Rassegna stampa 14 ottobre 2015 - WebDiocesi · azioni che consentano di salvare i profughi,...

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 14 ottobre 2015 SOMMARIO “La paura non è una colpa”, scrive Aldo Cazzullo sulla prima pagina del Corriere di oggi a proposito del rapporto tra gli italiani e i migranti: “La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause. Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro. I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia. Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione. Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro. Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco. C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina

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RASSEGNA STAMPA di mercoledì 14 ottobre 2015

SOMMARIO

“La paura non è una colpa”, scrive Aldo Cazzullo sulla prima pagina del Corriere di oggi a proposito del rapporto tra gli italiani e i migranti: “La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la

Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause. Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché

vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro. I

migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il

tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia. Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella

discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione. Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni

nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a

combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro. Certo, alle società

esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare

con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche

sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe

accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da

memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici

della sua storia, trasformato in bivacco. C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai

venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina

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dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed

eliminarne le ragioni” (a.p.)

3 – VITA DELLA CHIESA WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT La lettera dei tredici cardinali al papa. Seconda puntata della storia di Sandro Magister Sicuro il testo e sicuri i nomi dei firmatari, salvo approssimazioni marginali. Certissima, soprattutto, la posta in gioco: il controllo delle procedure, decisive per l'esito del sinodo WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La lettera dei tredici: punti fermi e smentite sul «giallo» del Sinodo di Andrea Tornielli Qual è il testo autentico? Perché è stata fatta filtrare a una settimana di distanza? Perché l'hanno firmata degli stretti collaboratori del Papa nella Curia romana? Domande e (poche) risposte sul caso che ha confermato l'esistenza di un «Sinodo mediatico» pilotato AVVENIRE Pag 2 Sposarsi da cattolici: una questione pastorale di Giorgio Campanini A proposito del “Motu proprio” sulle nullità di Papa Francesco Pag 9 Accogliere i migranti, un segno di carità Il vademecum messo a punto dalla Cei Pag 18 Lettera pubblicata, atto di disturbo di Gianni Cardinale Lombardi: chi lo ha fatto vuole condizionare i lavori del Sinodo Pag 24 Rivalutare la tenerezza. Anche Dio dà le carezze di Enzo Bianchi CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Ricreare il clima di Vatileaks, il piano dei nemici del Papa di Massimo Franco Dentro il Sinodo, il retroscena Pag 23 Il Vaticano: un atto di disturbo diffondere la lettera di Gian Guido Vecchi Padre Lombardi: “Non era questa l’intenzione dei firmatari”. E spunta la “devolution” dottrinale LA REPUBBLICA Pag 34 Tutti i nemici del Papa di Paolo Rodari Pag 35 La misericordia di Bergoglio crea scandalo nella Chiesa di Enzo Bianchi IL FOGLIO Pag 1 Il Sinodo e lo scontro secolare sulla famiglia che gli agiografi quotidiani del Papa della misericordia fingono di non vedere di Giuliano Ferrara Pag I “Sì, sono un fondamentalista” di Matteo Matzuzzi “Sono aperto al mondo, ma insisto sulle cose fondamentali. Come l’eucaristia”. Parla il card. Raymond Burke: “La Chiesa deve essere chiara sulla sua identità” LIBERO Intrighi per screditare i cardinali anti Papa di Antonio Socci

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ITALIA OGGI Anche il Papa di fronte a un bivio di Gianfranco Morra IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Messa per i 100 anni di monsignor Capovilla: “Ricordo quando portavo gli articoli al Gazzettino” di r.br. LA NUOVA Pag 1 Divorziati, il contrasto nel Sinodo di Ferdinando Camon Pag 36 Un messaggio d’amore nei cento anni di Loris Capovilla di Francesco Dal Mas “Gioia e forza”, il messaggio del Patriarca 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Il dovere di agire ora di Francesco Soddu Contro la miseria e l’esclusione CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Generazione di fantasmi di Vittorio Filippi Giovani, il fenomeno Neet IL GAZZETTINO Pag 1 Una scelta che non è nemica del fisco di Oscar Giannino 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Belli: «Venezia mostra la metà dei suoi tesori» di Paolo Navarro Dina La direttrice dei Musei civici alle prese con la vendita dei quadri pensata dal sindaco e con l’incognita di un nuovo presidente CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Grandi navi, restauri, manutenzioni. Ultimatum all’Unesco: servono fondi di Gloria Bertasi Incontro con gli esperti: “Governo assente”. Il sindaco: ma fate qualcosa per Venezia? LA NUOVA Pag 19 Brugnaro all’Unesco: “Dateci risorse” di Alberto Vitucci Faccia a faccia in municipio tra il sindaco e la delegazione venuta a decidere se Venezia rispetta le direttive di salvaguardia Pag 22 “Caso migranti? Ogni Comune dovrebbe ospitarne poche decine” di Vera Mantengoli Landini (Fiom): accoglienza, solidarietà e diritti per tutti. L’esperienza dell’Home Restaurant alla Cita 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 12 Veneto, scuole di arabo crescono di Alberto Terasso Sarebbero ormai un centinaio: si studia la lingua e il Corano … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ma la paura non è una colpa di Aldo Cazzullo

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Gli italiani e i migranti Pag 1 Una vittoria con paracadute di Francesco Verderami Sì al nuovo Senato Pag 1 Il verdetto del buon senso: non doveva arrivare fin lì di Giangiacomo Schiavi Lombardia, tangenti sulla Sanità, agli arresti il vicegovernatore Pag 8 “Giù le mani dalla Carta”. Le accuse a parti invertite, tra proteste rituali e sbadigli di Gian Antonio Stella LA REPUBBLICA Pag 1 Le due facce dell’Italia di Stefano Folli Pag 1 Perché fa paura l’uguaglianza di Concita De Gregorio LA STAMPA Una legge che deve migliorare di Ugo De Siervo Guai a pensare che il malaffare è inevitabile di Michele Brambilla AVVENIRE Pag 3 La linfa nuova dell’integrazione di Paolo Lambruschi “Ius soli” e vademecum per l’accoglienza Pag 3 Bangladesh, l’islam radicale minaccia la scelta moderata di Gerolamo Fazzini L’omicidio del nostro cooperante e l’impegno della Chiesa Pag 5 Cristiani scacciati dalle terre di origine di Paolo M. Alfieri Rapporto di Acs: “In 10 anni si rischia la loro scomparsa dal Medio Oriente” IL GAZZETTINO Pag 19 Il rischio per l’Europa: Unione di libri contabili e non un “buon luogo” di Antonello Croce LA NUOVA Pag 1 “Ius soli”, compromesso su un diritto di Andrea Sarubbi

Torna al sommario 3 – VITA DELLA CHIESA WWW.CHIESA.ESPRESSONLINE.IT La lettera dei tredici cardinali al papa. Seconda puntata della storia di Sandro Magister Sicuro il testo e sicuri i nomi dei firmatari, salvo approssimazioni marginali. Certissima, soprattutto, la posta in gioco: il controllo delle procedure, decisive per l'esito del sinodo Due giorni fa, il servizio messo in rete di prima mattina da www.chiesa è scoppiato come una bomba dentro e fuori il recinto del sinodo sulla famiglia. Nelle ore successive, quattro dei tredici cardinali indicati nel servizio come firmatari della lettera hanno negato d'averla sottoscritta. Nell'ordine: i cardinali Angelo Scola, André Vingt-Trois, Mauro Piacenza e Péter Erdõ. Ma nel pomeriggio due cardinali di primo piano, entrambi presenti nell'elenco di www.chiesa, hanno detto di aver effettivamente firmato una lettera a papa Francesco. Il primo è stato il cardinale australiano George Pell, prefetto in Vaticano della

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segretaria per l'economia, indicato come colui che avrebbe personalmente consegnato la lettera al papa. E l'ha fatto con un comunicato sul "National Catholic Register". Nel comunicato, Pell dice che "sembra vi siano errori sia nel contenuto [della lettera] che nell'elenco dei firmatari". Ma torna a insistere su due delle "preoccupazioni" affidate all'attenzione del papa nella lettera pubblicata da www.chiesa. La prima a proposito di coloro – una "minoranza" – che nel sinodo "vogliono cambiare gli insegnamenti della Chiesa sulle dovute disposizioni necessarie per la ricezione della comunione", quando invece "non esiste una possibilità di cambiamento della dottrina". La seconda riguardo "la composizione del comitato di redazione della 'Relatio finalis' e la procedura con la quale sarà presentata ai padri sinodali e votata". Anche nel suo intervento in aula nel tardo pomeriggio di lunedì 5 ottobre Pell aveva dato voce a queste e alle altre "preoccupazioni" esplicitate nella lettera, in particolare circa l'"Instrumentum laboris" posto a base della discussione e la natura della "Relatio finalis". E l'indomani mattina, martedì 6 ottobre, sia Francesco sia il cardinale Lorenzo Baldisseri, segretario generale del sinodo, erano intervenuti alla riapertura dei lavori in aula proprio per replicare punto per punto – in sostanza negativamente – sulle questioni che la lettera aveva sollevato. Dopo Pell, nel pomeriggio di lunedì 12 ottobre, l'altro cardinale intervenuto a confermare d'aver firmato una lettera al papa è stato l'arcivescovo di Durban, Sudafrica, Wilfrid Fox Napier, uno dei quattro presidenti delegati del sinodo, in un'intervista a John Allen, Michael O'Loughlin e Inés San Martín su "Crux", il portale d'informazione sulla Chiesa del "Boston Globe". Napier ha detto che la lettera da lui firmata era "differente" da quella pubblicata e riguardava specificamente la commissione di dieci membri nominata dal papa per l'elaborazione della relazione finale. Ma nel resto dell'intervista ha fatto sue con impressionante franchezza proprio tutte quelle "preoccupazioni" di tanti padri sinodali di cui la lettera apparsa su www.chiesa era portatrice. Napier è convinto che alcune delle critiche hanno fondamento. Tra l'altro, egli contesta la composizione del comitato di dieci membri per la redazione della relazione finale. “Io sarei proprio d’accordo" con le preoccupazioni circa “la scelta delle persone che scriveranno il documento finale”, ha detto Napier, aggiungendo che egli in realtà NON contesta “il diritto di papa Francesco di scegliere in questo”. “Per avere un’espressione equa degli interessi del sinodo, [come per esempio] di ciò che la Chiesa in Africa davvero vorrebbe veder accadere", ha detto, allora dovrebbero essere scelte persone diverse. “Noi non vorremmo rivedere in quel comitato lo stesso tipo di persone che erano già lì la volta precedente e che ci hanno causato il dolore che abbiamo avuto”, ha detto, riferendosi alla controversa relazione intermedia del sinodo del 2014, che sembrava abbracciare una linea progressista su alcune questioni dibattute. Napier ha anche detto di essere preoccupato che il documento preparatorio del sinodo, conosciuto come “Instrumentum laboris”, abbia troppa influenza sul risultato finale, invece che il contenuto effettivo dei lavori del sinodo. “È come se il testo base resti l''Instrumentum laboris', non quello che viene fuori delle discussioni del gruppo, cioè le preoccupazioni che devono essere portate in primo piano come proposte per il documento finale da consegnare al papa”, ha detto. Napier ha detto che la valanga di richieste da parte dei media sulle procedure sinodali riflette le preoccupazioni reali all'interno dell’aula. “L'incertezza è abbastanza generalizzata, altrimenti tutti voi non porreste le stesse domande”, ha detto. Napier ha detto che neanche i partecipanti al sinodo capiscono bene come il documento finale del sinodo sarà plasmato, né ciò che Francesco intende fare con esso, un’incertezza che rende legittime le preoccupazioni circa il risultato. “Questo tipo di incertezza mi preoccupa: in che direzione vanno veramente i lavori se non si sa qual è l’obiettivo?”, ha detto. Alla domanda se lui teme che il risultato finale sia già stato determinato, Napier ha risposto solo che “a questo punto è difficile dirlo". La sera di lunedì 12 ottobre le cose stavano dunque a questo punto. Ma quando a Roma era quasi mezzanotte, a New York è esploso un secondo clamoroso "scoop", questa volta sul prestigioso settimanale dei gesuiti della Grande Mela, "America", voce nobile del cattolicesimo progressista americano in campo teologico, culturale e politico. L'autore del servizio è Gerard O'Connell, il vaticanista e corrispondente da Roma della testata, irlandese, professionista di riconosciuta autorevolezza nonché marito della giornalista argentina Elisabetta Piqué, amica e biografa autorizzata di Jorge Mario Bergoglio. Con tranquilla sicurezza, dopo "aver appreso da fonti informate", i gesuiti di New York confermano fin nel titolo che la lettera consegnata al papa il giorno d'apertura dei lavori sinodali era effettivamente sottoscritta

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da tredici cardinali, tutti padri sinodali, due dei quali degli Stati Uniti, gli arcivescovi di New York e di Houston. E nel corpo dell'articolo forniscono l'elenco completo dei tredici cardinali, che rispetto a quello pubblicato due giorni prima da www.chiesa ha quattro nomi nuovi, al posto dei quattro che avevano smentito d'aver firmato. I quattro nomi nuovi sono dello statunitense Daniel N. Di Nardo, del keniano John Njue, del messicano Norberto Rivera Carrera e dell'italiano Elio Sgreccia. Il giorno dopo uno di questi, Rivera Carrera, dichiarerà però anche lui di non aver firmato la lettera. Altrettanto farà Sgreccia. E di conseguenza la lista provvisoria dei firmatari è ora la seguente, a parziale correzione di quella data inizialmente da www.chiesa. In ordine alfabetico: - Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna, Italia, teologo, già primo presidente del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per studi su matrimonio e famiglia; - Thomas C. Collins, arcivescovo di Toronto, Canada; - Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston-Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti; - Timothy M. Dolan, arcivescovo di New York, Stati Uniti; - Willem J. Eijk, arcivescovo di Utrecht, Olanda; - Gerhard L. Müller, già vescovo di Ratisbona, Germania, dal 2012 prefetto della congregazione per la dottrina della fede; - Wilfrid Fox Napier, arcivescovo di Durban, Sudafrica, presidente delegato del sinodo in corso come già della precedente sessione dell'ottobre 2014; - John Njue, arcivescovo di Nairobi, Kenya; - George Pell, arcivescovo emerito di Sydney, Australia, dal 2014 prefetto in Vaticano della segreteria per l'economia; - Robert Sarah, già arcivescovo di Konakry, Guinea, dal 2014 prefetto della congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti; - Jorge L. Urosa Savino, arcivescovo di Caracas, Venezuela. Quanto al contenuto della lettera, "America" ne riporta numerose citazioni. E tutte corrispondono perfettamente al testo pubblicato da www.chiesa. Il quale testo è stato dato per "autentico" – poche ore dopo lo "scoop" di "America" – anche dal quotidiano di Buenos Aires "La Nación", con la firma di Elisabetta Piqué, secondo quanto "saputo da buone fonti del Vaticano". Il che non vieta che la lettera effettivamente consegnata al papa possa includere qualche minima variante. Di forma, non di sostanza. Perché la sostanza resta quella che il comunicato del cardinale Pell e più ancora l'intervista del cardinale Napier hanno confermato: una diffusa e crescente inquietudine tra molti padri sinodali per l'insistenza nell'imporre loro come base di discussione un documento, l'"Instrumentum laboris", che ogni giorno di più si rivela inadeguato, e il timore che esso invada con le proprie ambiguità anche la "Relatio finalis", la cui stesura è nelle mani di una commissione tutta nominata dall'alto, con la prevalenza schiacciante dei novatori. Al posto di una "Relatio finalis" lunga, discorsiva e ancora condizionata dall'"Instrumentum laboris", insidiosa e complicata nel momento di passare ai voti, col rischio di doverla approvare o respingere in blocco, molti padri sinodali preferirebbero infatti che alla fine si voti punto per punto su sintetiche e chiare "propositiones", nelle quali semplicemente far confluire i risultati della discussione in corso, come si è fatto in tanti sinodi del passato e in certa misura anche nel sinodo del 2014. Questa inquietudine ha covato sotto la cenere, durante tutta la prima settimana del sinodo, compressa da chi detiene il controllo sulle procedure, in primis papa Francesco e i due segretari generale e speciale. Ma proprio l'uscita alla luce del sole della lettera dei tredici cardinali – con il conseguente esplodere della discussione – ha di fatto restituito ai padri sinodali una più concreta possibilità di governare in prima persona i processi e gli approdi di questo decisivo summit della Chiesa mondiale. Nella conferenza stampa di martedì 13 ottobre, il direttore della sala stampa vaticana Federico Lombardi ha letto una dichiarazione a proposito della lettera dei tredici cardinali, in pratica prendendone atto: "Chi ha dato a distanza di giorni questo testo e questa lista di firme da pubblicare ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai firmatari. Occorre perciò non lasciarsene condizionare… Che si possano fare osservazioni sulla metodologia del sinodo, che è nuova, non stupisce, ma una volta stabilita, c'è l'impegno di tutti ad applicarla nel migliore dei modi. Alcuni dei 'firmatari' sono anche moderatori eletti dei circoli minori e vi lavorano intensamente, e il clima generale è positivo". La lettera dei tredici cardinali ha dato spunto ai fautori più agguerriti di un cambio di paradigma nella dottrina e nella pastorale del matrimonio di

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esercitarsi con polemiche sfrenate direttamente contro chi l'ha scritta e firmata. Un esempio eclatante di invettiva contro i padri sinodali "avversari di papa Francesco" è il commento di Massimo Faggioli, professore di storia del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis e membro di spicco della cosiddetta "scuola di Bologna", apparso il 13 ottobre sull'edizione italiana di Huffington Post. WWW.VATICANINSIDER.LASTAMPA.IT La lettera dei tredici: punti fermi e smentite sul «giallo» del Sinodo di Andrea Tornielli Qual è il testo autentico? Perché è stata fatta filtrare a una settimana di distanza? Perché l'hanno firmata degli stretti collaboratori del Papa nella Curia romana? Domande e (poche) risposte sul caso che ha confermato l'esistenza di un «Sinodo mediatico» pilotato I tredici cardinali firmatari della lettera consegnata al Papa dal cardinale George Pell alla fine della mattinata di lunedì 5 ottobre avevano manifestato le loro preoccupazioni per la composizione della commissione incaricata di redigere la relazione finale del Sinodo e avevano avanzato il sospetto che i relatori dei «circuli minores» sarebbero stati nominati dall'alto anziché dall'assemblea. Pell ha definito ieri la missiva, il cui presunto testo - smentito però dai firmatari che non vi si riconoscono - è stato divulgato dal vaticanista de «L'Espresso» Sandro Magister, come una «richiesta di chiarimenti». Ma la risposta di Papa Francesco, martedì 6 ottobre, all'inizio della mattinata, con l'invito a lasciar perdere l'«ermeneutica cospirativa», ha reso evidente che quella «richiesta di chiarimenti» sembrava avanzare il sospetto di un Sinodo «pilotato» in senso aperturista. Esattamente lo stesso sospetto veicolato da settimane attraverso blog, siti web e pamphlet da ambienti giornalistici contigui ad alcuni dei firmatari. È stato scritto infatti che i relatori dei circoli minori sarebbero stati designati dall'alto (falso), che la commissione per il documento finale in precedenza veniva eletta (falso), che le relazioni dei «circuli minores» non sarebbero state diffuse (falso), che i padri non avrebbero potuto esprimersi con il voto sulla relazione finale (falso), che c'è mancanza di trasparenza: falso anche questo, dato che ogni padre sinodale può rilasciare interviste e pubblicare, se vuole, il suo intervento in aula, mentre in passato non sempre era così. «Io non sto vedendo questa manipolazione di cui parlano» ha detto al Tablet il cardinale Donald Wuerl, arcivescovo di Washington e membro della commissione per la relazione finale, un porporato promosso da Benedetto XVI che solo lo stordimento di certe think-tank mediatico-ecclesiastiche può dipingere come "progressista". «Ho partecipato ai Sinodi fin dal 1990 - ha continuato il cardinale statunitense - e questo è quello più aperto al quale ho partecipato. Non so come si possano manipolare tredici gruppi linguistici, tredici moderatori e tredici relatori e 250 persone che parlano». Sorge dunque un sospetto, che si aggiunge ai già tanti sospetti avanzati: «Forse - spiega a Vatican Insider un altro padre sinodale - il problema è proprio questo: un Sinodo aperto, dove ci si esprime con grande libertà. C'è chi, alzando cortine di fumo e sospetti su manipolazioni e assemblee pilotate, in realtà manifesta soltanto la nostalgia di un tempo in cui tutto era più irregimentato, anche nelle conclusioni». Com'è noto, dei tredici presunti firmatari resi noti da Magister, quattro hanno smentito di aver apposto la loro firma sulla lettera. Uno di quelli che invece ha materialmente siglato il documento («a penna» e «di persona», tiene a precisare), descrive il testo come molto più breve e sintetico rispetto a quello divulgato dal vaticanista de «L'Espresso», ma non intende dire una parola di più sul suo contenuto. Mentre per quanto riguarda i nomi in calce, è stata pubblicata una nuova lista da Gerard O'Connel su «America», così composta: Carlo Caffarra, Thomas Collins, Daniel Di Nardo, Timothy Dolan, Willem Eijk, Gerhard Müller, Wilfrid Fox Napier, John Njue, George Pell, Robert Sarah, Elio Sgreccia, Jorge Urosa Savino e Norberto Rivera Carrera. Quest'ultimo ha però ha dichiarato attraverso il suo portavoce: «Non ho firmato la presunta lettera con i contenuti che alcuni riportano». Ieri sera arriva un'ulteriore smentita, da parte del cardinale Sgreccia, che afferma di non essere tra i firmatari. Mentre il cardinale Dolan ha dichiarato a un programma radiofonico di aver firmato la lettera su richiesta dello stesso Pell. Le parole del porporato newyorkese, accompagnate da dichiarazioni di amore e fedeltà verso il Pontefice, sono importanti e confermano dunque il ruolo del collega australiano quale ispiratore della missiva a Francesco. Tra

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tutti i nomi dei firmatari citati, spiccano di più quelli dei due curiali: Pell, Prefetto della Segreteria per l'Economia, e Müller, Prefetto dell'ex Sant'Uffizio, l'antica «Suprema», cioè il dicastero dottrinale. Si tratta di due collaboratori diretti e stretti del Pontefice, due suoi «ministri», che vedono di frequente il Papa e hanno dunque molte più possibilità, rispetto agli altri padri sinodali, di esprimergli di persona i loro dubbi, le loro domande, i loro consigli. Dei due, quello più impressionato dalle polemiche mediatiche delle ultime ore è sembrato Müller: in un'intervista è arrivato a evocare lo spettro di Vatileaks, lasciando intendere che il documento sia stato in qualche modo trafugato dalla scrivania del Papa. Il porporato tedesco, creato cardinale da Francesco nel suo primo concistoro, è sembrato così voler smentire che a far filtrare la lettera - proprio all'inizio di una settimana nella quale i padri sinodali affrontano i temi più controversi - sia stato qualcuno del gruppo o vicino al gruppo che l'ha presentata. Ma la tesi del Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede appare, almeno al momento, difficile da sostenere. Proprio il fatto che sia stata diffusa una bozza sbagliata e non definitiva attesta infatti che l'ambiente da cui la lettera è stata fatta filtrare è lo stesso da cui è stata pensata e partorita. Infine, non deve sfuggire quanto ha dichiarato Pell nell'intervista con Vatican Insider a proposito della pubblicazione della lettera sul sito di Magister, giornalista verso il quale un anno fa proprio il cardinale australiano aveva espresso pubblicamente il suo apprezzamento. Alla domanda se si trattasse di un «nuovo Vatileaks» (come affermato da Müller), Pell ha dichiarato: «Direi di no… Sono abituato a vivere in Italia, la vita è piena di sorprese!». Il ministro dell'Economia vaticano arrivato dall'Australia e ispiratore della lettera, insomma conclude: è una storia soltanto italiana. AVVENIRE Pag 2 Sposarsi da cattolici: una questione pastorale di Giorgio Campanini A proposito del “Motu proprio” sulle nullità di Papa Francesco A Sinodo sulla famiglia in corso non è forse inutile tornare sul Motu proprio con il quale, poche settimane fa, papa Francesco ha fortemente innovato le procedure per l’ottenimento dell’eventuale dichiarazione di nullità dei matrimoni contratti dai cattolici ha dato luogo a una serie di commenti, quasi sempre favorevoli, che hanno interessato soprattutto i giuristi. Ma il tema presenta anche un interessante risvolto pastorale, sul quale mette conto di richiamare l’attenzione di quanti operano da molti anni, come chi scrive, nell’ambito della pastorale familiare. Non è infrequente il caso di richieste di nullità presentate a breve, e talvolta a brevissima, distanza dalla celebrazione delle nozze con il rito cattolico. Agli occhi di qualcuno la Chiesa appare una istituzione che 'fa' e insieme che 'disfa'… come è possibile, infatti, che si celebri un matrimonio in Chiesa e che poi la stessa Chiesa possa dichiararlo 'non avvenuto'? Rimettendo alla professionalità dei giuristi la valutazione dei casi concreti, sul piano pastorale si deve constatare che non poche volte dietro le dichiarazioni di nullità sta una inadeguata verifica della qualità del consenso. Vi sono matrimoni contratti per 'legittimare' una gravidanza magari indesiderata (i casi sono oggi, in clima di diffuso permissivismo, meno numerosi che in passato, ma esistono ancora) o anche per venire incontro alle richieste di un presunto 'coniuge' (non di rado straniero) in vista di una serie di benefici, a partire dall’acquisizione della cittadinanza. Quale che sia, comunque, la causa della 'nullità', ci si deve pastoralmente domandare se siano stati realmente effettuati quei cammini di fede che la Chiesa propone (e, almeno teoricamente, impone) a tutti i nubendi e se il celebrante realmente, personalmente, ha attentamente verificato la qualità del consenso (ma è nota l’usanza di celebrare i matrimoni - talora sottraendosi a un serio cammino di fede - in santuari e chiese monumentali, in talune delle quali vigono 'tempi di attesa' a volte di molti mesi…). È proprio certo che dalle 'maglie' di un percorso pastorale che la Chiesa italiana, con solenni e più volte riaffermati documenti, esige per tutti coloro che vogliano celebrare il matrimonio con il rito cattolico, fuoriesca una componente che, in un modo o nell’altro, rifugge da questo percorso, magari ricorrendo a 'parroci amici', a ben disposti religiosi, a presbiteri critici nei confronti di 'direttive calate dall’alto'? Sarebbe importante che delle dichiarazioni di nullità emanate nelle varie diocesi venisse data notizia (in tutta riservatezza) agli Uffici della pastorale familiare competenti per territorio. Si potrebbe così verificare se matrimoni spesso

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frettolosamente celebrati e altrettanto rapidamente dichiarati nulli non siano anche il frutto di silenzi e di omissioni. Non si tratta di operare censure o di comminare sanzioni, ma di aiutare tutta la comunità ad affrontare con coraggio e con lungimiranza – non con pressapochismi e frettolosità – un momento decisivo per il futuro della famiglia e della stessa Chiesa: la preparazione a un matrimonio che, per essere cristiano, deve essere prima di tutto autentico e come tale non esposto, salvo casi particolari, a successive dichiarazioni di nullità. Pag 9 Accogliere i migranti, un segno di carità Il vademecum messo a punto dalla Cei All’Angelus del 6 settembre il Papa aveva chiesto alle parrocchie europee di aprire le porte ad almeno una famiglia di profughi. Ieri la Conferenza episcopale italiana ha diramato alle diocesi una sorta di decalogo cui attenersi per raccogliere l’appello del Santo Padre. Si tratta di un testo molto dettagliato che esamina tutte le opzioni possibili, corredato da un glossario completo (il testo completo è consultabile dal sito di Avvenire). Si tratta, in buona sostanza, data la complessità giuridica della materia, di attenersi a regole precise senza improvvisare nulla. La Chiesa italiana - sottolinea il testo - è già in prima fila e accoglie un quarto dei profughi e rifugiati presenti sul territorio nazionale: sono oltre 22.000 in 1.600 parrocchie, famiglie e comunità religiose. Ora l’obiettivo pastorale che ha dato il Papa – che i profughi trovino nella Chiesa la loro patria – è allargare la rete ecclesiale e la cifra della Cei è quella di sempre, aprire opere segno che diano una risposta esemplare sul territorio e traccino un solco in cui possano inserirsi altre realtà. E si tratta di un servizio che si colloca a fianco dei tanti già esistenti a favore dei bisognosi, senza distinzioni. All’Angelus del 6 settembre scorso, il Santo Padre «di fronte alla tragedia di decine di migliaia di profughi che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita» ci invitava ad essere loro prossimi e «a dare loro una speranza concreta». Da qui, alla vigilia del Giubileo della Misericordia, l’accorato appello di Papa Francesco «alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri e ai santuari di tutta Europa ad esprimere la concretezza del Vangelo e accogliere una famiglia di profughi». L’appello del Papa ha trovato già le nostre Chiese in prima fila nel servizio, nella tutela, nell’accompagnamento dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Infatti, su circa 95.000 persone migranti - ospitate nei diversi Centri di accoglienza ordinari (Cara) e straordinari (Cas), nonché nel Sistema nazionale di protezione dei richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) - diocesi e parrocchie, famiglie e comunità religiose, accolgono in circa 1.600 strutture oltre 22.000 dei migranti. Consapevole dell’importanza di allargare la rete dell’accoglienza, quale segno di una Chiesa che - come ricorda il Concilio Vaticano II - «cammina con le persone» (G.S. n.40), la Cei ha subito accolto con gratitudine l’appello del Papa, rinnovando la disponibilità a curare le ferite di chi è in fuga con la solidarietà e l’attenzione, riscoprendo la forza liberante delle opere di misericordia corporale e spirituale. Il Sinodo dei Vescovi sulla famiglia sollecita anche a un impegno rinnovato, consapevoli che «le famiglie dei migranti (…) devono poter trovare, dappertutto, nella Chiesa la loro patria. È questo un compito connaturale alla Chiesa, essendo segno di unità nella diversità ». (Giovanni Paolo II, Familiaris consortio, n.77) Per accompagnare le diocesi e le parrocchie in questo cammino con i richiedenti asilo e rifugiati, si è pensato a una sorta di vademecum, che possa aiutare a individuare forme e modalità per ampliare la rete ecclesiale dell’accoglienza a favore delle persone richiedenti asilo e rifugiate che giungono nel nostro Paese, nel rispetto della legislazione presente e in collaborazione con le Istituzioni. Si tratta di un gesto concreto e gratuito, un servizio, segno di accoglienza che si affianca ai molti altri a favore dei poveri (disoccupati, famiglie in difficoltà, anziani soli, minori non accompagnati, diversamente abili, vittime di tratta, senza dimora…) presenti nelle nostre Chiese: un supplemento di umanità, anche per vincere la paura e i pregiudizi. Come si legge nei nostri Orientamenti pastorali decennali Educare alla vita buona del Vangelo, 'l’opera educativa deve tener conto di questa situazione e aiutare a superare paure, pregiudizi e diffidenze, promuovendo la mutua conoscenza, il dialogo e la collaborazione' (Cei, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 14).

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1. GIUBILEO: RISCOPRIRE LE OPERE DI MISERICORDIA Il Giubileo, anno della misericordia, ci regala un tempo di grazia, in cui guardare a 'quante ferite sono impresse nella carne di tanti che non hanno più voce perché il loro grido si è affievolito e spento a causa dell’indifferenza dei popoli ricchi', e riscoprire l’attualità delle opere di misericordia corporali e spirituali, così da costruire nuove strade e aprire nuove 'porte' di giustizia e di solidarietà, vincendo 'la barriera dell’indifferenza', come ci ricorda il Santo Padre (Misericordiae vultus, n. 15). 2. UN GESTO CONCRETO: L’ACCOGLIENZA DI RICHIEDENTI ASILO E RIFUGIATI Ogni anno giubilare è caratterizzato da gesti di liberazione e di carità. Nel Giubileo del 2000, Giovanni Paolo II invitò a opere di liberazione per le vittime di tratta e nacquero in loro favore molti servizi nelle diocesi e nelle comunità religiose. Così pure tutte le parrocchie italiane furono sollecitate a un gesto di carità e di condivisione per il condono del debito estero di due paesi poveri dell’Africa: la Guinea e lo Zambia. Nell’Anno Santo della misericordia, alla luce di un fenomeno straordinario di migrazioni forzate che, via mare e via terra, sta attraversando il mondo e interessando i paesi europei, il Papa chiede alle parrocchie, alle comunità religiose, ai monasteri, ai santuari il gesto concreto dell’accoglienza di 'coloro che fuggono dalla morte per la guerra e per la fame, e sono in cammino verso una speranza di vita'. Questo gesto testimonia come sia 'determinante per la Chiesa e per la credibilità del suo annuncio che essa viva e testimoni in prima persona la misericordia' (Misericordiae vultus, n. 12). 3.IL PERCORSO DI ACCOGLIENZA Prima ancora dell’accoglienza concreta è decisivo curare la preparazione della comunità, articolandola in alcune tappe. a) Informazione, finalizzata a conoscere chi è in cammino e arriva da noi, valorizzando gli strumenti di ricerca a nostra disposizione (il Rapporto immigrazione, il Rapporto sulla protezione internazionale, altri testi e documenti, schede sui Paesi di provenienza dei richiedenti asilo e rifugiati, la stessa esperienza di comunità e persone presenti in Italia e provenienti dai Paesi dei richiedenti asilo e rifugiati). b) Formazione, volta a: preparare chi accoglie (parrocchie, associazioni, famiglie) con strumenti adeguati (lettera, incontro comunitario, coinvolgimento delle realtà del territorio…); costruire una piccola équipe di operatori a livello diocesano e di volontari a livello parrocchiale e provvedere alla loro preparazione non solo sul piano sociale, legale e amministrativo, ma anche culturale e pastorale, con attenzione anche alle cause dell’immigrazione forzata. A tale proposito Caritas e Migrantes a livello regionale e diocesano sono invitate a curare percorsi di formazione per operatori ed educatori delle équipe diocesane e parrocchiali. 4. LE FORME DELL’ACCOGLIENZA Le Chiese in Italia sono state pronte nell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati, in collaborazione con le istituzioni pubbliche, adottando uno stile familiare e comunitario. L’azione di carità nei confronti dei migranti è un diritto e un dovere proprio della Chiesa e non costituisce esclusivamente una risposta alle esigenze dello Stato, né è collaterale alla sua azione. Il gesto concreto dell’accoglienza è piuttosto un 'segno' che indica il cammino della comunità cristiana nella carità. Per questo, la Diocesi non si impegna a gestire i luoghi di prima accoglienza (Cara, Hub….), né si pone come soggetto diretto nella gestione di esperienze di accoglienza dei migranti. La Caritas diocesana, in collaborazione con la Migrantes, curerà la circolazione delle informazioni sulle modalità di accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati in parrocchie, famiglie, le comunità religiose, nei santuari e monasteri e raccoglierà le disponibilità all’accoglienza. La famiglia può essere il luogo adatto per l’accoglienza di una persona della maggiore età. L’Usmi e il Movimento per la vita hanno dato la disponibilità della loro rete di case per accogliere le situazioni più fragili, come la donna in gravidanza o la donna sola con i bambini. Dove accogliere: in alcuni locali della parrocchia o in un appartamento in affitto o in uso gratuito, presso alcune famiglie, in una casa religiosa o monastero, negli spazi legati a un santuario, che spesso tradizionalmente hanno un hospitium o luogo di accoglienza dei

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pellegrini, acquisite le autorizzazioni canoniche ove prescritte. Pare sconsigliabile il semplice affidamento alle Prefetture di immobili di proprietà di un ente ecclesiastico per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, per la problematicità dell’affidamento a terzi di una struttura ecclesiale senza l’impegno diretto della comunità cristiana. Chi accogliere. Le categorie di migranti che possono ricevere ospitalità in parrocchia o in altre comunità sono coloro che presentano queste caratteristiche: a) una famiglia (preferibilmente); b) alcune persone della stessa nazionalità che hanno presentato la domanda d’asilo e sono ospitati in un Centro di accoglienza straordinaria (Cas); c) chi ha visto accolta la propria domanda d’asilo e rimane in attesa di entrare in un progetto Sprar, per un percorso di integrazione sociale nel nostro Paese; d) chi ha avuto una forma di protezione internazionale (asilo, protezione sussidiaria e protezione umanitaria), ha già concluso un percorso nello Sprar e non ha prospettive di inserimento sociale, per favorire un cammino di autonomia . Per i minori non accompagnati, il percorso di accoglienza è attivabile nello Sprar. Per la delicatezza della tipologia di intervento, in termini giuridici, psicologici, di assistenza sociale, intrinseci alla condizione del minore non accompagnato, il luogo più adatto per la sua accoglienza non è la parrocchia, ma la famiglia affidataria o un ente accreditato come casa famiglia, in conformità alle norme che indicano l’iter e gli strumenti di tutela. Alla luce del fatto che 2 migranti su 3 nel 2014 e nel 2015, dopo lo sbarco sulle coste, hanno continuato il loro viaggio verso un altro Paese europeo, nei luoghi di arrivo e di transito dei migranti (porti, stazioni ferroviarie in particolare…) potrebbe essere valutato un primo servizio di assistenza in collaborazione con le associazioni di volontariato, i gruppi giovanili, l’apostolato del mare. I tempi: mediamente il tempo dell’accoglienza varia da sei mesi a un anno per i richiedenti asilo o una forma di protezione internazionale. I tempi possono abbreviarsi per chi desidera continuare il proprio viaggio o raggiungere i familiari o comunità di riferimento in diversi Paesi europei. In questo caso, potrà essere significativo, per quanto possibile, che la parrocchia trovi le forme per mantenere i contatti con i migranti anche durante il viaggio, fino alla destinazione. 5. GLI ASPETTI AMMINISTRATIVI E GESTIONALI DELL’ACCOGLIENZA L’accoglienza di un richiedente asilo in diocesi, come in parrocchia e in famiglia, ha bisogno di essere preparata e accompagnata, sia nei delicati aspetti umani (sociali, sanitari…) come negli aspetti legali, da un ente (nelle grandi diocesi anche più enti) che curi i rapporti con la Prefettura di competenza. Per questo sembra auspicabile che in Diocesi si individui l’ente capofila dell’accoglienza che abbia le caratteristiche per essere accreditato presso la Prefettura e partecipi ai bandi (una fondazione di carità, una cooperativa di servizi o comunque un braccio operativo della Caritas diocesana o della Migrantes diocesana e non direttamente queste realtà pastorali; oppure un istituto religioso o un’associazione o cooperativa sociale d’ispirazione cristiana…). Questo ente seguirà con una équipe di operatori le pratiche per i documenti (domanda in Commissione asilo, tessera sanitaria, codice fiscale, domiciliazione o residenza nonché eventuale pocket money giornaliero…), i vari problemi amministrativi (come l’agibilità della struttura…) e anche l’eventuale esito negativo della richiesta d’asilo (ricorso, sostegno al viaggio di ritorno per evitare anche la permanenza in un CIE, fino agli eventuali documenti per un rientro come lavoratore migrante, a norma di legge). All’ente capofila, attraverso il coordinamento diocesano affidato alla Caritas o/e alla Migrantes diocesana, arriveranno le richieste di disponibilità dalle diverse realtà ecclesiali (parrocchie, famiglie, case religiose, santuari) e curerà la destinazione delle persone. La parrocchia diventa, pertanto, una delle sedi e dei luoghi distribuiti sul territorio che cura l’ospitalità, aiutando a costruire attorno al piccolo gruppo di migranti o alla famiglia una rete di vicinanza e di solidarietà che si allarga anche alle realtà del territorio. L’impegno accompagna il migrante fino a che riceve la risposta alla sua domanda d’asilo, che gli consentirà di entrare in un progetto Sprar o di decidere la tappa successiva del suo percorso. Dal punto di vista dell’accoglienza, si possono riconoscere percorsi diversi, a seconda delle condizioni e sensibilità. Opzione A: L’ospitalità in parrocchia di un richiedente asilo è un gesto gratuito, ma entra nella convenzione e nel capitolato che un ente gestore (di un Cas o di uno Sprar) legato

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alla diocesi concorda con la Prefettura. La parrocchia sarà una delle strutture di ospitalità. Opzione B: la parrocchia che ospita un richiedente asilo riceverà un rimborso per l’accoglienza dall’ente gestore capofila, che entra come specifica voce nel bilancio parrocchiale. Opzione C: la parrocchia ospita gratuitamente, senza accedere ai fondi pubblici, chi esce dal Cas o dallo Sprar. In tal caso non è necessario richiamare il ruolo delle Prefetture né le relative convenzioni, né prevedere un ente gestore. Infatti, si tratterebbe di attivare un sistema di accoglienza successivo a quello oggi in capo ai Centri di Accoglienza Straordinaria e allo Sprar. È sufficiente che una Caritas o/e una Migrantes diocesana, meglio se avvalendosi di enti gestori dove sono stati ospitati i richiedenti asilo, raccolga la disponibilità all’accoglienza e la faccia incrociare con l’esigenza di alloggio e sostegno di chi esce dai Cas o da uno Sprar. 6. GLI ASPETTI FISCALI E ASSICURATIVI Le strutture o i locali di ospitalità in parrocchia devono essere a norma e la parrocchia deve prevedere l’assicurazione per la responsabilità civile. Se l’attività di accoglienza si svolge con caratteristiche che ai sensi della normativa vigente sono considerate commerciali si applica il regime generale previsto per tali forme di attività. 7. NEL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO DI RIMANERE NELLA PROPRIA TERRA L’accoglienza non può far dimenticare le cause del cammino e della fuga dei migranti che arrivano nelle nostre comunità: dalla guerra alla fame, dai disastri ambientali alle persecuzioni religiose. Giovanni Paolo II, seguendo il magistero sociale della Chiesa, ha ricordato che 'diritto primario dell’uomo è di vivere nella propria patria: diritto che però diventa effettivo solo se si tengono costantemente sotto controllo i fattori che spingono all’emigrazione' (Discorso al IV Congresso mondiale delle Migrazioni, 1998). Da qui l’impegno a valorizzare le esperienze di cooperazione internazionale e di cooperazione missionaria, attraverso le proposte di Caritas Italiana e di Missio, della Focsiv e della rete dei missionari presenti nelle diverse nazioni di provenienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Nell’anno giubilare le Chiese in Italia si impegneranno a sostenere 1000 microrealizzazioni nei Paesi di provenienza dei migranti in fuga da guerre, fame, disastri ambientali, persecuzioni politiche e religiose. 8. MONITORAGGIO, VERIFICA E INFORMAZIONE L’esperienza di accoglienza chiede un monitoraggio in ogni diocesi e anche la cura dell’informazione sulle esperienze in atto. A livello nazionale è istituito presso la Segreteria generale della Cei un Tavolo di monitoraggio dell’accoglienza dei richiedenti asilo e dei rifugiati a cui partecipano la Fondazione Migrantes, Caritas Italiana, Missio, Usmi, Cism, Movimento per la Vita, Centro Astalli, l’Associazione Papa Giovanni XXIII, l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali, l’Ufficio Nazionale per i problemi giuridici, l’Ufficio Nazionale per apostolato del mare, l’Osservatorio Giuridico Legislativo della Cei, valorizzando le diverse competenze delle singole realtà coinvolte. Il Tavolo nazionale di monitoraggio prevederà incontri periodici con i Ministeri competenti. A livello nazionale, l’Ufficio Nazionale per le comunicazioni sociali della Cei predisporrà strumenti di raccolta dati e di esperienze, che possano mettere in comune il cammino e le esperienze di accoglienza nelle diocesi. 9. VERIFICHE La Commissione Episcopale per le migrazioni prevederà un incontro annuale con il Tavolo nazionale di monitoraggio per una verifica, così da preparare una relazione sulla situazione da presentare durante i lavori dell’Assemblea generale dei vescovi. 10. EVENTUALI CONTRIBUTI La Cei valuterà se e come assegnare un eventuale contributo alle diocesi, particolarmente bisognose, che hanno dovuto adeguare alcuni ambienti per renderli funzionali e idonei all’accoglienza. Pag 18 Lettera pubblicata, atto di disturbo di Gianni Cardinale

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Lombardi: chi lo ha fatto vuole condizionare i lavori del Sinodo «Chi ha dato a distanza di giorni questo testo e questa lista di firme da pubblicare, ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai firmatari. Occorre perciò non lasciarsene condizionare». È questo il giudizio che il “portavoce” vaticano padre Federico Lombardi ha dato della lettera di 13 cardinali a papa Francesco con alcune lamentele sui lavori sinodali, il cui testo (non confermato da nessuna fonte ufficiale) è stato diffuso lunedì mattina sul sito de L’Espresso dal vaticanista Sandro Magister, che ieri ne ha ribadito i contenuti. Il direttore della Sala Stampa vaticana è intervenuto di nuovo sull’argomento ieri all’inizio del consueto briefing sinodale. Ribadendo subito quanto dichiarato dal cardinale George Pell, ovvero che la missiva al Pontefice era e doveva rimanere riservata e che quanto pubblicato non corrisponde né nel testo né nelle firme a quanto consegnato al Papa. Se infatti sull’esistenza della lettera e sul numero dei firmatari quindi non sembrano esserci dubbi – di una lamentela manifestata per iscritto da «13 padri sinodali» aveva parlato già La Stampa con un articolo di Andrea Tornielli di giovedì scorso – qualche problema rimane sui nomi dei firmatari. Al riguardo Lombardi ha ricordato che quattro di quelli segnalati dal sito di Magister (gli italiani Scola e Piacenza, il francese Vingt-Trois e l’ungherese Erdö) avevano immediatamente smentito di aver firmato alcunché. Mentre non ha fatto cenno all’elenco dei firmatari riferito da Gerard O’Connell della rivista America , storica pubblicazione dei gesuiti statunitensi. L’autorevole vaticanista ha scritto che oltre che dai nove porporati già segnalati, senza smentite, da Magister (l’australiano Pell, l’italiano Caffarra, il canadese Collins, lo statunitense Dolan, l’olandese Eijk, il tedesco Muller, il sudafricano Napier, il guineano Sarah, il venezuelano Urosa Savino) la lettera sarebbe firmata anche dallo statunitense Di Nardo, dal kenyano Njue, dall’italiano Sgreccia (che in serata all’Ansa ha dichiarato di aver solo «chiesto delucidazioni a voce in Aula sul metodo. Non ho mai visto nessuna lettera») e dal messicano Rivera Carrera (quest’ultimo ha comunque precisato di non aver «mai» firmato «la presunta lettera con i contenuti che alcuni menzionano »). Sulla questione delle «obiezioni e dubbi sulla procedura » manifestati dai porporati poi, padre Lombardi ha spiegato che «nella sostanza le difficoltà della lettera erano state evocate lunedì 5 ottobre, la sera, in Aula, come avevo detto, anche se non così ampiamente e dettagliatamente». «Come sappiamo – ha quindi aggiunto – il segretario generale del Sinodo, il cardinale Baldisseri, e il Papa avevano risposto con chiarezza la mattina seguente, martedì 6 ottobre ». «Quindi, – ha affermato con fermezza il “portavoce” vaticano – chi ha dato a distanza di giorni questo testo e questa lista di firme da pubblicare, ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai firmatari. Occorre perciò non lasciarsene condizionare». «Si pos- sono fare osservazioni sulla metodologia del Sinodo, che è nuova – ha osservato ancora padre Lombardi –. Ciò non stupisce, ma una volta che è stata stabilita, ci si impegna ad attuarla nel migliore dei modi». Tanto che «vi è una vastissima collaborazione per far progredire bene il cammino del Sinodo ». E «il clima generale dell’Assemblea è senz’altro positivo». All’inizio del briefing, padre Lombardi si è fatto portavoce di una dichiarazione del cardinale Napier, a proposito di una sua affermazione riportata erroneamente in un’intervista al sito statunitense Crux del Boston Globe. «A proposito della composizione della Commissione di dieci membri nominata dal Papa per l’elaborazione della Relazione finale del Sinodo, è stato scritto erroneamente: “Napier mette in questione il diritto di papa Francesco di fare questa scelta”», ha ricordato il “portavoce” vaticano. E ha precisato: «Il cardinale Napier mi ha detto di correggere, affermando esattamente il contrario, cioè: “Napier non mette in questione il diritto di papa Francesco di scegliere questa Commissione”». Pag 24 Rivalutare la tenerezza. Anche Dio dà le carezze di Enzo Bianchi Recentemente è stato edito il volume I vangeli, tradotti e commentati da quattro bibliste, opera che tra l’altro vuole mostrare come siano possibili una traduzione e un commento 'altri' rispetto alla maggior parte di quelli già esistenti. Credo sia più che accettabile l’ipotesi che una donna biblista commenti la Scrittura in modo altro rispetto agli uomini; più discutibile, forse, è che anche la sua traduzione sia altra. E tuttavia mi pare significativo che siano proprio delle donne bibliste a insistere, per esempio, sul fatto che il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con «misericordia » possa essere

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reso con «tenerezza». In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim, termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine «misericordia». Le attuali versioni bibliche – e mi riferisco soprattutto a quella a cura della Cei pubblicata nel 2008 – seguono questa tradizione, anche se da qualche tempo si sono levate voci che chiedono di rendere rachamim con «tenerezza», caldeggiando di conseguenza lo sviluppo di una teologia biblica della tenerezza di Dio. Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, «cuore per i miseri». Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine «compassione»). Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo «tenero», che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: «tenerezza » viene dal latino tenerum , che significa «di poca durezza, che acconsente al tatto», dunque «sensibile»; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a «sdolcinato», addirittura a «effeminato»… Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che indubbiamente ha immesso nel magistero pontificio il termine «tenerezza », con immediate ricadute nel linguaggio spirituale ed ecclesiale. Fin dall’omelia di inizio del pontificato (19 marzo 2013), Francesco ha affermato: «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!». Nella sua predicazione si serve spesso di questo termine, a commento dei testi più diversi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium parla per ben 11 volte di tenerezza, ricorrendo a questa parola in modo sempre pensato, con molto discernimento. Parla di «tenerezza combattiva contro gli assalti del male» (85), di «infinita tenerezza del Signore» (274), di «tenerezza » come «virtù dei forti» (288), di «forza rivoluzionaria della tenerezza» (ibid.), avendo coscienza che la tenerezza è appunto una virtus, una forza attiva e pratica, non solo un sentimento. Arriva a scrivere che «Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza» (88). Perché questa insistenza sulla tenerezza? Perché la vita è un duro mestiere, perché i rapporti oggi si sono fatti duri, senza prossimità, anaffettivi, e gli uomini e le donne del nostro tempo sentono soprattutto il bisogno di tenerezza. Tenerezza come sensibilità, apertura all’altro, capacità di relazioni in cui emergano l’amore, l’attenzione, la cura. La tenerezza non è un sentimento sdolcinato, ma è vero che soprattutto gli uomini, debitori di una cultura dell’uomo forte, solido, che sa sempre usare la ragione a costo di non ascoltare il cuore, di una cultura diffidente verso le emozioni, non hanno coltivato in passato e forse non coltivano nemmeno oggi questa straordinaria virtù. Per questo il papa esorta a non aver paura della tenerezza e denuncia: «Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo!» (Omelia della notte di Natale, 2014). A ben vedere, la tenerezza è davvero ciò che oggi più manca. Quante relazioni tra sposi o amanti vengono meno, vedono depotenziarsi la passione oppure finiscono per essere affette da violenza e cosificazione dell’altro, proprio perché manca la tenerezza; quante relazioni di amicizia ingrigiscono perché non si è capaci di rinnovare il legame con la tenerezza; quanti incontri non sbocciano in relazione per mancanza di tenerezza… Ecco perché la tenerezza deve vedersi ed essere riconosciuta su un volto: altrimenti il volto diventa rigido, duro, inespressivo! Se la tenerezza è un sentimento di viscere materne, allora sta anche per misericordia, e per questo Francesco spesso le accosta. In ciò è fedele alle sante Scritture, che ci forniscono immagini straordinarie, veri e propri «elogi delle carezze di Dio». Basti pensare alla vicenda di Osea, profeta che ama perdutamente la sua donna, prostituta e adultera: vuole attrarla a sé, nonostante le sue infedeltà, vuole portarla nel deserto, in un luogo appartato, per poterle parlare nell’intimità « cor ad cor »(Os 2,16). Non solo, ma quando Osea deve descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, parla di un Dio che attira a sé con legami di bontà, come un

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padre che solleva il proprio bimbo portandoselo alla guancia, guancia a guancia (Os 11,4), in un esercizio di reciproca sensibilità tattile che racconta la dolcezza dell’amore. E Isaia ci consegna con audacia l’immagine di un Dio dai tratti materni, che allatta, porta in braccio, accarezza e consola il proprio figlio (Is 66,12-13), figlio che non potrà mai dimenticare né abbandonare (Is 49,14-15). Da questi testi l’amore di Dio è rivelato innanzitutto come tenerezza, che Dostoevskij ha definito «la forza di un amore umile». Proprio perché la tenerezza è misericordia, quando è stata praticata e narrata da Gesù, essa ha suscitato scandalo. È il papa stesso a dirlo: «Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano… di fronte a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica» (omelia 15 febbraio 2015). Ma a prescindere dall’uso della terminologia della misericordia, la tenerezza di Gesù è visibile nel suo comportamento abituale: quando, incontrando i bambini, rimprovera i discepoli che vorrebbero tenerli distanti (Mc 10,13-16 e par.); quando si lascia accarezzare dalla donna peccatrice (Lc 7,37-38) o da quella che gli unge di profumo la testa (Mc 14,3; Mt 26,7) o i piedi (Gv 12,3); quando si commuove alla vista della folla sbandata, simile a un gregge senza pastore (Mc 6,34; Mt 9,36); quando, dopo la resurrezione, chiama per nome «Maria», la Maddalena che lo cerca piangente (Gv 20,16)… Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), cioè dolce e umile di cuore, pieno di tenerezza e umile di cuore: questo dovremmo comprendere di lui, e se a volte i Vangeli ce lo presentano in collera, non dobbiamo dimenticare che questa è l’altra faccia della sua com-passione. Solo chi conosce la com-passione, infatti, può ricorrere alla collera e così dichiarare la sua non indifferenza di fronte alla sofferenza. Nei Vangeli non sta scritto che Gesù abbia accarezzato qualcuno, se non i bambini (cf. Mc 10,16; Mt 19,15); eppure sono convinto che avesse l’arte della carezza, che abbia accarezzato qualche volto dei discepoli, qualche volto in lacrime, qualche volto in preda alla malattia. La tenerezza è un aspetto della misericordia, è la misericordia che si fa vicinissima fino a essere una carezza, un prendere la mano dell’altro nella propria mano, un asciugare le lacrime sugli occhi dell’altro: la tenerezza è misericordia fatta tatto e la misericordia, a sua volta, è una carezza. Dicono che questo papa non si fa vedere, ma piuttosto si fa toccare. C’è una verità in questo giudizio, perché Francesco sa mostrare la sua tenerezza: e chi sente la mancanza di tenerezza va da lui, non tanto per vederlo, ma sperando di essere abbracciato. CORRIERE DELLA SERA Pag 23 Ricreare il clima di Vatileaks, il piano dei nemici del Papa di Massimo Franco Dentro il Sinodo, il retroscena Il piano degli avversari sta assumendo contorni più nitidi. E inquietanti. Prima la confessione liberatoria e provocatoria del teologo omosessuale polacco Krzysztof Charamsa a ridosso del Sinodo. Adesso, mentre è in pieno svolgimento, la lettera spuria di una decina di cardinali conservatori. E presto, chissà, un altro attacco obliquo nei confronti di papa Francesco. «Non sta arrivando un nuovo Vatileaks, ma qualcuno vuole dare quest’impressione per destabilizzare un pontificato che tenta di fare pulizia». Le parole di uno degli ecclesiastici più vicini a Jorge Mario Bergoglio sono preoccupate, perfino allarmate. Quanto sta accadendo può essere definito una provocazione, o un difetto di governo, o l’esasperazione di minoranze della Chiesa cattolica che si sentono fuori gioco e prossime alla marginalità. Da Casa Santa Marta, però, dove abita Francesco, l’analisi delle manovre di questi giorni è più radicale. Fa pensare ad un’operazione progettata da tempo; e tesa a delegittimare non il Sinodo ma i due anni di papato argentino; a descrivere un episcopato in preda al caos, alle liti fratricide, quasi fosse la versione curiale del Parlamento italiano; e a risospingere tutto indietro, come se nei trenta mesi passati fosse cambiato poco o nulla. Era accaduto qualcosa del genere già nella riunione precedente, a febbraio. Anche allora la gestione «liberal» del Sinodo da parte di Bergoglio aveva provocato resistenze e reazioni, quando si era parlato di Comunione per le coppie divorziate. Era stata pubblicata una relazione che sembrava

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precostituire e sbilanciare l’esito di quell’assemblea. E lo stile «latinoamericano» del pontefice era stato additato come una delle cause della confusione e del disorientamento. Ma stavolta si indovina una maggiore preordinazione: non tanto di Francesco ma dei suoi avversari. L’evocazione di Vatileaks sul Corriere da parte del cardinale Gerhard Müller, «custode» della Dottrina della Fede senza forse calcolarne del tutto le implicazioni, è stata a doppio taglio. Involontariamente, Müller non ha solo fotografato la sua irritazione e il suo stupore. L’alto prelato tedesco, uno dei firmatari di una lettera della quale però sarebbe stato cambiato a insaputa sua e di altri cardinali anche il contenuto, si dev’essere sentito usato e strumentalizzato. Come il «ministro dell’Economia» vaticano, cardinale George Pell, che ieri ha dichiarato: «Le firme sono sbagliate ma soprattutto la maggior parte del contenuto della lettera non corrisponde. Non so perché è successo né chi l’abbia fatta uscire così». È una reazione che obbliga a pensare ad un’operazione assai poco cristiana; e che riporta in primo piano la consistenza di una «Internazionale tradizionalista» contraria al Papa per questioni dottrinali e di potere. Ma quella parola, Vatileaks, rimanda allo scandalo emerso nella coda finale e convulsa del pontificato di Benedetto XVI. Ricorda i «leaks», le fughe di notizie dal Vaticano, affidate a quintali di documenti filtrati dall’Appartamento, la residenza di Joseph Ratzinger nel Palazzo apostolico, per mano del suo maggiordomo personale, Gabriele: un personaggio che continua ad apparire il maggior responsabile e il principale capro espiatorio di quella vicenda torbida. Fu in seguito a quelle rivelazioni che per la prima volta dopo sette secoli un Papa si dimise. L’uscita di scena traumatica di Benedetto XVI nel febbraio del 2013; l’elezione dell’argentino Bergoglio; la sua scelta di andare a vivere a Santa Marta, un albergo piuttosto spartano nella «periferia» della Città del Vaticano, invece che tornare nell’«Appartamento maledetto» di Benedetto: sono tutte conseguenze a cascata di quella vicenda, e cesure con un passato che la Chiesa cerca di archiviare, se non di rimuovere. Dire che sta per esplodere un nuovo Vatileaks trasmette invece l’impressione che, Bergoglio o Ratzinger, non cambia nulla. Esistono ancora i «corvi» che trafugano documenti e li danno in pasto strumentalmente all’opinione pubblica. Esistono le lotte di potere. E permangono maggioranze e minoranze in guerra. È questo il calcolo di chi getta tra i piedi del Sinodo un pretesto di tensione dopo l’altro: trasmettere con «verità» pilotate e inquinate, ma verosimili, l’idea di una realtà immutabile, soprattutto in negativo. Il rischio è accentuato dalla presa intermittente che Francesco sembra dimostrare sui gangli del potere «romano». Nonostante la moltiplicazione di commissioni e riforme, la Curia appare sulla difensiva ma tuttora decisa a resistere ad uno stile di governo considerato allo stesso tempo troppo radicale e inconcludente. Il fatto che nella cerchia papale si parli di un Vaticano schierato contro Bergoglio, affermazione che è un ossimoro, spiega almeno in parte la confusione e le manovre. Anche perché dentro le Sacre Mura si accredita un Papa ostile al Vaticano: che sarebbe un altro paradosso. «Spero che ci troviamo davanti a una provocazione», confida un amico fidato di Francesco. «Non vorrei che fosse qualcosa di peggio. È il secondo attacco al Papa dall’inizio del Sinodo. Non ne escluderei un terzo o un quarto. Temo una manovra di destabilizzazione dall’esterno». Chi ne sarebbe il regista, e con quale obiettivo finale, non è chiaro neppure a chi la denuncia. «L’unica cosa che posso dire è che non siamo nella situazione del 2013 prima delle dimissioni di Benedetto XVI. Qui nessuno perde la testa, anche se forse qualcuno lo spera», avverte l’interlocutore vaticano. Eppure, l’accenno a trenta mesi fa, un periodo che rivisto oggi sembra preistoria, dà i brividi. L’accostamento induce a sospettare che qualcuno voglia indurre Bergoglio a gettare la spugna, a tornare nella sua Buenos Aires da perdente o da incompreso: sconfitto dall’eternità non della Chiesa ma dei meccanismi e delle dinamiche vaticane. «Ma non succederà», assicura un esponente latinoamericano. «Il Sinodo», aggiunge, «finirà bene, nonostante i tentativi di schiacciarlo sulle questioni più controverse. Le minoranze, quella iper conservatrice e quella iper progressista, si riveleranno tali. E la stragrande maggioranza starà con Francesco». Un risultato, però, i critici più oltranzisti lo stanno ottenendo: seminano ombre, e i successi internazionali del pontificato sono tornati in secondo piano. Si conferma la previsione di chi ritiene che, se vuole vincere davvero nel mondo, Bergoglio dovrà affrontare e superare la sfida che gli impone Roma. Oggi i suoi avversari più irriducibili non si annidano tra le folle plaudenti, ma nelle file del suo esercito ecclesiastico: perfino tra le «berrette rosse» che gli battono

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le mani. Per questo lo stillicidio continuerà. Ma anche le riforme, perché Francesco non può che andare avanti. Pag 23 Il Vaticano: un atto di disturbo diffondere la lettera di Gian Guido Vecchi Padre Lombardi: “Non era questa l’intenzione dei firmatari”. E spunta la “devolution” dottrinale Città del Vaticano. Padre Lombardi abbassa lo sguardo su un foglio, la dichiarazione intorno alla «strana lettera di cui si è parlato» è meditata parola per parola: «Chi ha dato a distanza di giorni questo testo e questa lista di firme da pubblicare, ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai firmatari, almeno da alcuni dei più autorevoli. Occorre perciò non lasciarsene condizionare». Il giorno dopo, al Sinodo, si cerca di ridimensionare l’effetto di ciò che il cardinale Müller, nell’intervista al Corriere, ha definito «un nuovo Vatileaks»: la «strana lettera» consegnata una settimana fa al Papa da un gruppo di cardinali conservatori e che qualcuno ha reso pubblica l’altro giorno mandandola a un blog. Un testo che contestava il regolamento sospettando che l’esito del Sinodo fosse orientato. Ma né i firmatari né il contenuto sono chiari. «Io non l’ho scritta, ma il testo e l’elenco delle firme sono in parte errati», ripeteva ieri il cardinale australiano Pell: il quale, peraltro, ha confermato d’essere «un po’ preoccupato» per la composizione della commissione che scriverà il testo finale, scelta da Francesco. Il cardinale di New York Dolan conferma la firma. Quattro avevano smentito (Scola, Erdö, Vingt-Trois, Piacenza), altri quattro sono stati indicati al loro posto dalla rivista dei gesuiti America: Daniel Di Nardo (Usa), John Njue (Kenya), l’italiano Elio Sgreccia e il messicano Norberto Rivera Carrera. Ma quest’ultimo ha negato attraverso la sala stampa, Di Nardo esce dal Sinodo dicendo «di tutto questo non so nulla, né ha avuto alcuna eco: nessuno ne ha parlato», mentre Sgreccia si sofferma stupito: «Lettera? Io non ho mai visto né firmato nessuna lettera. All’inizio, visto che la metodologia era diversa dall’anno scorso, molti si sono chiesti cosa fosse cambiato, anch’io ho domandato chiarimenti. Tutto qui, non ho visto sospetti di sorta». Il cardinale Piacenza scuote la testa: «È un oggetto misterioso. Io non solo non l’ho firmata, ma non sapevo neanche che esistesse». E i dubbi sulla commissione nominata da Francesco? «Il Papa decide quello che ritiene opportuno decidere». Si cerca di voltar pagina, la discussione prosegue. Notevole la proposta di una «devolution dottrinale» spiegata ieri dall’abate benedettino Jeremias Schröder: «In molti interventi si è parlato dell’ipotesi di affrontare le questioni in base al contesto culturale. La questione dei divorziati e risposati, per esempio, è molto sentita in Germania tra i fedeli e meno altrove. Anche la comprensione dell’omosessualità è culturalmente molto diversificata. Si potrebbe permettere alle conferenze episcopali di trovare soluzioni pastorali in sintonia col contesto». Sulla comunione ai risposati, il patriarca di Gerusalemme Fouad Twal taglia corto: «L’idea è decidere caso per caso». LA REPUBBLICA Pag 34 Tutti i nemici del Papa di Paolo Rodari Città del Vaticano. Lo chiamano «Papa argentino» per screditarlo. Per rimarcare la distanza, culturale e ideologica, fra loro e lui. Sono cardinali di curia e vescovi, certo, che tuttavia hanno dietro di loro anche gruppi di potere e di pressione precisi, consorterie fin dal 13 marzo del 2013 insofferenti verso il magistero sociale del Pontefice. Ieri padre Federico Lombardi ha sminuito la portata deflagrante della lettera dei cardinali inviata a Francesco e pubblicata da L'Espresso. «Chi a distanza di giorni ha pubblicato la lettera ha compiuto un atto di disturbo non inteso dai "firmatari", almeno da alcuni dei più autorevoli», ha detto il portavoce vaticano. Che ha chiesto anche di «non lasciarsi condizionare», in quanto l'azione di disturbo è mossa da seconde linee. Eppure, l'effetto è il medesimo dei tempi di Vatileaks, quando le carte passavano da dentro il Vaticano e arrivavano fino ai media. La vera pistola fumante del Sinodo, ha scritto non a caso il sito d' informazione Il Sismografo vicino alla Santa Sede, «è l'esistenza di una cordata di eminenti vaticanisti che hanno abbandonato il nobile mestiere dell' informazione per passare, con corpo e anima, a quello del velinaro (per di più maldestro)». Certo, per molti Oltretevere una differenza almeno apparente esiste fra

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l' ultimo periodo del pontificato di Ratzinger e oggi. Mentre allora c'erano cordate interne alla Santa Sede che si combattevano per ragioni di potere, oggi le posizioni eterogenee sembrano essere principalmente ideali, culturali. Ma, si chiedono nello stesso tempo ancora in Vaticano, può essere tanta insofferenza causata soltanto da posizioni divergenti sulla dottrina? Per Nello Scavo, giornalista di Avvenire e autore di "I nemici di Francesco" (Piemme) appena uscito, gli avversari del Papa sono anche coloro che lo screditano cercando di metterlo a tacere. «C'è una battaglia ideologica - dice -, questo è vero, condotta anche in buona coscienza. Tuttavia, in questi anni, dentro la curia c'è anche chi ha provato a rifilare a Francesco qualche polpetta avvelenata. Oltre al Sinodo e al recente caso del teologo omosessuale Charamsa, c'è stata la vicenda di un progetto che prevedeva la costituzione da parte dello Ior di una Sicav - fondo di investimento a capitale variabile - in Lussemburgo. Il Papa se ne accorse all' ultimo momento e bloccò il progetto. Certo, non era niente di illegale, eppure l'immagine del Papa ne sarebbe stata compromessa. A significare che dentro c'è anche chi manovra per indebolire il carisma e la forza di Francesco». Una tesi, quella di Scavo, che combacia, in parte, con quanto affermato da uno dei teologi sudamericani più vicini a Bergoglio, Leonardo Boff. Pur aperto sull'omosessualità - la visione dei vescovi che essa debba essere vissuta castamente «è riduttiva», ha affermato ad Oggi - il paladino della teologia della liberazione ritiene che dentro il Vaticano vi sia chi ordisce trappole contro il Papa. Boff pensa in particolare che dietro il coming out di Charamsa vi sia «una trappola montata dagli ambienti di destra nella Chiesa che si oppongono al Papa. Perché non lo ha fatto in modo semplice ma provocatorio, per creare un problema al Sinodo e a Francesco. Ostentare in quel modo la sua scelta, il suo compagno... Non si deve giocare per mettere il Papa alle strette». Francesco dà l'impressione di sapere bene chi sono gli amici e chi i nemici. E che se c'è chi lo ama e lo segue, vi è anche chi farebbe volentieri a meno di lui. Nello stesso tempo, tuttavia, non vuole cedere alle teorie cospirative, all' idea che il Vaticano sia un covo di serpi. Eppure, spiega Massimo Faggioli, storico del cristianesimo alla University of St. Thomas a Minneapolis, «è questo il momento più visibile e temerario nella lotta condotta da parte dell' establishment ecclesiastico contro di lui». E ancora: «Fin dal marzo 2013 si era percepito il montare della resistenza al pontificato, e si sapeva che il Sinodo dei vescovi era il punto chiave. Il fatto che la lettera sia stata consegnata al Papa il 5 ottobre, primo giorno del Sinodo, è prova che si tratta di un' iniziativa coordinata ben prima dell' inizio dell' assemblea a Roma (ed è a questa iniziativa che Francesco rispose col discorso sulla "ermeneutica cospirativa" del 6 ottobre in aula sinodale). È anche chiaro che mentre Francesco era in visita in America, alcuni vescovi americani, tra un abbraccio e l'altro al Papa, stavano preparando contro Bergoglio un attacco che non si sarebbero mai sognati di fare contro i sinodi per finta di Papa Wojtyla e Papa Ratzinger». In sostanza si riferisce al caso del saluto ricevuto presso l'ambasciata di Washington da parte di Kim Davis, l'impiegata comunale del Kentucky che ha rifiutato la licenza matrimoniale a diverse coppie gay, e che per questo è stata arrestata. La Davis, e parte del mondo conservatore statunitense, ha fatto passare questo saluto come un appoggio papale alle sue battaglie anti gay. Chi ha consegnato, e con ogni probabilità ideato, la lettera al Papa critica sui lavori del Sinodo è il cardinale australiano George Pell. Zar dell'economia vaticana, ha posizioni dure sulle aperture papali. Ritiene che concedere l' eucaristia ai divorziati risposati sia un male. Una posizione simile a quella di altri firmatari della lettera, fra cui il cardinale Robert Sarah per il quale pensare di dare l'eucaristia ai divorziati è opera del Maligno. La costituency di Pell è quella della finanza americana. Ritenuto vicino ai potenti Cavalieri di Colombo, quando deve tenere una conferenza va sempre al Pontifical North American College sul Gianicolo, il luogo in cui i circuiti curiali finanziari americani danno sfoggio di sé nella capitale. Così anche altri due cardinali firmatari della lettera: Daniel N. Di Nardo, arcivescovo di Galveston-Houston e vicepresidente della conferenza episcopale degli Stati Uniti, e Timothy Dolan, arcivescovo di New York e capo dei vescovi Usa. Gran parte dell'opposizione mossa a Francesco viene dal mondo conservatore nord americano. È ancora Scavo, nel suo volume, a ricordare che a sostenere le battaglie dei "neocon" anti-Bergoglio ci sono uomini come Dick Cheney e capitali come quelli messi a disposizione dalla Halliburton. Scrive Scavo: «Bastano questi due nomi per farsi un'idea precisa degli ambienti "antipapisti" a stelle e strisce da cui partono alcuni degli attacchi a Bergoglio su vari fronti: economia, teologia, visione geopolitica». Cheney è l'uomo ombra

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dell'American Enterprise Institute, di cui è stato vicepresidente e nel quale mantiene incarichi direttivi sua moglie Lynne, già consigliere d' amministrazione di Lockheed Martin, il principale produttore mondiale di sistemi di difesa: dai velivoli caccia ai missili a testata nucleare, dai radar ai blindati per il trasporto delle truppe. Pag 35 La misericordia di Bergoglio crea scandalo nella Chiesa di Enzo Bianchi Il termine "apocalisse" non indica, come molti intendono, qualcosa di catastrofico, bensì un "alzare il velo", una ri-velazione, l'emergere di una realtà inaspettata o nascosta. Per questo ciò che sta avvenendo non solo in questi giorni sinodali ma dall'inizio del pontificato di Francesco è un' apocalisse che fa conoscere situazioni che paiono impossibili e svela la verità delle coscienze e dei cuori. Che cos'è in gioco in questo confronto che a volte appare un'aspra battaglia? Non ciò che la chiesa crede in obbedienza al vangelo. In particolare non è in gioco la dottrina cattolica sull'indissolubilità del matrimonio cristiano e nemmeno un patteggiamento della chiesa circa la famiglia oggi. No, in gioco è la dimensione pastorale, l'atteggiamento da assumere verso chi ha sbagliato e verso la società contemporanea. E in questo senso proprio la chiesa per esserne ministra ha il compito di determinarne la disciplina rinnovandola e rendendola più fedele al vangelo. Va detto con chiarezza: ciò che scandalizza è la misericordia! Sembrerebbe impossibile, ma non possiamo dimenticare che Gesù non è stato condannato e messo a morte perché si era macchiato di qualche crimine secondo il diritto romano, né perché aveva smentito la parola di Dio contenuta nelle leggi e nei profeti, bensì per il suo comportamento troppo misericordioso: annunciava infatti il perdono, senza far ricorso a una giustizia retributiva e punitiva, amava frequentare prostitute e peccatori noti come tali e stare alla loro tavola. Il suo modo di comportarsi ha rivelato che la misericordia non è un correttivo per mitigare la giustizia, non è neppure un soccorso per chi non conosce la verità: la giustizia di Dio è sempre misericordia anzi, è la misericordia che stabilisce la giustizia e rende splendente e non abbagliante la verità. I nemici di Gesù erano esperti della santa Scrittura (scribi) e uomini "religiosi" che confidavano in se stessi e nel loro comportamento scrupolosamente osservante. È dunque rivelativo che un'opposizione analoga emerga anche contro papa Francesco e il cammino che tenta di tracciare per la chiesa, l' esodo verso le periferie esistenziali di un' umanità sofferente e mendicante amore, tenerezza, compassione in un mondo sempre più incapace di prossimità e di fraternità. Ho già avuto modo di scriverlo: se il papa sarà fedele al vangelo troverà opposizione, persino rigetto e disprezzo perché non potrà essere di più del suo Signore. L'ha profetizzato Gesù semplicemente leggendo le proprie vicende e quelle dei profeti prima di lui. Ciò che stupisce è che chi nei confronti dei papi precedenti non avanzava critiche o contestazioni ma poneva loro domande, veniva additato come "non cattolico", mentre oggi, grazie alla libertà che Francesco ha voluto assicurare al dibattito, alcuni arrivano a sospettare che lui permetta di lasciar manipolare un confronto che nella chiesa dovrebbe sempre essere ascolto dell'altro, riconoscimento che il successore di Pietro, il papa, "fa strada insieme" (syn-odos) ai vescovi ma presiedendo la loro comunione con un carisma e un mandato proprio che proviene dal Signore stesso. Siamo tornati al tempo del concilio, alle contestazioni più o meno manifeste, alle mormorazioni contro Giovanni XXIII e Paolo VI, ma questo non deve spaventare. Nella sua storia, la chiesa ha conosciuto ore più critiche, anche se queste vicende non offrono una testimonianza di parresia e di comunione fraterna. Stupisce che questa contestazione venga da chi papa Francesco ha voluto tenere vicino a sé nel governo della chiesa o incaricare di aiutarlo per tracciare un cammino di riforma delle istituzioni. Ma questo dato rivela chi è l'attuale papa: non è un pontefice che scarta chi sa diverso da lui, non è un "regnante" che emargina chi ha altre ottiche pastorali. Tutti possono constatare questo suo atteggiamento che gli nuoce e gli rende faticoso il suo servizio alla chiesa. D'altronde nella chiesa c'è chi vorrebbe che Francesco fosse solo una breve parentesi, chi afferma che "questo papa non gli piace", chi lo considera "debole nella dottrina", chi non ama il suo ecumenismo che vuole abbracciare tutti i battezzati e non creare muri nei confronti dei non cristiani e degli uomini e delle donne del mondo. Per scelta di Benedetto XVI ho partecipato a due sinodi e non vedo in quello in corso una procedura radicalmente diversa: pubblicare il riassunto della discussione senza fornire i nomi dei singoli intervenuti e le frasi da loro

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pronunciate, per esempio, consente di non classificare i vescovi in tradizionalisti e innovatori, in conservatori e liberali sulla base di affermazioni apodittiche che non riflettono l'incidenza avuta dal confronto e dal dialogo nel corso del dibattito. Le diversità infatti sono legittime, soprattutto in un'assemblea veramente cattolica, in cui i vescovi sono portavoce del loro popolo. Esser "servo della comunione" per papa Francesco è arduo, ma i cattolici credono anche che su di lui c'è la promessa fatta a Pietro da Gesù stesso: "Ho pregato perché la tua fede non venga meno e tu conferma i tuoi fratelli!". Questa è un'ora di apocalissi nella chiesa e non sarà l'ultima: ognuno si assuma le proprie responsabilità nei confronti della comunione cattolica e, più ancora, nei confronti del vangelo al quale dice di voler obbedire. IL FOGLIO Pag 1 Il Sinodo e lo scontro secolare sulla famiglia che gli agiografi quotidiani del Papa della misericordia fingono di non vedere di Giuliano Ferrara Il Papa ha chiesto ai padri sinodali di discutere apertamente, con parresia, e come diceva san Paolo di esprimersi opportune et inopportune. E i padri obbediscono, come dimostra la loro discussione dello scorso autunno, idee voti e svolte, e quella in corso; come di mostra la pubblicazione non autorizzata (da parte dell'eccellente vaticanista ruiniano e ratzingeriano, Sandro Magister) di una lettera di principi della chiesa al Papa, datata all'inizio del mese, che denunciava il pericolo di una predeterminazione, sul piano del metodo di lavoro e di discussione, degli esiti del Sinodo in corso, che si concluderà alla fine del mese di ottobre. Questo esercizio di parresia sarebbe, nel linguaggio conformista del Giornalismo Collettivo, un attacco a Francesco in nome della resistenza conservatrice al disegno di misericordia che con questo Papa regnante si sostituisce all'arcigna teoria di precetti non negoziabili che ha espulso la pietà, la misericordia evangelica come fonte originaria del cristianesimo, dal campo della dottrina e della pastorale (che cosa la chiesa insegna, come salva concretamente le anime nel suo fare). Nello schemino del Giornalista Collettivo, che è ovviamente tribuno sopra tutto di ignoranza della storia, e in particolare della storia della chiesa, tutto questo si colora di politica politicante, e le questioni somme di cui i padri sinodali si occupano, questioni estranee alla cultura laica andante, vengono lette alla luce della dialettica di destra e sinistra, di partito conservatore e progressista. A sentire certe bellurie ideologiche, siamo in presenza di una Rivoluzione francese nella chiesa, con il giuramento della Pallacorda e tutto, e alla reazione dei vandeani difensori dell'Antico Regime. Iperbole impazzita, ovviamente. Il tema è decisivo. La famiglia non è un presepe di cartapesta, una questione sociologica con un cappello ideologico: è invece il problema dell'umano, dell'amore, della misericordia verso la vita, della procreazione, del sesso e dell'eros, della dignità e libertà e responsabilità di uomini e donne verso l'esistenza, verso la condizione dell'esistere, verso il tempo e la promessa. Una questione profetica, non una dozzinale ricognizione di affari di società. Una seria divisione degli orientamenti di dottrina e pastorali è sicuramente in atto, e non da oggi ma almeno dalla grande crisi intorno all'enciclica di Paolo VI Humanae vitae. L'enciclica è del 1968, e fu presa letteralmente a sassate. Fu l'ultima di quel Pontefice tormentato, che dopo la rivolta contro di lui e il suo magistero non volle più firmare altre encicliche (Paolo morì dieci anni dopo, nel 1978). Fu una lettera enciclica di dottrina e pastorale che andò contro al mainstream, anche al pensiero corrente in ambito cattolico, pensiero maturato nel contesto del Concilio Vaticano II. Al Papa bresciano era stato suggerito dagli esperti di benignità e di modernità del clero: afferma il consenso della chiesa ai metodi contraccettivi, fratello Paolo, e stabilisci che noi cattolici siamo favorevoli al controllo delle nascite anche con i metodi chimici come la pillola, solo così - dicevano - si chiuderà lo scisma sommerso dei fedeli che decidono della loro vita e della procreazione di altra vita, forti della loro coscienza libera, trasgredendo i dettami della teologia morale ecclesiastica. La risposta fu un rotondo e argomentato "no" all'omologazione del pensiero e della predicazione e dell'azione della chiesa cattolica nelle procedure di vita e nei criteri di etica prevalenti nel mondo con temporaneo. E siamo sempre lì. Francesco ha governato la discussione del Sinodo straordinario dello scorso autunno con sapienza. Ha visto, osservato, considerato con attenzione quel che avevano da dirgli i fedeli, con i questionari diffusi nelle parrocchie, e i padri sinodali. Ha messo sul piatto della bilancia il

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sensus fidelium, cioè quel deposito di fede e di senso che parte dal popolo o popolo di Dio in cammino, e la funzione di madre e maestra gerarchica della chiesa, che non è un' istituzione repressiva, come pensa la subcultura laicista andante, ma è un soggetto teandrico (per metà trascendente e per metà antropocentrico) della storia del cristianesimo. Per usare termini cari al Giornalismo Collettivo, il Papa ha mediato spinte diverse: quelle che vogliono abbattere il sacramento dell'eucaristia nel suo fondamento matrimoniale (riconoscendone la legittimità per i divorziati risposati civilmente, dunque in situazione di peccato contro il precetto dei precetti contenuto nel vangelo); quelle che si oppongono a questa trasformazione della dottrina di sempre in nome della pastorale di oggi, cioè di una scelta di benevolenza verso un problema sociale diffuso, vista la condizione pietosa della famiglia e del matrimonio tradizionali. Ora si ricomincia, e si conclude, aspettando poi che sia il Papa a decidere. Ma cercando, dicono alcuni, di predeterminare il risultato della discussione; o sforzandosi, dicono altri, di impedire al Papa una decisione di rottura e di riforma. Il cardinale Müller, che è il prefetto della congregazione per la Dottrina della fede e un sobrio teologo ratzingeriano, ha detto che su questioni di questa natura si consumò cinquecento anni fa la scissione protestante, con la fatale divisione della cristianità europea, dunque bisogna fare parecchio attenzione. Il cardinale Kasper, capofila teologico dei riformisti, che aveva impostato ab origine il Sinodo sulle sue idee (e il cui rapporto segreto al Concistoro, richiesto dal Papa, fu pubblicato dal Foglio), sostiene invece che bisogna fare il grande salto e che la chiesa non reggerebbe un nuovo stallo, come al tempo della Humanae vitae. Ed è convinto, come dice a Raffaele Luise nel suo fresco e intelligente libro apologetico su Papa Francesco, appena pubblicato, che i veri nemici del Papa sono quelli, cioè noi, che dicono che "questo Papa piace troppo". Sulla questione di fondo, vedremo nel decorrere delle generazioni chi avrà avuto ragione. Ma sui nemici del Papa, parola d'onore, Kasper si sbaglia. Qui si è nemici non già del Pontefice ma del piacionismo e del dilettantismo morale che ispira l' agiografia quotidiana del Papa della misericordia: nessuno, come disse Valéry Giscard d' Estaing a François Mitterrand in un famoso dibattito televisivo, ha il "monopolio del cuore". Tantomeno i laici modernisti che chiedono alla chiesa un cristianesimo vuoto, solo del cuore e non della ragione, una fede priva di conseguenze. Pag I “Sì, sono un fondamentalista” di Matteo Matzuzzi “Sono aperto al mondo, ma insisto sulle cose fondamentali. Come l’eucaristia”. Parla il card. Raymond Burke: “La Chiesa deve essere chiara sulla sua identità” “Se per fondamentalista si intende qualcuno che insiste sulle cose fondamentali, sono un fondamentalista. Quale sacerdote, non insegno me stesso e non agisco per me stesso. Appartengo a Cristo. Agisco nella sua persona. Insegno solo quello che Egli insegna nella sua Chiesa, perché questo insegnamento salverà le anime". Il cardinale Raymond Leo Burke, canonista e da quasi un anno patrono del Sovrano militare ordine di Malta, risponde così alla domanda del Foglio se la sua nota e ripetuta opposizione a ogni mutamento della prassi pastorale in discussione in queste settimane al Sinodo sia tacciabile di "fondamentalismo". Burke dice di lasciar perdere le etichette, il cui uso "è un modo per scontare una persona e per non considerare la verità di quello che egli insegna o fa. Io sono cattolico romano, spero sempre di esserlo, e, alla fine della mia vita terrena, di morire nelle braccia della Chiesa". Da oggi è in libreria Divino Amore incarnato - La santa Eucaristia sacramento di Carità (Cantagalli), il suo ultimo libro tutto dedicato al sacramento della comunione. Scrive Burke che l' eucaristia "è un mistero di fede, che edifica la Chiesa". Un libro che, spiega, "è stato ispirato dagli ultimi anni del pontificato di san Giovanni Paolo II. Negli ultimi due anni del suo ministero petrino, il santo Pontefice ha mostrato una straordinaria preoccupazione per la perdita di fede eucaristica nella Chiesa, una situazione gravissima che egli ha affrontato già dall' inizio del suo ministero petrino. E' chiaro che al tramonto della sua stagione al Soglio di Pietro egli ha voluto affrontare ancora una volta e con grande forza la situazione, ispirando una nuova evangelizzazione sull' eucaristia quale fonte e più alta espressione della nostra vita in Cristo". Di eucaristia si discute e si duella in punta di fioretto da due anni, su libri e giornali e assemblee episcopali. Darla o non darla ai divorziati risposati è il dilemma su cui s'avviluppa il confronto sinodale, con gli schieramenti contrapposti impegnati a individuare un compromesso capace d' evitare ulteriori lacerazioni. Walter Kasper,

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teologo e cardinale tedesco cui il Pontefice ha assegnato l' onere di tenere la relazione concistoriale sulla famiglia, nel febbraio del 2014, ha ribadito di recente che non si può negare la comunione ai divorziati risposati, dal momento che l' eucaristia "è sempre per i peccatori". Burke ha le idee chiare: "La posizione del cardinale Walter Kasper non è conciliabile con la dottrina della Chiesa sulla santa comunione e sull' indissolubilità del matrimonio. Certamente, il santissimo sacramento è per i peccatori - che siamo tutti noi - ma per peccatori pentiti. La persona che vive in un'unione irregolare è legata a un altro in matrimonio, e perciò vive pubblicamente nello stato di adulterio, secondo il chiaro insegnamento del Signore nel Vangelo. Finché la persona in un'unione irregolare, cioè in un contesto contrario alla verità di Cristo sul matrimonio, non corregge la propria situazione, non può accostarsi per ricevere i sacramenti, perché non ha manifestato il pentimento necessario per la riconciliazione con Dio". Eppure se ne discute, e non sono pochi quanti vorrebbero aprire a tale possibilità, anche in nome della misericordia divina che non lascia indietro nessuno. Dice Burke: "Se la Chiesa permettesse la ricezione dei sacramenti (anche in un solo caso) a una persona che si trova in un'unione irregolare, significherebbe che o il matrimonio non è indissolubile e così la persona non sta vivendo in uno stato di adulterio, o che la santa comunione non è comunione nel corpo e sangue di Cristo, che invece necessita la retta disposizione della persona, cioè il pentimento di grave peccato e la ferma risoluzione di non peccare più". "Tristemente - aggiunge il porporato - tutta la discussione che ha seguìto la presentazione della tesi di cardinale Kasper, sia prima sia dopo l'assemblea del Sinodo dei vescovi nell'ottobre del 2014, ha già creato una grande confusione tra molti fedeli. Molti preti e vescovi mi dicono che tante persone che vivono in unioni irregolari sono convinte che la Chiesa abbia cambiato il suo insegnamento e che perciò possono ricevere i sacramenti. In una grande città che ho visitato lo scorso maggio, sul portone di una chiesa parrocchiale c'è un avviso in cui si avverte che in quella chiesa i divorziati risposati hanno accesso ai sacramenti. In certi paesi, sembra che diversi vescovi abbiano semplicemente preso la decisione di ammettere ai sacramenti quanti si trovano in un'unione irregolare". Vede confusione, Raymond Burke: "Non c'è dubbio che la confusione sia già grande, e che la Chiesa, per il bene delle anime e per la sua fedele testimonianza a Cristo nel mondo deve affermare chiaramente il suo perenne insegnamento sull' indissolubilità del matrimonio e sulla santa comunione". Il modo per riaffermare tale insegnamento, osserva, è quello di tornare con la memo ria al 2003, quando Giovanni Paolo II scrisse "una bellissima lettera enciclica sull' eucaristia, firmata il Giovedì Santo". In quel testo, "egli ha trasmesso un'istruzione della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti, in collaborazione con la Congregazione per la dottrina della fede, allo scopo di correggere i molteplici abusi nella celebrazione della Santa Messa". Ma non solo, visto che "ha anche convocato l'assemblea del Sinodo dei vescovi sull'eucaristia", evento che è stato celebrato "dopo la sua morte, sotto la presidenza di Papa Benedetto XVI. Ha anche inaugurato l'Anno dell'Eucaristia per favorire una più adeguata catechesi sulla comunione, una più viva partecipazione nel sacrificio eucaristico, e una più ardente devozione al santissimo sacramento. Papa Benedetto XVI ha proseguito su questa strada di attenzione al sacramento intrapresa dal suo predecessore, conducendo il Sinodo sull' eucaristia e scrivendo una straordinaria esortazione postsinodale, la Sacramentum Caritatis". Ed è proprio quest'ultima a ispirare, in secondo luogo l'opera del porporato americano. Il rischio di oggi, forse, è di svilirne il senso, quasi facendo apparire la comunione una routine e poco altro: "Non c'è dubbio che, per varie ragioni, il supremo bene con il quale il Signore ha dotato il suo Corpo mistico, la Chiesa, cioè il sacramento dell'eucaristia, da molti nella Chiesa non è visto nella sua realtà tremenda. Quando uno considera la verità enunciata da San Tommaso d'Aquino, secondo cui l'eucaristia contiene tutto il bene della nostra salvezza, è difficile capire come mai tanti si assentino dalla messa domenicale e tanti dichiarino di non ritenere che la sacra ostia sia il vero Corpo di Cristo". Ma c'è anche altro, come ad esempio, la difficile comprensione per quel "modo di offrire la santa messa centrato sul sacerdote e sulla congregazione anziché sulla presenza reale di Cristo, assiso alla destra del Padre in cielo, che scende sull'altare per fare presente il suo sacrificio, per offrirci di nuovo il dono di se stesso, come ha fatto per la prima volta all'Ultima Cena, anticipando la sua passione e morte per la nostra salvezza. Se uno crede veramente nel sacramento dell'eucaristia, non rinuncerà a presenziare all'assemblea eucaristica e vorrà dimostrare in modi concreti la sua fede

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tramite la dignità della celebrazione della santa messa e le devozioni eucaristiche, l'esposizione del Santissimo con la benedizione, le processioni eucaristiche, le visite al Santissimo Sacramento, atti di comunione spirituale durante il giorno, e così via". Molti anni fa, Joseph Ratzinger notava la crescente partecipazione dei fedeli alla comunione, una tendenza andatasi consolidando nel corso dei decenni. In certe realtà, come gli Stati Uniti, quasi nessuno rimane seduto al proprio posto durante il rito. Il problema, forse, sta anche nel modo in cui si insegna il Catechismo? "Secondo me - dice il cardinale Burke - la principale causa della perdita di fede eucaristica e di tutte le offese offerte al Signore nella sua presenza reale nel santissimo sacramento è una catechesi vacua e perfino erronea che ha pervaso la Chiesa negli Stati Uniti per almeno gli ultimi quarant'anni. Non posso pronunciarmi sulla situazione della catechesi in altri paesi. Già al tempo della mia ordinazione, nel 1975, ho scoperto che i testi di catechesi sull'eucaristia erano gravemente mancanti. Ho insegnato ai bambini, preparandoli per la prima comunione e ho dovuto - fronteggiando anche la resistenza di certi catechisti - lavorare molto per insegnare loro la dottrina essenziale sull' eucaristia e il dovuto comportamento al momento della santa comunione e davanti al santissimo sacramento. Mi ricordo che, nel primo anno, quando domandai ai candidati per la prima comunione che cosa è la sacra ostia, la risposta comune (imparata dai testi della catechesi) fu che è 'pane speciale'. Quando ho tentato di precisare che, se anche la sacra ostia ha l'apparenza di pane, non è più pane ma il corpo di Cristo, i bambini rimanevano stupefatti: era una cosa che non avevano mai sentito". Il fatto - aggiunge il porporato americano - "che alcuni, e forse molti, genitori non insegnassero a casa la verità sull'eucaristia e non assistessero regolarmente alla messa domenicale, ha aggravato sempre di più l'ignoranza della fede eucaristica. Negli Stati Uniti si dice con una certa frequenza che più del cinquanta per cento dei cattolici non crede più nella presenza reale. Ma questo è il cuore della fede cattolica. Chi non crede più nella presenza reale non è più cattolico. La situazione è grave e non può essere corretta se non attraverso una catechesi completa e ripetuta - lungo gli anni dell' infanzia e della gioventù, e anche per gli adulti con l'omelia domenicale - sulla ricchezza della dottrina sull'eucaristia, sul modo di celebrare la santa messa che evidenzia l'azione di Cristo tramite la persona del sacerdote che guida i fedeli nel sacrificio eucaristico. Una catechesi necessaria anche in riferimento alla devozione eucaristica che è stata sviluppata in modo straordinario lungo i secoli cristiani, come Papa Benedetto XVI sottolinea nell' esortazione postsinodale Sacramentum Caritatis". Un esempio può essere dato dall'Africa, dove la Chiesa è giovane e dinamica e i numeri delle conversioni sono straordinari se paragonati a quelli dell'occidente stanco e sempre più secolarizzato? A giudizio del cardinale Burke, "come già il beato Paolo VI ha insistito e come san Giovanni Paolo II ha ripetuto durante tutto il suo lungo pontificato, la Chiesa nei paesi del cosiddetto 'primo mondo' ha urgentemente bisogno di una nuova evangelizzazione, cioè di insegnare, celebrare e vivere la fede cattolica con l'entusiasmo e l'energia dei primi cristiani e dei primi missionari. La Chiesa giovane e vivace in Africa, per esempio, ci insegna tale entusiasmo e energia fondati sicuramente nell' insegnamento apostolico e nella disciplina che lo salvaguarda e promuove". Burke torna al Sinodo di un anno fa, dove "si insisteva sull'ammissione ai sacramenti per persone che vivono in un'unione irregolare e sulla necessità per la Chiesa di modificare il suo approccio riguardo le coppie che convivono - che non sono sposate ma che vivono in modo coniugale - e a persone dello stesso sesso che vivono una liaison omosessuale. Secondo me - osserva il cardinale - questa insistenza fondamentalmente sbagliata è ispirata da una falsa comprensione del rapporto tra la fede e la cultura. Se la Chiesa deve andare incontro alla cultura, andare alle periferie, come Papa Francesco ci ha frequentemente esortato, questo incontro con la cultura può essere salutare e fruttuoso solo se la Chiesa agisce e parla con la chiarezza e limpidezza congrua alla sua identità divina e umana. Se la Chiesa non è chiara sulla propria identità e su quello che ha da offrire alla cultura, rischia di contribuire alla confusione", e questo è "l'errore che sta distruggendo la cultura in molti paesi". Invece - chiosa Burke - "il suo incontro con la cultura deve essere l'occasione per la riforma della cultura stessa. Cristo, quando ha incontrato la Samaritana al pozzo di Giacobbe, è stato sì molto accogliente ma ha parlato chiaramente a lei sul grave disordine dei suoi molteplici matrimoni e dei requisiti inerenti al culto di Dio 'in spirito e verità'". Il nostro interlocutore ripercorre i recenti viaggi in Africa e Asia, compreso quello recente in Sri Lanka: "Sono rimasto molto

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colpito dalle manifestazioni di fede profondamente cattolica, specialmente di fede eucaristica. Era evidente come i fedeli non avessero gli occhi oscurati o accecati dalla secolarizzazione, che non ha niente da fare con la fede perché è fondamentalmente - come ha affermato Papa Giovanni Paolo II - un modo di vivere come 'se Dio non esistesse'. Invece, la fede vissuta con chiarezza e limpidezza illumina le ombre della secolarizzazione e ispira una trasformazione". Qualche giorno fa, il Foglio ha ospitato un intervento del filosofo Stanislaw Grygiel, allievo e per molti anni consigliere di Giovani Paolo II. Grygiel sosteneva che al Sinodo è in gioco la natura sacramentale della Chiesa. Burke osserva che "quando i farisei hanno tentato di ingannare Gesù con la domanda sulla possibilità per gli sposati di divorziare, egli ha risposto insistendo che Dio dall' inizio (dalla Creazione) ha fatto uomo e donna per partecipare, tramite la loro unione fedele, duratura e procreativa, la loro una carne, al suo amore divino che è fedele, duraturo e generativo di nuova vita umana. Cristo ha reso chiaro che egli non è venuto nel mondo per cambiare la realtà matrimoniale come Dio Padre l'ha costituito dall'inizio del mondo, bensì per restituirla alla sua verità, bellezza e bontà originale. Per la sua passione, morte, risurrezione e ascensione, Cristo ha elevato il sacramento naturale, quale partecipazione dell' Amore divino, al sacramento soprannaturale, conferendo sugli sposati la grazia di vivere fedelmente, sino alla fine, la verità del loro stato matrimoniale". "Se la Chiesa cambiasse l'insegnamento sull'indissolubilità del matrimonio sacramentale", dice Burke, "significherebbe attaccare il matrimonio quale sacramento naturale; il matrimonio come Dio l'ha creato dall'inizio". Quanto alle critiche che spesso gli sono rivolte, di essere indisponibile a ogni apertura verso le realtà concrete che trascendono l'astratta dottrina, Raymond Burke sorride: "Sono del tutto aperto al mondo e sono pieno di compassione per la situazione del nostro mondo, che è confuso e in errore sulle più fondamentali verità: l'inviolabilità della vita umana, l'integrità del matrimonio e il suo frutto incomparabile, la famiglia, e la libertà religiosa quale espressione del rapporto insostituibile dell'uomo con Dio. Per questo motivo, vado incontro al mondo con la vera compassione che offre al mondo la verità nella carità. Ho scoperto, durante i quarant'anni del mio sacerdozio, che quello che l'uomo (anche secolare) attende da un prete è Cristo, la sua verità, il suo amore. Un prete che - di fronte alla situazione della cultura odierna - non annuncia con chiarezza la verità, non pratica la carità pastorale e manca nella testimonianza inerente al suo ufficio". LIBERO Intrighi per screditare i cardinali anti Papa di Antonio Socci La lettera dei cardinali al Papa contro l'imbavagliamento del Sinodo e contro le tesi dei modernisti bergogliani è un fatto clamoroso, anche per l'autorevolezza delle firme. Ma quello che è accaduto poi per screditarla e mettere in ombra i suoi esplosivi contenuti, va raccontato. Anzitutto si è fatta passare quella Lettera come il sintomo di un clima da congiura da parte dei cosiddetti «conservatori», ovvero i cattolici. Marco Tosatti, vaticanista serio e indipendente, ha giustamente notato che una lettera privata al Papa, firmata con nomi e cognomi, è la cosa più trasparente, leale e coraggiosa che si sia vista di questi tempi in Vaticano (considerato che lo stesso Bergoglio - a parole - chiede franchezza). È l'opposto esatto di una congiura. Ma - come dice Tosatti - «ha fornito un'occasione d'oro ai numerosi laudatores di gridare alla fronda e al complotto». Mentre si apprende - dal giornale tedesco Tagepost - che casomai, a proposito di cose nascoste, è papa Bergoglio a Santa Marta a fare un suo «Sinodo parallelo» e riservato per pilotare quello ufficiale. L'elemento che ha scatenato la confusione è stata la smentita di quattro su tredici cardinali firmatari. Cosa è accaduto? Il cardinale Pell, uno dei firmatari, lunedì sera, tramite un portavoce, ha confermato che la lettera è stata sottoscritta da lui ed altri cardinali, ha aggiunto che era privata e non è stata diffusa da loro, inoltre ha spiegato che nel testo della lettera reso noto da Magister ci sono «errori sia nel contenuto che nella lista dei firmatari». Lunedì notte si apprende che la rivista dei gesuiti degli Stati Uniti, America, di orientamento progressista, conferma che la lettera è stata davvero firmata da tredici cardinali, tutti padri sinodali, e dà l'elenco con quattro nuovi nomi, quelli giusti, al posto dei quattro sbagliati che avevano smentito. Inoltre la rivista dei gesuiti accredita il testo pubblicato da Magister e così pure La Naciòn di Buenos Aires con un articolo di Elisabetta Piqué, la quale è biografa e amica personale di papa

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Bergoglio ed ha fonti molto attendibili. Ieri sera dunque Magister ha firmato un nuovo articolo dove - citando queste autorevoli conferme - ribadisce che tredici sono i cardinali firmatari (ricostruisce l'elenco corretto, ma pare che uno si sia sfilato) e il testo è quello da lui pubblicato, anche se la lettera effettivamente consegnata al Papa può «includere qualche minima variante. Di forma, non di sostanza». Col polverone mediatico che è stato sollevato si è fatto perdere di vista l'essenziale: l' eccezionalità di un documento firmato da autorevoli cardinali, in rappresentanza di molti padri sinodali, nel quale si demolisce l'Instrumentum laboris (quello dove Bergoglio aveva fatto inserire i punti che non erano stati approvati dal Sinodo del 2014 e che erano i più controversi). Nella Lettera dei cardinali inoltre si criticano le nuove procedure che imbavagliano (e tentano di pilotare) il Sinodo in corso e si esprime preoccupazione perché la Commissione che deve stilare la «Relatio» finale non è stata eletta dai padri, ma nominata per intero da Bergoglio (tutte persone a lui gradite). Inoltre la Lettera esprime la preoccupazione per un Sinodo che era stato convocato da Benedetto XVI in difesa della famiglia e poi è finito ad accapigliarsi sulla comunione ai divorziati risposati, cosa che, se fosse accettata, farebbe crollare tutta la dottrina del matrimonio e dei sacramenti. A conclusione della lettera c'è anche un monito drammatico che - sia pure con linguaggio rispettoso - suona l'allarme dicendo che alla fine della strada intrapresa da Bergoglio, a imitazione delle chiese protestanti europee, c' è «il collasso» cioè la fine della Chiesa. Il cardinale Pell, nella dichiarazione dell'altroieri, ha dato altre due notizie importanti su quello che sta accadendo. La prima corrisponde esattamente a quanto domenica scrivevamo su queste colonne, ovvero che la linea Kasper (Bergoglio) è in minoranza. Dice infatti Pell: «C'è grande accordo sulla maggior parte dei punti, ma ovviamente c'è qualche disaccordo perché una minoranza di elementi vuole cambiare l'insegnamento della Chiesa sulle dovute disposizioni necessarie per la ricezione della Comunione. Naturalmente non esiste una possibilità di cambiamento della dottrina». L'altra notizia data da Pell, sia pure in linguaggio felpato, è questa: «Rimangono delle preoccupazioni fra i Padri sinodali circa la composizione del comitato di redazione della Relatio finalis e sul processo attraverso il quale sarà presentato ai padri sinodali e votata». La controversia adesso è tutta su questo. Il motivo è semplice, anche se non viene mai detto. L'intento, ormai chiaro, di Bergoglio è spingere il Sinodo verso le conclusioni che vuole lui per avere una qualche legittimazione a introdurre nella Chiesa le idee di Kasper, sia pure in forma camuffata, come ha introdotto il divorzio con il Motu proprio. Per questo Bergoglio, nei giorni scorsi - scoprendo che il Sinodo è in maggioranza cattolico - ha incredibilmente messo in dubbio la «Relatio finalis» che pure stava scritta in tutti i programmi ufficiali come esito del Sinodo. Visto lo sconcerto che ha suscitato il cambio delle regole a Sinodo in corso, l'altroieri, tramite padre Lombardi, ha fatto sapere che la «Relatio finalis» ci sarà, però deciderà Bergoglio cosa farne e se pubblicarla. Si è poi appreso che probabilmente non sarà una «Relatio» analoga a quella degli altri Sinodi dove si votano le singole preposizioni, ma un testo vago da votare in blocco, prendere o lasciare. Un modo per mettere con le spalle al muro la parte cattolica, facendo un generico riferimento alla «misericordia» che poi potrebbe essere interpretato come un via libera alla «rivoluzione». In realtà bisognerebbe ricordare che - a meno che non voglia cadere in eresia e così decadere - nessun Papa ha il potere di ribaltare la Legge di Dio e la dottrina cattolica. Anzi, come fu spiegato da un autorevole cardinale al Sinodo del 2014, quegli argomenti su cui oggi si dibatte - essendo già stati solennemente definiti dalla Chiesa, sulla base delle Sacre Scritture - non potevano e non dovevano nemmeno essere messi in discussione. Perché - contrariamente a ciò che molti credono - il Papa non può fare ciò che vuole. Come affermò Benedetto XVI alla messa d'insediamento sulla Cathedra Romana, il 7 maggio 2005: «Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell'obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all' obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo. (...) Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella

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sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode». Questa è la retta interpretazione del «potere di sciogliere e di legare» che Cristo ha dato a Pietro, versetto evangelico che in questi giorni è stato impropriamente evocato dal partito bergogliano, quasi che permettesse al Papa argentino di fare quello che vuole. Il Venerabile Pio Brunone Lanteri, che pure era un grande difensore del papato, lo spiegava chiaramente in un suo libro: «Mi si dirà che il S. Padre può tutto, "quodcumque solveris, quodcumque ligaveris etc." è vero, ma non può niente contro la divina costituzione della Chiesa; è vicario di Dio, ma non è Dio, né può distruggere l'opera di Dio». ITALIA OGGI Anche il Papa di fronte a un bivio di Gianfranco Morra Mentre il Sinodo continua le sue discussioni, tenute segrete, viene pubblicato nelle cinque principali lingue europee un libro dedicato a Matrimonio e famiglia (in Italia, Editrice Cantagalli, pag. 192, euro 15), che esprime la posizione dell'ala tradizionalista del Sacro Collegio. Vi hanno contribuito 11 cardinali di tutto il mondo: Caffarra (Bologna), Cleemis (India), Cordes (Germania), Duka (Praga), Eijk (Utrecht), Meisner (Colonia), Onaiyekan (Nigeria), Ruini (Roma), Sarah (Guinea), Urosa Savino (Caracas) e Varela (Madrid). Non appare giusto parlare di una posizione inconciliabile con quella del papa. Le due proposte, non si distinguono per la teologia, ma per la pastorale. Nessuno, né il papa e i suoi vescovi, né i cardinali conservatori hanno mai messo in dubbio i princìpi del matrimonio eterosessuale, aperto alla procreazione e indissolubile. Il problema è un altro: viviamo in un mondo in cui il cristianesimo è ormai minoranza; e chi si dice cristiano ha spesso uno stile di vita in contrasto con le norme tradizionali; e anche quando rifiuta per sé le condotte sinora dette anticristiane (aborto, unioni senza matrimonio, divorzio, omosessualità, eutanasia) non di rado le ammette per gli altri. In una simile situazione che cosa deve fare la Chiesa? La pastorale austera di Pio XII non appare più fertile, ma anche la via media di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, un aggiornamento che non toccasse la tradizione, non ha dato frutti rilevanti. Il piano inclinato della scristianizzazione non si è mai arrestato. Papa Francesco lo sa bene e propone una via nuova. Il «deposito della fede» vale anche per lui, ne parla il meno possibile, perché sa che i dogmi in cui l'uomo di oggi crede, non sono quelli della Chiesa, ma quelli della cultura «debole, del superficiale e dell'effimero» padrona dei mezzi di comunicazione, cioè il relativismo morale. Il suo grimaldello è l' apertura ai costumi dell' uomo attuale, presentata come «misericordia», in quanto sa che, per essere apprezzato, il messaggio cristiano deve farsi anch' esso «debole», cioè aperto comprensivo tollerante buonista, non deve giudicare lo spirito del tempo, ma capirlo e aggiungervi un «supplemento di anima». Tutti gli studi sociologici sulla religione mostrano che il tecnopolitano, l'uomo dei social network, vuole una religione «alla carta», che offra un conforto alle sue paure, ma non gli imponga sacrifici e rinunce. Una religione di diritti, non dei doveri, della visibilità più che della riflessione, della fede più che del ragionamento. La Chiesa non può accettare certo questa tendenza, ma deve cercare una strada per essere ascoltata anche da questo tipo di umanità. Deve «aggiornarsi», ma senza divenire una semplice cassa di risonanza di un mondo postcristiano. Gli undici cardinali temono che questa disinvoltura pastorale finisca per mettere la religione al servizio di una società postcristiana. Cosa propongono? Non è facile sintetizzare una mole così ampia di considerazioni. È possibile tuttavia indicare alcuni punti comuni a tutti, dentro il tentativo di «trovare un equilibrio tra premura pastorale e fedeltà alla dottrina» (Cordes): 1. tutti riaffermano le caratteristiche del matrimonio cristiano: unione tra uomo e donna finalizzata anche alla procreazione e indissolubile; 2. occorre spogliare il rapporto con divorziati, risposati, omosessuali di ogni durezza e intransigenza, «le porte della Chiesa devono essere aperte a tutti» (Varela), «tutti debbono essere aiutati a partecipare alla sua vita» (Ruini); 3. ma questa doverosa apertura trova il suo limite nel carattere soprannaturale del sacramento, che impedisce la partecipazione di divorziati, risposati e conviventi alla Eucaristia; 4. «lo stile di vita omosessuale è incompatibile con una normale vita cristiana» (Onaiyekon). Il card. Caffarra condivide l'immagine di papa Francesco che la Chiesa è un ospedale, ma chiarisce che «una misericordia senza conversione è una pietà sbagliata di un medico

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incompetente, che fascia le ferite senza curarle». L'arcivescovo di Bologna sottolinea che la conversione implica necessariamente il riconoscimento della colpa e la decisione di cambiare vita, è qualcosa che nasce nell'intimo. Chi vincerà? Ce lo insegna la storia. Divergenze e conflitti hanno costellato la storia della Chiesa. Ieri come oggi. Ma il Sinodo non è un Concilio, «non deve decidere la comunione ai divorziati o il tema della omosessualità» (Urosa Savino), ma solo suggerire metodi pastorali adatti ai tempi. Certo, come sempre, l'ultima parola sarà del Papa. Egli sa già cosa deve fare ed ha organizzato il Sinodo, nelle presenze e nei metodi, per favorire la sua linea. Bergoglio voleva col Sinodo sensibilizzare i cattolici e ricevere indicazioni sulle tendenze oggi prevalenti nella Chiesa. Purtroppo la «novità» del suo papato ha messo in moto conflitti e contestazioni fra due anime diverse. E anche esibizioni sessiste, nel clero più che nei laici, poco confacenti al costume ecclesiale. D' altra parte in ciò che il Papa chiama innovazione non pochi scorgono l' operazione retrograda di salire sul treno sconquassato della modernità postcristiana. Due indiscrezioni sono trapelate sui media: 1) papa Francesco aveva programmato tre giorni per redigere una relazione finale e votarla, ora sembra che non ci sarà; 2) una lettera di cardinali, forse 13, ha riaffermato le tesi degli undici e lamentato il metodo dei lavori del Sinodo: i compiti affidati per nomina e non per elezione, le procedure imposte dal papa per configurare risultati predeterminati, la mancata pubblicizzazione delle discussioni. Tutte ragioni che chiedono, per il momento, di non spingere troppo il pedale sulle aperture pastorali magnificate. Forse è il momento della cautela e dell'attesa. IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag VII Messa per i 100 anni di monsignor Capovilla: “Ricordo quando portavo gli articoli al Gazzettino” di r.br. Il telefono che squilla di continuo, le lettere e i messaggi che si accavallano. Sono in tanti, anche da Venezia, che in queste ore vogliono fare gli auguri al cardinale Loris Capovilla, che oggi compirà 100 anni. A noi che l’abbiamo contattato, nella sua casa a Sotto il Monte, il paese natale di Giovanni XXIII, ha ricordato il legame che a Venezia ebbe anche con il Gazzettino. «Venivo una sera sì e una no a portare le notizie, che poi pubblicavano. Lo chiamavano, per scherzo, il Gazzettino delle serve e invece ha servito Venezia» spiega, commuovendosi quando ripensa all’aiuto che dal giornale ebbe anche padre David Maria Turoldo. Uno dei tanti ricordi degli anni veneziani di questo sacerdote straordinario, memoria storica di Papa Roncalli, a cui fu a fianco come segretario per dieci anni, prima in quelli del patriarcato (1953-1958), poi in quelli del pontificato (1958-1963). Nato a Pontelongo (Padova), Capovilla arrivò a Mestre già nel ’29. A Venezia frequentò il seminario patriarcale e nel ’40 venne ordinato sacerdote. I primi incarichi furono a San Zaccaria e in Curia. Catechista nelle scuole medie e superiori, cappellano tra gli operai di Porto Marghera, ma anche nel carcere minorile e all’ospedale degli infettivi, dopo la guerra fu scelto come predicatore domenicale a Radio Venezia. Nel ’49 divenne direttore del settimanale diocesano "La voce di San Marco", fino all’incontro con Roncalli. Insomma una storia ricca, quella veneziana, che ha lasciato tanti segni. Non a caso, oggi, i 100 anni di monsignor Capovilla saranno ricordati anche a Venezia dall’associazione "I ragazzi di don Bepi" con una messa celebrata, all’Angelo Raffaele, alle 18, dal patriarca Francesco Moraglia. LA NUOVA Pag 1 Divorziati, il contrasto nel Sinodo di Ferdinando Camon Anzitutto, un “dibattito” così aspro, nella Chiesa, è una novità. Finora la Chiesa era un blocco unico: «Roma locuta, causa finita» (quando Roma ha parlato, non c’è più da discutere), e per Roma s’intendeva il Papa, perché «ubi Papa, ibi ecclesia» (dov’è il Papa, lì è la Chiesa). Adesso la Chiesa ha diverse opinioni. E il Papa, prima di parlare, chiede consiglio a tutti. È il Papa argentino che porta questo sconquasso, perché non è un Papa europeo, non ha della Chiesa la concezione di “monarchia teocratica assoluta elettiva”, dove, una volta espletate le elezioni, l’eletto esercita un potere assoluto: lui tende a tornare alla fonte consultiva. I nemici della sua modernizzazione dicono: «Ci vorranno quaranta papi per ricostruire ciò che questo Papa distrugge». Ma i fautori del

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cambiamento rispondono: «Dopo questo Papa, non saranno più possibili papi come i precedenti». Il che significa: la svolta di papa Francesco è irreversibile. Vediamo cosa questa svolta comporta, nei temi che agitano la società. Sui gay, la svolta va misurata partendo dalla condanna di Pio X. Nel catechismo di Pio X, sul quale ha studiato la mia generazione, c’era la sequenza dei cosiddetti «peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio». Erano sette. I primi due erano questi: «Omicidio volontario, Peccato impuro contro natura…». Il «peccato impuro contro natura» era l’omosessualità, che veniva messa accanto all’omicidio volontario. Per i papi prima di Francesco, l’omosessuale è un assassino. Arriva Francesco e dichiara: «Chi sono io, per giudicare un gay?». È una rivoluzione totale. Da seguire, per alcuni. Da rifiutare, per altri. I quali insorgono: «Ma come, chi sei tu? Tu sei il 266° successore di Pietro, il quale era il primo vicario di Cristo. Non solo “puoi” parlare di queste cose, ma “devi”». Francesco ha una concezione “misericordiosa” della colpa, ma la Chiesa che eredita aveva una concezione “condannante”. Il dissidio interno al Sinodo, che deve discutere anche della comunione ai divorziati, nasce da qui. Non sappiamo tutto, perché non trapela tutto. Sappiamo che alcuni cardinali hanno firmato una lettera da consegnare al Papa, nella quale lamentano che il testo-guida che dovrebbe incanalare la discussione dei padri sinodali sia troppo avanzato e troppo vincolante. I cardinali firmatari temono che dal sinodo emerga una concezione “misericordiosa” verso chi rompe il matrimonio, che invece è un sacramento e come tale incancellabile, se non dalla morte. A quanto par di capire, il fronte degli oppositori di papa Francesco non è unitario, perché a firmare la lettera sarebbero stati in 13, ma a confermare la firma sarebbero adesso in nove. Gli altri quattro (tra cui l’arcivescovo di Milano e il cardinale di Parigi) lamentano che la lettera, che è stata pubblicata da Sandro Magister, vaticanista dell’Espresso, sul suo sito, non è più quella che loro avevano letto. Il che fa pensare che l’opposizione a papa Bergoglio non ha un testo-base irremovibile, ma lo cambia. Conta però che questa opposizione ci sia e venga allo scoperto. Apparentemente, è uno scontro sulle procedure. In realtà, è uno scontro sulla dottrina. Se lo scontro sulla dottrina ha i suoi fronti nella visione “condannante” del divorzio e nella visione “misericordiosa”, è interesse dell’umanità che prevalga la seconda. Perché nella seconda c’è la concezione che se a divorziare sono due, può darsi che la colpa sia di uno. E non necessariamente di quello che vuol divorziare. Nel matrimonio, un coniuge può patire disagio, ma può darsi che a produrlo sia l’altro. La Chiesa non include ancora questo punto, ma non c’è mai arrivata così vicino. Pag 36 Un messaggio d’amore nei cento anni di Loris Capovilla di Francesco Dal Mas “Gioia e forza”, il messaggio del Patriarca «Sono contento di essere vissuto in questo mondo». Il decano della Chiesa italiana parla, si confida quasi. Lo fa con un profugo. Con Issa, venuto dal Mali, accolto nella Comunità Villa San Francesco di Facen di Belluno fondata dall’allora patriarca di Venezia - poi papa Giovanni XXIII- Angelo Roncalli. Loris Capovilla, il più anziano vescovo e cardinale d’Italia, compie oggi cento anni. E ha scelto di festeggiarli così, accanto ai profughi, nella sua casa di Sotto il Monte. «Issa, che Dio ti benedica» dice al ragazzo, abbracciandolo. Issa non è cristiano, ma quell’abbraccio contiene tutto. Rivolgendosi, poi, agli altri profughi e immigrati, arrivati da lui accompagnati da Aldo Bertelle direttore della Comunità, l’ex segretario di San Giovanni XXIII dice: «Amo il vostro paese, penso alla vostra mamma, penso alla vostra giovinezza. Avrete molte difficoltà ma se siete fedeli a Dio avrete anche qualche consolazione. Siamo tutti fratelli». Nato a Pontelongo, in provincia di Padova, il 14 ottobre 1915, orfano del padre a sette anni, trasferitosi con la madre e la sorella a Mestre nel ’29, Capovilla è stato ordinato prete il 23 maggio 1940. La prima esperienza pastorale lo segna profondamente: è cappellano a Marghera, nel carcere minorile e all’ospedale degli infettivi. Durante la seconda guerra mondiale presta servizio militare in Aviazione. Poi, per oltre un decennio, dal 15 marzo 1953 al 3 giugno 1963, è segretario particolare di Angelo Giuseppe Roncalli, prima quando questi, appena creato cardinale, è nominato patriarca di Venezia; dalla sera del 28 ottobre 1958 diventa direttore collaboratore del papa, Giovanni XXIII. E lo rimane, fino alla sua morte, attraversando quindi la storica esperienza del Concilio Vaticano II che rinnova profondamente la Chiesa. Capovilla diventa vescovo di Chieti nel 1967, poi passa a

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Loreto. Alle dimissioni, nel 1988 a 73 anni, va ad abitare a Sotto il Monte Giovanni XXIII, in provincia di Bergamo, paese natale di Roncalli. È qui che il 12 gennaio 2014 accoglie, con sorpresa, la nomina a cardinale. Ed è qui che l’altra sera ha ricevuto Bertelle e i suoi ragazzi. A loro, in qualche modo, ha scelto di dettare il suo testamento: «C’è una sola famiglia umana, io non sono italiano e sono cittadino del mondo, come te, caro Issa» ha detto abbracciando il giovane profugo. «Solo che io ormai ho finito la mia corsa e tu la comici. Dai il tuo contributo per la civiltà dell’amore perché non ce ne è un’altra, non c’è la civiltà della tecnica, della potenza o delle armi. A me sono tanto cari i miei fratelli cristiani, lo so, ma lo sono ugualmente nella stessa misura, mi sono cari tutti gli uomini e donne di questo mondo. Sono contento di essere vissuto in questo mondo. Nel ricordo di tutta la mia vita non ho visto mai una persona antipatica, una patria che non mi piace. Tutto quello che è della creazione è dono di Dio. In ognuno di noi c’è qualcosa di buono; se ognuno di noi è buono sono contento, ma se non è buono è sempre mio fratello lo stesso, gli voglio bene. Lo tengo per mano stretto a me e camminiamo insieme verso la civiltà dell’amore». A chi gli chiede se nei suoi cento anni si sente ancora ottimista, Capovilla risponde: «Scusa, come posso essere pessimista io, dopo aver incontrato uomini come papa Giovanni, Paolo VI, gli altri papi, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati, Giuseppe Dossetti, Alcide De Gasperi, Aldo Moro. No, non siamo allo sbando. La nostra storia è storia di bellezza, di verità, di giustizia e di amore. Noi intendiamo ancora calcare queste orme. E andare ben oltre». Oltre, verso un nuovo umanesimo. «In comunione con gli uomini e donne di buona volontà appartenenti a tutte le nazioni» dice «io mi frammischio come un amico e sento che davvero con l’apporto di migliaia di donne e uomini di ogni stirpe, camminiamo verso l’unità più piena della famiglia umana; un solo Padre, un solo Redentore, una sola Madre santissima, un solo Pastore universale, un solo sguardo rivolto verso i cieli eterni». È da oltre 50 anni che “don Loris”, come continuano a chiamarlo a Venezia, intrattiene una relazione specialissima con i veneti della Comunità di San Francesco, dove ha benedetto la Madonna dell’Inutile, protettrice di quelli che papa Francesco chiamerebbe «gli scarti»: «Se il Signore vi concede la grazia di conservare lo spirito di semplicità, di umiltà, del pane quotidiano onestamente anche sudato, dei buoni rapporti con chi sia, della preghiera generosa per tutti, del perdono di quelli che ci fanno soffrire, se conservate questo spirito» così si rivolge loro «avete salvato voi stessi e procurerete per quelli che verranno dopo di voi l’impegno a continuare questo inizi di ciò che è un piccolo fiore di campo, non pretende di più, un piccolo seme, sì ma il seme però è una speranza di vita. Oggi, domani, dopodomani, godremo insieme di questa fioritura, di questa maturazione, di questo trionfo, non delle nostre piccole persone ma del messaggio di Gesù “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”». È sempre stato molto forte, quasi viscerale, il legame tra don Loris e la sua terra anche se il tempo e la missione lo hanno portato lontano. E il suo Veneto oggi lo festeggerà, seppur a qualche distanza, con la messa del patriarca di Venezia, monsignor Francesco Moraglia, questa sera alle 18 nella chiesa dell’Angelo Raffaele a Dorsoduro, a Venezia. «La sua capacità di colloquiare, di dialogare e di trovare sempre punti d’unione ci conforta e rappresenta per tutti noi un modo di essere prete attualissimo», riconosce Moraglia che poi gli partecipa gli auguri di tutta Venezia: «Auguri, eminenza, da parte di noi veneziani, che ci uniremo nella preghiera nel giorno del suo centesimo compleanno, chiedendo al Signore che dia al carissimo Loris Capovilla tanta gioia e tanta forza per testimoniare ancora che la vita cristiana è qualcosa che non finisce mai di appagare». Forte, ma anche struggente il legame di Capovilla con la sua terra. Così scriveva, a proposito del suo paese di origine, Pontelongo: «La prima volta che sono andato nel mio paese ed ho visto le strade asfaltate, i casolari che non c’erano più (quando la gente viveva sotto il tetto di paglia), sostituiti da belle villette, con un piccolo giardino, ho pianto dalla consolazione. Ma sempre mi risuonano nelle orecchie, e nel cuore soprattutto, le parole del vecchio parroco, che mi diceva: “Monsignor, è vero, ghemo caminà, ma el prega Dio che già chi i gà un poco de benesere no i buta in sofita el catechismo che mi i ghe gò insegnà”. Ecco la nostra grande preoccupazione: son contento che tu stia bene, che tu viva meglio, che tu vada a scuola, che tu prenda anche la laurea, ma il mio parroco desiderava che altrettanto fosse bella, pura, la loro anima, e

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dolce il loro legame familiare, e su questo sappiamo che non mancheranno difficoltà, intoppi, arresti, paralisi, ma sempre ci si riprende». Torna al sommario 5 – FAMIGLIA, SCUOLA, SOCIETÀ, ECONOMIA E LAVORO AVVENIRE Pag 1 Il dovere di agire ora di Francesco Soddu Contro la miseria e l’esclusione «Nella prosperità l’uomo non comprende». Il salmo 49 con straordinaria chiarezza ricorda un tipico meccanismo umano: ogni qualvolta una persona o un gruppo raggiunge un certo livello di benessere rischia di essere risucchiato da questa condizione, allontanando lo sguardo da quanti vivono condizioni di difficoltà o, peggio, disprezzandoli. È la condizione di Lazzaro, nella nota parabola del Vangelo di Luca, la cui sorte è, per il ricco Epulone, destinata al servaggio, fissata nella sua separatezza e inferiorità anche nella vita ultraterrena. Ogni tempo corre questo rischio: considerare le condizioni di povertà destino o scelta, quindi non meritevoli di attenzione, al massimo – come scriveva lo storico polacco Geremeck – di pietà o di forca. Oggi alla pietà si è sostituito un linguaggio a volte melenso o impreciso, mentre alla forca è subentrata una diffusa cultura del sospetto. Atteggiamenti che suonano paradossali in un’Italia incapace da anni di perseguire – sul serio – fenomeni quali la estesa corruzione di ampie quote delle proprie classi dirigenti e la massiccia evasione fiscale. Queste ragioni sarebbero già sufficienti per sperare che un Paese che cerca di cambiare direzione di marcia, lo faccia anche nell’ambito della lotta alla povertà; ma se a questo si aggiunge un solo dato – derivato dalle statistiche ufficiali – relativo al raddoppio dal 2007 a oggi delle persone in condizioni di povertà assoluta, penso che nessuna persona in buona fede possa affermare che questo fenomeno non sia una priorità per l’Italia. Non più un milione e 700mila persone, ma quattro milioni vivono condizioni di povertà grave; non solo al Sud, anche nel Nord operoso' e produttivo, non solo anziani e condizioni di precarietà tradizionali, ma famiglie con minori, per lo più con alle spalle storie di lavoro e di cosiddetta normalità. Molte di queste persone non usciranno da sole da una povertà effetto della crisi: alcuni settori produttivi del nostro Paese non ripartiranno rapidamente e non torneranno agli stessi livelli occupazionali di alcuni anni fa. Alcune condizioni soggettive – le persone con oltre cinquanta anni di età, i lavoratori con basse qualifiche o inseriti in ambiti territoriali che ancora oggi non sono usciti tecnicamente dalla crisi – sono tali da rendere illusorio che moderati aumenti di prodotto interno lordo provochino per loro chissà quali esiti positivi in termini di occupazione. Non si tratta di essere gufi o cicale, ma guardare con realismo, passione e rispetto le condizioni di chi fa più fatica: è quello che faremo il prossimo 17 ottobre a Milano, con la presentazione del Rapporto povertà 2015. I dati che emergono da 1.197 Centri d’ascolto in 154 diocesi fotografano tra l’altro un aumento degli italiani tra quanti chiedono aiuto e un incremento dei bisogni alimentari. Basti pensare che solo nel 2014 nelle mense Caritas sono stati distribuiti oltre 6 milioni di pasti. Ma il Rapporto racconta anche un pezzo d’Italia pieno di dignità, di nostri vicini di casa, di nostri concittadini che lottano ogni giorno con coraggio e determinazione per non fare sprofondare se stessi e i propri cari nella disperazione e nella miseria, che cercano vie di uscita, che sperano di costruire un futuro per i propri figli. Per queste persone il 14 ottobre l’Alleanza contro la povertà a Roma ripeterà l’invito al Governo a operare per una misura strutturale e universale di lotta alla povertà assoluta, riproponendo il Reddito di inclusione, un mix di sostegno al reddito delle famiglie povere insieme a forme di accompagnamento territoriali e sussidiarie, tali da farle uscire da questa condizione che erode dignità e futuro. Il Governo ha annunciato un intervento per i bambini poveri nella prossima legge di stabilità; ci augureremmo che venisse non solo definita, ma che fosse una misura che va nella direzione auspicata: una misura strutturale di contrasto all’esclusione delle famiglie con minori, prima fase di un piano di contrasto alla povertà assoluta, di cui annunciare poi tempi, modalità, risorse. Un Paese che riparte davvero riparte con tutti, senza rimozioni, senza esclusioni.

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CORRIERE DEL VENETO Pag 1 Generazione di fantasmi di Vittorio Filippi Giovani, il fenomeno Neet «Ghost», fantasma, spettro. Così si chiama l’ultima ricerca condotta in Italia sui cosiddetti Neet, un acronimo inglese per indicare quei giovani che non studiano più, non cercano un lavoro, non imparano un mestiere. Insomma dei giovani «sdraiati», come li chiama il romanzo di Michele Serra. O dei fantasmi, come propone il titolo della ricerca. Una condizione giovanile che sta divenendo evanescente non solo per motivi demografici: con la denatalità ovviamente i giovani si riducono. E non solo per le nuove emigrazioni verso quell’estero che tira, soprattutto verso Germania e Regno Unito (lo scorso anno sono stati quasi 9 mila gli espatriati dal Veneto). Ma anche a causa di questo esercito crescente di giovani detti (fin troppo) sinteticamente Neet, ma che qualcuno chiama più prosaicamente fannulloni collegandoli, ad esempio, alle recenti difficoltà di reclutare manodopera per l’Expo milanese o a trovare il personale estivo per gli hotel veneziani. In realtà, dice la ricerca, il problema è duplice. Da un lato, complice la recessione che ha tagliato opportunità e speranze, il loro numero è cresciuto del 19 per cento dal 2008. Arrivando ad essere il 26 per cento del totale, contro il 15 per cento medio europeo. Solo la Grecia fa peggio di noi, ma ciò certamente non consola. Il Veneto registra un 18 per cento di Neet, come la Lombardia. Meglio di noi solo il Friuli ed il Trentino, ma anche questo non è di grande consolazione. L’altro aspetto è quello più psicosociale. Perché questi giovani Neet abitano in due grandi aree. La prima è quella della vera e propria marginalità, con una carriera fatta di bocciature, problemi a casa, povertà di stimoli, perfino rischi di micro illegalità. L’altra è una zona grigia fatta di piccoli errori – come l’inviare i curricula nei posti sbagliati – e di continue delusioni conseguenti. Il risultato è la sfiducia, la rassegnazione, l’arretramento. Lo svanire dalla vita sociale, perfino dai network come Facebook. Come fantasmi appunto, giustificando così il titolo dell’indagine. Due precisazioni. La prima è che c’è anche una «meglio gioventù» fatta di ragazzi e ragazze che si danno da fare, che hanno ambizioni e voglia di mettersi alla prova, di osare. Molti di questi vanno all’estero perché hanno capito che la globalizzazione migliore è quella che fa girare i talenti più ancora delle merci. La seconda precisazione è che la ricchezza principale di un giovane è la vocazione, più ancora forse del lavoro stesso. Perché con la vocazione l’identità di sé si definisce, si sa cosa si vuole (e non si vuole) e si possono trasformare i sogni in desideri, i desideri in progetti ed i progetti in realtà. Altrimenti i sogni abortiscono negli errori e nell’inconcludenza. Tutte cose che fanno male all’economia, ai genitori ed ai giovani. Soprattutto. IL GAZZETTINO Pag 1 Una scelta che non è nemica del fisco di Oscar Giannino Il presidente del Consiglio ieri ha compiuto uno di quei gesti che lasciano senza parole i suoi avversari e il suo stesso partito. Ha annunciato che nella legge di stabilità il governo eleverà il tetto all’uso del contante da mille a tremila euro. Non ha fatto solo l’annuncio, l’ha argomentato. Sapendo bene di affrontare un totem sacro al mantra della lotta all’evasione fiscale e al riciclaggio dei capitali sporchi, ha toccato entrambi gli argomenti. «Non credo che la lotta all’evasione si conduca più efficacemente vietando i contanti piuttosto che con le tecnologie dell’informazione e la piena tracciabilità dei pagamenti», ha detto il premier. E ha aggiunto una frase che contiene un messaggio politico: «Basta con la lotta all’evasione impostata sul terrore, abbiamo bisogno di consumi e che chiunque possa pagare in contanti 3mila euro non si senta più inibito a farlo, perché se il problema sono i controlli, abbiamo già altri strumenti per farli». Da un punto di vista liberale, la proposta non fa una piega e merita un applauso. E il governo in realtà si era già impegnato nello scorso giugno in Parlamento a farlo con un ordine del giorno della maggioranza. Ma una cosa è dirlo in un ordine del giorno, altra è assumersi direttamente la paternità di proporlo in legge di stabilità. E a questo punto la vera cosa da fare è spiegare perché si tratta di una decisione giusta, sapendo che le resistenze saranno fortissime. In Europa, il tetto a mille euro era condiviso dall’Italia e dal solo Portogallo, alla cui compagnia si è recentemente aggiunta la Francia. Persino in Grecia il tetto è più

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alto, a 1500 euro. In Germania e Olanda non c’è mai stato. In Danimarca supera i 13mila euro. Ora bisogna rispondere a chi è fortemente convinto che il tetto al contante sia una forma necessaria per arginare l’evasione. Ed è una risposta che si articola in tre considerazioni. La prima: chi difende il tetto dimentica che dal 2014 l’Agenzia delle Entrate ha cominciato a entrare in possesso telematicamente entro il 20 aprile di ogni anno di tutti i nostri rendiconti relativi all’anno precedente (rendiconti bancari, dei conti correnti e di deposito, carte di credito e di debito, fondi comuni d’investimento, ecc.). L’Agenzia delle Entrate oggi sa tutto di noi. Al punto tale che, grazie a una norma sciagurata approvata nella finanziaria 2005 presentata da Berlusconi, cominciò subito a fare accertamenti a lavoratori autonomi e professionisti che, prelevando contante, non erano in grado di documentarne al centesimo l’utilizzo e soprattutto i diretti beneficiari, presumendo che si trattasse di somme usate per pagamenti in nero. C’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale, nell’ottobre 2014, per bloccare l’Agenzia dal considerare come pagamenti in nero sanzionabili i prelevamenti di contante effettuati da lavoratori autonomi senza indicazione del beneficiario. Gli strumenti telematici dunque esistono eccome. Secondo: in realtà i bassi limiti all’uso del contante ottengono un effetto paradossale, molto diverso da chi li concepisce come strumenti anti-evasione. Complicano la vita solo a chi si fa scrupolo di rispettare gli obblighi tributari, mentre gli evasori regolarmente se ne infischiano. Se il lavoratore dipendente o il pensionato dovessero accogliere la proposta di un idraulico, o proporre all’idraulico stesso, di evitare fattura e Iva pagando in contanti, non sarà il tetto basso di legge a fermarli. Nel caso di stranieri che nel loro tour in Italia vogliano comprare capi di moda o gioielli italiani fasci di banconote alla mano, gli obblighi di segnalazione all’Antiriciclaggio ottengono solo due effetti: o rinunciano all’acquisto e ci facciamo del male da soli, oppure il venditore evita la fattura, il pagamento è in nero e il tetto basso al contante ottiene l’effetto di incentivare proprio l‘evasione contro la quale nasce. Terzo: usare di più la moneta elettronica è una battaglia di civiltà, ma passa per un’altra strada. Tra i Paesi avanzati, l’Italia ha i più bassi tassi di regolazione dei pagamenti con moneta elettronica, e i più alti livelli di residenti senza conti bancari o postali. È chiaramente un segno di arretratezza. Ma deriva dalla bassa persistente integrazione verticale e orizzontale di intermediari finanziari con imprese ed enti che offrono beni e servizi, e dalle ancora elevate spese di commissione che gli intermediari finanziari e i gestori dei sistemi di pagamento chiedono a chi si serve dei Pos. La via per abbattere questi ostacoli è quella che abbassa il digital divide, stimola fiscalmente gli operatori a una cooperazione meno onerosa con i consumatori, spiana i residui ostacoli alla concorrenza, abbatte i rischi di truffa che anche nei pagamenti elettronici esistono eccome. Il tetto al contante non c’entra nulla con tutto questo. Eppure, ne siamo certi, le polemiche ora avvamperanno. Ci sarà chi dice che Renzi è di destra, e che è amico degli evasori. Ma il punto è invece tutt’altro. Liberarsi da inutili e controproducenti vessazioni è un passo avanti per un fisco meno basato su presunzioni teoriche di evasione, e finalmente più ancorato alla possibilità pratica di accertamenti basati su realtà fattuali. Non è evasione, è civiltà. Torna al sommario 7 - CITTÀ, AMMINISTRAZIONE E POLITICA IL GAZZETTINO DI VENEZIA Pag IV Belli: «Venezia mostra la metà dei suoi tesori» di Paolo Navarro Dina La direttrice dei Musei civici alle prese con la vendita dei quadri pensata dal sindaco e con l’incognita di un nuovo presidente Gabriella Belli, direttrice dei Musei civici, è appena tornata dagli Stati Uniti. E una volta giunta a Venezia si è trovata in mezzo alla questione Klimt-Chagall lanciata negli scorsi giorni dal sindaco Luigi Brugnaro. Tutto a pochi giorni dal rinnovo del consiglio di amministrazione della Fondazione previsto per venerdì prossimo nel quale si dovranno stabilire i nuovi assetti dell’ente dopo l’addio improvviso del presidente Walter Hartsarich, che ha restituito il mandato al primo cittadino. Un fulmine a ciel sereno dopo un anno di proroga dell’incarico assegnato dall’allora commissario prefettizio Vittorio Zappalorto.

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Dottoressa, quadri in vendita davvero o provocazione per attirare l’attenzione su Venezia? ? «Speriamo proprio di no. Sono sicura che verrà trovata una soluzione alternativa alla crisi che attanaglia il Comune di Venezia. Ho l’impressione, e sono convinta, che il sindaco abbia voluto lanciare un Sos giusto e sacrosanto. Ma allo stesso tempo dico che non possiamo permetterci di perdere questi capolavori». Ne è proprio sicura? «Non posso far altro che crederlo». Intanto solo una parte del patrimonio artistico è in mostra. Molto materiale della Fondazione è custodito nei magazzini... «Abbiamo dei depositi che contengono numericamente molte opere, ma dobbiamo dire che non abbiamo capolavori nascosti. Non ci sono un Tiziano o un Canaletto in soffitta. Va ricordato che il 50 per cento di sculture e dipinti è in esposizione, ben il doppio, ad esempio, per Prado a Madrid che si ferma al 25 per cento di opere esposte. É altresì vero che i nostri depositi sono ricchissimi di materiali del settore Arti Applicate (fotografie, vetro, bronzetti, ceramica, etc,) frutto di un collezionismo di fine Ottocento. Il nostro impegno è quello di esporre più materiale possibile anche nei prossimi anni». A che punto è il progetto del Correr come museo della città? «Stiamo lavorando ed è lì che intendiamo "mescolare" il patrimonio culturale veneziano con un nuovo percorso museale. E finalmente mostrare anche materiale inedito, soprattutto delle raccolte fotografiche. Senza contare le collezioni numismatiche e la medaglistica. Ci auguriamo che questo progetto possa andare in porto al più presto». Poi però se si pensa di vendere... «Tutto il materiale è di proprietà pubblica. Piuttosto sono disponibile a valutare nuove possibiltà espositive...». Sarebbe a dire? «Ad esempio, se ce ne fosse le possibilità, si potrebbe ragionare anche su un loro trasferimento in terraferma. In una sede appropriata in grado di dare sostanza ad una nuova proposta culturale». Sta pensando all’M9 a Mestre in fase di costruzione? «Anche sì. E nulla vieta che anche lì possano essere esposti capolavori custoditi nelle sedi veneziane. Può essere un’occasione nuova di espansione». Intanto in questi giorni si rilancerà anche il museo del Merletto di Burano. «Verrà aperta una nuova sezione che conterrà le opere del glorioso Premio Burano, 35 quadri che ora si trovano nei depositi dei Musei civici e che raccontano la storia gloriosa della scuola pittorica dell’isola». Dottoressa e se, alla fine, i famosi quadri venissero venduti? «Non credo. Io inviterei il sindaco a guardare altrove. Ad esempio nel settore turismo. Ci sono possibilità molto più concrete per cercare di racimolare soldi». CORRIERE DEL VENETO Pag 10 Grandi navi, restauri, manutenzioni. Ultimatum all’Unesco: servono fondi di Gloria Bertasi Incontro con gli esperti: “Governo assente”. Il sindaco: ma fate qualcosa per Venezia? Venezia. Il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro che fa scattare la polemica, i colleghi di Chioggia e Quarto d’Altino che snocciolano un lungo elenco di problemi del territorio e la Curia che fa notare quanto lavoro ci sarebbe da fare a tutela del suo incommensurabile patrimonio. Il primo giorno di visita dell’Unesco è stato innervato dalle polemiche. «L’Unesco fa qualcosa per Venezia? Serve a qualcosa? Altrimenti mi tolgo via», avrebbe detto Luigi Brugnaro in apertura dei lavori ieri mattina a Ca’ Farsetti. E come va dicendo da mesi a tutti (un esempio, a Elton John, in piena polemica sui libri gender, ha cinguettato su Twitter «fuori i soldi») ieri il primo cittadino avrebbe chiesto all’Unesco di contribuire concretamente alla salvaguardia della città. In risposta, gli esperti dell’organizzazione avrebbero fatto notare - il condizionale è doveroso, l’incontro era a porte chiuse e i rappresentanti dell’agenzia non rilasciano al momento dichiarazioni - che l’Unesco, tramite e insieme ai Comitati privati, ha contribuito a centinaia di restauri. Oltre ai sindaci della laguna, ieri all’incontro c’erano la Regione Veneto, il Porto, la Soprintendenza, il Provveditorato alle opere pubbliche (ex Magistrato alle acque), il

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Patriarcato e il Comitato di pilotaggio che ha redatto il piano di gestione del sito Unesco della laguna di Venezia. L’appuntamento, iniziato alle 9 e conclusosi alle 12.30 (ma Brugnaro è uscito poco dopo le 10.30), aveva l’obiettivo di fotografare la situazione della laguna a 360 gradi con approfondimenti su salvaguardia, manutenzioni, Mose e grandi navi. La visita della delegazione segue un documento molto pesante di raccomandazioni inviato due anni che la mette in mora Venezia chiedendo azioni circostanziate a tutela di monumenti e ambiente per continuare ad essere un sito protetto e riconosciuto. L’esito di incontri e sopralluoghi sarà valutato in separata sede: «Adesso stiamo ascoltando, poi diremo la nostra», si limita a dure il rappresentante di Icomos, ossia il consiglio internazionale che si occupa di monumenti e siti protetti. «Il sindaco di Venezia ha animato il dibattito con una forte sollecitazione - ha spiegato il sindaco di Quarto d’Altino Silvia Conte - ravvivando fin da subito il dibattito». Critico anche il primo cittadino di Chioggia Giuseppe Casson: «L’organizzazione ci esorta, ad esempio, a risolvere il problema del passaggio delle grandi navi a San Marco e in canale della Giudecca - ha spiegato - ma sarebbe il caso che esortasse lo Stato italiano a fare il suo dovere, sulle crociere ogni decisione spetta al governo, che ha competenza anche sulla Legge speciale». Don Matteo Caputo, responsabile dei Beni culturali e monumentali del Patriarcato, ha spiegato quanto sia difficile mantenere chiese e altri edifici senza avere fondi pubblici. Di fronte a tante proteste per il mancato finanziamento della Legge speciale, il provveditore Roberto Daniele ha difeso Roma. «E’ vero che mancano i finanziamenti ma lo Stato ha finanziato il progetto del Mose», ha riferito Casson. Prima di lasciare la seduta, Brugnaro avrebbe dato qualche segnale di speranza con il governo impegnato ad inserire qualche provvedimento per Venezia nella legge di stabilità. La missione conoscitiva dell’Unesco prosegue fino a domenica, oggi, in mattinata, è fissato un incontro con il Corila, nel pomeriggio con il Porto con cui è previsto un sopralluogo alla Marittima e al terminal di Fusina. La giornata di giovedì sarà tutta dedicata al Mose e ai lavori del Provveditorato. Venerdì sarà affrontato il problema del turismo a palazzo Ducale e alle valli da pesca. Sabato gli esperti saranno nei Comuni della gronda. LA NUOVA Pag 19 Brugnaro all’Unesco: “Dateci risorse” di Alberto Vitucci Faccia a faccia in municipio tra il sindaco e la delegazione venuta a decidere se Venezia rispetta le direttive di salvaguardia Brugnaro di fronte agli ispettori Unesco. Incontro brusco e con qualche tensione. «Se non siete qui per aiutarci non serve», è sbottato a un certo punto, «Venezia ha bisogno di risorse. Siete in grado di destinarle alla città?». Alla fine cordiale, con la foto tutti insieme. E l’appello di Brugnaro all’organizzazione internazionale: «Aiutateci a convincere anche il nostro governo che la città ha bisogno di risorse». Il sindaco ha fatto un po’ di fatica a trattenersi quando la delegazione degli ispettori dell’Unesco – venuti in città per verificare se siano state rispettate le indicazioni date lo scorso anno – ha illustrato la sua idea per risolvere il problema delle grandi navi. E gli ispettori hanno ribadito il concetto: «Per restare nei siti Unesco dei luoghi riconosciuti come «Patrimonio dell’Umanità», Venezia deve invertire la rotta. Non solo quella delle navi, togliendo al più presto le crociere da San Marco. Ma anche quella dell’invasione del turismo, uno dei maggiori problemi della città, visitata nel 2015 da 30 milioni di persone. «Venezia è una città viva, dobbiamo difendere i posti di lavoro», ha detto Brugnaro nella sua arringa appassionata. Gli ispettori, che per tradizione sono riservati e silenziosi, hanno espresso alla fine un apprezzamento per la passione e la chiarezza con cui Brugnaro ha esposto le sue idee. Ma ribadito il concetto: in laguna non si possono scavare nuovi canali. E la valanga dei turisti va subito regolata. Visita di una settimana, iniziata ieri, che proseguirà nei prossimi giorni con sopralluoghi in laguna e incontri con i sindaci della gronda, con una visita al Porto e una conferenza – oggi pomeriggio – nella sede dell’Unesco di palazzo Zorzi a Castello. La delegazione dell’Unesco, composta di 13 persone tra cui tre ispettori, ha incontrato ieri mattina nella sala giunta di Ca’ Farsetti anche alcuni sindaci del Veneziano, dirigenti del Porto, del Magistrato alle Acque e della Soprintendenza e del Patriarcato. Anche la Curia ha battuto sul tasto dei finanziamenti. «Non abbiamo risorse per restaurare il nostro immenso patrimonio». La visita di ieri della cosiddetta «Missione di Valutazione» ha il fine appunto di valutare se qualche

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intervento sia stato messo in atto per invertire la tendenza. «Grandi opere, troppi turisti e canali impattanti che mettono a rischio la sopravvivenza futura della delicata città d’acqua», era stato il richiamo lanciato esattamente un anno fa nella Conferenza di Doha. In febbraio era arrivata la «diffida». Un allarme ripreso poi dal rappresentante per l’Italia del’Unesco Philippe Pypaert. Procedura avviata, dunque. E se Venezia non farà qualcosa, rischia davvero di essere depennata dai siti Unesco. Ecco allora i sopralluoghi, che preludono al verdetto finale. All’incontro di ieri il Comune non aveva invitato le associazioni ambientaliste, in testa Italia Nostra che svolge da anni un lavoro di primo livello nella difesa della città. I commissari hanno rimediato, convocando le associazioni per domani. Pag 22 “Caso migranti? Ogni Comune dovrebbe ospitarne poche decine” di Vera Mantengoli Landini (Fiom): accoglienza, solidarietà e diritti per tutti. L’esperienza dell’Home Restaurant alla Cita Venezia. Il mondo si cambia a partire dalla propria quotidianità, «cercando di far tornare i nostri luoghi come luoghi per far stare bene le persone». Come? Andando per esempio all’ “Home Restaurant”, il locale con cuochi rifugiati e senza tetto, allestito nella parrocchia della Resurrezione alla Cita di Marghera o provando a coltivare un orto di condominio. Piccole azioni, capaci di rompere i più grandi pregiudizi. È questa la sfida lanciata ieri da Maurizio Landini, segretario generale Fiom e fondatore del movimento “Coalizione sociale”. Il sindacalista dei metalmeccanici Cgil era a Venezia per l’assemblea regionale «Migranti. Accoglienza, solidarietà, uguaglianza e diritti per tutti», al liceo artistico Guggenheim con interventi di Don Nandino Capovilla, Giuseppe De Marzo di “Libera” e della sociologa di Ca’ Foscari Iside Gjergji. «Quando è scoppiato il fenomeno e la polemica sui migranti», ha sostenuto Landini nell’Aula Magna piena di lavoratori, qualche studente, «sono andato subito a guardare i numeri e si tratta di qualche centinaio di migliaia di persone e basterebbe che ognuno degli 8000 comuni italiani si facesse carico di un po’ di queste persone, ponendo le basi per una nuova cultura sociale». Molte le iniziative nel territorio che sono state citate (l’orto sinergico alla Cita, lo Spazio Compiti per aiutare i bambini, l’Associazione Rafiki di medici), tante quelle che potrebbero essere migliorate. «Abbiamo tantissime iscrizioni per i corsi di italiano», ha spiegato l’insegnante di Marghera Roberto Ulargiu della Flc Cgil, «ma non ci sono le aule e pochi insegnanti. Siamo in cinque per 80 persone alle medie e una maestra per 140 iscritti alle elementari, non possiamo fare lezioni a tutti perché non c’è spazio». È proprio in queste realtà simbolo d’integrazione che Landini vede il seme positivo per un cambiamento radicale della società: «Bisogna diffidare da chi cerca di semplificare tutto», ha aggiunto, «ma capire che siamo di fronte a una cultura della complessità che può avere dei momenti di conflitto, ma essere utile per ricreare relazioni tra le persone e far capire che da soli non si va da nessuna parte. Rafforzare le scuole popolari, per esempio, dove cercheremo di intervenire». La sfida della quotidianità è stata raccontata da don Capovilla, che ha messo a disposizione la parrocchia per il ristorante e per una barberia gratuita per i più poveri: «Quando si interviene nella quotidianità», ha sottolineato parlando della sua esperienza alla Cita, «non si incide subito nei processi globali, ma si inverte la rotta delle famiglie. Quando la cameriera Laura ha il coraggio di invitare a uscire i suoi clienti che non volevano essere serviti da un collega nero, sta compiendo un’azione contro gli stereotipi e di Laura ce ne sono tante. Queste sono le pratiche che servono per non cedere alla rassegnazione e per cambiare il sistema». Piccole azioni, ma molto utili a colmare quelle diseguaglianze sociali che, come ha descritto De Marzo, sono in aumento e hanno come risultato lo sgretolamento della collettività. Torna al sommario 8 – VENETO / NORDEST IL GAZZETTINO Pag 12 Veneto, scuole di arabo crescono di Alberto Terasso

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Sarebbero ormai un centinaio: si studia la lingua e il Corano Corsi di lingua araba? Certamente, ma con indicazioni che potrebbero vanificare l’iniziativa rivolta ai figli degli immigrati. Il sindaco di Santa Lucia di Piave, Riccardo Szumski, ha dettato le sua condizioni per la scuola indirizzata ai bambini residenti nel comune, che frequentano la scuola dell'obbligo, ma non conoscono l'alfabeto arabo: le lezioni devono essere tenute da insegnanti donna, il crocifisso deve rimanere appeso, se presente, e le classi di alunni siano miste. Al di là della sospetta intenzione polemica, la presa di posizione deve fare i conti con un fenomeno che segue, nei numeri, le tendenze migratorie. Sarebbero quasi un centinaio le «scuole di arabo» nell’area compresa tra Padova, Venezia e Treviso, come dice Abdallah Khezraji, vice presidente della commissione regionale per l’Immigrazione. «Si può dire che in ogni luogo in cui si trova una concentrazione di arabi - spiega - si cerca di promuovere una scuola di arabo». Un numero importante, si obietta. «Perché mai? - replica Khezraji - Non c’è niente da nascondere: mica insegniamo terrorismo». Il motore sta nei centri islamici, poi si organizzano le varie associazioni o i volontari: all’insegnamento della lingua, si affianca un «accesso più diretto al Corano», come spiega don Bruno Baratto, della Pastorale per le migrazione della diocesi di Treviso. Ma il religioso non azzarda numeri: il censimento è impossibile, non si può stabilire «quante sono le associazioni e con che estensione agiscono». A Santa Lucia l’organizzazione è dell’associazione culturale Albaraka. Ma qual è la reazione ai cosiddetti «paletti» invocati dal sindaco Szumski. Il crocifisso? «Se è già lì, non è un problema. Se lo faccio in un altro luogo non vedo perché dovrei essere obbligato a mettercelo», spiega Khezraji. Le insegnanti donna? «A Montebelluna ce ne sono già tre che insegnano l’arabo ai bambini». Le classi miste? «Ci mancherebbe altro...» e lo dice sorridendo. Tutto risolto, quindi. Nemmeno per sogno. Il percorso ad ostacoli ideato dal sindaco Szumski ha altri passaggi: è disposto a concedere i locali per le lezioni di domenica mattina a pagamento e a patto che i testi siano unicamente di grammatica «e con stile occidentale». La replica di Khezraji è dura: «Con tutti i problemi che ci sono - dice - questa è una politica disperata». E ricorda che se i figli degli immigrati si sentono discriminati, si rischia una radicalizzazione alla francese, dove alcune frange sono diventate integraliste. Il primo cittadino, però, non transige «Crediamo che con cittadini che vivono regolarmente nel nostro territorio, vi lavorano e pagano le tasse - spiega - questo sia il corretto metodo di rapportarsi: patti chiari, rispetto certo, integrazione sicura». Siamo ben lontani da un’iniziativa della comunità cinesi che, a Padova, ha dato vita un paio d’anni fa alla prima Scuola internazionale italo-cinese. Qui siamo all’esaltazione dell’integrazione: sei ore di cinese e sei di italiano, matematica, storia, geografia, persino educazione civica nelle due lingue, con la dichiarata intenzione condividere e integrare le due culture. Che poi alla scuola cinese le lezioni abbiano inizio alle 8.15 e finiscano alle 7 di sera e che dalle 7.50 alle 8.15 debba leggere un libro in italiano sono elementi per una riflessione sulla nostra organizzazione scolastica e sui tanti primati cinesi. Torna al sommario … ed inoltre oggi segnaliamo… CORRIERE DELLA SERA Pag 1 Ma la paura non è una colpa di Aldo Cazzullo Gli italiani e i migranti La paura forse non è la più nobile delle attitudini; ma non è una colpa. Non va alimentata e usata, come fa la Lega. Ma non va neppure negata e rimossa, come fa la sinistra e anche una parte del mondo cattolico. La paura si vince rimuovendone le cause. Oggi molti italiani hanno paura delle migrazioni non perché siano ostili alle persone dei migranti, ma perché vedono che l’emergenza è gestita male, e soprattutto non ne vedono la fine. L’impressione è che il governo e gli enti locali stentino a organizzare sia l’accoglienza, sia i rimpatri; e soprattutto non riescano a disegnare un orizzonte che dia ai cittadini quella sicurezza anche psicologica senza cui l’integrazione resta utopia. Il tentativo di coinvolgere l’Europa sta dando i primi risultati. Ma gli italiani sanno che le

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guerre civili nel Nordafrica e in Medio Oriente non sono affatto finite, che per stabilizzare l’area serviranno anni se non decenni; e non intravedono ancora né le regole né le azioni che consentano di salvare i profughi, sottraendoli ai trafficanti di uomini, e di selezionare all’origine i «migranti economici», distinguendo le figure professionali di cui l’Italia ha bisogno dalla massa che andrebbe fermata o rimandata indietro. I migranti non arrivano in un Paese prospero, coeso, sereno. Si affacciano in un’Italia che vive un vero e proprio dopoguerra. La crisi ha lacerato in modo devastante il tessuto industriale e sociale, soprattutto al Nord, soprattutto in provincia. Le reazioni emotive di fronte a migranti che non si sono ancora neppure visti, come nel paese rosso di Badia Prataglia sull’Appennino toscano, e gli scontri tra i parroci che li accolgono e i sindaci che li respingono, come a Bondeno, in riva al Po, non sono conseguenze del razzismo, ma dell’insicurezza. Che cresce proprio perché nella discussione pubblica non viene considerata, bensì liquidata con un’alzata di spalle o uno sguardo di commiserazione. Sui media tende a prevalere una visione irenica e spensierata dell’immigrazione, tipica di un’élite per cui gli stranieri sono colf a basso costo e chef di ristoranti etnici; tanto i figli vanno alla scuola internazionale, e i nonni nella clinica privata. L’immigrazione può rivelarsi un sollievo per il sistema produttivo, ma comporta un prezzo, tutto a carico delle classi popolari, chiamate a combattere ogni giorno una guerra tra poveri per il posto all’asilo, il letto in ospedale, la lista d’attesa al pronto soccorso, e pure la casa e il lavoro. Certo, alle società esangui e anziane d’Europa servono le energie formidabili che salgono dalle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo. Ma non è forse cinica la logica di rimpiazzare con i nuovi venuti i bambini che gli italiani non fanno più, anziché sostenere la maternità o almeno mettere in condizione le donne di scegliere liberamente? Anche sull’apporto dei migranti all’economia è nata una retorica, ridimensionata sul Financial Times da Martin Wolf, editorialista britannico orgogliosamente figlio di profughi: per coprire i buchi del welfare e della previdenza l’Europa dovrebbe accogliere in pochi anni decine di milioni di stranieri. Che non sbarcano nelle vaste praterie deserte d’America, ma in Paesi - come il nostro - montuosi e densamente antropizzati, cioè popolati da secoli non solo dall’uomo e dalle sue opere ma da memorie e culture, retti su equilibri precari da ricostruire ogni volta. Così diventano simboli anche l’altalena contesa nel giardino di Padova chiuso tra il campo profughi e l’asilo, o la rivolta di Gorizia in difesa del parco che custodisce i segni drammatici della sua storia, trasformato in bivacco. C’è da essere orgogliosi del modo in cui molti italiani stanno reagendo. Volontari laici e cattolici fanno un grande lavoro, spesso sopperendo alle lacune della pubblica amministrazione. E gli uomini in uniforme continuano a salvare vite, dovere giuridico e morale che in nessun caso può mai venire meno. Ma lo Stato, insieme con gli altri Paesi europei, deve fare molto altro: alleggerire il peso che grava sulle nostre frontiere, organizzando il viaggio dei profughi e il respingimento dei clandestini; e far funzionare la macchina dell’integrazione, legando i diritti ai doveri, che comprendono la conoscenza e il rispetto dei nostri valori, a cominciare dall’uguaglianza tra uomo e donna. Forse don Abbondio aveva torto: il coraggio uno se lo può dare. A patto di rispettare la paura ed eliminarne le ragioni. Pag 1 Una vittoria con paracadute di Francesco Verderami Sì al nuovo Senato Il Senato non ha riscritto solo la Costituzione, ha descritto un altro mondo: ecco la nuova Yalta della politica italiana. Il voto sulle riforme disegna due blocchi contrapposti e in mezzo una sorta di no fly zone , un’area cuscinetto, dove si scorgono le rovine del vecchio patto del Nazareno. Certo, il fatto che la fine del bicameralismo non sia frutto di un accordo tra forze di maggioranza e opposizione bensì l’esito di un conflitto, contrasta con l’idea che due anni e mezzo fa ha dato vita alla legislatura costituente. Ma da allora molte cose sono cambiate, compreso il governo, e non c’è dubbio che da allora le riforme sono diventate (anche) un terreno di lotta politica. Così sul campo si contano vincitori e vinti, che già si preparano alla sfida referendaria, dove i comitati del sì e quelli del no - attraverso il voto dei cittadini - tenteranno di definire le future frontiere. Intanto Renzi ha ottenuto ieri dal Senato - grazie a un’ampia maggioranza - una rinnovata legittimazione, una sorta di fiducia costituzionale, tappa fondamentale per portare a compimento il suo ambizioso disegno: sancire la fine del bicameralismo paritario, tenere

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a battesimo la nuova Repubblica e infine guidarla. Ma l’esito non è scontato. Arrivato un anno e mezzo fa al governo con l’ostilità del Palazzo e il consenso sostanziale della gente, ora ha conquistato il Palazzo perdendo però un po’ di smalto presso l’opinione pubblica. Il punto è che Renzi - presentatosi alla guida di una cordata di innovatori - ora rischia di essere vissuto come il capo di un nuovo establishment . E per quanto le Amministrative non rappresentino un test politico, in quel voto si riverseranno anche gli umori di un Paese che è solito cambiar verso rapidamente nei riguardi di ogni premier. Perciò non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione popolare sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un paracadute, in un’occasione di rivincita e di rinnovata legittimazione al cospetto degli italiani. È vero, la sfida decisiva verrà alle Politiche, lì si vedrà se il leader democratico avrà saputo intercettare gli italiani. Ma il passaggio del referendum sarà dirimente, perché servirà a formalizzare i confini della nuova Yalta o a decretarne l’immediato fallimento. Al referendum si misurerà la forza d’urto dei Cinquestelle e dei leghisti, che certo non si giocavano la loro partita in Parlamento. Con i comitati per il sì al referendum si capirà se i centristi di Alfano - che sulle riforme hanno visto riconosciuta la ragione sociale del loro partito - sapranno aggregarsi insieme ad altri e costruire un campo più largo, elettoralmente attrattivo. È il referendum che chiarirà le sorti di Forza Italia, divisa ieri nel voto al Senato e schiacciata sotto il peso di vecchie contraddizioni e del giovane alleato leghista. Renzi si avvia ad intestarsi la paternità della Terza Repubblica, che poggia però su basi ancora da consolidare. C’è un motivo quindi se Napolitano, che delle riforme è stato patron e architetto, ha esortato il premier a porvi rimedio oltre che attenzione. Il presidente emerito della Repubblica non ha inteso criticare la mancanza di qualità lessicale, che pure emerge dalla lettura delle nuove norme costituzionali, ma ha centrato il suo discorso in Aula su aspetti da correggere per spazzar via ogni accusa e timore sull’imprinting della Carta. È vero che le riforme sono come delle Formula 1, che nessun test in galleria del vento né simulazione al computer può anticipare la bontà di un progetto: che - insomma - bisogna girare in pista, cioè far entrare a regime una legge per provarla. Ma un sistema che per molti versi è presidenziale senza formalmente esserlo, ha bisogno di essere temperato, e Napolitano ha individuato nella legge elettorale il punto su cui intervenire. Possibile che Renzi non faccia tesoro del suggerimento? Perciò, piuttosto che lasciare l’Aula in segno di ostilità verso l’ex capo dello Stato, il gruppo di Forza Italia avrebbe fatto meglio ad ascoltarlo, perché Napolitano ha sollevato - a suo modo - lo stesso identico problema posto dal capogruppo Romani a più riprese. Peccato: è stato un altro segno di come le riforme siano state usate in base alla convenienza politica del momento. E in questo caso non ci sono vincitori e vinti. Pag 1 Il verdetto del buon senso: non doveva arrivare fin lì di Giangiacomo Schiavi Lombardia, tangenti sulla Sanità, agli arresti il vicegovernatore Di un assessore con «spiccata capacità criminale», come scrive il giudice nell’ordinanza d’arresto ci sarebbe poco da dire: non doveva arrivare in quel posto. Di un’amministrazione che ne fa il responsabile della Sanità e il vicepresidente della Regione Lombardia c’è molto da obiettare. Con la scia degli intrighi affaristici lasciati dalla giunta Formigoni, il blitz di ieri appare come il segnale evidente di una maldestra continuità. Valgano per Mario Mantovani, ex senatore, ex plenipotenziario lombardo di Forza Italia, ex assessore alla Sanità, i discorsi fatti in questi casi per ogni indagato: aspettiamo che le accuse della Procura siano provate o smentite. Ma dietro una vicenda che riporta indietro le lancette della questione morale anche al Nord e riunisce il Paese in una sfilza di piccole e grandi ruberie, c’è il disorientamento dei tanti cittadini che si stanno rimboccando le maniche tra tagli e sacrifici e cercano di uscire dal pantano della crisi. È difficile spiegare, a chi non ha attenuanti se sbaglia una lettera su un modulo fiscale o non viene perdonato se paga un bollettino in ritardo, che un politico, un pubblico ufficiale che dovrebbe essere al servizio della comunità, «ha una propensione alla violazione delle regole», trucca le aste, briga per gli appalti, usa i suoi poteri per interessi personali, traffica per sistemare i suoi sodali. È difficile chiedere il rispetto delle regole se chi dovrebbe dare l’esempio è il primo a violarle, facendo prevalere attraverso

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il potere della carica il particulare di guicciardiniana memoria, ostentando perfino il proprio conflitto di interessi (Mantovani è il fondatore della Cooperativa Sodalitas, che si occupa di residenze per anziani). La Regione Lombardia è di nuovo epicentro di corruttele e non ci sono modelli da esportare, come voleva il presidente Maroni. C’è soltanto imbarazzo, mentre le opposizioni chiedono le dimissioni della giunta e si affaccia l’ipotesi di elezioni anticipate. Il segretario della Lega, Matteo Salvini, parla di giustizia a orologeria: «I fatti si riferiscono al periodo tra il 2012 e il 2014. Chi sbaglia paga, ma nulla succede per caso», dice. Anche le dimissioni di Mantovani però non sono un caso. È stato dismesso dall’incarico appena in tempo, prima che venisse arrestato da assessore: sembra quasi che la maggioranza di centrodestra se l’aspettasse, che non fosse neanche troppo nascosta una certa propensione all’uso privato del ruolo pubblico. E che ruolo: l’assessorato alla Sanità in Lombardia è un ministero che gestisce l’80 per cento del budget regionale, 18 miliardi, un settore cruciale per la vita dei cittadini, oggi al centro di una riforma contestata e passata a maggioranza. Un assessorato che si vorrebbe vedere pulito ed efficiente dopo gli scandali e gli sperperi del passato, guidato con onestà e trasparenza e non visto come una greppia per dividere appalti, destinare fondi agli amici, nominare direttori o primari secondo uno schema monotono e ripetitivo, mascherato dalle parole di circostanza a ogni convegno: parole come onestà, merito, umanizzazione che, a dispetto di medici e infermieri che ci credono, non corrispondono poi ai fatti. Il caso non riguarda soltanto Mantovani: le accuse di corruzione, concussione e turbativa d’asta riguardano anche un assessore della Lega, Massimo Garavaglia, direttori di Asl e funzionari della Regione. Tutti erano attesi ieri mattina a un convegno nella nuova sede della Regione. Titolo: trasparenza e legalità. Due parole che nell’interpretazione della politica molto spesso hanno un senso opposto a quello che gli attribuisce il Devoto Oli. Quasi un segno del destino o del contrappasso per l’ex assessore in disgrazia. Viene da ripensare a un suo collega socialista al Comune di Milano, che una sera al dibattito sulla trasparenza si lasciò andare a questa considerazione: «La trasparenza? Faremo i danee de veder ». Ma il soldi non sono di vetro e la trasparenza alla Regione Lombardia è ancora opaca. Pag 8 “Giù le mani dalla Carta”. Le accuse a parti invertite, tra proteste rituali e sbadigli di Gian Antonio Stella «Giù le mani dalla Costituzione!», urlavano in coro da sinistra. «Stiamo facendo solo ciò che nel 1947 non fu possibile fare perché una parte della Costituente era favorevolmente orientata a imporre in Italia il modello sovietico!», rispondevano a destra. «Taci, buffone! Bugiardo! Sei un delinquente politico!». Direte: che storia è questa? È la cronaca a parti rovesciate, dieci anni fa, dell’approvazione della «Grande Riforma» della destra. Contro la quale saltò su urlando al Colpo di Stato la sinistra. Direte: che c’entra col voto di ieri in Senato? C’entra. Perché è impossibile capire quel che è accaduto ieri a Palazzo Madama, dove è stato fatto il passo forse definitivo per la riforma che lo stravolgerà, se non si tiene conto del gioco delle parti. Di qua fulmini e saette, di là cieli sereni. Uno dei passaggi chiave, in una giornata ad altissima tensione, non è successo in aula, dove pure sono volati gli stracci, ma nella riunione dei senatori di Forza Italia. Dove l’ex Cavaliere, buttato fuori dal Senato alla fine del 2013 sulla base della legge Severino, mentre i suoi uomini discutevano sulla posizione da prendere prima ancora che sul voto finale (votare contro? uscire dall’aula?) sull’atteggiamento da tenere con Giorgio Napolitano, è sbottato a brutto muso: «Io Napolitano non lo farei neanche parlare: come può parlare chi ha fatto un golpe» Parole durissime: «Nel libro di Friedman viene fuori molto bene la complicità fra Napolitano e ciò che determinò le mie dimissioni». Ma come, gli rinfaccia Fabrizio Cicchitto: non era stato lui a volerlo ancora al Quirinale ad aprile del 2013 per uscire dall’impasse? Non aveva detto lui d’esser «molto soddisfatto» della rielezione e delle sue parole? «Il discorso più ineccepibile e straordinario che io abbia mai sentito in 20 anni», disse. Scrisse addirittura una nota: «Ringrazio il Presidente Napolitano per lo spirito di servizio e per la generosità personale e politica…». Sì, due anni fa però. Tutto cambiato. Alla stima, esibita finché non fu rifiutata la grazia, è subentrato l’astio. Il rancore. La rilettura di tutto nella chiave del complotto. Al punto che quando l’ex capo dello Stato sta per prendere la parola in aula, tutti i «tele» dei fotografi son puntati su di lui. Nella certezza che ci sia nell’aria una

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contestazione pesante. Falso allarme. Buona parte degli azzurri si limita a filar via. Solo Mimmo Scilipoti, quello che piantò Di Pietro per soccorrere Berlusconi nella fatidica conta contro Gianfranco Fini gli si piazza davanti con un cartello. C’è scritto «2011». Come a dire: tu sai che io so che nel 2011 fosti tu a buttar giù il Cavaliere… E con loro se ne vanno i grillini che sul ruolo di «Sir George» la pensano come Beppe Grillo. Il quale sul blog, mettendo insieme Napolitano, Renzi e Berlusconi si era avventurato in un paragone insensato: «Meglio Pinochet di questi sepolcri imbiancati e bimbominkia assortiti». Pinochet! Gianluca Castaldi attenua i toni, ma non troppo. E accusa l’asse Renzi-Verdini di aver messo a punto una riforma su misura per conservare lo scranno di senatore a vita proprio all’ex inquilino del Colle, «quello che faceva il Presidente della Repubblica di giorno e di notte redigeva il disegno di legge governativo che vi votate oggi». Il vecchio presidente a lungo osannato («è come tutti i vini rossi: più passano gli anni e più migliorano e lui rosso lo è stato veramente», sviolinò un giorno Roberto Calderoli) parla così a un’aula spaccata a metà: piena zeppa e affettuosa la parte di sinistra, semivuota e ostile quella di destra. È amareggiato per la cagnara. Convinto di non meritare tanta ostilità. Ma tiene il punto. Rivendica. Elogia. Incoraggia. Quando se ne va, coi cronisti che gli chiedono se il voto gli avesse dato delle delusioni, abbozza: «Mi fate domande che sono politico-psicologiche. Io già sono riluttante a rispondere a quelle politiche, ci mettete pure la psicologia...». Roberto Calderoli, che dieci anni fa aveva firmato quella Grande Riforma e irrideva ai lamenti della sinistra che gridava al golpe («Quando si vedono reazioni abnormi, rabbiose e la schiuma alla bocca, di solito, bisogna chiamare con urgenza un veterinario perché ci si trova solitamente di fronte ad un caso di rabbia pericolosa per la bestia e per l’uomo») è il più catastrofico di tutti. Certo, anche Francesco Campanella eletto con il M5S e ora con Tsipras, dipinge un quadro nero nero dove «sarà impossibile sfiduciare il Governo, mentre costruirà inceneritori vicino alle case, schiaccerà il diritto di sciopero, chiuderà gli ospedali…». E Loredana De Petris denuncia che la riforma «dissolve l’identità della Repubblica nata dalla Resistenza» e paventa il rischio che il nuovo Senato sia «una sorta di dopolavoro». E Mario Mauro si scaglia contro «la banda che ha vinto, ed è giusto che siano i padri prepotenti, non quelli costituenti, a votarsela da soli». E Paolo Romani sibila che «il Pd rappresenta una minoranza degli italiani, e cambia le regole contro il parere di tutti» E Corradino Mineo, citando Michele Ainis, tuona sulla fine della nostra forma di governo, «viva ma esangue come una fanciulla addentata dal vampiro». Ma è l’odontoiatra bergamasco, dicevamo, il più apocalittico. La diretta tivù al pomeriggio quando la gente lavora? «Il regime e la censura di sovietica memoria sono già cominciati». La riforma? «Il popolo non solo vorrebbe abolire il Senato, ma vorrebbe cancellare tutto il Parlamento e l’intera classe politica, che merita di andarsene a casa, il prima possibile e per sempre». Di più: «Oggi con questa riforma muore la nostra democrazia». Fino al petardo finale: «Oggi approviamo una nuova Costituzione, quella voluta da Licio Gelli». «Ma se ci avete governato vent’anni con tanti iscritti alla P2!», avrebbero gridato un tempo da sinistra. Stavolta niente. Niente contestazioni. Niente insulti. Solo qualche borbottio. Pochi sorrisetti ironici. Qualche sbadiglio. Maria Elena Boschi armeggia senza sosta con il telefonino. Luca Lotti si affaccia e se ne va. Noia. La noia di chi è sfinito da un braccio di ferro interminabile ed è a un passo dal portare a casa quello che Matteo Renzi e la maggioranza volevano. Voti finali «solo 179», sottolineano da destra. Giusto, ma dieci anni fa, quando dall’aula era uscita la sinistra, i voti a favore erano stati 162. E torniamo sempre lì. A un paese spaccato a metà. Dove tutti gli angeli sono da una parte, tutti i demoni dall’altra. A fasi alterne… LA REPUBBLICA Pag 1 Le due facce dell’Italia di Stefano Folli Per uno scherzo del destino, una giornata importante nella storia costituzionale d'Italia è stata inquinata da una nuova inchiesta giudiziaria sulle malefatte dei politici. È accaduto che il Senato ha votato la propria auto-soppressione, o meglio la trasformazione in organo di collegamento fra lo Stato centrale e le autonomie locali, archiviando il bicameralismo paritario. Lo ha fatto con una significativa maggioranza assoluta. Maggioranza che ha reso poco comprensibile l'abbandono dell'aula decisa da una parte dell'opposizione. Nelle stesse ore la Lombardia era scossa dall'arresto del vice-presidente

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della giunta per l'ennesimo scandalo legato alla sanità. Non potrebbe esserci congiuntura più sfortunata. Da un lato, una riforma ambiziosa e a lungo attesa, come hanno ricordato i suoi padri, a cominciare dal presidente emerito Giorgio Napolitano. Una riforma che rafforza l'esecutivo e si pone l'obiettivo, sia pure in forme non del tutto chiare, di rendere coerenti a Roma la voce di regioni e comuni. Dall'altro, nuovi arresti nella regione più grande, anello finale di una lunga catena che negli ultimi anni ha screditato l'istituto regionale al nord, al centro e al sud. Senza dimenticare l'indagine della procura di Roma su Mafia Capitale, che ha contribuito in misura determinante ad avviare la valanga che infine ha travolto il sindaco Marino. Ne deriva che si approfondisce una frattura pericolosa. Al centro il governo si consolida, Renzi ottiene un successo rilevante, di immagine e di sostanza, e prende lo slancio per affrontare nelle prossime settimane i nodi della legge di stabilità. Il presidente del Consiglio può rivendicare il rinnovamento istituzionale, quale che sia il giudizio complessivo nel merito della riforma. E quei 179 voti ottenuti ieri testimoniano della ritrovata unità del Pd, nella scia di un accordo che ha reso aggiuntivi e non decisivi i voti del gruppo di Verdini. Al tempo stesso questo sforzo riformatore non si trasmette alle realtà territoriali in cui si articola il paese. Anzi, il nuovo Senato sarà composto, come è noto, proprio dai rappresentanti di quelle regioni e comuni che periodicamente vengono sconvolti dalle incursioni della magistratura. E che sono, è bene ricordarlo, agli ultimi posti nella classifica della credibilità presso l'opinione pubblica, tanto da apparire come incubatrici permanenti del sentimento anti-politico. Non a caso le persone interpellate dai sondaggisti si dicono di solito ben contente del rinnovamento in atto, ma subito dopo si dichiarano favorevoli all' abolizione tout court del Senato, anziché a questa complicata mutazione in camera delle autonomie. La questione non è di poco conto perché tocca la cronaca quotidiana e si proietta nei prossimi passaggi politici. Stretto fra le valutazioni ottimistiche sulla storica riforma della Costituzione e le notizie inquietanti che rimbalzano fra Roma e Milano, il cittadino è disorientato. Esecutivo e Parlamento descrivono un'Italia che non si rispecchia - almeno non sempre - nel governo delle città e delle regioni. Sul piano morale e pratico l'assenza di una classe dirigente locale ben radicata e selezionata si fa sentire ogni giorno di più e accresce le incognite sul voto amministrativo della prossima primavera. Del resto, i termini dell'equazione sono chiari. In attesa del referendum confermativo che si terrà fra circa un anno, dopo l'ultima duplice lettura della legge costituzionale, non basta rivendicare la riforma per ottenere un automatico consenso di opinione. Soprattutto perché gli effetti delle novità sono tutti di là da venire. Viceversa nel voto amministrativo di primavera a Roma, Milano e Napoli peseranno altri fattori: gli scandali locali, il discredito, le inchieste a macchia d'olio. Il dopo-Marino non è vicenda destinata a restare chiusa nel perimetro della capitale. Le sue conseguenze sul piano politico tendono già oggi a dilatarsi su scala nazionale. E se Renzi è più forte a Palazzo Chigi, rischia invece di mostrarsi più debole in periferia. Non aiutato da un Pd in affanno e peraltro spesso sacrificato al "partito del premier". Pag 1 Perché fa paura l’uguaglianza di Concita De Gregorio Il secondo grande problema della legge sulle unioni civili che fa oggi il suo tormentato ingresso al Senato è che la maggioranza degli italiani pensa che sia un problema dei gay. Fatti loro, roba loro, a me che me ne viene. Un po' come la violenza sulle donne (un problema delle donne) l'educazione e i diritti dei bambini (un problema di chi ha figli) la tutela e la reale parità di chi non sia, in generale, maschio bianco cattolico e sano. Meglio se deciso a sposarsi o per lo meno a frequentare una ragazza con l'intenzione di. Un lascito dell'epoca del tornaconto personale, quella in cui io viene sempre prima di noi, estesa alle categorie: parlate di me? No? Allora spengo. Il secondo grande problema, il primo essendo come sempre e in ogni cosa la posizione geografica della Città del Vaticano al centro delle viscere della penisola, uno Stato piantato fra il cuore e la milza di un altro. Posizione, per farla semplice, da cui consegue la millenaria pretesa di governare i movimenti dell'altro corpo come fa un ventriloquo col suo pupazzo. Ci sono i più realisti del re e dappertutto i più papisti del Papa, basta tendere l'orecchio anche adesso: sono in posizione di comando, al governo. Ma di questo si sa tutto o quasi tutto, vivendo in Italia. Più interessante è il relativo disinteresse di uomini e donne eterosessuali adulti, cioè la stragrande maggioranza della popolazione anche al

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netto delle pudicizie e delle menzogne circa se medesimi. È come se non si fosse ancora messo a fuoco il cuore del problema: garantire che siamo tutti uguali non è un problema di chi ancora non lo è. È un problema, molto serio, di tutti. Pretendere che non ci siano discriminazioni sulla base delle libere scelte personali viene prima delle opinioni politiche: è il fondamento della convivenza democratica. Ma le parole, si sa, a forza di usarle si consumano: convivenza democratica, per esempio, che vuol dire? Vuol dire, si potrebbe spiegare a un bambino se solo questa fosse materia d'insegnamento, che nessuno deve sentirsi sbagliato o storto né deve essere trattato diversamente solo perché è nato al Sud, ha i capelli rossi, è mancino, vede poco o non può parlare, ama una ragazza se è ragazza. Anche se la roulette del destino gli ha assegnato questo ha gli stessi diritti e gli stessi doveri degli altri: è uguale, per quanto diverso come tutti siamo diversi. Può persino diventare presidente della Repubblica. Astronauta, o imbianchino. È una cosa semplice, è giusta ed è bella. I bambini, prima che gli si insegnino altre cose, lo sanno. Sono stati i bianchi, in America, a sconfiggere l'apartheid: i bianchi insieme ai neri. Sono stati i bianchi, moltissimi di loro, ad eleggere Obama. È questo il punto: mancano gli italiani, tutti gli altri italiani, a sostenere che questa volta, per favore, finalmente, la legge sulle unioni civili si faccia. Come in Croazia, come a Malta, come dappertutto. Perché siamo tutti uguali, in partenza. Tutti. Uguali. Ora vediamo cosa sta succedendo. La legge oggi si incardina al Senato, tra le proteste dei cattolici oltranzisti. Si incardina vuol dire che mette un piede nella porta. Una volta che sta lì sta lì, non può più morire. Poi dovranno decidere (la conferenza dei capigruppo) quando discuterla e poi votarla. Sarà a gennaio, si suppone: dopo la legge di Stabilità che è più importante, certo, e un po' troppo a ridosso del Giubileo, anche questo è un problema. Ma morire non muore. Se si incardina vuol dire che si fa. Per questo alcuni non vogliono, da destra e al centro. Da sinistra altri dicono: è una legge light, leggera. Non chiama le unioni matrimoni, anzi le chiama "formazioni sociali specifiche". Ma tutte le coppie sono specifiche: non ce ne sono due uguali, garantito. Guardatevi intorno. Poi: non consente l'adozione di bambini esterni alla coppia né l'utero in affitto. Vero. Non consente un sacco di cose ma intanto permette alle persone dello stesso sesso che vivono in coppia di assistersi all'ospedale se sono malate, di adottare il figlio dell'altro. Su questo Alfano ha già detto no, e questa sarà la trincea. Sulla pelle dei bambini, che quando ci sono ci sono e loro cosa c'entrano. Ma pazienza: i cattolici non vogliono che un bambino abbia due padri, due madri. Anche papa Francesco, così aperto al mondo, si è moltissimo irritato quando il sindaco Marino l'anno scorso ha trascritto in Campidoglio sedici matrimoni omosessuali celebrati all'estero - hanno raccontato i vaticanisti. Quindi no, le adozioni no. Tuttavia. La Corte Costituzionale ha imposto con sentenza che le unioni omosessuali siano tutelate come le altre formazioni sociali (articolo 2 della Costituzione, da cui la formula "formazioni sociali specifiche") e che siano "omologate al trattamento delle coppie coniugate". Tutti uguali, ha detto la Corte. Non ha precisato se uguali debbano essere solo gli adulti o anche i bambini, è vero. Forse si può fare uno sforzo per estendere anche a chi nasce in una casa piuttosto che in un'altra il diritto ad essere un bambino con due genitori. Su questo Alfano e i suoi hanno fissato la loro trincea. Ciascuno ha i suoi obiettivi, nella vita. Molto importante sarebbe che tutti - maschi bianchi cattolici sani, donne eterosessuali, con o senza figli - dedicassero dieci minuti del loro tempo a pensare che se vivessimo in un paese dove si guarda ai talenti, alle capacità, alle possibilità di ciascuno di fare e non alla sua pelle al suo sesso alla famiglia da cui viene, non a chi trova a casa la sera quando torna, ecco: sarebbe meglio per tutti. Un reale miglioramento per tutti, non solo per "loro", chiunque siano "loro". Rosa Parks, la prima donna nera che si è seduta su un autobus per bianchi, ha aperto la strada alla possibilità di salire sull'autobus: per tutti. Poi, certo: salire sull'autobus non basta. Bisogna poter salire ma anche scegliere a che fermata scendere. Bisogna poter decidere liberamente dove andare. LA STAMPA Una legge che deve migliorare di Ugo De Siervo C’è da augurarsi che dopo i festeggiamenti per il passaggio in Senato della riforma costituzionale e per la vittoria sostanziale di Renzi e Boschi sui vari e confusi oppositori, qualche responsabile politico rilegga finalmente con adeguato spirito critico quanto è

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stato infine approvato: il testo appare davvero troppo criticabile in numerosi punti perché possa pensarsi che la nostra Costituzione potrebbe funzionare meglio con la sua definitiva approvazione. È vero che poi dovrebbe esservi su di esso il referendum popolare, ma questo potrà solo o approvare o respingere tutto il testo della riforma, mentre essa appare necessitare correzioni e miglioramenti. In tutta la vicenda si sono sommati due fattori molto negativi. Nel governo una qualche improvvisazione progettuale ed una notevole inadeguatezza tecnica; nelle variegate opposizioni l’ossessiva volontà di contrapporsi al premier, caricando le proposte in discussione di improprie volontà eversive dell’assetto democratico e confondendo la legislazione elettorale con quella costituzionale. Nei mesi trascorsi ho già avuto occasione di motivare le mie critiche a vari e importanti punti della riforma: basti qui ricordare le debolissime ed eterogenee funzioni del nuovo Senato, la pretesa che un organo rappresentativo del genere possa funzionare gratuitamente, il confuso e incompleto riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, il fortissimo aumento dei poteri dello Stato centrale, la sottrazione alla riforma delle Regioni speciali. Ma nell’ultima versione, magari al fine di ridurre così le opposizioni di coloro che pensano di poter bilanciare la forza del governo con organi e procedure di garanzia e di controllo, ci si è nuovamente inoltrati nel campo assai delicato degli altri organi costituzionali, in tal modo però dimostrando la modesta consapevolezza della necessaria sistematicità che occorre quando si tocca l’insieme dell’ordinamento costituzionale. Mi riferisco in particolare al mantenimento della previsione che il Presidente della Repubblica possa essere nominato solo ove un candidato consegua, anche dopo innumerevoli votazioni, la speciale maggioranza dei tre quinti dei voti e alla previsione che il Senato debba nominare due dei giudici della Consulta, lasciando alla Camera la nomina degli altri tre. Ma far dipendere la nomina del Presidente della Repubblica dal necessario consenso di almeno parte delle opposizioni significa, nella nostra realtà politica, rischiare davvero di non avere per anni proprio il massimo organo politico di garanzia o di averlo infine con un profilo debolissimo. Sulla base di una norma analoga è da decenni che il nostro Parlamento ritarda gravemente a nominare molti giudici costituzionali di sua competenza e addirittura anche adesso l’attuale Parlamento non riesce a nominarne ben tre, così mettendo in seria difficoltà di funzionamento la Corte costituzionale. Ripetere l’esperienza con il Presidente della Repubblica appare davvero rischioso. Quanto al potere di nominare due giudici costituzionali, c’è anzitutto da ricordare che in tal modo si rischia di qualificare i giudici costituzionali come rappresentativi dell’uno o dell’altro organo legislativo e non del complessivo assetto rappresentativo. Ma poi occorrerebbe anche essere consapevoli che in tal modo si rischia di affidare la nomina di questi giudici alla maggioranza politica presente in Senato, con quindi una conseguente pericolosa politicizzazione della Corte stessa. Solo recenti ed opportune analisi giornalistiche sembrano concludere che nel futuro Senato sarà possibile e probabile la presenza di forti maggioranze, originate dal basso numero nelle varie Regioni dei senatori da nominare e dalla normale omogeneità delle maggioranze dominanti nel maggior numero di Regioni. Sarebbe quindi assai opportuno analizzare con lucidità quanto si è progressivamente stratificato in questo tentativo di riforma costituzionale. Guai a pensare che il malaffare è inevitabile di Michele Brambilla Un nuovo scandalo, l’ennesimo, si è abbattuto sulla Sanità lombarda. Mario Mantovani, vicepresidente della giunta regionale ed ex assessore, appunto, alla Sanità, è stato arrestato per corruzione, concussione e turbativa d’asta. E siccome siamo nel Paese del melodramma, l’ordine di cattura glielo hanno notificato proprio mentre stava entrando a Palazzo Lombardia per tenere un discorso alla «Giornata della trasparenza». Coincidenza cui se ne aggiunge un’altra, non meno grottesca. Il fatto è questo: le tangenti di cui Mantovani è accusato non sarebbero state in denaro, ma in incarichi professionali distribuiti dalla Regione a professionisti amici. E questo è l’antefatto: nel maggio dell’anno scorso Mantovani (allora ancora assessore in carica) in un comizio per le elezioni comunali di Arconate aveva rivendicato di avere «trovato tanti posti di lavoro» da quando era stato eletto in Regione, facendo intendere di poter fare altrettanto per «la gente di Arconate». Insomma una sorta di pre-confessione, o se preferite di autodenuncia: qualcosa che mancava alla pur ricca aneddotica sui politici. Ma tutto

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questo appartiene, come si diceva, al melodramma. Quello che fa meno sorridere, e più preoccupare, è l’aspetto più serio della vicenda. E cioè. Premesso che l’inchiesta su Mantovani potrebbe anche risolversi in una bolla di sapone (non sarebbe né la prima, né l’ultima volta), è un fatto che la sanità lombarda sia ormai da anni oggetto di inchieste da cui emerge una certa consuetudine al malaffare, alla raccomandazione e al favoritismo, a volte alla supponenza quando non all’arroganza di chi gestisce il potere. Così, sono anni che la magistratura, quasi a intervalli regolari, trova materia per intervenire. Eppure, la sanità lombarda è indiscutibilmente una delle più efficienti - forse la più efficiente - del nostro Paese. Negli ospedali lombardi i medici sono bravissimi, e anche gli amministratori non devono essere male visto che in molte altre regioni italiane un materasso o un bisturi vengono pagati dieci volte di più. Ma allora, perché tante inchieste soprattutto in Lombardia? Magistratura particolarmente agguerrita? Non crediamo sia questa la risposta. Più probabile invece che, nella testa di chi gestisce la cosa pubblica, sopravviva l’abitudine a pensare che, là dove ci sono ricchezza e potere, ci sono anche soldi e favori da distribuire secondo convenienza. Insomma una forma mentis ormai talmente radicata da rendere meno stupefacente il candore con cui un politico, in un comizio, promette posti di lavoro in cambio di voti. Dobbiamo rassegnarci? No. Proprio a Milano si sta chiudendo in questi giorni una manifestazione, l’Expo, che era partita tra tanti dubbi - anche di tangenti - e che invece è stata, almeno per ora, solo un grande successo di pubblico. Tocchiamo ferro, naturalmente. Ma guai se accettassimo l’idea che ogni business deve trasformarsi, inevitabilmente, in una cornucopia a beneficio di chi ha il potere o le amicizie. Che poi spesso sono la stessa cosa. AVVENIRE Pag 3 La linfa nuova dell’integrazione di Paolo Lambruschi “Ius soli” e vademecum per l’accoglienza La giornata di ieri è una di quelle da segnare in rosso sul calendario, con due attesi passi avanti sul tema che dalla scorsa primavera occupa un ruolo centrale nel dibattito politico: l’immigrazione. Un progresso deciso è stato compiuto sul versante della risposta solidale all’emergenza – con il vademecum elaborato dalla Cei per l’accoglienza delle famiglie di profughi nelle parrocchie italiane – e un altro – l’approvazione in prima lettura della riforma della cittadinanza ispirata a un temperato diritto di suolo e allo ius culturae – sul fronte dell’integrazione di una generazione di cittadini che è già un 'patrimonio italiano' a pieno titolo. Sono due gambe su cui camminano il corpo, il cuore, il cervello della nostra cultura e dei nostri valori cristiani ed europei. L’atteso decalogo per definire al meglio l’accoglienza dei profughi nelle parrocchie italiane e dare così sistematicità alla corale risposta all’accorato appello di papa Francesco all’Angelus del 6 settembre scorso, è arrivato dopo l’attento vaglio e l’approvazione del Consiglio permanente dei vescovi italiani. Va ribadito che diocesi, parrocchie e istituti religiosi italiani, nonostante le polemiche estive alimentate dagli imprenditori politicomediatici della paura, fanno già molto, accogliendo ufficialmente 22mila persone, più o meno un quarto dei rifugiati e richiedenti asilo presenti sul territorio nazionale. Il conteggio non comprende evidentemente le persone accolte al di fuori dell’ufficialità. Ma si può sempre fare di più di fronte a un’emergenza epocale come la crisi migratoria che – prevedono gli esperti – potrebbe durare ancora molti anni. E se la carità non ha certo bisogno di regole, è acclarato che su un terreno scivoloso come questo, occorre fare bene il bene per aiutare al massimo persone segnate da sofferenze, lutti, persecuzioni e da viaggi travagliati. Lo sforzo della Cei in queste settimane si è concentrato, con il contributo di Caritas, Migrantes e degli uffici legali, sulla messa a punto di un dispositivo che garantisce alle parrocchie la necessaria serenità per affrontare una materia complessa e ospitare per almeno sei mesi chi aspetta di ricostruire la propria vita. Così, dopo aver puntato sulla formazione dei parrocchiani, vengono previste dal dispositivo diverse opzioni, privilegiando i nuclei famigliari, sia nell’ambito della collaborazione con le prefetture per chi ha chiesto asilo e per i minori, sia nell’ospitalità di chi ha già presentato domanda. Oltre a forme educative di accoglienza alla pari – da famiglia a famiglia – poiché i più fuggono ancora più a nord, potrebbe essere valutato anche un primo servizio di assistenza in collaborazione con le associazioni di volontariato, i gruppi giovanili, l’apostolato del mare in porti e stazioni. Abbiamo già visto tante persone darsi

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da fare a giugno, quando vennero provvisoriamente chiusi i confini con la Germania, negli scali in gare di solidarietà che in silenzio continuano. Sarebbe un progresso rendere più strutturale questo spontaneo flusso di solidarietà. Per quanto riguarda la gamba della nuova cittadinanza, dopo il voto di ieri siamo all’ultimo passaggio, poi la riforma sarà compiuta. Allargare i paletti per includere nell’anagrafe italiana ragazzi figli di stranieri residenti nel Belpaese e che hanno frequentato la nostra scuola consente di immettere nella nostra società linfa nuova. La demografia è poco considerata dalle nostre parti, ma se cinque milioni sono gli italiani emigrati nell’ultimo mezzo secolo, altrettanti sono gli immigrati arrivati negli ultimi 40 anni. Non stiamo parlando di persone giunte su barconi a Lampedusa, non c’è nessuna invasione irregolare da sanare, si tratta invece di rendere cittadini a pieno titolo centinaia di migliaia di ragazzi che o sono nati in Italia o frequentano da alcuni anni le scuole italiane e non ha senso che debbano attendere la maggiore età per avere il passaporto della Repubblica. Ieri è crollata una barriera che doveva cadere da tempo. E se qualcuno sente lesa la propria italica identità, farebbe meglio a dare un’occhiata al calendario e a come già stanno assieme i ragazzi, a prescindere dalla loro origine. Siamo nel 2015 e la nostra identità nulla perde dal 'sì' di ieri. Anzi, si arricchisce di colori, diverse culture e nuove risorse. Pag 3 Bangladesh, l’islam radicale minaccia la scelta moderata di Gerolamo Fazzini L’omicidio del nostro cooperante e l’impegno della Chiesa L’uccisione del cooperante italiano Cesare Tavella ha, almeno per un attimo, aperto un varco mediatico sul Bangladesh, terzo Paese musulmano al mondo dopo Indonesia e Pakistan. Un Paese storicamente islamizzato dai sufi, corrente mistica dell’islam, a lungo considerato 'moderato' (e probabilmente la definizione è ancora la meno imprecisa), ma che è stato protagonista, negli ultimi tempi, di mutamenti sociali e politici tanto significativi quanto convulsi. La complessità della scena politica del Paese è emersa in tutta la sua evidenza proprio all’indomani dell’omicidio di Tavella e di un altro cooperante giapponese. A più due settimane di distanza, poche sono le certezze e molte ancora le incognite. Di sicuro c’è che chi ha premuto il grilletto non era un delinquente comune (la pistola aveva il silenziatore) e che alla rivendicazione dello Stato islamico non crede più nessuno. Per il resto, ci si chiede come mai Tavella, in Bangladesh solo da pochi mesi, abbia potuto diventare oggetto di un’ostilità tanto forte e ci si interroga se l’Ong al servizio della quale egli lavorava – l’olandese 'Icco Cooperation' – possa avere urtato la suscettibilità di qualcuno. Dal canto suo, il ministro dell’Interno, Asaduzzaman Khan Kamal, ha messo le mani avanti, sostenendo che il coinvolgimento di terroristi islamici è ancora da verificare per capire se la fede cristiana del cooperante italiano possa rivelarsi uno dei motivi della sua morte. La vicenda Tavella ha ulteriormente contribuito ad alimentare il già acceso scontro tra le due principali forze politiche che da anni guidano, alternativamente, il Paese: l’Awami League (AL) di Sheik Hasina e il Bangladesh National Party (BNP) di Khaleda Zia. Moderata, laica e di ispirazione socialista, l’Awami League aveva come leader Mujibur Rahman, primo Presidente del Paese dopo l’indipendenza dal Pakistan (1971). Il Bnp, invece, è una formazione sorta nel 1975, dopo l’uccisione di Mujibur Rahman e un periodo di dittature militari, che hanno favorito l’entrata in scena dei partiti islamisti, specie il Jamaat-islam. Da un anno e mezzo la già fragile democrazia del Bangladesh è stata ulteriormente minata. Le elezioni del gennaio 2014, infatti, hanno visto l’affermazione di Hasina: una vittoria di Pirro, visto che – sotto le minacce degli islamisti – aveva partecipato al voto meno del 20% degli aventi diritto. L’avversaria Khaleda Zia non si era presentata per protestare contro la decisione del governo di non procedere a un periodo 'di transizione', come da tradizione prima del voto. Risultato: agli inizi del 2015 il Bnp ha indetto una lunga serie di scioperi e il blocco totale dei trasporti. Due fatti che hanno causato pesantissimi danni economici e enormi disagi alla popolazione, e che, alla lunga, hanno intaccato il consenso dell’opposizione. Nel frattempo il governo è intervenuto pesantemente contro il partito estremista Jamaat-islam, incarcerandone i principali leader. Tuttavia, ciò non ha impedito che – negli ultimi mesi – la violenza degli estremisti si dirigesse contro una serie di blogger 'laici', in qualche caso esplicitamente atei (una 'lista nera' comprende 84 nomi), causando la morte di quattro di loro, l’ultimo ai primi di agosto scorso. Ebbene, in

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questi giorni sul Daily Star, uno dei principali quotidiani, si poteva leggere la notizia secondo cui 'il capo del BNP potrebbe avere un collegamento con l’uccisione di Tavella e andrebbe quindi indagato'; per tutta risposta il principale partito di opposizione ha denunciato l’incapacità dell’Awami League di mantenere l’ordine e la sicurezza nel Paese. La verità è che l’ultima cosa di cui avrebbe bisogno il Bangladesh è di una lotta intestina, di mero potere, del tutto nociva agli interessi della gente, a fronte di problemi sociali immensi. (Per capirlo basta soggiornarvi una decina di giorni, come sta accadendo a chi scrive, e sentire alcune voci della società civile e della Chiesa). Il Bangladesh conta un popolazione di ben 160 milioni di abitanti in un territorio esteso quanto l’Italia centro-settentrionale, il che si traduce in una densità di popolazione record, con tutto quel che ne consegue in termini di impatto sulla vita quotidiana. Il Pil pro-capite è 958 dollari l’anno (quello italiano sfiora i 36mila), il tasso di analfabetismo supera il 40%. La capitale Dacca – 16 milioni di abitanti – è maglia nera nella classifica delle città più vivibili al mondo, stilata dall’Economist prendendo in considerazione 30 indicatori tra cui infrastrutture, servizi sanitari, stabilità economica e politica, istruzione e cultura e rispetto per l’ambiente. Dal punto di vista religioso, il Bangladesh non figura tra i Paesi islamici più intransigenti. Le relazioni quotidiane tra musulmani e cristiani (lo posso affermare sulla base di numerose testimonianze di missionari) sono generalmente buone: accanto a taluni 'incidenti di percorso', mi sono stati raccontati episodi significativi, dal prete cattolico sorpreso da un imprevisto e accolto in moschea a dormire, alla giovane musulmana assoldata da una Ong legata a un istituto missionario cattolico che opera nel vicino Myanmar, fino al gruppo interreligioso di volontari (musulmani inclusi) che ho visto lavorare, a fianco di fratel Lucio Beninati del Pime, con e per i ragazzi di strada della capitale. Non è il caso, infatti, che il cardinale Fernando Filoni, prefetto della Congregazione per l’evangelizzazione de popoli, visitando il Bangladesh a metà settembre, abbia detto che va apprezzata «la pacifica coesistenza di differenti religioni nel Paese». Per tutta risposta – ed è un notizia passata quasi inosservata – il primo ministro Sheikh Hasina ha invitato papa Francesco a compiere un viaggio in Bangladesh. Il punto è che, pur in un contesto di islam tollerante, hanno preso piede, ormai da anni, frange estremiste molto agguerrite. Racconta padre Giulio Berutti, missionario del Pime e direttore delle Credit Unions (le banche per i poveri) della diocesi di Dinajpur: «Già negli anni Settanta il primo dittatore, marito di Khaleda Zia, oggi leader dell’opposizione, per consolidare il potere ha aperto la porta ai partiti islamici, modificando la Costituzione e inserendovi il richiamo ad Allah. Solo nel 1977 i Paesi islamici, alla luce di queste mosse del governo (specie dopo che l’islam è stato dichiarato religione di Stato), hanno riconosciuto l’indipendenza del Bangladesh dal Pakistan. A partire da allora, dall’Arabia Saudita e dai Paesi del Golfo sono stati riversati sul Paese soldi in gran quantità. Noi missionari ce ne siamo accorti perché abbiamo visto spuntare come funghi nei villaggi moschee in muratura che non potevano essere certo costruite con le modeste entrate dei villaggi. Quanto accade oggi non è che l’onda lunga di un fenomeno iniziato anni fa e cresciuto col tempo». Questi fatti spiegano anche come mai il moderato Bangladesh sia finito, di recente, tra i Paesi per i quali avere una 'particolare attenzione', almeno secondo la Commissione degli Stati Uniti sulla Libertà religiosa nel mondo. Come ne potrà uscire? Difficile dirlo. Certo pesa molto il delicato contesto internazionale (al di là della falsa rivendicazione dell’Is per l’omicidio Tavella, le sirene del Califfato rischiano di avere qui una forte audience nelle fasce più vulnerabili della popolazione), così come pesa la forte ingerenza dei Paesi arabi, che oltre a foraggiare le moschee, hanno favorito l’esplosione del numero di 'madrasse', le scuole coraniche, fortemente ideologizzate, all’interno delle quali viene allevata una generazione di studenti integralisti e potenzialmente violenti. La risposta della Chiesa al rischio di deriva fondamentalista in atto è principalmente in chiave educativa. Da sempre lo sforzo dei missionari si è orientato sull’alfabetizzazione (bambine comprese) e sulla formazione umana, spirituale e professionale dei giovani. Ora la Chiesa cattolica ha compiuto un ulteriore passo, varando, nel dicembre 2014, la prima università cattolica del Paese. Una sfida coraggiosa, specie in tempi come questi. Pag 5 Cristiani scacciati dalle terre di origine di Paolo M. Alfieri Rapporto di Acs: “In 10 anni si rischia la loro scomparsa dal Medio Oriente”

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Da qui a dieci anni ci sarà ancora spazio per il cristianesimo in Medio Oriente? O i cristiani saranno definitivamente scacciati dalla loro antica terra di provenienza? A guardare i numeri di quanto accade, ad esempio, in Iraq i timori sono fondati: dal milione di cristiani del 2002-2003 si è passati ai 275mila di oggi. Una emorragia che fa il paio con quella di altri Paesi, come la Siria in guerra e sempre più preda di estremisti. Le violenze, insomma, spingono sempre di più i cristiani ad emigrare, un esodo che prefigura la non remota possibilità che la secolare presenza cristiana nella regione possa estinguersi. È questo uno degli aspetti più preoccupanti che emerge dal rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) sulla persecuzione anticristiana, presentato ieri a Roma e dal titolo emblematico “Perseguitati e dimenticati?”. Lo studio sottolinea che i cristiani sono il gruppo religioso maggiormente perseguitato: la loro condizione continua a peggiorare in molti dei Paesi in cui affrontano da tempo gravi limitazioni. È così in 17 dei 22 Paesi analizzati tra l’ottobre 2013 e il giugno di quest’anno. Rispetto all’edizione precedente del rapporto, il numero di Stati classificati come di «estrema» persecuzione è salito da sei a dieci. A Cina, Eritrea, Iran, Arabia Saudita, Pakistan e Corea del Nord si sono infatti aggiunti Iraq, Nigeria, Sudan e Siria, tutti Paesi segnati dall’ascesa dell’estremismo islamico, che si conferma una delle principali minacce alla comunità cristiana. «Nella mia diocesi di Aleppo, nel nord della Siria, siamo in prima linea – sottolinea monsignor Jean-Clement Jeanbart, arcivescovo della Chiesa cattolica greco-melchita di Aleppo –. La mia cattedrale è stata bombardata sei volte e ora è inagibile. Anche casa mia è stata colpita più di dieci volte. Stiamo fronteggiando la rabbia del jihad estremista, presto potremmo scomparire». Dieci dei diciassette Paesi in cui si sono registrati peggioramenti sono stati colpiti dalle violenze dei fondamentalisti. Oltre alla Siria e al caso iracheno – in cui oltre 120mila cristiani sono stati costretti a scegliere se convertirsi o morire dallo Stato Islamico (Is) – da segnalare la Nigeria, dove gli estremisti di Boko Haram hanno costretto alla fuga 100mila cristiani della sola diocesi di Maiduguri, nella quale sono state distrutte 350 chiese. L’Africa in generale, considerata finora la speranza più brillante per la Chiesa del futuro, sta subendo l’avanzata di gruppi fondamentalisti anche in Kenya, Tanzania, Sudan e altri Paesi. E laddove non operano gli estremisti, ci pensano le autorità e le severe leggi locali. Come non ricordare il caso della cristiana sudanese Meriam Ibrahim, condannata a morte per apostasia, costretta a partorire in carcere e rilasciata solo dopo una campagna internazionale che ha visto come protagonista anche Avvenire. In Eritrea, poi, si ritiene che vi siano fino a 3mila detenuti – in maggioranza cristiani – imprigionati per motivi religiosi. Preoccupano anche altri oltranzismi. In India i movimenti nazionalisti indù hanno compiuto molti attacchi contro i cristiani e lo stesso arcivescovo di Ranchi, il cardinale Telesphore Toppo, è stato minacciato di morte. Nello Sri Lanka, invece, sono stati gli estremisti buddisti a distruggere o causare la chiusura di molte chiese (165 in due anni). In crescita sono anche gli attacchi in Israele, peraltro unico Paese mediorientale in cui la popolazione cristiana è in crescita. Tornando all’Asia, emblematico è il buco nero nordcoreano, dove nel marzo 2014 Kim Jong-un ha ordinato l’esecuzione di 33 cristiani, accusati di essere delle spie. Inoltre si stima che il regime di Pyongyang abbia fatto finire almeno il 10% dei circa 400mila cristiani in campi di lavoro in cui subiscono torture, omicidi, stupri, esperimenti medici. In Pakistan resta in carcere, dopo la condanna a morte per apostasia, la cristiana Asia Bibi, nonostante i molti appelli a suo favore. In Vietnam il decreto 92 obbliga i gruppi religiosi ad ottenere dei permessi per incontri religiosi e i sacerdoti a partecipare a programmi di educazione. E la nuova legge sulla religione – prevista per fine 2015-2016 – potrebbe comportare nuove restrizioni. In Cina il 2014 è stato uno degli anni peggiori per i cristiani, con 449 leader religiosi imprigionati. Il 2015 è stato invece caratterizzato da oltre 650 aggressioni nella provincia di Zeijang, tra cui la distruzione totale o parziale di numerose chiese. Il rapporto di Aiuto alla Chiesa che soffre considera inoltre alcuni Paesi con abusi meno gravi ma che preoccupano. In Russia, ad esempio, la legge è severa nei confronti dei cristiani e molte comunità religiose non hanno potuto registrare le proprie chiese. In Turchia, invece, i cristiani sono tuttora considerati cittadini di seconda classe e temono fortemente l’ascesa del fondamentalismo all’interno di una realtà anche qui sempre più problematica. Aiuto alla Chiesa che soffre (Acs) si adopera per sostenere coloro che in qualsiasi parte del mondo, a causa della propria fede religiosa, vengono discriminati o perseguitati.

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Come si legge sul sito dell’associazione, tre sono gli ambiti principali nei quali espleta la sua missione. Informare sulle realtà di «persecuzione e di discriminazione ancora presenti e troppo spesso dimenticate o ignorate». Acs offre, poi, sussidi ed organizza incontri al fine di sostenere, mediante la preghiera, coloro che sono impossibilitati a vivere e professare liberamente la propria fede. Infine ogni anno Acs riesce a finanziare circa 6.000 progetti e ad essere presente in oltre 150 Paesi. Diversi gli ambiti d’intervento: dal sostentamento di suore e preti che vivono in luoghi ove è loro proibito professare liberamente la fede, all’acquisto di mezzi di trasporto per la pastorale; dalla costruzione e manutenzione di chiese alla diffusione di testi religiosi. IL GAZZETTINO Pag 19 Il rischio per l’Europa: Unione di libri contabili e non un “buon luogo” di Antonello Croce Il buon luogo si può trovare? Questa domanda se l’erano sicuramente posta i lettori del libro di Thomas More: “Dell’ottima forma di Stato e della nuova isola Utopia” scritto nel 1516. More scelse il nome Utopia giocando sul doppio senso: in greco significa “non luogo”, ma nella pronuncia inglese significa “buon luogo”. Come dire: non esiste, però si può trovare. Nello scritto More delinea lo Stato perfetto, nello stesso tempo possibile e impossibile, dove imperano giustizia, benessere, uguaglianza. La democrazia è diretta, le famiglie partecipano ai processi deliberativi, i governi sono élite illuminate. La proprietà privata non esiste, il denaro è inutile. More ebbe fortune alterne. Criticò nello scritto i Re ma, scaltro politico, divenne Cancelliere del suo Re, Enrico VIII. La dea bendata lo abbandonò il 6 luglio 1535, giorno in cui la sua testa rotolò sul britannico legno patibolare: il Re non aveva tollerato il no del Cancelliere alla sua Chiesa “ad personam” (creata per poter sposare l’amante Anna Bolena). Per questo rifiuto, e il conseguente martirio, il politico diventerà santo. Il libro ebbe grande fortuna. More non poteva immaginarlo, ma aveva creato un format di successo per i secoli a venire. I semi di parole chimeriche e meravigliose, come uguaglianza e comunione dei beni, germogliarono presto nelle menti dei popoli. Il periodo era propizio: la Riforma aveva sovvertito il potere temporale e spirituale della Chiesa romana e nulla era più scontato. Si crearono le prime comunità sul modello di Utopia: Anabattisti e Munsteriani. Nel corso dei secoli officine rivoluzionarie cercarono di traslare i principi di Utopia dalle piccole comunità alle nazioni: ci provarono la Rivoluzione Francese nel ’700, la Comune di Parigi nell’800, la rivoluzione russa nel ’900. Anche i movimenti del 1968 tentarono, creando fermenti intellettuali importanti ma, purtroppo, anche schegge impazzite, che in Italia usarono sciagurate pallottole, rosse e nere. In quel periodo, una rivoluzione ricca di dignità fu quella cecoslovacca: uno spartito alla libertà, triturato dai cingoli russi. Il rogo di Jan Palach, studente arsosi vivo per sostenere il suo popolo violentato dall’invasione, rimarrà l’esempio più commovente di cittadino di utopia. Imploso il sistema comunista sovietico, l’entusiasmo ideologico, in Europa, si posiziona in stand-by: l’isola Utopia si allontana dalle nostre coste, spinta al largo dalle correnti della nostra civiltà liberista, egocentrica e monotematica. L’isola ora è là, in mezzo all’oceano. Eppure nel 1944, guarda caso proprio su un’isola, quella di Ventotene, Spinelli e Rossi scrissero l’utopia post bellica dell’unità europea. Nell’attuale modernità liquida, dove le grandi narrazioni (la crescita economica infinita, la sconfitta della povertà, il lavoro e il consolidamento dei diritti per tutti) non hanno più fogli su cui essere scritte, l’unione europea è forse l’ultimo grande racconto possibile. Ma per noi, navigatori di oggi, è più utopico cercare l’isola Europa o rimanere ancorati ai nostri stati nazione, nell’illusione che possano singolarmente gestire i grandi temi del mondo globalizzato, quali la regolamentazione della finanza e del capitale, la gestione della politica internazionale e dei flussi migratori? Dove sta la vera utopia? Intanto, navighiamo in un mare in tempesta, già salpati dagli stati nazione e non ancora approdati al nuovo continente (stato federale? Confederazione di stati?). In queste acque agitate troviamo un’altra, pericolosa utopia: costruire un’Unione basata primariamente su un progetto economico-finanziario invece che politico-culturale. Il pensiero utopico, come sottolineò Karl Popper, è un pensiero rigido, totalitario, mirante a plasmare la società secondo un piano regolatore preciso: oggi questo pensiero si concretizza in un eccessivo dogmatismo delle politiche economiche. I danni già si vedono. Così navigando non approderemo mai al “buon

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luogo”, ma rimarremo in un “non luogo”: un’Unione di libri contabili che non diventerà mai una Comunità di cittadini. LA NUOVA Pag 1 “Ius soli”, compromesso su un diritto di Andrea Sarubbi Non è ancora legge, perché c’è il Senato di mezzo, ma la riforma della cittadinanza approvata ieri dalla Camera potrà esserlo in tempi molto rapidi: sul testo il Pd non ha il problema della tenuta con i centristi - che nel caso di Ncd hanno già limato un bel po’ dal progetto iniziale e nel caso di Per l’Italia avrebbero volentieri scavalcato i democratici a sinistra - e quindi nemmeno quello dei numeri, che invece sulle unioni civili potrebbero ballare. E non ci sarà neppure bisogno di un’eventuale sponda dei Cinquestelle, anche perché il partito di Grillo non saprebbe bene che cosa fare: un tema del genere divide la sua base (un po’ di destra, un po’ di sinistra), e così i cittadini portavoce hanno scelto l’unica via indolore, quella dell’astensione. Motivandola con le solite ragioni («è una legge inutile»), ma senza riuscire a nascondere il proprio tallone d’Achille: l’impossibilità, cioè, di darsi un’identità politica su alcune questioni fondamentali. E la cittadinanza di un Paese, per quanto ieri mattina l’Aula fosse un deserto fino a mezz’ora dal voto finale, certamente lo è. Il testo uscito da Montecitorio è frutto di un compromesso, che limita lo ius soli (la cittadinanza italiana al momento della nascita in Italia) a una sola fattispecie: quella di un bimbo nato da almeno un genitore con carta di soggiorno, ovvero quel permesso di soggiorno Ue a tempo indeterminato che si ottiene dopo 5 anni di residenza, in presenza di un reddito minimo e il superamento di un test linguistico. Negli altri casi, servirà aver frequentato almeno 5 anni di scuola e concluso positivamente un ciclo: l’elettorato moderato di centrodestra-Ncd, ma anche alcune voci sparse di Forza Italia - come Renata Polverini - si rassicura perché l’identità nazionale non è stata svenduta, quello progressista di centrosinistra si consola commentando che, tra piuttosto e niente, è sempre meglio piuttosto. A meno che non ti chiami Possibile, il partito di Civati, e in quel caso ti astieni anche tu: per non darla vinta al Pd, e per non perderti - testuale - «nelle nebbie del compromesso con Alfano». I no non sono moltissimi, ma fanno rumore e battono su tasti noti da tempo: la paura di risvegliarsi in Eurabia (Fratelli d’Italia ci mette dentro pure i presepi vietati nelle scuole, già che ci stiamo, e minaccia un referendum), la rabbia sociale contro gli immigrati già presenti («hanno pure le cure mediche, magari senza pagare il ticket», aggiunge la Lega tra un cartello e un richiamo alla strage di Charlie Hebdo), l’idea che un figlio di immigrati nato qui debba sempre dimostrare di meritarsi l’onore di essere nostro connazionale (tesi dei berlusconiani). I sì non sono sempre straconvinti (Sel è delusa dal fatto che la legge non affronti il tema degli adulti, nonostante le firme raccolte dalla campagna “L’Italia sono anch’io”, e gli stessi cattolici di Per l’Italia parlano di «occasione perduta», dicendo che «avremmo potuto e dovuto fare di più»), ma l’impressione è che sui diritti questo Parlamento - frutto di elezioni politiche non vinte da nessuno - sia cronicamente obbligato a cercare maggioranze complicate. Da un lato, dunque, c’è l’approccio moderato dello stesso Renzi, che su temi del genere non pare disposto a forzare; dall’altro, appunto, ci sono i numeri, che - il voto sulla cittadinanza lo ha dimostrato - non possono sempre essere allargati a fisarmonica coinvolgendo chi, dell’opposizione, ci sta. La morale della favola è che, se questa legge non subirà modifiche durante la navetta, l’Italia si avvicina un po’ di più al resto d’Europa e probabilmente anche alla realtà, che dalla norma vigente (approvata a febbraio 1992) è cambiata parecchio. Più volte si è cercato di modificarla, anche nelle scorse legislature, ma senza mai trovare una maggioranza disponibile a farlo; ieri, finalmente, si è compiuto almeno il primo passo. Con buona pace di La Russa, che in Aula ha denunciato scandalizzato «il modo in cui la riforma della cittadinanza è stata imposta agli italiani»: appena 11 anni, 7 mesi e 20 giorni, considerato che la prima discussione in commissione Affari Costituzionali è datata 3 marzo 2004. Torna al sommario