"Latina e il suo campo profughi. Un'analisi storico-antropologica" di Carlo Miccio

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Latina e il suo campo profughi. Un’analisi storico-antropologica Carlo Miccio

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Latina e il suo campo profughi.

Un’analisi storico-antropologica

Carlo Miccio

INDICE

Introduzione: le ragioni di una ricerca ...............................................pag. 5Note all’introduzione ..........................................................................9

Capitolo I. Il viaggio. Legislazione sull’immigrazione ..............................111.1 Applicazioni dello status di rifugiato politico in Italia..................111.2 Perché l’Italia ..............................................................................151.3 Il Centro A.P.S. di Latina ............................................................18Note al capitolo I ..............................................................................21

Capitolo II. Tipologia del rifugiato .........................................................222.1 Un’emigrazione realmente politica? .............................................222.2 Un’emigrazione tendenzialmente politica: 1952/78.....................252.3 La nuova emigrazione. Il caso polacco.........................................26Note al capitolo II.............................................................................32

Capitolo III. L’approdo: Latina città multirazziale?..................................333.1 La città laboratorio......................................................................333.2 Latina olim palus ........................................................................353.3 La città incompiuta.....................................................................41Note al capitolo III ...........................................................................47

Capitolo IV. L'incontro...........................................................................494.1 Latina e il suo Campo Profughi...................................................494.2 Campo Profughi: oasi o ghetto? ..................................................524.3 Il lavoro negato ...........................................................................544.4 Le manifestazioni della crisi:la devianza sociale............................59Note al capitolo IV ...........................................................................62

Conclusione............................................................................................63Note alla conclusione ........................................................................68

Bibliografia .............................................................................................69

Allegati ...................................................................................................75

Postfazione all’edizione digitale 2016 ......................................................91

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INTRODUZIONE.

LE RAGIONI DI UNA RICERCA.

«Nessun dubbio che l’immigrato ponga dei problemi.

Ma l’immigrato non è solo problema.È una grande occasione.

Offre la chance forse unica di un discorso dialogico vero,

storicamente importante, tra culture diverse»1

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Fin dai tempi più remoti, la scoperta dell’Altro è sempre statafortemente connotata dall’elemento viaggio, dallo spostamento ma-teriale di individui nello spazio fisico; solo talvolta tale scoperta siè posta come finalità primaria del viaggio stesso, ma quasi sempreessa ne è stata una automatica conseguenza.

Si trattasse di Cristoforo Colombo che, oltrepassate le Colonned’Ercole, si trovasse di fronte “gente ignuda” piuttosto che inesauri-bili sorgenti d’oro, o piuttosto di un Marco Polo disposto a soffrirefatiche e patimenti pur di concludere buoni affari con il KublaiKhan, il risultato finiva sempre per essere lo stesso: la scoperta di“identità altre”, talvolta così altre da non essere percepite come ap-partenenti alla categoria dell’umano, come accadde nel caso di Cri-stoforo Colombo.2

Non a caso, risalendo alle origini della civiltà occidentale, si èsoliti individuare in Erodoto di Alicarnasso, storico greco del V se-colo a.C., il primo esempio di pratica etnografica quale moderna-mente noi intendiamo. Nelle Istorìai di questo antico viaggiatorepossiamo infatti osservare il primo tentativo documentato d'inda-

gine nei confronti di popoli altri, nel caso specifico non-greci, dicui lo storico greco aveva avuto modo di apprezzare l’antichità e laprofondità dei saperi proprio grazie alla pratica del viaggio-studio3.

Il paradigma del viaggiatore a cui oggi facciamo riferimento è,rispetto agli esempi di un Colombo o di un Marco Polo, in granparte mutato: alla figura del navigatore che si fa esploratore perconto dei propri sovrani si è sostituita quella dell’etnografo, dellostudioso che propriamente finalizza il proprio viaggio all’osserva-zione di popoli e culture diverse e lontane da quella in cui egli viveed è cresciuto. Nella cultura occidentale moderna il primo ad affer-mare l’importanza del viaggio come momento fondamentale delprocesso di conoscenza di popoli diversi dal proprio fu Jean JacquesRousseau, il che valse al pensatore ginevrino l’epiteto di “padre dellemoderne scienze sociali” da parte di Claude Levi Strauss4, cioè dicolui che probabilmente è il punto di riferimento di maggior rilievonel campo dell’etnologia contemporanea.

L’esempio che abbiamo oggi di fronte è quello di un Malinowskio di un Levi Strauss, i cui resoconti di viaggio ci prospettano realtàdiversissime da ciò che la nostra fantasia aveva esoticamente im-maginato, al punto da trasformare i Tropici da meravigliosi in tristi.Ma il fine ultimo di questi incontri solo in un secondo momentosi definisce ai nostri occhi: non di semplice osservazione si tratta,non di un gesto finalizzato allo sterile arricchimento del nostro ba-gaglio scientifico e culturale. Posto in questi termini, il viaggio tornaad essere una semplice vacanza, uno svago esotico per intellettualiricchi e annoiati dalle città europee. L’incontro, al contrario, acqui-sta valore solo quando l’Altro cessa di essere semplice oggetto distudio per diventare un prezioso fattore di confronto capace di me-diare il riappropriamento critico della propria identità, quando cioèl’Altro riesce a separare nella nostra coscienza quanto appartiene anoi in quanto attinente all’intero genere umano da quanto inveceè specifico della nostra cultura.

“...l’autocoscienza storiografica si allarga non solo riportando allaconsapevolezza il vero essere del nostro patrimonio culturale, ma altresìimparando a distinguere la nostra civiltà dalle altre” 5. Di più, po-tremmo affermare proprio con Levi Strauss che il mestiere etno-

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grafico implica di per sé “la messa in causa del sistema in cui si ènati” 6. Ma non è questa la sede per precisare quali siano i compitidella moderna etnologia: piuttosto mi premeva sottolineare lostretto nesso interagente tra il viaggio e ciò che De Martino chiamalo “scandalo etnografico”, ovverosia l’incontro con l’Altro da sé, lacui diversità è tale da consentirci due reazioni: quella acritica, ditipo razzista, del rifiuto, e quella della messa in mora delle normalicategorie di giudizio e della ricerca di nuovi parametri intellettuali.

Proviamo ora a ribaltare i termini: a farci cioè osservatori di unarealtà nuova, di un incontro in cui siamo coinvolti ma che scaturi-sce da un viaggio a cui non abbiamo partecipato. Potremmo defi-nire privilegiata questa nostra posizione: noi non ci siamo dovutispostare alla ricerca dell’Altro, a noi lo “scandalo” è stato recapitatodirettamente in casa; ma contemporaneamente si comprende facil-mente quanto più urgenti e pressanti siano le domande che tale in-contro reca con sé, quanto maggiore sia dunque il nostrocoinvolgimento. Questa ricerca nasce infatti da una situazione dioggettivo coinvolgimento da parte dello scrivente nei confrontidella realtà in analisi. Unità di luogo di questa ricerca è infatti lacittà di Latina, la città in cui io, osservatore di tale “scandalo”, ri-siedo da una ventina di anni. Una città che come vedremo presentapeculiarità proprie che la differenziano per molti aspetti da altri po-tenziali scenari urbani, una città che, a mio avviso, prospetta dueprocessi in qualche modo correlati: la ricerca di un’identità propriae l’apertura, quanto mai problematica, all’altro da sé.

Lo “scandalo” in questione riguarda l’incontro tra la popola-zione cittadina e i profughi provenienti dalle repubbliche socialistedell’Europa orientale, incontro reso fisicamente possibile dalla pre-senza nella città dell’unico campo profughi realmente operante inItalia. Questo fatto comporta che proprio Latina venga a costituirela prima situazione altra con cui i profughi si confrontano all’in-domani dell’abbandono delle loro terre d’origine, e implicitamentene segue da parte loro un’identificazione automatica tra il micro-cosmo cittadino e l’Italia intera nella sua totalità. D’altro canto,nellaprospettiva diametralmente opposta, il C.A.P.S. (Centro Acco-

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glienza Profughi Stranieri) rappresenta un violento innesto etniconel già fragile equilibrio sociale urbano.

Il viaggio a cui ci riferiamo è dunque quello che da Varsavia,Praga, Bucarest o Varna conduce diretto a Latina: un viaggio a cuinoi abitanti di Latina non abbiamo partecipato, ma che c’è dato dicondividere nei racconti orali in stentato italiano degli immigrati,o anche solo visivamente nelle interminabili code di targhe slaveparcheggiate nelle vie circostanti il Campo Profughi. La nostra po-sizione quindi, pur essendo esterna nei confronti del viaggio, è per-fettamente calata nell’incontro/confronto che da esso scaturisce.All’interno di questo quadro generale nasce il bisogno di rendereconto di questo incontro; l’impressione — per ora provvisoria —è che l’incontro in questione, pur sfiorato di continuo nella vitaquotidianità della vita cittadina, non sia mai finora riuscito ad espli-carsi se non limitatamente ad alcuni singoli casi individuali.

Ma alla base di questa ricerca c’è anche un’altra motivazione ditipo più personale ed interiore: recuperare un rapporto con la cittàche appare negato ai suoi stessi abitanti. Anche io sono un latinenseacquisito, figlio d’immigrati, e anche in me, come in molti mieiconcittadini, è presente una sorta di estraniamento culturale aquello che è il passato ed il presente di codesta città: le nuove e levecchie generazioni d’immigrati, dalla Sicilia e dal Veneto, dalla To-scana e dalla Jugoslavia, hanno dovuto abbandonare quello che erail patrimonio culturale della propria terra d’origine, senza però, ein ciò sta la peculiarità di Latina, che venisse proposto loro unnuovo modello su cui adeguare il proprio insopprimibile bisognodi socialità, senza che la città offrisse un nuovo bagaglio di tradi-zioni, di storia comune e luoghi architettonici da percepire comepropri. Latina continua a configurarsi come un luogo la cui esi-stenza risulta indelebilmente connessa all’elemento-viaggio. L’in-contro tra indigeni e nuovi arrivati, caratteristica comune ad ognifenomeno migratorio, si trasforma nel caso di Latina in incontrotra diversi nuclei d’immigrati, con una comunità integrante alleprese con problemi d’identità e una comunità da integrare man-cante di un modello referenziale.

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La domanda che si pone come punto di partenza per questa ri-cerca è dunque la seguente: questa particolarità facilita o complical’incontro delle diverse etnie? È possibile parlare in questo caso di“scandalo etnografico”?

La presupposta inesistenza culturale di Latina non è d’altrondeun assunto nuovo per i suoi abitanti: per molti di loro Latina è unacittà fantasma, dall’improbabile identità collettiva, di ciò è testi-mone la scarsa capacità d’aggregazione che hanno le sue piazze, isuoi parchi e le feste che che vi si organizzano. Contraddizioni, que-ste, esistenti alla base del rapporto stesso che io stesso, abitanteprima e osservatore dopo, stabilisco nei confronti della città.

NOTE:1) FRANCO FERRAROTTI, Osservazioni preliminari attorno alla possibilità di una società

multirazziale, citato in AAVV, Caratteristiche e problemi dell’immigrazione stranieranel Lazio, a cura della SIARES, Roma, volume consultato in bozze.

2) TZVETAN TODOROV, La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino,1984.

3) CARLO TULLIO ALTAN, Antropologia. Storia e problemi, Feltrinelli, Milano,1970, pp.20—21

4) CLAUDE LEVI STRAUSS, J.J. Rousseau, fondatore delle scienze dell’uomo, in AntropologiaStrutturale II, Il Saggiatore, Milano, 1973, pg 69 e sgg.

5) ERNESTO DE MARTINO, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977, pp. 389—398.6) CLAUDE LEVI STRAUSS, Tristi Tropici, Il Saggiatore, Milano, 1960.

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1.1 Applicazioni dello status di rifugiato politico in italia.

L’Italia, per vocazione storica e posizione geografica, è da sempreun punto nevralgico nello svolgimento delle varie correnti migra-torie internazionali. L’esistenza di tali correnti è un fenomeno con-naturato all’esistenza stessa di etnie diversificate, ma nell’attualesecolo il fenomeno migratorio ha acquistato uno spessore indub-biamente maggiore rispetto a quello avuto nel passato, in coinci-denza con l’estensione dei processi di industrializzazione e ilnotevole incremento raggiunto nel settore dei trasporti internazio-nali. All’interno della vasta categoria degli emigranti, un notevolepeso specifico riveste l’insieme degli emigranti cosiddetti politici,cioè in fuga dal proprio paese d’origine a causa di persecuzioni dinatura politica. Oggi questo problema investe principalmente learee del Terzo Mondo, ma le prime avvisaglie di questa tendenzafurono inizialmente avvertite proprio in Europa, all’indomani dellaconclusione della seconda guerra mondiale, quando si rivelò neces-saria almeno la regolamentazione di quei flussi la cui causa ultima

CAPITOLO I

IL VIAGGIO. LEGISLAZIONE SULL’IMMIGRAZIONE.

era da ricercarsi nella natura politica dei regimi da cui si fuggiva.Fino ad allora le norme esistenti si limitavano alle disposizioni dellesingole costituzioni nazionali: tra queste quella italiana che all’ar-ticolo 10 recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’ef-fettivo esercizio delle libertà garantite dalla Costituzione Italiana, hadiritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni sta-bilite dalla legge.” e al comma 4 “..non è ammessa l’estradizione dellostraniero per motivi politici...”.

Dopo la nascita di alcune organizzazioni minori tendenti aduna soluzione internazionale della questione dei rifugiati politici,nel dicembre del 1949 con la risoluzione 428(V) dell’AssembleaGenerale dell’ONU si ha la fondazione dell’UNHCR (United Na-tions High Commisionary for Reefuges), un primo importante or-ganismo che si prefigge tre scopi principali:

1) promozione di convenzioni internazionali per la protezionedei rifugiati;

2) coordinamento della cooperazione internazionale in mate-ria;

3) favoreggiamento dell’integrazione nei paesi d’asilo.

L’accordo tra UNHCR e Governo Italiano fu ratificato a Romail 2/4/1952 e reso escutivo con legge n.1261 del 15/12/1954(G.U.n.19 del 25/1/1955).

L’UNHCR, chiamato anche ACNUR (Alto Commissariatodelle Nazioni Unite per i Rifugiati) costituisce un organismo uma-nitario e strettamente apolitico, che esplica le sue funzioni in tuttii modi possibili: attraverso la presenza fisica dei propri funzionarinei paesi interessati dal fenomeno, ma anche agendo dietro lequinte dell’azione diplomatica, nel tentativo di ottenere un tratta-mento realmente umanitario nei confronti dei rifugiati, e tenendosiin stretto contatto con le agenzie di volontariato e le OrganizzazioniNon Governative che si occupano del problema.

Va comunque ricordato che l’ACNUR può avviare interventidi assistenza solo qualora che gli stati che accolgono e ospitano pro-fughi ne facciano richiesta.

Il primo e maggior risultato dell’UNHCR fu la promozione

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della Convenzione di Ginevra (28/7/1954). In essa si ha una primaprecisa definizione dello status di rifugiato: “..tutte le persone che sitrovino fuori dai paesi di loro nazionalità, o nel caso di persone senzanazionalità, fuori dai paesi dove avevano la residenza abituale, perchétemono o abbiano temuto con ragione di essere perseguitate per motividi razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinatogruppo sociale o per le loro opinioni politiche, e non possono o non vo-gliono, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questopaese; oppure chi, non avendo cittadinanza e trovandosi fuori dal paesein cui aveva residenza abituale a seguito di siffatti avvenimenti, nonpuò o non vuole tornarvi per timore di cui sopra.” 1

In linea di massima la Convenzione si occupa di equiparare irifugiati ai lavoratori locali in materia, di diritto del lavoro, e di li-mitare i provvedimenti d’espulsione ai soli gravi motivi di sicurezzae ordine pubblico, adottando il fondamentale principio del non re-foulement, appunto non respingimento. Ma le applicazioni dellaConvenzione sono limitate da due riserve: la sua applicazione è am-messa infatti solo per avvenimenti anteriori al 1/1/1951, e per av-venimenti verificatisi in Europa. Di queste due riserve (denominatetemporale e geografica) solo la prima aveva carattere di inappella-bilità, mentre l’accettazione della seconda era facoltà che ogni sin-golo stato doveva precisare al momento dell’adesione. Attualmentegli stati aderenti alla convenzione sono 104; in Italia l’accordo entrain vigore con legge n.272 del 24/7/1954 (C.U. n.196 del27/8/1954) con il mantenimento della riserva geografica ai soli av-venimenti europei. Solo il 31/1/1967, con il Protocollo di NewYork, ci sarà l’abolizione del vincolo temporale, ma alle nazionicontraenti verrà concessa la facoltà di mantenere la riserva geogra-fica, facoltà di cui l’Italia ha continuato ad avvalersi. Fino al30/12/1989 il Governo Italiano ha concesso solo quattro deroghea questa riserva geografica: nel 1973 a favore di un gruppo di cilenirifugiatisi nell’Ambasciata Italiana di Santiago in occasione delgolpe militare del generale Pinochet; nel 1979 a favore di circa 3500vietnamiti fuggiti dal proprio paese su imbarcazioni di fortuna (casodei boat-people); nel 1983 a favore di 35 afgani che avevano chiestoasilo politico presso l’aereoporto di Fiumicino, nel 1986 a favore

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di 106 irakeni di origine caldea ospitati presso la Comunità S.Egi-dio di Roma.

Indubbiamente, a quasi quarant’anni dall’adesione alla Con-venzione di Ginevra, possiamo definire eccessivamente angusti i li-miti posti dalla riserva geografica accettati dallo Stato Italiano, comerilevato in più occasioni anche dalla stampa straniera2, e decisa-mente sorpassati i criteri che regolano l’accettazione di persone po-liticamente perseguitate nei propri paesi d’origine entro i confinidella nostra Repubblica. Nell’attuale momento storico, in cui massedi emigranti e rifugiati dal Terzo Mondo premono alle soglie del-l’occidente, l’accoglimento di tale riserva svela tutto il suo anacro-nismo e, come afferma mons. Di Liegro, direttore della Caritasdiocesana di Roma, è indice dell’attuale “tendenza ad abbattere lefrontiere interne per rafforzare quelle esterne”3. Non è un caso d’al-tronde che la legislazione italiana in materia sia presa a modello neiprogrammi elettorali dei partiti dell’estrema destra europea, qualii neo-nazisti inglesi o i Republikaner tedeschi.

Recentemente però, con il discutissimo Decreto Legge 416,pubblicato sulla G.U. del 30/12/1989, tendente a stabilire una nor-mativa legislativa nel complesso campo dell’immigrazione stranierain Italia, anche il nostro Governo si è deciso ad abolire la riservageografica, allineandosi, seppur tardivamente, alle mutate necessitàdel mondo attuale4.

Ma non a tutti i profughi ospitati in Italia è riconosciuto lo sta-tus di rifugiato politico, anzi la stragrande maggioranza di essi nonpossiede i requisiti richiesti dallo statuto UNHCR. A tal scopo esi-ste una Commissione Paritetica di Eleggibilità, formata da membridel Governo Italiano e dell’UNHCR, incaricata di esaminare i sin-goli casi e verificare l’esistenza di reali persecuzioni politiche. Talecommissione risiede a Latina per i nuovi arrivi e a Roma per i casisur place (residenti in Italia da più di sei mesi). Attualmente il rico-noscimento dello status di rifugiato politico viene concesso a circail 4% dei casi esaminati, anche se poi tutti i rifugiati continuano agodere dell’assistenza del Ministero dell’Interno: l’ambiguità di que-sta situazione è causata dallo scarto esistente tra le disposizioni dellaConvenzione di Ginevra e il già citato art.10 della Costituzione

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Italiana, a dimostrazione del disordine entro cui viene regolata laquestione profughi sul territorio dello Stato Italiano.

Gli stranieri che in Italia si fregiano del titolo di rifugiati pos-sono essere ricondotti all’interno di tre categorie fondamentali:

1) Rifugiati sotto Convenzione: sono quei rifugiati che rientranonella casistica prevista dagli accordi tra ACNUR e Governo Ita-liano. Fino ad oggi si è dunque trattato di profughi provenienti dapaesi europei considerati non democratici, in specifico i paesi ade-renti al Patto di Varsavia, e in virtù di tali accordi essi possono usu-fruire di vitto, alloggio e assistenza sanitaria gratuita forniteall’interno dei campi profughi di Capua e Latina, oltreché in alcunestrutture alberghiere concentrate soprattutto nel Lazio;

2) Rifugiati sotto mandato ACNUR: si tratta di quei rifugiati chenon possono ottenere lo status dal Governo Italiano perché prove-nienti da paesi esterni all’area europea, ma possono ugualmente ot-tenere tale status dall’ACNUR. In tal caso il rifugiato sottomandato ACNUR è equiparato ad un qualunque cittadino stra-niero residente in Italia, senza che per esso siano previste agevola-zioni di sorta;

3) Rifugiati “de facto”: rientrano in questa categoria quei rifugiatii quali, pur non possedendo i requisiti richiesti dalla Convenzionedi Ginevra né dall’ACNUR, non possono tornare nel proprio paesed’origine, per timore di persecuzione o punizione, finendo così peringrossare le fila degli stranieri che, legalmente o illegalmente, sonopresenti in Italia.

1.2 Perché l’Italia?

Tuttavia, il motivo per cui un così gran numero di profughi de-cide di rifugiarsi proprio in Italia può apparire difficilmente com-prensibile ad una prima osservazione.

In effetti, l’Italia si configura in questi viaggi solo come unatappa, offrendosi per lo più come paese di primo asilo verso altremete finali, quali gli USA, il Canada o 1’Australia. Inoltre non sitratta di una nazione direttamente confinante con nessuno dei paesi

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appartenenti al Patto di Varsavia: come si spiega dunque un cosìmassiccio esodo?

Un primo importante motivo può essere individuato nel fattoche proprio i paesi direttamente confinanti hanno da tempo adot-tato misure restrittive, limitando notevolmente il flusso che pre-meva alle loro frontiere.

Ma, interpellando direttamente i rifugiati presenti nel Centrodi Latina5, si scopre che le motivazione di questo exploit italianosono ben altre: ad esempio il riconoscimento di notevoli facilita-zioni offerte ai profughi in vista di un’ulteriore migrazione verso ipaesi succitati, notizia questa ampiamente diffusa e nota nei paesidell’Europa Orientale, specialmente in Polonia.

“..quando si è sparsa la voce qua e là che le autorità italiane ga-rantiscono il sostentamento ai candidati all’espatrio, molti pensano avendere le loro abitazioni o altri averi per poter giungere in Italia nellaprospettiva di proseguire prima o poi verso un paese di definitiva resi-denza.”6

Unanimemente riconosciuta questa come la ragione che più diogni altra concorre a rendere appetibile l’Italia agli occhi di tuttiquesti rifugiati, bisogna però rendere conto di altri motivi che ren-dono la strada italiana “comodamente praticabile” nella prospettivadi un espatrio più o meno politico.

Innanzitutto, va evidenziata la non eccessiva difficoltà ad oltre-passare la frontiera italiana, sia che questo passaggio avvenga in ma-niera legale oppure clandestinamente.

Notevole poi è la vastità delle motivazioni che possono essereaddotte al momento di richiedere un visto per l’Italia: molta rile-vanza hanno infatti le voci sui passaporti relative a ragioni di carat-tere turistico, culturale, religioso e anche sanitario, relativamente acure che necessitano del clima mediterraneo.

Ma è ovvio che, in previsione di tempi di permanenza semprepiù lunghi, una certa attrattiva è costituita dalla particolare situa-zione economica che offre il nostro paese. Favorito dal caos legisla-tivo esistente in materia di immigrazione, da tempo nella nostranazione si assiste all’esistenza di un doppio mercato del lavoro: ac-canto ad un mercato garantito e protetto per la mano d’opera lo-

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cale, è sorto un altro mercato parallelo, illegale e spesso privo diuna qualsiasi garanzia, in grado di assorbire l’immensa forza lavorocostituita dalla massa di stranieri presenti in Italia e disposti a svol-gere compiti particolarmente gravosi e dequalificati.

Ma indubbiamente a nostro avviso la motivazione maggior-mente determinante a spiegare un tal flusso di rifugiati attraversoil territorio italiano è sicuramente da individuare nelle enormi fa-cilitazioni offerte a questa categoria di rifugiati, soprattutto se pa-ragonate ai problemi, spesso anche di natura burocratica, che sonocostretti ad affrontare gli immigrati provenienti da altre zone geo-grafiche.

Proprio queste enormi facilitazioni furono probabilmente lacausa scatenante dell’imponente afflusso di profughi registratosinell’estate del 1987, afflusso di tali proporzioni da condurre in unprimo momento alla paralisi del funzionamento dello stesso RossiLonghi e, a seguito del crollo di un edificio, il padiglione B, allasua chiusura e all’instaurazione di uno stato di emergenza che coin-volse l’intera città di Latina. D’altro canto, l’aumento fu effettiva-mente notevole, se si pensa che dalle 885 presenze di profughiregistrate in Italia nel 1978 si era passati alle 5.325 del 1986 finoalle oltre 10.000 del 1987. La situazione in un primo momentopoté essere risolta soltanto con la collaborazione della Caritas, dellaCroce Rossa e di altri organismi umanitari, ma pose il Governo Ita-liano nella necessità di adottare delle misure restrittive per arginareil fenomeno dei nuovi arrivi.

A tal scopo, nel novembre dello stesso anno, furono adottatidue provvedimenti restrittivi, uno nei confronti di tutti i rifugiatie uno rivolto in maniera specifica ai polacchi: questi ultimi costi-tuivano infatti il 90% dei 10.315 nuovi arrivi registrati in quellaanomala estate. Il provvedimento introduceva quindi l’obbligodell’apposizione da parte dell’Ambasciata Italiana a Varsavia di unTimbro Verde sul passaporto di coloro che richiedevano il visto perentrare in Italia: la presenza di tale timbro comportava l’accetta-zione incondizionata da parte del profugo che avesse intenzione divenire in Italia dell’impegno relativo al divieto di lavoro, di succes-siva emigrazione, di prolungamento del soggiorno e alle possibilità

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di auto-sostentamento. In base a questa disposizione, i polacchigiunti in Italia non possono più richiedere asilo politico, se non ov-viamente sulla base di solide motivazioni.

La seconda misura restrittiva è al contrario rivolta nei confrontidi tutti i profughi, e consiste nel rifiutare l’asilo a quanti raggiun-gono l’Italia passando attraverso la Jugoslavia. L’accordo in sostanzaprevede che i profughi, una volta lasciato il proprio paese, sianoobbligati a chiedere asilo al governo del primo paese libero firma-tario della Convenzione di Ginevra da loro attraversato: in questocaso il Governo di Belgrado viene a costituire un prezioso filtro pertutti i profughi in viaggio dall’Est Europeo verso l’Italia.

In conseguenza di questi due provvedimenti, i CAPS di Latinae di Capua diventano campi chiusi, intendendo con questo terminequei centri raccolta che non accolgono più nuovi arrivi, e di con-seguenza destinati irrimediabilmente a scomparire.

1.3 Il centro APS di Latina

Il Centro Assistenza Profughi Stranieri di Latina, ex CampoProfughi Rossi Longhi, svolge la sua funzione di assistenza all’emi-grazione dal 1/10/1957 e dal 15/10/1980 quella di primo accogli-mento e di sede della Commissione Paritetica di Eleggibilità, inseguito alla chiusura del CAPS di Padriciano (TS) avvenuta il30/10/1980. A tutt’oggi è rimasto l’unico campo profughi attiva-mente operante in Italia, con l’eccezione del centro di Capua (NA)che ospita quei rifugiati le cui pratiche d’espatrio risultino essereparticolarmente lunghe e complesse. Nel centro di Latina operapersonale della locale prefettura, del Ministero dell’Interno, del-l’UNHCR e di rappresentanza delle seguenti agenzie di volontari:

• CIME (Comitato Intergovernativo Migrazioni Europee)• UCEI (Ufficio Cattolico per l’Emigrazione Italiano)• IRC (International Rescue Commitee)• WCC (World Council of Churches)• Comitato Croato• Comitato Ceco

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• Comitato Sloveno• Comitato Bulgaro• Comitato Ungherese• Comitato Polacco• Comitato Romeno• Comitato Russo• Combattenti Polacchi• Fondazione Americano-Cecoslovacca• Servizio Unità Ebraica• Servizio Sociale Internazionale• Fondazione Tolstoj

Nato al di fuori, ma oramai situato all’interno del perimetro ur-bano, a seguito dell’evoluzione urbanistica della città, il campo diLatina nasce come struttura di base negli anni ’30 come casermamilitare dell’82esimo battaglione di fanteria, coprendo in origineun’area di 8 ettari, dimezzata negli anni ’70 per esigenze di ediliziapubblica, e ha una capienza di 800 posti letto: i problemi di ordinelogistico sono vari e le sue strutture datate e fatiscenti mal soppor-tano il crescente afflusso di ospiti registrato negli ultimi anni. L’am-ministrazione del campo ha tentato una provvisoria soluzione aiproblemi di sovraffollamento assegnando molti posti negli alberghie pensioni della città, soprattutto sul litorale, pensioni per lo piùdisabitate nel periodo ottobre-giugno, innescando così un primoufficiale rapporto di coinvolgimento economico tra la città e lestrutture del campo7. Al 23/3/1989 i 2384 ospiti erano ripartiti innumero di 448 all’interno del campo e 1936 nelle strutture alber-ghiere8.

Nell’estate 1987 i problemi di sovraffollamento sono emersidrammaticamente a causa di un inaspettato aumento del flusso daparte soprattutto di rifugiati d’origine polacca9. Le condizioni divita all’interno del campo sono indubbiamente più disagevoli diquelle offerte nelle strutture alberghiere, tanto che di fronte a com-portamenti scorretti da parte dei profughi sistemati negli alberghi,la punizione ventilata dalle autorità competenti è proprio quella diun trasferimento al campo: tra i problemi segnalati dai profughi

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emergono soprattutto le difficoltà conseguenti alle situazioni di so-vraffollamento e promiscuità registrate nel campo. È forse da farrisalire a questi motivi l’alto tasso di donne polacche che si rivol-gono alle strutture della locale USL/LT3 per operare interruzionidi gravidanza10.

Sono tre i programmi di emigrazione previsti, tutti promossidall’UNHCR:

- Governativo: il paese di accoglienza si assume le responsabilitàdi sistemazione;

- Individuale: responsabilità assunte da parenti, amici o agenzievolontarie;

- Casi difficili: portatori di handicap.Al momento attuale, strumentalizzata soprattutto a fini elet-

torali, si reclama da più parti l’ampliamento e la dislocazione delcampo al di fuori del perimetro urbano. Personalmente ritengo,concordando con G.Izzi11, che il problema vada spostato in altradirezione: è l’idea stessa di CAPS ad essere abbondantemente su-perata dai tempi come tra l’altro testimonia l’avvenuta chiusuradel campo in termini di nuove accoglienze; il mutato clima in-ternazionale (i CAPS così come concepiti dalla Convenzione diGinevra sono perfettamente funzionali al clima della guerrafredda), le differenze di fondo tra le motivazioni dell’attuale mi-grazione e quelle dei movimenti post-bellici, e inoltre la stessaevoluzione della concezione d’Italia come paese di primo asilo(vedi paragrafo seguente) impongono una riflessione su basinuove. L’auspicato rinnovamento andrebbe attuato nella direzionedi comunità aperte, inserite nel tessuto sociale urbano, come d’al-tronde spontaneamente accade nel caso delle comunità d’immi-grati provenienti dal Terzo Mondo. In questo proprio Latinapotrebbe rivelarsi come il più funzionale tra tutti i possibili sce-nari, vuoi per il tessuto sociale in continua definizione, data lasua giovane età, vuoi per la tanto conclamata e mai attivata poli-tica, culturale e non, dell’amministrazione locale, che mira a faredel capoluogo pontino una città europea e cosmopolita, capacedi coagulare in sé le pulsioni internazionalistiche provenienti dapiù direzioni.

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NOTE:1) Convenzione Relativa allo Status dei Rifugiati Politici, cap. 1, art.1.2) cfr “Italie: Un statut juridique pour les réfugiès non-europèens” in Refugies, agosto 1987.3) cfr “Giugni e Di Liegro: nuove leggi per gli immigrati”, ne Il Manifesto, 17/12/1988.4) cfr Conclusioni.5) Interviste riportate da MARIA I. MACIOTI in “L’Emigrazione polacca”, in AAVV “Ca-

ratteristiche dell’immigrazione straniera nel Lazio”, volume a cura della SIARES, con-sultato in bozze,

6) cfr DOMINIK MORAWSKY, “Un’illusione spesso vanificata”, ne Il Messaggero,7/12/1987.

7) I gestori delle strutture alberghiere convenzionate con il Ministero dell'Interno per-cepiscono una diaria di £. 22.338 per ogni ospite, ma lamentando notevoli ritardinel pagamento delle quote stabilite.

8) Fonte: archivio del Campo “Rossi Longhi”.9) Ai problemi generatisi nel CAPS di Latina nell’estate del 1987 la stampa nazionale

ha dedicato ampio spazio nel mese di agosto 1987.10) cfr Latina Oggi, 10/1/1989.11) G. Izzi, I Rifugiati in Italia. Applicazione della convenzione di Ginevra e progetto di

abolizione della riserva geografica, Frascati 1986, consultato in dattiloscritto.

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2.1 Un’emigrazione realmente politica?

È opinione abbastanza diffusa che l’emigrazione in atto nelcorso del decennio 1980/89 dalla sponda orientale a quella occi-dentale del continente europeo abbia in gran parte perduto quellemotivazioni politiche che la connotavano in passato nei confrontidi altri tipi di emigrazione.

Nel linguaggio corrente i termini rifugiato e profugo vengonoutilizzati indistintamente per indicare quella categoria di personeche forzatamente è costretta ad abbandonare il proprio paese d’ori-gine. Giuridicamente il termine profugo è usato dal diritto inter-nazionale nei confronti di quell’individuo il quale è costretto arichiedere asilo ad un governo straniero perché costretto all’espatrioda una persecuzione di natura politica.

L’insieme delle Convenzioni Internazionali relative ai profughipromulgate tra le due guerre mondiali, l’opera della Società delleNazioni, dell’I.R.O. (International Refugees Organization) e del-l’UNHCR hanno creato nel tempo una grande varietà di profughi

CAPITOLO II

TIPOLOGIA DEL RIFUGIATO

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e di rifugiati, classificabili in tre categorie principali:1) profughi politici: gli unici che possono designarsi con il ter-

mine “rifugiati”, sono coloro espulsi o fuggiti a causa di con-trasti con il governo del proprio Paese d’origine;

2) profughi economici: sono quei “migranti” fuggiti più o menoclandestinamente dal proprio Paese per trovare migliori con-dizioni di vita;

3) profughi per catastrofi naturali: sono persone coinvolte nellegrandi sciagure naturali, quali terremoti, inondazioni, siccità,e per tali motivi costretti all’espatrio.

Al giorno d’oggi però, la tradizionale distinzione tra le primedue categorie non è più così netta, e questo ragionamento è parti-colarmente valido per i profughi dell’Est Europa. Molto spesso in-fatti, le difficoltà di carattere economico che si registrano nei paesidel blocco socialista sono in stretta connessione con il tipo di re-gime politico al governo.

È peraltro vero che le condizioni politiche ed economiche in cuisi muove l’Europa degli anni ’90 sono profondamente mutate ri-spetto a quelle in cui il vecchio continente si dibatteva all’indomanidell’ultimo dopoguerra, periodo in cui venne varata l’attuale legi-slazione internazionale in materia di profughi. È facilmente intuibileil fatto che, e non poteva essere altrimenti, la Convenzione di Gi-nevra, risalente al 1951, e l’applicazione che di essa è stata fatta neisingoli stati aderenti, risentisse del clima di “guerra fredda” che re-gnava nel mondo di allora: così come fu concepita, la Convenzionein Europa ha assolto a due compiti fondamentali: il primo, quellodi sistemare l’enorme massa di profughi prodotti fisiologicamentedal secondo conflitto mondiale; il secondo, quello di limitare le ca-pacità di destabilizzazione del “fattore profughi” all’interno di un’Eu-ropa geometricamente dominata dalla logica dei blocchi.

Pur tuttavia, evolvendosi la situazione internazionale, non po-teva non mutare anche la fisionomia della fuga dall’est e degli stessifuggenti.

Analizzando alcuni dati statistici1, la prima e più evidente con-clusione è che è mutata la natura delle condizioni e delle motiva-zioni dell’espatrio dai paesi dell’Europa orientale.

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2.2 Un’emigrazione tendenzialmente politica: 1952/1978.

Possiamo dunque individuare nel periodo che va dall’adesioneitaliana alla Convenzione di Ginevra ai nostri giorni due specificimomenti, rivelatori di due diverse tendenze assunte dal movimentomigratorio in questione.

In una prima fase che va dall’adesione italiana del 1952 fino allametà degli anni ’70, ci troviamo di fronte ad un movimento chemantiene sostanzialmente intatte le sue motivazioni tendenzial-mente politiche.

Non a caso, l’afflusso più alto registrato in questo periodo risaleal 19572, all’indomani del fallimento della rivolta ungherese del1956. In quell’anno, che fu anche l’anno di apertura del CampoRossi Longhi di Latina, furono registrati 6600 ingressi di rifugiatipolitici entro i confini nazionali.

Nel periodo in esame, le etnie slave e baltiche sono rappresen-tate in maniera complessivamente uniforme, con un dato relativoai profughi dalla Jugoslavia falsato in maniera piuttosto evidentedalla presenza di numerosi rifugiati di origine italiana provenientidai territori dell’Istria e della Dalmazia, ceduti dall’Italia con il Trat-tato di Pace del 1947. Infatti la loro incidenza in percentuale sulnumero totale dei rifugiati era nel decennio 1961—70 del 74%,mentre oggi si riduce al 3%3. E fu proprio la massa di profughi ju-goslavi a gonfiare il numero complessivo di richieste, se si pensache sempre nel periodo 1961-70 gli arrivi ammontarono a 41.833unità, mentre già nel successivo decennio la cifra scese a 13.616unità4.

Oggi non esistono più in Italia profughi che si autodefiniscanojugoslavi, ma la spiegazione di questo mistero ha una natura squi-sitamente burocratica, dovuta al fatto che lo Stato Italiano non con-sidera più la vicina repubblica balcanica una nazione in cui nonvenga garantito l’esercizio delle “normali libertà democratiche”.Purtuttavia esiste una quota di cittadini jugoslavi di etnia albanese,provenienti dal Kossovo e dal Montenegro, che si autodefinisconocittadini albanesi per poter usufruire dello status di rifugiato, oquantomeno dell’assistenza del Ministero dell’Interno.

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Non sembra abbia invece inciso molto, in termini di incre-mento delle domande di asilo politico, il fallimento della “Prima-vera di Praga”, forse per il clima di rigido controllo che il governocecoslovacco ha imposto alle proprie frontiere. O piuttosto, comeci sembra più probabile, perché gli anni della crisi (politica) ceco-slovacca coincisero con gli anni della crisi (economica) nei paesioccidentali. Proprio in quel periodo dello shock petrolifero, all’ini-zio degli anni ’70, si registra infatti un improvviso e drastico calodelle richieste d’asilo da parte di cittadini delle repubbliche dell’Eu-ropa orientale, che raggiungeranno nel 1975 il loro minimo sto-rico5.

Ed è proprio in questo periodo che riteniamo di poter indivi-duare l’apertura di una seconda fase nel flusso migratorio in esame,una seconda fase in cui le motivazioni all’espatrio diventano ten-denzialmente economiche.

2.3 La nuova emigrazione. Il caso polacco

Prototipo di questa nuova dimensione assunta dal fenomeno èindubbiamente il gruppo polacco, che raccoglie oggi il 90% dellepresenze tra i rifugiati “politici” in Italia. Il fenomeno polacco è ti-pico dell’attuale decennio, ed è da molti ricondotto alla presenzain Vaticano di un pontefice polacco. Indubbiamente è difficile nonriconoscere a Giovanni Paolo Il un ruolo di riferimento ideale peri suoi connazionali rifugiati all’estero, non fosse altro che per l’im-pegno, sociale e talvolta politico assunto dalla Chiesa romana nelpaese baltico, spesso in netta contrapposizione con il governo co-munista. Wojtyla è dunque senz’altro un simbolo agli occhi dei nu-merosi rifugiati polacchi presenti in Italia, e ciò è particolarmentevero nel caso dei profughi alloggiati nei CAPS e negli alberghi diLatina, data l’esigua distanza che separa la città pontina dalla capi-tale. Ma è altrettanto vero che la percentuale di quanti approfittanodi pellegrinaggi religiosi per richiedere asilo politico in Italia, attri-buendo così alla religione un ruolo di implicita protesta politica,corrisponde a meno del 5% del totale dei pellegrini: tutti gli altri,

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come vedremo in seguito, provengono da gite turistiche o viaggiindividuali molto più costosi6. D’altro canto anche lo stesso pon-tefice ha, con il tempo, assunto un atteggiamento di ferma oppo-sizione nei riguardi del fenomeno della diaspora polacca: venendoincontro alle richieste del Ministero dell’Interno, messo in difficoltàdal numero crescente di richieste, Papa Wojtyla ha più volte esor-tato i giovani polacchi a non abbandonare la propria patria in vistadi un futuro incerto come quello che si presenta loro una volta rag-giunta l’Italia7.

Per quanto riguarda la Polonia può piuttosto essere utile ricon-dursi alla normalizzazione tentata dal regime del generale Jaruzelskialla metà degli anni ’80: da una parte il regime ha tentato di rial-lacciare i rapporti con i Paesi occidentali, promettendo contempo-raneamente il graduale snellimento del pesante deficit statale, conun indebitamento estero vicino ai trenta miliardi di dollari; ma allostesso tempo le riforme politiche si sono accompagnate, come sem-pre accade, al rigore economico, e quindi a sensibili aumenti deiprezzi e ad un inevitabile abbassamento del tenore di vita. Tuttociò, unitamente alla promulgazione di un’amnistia generalizzatache ha rimesso in libertà numerosi oppositori arrestati durante ilcolpo di stato del 1981, ha contribuito in maniera notevole ad in-gigantire il numero degli espatri.

Abbiamo parlato di emigrazione tendenzialmente economica,e quel tendenzialmente è motivato proprio dalla difficoltà di ope-rare una distinzione netta tra le motivazioni economiche e quellepolitiche. La maggior parte dei profughi intervistati nel corso diun’indagine sociologica condotta dalla prof. Maria I. Macioti8 sonod’accordo nell’addossare ai regimi politici di tipo comunista da cuiprovengono le inefficienze economiche che a loro avviso sono statedeterminanti nello spingerli all’espatrio: le motivazioni che lorostessi pongono alla base del gesto compiuto sono un intreccio diragioni di tipo economico e di tipo politico. Le critiche espresseverso i rispettivi regimi di provenienza finiscono per essere gene-ralmente sempre le stesse da parte di ogni intervistato: da un latosi denuncia la mancanza di libertà politiche, e soprattutto lo stata-lismo esasperato e l’asfissiante presenza del partito nella vita quoti-

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diana, situazione quest’ultima sentita come fortemente limitantesoprattutto nel campo professionale; al contempo tutti i rifugiaticoncordano nell’accusare i rispettivi governi delle condizioni di pro-fondo disfacimento economico in cui versano un po’ tutte le eco-nomie dell’est Europa, denunciando come insopportabile la scarsitàdei beni di consumo reperibili al mercato ufficiale, e contempora-neamente la presenza di tasse eccessive. Ma la condizione avvertitacome più gravosa da parte di chi decide di rifugiarsi in Occidenteè indubbiamente la scarsa correlazione che i regimi comunisti sta-biliscono tra grado di professionalità e retribuzione del lavoro: afronte di lavori gravosi e di complessa specializzazione i rifugiati la-mentano scarse retribuzioni, che ai loro occhi diventano ancora piùbasse una volta giunti in Italia, quando possono confrontare il pro-prio salario con quello percepito dai loro omologhi italiani. La fre-quenza di questa accusa è indicatrice di un’altra peculiarità diquesto particolare tipo di espatrio, e cioè che l’emigrazione dai paesidell’Europa orientale è un’emigrazione di lavoratori e professionisti.Sotto questo aspetto, oltre che per le agevolazioni ottenute dallostato italiano nel corso dell’iter migratorio, l’emigrazione dall’Eu-ropa orientale si differenzia profondamente da quella provenientedai paesi del Terzo Mondo, da cui giungono per lo più personesprovviste di titoli di studio e di qualificazioni professionali. Si puòdunque parlare di una fuga di individui relativamente benestantiverso un maggior benessere, come apertamente afferma un giorna-lista polacco che da tempo lavora in Italia: “non sono i più bisognosi,ma i relativamente benestanti che possono permettersi di emigrare” 9.

Dello stesso parere risulta essere anche mons. Szczepan Wesaly,incaricato del Papa per la cura pastorale dei polacchi all’estero, cheparla di “psicosi” a proposito dell’ondata migratoria dell’agosto1987, e afferma che “sarebbero molti coloro i quali, vivendo in con-dizioni assai peggiori, dovrebbero avere la precedenza su quelli che in-vece arrivano in Italia” 10.

I dati in nostro possesso confermano ampiamente queste affer-mazioni11: tra i settori professionali in cui operavano in patria lepersone rifugiate in Italia, troviamo gli impieghi più disparati, im-piegati, tassisti, sarti, ma anche ingegneri meccanici, tecnici elet-

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tronici e ricercatori biochimici. Perlopiù si tratta di individui gio-vani e con un alto tasso di scolarizzazione, e provenienti in massimaparte da grandi città. Quasi tutti, l’87%, entrano in Italia provvistidi denaro: piccole somme, dai 50 ai 200 dollari, ma indicative diun certo benessere rispetto alla situazione di partenza. D’altronde,la stragrande maggioranza di essi, usufruisce di mezzi privati abba-stanza costosi per effettuare il viaggio: il 46,8% raggiunge l’Italiain aereo e il 40,4% utilizzando la propria automobile, che nei paesidell’Europa orientale non è un bene privato di così enorme diffu-sione come lo è in Occidente, ma un privilegio dai costi elevati.

A differenza di tutte le altre categorie di immigrati che raggiun-gono l’Italia, un notevole peso in percentuale occupano interi nu-clei familiari, che di solito scelgono la stagione estiva per passare lefrontiere italiane12, usufruendo di permessi d’espatrio per motivituristici e con i documenti in regola. Le modalità di questo viaggiosono abbastanza eloquenti a riguardo della supposta “politicità” delgesto: l’espatrio è generalmente programmato durante il periodoinvernale, in cui vengono richiesti alle autorità i permessi e i docu-menti necessari, si mette a punto la Skoda o il 126 di proprietà fa-miliare e, qualora questo sia possibile, si spediscono a parenti eamici già residenti all’estero tutto ciò che si ritiene non sarà possi-bile condurre con sé al momento dell’espatrio. In ogni caso, la fron-tiera del proprio paese sarà valicata solo quando le autorità localiconcederanno tutti i permessi necessari. Balza agli occhi come intutto questo iter manchino proprio le caratteristiche proprie del-l’espatrio per motivi politici: non vi è traccia alcuna di clandestinità,né di fretta o tanto meno diffidenza verso le autorità politiche.

Appare a questo punto sempre più arduo continuare a definire“politico” questo tipo di emigrazione, anche se i profughi dell’Eu-ropa orientale continuano a rivolgersi al Ministero dell’Internoin qualità di rifugiati politici, e a suffragio della nostra tesi c’è ildato estremamente basso relativo alla percentuale di quanti ot-tengono lo status di rifugiato politico: tra tutti coloro che si ri-volgono alla Commissione Paritetica di Eleggibilità, il cui numeronon corrisponde neanche al totale dei profughi ospitati nei CAPSitaliani, appena il 4% ottiene lo status di rifugiato politico13, con

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cui si riconosce l’esistenza di reali persecuzioni per motivi politicinel paese di provenienza. D’altro canto sarebbe quantomeno pre-tenzioso estendere la qualifica di rifugiato politico ad ogni esuleche si dichiarasse insoddisfatto del governo del proprio paese: intal caso sarebbero veramente pochi coloro i quali, in qualunquepaese del mondo, non fossero in grado di potersi fregiare di talequalifica.

Quella dei profughi dell’est europeo è in definitiva un’emigra-zione con motivazioni essenzialmente economiche rivestite di unadignità politica: motivazioni dunque del tutto simili a quelle degliimmigrati provenienti dall’Africa, dall’Oriente asiatico o dal Su-damerica, con la differenza che queste ultime categorie non pos-sono avvalersi dei programmi assistenziali previsti dal Ministerodell’Interno, e questo anche quando si tratti di persone realmenteperseguitate nei paesi di origine. Basti pensare che tutto ciò chelo Stato Italiano predispone per accogliere i profughi polacchi èdallo stesso Stato negato a coloro i quali si rifugiano in Italia persfuggire a regimi chiaramente illibertari come quello sudafricanoo iraniano.

I profughi europei si prefigurano dunque come una categoria“privilegiata” tra le varie etnie che nel periodo attuale stanno dandoluogo anche in Italia a quella che da molti viene definita una “so-cietà multietnica”, e questo è a nostro avviso un fatto che moltodovrebbero far riflettere gli addetti ai lavori. Privilegiati i profughidell Europa dell’Est lo sono anche per un altro motivo: l’apparte-nenza, sia per “natura” che per “cultura”, ad un gruppo rispetto alquale un africano o un pakistano si trovano una posizione dienorme distanza. Gli europei dell’Est sono maggiormente accettatirispetto ad altri gruppi di immigrati per via delle loro maniere gen-tili, per i loro tratti somatici, che in molti casi corrispondono, grazieai loro capelli biondi e agli occhi chiari, all’ideale di “bello” mag-giormente diffuso in occidente: in ogni caso comunque i loro trattisomatici non rimandano ad un’alterità così radicale come nello spe-cifico degli africani o degli asiatici. Con gli italiani essi possonovantare una comune cultura europea e specificatamente mitteleu-ropea, un medesimo orizzonte religioso costituito dal cattolicesimo,

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e in alcuni casi (Romania) addirittura l’appartenenza ad un mede-simo ceppo linguistico; per questo insieme di motivi, rispetto ainon europei essi spesso sembrano maggiormente dotati della vo-lontà di adeguarsi al modello sociale proposto; ciò fa dimenticareagli italiani il fatto che questo fondo culturale comune elimina granparte delle difficoltà presenti in altri processi d’integrazione. A con-ferma di ciò, notiamo le osservazioni fatte dalla prof. Macioti, sullabase di un’indagine sociologica condotta su un campione di polac-chi ospitati nel CAPS di Latina e in alcune strutture alberghieredel Lazio14, che facendo riferimento allo schema relativo ai possibilitipi di comportamento avanzato da Robert K.Merton15 individuail tipo prevalente tra i rifugiati polacchi nel comportamento con-formista, rispettoso delle mete proposte dalla società, quali ad esem-pio (nella nostra società) famiglia, religione, successo economico esociale, libertà e autonomia individuale, e aderente ai mezzi che lasocietà offre per raggiungere tali obbiettivi: studio, lavoro e appli-cazione costante.

Ci troviamo quindi di fronte ad un immigrazione qualificabilecome borghese, che certamente solleva problemi minori di quelliaperti da altre categorie di immigrati e che, per assurdo, proprioper questo motivo sembra essere ulteriormente premiata dalle leggiitaliane con agevolazioni sconosciute da altre etnie. Ed è forse pro-prio questo il motivo per cui l’Italia sembra essere diventata la metaprivilegiata di questo tipo di immigrazione.

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NOTE:1) cfr. Allegato n.12) cfr. Allegato n. 13) cfr. Allegato n.24) cfr. Allegato n.25) cfr. Allegato n.16) DOMINIK MORAWSKY, “Un’illusione spesso vanificata” ne Il Messagero, 7/12/19877) cfr. “Troppi visti ai polacchi” ne La Repubblica, 19/8/19878) MARIA I. MACIOTI, “L’emigrazione polacca” in AAVV “Caratteristiche e problemi del-

l’immigrazione straniera nel Lazio”, a cura della SIARES, volume consultato in bozze.9) DOMINIK MORAWSKY, art. cit.10) “Troppi visti ai polacchi”, art. cit.11) M. I. MACIOTI, cit.12) cfr. Allegato n.5.13) cfr. Allegato n.6.14) M. I. MACIOTI, cit.15) ROBERT K. MERTON, Teoria e struttura sociale, Il Mulino, 1974.

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3.1 La città laboratorio

«L’agro pontino non è costituito da una,ma da varie popolazioni che tuttehanno costumi e bisogni diversi»1

Latina costituisce a nostro avviso uno scenario urbano con dellepeculiarità proprie che la differenziano profondamente dal restodelle città italiane. In una nazione piena di luoghi dalle origini cheaffondano nell’antichità più remota, dove ogni piazza rievoca unpassato illustre, dove ogni pietra si carica di significati storici ed ar-tistici che trascendono il presente, agli occhi di un frettoloso visi-tatore Latina potrebbe apparire come un freddo agglomerato dimodernità gratuite, ultima testimonianza celebrativa di un regimeil cui fine ultimo è stato definitivamente espulso dalla storia. A li-vello urbanistico ed architettonico Latina appare ai più come unoscomodo ricordo di un passato da dimenticare in fretta.

CAPITOLO III

L’APPRODO: LATINA CITTÀ MULTIRAZZIALE?

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Latina, oggi secondo polo demografico del Lazio, venne fondatacon il nome di Littoria da Benito Mussolini nel dicembre del 1932,e l’origine fascista sembra ancora oggi essere il carattere che più diogni altro ha indelebilmente marchiato di sé la crescita successivadella città. Ma le peculiarità che ipotizziamo in questa sede non ri-guardano tanto l’origine fascista della città, quanto piuttosto le mo-dalità di sviluppo che essa ha assunto all’indomani di quel fatidico18 dicembre 1932; proprio per la sua recente origine, alla base dicui ci preme sottolineare non tanto il carattere politico quanto piut-tosto il fatto che “con la bonifica e colonizzazione dell’Agro Pontinoci troviamo di fronte alla prima esperienza di pianificazione territo-riale in Italia” 2, Latina oggi rappresenta agli occhi degli scienziatisociali un preziosissimo laboratorio di osservazione in cui le dina-miche socio-culturali risultano essere estremamente accelerate e vi-sibili.

Nei suoi poco più di 50 anni di vita, la città pontina ha vissutotutti quei momenti di crescita che le hanno consentito di mutare ilproprio carattere da borgo rurale in moderna città di servizi e tec-nologia. In seguito alla colonizzazione dei territori paludosi, la cittàha vissuto una crescita tumultuosa attraversando momenti fonda-mentali, quali il periodo della guerra, un processo di industrializ-zazione negli anni ’50 e ’60 e una profonda crisi economica neglianni dello shock petrolifero. Contemporaneamente, la popolazioneurbana si è rimodellata sull’effetto delle diverse ondate migratoriesusseguitesi nel tempo: inizialmente i coloni dal nord Italia, e so-prattutto dal Veneto, in seguito gli immigrati dal meridione e dallafascia montana circostante la palude.

La dimensione del melting-pot non sembra dunque essere perLatina soltanto una suggestiva ipotesi di ulteriore sviluppo, ma atutti gli effetti una realtà oggettiva all’interno della quale l’interacomunità cittadina si muove fin dalle proprie origini.

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3.2 Latina Olim Palus

«Il mito delle origini di Latina,della bonifica veloce e perfetta,

può essere anche un mito nazionale,utilizzato forse per nascondere

l’inconsapevole nostalgia di un tempoin cui i treni erano sempre in orario

e i nodi non si scioglievano ma si tagliavano.» 3

È stato notato come a tutt’oggi persista nell’opinione pubblicaun forte complesso nei confronti della bonifica operata dal regimefascista4. Complesso che taglia trasversalmente fasce diverse sia dellapopolazione che della rappresentanza politica, a cui neanche unsincero antifascista come Sandro Pertini seppe sottrarsi in occasionedelle celebrazioni per il cinquantenario della fondazione di Latina,affermando che “cinquant’anni fa Mussolini progettò la bonifica pon-tina e riuscì a far crescere grano dove c’erano paludi e malaria. Fu unagrande opera, sarebbe disonesto negarlo” 5. Il giudizio degli storici alriguardo si discosta però alquanto da quello espresso dall’ex presi-dente della Repubblica.

In effetti, il regime fascista utilizzò a fini propagandistici pianidi bonifica esistenti già da tempo: le idee fondamentali alla basedel processo di bonifica idraulica erano ad esempio in gran partederivate da un progetto dell’ingegner Giuseppe Marchi elaboratogià nel 1918 dall’Ufficio speciale del Genio Civile per il Tevere el’Agro romano. Contemporaneamente alla bonifica il regime fasci-sta avviò un parallelo processo di colonizzazione pianificata del ter-ritorio che, dietro lo slogan “Ad ogni podere la sua famiglia, ad ognifamiglia la sua casa”, mirava a popolare le terre bonificate secondoun’ottica ruralistica tagliata su misura per il colono in quanto partedi una massa acclamante.

Vedremo in seguito perché, se la bonifica delle terre poté essereconsiderata un traguardo pienamente raggiunto, non altrettanto sipuò dire della colonizzazione pianificata. Insuccesso quest’ultimo,

che non impedì comunque alla propaganda fascista di dipingerel’intero esperimento, bonifica e colonizzazione, come una grandeprova di forza del regime e di Mussolini in particolare.

Nei giorni della nascita di Littoria la stampa nazionale ed esteraincensò senza mezzi termini l’immensa impresa tecnologica com-piuta. La lettura degli articoli dedicati alla fondazione della nuovacittà fascista dimostrano ampiamente in quale ottica il regime in-quadrava lo sforzo compiuto 6: “Un problema millenario affrontatoe risolto per volontà di Mussolini” titolava Il Giornale d’Italia del20/12/1932, e il duce stesso nel discorso di fondazione affermavache “...quello che fu invano tentato durante il passare di 25 secoli, ogginoi stiamo traducendo in realtà vivente”. In questa maniera si con-trapponeva la riuscita del disegno fascista al fallimento di tutti iprecedenti tentativi, da quelli tentati nell’antichità dai vari Impe-ratori romani a quello più recente di papa Pio VI risalente al XVIIIsecolo, e celebrato in maniera enfaticamente adulatoria anche daVincenzo Monti nella sua Feroniade. Ma se questa immagine trion-falistica di una bonifica “veloce e perfetta” poteva essere contrabban-data facilmente agli osservatori esterni, sforzi maggiori eranodedicati dalla propaganda nei confronti di coloro che stavano af-frontando sulla propria pelle i disagi che la risoluzione di quel pro-blema millenario comportava. I coloni, chiamati dal governofascista a bonificare e popolare l’Agro Pontino, furono oggetto diun’esaltazione solitamente riservata agli eroi militari: il fascismo lidipinse come “una massa di militi in piena guerra, esposta ai più letalipericoli” 7, dei fascisti veri per cui, come affermò lo stesso Mussolininel discorso di fondazione di Littoria, “più ancora della vittoria haimportanza il combattimento” 8.

E la figura del duce rivesti indubbiamente un ruolo fondamen-tale nell’immaginario collettivo dei fondatori di Latina, ex Littoria,a tal punto da poter parlare di un vero e proprio mito di Mussolini9.Tracce materiali di questo mito sono rintracciabili ancora oggi neiracconti orali dei coloni tuttora viventi: il duce compariva d’im-provviso nei campi, partecipava alle operazioni di semina e treb-biatura insieme ai contadini, si fermava a parlare con loroascoltandone i problemi e promettendone una rapida soluzione

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prima di allontanarsi a bordo della sua rombante motocicletta, di-leguandosi veloce così come era apparso. E d’altronde la presenzadi una figura mussoliniana contornata da un’aura di santità eccle-siale è ancor oggi testimoniata dal mosaico che fregia la chiesa diSabaudia, rappresentante Mussolini nell’atto della trebbiatura traangeli e altre figure religiose.

Ma viene da chiedersi come sia stato possibile il sorgere di untale culto nei confronti di un personaggio che era pur sempre il re-sponsabile principale delle tristi condizioni d'esistenza in cui ver-savano i primi coloni e le loro famiglie. Il motivo e facilmenterintracciabile, oltre che nel carisma che il personaggio Mussolinioggettivamente aveva, nella particolare disposizione gerarchica deiruoli stabilita, dal regime nei territori bonificati. Se infatti da unaparte il regime, tramite l’Opera Nazionale Combattenti, si presen-tava ai coloni come loro legittimo datore di lavoro, d’altro canto lostesso regime, nelle vesti dei partito e del sindacato, era l’unica or-ganizzazione deputata alla difesa dei coloni che si sentivano vittimedei soprusi dell’ONC.

“Nell’Agro Pontino il fascismo giocava contemporaneamente ilruolo di governo con l’ONC e quello di opposizione con il PNF e sin-dacato” 10. In tale maniera i coloni, pur sentendosi defraudati nelleaspettative create dalle promesse fatte loro da Mussolini che li avevaconvinti (e non sempre pacificamente)11 a lasciare le proprie terred’origine per avventurarsi nelle paludi pontine alla ricerca da unmiglioramento delle condizioni di esistenza, tendevano a scaricaresull’ONC ogni colpa. Se Mussolini era colui che aveva offerto lorouna possibilità unica, l’ONC si configurava come il maggior osta-colo al raggiungimento completo di questo obbiettivo. Si trattò indefinitiva di una protesta che mai travalicò i confini del sistemastesso in cui nasceva.

Ma se la figura di Mussolini poté rivestirsi di caratteri mitici, ilmerito è anche delle condizioni e delle modalità specifiche con cuisi attuò l’intero processo di bonifica nella zona dell’Agro Pontino.In esso non è difficile rintracciare l’intera impalcatura simbolicache appartiene universalmente ad ogni mitologia della fondazione:la separazione delle terre dalle acque, l’esodo dei popoli, la presenza

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di flagelli mortali dai connotati biblici, qual’era ad esempio la ma-laria, la semina di una terra promessa e la fondazione di città nuove,elementi questi tutti azionati dalla volontà creatrice di un de-miurgo, Mussolini appunto.12

Dunque, un orizzonte di aspettative bibliche attendeva i primicoloni che decidevano di avventurarsi nelle paludi pontine, e forseanche per questo la scelta selezionatrice del Comitato Migrazionie Colonizzazioni Interne cadde in gran parte su gruppi familiariprovenienti dalle campagne veneta. I veneti, che rappresentavanoil 60% della prima ondata migratoria, vennero scelti dal regimeperché considerati onesti, sobri e prolifici, ex combattenti e biolo-gicamente fortificati per resistere alla malaria; queste almeno furonole motivazioni con cui il C.M.C.I. giustificò la scelta di privilegiarei veneti nel processo di popolazione pianificata delle terre bonifi-cate.

In realtà, due ben più consistenti motivazioni agivano alla basedi questa scelta. Innanzitutto, molto incisero gli effetti della gravecrisi economica dei primi anni trenta, che in Veneto risultava piùsensibile che altrove a causa della forte spinta demografica a cui erasottoposta la regione euganea. Proprio a causa di tale crisi nellecampagne venete erano andate man mano intensificandosi mani-festazioni spontanee di disagio collettivo che costituivano un pro-blema non da poco per il governo fascista. In secondo luogo, unanotevole importanza assumeva in chiave di programmazione socialeil credo religioso professato dai coloni. I veneti sono tradizional-mente riconosciuti come una popolazione profondamente cattolica,e l’ideologia ruralista propugnata dal fascismo registrava molti puntiin comune con la dottrina del cattolicesimo sociale, punti in co-mune che andavano dalla visione gerarchica della collettività socialead un ideale anti-borghese tipico di situazioni precapitalistiche, ein questo senso ostile sia al liberalismo che al socialismo. La sceltadi affiancarsi alla chiesa nel tentativo di formare degli schemi, dimobilitazione sociale che investissero i neo-immigrati non risulteràtuttavia pagante per il regime: infatti i coloni, dispersi e frazionatinei singoli poderi, chiamati a decidere tra le due strategie di sensoproposte, quella dell’uomo nuovo di matrice fascista e quella orien-

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tata nel tradizionale senso religioso, scelsero in larga parte quest’ul-tima13, e a nulla valse la lotta che in un secondo momento il PNFingaggiò con le strutture ecclesiastiche circa il monopolio della for-mazione socioculturale dei giovani nell’Agro Pontino. Queste os-servazioni, se da un lato possono in parte servire a spiegarel’automatismo con cui nel dopoguerra la Democrazia Cristiana sisostituì all’ideologia fascista nel consenso politico espresso dalle po-polazioni locali, d’altro canto non possono far trascurare il fattoche quella tra fascismo e chiesa cattolica fu un’alleanza fondamen-talmente organica nel porre al centro dell’intero processo di piani-ficazione sociale l’istituto familiare, e nella fattispecie un particolaretipo di famiglia, la famiglia polinucleare, e cioè una famiglia cheriunisce i singoli nuclei generatisi in essa nel corso degli anni. Infunzione ruralistica, le famiglie coloniche vengono infatti distri-buite lungo tutto il territorio bonificato, sovente a grande distanzal’una dall’altra, in linea con lo slogan del regime “Ad ogni poderela sua famiglia, ad ogni famiglia la sua casa”. Contemporaneamente,in un preciso quadro di riferimento anti-capitalistico, la famigliapolinucleare viene a collocarsi al centro dei rapporti salariali: essa,in quanto micro-cellula organizzata capace di gestire in proprio illavoro sul terreno affidatole, si colloca all’ultimo gradino di una pi-ramide gerarchica al cui vertice si poneva il partito, e da esso tramitel’ONC discendeva direttamente fino al capofamiglia, delegato arappresentare un’autorità investita di potere anche materiale, comerisulta peraltro in alcune testimonianze rase oralmente dal prota-gonisti: “il tutto era intestato al nonno, quindi lui non era solo il ca-pofamiglia, l’autorità in senso morale, lo era anche in senso economico,perché lui era l’unico padrone e i figli erano quelli che lavoravano nellecampagne, e lui dirigeva. Tutte queste persone vivevano in una stessafamiglia... C’erano tutti i figli del nonno con le loro mogli e i loro figli.I soldi li gestiva tutti il nonno, lui comperava quello che serviva, com-perava il mangiare...” 14.

Si trattò in definitiva di “un ritorno a modelli familiari in via disuperamento” 15, essendo quella della famiglia polinucleare una ten-denza già in calo in quei tempi e ricreata in maniera coatta sotto laspinta ideologica del fascismo. L’artificiosità di questa situazione ri-

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sultò evidente all’indomani del crollo del fascismo, quando su tuttoil territorio bonificato si registrarono numerosissime liti familiari,che ebbero sovente strascichi giuridici, circa la spartizione dei ter-reni e dei poderi assegnati dall’ONC.

D’altro canto, una così numerosa famiglia doveva servire ad at-tenuare il senso d’isolamento avvertito dai primi coloni giunti inAgro Pontino, sparsi come erano sul vasto territorio. Proprio l’ec-cessivo frazionamento nella disposizione dei nuclei colonici e le no-tevoli distanze intercorrenti tra vari poderi costituiva il maggiorostacolo all’integrazione reciproca tra nuovi arrivati. Non essendocitra l’altro un pre-esistente tessuto sociale ad accoglierli, i primi co-loni si trovavano a rimanere orfani del sistema di relazioni socialiin cui erano originariamente inseriti nei loro paesi di nascita senzaavere la possibilità di sostituirlo con una nuova rete di rapporti so-ciali. La distanza tra i poderi, le avverse condizioni naturali, la diffi-denza verso etnie diverse dalla propria, l’assoluta mancanza inizialedi pur minimi luoghi di incontro: tutti questi fattori, ostacolandol’aggregazione fisica degli immigrati e la comunicazione tra di essi,ritardarono al contempo la costituzione d una rete di rapporti chepotesse definirsi autogena, e con essa la consapevolezza di esserparte di una nuova collettività che andava lentamente formandosi.E tale collettività era talmente priva di punti di riferimento comuni,che non fossero quelli del lavoro nel proprio podere, da spingerealcuni di loro a dubitare di trovarsi ancora in Italia, come ad esem-pio testimonia una lettera spedita nel 1936 al Capo del Governoda una colona bisognosa d’aiuto: “...in 16 anni ho dato alla luce tre-dici figli, 10 in Italia e tre nell’agro pontino” 16

Se dunque sul piano tecnologico il regime dava prova di capacitàinnovative, utilizzando i mezzi più avanzati e sofisticati che l’indu-stria nazionale produceva, non ugualmente positivo è il giudizioche può essere espresso circa la politica sociale attuata dal regimenelle campagne bonificate. Alla frantumazione della popolazionesul territorio fa per converso riscontro una minuziosa pianificazionedel lavoro a cui i coloni raramente partecipavano: l’ONC assegnavaloro il terreno e ordinava loro cosa seminare, come e quando rac-cogliere, e ai contadini non restava altro che eseguire. Tutto ciò che

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lega i primi abitanti della bonificata pianura pontina è “...null’altroche la contiguità territoriale e la finalità produttiva” 17, entrambe pre-determinate dal regime e vissute passivamente dagli stessi protago-nisti, cioè i coloni. La struttura sociale su cui viene formandosiLatina è in sostanza “una struttura che nasce già adulta perché artifi-cialmente predeterminata nei suoi aspetti costitutivi” 18, prima ancorache le venga concessa una crescita in termini di una propria identitàculturale. Appare a questo punto completamente condivisibile ilgiudizio formulato da Enzo Ragionieri secondo cui la bonifica rien-tra a pieno merito nell’obiettivo politico-istituzionale proprio delregime fascista di “cristallizzare l’ordine sociale esistente” 19.

3.3 La città incompiuta

«A Latina non c’era – o almeno non c’è stata per tanti anni –una società sufficientemente strutturata nella quale

l’immigrato potesse integrarsi.Così come non c’era una società capace di assimilare

i gruppi etnici di nuova immigrazione. La particolarità di Latina

consiste nel fatto che essa è una città nuova,nella quale ognuno è immigrato e tutti (sono)

in un modo o nell’altro, degli estranei.»20

Latina, ad oltre cinquant’anni dalla sua fondazione, è una cittàcon una propria fisionomia, lontanissima da quella proposta a suotempo dalla retorica imperiale, che la voleva città nuova strappatadall’ingegno italico alle avverse condizioni di una natura ostile. Lacrescita successiva al secondo dopoguerra ne ha infatti sensibil-mente modificato la struttura urbana e architettonica, e la città vivetutt’oggi una fase di notevole crescita demografica e territoriale chesi quantifica materialmente agli occhi degli stessi abitanti nel gro-viglio di strade e costruzioni nuove che vengono continuamenteinaugurate a ritmi impressionanti. È lecito dunque supporre come

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ampiamente superata e limitante l’equazione Latina = città fascista,soprattutto qualora si confronti il capoluogo pontino con altre“città nuove” sorte durante il ventennio, città che non avendo vis-suto lo sviluppo registrato a Latina negli anni ’50 e ’60 conservanoin maniera più evidente il marchio dell’imprinting fascista, e ci ri-feriamo nel caso specifico a Pontinia e soprattutto a Sabaudia. Nelcaso di Latina gli avvenimenti successivi hanno invece apportatomodifiche tali al tessuto sociale e urbanistico da rendere estrema-mente complessa la questione del rapporto che la città instaura conle proprie origini.

Ci riferiamo, ad esempio, alle proposte politiche miranti spessoin maniera apertamente demagogica, a definire attraverso cancel-lamenti e recuperi di determinate componenti del centro urbanoil carattere stesso dell’identità cittadina. Due casi, pur nel loro ca-rattere propositivo, hanno attirato l’attenzione dello scrivente comeesempi diametralmente opposti della maniera in cui la classe poli-tica locale tenta un recupero nei confronti dell’identità cittadina, oalmeno nei confronti di ciò che è ritenuta tale.

Nel primo caso si tratta della proposta del capogruppo liberaleal consiglio comunale avv. Piattella, risalente all’ottobre 1987, dirispolverare le iscrizioni dell’epoca fascista disseminate nel centrostorico e nascosto dal deterioramento successivo causato dall’inqui-namento e dal disinteresse delle varie amministrazioni locali. Nelsecondo caso invece la proposta venne dal gruppo socialista localeche, nel dicembre 1985, presentò un piano mirante ad abbattereinteramente le costruzioni del centro storico per ricostruire ex-novola città con un “volto democratico”. Un progetto che aveva d’al-tronde un precedente, quando nell’immediato dopoguerra l’on. DeAngelis, anch’egli socialista, propose di radere al suolo Latina, sim-bolo infausto del fascismo21.

Da richieste di tal genere emerge tuttavia nella sua interezza ilproblema del rapporto che la città intrattiene con il proprio passato:Latina, città costituzionalmente proiettata nel futuro, in appenacinquant’anni di vita ha accumulato una tale quantità (e soprattuttoqualità) di storia, da restarvi irretita dentro come in un sogno ri-corrente. E ciò a tal punto che, oggi, la tecnica della memoria viene

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proposta esclusivamente in termini di rifiuto totale, come nel casodella proposta del PSI, o in termini di nostalgia gratuita, e in questachiave assumono significato le notevoli percentuali che il MSI ri-scuote puntualmente nelle urne cittadine ad ogni occasione di voto.E su questo punto è doverosa una chiarificazione: è evidente infattiche il MSI non ottenga nella città pontina alti suffragi in conse-guenza di una reale politica legata ad obbiettivi sentiti dalla citta-dinanza, come ad esempio, nel caso di Bolzano, ma piuttosto inseguito al perdurare nell’opinione pubblica di quel complesso dellabonifica rilevato da A. Parisella e di cui abbiamo parlato nel prece-dente paragrafo.

D’altro canto a nostro avviso, calandoci in una prospettiva sto-ricizzante, ci sembra opportuno rilevare che l’esistenza stessa di La-tina rappresenta un fallimento nell’ottica della pianificazione fascista.Nel precedente paragrafo ci siamo soffermati sull’ipotesi ruralisticasottesa a tutto lo svolgimento del processo di bonifica. Lo sparpa-gliamento della popolazione avvenuta mediante la divisione in po-deri del territorio bonificato era perfettamente funzionale aquell’ideologia anti-borghese che vedeva nella città il luogo depu-tato alla concentrazione di capitali privati e lavoratori salariati, e diconseguenza alla nascita delle agitazioni classiste prefigurate dai par-titi marxisti. Proprio per evitare questo pericolo, il governo fascistaaveva in mente una bonifica che poggiasse le proprie basi sull’ideadi borgo rurale piuttosto che su quella di città multifunzionale. Edè opportuno sottolineare che l’accantonamento di questo progettonon si sviluppò in seguito al crollo del regime fascista ma già all'in-domani del 18/12/1934, quando a soli due anni dalla creazionedella città, venne costituita la provincia di Littoria, e il capoluogodivenne centro di servizi e strutture burocratiche.

Come si vedrà meglio in seguito, questa mutazione contribuìmolto alla creazione di un più consistente nucleo sociale indigeno,agendo la città con le sue fabbriche e suoi uffici come luogo capacedi favorire l’incontro tra i propri nuovi abitanti, piuttosto che osta-colarlo come succedeva nelle campagne. Le fabbriche, anche graziealle strutture sindacali operanti in esse, si rivelano luoghi più adattirispetto alla campagna nel favorire i contatti tra i lavoratori e nel-

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l’avviare quelle elementari forme di riconoscimento reciproco ne-cessarie al neo immigrato per sviluppare il primo contatto con lastruttura sociale in cui intende confluire. Ovviamente quindi, i varimutamenti avvenuti nella fisionomia produttiva della città diederoluogo a nuove forme d’integrazione tra cittadini ed immigrati.

Vittorio Cotesta, nel suo volume Modernità e Tradizione 22, de-linea tre fasi fondamentali riguardo al profilo lavorativo assuntodalla città di Littoria/Latina nel corso della sua breve esistenza. Ana-lizzando i dati sull’occupazione ripartita per settori di lavoro, egliindividua nella storia di Latina un primo periodo in cui le attivitàlavorative vertono principalmente sul settore agricolo, e altre duefasi incentrate rispettivamente sulle attività propriamente industrialie su quelle del settore terziario.

A scandire i momenti di passaggio tra questi diversi momenti,Cotesta pone tre precise catastrofi, termine da intendere nel suosenso etimologico di capovolgimento e quindi apertura di unnuovo ciclo.

La prima catastrofe è individuata naturalmente nel processo dibonifica integrale, come momento di creazione ex novo di unanuova realtà. Nei dati concernenti la situazione delle attività lavo-rative nel 1936 si registra una netta prevalenza di impiegati nel set-tore agricolo, nella percentuale del 71,5% sul totale della forzalavoro, con un 18% di lavoratori nel ramo industriale e un restante10,5% impiegato nelle attività terziarie. La seconda catastrofe è in-vece costituita dall’ingresso, avvenuto nel 1951, della provincia diLatina nell’area di intervento speciale della Cassa del Mezzogiorno(legge n. 646 del 10/5/1950), il cui risultato principale fu quellodi attirare notevoli capitali d’investimento da parte delle industriemultinazionali, e di conseguenza di favorire lo sviluppo di attivitàindustriali in grado di richiamare lavoratori da fuori i confini dellaprovincia. Al termine di questo periodo, nel 1971, il mercato oc-cupazionale della provincia si trova ad essere così riequilibrato:12,6% di impiegati nel settore agricolo, 42,2% in quello industrialee un 45,2% di lavoratori nelle altre attività. Momento conclusivodi questa fase di incremento sarà lo shock petrolifero dei primi anni’70, terza catastrofe individuata dal Cotesta, che aprirà una pro-

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fonda crisi industriale e un conseguente ri-assestamento del mer-cato del lavoro: nel 1981 le percentuali risultano così ripartite:9,5% di impiegati nel settore agricolo, 35,8% in quello industrialee 54% nel terziario23.

Ma il dato a nostro avviso più interessante è costituito dal fattoche in tutti e tre i casi le catastrofi hanno un’origine esterna a deci-sioni della città, come se quest’ultima non fosse stata finora in gradodi un’auto-programmazione neanche in un settore così importantecome quello delle attività lavorative.

E il lavoro, come abbiamo già avuto modo di intuire, è unmomento importante nella costituzione di un’identità cittadina,affermazione questa suffragata anche dai dati dell’indagine socio-logica alla base del volume di Cotesta. Dai risultati di un rileva-mento effettuato su un campione di cittadini immigrati a Latinain periodi diversi, risulta che proprio il luogo di lavoro costituisceil primo e più importante momento di contatto con le strutturesociali esistenti, e automaticamente il primo tentativo di integra-zione per chi è immigrato a Latina. Il luogo di lavoro svolge dun-que un’importante funzione aggregante, molto più di quanto nonsiano in grado di fare il gruppo delle parentele, la vita parrocchialee di quartiere, o l’ambiente scolastico. Secondo un altro indica-tore, la riuscita nel lavoro è il fattore che maggiormente definiscequalitativamente positivo il rapporto che gli immigrati stabili-scono con la città.

Vorremmo però precisare che gli immigrati a cui fa riferimentola succitata indagine sono pur sempre persone di nazionalità ita-liana, immigrati interni ai confini dello stato, seppure di diversaorigine (veneti, siciliani, laziali ecc..) e non quindi immigrati stra-nieri come nel caso dei profughi dell’Europa orientale o dei lavo-ratori del terzo mondo.

Il lavoro dunque come momento mediatorio nel rapporto che inuovi abitanti instaurano con la città: questo dato è ovviamente co-mune a tutte le città d’immigrazione, e non vuole certo essere in-terpretato come peculiare della situazione latinense. Purtuttavia,nel nostro caso la questione presenta degli aspetti oggettivamentedifferenti rispetto ad altri potenziali scenari. Se infatti in altri casi

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il lavoro rappresenta un momento privilegiato di contatto tra vecchie nuovi abitanti, attraverso cui i nuovi arrivati possono decodificarei caratteri propri della città per adeguare su di essi il proprio insop-primibile bisogno di sociale, a Latina, mancando un’oggettiva iden-tità cittadina, o quantomeno non essendo essa sensibilmentepronunciata, il lavoro finisce per essere l’unico momento comune atutti i suoi abitanti, e la riuscita nel lavoro viene di conseguenza as-sunta come metro di giudizio nel valutare il grado d’integrazioneraggiunta.

Le statistiche di vario genere sono tutte concordi nel definirebuona la salute economica della città e alta la media dei redditi in-dividuali: ciò lascerebbe supporre nell’ottica da noi adottata un sod-disfacente grado d’integrazione raggiunto dai cittadini affluiti aLatina nel corso delle varie ondate migratorie. E in assenza di altriindicatori attraverso cui analizzare la riuscita di tali tentativi di in-tegrazione, funzione questa altrove svolta dal dialetto e dalle tradi-zioni locali di vario genere, da quelle gastronomiche a quelleritualistiche di tipo religioso, questa soddisfazione si esprime a La-tina nel bisogno di rendere immediatamente visibile la propria in-tegrazione sociale attraverso il possesso di beni di consumo vistosi.Ovviamente, la possibilità d’investire in consumi vistosi e concessasolo a coloro che ottengono una buona riuscita in campo profes-sionale: “.. la gente di Latina ha buone possibilità economiche... emolte di esse sono investite in consumi che danno status” 24.

La riuscita professionale permette dunque di spendere molto inconsumi particolarmente vistosi, e un esempio significativo può es-sere individuato nell’esagerato numero di fuoristrada immatricolatiin provincia di Latina, e solo tramite tali consumi ai singoli indivi-dui e concesso di essere riconosciuti in quanto appartenenti alla co-munità cittadina25.

La questione che ci poniamo a questo punto diventa la se-guente: in quale maniera potrà esprimersi il riconoscimento socialenei confronti di coloro che non possono spendere in costumi vistosiperché disoccupati o impediti per legge ad esercitare un qualsiasitipo di lavoro, come nel caso dei profughi stranieri provenientidall’Europa orientale?

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NOTE:

1) GEREMIA BONELLI, Gli scioperi, Roma, 1910, citato da Franco Martinelli nella pre-fazione al volume Stato delle ricerche in provincia di Latina, a cura del Gruppo Pon-tino Ricerche e dell’Amministrazione Provinciale di Latina, ed. CTN Latina, 1979,pg.8

2) ALBERTO MIONI, Le trasformazioni territoriali in Italia, Padova 19763) OSCAR GASPARI, Ideologia ruralista, bonifica pontina e atteggiamento politico dei coloni

veneti a Latina, in AAVV, Società e Politica in provincia di Latina (1934-84), ed.Circe, 1987, pag. 242

4) ANTONIO PARISELLA, Bonifica e colonizzazione dell’Agro Pontino. Elementi e problemi,in AAVV, La Merica in Piscinara. Emigrazione, bonifiche e colonizzazione venetanell’Agro Romano e Pontino tra fascismo e post-fascismo, ed. Francisci, AbanoTerme, 1986, pag. 191.

5) Intervista a Sandro Pertini apparsa su Epoca n.1732 del 23/3/1984 citata in A. Pa-risella, op. cit.

6) L’analisi della stampa nazionale ed estera sulle ripercussioni della fondazione di Lit-toria è stata compiuta sulla tesi di laurea di SILVANA CARDOSI, Il mito di Littoria du-rante il fascismo (stampa quotidiana relativa al periodo 1930-41), reperibile presso ilFondo Storico Locale della Biblioteca Comunale A. Manuzio di Latina.

7) OSCAR GASPARI, I padroni per noi sono stati dei veri padri, in I Giorni Cantati, n.5,primavera 1984, pgg. 73-76.

8) cfr Il Giornale d’Italia, 19/12/19329) OSCAR GASPARI, Il mito di Mussolini nei coloni veneti dell’Agro Pontino, in Sociologia,

rivista di Scienze sociali dell’Istituto Luigi Sturzo, a.XVII, nuova serie, n.2,maggio/agosto 1983, pgg. 155-174

10) Ibidem.11) Si legga a riguardo la seguente testimonianza resa oralmente e riportata nel volume

di FRANCO MARTINELLI, Struttura di classe e comunicazione culturale, Liguori 1979,pg. 41: “Sono nata nel 1941 a Borgo Grappa che è una frazione di Latina. I miei ge-nitori sono contadini veneti, quei veneti che vennero a colonizzare, cioè a bonificare

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l’agro pontino. Vivevano in una grossa famiglia di quaranta persone con un sistema pro-prio patriarcale. Il nonno con 17 figli. Sono venuti, contrariamente a quanto dicono ilibri di storia, non volontariamente ma obbligati. Cioè loro erano braccianti di famiglienobili nel Veneto, cioè erano mezzadri. Evidentemente a questi nobili non convenivapiù tenere questi braccianti, che tra l’altro servivano qui invece per la bonifica di Mus-solini, per cui c’è stata una grossa spedizione in massa forzata. Io ho un ricordo lonta-nissimo di mio padre che mi raccontava come loro si erano barricati, tutti gli uomini sultetto, e per tantissimi giorni avevano fino buttato tutte le tegole in testa ai poliziottiperché non volevano lasciare la casa, la terra. Così, forzatamente sono venuti qui e glihanno dato un podere di 40 ettari...”

12) Il concetto di ANTONIO PARISELLA, Ceto dirigente e sistema politico in provincia diLatina, in AAVV, Società e Politica in provincia di Latina, cit.

13) VITTORIO COTESTA, Modernità e tradizione. Integrazione sociale e identità culturalein una citta nuova. Il caso di Latina, Franco Angeli Editore, Milano, 1988, pgg. 47-48.

14) Testimonianza orale riportata in FRANCO MARTINELLI, Struttura di Classe e comu-nicazione culturale, cit.

15) VITTORIO COTESTA, Modernità e tradizione, cit., pg. 56.16) Archivio ONC di Latina, Lettera della colona M.A. al governo del 4/5/1936, citata

in O. GASPARI, Il mito di Mussolini, cit.17) MARIA ROSARIA BONACCI, La struttura sociale della città; in AAVV, Latina: struttura

sociale e dinamiche culturali, Quaderno n. 12 dell’Economia Pontina, CCIAA Latina,settembre 1988, pg.15

18) Ibidem, cit., pg. 1519) Citato in A. PARISELLA, Bonifica e colonizzazione, cit. pg 201-20220) VITTORIO COTESTA, Modernità e tradizione, cit. pg 51.21) VITTORIO COTESTA, Per non rispondere ad una polemica, in Dossier, mensile di po-

litica e cultura, Latina, aprile 198922) Op. cit.23) I dati presentati sono stati elaborati da M.R. BONACCI su fonti ISTAT e compaiono

nel volume Modernità e tradizione, cit.24) Ibidem, pg.133.25) Nel 1988 per la prima volta tra la popolazione residente i nati a Latina sono risultati

in percentuale maggiore ai nati nel resto d’Italia; l’attuale sindaco, a differenza ditutti i suoi precedessori, e nato nella città pontina; è lecito dunque ritenere in via diespansione questo atteggiamento di riconoscimento reciproco basato sul consumi-smo. Forme di riconoscimento basate sullo status economico dei singoli individuisono proprie della società americana: in nessun luogo più che negli USA l’oggettovistoso garantisce successo in termini di integrazione sociale. Ed è opportuno sot-tolineare come sia Latina che gli USA costituiscano, nei relativi contesti, luoghi ac-comunati dalla giovane età e dalla breve storia, tanto da spingere alcuni cronisti atentare arditi accostamenti (vedi l’articolo Latina metallara - La Washington della bo-nifica, apparso sul Corriere della sera, edizione romana del 23/3/1989)

4.1 Latina e il suo campo profughi

«Per Latina gli slavi, come ci piace chiamarli,non sono un corpo estraneo, fanno parte

della città almeno quanto il mercato americano,i palazzi d’epoca fascista e la palude.»1

Da oltre trent’anni, la città di Latina alberga al suo interno lestrutture del Campo Rossi Longhi, e con esso l’incontro annun-ciato, quotidianamente sfiorato e mai compiutamente centrato, trala popolazione cittadina e i residenti del campo.

Anche considerando i rari casi di amicizie individuali tra pro-fughi e latinensi, possiamo affermare che le esistenze delle due co-munità sono finora procedute su binari paralleli, senza mai faredella città – intesa qui come spazio fisico comune a più abitanti –un luogo d’incontro capace di intersecare i rispettivi percorsi.

Binari paralleli perché, come abbiamo notato, le similitudini

CAPITOLO IV

L’INCONTRO.

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tra le due comunità non mancano di certo. Innanzitutto il fattoche in entrambi i casi ci troviano di fronte a comunità cultural-mente composite: se il Rossi Longhi allinea al suo interno quasitutte le etnie dell’Europa Orientale, è altrettanto vero che nella po-polazione autoctona ritroviamo rappresentati culture e dialetti del-l’intera nazione, dal veneto al siciliano. Sia nel caso del CampoProfughi che della città la sovrapposizione di differenti gruppi etniciha obbedito a precise stratificazioni in diverse fasce temporali. Equindi, se tra le fila dell’immigrazione interna possiamo distinguerecome appartenenti ad una prima fase i coloni veneti dai successiviinsediamenti dei meridionali e della popolazione della circostantefascia montana, alla stessa maniera all’interno dell’immigrazionenel Campo notiamo diverse fasi2, prima jugoslava, poi ungheresefino all’attuale immigrazione polacca, numericamente la più con-sistente nel decennio appena concluso.

Altro importante fattore di comunanza è a mio avviso rappre-sentato dalle rispettive genesi attraverso cui hanno preso corpo ledue comunità: alla base di entrambe ritroviamo infatti una piani-ficazione minuziosa da parte di autorità esterne ad essa, quali sonogli organismi internazionali nei confronti dei rifugiati e il governofascista nei confronti dei primi popolatori dell’Agro Pontino. Seoggi, retrospettivamente, non possiamo non ammettere l’inelutta-bilità di entrambi i percorsi, nel senso del ricorso ad un organo pia-nificatore esterno che ha negato spontaneità alla formazione deidue agglomerati, è pero sicuramente vero che in entrambi i casi cisi trova di fronte ad una anomalia procedurale.

Appare infatti incontrovertibile il fatto che la stragrande mag-gioranza dei nuclei cittadini si siano venuti formando in manieraspontanea in seguito a più disparati motivi d’ordine naturale, de-mografico, commerciale e strategico; non così nel caso di Latina,dove il regime fascista attuò una minuziosa pianificazione a livellosociale e territoriale.

Allo stesso modo dei campi profughi, in quanto tipologia par-ticolare di collettività umane, si può affermare che essi sorgono perlo più in luoghi naturalmente investiti dal problema, e non in seguitoalla burocrazia centralizzata di uno Stato estraneo ai motivi stessi

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della diaspora, e per di più in un luogo lontanissimo dalla frontieraattraverso cui questo ingresso avviene.

Nella scelta di Latina come sede del CAPS hanno al contrarioinfluito piuttosto motivi inerenti alla sua particolarità di città ca-poluogo, motivi di ordine pratico, quali la vicinanza con Roma,ma anche di tipo socio-antropologico, come la sua modernità chesi sposa con la mancanza di una precisa identità, fattore questo chenelle intenzioni avrebbe dovuto limitare il pericolo di un rifiuto xe-nofobo da parte degli abitanti nei confronti dei profughi stranieri.

Eppure, nonostante le numerose similitudini, le due comunitàcontinuano a condurre esistenze parallele, ma senza riuscire a toc-carsi, senza riuscire realmente ad incontrarsi.

Tutto ciò rappresenta a mio avviso un’evidente stonatura anchenei confronti dell’immagine che la città stessa intende dare di sé, omeglio dell’immagine che le ultime amministrazioni hanno cercatodi costruire intorno ad essa.

Da alcuni anni infatti la città di Latina sembra essersi rivoltaalla ricerca di una propria identità in senso spiccatamente europei-sta: da più parti si invoca una dimensione internazionale per il ca-poluogo pontino, applicando in maniera piuttosto meccanica edingenua l’equazione città moderna = città europea. Alquanto arti-ficiosa sembra peraltro la rivendicazione che la provincia di Latinafa del titolo di culla dell’europeismo moderno: la richiesta nascedal fatto che il “Manifesto per un’Europa libera e unita” fu concepitoe scritto da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorno nel1942, durante il loro confino forzato nell’isola di Ventotene, isolache oggi fa parte della provincia di Latina.

Queste nobili rivendicazioni non hanno però mai impedito alleautorità locali di reclamare a viva voce la chiusura del Campo RossiLonghi, nella pratica l’unico contatto che la città ha con l’Europa,chiusura che a onor del vero viene auspicata in maniera particolar-mente vivace solo nei periodi di campagna elettorale. Nei periodiciappuntamenti elettorali viene infatti sempre ricordato agli elettoriche il Campo Profughi è soltanto un’altra delle tante servitù – alpari della centrale nucleare o del poligono di tiro militare – impostedal governo nazionale alla città di Latina.

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Come definire, allora, se non schizofrenico, un atteggiamentoche dichiaratamente intende aprire la città a contatti extra-nazionalie poi definisce una servitù quella che ai nostri occhi sembra piut-tosto una grande occasione di crescita collettiva?

4.2 Campo profughi: oasi o ghetto?

Costruito inizialmente al di fuori del perimetro urbano, con lasuccessiva crescita territoriale della città il Campo Rossi Longhi hafinito per essere inglobato all’interno dell’attuale centro storico, no-nostante le limitazioni che tale vocabolo acquista nel contesto diuna città giovane quale è Latina.

Eppure, ancora oggi, la cinta muraria in cemento bianco chedelimita l’area del Campo, mantiene pienamente intatto tutto ilsuo senso di zona di confine, oltreché di confinamento, monoliti-camente separata come è dal resto delle costruzioni che la circon-dano. Anche solo visivamente, il Campo rende immediatamente lasua essenza di zona chiusa, di germe estraneo alla sorte e al destinodel resto della città. La funzione protettiva che tale struttura svolgenei confronti dei propri ospiti rivela allo stesso tempo tutta la ca-pacità di isolamento di cui essa è capace.

L’Italia, paese di primo accoglimento, è dunque ben dispostoad accogliere le richieste di coloro che si sentono perseguitati oanche solo insoddisfatti delle condizioni di vita nei propri paesid’origine, ma al contempo si dimostra ben ferma nell’intenzionedi rimanere solamente una stazione di transito del cammino intra-preso dai profughi verso una vita migliore, o supposta tale.

Latina, che nella fattispecie corrisponde all’Italia nella sua inte-rezza, è solamente un dato temporale nell’esistenza dei profughi. Ad essi,nel corso del loro soggiorno, è concessa unicamente la dimensionedell’attesa: attesa del permesso di espatrio definitivo, attesa di un tim-bro, attesa di notizie da parte di parenti ed amici rimasti in patria ogià sbarcati nella terra promessa (generalmente USA, Canada o Au-stralia), e anche in mancanza di tutto ciò, attesa di concludere un’altragiornata nella speranza che il nuovo giorno sia foriero di novità.

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La dicotomia Campo/Latina ha l’unica funzione di proteggere que-sti lunghi tempi d’attesa: in quest’ottica, qualunque contatto tra ledue comunità significherebbe distogliere attenzione dalle rispettivemete. Cadrebbe nel falso chi intravvedesse in un tale atteggiamentol’ombra persecutoria dal razzismo: in realtà le due comunità vivonole loro vite all’interno di due differenti sistemi di aspettative, cheteoricamente non dovrebbero mai arrivare ad intersecarsi.

Il Campo Profughi può dunque essere paragonato ad una sortadi limbo, ad un momento di sospensione tra due tipi di esistenzefondamentalmente diversi: quello dei regimi dell’Europa comunistada cui si fugge, e quello prospettato dal modello consumistico oc-cidentale verso cui il profugo si dirige; ma in approfondita analisila differenza è anche e soprattutto tra chi vive su un territorio nel-l’intento di radicarvi la propria esistenza, in perfetta fusione conesso, e chi di questo territorio fa solo una tappa nel suo percorsoesistenziale.

In questo senso, la mancanza di approfondimenti reciproci tragli slavi3 e la città è da molti ricondotta molto semplicemente allatemporaneità della loro presenza a Latina.

Ma in questi ultimi anni il boom degli ingressi, culminati nellagià citata chiusura del Campo nell’agosto 1987, ha condotto consé anche un’ovvia dilatazione dei tempi d’attesa. Se infatti è note-volmente aumentata la percentuale dei richiedenti asilo, non è peròaumentata la capacità d’assorbimento dei paesi d’accoglimento de-finitivo. Anzi, proprio nel 1987 negli USA, fino ad allora meta pri-vilegiata degli espatri definitivi, sono state emanate alcune leggi cheintroducono misure restrittive per i rifugiati e più in generale per irichedenti asilo politico4.

In Italia la conseguenza ultima è stata quella di allungare lamedia dei tempi di attesa per l’emigrazione definitiva dai 145 giorninecessari nel 1981 ai 365 del 19875.

Appare chiaro dunque che con simili tempi d’attesa – al mo-mento di scrivere giungono anche fino a due anni – quella del con-tatto con la realtà esterna al Campo diventa una necessità vitale, alivello esistenziale oltreché puramente materiale.

Analizzando i dati relativi alle presenze interne al campo al

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23/3/19896, ci accorgiamo che solamente 43 profughi su 448,meno del 10%, hanno superato i 40 anni di età; anche escludendobambini e adolescenti fino ai 20 anni, resta sempre una quota di300 individui la cui età è compresa tra i 20 e i 40 anni, un età incui generalmente si è più inclini alla attività che alla attesa passiva.

4.3 Il lavoro negato

Come abbiamo già accennato precedentemente7, l’immigra-zione dall’Europa Orientale si differenzia profondamente da altritipi di flussi immigratori, come ad esempio quelli provenienti dalTerzo Mondo, oltreché per le modalità mediante cui si sviluppa, ecioè attraverso iter precisi regolati da accordi internazionali, anchee soprattutto per l’alto tasso qualitativo in termini di formazioneprofessionale e intellettuale espresso dalla media dei rifugiati poli-tici.

Al contrario dell’emigrazione dall’Africa e dall’Asia, veri e propriserbatoi di muscoli e braccia a basso costo a disposizione dell’iper-tecnologizzato mondo occidentale, dall’Est europeo provengonoperlopiù individui dotati di un alto livello d’istruzione e di un’ele-vata specializzazione professionale.

Da una ricerca condotta nell’estate 1989 su un gruppo di po-lacchi ospiti del campo8, emerge una media individuale degli annidi studio pari a 14 anni, con un 24% di soggetti laureati e un 60%di diplomati e/o specializzati: dati questi assolutamente incompa-rabili con quelli di qualsiasi altra comunità straniera presente inItalia.

Ma, nei confronti delle altre categorie d’immigrati, i profughiorientali vantano un ulteriore fattore di differenziazione: ad essi ègiuridicamente vietata ogni attività lavorativa. Infatti, qualora unprofugo riuscisse a trovare un qualsiasi tipo di lavoro e arrivasse adessere regolarizzato, perderebbe la qualifica di rifugiato e con essala possibilità di usufruire del vitto, dell’alloggio e dell’assistenza gra-tuita fornita dal Ministero degli Interni. Gli unici a non essere vin-colati da questa clausola sono gli “eleggibili”, cioè quei profughi

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che sono stati riconosciuti dalla Commissione Paritetica di Eleggi-bilità realmente perseguitati politici9: essi godono quindi del dirittodi svolgere un’attività lavorativa regolarizzata senza il rischio di per-dere lo status necessario per ottenere l’assistenza ministeriale e lapossibilità di emigrare ulteriormente verso altri lidi.

Né sembra d’altronde che la maggior parte dei profughi sia di-sposta a barattare i vantaggi dello status con la prospettiva di unaregolarizzazione della propria posizione lavorativa, come dimostrail fatto che nel quadro della legge 943, di sanatoria sui lavoratoriextracomunitari, su 1022 regolamentazioni registrate dalla questuradi Latina solo 133 riguardavano profughi dell’Europa dell’Est10.

Resta il fatto che, soprattutto per chi è emigrato con l’interonucleo familiare, il lavoro è una necessità che diventa più forte perogni giorno di attesa che passa, e lo testimoniano le lunghe file diprofughi che quotidianamente sostano sul marciapiede antistanteal Campo in attesa di un ingaggio per un lavoro giornaliero, comebracciante agricolo o scaricatore in qualche magazzino.

Perché se l’economia legale della città pontina sopravvive tran-quillamente senza il contributo dei profughi, il mercato del lavoronero a Latina da sempre fa capo al Rossi Longhi come ad unaenorme riserva di forza lavoro, da sfruttare in attività precarie edirregolari. I profughi vengono considerati dagli ingaggiatori e daicaporali locali una sacca di manovalanza particolarmente docile,facilmente controllabile con il ricatto di una denuncia alle autoritàdel Campo, e costretta a salari di puro sostentamento in cambio diorari di lavoro massacranti e alla assoluta mancanza di una qualsiasiassicurazione sociale.

Non a caso quindi le occasionali accuse di razzismo da parte diprofughi verso la collettività italiana emergono in merito all’argo-mento lavoro.

Al contrario da parte italiana questa accusa è rifiutata in par-tenza: dall’opinione pubblica cittadina i profughi sono ben visti,in quanto considerati lavoratori seri e onesti, persone pulite e so-brie, oltreché sinceri cattolici11; giudizi questi favoriti anche dal-l’aurea di persecuzione politica che i profughi si continuano atrascinare.

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A nostro avviso però anche questi giudizi sono conseguenza delcavillo giuridico che impedisce ai profughi d’intraprendere attivitàlavorative regolari: si tratta infatti dell’unica categoria d’immigratiche non si pone in antagonismo con la popolazione locale nei campodel lavoro salariato, per il duplice motivo della temporaneità delloro soggiorno e, soprattutto, dell’impedimento giuridico al lavoro.

Gli unici scontri in questo senso si hanno in occasione dei mer-cati settimanali, in cui i rifugiati si recano talvolta per vendere pro-dotti caratteristici delle loro terre d’origine (generalmenteartigianato religioso da parte dei polacchi e materiale fotograficoda parte dei sovietici), dove si sono registrate lamentele e accuse daparte degli ambulanti locali: accuse di deprezzamento della mercema anche di danneggiamento dell’immagine del mercato, con laloro vistosa presenza che rimane sempre sospesa tra il commercioe la questua12.

In alternativa rimane l’attività di lavavetri presso gli incroci se-maforici, un’attività questa su cui i polacchi possono effettivamentevantare il copyright, essendo per lo più appannaggio loro nei con-fronti delle altre categorie povere della città (rom, nordafricani eproletariato urbano giovanile), e che oltre al vantaggio di non doversottostare allo sfruttamento di caporali consente anche discreti gua-dagni, sull’ordine delle quaranta-cinquantamila lire giornaliere.

La diffusione di questo tipo di lavoro tra i polacchi ha generatonella popolazione locale una sorte di identificazione automatica edimmediata tra gruppo etnico e attività lavorativa, facilitata dallamarginalità propria di entrambe le condizioni, quella di polacco, equindi profugo politico, e quella di lavavetri, un’attività anche que-sta considerata a metà tra il lavoro vero e l’accattonaggio: identifi-cazione non secondaria in una città come Latina che, comeabbiamo già visto in precedenza13, poggia le basi del suo vivere so-ciale su un’altra identificazione, quella tra riuscita nel lavoro e in-tegrazione nella città.

Fino ad oggi, nel corso della breve storia vissuta dalla città diLatina, il lavoro si è configurato come la più forte tra le spinte allasocializzazione a cui, un nuovo arrivato soggiace venendo a contattocon la realtà socio-culturale locale, lontana o comunque diversa da

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quella della propria terra d’origine. Conseguenzialmente, in unacittà priva di radici, i vantaggi economici derivanti dalla condizionelavorativa, e soprattutto l’esibizione che di essi viene fatta, costitui-scono gli indicatori più sintomatici del grado d'integrazione rag-giunto. In una città che guarda, in quanto mancante di un modellod’identità autonomo, la capacità di mostrare sé stessi e il propriogrado d’integrazione sociale, acquistano una valenza decisamenteforte.

In questo senso, negare al profughi la possibilità d’intraprendereattività lavorative regolari significa anche negare loro una possibilitàd’integrazione, atteggiamento questo tra l’altro coerente con laferma posizione assunta dal Governo Italiano di continuare a con-siderare l’Italia Paese di primo asilo.

Questa clausola d’impedimento al lavoro contribuisce all’isolamentodel profugo molto più di quanto non faccia fisicamente qualunquecinta muraria, qualunque cavallo di frisia posto all’esterno del CampoRossi Longhi.

Ma il prolungamento dei tempi d’attesa, insieme alla giovaneetà media dei rifugiati e alla presenza nelle loro fila di molti nucleifamiliari con prole, rende ovviamente impossibile il rispetto dellanorma giuridica: le necessità sono molte, come traspare dalle criti-che di alcuni di essi che lamentano “la mancata fornitura di mezzid’igiene personale, senza la possibilità di lavoro legalizzato per ac-quistarli”14; è naturale quindi che molti di essi vadano ad ingrossarele fila degli occupati, o per meglio dire degli sfruttati, nel mercatodel lavoro nero, cimentandosi in attività faticose e comunque alta-mente dequalificate.

A questo punto occorre però fare un breve accenno alle condi-zioni lavorative presenti nei Paesi d’origine dei profughi, e cioè iPaesi europei ad economia socialista. In tali Paesi i tassi di disoccu-pazione ufficiale sono inesistenti: di conseguenza quella del lavoronero, e soprattutto dello sfruttamento sistematico che gravita in-torno ad esso, e una realtà largamente sconosciuta e totalmentenuova per loro. In secondo luogo, il più forte tra gli input a fuggiredenunciato da profughi è costituito proprio dalla scarsa correlazioneche tali regimi stabiliscono tra grado di specializzazione professio-

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nale e retribuzione salariale: quindi, in una parola, una svalutazionedelle capacità individuali.

In questa prima tappa del loro viaggio verso un (presunto) miglio-ramento delle proprie condizioni di vita, i profughi si ritrovano a doveraffrontare un problema già vecchio, quello della svalutazione delle ca-pacità professionali, in un contesto per loro nuovo, quello del mercatoillegale del lavoro.

Raffrontando le posizioni professionali occupate da profughinei loro Paesi d’origine con le attività che svolgono nel corso dellapermanenza in Italia15, emergono risultati che per forza di cose de-vono indurre ad una riflessione. Innanzitutto l’alta percentuale di“non risponde” alla voce relativa al lavoro svolto in Italia: la reti-cenza al riguardo non è del tutto imputabile alla paura di incorrerein guai con il Ministero a causa del famoso divieto, quanto piutto-sto alla vergogna che molti provano nel confessare il loro lavoro ita-liano. Significativo il caso del maestro elementare, con alla spallesedici anni di studio e un diploma di specializzazione, che non havoluto rispondere alla domanda per non dover ammettere di svol-gere l’attività di lavavetri16. Osservando le tavola in appendice sco-priamo altri casi, come l’ingegnere “tuttofare” o il capo farmacistache a Latina ha trovato lavoro come “addetto al cambio dei gettoniin una sala giochi”, e poi insegnanti e tecnici specializzati impiegaticome domestici in abitazioni private.

La media individuale degli anni di studio è comunque decisa-mente alta, intorno ai 14 anni, media incomparabile con quelladelle altre etnie immigrate in Italia.

Nella quasi totalità dei casi, dunque, la realtà del mercato liberodel lavoro, con il suo prolungamento illegale costituito dal lavoronero, trova impreparati i profughi, che fuggendo dalle patrie d’ori-gine, si allontanano da un sistema economico che poggia le sue ra-dici su basi diverse da quelle su cui verte l’occidente capitalista,completamente altre anche nel senso dell’organizzazione sociale.

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4.4. Le manifestazioni della crisi: la devianza sociale.

«Nella struttura della diseguaglianza socialele diversità antropologiche vengono represse,

manipolate, trasfigurate e tradottein ruoli sociali finalizzati alla

legittimazione e alla perpetuazionedell’ordine sociale dato e della

diseguaglianza che esso impone»17

Se nel caso degli immigrati dall’Est Europa non appare lecitoipotizzare una fondamentale differenza antropologica tra essi e icittadini italiani, e nei termini fisici e in quelli culturali, a differenzadi quanto accade con le etnie extraeuropee, è però importante rile-vare la notevole differenza intercorrente tra le strutture economichedei loro paesi d’origine e quelle occidentali.

Pur essendo proprio questo il nocciolo scatenante del problemadelle fughe dall’est, nel momento del contatto con la nuova realtàquesta diversità strutturale, con tutto il corollario di differenze so-ciali e culturali che essa si trascina dietro, non manca di far sentireil proprio peso, anche in termini di spersonalizzazione delle coscienzee di ripercussioni a livello comportamentale. Le manifestazioni diquesta crisi sono in gran parte nascoste, o se si preferisce protette,dal Campo e dagli alberghi in quanto luoghi separatori dal restodella collettività presente sul territorio.

Ora, riteniamo necessario rilevare il fatto che il contatto conpopolazioni differenti dalla propria, per i profughi del Campo nonavviene solo esternamente ad esso, ma anche internamente, tra lediverse etnie ospitate.

Gli episodi di cronaca che hanno visto come protagonisti i pro-fughi durante questi trenta anni abbondanti di vita del CampoRossi Longhi, hanno riguardato per lo più casi di disordini tra i di-versi gruppi nazionali alloggiati in esso. A fattori di ostilità storica-mente connaturati tra alcune particolari etnie, come la scarsasimpatia intercorrente tra rumeni e ungheresi, o il carattere più me-

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diterraneo degli albanesi, che ha portato spesso questa comunità alcentro di disordini riguardanti l’elemento femminile del Campo,vanno aggiunti quei problemi sorti in seguito alle precarie condi-zioni di coabitazione interne. La stessa capacità di alloggio totale èparzialmente limitata dalla necessità di non radunare nello stessopadiglione individui di diversa nazionalità.

Il fattore vivibilità del Campo è indubbiamente importantissimoanche al fine di una tranquilla interazione con la popolazione locale,soprattutto in questi ultimi anni in cui i tempi di attesa per l’espa-trio definitivo sono enormemente aumentati. Analizzando i registridella questura locale, relativi alle imputazioni di reato nei riguardidei profughi registrate al Campo di Latina negli anni 1983 e 1988,emerge un dato di notevole importanza. Queste due annate sonostate scelte in base ad un preciso criterio: il 1983 si configura infatticome l’ultimo anno in cui la presenza dei profughi è risultata etni-camente composita in maniera normalmente equilibrata. Dall’annosuccessivo è iniziato quello che abbiamo definito “il boom dellapresenza polacca” con una presenza percentuale di individui di que-sta nazionalità che nel 1988 ha superato la soglia del 90%.

Dalle tavole in nostro possesso18 notiamo un notevole calo delleimputazioni di reato, arrivando dalle 73 registrate nel 1983 alle ap-pena 17 del 1988, un calo ancora più sorprendente se si pensa chenello stesso lasso di tempo le presenze totali sono aumentate di oltreil 400%19.

Questo calo può essere ovviamente ascritto al carattere pacificoche generalmente viene riconosciuto al gruppo polacco, ma taleconsiderazione isolata non basta certo a spiegare il calo nella suaglobalità. Piuttosto, ci è sembrato di rintracciare in esso un’altramotivazione, e cioè che la predominanza quasi assoluta di una singolanazionalità all’interno del Campo contribuisce in maniera notevole adiminuire i tassi di devianza criminale da parte dei profughi.

Il motivo non sarebbe tanto o non sarebbe solo, la diminuzionedi rivalità inter-etniche all’interno del Campo, quanto piuttosto ilfatto che, ricreandosi una sorta di comunità nazionale essa fungeda cuscinetto tra le singole realtà individuali e la realtà, totalmentenuova, del paese d’accoglimento, rivelando capacità mediatrici in

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grado di smussare gli aspetti più duri della crisi che, fisiologica-mente, colpisce l’immigrato alle prese con il nuovo ambiente.

Questa micro-comunità cuscinetto, oltre ad attenuare il sensodi estraniamento e solitudine che inevitabilmente colpisce il neo-immigrato, ponendosi come corpo organico riesce a mediare real-mente il rapporto tra gli immigrati polacchi e la città di Latina.

Se ad esempio si volesse prendere come indicatore dell’integra-zione il grado di conoscenza della lingua italiana, noteremo che circail 50% dei profughi comprende pochissimo o addirittura nulla dellalingua italiana20. In tal caso la barriera linguistica, ostacolo di non se-condaria importanza nei rapporti individuali tra la città e i singoliprofughi, può essere parzialmente aggirata grazie alla percentuale diconnazionali che padroneggiano in qualche misura la lingua italiana.

Ma alcuni fenomeni di devianza sociale nonostante tutto per-mangono: si tratta per lo più di casi sporadici eccezion fatta per icasi di ubriachezza. L’alcolismo in effetti appare con una certa fre-quenza nelle critiche che la popolazione locale esprime nei con-fronti dei profughi, ed è peraltro un fenomeno ampiamentericonosciuto dagli stessi profughi.

Tra i motivi scatenanti, per ammissione degli stessi profughi21

c’è innanzitutto una maggiore libertà d’acquisto degli alcoolici ri-spetto a quanto sia possibile nel Paesi dell’Europa socialista: la cul-tura del bere fa indubbiamente parte di quelle culture, ma lerestrizioni di ordine economico e legislativo sono in Italia infinita-mente minori. Oltre a ciò, come indicano gli stessi profughi22, agi-scono una serie di motivazioni: le situazioni di crisi nascono dacondizioni di vita anormali, dai lunghi tempi di attesa per l’emigra-zione definitiva, dall’insicurezza per il futuro, dalla nostalgia e dallamancanza della famiglia. In alcuni casi ci si avventura anche in unacritica di tipo politico, lamentando “una mancanza di valori moralia causa dell’educazione comunista” 23, in cui forse si può rintracciarequalche elemento di verità, nel senso prima enunciato di una fon-damentale differenza di valori tra quelli proposti dall’educazione ditipo comunista e quelli propri di paesi ad economia capitalista.

Il che rimanda alla considerazione già fatta, e cioè che al di làdelle comunanze culturali tra i i popoli in questione, la dimensione

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dell’alterità in questo confronto va essenzialmente ricercata nei di-versi sistemi di organizzazione sociale generati a loro volta da si-stemi di ordinamento economico fondamentalmente diversi.

NOTE1) ALESSANDRO PANIGUTTI, Profughi, cosa c’è al di la del muro, in Dossier, mensile di

politica e cultura, settembre 19872) Vedi capitolo II, paragrafo 23) Con tale generalizzante denominazione i profughi vengono appellati a Latina4) cfr G. GODWIN GILL, “Nord America: evoluzione del diritto d’asilo” in Rifugiati, n.17,

marzo 1988. Sullo stesso numero A. BILLARD: “USA: legge sull’immigrazione, tempodi multe”.

5) cfr Allegati, tav. 76) cfr Allegati, tav. 97) Vedi capitolo II, paragrafo 38) FRANCESCO MEROLA, La presenza straniera in particolari aree: il Campo Profughi di

Latina, tesi di laurea discussa nel novembre 1989 presso la facoltà di Scienze politichedell’Università “La Sapienza” di Roma

9) Fonte: Questura di Latina10) In effetti l’unico organismo cittadino capace di stabilire un contatto regolare con il

Campo nel corso degli anni è stata la Parrocchia dell’Immacolata, i cui locali anti-stanti al Campo furono tra l’altro usati come rifugio di fortuna per i profughi nelcorso dell’agosto 1987

11) cfr “Ambulanti cacciano i russi: Voi inflazionate il mercato”, Latina Oggi del20/10/198912) Vedi capitolo III, paragrafo 313) M.I. MACIOTI, L’emigrazione polacca, cit.14) cfr Allegati, tav.1015) cfr Allegati, tav 1016) GAETANO DE LEO- ALESSANDRO SALVINI, Normalità e devianza. Processi scientifici e

istituzionali nella costruzione della personalità deviante, Gabriele Mazzotta Editore,Milano,1978, pg.29

17) cfr Allegati, tav. 11 e 1218) cfr Allegati, tav.1. Il grafico si riferisce al totale di richieste registrate in Italia, ma ri-

cordiamo che Latina, con il Campo e gli alberghi del litorale, assorbe l’80% circadelle presenze.

19) MARCELLO NATALE- FRANCESCA ROMANA GAUDIANO, “La presenza straniera nelLazio: il caso della collettività polacca”, in Lazioricerche-note e studi dell’Irspel, n.3-4, luglio-dicembre 1987.

20) M.I. MACIOTI, L’emigrazione polacca, cit.21) M.I. MACIOTI, L’emigrazione polacca, cit.22) M.I. MACIOTI, L’emigrazione polacca, cit.

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Come abbiamo delineato in apertura di questo lavoro2, l’ele-mento viaggio si è da sempre configurato come conditio sine quanon della conoscenza di popoli altri, portatori di visioni sociocul-turali diverse rispetto a quelle dominanti presso la civiltà da cuiproveniva l’osservante. Da Erodoto di Alicarnasso fino ad oggi, ilcammino dell’etnografia occidentale ci appare costellato di viaggied esplorazioni il cui fine ultimo è stato, in sostanza, la ricerca diun confronto con culture differenti dalla propria. Nella prospettivaetnografica più matura, quella che fa capo all’etnocentrismo criticodi Ernesto De Martino3, tale confronto implica la “messa in causadel sistema in cui si è nati”, nel tentativo di formulare nuovi para-metri intellettuali attraverso cui poter interpretare la realtà circo-stante.

In questo lavoro abbiamo tentato di applicare i modelli d’in-terpretazione antropologica dell’incontro tra etnie culturalmentedifferenti al caso specifico della città di Latina, città che ospita alsuo interno un Campo Profughi destinato ad accogliere i rifugiatistranieri che chiedono asilo politico in Italia per le ragioni che

CONCLUSIONE

«L’esilio è fecondo se si appartiene contemporaneamente

a due culture diverse,senza identificarsi

con nessuna di esse» 1

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abbiamo illustrato nel primo capitolo, i rifugiati che hanno usu-fruito di questo tipo di assistenza sono finora stati esclusivamentecittadini provenienti dalle Repubbliche Popolari dell’Europaorientale.

Tale incontro, o per meglio dire l’osservazione di tale incontro,presenta però delle peculiarità proprie che lo differenziano sostan-zialmente dall’immagine consueta: nel nostro caso infatti,come sidiceva all’inizio, a compiere il viaggio, lo spostamento geograficoche rende possibile l’incontro, non siamo noi, in qualità di osser-vanti, ma proprio i profughi, gli osservati, l’elemento che si presentacon caratteristiche “altre”nei nostri confronti.

Al di là delle peculiari modalità di questo incontro, ci premevacomunque sottolineare il carattere estremamente attuale che taleincontro riveste: nel mondo moderno, caratterizzato da un lato daun forte ampliamento di potenzialità nel settore dei trasporti edall’altro da crescente divario economico tra zone diverse del pia-neta, incontro con l’alterità antropologica non è più prerogativaesclusiva, consapevolmente scelta, dell’intellettuale illuminato, bensìcondizione comune, passivamente subita da larghe fette della po-polazione del mondo occidentale.

In tempi recenti, soprattutto in seguito a fatti di cronaca am-piamente riportati dai mass-media nazionali4, il problema dell’in-contro/confronto con gli immigrati stranieri è drammaticamenteesploso in tutta la sua virulenza anche in Italia, rivelando tutte lepericolose implicazioni e i rischi di slittamento nella xenofobia enel razzismo che esso potenzialmente reca con sé.

Ma lo scenario che abbiamo delineato nel corso della nostra ri-cerca presenta anche un’altra importantissima peculiarità: il teatrodi questo incontro è infatti Latina, una città moderna e dall’identitàincerta e rarefatta, una città senza radici, come abbiamo voluto pro-vocatoriamente definirla, una città definita dagli scienziati socialicome un vero e proprio “laboratorio di osservazione sociale”, le cuidinamiche sociali e culturali sono in continua definizione: ne risultauna sorta di dimensione urbana in fieri in cui, relativamente alladinamica della nostra ricerca, siamo in presenza di un’identità os-servante5 oggettivamente debole.

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In casi simili, le risposte ipotizzate dai sociologi sono prevalen-temente di due tipi6:

1) l’apertura totalmente incondizionata, motivata dal fatto che lanozione di “altro” è già di per sé presente nella stessa identità col-lettiva ospitante, formatasi anch’essa in seguito alla confluenza dietnie immigrate da regioni diverse;

2) il rifiuto radicale, dal momento che nel caso di un’identitàmancante di modelli culturali consolidati, come nel caso di Latina,la presenza del diverso consolida i sentimenti di solidarietà tra si-mili, spingendoli a rinchiudersi nel proprio particolarismo cultu-rale.

Ma al termine del nostro lavoro ci sembra che sia possibile dareun terzo tipo di risposta alla questione dell’incontro tra Latina e gliospiti del Campo Profughi “Rossi Longhi”: quello dell’indifferenza.

In effetti, sia nel corso della ricerca effettuata che attraverso lapersonale pratica quotidiana della vita cittadina, non sono mai ap-parsi elementi tali da poter essere ascritti ad una delle due categoriesopra menzionate: emerge piuttosto, in maniera abbastanza evi-dente la mancanza di canali comunicativi tra le due aree sociali.

A tale riguardo una precisazione è doverosa fin da subito: al ter-mine indifferenza non si intende attribuire una valenza esclusiva-mente negativa: ciò perché la mancanza di reazioni improntateall’aperto rifiuto è di per sé un fatto che consente per il futuro ancheelementi positivi, dal momento che lascia ampi margini alla spe-ranza in un futuro basato sull’integrazione tra i due gruppi.

La mancanza di canali comunicativi, abbiamo detto, si è rivelatacome la difficoltà più grande verso un’integrazione totale; eppure,nell’organizzazione stessa dell’assistenza predisposta dal Ministerodell’Interno, compaiono anche fattori che stimolano alcuni processidi coinvolgimento economico tra la città e le strutture del Campo:ad esempio la distribuzione in alberghi e pensioni della provincia,e specialmente del litorale pontino, di tutti quei rifugiati che nonera possibile alloggiare all’interno del Rossi Longhi.

Tutto ciò ha favorito principalmente i proprietari delle strutturealberghiere locali, sorte negli anni ’60 in previsione di un boom tu-ristico che di fatto non è mai avvenuto. Infatti, è significativo con-

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siderare quanto è avvenuto nel corso del 1989, quando si iniziaronoad avvertire gli effetti delle misure restrittive adottate nel 1987, checondussero ad un notevole calo negli arrivi; in conseguenza di ciò,nel 1989 il Ministero cominciò a sciogliere la numerose conven-zioni stipulate con gli albergatori: questi ultimi, dopo essersi la-mentati per anni dei presunti danni economici recati loro da questotipo di convenzione, si affrettarono a stipulare una nuova conven-zione sulla base degli stessi parametri economici con la Caritas nazio-nale per l’accoglimento di oltre un migliaio di russi pentecostali,risultati inidonei alle nuove norme stabilite dal Ministero per usu-fruire dell’assistenza ACNUR.

Nonostante e al di là di queste oggettive interazioni di carattereeconomico e sociale, la severa legislazione in materia di lavoro7 èrisultata comunque decisiva al fine di mantenere una separazionenetta tra i destini delle due collettività. L’impossibilità di svolgerelavoro regolarizzato si è dimostrata un ostacolo grave per riusciread abitare una città come Latina, in cui, proprio per l’assenza ditradizioni storico-culturali, le forme di riconoscimento reciprocopassano quasi esclusivamente attraverso la condivisione del mo-mento lavorativo8. Comparativamente, gli immigrati provenientidal Terzo Mondo che non passano attraverso i programmi assisten-ziali del Ministero, e che non devono perciò sottostare a tale divieto,si ritrovano in una certa misura avvantaggiati in un più (relativa-mente) veloce inserimento nel mercato del lavoro e nella vita socialecittadina, nonostante le maggiori difficoltà di partenza per riuscirea trovare condizioni di vita accettabili.

Nel caso dei rifugiati politici la dicotomia Campo/città funzionainvece a pieno regime: essa è funzionale alla definizione dello StatoItaliano quale paese di primo asilo ed è quindi in grado di offrireben poco oltre un certo tipo di assistenza che già nel suo esplicarsitraccia solchi profondi basati sulla differenza di condizioni tra ita-liani e non italiani.

“Insomma lo “slavo” è sorpassato. Non fa testo. Non cerca l'integra-zione. Le femmine ce l’ha nel campo, e dunque non lo incontriamo indiscoteca” 9

I profughi di cui si è parlato e gli immigrati extraeuropei riman-

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dano, in sostanza, a due tipi fondamentalmente diversi di immi-grazione: l’uno di transito e l’altra tendente ad una stabilizzazionepiù o meno definitiva; l’una impossibilitata per legge ad inserirsinelle reali strutture della vita sociale cittadina, l’altra tesa all’attaccodi queste strutture in maniera frontale.

Ma la differenza tra questi due tipi di immigrazione ha impli-cazioni di carattere più generale, che rimandano a due differenticoncezioni di mondo: l’una, uscita fuori dagli accordi di Yalta, cheripone ogni sua certezza nell’esistenza di frontiere stabili e intocca-bili, e l’altra, dominante in questo ultimo frammento di ventesimosecolo, in cui tende a perdere significato il concetto stesso di fron-tiera.

Nel secondo caso il modello di riferimento diventa quello delmelting-pot, del groviglio di etnie e culture diverse disposte sul me-desimo territorio, come già da tempo accade nelle maggiori metro-poli occidentali, a New York come a Parigi, a Londra.

Eppure, mentre gli avvenimenti del 1989 che hanno cambiatovolto all’Europa, e forse al mondo intero, impongono una rifles-sione su basi nuove dei trattati internazionali e soprattutto delle re-lazioni internazionali, Latina, pur potendo fungere da sensibileindicatore di tendenza, sembra arroccata su posizioni superate, pro-ponendo la destinazione del Campo Rossi Longhi a rifugio per inumerosi immigrati nordafricani che abbondano in città.

Proposta che, inquadrata all’interno del problema affrontato inquesto lavoro, non può che sorprendere negativamente: e ciò siaper il mantenimento di una concezione ghettizzante nei confrontidi intere comunità extra-nazionali, sia per l’assoluta confusione concui Latina continua a guardare alle proprie strutture sociali.

Confusione che ha come esito la tendenza a proporre soluzioniche si rilevano assolutamente inadeguate alle necessità dell’attualemomento storico, in cui occorre operare con l’obiettivo rivolto allacreazione di una società a carattere multiculturale.

68

NOTE:1) TZVETAN TODOROV, cit., pg. 3042) cfr. Introduzione. I motivi di una ricerca, pgg. 1-8.3) ERNESTO DE MARTINO, La fine del mondo, Einaudi, Torino, 1977, pp. 389 e sg4) Ci riferiamo in specifico all’omicidio di Jerry Essan Masslo, avvenuto a Villa Literno

nell’estate del 1989 e alle numerose inchieste sulla condizione degli immigrati extracomunitari in Italia, che hanno avuto ampio spazio sulle pagine della stampa nazio-nale ed estera.

5) Il concetto di identità osservante è mutuato dai lavori di ALBERTO M. CIRESE, inparticolare al volume Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo editore, Pa-lermo, 1971

6) vedi VITTORIO COTESTA, “La nuova immigrazione nell’Agro Pontino”, in Note Stati-stiche della Cisl, n.15/1989, Latina, pgg.1-3

7) cfr. cap. IV, par. 4.3, “Il lavoro negato”8) cfr. cap. III, par. 3.3, “La città incompiuta”9) cfr. “Latina città aperta” in “Dossier, mensile di politica, società e cultura, settembre

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73

ALLEGATI

75

76

Richieste di asilo in Italia dal 1952 al 1987

Fonte: Ministero degli Interni, Direzione Generale dei Servizi Civili

7000

6000

5000

4000

3000

2000

1000

05352 54 55 56 57 58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71

(all. 1)

Richieste di asilo in Italia dal 1952 al 1987

Fonte: Ministero degli Interni, Direzione Generale dei servizi civili

10000

9000

8000

7000

6000

5000

4000

3000

2000

1000

07271 73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83 84 85 86 87

(segue all.1)

Richieste di asilo

Fonte: Ministero degli Interni, Direzione Generale dei servizi civili

(all. 2)

Nazionalità

Albanesi

Bulgari

Cecoslovacchi

Jugoslavi

Polacchi

Romeni

Ungheresi

Varie

1691-1970 1971-1980 1981-1985

numero % numero % numero %

2.204

1.079

2.172

30.825

1.019

924

3.361

249

5

3

5

74

2

2

8

1

172

1.051

1.192

1.185

1.607

2.892

4.465

242

1

8

9

15

12

21

33

1

1.009

312

1.758

367

5.264

3.431

1.104

57

7

2

13

3

41

25

8

1

Totale 41.833 13.616 13.662 100100100

Profughi presenti in Italia, distinti per nazionalità, 1978-87 (all. 3)

Fonte: Ministero degli Interni, Direzione Generale dei Servizi Civili

Anno

1978

1979

1980

1981

1982

1983

1984

1985

1986

1987

885

1.375

1.541

2.767

2.395

1.790

2.647

4.063

5.325

10.315

15

14

29

22

61

444

212

270

64

70

75

66

59

59

58

44

65

86

71

75

92

321

242

352

438

302

377

289

270

287

15

11

31

69

145

99

34

20

21

0

68

110

159

905

242

384

1.377

2.716

4.342

9.188

329

582

669

1.066

1.191

345

390

439

370

345

272

261

331

276

245

165

184

234

178

218

19

10

21

18

15

7

6

9

9

132

Totale alban. bulgari cecosl. jugosl. polacc. romeni ungher. altri

77

Richieste di asilo e casi respinti tra i profughi sotto convenzione

(all. 4)

Anno

Fonte: Archivio “Rossi Longhi” Latina

1984

1985

1986

1987

1988*

2.776

4.093

5.426

10.115

130

1.522

2.352

3.752

4.662

5.795

55%

57,4%

69,1%

46%

?

richieste respinti % respinti

*: le sole 130 richieste di asilo relative al 1988 sono conseguenzadelle misure restrittive adottate nel 1987. I 5.795 casi respinti del 1988si riferiscono a pratiche regresse dell’anno precedente, per cui è impossibile calcolarne la percentuale.

Richieste di asilo e percentuali di eleggibili

(all. 5)

Anno

Fonte: Rifugiati n. 14 giugno 1987, ACNUR, Roma

1981

1982

1983

1984

1985

1986

2.767

2.395

1.790

2.647

4.063

5.235

24%

14%

13%

13%

7%

4%

richieste eleggibili

78

79

Durata media dei tempi d’attesa perl’emigrazione in paesi terzi (1981/87)

(all. 6)

Anno

Fonte: Ministero degli Interni, Direzione Generale dei Servizi Civili

1981

1982

1983

1984

1985

1986

1987

145

201

231

177

224

244

365

media giorni

Profughi presenti nel campo: distribuzione per nazionalità e stato civile (23/3/1989)

Fonte: Archivio “Rossi Longhi”, Latina

(all. 7)

Nazionalità coniugatipresenti celibi nubili divorziati minori

Bulgaria

Cecoslovacchia

Polonia

Romania

Ungheria

1

1

433

3

10

1

0

239

0

4

0

0

70

0

3

0

1

27

0

1

0

0

11

2

1

0

0

86

0

87

Totale 448 74 14 8729244

Distribuzione per nazionalità e classi di età deiprofughi presenti al campo (23/3/1989)

Fonte: Archivio “Rossi Longhi”, Latina

(all. 8)

Nazionalità 0-12presenti 13-20 21-30 31-40 oltre 40

Bulgaria

Cecoslovacchia

Polonia

Romania

Ungheria

1

1

433

3

10

0

0

71

0

1

0

0

30

0

4

1

1

153

0

1

0

0

140

1

2

Totale

0

0

39

2

2

448 34 143 4315672

80

81

82

83

84

85

86

87

88

89

91

Ho deciso di digitalizzare la mia tesi di laurea - scritta in epocapre-window su floppy disk oramai illeggibili dai computer moderni- a seguito di richieste da parte di studenti e studiosi che non pos-sono fisicamente consultare l’unica copia cartacea esistente, con-servata nel Fondo Storico locale della Biblioteca A. Manuzio diLatina.

L’esiguità del numero di testi e ricerche pubblicate sul CampoProfughi Rossi Longhi di Latina spinge ancora oggi alcuni ricerca-tori a rintracciarmi - per mail, social o telefono - e chiedermenenotizie e informazioni. Per questo motivo, ho pensato che nell’eradegli e-book consultabili da ogni angolo del pianeta, la digitalizza-zione potesse essere la soluzione adatta per accontentare le richieste,e anche la naturale mission della tesi stessa - che è quella di essereletta da chiunque ne abbia voglia.

Sfogliando le pagine al momento della scansione, però, non hopotuto fare a meno di domandarmi che senso avesse oggi andare arileggersi uno sguardo sulla città vecchio di 26 anni. Ovviamentenessuno, mi sono risposto subito, se si cede alla tentazione del-

POSTFAZIONEall’edizione digitale 2016

l’Amarcord - collettivo e personale. Un po’ di più se invece lo si faassecondando la visione storicistica connaturata a quella ricerca:mettendo cioé quella specifica narrazione in relazione con le nar-razioni successive che della città di Latina - e della maniera in cuiessa si confronta con l’Altro - sono state fatte a seguire del 15 marzodel 1990, data in cui ho discusso la mia tesi di laurea.

Pur mantenendo fermi gli assunti originari (la dichiarazioneprogrammatica riassunta nella citazione di Ferrarotti in apertura -secondo cui “l'immigrato è sicuramente un problema, ma è anche so-prattutto una grande occasione” - la trovo ancora ampliamente con-divisibile, come anche il metodo levistraussiano dell’osservazioneetnografica che implica per l’osservatore la messa in causa della pro-pria società d’origine) bisogna infatti ammettere che tutto il restodel quadro ha subito radicali mutamenti di senso.

In primo luogo, ad un livello internazionale, è cambiato tutto.La caduta del Muro di Berlino, avvenuta solo quattro mesi primadella discussione della tesi, ha ridisegnato nuovi scenari internazio-nali, dentro e fuori l’Europa. Oggi, a distanza di ventisei anni, iltermine profughi evoca immagini molto diverse dalle famiglie po-lacche che arrivavano in Skoda cariche di valigie e con i timbri tu-ristici sul passaporto. Nel 2016 profughi significa barconi, genteche muore in fondo al mare per fuggire da guerre e dittature chehanno altri caratteri e altre nature rispetto ai polverosi e incartape-coriti regimi socialisti degli anni ’80. I flussi, le dinamiche, i movi-menti, non riguardano più solo l’Europa, ma il mondo intero. Ivolti di chi arriva non sono più gli stessi, e neanche i nomi e le lin-gue parlate. Solo l’incontro rimane lo stesso: quello tra noi e loro.Noi, cittadini di Latina. Loro, che non si chiamano più Janos e Va-lentina, ma piuttosto Fatima e Yasir, e che fuggono da guerre e dit-tature che non sono più così chiare e rassicuranti come quelle diuna volta, quando ai tempi della guerra fredda la divisione ci venivanarrata con una linearità ineccepibile: da una parte noi, liberi e fe-lici, e dall’altra loro, comunisti e perseguitati.

A livello locale, poi, la città è oggi quasi irriconoscibile rispettoa quella che descrivevo allora. Senza esplorare la crescita demogra-fica e urbanistica, e limitandoci all’analisi identitaria, molti sono

92

gli elementi che hanno contribuito a una differente (auto)perce-zione della latinensità da parte dei suoi abitanti: in un vasto calde-rone (che a mio personale avviso comprende elementi così diversida includere l’acquisizione di una santa patrona autoctona comeMaria Goretti - negli anni ’80 c’era ancora San Marco - la nascitadi una stampa quotidiana locale e la squadra di calcio in serie B)spiccano su tutto due esperienze di tipo politico e culturale la cuirisonanza ha avuto senza dubbio un impatto maggiore.

Nel primo caso mi riferisco all’amministrazione Finestra, chenegli anni ’90 ha ridefinito i termini dell’appartenenza al passatocittadino. Astenendoci da ogni valutazione di merito strettamentepolitico su quelle amministrazioni, in termini antropologici si trattòdi un gran passo avanti rispetto al sentimento di vergogna con cuile precedenti amministrazioni avevano democristianamente gestitoil tema delle origini della città. Un passaggio, questo di Finestra,splendidamente raccontato nelle sue tante ambivalenze e contrad-dizioni da Gianfranco Pannone nel documentario “Latina-Litto-ria”.

Ma soprattutto, a mio personalissimo avviso, l’impatto piùgrosso sul tema dell’identità cittadina l’hanno avuto le opere di An-tonio Pennacchi, che da Palude fino alla saga di Canale Mussoliniha costruito un’impalcatura simbolica - una mitopoietica delle ori-gini - capace di trasferire dal piano politico a quello mitico-religiosotutta la natura stessa della discussione sulla bonifica.

Lo straordinario lavoro di Pennacchi (e anche il suo successo,capace di legittimare sull’intera comunità cittadina uno sguardo di-verso da parte del resto del mondo, che a sua volta attraverso quellepagine scopriva nell’Agro Pontino una piccola Macondo a tutt’oggiancora esistente) è un qualcosa di cui la città deve sicuramente es-sere grata allo scrittore-operaio. E in modo particolare deve esserloquella parte di cittadinanza che - come me - prima di questa mito-poiesi inclusiva faceva molta più fatica a sentirsi parte della comu-nità cittadina. Questo perché - catarticamente - la narrazionesecolare di quella bonifica è servita a smantellarne l’aspetto ideolo-gico, quello stesso aspetto che faceva abbassare la testa addirittura

93

a Pertini quando - come accade nel cinquantenario della fondazione- doveva ammettere a denti stretti la bontà dei risultati di quel-l’opera.

Oggi della bonifica abbiamo una narrazione nuova - che aitempi della mia tesi non esisteva ancora, e quindi non era a dispo-sizione della città - dove gli eroi sono operai e contadini, come neimurales della rivoluzione messicana di Diego Rivera. E non più,com’era prima, un archetipo politico funzionale solo a mantenerein vita banalità folkloristiche nei mercatini d’antiquariato e percen-tuali dignitose alle urne per chi in campagna elettorale si vantavadi essere (ancora) fascista. Una narrazione, quella di Pennacchi, cheesalta il valore dell’umanità nel gesto fondatore al di sopra della vo-lontà superiore del demiurgo (che - oltre a separare le terre dalleacque - è ricordato oggi anche per aver rastrellato gli ebrei e stron-cato gli abissini con i gas tossici). E così facendo, la narrazione diPennacchi redime, come ogni vero mito di fondazione, la comunitàintera da un peccato percepito come originale. Quello della cittàfascista.

Infine, nell’elenco delle tante cose cambiate dal 1990, ci sonoovviamente anche io. Per inevitabilità anagrafica, ma anche per al-cune particolari esperienze che oggi mi consentono - e in certi casimi impongono - uno sguardo nuovo e più complesso sulle paroleche scrivevo ventisei anni fa.

In primo luogo, dopo quella tesi ho passato otto anni della miavita all’estero: a Londra e non in qualità di profugo, poiché il pri-vilegio di appartenere alla parte ricca del mondo mi permette diviaggiare e risiedere più o meno dove voglio io, senza timbri sulpassaporto o barconi da affrontare. Purtuttavia, rispetto alla que-stione del rapporto con l’altro - l’oggetto vero di questa tesi e ditutta l’osservazione antropologica nella sua specifica natura - credoche quest’esperienza mi abbia fornito una prospettiva nuova, cheal momento della stesura non avevo ancora e che nasce solo con lareale ed effettiva consapevolezza delle difficoltà (e dei vantaggi) ches’incontrano nel vivere da straniero in un paese che non è il proprio,dove si parla una lingua diversa dalla propria e ci si confronta conidee, culture e burocrazie diverse da quella propria.

94

Al mio rientro, poi, nel 2000, ho conosciuto la mia futura mo-glie, una mia coetanea rumena che si era trasferita a Latina pressa-poco quando io ero partito per Londra, all’inizio degli anni ’90. Ditutti i posti al mondo, aveva scelto Latina per un motivo preciso:era qui che la sorella maggiore era arrivata, ai tempi di Ceausescu,nel campo profughi. Ed è qui, a Latina, che oggi vivono 5 tra fratellie sorelle, con figli e nipoti che ormai sono giunti alla terza genera-zione. Latinensi, a tutti gli effetti.

Ho avuto modo di conoscere da vicino tutta quella splendidafamiglia - essendomi nel frattempo fidanzato, sposato e poi ancheseparato con Cristina - ed insieme a loro ho avuto modo di cono-scere da vicino sia la Romania che la realtà di tante persone che,prima e dopo la caduta di Ceausescu, da quel paese si sono trasferitea Latina. Tutte informazioni, queste, che mi hanno dato modo dirimettere in discussione alcune convinzioni che avevo condivisonella mia tesi, soprattutto riguardo alla transitorietà di queste pre-senze a Latina e alle ragioni - l’esistenza stessa - del mancato incon-tro di cui parlavo nel mio lavoro.

Infine, nella lista dei miei cambiamenti personali, buon ultimoc’è il fatto che da tre anni, all’interno di una lenta evoluzione pro-fessionale, lavoro con i profughi politici. Quelli attuali, che non ar-rivano in macchina da Cracovia o Budapest, ma in barcone dallaLibia, dopo aver attraversato un deserto intero, talvolta dopo averperso parte della propria famiglia e degli affetti importanti duranteil viaggio, vittime di violenze, incidenti, malattie o qualunque altracosa vogliate impropriamente chiamare sfortuna.

Oggi lavoro come mediatore culturale all’interno del progettoSPRAR (Schema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati) delcomune di Latina, un progetto che assiste in un percorso all’indi-pendenza individuale rifugiati politici che hanno chiesto asilo politicoin Italia, esattamente come facevano quei profughi in arrivo al RossiLonghi. Si tratta di persone che provengono da zone di guerra, vit-time della tratta e dei trafficanti umani, sopravvissuti a stragi nei mer-cati nigeriani e a violenze nelle prigioni libiche. Gente che, in Italiae nello specifico a Latina, si ritrova nella necessità di ricostruirsi unavita da zero, non raramente con figli e famiglie a carico.

95

Lavoro, insieme ai colleghi della SPRAR del Comune di Latina,con gli ultimi della terra - come li definisce Papa Francesco - e perquesto motivo mi ritengo un privilegiato, perché attraverso il con-fronto con loro mi è quotidianamente data la possibilità di metterein discussione la società e le convinzioni entro cui sono nato. Perchésono ancora convinto che senza questo mettersi in discussione - nesono convinto io come lo erano Levi Strauss e De Martino - nonci sia margine per il miglioramento vero, quello che si basa sullacrescita e sulla trasformazione continua. Un processo che non ri-guarda solo gli individui, ma anche le società nel loro insieme.

Ed è su queste basi, orientate ad un perpetuo e costante divenire,che mi auguro si sviluppino nuovi sguardi di analisi su quella cheè oggi la natura sociale della nostra città, così come anche sulla suacapacità di gestire ed assorbire l'incontro con l’altro.

L’originalità della composizione di Latina a livello socio-antro-pologico la rende tra l’altro ancora un laboratorio perfetto per l’ana-lisi sociale, entro la quale mi auguro che possano esserci esvilupparsi ricerche nuove su quella che è stata l’esperienza delcampo profughi a Latina. Ricerche che oggi – finalmente! - possonoliberarsi dall’anacronistica visione dettata dalla politica dei blocchi,e dagli slogan della propaganda che dipingevano queste persone infuga da un inferno. Una realtà fatta di buoni – noi, sempre noi - ecattivi - loro. O almeno, i loro governi - e che produce un’osserva-zione sterile, perché non contempla quella messa in causa personaledi cui parla tutta l’antropologia moderna.

Non la pigra reiterazioni di luoghi comuni appartenenti a unapassata stagione politica, quindi, ma analisi adulte, capaci di ricon-durre quell’esperienza all’interno di una narrazione complessiva ea lungo termine di storia cittadina, con uno sguardo in grado diporre quei flussi migratori in relazione a quella che è la natura piùvera di questa città, divenuta nel tempo prima di tutto territorio diaccoglienza e immigrazione.

La storia ci permette oggi di classificare il Rossi Longhi comeuna dei tanti apporti all’identità collettiva cittadina, in linea conuna tradizione che dal primo giorno si passa sul viaggio e sull’im-migrazione. E - che si tratti dei veneti della bonifica o dei romeni

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di oggi, dei polacchi che riempivano le baracche del campo profu-ghi o degli indiani che riempiono oggi quelle nelle campagne locali,dei siriani che arrivano sui barconi o degli ucraini che fuggono inauto da una guerra interamente europea – quello che accomuna iviaggi e le immigrazioni è sempre la stessa motivazione di base,egregiamente narrata nell’incipit del primo canale Mussolini e versocui noi latinensi – più di tutti – abbiamo il dovere di mantenerealta la nostra solidarietà.

La fame. Siamo venuti [tutti] per la fame. E perché se no?

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foto di copertina: Marcello Scopellitiediting e impaginazione: Francesca Lucarelli

pubblicato da Magma - maggio 2016