sbaglierò, dal momento che sono cattivo. Ma intanto non vedo che si amino i lontani e che ci sia prontezza a pensare, almeno a pensare, le grandi avventure del Vangelo, per dare una dimostrazione di buon volere. Il colloquio fraterno? Troppi lo pensano pericoloso. L’ora del Tempio? A proposito di questo mi accontenterei che si formasse la mentalità che in questo secolo d’affamati e di indigenti si è religiosi anche costruendo una casa, ricoverando un vecchio, trovando lavoro ad un disoccupato, mandando all’Università il figlio di un operaio. E invece siamo ancora all’esibizionistica mania del camice col pizzo di Burano o dell’ostensorio tempestato di gemme. Non è questione o meno di aderire alle “Avanguardie cristiane”. Per i più è sordità congenita; è ostilità preconcetta. È tutto uno studio di costringerci a non volere che ilVangelo sia un libro storico. Tragica conclusione: facciamo la tesi della storicità del Vangelo e lo trattiamo come un mito. E in più Lei non sa (ma la suppone) la tragedia interiore di dover dirigere magari un settimanale cestinando i propri pensieri e i propri slanci. Con devoto ossequio e grande affetto. Sac. Loris Capovilla Venezia 26. XI 1950 Mi permetto di aggiungere per il Convegno un giorno dopo Natale. Si pensi che in antecedenza al Natale siamo tutti troppo occupati. Potrebbero andar bene i giorni dal 27 al 29 dicembre. Il Convegno si deve fare anche in pochissimi! Bozzolo 18 novembre 1958 Mio caro don Loris, Ho voluto lasciar passare parecchi giorni prima di farmi vivo. Ti sei trovato al centro di avvenimenti che danno le vertigini anche quando si prendono dalle mani di Dio e mi son guardato dal distrarti dal tuo difficilissimo ufficio. Mi bastava pregare, trepidare, godere con Lui e con te. Prima e durante il Conclave non osai formulare neppure un desiderio, rimettendomi interamente al Signore che ha vie misteriose per la sua Chiesa, ma sempre buone. Però, quando alla radio ho sentito il nome di Angelo Giuseppe Roncalli, il cuore sobbalzò. Tu sai che ho sempre voluto bene al tuo Patriarca e che voglio ancor più bene a Giovanni XXIII, divenuto nostro Padre. E con me tutti i giovani di Adesso gli vogliono bene, i quali oggi respirano assai meglio nella loro fedeltà alla Chiesa e al Pontefice. Te ne sarai reso conto leggendo il loro foglio, se pur hai avuto tempo di scorrerlo. Se t’è mancato, come è giusto, ti metto davanti la loro obbedienza perché, appena puoi, tu la porti in umile, piena e sicura offerta a Sua Santità. Non sono molti, ma sono dei buoni figliuoli che amano veramente la Chiesa e il Papa, e che a Giovanni XXIII non chiedono nulla all’infuori di poterLo servire dai loro ultimi posti, in piedi , come sempre, con passione come sempre. Puoi assicurarlo che da questa parte non ha niente da temere, anche se talvolta potremo procurargli qualche apprensione per certi ardimenti che non sono mai del tutto inutili e neppur pericolosi quando sono suggeriti da un’incontenibile carità. Egli ci può far credito fino in fondo - perdonami la presunzione - poiché tutto è chiaro nei nostri intendimenti,

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e non c’è niente nei nostri propositi ch’egli non possa paternamente benedire. Per fermarci, ci basterà un suo cenno, un suo desiderio. Non ci spaventa il silenzio: non ci spaventa l’attesa. Nella comunione tutto è grazia. Dì a Sua Santità che non useremo mai del Suo nome venerato per coprire i nostri rischi, i nostri errori, le nostre responsabilità. Nell’ora della prova, ci basterà non sentirci fuori del Suo paterno compatimento. In questi non facili momenti, credo che pur certi strani figlioli non siano un di più nella Chiesa, e che certi delicati servizi possano esserle resi soltanto da “bande” alquanto “irregolari”, almeno in apparenza. Tu vedi come mi presento davanti al santo Padre, senza niente, come l’ultimo dei parroci di campagna, ai quali Egli si è riferito con affettuosa degnazione in uno dei suoi paterni discorsi. I nostri parroci Gli vogliono bene anche per questo. Mi metto in ginocchio e domando, con la tua voce, una Benedizione per me, per la mia parrocchia, quella dentro e fuori le mura. Prego perché tu Gli sia vicino sempre con tutto il tuo grande cuore per consolarne la Solitudine. T’abbraccio Tuo don Primo AVVENIRE di sabato 25 giugno 2016 Pag 14 Il Papa: lo spirito ecumenico, esempio e richiamo per tutti “Mostra alla società una concreta via percorribile per armonizzare i conflitti che lacerano la vita civile” Pubblichiamo il discorso pronunciato dal Papa durante la visita di preghiera alla Cattedrale armeno apostolica della Santa Etchmiadzin. Santità, venerato fratello, supremo patriarca e catholicos di tutti gli armeni, carissimi fratelli e sorelle in Cristo! Con commozione ho varcato la soglia di questo luogo sacro, testimone della storia del vostro popolo, centro irradiante della sua spiritualità; e considero un prezioso dono di Dio potermi avvicinare al santo altare dal quale rifulse la luce di Cristo in Armenia. Saluto il catholicos di tutti gli armeni, sua santità Karekin II, che ringrazio di cuore per il gradito invito a visitare la Santa Etchmiadzin, gli arcivescovi e i vescovi della Chiesa apostolica armena, e ringrazio tutti per la cordiale e gioiosa accoglienza che mi avete offerto. Grazie, santità, per avermi accolto nella sua casa; tale segno di amore dice in maniera eloquente, molto più delle parole, che cosa significhino l’amicizia e la carità fraterna. In questa solenne occasione rendo grazie al Signore per la luce della fede accesa nella vostra terra, fede che ha conferito all’Armenia la sua peculiare identità e l’ha resa messaggera di Cristo tra le Nazioni. Cristo è la vostra gloria, la vostra luce, il sole che vi ha illuminato e vi ha donato una nuova vita, che vi ha accompagnato e sostenuto, specialmente nei momenti di maggiore prova. Mi inchino di fronte alla misericordia del Signore, che ha voluto che l’Armenia diventasse la prima Nazione, fin dall’anno 301, ad accogliere il cristianesimo quale sua religione, in un tempo nel quale nell’impero romano ancora infuriavano le persecuzioni. La fede in Cristo non è stata per l’Armenia quasi come un abito che si può indossare o togliere a seconda delle circostanze o delle convenienze, ma una realtà costitutiva della sua stessa identità, un dono di enorme portata da accogliere con gioia e da custodire con impegno e fortezza, a costo della stessa vita. Come scrisse san Giovanni Paolo II, «col “Battesimo” della comunità armena, […] nasce un’identità nuova del popolo, che diverrà parte costitutiva e inseparabile dello stesso essere armeno. Non sarà più possibile da allora pensare che, tra le componenti di tale identità, non figuri la fede in Cristo, come costitutivo essenziale» (Lett. ap. nel 1700° anniversario del battesimo del popolo armeno [2 febbraio 2001], 2). Voglia il Signore benedirvi per questa luminosa testimonianza di fede, che dimostra in modo esemplare la potente efficacia e fecondità del Battesimo ricevuto più di millesettecento anni fa con il segno eloquente e santo del martirio, che è rimasto un elemento costante della storia del vostro popolo. Ringrazio il Signore anche per il cammino che la Chiesa cattolica e la Chiesa apostolica armena hanno compiuto attraverso un dialogo sincero e fraterno, al fine di giungere alla piena condivisione della Mensa eucaristica. Lo Spirito Santo ci aiuti a realizzare quell’unità per la quale pregò nostro Signore, affinché i suoi discepoli siano una cosa sola e il mondo creda. Mi è caro

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qui ricordare il decisivo impulso dato all’intensificazione dei rapporti e al rafforzamento del dialogo fra le nostre due Chiese nei tempi recenti dalle loro santità Vasken I e Karekin I, da san Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI. Tra le tappe particolarmente significative di questo impegno ecumenico ricordo la commemorazione dei 'Testimoni della fede del XX secolo', nel contesto del Grande Giubileo dell’anno 2000; la con- segna a vostra santità della reliquia del Padre dell’Armenia cristiana san Gregorio l’Illuminatore per la nuova cattedrale di Erevan; la Dichiarazione congiunta di sua santità Giovanni Paolo II e di vostra santità, sottoscritta proprio qui nella Santa Etchmiadzin; e le visite che vostra santità ha compiuto in Vaticano in occasione di importanti eventi e commemorazioni. Il mondo è purtroppo segnato da divisioni e conflitti, come pure da gravi forme di povertà materiale e spirituale, compreso lo sfruttamento delle persone, persino di bambini e anziani, e attende dai cristiani una testimonianza di reciproca stima e fraterna collaborazione, che faccia risplendere davanti ad ogni coscienza la potenza e la verità della Risurrezione di Cristo. Il paziente e rinnovato impegno verso la piena unità, l’intensificazione delle iniziative comuni e la collaborazione tra tutti i discepoli del Signore in vista del bene comune, sono come luce fulgida in una notte oscura e un appello a vivere nella carità e nella mutua comprensione anche le differenze. Lo spirito ecumenico acquista un valore esemplare anche al di fuori dei confini visibili della comunità ecclesiale, e rappresenta per tutti un forte richiamo a comporre le divergenze con il dialogo e la valorizzazione di quanto unisce. Esso inoltre impedisce la strumentalizzazione e manipolazione della fede, perché obbliga a riscoprirne le genuine radici, a comunicare, difendere e propagare la verità nel rispetto della dignità di ogni essere umano e con modalità dalle quali traspaia la presenza di quell’amore e di quella salvezza che si vuole diffondere. Si offre in tal modo al mondo – che ne ha urgente bisogno – una convincente testimonianza che Cristo è vivo e operante, capace di aprire sempre nuove vie di riconciliazione tra le nazioni, le civiltà e le religioni. Si attesta e si rende credibile che Dio è amore e misericordia. Cari fratelli, quando il nostro agire è ispirato e mosso dalla forza dell’amore di Cristo, si accrescono la conoscenza e la stima reciproche, si creano migliori condizioni per un cammino ecumenico fruttuoso e, nello stesso tempo, si mostra ad ogni persona di buona volontà e all’intera società una concreta via percorribile per armonizzare i conflitti che lacerano la vita civile e scavano divisioni difficili da sanare. Dio Onnipotente, Padre del nostro Signore Gesù Cristo, per intercessione di Maria Santissima, di san Gregorio l’Illuminatore, “colonna di luce della Santa Chiesa degli Armeni”, e di san Gregorio di Narek, Dottore della Chiesa, benedica tutti voi e l’intera Nazione Armena e la custodisca sempre nella fede che ha ricevuto dai padri e che ha gloriosamente testimoniato nel corso dei secoli. CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 giugno 2016 Pag 32 Il coraggio di Papa Francesco sul genocidio degli armeni di Gian Guido Vecchi Il testo scritto conteneva l’espressione «Metz-Yeghérn», il «Grande male», per il popolo armeno, analoga alla Shoah degli ebrei. Ma quando Francesco, nel Palazzo presidenziale di Erevan, è arrivato al passaggio più delicato, l’evocazione dello sterminio patito nel 1915 dagli armeni sotto l’Impero ottomano, si è capito che non bastava. Il Papa ha alzato lo sguardo dal testo scritto e, dopo una pausa, ha sillabato: «Genocidio». L’anno scorso la Turchia, per la quale quella parola è innominabile, richiamò per diversi mesi il proprio ambasciatore in Vaticano perché Bergoglio, citando Wojtyla, aveva definito quello degli armeni come il «primo genocidio del XX secolo». Erdogan non l’aveva presa bene, la stessa reazione avuta all’inizio del mese contro la Germania. Pazienza, probabile che il Papa l’avesse messo in conto, questa mattina visiterà il Memoriale di Tzitzernakaberd. Eppure l’essenziale, qui, sta nel contesto. Francesco è atterrato ieri a Yerevan in una giornata opaca che velava all’orizzonte il Monte Ararat, dove la Genesi racconta si sia posata l’Arca di Noè dopo il Diluvio. È la pace al centro del viaggio nel Caucaso. Dialogo, collaborazione tra Stati, composizione dei conflitti. Qui le frontiere sono esposte alla guerra, a fine settembre il Papa tornerà nella regione visitando Georgia e Azerbaigian. Il «Grande male», ha ripetuto, fu il primo dei genocidi del secolo breve. E la memoria non serve a coltivare risentimento, ma a costruire un futuro diverso: «Avendo davanti ai nostri occhi gli esiti nefasti a cui condussero nel secolo

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scorso l’odio, il pregiudizio e lo sfrenato desiderio di dominio, auspico vivamente che l’umanità sappia trarre da quelle tragiche esperienze l’insegnamento ad agire con responsabilità e saggezza per prevenire i pericoli di ricadere in tali orrori». LA REPUBBLICA di sabato 25 giugno 2016 Pag 24 Il Papa in Armenia: “Fu genocidio” di Marco Ansaldo Bergoglio a Erevan torna a condannare il massacro del 1915 Erevan. «Genocidio». Nel cuore dell'Armenia, dal pulpito del Palazzo presidenziale di Erevan, e simbolicamente all' ombra del Monte Ararat, il Papa pronuncia il termine "proibito" in Turchia. E lo fa in maniera esplicita. Senza appoggiarsi a citazioni di altri Pontefici o a dichiarazioni di udienza davanti a gruppi di fedeli. Per la prima volta Francesco, riferendosi al massacro degli armeni di 101 anni fa da parte dell'Impero Ottomano, parla di «genocidio» con una frase che porta direttamente la sua firma. Jorge Bergoglio lo ha fatto a braccio, all'improvviso, rendendo così ancora più forte l'impatto delle sue parole. Il termine contestato non c'era nei discorsi ufficiali distribuiti ai media alla partenza per il viaggio apostolico di tre giorni in Armenia. Era invece presente una versione più edulcorata, sicuramente forte, ma che non conteneva "la" parola, riferendosi genericamente al Metz Yeghern, il Grande male. Però ieri pomeriggio, davanti al presidente armeno Serzh Sargsyan e dopo aver incontrato il catholicos armeno Karekin II, si vedeva che Bergoglio aveva dentro di sé qualcosa che intendeva esprimere, e fino a quel momento non aveva fatto. «Non c'è stata preparazione - assicura a Repubblica padre Antonio Spadaro, direttore della rivista La Civiltà Cattolica, gesuita come Bergoglio e finissimo esegeta del pensiero di Francesco - Ha deciso all'ultimo, come fa sempre, scegliendo di dire quello che pensava. Una presa di posizione resa ancora più forte dalle parole ferme sulle responsabilità delle grandi potenze a quel tempo». Così il Papa. «Quella tragedia» - ha detto seguendo il foglio del discorso -, «quel genocidio» - ha poi affermato facendo qui la sua aggiunta -, «inaugurò purtroppo il triste elenco delle immani catastrofi del secolo scorso, rese possibili da aberranti motivazioni razziali, ideologiche o religiose, che ottenebrarono la mente dei carnefici fino al punto di prefiggersi l'intento di annientare interi popoli». E subito: «È tanto triste pensare che le grandi potenze internazionali preferivano guardare dall'altra parte». Si attendono ora le reazioni da Ankara, che si immaginano veementi. Di recente la Turchia ha richiamato l'ambasciatore in Germania dopo il sì del Bundestag alla risoluzione sul genocidio armeno, protestando contro l'«errore storico». E solo da pochi mesi è rientrato presso la Santa Sede, dopo nove mesi di assenza, l'ambasciatore turco presso il Vaticano, anch'egli richiamato in patria dopo altre affermazioni del Papa sul genocidio. La Turchia non nega il massacro, ma non ammette il termine di genocidio, giustificando i fatti con l' atmosfera di guerra alla vigilia del Primo conflitto mondiale, e considerando i numeri eccessivi. A Erevan si parla di 1,5 milioni di morti. Ad Ankara di una cifra fra le 300 e le 500mila vittime. Una vicenda che da tempo la Turchia chiede sia studiata dagli storici, e non dai politici, confrontando tutti i documenti a disposizione. Pag 24 Sprechi e mala gestione, così il tesoro della Chiesa non basta nemmeno per lo stipendio dei preti di Andrea Gualteri Vale almeno 5 miliardi il patrimonio immobiliare degli Istituti per il sostentamento del clero, le casseforti create nel 1985 per gestire tutti i beni della Chiesa italiana che non sono utilizzati per attività ecclesiali o sociali e che possono produrre profitto. Un tesoretto di fabbricati e terreni affidato alle diocesi ma eroso da errori di gestione, trascuratezze e difficoltà oggettive che lo rendono quasi improduttivo. E che costringono a bruciare ampie fette dell'otto per mille. Cinque miliardi, in realtà, è una stima per difetto perché nessuno sa quantificare con precisione la cifra complessiva. Gli enti ecclesiastici non sono tenuti infatti a presentare un bilancio e i vertici della Cei hanno dovuto avviare un censimento aggiornato, anche perché il valore effettivo di molti beni si è ridimensionato nel tempo per la scarsa manutenzione, per la crisi che ha colpito proprietà agricole e immobiliari, ma anche per un'amministrazione locale spesso superficiale o sbagliata e in alcuni casi addirittura dolosa. Di certo c'è solo che la cifra ricavata ogni anno come rendita non va oltre i 50 milioni di euro, un decimo del valore

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patrimoniale ipotizzato. E così gli istituti che sono nati per coprire le spese per l'indennità dei sacerdoti - compresa tra i 900 euro per un prete di prima nomina e i 1.400 per un vescovo a fine mandato - alla fine riescono a garantire appena il nove per cento del fabbisogno. Ed è una media trascinata da Emilia Romagna (26 per cento) e Lombardia (23), perché nel resto d'Italia la situazione è catastrofica: Sicilia, Calabria e Sardegna non arrivano nemmeno all' uno per cento della somma necessaria (che oscilla tra i 15 milioni della Sardegna e i 42 della Sicilia) mentre altre cinque Regioni, tra le quali la Liguria e soprattutto il Lazio, ricchissimo di immobili ecclesiali, coprono ciascuna una porzione inferiore al tre per cento. E se in cassaforte non ci sono soldi, le diocesi attingono all'otto per mille, riducendo così la disponibilità per le opere di carità che da Roma si raccomanda invece di incrementare. Anche quest'anno, a salire più delle altre è stata proprio la quota usata per sostenere il clero: in totale sono stati prelevati 350 milioni di euro, oltre un terzo dell' intero fondo destinato alla Chiesa cattolica, 23 milioni in più rispetto al 2015 e 80 in più rispetto a quelli che la Cei è riuscita a riservare per gli interventi di sostegno ai bisognosi, che sono pure aumentati, ma di appena 5 milioni. E questo nonostante i sacerdoti siano sempre meno e sia cresciuta la loro età media, con la conseguente impennata di coloro che ricevono una pensione di anzianità e che quindi non hanno bisogno dell'indennità. Ma allora dove si disperde il patrimonio affidato alle casseforti della Chiesa italiana? A maggio, nel presentare i conti approvati dall'assemblea dei vescovi, il presidente della Cei Angelo Bagnasco ha ammesso che si dovrebbe intervenire sulla rete diocesana del sostentamento clero: «Il padre di famiglia si interessa che il tetto non faccia acqua», ha detto il cardinale, precisando però che finora non sono scattati commissariamenti. Il primo rimedio che si profila è l'accorpamento che sfoltirà i 218 istituti presenti nelle 226 diocesi. E non sarà difficile individuare quali tagliare. Ce ne sono alcuni, infatti, che non arrivano nemmeno a chiudere i conti in attivo, col risultato che organismi ideati per assicurare una rendita si riducono a pesare sui bilanci delle curie. Questo perché negli anni c'è stato chi ha ceduto alla tentazione del clientelismo. A partire dalla gestione del personale: «Quando mi sono insediato - racconta un vescovo di una piccola diocesi del Sud peninsulare - ho trovato un numero di dipendenti sproporzionato e non c' erano rendite sufficienti nemmeno a pagare i loro stipendi». Poi aggiunge: «Ho tenuto un solo impiegato e ho rinnovato tutto il consiglio d' amministrazione. Ora almeno il bilancio è tornato sano: non è con strutture inefficienti che si generano posti di lavoro». Più difficile da curare, per molte diocesi, è la piaga degli immobili concessi in affitto a cifre improbabili. Difficile infatti pensare, ad esempio, che un magazzino sul corso principale di una cittadina turistica della Sicilia possa rendere solo trenta euro al mese. E dato che a beneficiare dei canoni al ribasso non sono solo i più bisognosi, c'è chi sta provando a rimediare, affidando ad agenzie immobiliari il compito di valutare i parametri di mercato per rinegoziare gli affitti. Ma in alcune zone va anche peggio, perché c'è da fare i conti con i morosi: in una ricca diocesi dell' Emilia, addirittura un inquilino su dieci non paga da anni. Contenziosi di fronte ai quali i vescovi lamentano di sentirsi disarmati: le spese per una causa legale sono alte, i tempi lunghi ed elevato è il rischio del danno d'immagine per un ente ecclesiale che impone uno sfratto. In molti casi, poi, si aggiungono le complicazioni strutturali: i beni degli istituti, frutto di donazioni avvenute nei decenni passati, a volte sono stati abbandonati senza interventi né controlli. E così ci sono immobili che cadono a pezzi, terreni agricoli sui quali sono stati costruiti edifici abusivi o che sono stati suddivisi e subaffittati illecitamente. Un campo minato nel quale la Cei teme di veder nascere scandali e tracolli economici. «Serve un rapporto più organico con l'istituto centrale perché nessuna diocesi si trovi in difficoltà all'improvviso», ha detto Bagnasco che però, secondo lo statuto della Cei, non può forzare la mano rispetto al potere delle singole curie. Negli ultimi anni, in realtà, sono spesso proprio i vescovi a chiedere l'aiuto di Roma, specie quando si insediano in una diocesi e temono di trovare nei conti sorprese sgradite. «È stata creata una task force a loro disposizione», spiega Carlo Bini, direttore dell'Istituto centrale sostentamento del clero, la struttura che fino a poco tempo fa veniva utilizzata solo per redigere le buste paga dei preti e che ora ha pure il compito di vigilare sulle transazioni immobiliari per importi superiori ai 250mila euro. È l' operazione trasparenza che sta a cuore anche al segretario della Cei Nunzio Galantino: «Le maglie del controllo adesso sono più strette», commenta Bini. Basterà a salvare il tetto che fa acqua?

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IL FOGLIO di sabato 25 giugno 2016 Pag III Il monaco che non c’è di Matteo Matzuzzi Ma non ci sono più nemmeno i benedettini né i cappuccini. Gli ordini religiosi al tempo di Francesco I vecchi seminari sono lì, monumentali e austeri, con parchi ampi e cancelli arrugginiti. Dietro l'inferriata, sovente si scorge qualche vetro rotto, sterpaglie ovunque, silenzio tombale. Cattedrali nel deserto dove non passa più neppure il giardiniere. E' la sorte toccata a certe chiesette medievali di campagna, crollate su se stesse, vuoi per la forza degli elementi naturali o perché a un certo punto nessuno s'è più occupato di esse. Un po' come accaduto a Cluny, che secoli addietro fu la più grande e ricca abbazia della cristianità, fondata nel 910 da Guglielmo d'Aquitania e di cui oramai "restano in piedi soltanto il campanile dell'Acqua benedetta e una parte, sventrata, del transetto maggiore. Oggi per vedere Cluny bisogna immaginarla", scriveva lo storico Glauco Maria Cantarella. Resti di un tempo finito, di un'èra in cui fiumane di bambini entravano lì dentro non solo per farsi preti (almeno, non solo per questo), ma soprattutto perché spinti dai padri a uscire dal destino che la Provvidenza aveva consegnato alla famiglia, di generazione in generazione. Studio anziché lavoro nelle botteghe o nei campi, latino e greco antico invece di scalpello e roncola. Declinazioni e paradigmi verbali imparati a memoria sul vecchio Rocci, fino alle ore piccole, per poi ricordarseli fino alla vecchiaia. Compatendo figli e nipoti che più in là del rosa-rosae non sapevano andare, così impegnati a scaricare l'ultima app o a chattare su Facebook con l'amico virtuale conosciuto poche ore prima su qualche bacheca. Perché quella, dopotutto e nonostante tutto, era una scuola sì di vita, ma che formava pure l'intelletto: mens sana. Un'epoca morta, che non tornerà. E i seminari chiusi sono lì a ricordarlo. A volte va meglio, certo. In quelle aule austere dal soffitto alto spesso siedono studenti delle laicissime facoltà universitarie, sempre a corto di spazi dove far mettere matricole svogliate e laureandi ansiosi. I seminari che ci sono ancora, magari una sede per regione, conseguenza di burocratiche unioni e necessari accorpamenti per rimpolpare le schiere di candidati al sacerdozio, sono poco frequentati. Si dice che ormai il parametro sia la qualità, più che la quantità - il che sa tanto di rassegnazione. E che nel poco può esserci il meglio, decidendo di anteporre sempre la qualità evangelica di vita al numero di membri o al mantenimento delle opere. Anche se questo significa che parrocchie più o meno grandi saranno costrette a rimanere senza sacerdote, senza messa. Senza ultimo pio e pietoso conforto per gli agonizzanti. Nell'occidente delle chiese vuote accade già da decenni, in Italia meno benché la tendenza sia assai chiara e la strada tracciata. Il discorso vale pure per gli ordini e le congregazioni religiose, colpiti dalla secolarizzazione e ridotti a fare da conto tra morti, abbandoni e pochi ingressi. "Vi confesso - diceva il Papa lo scorso febbraio in occasione del Giubileo della vita consacrata - che a me costa tanto quando vedo il calo delle vocazioni, quando ricevo i vescovi e domando loro: 'Quanti seminaristi avete?' 'quattro, cinque...'. Quando voi, nelle vostre comunità religiose - maschili o femminili - avete un novizio, una novizia, due... e la comunità invecchia, invecchia. Quando ci sono monasteri, grandi monasteri, che sono portati avanti da quattro o cinque suore vecchiette, fino alla fine. E a me questo fa venire una tentazione che va contro la speranza: 'Ma, Signore, cosa succede? Perché il ventre della vita consacrata diventa tanto sterile?'". Più che sul solito refrain del calo delle vocazioni, pur grave e minaccioso, Bergoglio poneva l'accento sull'invecchiamento e quindi sull'intorpidimento di intere comunità. Il rischio, insomma, di badare al quotidiano, conservando il passato nella teca dei ricordi e con ben poca propensione all'uscita e al rinnovamento. Che poi è anche quanto scriveva tempo fa Vittorio Messori, quando notava che "nella prospettiva di fede nulla può esserci di davvero inquietante". Anche se l'immagine che si presenta gli occhi dell'osservatore è sempre più spesso quella di vecchi monaci ricurvi che incedono lenti sotto le volte di qualche chiostro benedettino, in monasteri dove un tempo neppure troppo lontano ne passavano, con passo svelto, a decine. Per non parlare di monasteri già affollati di religiose che oggi contano sulle dita d'una mano le anziane custodi di un carisma che sopravvive benché appannato. Il bilancio, nell'Europa del quaerere Deum, cioè del "cercare Dio e del lasciarsi trovare da lui" - "questo oggi non è meno necessario che in tempi passati", disse Benedetto XVI

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parlando nel 2008 al Collegio dei Bernardini di Parigi - è quello che è, "ma non dobbiamo commettere l'errore di concentrarci sulla mancanza di vocazioni. Se cambieremo la vita della chiesa, allora avremo il numero di vocazioni di cui la chiesa avrà bisogno", ha detto fra Bruno Cadoré, maestro dell'Ordine dei Frati Predicatori nel libro "Viaggio nella vita religiosa", di Riccardo Benotti, edito di recente della Libreria Editrice Vaticana. E' anche un invito a cambiare prospettiva, a guardare la situazione partendo da un punto di vista diverso che non sia quello della mera contabilità numerica: "Credo ci sia un problema di vocazioni e di vocazione", ammette don Flavio Peloso, superiore generale degli Orionini, che però non sembra essere angosciato dalla riduzione dei confratelli: "Io da tanto tempo non parlo e non prego per le vocazioni se non dopo averlo fatto per la nostra vocazione di consacrati. Vedo la matrice della crisi di vocazioni e di vocazione nell'individualismo della cultura odierna, che ci pervade tutti, che fa ritenere troppo impegnativa una consacrazione perpetua e una forma di vita comunitaria come quella dei religiosi". Mons. José Rodriguez Carballo, segretario della congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, invitava già tre anni fa a non "lasciarci ossessionare dal tema" della mancanza di vocazioni, dal mo mento che "ogni ossessione è negativa". "Non entro qui nel dibattito se la crisi della quale si parla sia positiva o no. E' certo, tuttavia, che, tenendo conto del numero degli abbandoni e che la maggioranza di essi accade in età relativamente giovane, detto fenomeno è preoccupante", sottolineava Rodriguez Carballo: "D'altra parte, considerando il fatto che l'emorragia continua e non accenna a fermarsi, gli abbandoni sono certamente sintomo di una crisi più ampia nella vita religiosa e consacrata, e la mettono in questione, per lo meno nella forma concreta in cui è vissuta". Insomma, bando ai bilancini e alle lamentele. Dopotutto, ha scritto Séan D. Sammon su America magazine, la rivista dei gesuiti statunitensi della East coast, bisogna prendere atto di quanto sia improbabile che le varie forme di vita consacrata presenti nella chiesa si rinnoveranno tutte allo stesso modo o arriveranno al medesimo risultato. Bisogna contestualizzare, tornare alle origini, al perché quegli ordini e quelle congregazioni sono nati. Al loro quaerere Deum, appunto. "Sono espressioni apostoliche che risalgono a tempi specifici della storia che presentavano sfide uniche". Sfide che in tanti casi sono state vinte, facendo venire meno l'esistenza stessa di quell'ordine o congregazione. Una sorte di ineluttabile morte naturale, una parabola che prima o poi si chiude, senza drammi e lacerazioni. Tre sono le strade che si hanno dinanzi: l'estinzione, la sopravvivenza minima (eufemismo che in realtà significa più banalmente un'esistenza in stato vegetativo), il rinnovamento. "Alcune congregazioni hanno adempiuto al loro scopo nella chiesa e cesseranno d'esistere. Altre continueranno, ma con un'adesione significativamente ridotta. Altre ancora potranno rinnovarsi, ma per farlo dovranno in primo luogo mostrarsi coraggiose nel rispondere alle vere sfide nel mondo e nella chiesa", aggiungeva Sammon, che nella sua disamina procedeva con logica aristotelica. "La prima cosa evidente a tutti è che siamo in un mondo in profonda trasformazione. Si tratta di un cambiamento che porta con sé il passaggio dalla modernità alla post modernità - Giacomo Biffi sosteneva che a forza di inseguire la modernità, gli ordini religiosi si sono "disciolti in essa". "Viviamo - proseguiva Rodriguez Carballo - in un tempo caratterizzato da cambiamenti culturali imprevedibili: nuove culture e sottoculture, nuovi simboli, nuovi stili di vita e nuovi valori. Il tutto avviene a una velocità vertiginosa". Il fatto è che ormai "le certezze e gli schemi interpretativi globali e totalizzanti che caratterizzavano l'èra moderna hanno lasciato il posto alla complessità, alla pluralità, alla contrapposizione di modelli di vita e a comportamenti etici che si sono invischiati tra loro in modo disordinato e contraddittorio: sono tutte caratteristiche dell' èra post moderna". E' anche la tentazione di accogliere chiunque si presenti alla porta della congregazione o del monastero è sempre in agguato. E' l'illusione di allungare artificialmente la vita a chi ormai è avviato verso la morte naturale e ineluttabile. Francesco lo fece bene intendere, quando osservò che "alcune congregazioni fanno l'esperimento della 'inseminazione artificiale'. Che cosa fanno? Accolgono...: 'Ma sì, vieni, vieni, vieni...'. E poi i problemi che ci sono lì dentro... No. Si deve accogliere con serietà! Si deve discernere bene se questa è una vera vocazione e aiutarla a crescere. E credo che contro la tentazione di perdere la speranza, che ci dà questa sterilità, dobbiamo pregare di più. E pregare senza stancarci". Parlando ai Superiori generali, nel 2013, il Pontefice aveva notato come ci siano "chiese che stanno dando frutti nuovi. Forse una volta non erano così feconde, ma adesso lo sono",

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aggiungeva: "Ciò obbliga a ripensare l' inculturazione del carisma. Il carisma è uno, ma bisogna viverlo secondo i luoghi, i tempi e le persone. Il carisma non è una bottiglia di acqua distillata. Bisogna viverlo con energia, rileggendolo anche culturalmente". Il problema è capire se si è ancora di sposti a sperimentare la conversione personale e - soprattutto - sottolineava ancora Sammon - se vi è la capacità di ritrovare lo spirito del carisma che pose le basi per la fondazione dell' ordine e della congregazione. La capacità di aggiornarsi e rigenerarsi, non perdendo di vista le radici ma attualizzando il messaggio per stare nel mondo. Si tratta anche di sapersi rendere credibili, questione che si lega indissolubilmente alla capacità attrattiva di un carisma che può essere logorato e percepito come antiquato. L'aveva spiegato bene Soren Kierkegaard, con il celebre esempio del clown che in Danimarca chiedeva aiuto per l'incendio devastante senza essere ascoltato. Il pagliaccio, naso rosso e vestito a pois, si precipitò correndo a perdifiato fino al villaggio più vicino, chiedendo a tutti quanti incontrava di darsi da fare per spegnere le fiamme. Non ci fu nulla da fare: più s'agitava, più otteneva risate da parte della "platea" lì presente, che scambiò l'agitazione per un trucco del mestiere. Al povero clown scendevano le lacrime, giurava che era tutto vero, ma quel naso rosso e quella casacca appariscente non lo rendevano credibile. Quando gli abitanti del villaggio compresero che non si trattava d' una sciocca gag ben presentata, era troppo tardi. L'incendio aveva vinto. E' un problema di come si presenta il messaggio, dunque. Scrive Benotti che "la difficoltà di farsi ascoltare dagli uomini nell' annuncio della fede pone spesso i consacrati allo stesso livello del clown: più si affannano per mostrare la bellezza di una parola che libera, meno vengono accolti e compresi". Ma c'è dell'altro, aggiunge: "Per essere creduti, sembra dirci Kierkegaard, bisogna essere credibili. Le persone non tollerano la contraddizione. Se indosso i panni di un pagliaccio, rideranno per quello che dirò. Non saranno disposte a prendermi sul serio ma accetteranno di seguirmi nel divertimento della recita, fino a quando vedranno con i loro occhi il circo che brucia e sentiranno sulla loro pelle il calore delle fiamme". Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA Pag 14 I dieci punti deboli dell’Italia che arranca di Sergio Rizzo Quali sono i motivi per cui non miglioriamo nella classifica dei Paesi dove è facile fare impresa «Impressive». Proprio così il Fondo monetario internazionale ha definito l’elenco delle riforme messe in cantiere da Matteo Renzi: «impressionante». Nessun altro governo italiano in tempi recenti è stato destinatario di una tale apertura di credito da parte di Washington. Anche se per ora è tutto molto limitato, appunto, alle impressioni. Per esempio, al pari della lista delle riforme è impressionante quella delle palle al piede che la nostra economia ha ancora rispetto al resto dell’Unione Europea. Con o senza la Gran Bretagna. Entrando a Palazzo Chigi all’inizio del 2014 Renzi aveva promesso una scalata vertiginosa alla classifica dei Paesi dove è più facile fare impresa, che collocava l’Italia in un’avvilente casella numero 65: il proposito era di guadagnare 50 posizioni entro il 2018. Per ora l’Italia ne ha recuperate 20. Nella graduatoria di Doing business siamo saliti a 45. Ancora lontanissimi da Spagna (33), Francia (27) e Germania (15). Per non parlare della Gran Bretagna (sesta assoluta) che ci straccia letteralmente, rifilandoci un distacco di 39 posizioni. Recuperare ancora sarà possibile solo liberandosi di alcune di quelle zavorre. La più gravosa delle quali, secondo la Banca Mondiale, è il livello di tassazione delle imprese: per questa voce l’Italia ha risalito appena una posizione, passando dalla 138 alla 137. Che su un totale di 189 Paesi non può essere definita una performance entusiasmante. Nella relazione che verrà presentata all’assemblea della Confartigianato di domani, l’ufficio studi argomenta che la pressione complessiva sulle imprese di minore dimensione supera di 16,7 punti la media dell’Ue. Toccherebbe infatti il 64,8% del risultato operativo lordo contro il 48,1% europeo. E non è che una delle dieci palle al piede che Confartigianato indica come il freno più consistente alla crescita. C’è il cosiddetto divario digitale, per cui gli utenti che dialogano online con la pubblica

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amministrazione sono ancora il 20,3% a fronte del 36,2 medio continentale. La lunghezza dei procedimenti civili, con 1.120 giorni per risolvere una disputa commerciale, ovvero oltre il doppio dei 543 medi europei. I tempi di pagamento della pubblica amministrazione, 131 giorni a fronte di 51: un ritardo che si riflette anche sui pagamenti fra le stesse imprese, per cui servono 80 giorni anziché 39. Quindi il costo dell’energia elettrica, più alto del 29,8%. L’inadeguatezza delle infrastrutture, indicata come un serio problema dall’82% degli imprenditori italiani, contro il 46% degli europei. La corruzione, ritenuta un pericolo mortale dal 60% degli intervistati in uno speciale sondaggio: 20 punti in più del valore europeo. E poi la burocrazia, considerata un peso insormontabile dall’86% degli operatori economici, con la magra consolazione che ci sono più scontenti in Grecia (95) e addirittura in Francia (89). «La battaglia per semplificare gli adempimenti amministrativi - ironizza il presidente della Confartigianato Giorgio Merletti - non si vince insistendo a fare norme di semplificazione che poi rimangono sulla carta. Bisogna semplicemente semplificare la semplificazione. Attuare leggi che esistono già, eliminare quelle inutili, superare la frammentazione di competenze e fidarsi un po’ di più dei pericolosi imprenditori». Sembra facile. All’atto pratico, però, scopriamo che una legge come quella sui fabbisogni standard degli enti locali, che avrebbe dovuto rendere più equa la distribuzione delle risorse (già magre) fra i Comuni rendendoli anche più efficienti è stata approvata sette anni fa senza essere stata applicata. E questo nonostante la questione dei servizi pubblici sia una di quelle pesanti palle al piede del Paese. Basta dire che la loro qualità soddisfa in Italia appena il 39% di cittadini, 22 in meno rispetto alla media continentale (61%). Le ragioni? Innanzitutto le tariffe continuamente in crescita: nei cinque anni conclusi ad aprile 2016 l’aumento dei prezzi italiani è stato del 17,5%, 13 punti più dell’inflazione, e nonostante un calo del 5,5% del potere d’acquisto delle famiglie. Il rapporto della Confartigianato segnala che per i soli servizi non energetici (acqua, rifiuti e trasporti) si è registrato un rincaro del 22%, quasi doppio rispetto all’aumento registrato nell’eurozona. Il record è per le tariffe dei servizi idrici, salite del 34,8%, 21,3 punti più dell’area della moneta unica. Il fatto è che a dinamiche così sostenute dei prezzi, peraltro in stretta relazione con il fatto che quei servizi sono erogati da imprese per il 95% pubbliche e non particolarmente efficienti, corrispondono spesso prestazioni assai scadenti. Prova ne sia il fatto che fra le 83 città europee esaminate in una indagine della Commissione europea dedicata alla qualità della vita connessa ai servizi pubblici locali, le ultime tre posizioni sono occupate da Palermo, Roma e Napoli. Con la seconda che ha un poco invidiabile primato nella percezione degli intervistati. Quello di capitale più sporca del continente. LA STAMPA Familisti e individualisti. Ecco l'identikit degli italiani di Daniele Marini Concentrati su se stessi e con scarsa capacità di avere obiettivi condivisi. Perché le

tradizioni sociali e culturali di lungo periodo tendono a prevalere Italia, popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori e trasmigratori: queste qualità - enunciate da Mussolini all'epoca delle conquiste coloniali - sono rimaste nella rappresentazione sociale, oltre che impresse nel marmo del Palazzo della civiltà italiana all' Eur. Altri, prima e dopo, hanno messo in luce ulteriori aspetti, ora positivi, ora negativi che hanno provato a descrivere gli italiani. Al di là delle valutazioni, l'aspetto di rilievo è legato all'edificazione di un immaginario collettivo in cui potersi riconoscere e identificare. Costruire la rappresentazione di una collettività, piuttosto che di un territorio o di un prodotto, assume oggi un aspetto qualificante. Per affermare un' idea, un progetto, per indicare una direzione da seguire, è necessario dotarsi di un orizzonte comune, di significati condivisi. È sufficiente rinviare a quanto impegno dedicano le imprese per imporre il brand dei propri prodotti per comprendere come la costruzione di un' identità sia un obiettivo economico-strategico. Ma è altrettanto strategico dal punto di vista politico e sociale. In una realtà complessa come la nostra è fondamentale offrire elementi di definizione. A maggior ragione se consideriamo la storia del nostro Paese, in cui municipalismi e localismi hanno rappresentato il tratto fondativo. In cui i particolarismi sociali e il corporativismo contrassegnano ancora ampi settori. Cambiare le regole Basti pensare a cosa accade quando si cerca di cambiare le regole - aprendo al mercato - settori dell'economia: dai farmacisti, ai taxisti, passando per gli

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ordini professionali, tutti pronti a salire sulle barricate pur di conservare i cosiddetti diritti acquisiti. Come ci descriviamo, quali sono i tratti che definiscono i nostri concittadini - e dunque noi stessi - è l'oggetto del sondaggio realizzato da Community Media Research, in collaborazione con Intesa Sanpaolo, per «La Stampa». In prima battuta, emerge un profilo il cui tratto prevalente che ci accomuna mette l'accento sulla dimensione individualistica e familiare. Prevale il «particulare», la chiusura alla sfera personale e degli interessi specifici. Come se facessimo fatica a guardare oltre il nostro perimetro visuale. Non riuscendo a identificare una progettualità più ampia o quello che potremmo definire un «bene comune» che oltrepassi i nostri mondi vitali. Nella rilevazione lo diciamo degli altri, ma non è errato pensare si tratti di una proiezione di quanto viviamo soggettivamente. Questi esiti tendono a confermare lo stereotipo che caratterizza l'immagine media degli italiani e solo paradossalmente cozza contro i gesti di apertura e gli slanci di solidarietà che, invece, osserviamo quando accadono avvenimenti particolari, come nel caso dei migranti, piuttosto che dei disastri climatici o del volontariato. Che ci sono, frutto di un capitale sociale e valoriale fondamentale per la tenuta del Paese. E che paradossalmente ci meraviglia possano esserci, quando invece dovrebbero essere la normalità. Il frutto del fai-da-te La questione è che tali gesti non s'inseriscono (ancora) in progettualità condivise, perché si fondano sullo slancio individuale, di piccole comunità organizzate sui territori o nei mondi associativi. In fondo, è il frutto del fai-da-te, dei micro-progetti che si costruiscono per affrontare i problemi che emergono di volta in volta. Dunque, proprio per questi motivi, ci rappresentiamo individualisti (32,4%), attenti solo agli interessi familiari (25,2%), ma anche lavoratori (22,0%), capaci di fare e di impegno. C'è però un secondo elemento: la diversità di percezione su scala territoriale. La dimensione particolaristica conosce un'accentuazione via via che scendiamo dal Nord al Sud, dove non manca un riconoscimento al fatto che lì sia maggiore la propensione a ricercare vantaggi per sé, ricorrendo a favoritismi. Così, non solo disponiamo di un immaginario collettivo poco collettivo e molto familistico-comunitario, ma troviamo una diversificazione che rende ancor più complicato identificare una rappresentazione comune. Sommando le caratteristiche assegnate sulla base dell'importanza, rileviamo come prevalga una rappresentazione negativa verso i concittadini: poco più della metà (52,7%) attribuisce solo aspetti sfavorevoli, in particolare fra i residenti nel Mezzogiorno (72,8%). A questi si contrappongono quanti mettono in luce non solo aspetti negativi, ma positivi (32,4%) e chi vede esclusivamente tratti positivi (14,9%), in particolare fra chi vive nel Nord. Dunque, rimarremo familisti e particolaristi? Le latenze culturali non si possono eliminare con tratto di penna, ma richiedono un tempo lungo. Soprattutto, progettualità e politiche che abbiano una visione. Dotate di un' idea e di valori che siano condivisi e che valorizzino le diversità e le peculiarità. Nella consapevolezza che solo in una progettualità comune esiste uno spazio per il bene individuale e familiare. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA CORRIERE DELLA SERA Pag 24 Se a Venezia spunta la gogna con le foto di borseggiatori di Andrea Pasqualetto «Ne ho appena beccati due, li avevo inseguiti un’ora prima ma mi erano sfuggiti, poi sono tornati come se niente fosse e li ho presi». Altri due, questi romeni, ragazzini, borseggiatori. Avevano sfilato il portafoglio con 750 euro a un turista spagnolo e il pittore Franco Dei Rossi, acquerellista ambulante di Piazza San Marco, ha fatto come nel Vecchio West: li ha catturati e consegnati ai carabinieri. Il tutto vicino al ponte dei Sospiri, proprio dove sabato scorso è andata in scena l’ennesima manifestazione di protesta contro alcuni mali di Venezia: degrado urbano, abusivismo commerciale e, appunto, micro-criminalità. Protesta che ha avuto una variante inedita e sorprendente: i manifestanti, una decina, hanno affisso le foto dei borseggiatori esponendole alla folla dei turisti e ai flash dei fotografi. Un azzardo sul filo della legge perché c’è di mezzo la diffamazione e la privacy. «E la pubblica gogna era della Serenissima repubblica, non di

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questa», insorgono da sinistra. Bisogna dire che i manifestanti, cioè l’artista Franco, l’impiegato Actv Lorenzo e altri fra studenti e pensionati, hanno avuto la delicatezza di coprire gli occhi dei «ricercati». Con loro si schiera il sindaco Luigi Brugnaro: «Hanno fatto bene e li ringrazio, mi spiace solo che si debba arrivare a questo per tamponare un problema che affligge Venezia. Purtroppo la legge non ci consente di fare nulla, perché anche quando li prendi vengono subito liberati». Meno plaudente il sociologo ed ex assessore Gianfranco Bettin: «Capisco l’esasperazione di questa gente ma se tutti facessero così ci sarebbero anche le foto degli evasori fiscali, dei pedofili, dei disturbatori... Prendiamola come una provocazione». Il pittore ama Venezia, dice. «È da 25 anni che la difendo, di portafogli ne abbiamo recuperati circa 1.500 e non abbiamo mai voluto un euro. Lo facciamo per la città e i turisti, che ho visto spesso piangere». Ha un centinaio di foto nel suo album. «Sono giovani nomadi, spesso col pancione o con i bimbi nei marsupi che fanno da scudo. Partono da Milano o Roma e stanno in albergo anche una settimana». Sabato Lorenzo ne ha fermata una in vaporetto. «Urlava di lasciarla stare, perché era incinta. Poi si è buttata in acqua nel Canal Grande». IL GAZZETTINO Pag 1 Chisso: “Io libero ma senza un euro cerco un lavoro” di Maurizio Dianese L’ex assessore ha finito di scontare la pena «Il mio problema, oggi, è la sopravvivenza. Comincerò ad andare in giro a bussare alle porte. Mi adatto a fare qualsiasi cosa, ma ho bisogno di lavorare. Per cui se mi si chiede come mi sento adesso che mi hanno ridato il passaporto e sono libero, dico che non lo so, ho altri problemi». Così Renato Chisso che ieri mattina, accompagnato dal suo legale, l'avvocato Antonio Forza, si è presentato dai carabinieri di Favaro Veneto per ritirare il decreto che lo scarcera definitivamente. Pena scontata, libero cittadino. Poi l'ex assessore alle Infrastrutture della Regione Veneto è tornato a casa in via Col San Martino, in una villetta operaia senza pretese: «L'ha costruita mio padre, ferroviere, aiutato da parenti e amici, nei fine settimana, come si faceva una volta quando la solidarietà era di casa». Questa casa lo ha tenuto prigioniero per un anno e mezzo, il resto del tempo, 6 mesi, li ha passati in carcere, prima a Pisa e poi a Venezia. «Il momento più brutto? Quando mi hanno rimesso dentro, a dicembre del 2015». Chisso era ai domiciliari da un anno, gli mancavano 180 giorni alla fine della pena e il Tribunale di sorveglianza lo ha rimandato in galera. Provvedimento illegittimo, secondo la Corte di Cassazione, alla quale si era rivolto il suo avvocato, Antonio Forza. Adesso comunque la storia è finita. Chisso è seduto al tavolo della cucina. Camicia a quadri scozzese, blue jeans, barbetta curata, in leggero sovrappeso, è assolutamente identico a com'era prima di due anni fa: «Si vede che per me non sono passati. Li ho persi. Due anni di vita persi». Arrivano le prime telefonate, al cellulare della moglie Gerri, l'unica che fino alle 11 di ieri mattina poteva mantenere contatti con l'esterno. «Ti passo Renato, ciao», continua a dire. Lui risponde a tutti ringraziando, ma si coglie un velo di tristezza e di angoscia, ancora, come se la nottata non fosse passata del tutto, come se ci fosse bisogno di tempo, ancora per metabolizzare l'arresto del 4 giugno 2014, i 5 mesi di carcere a Pisa, i 400 giorni a casa, senza poter vedere e parlare con nessuno, poi di nuovo un mese di carcere e poi di nuovo in prigione a casa. Fino a ieri. «Non voglio parlare del processo e dell'inchiesta e di tutte queste cose qua. Non me la sento. Anche perché non è che potrei cavarmela in due parole, devo spiegare molte cose e non basta certo dire che i soldi dalla Mantovani non li ho mai presi. Quando sarò riuscito a mettere insieme il pranzo con la cena, allora chissà, forse avrò la serenità per affrontare questo capitolo. Che cosa farò oggi? Quello che ho fatto negli ultimi due anni, sto a casa con mia moglie e aspetto che i nipotini tornino dalla spiaggia. Stamattina a dir la verità un appuntamento ce l'ho, con gli amici, a mezzogiorno. Mi hanno chiamato per festeggiare. Ci vado. Per ringraziarli di essermi vicino, ma più ancora per tornare a frequentare gli altri». E se al bar c'è qualcuno che le urla dietro ladro? «Lo saluto e giro i tacchi, la reazione la posso capire, metto in conto che possa succedere, ma che devo fare? Anche quando andavo in giro per il Veneto come assessore dovevo affrontare chi era contro il Passante, tanto per dirne una e mi urlava di tutto. Poi qualcuno si è convinto che avevo visto giusto, no? Ci sono abituato alle critiche. Mi ricordo che mio padre mi diceva sempre che dovevo lasciar perdere la politica perché quando fai una cosa se accontenti

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cinque persone comunque ne scontenti altre cinque». Dunque non è detto che con la politica sia finita. «No, questo è detto, eccome. Basta politica. Lo ripeto, il mio problema primo è mettere insieme il pranzo con la cena. In questo momento sono alla disperazione. Mia moglie ha venduto la casa dei suoi, non ho la pensione perché mi mancano 18 mesi di contributi, non ho soldi da parte. Poi ognuno può pensare quel che vuole...». Sì, che questi soldi qualcuno li deve pur aver presi. «E' presto per raccontare la mia verità. Ci sto lavorando con il mio avvocato e amico Antonio Forza. Ho avuto due anni di tempo per riflettere su tutta questa storia. Ci ho pensato ogni giorno, tutto il giorno per due anni, ma datemi tempo». Renato Chisso ha riempito 32 quaderni di 80 pagine di appunti. «Un diario giorno per giorno, da quando mi hanno arrestato. E ho scritto anche sui libri che leggevo, tra le righe, quando non avevo i quaderni. Ecco ho letto tanto, una ottantina di libri in questi due anni. Mi è servito molto». 32 quaderni di 80 pagine fanno 2.560 pagine di appunti. Una enciclopedia. E forse questa mole di scritti racconta l'angoscia delle “sue prigioni” meglio di qualsiasi altro aneddoto. Vuol dire che l'ex assessore alle Infrastrutture Renato Chisso si è aggrappato alla scrittura come ad una ciambella di salvataggio, alla ricerca del tempo perduto. «Ho scritto quando ero in carcere, in quei 165 giorni e poi ho scritto anche quando ero ai domiciliari. Sempre». Gli amici sono rimasti? Qualcuno dei tanti beneficiati darà una mano nel momento del bisogno? «Sì, spero proprio di sì. Adesso ne ho proprio bisogno». Renato Chisso era stato arrestato il 4 giugno 2014 nell'ambito dell'inchiesta sul Mose. Assieme ad altre 33 persone era stato ammanettato all'alba del 4 giugno nel corso di una operazione che è passata alla storia come la “Retata Storica” e che aveva decapitato i vertici del Consorzio Venezia Nuova, di alcune aziende importanti come la Mantovani e azzerato la politica regionale con la richiesta di arresto dell'ex governatore Giancarlo Galan. Portato nel carcere di Pisa, Chisso ne era uscito il 13 ottobre 2014, dopo 130 giorni, grazie ad un accordo sulla pena di 2 anni 10 mesi e 20 giorni di reclusione. Il patteggiamento – che il suo legale, l'avvocato Antonio Forza, dice di aver accettato solo per motivi di salute del suo assistito, il quale continua a proclamarsi totalmente innocente - aveva fatto tornare a casa Chisso, agli arresti domiciliari dai quali era stato prelevato di nuovo il 17 dicembre 2015 per scontare il residuo pena in carcere (180 giorni). A Santa Maria Maggiore Chisso era rimasto per 35 giorni fino al 9 febbraio 2016. Contro il decreto che lo aveva riportato in carcere aveva fatto ricorso in Cassazione l'avvocato Forza al quale la Cassazione ha dato ragione annullando il provvedimento del Tribunale di sorveglianza. Nel frattempo però, Chisso era già tornato a casa per motivi di salute. Colpito da un primo infarto qualche mese prima dell'arresto, le sue condizioni di salute si erano aggravate in carcere fino a richiedere ulteriori ricoveri e controlli. Renato Chisso, assessore alle Infrastrutture della Regione Veneto nelle Giunte presiedute da Giancarlo Galan, è accusato di aver incassato dal Consorzio Venezia Nuova mazzette per 6 milioni di euro, ma i soldi non sono mai saltati fuori e Chisso, attraverso il suo legale, ha puntato il dito contro altri coimputati i quali si sarebbero tenuti i soldi che dicono di aver consegnato a Chisso. Peraltro per un paio di questi coimputati si attende inspiegabilmente ancora il processo per corruzione, mentre si avvicina la tagliola della prescrizione che li salverà definitivamente dalla galera e dal dover restituire i soldi. Favaro Veneto - Il bar è il “Beastoria”, pensa te che nome vanno a scegliere per trovarsi con Chisso. Con tutti i barsport che ci sono a Favaro... Sarà un segno anche quello. Certo Renato Chisso non pensa che la sua, almeno quella degli ultimi due anni, sia una bella storia. Comunque a mezzogiorno son lì che lo aspettano un certo numero di bottiglie di prosecco ghiacciato e una buona dozzina di amici. Pochi? Tanti? Di sicuro mancano all'appello tutti i beneficiati, quelli che Renato Chisso ha aiutato sul serio a far carriera. Ma tra di loro c'è chi fa l'assessore e chi il deputato e, si sa, la riconoscenza, come diceva Bettino Craxi, è la cosa che invecchia più facilmente. In compenso per quelli che ci sono – compresa la capogruppo di Forza Italia in Consiglio comunale, Deborah Onisto - vale il motto che “Renato è un amico, comunque” e in quel comunque ci sta tutto, anche la storia di Vincenzo che ogni domenica mattina, mentre Chisso era ai domiciliari, suonava alla porta della villetta di via Col San Martino 5 e gli portava un cabaret di paste e due bottiglie di prosecco. Li consegnava alla moglie perché Chisso non poteva parlare né vedere nessuno. E se ne andava senza dire nulla. «Perché lo facevo,

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l'ultima volta proprio stamattina? Perché comunque sono contrario a questo sistema per cui metti in galera uno perché confessi, mi pare una barbarie. Ho fondato anche una associazione Amici di R., ma quel che mi dà fastidio è il partito, Forza Italia, che lo ha mollato». Renato è un operaio di Lotta Continua, uno che nel '68 era sulle barricate, poi la militanza nel Psi e quindi il passaggio a Forza Italia. L'amicizia con Chisso non è territoriale, i più cari amici sono tutti di Favaro e sono anche quelli che più lo hanno aiutato “cuccandosi” senza batter ciglio i controlli della Finanza. Né scolastica, né politica visto che Vincenzo è di Martellago e Chisso non lo ha frequentato granché. Dunque, la vicinanza è “umana, prima di tutto” e la storia di Vincenzo racconta quel che a Favaro dicono tutti e cioè che Chisso non è Galan. Tanto uno era un ospite, prima gradito e poi insopportabile, del posto in cui abitava tanto l'altro fa parte integrante del paesaggio. A Favaro Chisso resta una persona da salutare, nessuno si gira dall'altra parte e gli amici che lo festeggiano al “Beastoria” sono quelli di sempre. E questa, quella degli amici, è di sicuro la parte, probabilmente l'unica assieme alla dedizione e all'amore della moglie e della figlia, della “bea storia” di Chisso. LA NUOVA Pag 11 Brugnaro punta sulla città verticale di Mitia Chiarin Come Cacciari nel 2008, il sindaco di centrodestra propone questo sviluppo, ma tanti progetti in 8 anni sono rimasti fermi Tra le priorità del documento del sindaco Brugnaro per il Piano degli interventi, ovvero la fase attuativa del Piano di assetto del territorio, il Pat, adottato dal Comune nel 2013, c’è la città verticale tra Mestre e Marghera, partendo dai principi di «favorire azioni di recupero, rigenerazione e densificazione dei tessuti urbani» e fare di Mestre il «cuore amministrativo e culturale dell’ area metropolitana e del Nordest, «dove inserire un abitare sostenibile, terziario e terziario avanzato, giovani start-up e innovazione». Riparte il dibattito. Un tema, quello della città che cresce in altezza, che affascina anche se non è nuovo: già nel 2008 con la demolizione dell’ex ospedale di Mestre l’aveva lanciato l’allora sindaco Cacciari. In gioco è la città che vogliamo. Le aree indicate. Brugnaro, laureato in architettura, nel suo piano indica un futuro di densificazione e incremento volumetrico per il centro di Mestre. Dove? Si fa generico riferimento al centro (piazza Ferretto verso via Piave, via Cappuccina e la stazione ferroviaria), poi l’ambito di via Torino e via Ca’ Marcello e la prima zona industriale di Porto Marghera, quella più vicina a Mestre alla Città Giardino. Il Quadrante cambia confini? Rientra nello sviluppo in altezza anche il Quadrante di Tessera, l’area per il divertimento e i nuovi impianti sportivi (leggi stadio). Pare di intuire che la giunta Brugnaro andrà a modificarne confini e previsioni visto che nel piano si legge che «le previsioni localizzate del precedente accordo di programma potranno essere riviste, interessando anche le aree poste in adiacenza o alternative al perimetro iniziale». Vedremo se il piano si rivelerà decisivo per rilanciare la città o rimarrà un libro dei sogni. Tanti progetti in attesa. Nel 2008 il nostro giornale aveva contato 19 progetti di grattacielo che dovevano modificare lo sky-line di Mestre. La successiva crisi economica ha frenato e rallentato la maggior parte di questi investimenti privati. E con l’arrivo della nuova amministrazione da più parti si denuncia lo stallo del settore Urbanistica e il fermo a progetti attesi come quello per la stazione. Cosa si muove, cosa no. Otto anni dopo quella nostra inchiesta sui progetti di grattacieli, il Palais Lumière di Pierre Cardin resta un sogno, rilanciato dallo stilista e misteriosamente offerto anche alla vicina Jesolo. Di prossima apertura c’è la Hybrid Tower di via Torino (75 metri) con appartamenti, uffici, ristoranti, sale fitness. L’ex Umberto I è un bel problema in pieno centro: la giunta Brugnaro ha prorogato di sei mesi la procedura per la convenzione con la Dng, proprietaria dell’area, che cancellando le ipoteche fa passare sotto la proprietà comunale i vecchi padiglioni e 18 mila metri quadri di verde. La variante consente ai proprietari di puntare su commerciale, residenza e un albergo per le tre torri alte fino a 100 metri che restano sulla carta. Qualche potenziale compratore all’orizzonte c’è ma le cubature in gioco non cambiano. Si è rimesso in moto con l’arrivo del costruttore Salini, di Impregilo e Cediv il progetto di via Ulloa: via il grattacielo di 164 metri, arrivano due edifici più bassi ricettivi, un centro commerciale e direzionale, edifici residenziali e un parco urbano. In attesa sono anche le quattro torri della Campus (gruppo Mantovani) all’ex mercato di via Torino e le altre

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quattro di Metroter (Aev Terraglio). Il caso. In conferenza di servizi in Città metropolitana si discute della Venus Venis, la torre di 100 metri che la società Blo vuole far nascere vicino alla “Nave de Vero”. L’impatto viabilistico non convince gli uffici comunali; le associazioni dei commercianti sono in allarme ma il progetto piace al primo cittadino. Pag 19 Aiuti per i profughi bloccati in Grecia fino a giovedì Continua fino al 30 giugno l’iniziativa umanitaria promossa dall’Autorità Portuale e dalla Caritas Veneziana a sostegno dei rifugiati - in gran numero bambini - presenti nei campi profughi di Atene e attorno al Pireo e che prevede una raccolta di generi di prima necessità. Fino a giovedì prossimo è infatti possibile contribuire all'operazione portando al magazzino Cruise Logistic di Malcontenta, in via della Meccanica 14 (orario, da lunedì a venerdì dalle 8 alle 12.30 e dalle 14-17, sabato e domenica 8-12.30) generi alimentari non deperibili, prodotti di primo soccorso, per l’igiene e la pulizia, coperte, pannolini per bambini. IL GAZZETTINO di domenica 26 giugno 2016 Pag 11 Venezia, borseggiatori alla gogna di Davide Scalzotto Commercianti in corteo contro gli abusivi e cartelli con le fotografie dei “ladri di portafogli” Venezia si ribella agli abusivi, alla paccottiglia e alla microcriminalità che taglieggia i turisti. Chiariamo, non è che con un colpo di bacchetta magica tutto d’un tratto la città si è liberata di simil-gondolette, maschere finte, vetri cinesi a un euro e borseggiatori. La novità è che inizia a suonare più di qualche campanello d’allarme e che c’è una presa di coscienza diversa, anche con toni clamorosi, come la protesta di ieri, a testimonianza di una tensione palpabile. Un manipolo di ambulanti regolari dell’area marciana ha sfilato in corteo con cartelli per dire "stop" ai borseggiatori e agli abusivi che imperversano ovunque, tra borse false, dardi colorati, rose e giochini acchiappa turisti. Una protesta choc, perché sono state affisse su un cartellone anche le foto dei "cacciatori di portafogli" che operano in città. Una sorta di "gogna pubblica" come quelle dell’epoca della Serenissima. Una riedizione di antiche proteste, che stavolta si accompagnano però all’azione decisa della polizia municipale e delle forze dell’ordine, su input dell’amministrazione comunale. Nei primi 5 mesi dell’anno le sanzioni dei vigili agli abusivi e la merce sequestrata sono raddoppiate (2.210 multe contro le 1.242 nei primi 5 mesi del 2015, 29.457 pezzi sequestrati contro i 16.506 dello scorso anno). La polizia locale ha "fotografato" gli abusivi: ufficialmente sono una novantina quelli che calano nella città storica ogni giorno, ma se ci si mettono mendicanti, falsi invalidi, figuranti in costume da carnevale e facchini improvvisati, sono molti ma molti di più. C’è poi un fenomeno nuovo: tanti sono dopolavoristi, nel senso che di giorno lavorano nelle fabbriche e nelle aziende della terraferma, e di sera calano con la loro merce, che nella città storica viene stipata in magazzini di facile accesso. Piove? Ecco che spuntano i venditori di ombrelli. C’è acqua alta? Ecco stivali e copristivali. È una bella giornata per le foto? Ecco i bastoncini per selfie. Eccezionale esempio di "flessibilità commerciale". Possibile perché la merce è nascosta dietro gli idranti nelle calli appartate, nei cestini delle immondizie, nei vani dove ci sono contatori o allacciamenti alla rete elettrica... La polizia municipale ha avuto però direttive precise e i controlli sono aumentati. Idem le altre forze dell’ordine che, su indicazione della Prefettura, moltiplicano gli sforzi dividendosi le aree della città. Ma è solo contro questo tipo di degrado commerciale che si sta levando un moto di ribellione. Ci sono pure negozi e banchetti che vendono paccottiglia. Prendiamo il vetro: nei negozi, solo il 20 per cento è prodotto a Murano. Tutto il resto viene da fuori. Per questo venerdì è stato presentato un nuovo marchio, con un’etichetta "smart" che garantisce la tracciabilità del prodotto. Un percorso che vede insieme Regione, categorie economiche, Consorzio Promovetro. Ora si attende lo stesso per altri prodotti. Sul merletto di Burano, ad esempio, pochi giorni fa c’è stato a Venezia un tavolo con 17 Comuni italiani che hanno nel merletto un’eccellenza, per inserirlo nel patrimonio Unesco. Governo e Parlamento hanno poi messo a punto un progetto di legge che consente alle città storiche di adottare misure di salvaguardia dei

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prodotti di qualità. Per anni e anni a Venezia gli effetti della liberalizzazione sono stati devastanti, mascherati dietro la tipologia delle "specialità veneziane", nella quale alla fine è confluito di tutto, con ben poca "specialità veneziana". Ora il Comune avrà un’arma legislativa in più. Plaudono le categorie. E se plaude anche Roberto Magliocco, presidente dell’Ascom veneziana, che tra le sue attività ha la gestione di rivendite di "specialità veneziane", significa che il vento è cambiato davvero. Magliocco e i rappresentanti delle altre categorie (ristoratori, commercianti, artigiani) sono andati giù duri l’altra sera in un incontro pubblico organizzto dal Pd. «Venezia è ormai ridotta a un grande bazar con paccottiglia per turisti di bassa qualità - hanno detto - dove imperversa la mafia sommersa delle agenzie che pretendono soldi da tutti, artigiani, commercianti ed esercenti». Hanno parlato di "mafia sommersa", loro che raccolgono le esperienze quotidiane dei propri iscritti. Hanno parlato di turisti che finiscono in mano alle agenzie e a mediatori che chiedono soldi a tutti, definendo Venezia «la città con la tangente più alta d’Europa». E che lo dicano le categorie economiche, è un altro segnale della volontà di cambiare marcia. Anche perché pesano le parole del generale Giuseppe Mango, comandante della Guardia di finanza dell’Italia Nordorientale, pronunciate alla festa per i 242 anni delle Fiamme gialle: «L’abusivismo - ha detto il generale - è una piaga che mina l’immagine internazionale della città». E Venezia questo non se lo può più permettere. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di domenica 26 giugno 2016 Pag V Continua la raccolta di generi alimentari per i campi profughi di Atene e del Pireo Prosegue fino alla fine del mese di giugno l’iniziativa umanitaria promossa dall’Autorità Portuale e dalla Caritas Veneziana a sostegno dei rifugiati - in gran numero bambini - presenti nei campi profughi di Atene e attorno al Pireo e che prevede una raccolta di generi di prima necessità. Fino al 30 giugno è possibile contribuire all’operazione portando presso il magazzino Cruise Logistic di Malcontenta (Via della Meccanica 14 - orari: lun-ven dalle 8:00 alle 12:30 e dalle 14:00 alle 17:00, sab-dom 8:00-12:30) generi alimentari non deperibili, come olio di oliva, latte UHT, latte in polvere per bambini, fagioli, farina, polpa di pomodoro, riso, pasta, zucchero, marmellata, tè nero, prodotti di primo soccorso, per l’igiene e la pulizia, come cerotti, disinfettanti, coperte, pannolini per bambini, bagnoschiuma, spazzolini e dentifricio, carta igienica, detersivi. Vista la numerosa presenza di bambini, sono graditi anche giocattoli e set da disegno. L’11 luglio è prevista la partenza dei beni raccolti dal terminal di Fusina, gestito da Venice Ro-Port MoS, destinazione Atene, dove la rete Caritas (di Atene e anche dell’Ordinariato Armeno in Grecia) smisterà il carico verso centri di accoglienza e altri campi. Il Porto di Venezia, la Caritas Veneziana e gli altri promotori dell’iniziativa ringraziano fin d’ora tutti coloro che vorranno contribuire con un gesto concreto di solidarietà. Pag XI L’allarme della Coges: “Eroinomani a 14 anni. E’ tornata la siringa da sballo come accadeva negli anni ‘60” di Maurizio Dianese E adesso i quattordicenni iniziano a bucarsi. Si fanno in vena l'eroina e non si limitano più a fumarla. «Ne arrivano tanti. Sempre di più. E sempre più giovani. Che si fanno di tutto. E che si bucano.» Ecco, questa è la grande, pessima novità. È tornata l'eroina da “spada”, quella che ti dà il “flash”, che ti sballa e ti fa diventare tossicomane in un amen. Come negli anni Sessanta, si torna alla “siringa da uno”, quella da insulina, da un centimetro cubico. L'allarme arriva dalle comunità, che sempre più spesso si vedono arrivare famiglie disperate. «L'unica consolazione, si fa per dire, è che pare aumentata un po' l'attenzione dei genitori. Si accorgono di quel che succede e vengono da noi o vanno al Servizio per le tossicodipendenze dell'Ulss» dice Angelo Benvegnù, presidente della cooperativa Coges, per anni braccio destro di don Franco De Pieri. A Forte Rossarol Benvegnù ha costruito negli anni un centro specializzato nella cura delle tossicomanie, dall'eroina alla cocaina, dall'alcool al gioco d'azzardo, e sempre più spesso a Forte Rossarol arriva il tossicomane multiseriale, che contemporaneamente si fa di tutto quel che trova. «E purtroppo si trova di tutto e di più in giro e a prezzi stracciati. I ragazzini

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non hanno difficoltà a farsi di quel che vogliono e ormai la tendenza del momento è a provare tutto. E' diminuita la percezione del pericolo. E così una volta alla settimana si sniffa cocaina e un'altra si fuma eroina, ogni quindici giorni le pastiglie e, se capita, il buco di eroina in compagnia. Niente è più tabù». E chi si fa in vena non è più solo il ventenne che le ha già provate tutte, ma anche il tredicenne. «Arrivano, arrivano. 13, 14 anni. Non tanti, ma sempre troppi. Accompagnati dai genitori e assolutamente convinti che possono smettere quando vogliono e stupiti che ci sia tanta preoccupazione in casa per niente. Non si rendono proprio conto, sanno poco, pochissimo delle sostanze e credono invece di sapere tutto, magari perché hanno perso mezz'ora a consultare i siti internet». Angelo Benvegnù lancia l'allarme: «E lo faccio in occasione della giornata mondiale dedicata alla lotta alla droga. Lancio un allarme alle famiglie e ai fratelli maggiori, agli amici e a tutti coloro che entrano in contatto con i giovanissimi: alziamo tutti il livello di attenzione. Perché pensavamo che il problema dell'eroina fosse alle nostre spalle e invece sta tornando di prepotenza. E anche se non ha ancora le caratteristiche del fenomeno di massa, è comunque preoccupante perché indica una tendenza molto pericolosa». Peraltro, avverte Benvegnù, «consumo e traffico di droga sono mercati fiorenti e ciò che peggiora la situazione è che si sta diffondendo il convincimento che il consumo di sostanze sia tutto sommato un momento di passaggio tollerabile per i nostri giovani. E’ necessario, quindi, che la società si assuma la propria responsabilità educativa e l’impegno di attivarsi precocemente, con interventi di prevenzione e promozione del benessere per intercettare ed arginare fenomeni di dipendenza fin dalla loro nascita». C'è per fortuna un elemento positivo ed è la moda del salutismo. «Ci sono tanti giovani che magari si fanno anche la canna una volta la settimana, ma sono molto più attenti ad una vita sempre più sana. Ecco, spero che vinca questa moda». Pag XIV Grosso, squadra e deleghe. Cristina Baldoni vicesindaco di Melody Fusaro Quarto d’Altino Durante la formula di rito pronunciata dal sindaco, quella utilizzata per chiedere se non vi siano ragioni che rendano incompatibili i consiglieri con la loro nuova carica, a rompere il silenzio è stato solo un pallone entrato da una finestra, rimbalzato poi fino al tavolo del segretario comunale. Cose che capitano quando si sceglie di spostare la seduta di insediamento in una palestra. Una scelta, quella del sindaco Claudio Grosso, che, caldo a parte, si è rivelata vincente visto che al primo grande momento istituzionale si è presentato almeno un centinaio di persone. Ufficializzato il nuovo consiglio e al di là di qualche primo battibecco tra primo cittadino e minoranze, preludio di 5 anni di battaglia in consiglio, la notizia del giorno è l'annuncio della nuova giunta. A Cristina Baldoni, a cui è stato affidato anche il ruolo di vicesindaco, sono state assegnate le deleghe alla Sanità, alle Politiche sociali, alla Pubblica istruzione, alle Pari opportunità, alle Politiche per la casa e ai Rapporti con le parrocchie. Un compito importante è stato affidato anche all'ex consigliere Alessandro Cesarato, ora assessore all'Urbanistica, all'Edilizia privata, alle Politiche ambientali all'Igiene urbana. Rientra in quegli «accordi tra uomini a cui ho voluto tener fede», per dirla con le parole del sindaco, la nomina ad assessore esterno per Roberto Dal Cin, Lega Nord, ex consigliere provinciale e presidente del mandamento di San Donà di Apindustria. Per lui le deleghe a Bilancio, Fiscalità e tributi e Controllo di gestione. Si rispettano le quote rosa con la nomina a sorpresa della giovanissima consigliera Cristina Gasparini, neo assessore a Cultura, Eventi e Politiche giovanili. Insolita invece la decisione di affidare referati importanti a un consigliere delegato. Non sarà in giunta, infatti, come tanti invece credevano, Celestino Mazzon che sarà quindi consigliere delegato alla viabilità, Promozione e sviluppo e Sport. Altro consigliere delegato è Mauro Marcassa (Razionalizzazione delle spese, Personale e manutenzione fino a 40 mila euro). Il sindaco, che ha tenuto per sè i lavori pubblici superiori ai 40 mila euro, il turismo e gli affari istituzionali, ha parlato di questi primi 20 giorni da «amministratore solitario». «Me la sono dovuta cavare da solo, la cosa che mi ha toccato particolarmente è l'enorme quantità di famiglie in difficoltà economica. Avremo un occhio di riguardo, se non ci soldi cercheremo di aiutarli in un altro modo, anche con una pacca sulla spalla e una burocrazia più rapida ed efficiente». Poi uno sguardo alle minoranze. «Vi invito a lavorare in modo leale e costruttivo». E se la

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maggioranza come capogruppo ha scelto proprio Marcassa, per le minoranze sono stati scelti Ezio Petruzzi per il Movimento 5 Stelle e Raffaela Giomo per il centro-sinistra. CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 giugno 2016 Pag 11 Transenne, rampe e lastre “volanti”. Piano di emergenza per i cimiteri di Francesco Bottazzo San Michele a pezzi: marmo sfiora una donna. Giunta in sopralluogo, relazione al sindaco. Il caso: “Il vino che risuscita i morti”. Quelle vigne accanto al convento Venezia. L’altro giorno un barbacane di marmo è caduto a fianco ad una signora che stava mettendo i fiori sulla tomba. Il campo XVI perde i pezzi ed è pericoloso anche solo avvicinarsi. Veritas l’ha chiuso impedendo qualsiasi accesso anche per trasferire i resti che si trovano all’interno. Alcuni loculi solo recintati, con il risultato che i fiori non si possono più mettere tanto meno approssimarsi al proprio caro. In altre aree - oltre ad esserci l’erba alta - il terreno sta franando, portando con sé le tombe. Ci sono poi i muri di cinta che tendono a crollare, sostenuti da alcune palancole e naturalmente recintati. La nuova parte di Chipperfield, oltre al problema di infiltrazioni, presenta la rampa per disabili simili a quelle che vengono installate nei ponti del centro storico per la maratona. «Una situazione difficile ma le soluzioni sono possibili, l’importante è fare presto», ha commentato l’assessore ai Lavori pubblici Francesca Zaccariotto subito dopo il sopralluogo di martedì scorso assieme ai colleghi di Patrimonio (Boraso), Ambiente (De Martin) e al vicesindaco Luciana Colle. Una situazione irrispettosa e insopportabile per Zaccariotto che deve trovare fra le pieghe del bilancio i fondi per intervenire velocemente. Oggi ci sono due milioni per i cimiteri, uno per San Michele l’altro per quelli della terraferma dove la manutenzione non è certo migliore. «Qualcuno ha deciso di non investire in passato», attacca Renato Boraso. Un paio di settimane fa la giunta è riuscita a stanziare 500 mila euro, oneri inclusi, dando mandato di predisporre il progetto di sistemazione dell campo XVI dove nemmeno è immaginabile che gli operai usino il martello per rompere i sigilli delle tombe per le esumazioni. Troppo pochi per pensare di sistemare anche solo le situazioni più gravi. Troppo pochi anche quelli messi a bilancio, ne servono molti di più, tanto che la prossima settimana gli Uffici tecnici stileranno una relazione da sottoporre al sindaco. Serve infatti un ingente investimento di Ca’ Farsetti per ripristinare da una parte almeno la sicurezza, e dall’altra assicurare la manutenzione di uno dei luoghi artistici del centro storico. «Il cimitero risale all’inizio dell’Ottocento ed è classificato come monumentale, per la sua manutenzione ci sarebbe bisogno di un ingente finanziamento straordinario che il Comune, che ne è proprietario, in questo momento non è in grado di stanziare», spiegano a Veritas. La genesi dei cimitero risale infatti ai tempi dell’editto napoleonico di Saint Cloud che relegava le sepolture al di fuori dei centri cittadini, per questioni igieniche e olfattive. Anche per questo molti sono turisti che visitano l’isola di San Michele, imbattendosi però nella decadenza delle sepolture, lapidi ed edifici. Lo stesso emiciclo che accoglie i visitatori esprime quella sensazione di abbandono, tra cancelli aperti, finestre chiuse e spazi «murati» con dei pannelli di legno. Il prologo di una situazione ancora peggiore tra palancole, aree recintate, pietre a terra e tombe divelte. «Una situazione disastrosa che vede la presenza anche di alberi sul tetto dei loculi, non mi spiego come con una attenta manutenzione possa essere stata possibile una cosa simile», dice l’assessore al Patrimonio. A questi si sommano i problemi di «convivenza». Per accedere alla parte del convento data in concessione all’Ambasciata danese, per attività culturali, è necessario attraversare il cimitero. Non capita di rado imbattersi in persone che passano per i viali tra le tombe con grosse valigie. Un problema di accessibilità da risolvere. Venezia. «Il vino che risuscita i morti», si legge nel cartello appeso all’interno della vigna. Una battuta come tante altre se non fosse che le viti si trovano nell’orto dei novizi a ridosso del convento camaldolese gestito negli ultimi due secoli dai frati francescani, nel cimitero di San Michele. Lì «La laguna nel bicchiere», coltiva e produce vino, anche quello che arriva dagli altri vigneti che l’associazione culturale e sociale gestisce nel centro storico. L’etichetta manca a dirlo raffigura un piede con le ali per quello che è stato ribattezzato «Arcangeli scalzi». Tutto regolare, non sia mai, l’associazione ha una convenzione con Veritas e con il Comune che le consente di conservare in funzione la

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vigna e l’antica cantina che i francescani avevano, mantenuta attiva fino a sette anni fa. «I vitigni disposti a pergole lungo i percorsi dell’orto sono di uva malvasia, dorona e prosecco, il nome del vino salso è In vino Veritas, San Michele in purezza: un vin da messa», scrive l’associazione nel sito web. Sono stati però i dettagli ad infastidire mezza giunta durante il sopralluogo di qualche giorno fa al cimitero. I cartelli, le etichette, le condizioni della vigna, il disordine, e non da ultimo il fatto che lì soprattutto il sabato e la domenica vengono organizzate feste con tanto di musica, a due passi dalla tomba del poeta Ezra Pound o del compositore Igor Stravinski e da migliaia di tombe di veneziani. «Dovrebbe essere un luogo sacro, la vigna era legata all’uso conventuale, giusto mantenere la tradizione ma a determinate condizioni», hanno riflettuto gli assessori, pronti a stilare una relazione al sindaco Luigi Brugnaro. Facile che la convenzione verrà rivista, introducendo alcune limitazioni e regole di comportamento più consone al luogo. Perché se è vero che i muri di cinta sono alti e la vigna si trova nell’orto a ridosso del convento, è anche vero che non basta una barriera per fare un luogo di silenzio in un luogo di festa, come testimonia anche il sito dell’associazione che pubblicizza l’attività e le iniziative, soprattutto durante la vendemmia. Anche perché la presenza della cantina a San Michele fa convergere l’uva prodotta nelle altre vigne di Venezia. E l’accesso avviene attraverso il passaggio all’interno del cimitero. LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 18 Aiuti ai rifugiati ad Atene, Porto e Caritas in prima linea Prosegue per tutto giugno l’iniziativa umanitaria promossa dall’Autorità Portuale e dalla Caritas Veneziana a sostegno dei rifugiati - in gran numero bambini - presenti nei campi profughi di Atene e attorno al Pireo e che prevede una raccolta di generi di prima necessità. Fino a giovedì prossimo è infatti possibile contribuire all’operazione portando al magazzino Cruise Logistic di Malcontenta, in via della Meccanica 14 (orario, da lunedì a venerdì dalle 8 alle 12.30 e dalle 14-17, sabato e domenica 8-12:30) generi alimentari non deperibili, come olio di oliva, latte, latte in polvere per bambini, fagioli, farina, polpa di pomodoro, riso, pasta, zucchero, marmellata, tè nero, prodotti di primo soccorso, per l’igiene e la pulizia, come cerotti, disinfettanti, coperte, pannolini per bambini, bagnoschiuma, spazzolini e dentifricio, carta igienica, detersivi. Vista la numerosa presenza di bambini, sono graditi anche giocattoli e set da disegno. L’11 luglio è poi prevista la partenza dei beni raccolti: il cargo si imbarcherà al terminal di Fusina e raggiungerà Atene, dove la rete Caritas (di Atene e anche dell’Ordinariato Armeno in Grecia) smisterà il carico verso centri di accoglienza e altri campi. IL GAZZETTINO DI VENEZIA di sabato 25 giugno 2016 Pag VI Mostre, convegni, concerti per il 50° dell’Aqua granda di Manuela Lamberti Si mette in moto la macchina organizzativa per ricordare il 4 novembre 1966 Una "squadra metropolitana" per le celebrazioni dell'alluvione del 2 novembre 1966. Il cinquantesimo anniversario dell'aqua granda sarà celebrato con numerose iniziative da dopo l'estate e ieri il sindaco Luigi Brugnaro ha riunito un tavolo tecnico che promuoverà sul territorio metropolitano una serie di manifestazioni. All'insediamento del tavolo tecnico istituito per proporre un comitato d'onore e anticipare le attività sul territorio metropolitano, hanno partecipato: Paolo Baratta (presidente La Biennale), Michele Bugliesi (rettore Ca’ Foscari), Francesca Barbini (presidente delegazione Fai), Emanuela Carpani (Soprintendente belle arti e paesaggio per Venezia e laguna), Cristiano Chiarot (sovrintendente teatro La Fenice), Marino Cortese (presidente Fondazione Querini Stampalia), Giovanni De Luca (direttore sede Rai regione), Alberto Ferlenga (rettore Iuav), Mariacristina Gribaudi (presidente fondazione Musei civici), Maurizio Messina (direttore Biblioteca nazionale Marciana), don Dino Pistolato (Patriarcato) Amerigo Restucci (coordinatore delle attività scientifiche tra gli atenei veneziani e quello di Firenze), Raffaele Santoro (direttore Archivio di Stato), Anna Luiza Thompson-Flores (direttore ufficio Unesco regionale). All'iniziativa, insieme al Fai, aderiscono le associazioni Piazza San Marco e «We are here Venice», con Italia Nostra, sezione di Venezia. Tra la seconda metà di settembre e la fine dell'anno verranno organizzate diverse iniziative che coinvolgeranno i principali attori sul territorio. A Palazzo Ducale si

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terranno una serie di convegni sulla Legge speciale per Venezia, una legge ancora esistente anche se non più finanziata come siifiche ad essa apportate. Si de dovrebbe e le ultime moddicheranno inoltre giornate all'idraulica, al restauro, introducendo il tema sul futuro per una gestione coordinata della salvaguardia di Venezia, a cominciare dal sistema Mose. Appuntamenti che coinvolgeranno anche il mondo dell'architettura attraverso la Biennale sul tema dei risanamenti e l'innovazione tecnologica sull'edilizia veneziana. Il teatro La Fenice inaugurerà la stagione proprio la sera del 4 novembre con un'opera dedicata all'alluvione del 1966. L'archivio di Stato realizzerà una mostra documentale alla Biblioteca mazionale Marciana in collaborazione con l'archivio storico del Comune. Questo percorso commemorativo vedrà il coinvolgimento della Fondazione Querini Stampalia e del Fai. La fondazione dei Musei Civici di Venezia il 4 novembre inaugurerà una mostra su «aqua granda» e la salvaguardia della laguna in collaborazione con l'istituzione Bevilacqua La Masa. Mostre e racconti che coinvolgeranno non solo la città storica ma anche l'entroterra veneto e veneziano. «Sono soddisfatto che a questo tavolo abbiano aderito in così tanti - ha commentato Brugnaro - Mi piace l'idea che si possa costruire un percorso assieme dove ognuno, portando la propria esperienza, potrà contribuire, non solo per ricordare un triste evento, ma soprattutto per approfondire il dibattito attorno alla questione di Venezia e alla sua specificità. La giornata del 4 novembre dovrà infatti essere un'occasione per riflettere sul legame indissolubile che lega Venezia all'acqua». LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 30 Il presepe di sabbia di Jesolo arriverà nel 2018 a Roma di g.ca. Annuncio del sindaco Jesolo. Festa del santo patrono, Jesolo Paese rinasce nel nome di San Giovanni Battista. E arriva un grande annuncio: «Nel Natale del 2018 sarà Jesolo ad allestire il presepio di sabbia a Piazza San Pietro in Roma». Sarà una edizione unica e irripetibile del presepio di sabbia, come ha annunciato il sindaco Valerio Zoggia a conclusione della Messa. «Agli inizi di gennaio di quest’anno», ha detto il sindaco, «abbiamo avuto l’onore di ospitare il Patriarca di Venezia e tutti i Vescovi del Triveneto. Hanno potuto vedere con i loro occhi la singolare bellezza del presepio di sabbia ispirato alle opere di misericordia e dedicato a Papa Francesco. È stato in quell’occasione che abbiamo consegnato al patriarca e ai vescovi del Nordest il nostro sogno: essere noi jesolani ad allestire il presepio sotto l’obelisco di Piazza San Pietro. E attraverso il Patriarca di Venezia è giunto il sì della Santa Sede e dell’apposito ufficio del Governatorato della Città del Vaticano». A Jesolo è giunto per San Giovanni anche monsignor Giovanni D’Ercole, vescovo di Ascoli Piceno e segretario della commissione per la cultura della Cei, ospite d’onore per la festività patronale, che ha celebrato la messa assieme ai sacerdoti delle parrocchie vicine e dei sacerdoti nativi di Jesolo. Una visita anche al crocifisso del 1200 esposto nella chiesa, orgoglio della comunità. Il vescovo ha poi incontrato alla la casa del turismo le autorità cittadine, con il presidente dell’Aja, Alessandro Rizzante, e i rappresentanti degli operatori turistici per uno scambio di idee anche in merito all’argomento molto interessante del turismo religioso che potrà diventare anche una risorsa per Jesolo. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST CORRIERE DEL VENETO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Referendum, dalla Brexit alla Venexit? di Stefano Allievi Cause, effetti e demagogia Il Regno Unito ha liberamente votato di uscire dall’Europa. Visto che anche in Veneto si vagheggia da tempo di autonomia, e presto saremo chiamati ad un referendum su di essa (e i promotori del referendum veneto hanno brindato al risultato di quello britannico), possiamo imparare qualche cosa da quello che è successo? La Brexit potrebbe diventare Venexit? E con quali conseguenze? Vediamo. Prima lezione: tra il dire e il fare. I promotori dell’uscita dall’Europa, a cominciare dal leader indipendentista

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Nigel Farage, che forse sperava di guadagnare in consenso e visibilità ma senza vincere, come un apprendista stregone sta scoprendo le conseguenze del meccanismo che ha innescato, e comincia a chiamarsene fuori. In una clamorosa intervista alla BBC del giorno dopo, Farage ha detto che la promessa di usare i soldi risparmiati uscendo dall’Europa per migliorare con 350 milioni di sterline il servizio sanitario nazionale è stata un errore, e non avrebbe dovuto farla (era uno dei suoi manifesti elettorali!). Come dire: in campagna elettorale se ne dicono tante, usando le cifre a vanvera, ma era uno scherzo... Ecco, questo uso delle cifre a capocchia, sia riguardo all’euroscetticismo sia riguardo all’autonomia (che pure può contare anche su solide ragioni numeriche) è già cominciato, e di queste mirabolanti promesse, ne sentiremo molte, di tutti i tipi (di più da parte di chi più promette, naturalmente). Seconda lezione: giovani e anziani. Gli analisti hanno già notato che i giovani erano per rimanere in Europa, per tre quarti, e gli anziani per uscirne (e indovinate a chi si rivolgeva la promessa di investire di più sul servizio sanitario?). Ecco, quello che è successo è che gli anziani, che di futuro ne hanno meno, hanno deciso per il futuro dei giovani, la generazione Erasmus, mettendolo in scacco. Non è una novità assoluta: i comportamenti di voto differenziati per fasce d’età ci sono sempre stati. La novità, clamorosa, è il rovesciamento della piramide demografica, per cui gli anziani, per la prima volta nella storia, sono, in occidente, la maggioranza. Ne vedremo sempre più le conseguenze impreviste, di questo processo: e dovremo ragionare su come risolvere il problema, gigantesco, che esso pone. Terza lezione: chi di referendum ferisce… Ricordiamo tutti il sostegno della Lega all’indipendentismo scozzese. Ora la Scozia, che con l’Irlanda del Nord ha votato massicciamente per rimanere in Europa, contrariamente all’Inghilterra, chiede a questo punto un referendum per uscire dal Regno Unito e rientrare in Europa, mentre i nazionalisti irlandesi chiedono di uscire dal Regno Unito al nord e riunificare un’Irlanda indipendente ed europeista. La domanda non è solo sapere per chi tiferà Salvini, a quel punto: se per gli indipendentisti filo europeisti o per gli euroscettici. Più seriamente, va rimessa in questione la logica stessa dei referendum su queste materie: non per escluderli, ma per ragionarci molto bene. Di questo passo rischia di finire come in un racconto di Carlo Sgorlon, «Il referendum di Capodanno», scritto un quarto di secolo fa: in cui, con una certa preveggenza, di referendum in referendum si immaginava che si potesse arrivare alla riduzione del Friuli in frammenti… Quarta lezione: istruzione e ricchezza. Nel Regno Unito hanno votato a favore della permanenza in Europa, oltre che i più giovani, in più ricchi, e i più istruiti. Contro, i più anziani, i più poveri, i meno istruiti. E’ una media, che come tale comporta numerose eccezioni, ma che ci è utile per ragionare. Questa divisione avviene su molte altre questioni collegate alla globalizzazione e alla mobilità, a cominciare dall’immigrazione o dai trattati internazionali. Qualcuno ne approfitta per provare a rimettere in questione il suffragio universale o la democrazia diretta: operazione insensata e antistorica. Ma si può lavorare invece per diminuire le forbici che ci separano. Riducendo le disuguaglianze, elevando massicciamente il livello di istruzione di tutti (anche qui, in un Veneto che vive drammatiche diseguaglianze e un livello di istruzione inferiore alla media nazionale). Perché è giusto. E perché le paure proliferano meglio nell’isolamento anche sociale. Vedremo se le classi dirigenti capiranno il messaggio, e in quale direzione lavoreranno. E perché. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 La stagione dell’incertezza di Aldo Cazzullo Da Londra a Madrid L’autodistruzione dell’Europa avanza inesorabile, da Londra verso Madrid. Brexit produce un «richiamo all’ordine», ma non basta: la Spagna resta senza governo. Lo choc del referendum britannico ha influito sulle urne spagnole e ha rafforzato i due partiti tradizionali. I popolari migliorano decisamente rispetto ai sondaggi, così come i socialisti, che evitano il sorpasso di Podemos: annunciato alla vigilia, confermato dagli exit-poll,

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smentito dai voti quelli veri. I populisti hanno perso. Ma nessun partito può festeggiare. Dopo sei mesi di inutili trattative, le nuove elezioni - tra le meno partecipate nella storia della democrazia spagnola - non hanno sciolto il rebus che attende una soluzione dal Natale scorso. In un altro Paese apparirebbe inevitabile la grande coalizione guidata dai popolari, che però non fa parte della cultura politica di Madrid: troppo grande la distanza anche storica tra un partito nato dalle ceneri del franchismo e il partito socialista operaio spagnolo. Ma anche un governo «pueblo unido» tra Psoe e Podemos rappresenterebbe una forzatura, visti i risultati delle elezioni e i rapporti pessimi tra le due forze della sinistra. Il Pp del premier uscente - senza poteri - Mariano Rajoy si rafforza: è il primo partito in tutte le regioni, tranne la Catalogna ma compresa l’Andalusia, feudo socialista; eppure resta lontano dalla maggioranza necessaria a governare. E i voti che ha recuperato li ha presi in parte al suo alleato naturale, i centristi di Ciudadanos. I socialisti sono andati un po’ meno peggio del previsto, evitano l’umiliazione del terzo posto, ma confermano la crisi dei riformisti in tutta Europa: irrilevanti in Gran Bretagna, dove neppure il sacrificio di Jo Cox ha scosso la base laburista, docili vassalli della Merkel in Germania, messi malissimo in Francia, messi maluccio pure in Italia. Il Psoe è il partito fondativo della democrazia, è stato al potere per ventidue anni prima con Gonzalez e poi con Zapatero, che ora non conta più nulla. Gonzalez invece nel partito conta ancora molto; ed è contrarissimo all’ipotesi di un governo con Unidos Podemos, il cartello elettorale tra i comunisti e il movimento di Pablo Iglesias, che esce ridimensionato e proprio per questo sarà più malleabile. Un esecutivo delle due sinistre sconfitte avrebbe bisogno dell’appoggio di tutti i separatisti catalani; ma i seggi sono pochini, e le differenze culturali enormi. Iglesias potrebbe anche cedere sulla richiesta di un referendum per l’indipendenza di Barcellona; però i baroni del Psoe premeranno d’intesa con Gonzalez per un accordo con i popolari, o almeno per un patto di non belligeranza. Chiedono la grande coalizione la Confindustria spagnola, la Chiesa, l’Europa, la Merkel: Berlino controlla il debito pubblico spagnolo, non a caso ha consentito il salvataggio delle banche e tollera un rapporto deficit-Pil al 5%, il doppio di quello italiano. Una vera alleanza di governo tra destra e sinistra resta impraticabile; i socialisti potrebbero astenersi per far nascere un governo del Pp, magari chiedendo in cambio almeno la testa di Rajoy. Che però guida il partito più votato: un partito leaderista, che ha avuto tre soli capi in tutta la sua storia; dopo il fondatore Fraga Iribarne, già ministro di Franco, l’ex premier Aznar, che con Rajoy ha rotto. Stamattina ricominciano le trattative, agevolate dal nuovo re Felipe. Questa volta un accordo lo si dovrà trovare, e in tempi ragionevoli. Ma la stagione dell’incertezza e dell’instabilità in Europa è appena cominciata. Pag 1 E’ l’ora di Milano anche in politica di Ernesto Galli della Loggia Nuovi, credibili stili pubblici Forse è giunta l’ora di Milano: l’ora di contare nella politica italiana. Dove, si sa, Milano non ha mai avuto un ruolo importante, pari almeno alla sua importanza in tanti altri ambiti. Tutta compresa e identificata nel suo preminente ruolo di rappresentante per eccellenza della tradizione municipalistica italiana, del suo orgoglio e delle sue rivendicazioni, del suo sapere fare e saper fare «da sola», proprio per questo essa ha sempre alimentato un punto di vista più o meno apertamente polemico verso la politica nazionale e il luogo simbolo di questa, verso Roma. Rispetto alla quale Milano ha costantemente voluto mantenere una contrapposizione carica di mille umori e di mille ragioni. Egualmente per questo essa è sempre stata il cuore della «questione settentrionale», che in contrappunto e insieme con l’altra, quella «meridionale», valgono a sottolineare la permanente difficoltà della Penisola di essere un solo Paese. È Milano insomma la vera capitale storica dell’antipolitica italiana. Non a caso essa ha puntualmente dato il via a tutte le «rivoluzioni» contro il potere «romano». Da quella di fine ‘800, a stento domata dai cannoni di Bava Beccaris, a quella del «maggio radioso» e dei «fasci di combattimento» del 1919, che aprì la via al fascismo, a quella del «vento del Nord» del Cln nell’aprile ‘45, a quella di Mani Pulite e di Berlusconi da cui ha preso avvio la pseudo Seconda Repubblica. Anche se poi, come è ovvio, giunte a Roma e istituzionalizzatesi, ognuna di queste «rivoluzioni» ha puntualmente tradito le attese. Si è trasformata in qualcosa d’altro divenendo anch’essa, inevitabilmente, «romana» e

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«politica». Stando così le cose, sarebbe stato lecito credere che in occasione delle ultime elezioni amministrative Milano potesse diventare una roccaforte del movimento di Grillo. Così non è stato invece. È stato anzi l’opposto: i 5 Stelle hanno avuto qui uno dei loro peggiori risultati. Contrariamente a ciò che in tanti hanno detto la cosa non si spiega però, a me pare, con una generica «buona qualità» dei candidati, bensì con un altro dato. E cioè con il fatto che in un certo senso sia Sala che Parisi rappresentavano già essi, con la loro storia, l’antipolitica. Con la loro storia per l’appunto: cioè un’«antipolitica» diciamo così biografica, di vocazione, di mentalità e di ruoli ricoperti, dunque non ideologica, non contrapposta in linea di principio alla «politica». Parisi e Sala hanno rappresentato, rappresentano, diciamo così, il massimo tasso di antipolitica istituzionale che il sistema può permettersi. Ma sufficiente a sbarrare il passo all’antipolitica anti istituzionale. Non a caso a Milano, e solo a Milano. Precisamente per questo oggi è da Milano e solo da Milano che il sistema politico - dirò meglio: Forza Italia e il Pd, i due principali partiti che con tale sistema s’identificano storicamente - potrebbe ripartire, per riguadagnare un po’ di credibilità di fronte alla marea montante della delegittimazione grillina. Mettendo in campo, per l’appunto, quella massima dose di antipolitica che esso è stato in grado di esprimere dal suo interno. Che nel panorama desertico della Destra o del centrodestra che sia, una personalità come quella di Parisi sia oggi l’unica in grado di proporre credibilmente qualcosa, di esprimere in modo convincente e con tratti accattivanti di normalità scevra di stucchevole professionismo politico, una linea di civile alternativa alla Sinistra, dovrebbe essere evidente a chiunque. Così come mi sembra indubbio che se domani, mettiamo, Matteo Renzi chiamasse, chessò, alla vicepresidenza del Consiglio Giuliano Pisapia (cioè il vero vincitore del ballottaggio di dieci giorni fa: sarebbe bastata infatti una sua sola parola critica e Sala sarebbe finito nella polvere), mi sembra indubbio, dicevo, che una simile mossa collocherebbe immediatamente lo stesso Renzi in una posizione politica del tutto nuova, lo tirerebbe fuori dall’angolo in cui virtualmente oggi si trova, lo riequilibrerebbe a sinistra pur senza nulla concedere alla moribonda oligarchia della «Ditta», insomma gli darebbe quell’immagine e quello slancio nuovi di cui egli ha assolutamente bisogno. Questo vuol dire l’ora di Milano. Uomini nuovi, nuovi stili umani e pubblici. Di personalità formatesi fuori dalla politica anche se non certo contro di essa, espressione dell’antipolitica assai più nelle forme che nella sostanza - sostanza che peraltro, non bisogna mai dimenticarlo, è affatto inconsistente: non è forse anche l’antipolitica una posizione politica, come proprio i 5 Stelle dimostrano? -. Ma in politica le forme contano eccome, così come conta la capacità dei singoli di esserne una rappresentazione adeguata. Anche perché molto spesso capita che le forme si accompagnino a dei contenuti, e alla fine è sui contenuti che anche in politica si vincono o si perdono le battaglie. Ma ci vuole chi lo capisca. Qualcuno che capisca che ormai con le querule interruzioni televisive specialità dell’onorevole Brunetta, o con le chiacchiere edificanti dei vari Andrea Romano o Pina Picierno non si va da nessuna parte. Pag 1 Bill Gates: non fermeranno il progresso di Massimo Franco Globalizzazione, migranti e nazionalismi «No, non credo che la globalizzazione si fermerà. L’innovazione scientifica è un fenomeno globale. Curare il cancro, sradicare la malaria e la poliomielite, combattere l’Hiv sono attività globali. Gli scienziati collaborano a livello globale più di quanto sia mai accaduto prima. E l’Europa dovrebbe essere orgogliosa del contributo dato ai Paesi poveri». Bill Gates si dondola avanti e indietro sulla sedia, con le braccia conserte e la voce un po’ stridula. Elabora i suoi concetti con lentezza e chiarezza inesorabili. Fa così per essere concentrato al massimo: lo faceva anche quando era un piccolo genio di otto anni, irrequieto e affamato di conoscenza. Giacca a quadri, camicia color prugna senza cravatta, scarpe nere di cuoio intrecciato, passa da una riunione all’altra. E sprizza positività. In un’ora di conversazione, in una Parigi presa più dagli Europei di calcio che da Brexit, Gates si è confermato un «ottimista impaziente». D’altronde ha chiamato così anche la statua-simbolo in mostra all’ingresso del quartier generale della Fondazione, nella sua Seattle.

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È inutile cercare crepe nelle sue certezze di progresso, né concessioni ai luoghi comuni che sembrano imperare in Europa e perfino negli Stati Uniti sull’immigrazione come male e minaccia alla stabilità occidentale. Il vero attentato al mondo nei prossimi dieci anni, nella sua visione, non è una guerra ma un’epidemia. Per questo la fondazione creata dall’inventore di Microsoft, e intitolata a lui e alla moglie Melinda, investe miliardi di dollari per combattere le malattie nei Paesi africani più poveri, e per promuovere l’istruzione. È stato definito «filantro-capitalismo». Di certo è filantropia, sostenuta da mezzi finanziari potenzialmente illimitati, e da un’organizzazione in grado di orientare governi nazionali e istituzioni internazionali. Signor Gates, la sua Fondazione chiede aiuto anche all’Italia per i Paesi poveri dell’Africa. In un momento di crisi e di paura, come si fa a convincere l’opinione pubblica che è conveniente, oltre che giusto? «Intanto per una questione morale, che a mio avviso è la più forte. Esiste un problema umanitario di un’area del mondo nella quale le popolazioni non hanno cose che in Occidente sono date per scontate. L’altro è che l’Italia si trova alla frontiera con l’Africa. Aiutare questi popoli nei loro Paesi, renderli autosufficienti, ridurre il tasso di crescita demografica che è altissimo, ridurrebbe anche la pressione migratoria». Lei vede minacce alla stabilità dell’Europa nei prossimi anni provenienti dall’interno o dall’immigrazione? «Non vedo un rischio di conflitto che minacci l’Europa per i prossimi dieci anni. Se debbo pensare a che cosa potrebbe destabilizzare il mondo, penso semmai a qualche epidemia capace di uccidere anche dieci milioni di persone. Questa è la prospettiva più rischiosa che intravedo. Sia chiaro: in dieci anni saremo più preparati ad affrontare una simile emergenza. I governi e le organizzazioni non governative stanno lavorando per minimizzare il rischio. Non voglio spaventare la gente. Ma dobbiamo essere preparati ad affrontare un problema del genere. La guerra è il passato». La guerra è il passato? Lo pensa davvero? «Ci sono i Balcani e l’Ucraina, certo. Ma non vedo situazioni destabilizzanti. In alcune aree dell’Africa certamente ci sono ancora conflitti violenti. Occorreranno circa trent’anni per mettersi alle spalle le guerre anche lì». Si ha sempre più l’impressione che l’immigrazione sia un problema strutturale, non un’emergenza. E questo crea paura e ostilità in Europa. Lei è in grado di prevedere quanto durerà questo esodo in direzione del nostro continente? «In Medio Oriente, mi riferisco alla Siria e allo stesso Iraq, si tratta di un esodo alimentato dalla guerra. Ritengo che nello spazio di cinque, dieci anni dovrebbe esaurirsi. Per quanto riguarda l’Africa, credo che occorrerà un ventennio almeno affinché si creino condizioni tali da scoraggiare le persone a cercare opportunità in luoghi diversi dai loro Paesi. Ma la situazione in Africa sta migliorando. Il caso dei rapporti tra Stati uniti e Messico è molto istruttivo». In materia di immigrazione? «Esatto. C’è stato un momento in cui l’esodo di messicani negli Stati Uniti era massiccio. Poi, grazie all’aiuto finanziario offerto al Messico, il fenomeno si è riassorbito. E negli ultimi tre o quattro anni l’immigrazione dal Messico negli Usa si è praticamente azzerata, perché si sono create condizioni migliori per chi vive in quel Paese. D’altronde, è impressionante lasciare il posto dove sei cresciuto, dove ci sono la tua cultura e la tua lingua, per andare altrove». Ma l’Africa è molto diversa dal Messico, non crede? Ci sono interlocutori nei governi africani? Controllano il loro territorio? Spesso sono Paesi destabilizzati, con governi fragili se non falliti. «L’Africa si trova in una situazione non omogenea. L’Etiopia ha avuto una terribile guerra e carestie, ma negli ultimi dieci anni ha conosciuto ottimi progressi nell’agricoltura e nel sistema sanitario. Oggi contribuisce alla stabilità dell’Africa e continua a favorire una diminuzione del tasso di crescita della popolazione. In Libia e Somalia ci sono governi deboli e conflitti, come in Africa centrale. Ma il trend in molte parti dell’Africa è positivo, quasi fenomenale. Una cosa è la regione subsahariana, dove esiste un problema di risorse, di produttività dell’agricoltura, di acqua, di malattie, di pura sopravvivenza, e altra cosa è il Nord Africa. Ad esempio la Libia ha problemi di stabilità, ma può contare sul petrolio. Il problema lì non è di sopravvivenza ma di stabilità».

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Come mai dall’Europa questi miglioramenti o almeno questo quadro di insieme si vede meno? «Perché i progressi sono graduali, lenti. Ma se molte persone potessero guardare da vicino e seguire il miglioramento che c’è stato e che è in atto, direbbero: “Ehi, questo non l’ho mai letto nei titoli dei giornali”». Lei insiste molto sull’agricoltura. Ritiene che il modello di sviluppo industriale dell’Occidente non possa funzionare in Africa? «Credo che l’agricoltura sia fondamentale come punto di partenza. Il 75 per cento dell’economia africana si basa sull’agricoltura. Ma bisogna che sia produttiva per rendere quei Paesi autosufficienti. Oggi la produttività della loro agricoltura è un quarto di quella dei Paesi occidentali. Noi cerchiamo di accelerarne la crescita, finanziando iniziative che migliorino le condizioni di vita. L’agricoltura è il primo passo verso il progresso. Se pensiamo alla Cina, al Brasile, alla Corea del Sud di sessant’anni fa: hanno tutti cominciato a crescere partendo dall’agricoltura. E oggi non si possono più definire Paesi poveri. Salute e istruzione sono fondamentali perché in prospettiva certe aree del mondo arrivino all’autosufficienza». In un’Europa spaventata dall’immigrazione e condizionata dal populismo, reduce dal voto antieuropeo in Gran Bretagna, non teme che l’attenzione ai Paesi poveri sia destinata a indebolirsi, e che Fondazioni globali come la sua incontrino problemi crescenti? «No, non lo credo. Come contributi individuali, ci sono alcuni Paesi europei che danno più di altri fuori dall’Europa. Norvegia, Danimarca, Svezia, Gran Bretagna forniscono lo 0,7 per cento del loro bilancio. Germania e Francia stanno facendo sforzi per raggiungere quel livello e aiutare la nostra Fondazione. E L’Italia, mi ha detto Matteo Renzi, spera di tornare entro il 2020-2021 ai livelli di altri Paesi europei come donazioni. Non credo neanche che un fatto come il voto britannico sull’Europa renderà più difficile il rapporto con fondazioni globali come la mia. La partnership con l’Unione Europea e il Regno Unito continuerà perché è di reciproco interesse. Il tema umanitario è lì, come il commercio, c’è l’esigenza di mettere insieme i migliori talenti mondiali e lavorare insieme per risolvere le questioni più difficili. Ci sono sempre buone o cattive sorprese lungo un cammino, ma le cose vanno avanti». Ma la propaganda xenofoba dice che gli immigrati si muovono e le malattie con loro. «Il 99 per cento delle persone che si muovono non hanno nulla a che fare con l’immigrazione. Si muovono per andare in vacanza, per affari. Le migrazioni riguardano percentuali minime. E le malattie non hanno niente a che fare con l’immigrazione. In Siria si sono registrati casi di poliomielite perché la guerra ha distrutto il sistema sanitario». La sua visione del futuro contrasta con quella europea. Che impressione le fa l’Occidente? Vede un rischio di de-globalizzazione? «No, non lo credo. La globalizzazione continuerà. Se guardiamo alle innovazioni scientifiche, all’idea di curare il cancro, sradicare polio e malaria, si tratta di attività globali. L’Europa dovrebbe essere orgogliosa di aiutare i Paesi poveri. I bisogni umanitari sono lì, la solidarietà serve a risolverli. Certo, sarà interessante vedere come l’Unione Europea e la Gran Bretagna svilupperanno la loro collaborazione. Ma continuerà a esserci, anche perché ne traggono benefici reciproci». I populisti non finiranno per impedire una strategia lungimirante sull’immigrazione? Non è preoccupato da questa onda che va dall’Europa agli Stati Uniti? «L’immigrazione è un tema controverso, ma non posso evitare di pensare che nel passato il grande problema era l’immigrazione europea verso l’America. Ecco, bisognerebbe esaminare la storia e vedere che grazie all’immigrazione gli Stati Uniti sono diventati un grande Paese. Capisco che ci sia gente che vede le cose cambiare troppo, o troppo in fretta; che è a disagio perché alcuni ricevono molto appoggio, altri no. C’è stata una reazione negativa, perfino in Germania, quando è sembrata aprirsi troppo ai migranti. Ma non c’è scappatoia su immigrazione, innovazione, globalizzazione: creano controversie, eppure non potranno essere rallentate». La sindrome dell’assedio, però, esiste. «È un problema dei politici ed è una percezione reale. E qualcosa va fatto. Ma la veduta estrema che nega i benefici del commercio, dello scambio di talenti che fa così bene al

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mondo, indica che questo processo offre più opportunità che svantaggi. Anche su questo, gli Usa offrono ottimi esempi». Lei ha creato migliaia, forse centinaia di migliaia di posti di lavoro. Ma nell’opinione pubblica c’è chi ritiene che la globalizzazione e l’economia digitale distruggano anche molti vecchi posti di lavoro. Gli stessi Donald Trump o Bernie Sanders sono visti come sottoprodotti di una rivolta contro l’economia mondiale e le sue élite. Può rassicurare l’opinione pubblica? «Preferirei non dire nulla su Bernie Sanders». Ci aiuti comunque a inquadrare il problema. «Negli ultimi duecento, venti o cinque anni sono accadute molte cose positive. La gente vive meglio, si cerca di rendere l’energia meno cara, di avere un’aria più pulita. E i posti di lavoro creati nello spazio dell’informazione tecnologica hanno dato enormi opportunità. Questo è già un cambiamento. Ora aiutiamo i poveri a sopravvivere, e mi chiedo chi dovrebbe finanziare questi aiuti se non i Paesi ricchi. Non credo che si possa ritenere controversa la creazione di un vaccino contro la malaria o l’Hiv». Signor Gates, che cosa rimane di Trey, «tre», come la chiamava sua nonna, grande giocatrice di bridge? «Mi soprannominò Trey, come il tre delle carte, perché ero William III, nome che portava anche mio nonno. Di “Trey” credo mi siano rimaste la voglia di imparare e di conoscere. Ho sessant’anni, alcuni atteggiamenti infantili li ho superati. Ma mi è rimasta una grande curiosità, che mi permette di avere un approccio giovane alle cose. Mi ritengo molto fortunato» . Pag 12 La nuova faglia non corre più tra destra e sinistra di Federico Fubini Può suonare strano dirlo proprio adesso, ma l’Europa aveva mai raggiunto un’unificazione politica intensa come in questi mesi. Il problema è che non riguarda la disponibilità dei governi a creare istituzioni democratiche comuni: riguarda le menti e i cuori degli elettori. Di rado il tenore dei discorsi e le linee di frattura nelle opinioni politiche in Europa erano state tanto simili in tanti Paesi simultaneamente. Un’occhiata al disfacimento dei partiti in Gran Bretagna in queste ore non fa che confermarlo. Non è più tempo di destra contro sinistra, o di centrodestra contro centrosinistra. Il referendum britannico ha fuso nel rifiuto una coalizione di ex operai laburisti e piccolo-borghesi ultra nazionalisti di destra, ricchi benpensanti di Londra e nostalgici dell’impero. Fatte le dovute differenze, non illudiamoci che altrove sia diverso. Ovunque in Europa, anche in Italia, dall’altra parte della barricata si muove una strana alleanza di élite degli affari, intellettuali, ceti produttivi e istruiti delle grandi città, giovani che si lamentano del mondo lasciato loro dagli anziani ma al contrario di questi disertano le urne nei momenti decisivi. La nuova linea di faglia nell’Europa di questo secolo passa fra questi due campi. Gli scontri ideologici del ‘900 non sono più altrettanto urgenti. Oggi è in corso un confronto esistenziale in Gran Bretagna, Francia, Olanda, Danimarca, Svezia, Polonia, Ungheria, Austria, Italia, Grecia fra nazionalisti e internazionalisti. Per meglio dire, fra chi cerca soluzioni a problemi globali dentro la propria nazione, anche a costo di alzare qualche ponte levatoio; e chi invece continua a pensare che soluzioni comuni continueranno a garantire prosperità, cultura e la società aperta a cui siamo abituati. Per questi ultimi, l’errore più grave sarebbe l’arroganza. Convincersi di avere così chiaramente ragione che chi non capisce deve essere senz’altro ottuso. Il referendum britannico, come quello greco un anno fa, ha dimostrato quanto questa scissione passi individualmente dentro milioni di persone. L’uomo europeo si scopre obbligato decisioni complesse che non aveva messo in conto. Nel 2015 i greci che gridavano in piazza il loro “No” alla Troika erano gli stessi che correvano in banca a mettere in salvo i risparmi, presi dal panico per le conseguenze delle loro stesse scelte. E venerdì, dopo il referendum, Google in Gran Bretagna ha registrato un’ondata di domande per sapere cosa significa la rottura con l’Europa: la sindrome del rimorso è già percepibile. Questo mostra che le forze che credono nella società aperta e in un’Europa unita devono fare molto di più per farsi capire da tutti. E conservatori, moderati e progressisti del ‘900 devono fare molto di più per coalizzarsi: se aspettano di approfittare delle reciproche difficoltà, rischiano di aprire la strada a forze che non condividono i loro stessi valori europei e possono schiacciarli. Soprattutto, chi crede in un’Europa e in una società

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aperta deve dimostrare che queste non sono solo parole. L’élite londinese non è cleptocratica come quella di Atene, ma entrambe si erano illuse di poter scavare un solco di casta fra sé e le maggioranze; per questo ne sono state travolte. Servono con urgenza in Europa politiche che ricostituiscano il ceto medio, lo difendano, gli ridiano speranze e accesso a un’istruzione di qualità. Solo in comune sono possibili. L’alternativa è in mano ai tragici manipolatori di opinione che abbiamo appena visto, non per l’ultima volta, all’opera a Londra. Pag 17 Così ha vinto un sovranismo ammuffito di Bernard-Henri Lévy Brexit è la vittoria non del popolo, ma del populismo. Non della democrazia, ma della demagogia. È la vittoria della destra dura sulla destra moderata, e della sinistra radicale sulla sinistra liberale. È la vittoria, nei due campi, della xenofobia, del vecchio odio verso l’immigrato e dell’ossessione di avere il nemico in casa. È la rivincita, in tutto il Regno Unito, di coloro che non hanno mai sopportato che gli Obama, Hollande, Merkel e altri esprimessero la propria opinione su quello che essi si accingevano a decidere. È la vittoria, in altri termini, del «sovranismo» più stantio e del nazionalismo più stupido. È la vittoria dell’Inghilterra ammuffita sull’Inghilterra aperta al mondo e all’ascolto del suo glorioso passato. È la sconfitta dell’Altro davanti al rigonfiamento dell’Io, e del complesso davanti alla dittatura del semplice. È la vittoria dei sostenitori di Nigel Farage su una «classe politico-mediatica» e sulle «élite mondializzate» che essi ritengono siano «agli ordini di Bruxelles». È la vittoria, all’estero, di Donald Trump (il primo, o uno dei primi, ad aver acclamato questo voto storico) e di Putin (il cui sogno e, probabilmente, uno dei progetti - non lo si ripeterà mai abbastanza - è la disgregazione dell’Unione Europea). È la vittoria, in Francia, dei Le Pen e dei Mélenchon che sognano una variante francese di Brexit, mentre ignorano completamente l’intelligenza, l’eroismo, la radicalità e la razionalità francesi. È la vittoria, in Spagna, di Podemos e dei suoi Indignati di cartapesta. In Italia, del Movimento 5 Stelle e dei suoi clown. In Europa centrale, di chi, dopo aver percepito gli utili dall’Europa, è pronto a liquidarla. È la vittoria, ovunque, di coloro che aspettavano solo che si presentasse l’occasione per sottrarsi all’impegno europeo; di conseguenza, siamo all’inizio di un processo di smembramento che, oggi, nessuno sa come potrà essere arrestato. È la vittoria della folla di Metropolis sulla «colazione dei canottieri» (riferimenti al film di Fritz Lang e al dipinto di Auguste Renoir, ndt). È la vittoria degli estremisti violenti e di dementi gauchisti, dei fascisti e degli hooligan avvinazzati e pieni di birra, dei ribelli analfabeti e dei neonazionalisti che fanno venire il sudore freddo. È la vittoria di coloro che, come l’inenarrabile Donald Trump che urla sventolando la parrucca gialla come un lazo: «We will make America great again!», pensano di interporre un muro, anche loro, fra «i musulmani» e se stessi. Questo si potrà dire in anglico, nella lingua dei rital, in franglese. Sarà detto ringhiando, picchiando, cacciando via, rimandando in mare, vietando di entrare o proclamando a voce alta l’irrisorio e fiero: «Sono inglese, io, signore» - o scozzese, o francese, o tedesco o altro ancora. Sarà, sempre, la vittoria dell’ignoranza sul sapere. Sarà, ogni volta, la vittoria del piccolo sul grande, e della cretineria sull’ingegno. Infatti, amici britannici, è evidente che «i grandi» non sono i «plutocrati» e i «burocrati»! E nemmeno i «privilegiati» di cui oggi si sogna ovunque, come da voi, di veder la testa infilzata su una picca! E quelli che Brexit ha silurato, cancellando l’appartenenza all’Europa non sono, ahimè, gli «oligarchi» denunciati dai vostri battistrada! I grandi sono gli amici e gli ispiratori della vera grandezza dei popoli. Sono gli inventori di quella splendida chimera, nutrita con il latte di Dante, Goethe, Husserl o Jean Monnet, che si è chiamata Europa. Sono questi grandi che voi state rimpicciolendo. Ed è l’Europa come tale che si sta dissolvendo nel nulla del vostro risentimento. Che l’Europa abbia avuto un suo ruolo nel processo della propria messa a morte, è vero. Che questa «strana sconfitta» sia anche quella di un corpo esangue, e che si disinteressava alla propria anima, alla propria storia, alla propria vocazione; che l’Europa cui viene dato il colpo di grazia fosse moribonda da anni perché rappresentata da dirigenti scialbi e già fantomatici, il cui errore storico era di credere che la fine della Storia fosse avvenuta e ci si potesse addormentare in un sonno eterno purché venisse messo in funzione l’annaffiatore automatico, è certo. Insomma, che la responsabilità della catastrofe incomba anche su politici che hanno preferito - da fedeli ascoltatori dei loro spin doctor e dei loro maestri

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sociologi - accarezzare gli eventi nel senso del pelo che è quello della non-Storia, attenuare il rombo dei temuti temporali e rinchiudersi in un newspeak le cui parole sono sempre servite a tacere piuttosto che a dire, anche questo è un’evidenza. Ma coloro che hanno ottenuto la maggioranza al referendum, e coloro che l’applaudono, non vengano a raccontarci che volevano difendere, in segreto, chissà quale «Europa dei popoli». Infatti Brexit non è la vittoria di un’«altra» Europa, ma di una «assoluta mancanza di Europa». Non è l’alba di una rifondazione, ma il possibile crepuscolo di un progetto di civiltà. Significherà, se non si ritorna in sé, la consacrazione della grigia Internazionale degli eterni nemici dei Lumi e di chi ha sempre avversato la democrazia e i diritti dell’uomo. L’Europa era, certo, indegna di se stessa. I suoi dirigenti erano pusillanimi e pigri. I suoi professori erano abitudinari e la loro arte di governare infiacchita. Ma quello che si prospetta al posto di questo giardino dei Finzi Contini è una zona di villini mondializzata dove si dimenticherà, poiché ci saranno ormai solo nani da giardino, l’esistenza di Michelangelo. O meglio, fra coloro che si rassegnassero a lasciar marcire questo mondo nelle pattumiere «trumpiane» della «grande America» dei fucili e stivali, o nella seduzione di un putinismo che reinventa le parole della dittatura o, adesso, nella desolazione di una Gran Bretagna che volta le spalle alla propria grandezza, fra questi dunque e i contemporanei di una fornace da cui uscirono i più spaventosi demoni dell’Europa, non c’è che lo spessore della vita di un uomo. La scelta è quindi chiara. O gli europei tornano in sé, o questo sarà il giorno di una Santa Alleanza dei militanti di una nuova Reazione la cui fonte battesimale si trova non più sul Giordano ma sulle rive del Tamigi. O gli europei escono da questa crisi senza precedenti da settant’anni con parole forti e con una azione di grande rilievo, oppure, nell’ampio spettro coperto dai linguaggi pre-totalitari - dove la smorfia rivaleggia con l’eruttazione, l’incompetenza con la volgarità e l’amore del vuoto con l’odio per l’altro - sarà il peggio a fare la sua apparizione. Pag 28 Il nostro ruolo in questa Europa di Michele Salvati Alcuni giorni fa, il 16 giugno, avevo scritto un commento in cui discutevo delle possibili conseguenze del Leave o del Remain nel referendum britannico sulle politiche - economiche ed europee - del nostro governo. Avendo prevalso, seppur di poco, i Leave mi concentro sulle conseguenze della Brexit. In quel commento avevo riassunto i principi delle politiche italiane relative all’Unione Europea - non solo del governo attuale, che ne ha mutato solo i toni e l’efficacia, ma anche dei precedenti - in tre costanti: la richiesta della maggiore flessibilità possibile per le politiche economiche nazionali, nell’ambito dei trattati europei che abbiamo sottoscritto; il massimo sforzo politicamente sostenibile al fine di attuare politiche che attenuino i vincoli strutturali (debito, produttività, efficienza delle istituzioni pubbliche) che frenano la crescita del nostro Paese; l’insistenza per politiche dell’Unione - se necessario attraverso riforme degli stessi trattati - che ci mantengano sulla rotta dell’«ever closer Union», di una Unione sempre più stretta, tracciata dai padri fondatori. È troppo presto, e il trauma è troppo straordinario, per avanzare stime affidabili sulle conseguenze politiche ed economiche che esso provocherà: per ora si può solo assumere che saranno serie e negative, sia nel breve che nel medio periodo, per il Regno Unito; meno gravi, ma sempre negative, per il resto dell’Unione, per l’eurozona e per noi. Sulla base di questa assunzione - incerta, generica, provvisoria, ma l’unica oggi possibile - riusciamo ad avanzare previsioni su come l’Unione senza Gran Bretagna andrà evolvendo ed esprimere un’opinione su come, all’interno di essa, il nostro Paese dovrebbe comportarsi? A mio modo di vedere le prime due costanti della nostra politica non richiedono alcuna revisione. Ancora di più dovremmo combattere per margini di flessibilità nazionali, ora anche al fine di contrastare le eventuali conseguenze macroeconomiche negative della Brexit; e ancora di più dovremmo impegnarci per attuare politiche strutturali incisive, che accrescano il livello di competitività del nostro sistema produttivo, di solidità di quello finanziario, nonché i livelli di efficienza delle nostre istituzioni pubbliche. Europa o non Europa e, all’interno dell’Europa, Brexit o non Brexit, queste sono politiche che dovremmo comunque perseguire per ottenere un po’ di respiro nel breve periodo e qualche possibilità di crescita nel lungo, non esclusivamente basata su una svalutazione dei salari. Il problema che si apre con la Brexit è quello della terza costante e due domande

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sono d’obbligo: l’eliminazione della «grande frenatrice» dal ristretto circolo dei grandi decisori europei indurrà i restanti a marciare più speditamente in direzione di una «ever closer Union»? E il nostro Paese sarà tra quelli che avranno una sufficiente autorevolezza e vorranno utilizzarla per raggiungere questo obiettivo? Coloro i quali credono che, eliminata la Gran Bretagna, la strada verso un’Europa meno intergovernativa e più comunitaria - costituita da un gruppo di stati dell’eurozona disposti a significative cessioni di sovranità in materie come la gestione delle frontiere e dell’immigrazione, la politica estera e la difesa, alcuni principi di base in tema di welfare, una politica macroeconomica veramente condivisa - sia una strada in discesa, temo che si illudano di grosso. È invece una strada difficilissima e l’opposizione del Regno Unito è stata spesso usata come pretesto per nascondere la scarsa volontà di percorrerla, anche da parte di Paesi che, a parole, si dicono favorevoli al metodo comunitario e all’«ever closer Union». Anche da parte di Francia e Germania, che di questa Unione più stretta dovrebbero essere la coppia traente. E vengo allora alla seconda domanda: e l’Italia? Si aggiungerà con la Spagna ad una (eventuale) coppia traente? Tentare una risposta ci avvicina al terreno molle della fantapolitica, ma un’osservazione per ora può bastare: molto dipende dal governo in carica nel periodo in cui occorrerà prendere decisioni importanti. Un governo solido, guidato da una personalità convinta del nostro destino europeo, potrebbe avere l’autorevolezza e sostenere l’impegno necessari a cooperare attivamente in direzione di una «ever closer Union». Nell’Europa della Brexit e di possibili effetti domino, un’Europa in cui, a partire dalle elezioni spagnole, procedendo col referendum costituzionale italiano dell’ottobre e poi, nel 2017, con le elezioni presidenziali francesi e quelle olandesi e tedesche - tutte prove elettorali che i partiti filoeuropei affrontano con grandi incertezze e difficoltà - …in questa Europa parlare di grandi riforme dell’Unione può sembrare, più che azzardato, privo di ogni aggancio con la realtà. Ma la partita, per quanto difficile, appartiene a quelle che possono essere giocate e il male della Brexit potrebbe non essere venuto soltanto per nuocere. Pag 29 L’asse tra Renzi e Merkel per rilanciare l’Unione di Wolfgang Münchau Venerdì, il giorno dopo il referendum britannico, la Borsa inglese è crollata del 3,15%, ma quella italiana del 12,4%. Non preoccupatevi per i britannici. Il loro recupero sarà un po’ faticoso. La situazione politica è instabile. La vittima principale del voto britannico è l’eurozona. E la minaccia concreta viene dall’Italia. Lo scenario di un’eurocatastrofe non è un evento estremo, un cigno nero, ma una colomba bianca. Dopo il referendum britannico ci sarà quello italiano, a ottobre. Non riguarda l’adesione alla Ue ma le modifiche della Costituzione decise dal governo e dal Parlamento. Parto intanto dal presupposto che il primo ministro Matteo Renzi perderà il referendum. I sondaggi non indicano ancora questo esito, come del resto non facevano in Gran Bretagna, prima del referendum di settimana scorsa. I referendum sono sempre e soprattutto giochi d’azzardo. Le elezioni comunali italiane hanno cambiato il consenso politico a discapito del partito al potere. Quando gli elettori scontenti intravedono l’opportunità di dare una lezione al governo, la colgono sempre più spesso. La minaccia di Renzi di dimettersi nel caso di un No, è uno stimolo più che un deterrente. Il pericolo è serio. Un No a ottobre scatenerà una valanga di euroscetticismo difficile da contenere. Nel caso, non più improbabile, di una vittoria del Movimento 5 Stelle alle prossime elezioni parlamentari, il rischio di un referendum sull’uscita dall’euro è alto. Il partito leader ha già preso posizione in merito, come David Cameron. Non abbiamo neanche bisogno di speculare su questo punto, su come si è arrivati a questo referendum e sul suo probabile esito. Già il fatto che la questione sia all’ordine del giorno di un potenziale partito al governo, è di per sé inquietante. Un’uscita italiana dall’euro equivarrebbe infatti a una crisi finanziaria di un ordine di grandezza storicamente inedito. I debiti scadrebbero, le banche crollerebbero. Parte del surplus investito all’estero si dissolverebbe. Il ritorno al marco tedesco distruggerebbe in pochi minuti i vantaggi competitivi acquisiti faticosamente in 15 anni. Nel suo incontro di oggi con la cancelliera tedesca e il presidente francese François Hollande, Matteo Renzi dovrebbe quindi prospettare il grave pericolo emerso con la Brexit e mettere in guardia dal riporre i problemi sotto il tavolo come negli anni passati. Al riguardo, Renzi non deve neanche mettere in discussione la sua personale fedeltà all’euro. Non è quello il punto, ma il fatto che l’intera Unione monetaria rischia di

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tracollare nel caso di una rivolta degli elettori italiani. E al più tardi da giovedì, sappiamo come i referendum possano essere imprevedibili. L’unica soluzione immaginabile è accelerare l’unione politica tra gli Stati membri dell’eurozona - sicuramente in misura tale da eliminare i punti di rottura. Le componenti di un tale pacchetto sarebbero un’unione fiscale con un bilancio comune, una vera unione bancaria con un’assicurazione comune sui depositi, e una gestione democratica invece di trattative segrete nelle stanze dei bottoni di Bruxelles. L’unione fiscale deve prevedere un bilancio comune finanziato da tasse e strumenti di indebitamento comuni. Per contro, gli stessi Stati membri non dovrebbero più tollerare alcun deficit. La Banca centrale europea può certamente continuare a comprare obbligazioni pubbliche, ma, in questo caso, solo se comuni. Per quanto riguarda l’Italia, il problema sarebbe così risolto. Ma Angela Merkel può accettare una simile richiesta estrema, dopo averla già respinta in passato? Il motivo del diniego risiedeva nell’asimmetria della minaccia. All’epoca, l’alternativa ad un’unione fiscale era la mancanza di un’unione fiscale. Non è sorprendente che la Merkel abbia optato per la seconda, per opportunismo politico. Oggi la situazione è diversa. Una reazione a catena innescata dalla Brexit mette a repentaglio l’euro. Ovviamente, con un’unione politica non si vincono le elezioni in Germania, ma neppure con una catastrofe economica. Il mio consiglio a Renzi è di rappresentare il pericolo senza mezzi termini e di sollecitare l’unione politica. Il mio consiglio a Merkel è di ascoltarlo. LA REPUBBLICA Pag 1 Partiti tradizionali, riscatto a Madrid di Stefano Folli Se il voto in Spagna è stato influenzato dalla Brexit, non lo è stato nel senso di lacerare ancor di più il tessuto europeo. A quanto pare, gli "exit poll" hanno risentito delle turbolenze, invece i dati reali per nulla. Certo, il risultato britannico aveva sorpreso i contendenti, costringendoli ad aggiornare all'ultimo momento il loro messaggio elettorale. Ma con esiti discordanti. Il premier Rajoy, popolare, chiedeva stabilità e ha ottenuto di rafforzare il suo partito rispetto allo scorso dicembre, seppure non abbastanza per formare il governo. I socialisti di Sanchez mantengono le loro posizioni ed evitano il sorpasso di Podemos che sembrava cosa fatta stando ai sondaggi. Perde invece il movimento destrorso Ciudadanos. Chi rimane al palo è il Podemos di Iglesias che ha perso la sua occasione storica. E che peraltro si era affrettato a prendere le distanze dalla linea anti-europea della Brexit. Non c'è un Farage in Spagna e nemmeno un Boris Johnson. In sostanza emerge dal voto che i partiti tradizionali, appartenenti alle grandi famiglie europee, hanno retto il colpo e non sono stati travolti dall'onda emotiva in arrivo da oltre-Manica. Il riflesso spagnolo del grande sconvolgimento che attraversa l'Europa si misura nel segno di una razionalità maggiore di quel che si temeva. Questo non significa che il governo di larga coalizione sia probabile. Rajoy, è ovvio, può solo sperare in un appoggio dei socialisti, oltre che del naturale alleato Ciudadanos. Ma qualsiasi ipotesi di grande coalizione, variamente declinata, richiede ai socialisti una attenta riflessione, proprio quando la diga messa a reggere la spinta di Podemos sembra aver tenuto. Allo stesso modo, l'altra ipotesi, un'intesa di sinistra fra il partito socialista e Podemos, avrebbe un senso politico poiché il Psoe non è stato sorpassato dalla nuova sinistra pragmatica di Iglesias. Ma resterà sulla carta perché non sembra che ci siano i voti necessari. Il che per Podemos è una sconfitta. Quel che è significativo, il voto spagnolo non si è trasformato in una fuga dall' Europa, come qualcuno temeva. I due partiti affiliati alle famiglie politiche continentali, popolari e socialisti, hanno nel complesso tenuto. La rivoluzione di Iglesias deve attendere, almeno a livello nazionale. Ci sono analogie fra Spagna e Italia? Alcune, forse più apparenti che sostanziali. Vero è che Podemos è stato paragonato ai Cinque Stelle. Entrambi rappresentano un quarto dell' elettorato, forse qualcosa di più. Entrambi hanno fatto del "cambiamento", non sempre ben specificato, il loro slogan, il che li ha portati a governare importanti città: Barcellona e Madrid gli uni, Roma e Torino gli altri. Tuttavia Podemos ha un marchio di sinistra molto più marcato, sia pure di una sinistra de-ideologizzata e talvolta imprevedibile nelle sue scelte. I Cinque Stelle hanno un'impronta trasversale molto più evidente fin dalle origini, caratteristica che li pone come seconda gamba del traballante tripolarismo italiano, in cui il terzo soggetto (il centrodestra berlusconiano) è oggi privo di identità e di una chiara leadership. Ma ciò che rende simili i due alfieri del

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"cambiamento" in Spagna e Italia è l'atteggiamento verso l'Europa. Essi oggi tendono a parlare un linguaggio comune. Il leader spagnolo, Iglesias, non ha nulla in comune con i Wilders o le Marine Le Pen. Non chiede un referendum anti-Unione, non vuole uscire dall'euro. Si limita a sognare un'Europa «diversa», un'Europa «dei cittadini e non delle banche». È la stessa linea dei Cinque Stelle, esposta dal vicepresidente della Camera e leader emergente, Di Maio: nessuna confusione con Salvini e il tentativo, destinato a essere frustrato, di seguire in Italia le orme dei pro-Brexit. La differenza è che il M5S arriva a questa conclusione al termine di una lunga circumnavigazione intorno all'idea europea. Da soci e alleati di Farage nel parlamento europeo al sostanziale realismo riformista della nuova linea esposta da Di Maio nelle varie cancellerie. Spagna e Italia non seguiranno Londra, nemmeno se al governo salissero i Podemos e i Cinque Stelle. IL GIORNALE Quel vicepremier che usa le parole dei terroristi di Renato Farina Il vicepremier turco ha usato contro il Papa che abbraccia i fratelli armeni, assassinati in massa al tempo dell'impero ottomano, la stessa formula usata da Al Qaeda e dal Califfato per sentenziare la guerra ai cristiani: è un crociato. Ha detto testualmente Nurettin Canikli davanti a un gruppo di giornalisti: «Le attività del Papa e del papato portano le tracce e i riflessi della mentalità delle Crociate». Il numero tre di Ankara, ritenuto in ascesa, ha pesato bene la formula di condanna, non si è fermato al rammarico per parole ritenute inopportune. Ha giudicato il Papa e il complesso delle sue opere e azioni come fomentatori di guerra. Canikli non ha riproposto uno di quei gesti formali tipo il richiamo dell'ambasciatore o la convocazione del nunzio, o annunciato note di protesta che poi sono oggetto di analisi degli esperti, ritiene il caso disperato: e si è rivolto perciò all'opinione pubblica interna ed internazionale con una mirata dichiarazione di odio, tanto più pericolosa perché fatta da un perfetto interprete del capo dello Stato Erdogan. Stupore del Vaticano, ma non troppo. Il fatto è che i diplomatici non sono riusciti a frenare il Papa, come avevano assicurato ai turchi. Padre Federico Lombardi, portavoce della Santa Sede, ha cercato di parare il colpo e ha sostenuto l'ovvio e cioè che Francesco non intende lanciare nessuna crociata ma gettare ponti di pace. E' proprio questo che la Turchia non vuole accettare: i ponti, quando siano basati sul riconoscimento della verità, sono per Erdogan lesioni alla sua volontà di potenza. E sente come minaccia ai suoi disegni egemonici chi gli ricordi debiti e colpe, sia pure dei suoi antenati ideologici. Il problema è che ad essi lui ispira la sua politica di oggi. Il Papa dicendo genocidio, è come avesse detto: il Re è nudo. Non era previsto che papa Francesco a Yerevan, capitale dell'Armenia, durante questi tre giorni nello Stato caucasico evocasse la realtà maledetta e tremenda del genocidio usando l'unica parola adeguata. Jorge Bergoglio aveva anticipato in pubblico che non avrebbe ripetuto quella definizione, scandita in san Pietro il 12 aprile del 2015. Non ce n'era traccia nei discorsi scritti. Ma poi incrociando lo sguardo con le semplici persone e non con le carte, ha visto che la verità dei fatti tocca a un testimone di Cristo come compito supremo più che le carezze fasulle della diplomazia. La misericordia soccorre il viandante calpestato, versa «olio e vino» sul corpo martoriato, non trova parole per edulcorare il male. Certo aprendo i cuori al perdono, alla comprensione, al superamento persino della morte inflitta a un milione e mezzo di persone, ma senza rinunciare alla pietà per le vittime che gridano dalle loro croci. Le giornate armene del Papa si intitolano al primo popolo che ha accettato il battesimo, nel 310 dopo Cristo. Dopo di allora questo popolo non ha avuto un solo secolo senza che la sua terra fosse invasa. Da mongoli e persiani. Fino al genocidio perpetrato al tempo dell'Impero Ottomano, ordito scientificamente dal governo dei «Giovani Turchi» a partire dal 24 aprile 1915. «Per aberranti motivi» ha detto il Papa: «Tutto accadeva mentre le grandi potenze internazionali guardavano dall' altra parte». Francesco parlava di vicende di cento anni fa, ma vede bene che è in corso un altro genocidio, che ha per vittime i cristiani specie ancora una volta gli armeni ed altri popoli presenti da secoli in Medio Oriente, come gli yazidi. E tuttora le potenze internazionali insistono a girarsi dall' altra parte. Si occupano di Brexit come fosse la catastrofe assoluta, e fingono di non vedere scorrere il sangue a fiumi. Gli armeni sono cristiani di una specie particolare. Propriamente non si sono mai separati da Roma, semplicemente non parteciparono a un Concilio nei primi secoli, per cui non hanno fatto

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proprie alcune definizioni sulla Trinità. Ieri il Papa romano e il Papa armeno (si chiama proprio così), il katholikos Karekin II hanno firmato una dichiarazione congiunta che fa «correre verso l' unità piena» questi fratelli che non hanno ragioni di stare divisi. A Etchmiadzin, il Vaticano armeno, si custodisce la lancia con cui il centurione Longino aprì e squassò il costato di Cristo, da cui uscirono cascate di benedizione. Per questo la croce qui più della morte indica la resurrezione. IL GAZZETTINO Pag 1 L’unica strada è la grande coalizione di Alessandro Campi L’errore da non fare, commentando le elezioni politiche spagnole, è di leggerne il risultato alla luce del referendum inglese. Ci si chiedeva, ad esempio, quanto quest’ultimo potesse condizionare il voto favorendo sull’onda del successo ottenuto in Gran Bretagna, le forze cosiddette populiste, antisistema e d’ispirazione anti-europea. Ma era una domanda sbagliata alla radice, visto che nessuno dei partiti spagnoli in corsa, compresi i due movimenti più apertamente critici nei confronti dell’establishment politico tradizionale, vale a dire Podemos e Ciudadanos, per tale ragione classificati appunto come populisti, ha mai fatto campagna elettorale contro l’Unione europea. In Spagna non c’è nessuna forza che somigli, anche solo lontanamente, all’Ukip britannica, ai lepenisti francesi o alla Lega di Salvini. Ciò significa che se il partito di Pablo Iglesias è cresciuto nei consensi, senza tuttavia conseguire – stando allo spoglio reale che smentisce i primi exit poll – l’obiettivo storico di superare i socialisti, ciò non è dipeso dal fatto che abbia alimentato il fuoco dello scontento contro Bruxelles, ma da altri fattori. Su tutti l’accordo elettorale sottoscritto con i comunisti di Isquierda Unida, che ha consentito a Podemos di inglobare una quota, in realtà non troppo significativa, di voti provenienti dalla sinistra più estrema e di passare dal 20,6 al 21,1% dei voti. Si era anche pensato che il referendum britannico potesse avere un effetto mobilitante sugli elettori, spingendo a votare molti degli spagnoli che nel dicembre 2015 erano rimasti a casa. Ma nemmeno quest’effetto c’è stato: i risultati hanno anzi fatto registrare, rispetto alle ultime elezioni, un leggero aumento degli astensionisti. Evidentemente la sensazione di un voto che rischiava di essere nuovamente inutile è stata più forte di qualunque paura per ciò che potrebbe succedere nelle economie europee. L’unica – ma minima – influenza dello shock prodotto dal referendum di giovedì scorso probabilmente si è determinata a beneficio del Partito popolare di Mariano Rajoy, che negli ultimi giorni, sperando di convertire la sua mancanza di carisma in una virtù, aveva molto insistito sul tema della stabilità, sulla sua personale affidabilità di politico navigato e sulla necessità di non correre rischi politici in un momento tanto delicato. Per tale ragione aveva anche invitato gli elettori moderati e centristi a non disperdere il loro voto in direzione di Alberto Rivera e del suo movimento Ciudadonos. Quest’ultimo in effetti sembra essere uscito ridimensionato dalle urne, pagando quindi il richiamo al “voto utile”, ma la crescita speculare dei Popolari non ha avuto alcunché di travolgente. Sono ancora il primo partito di Spagna, ma sono ben lontani dall’aver ottenuto i seggi necessari (176) a governare da soli. Ne avevano avuti 122 nelle precedenti consultazioni: dovrebbero averne guadagnato una quindicina (136). Il problema della Spagna è che veniva da una condizione di ingovernabilità e si trova, dopo il voto di ieri, in una condizione praticamente analoga. Bisognerà aspettare naturalmente l’attribuzione finale e definitiva dei seggi, ma oltre al dato certo che nessun singolo partito potrà governare da solo, sembra potersi escludere sia la possibilità di un coalizione centrista-moderata sia soprattutto quella di una coalizione di sinistra. Sulla carta, per dare un esecutivo stabile alla Spagna, non sembra restare che una soluzione politica: una grande coalizione tra Pp e Psoe, resa tuttavia difficile dal contrasto personale, un misto di antipatia e disistima, esistente tra Mariano Rajoy e il leader socialista Pedro Sánchez. Dopo le elezioni del dicembre 2015 si era già parlato di una simile possibilità, ma i due avevano rifiutato di incontrarsi anche una sola volta. Una grande coalizione probabilmente richiede che uno dei leader faccia un passo indietro. E visto come sono andati i socialisti (dovrebbero aver perso quattro dei 90 parlamentari che avevano) un tale passo dovrebbe farlo a questo punto Sánchez: che ha sì evitato la beffa del sorpasso da parte di Podemos, ma che non pare assolutamente in grado di frenare l’emorragia inarrestabile che da anni ha colpito il suo partito. Ma bisogna tenere presente anche un altro aspetto che rende di difficile

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praticabilità la formula della grande coalizione: in Spagna esiste una traduzione di alternanza netta al governo che rende quasi inaccettabile, diversamente da quel che abitualmente accade ad esempio in Germania, l’idea di un compromesso o patto tra forze politiche diverse per programmi e ideali. L’impressione è che questo tratto tipico della cultura politica spagnola, molto incline alla polarizzazione e allo scontro ideologico, debba stavolta piegarsi, per realismo e buon senso, alla necessità di trarre il Paese dal pantano nel quale rischia di precipitare in virtù dello spezzettamento ormai cronico del suo sistema politico. LA NUOVA Pag 1 Regno Unito e Italia, due Paesi spaccati di Francesco Jori Fumo di Londra? Grazie no. Non riduciamo il referendum sulla Brexit a una lettura mono-tinta; a maggior ragione se la tonalità dev’essere quel glaciale grigio inglese che evoca la nebbia, in tutti i sensi. E proviamo a sottrarci all’approccio ispirato allo scontro frontale che ormai avvelena ogni confronto, dalla politica all’economia e perfino allo sport: dove per forza bisogna stabilire chi ha vinto e chi ha perso, alimentando il più deteriore dei bipolarismi, amici e nemici. L’esito di quel voto ha ben altro da suggerirci: come sarà in autunno in Italia sulla Costituzione, e negli Stati Uniti per scegliere il presidente; come sarà per le varie elezioni del 2017 in giro per l’Europa; com’è già adesso per questioni epocali immiserite in sterili bracci di ferro, profughi in testa. La sostanza non cambierebbe anche se Brexit avesse dato l’esito contrario: c’è un Paese spaccato in due sulla propria collocazione in Europa, e sui costi che comporta restarci od uscirne. Lo stesso varrà tra qualche mese in casa nostra: comunque vada il referendum, gli italiani si divideranno più o meno a metà tra chi valuta la riforma un toccasana, e chi una sciagura. Analogamente, chiunque prevalga negli Usa tra Clinton e Trump, sei americani su dieci hanno già spiegato che entrambi stanno loro indigesti: il nuovo presidente avrà comunque oltre metà del Paese contro. In giro per l’Europa, il dilagare di movimenti etichettati come populisti segnala con implacabile evidenza che le tradizionali proposte politiche sono diventate sgradevoli e sgradite. Se a tutto questo aggiungiamo l’elevata percentuale di persone che disertano qualsiasi chiamata alle urne perché la ritengono inutile o peggio ancora una presa in giro, la conclusione non può essere che una: nelle democrazie occidentali, i rappresentati si sentono sempre più estranei ai loro rappresentanti. Perciò sono diventati volatili, sfuggendo alle previsioni di politologi e sondaggisti: di volta in volta si affidano a un interlocutore diverso, illudendosi di ricavarne risposte che non trovano. O vanno a ingrossare le fila dell’astensione. In un simile contesto, è troppo comodo scaricare l’intera colpa su Bruxelles o sulla Roma di turno. Certo, l’Unione europea ha messo a nudo limiti pesanti come macigni. Certo, l’Italia rimane pervicacemente nemica del cambiamento. Certo, la sinistra così come l’abbiamo conosciuta è giunta al capolinea; ma anche la destra rivela la propria inettitudine: tant’è che ovunque lievitano le terze vie che tengono a sottolineare la propria distanza da entrambe. Il fatto è che una generazione di politici mediocri quanto presuntuosi, così distanti dai loro predecessori dell’immediato dopoguerra, si è dedicata e si dedica a inseguire il mal-essere anziché costruire un diverso essere. In troppi sembrano ispirarsi alla tragicomica lezione dei loro colleghi della Lilliput di Gulliver: dove l’assegnazione delle cariche è affidata a una gara di danza sulla fune, e il posto va a chi salta più in alto senza cadere. Funamboli, insomma. Solo che, sotto a quella corda, è cambiato il paesaggio umano. L’ex ceto medio protagonista della lunga stagione post-bellica del benessere, si è trasformato in un ceto ansioso composto da persone la cui condizione di vita è comunque peggiorata, anche senza sprofondare nella povertà: attanagliate da mille paure, si sentono sempre più distanti da chi detta le regole del vivere comune. Non ci sono scorciatoie, per uscirne: la sola strada è quella, faticosa ed esigente, della costruzione di futuro; compito che spetta alla politica vera, ma con contenuti, schemi e linguaggi radicalmente diversi rispetto al passato. Il resto è materia per imbonitori capaci di vincere magari un’elezione o un referendum. Ma prima o poi smascherati nella loro vera natura: venditori di fumo. E non solo di Londra. Pag 2 La sconfitta della finanza speculativa di Maurizio Mistri

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Alla mattina del 23 giugno ritenevo che il referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna (Gb) nell’Unione Europea (Ue) sarebbe finito con la vittoria, seppur di misura, del remain, dopo un lungo periodo di tempo nel quale sembrava affermarsi una maggioranza per la Brexit. A farmi rivedere le previsioni erano stati due elementi, e cioè l’efferato assassinio della Cox e l’incredibile attacco allarmistico dei principali organismi economici internazionali (Fed, Bce, Fmi) che dipingevano un futuro catastrofico per l’economia inglese qualora la Gb fosse uscita dall’Ue. A questa artiglieria pesante si aggiungeva una artiglieria più leggera, ma non meno devastante per le postazioni dei brexiters; mi riferisco agli appelli dei capi di molti governi del mondo, a cominciare da quelli di tanti paesi europei per finire ad Obama, affinché gli inglesi rimanessero legati al carro dell’Ue. Riflettendo su quanto andava accadendo in Gb mi sono posto la domanda, un po’ scomoda a dire il vero, se dietro alla campagna, catastrofistica, per il remain non ci fosse lo zampino della finanza speculativa internazionale. Questa non era certamente interessata al benessere degli inglesi, ma semmai era interessata a compiere una colossale speculazione nei riguardi della sterlina. Forse concedo un po’ troppo al “complottismo” oggi in voga, ma ritengo che non ci sarebbe nulla di strano se alcuni gruppi finanziari molto potenti cercassero di trarre profitto da un evento incerto, come il risultato del referendum inglese. Immaginiamo, per un momento, che una simile ipotesi sia fondata e proviamo a riflettere sul momento in cui la finanza speculativa internazionale capisce che può giocare la carta referendaria. Quel momento si manifesta subito dopo la tragica morte della Cox, morte che agli occhi degli speculatori avrebbe potuto generare una ondata emotiva capace di modificare gli equilibri politici in atto e dare una spinta alla crescita del remain. Quindi le aspettative della speculazione internazionale virano verso il remain, mentre continua il bombardamento di dichiarazioni e studi, più o meno fondati, sui “disastri” della Brexit. A loro volta le aspettative sui risultati economici della Brexit portano a far cadere sia la sterlina che varie borse europee, consentendo alla speculazione internazionale di acquistare a basso prezzo importanti asset finanziari. Tuttavia la speculazione internazionale confida che i risultati delle urne saranno favorevoli al remain e sull’onda di una condivisione di aspettative favorevoli le borse, già il 23 giugno, virano al rialzo. Il pericolo, ci dicono alcuni sondaggi, sembra scongiurato; molti inglesi sembrano essersi finalmente spaventati dalla prospettiva della Brexit. La speculazione internazionale aspetta il 24 giugno per celebrare la vittoria del remain e realizzare colossali guadagni in borsa e nei mercati finanziari, naturalmente a spese dei piccoli e medi risparmiatori ormai spaventati dalla Brexit. Invece, il 24 giugno la speculazione internazionale si trova a celebrare la propria sconfitta. Comunque sia, ora è l’Ue ad essere davanti ad una debacle politica e culturale. Adesso i leader dei paesi europei dicono che occorre andare avanti verso una maggiore integrazione. Il problema è che la maggiore integrazione a cui questi leader politici pensano consiste nel trasferire ulteriori poteri decisionali alla buro-tecnocrazia di Bruxelles e di Francoforte, diminuendo in tal modo gli spazi di democrazia in Europa. Mi pare che si voglia curare la malattia politica dell’Ue somministrandole quelle medicine che l’hanno fatta ammalare. Anni fa avrei detto che la soluzione sarebbe consistita nel dare pieni poteri legislativi al Parlamento europeo che avrebbe dovuto eleggere un proprio governo. Oggi ritengo che una soluzione del genere sia impossibile, perché il Parlamento europeo potrebbe esprimere linee di politica economica e finanziaria contrarie agli interessi dei paesi del centro-nord Europa. Insomma la Germania ed altri paesi Ue non sarebbero disposti ad accettare un parlamento europeo nel quale le linee di politica economica fossero dettate dagli elettori italiani, spagnoli, portoghesi e greci. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Uno scudo per le banche di Francesco Giavazzi Domattina, quando riapriranno i mercati, corriamo un rischio solo, ma potenzialmente esplosivo. Che gli investitori perdano fiducia nelle nostre banche - quella poca che è loro rimasta. È vero che il debito pubblico (il secondo più grande nell’eurozona dopo la Grecia) rimane il nostro tallone d’Achille, ma nulla accadrà ai titoli dello Stato fin tanto che la Banca centrale europea acquisterà ogni mese circa 10 miliardi di Btp. Ma non c’è

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quasi nulla che la Bce possa fare per le nostre banche: né per i 200 miliardi di crediti incagliati o in sofferenza scritti nei loro bilanci, né per la loro carenza di capitale. Non tutte le banche sono nelle medesime condizioni. Anzi. Intesa Sanpaolo, ad esempio, la maggiore, ha capitale più che sufficiente. Il problema sono solo alcune, in primis il Monte dei Paschi di Siena. E non perché la banca perda denaro: oggi è molto ben amministrata e guadagna, ma per il retaggio di un passato disastroso con cui non sono mai stati fatti i conti. Un passato che non riguarda solo Siena e che getta un’ombra preoccupante su tutto il nostro sistema finanziario. Quell’ombra va cancellata. Oggi, prima che domattina giustifichi una fuga via dall’Italia di investitori che in questi giorni sono alla ricerca di porti tranquilli. Nei mesi scorsi qualcosa è stato fatto con il fondo Atlante il cui intervento ha evitato il fallimento di due banche venete: Popolare di Vicenza e Veneto Banca. Entrambe sono state salvate facendole acquistare da un consorzio cui partecipa gran parte delle banche italiane. Nella sostanza ciò che è accaduto è che si sono indebolite le banche buone per salvarne due marce. Non è una buona soluzione e non andrebbe ripetuta. Passi per due banche piccine, sebbene non piccolissime, ma se si applicasse il medesimo metodo alle altre in difficoltà diffonderemmo il contagio. In altre parole, un problema sistemico che coinvolge gran parte delle nostre banche non può essere risolto internamente, richiede un intervento esterno: dello Stato o dell’Europa. È accaduto cosi con il Tarp negli Stati Uniti nel 2008-09 e più tardi in Gran Bretagna, Francia e Germania. Oggi in Europa l’utilizzo di denaro pubblico per ricapitalizzare le banche non è più concesso. O meglio, è consentito solo a condizioni impossibili, cioè dopo aver azzerato tutte le obbligazioni subordinate, che in Italia sono in gran parte detenute da piccoli investitori ignari e spesso raggirati. Ci sarà tempo di discutere perché la Consob consentì alle banche di collocare quelle obbligazioni in quei modi. Ora il problema va risolto, e le linee di una soluzione devono essere comunicate oggi, prima che i mercati domattina riaprano. L’entità dell’intervento necessario è considerevole, circa 40 miliardi di euro: 200 miliardi di sofferenze che debbono essere svalutate di un altro 20% oltre le svalutazioni già fatte dalle banche. Lo Stato investe 40 miliardi oggi che poi potrebbe in gran parte recuperare quando venderà le azioni di cui entra in possesso (in Svezia negli anni 90 un’operazione simile si chiuse con un guadagno netto per lo Stato). L’alternativa è chiedere all’Europa di farlo attraverso il Fondo salva Stati (Esm). Questo però richiede sottostare a un programma concordato con la Bce, la Commissione e lo stesso Esm. L’incertezza determinata dalla scelta della Gran Bretagna di abbandonare l’Unione Europea ha reso i mercati estremamente instabili. È tardi per soluzioni diluite nel tempo. In questi casi, la cosa peggiore è apparire di non essere in controllo di una situazione potenzialmente esplosiva. Quali che siano le valutazioni politiche sulle strade da intraprendere, aspettare che scoppi una crisi sarebbe un errore che non possiamo permetterci. Pag 1 La Ue cambi o fallirà di Angelo Panebianco Il semplice passare del tempo finisce per rendere scontato, naturale, nella percezione dei più, ciò che scontato e naturale non è affatto. È ormai da molto tempo che tanta gente in Europa dà come acquisita per sempre la pace, la pensa come una condizione naturale, irreversibile. Per conseguenza, non capisce che cosa stia davvero facendo quando segue i politici che inneggiano alla «sovranità nazionale», che dicono «riprendiamoci il nostro Paese», e simili: sta votando per la distruzione di istituzioni che, contribuendo alla pace, alla stabilità e al benessere, hanno creato l’illusione che una situazione storica del tutto eccezionale (il periodo di pace iniziato nel 1945) sia invece una «condizione naturale». Le istituzioni europee, va detto, non sono state certo le uniche, né le principali garanti della pace in Europa. Il principale garante è stato il sistema di sicurezza occidentale guidato dagli Stati Uniti. Ma le istituzioni europee, creando il mercato unico e generando prosperità, hanno favorito la stabilità politica dei Paesi membri, sono state la seconda «gamba» di quel sistema di sicurezza. Oggi è in forse l’Unione e anche il sistema di sicurezza a guida statunitense vacilla, messo in crisi dal vento isolazionista e protezionista che spira sia in Europa che negli Stati Uniti (bastava ascoltare il discorso di Donald Trump in Scozia per avere i brividi). Ma, si dice, ed è vero, le élite europee sono le prime responsabili dei guai attuali, hanno coadiuvato, con inerzia ed errori, la naturale tendenza, imposta dal passare del tempo, a perdere di

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vista i benefici della cooperazione, a comprendere quanto fragili e precarie siano le condizioni del benessere e della pace. Oggi tutti, in Europa, dicono che «bisogna riformare l’Unione» ma non fatevi ingannare. Pochi sanno che cosa bisognerebbe fare e, inoltre, dietro questa apparente unanimità, si nascondono idee diverse: tutti vogliono «riformare» ma non ce ne sono due (o quasi) che vogliano la stessa cosa. Per comprendere i termini del problema è proprio dal caso della Gran Bretagna che bisogna partire. La complessità del suo quarantennale rapporto con le istituzioni europee era dettata da ragioni geopolitiche e da ragioni culturali le cui radici sono piantate nei secoli passati. Sotto il profilo geopolitico, ha giocato il fatto che per secoli l’Isola si è rappresentata come diversa dal Continente. In virtù della sua collocazione geografica era al tempo stesso dentro e fuori l’Europa, un Continente su cui essa, quando era una grande potenza, doveva esercitare un’influenza, soprattutto impedirne la conquista, contraria al suo interesse, da parte di tiranni (da Napoleone a Hitler) ma rispetto al quale, per tradizioni e istituzioni, si sentiva estranea, e in parte lo era. Questa storia di diversità generata dall’intreccio fra geografia e storia ha sicuramente pesato nei sempre difficili rapporti con le istituzioni di Bruxelles. C’erano però anche ragioni politico-culturali, ovviamente connesse a quelle condizioni geopolitiche, riflessi della storia britannica. Ragioni che si traducevano in pesanti critiche all’Unione. Queste ragioni vanno esaminate con attenzione perché la sordità delle istituzioni europee, e di quel condominio franco-tedesco che a lungo le ha guidate, a quanto di valido in esse c’era, contribuisce a spiegare sia Brexit che la più generale crisi dell’Unione. Quelle ragioni sono sempre state neutralizzate politicamente dagli altri europei, liquidate come prova di «euroscetticismo», anche quando erano in realtà espressioni di una visione squisitamente liberale dei problemi dell’economia e della politica. L’opposizione britannica al progetto da alcuni accarezzato (per lo meno sul piano della retorica) di un «Super Stato europeo», la polemica contro il «colbertismo» di Bruxelles, ossia contro il dirigismo esasperato dell’economia, contro la burocratizzazione, contro l’eccesso di regolamentazione della vita degli europei, venivano trattate con sufficienza (anche in Italia) da coloro che erano sordi alle ragioni dell’economia liberale, indifferenti alle esigenze della società aperta, pronti a scambiare per «europeismo» ciò che in realtà era solo la trascrizione istituzionale - nelle istituzioni europee - delle culture politiche francese e tedesca (della Francia soprattutto, almeno fino alla unificazione della Germania). Chi vuole riformare l’Europa è a un bivio. Può continuare a cantarci la solfa secondo cui ci vuole più integrazione politica: è il modo più sicuro per garantire la vittoria, alle prossime elezioni presidenziali francesi, di Marine Le Pen. Oppure, può riprendere in mano alcune delle più valide obiezioni britanniche spingendo politiche e istituzioni europee in direzione diversa dal passato: fine del dirigismo, fine delle intrusioni immotivate nella vita dei cittadini, concentrazione delle attività dell’Unione su pochissime, essenziali cose, governo dei flussi migratori in primis. Quali che saranno le conseguenze economiche di Brexit, le conseguenze politiche si annunciano gravi: si amplierà la distanza fra Europa e Stati Uniti, crescerà l’influenza di Mosca, si moltiplicheranno le spinte disgregatrici. Sarebbe un bel paradosso, e una vendetta della storia, se le élite europee, in un soprassalto di fantasia e intelligenza, facessero proprie, per salvare l’Unione da se stessa, alcune buone idee tratte dal repertorio dell’euroscetticismo britannico. Pag 26 Per l’Italia meglio rafforzare il potere sovranazionale di Ricardo Franco Levi Nell’immediato dopo Brexit, queste sono le ore delle prime reazioni: di chi ha vinto e di chi ha perso, di chi pensa e si preoccupa delle conseguenze per sé e la propria famiglia, di chi, con responsabilità di vario tipo e livello, guarda allo scenario più vasto e cerca la via migliore per ripartire. A Londra c’è chi propone di lanciare un contro-referendum per ribaltare il verdetto della prima consultazione. E c’è chi fa il conto che la perdita di valore subita dalla Borsa di Londra in una sola seduta supera quanto il Regno Unito ha pagato in contributi al bilancio europeo dal giorno della sua adesione. A Bruxelles, mentre il commissario britannico perde immediatamente il proprio posto, gran parte dei suoi connazionali si affannano a preparare le carte per ottenere un’altra cittadinanza europea (che sia quella del coniuge o quella del Belgio che li ospita) e conservare così il proprio

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posto di lavoro alla Commissione, al Parlamento o al Consiglio europeo. Nelle varie capitali, intanto, ci s’interroga sul che fare. Piovono i consigli, si sprecano le opinioni. Chi chiede una risposta immediata e forte, un balzo in avanti verso un’Unione più stretta. Chi propende per un rafforzamento più circoscritto, ma immediatamente visibile, nella sicurezza o nel presidio alle frontiere. Chi teme che la deriva verso la disunione sia inarrestabile o addirittura benvenuta. In mezzo a questo frastuono, quello che forse si può dire è ciò che non si dovrà fare. Non si dovrà cercare di ripartire dai sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo) come anche a Roma si è vagheggiato. E non si dovrà cercare di ripartire inseguendo disparate alleanze e cooperazioni sui singoli, possibili campi di azione (l’economia, l’immigrazione, la difesa…), come suggeriscono tanti cultori dell’ingegneria dei trattati. No all’Europa dei fondatori, perché è storia dell’altro secolo che non rappresenta più la realtà dell’Europa di oggi e perché i sei, a partire dall’euroscettica Olanda, sono divisissimi tra loro. E no alle «geometrie variabili», perché nessun cittadino comune ne capirebbe il senso. L’Europa può ritrovare un senso politico immediatamente chiaro e un peso adeguato ai bisogni solo in un progetto che veda un consistente gruppo di Paesi che condividano tutte, ma proprio tutte le responsabilità che richiedono una gestione e, dunque, una responsabilità su scala continentale. Solo così avrà senso comune e possibilità di successo la peraltro inevitabile Europa a due velocità. I primi passi compiuti in queste ore - duole dirlo proprio su iniziativa tedesca - vanno purtroppo nella direzione sbagliata. Ieri a Berlino, si sono incontrati i ministri degli Esteri dei Sei. E domani, sempre a Berlino, la cancelliera Merkel riproporrà il trio Germania-Francia-Italia sedendosi a un tavolo con il presidente Hollande e il nostro presidente del Consiglio Renzi, con il «contorno» del presidente del Consiglio europeo Tusk e, invitato controvoglia e solo all’ultimo minuto, il presidente della Commissione Juncker. Scelta pessima per tutti, quella della cancelliera Merkel, ma soprattutto per noi. Se l’Italia aspira ad avere un ruolo, non è certo in un direttorio dei grandi che può trovarlo, ma solo nell’intelligente promozione di una prospettiva sovranazionale. L’unica all’altezza delle sfide. È forse un caso che in Europa l’istituzione oggi più potente, l’unica in grado di svolgere appieno il proprio compito, non sia un governo nazionale, neppure quello di Berlino, ma sia la Banca centrale europea, ossia proprio l’istituzione organizzata in modo compiutamente sovranazionale? È forse un caso che l’europeo più ammirato sia oggi il nostro Mario Draghi? Pag 27 Perché gli inglesi credono di poter fare tutto da soli di Beppe Severgnini Da una settimana giro l’Inghilterra con una domanda in testa: come possono pensare di fare da soli, gli inglesi? Nel XXI secolo, quando i problemi sono collettivi e richiedono risposte comuni. La nazione più aperta e internazionale d’Europa, votando Brexit, ha compiuto una scelta difensiva e nazionale. Perché? Il referendum - per quanto inopportuno, strumentalizzato, incattivito - «ha incoraggiato la nazione a considerare la questione europea» (Charles Moore, The Spectator); ed è servito a sfogare frustrazioni che, con l’Europa, c’entravano poco (c’è chi si eccita per Trump, chi vota Le Pen e chi ascolta Farage). Ma, nel contempo, ha alimentato una pericolosa illusione: quella di poter fare a meno dell’Europa. Da dove viene la pretesa inglese all’autosufficienza? Non è una domanda nuova: me la pongo dal 1972, quando studiavo inglese sulla Manica per poter chiedere «Where do you come from?» alle ragazzine scandinave. In queste giornate strabilianti - Brexit potrebbe rivelarsi uno spettacolare errore, ma lo spettacolo è innegabile - la curiosità è aumentata. A tutti vorrei domandare la stessa cosa: come può pensare la Gran Bretagna di affrontare da sola il XXI secolo, dopo aver faticato a reggere il passo nella seconda metà del XX? Nostalgie imperiali!, rispondono molti: gli inglesi non hanno capito che la mappa del mondo è cambiata, e il Commonwealth è come la cena della classe del liceo (si convoca ancora, per abitudine, ma ormai siamo diventati tutti troppo diversi). No, l’ipotesi imperiale non regge. Neppure i più anziani portabandiera della Little England pensano che quel tempo possa tornare. La nostalgia di alcuni, semmai, è per una nazione gerarchicamente ordinata in cui le persone si riconoscevano dall’accento, gli immigrati erano servizievoli e le emozioni accuratamente nascoste. Da dove viene, allora, l’illusione di poter fare a meno dell’Europa? Per prima cosa, dal possedere la lingua del mondo. Chi è inglese (irlandese, americano,

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australiano) non conosce l’ansia della comunicazione e la frustrazione dell’incomprensione. Deve solo aspettare che il mondo metta insieme le frasi. E il mondo lo fa, con risultati che vanno dall’umiliazione alla perfezione. Una seconda spiegazione è la qualità della vita pubblica. Scriveva l’americano John Gunther - grande studioso dei popoli - «il livello della vita pubblica inglese, per il resto degli europei, è motivo di incredulità» (Inside Europe Today, 1961). Oggi le cose sono cambiate: favoritismi e conflitti d’interesse sono all’ordine del giorno, anche in Gran Bretagna, ma non sono paragonabili a quanto accade altrove. Comportamenti amministrativi come quelli visti a Roma negli ultimi anni qui porterebbero a una petizione per la riapertura della Torre di Londra a uso detentivo. Una terza spiegazione è la storia militare. Nessun Paese del mondo - neppure gli Stati Uniti o la Russia - è orgoglioso quanto la Gran Bretagna delle proprie imprese belliche. La giornata dei Caduti, che altrove è uno stanco rituale, in quest’isola è motivo di intensa partecipazione: alla vigilia di Remembrance Sunday, poppies (papaveri) dovunque. L’idea della solitudine gloriosa è radicata nella psiche nazionale. Certo: ritrovarsi soli contro i nemici negli anni 40 del XX secolo era eroico; ritrovarsi soli tra gli amici negli anni 10 del XXI secolo sarebbe grottesco. Una quarta spiegazione: aver prodotto diverse icone della cultura di massa contemporanea. Un elenco è inutile, tant’è noto: dai Beatles alla minigonna, da William Shakespeare a James Bond, dal calcio al tennis, dal whisky alla tazza di tè (Wikipedia, diligentemente, aggiunge altre ventisei voci). Anche noi italiani siamo stati capaci di una produzione simile, forse non altrettanto varia; e sappiamo che il ritorno, sul piano della reputazione internazionale, esiste. E inorgoglisce. Una quinta e ultima spiegazione: lo stoicismo. Tra i popoli che ho conosciuto, solo i russi sono in grado di sopportare tanto per tanto tempo. Ma lo stoicismo russo è drammatico; quello inglese contiene una dose di autoironia. Dalle case alle scuole, dai treni allo sport, dalle spine elettriche ai bagni domestici: chi ha una certa età, in Inghilterra, è convinto che una modica quantità di scomodità sia educativa. Ed è pronto, perciò, ad affrontare i disagi che dovessero arrivare dalla Brexit. Figli e nipoti, si ha l’impressione, la pensano diversamente: avrebbero volentieri continuato a condividere alcune mollezze continentali (dall’assenza di frontiere alla presenza dei bidet). Ma i giovani inglesi sono stati pigri: hanno permesso che chi ha poco futuro decidesse del loro futuro. Ora, probabilmente, ne subiranno le conseguenze . AVVENIRE di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Il grande vaccino di Marco Tarquinio La vocazione “personale” dell’Europa È vero: è utile che certi scandali avvengano. E utilmente scandalosa può rivelarsi persino la rovinosa rottura tra Unione Europea e Regno Unito, anzi: mezzo Regno Unito, meglio: un Regno Unito più che dimezzato. A rischio di esser fatto a pezzi dai calcoli referendari sbagliati di politici presuntuosi, dai montanti rimpianti di moltitudini di sudditi di Sua Maestà britannica che sono e intendono restare europei e dal fiorire di secessioni ideali (e forse non solo) dalla secessione che è stata chiamata Brexit. Lo scandalo può rivelarsi utile perché, in questo lungo fine settimana di giugno, nell’anno sessantacinquesimo del cammino comunitario, milioni e milioni di cittadini della Ue e, inevitabilmente, più di un capo di governo e di partito si stanno interrogando sul serio – si spera duramente – su che cosa è stata e su che cosa è l’avventura complicata e bella dell’Unione. E su perché troppi di noi, in alto e in basso nella scala del potere, oggi stimino così poco e così male custodiscano questa straordinaria e pacifica sovversione di una secolare storia politica di negazione delle radici comuni, di eccitazione degli antagonismi, di ostruzione di porte e di costruzione di recinti, di scatenamento di guerre. L’abbiamo scritto un’infinità di volte: l’Europa ha bisogno di un ricominciamento. Di più: ha bisogno, in senso letterale, di una rivoluzione. Cioè, di tornare allo spirito e ai valori-guida che all’inizio del cantiere erano ben chiari a De Gasperi, ad Adenauer, a Schuman e a Spinelli. E lo scandalo della Brexit può esserne motivo. Può davvero accendere e tenere viva una ritrovata e vasta consapevolezza, può sgombrarci gli occhi per leggere e condividere la formula del 'grande vaccino' al male oscuro dell’Unione che nacque – e deve tornare a essere – Comunità, un male che si manifesta con l’arcigna degenerazione economicistica e burocratica e le derive individualiste e nazionaliste che, insieme, esaltano dettagli e

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interessi particolari e tutto riducono a cifra, quota, parametro. Anche le persone e tutta la loro vita dal primo inizio all’ultimo istante. Anche il giusto esercizio della cittadinanza. Anche la difesa dei diritti fondamentali di ogni uomo e ogni donna, ovunque siano nati, che la civiltà europea, a lungo alimentata dalle sue radici giudaico-cristiane e dal progressivo affermarsi di una laicità positiva, ha contribuito a definire e a diffondere. Ma non si scuoterà l’Europa, e non si salverà, se anche stavolta si concentrerà sui saliscendi dei titoli di Borsa (e dei titoli dei giornali simmetrici a quelle logiche). Se si farà incantare dalle sirene e dalle dinamiti dei mercati, se si consegnerà di nuovo alla falsa frenesia e alla vera perfidia delle sibille che governano listini e destini, armate degli algoritmi da incubo del massimo profitto e del minimo rispetto umano. Perché l’Europa o è per la persona o non è. Dicono che è un sogno. Ma l’Europa è questo sogno. Pag 2 Svegli di colpo, pronti a dormire di Tim Parks Il dopo-referendum d’uno scrittore inglese, ed europeo Neanche ventiquattr’ore dopo il voto storico, ecco un’email in cui si sollecita il mio aiuto per promuovere un secondo referendum e per concedere il voto anche a chi come me è fuori dal Regno Unito da più di quindici anni. Siamo in vari milioni. Quanto basterebbe per capovolgere il risultato. Giornalisti autorevoli tuonano che è scandaloso che i vecchi abbiano condizionato il futuro dei giovani, gli ignoranti quello degli istruiti, la campagna quello della città. Bisognava dare il voto ai sedicenni, dicono, come ha fatto la Scozia due anni fa nel tentativo di avere un risultato diverso. I sedicenni sì che avrebbero votato per rimanere. Dalla Germania mi arriva una richiesta di sottoscrivere un appello contro il populismo. Il problema dell’Europa è la retorica populista, dicono. Insomma, questo è un risultato che non si riesce a mandar giù. Si è pronti a dimenticare che per millenni le società si sono rivolte proprio ai loro anziani per avere consigli sul futuro. Si ignora il fatto che per poco non è stata proprio la Scozia a tenere l’Inghilterra nell’Unione (se 700mila di quegli scozzesi che hanno votato per lasciare avessero votato diversamente, avrebbe vinto chi voleva rimanere). Si vuole dare il voto ai giovincelli, ma toglierlo a chi non ha studiato, magari anche a chi è disoccupato. Gente pericolosa. Pur di avere il risultato giusto. Con un tocco grottesco, poi, Roberto Saviano dà del nazista a chi ha votato per Brexit. Si sa che le elezioni non valgono quando gli avversari sono cattivi. Perché? Perché questo straordinario attaccamento all’Unione Europea? Si sono mosse queste persone quando la disoccupazione giovanile ha toccato il 40%, quando per anni la Germania ha posto il veto ad ogni flessibilità monetaria, spingendo varie economie europee nella recessione più profonda dal dopoguerra? Forse hanno firmato e sollecitano ora petizioni per migliorare le sorti dei senzatetto nel Lancashire e nel Northumberland? O magari quelle degli immigrati siriani bloccati in Turchia? Tutti coloro che ora si mostrano ossessionati dai dettagli del sistema referendario inglese, si sono mai mossi per portare un po’ di trasparenza e democrazia nel governo dell’Unione Europea? Chi di noi ha votato direttamente per Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Europea? Chi l’avrebbe mai votato, se avesse potuto esprimersi? Eppure l’idea della Comunità dei popoli europei va difesa a tutti i costi. Senza l’Unione c’è solo caos, fascismo, conflitto. E proprio questo attaccamento, questo senso che ormai l’Unione equivalga alla civiltà europea, che a essa non ci sia alternativa alcuna, ostacola ogni processo di riforma. Perché i burocrati di Bruxelles dovrebbero mai pensare alle riforme, se sanno che quando si arriva al dunque nessuno può abbandonare la Comunità? O almeno credevano di saperlo. I ceti medi, i colti, o presunti tali, amano l’idea di partecipare a un progetto storico “per bene”, un progetto pacifico, che porta il benessere ai suoi cittadini, che fa qualche passo sul fronte ambientale, che ci protegge dalle ambizioni cinesi e statunitensi. Anche io amo quest’idea. Anche io ero per rimanere nell’Unione. Assolutamente. Ci coccoliamo con questo grande e nobile disegno, questa meravigliosa ortodossia. E così quando il progetto non porta benessere, quando non protegge a dovere l’ambiente, quando la sua politica di protezionismo sistematicamente danneggia i Paesi del Terzo mondo, non vogliamo ammetterlo, preferiamo chiudere gli occhi. Dopo decenni di negoziati e regolamenti di ogni possibile tipo, l’Unione Europea non ha avvicinato i popoli del continente. Rimaniamo tutti chiusi nel mondo mediatico creato dalla nostra stampa, chiusi nelle nostre lingue. Accettiamo bocciature o promozioni da Berlino o Bruxelles, ma non sappiamo che cosa scrivono o pensano i

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tedeschi, i belgi, i francesi. Piuttosto leggiamo Stephen King o Jonathan Franzen, e Harry Potter. Viviamo nella nostra comunità locale, magari con una second life globale, vagamente anglosassone, in cui a fare da collante, comunque, è la lingua inglese. E nel frattempo questo incanto della comunità buona, dell’Unione Europea, ci assolve tutti dalla necessità di guardare in faccia la realtà che ci sta intorno. Solo che adesso l’incanto rischia di rompersi. E, costretti a svegliarsi, tutti si accaniscono per ritirare su la coperta e tornare ai loro sogni d’oro. Pag 5 Il risveglio-choc di Londra: “Ma cosa abbiamo fatto?” di Giorgio Ferrari Dopo il trionfo di Brexit è già l’ora del rimpianto «Strawberries, strawberries! Last european strawberries!», cantilena il verduraio del Borough Market. Sa bene che quelle che sta vendendo oggi non saranno certo le ultime fragole provenienti dall’Europa, ma un po’ di british humour non manca mai. A pochi isolati di distanza la bandiera stellata dell’Unione Europea sgomitava fra gli stendardi del gay-pride. La notte scorsa centinaia di dimostranti anti-Brexit erano scesi per le strade al grido di “referendum razzista”. La verità è che molti ci stanno ripensando. Tardivamente, ma ci stanno ripensando e – sono già almeno due milioni – stanno architettando non uno ma due referendum per ribaltare la vittoria della Brexit e riportare l’orologio del Regno Unito indietro di 48 ore. Qualcuno dice che è un pietoso autoinganno, che si prova a chiudere la stalla dopo che i buoi sono scappati, ma girando per le vie di Londra in queste ultime ore abbiamo la sensazione – ce lo suggerisce quel torpore, quel che di assente nello sguardo, quello sbalordimento sordo che tampona ogni possibile emozione che si coglie fra la gente – che la capitale, un’isola del “Remain” accerchiata dal vasto pelago del “Leave”, sia stata colpita da una sorta di “Post traumatic stress disorder”, quello stress da choc traumatico che segue gli eventi catastrofici. Come il divorzio della Gran Bretagna dall’Europa, appunto. Un divorzio che comincia a prender forma solo oggi, dopo che il clamore sul risultato si è un poco spento. «Ma cosa diavolo abbiamo combinato? – si stringe nelle spalle Deborah, che pur essen- do residente da otto anni e virtualmente non ha nulla da temere è molto prossima al pianto –. Che cosa abbiamo fatto? Per assecondare la strategia di un premier fra i più mediocri di ogni tempo abbiamo gettato via quarant’anni di convivenza con il Continente ». Dice Albert, assistente universitario: «Sbaglio o Cameron è riuscito nel capolavoro di fare a pezzi un Paese facendo fuori anche se stesso?». Corbyn avrebbe fatto meglio? «No, Corbyn è una via di mezzo fra le nostalgie leniniste e l’utopia di una nazione artificialmente povera. Avrebbe perso anche lui, e comunque lo vedo fuori gioco, perché non è riuscito a limitare il consenso al “Leave” fra le classi meno avvantaggiate, quelle che dovrebbero essere il suo elettorato». Due ragazzi discutono animatamente davanti alla Liverpool Station. «È l’idea di Europa che è andata a catafascio – dice uno –, non è solo il fatto che adesso noi siamo diventati degli extracomunitari». «Guarda che semmai gli extracomunitari sono loro...». I due ragazzi sono italiani. «Tutto sarà comunque più difficile – dice Amedeo, da Catanzaro, che vive a Londra da un paio d’anni – e se non hai un lavoro non sarà più possibile partire per l’Inghilterra in cerca di fortuna come ho fatto io». Ma se vogliamo davvero cogliere lo choc profondo che ha colpito gli inglesi dobbiamo andare ad Abbeville Village, un ricco quartiere del borough di Clapham a sud della City incastonato tra Brixton e Battersea. Qui i “Remain” hanno fatto registrare il 60% dei consensi. E qui si spargono lacrime, lacrime vere. Di delusione, soprattutto. «È un po’ come se ci avessero strappato via l’anima – dice Mr Stanley, proprietario di una vineria in Abbeville Road –: qui non è questione di accettare oppure no un verdetto democratico, questa è una decisione epocale che avrebbe avuto bisogno di un dibattito parlamentare e di una decisione del governo, non di una campagna giocata sull’onda emotiva di un paio di pifferai...». Roberta lavora da Ginger Pig, succulenta macelleria molto amata nel quartiere. «Non volevo credere ai miei occhi, quella notte. Non pensavo fosse possibile, forse perché vivere qui a Abbeville mi ha indotto a credere che tutto sommato nel Regno Unito prevalesse la saggezza di rimanere in Europa. E invece...». «Non ti scordare che il quaranta per cento di quelli che hanno votato nel nostro quartiere si è espresso per il “Leave”!», la rimbecca il suo boss. Lei ha votato “Leave”? «Non sono obbligato a rispondere – dice, anche se il lampo malizioso che gli illumina lo sguardo è più che eloquente – e comunque questa immigrazione

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indiscriminata in qualche modo va fermata, non si poteva andare avanti così». Il boss, va detto, è giamaicano. Non v’è dubbio, al netto dei possibili referendum la vittoria della Brexit è un lutto che per milioni di britannici sarà assai lungo da elaborare. Un autentico “watershed”, come scrivono i giornali, un evento – al pari dell’assassinio di Kennedy, della morte di Lady Diana, del primo uomo sulla Luna – impossibile da dimenticare. Una folla di giovani e meno giovani si mette in coda per la pausa pranzo nei tanti bistrot attorno a Spitalfields. Una banda di musicisti di Okinawa intona penose litanie. Non so perché, ma di sorrisi sui volti di tutti quei giovani se ne vedevano davvero pochi. IL GAZZETTINO di domenica 26 giugno 2016 Pag 1 Una lezione che la Merkel deve capire di Marco Fortis Lo choc della Brexit ha scatenato mille chiavi di lettura e i grafici del sito internet della Bbc sull’analisi territoriale dettagliata del voto britannico sono pesanti come pietre. Dovrebbero costituire una lezione istruttiva e decisiva per l’Europa che è anch’essa davanti a un bivio, col rischio di disintegrarsi se ora sbaglia le mosse. Il vertice di lunedì a Berlino con Merkel, Hollande e Renzi non può dunque fallire l’appuntamento. Un vertice che deve dare subito un messaggio chiaro ai cittadini europei. O la Germania ascolta le voci di Francia e soprattutto Italia per un cambio di visione e di strategia oppure la Ue correrà anch’essa il rischio che vincano un po’ ovunque i “leave”. Le statistiche del voto britannico sono state analizzate un po’ da tutte le prospettive. Hanno votato per il “remain” le aree con il Pil pro capite più alto e i giovani. Per il “leave” le zone più povere e gli anziani. Ma l’Europa non può accontentarsi di queste sintesi superficiali per singoli parametri. Deve andare più a fondo per trovare una spiegazione dell’accaduto e dare risposte organiche che convincano i suoi cittadini frastornati, a cominciare da quelli spagnoli che votano oggi; risposte che possano arginare i fenomeni imitativi, i venti populisti ed altri eventuali referendum per “uscire”. Si dice da più parti che l’Europa deve ritrovare il suo spirito originario, che deve fare più politica, preoccuparsi di più del suo ruolo nel mondo, occuparsi più di cultura, solidarietà, immigrazione e meno di parametri sulle banche, vincoli fiscali, norme burocratiche su prodotti e servizi. È indubbiamente vero. Ma non basta. Infatti, la politica per essere credibile deve supportare e garantire la crescita, non sopprimerla. Per quanto “alta” la politica possa essere non può bastare se non si cala umilmente nella realtà dando risposte chiare alle esigenze dello sviluppo economico e sociale. Una Europa imprigionata nelle regole del Fiscal Compact e senza crescita non può essere credibile e alla fine i suoi cittadini scontenti la boccerebbero irrimediabilmente. C’è sul tavolo europeo un importante documento del Governo italiano per rilanciare crescita, investimenti e occupazione. L’Europa è nata a Roma e, anche se adesso appare smarrita, può ripartire da Roma. La Germania, se vuole dimostrare di essere davvero leader, deve oggi avere l’umiltà e la razionalità di ascoltare l’Italia. La vera lezione del voto britannico è che con un mix non governato di globalizzazione e società post-industriale si può morire. Che senza economia reale la finanza da sola non basta a far crescere tutti, che troppi restano indietro e alla fine i dimenticati votano per protesta, votano per il “leave” senza nemmeno avere la sicurezza che chi li ha convinti a votare al buio contro il “sistema” ora li saprà ben amministrare. A parte i casi particolari di Scozia e Irlanda del Nord, il “remain” ha vinto, oltre che a Londra, nelle grandi città europee dell’Inghilterra che hanno reagito positivamente al declino industriale come Liverpool, Manchester, Leeds, Cardiff, Bristol, nelle città romane come Bath e Leicester, nell’Oxfordshire e a Cambridge. In pratica dove c’è ricchezza, ricerca, università, innovazione. Ma in dosi non sufficienti per tutti. Il “Leave”, infatti, ha vinto nelle popolose campagne e nelle città e nelle aree deindustrializzate in declino irreversibile come Birmingham, Sheffield, Coventry, Blackpool, Gloucester, Lancaster, Southampton, Luton, ecc. Ha vinto una Gran Bretagna dimenticata e pure con una popolazione più numerosa della parte di successo che tutti conoscevamo: una Gran Bretagna povera dove ormai non c’è più tenuta sociale. Dove non c’è più speranza e fiducia nel futuro. Un po’ come nelle periferie di Torino e di Roma. La tenuta del manifatturiero (che la Gran Bretagna ha perso da tempo) è il miglior argine alla disgregazione sociale. La Germania è un colosso manifatturiero. La Francia ha perso parecchia industria ma ne ha ancora tanta. L’Italia non solo ha un fortissimo settore manifatturiero ma ha anche le piccole e

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medie imprese in misura che nessun altro Paese europeo possiede e ha anche un gran numero di distretti industriali. E dove tutto questo c’è in abbondanza, come in Lombardia, Emilia Romagna, Veneto, Toscana, Marche, c’è più tenuta sociale e la protesta generica è poca. La lotta elettorale resta fondamentalmente tra sinistra e destra, non tra certo e ignoto, non tra razionalità e populismo. Il rilancio dell’Ue si fa con l’economia reale, con il manifatturiero che a tutt’oggi non ha una vera strategia europea, con le Pmi, con gli investimenti in industria 4.0, in tecnoscienza, ricerca, infrastrutture, banda larga, big data, cultura: in una parola con la crescita e con investimenti finanziati su scala europea, non con l’austerità e con le attuali regole fiscali immaginate per un mondo che ormai non c’è più. Camicie di forza che rischiano di trasformare l’Eurozona in una prossima gigantesca Gran Bretagna divisa e allo sbando. Non sappiamo se Renzi lunedì riuscirà a convincere la Merkel e Hollande a cambiare registro, ma farà bene a tentare l’impossibile. Pag 1 Ora deve crescere il peso dell’Italia in cabina di regia di Giulio Sapelli La storia cammina veloce e il mutamento del sistema di pesi e di rilevanze geostrategiche non ferma nemmeno per un attimo la sua corsa. Occorre ridefinire l’ordine del potere mondiale dopo la Brexit, e tutto si svolge così velocemente da impegnare l’Italia e il suo premier in un ruolo prima impossibile anche se sempre invocato. Penso al vertice di domani a Berlino, che vedrà un nuovo rapporto trilaterale: al posto del Regno Unito, è ora l’Italia che siederà al tavolo di comando dell’Eurozona a fianco di Francia e Germania per decidere il futuro della politica europea. È la grande occasione di Matteo Renzi: il blocco franco-tedesco con una Francia in posizione subalterna e indebolita dalle sue divisioni interne e dalla scacco delle sue politiche centro-africane, può trovare nel ruolo dell’Italia un ridimensionamento che, se opportunamente gestito, potrebbe tradursi in una profonda trasformazione dell’Europa. E uno dei primi passi consiste nel convincere i tedeschi a rispettare i trattati, anzitutto sulle quote del surplus commerciale in relazione alle quali da anni Berlino fa orecchi da mercante, ponendo in tal modo le basi per il superamento della strozzatura deflattiva che ha scatenato - per il suo carico di povertà - i nazionalismi alla base di Brexit e alimentato la caldaia infernale delle destre radicali europee. Già questo sarebbe un passo rilevante, ma sarebbe anche l’occasione per riscrivere subito - non fra due anni, come vorrebbero i burocrati di Bruxelles - le politiche di vigilanza bancaria, modificando il bail-in e attenuando le rigidità intollerabili che stanno piegando le economie a maggior debito. La nuova politica economica europea deve invece puntare sugli investimenti e sulla fine della liquidità a tassi negativi che, nonostante le buone intenzioni della Bce, sta creando le basi per ciò che alla lunga potrebbe trasformarsi in un nuovo tsunami finanziario. Insomma, bisogna lavorare fin da oggi e con tenacia a un pacchetto di provvedimenti tra politica estera e politica economica, nella più ampia condivisione possibile: è il solo modo per passare da un’Europa a dominazione tedesca - una realtà che oggi più nessuno si sente di negare - a un’Europa a geometria variabile. Essenziale è però tenere ben fermo l’asse dell’alleanza politico-economica con gli Stati Uniti: essi sono il nostro vero e stabile alleato al di là degli esiti delle prossime presidenziali. Le alleanze internazionali che hanno una ragione storica sono scritte nell’evoluzione geopolitica, sicché i problemi interni passano di fatto in secondo piano. Soprattutto se si considera che gli Stati Uniti sono interessati quanto noi alla fine dell’austerità e alla creazione di una condizione di stabilità politica che le destre radicali e i populismi invece mettono in forse. Infine, se tale alleanza è davvero così forte come si pensa, il premier Renzi e il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, debbono renderla esplicita, in modo da indurre gli Stati Uniti a riaprire un rapporto con la Russia, analogamente a quello che il saggio Henry Kissinger ha preconizzato nell’ultima riunione del Gruppo Bilderberg. Una ricucitura del dialogo destinata a incidere prima in sede dei rapporti Nato-Russia, poi sul fronte economico con l’abolizione graduale delle sanzioni in cambio di una ragionevolezza russa che dovrà sfociare in quel trattato che malauguratamente non venne perfezionato quando l’Urss crollò, senza così definire il nuovo volto dello spazio geopolitico europeo. Oggi possiamo e dobbiamo farlo. L’addio della Gran Bretagna, paradossalmente, mette l’Europa in condizione di riparare a certi errori della storia. E l’Italia può avere un grande ruolo in questo processo di rinnovamento.

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Pag 1 Ma l’Inghilterra non era mai entrata in Europa di Mario Ajello Insistere nel piagnisteo, riversando le lacrime in un fiume di retorica posticcia e di elitismo a buon mercato (del tipo: il voto popolare è sbagliato quando non è politicamente corretto)? Oppure guardare negli occhi la realtà dell’esito del referendum inglese; negoziare con ordine e temperamento l’uscita di questo grande Paese senza cedere alla fretta, alla stizza e all’alterigia di Manfred Weber, capogruppo merkeliano all’Europarlamento: «Gli inglesi hanno scelto il leave e allora se ne vadano immediatamente». Proprio perché siamo in un passaggio epocale servirebbe il no panic e dovrebbe vincere la constatazione che Brexit is not tragedy. Sia perché l’Inghilterra, più che uscire dalla Ue, non c’è mai entrata davvero. Sia perché il recupero della sua insularità e la rivendicazione del suo splendido isolamento sono costanti storiche, sia pure riaffermate stavolta in maniera ruvida, che mai hanno significato totale estraneità e completa alterità della Gran Bretagna rispetto al continente. Ma una vera Brexit non ci fu neppure quando Enrico VIII fece, per un calcolo d’interesse politico nazionale, lo scisma anglicano. Anche se forse il re Tudor avrebbe fatto bene a restare, a tenersi Caterina d’Aragona e a fare fronte comune con l’Europa contro gli infedeli. E come non fu un vero brexeeter Enrico VIII, non lo è stato neppure William Shakespeare (anche se quelli dell’opzione leave nei mesi scorsi hanno cercato di arruolarlo), il quale giudicava la Grecia «insolente», la Danimarca ovviamente «marcia», gli olandesi «sfrontati», gli spagnoli «vanitosi» e i tedeschi «rudi», ma il Bardo apparteneva - come appartengono e continueranno ad appartenere gli inglesi d’oggi - al mondo dei valori europei. Anzi ne è stato un fondatore. Dunque c’è il leave che non significa però cancellazione. E lo ha detto giustamente Boris Johnson, uno dei vincitori di questa partita: «Noi da adesso non saremo anti-europei e no-europei». La scelta referendaria segnala, semmai, che nel momento in cui l’Inghilterra deve dare una segnale forte all’Europa non si tira indietro. Sia quando la salvò dal nazismo. Sia quando, prima a Trafalgar l’ammiraglio Nelson (l’uomo con un braccio solo e cieco da un occhio il cui cadavere fu conservato dentro un barile di brandy) e poi il duca di Wellington a Waterloo sconfissero Napoleone. Quel Bonaparte che parlava sprezzantemente degli inglesi come di «una nazione di bottegai», mentre oggi - altro errore di elitismo o di progressismo a vanvera - si parla degli inglesi che hanno detto no all’Europa dell’austerità, dell’egemonia tedesca e delle politiche asfissianti per l’economia e deleterie per il ceto medio come un popolo trash. Che vota con la pancia e non con la testa. Che ha dato una «brutta prova di irrazionalismo» (il presidente socialdemocratico dell’Europarlamento, Martin Schulz). Che si è preso nell’urna la facoltà di dimostrarsi sciocco e di rovinare il proprio Paese. E via così. La decisione, magari sbagliata ma ogni decisione ha le sue ragioni, degli inglesi ha fatto affiorare in molti altri - politici, osservatori, elettori che si considerano non di pancia ma di testa - una sorta di scetticismo, questo sì di marca conservatrice anzi reazionaria, sulla validità del diritto elettorale. Quasi che debbano votare solo i giovani e belli, tra i quali il remain ha avuto la maggioranza, perché il resto della popolazione (quella dell’Inghilterra profonda e non cool, deep e non smart, genuinamente inglese più che international, più Little England che Great Britain, più analogica che digitale) è soltanto un ammasso di pecorelle smarrite e impaurite nella periferia del Regno e tra i flutti della globalizzazione. E qui si dimentica che proprio la paura - in questo caso della globalizzazione e dell’impoverimento ma anche di un’Europa che s’attarda nel dover decidere qual è la misura giusta delle vongole o la corretta gradazione di bianco del colore del latte - è un movente fondamentale e non disprezzabile della politica, come diceva Thomas Hobbes. Il quale, guarda caso, era inglese. LA NUOVA di domenica 26 giugno 2016 Pag 3 Coraggio e unità per salvarsi di Renzo Guolo La Brexit mette l’Europa davanti a un bivio: o decollare davvero o perire per effetto domino. Il risultato del referendum britannico, ennesimo frutto dell’onda lunga antielitaria, che colpisce il Vecchio Continente come gli Usa, della mancata rappresentanza dei ceti popolari, di una miope gestione dei processi migratori, obbliga l’Unione a dire e mostrare ciò che vuole essere. Mettendo fine a paralizzanti ambiguità e

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supponenza tecnocratica. L’uscita dalla casa comune di Londra, che a questo punto deve consumarsi prima possibile per evitare incertezze e negoziati destinati a incrinare ulteriormente la legittimità dell’Unione, è una catastrofe geopolitica. Non solo perché viene meno l’apporto di uno dei paesi più ricchi e influenti del Continente, ma anche perché stabilisce un precedente: quello che dall’Europa si può andarsene. Un esempio che, sotto la spinta di forze populiste e nazionaliste di ogni Paese, potrebbe essere seguito da molti. Non è un caso che spinte in tal senso vengano dal Front National di Marine Le Pen decisa a perseguire la Frexit; dai partiti populisti e xenofobi che, dall’Austria all’Olanda passando per la Scandinavia, accentuano le loro spinte antieuropee; dai governi di estrema destra di Polonia e Ungheria, fautori di una rinegoziazione dei trattati in nome di una visione sovranista dell’appartenenza alla Ue. L’Europa, invece, può salvarsi solo se persegue una maggiore unità politica ed economica. Se, finalmente, si getta alle spalle la paralizzante dimensione intergovernativa e imbocca la via federale. Se, oltre a una moneta comune, mette in campo politiche comuni sul terreno dell’immigrazione e su quello della sicurezza. Se diventa volano di politiche economiche finalizzate a una crescita che conduca a una più egualitaria redistribuzione del reddito, attenuando l’impatto diseguale della globalizzazione. Se allarga i processi di partecipazione democratica. Altrimenti, è perduta. Da questo punto di vista una speciale responsabilità spetta alla Germania. Non solo, o non tanto, perché un’Europa senza la Gran Bretagna è inevitabilmente ancor più “germanocentrica”. Ma anche perché Berlino è stata all’origine di una politica di bilancio ispirata, teutonicamente, a criteri ordoliberisti. Una politica che ha prodotto quella rivolta degli scontenti della globalizzazione che, dalla Grecia alla Spagna, dall’Italia alla Francia, ha fatto emergere, con tratti e attori diversi, un forte sentimento antieuropeo. Ferrea in materia monetaria, come ricordano gli esiti drammatici della crisi greca, la Germania è venuta meno al suo ruolo di potenza egemone nel momento in cui, dopo le coraggiose posizioni della Merkel, non è riuscita a imporre ai suoi recalcitranti partner, in primo luogo quelli che orbitano geopoliticamente nella sua sfera d’influenza, sforzi comuni sull’immigrazione. Uno spettacolo d’impotenza che ha alimentato la delgittimazione dell’Europa. Per uscire da una crisi che può rivelarsi fatale, l’Unione deve mettere in campo un progetto più coraggioso. A partire dalla constatazione che un’Europa a 27 è ingovernabile. Meglio procedere verso un’Europa a due velocità. Con un nucleo stretto che, a partire da Germania, Italia e Francia, articola politiche comuni in diversi campi e un’area, più larga, composta da Paesi che guardano alla costruzione europea essenzialmente come mercato comune. Una ristrutturazione della casa dell’Unione che, soprattutto nel primo cerchio, deve accompagnarsi a una maggiore democrazia e a un ridimensionamento del peso delle tecnocrazie di Bruxelles, spesso incuranti dell’’insoddisfazione che proviene dal basso perché politicamente irresponsabili, a favore degli organi elettivi. Un compito arduo, quello post-Brexit, che richiede leader politici non solo autenticamente europeisti ma anche orgogliosi di esserlo. Capaci di ricordare ai cittadini che l’Unione Europea non solo ha preservato il Continente dai disastrosi conflitti bellici del passato ma è anche uno spazio di civiltà giuridica. È l’aver abdicato a questo ruolo in nome di egoismi nazionali e subalternità a un discorso economico spacciato per “naturale”, che ha distrutto il sogno dei padri fondatori. Pag 4 La difficile trattativa per l’Exit di Francesco Morosini In Inghilterra, la petizione popolare per ripetere il referendum (un milione e mezzo di firme) potrebbe cambiare l’accaduto? Difficile; ma procediamo con ordine. Stante la vittoria del Brexit, il da farsi pare semplice visto che il Trattato sull’Unione europea (Ue) disciplina il recesso unilaterale di un suo membro (articolo 50). Ma è una procedura mal definita, perfetta solo per produrre trattative defatiganti sull’exit tra Londra e Bruxelles. Ed anche dure dato che le leadership europee, pressate nei loro mercati politico-elettorali interni da analoghe sfide anti euro e anti Ue, saranno rigide per istinto d’autodifesa. Poi è la stessa logica dei fatti, essendo questa per Bruxelles la prima partita diplomatica avendo l’Inghilterra come controparte, a spingere in questa direzione. Conseguentemente i mercati, pur se grazie alle Autorità monetarie avremo periodi di bonaccia, resteranno in allerta. Cosa succederà ora? Tocca al governo di Sua Maestà, attivando l’articolo 50, azionare il meccanismo di separazione; di lì scatteranno i

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due anni necessari per formalizzare l’accordo di divorzio Gb/Ue. Tuttavia, se allo scadere del tempo previsto, l’accordo mancherà, allora la Gb cesserà di essere parte dell’Ue salvo, ma serve l’unanimità dei membri residui dell’Ue, una proroga per le trattative. Inoltre Londra, differentemente dall’Ue, potrebbe avere l’interesse a spalmare il leave (l’uscita) nel tempo per allentarne l’impatto. D’altronde, tornando alla petizione prima richiamata, va considerato che il referendum sul Brexit, essendo l’Inghilterra la madre della democrazia rappresentativa (cioè allergica ai plebisciti), è consultivo: ovvero, dovrà essere convalidato dal Parlamento britannico, che di suo ha una maggioranza contraria al Brexit medesimo. Pertanto in teoria (è una caso di scuola, però coerente con la tradizione costituzionale della democrazia britannica) esso potrebbe respingere il referendum convocandone (ecco il significato politico della petizione) un altro. Possibile in teoria, difficile in pratica; anche perché a facilitare la strada dell’exit vi sono, dando valore (quasi) vincolante al voto, le dimissioni del premier Cameron. Tra l’altro, queste potrebbero allungare i tempi delle trattative sebbene Bruxelles prema per la rapida attivazione dell’articolo 50. Insomma, il via potrebbe dover aspettare l’assemblea del partito conservatore (a cui, essendo maggioritario in Parlamento, è affidata la scelta del nuovo leader nonché premier di Gb) prevista per il dopo estate. Comunque, nei fatti toccherà al nuovo premier inglese gestire la trattativa. Nondimeno, pur dopo il suo avvio, la procedura presenta molte altre incertezze. Per questo i mercati finanziari sono in tensione: perché, in fondo, gli elettori inglesi hanno votato per un evento futuribile; e di cui è poco nota la modalità per arrivarci. Ad esempio, chi tratterà questo dossier per l’Ue? La Commissione europea, cioè la sua tecnostruttura? Verosimile; ma potrebbe pure volerlo fare direttamente il Consiglio (suo vertice politico). Poi, è ovvio, sarà il Parlamento europeo ad approvare o meno l’accordo. Ebbene, queste sono carenze normative comprensibili se si considera che l’Ue considerava le secessioni ipotesi di scuola. Ciò non toglie che esse producano incertezze politiche ed economiche. Infine, due ulteriori quesiti. Il primo riguarda i membri inglesi al Parlamento europeo. Resteranno in carica in quanto, oltre ad essere “voce” dei loro elettori, sono costituzionalmente espressione di un organo legislativo sovrano. Tuttavia, politicamente, dovranno sempre più assumere il ruolo più di osservatori, specie in materia di Brexit, che di parlamentari in senso proprio. Una situazione paradossale rimediabile, a fil di logica, con lo scioglimento anticipato del Parlamento europeo ed un’elezione che riservasse i seggi ai 27 rimasti. Tuttavia, tra le stranezze della “democrazia” europea manca la procedura di suo scioglimento anticipato. Infine, senza la Gb qual è l’equilibrio strategico dell’Ue? Difatti Londra faceva da contraltare sia al peso geopolitico di Berlino che alle mitologie del super Stato di Bruxelles, oggi in evidente affanno. Ed ora? Resterebbe la Nato, cioè gli Usa: in sostanza, una sconfitta per l’idea di un Vecchio continente attrezzato a navigare tra i marosi della globalizzazione. Torna al sommario CORRIERE DELLA SERA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 L’umiltà necessaria di Antonio Polito La Storia non cammina sempre in avanti. Ogni tanto si ferma, talvolta torna sui suoi passi. E ieri a Londra ha fatto un bel salto all’indietro. Di quarantatré anni, per la precisione. Non è un giudizio di valore: si può essere d’accordo o no con la Brexit, e in ogni caso spettava al popolo britannico decidere. È un fatto: il referendum segnala data che inverte il processo cominciato con la caduta del Muro di Berlino. L’89 sembrò l’alba di un’età dell’ottimismo,di cosmopolitismo e globalismo, le frontiere non andavano più di moda, gli Stati tendevano sempre più a cooperare o addirittura a integrarsi tra di loro, in Europa si mise in comune la moneta. Di fronte al trionfo di un nuovo ordine liberale, Fukuyama si chiese se la Storia non fosse addirittura finita, avendo raggiunto il suo apice. E invece è finita quella stagione. I popoli di Europa, e forse anche quello americano, stanno rifiutando il nuovo ordine. E neanche la Grande Crisi dell’economia può spiegare interamente ciò che sta accadendo. Il Regno Unito sta meglio del resto d’Europa, e ha votato per andarsene; gli Usa stanno meglio del resto dell’Occidente, e potrebbero votare per Trump. Francia, Olanda, Danimarca, Polonia, Ungheria sono percorse dal desiderio di imitare gli inglesi. Si smuove qualcosa di profondo e di antico, il

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senso dell’identità nazionale. Per la prima volta dalla fine della guerra un confine europeo, quello della Crimea, è stato modificato con l’uso della forza, seppure camuffato. Grandi Paesi che sembravano marciare verso la democrazia liberale, la Russia, la Turchia, le stanno un po’ alla volta volgendo le spalle. È iniziato un tempo più cupo, più pessimista, dominato dalla paura, dalla voglia di chiudersi nel protezionismo, nell’isolazionismo, nel nazionalismo. Dicono che è una reazione all’Europa tedesca. Forse. Ma questo movimento di rivolta urla «Blut und Boden», sangue e suolo, proprio come gli autori del romanticismo tedesco contro i Lumi della ragione. Dobbiamo temere tutto ciò molto più dei disastri di Borsa, delle turbolenze finanziarie, del lungo e caotico negoziato che ora si aprirà. Gli inglesi non si sono tirati semplicemente fuori, con il gigantesco opt out di decine di milioni di elettori; come sempre nella loro storia ambiscono a guidare, sperano di essere seguiti. Nigel Farage l’ha detto con chiarezza: vogliamo far fallire l’Europa unita. Che cosa possono fare allora gli altri, quelli che credono ancora che la cooperazione tra gli Stati sia il progresso, che la condivisione dei poteri li moltiplichi, che il multilateralismo abbia bisogno di istituzioni comuni? In una parola, che cosa devono fare i governi di Germania, Francia e Italia? Che cosa possono fare i fondatori, sessant’anni anni fa a Roma, del progetto di «una Unione sempre più stretta»? Finora i governanti europei hanno seguito l’onda euroscettica sperando di cavalcarla, e così di domarla. Lo stesso errore tragico che ha commesso Cameron: ha detto ai suoi concittadini che la Ue è un disastro; e poi ha chiesto loro di restarci, di fidarsi della sua capacità di cambiarla dall’interno. Per proteggersi da un elettorato sempre più arrabbiato, i politici danno la colpa a Bruxelles. Da leader si sono fatti follower, seguono le loro opinioni pubbliche come i «sonnambuli» che un secolo fa trasformarono la crisi di Sarajevo nel più sanguinoso conflitto della storia. Almeno in questo la lezione di Cameron può essere salutare. Se Merkel, Hollande, Renzi capiranno che salvano se stessi solo se salvano insieme anche l’Europa, forse c’è ancora la speranza che l’Unione risorga dalla sua notte peggiore. Solo se seppelliscono la Ue presuntuosa e pomposa di Juncker e dei mega-vertici, e rilanciano quella più umile ma più utile di un tempo, possono dare agli elettori le risposte che chiedono: il lavoro, la protezione sociale, la sicurezza. Altrimenti ogni volta che parleranno le urne può essere quella fatale: a ottobre in Italia, in primavera a Parigi, in autunno a Berlino. Lo spettro di Boris Johnson si aggira per l’Europa. Pag 1 L’anima perduta di Lucrezia Reichlin Le implicazioni dell’esito del referendum britannico sull’uscita dall’Unione Europea sono molto profonde e vanno ben al di là dell’impatto immediato che questo avrà sull’economia e sul sistema finanziario. A differenza di quanto avvenuto con la crisi globale del 2008, lo choc Brexit presenta implicazioni geopolitiche profonde: il progetto europeo non sarà più lo stesso e il ruolo dell’Europa nel mondo verrà inevitabilmente ridimensionato. I l voto è anche un campanello d’allarme per politici di ispirazione sia conservatrice sia progressista poiché è la dimostrazione che ambedue i grandi partiti tradizionali, ma in particolare il Labour, hanno perso contatto con la loro base elettorale. Inoltre, è un segnale di sfiducia verso un establishment intellettuale schieratosi nella stragrande maggioranza contro la Brexit, un voto che ha anche ignorato le previsioni allarmanti degli economisti sul costo economico dell'uscita dall’Unione. Gli elettori o hanno votato senza pensare al portafoglio o, più probabilmente, hanno considerato le previsioni economiche poco credibili o irrilevanti per una parte della popolazione, la parte che ha pagato più duramente i costi della crisi finanziaria e che, appunto, ha votato out. Ma come vanno analizzate le conseguenze economiche della Brexit? Quanto realistici sono gli scenari catastrofici dei fautori del Remain? Non c’è dubbio che nel breve periodo continuerà la volatilità dei mercati anche a livello globale, la fuga verso investimenti sicuri e la pressione sulla liquidità delle banche. Per i Paesi già a rischio di stabilità finanziaria come il nostro è necessaria vigilanza assoluta da parte delle autorità nazionali ed europee. In particolare, nella zona euro deve essere chiaro ai Paesi del Nord e del Sud che non possiamo permetterci un altro 2011 e questo è un richiamo a trovare il consenso - oggi assente - per completarne la costruzione del governo economico. Per l’economia britannica l’incertezza sui termini del negoziato con la Ue e sui suoi tempi avrà conseguenze sugli investimenti, il Paese resterà diviso e probabilmente lo diventerà

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di più perché a perdere sarà più l’industria che la finanza, più la provincia e meno Londra. Per non parlare della molto probabile riapertura della questione scozzese. Ma al di là di questi effetti - d’altro canto già anticipati e scontati dallo stesso campo pro Brexit - il grande quesito è che cosa succederà nel medio-lungo periodo. Se si pensa che questo voto non sia una bizzarria degli inglesi, ma, come dicevo prima, il segnale di un malessere più profondo su temi che vanno al di là dell’adesione all’Unione Europea e anche dell’economia, è probabile che l’impatto economico negativo sarà ingente anche e forse in modo più significativo sui Paesi dell’Unione. Paesi lenti a reagire a cambiamenti e a offrire risposte perché ingabbiati in negoziati su più fronti in una complessa interazione tra élite politiche nazionali, élite della burocrazia federale e le istanze globali. La nostra è un’Europa sì portatrice di valori fondamentali, ma anche un’Europa che ha perso la sua anima per strada, che fa fatica a spiegare non solo agli altri, ma anche a se stessa, le sue ragioni. Saprà questa Europa raccogliere le domande che la società esprime, rilanciare un progetto che le interpreti, che gli dia le gambe in modo, quindi, di contare su un largo consenso? L’impatto a lungo termine del voto di giovedì dipende dalla risposta a questo interrogativo. Pag 2 La scossa che ha cambiato l’Europa di Federico Fubini Lo 0,008% del pianeta ha scompaginato tutto Poco meno di un anno fa, migliaia di greci in piazza Syntagma cantarono e ballarono tutta la notte dopo il grande «No» al referendum sul salvataggio europeo. Il mattino dopo il governo che li aveva chiamati alle urne, si arrendeva alla troika. Ieri mattina a Lombard Street, nel cuore dell’antica City di Londra, i sudditi britannici che a livello nazionale avevano appena scelto di divorziare dall’Unione Europea con il 51,9 per cento dei voti non si lasciavano sfuggire neanche un lampo di trionfo negli occhi. Ciascuno attendeva alla propria routine come se la notte prima non fosse successo niente, eppure tutti sapevano che questa non è la Grecia: nel Regno Unito quando il popolo vota non si torna mai indietro sulla sua volontà. La strada verso le urne - Le differenze fra i due referendum, paradossalmente, finiscono qui. Come un anno fa Alexis Tsipras, così il suo pari grado di Londra David Cameron aveva finito per vedere nella chiamata alle urne un diversivo tattico per divincolarsi quando ormai si sentiva alle corde. Il premier di Atene non sapeva più come resistere alla pressione degli altri governi dell’euro, quello di Londra doveva gestire una minaccia anche più insidiosa: i suoi alleati di partito; in nome loro, ha scelto di giocarsi al tavolo verde il destino del Regno pur di non rischiare una sfida alla propria posizione di leader del partito conservatore e candidato premier. Nel 2013 Cameron incassò il sostegno di molti dei suoi stessi parlamentari per un secondo mandato a Downing Street, in cambio di una promessa che a molti allora parve poca cosa: il referendum di ieri. Così l’uomo che aveva trasferito fra i Tory lo stile e l’oratoria di Tony Blair pensava di aver ricacciato nell’ombra anche gli ultranazionalisti dello Ukip. Proprio come Tsipras, Cameron ha sottovalutato le implicazioni dell’ingranaggio che aveva innescato. Forse è solo colpa della legge delle conseguenze impreviste, capaci di generare effetti perversi milioni di volte più grandi dell’atto alla loro origine. Forse invece è solo un battito d’ali di farfalla nella foresta amazzonica, da cui parte lo spostamento d’aria capace di diventare uragano sulla Cina. Con il referendum dell’altra notte le croci sulle schede di 638 mila persone o lo 0,008% dell’umanità - la differenza decisiva fra Remain e Leave - ha messo in moto spostamenti di migliaia di miliardi su tutti i mercati finanziari del pianeta e sulle risorse di miliardi di persone di centinaia di Paesi. Dov’è caduto il Remain - Cameron non avrebbe mai immaginato in che labirinto si stava cacciando. Forse è stata la sua educazione patrizia da discendente di Re Guglielmo IV a ottundergli il sesto senso grazie al quale i veri leader avvertono gli umori del Paese. Dopo aver passato un decennio a distruggere, interdire e disprezzare tutto quanto sapeva di Europa (fino a bloccare nel 2011 l’inclusione del «fiscal compact» nei trattati europei), Cameron di colpo ha dovuto cambiare ruolo in campagna referendaria. Non è mai suonato credibile. Si è ridotto al «Project Fear», cercare di impaurire i suoi stessi elettori con le conseguenze economiche della secessione europea, incapace com’era di fornire una spiegazione positiva, plausibile e anche solo minimamente sentimentale sul perché anche gli inglesi hanno un destino europeo. Né lui né i suoi si erano accorti di un

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rancore più profondo che stava mettendo radici nelle provincie del Regno. Dal 2004 sono cadute le clausole della Ue che limitavano la libera circolazione dei alcuni degli ultimi arrivati nel club: polacchi, ungheresi, cechi, slovacchi. Il centro studi Migration Watch in questi anni ha documentato, smentendo gli impegni del governo, una crescita dell’immigrazione che sta mettendo a nudo l’inadeguatezza di un sistema di welfare britannico martoriato dai tagli di Cameron e del suo ministro delle Finanze George Osborne. Ai ritmi attuali nel Paese stanno entrando 330 mila stranieri all’anno e di questo passo nel 2018 due terzi delle autorità locali avranno carenza di posti per i bambini nelle scuole elementari. Per fare posto ai nuovi immigrati bisognerebbe costruire un appartamento nel Regno Unito ogni quattro minuti (anche colpa di politiche che limitano l’offerta per far crescere il valore delle case esistenti). Dunque l’immigrazione è diventata l’arma contundente del fronte del Leave. Chi ha votato così, voleva soprattutto chiudere le frontiere. Eppure è successo qualcosa di strano: si sono schierate in massa con la Brexit soprattutto aree del Regno dove la presenza di stranieri è nettamente sotto la media: il Northumberland o Carlisle nell’Inghilterra del Nord o Boston e South Holland a Est (secondo il Migration Observatory di Oxford); al contrario si sono schierati molto di più per la permanenza nella Ue i distretti ad alta densità di immigrati, fra i quali tutta l’area centrale di Londra, Oxford e Cambridge. È una strana dissonanza. Fa pensare che il voto per il Leave contenga soprattutto un messaggio di malessere economico e di paura di chi si sente lasciato indietro, isolato in regioni un tempo industriali, mentre la Gran Bretagna si apre all’Europa e al mondo. Dopo il divorzio - Il paradosso è che questo voto finirà per impoverire ancora di più chi già è più vulnerabile, e rischia di trattarsi di uno spreco drammatico. L’anno scorso per esempio il Regno Unito è tornato al record di 1,6 milioni di auto prodotte, raggiunto dieci anni fa, ma ora il settore rischia di crollare. Se Londra è fuori dal mercato interno europeo, le sue auto dovranno pagare un dazio del 10% per entrarvi e questo le metterà fuori mercato. L’indiana Tata ha già fatto capire che chiuderà degli impianti, Bmw rischia di fare altrettanto con le fabbriche della Mini. Del resto lo sfondo è fragile: il debito totale dello Stato, delle imprese non finanziarie e delle famiglie in Gran Bretagna supera ancora il 300% del Pil e non è in calo malgrado una ripresa ormai nel suo settimo anno. Il Paese riesce a mantenere il suo tenore di vita solo prendendo in prestito dall’estero somme pari quasi al 5% del proprio reddito nazionale, ma con una sterlina ormai in caduta libera la Gran Bretagna troverà sempre meno creditori disposti a farle ancora fiducia. Per i ceti deboli, quelli che hanno creduto alle promesse del fronte del Leave, si prospetta una fase ancora più dura. Uscire dalla Ue significa per loro rinunciare anche ai requisiti minimi di protezione sociale sul lavoro che in Gran Bretagna prima non c’erano. Il rapporto con l’Europa - È su questo sfondo che il nuovo governo dovrà ricucire un rapporto con l’Europa, qualunque esso sia. Il governo di Parigi e ancora più quello di Berlino non sono disposti a fare sconti. Se vorrà mantenere l’accesso al mercato unico da mezzo miliardo di consumatori, anche dall’esterno, Londra dovrà accettare il menù completo: inclusa la libera circolazione dei lavoratori dagli altri Paesi, proprio ciò che il referendum ha bocciato. Per questo adesso la Germania le offre solo un «accordo di associazione». Significa che la Gran Bretagna rischia di trovarsi tagliata fuori dal suo unico vero mercato di sbocco, con le banche della City e i fondi d’investimento privati del «passaporto» per operare con il resto d’Europa. Nessuno se ne può rallegrare. È anche questo un sintomo di disintegrazione della struttura fondata con il Trattato di Roma nel 1957. È soprattutto un precedente destinato a creare nei mercati attesa per la prossima secessione di un altro Paese. Forse potrebbe convocare un referendum per l’uscita il leader populista olandese Geert Wilders, forse potrebbe farlo il governo nazionalista polacco. Di certo questa sindrome da declino colpisce in primo luogo i Paesi più fragili come l’Italia, soprattutto nei titoli azionari del settore finanziario che la Banca centrale europea non può proteggere. Non è un caso se nei corridoi di Bruxelles e nei mercati sia tornata l’ipotesi che l’Italia chieda prima o poi un sostegno leggero del Meccanismo europeo di stabilità per ancorare le proprie banche: ma è uno scenario che nessuno a Roma contempla. Pag 9 La Decrepita Alleanza. Lo sgambetto dei nonni alle nuove generazioni di Beppe Severgnini Vecchi contro giovani

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La Decrepita Alleanza ha vinto. Ha preferito il passato al futuro, i ricordi ai sogni, l’illusione al buon senso. Ne fanno parte i «little Englanders» di provincia e di campagna; i cittadini meno istruiti, su cui le informazioni scivolano come l’acqua sulle piume dei pellicani di St James’s Park; i nostalgici di ogni età, incapaci di rassegnarsi a un’evidenza. Questa: la Gran Bretagna, da tempo, è grande solo di nome. È un Paese normale capace di imprese ammirevoli. Brexit non è tra queste, purtroppo. Brexit sembra, prima di tutto, lo sgambetto a una generazione. Tra gli inglesi con più di 65 anni, solo il 40% ha votato per restare nell’Unione Europea (Remain). Tra i votanti fino a 34 anni, la percentuale sale al 62%. Tra ragazzi tra 18 e 24 anni, quelli favorevoli all’Europa sono il 73%. I nonni hanno deciso il futuro dei nipoti. Il passato prossimo è la tentazione delle nazioni in difficoltà. C’è qualcosa di rassicurante nelle abitudini, certo. Ma rinunciare ai grandi progetti in favore delle piccole consolazioni è sciocco. L’Europa è - era - un grande progetto, anche per il Regno Unito. I giovani inglesi, forse, non hanno saputo convincere le generazioni precedenti. Certamente non sono stati capaci di entusiasmarsi. Non sono stati fortunati: hanno trovato sulla loro strada leader goffi (il conservatore David Cameron); leader irresponsabili (il laburista Jeremy Corbyn, protagonista di una campagna scandalosamente inefficiente), leader cinici (Boris Johnson, che sogna di essere Churchill e rischia di diventare Trump). Cosa gli accadrà? Cosa accadrà ai loro coetanei sul Continente, ormai di casa a Londra? I ragazzi inglesi - per capire le proprie possibilità di studio, lavoro e movimento - dovranno capire quali condizioni verranno imposte al Regno (dis)Unito dall’Unione Europea. Se il danno non è ancora quantificabile, l’incertezza e l’ansia sono già certe. I giovani, in questo Paese, sono abituati a viaggiare, vivere e lavorare dovunque: grazie all’inglese, ai percorsi accademici, a una lodevole predisposizione all’esplorazione. Per loro tutto diventerà più difficile, se non impossibile (pensate al programma Erasmus). Racconta Jenny Shurville , 29 anni, dottoranda in storia dell’arte (con una tesi sui disegni del XII secolo di Vercelli): «Le mie ricerche mi portano frequentemente in Europa e dipendono dalla libera collaborazione tra istituzione nella Ue e in Uk: verranno compromesse? Senza contare l’orrore: il catastrofismo che ha dominato la campagna del Leave, evidentemente, è accettabile da molti miei connazionali». James Norrie, 28 anni, dottorando in storia medievale: «Vedo conseguenze pratiche e conseguenze politiche. Tra le prime: le mie sterline, quando lavorerò a Roma, saranno svalutate? Dovrò prendere un passaporto irlandese? E poi: la mia generazione, soprattutto a Londra, dava per scontato di vivere in un Paese cosmopolita. Purtroppo, non è così. Scoprirlo è stato un pugno nello stomaco». E per i giovani italiani? Brexit, prima d’essere dannoso, è doloroso, come una separazione in famiglia. L’Europa e Londra li hanno aiutati a crescere; e adesso, inspiegabilmente, si dividono. Ognuno chiederà il suo tempo, ognuno pretenderà lealtà: non sarà facile accontentarli entrambi. Mi scrive Marta Rizi, la giovane attrice romana con cui ho condiviso il palcoscenico per «La vita è un viaggio» (studi a Oxford, scuola di recitazione a Londra): «Brexit è un lutto, per me. È crollata la casa dove siamo diventati europei e cittadini del mondo. Fa male». Il nuovo sindaco di Londra, Sadiq Kahn, ha lanciato ieri un appello dal titolo preoccupante («Don’t Panic»). Ha scritto che il milione di cittadini europei che vivono nella capitale britannica - in maggioranza, giovani - «restano i benvenuti» e la metropoli «continuerà a essere la città di successo che è oggi». La domanda è: come? Il sindaco insiste sulla necessità di restare nel Mercato Unico europeo, pur uscendo dall’Unione Europea: forse non ha letto con attenzione l’art. 50 del Trattato di Lisbona, dove si dichiara che «ogni Stato Membro può ritirarsi dall’Unione, in osservanza con i propri requisiti costituzionali». Il comma 4 prevede però che «le condizioni del ritiro» e la «futura relazione con l’Unione» verranno decise dal Consiglio Europeo «senza la partecipazione alla discussione dello Stato Membro che si ritira». In sostanza: il Regno Unito non avrà voce in capitolo. Forse sarà ridotto a sottoscrivere una serie di accordi bilaterali. Le testimonianza, da stamattina, fioccano (su «Italians», sui social e altrove), Giovanni Crovetto, milanese, 32 anni, otto passati a Londra, lavorando in campo finanziario: «Mi dispiace che molti, più giovani di me, rischino di vedersi negata l’opportunità di conoscere l’apertura al futuro che ho visto io». Maurizia Carrera, torinese, 29 anni, Motion Graphic Designer: «Per quanto potrò esercitare la professione prima d’essere obbligata a trovare uno sponsor per lavorare in GB? Brexit limiterà l’afflusso di giovani. Noi europei perderemo l’occasione di vivere in

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una città che ha aperto la mente a molti». David Pagliaro, triestino, 24 anni, lavora per un think tank: «Sono a Londra da quattro anni e non mi cacciano via domani. Ma le cose cambiano anche a livello di sentimenti ed emozioni. Non mi sarei mai aspettato che la nostra generazione dovesse veder aumentare i confini». Giornate tristi, aspettano questa città. Londra non conoscerà il declino gentile che aspetta l’Inghilterra rurale, destinata a diventare una Svizzera povera, piatta e sul mare. Ma le perdite ci saranno: di opportunità, di lavoro, di presenze europee (rimpiazzate da arrivi indiani, cinesi e sudamericani, presumibilmente). Una sconfitta collettiva. La città più internazionale d’Europa costretta a cambiare rotta. La nuova destinazione l’ha decisa la Decrepita Alleanza. E nessuno sa bene qual è. Pag 32 I Paesi tentati dalla Brexit e i rischi dell’effetto domino di Franco Venturini Si chiama effetto domino il pericolo mortale che incombe sull’Europa dopo la dichiarazione di divorzio sottoscritta dagli elettori britannici. Perché la Ue, scossa dal verdetto inglese ma decisa a sopravvivere, difficilmente resisterebbe alla fuga di altri soci che potrebbero vedere nel voto leave un esempio da seguire. La minaccia più immediata giunge dall’Olanda, Paese fondatore, membro dell’eurozona e aderente agli accordi di Schengen (o a quel che ne resta). Nel marzo 2017 gli olandesi andranno alle urne per le elezioni parlamentari, e in testa ai sondaggi c’è il partito antieuropeo e xenofobo di Geert Wilders. Il quale ha reagito alle «buone notizie» da Londra rinnovando la richiesta di un referendum sull’uscita dalla Ue già battezzata Nexit. La Danimarca è un caso diverso, perché è sempre stata legata a filo doppio alla Gran Bretagna ed è perciò quasi scontato che sia tentata di seguirne l’esempio. Non basta. Lo scorso dicembre un referendum non vincolante sui temi europei c’è già stato, e il governo europeista lo ha perso. Quanto ai sondaggi di opinione, il no all’Europa ha raggiunto il 42 per cento contro il 44 di chi voterebbe per rimanere. E pesa anche la storia, perché nel ’92 i danesi respinsero il Trattato di Maastricht accettando poi di ratificarlo soltanto dopo ampie concessioni sotto forma di opt out, quelle stesse autorizzazioni a ignorare determinate regole europee che Londra aveva incassato più di chiunque altro ma che non sono bastate a convincere i britannici. Gli euroscettici fanno festa anche in Svezia, ma il pericolo di una uscita dalla Ue è più forte in Austria, dove da poco il candidato della destra populista alla presidenza è stato battuto all’ultimo secondo con il conteggio dei voti postali. Il leader del partito Fpo, Heinz Christian Strache, è stato relativamente moderato subordinando la richiesta di un referendum alle riforme che l’Europa «non deve più ostinarsi a rifiutare». Ma Vienna resta una spina nel fianco. Altre preoccupazioni giungono dal Gruppo di Visegrad. In Slovacchia i partiti Lsns e Sme Rodina sono stati i vincitori morali delle ultime elezioni, e oggi dichiarano di lavorare per seguire l’esempio britannico. Spinte dello stesso segno esistono da sempre nella Repubblica Ceca e beninteso in Ungheria, dove il governo di Victor Orbán è in rotta con Bruxelles sui rifugiati e non solo. Ben più importante è la Polonia, che dalla Ue ha ricevuto aiuti economici decisivi per la sua crescita. Ma la riconoscenza scarseggia ora che il potere viene esercitato di fatto dal nazionalista Jaroslaw Kaczynski, e un braccio di ferro sui migranti (per esempio se Bruxelles rispondesse al rifiuto di accoglierne una quota tagliando gli aiuti) potrebbe portare anche Varsavia almeno a chiedere formalmente quegli opt out che già applica nei fatti. E poi ci sono i pesi pesanti. In Francia Marine Le Pen ha fatto sua la «vittoria» britannica, ma la prova elettorale decisiva è in realtà già programmata per il maggio 2017 quando si voterà per l’Eliseo. Lì verranno misurate la forza del Front National e l’antica tendenza sovranista dei francesi. I quali, non va dimenticato, affondarono assieme agli olandesi il trattato costituzionale che doveva aprire nuovi orizzonti alla Ue. Prova ancor più imminente sarà domani quella spagnola. Unidos Podemos avanza, ma una uscita dalla Ue è lontana. E anche una Catalogna indipendente sarebbe europeista. Qualcuno avanza timori sull’Italia, dopo aver ascoltato le parole di Salvini. Ma anche qui il pericolo è ridotto, soprattutto se Cinque Stelle confermerà quella che sembra essere una rinuncia al referendum sull’euro. E un cenno è giusto dedicarlo alla Grecia, che da anni paga carissimi i suoi peccati contabili, che ha sin qui resistito alle sirene anti Ue, ma che potrebbe davanti a una nuova crisi cedere alla tentazione di prendere il largo. Andava fatto, questo lungo elenco di pericoli per l’Europa. Perché l’Europa non è morta dopo il Brexit ma è avviata a soccombere se non

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troverà una determinazione unitaria nella riconquista dei suoi cittadini elettori. Non basta condannare i populismi offrendo poi avvilenti spettacoli di frantumazione e di impotenza. E non basta nemmeno reagire invocando «più Europa», più integrazione in un tempo che è contrario all’integrazione. Il Brexit interrompe un declino silenzioso, crea un vulnus ad alta visibilità e gravido di conseguenze: sono le condizioni necessarie per vedere nel verdetto britannico non una condanna ma uno stimolo, peraltro indispensabile tenendo conto delle ripetute e cruciali prove elettorali che ci accompagneranno fino alla fine del 2017. Servono passi concreti per parlare ai popoli europei. Il completamento dell’unione bancaria con la garanzia sui depositi, per esempio. E un accordo con sanzioni per chi lo rifiuta sulla ripartizione equa dei rifugiati, unitamente a uno sforzo strategico per contenerli. La maggiore integrazione nascerà allora dalle singole politiche, che determineranno anche i confini di un nocciolo duro europeo associato alle velocità diverse di chi farà scelte diverse. L’Europa per vivere deve riformarsi, questo lo sapevamo prima del Brexit. Ora siamo all’ora della verità, e tutti quelli che vogliono procedere, Germania in testa (sarà più flessibile sulla garanzia per i depositi?), dovranno fornire ai cittadini le prove del loro impegno. LA REPUBBLICA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 I leader di domani di Eugenio Scalfari Si discute molto in queste ore su che cosa accadrà all'Inghilterra e che cosa accadrà all'Europa dopo la vittoria improvvisa di Brexit. E mettiamo da parte il crollo dei mercati di tutto il mondo, la sterlina al punto più basso degli ultimi trent'anni. Non è questo il problema. Il problema lo segnalò Winston Churchill in due discorsi rispettivamente del 1952 e del 1955. Disse: "L'Inghilterra ha due sole strade: o diventa la cinquantesima stella della bandiera americana oppure sceglie l'Europa e provvede a costruirne la nascita insieme a tutti gli altri Stati del continente". Con il voto di ieri il risultato non è stato né l'uno né l'altro. Sfortunatamente l'Inghilterra è diventata (come avevamo già previsto domenica scorsa) una isoletta che la globalizzazione sconvolgerà, che l'America tratterà con gentile indifferenza e l'Europa tenderà a dimenticare salvo che come piccolo mercato di libero scambio. Ha vinto Farage e il suo movimento populista e xenofobo e questo è il risultato. Naturalmente Farage trasmette l'effetto del voto inglese su tutti i populisti europei: Le Pen in Francia, Salvini in Italia, i paesi baschi in Spagna e poi gli interi Stati la cui fede europea c'è stata soltanto per liberarsi dalla minaccia post-sovietica di Putin: Polonia, Ungheria, Bulgaria, Balcani. Il Brexit è una bomba a orologeria: distrugge l'Inghilterra, mobilita i Paesi fuori della moneta unica a rivendicare la propria indipendenza, mobilita i populismi dovunque, eccetto lo scontro americano tra i repubblicani di Trump e i democratici della Clinton. Peggio di così era difficile immaginare. Ho già scritto più volte che, operando su livelli totalmente diversi, c'erano soltanto due persone che avevano le stesse finalità: Papa Francesco e Mario Draghi. Altri francamente non ne vedo. Ci sono, anzi dicendolo al condizionale, ci sarebbero, ma ancora non hanno deciso. C'è da augurarsi che lo facciano al più presto perché il tempo a disposizione è pochissimo. I nomi sono tre: Merkel, Hollande, Renzi. Il terreno sul quale costruire è l'Eurozona. Non più i 28 Paesi della Ue che dopo il Brexit inglese sono diventati 27, ma soltanto i 19 dell'Eurozona. Finora l'attenzione dell'Impero americano aveva una duplice angolazione: l'Inghilterra e la Germania. Ora c'è soltanto la Germania e, secondo le mosse che farà, l'Italia. Non sembri una supervalutazione patriottica da parte mia: da tempo la mia Patria è l'Europa. Ma l'Italia può diventare un interlocutore importante per l'Impero americano. La Germania, altrettanto consultata prima continuerà ad esserlo sempre che la Merkel esca dall'immobilismo pre-elettorale che sembra averla paralizzata. Renzi ha deciso di incontrarla oggi. Mi auguro che sia convincente e possa parlare anche a nome dell'America. La Cancelliera non può aspettare le elezioni, deve muoversi subito adottando una politica di crescita e di flessibilità economica. I destinatari principali sono la Francia, l'Italia, la Spagna, la Grecia e l'immigrazione. E poi, come tutti, la guerra contro il terrorismo dell'Isis. L'incontro con la Merkel è il compito principale di Renzi nelle prossime ore. Mi permetto di suggerire che non passi ad altre cose, che pure ci sono e lo riguardano direttamente; pensi a convincere la Cancelliera di Berlino. Tutto il resto viene dopo. Dopo, ma a poche ore di distanza; in situazioni così eccezionali il tempo corre alla velocità della luce e il dopo

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riguarda appunto la flessibilità e la crescita economica che direttamente ci riguardano. Dovrebbe rinascere un Keynes, ma si può imitarlo non scavando buchi nella terra ma creando nuovi posti di lavoro. Ci vuole un taglio nel cuneo fiscale di almeno 30 punti. Non è granché, ma aiuta. Ci vuole un taglio della pressione fiscale che sta crescendo di continuo. Inutile pensare al debito pubblico, quello verrà dopo, ma la pressione fiscale no, quella viene subito e si attua combattendo troppo stridenti diseguaglianze. Lo dice Papa Francesco, lo vuole la gente, quella che vota i Cinque Stelle oppure non vota. E poi c'è il referendum, quello che può rischiare di trasformarsi in un Renxit. Si può rischiare un pericolo simile? Io personalmente, e l'ho confermato persino nel colloquio che ho avuto con lui all'Auditorium di Roma lo scorso 11 giugno, voterò "No". Lo faccio perché trovo inaccettabile per la democrazia italiana l'attuale legge elettorale. Se Renzi modificasse in modo adeguato quella legge, io voterei il "Sì". Perché dunque non la cambia, e come dovrebbe cambiarla? Basterebbe che invece di una lista unica come adesso è previsto, con un premio del 55 per cento per chi arriva al 40 per cento dei voti degli aventi diritto, Renzi prevedesse una coalizione di liste distinta ma precostituita: un partito di sinistra che si allea con formazioni di centro moderato. Partiti che portavano voti come erano quelli che seguirono De Gasperi alle elezioni del 1948: erano liberali, repubblicani, socialdemocratici. La Democrazia Cristiana ebbe circa il 40 per cento dei voti, i tre partiti minori un otto-nove. Il sistema era proporzionale, non c'erano premi ma liste pubblicamente apparentate. La Dc governò per 12 anni con questo sistema. Poi compì un salto in avanti e si alleò con i socialisti di Pietro Nenni nel 1963. Quando De Gasperi si era ritirato e alla presidenza del consiglio furono messi un primo ministro all'anno o poco più. Ma la linea di fondo fu immutata: un partito di centro che guarda a sinistra. Questa è la mossa che Renzi dovrebbe fare. Prima del Referendum del prossimo ottobre. Ormai non deve più rottamare, deve allearsi a sinistra e tra i moderati, trasformando il sistema tripolare in un sistema bipolare, che ottenga voti dal centro moderato, dalla sinistra più radicale e tra gli indifferenti ex Pd fondato da Veltroni del Lingotto. E apra la sua squadra, italiana ed europea, a persone come Prodi, Veltroni, Enrico Letta, Fassino. Non è più tempo di rottamare ma di ricostruire. Impari dal passato per costruire il futuro in Italia e soprattutto in Europa. Pag 1 La politica che abdica di Ezio Mauro Cosa si muove nel sentimento profondo del popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature, il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali, radicalizzando i due corni dell'opinione pubblica nelle loro forme estreme, dove c'è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente contro. Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo, come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo. In questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un'altra prova di abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale, che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi. Quei due estremi oggi rivelano che la speranza britannica in un futuro capace di conciliare la storia dell'isola con la geografia del continente e con la politica dell'Occidente è minoritaria. Mentre la chiusura nella coscienza di sé, l'autocertificazione dell'orgoglio identitario e l'investimento esclusivo sul proprio destino prevalgono dirottando la politica del Paese. Tutto questo, come dicono gli istituti di ricerca, costerà caro alla Gran Bretagna e alla sua economia? Ma che importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non finalizzate". Ci sono momenti in cui l'istinto di dare una forma politica visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle convenienze. L'insularità storica e spirituale, orgogliosa, dei britannici è certo un elemento specifico decisivo di questa scelta. Ma il meccanismo politico e morale con cui si è costruito questo esito - l'istinto dei popoli, appunto - parla per tutti, parla per noi. Vale dunque la

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pena di cercare i caratteri generali di un fenomeno che è esploso a Londra, ma che sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l'Europa. Prima di tutto sul voto ha pesato un'asimmetria sentimentale clamorosa. L'europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri Paesi. L'antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come quella del referendum, realizza un processo alchemico strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata, probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica, una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme cercando un futuro comune. Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a occhio nudo. L'impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione tra problemi sovranazionali (la crisi, l'immigrazione, il terrorismo) e le sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica dell'Unione Europea, che percepiamo come un'obbligazione disciplinare senza più rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell'epoca. In più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura del vincolo di società che aveva fin qui unito - nelle differenze - il ricco e il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo dell'avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei fenomeni in corso: di fronte ai quali l'individuo è solo, immerso nel moderno terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli resta della memoria, quel che sostituisce l'identità. E' evidente come tutto questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di fuga nell'estremismo, come mostrano i banchetti imbanditi coi cibi altrui da Le Pen e Salvini. In realtà, c'è uno spazio enorme per una riconquista della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione europea, se sapesse riscoprire l'ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l'Europa ha sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente "una dimora, e un nome". AVVENIRE di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 La necessaria ripartenza di Andrea Lavazza Un colpo, un grave colpo all’Unione Europea. Su questo è difficile avere dubbi. Che conseguenze possa avere sul paziente già debilitato è ora oggetto di dibattito prima che lo si possa constatare direttamente. Il sorprendente voto britannico, che in una notte ha portato il premier Cameron dall’euforia di uno scampato pericolo alle dimissioni da capo del governo, sancisce, per adesso, la fine di un rapporto sempre contrastato e mai pienamente compiuto tra Londra e il Continente avviato sulla strada dell’integrazione. La storia istituzionale più si risale nel tempo più diventa noiosa e viene dimenticata. Ma un semplice ripasso ci direbbe molto della Brexit di oggi. La prima domanda di ammissione inglese alla Comunità europea venne presentata nel 1961 e fu clamorosamente bocciata due anni dopo da De Gaulle con la motivazione per cui la Gran Bretagna sarebbe stata il cavallo di Troia degli Stati Uniti. Soltanto dopo l’uscita di scena del generale, nel 1969, partì la trattativa per l’ingresso britannico nella Cee, che si realizzò il primo gennaio del 1973. Quindici mesi più tardi, il governo laburista chiese di rinegoziare le condizioni di adesione e il nuovo Trattato, faticosamente stilato, venne sottoposto a referendum nel giugno del 1975, ottenendo il 67% di consensi. E fermiamoci qui. Da allora, l’Europa è

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cresciuta a 28 Paesi e ha prolungato a 70 anni il suo periodo più pacifico. Antipatie, rivendicazioni e dualismi non sono scomparsi, ma nessuno oggi direbbe che uno Stato vicino è pericoloso e va tenuto fuori dalla porta della casa comune. La pazienza e la persuasione morale, sostanziata dall’attrazione che la Ue ha oggettivamente esercitato, hanno condotto nel novero delle democrazie il blocco dell’Est, compresi gli Stati balcanici, gli ultimi a essere passati attraverso un conflitto sanguinoso e foriero di spaccature e risentimenti. Ci aveva provato Cameron a evocare possibili guerre con l’allargamento della Manica, non poteva tuttavia risultare credibile, perché le vere battaglie sono fuori dalla memoria collettiva (grazie anche all’Unione) e l’unico scontro è quello incruento sulle tasse e la burocrazia. Ma il primo ministro apprendista stregone si è bruciato in un esercizio troppo difficile: non poteva competere con Farage e gli anti-europeisti sul loro terreno. Le concessioni strappate a Bruxelles per evitare la Brexit erano troppo poco per chi voleva tutto e la gente, comprensibilmente, alle copie preferisce sempre l’originale. L’euroscettico tiepido David Cameron è stato sorpassato dall’euroscettico a tutto tondo Boris Johnson, tra i favoriti alla successione per il 10 di Downing Street. Non è stato un 'voto con la mano sul portafoglio', anzi – a conti fatti – la rimessa per Londra potrebbe essere pesante. È stata la scelta di chi guarda al proprio cortile e pensa che il mondo finisca dopo la staccionata della propria villetta e nel ricordo dei fasti di un impero che non c’è più. Inutile nascondersi che a pesare più di tutto è stato il tema degli immigrati, europei ed extraeuropei. Da una parte le presenze reali in crescita in un contesto di crisi economica e, soprattutto, del welfare (gli stranieri – si dice – 'rubano' sussidi e servizi); dall’altra, la retorica dell’invasione alimentata dai populismi che colgono problemi effettivi e concreti, ma poi scaricano sull’anello sociale più debole ogni responsabilità, eludendo la ricerca di buone soluzioni, che spesso non sono alla loro portata. La conseguenza della miopia del 52% degli elettori pro- leave potrà persino essere una disgregazione del Regno Unito, con la Scozia pronta a indire un altro referendum per l’indipendenza e l’Irlanda del Nord tentata da un riavvicinamento all’Eire. Resta comunque l’Unione Europea a doversi interrogare seriamente sul proprio futuro. L’abbandono senza precedenti di uno dei membri più importanti sotto ogni punto di vista è la certificazione di un fallimento? Sarà l’inizio di una fuga? La tentazione è forte per chi individua nella lotta anti-Ue uno straordinario strumento elettorale. Non può e non deve essere così. Nel breve periodo, si deve innanzitutto raffreddare il clima, perché realisticamente non vi è nulla di nuovo che possa scaldare gli animi in direzione opposta per vincere eventuali referendum. L’appello diretto ai cittadini con un quesito secco è un metodo democratico valido ed efficace, non necessariamente l’unico e il più adeguato. Che la nostra Costituzione lo escluda per certe materie sta a indicarlo. Piuttosto, sarebbe da rilanciare un processo di elezione diretta dei vertici istituzionali continentali, riducendo i livelli di mediazione. Un presidente dell’Europa eletto dai cittadini dei (ormai) 27 rappresenterebbe una presenza meno astratta rispetto ai fantomatici 'burocrati' di Bruxelles, sospettati di non avere altro scopo che quello di complicare la vita alla gente. E poi, certo, un’Europa più solidale e meno arcigna e schiava del verbo iper-rigorista che ha dominato negli anni del dimezzamento della 'grande politica', senza dimenticare che gli egoismi sono spesso il frutto di singole scelte nazionali, come dimostra il caso delle quote di migranti da accogliere. Se le Borse si riprenderanno presto e il negoziato di uscita con Londra non sarà troppo doloroso, c’è persino il rischio che la lezione della Brexit non venga pienamente recepita. Sarebbe un errore grave, non più però di quello che molti stanno commettendo in queste ore. Non dirsi, cioè, orgogliosi di un’Europa che, pur con tutti i suoi limiti, ha saputo unirsi e camminare insieme, forte - che lo si ammetta o meno - dei suoi valori cristiani e umanistici. Solo di qui, da questa storia e da questo orgoglio, si può ripartire. Pag 3 La lezione al continente tra orgoglio ed egoismo di Mauro Magatti Ricostruire l’Ue dalla dignità della persona umana Al di là della reazione isterica delle Borse, ci sono certo mille buoni motivi per essere preoccupati del voto inglese. Che una delle più grandi e antiche democrazie europee decida di uscire dal progetto di unificazione è una sconfitta lacerante che pone interrogativi a cui nessuno sa oggi dare risposta: ci saranno altri Paesi che seguiranno la strada dal Regno Unito? Davvero l’Unione Europea rischia adesso di andare in pezzi?

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Quanto saranno gravi i prevedibili contraccolpi sulle economie mondiali? E le nostre già deboli democrazie reggeranno all’onda d’urto che dobbiamo aspettarci? Basta dare un occhio a ciò che stanno vomitando i social network nelle ultime ore: gli imprenditori del malessere hanno campo libero. Preoccupazione dunque. Che va però subito accompagnata da una lettura onesta e coraggiosa delle ragioni che ci hanno portato fin qui. Per fare questo occorre prima di tutto riconoscere che il referendum inglese è pur sempre un segno di democrazia. Il popolo (con un’ampia partecipazione) si è espresso. E va profondamente rispettato. La campagna è stata aspra ma chiara. E nessun elettore è andato a votare senza sapere quel che faceva. Un tale esito – ancor più urticante perché inaspettato, per l’errore dei sondaggi che avevano tranquillizzato tutti negli ultimi giorni – è dovuto a molte cause. Ma, nella sostanza, esso è conseguenza del fatto che larga parte del potere – non sono politico, ma anche finanziario, economico, mediatico e culturale – ha negli ultimi anni ripetutamente negato la realtà. E cioè che, a partire dal 2008, la sofferenza diffusa ha continuato a scavare nel cuore degli uomini e delle donne comuni, molti dei quali si sono sentiti ripetere discorsi rassicuranti circa l’imminente ripresa che nessuno, però, ha mai davvero visto. E non si tratta solo di economia. Ma della stessa possibilità di riconoscersi parte di un popolo accomunato da un progetto condiviso e istituzioni congruenti. In tale quadro, la questione dei migranti è diventata negli ultimi anni il fattore scatenante di una crisi che oggi non può più essere rimossa. In mancanza di una risposta politica seria e responsabile, proprio gli stranieri si sono di fatto trasformati nel capro espiatorio perfetto su cui il rancore di segmenti di opinione pubblica si è progressivamente canalizzato. Un processo aggravato e accelerato dall’escalation del terrorismo islamico, che non a caso è stato uno dei temi più sfruttati dalla campagna per il leave: possibile che, nonostante tutto quello che la cronaca ci racconta, in Europa non si sia ancora riusciti a impostare un discorso sensato per regolare i complessi rapporti tra islamici e cristiani, dentro e fuori l’Unione? È questa impressionante mancanza di lettura della realtà da parte delle élite che più deve preoccupare. Con il referendum, il popolo si è espresso. E anche se la vittoria dei fautori della Brexit copre importanti faglie interne – come la contrapposizione tra i più anziani (pro leave) e i più giovani (pro stay); o tra Londra (pro stay) e il resto del Inghilterra (pro leave); o tra l’Inghilterra e il Galles (pro leave) e il resto della Gran Bretagna (pro stay) – rimane il fatto che il risultato è netto. Con il vocabolario di Carl G Jung potremmo dire che, con questo voto, viene allo scoperto «l’ombra» dell’animo inglese: quella un po’ egoista e che pensa di potersi salvare da solo, a dispetto del mondo intero. E ciò è senz’altro vero. Ma nello stesso tempo, nel voto si può vedere l’orgoglio di un popolo che, consapevole della propria storia, aspira ancora a non farsi catturare dalla visione tecnocratica della vita che domina oggi un po’ dappertutto. Oltre che la legittima protesta dell’uomo qualunque che non riesce a far combaciare la propria esistenza con le grandi architetture messe in piedi dall’Unione Europea. Aver guardato con sufficienza – se non con disprezzo – questi sentimenti, certo limitati e ambivalenti, è stato l’errore della classe dirigente inglese ed europea. Ora la Brexit mette l’Europa continentale – e tutti noi – davanti a un bivio: o avanti o indietro. Cioè, procedere o abbandonare il progetto di unificazione. Prendere questa seconda strada sarebbe davvero follia. Ma prendere la prima richiede che si faccia ciò che in questi anni si è proclamato solo nei convegni o negli eventi celebrativi: è cioè che non ci può essere unità monetaria senza unità politica; che l’Europa non va pensata come un superstato burocratizzato, ma come forma politica innovativa capace di rendere possibile l’Europa dei popoli; che nessuna convergenza è sostenibile senza la condivisione di un 'mito politico' che, nel caso europeo, non può essere altro che quello della dignità di ogni persona umana; e che un tale mito non può essere mera retorica, ma deve tradursi in forme istituzionali e scelte politiche coerenti. Per meno di questo, come il voto in Inghilterra ci dice, non vale la pena stare insieme. L’uomo della strada lo ha capito. Prima che sia davvero troppo tardi, speriamo che lo capisca anche chi occupa i tanti luoghi di potere del nostro tempo. Pag 3 Ora un cambio di passo su economia e lavoro di Leonardo Becchetti L’Europa deve alzare il livello di solidarietà e diritti Il nazionalismo è la risposta viscerale, sbagliata e controproducente a una globalizzazione culturale prima che economica dove la persona umana è in fondo alla

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scala dei valori, le diseguaglianze sono enormi e i sistemi fiscali non riescono a redistribuire le risorse. La Brexit è il risultato paradossale dell’incapacità di certe élite di capire i problemi delle classi medie e basse dei Paesi ricchi che hanno visto peggiorare le loro condizioni di lavoro negli ultimi decenni per via degli effetti perversi di una globalizzazione mal gestita. Il ragionamento di tanti elettori britannici appare grossolano ed elementare: ci sono troppi stranieri, la torta è fissa e gli stranieri (europei e no) ci tolgono risorse, la colpevole è l’Europa. L’esito del voto di protesta, soprattutto nel caso britannico, non produce una soluzione ragionevole. Il Regno Unito non ha l’euro e ha sospeso Schengen, dunque che cosa cambia? Con la Brexit perde ora il vantaggio di fungere da hub (letteralmente: fulcro) finanziario per l’Europa comunitaria e quello garantito dagli accordi commerciali con i paesi della Ue, e questo potrà danneggiare la sua crescita e la sostenibilità dei suoi dati di bilancio (che è fortemente in deficit). Londra dovrà rinegoziare tutto daccapo e non è detto (anzi è molto difficile) che i vecchi partner 'abbandonati' siano disposti a procedere in modo amichevole in questa direzione. Un banco di prova importante anche per altre ipotesi di uscita dall’Unione sarà verificare se la svalutazione della sterlina, unico effetto immediato realizzato e perfettamente prevedibile ex ante della Brexit, produrrà maggiori effetti positivi (rendendo più competitive le esportazioni) o maggiori effetti negativi (aumentando il costo delle importazioni). Le filiere produttive, infatti, sono oggi complesse e frammentate ed è molto difficile stabilire prima quale dei due effetti prevarrà. Intanto il vaso di Pandora si è aperto e il Regno Unito, ora Regno Diviso, rischia la disgregazione perché Irlanda del Nord e Scozia non sembrano condividere questa rottura. Se la Gran Bretagna subisce in un passaggio così delicato e dirompente volatilità e incertezza, figuriamoci che cosa potrebbe capitare alla nostra Italia che è ancora percepita come un «anello debole» d’Europa. Le pesanti dinamiche di Borsa, e soprattutto dei titoli bancari, di ieri sono un antipasto di quello che potrebbe succedere in caso di uscita dell’Italia dall’euro. E sappiamo già che in un caso del genere l’ombrello della Bce di Mario Draghi sullo spread e sui titoli di Stato non funzionerebbe con la stessa efficacia. Ciò che Brexit sancisce in modo chiaro e definito è un duplice fallimento di strategie e di capacità di comunicazione. In primis c’è l’incapacità della Ue di affrontare il disagio popolare di questa fase della globalizzazione e di mettere la dignità della persona e del lavoro al centro della scena. Scena occupata da 'idoli' come il libero mercato, il surplus del consumatore o la massimizzazione del valore per l’azionista la cui preminenza spiazza di fatto la promozione della dignità dell’uomo e della donna e della loro realizzazione nel lavoro. Oltre a questo, emerge con ancora più chiarezza l’incapacità assoluta di comunicare in modo popolare ed empatico i tanti benefici che le risorse comunitarie producono nei territori. Non esiste un’Europa che parla con i cittadini, ma soltanto la percezione di funzionari che da lontano, a Bruxelles, decidono in modo poco lungimirante i nostri destini. Nella vita dei persone e dei popoli, però, ogni problema può essere un’opportunità. Brexit può diventarlo, anche sul piano dell’economia e del lavoro se produrrà due risultati importanti nell’Unione Europea. Il primo è l’adozione di una chiara strategia di condivisione del rischio e delle risorse tra deboli e forti, così come avviene strutturalmente in uno Stato federale. Una strategia che non risulti priva di un sistema d’incentivi che stimoli al progresso nella gestione economica, ma che sia molto più generosa dell’attuale. Il secondo è il varo di politiche fiscali che vadano alla radice del problema della globalizzazione. Per trasformarla rapidamente in una corsa verso l’alto dei diritti e della dignità della persona e del lavoro sono necessari quei meccanismi definiti di social consumption tax (cioè di imposizione sul consumo sociale) attraverso i quali i prodotti che arrivano sugli scaffali di negozi e supermercati vengono premiati (o sanzionati fiscalmente) quando sono provenienti da filiere ad alta (o bassa) dignità del lavoro. Muovendo in parallelo rispetto a quanto accade nel settore della sostenibilità ambientale, abbiamo bisogno dell’introduzione della 'classe energetica A' stavolta non per premiare la qualità ecologica di edifici o elettrodomestici, ma la dignità del lavoro incorporata nei prodotti. Solo mettendo la dignità del lavoro e della persona al centro della globalizzazione potremo combattere il drammatico 'effetto serra sociale' che surriscalda e inquina la politica del continente. Le diseguaglianze come l’inquinamento danneggiano tutti, producono concorrenza verso il basso dei salari, precarietà, migrazioni incontrollate degli ultimi verso i Paesi del benessere, concorrenza tra gli ultimi

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per piccole fette di torta. È davvero arrivato il momento di capire che non possiamo più permettercele e mettere in campo gli strumenti noti e disponibili per contrastarle. Pag 8 Il monito di Bagnasco: l’Europa deve cambiare di Marco Iasevoli “Brexit fatto grave, si rischia l’effetto domino” Non sono mai mancati, negli ultimi anni, i moniti dei vescovi italiani perché l’Europa tornasse se stessa, recuperasse la propria identità e le proprie radici religiose, decidesse di rinunciare all’individualismo economico-finanziario e al relativismo etico, tornasse a rispettare la cultura della vita ancora presente in tanti Stati membri e affrontasse con umanità sia il disagio sociale sia lo storico flusso di migranti. Perciò la decisione dei britannici, per la Cei, ha rappresentato la conferma di tante preoccupazioni. «Quanto è successo è un fatto molto grave – commenta il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Conferenza episcopale italiana –, ora si rischia l’effetto domino». Non è una profezia di sventura, ma la volontà di rappresentare con realismo i pericoli che intaccano la costruzione europea: «L’Ue deve cogliere il messaggio di un grande disagio e rivedere la propria impostazione dal punto di vista economico e soprattutto culturale. Non si può non rispettare l’identità dei singoli popoli, come è stato fatto in tutti questi anni, in modo palese o in modo ricattatorio». Sono temi che ricorrono da mesi nelle prolusioni e relazioni di Bagnasco sia al Consiglio permanente sia all’Assemblea generale dei vescovi. Appena a maggio scorso, di fronte allo scenario devastante dei bambini morti in mare e della povertà crescente, il presidente della Cei quasi elevò una preghiera per l’Unione: «Possa l’Europa ritrovare la sua anima e così l’amore di popoli e nazioni. Possa incontrarsi finalmente con le persone, che non sono pedine sulle cui teste qualche 'illuminato” pretende di decidere o sperimentare. Capisca che essere europeo non significa entrare nel limbo del pensiero unico». Parole forti. Ancora più forti lo furono a marzo, mentre il Consiglio Ue balbettava sulle decisioni da prendere per i migranti: «Che spettacolo dà di sé l’Europa? Dobbiamo confrontarla con i volti sfatti e terrorizzati di questa gente che si sottopone a indicibili fatiche. Può l’Europa, culla di civiltà e diritti, erigere muri e scavare fossati?». Evidentemente dal tessuto delle parrocchie e delle associazioni i vescovi ricavano più nitidamente la disaffezione verso le istituzioni europee rispetto a quanto riesce a fare la politica. Ieri, infine, a margine della messa a Genova per San Giovanni Battista, l’amaro commento sulla Brexit. E l’invito a non arrivare a soluzioni semplicistiche. «Il mondo – ha detto Bagnasco – ha bisogno di più Europa, non di meno Europa. Ne sono convintissimo». Ma di una Ue che sappia rispettare le culture dei popoli e «non condizioni i suoi aiuti, ad esempio, all’approvazione di leggi di impianto morale». I padri fondatori - Adenauer, Schumann, De Gasperi - «avevano una propria fede e un’identità culturale precisa fondata sul Vangelo. Non volevano una Ue confessionale ma riconoscevano che i valori cristiani sono il distillato dell’esperienza migliore dell’umanità». Persi questi riferimenti, conclude Bagnasco, le persone sono «spaesate» e «si illudono che il nuovo sia di per sé migliore del passato». IL GAZZETTINO di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 Ma la Brexit non è la fine dell’Unione di Romano Prodi Tanto tuonò che piovve. E la pioggia della Brexit è forte e mista a grandine. Il temporale delle borse e dei mercati finanziari durerà tuttavia poco tempo perché, pur sperando in un esito diverso, le misure di emergenza sono state preparate anche per le ipotesi peggiori. E sono sufficienti. Avremo quindi qualche giorno di turbolenze fino a quando qualcuno non comincerà a giocare al rialzo, riflettendo sul fatto che l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea non è la fine del mondo. È invece possibile che sia la fine della Gran Bretagna perché l’Inghilterra e il Galles hanno votato per l’uscita mentre la Scozia e l’Irlanda del Nord hanno dimostrato la volontà di rimanere in Europa. Una divisione che avrà conseguenze politiche pesanti e che accentuerà le tensioni secessionistiche sia interne al Regno Unito che in altri Stati europei, a partire dalla Spagna. La Brexit ha messo in rilievo un’altra divisione: quella tra i ricchi cosmopoliti che vivono a Londra e nelle altre città più prospere, che hanno votato per l’Europa, mentre gli operai e i contadini che vivono nell’Inghilterra minore e si sentono schiacciati

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ed emarginati hanno votato per l’uscita dall’Unione. È la conferma di una divisione che sta crescendo. Come, del resto, dimostra ogni prova elettorale in tutti i Paesi europei: i centri delle città continuano a orientare il loro voto verso i partiti tradizionali, mentre le periferie non si sentono protette né dai governi nazionali né da quelli europei. Vi è quindi un messaggio chiaro e netto per Bruxelles: bisogna che le istituzioni europee si sveglino e riprendano la costruzione di quell’Unione forte e solidale di cui tutti abbiamo bisogno. È parimenti necessario che il Paese oggi leader (cioè la Germania) si renda conto che la leadership si può esercitare con efficacia solo se ci si fa carico degli interessi di tutti. Nei prossimi giorni Renzi, Hollande e Merkel si incontreranno a Berlino: è questo il momento di cominciare a costruire il futuro con proposte forti e concrete da sottoporre al successivo Consiglio Europeo. Quello che era impossibile fino a ieri diventa obbligatorio lunedì prossimo. La Brexit non è perciò la fine dell’Europa (perché dell’Europa oggi non possiamo fare a meno) ma è uno schiaffo alle inerzie dell’Europa. Bisogna cominciare a prendere atto di quello che è avvenuto e dare subito inizio ai negoziati per regolare le conseguenze del divorzio con la Gran Bretagna, decidendo se essa continuerà ad avere accesso al mercato unico come la Norvegia o se la scelta si orienterà verso accordi bilaterali come la Svizzera o se, come ritengo poco probabile, si sceglierà la separazione commerciale più radicale che era nel taccuino di Boris Johnson. La via norvegese è certamente quella che porta meno turbamenti al mercato ma costa assai cara all’erario britannico, mentre la strada Svizzera è più complessa ma meno costosa. In entrambi i casi bisogna provvedere con accordi minori riguardo alla libera circolazione delle persone. Non è certo difficile imitare le scelte di due Paesi che hanno rapporti commerciali estremamente aperti e intensi con l’Unione Europea. Non vedo quindi prospettive di grandi rotture nel campo commerciale che, se vogliamo essere sinceri, ha sempre costituito la ragione di fondo, se non l’unica ragione, dell’adesione degli inglesi all’Unione Europea dato che, negli altri campi, la strategia dei loro governi è stata sempre quella di accumulare eccezioni su eccezioni. Penso invece che la Gran Bretagna sarà la più danneggiata da questa decisione. La City rimarrà ancora la City, perché è una concentrazione di specialisti che trova risorse paragonabili solo a New York, ma ci sarà un progressivo aumento della concorrenza da parte di alcune piazze europee e, soprattutto, molte imprese multinazionali saranno spinte a trasferire i loro centri decisionali all’interno dell’Unione Europea. E così avverrà per numerosi centri di ricerca che sono nati in seguito a progetti comunitari, mentre saranno meno numerosi coloro che investiranno nel mercato immobiliare londinese. È chiaro che queste evoluzioni provocheranno un rallentamento dell’economia britannica e, di conseguenza, eserciteranno un effetto negativo anche nei nostri confronti. Si tratta però di un effetto negativo di minore rilevanza rispetto alle previsioni che, prevalentemente a scopo di propaganda, sono state diffuse negli scorsi giorni. La vera grande ferita è nei confronti dell’immagine dell’Europa nel mondo, non solo perché perdiamo il Paese con l’esercito più efficiente e con solide tradizioni democratiche, ma anche perché tanti popoli del pianeta guardano all’Europa attraverso gli occhi della Gran Bretagna. Rimane tuttavia inspiegabile l’errore di Cameron di avere indetto il referendum senza pensarne le conseguenze ma solo perché sicuro di vincerlo e di rafforzare quindi il proprio potere. La sola bella notizia di questa triste giornata è che Cameron ha preso coscienza del suo errore e se ne ritorna a casa. Qualche volta gli errori si pagano subito. Per il futuro la maggiore speranza ci viene dal fatto che i giovani britannici hanno votato per rimanere in Europa. Pag 1 Rischio contagio che può colpire anche Renzi di Bruno Vespa Matteo Salvini, l’unico leader italiano favorevole alla Brexit, ha annunciato la raccolta di firme per una legge d’iniziativa popolare in vista di un referendum che ci faccia uscire dall’Unione europea. Dovrebbe trattarsi di una legge costituzionale perché la Carta, anche dopo la riforma, non prevede pronunce popolari sui trattati internazionali. Ma una decisione fino a ieri impensabile (e tuttora del tutto irrazionale) si fa strada al galoppo presso un’opinione pubblica che fino a poco fa restava tra le più europeiste. Un sondaggio trasmesso ieri sera da "Porta a porta" rivela che 43 italiani su 100 sarebbero favorevoli all’Itexit contro il 45 per cento di contrari (il resto non ha un’opinione). Sei mesi fa solo un italiano su tre la pensava allo stesso modo. Gli elettori del Pd sono quasi

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tutti contrari all’uscita, mentre è favorevole la quasi totalità degli elettori della Lega e la enorme maggioranza di simpatizzanti per il Movimento 5 Stelle e Forza Italia. La stessa distribuzione di elettori si registra quando si chiede l’opinione sull’eventuale abbandono dell’euro. Il 44 del campione è per l’uscita, solo il 50 per mantenerlo. Guai se la politica si facesse sulla base degli umori di un momento, ma alcuni segnali vanno colti subito per evitare che anche da noi crolli il castello di ideali e di interessi sui quali abbiamo fondato la nostra antica convinzione europeista. Le doverose affermazioni di principio di Matteo Renzi («L’Unione in difficoltà dà il meglio di sè») richiedono un drastico mutamento di strada che il presidente del Consiglio potrebbe concordare oggi a Parigi nell’incontro con Hollande, altro leader pericolante. Renzi deve chiedersi perché nella giornata del panico la Borsa di Londra ha perso il 2 per cento e quella di Milano il 12,5. Una persona normale si sarebbe aspettato il contrario. Evidentemente noi che stiamo ben saldi dentro l’Europa siamo meno solidi di quelli che ne sono usciti. Lunedì Renzi e Hollande incontreranno Angela Merkel. Sarà quello l’incontro decisivo. La nazione davvero sconfitta dal referendum inglese non è il Regno Unito, ma la Germania. La sua politica, la sua miopia, l’incapacità di una Europa a trazione tedesca di capire fino in fondo i problemi dei più deboli e l’incapacità di accendere i motori dello sviluppo. Il referendum ha dimostrato che Londra non è l’Inghilterra, come il successo di Trump sta dimostrando che New York non è l’America. C’è in tutti gli stati una fascia di cittadini insicuri che prevale largamente sulle fasce che si sentono in qualche modo protette. E quando decidono di colpire non vanno per il sottile. Se prima del referendum italiano Renzi non sarà riuscito a raddrizzare il percorso europeo con visibili ricadute positive anche sull’Italia rischia di perderlo per ragioni che non hanno nulla a che fare con una riforma costituzionale bella o brutta. LA NUOVA di sabato 25 giugno 2016 Pag 1 La tempesta annunciata e il contagio di Bruno Manfellotto L’onda di piena si è già abbattuta sui mercati finanziari, ma non si fermerà presto. La tempesta politica seguita al “leave” britannico è scoppiata invece prima ancora del responso finale e presto trascinerà l’intera Europa in un’incertezza che durerà almeno due anni, quanti ne prevedono i trattati per condurre a termine l’effettiva separazione della Gran Bretagna dall’Ue. Ma il sentimento che ha alimentato il no e che cova sotto la cenere anche lontano da Londra, lo ha riassunto bene Nigel Farage, leader del movimento populista e antieuro Ukip e grande regista della campagna per la Brexit: «È una vittoria della gente vera, della gente ordinaria, della gente perbene. Abbiamo lottato contro le multinazionali, le grandi banche, le bugie, i grandi partiti, la corruzione e l’inganno». Capito? Secondo Farage, i cittadini si sarebbero vendicati di un’Europa matrigna, covo di privilegi, simbolo politico e burocratico dell’establishment contro il quale si scaglia la rabbia di popolazioni afflitte da una crisi lunga quasi un decennio che l’Europa non è riuscita a impedire né a frenare. Un lamento al quale il voto di Londra potrebbe dare nuovi elementi, se non altro la conferma che è possibile uscire dal club. E infatti già si agitano Marine Le Pen e Matteo Salvini, convinti che adesso tocchi a loro portare Francia e Italia a una sorta di referendum abrogativo dell’Europa. Senza contare che su quest’onda si andrà presto a votare in Spagna, dove il movimento di sinistra Podemos, poco europeista e ostile a politiche di rigore, si batte per conquistare la guida del governo, e anche in Germania, Olanda e Francia, appunto, dove si vanno sempre più imponendo forze dichiaratamente antieuropee. Tempi duri, che la stessa Europa ha contribuito a far nascere sottovalutando rischi e conseguenze della grande crisi, fingendo di non ascoltare le proteste che salivano dalle piazze, nella convinzione che anche stavolta avrebbe superato la prova. Come forse pensa di digerire anche Brexit. Non è la prima volta che l’Europa subisce uno scossone che ne mette a repentaglio l’unità. L’istituzione, è vero, ricompose per ben due volte la frattura provocata dalla Francia di De Gaulle prima negli anni Cinquanta e poi nei Sessanta, e quasi sempre i problemi erano riconducibili all’idea che il generale aveva dell'Europa, che voleva poco integrata e nella quale spiccasse l’indipendenza delle singole nazioni; alla politica militare e di difesa che la Francia non aveva alcuna intenzione di condividere con altri; e ai rapporti con gli Usa dinanzi ai quali il capo dello Stato francese rivendicava il massimo dell’autonomia. Anche Margaret Thatcher ce l’aveva con l’Europa, ma per via della burocrazia e del

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denaro che succhiava dalle casse inglesi: si placò quando le furono ridotti i contributi. Ma certo gli anni più difficili, ancora più della stagione dell’euro e della riunificazione tedesca degli anni Novanta, hanno coinciso con la crisi economica, il rigore estremo, la recessione e la deflazione che hanno gelato le economie del Vecchio Continente e spinto sull’orlo del baratro i soci più deboli del club. Rendendo ancora più difficile la gestione della drammatica ondata migratoria. Eppure, nonostante le lezioni del passato, l’Europa ha fatto ben poco per risalire la china, cercare un’unità di intenti, proporre un progetto all’altezza di quello immaginato da Spinelli e Rossi e realizzato da De Gasperi e Schumann. L’unione monetaria non ha portato con sé una comune politica di bilancio; la vigilanza bancaria latita; un mercato davvero comune non c’è e nemmeno una comune politica industriale (investimenti, energia, innovazione) per non dire di un ministro dell’economia o della difesa che parli a nome dell’intera Europa di cui si ciancia da anni, ma che nessuno davvero vuole. Gli egoismi nazionali hanno prevalso sempre e su tutto, prova regina ne sia la completa latitanza sulle politiche per contenere e gestire l’immigrazione, anzi ogni paese innalza il suo muro di cemento o di filo spinato. E poi ci meravigliamo e scandalizziamo se gli egoismi foraggiano nuovi movimenti politici? Cronaca di una Brexit annunciata. Pag 1 La rivalsa inglese su Bruxelles di Stefano Del Re Gli inglesi hanno scelto. Al posto della Gran Bretagna ora hanno una Little England. Si sono rinchiusi. Al riparo, come vogliono le canzoni dei marinai, delle acque della Manica e delle sue brume. Hanno scelto gli inglesi. Sono loro la popolazione dominante del Regno: 55 milioni, l’84 per cento del totale, mentre gli scozzesi sono meno del 10 per cento, tre milioni i gallesi e poco meno di due i nord irlandesi. È degli inglesi la mancanza di legami emotivi con l’Europa, mentre sono filo europei tutti gli altri. È dell’Inghilterra profonda, rispetto alla cosmopolita Londra il senso di rivalsa rispetto a chi arriva da fuori. È inglese l’euroscetticismo che cannoneggia da 40 anni i governi dal momento dell’adesione al Mercato comune del 1973. Ed è neonazionalismo inglese quello che ha sostituito il patriottismo britannico, offeso dai vantaggi ottenuti dai nuovi parlamenti scozzesi e gallesi e gonfiato le vele dell’Ukip di Nigel Farage. Il rifiuto dell’Europa viene da lontano. L’entrata inglese nell’Unione Europea è fondata sull’umiliazione subita a Suez 60 anni fa ad opera degli Stati Uniti, sulla fine del ruolo di Grande Potenza. Allora nacque la consapevolezza - evidenziata dal rapporto segreto Macmillan del 1960 - di dover partecipare alla nuova Europa nascente del Trattato di Roma per non rimanere tagliati fuori dai vantaggi economici che ne derivavano. La sua uscita oggi riposa sull’impossibile rivincita su quel sentimento che brucia ancora. Il mito vittoriano dell’inevitabilità dell’impero britannico, l’eccezionalismo inglese sono la tela di fondo vellicata dalla campagna del “fuori” E ora? Il presidente del Parlamento europeo il tedesco Martin Schultz manda a dire che a questo punto è meglio per tutti accelerare la separazione. Ma i “brexiteers” ora dicono di non aver fretta. E si capisce. A parte le questioni legali e amministrative, restano in sospeso alcuni nodi decisivi. Intanto il referendum dovrà essere approvato dal Parlamento, una formalità si potrebbe pensare, dopo una simile prova elettorale, ma il fatto è che il voto non è legalmente vincolante se non è avallato dal Parlamento. Molti prevedono che dopo la notifica ufficiale a Bruxelles, saranno necessari due anni. Anni durante i quali la Gran Bretagna può continuare a godere dei benefici fiscali e monetari e prendere parte alle decisioni collettive. Intanto i nazionalisti scozzesi e gallesi si apprestano a chiedere un loro referendum per la secessione e restare nell’Europa, mentre l’Irlanda del Nord si pone la questione dell’unica frontiera di terra lunga 300 chilometri tra regno Unito e l’Europa, in questo caso la Repubblica d'Irlanda. L’apertura di quel varco costituisce parte integrante degli accordi di pace. Londra intanto, come chiarito dalla Commissione, non potrà più avere accesso privilegiato al mercato unico europeo, un’amara sorpresa per chi ha votato “fuori” basandosi sulle promesse del campo del leave che ciò sarebbe accaduto automaticamente. Infine si dovrà risolvere una assai cavillosa grana costituzionale. Chi decide? La maggior parte dei deputati britannici sono pro Europa, Possono essere obbligati a votare una legge per l’exit? E se cade il governo e ne arrivasse uno pro Europa? Chi avrebbe l’ultima parola, il popolo che si è espresso chiaramente via referendum oppure il Parlamento che è sovrano e le cui decisioni per legge non possono

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essere revocate? In un Paese senza una costituzione scritta, nessuno conosce la risposta. Nella terra delle scommesse, i cinici bookmaker già giocano a un nuovo gioco: prevedono che Londra passerà cinque anni a cercar di uscire dall’Europa. E altri cinque a cercare di rientrarci. Pag 1 Ripartire dalla Bce e dall’euro di Gigi Riva Si può piangere, certo, molti lo hanno fatto. O si può prendere la Brexit per un’occasione straordinaria (letteralmente: fuori dall’ordinario) di chiarezza. E fare la conta: chi ci sta? Di certo, stando alle prime analisi dei flussi, i giovani della generazione Erasmus, cioé il futuro, massicciamente per il remain. Per loro, a Londra come altrove, l’Europa è scontata, una seconda pelle. Non gli anziani delle rendite di posizione e delle paure, loro no, loro leave. Hanno maturato, con l’età, un odio per le élite che gli hanno rubato quel che resta del futuro. E lo hanno scaricato nelle urne. In un Continente invecchiato, pesano di più. Le élite avrebbero dovuto capire per tempo che con l’approccio timido, impacciato, avrebbero messo pezze a colori sul disegno europeo, non costruito una casa solida. Cominciò tutto, se si vuole, con la solita Inghilterra che voleva, ed era il 1984, ben 32 anni fa, “our money back”, i nostri soldi indietro, voce e tono di Margaret Thatcher. Fu accontentata, purché restasse, aprendo la scia a frotte di imitatori. Poi gli inglesi hanno progressivamente alzato la posta, sino all’irritazione, sino a pensare che non si trattengono per forza, obtorto collo, i riottosi. Hanno continuato quelli che dell’ “eccezione” fanno un segno distintivo, i francesi, bocciando nel 2005 la Carta Costituzionale e costringendo a un compromesso al ribasso, annacquato e inutile. E sia salvaguardata la sovranità. Egoismo dopo egoismo, cosa è restato a Bruxelles? La burocrazia. Le decisioni, ad esempio, su quanto devono misurare i cetrioli, l’insopportabile sensazione di un’ingerenza invasiva sul superfluo ma senza un disegno, una visione sui grandi progetti. Con la ciliegina finale della scelta, alla presidenza della Commissione europea, di quel Jean-Claude Juncker che, da premier del Lussemburgo, aveva favorito evasioni ed elusioni fiscali nel suo paradiso interno, a discapito dei Paesi che ora dovrebbe guidare. Avendo tra l’altro promesso un piano di investimenti insufficiente e di cui non si vedono i benefici. E il tutto quando ad ogni latitudine si reclama più equità, meno disuguaglianze, meno regali ai ricchi, sport in cui Juncker è stato campione. Nella disabitudine a scegliere, nelle democrazie tradite, serpeggiava l’idea che se il risultato fosse stato in bilico, piccoli brogli avrebbero spinto il “no” all’uscita come finanza e partiti tradizionali volevano. Meglio non siano stati usati trucchi, meglio una palingenesi sulle macerie piuttosto dell’ennesima crepa in un logoro condominio. E meglio ripartire dalla domanda iniziale: chi ci sta? Però stavolta senza deroghe, favori o distinguo. Un’Europa più piccola ma più coesa e convinta, con leader finalmente coraggiosi perché dovrebbero aver inteso che non hanno più nulla da perdere, può competere nel mare largo, cercare di indirizzare la globalizzazione infelice e pure messa in crisi, ma non sconfitta, dal voto di Londra. Può ripartire questa Europa, ed è un paradosso, da quella che sembrava una sua debolezza: la moneta. L’euro da anni sotto attacco però difeso strenuamente dalle uniche istituzioni comuni che hanno dimostrato di funzionare come la Bce. Uniche perché le sole pensate con un potere sovrannazionale. Non è molto, è qualcosa di tangibile però. Maneggiamo, ogni giorno, il frutto di un sogno dei padri fondatori che certo non si limitava al semplice denaro. Dovremmo chiederci quale rifugio possa mai essere, oggi, una eventuale piccola patria davanti alle sfide del terrorismo globale, di ondate migratorie impossibili da fermare e, di conseguenza, impossibili da assorbire se non diluite in un territorio più vasto e solidale. E come potrebbe mai reggere un’economia autarchica al cospetto di colossi che, se hanno rallentato, non si sono però fermati. I giovani sanno che fare. In un’inversione di senso spettacolare sono loro i saggi e vedono il futuro di un Continente che i vecchi vorrebbero riportare al passato. Torna al sommario