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Rassegna bibliografica Scienze mediche nell’Ottocento veneto Luciana Garibbo A più di un secolo e mezzo dalla sua fonda- zione (il centocinquantesimo anniversario è stato infatti celebrato nell’ottobre del 1988) l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti continua a svolgere con costante presenza il suo antico ruolo di centro di aggregazione culturale che vuole agire in due direzioni: nella dimensione storica indirizzata a fonda- re una conoscenza critica del proprio passa- to e a rielaborarne la memoria; nella solleci- tazione a continuare quel cammino di pre- senza nella elaborazione culturale della pro- pria contemporaneità che da quel passato emerge. Questi due aspetti dell’organizza- zione della vita culturale acquistano uno specifico significato oggi per l’area venezia- na: la loro intersezione infatti centralizza il confronto tra un passato di originalità cultu- rale e potenza politica e un presente fatto di difficile identità culturale e incerta definizio- ne di ruolo economico nel complesso dello sviluppo nazionale. È vero che la tendenza attuale dell’orga- nizzazione politica o economica è quella di privilegiare l’attenzione sul ruolo che i terri- tori regionali possono assumere all’interno di una dimensione europea piuttosto che na- zionale: è un momento quindi di ridefinizio- ne dei ruoli economici e politici, e di recupe- ro delle identità culturali regionali, anche se (e sia detto per inciso) la ricerca di definitivi profili delle identità regionali si sta rivelan- do sempre più difficile e molto spesso artifi- ciosa e contestabile. Tuttavia in questo con- testo di trasformazione dei ruoli regionali la conoscenza storica del proprio passato può fornire indicazioni fondamentali, e diventa centrale proprio il momento di costituzione dello stato nazionale e l’analisi del modo in cui è stato elaborato l’inserimento delle preesistenti realtà politiche e culturali nella organizzazione territoriale del nuovo Stato: il tipo di relazioni che si sono allora stabilite e il livello di integrazione culturale ed econo- mica successivamente raggiunto contribui- scono a determinare le scelte politiche regio- nali in questo difficile momento dello stato nazionale. Da questo insieme di considerazioni è na- ta l’attenzione che da vari anni non solo i di- versi centri di storia locale, ma anche inizia- tive programmate a livello nazionale, come i volumi pubblicati da Einaudi sulle regioni italiane dopo l’Unità, hanno rivolto alla ri- costruzione del percorso storico che si è svi- luppato all’interno delle loro aree culturali dagli ultimi decenni del Settecento a tutto l’Ottocento, superando l’antico pregiudizio metodologico che limitava l’interesse storico locale alla vita degli stati preunitari e ai mo- menti del loro maggiore splendore, senza ar- gomentare le forme di continuità storica che si ponevano tra quel passato e il loro presen- te, e i diversi caratteri della nuova identità culturale che si era andata formando. Tanto più che questo lungo corso di anni vive di- versi momenti di ‘crisi’ che investono non solo i sistemi di organizzazione politica, so- Italia contemporanea”, marzo 1992, n. 186

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Rassegna bibliografica

Scienze mediche nell’Ottocento veneto

Luciana Garibbo

A più di un secolo e mezzo dalla sua fonda­zione (il centocinquantesimo anniversario è stato infatti celebrato nell’ottobre del 1988) l’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti continua a svolgere con costante presenza il suo antico ruolo di centro di aggregazione culturale che vuole agire in due direzioni: nella dimensione storica indirizzata a fonda­re una conoscenza critica del proprio passa­to e a rielaborarne la memoria; nella solleci­tazione a continuare quel cammino di pre­senza nella elaborazione culturale della pro­pria contemporaneità che da quel passato emerge. Questi due aspetti dell’organizza­zione della vita culturale acquistano uno specifico significato oggi per l’area venezia­na: la loro intersezione infatti centralizza il confronto tra un passato di originalità cultu­rale e potenza politica e un presente fatto di difficile identità culturale e incerta definizio­ne di ruolo economico nel complesso dello sviluppo nazionale.

È vero che la tendenza attuale dell’orga­nizzazione politica o economica è quella di privilegiare l’attenzione sul ruolo che i terri­tori regionali possono assumere all’interno di una dimensione europea piuttosto che na­zionale: è un momento quindi di ridefinizio­ne dei ruoli economici e politici, e di recupe­ro delle identità culturali regionali, anche se (e sia detto per inciso) la ricerca di definitivi profili delle identità regionali si sta rivelan­do sempre più difficile e molto spesso artifi­ciosa e contestabile. Tuttavia in questo con­

testo di trasformazione dei ruoli regionali la conoscenza storica del proprio passato può fornire indicazioni fondamentali, e diventa centrale proprio il momento di costituzione dello stato nazionale e l’analisi del modo in cui è stato elaborato l’inserimento delle preesistenti realtà politiche e culturali nella organizzazione territoriale del nuovo Stato: il tipo di relazioni che si sono allora stabilite e il livello di integrazione culturale ed econo­mica successivamente raggiunto contribui­scono a determinare le scelte politiche regio­nali in questo difficile momento dello stato nazionale.

Da questo insieme di considerazioni è na­ta l’attenzione che da vari anni non solo i di­versi centri di storia locale, ma anche inizia­tive programmate a livello nazionale, come i volumi pubblicati da Einaudi sulle regioni italiane dopo l’Unità, hanno rivolto alla ri- costruzione del percorso storico che si è svi­luppato all’interno delle loro aree culturali dagli ultimi decenni del Settecento a tutto l’Ottocento, superando l’antico pregiudizio metodologico che limitava l’interesse storico locale alla vita degli stati preunitari e ai mo­menti del loro maggiore splendore, senza ar­gomentare le forme di continuità storica che si ponevano tra quel passato e il loro presen­te, e i diversi caratteri della nuova identità culturale che si era andata formando. Tanto più che questo lungo corso di anni vive di­versi momenti di ‘crisi’ che investono non solo i sistemi di organizzazione politica, so-

Italia contemporanea”, marzo 1992, n. 186

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dale, economica, ma prima di tutto i model­li di conoscenza e i criteri di verità, con quel­le due rotture epistemologiche che sono rap­presentate daH’illuminismo e dal positivi­smo, e incidono pertanto sul livello profon­do degli orientamenti culturali.

Lungo questo diverso indirizzo degli studi di storia locale — che comunque vuole supe­rare i limiti del localismo nel momento in cui problematizza il rapporto locale-nazio­nale — si è mosso l’Istituto veneto di scien­ze, lettere ed arti avviando un’indagine sui processi di trasformazione che si sono svi­luppati nella ‘marca’ veneta successivamente alla fine della repubblica aristocratica, so­prattutto per quanto concerne le forme di organizzazione della vita, la sua qualità, le strutture sociali, la capacità delle élite diri­genti di mettersi in contatto con i circuiti della cultura internazionale e di utilizzarli a livello locale.

L’indagine è stata avviata attraverso la ri- costruzione della storia di discipline scienti­fiche e tecniche di particolare impatto socia­le (come medicina, ingegneria, agraria, eco­nomia), che permettono di indagare su even­tuali mutamenti di mentalità e di atteggia­menti culturali a livello di élite dirigenti con quella maggiore concretezza e possibilità di verifica che gli itinerari del sapere tecnico e scientifico indubbiamente offrono nei con­fronti delle scelte ideologiche e politiche, no­nostante i profondi legami e condiziona­menti che sempre si sviluppano tra i due uni­versi di discorso, ma che sono particolar­mente forti in quegli anni in cui il significato e l’uso ideologico della scienza molto spesso complica la stessa valutazione della capacità di conoscenza dei nuovi paradigmi scienti­fici.

La scelta metodologica dell’Istituto vene­to nasce dunque da una serie di considera­zioni: la presenza di una ormai consolidata tradizione culturale che ha sottolineato l’im­portanza della dimensione storica della scienza; la centralità che il sapere scientifico

ha assunto nella costituzione della cultura ottocentesca; di conseguenza la maggiore capacità di conoscenza dei meccanismi di or­ganizzazione delle culture locali che questo ampliamento dello spettro di indicatori, su cui verificare persistenze e mutamenti dei percorsi culturali, può offrire, sottolinean­done l’andamento non lineare e i modi in cui i nuovi modelli di conoscenza scientifica lentamente concorrono a una modifica della mentalità e a una verifica degli stereotipi presenti anche in altri campi del sapere.

L’istituto Veneto ha avviato questo nuovo percorso di conoscenza della realtà locale con un convegno organizzato a Venezia il 2 dicembre 1989 e di cui è stato pubblicato con molta tempestività il volume degli atti (Aa.Vv., Scienze mediche nel Veneto del­l’Ottocento, Atti del primo seminario di sto­ria delle scienze e delle tecniche nell’Otto­cento veneto, Venezia, Istituto Veneto di scienze, lettere e arti, 1990, pp. 241, lire 28.000).

Come sottolinea la scheda di presentazio­ne pubblicata nel catalogo delle Novità edi­toriali dell’istituto nel gennaio 1991, il con­vengo si è mosso appunto in questa duplice direttiva, di illustrare “da un lato i legami europei degli studi compiuti nel Veneto in quel secolo, e dall’altro una qualche specifi­cità del mondo scientifico e tecnico delle no­stre regioni, soprattutto in quei settori che più condizionavano la realtà sociale o che più ne risentivano”.

In relazione a questi scopi della pubblica­zione, il modello di analisi scelto dalla mag­gioranza dei relatori non poteva essere quel­lo di una storia della medicina intradiscipli- nare, ossia tutta interna alla disciplina stes­sa, ma naturalmente un modello interdisci­plinare, attento a rinsaldare “i legami con il portato della riflessione epistemologica e storico-sociale”, come proponeva nel 1984 l’editoriale della rivista “Sanità, Scienza e Storia” . Un modello sostenuto e utilizzato anche da Giorgio Cosmacini nei suoi due

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volumi sulla Storia della medicina in Italia (cfr. il primo volume, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. IX-XVI). Anche se il volume ve­neziano nel suo complesso denota forse un’enfasi sugli aspetti storico-sociali che va oltre i limiti di attenzione proposti da quel modello.

Attraverso questo schema di analisi, le re­lazioni presentate al convegno — ovviamen­te nei limiti imposti da una ricerca ai suoi esordi, ma che comincia ad affrontare un aspetto della vita regionale non indagato nel volume einaudiano su II Veneto (a cura di Silvio Lanaro, in Storia d ’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi, Torino, 1984) — riescono a ricostruire un articolato panorama delle diverse caratteristiche che, a livello scientifi­co e di intervento sociale, le scienze mediche assumono a contatto con le diverse identità collettive che si sono formate alPinterno del territorio veneto: Passe Venezia-Padova; il territorio che ha il suo centro in Verona; il Trentino; la zona di Trieste, con l’indicazio­ne dei circuiti culturali e delle vie di sviluppo economico da ognuna di esse privilegiati.

Per necessità limiteremo la nostra atten­zione alle due aree più interessanti per la storia delle scienze mediche: Passe Venezia- Padova e l’ambiente veronese.

L’asse Venezia-Padova, sede del potere politico e centro culturale della regione non solo per la presenza delle due università, è anche l’area di maggiore interesse per una definizione del rapporto tra scienze mediche e politica, e per una ricostruzione della dif­fusione dei nuovi statuti scientifici e del di­battito che attorno a essi si sviluppa.

Carlo Maccagni attraverso la figura di Francesco Aglietti, medico, divulgatore scientifico, editore, consigliere e protomedi­co del governo di Venezia, che opera nella città lagunare tra il 1780 e il 1830, ricostrui­sce il convulso periodo storico che la repub­blica vive in questo corso di anni e i riflessi che le vicende politiche hanno sulla organiz­zazione degli studi medici nell’università di

Padova. Sull’ordinamento degli studi nella sede padovana il governo veneziano era già in precedenza intervenuto per “portarla al passo con i tempi e soprattutto per renderne gli insegnamenti più rispondenti alle esigen­ze dello Stato stesso” (p. 156). Vi si rifletto­no successivamente le diverse politiche me­diche e sanitarie diffuse dai francesi e dagli austriaci, ma senza che “a Padova e a Vene­zia [...] si riscontrino quelle ventate innova­trici che hanno luogo a Pavia e a Milano” (p. 158).

Oltre alle sedi universitarie, importanti centri di aggregazione della cultura medica a Venezia sono il “Giornale per servire alla storia ragionata della medicina di questo se­colo”, di cui Aglietti inizia le pubblicazioni nel 1783, e ancora la Società di medicina, fondata nel 1783, ma successivamente guar­data con sospetto dalla polizia austriaca proprio per la presenza, tra i suoi membri, di Aglietti, che durante il governo provviso­rio aveva manifestato il proprio entusiasmo per le idee di Francia (e su cui cfr. anche Umberto Corsini, Pro e contro le idee di Francia, Roma, Istituto per la storia del Ri­sorgimento italiano, 1990, p. 35).

Tutte queste istituzioni, a cui naturalmen­te si affianca lo stesso Istituto veneto, apro­no circuiti di scambio internazionale e di­ventano sede per la diffusione di nuovi indi­rizzi metodologici e per una riflessione criti­ca su di essi e più in generale sui compiti del­la medicina, sulla definizione del ruolo pro­fessionale del medico, sull’importanza che una storia della medicina può assumere co­me retroterra su cui verificare le scelte del presente. Si evidenzia dunque un assetto or­ganizzativo che favorisce il coagularsi di una tradizione culturale locale.

Al dibattito che si apre nel Veneto sul “si­stema di Brown” è dedicata la relazione di Giancarlo Zanier {La medicina browniana nel Veneto, pp. 31-60): la teoria di Brown si diffonde in Italia con l’arrivo dei francesi soprattutto nel triennio 1796-1799 e diventa

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un momento centrale per la definizione del rapporto tra paradigmi scientifici e ideologie politiche che in quegli anni si va stabilendo, ma anche del modo in cui si procede alla ve­rifica della logica epistemologica interna ai nuovi paradigmi.

Secondo Cosmacini l’idea di medicina di Brown è quella che “rompe col passato” e le sue opere “costituiscono una nuova dottrina sistematica che prospetta [...] tesi riforma­trici altrettanto radicali quanto le istanze giacobine di rivoluzione politica” (Storia della medicina, cit., vol. I, pp. 257 sgg.). La nuova dottrina dunque entra in Italia con precisi referenti politici, indicati non solo dal collegamento esterno con le élite giacobi­ne, ma dalla struttura profonda del suo mo­do di pensare in medicina. Esso si riallaccia alla struttura del pensiero illuminista e ha i caratteri di quel giacobinismo scientifico che Cosmacini individua nelle sue “istanze di onnicomprensione sistematica, di rinnova­mento ab imis fundamentis, di razionalità deificata, di salute pubblica garantita”, oltre che nel suo impianto empirista (cfr. G. Co­smacini, Teorie e prassi mediche tra Rivolu­zione e Restaurazione: dall’ideologia giaco­bina all’ideologia del primato, in Storia d ’I­talia, Annali, 7, Malattia e medicina, Tori­no, Einaudi, 1984, p. 159).

Il brownianismo è accolto con entusiasmo all’università di Pavia: l’adesione al giacobi­nismo culturale e politico di molti docenti e studenti predispone a una accettazione in­condizionata della nuova dottrina, assumen­dola come “un modello per pensare e per agire in ogni campo” (ivi, p. 158), senza una verifica di scientificità dei suoi canoni epi­stemologici.

Diversi sono i termini del dibattito che si sviluppa nell’ambiente veneto e che vengono pubblicizzati da una lunga serie di interventi che appaiono sul “Giornale per servire alla storia ragionata della medicina di questo se­colo”: le prime memorie dedicate al brow­nianismo sono infatti di condanna al sistema

per la connotazione di “smascherato mate­rialista” del medico scozzese (G. Zanier, La medicina browniana nel Veneto, cit. p. 36). È dunque una condanna che nasce dalle im- plicanze politiche, filosofiche, religiose del sistema. Ma lentamente l’atteggiamento del giornale cambia, e l’attenzione si sposta su una riflessione critica sulla scientificità della teoria e sulla sua applicabilità pratica. Il ca­rattere di novità della teoria consisteva nel suo configurarsi “a tutta prima come tenta­tivo di riportare i fenomeni vitali a un unico principio, equivalente nel mondo organico all’attrazione newtoniana [...]. Tale princi­pio è l’eccitabilità” : la vita consiste nella “reazione della sostanza midollare dei nervi e del solido muscolare” a forze eccitanti esterne (ivi, pp. 31-32). Il principio di eccita­bilità diventa per Brown “una legge univer­sale di fatto” evidente, che pertanto non ne­cessita di verifica e di dimostrazione: pro­prio in questo consiste il suo carattere di scienza mal fondata, di ideologia scientifica (cfr. G. Cosmacini, Teorie e prassi mediche tra Rivoluzione e Restaurazione, cit., p. 156).

Il dibattito che si svolge sul giornale vene­ziano non arriva a evidenziare questo limite epistemologico del brownianismo: ma avvia una riflessione molto attenta ed equilibrata, che se da un lato sottolinea “l’abuso di pro­posizioni astratte e generali” presente nel ra­gionamento del medico scozzese, dall’altro sottolinea la necessità di sottoporlo a verifi­ca, di ripensarlo, di vedere che cosa sia uti­lizzabile per far fronte all’esigenza imperati­va di rinnovare la medicina: questo insieme di polemiche, di ricerche empiriche, di riela­borazioni che accompagnano la lunga disa­mina del brownianismo diventa una docu­mentazione importante del modo in cui, sul piano epistemologico e culturale, lentamente si cerca di gettare un ponte tra rivoluzione e tradizione.

La relazione con cui Maria Laura Soppel- sa illustra la “originale operazione di stori-

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cizzazione linguistico-antropologica” con­dotta da Paolo Marzolo (Paolo Marzolo e le “parole-medaglie” della medicina) intro­duce un altro carattere specifico della cultu­ra scientifica veneta, cioè la sua attenzione per la storia della scienza. Afferma infatti Marzolo nel 1857 (in clima di positivismo già affermato), presentando all’Istituto ve­neto la sua memoria Parole-medaglia della medicina: “la storia delle scienze, costituen­do quella del rapporto oggettivo dell’uma­na soggettività è indispensabile per le scien­ze stesse: la cognizione del modo in cui si ottiene il sapere ne fa già una parte inte­grante” (ivi, p. 129).

L’attenzione per la storia della medicina è però soprattutto presente a Verona, dove peraltro la diffusione di un indirizzo stori­co-critico (seppure in campo economico) è sostenuta anche dalla scuola di Angelo Messedaglia. Sottolinea infatti Luciano Bo- nuzzi (Figure ed itinerari della medicina ve­ronese): “Scrive l’economista Angelo Mes­sedaglia: ‘Siamo in un’età che può ben dir­si, fra tutte, ed eminentemente, un’età scientifica’. E più oltre nota come la ricerca

scientifica moderna, sintetizzando il sapere di tutti i tempi, esiga rispetto al passato ‘un istinto di più: il senso e l’istinto storico’” (P -71).

È sostenitore a Verona dell’importanza della storia della medicina, anche con “com­piti di verifica metodologica e riflessione cri­tica sugli aspetti civili che condizionano la salute” (p. 67), Giuseppe Cervetto, per il quale, riassume Bonuzzi, “Tutto il sapere dell’uomo è riducibile in una dimensione storica che appare quanto mai utile nell’am­bito delle scienze mediche per individuare le direttive di sviluppo del sapere, per mettere a disposizione degli studiosi la bibliografia, per illuminare gli errori, per mettere ordine nella monteplicità degli approcci e delle os­servazioni, per confrontare il progresso del­la medicina con quello delle altre scienze, in modo da poter lavorare, con le strategie più evidenti, alla costruzione del benessere so­ciale” (p. 68).

Un’indicazione semplice, forse, ma effica­ce per definire il rapporto tra scienza e storia.

Luciana Garibbo

Donne intellettuab fra Otto e Novecento Le figlie di Cesare Lombroso

Simonetta Soldani

A essere scrutata in queste pagine scritte in punta di penna (Delfina Dolza, Essere figlie di Lombroso. Due donne intellettuali tra ’800 e ’900, Milano, Angeli, 1990, pp. 263, lire 30.000) è la storia di due vite gemelle, o meglio della contraddizione che costituì la trama dell’una e dell’altra, e che nasceva dall’intenso esercizio dell’attività intellettua­le come professione da parte di donne atti­vamente partecipi di una cultura per la quale

l’inferiorità biologica della mente femminile era da considerarsi un dato scientifico in­confutabile, e ogni deviazione dal compor­tamento medio statisticamente accertato da condannare in quanto fonte inevitabile di di­sordine individuale e sociale. Costruire, su queste basi, un’immagine di sé come donne intellettuali che non costringesse a mettere in discussione o ad avvertire come conflittuali i due termini in cui si articolava la propria

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personalità non era certo agevole: e il pro­blema acquista una rilevanza del tutto parti­colare ove si consideri che in Italia gli anni del consolidamento del positivismo a livello di opinione pubblica media furono anche quelli dell’ingresso relativamente massiccio— e comunque molto più intenso e diversifi­cato che in qualunque altro periodo della storia — di donne nelle professioni intellet­tuali e nella sfera pubblica.

Delfina Dolza è attenta a non imboccare la strada sin troppo facile del crucifige fem­minista alla cultura positivista. Il suo invito a guardare al di là del florilegio antifemmi­nile in cui resta per lo più pietrificato ogni riferimento al binomio donna/positivismo è sacrosanto, così come il richiamo a conside­rare con maggior attenzione le “circostanze concrete” in cui prese forma quel “progetto culturale complessivo” , gli ambiti disciplina- ri, i temi e i centri in cui si articolò, gli intel­lettuali grandi e medi che in esso si riconob­bero e che ne trasmisero valori e miti a inte­re generazioni di “operatori culturali” (p. 15), vale a dire al tessuto di professionisti che, nei diversi settori, costituì uno dei frutti più significativi dell’Italia umbertina e gio- littiana e che ne modellò il volto. In tal mo­do, l’autrice mostra di aver fatto tesoro di rivisitazioni recenti, sia generali che mirate— si pensi ai saggi compresi in II positivi­smo e la cultura italiana (a cura di Emilio Papa, Milano, Angeli, 1985) o alla mostra torinese su La scienza e la colpa: crimini, criminali, criminologi, un volto dell’Otto­cento (a cura di Umberto Levra, Milano, Electa, 1985) — e di saper mettere a frutto il loro apporto. Di qui l’attenzione prestata al­le prospettive nuove che il positivismo aprì grazie alla sua insistenza sul peso dei condi­zionamenti sociali, sulla necessità che ogni essere umano potesse esprimere il meglio di sé. Di qui, anche, i rapidi ma fermi richiami alle benefiche ricadute, dirette e indirette, che la sua dichiarata volontà “di rompere con una tradizione di conformismo conser­

vatore” e di legare l’impegno culturale “ad un’autentica apertura democratica” (p. 21) ebbe anche sul versante della condizione femminile.

Talvolta, peraltro, si ha l’impressione che l’autrice finisca col cadere nell’eccesso op­posto. Così, se è vero che l’idea dell’attività intellettuale come esplicitazione di un “im­pegno” a operare per il bene collettivo pro­pugnata dal positivismo permetteva di con­siderarla una modalità nuova e privilegiata di intervento nel sociale, e dunque di spo­starla verso una dimensione che le più diver­se culture accreditavano come passibile di una forte presenza femminile, non si può di­menticare che quell’idea si legava alla con­vinta sottolineatura del diritto-dovere del­l’intellettuale a un ruolo pubblico forte, do­tato di precise responsabilità e valenze poli­tiche che anche il positivismo contribuì a confermare come estraneo, prima che vieta­to, alle donne. Più in generale, è difficile non avvertire una sostanziale sottovalutazio­ne dell’incidenza negativa che ebbe sul pro­cesso di emancipazione femminile in corso il coacervo di ideologismi elaborati dal positi­vismo o indotti dalle sue affermazioni in te­ma di natura e ruolo della donna: una don­na che proprio allora vide ribadite e aggra­vate, in base ad argomentazioni ‘scientifi­che’, preclusioni ed esclusioni tradizionali, e gerarchie tanto consolidate da apparire ed essere proclamate naturali, e per ciò stesso immodificabili, come — sia pure con qual­che rigidità di troppo — ha ricordato Gio­vanni Landucci in un contributo su I positi­visti e la “servitù” della donna (in L ’educa­zione delle donne, a cura di Simonetta Sol- dani, Milano, Angeli, 1989, recensito in “Italia contemporanea”, 1991, pp. 531-532). Di qui, anche, un giudizio che tende ad at­tribuire la difficoltà delle sorelle Lombroso di pensarsi come donne intellettuali, e la lo­ro tendenziale riduzione della donna alla funzione materna, più al peso che poterono avere condizionamenti familiari e d’ambien­

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te su persone dotate di “un’identità femmi­nile ancora in larga parte debitrice di valori tradizionali” (p. 237) che non alla cultura positivista: la stessa, appunto, che forniva il quadro di riferimento e l’intelaiatura di so­stegno alla loro militanza intellettuale, ora fiera e orgogliosa, ora incerta e travagliata, ma comunque molto importante nei loro equilibri e nelle loro prospettive di vita: sen­za dubbio più di quanto esse fossero dispo­ste ad ammettere e a riconoscere.

Del resto, l’autrice preferisce non indu­giare su tematiche così generali, e se vi fa ri­ferimento è solo in un’ottica strettamente funzionale al filo rosso della sua ricerca, nel timore — si direbbe — di incappare nei ri­schi opposti e simmetrici della riduzione della biografia a pretesto per uno studio d’ambiente e di contesto, o per una esalta­zione della centralità del biografato nel pro­cesso storico: un timore tanto più compren­sibile se si tiene conto della natura duale del soggetto e dei tratti delle figure di cui esso si compone, lontane dall’eccezionaiità ma anche dall’anonimato, e quindi tale da ri­chiedere un registro capace di cogliere i dif­ficili e precari equilibri che di volta in volta si istituiscono fra condizionamenti e scelte, fra caratteri individuali e contesti familiari, culturali, sociali. Ma la biografia è un gene­re tanto seducente quanto insidioso, come non mancava di ricordare alcuni anni or so­no Lawrence Stone in un saggio molto di­scusso e subito tradotto che pure ne rilan­ciava l’importanza e il valore (Riflessioni sulla storia: il ritorno alla narrazione, “Co­munità” , 1981, n. 183). In qualche modo, infatti, la biografia reca iscritto nel proprio codice genetico il modello delle vite illustri ed esemplari della grande tradizione classica e cristiana, dove il protagonismo onnivoro e irripetibile dei ‘grandi della storia’ trascolo­ra senza soluzione di continuità in galleria di vizi e di virtù, di situazioni e di compor­tamenti proposti come tipici, e dunque ‘ri- producibili’. Su questioni cruciali come

quelle del “rapporto tra biografia e storia generale, tra biografia come studio dell’in­dividualità o del ‘tipo’” non pare davvero agevole trovare un denominatore comune di qualche solidità, come hanno dimostrato anche riflessioni recenti (cfr. ad esempio Bi­bliografia e storiografia, a cura di Alceo Riosa, Milano, Angeli, 1985: la citazione è da p. 7). Ed è del tutto evidente che, quan­do dalle vette supreme si scende ai livelli in­termedi, rifiutare il piano della “capacità di rappresentanza” significa precludersi una legittimità e una ragione di interesse già pronte all’uso, e prepararsi a costruirne al­tre ex novo.

Nel caso specifico all’autrice preme preci­sare di non avere nessuna intenzione di pro­porre la biografia delle protagoniste in quanto “esemplare di quelle innumerevoli sorti individuali” che potevano per molti aspetti apparentarsi a quelle prese in esame, secondo la chiave proposta da Ippolito Nie- vo per giustificare “l’esposizione de’ casi suoi” e ripresa da Tommaso Detti per dar conto della Vita di un medico socialista co­me Fabrizio Maffi, allo stesso tempo ecce­zionale e significativa delle esperienze e de­gli ideali di una intera generazione. La ri­cerca, anzi, rifugge dal presentare come ti­pica di un clima e di un’epoca la vicenda trattata, per concentrarsi piuttosto sul caso specifico a cui il titolo allude, e cioè sulla tormentata e incerta conquista di un’identi­tà di intellettuali di professione da parte delle due figlie di Cesare Lombroso, Paola e Gina, profondamente segnate dalla forte personalità di un padre entusiasta e pervasi- vo, e dalle idee di quell’ala cruciale e mili­tante del positivismo italiano che ebbe nel fondatore dell’antropologia criminale un protagonista e un portavoce di straordinaria fortuna ed efficacia: segnate a tal punto da non riuscire, di fatto, a concepire sé e la propria esistenza al di fuori di quello speci­fico quadro di riferimento, e da cercare in ogni modo di ritagliarsi spazi e ruoli di atti­

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vità come donne intellettuali a partire da una concezione (pienamente condivisa, an­che se con accenti diversi, dall’una e dall’al­tra) strutturalmente limitativa delle possibi­lità teoriche e pratiche di farlo da parte di individui di sesso femminile. Il fatto stesso che tutte e due sposassero non solo degli in­tellettuali di grande prestigio, ma degli stu­diosi che il padre aveva eletto a propri allie­vi e collaboratori — Mario Carrara la pri­ma, Guglielmo Ferrerò la seconda — riba­disce la centralità del problema e dell’im­pronta paterna, al di là del modo diverso di vivere un evento che costituì, se non una ce­sura, certo una scansione fondamentale nel­l’esistenza delle due sorelle.

Fedele a un’impostazione che privilegia nettamente la dimensione privata e psicolo­gica delle dinamiche di vita prese in esame, Dolza sembra infatti suggerire che la matri­ce delle divaricazioni crescenti che sono ri­scontrabili nelle problematiche e nelle diret­trici di lavoro delle sorelle Lombroso a par­tire dal matrimonio sia da cercare nel modo diverso in cui esso fu vissuto — anche in rapporto al diverso rapporto col padre —, e nelle reazioni che innescò. Alla gioiosa cor­sa di Paola fuori dalla casa e dall’ingom­brante tutela paterna, all’“intimo profondo senso di affinità interiore” (p. 96) che essa affermava di provare nei confronti del ma­rito (la cui figura e la cui vita sono qui ri- percorse con partecipata finezza) corrispose infatti il lungo, angoscioso rifiuto dell’altra di distaccarsi dal nido paterno, di accettare la prospettiva del matrimonio, e per di più con un uomo che sembrava ignorare la sua dimensione femminile e che le appariva tan­to “grave, ponderato, riservato” (p. 141) da rendere impossibile ogni abbandono.

Essere figlie di Lombroso costituì dunque un privilegio, ma anche un bagaglio onero­so. Per un verso, infatti, quella condizione permise a Paola e Gina di seguire dall’inter­no il farsi del clima culturale dell’Italia um­bertina e le portò a confrontarsi con i gran­

di problemi del tempo e con persone abitua­te a considerarli il centro e il sale della vita. Ma d’altra parte essa propose loro anche inquietanti problemi di autonomia persona­le e culturale: una autonomia rimasta sem­pre più precaria — a mio parere — di quan­to l’autrice sia disposta ad ammettere. Pe­santemente condizionate dalla mancanza di prestigio e di consenso sociale che circonda­va la figura della femme savante, esse si trovarono per tutta la vita alle prese con una immagine di sé in cui convinzioni e comportamenti faticavano a muoversi su re­gistri compatibili. Ne è un segno l’esigenza (avvertita con diversa intensità dall’una e dall’altra, ma sempre presente) di giustifica­re e ridefinire a più riprese una scelta di vita non immediatamente riferibile all’“ordine naturale delle cose”, nel tentativo di atte­nuare l’evidente disarmonia che essa com­portava rispetto alla convinta affermazione dell’organica inferiorità intellettuale della donna, e dell’esigenza di uniformarsi, per ridurre il tasso di infelicità, a una “norma” che identificava “nel matrimonio e nella maternità il naturale ambito di realizzazione della donna” (p. 195). Senza dimenticare, d’altronde, che una simile concezione era parte integrante di una vulgata che ottenne grande successo anche presso i settori più progressisti dell’opinione pubblica, di qua e di là dell’Oceano, dall’Inghilterra vittoriana analizzata da Carol Dyhouse e Flavia Ayala agli States della Progressive Era di cui ha parlato di recente Mark Pittenger (“Wo­man’s Nature” and American Feminist So­cialism, 1900-1915, “Radical History Re­view”, 1989, n. 36). Ciò che differenziava le due sorelle era il modo di spiegare l’origine di quella norma, più legata a tradizioni e convenzioni per Paola, decisamente biologi­ca per Gina, ma accettata da tutte e due e posta a fondamento dell’idea di donna pro­pagata dai loro scritti: intelligenza e cultura hanno senso, in ambito femminile, solo se vengono usate per il benessere e la felicità

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della famiglia, nucleo per eccellenza della società; fuori da quell’ambito, l’unica legit­timazione dell’attività intellettuale delle “donne che hanno menti e cuori superiori” può venire — concederà Gina — dalla ne­cessità di “formare i modelli e le tradizioni su cui si fonderanno le altre donne per vive­re” (p. 220). Del resto le donne, diligenti e zelanti, sono del tutto incapaci di passione intellettuale e di lavoro teorico; e se studia­no “per amor proprio, per “essere notate”, per “primeggiare”, la loro “esclusione siste­matica” da studi e professioni maschili è da considerarsi un provvedimento saggio.

Mobile e discreto, l’obiettivo mette a fuo­co esperienze, convinzioni, ideologie di cui le scelte delle sorelle Lombroso risultano più o meno consapevolmente intrise: e lo fa incrociando e avvicinando sguardi diversi e lontani, producendo intersezioni, sovrappo­sizioni e corti circuiti, attraverso un uso ac­curato e mirato sia degli studi che di un fol­to materiale documentario, arricchito da fortunate esplorazioni negli archivi familia­ri. Al centro dell’attenzione sono comunque le fonti più funzionali a una indagine atten­ta a valorizzare la dimensione privata e psi­cologica dei percorsi di vita presi in esame, vale a dire le memorie scritte da Paola e Gi­na per dar conto all’esterno di personaggi ed eventi connessi al “sistema Lombroso” , o più semplicemente per mettere ordine nel­le testimonianze opache e sfuggenti di vite intensamente vissute anche sul piano inte­riore; le corrispondenze, le autobiografie e le biografie dei protagonisti di questa dupli­ce storia di vita; le lettere e le notazioni di amici, di corrispondenti, di persone più o meno illustri che conobbero le sorelle Lom­broso e si soffermarono a giudicarne atteg­giamenti e comportamenti. Assai poco spa­zio e rilievo viene invece dato ai contenuti dei loro scritti, così come al retroterra di idee, di ricerche, di polemiche che in essi si riflettevano, perfino quando essi riguarda­no il tema su cui è imperniata l’intera ricer­

ca, e che concerne non solo la condizione, ma la natura femminile.

È il caso, ad esempio, dei molti interventi di Gina sulle caratteristiche della criminalità femminile, sul versante morboso e delittuo­so di fantasie e passioni considerate proprie della donna, sui nessi tra psicologia “norma­le” e deviata, nei quali è facile riconoscere l’onda lunga del suo coinvolgimento giova­nile nella elaborazione e nella stesura de La donna delinquente, in qualità di “segretaria mediatrice” fra il padre e il futuro marito: una circostanza che segnala 1’esistenza di un nodo spinoso e irrisolto aperto da quel testo e dalla partecipazione a quella esperienza, fonte di un rovello durato tutta la vita, e a cui invece si allude solo fuggevolmente. E lo spazio dedicato a ricostruire contesti e con­tributi o a fornire informazioni si riduce ul­teriormente quando si esce da quell’ambito. Come accade anche per il grande tema del- l’antindustrialismo e della critica all’idea di progresso a cui pure si dedica particolare at­tenzione, vista l’importanza che esso riveste non solo per ciascuno dei coniugi Ferrerò, ma per il loro complesso rapporto intellet­tuale: presente in Gina già sul finir del seco­lo e da lei riproposto con molta forza in se­guito alle esperienze americane del 1907- 1910, quel tema traspariva già, ma solo in modo implicito, nelle riflessioni di Gugliel­mo Ferrerò su Grandezza e decadenza di Roma e rimase a lungo sommerso nelle sue riflessioni, per esplodere poi negli anni venti e trenta come uno dei fili rossi delle elabora­zioni, separate e convergenti, sia dell’uno che dell’altra.

Ancora meno si dice — vista la crescente marginalità del suo interesse per la questione femminile — della produzione di Paola, sempre più immersa, a partire dalla fonda­zione del “Corriere dei Piccoli” (di cui Dol- za aveva già parlato nel saggio Paola Lom­broso e la nascita del “Corriere dei piccoli”, “Storia in Lombardia” , 1990, 2), in iniziati­ve e scritture incentrate sul mondo infantile:

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un mondo amato fin dai primi saggi di scrit­tura dell’adolescenza — si pensi alle novelle per “Cenerentola”, composte a quindici an­ni appena — e col quale il colloquio sarebbe continuato intenso per tutta la vita, come stanno a testimoniare le decine di migliaia di copie vendute dalle varie raccolte di storie della “zia Mariù”, che avrebbero continuato a influenzare in modo tutt’altro che trascu­rabile la sensibilità e la formazione dei bam­bini italiani anche negli anni in cui chi le aveva scritte era divenuta una “indesiderabi­le” del regime fascista.

D’altronde, si parli di iniziative e di realiz­zazioni, di cultura o di politica, di reti fami­liari o amicali, ogni discorso di contesto e di merito viene ridotto ai minimi termini, col rischio di far perdere spessore e concretezza storica ai temi che vengono via via toccati. Decisa a mantenere ferma la centralità e re­sponsabilità del concreto soggetto storico e del suo agire, l’autrice finisce col delimitare tanto rigidamente territori, temi e orizzonti da far perdere respiro alla ricerca e da atte­nuarne sensibilmente le potenzialità conosci­tive.

Ma la scelta non risulta né del tutto con­vincente sul piano dell’impostazione, né — soprattutto — pagante sul piano dei risulta­ti. Più volte, leggendo queste pagine sobrie, accade di scoprirsi curiosi proprio delle cose taciute o appena accennate, di notizie rele­gate in nota e di temi suggeriti dalle biblio­grafie sommarie degli scritti delle due sorelle e lasciati cadere, di volti ed eventi nascosti nelle pieghe della narrazione.

Penso ai mille accenni, mai sviluppati, sull’ambiente in cui esse crebbero, alle at­mosfere e alle cadenze della vita quotidiana di casa Lombroso, tanto simili, nonostante i quarant’anni e passa che separano le due esperienze, a quelle di cui si alimentò il “les­sico” ricostruito in pagine memorabili per misura e distaccata passione da Natalia Ginzburg, e maturato sullo stesso terreno: Torino, la comunità ebraica, l’università, la

passione scientifica, il disprezzo per le con­venzioni... Tutte realtà di cui la recente ri­presa di studi sulla città subalpina ha comin­ciato a restituirci il volto (penso agli studi di Claudio Pogliano, di Renzo Villa, di Gian­carlo Bergami, per esempio, ma anche a un volume come quello dedicato agli Ebrei a Torino, Ricerche per il centenario della sina­goga 1884-1984, Torino, Allemandi, edito nel 1984 in occasione del centenario della si­nagoga), e che una diversa tematizzazione avrebbe potuto far emergere con ben altra forza.

Considerazioni analoghe si potrebbero fa­re in rapporto al modo di presentare la for­mazione di Paola e di Gina Lombroso. Di essa Dolza tende a sottolineare allo stesso tempo l’eccezionaiità e l’ambiguità: due tratti che sarebbero apparsi assai meno spic­cati se, invece di prendere come parametro una fascia di generica media borghesia, si fosse fatto riferimento a quel suo segmento particolare che è l’ambiente accademico e 1’“aristocrazia intellettuale” (p. 43) di cui es­so costituiva un polo che proprio in quegli anni veniva notevolmente aumentando il proprio peso specifico. Ragazze piu a loro agio con bozze di stampa e novità librarie che non con serate mondane e figurini di moda erano più numerose di quanto si creda fra le élite colte, laiche e progressiste di que­gli anni, tanto convinte dell’importanza di un profondo cambiamento nell’educazione delle donne per promuovere la costruzione di “una società nuova, più libera e giusta” (p. 29) quanto prive di modelli congrui ri­spetto alla loro sensibilità e poco interessate a soffermarsi sul problema. Una conferma collaterale ma significativa viene dal curri­colo di studi seguito dalle due sorelle: fami­liare e informale nel caso di Paola, collegato alle istituzioni scolastiche quello di Gina, prima ragazza a essere iscritta al liceo classi­co statale e due volte laureata all’università di Torino, secondo un’alternanza molto fre­quente in ambienti aperti al nuovo ma so­

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stanzialmente alieni dall’attribuire valore programmatico a scelte riguardanti la vita privata.

Semmai, è da osservare che, nel caso spe­cifico, la scelta della scuola pubblica era sol­lecitata dall’appartenenza alla comunità ebraica, che non disponeva di alternative va­lide a quel livello sul versante privato: ma l’autrice, pronta a interrogarsi sulle ragioni e sulle ripercussioni individuali del diverso percorso formativo delle due sorelle, non si sofferma su questi retroterra culturali e so­ciali, limitandosi a notare en passant che an­che le cugine Debenedetti furono in quegli anni regolarmente iscritte all’università tori­nese, che d’altronde fra il 1877 e il 1900, laureò ben 69 delle 257 donne che nell’Italia di quegli anni raggiunsero tale obiettivo.

Anche il tema delle reti di relazione ebrai­che — del loro peso, del loro significato — affiora solo indirettamente, al di là di alcune interessanti notazioni sui genitori e sulle loro rispettive famiglie d’origine. Eppure, cogno­mi che rinviano a un’origine ebraica appaio­no singolarmente numerosi, com’è naturale, sia tra i frequentatori di casa Lombroso (la­sciando intravedere una presenza singolar­mente incisiva dell’intellettualità ebraica nel­la costruzione di una cultura positivista co­me base di riferimento comune dell’Italia unita), sia nella rete amicale femminile a cui Paola e Gina appoggiarono le loro iniziati­ve, utilizzando legami parentali non ancora dissolti dalla spinta all’integrazione e all’as­similazione, ma soprattutto facendo leva sulla diffusa disponibilità delle donne della borghesia ebraica colta a un forte impegno culturale e sociale: una dinamica che non fu soltanto italiana, ma che in Italia, dove la debolezza dei ceti medi si riverberò accre­sciuta in ambito femminile, risultò partico­larmente visibile, come hanno confermato i primi sondaggi compiuti in questa direzione (si veda per esempio Monica Miniati, Tra emancipazione ebraica ed emancipazione femminile: il dibattito sulla stampa ebraica

dall’Unità alla grande guerra, “Storia con­temporanea”, 1989, n. 1). E ancor più nel­l’ombra restano tutti quei nuclei di mute comparse che qua e là si affacciano dalle no­te, del resto puntuali e informate. Penso, ad esempio, ai gruppi promotori delle “biblio- techine rurali” lanciate da Paola per dotare anche le scuole più sperdute di un sia pur minimo nucleo di libri per l’infanzia, occa­sione e tramite di uno straordinario “movi­mento di solidarietà tra ambiente rurale e urbano e tra ragazzi di diverse condizioni sociali” (p. 130), che già alla vigilia della guerra aveva raggiunto dimensioni ‘di mas­sa’; alle solidarietà che sostennero l’apertura e la gestione della prima “Casa del sole” per “bambini del popolo” durante “l’immane conflitto” e all’indomani di esso; o, ancora, al centinaio di sottoscrittori dell’Addi (As­sociazione divulgatrice donne italiane), or­ganizzata da Gina con l’aiuto di un pugno di amiche del Lyceum fiorentino (a partire da Amelia Rosselli e Olga Monsani) per “pro­muovere la circolazione di idee nuove” e di “pubblicazioni ostacolate nella loro diffu­sione dalla ‘rete degli interessi costituiti’” (p. 178) nel bel mezzo della grande guerra.

Una guerra che — proprio in quanto sconvolse l’intero assetto mondiale, spaz­zando via stati e culture, sovvertendo para­metri e gerarchie di valore, ruoli e prospet­tive di vita, decidendo ciò che era vivo e ciò che era morto — finisce col presentarsi alla mente del lettore come una data molto più periodizzante, anche per le idee e i destini di queste “donne intellettuali” a forte tasso di presenza pubblica, di quanto non fosse stato il matrimonio, la nascita dei figli, e perfino la morte del padre, che pure avreb­be inferto un colpo mortale alla “scienza” da lui costruita, e di fatto accettata dalle sue figlie come un dato fondante della loro identità personale e come una chiave indi­spensabile per la lettura della realtà.

Simonetta Soldani

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Ceti urbani e agrari nell’Italia liberale

Aldino Monti

Il volume Municipalità e borghesie padane tra Otto e Novecento. Alcuni casi di studio, a cura di Salvatore Adorno e di Carlotta Sorba, Milano, Angeli, 1991 (Istituto nazio­nale per la storia del movimento di libera­zione in Italia - Istituto storico della resi­stenza in provincia di Parma), raccoglie gli atti del convegno “Amministrazioni, bor­ghesie, gruppi di interesse locali nell’Italia li­berale: l’ambito padano”, tenuto a Parma nel maggio 1989 presso l’Istituto storico del­la resistenza di Parma. Milano, Parma e Piacenza, Bologna, Forlì e Mantova sono i casi studiati. Tre sono i settori d’indagine dei relatori; i soggetti istituzionali, cioè le autorità municipali, le borghesie e le loro or­ganizzazioni di interesse. Nei vari interventi la considerazione della componente urbana della dinamica della modernizzazione si af­fianca — ed è interessante sottolinearlo — a quella della componente agraria; l’appello al ruolo dell’ente locale nel coinvolgere i grup­pi dirigenti locali nel processo di mobilita­zione e investimento delle risorse consente di leggere in termini meno tradizionali, e quin­di meno ‘agraristici’, il profilo evolutivo di tale dinamica. In altri termini, l’attenzione al luogo e al momento ‘municipale’, non so­lo consente il recupero del ruolo dei ceti diri­genti locali rispetto al centro — secondo un ormai abusato ideologema storiografico chiamato centro-periferia — ma soprattutto consente un sostanziale riequilibrio del di­scorso storico, troppo sbilanciato fino a ora sul ruolo degli “agrari” e delle loro organiz­zazioni d’interesse — che per altro hanno cominciato a incidere in misura significativa solo a metà dell’età giolittiana, verso il 1906-1908 — scarsamente correlate all’inda­gine della stratificazione e della cultura dei ceti della città. L’osservazione è tanto più pertinente, mi sembra, nel caso delle città al­

lineate lungo l’arteria emiliana, accumunate da indubbie analogie strutturali.

Innanzi tutto, le città emiliane hanno una caratteristica comune, di natura socio-urba­nistica: sono centri storici, capisaldi politici, alcune ex capitali e sedi di corti, uscite dal mercato internazionale tra Sette e Ottocento con la rovina delle loro strutture produttive determinata dalla concorrenza internaziona­le e dall’invasione napoleonica; lungo tutto l’Ottocento, fino agli anni ottanta, esse ac­centuano il loro tradizionale profilo di città di servizi, nell’ambito di un terziario ancora largamente preindustriale, bene rappresenta­to da esempi come Piacenza, “città militare per eccellenza”, come Parma e Mantova, città-corti, come Bologna, città dalle funzio­ni urbane eminentemente transattive, quale scalo del commercio di transito, centro uni­versitario, e, nei primi decenni post-unitari, piazzaforte militare. Una volta entrate nella nuova compagine nazionale unitaria, il loro retaggio sociale d’ancien régime, costituito dal corredo di ceti urbani dal ruolo social­mente improduttivo, condizionò in diversa misura l’acquisizione di una nuova identità economica e civile tra l’Unità e la prima guerra mondiale. Se si accoglie il suggeri­mento di Roberto Balzani, per il caso di Forlì, di connettere più strettamente physi­cal morphology e social morphology della città, si può affermare che, dopo l’unifica­zione, si attua il passaggio da una città il cui epicentro è costituito dalla rete dei poli mo­numentali nei cui contenitori architettonici sono erogati i servizi di un terziario direzio­nale preindustriale (la corte, la chiesa, l’ap­parato politico-burocratico e caritativo-assi- stenziale), a una città in cui la rete dei mo­derni servizi urbani — la rete idrica, del gas, dell’illuminazione, dell’elettricità, delle tramvie e degli allacciamenti viari col terri-

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torio, dei nuovi terminali dei mercati e degli scali ferroviari, eccetera), diventa il suppor­to materiale dell’emergere di nuovi interessi sociali e di rinnovati ceti dirigenti.

Il sistema vascolare della città — per usa­re un utile concetto marxiano relativo alla storia dell’urbanizzazione antica e moderna — riprese peso e significato di funzioni a ri­dosso del sistema muscolare della seconda rivoluzione industriale, sotto forma di siste­mi di trasmissione e di distribuzione di ener­gia, luogo di un’interazione storicamente inedita tra industrializzazione e urbanizza­zione. Le condutture dell’acqua, del gas e dell’elettricità possono costituire “il fedele calco sotterraneo della ‘mappa’ del potere all’interno delle mura”; per la quantità delle risorse investite, per la molteplicità degli in­teressi sollecitati, per la complessità della ge­stione e delle interazioni tecnico-economi­che, il rinnovato network di manufatti e in­gredienti sociali urbani portò alla selezione di un nuovo personale politico, dalle compe­tenze politiche più professionalizzate, in so­stituzione del vecchio ceto dei notabili libe­rali. Le relazioni tra forma fisica e forma sociale della città, scrive Balzani, possono dunque “essere descritte e comprese, affian­cando al profilo della città pre-moderna, as­sunto come dato, le trasformazioni cultura­li, economiche ed urbanistiche avviate dalle élite succedutesi alla guida di un’ammini­strazione”. Trasformazioni che “muovendo­si nel duplice ambito dello spazio fisico e del progetto sociale, appaiono più facilmente percepibili e riconducibili ad un’interpreta­zione unitaria” ( “Protagonismo” municipa­le e modernizzazione. Note in margine al ca­so forlivese 1880-1915, pp. 36-37). Questa prospettiva socio-urbanistica permette di leggere con più immediatezza, credo, il ruo­lo che l’intreccio di vecchia e nuova borghe­sia urbana ha esercitato nei processi di am­modernamento delle città emiliane tra Otto e Novecento, in rapporto e in concorrenza con il ceto degli agrari. I casi presentati dai

relatori presentano significative varianti en­tro il medesimo processo di riconversione dalla città antica a quella moderna.

A Piacenza la vecchia borghesia urbana— come documenta Severina Fontana (Am ­ministrazione locale e borghesia agraria a Piacenza nella seconda metà dell’Ottocento)— si mostra totalmente incapace “di liberar­si dalla dipendenza economica dei proventi militari” , riproponendo “alla comunità il modello di una ‘città militare per eccellen­za’, imperniato sulla sua chiusura e sulla im­possibilità di una espansione edilizia urba­na, per il vincolo delle servirtù militari che

•gravava sulla cinta muraria cinquecentesca e sulle fortificazioni esterne” (pp. 133-134), tagliando fuori la città dal processo di com­mercializzazione dei prodotti. L’impulso al rinnovamento delle funzioni urbane parte da una nuova borghesia agraria, produttiva e dinamica, che ha il suo simbolo nella figu­ra di Giovanni Raineri e che sostituisce nel governo della città la “vecchia élite cittadina degli avvocati, commercianti ed artigiani [...] espressione di un tessuto sociale ed eco­nomico che entro il perimetro disegnato dal­la vecchia cinta muraria non aveva cono­sciuto ancora forme di rinnovamento ed era fermo al periodo preindustriale” (p. 145). Il caso di Parma rappresenta, al contrario, una variante opposta; il ceto dei “commer­cianti ed esercenti”, dedito ad attività com­merciali e artigianali ben radicate nella tra­dizione ducale della città (produzione di be­ni di lusso, industria tipografica), costituisce “il gruppo più compatto e facilmente identi­ficabile nella trama sociale cittadina” , il so­stegno più forte per la coalizione democrati­ca, la quale emerge dalle elezioni del 1889 “come la più credibile forza modernizzatrice della città” , in polemica affermazione con gli interessi agrari. La gestione del sindaco Mariotti promuove una certa idea della “modernità” , che consiste nell’idea “di do­tare il nucleo urbano ottocentesco [...] delle infrastrutture collettive e dei servizi tecnici

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urbani di cui è privo”, con un richiamo mu­nicipalistico alla tradizione ducale dei “lavo­ri d’inverno” di Maria Luigia, facendo “convergere sull’obbiettivo della moderniz­zazione della città [...] gli interessi dei ceti medi urbani, commerciali, professionali, della piccola produzione, e quelli degli ope­rai disoccupati assoldati per i grandi lavori di demolizione e ricostruzione” (Carlotta Sorba, Comune, stato e interessi locali. Par­ma 1882-1914, p. 56 e p. 70).

Nella fase successiva della storia cittadi­na, che inizia nel 1906, il ceto agrario con­quista l’amministrazione della città. L’Agra­ria di Lino Carrara persegue un progetto egemonico di controllo sulla città, basato sull’alleanza coi ceti medi industriali e com­merciali, alleanza agevolata dalla forte pre­senza degli agrari parmensi nelle industrie di trasformazione (bietola e pomodoro). Il ten­tativo si avvale anche di un’elaborazione ideologico-politica che sfocia nella proposta del “partito agrario” . Come scrive Salvatore Adorno, “l’idea cardine è quella di costruire una società rurale fortemente gerarchizzata, aconflittuale e produttivista in cui il capitale agrario e agroindustriale svolgesse una fun­zione di direzione e tutela nei confronti del proletariato e dei ceti medi, controllandone i meccanismi di crescita e di cooptazione. Una volta pacificata, grazie alla capacità di produrre ricchezza, la società agraria sareb­be riuscita a imporre i propri interessi come interessi generali dello sviluppo” (Gli agrari di Parma nell’età giolittiana tra politica, amministrazione e interessi, p. 156). Nell’i­deologia di questa posizione sono forse rin­tracciabili gli elementi di una possibile rispo­sta al problema posto da Alberto Banti (Gli agrari padani. Problemi di analisi e ipotesi di interpretazione) sul carattere borghese o meno degli agrari padani.

Banti afferma la natura borghese degli agrari padani e quindi la loro assimilabilità e comparabilità coi loro colleghi europei, in base ai loro caratteri spiccatamente impren­

ditoriali e al carattere produttivistico e pro­gressivo della loro ideologia corporativa; ne spiega la “deviazione” verso posizioni illibe­rali e reazionarie sulla base della eccezionale conflittualità politica scatenata nelle campa­gne dalle leghe contadine. Banti sottovaluta forse il carattere arcaico, “civico-industria- lista” del corporativismo di questo blocco agrario-industriale che, sotto il profilo so­cioprofessionale, aveva sicuramente i carat­teri moderni delle borghesie europee; tale cultura era largamente presente in vasti strati di ceti medi, sia economici che intel­lettuali (cfr. le pagine dedicate da Gioacchi­no Volpe in Storia del movimento fascista, Milano, 1939, al contributo emiliano e ro­magnolo alla cultura del nazionalismo e del fascismo) delle città padane, in coerenza, d’altra parte, con l’orientamento organici­stico di gran parte del pensiero liberale e conservatore otto-novecentesco, pregiudi­zialmente ostile alla conflittualità politico­sociale. La loro particolare idea “civica” e “nazionale” dell’armonia economico-sociale non era in grado di attrezzare adeguatamen­te i ceti medi padani ad affrontare i moder­ni problemi di una società industriale; essa pertanto fornì un filtro puramente ideologi­co alla percezione di scioperi e conflitti, di cui misurava preliminarmente lo scarto dal­le proprie idealità e velleità egemoniche, piuttosto che l’impatto effettivo e il perime­tro reale nella società e nell’economia (cfr. anche Gian Carlo Jocteau, L ’Armonia per­turbata. Classi dirigenti e percezione degli scioperi nell’Italia liberale, Roma-Bari, La- terza, 1988). La dilatazione simbolica del­l’evento conflittuale, la paura e lo smarri­mento furono tanto piu gravi, in quanto gli agrari furono e si sentirono sempre un gruppo sociale socialmente frantumato e politicamente diviso, dotato di scarse con­notazioni elitarie. E qui mi si permetta un’osservazione critica circa l’uso scontato, eccessivo e disinvolto, del termine di “élite agrarie” .

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Nelle mille Italie agricole e municipali del nostro paese, dalla complessa articolazione sociale, non vi fu spazio per una funzione egemonica unificante del conflitto sociale da parte degli agrari — posto che la produ­zione di un’egemonia sia il carattere distin­tivo del ruolo dell’élite — ma vi fu, da par­te di ceti agrari composti di figure in gran parte economicamente e socialmente miste (proprietari, imprenditori, professionisti, eccetera, coesistenti nella medesima perso­na), una marcata delega alla politica, alle sue élite parlamentari prima, a quelle extra­parlamentari, col fascismo, poi. Una sorta di capitalismo “agrario-esercentesco” — per usare la terminologia di Giovanni Zibordi nel 1921 — con solide peculiari radici nella tradizione delle città emiliane, dopo aver

fatto la sua prova generale politica nel labo­ratorio parmense di Lino Carrara, portò il nazionalismo e il fascismo al potere nel “quadrivio” di Bologna, “perché ivi — scri­ve il deputato socialista reggiano — pareva­no essersi dati convegno tutti i coefficienti economici e psicologici atti a farlo nascere, ed a concentrare intorno a lui la somma più complessa e più varia delle adesioni: coeffi­ciente agrario, esercentesco, studentesco, militare, letterario, universitario, eccetera” . Oppurtunamente, i relatori del seminario parmense hanno spostato l’attenzione sul versante e sul contesto urbano-rurale del processo di modernizzazione nelle città pa­dane e della matrice strutturale del fa­scismo.

Aldino Monti

L’idea antiborghese e la sindrome del moderatismo

Mario G. Rossi

“Intento originario” dell’ultimo volume di Domenico Settembrini (Storia dell’idea anti­borghese in Italia 1860-1989. Società del be­nessere-liberalismo-totalitarismo, Roma-Ba- ri, Laterza, 1991, pp. XII-522, lire 60.000) è, secondo lo stesso autore, quello di contri­buire a spiegare la cosiddetta “anomalia ita­liana” , ossia le difficoltà di consolidamento della democrazia nel nostro paese, le cui ra­dici affonderebbero in una peculiare menta­lità “antiborghese” , che ha ostacolato e di­storto il cammino della democrazia liberale, traducendosi prima nel fascismo e poi nel suo “continuatore” ed “erede” , il comuni­Smo (pp. VII-VIII). Il risultato è una sorta di requisitoria, che, a partire dal Risorgi­mento, ma soprattutto dall’età giolittiana in poi, prende di petto la borghesia intellettua­le italiana, accusata di aver alimentato un

orientamento critico e distruttivo, frutto di utopie astratte o di inguaribile elitarismo, che era destinato ad aprire la strada al tota­litarismo, cioè allo sviluppo più organico e conseguente di quelle premesse. Di destra o di sinistra, infatti, il totalitarismo è ricondu­cibile a un unico ceppo: “la comune deriva­zione del comuniSmo e del fascismo italiani dallo stesso clima intellettuale e da uno stes­so maestro — Mussolini —” sta a dimostra­re che, al di sopra delle differenze su tanti aspetti particolari, prevale la “comunanza dell’obiettivo: la distruzione appunto della società aperta” (p. 82).

In realtà, se alla base di questo storico fal­limento della democrazia italiana c’è lo “spi­rito antiborghese e anticapitalista” , la vera imputata nel processo intentato dall’autore è la sinistra, che ne è la principale portatrice

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e di conseguenza è responsabile dell’ascesa al potere del fascismo e delle successive tare della democrazia repubblicana. In questa ot­tica ogni corrente di pensiero e ogni singolo intellettuale, che, in nome della democrazia e della giustizia sociale, abbia messo sotto accusa la politica della classe dirigente po­stunitaria (la “borghesia”, per l’appunto) e abbia criticato la conduzione dell’economia e l’organizzazione della società (il “capitali­smo”, non in generale, ma nella sua specifi­ca versione nazionale), incappa in una con­danna senza appello, di fronte alla quale po­co valgono le attenuanti per singoli meriti contratti in taluni passaggi della storia del paese. Così Salvemini e Gobetti, Turati e Treves, che non hanno risparmiato le criti­che alla democrazia parlamentare e alla clas­se dirigente liberale, spinti dalla loro “ottica anticapitalistica” e da quella che Settembrini definisce “l’insuperabile tentazione rivolu­zionaria dei riformisti” (p. 187), diventano tutti ugualmente corresponsabili del disastro della democrazia italiana nel primo dopo­guerra.

Quello della grande guerra e delle tensioni rivoluzionarie che investono il paese nel biennio successivo alla fine del conflitto è infatti uno dei passaggi fondamentali dell’a­nalisi dell’autore. Fu allora che il processo di integrazione delle masse nello Stato, pre­parato dalla politica giolittiana, avrebbe po­tuto avvalersi di condizioni particolarmente favorevoli alla sua realizzazione (a comin­ciare dalla disponibilità del ceto imprendito­riale e degli stessi nazionalisti per una politi­ca di riforme), se non fosse stato travolto dall’“ondata anarcoide” dilagante nelle piazze e nei luoghi di lavoro e dall’incapaci­tà dei riformisti di svolgere la necessaria “opera di educazione” , sottraendosi alle suggestioni disfattiste e rivoluzionarie.

Inutile chiedere a Settembrini di prendere in qualche considerazione la tragedia di quattro anni di guerra, con tutto il loro cari­co di lutti e di sofferenze: si tratta evidente­

mente di un particolare irrilevante, che non vale a spiegare né il radicalizzarsi dell’anti- bellicismo del Partito socialista italiano (“il fattore fondamentale cui si deve se il cammi­no della democrazia italiana venne brusca­mente interrotto”, p. 206) né il nesso tra l’e­sasperazione popolare e il rivoluzionarismo diffuso del biennio rosso. Anzi, sembra che la guerra sia stata poco più che un pretesto per dare sfogo agli “elementari istinti” delle masse e la rabbia postbellica “una sorta di compensazione collettiva per la frustrazione subita” (p. 208), che ha originato una vio­lenza certo meno organizzata ed efficace ri­spetto a quella fascista, ma “anche — forse proprio per questo suo carattere anarcoide — socialmente più distruttiva, più endemica e in alcuni pochi casi piu barbarica e mici­diale” (p. 211). Tanto che perfino uno stu­dioso, non proprio tenero verso le tendenze rivoluzionarie, come Roberto Vivarelli, si prende le sue bacchettate sulle dita per aver richiamato, in sintonia con le proprie simpa­tie salveminiane, la responsabilità della clas­se dirigente nel fallimento del liberalismo: una tesi “che senza essere a rigore marxista” troppo concede alle motivazioni di carattere economico. Macché responsabilità della classe dirigente liberale! La colpa fu solo dei socialisti, incapaci di liberarsi dei miti rivo­luzionari e di cogliere 1’“occasione storica” delle riforme, rese possibili proprio per me­rito della classe imprenditoriale e di quella politica (pp. 239-241).

È facile comprendere a questo punto co­me l’antifascismo e la resistenza siano l’altro snodo fondamentale del libro e l’obiettivo polemico principale dell’autore. Dal mo­mento che nella battaglia per la riconquista della democrazia la lotta al fascismo si ac­compagna e si intreccia con quella per l’ab­battimento (o almeno per una radicale tra­sformazione) del capitalismo, il vizio di fon­do di cui la sinistra è portatrice si manifesta in tutta la sua gravità. Anche qui poco con­tano venti anni di dittatura, consentiti dalle

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complicità di tutta la vecchia classe dirigente politica ed economica; l’avventura della guerra, che corona una politica imperialista non certo estranea agli interessi del grande capitale; la stessa crisi del 1929, con i suoi effetti devastanti sull’intera economia capi­talistica: tutti nodi ineliminabili per capire la spinta a un profondo rinnovamento, anche economico e sociale, che muove le varie componenti dell’antifascismo. Ma estendere la portata della lotta antifascista dal ripristi­no della democrazia parlamentare alla mes­sa in discussione delle basi economico-socia- li della dittatura costituisce per Settembrini una colpa storica imperdonabile. “In questo modo [...] — scrive — anche tutti quegli an­tifascisti che pure erano pienamente acquisi­ti ai valori della democrazia liberale, da Tu­rati a Rosselli, da Saragat a La Malfa, resta­rono ideologicamente del tutto succubi del comuniSmo” (p. 357) e “diedero un contri­buto di prim’ordine all’operazione di radi­camento dello stalinismo nella cultura e nel­la società italiana, condotta con successo da Togliatti nel dopoguerra” (p. 358).

Con tali premesse, è soprattutto Pazioni- smo a fare da bersaglio alle bordate polemi­che dell’autore. Trattandosi di un movimen­to impegnato in prima linea sia sul fronte politico che nella battaglia culturale, simbo­lo per di più di una concezione della resi­stenza intesa come rinnovamento radicale del paese, esso diventa l’autentica bestia ne­ra di tutta l’ultima parte del volume. Viene anzi il dubbio che l’intera opera sia stata concepita in funzione di questa polemica fi­nale, visti l’asprezza e lo schematismo dei giudizi con cui vengono liquidati Carlo Ros­selli e Guido Calogero, il primo La Malfa e Ferruccio Parri, Giustizia e Libertà e il Par­tito d’Azione, fino al Bobbio di ieri e di og­gi. Tutti quanti indelebilmente macchiati da una duplice colpa: da un lato, la subalterni­tà al comuniSmo, riassunta nel termine di “liberalcomunismo”, che per l’autore vuol dire il “puro e semplice innesto delle libertà

occidentali sul tronco del collettivismo e del­la pianificazione economica di tipo sovieti­co” (p. 380); dall’altro, una forma mentis, “comune col fascismo di sinistra” e ancor più incompatibile con la democrazia dello stesso capitalismo, che sarebbe “l’ambizione di cambiare intus et in cute tutti gli italiani” (p. 383), ossia qualcosa di simile alla “rifor­ma intellettuale e morale” indicata da Gramsci.

Per giunta, è in primo luogo dall’azioni- smo e dai suoi esponenti che è derivata (na­turalmente sotto la regia occulta del Pei di Togliatti) quell’idea della resistenza come “un non meglio specificato rinnovamento morale e sociale radicale” (p. 434), che rap­presenta il massimo equivoco aleggiante sul­la democrazia del postfascismo. Da qui ha origine “il mito della resistenza tradita” , “l’idea che la resistenza abbia costituito un’occasione mancata per attuare un pro­fondo rinnovamento democratico del nostro paese” , porta aperta dalla quale hanno con­tinuato a irrompere le ventate della contesta­zione anticapitalistica e antimoderna e le utopie della “terza via” e della “democrazia economica”, in una parola quello “spirito antiborghese”, che è la continuità negativa della storia d’Italia. E l’autore, prodigo di riconoscimenti per i “migliori esponenti del­la cultura d’ispirazione socialista” (p. 430), che hanno dato un grosso contributo a sep­pellire il mito, rivolge i suoi pesanti rimbrot­ti a quanti altri, come Simona Colarizi, mo­strano di restarvi ostinatamente attaccati, vaneggiando di una possibile “trasformazio­ne democratica dell’economia”, che non si è mai vista e che è incompatibile col capitali­smo reale: del resto, dice, “la studiosa pro­viene politicamente dalla sinistra socialista di Riccardo Lombardi, il quale a sua volta proveniva dal Partito d’Azione” (p. 438), e dunque che altro ci si può aspettare da co­stei?

Il vero succo dell’opera è tutto in questo processo a ogni idea (o forza) di sinistra che

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implichi la critica della società esistente e la spinta al cambiamento, non tanto nell’Italia liberale, quanto soprattutto nell’Italia repub­blicana, recuperata da De Gasperi ai parame­tri occidentali e capitalistici dopo la parentesi del fascismo. L’“anomalia italiana”, in ulti­ma analisi, non è la democrazia bloccata, ma la sinistra nelle sue radici ideali, nei suoi svi­luppi storici e nei suoi programmi politici.

Se si considera la rivalutazione che l’auto­re fa del riformismo liberale di Giolitti e del­la politica di De Gasperi, si potrebbe essere indotti a pensare a una sorta di riproposizio­ne, ideologizzata e radicalizzata, dell’antire- visionismo crociano (compreso il recupero dell’interpretazione del fascismo come pa­rentesi), aggiornato fino all’Italia repubbli­cana, in difesa dei valori e dell’operato dei ceti dirigenti succedutisi al potere prima e dopo il regime. Ma la totale assenza di un confronto con le vicende storiche reali (non con i rapporti di produzione e con le lotte so­ciali, per carità, soltanto con gli événements) e la rigida unilateralità dei giudizi, più che dare all’opera un taglio “provocatorio” (co­me dice la stessa presentazione del volume), ne fanno un condensato quasi caricaturale di luoghi comuni da maggioranza silenziosa,

dove alla difesa dell’ordine costituito viene sacrificata anche la spregiudicatezza laica esibita in passato.

È quanto mai significativo che dal quadro dello schieramento antiborghese e anticapi­talistico l’autore cancelli ogni riferimento ai cattolici (al punto che sbaglia perfino la data della Rerum novarum: 1893!, p. 77). Per chi ha scritto alcuni decenni or sono La Chiesa nella politica italiana 1944-1963 (Pisa, Nistri- Lischi, 1964), denunciando l’invadenza cleri­cale e il suo contrasto con la modernizzazio­ne del paese, non è un’omissione di poco conto. Si spiega tuttavia alla luce del ruolo di pilastro del sistema politico ed economico nazionale, che il partito cattolico ha ormai consolidato e di fronte al quale l’anticlerica­lismo di facciata di certo laicismo va in liqui­dazione. Così le velleità anticapitalistiche del vecchio intransigentismo non valgono più neppure una citazione di cortesia e le falangi clericali, riscattate dal centrismo degaspe- riano, sono arruolate a pieno titolo fra i paladini della democrazia. Per le magnifi­che sorti e progressive della borghesia e del capitalismo, in saecula saeculorum.

Mario G. Rossi

Autoritratto di Hitler

Gustavo Corni

Scrivere una biografia di un personaggio co­sì intricato come Hitler, che nel corso di una breve parabola esistenziale racchiuse in sé un enorme potere, non è facile. La letteratu­ra su questo tema è ampia e ha dato vita a interpretazioni molto divergenti l’una dal­l’altra. Coloro che si sono cimentati nell’im­presa hanno dovuto fare i conti — con esiti

molto diversi — con svariate questioni di fondo. In primo luogo, il netto divario fra la povertà della biografia personale di Hitler e il peso che le sue idee e le sue scelte politi­che hanno avuto nel determinare la storia del mondo in questo secolo; in secondo luo­go, la difficoltà di individuare con precisio­ne quali fossero le idee forza del programma

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politico hitleriano e di stabilire prioritaria­mente se egli avesse un programma al quale si sarebbe sentito legato. Le stesse fonti di­sponibili rendono difficile dirimere questi problemi di fondo, a causa della difficoltà di penetrare al di là della cortina di decisioni prese in modo orale, informale, sfuggente dal Führer. Per scrivere una biografia di Hi­tler occorre, in altre parole, decidere priori­tariamente se le idee, il programma e le sot­tostanti motivazioni di ordine esistenziale e psicologico di Hitler abbiano un rilievo sto­rico determinante, o se invece sia più oppor­tuno scrivere libri di storia del nazionalso­cialismo e del Terzo Reich, in cui a Hitler come persona, come statista o come strate­ga, sia dedicato uno spazio adeguato, ma non preponderante.

Alcuni studiosi, come Alan Bullock nei primi anni cinquanta (Hitler. Studio sulla ti­rannide, Milano, Mondadori, 1955, ed. orig. London, 1952) e più recentemente Joa­chim C. Fest {Hitler, Milano, Rizzoli, 1974, ed. orig. Frankfurt a.M.-Berlin-Wien, 1973), hanno scelto la strada di esaminare nel dettaglio i collegamenti fra la vita di Hi­tler, le sue pulsioni programmatiche e le sue decisioni concrete, interpretando alla luce della biografia del dittatore la storia del na­zionalsocialismo. Altri — come Werner Ma­ser {Hitler segreto, Milano, Garzanti, 1974, ed. orig. Düsseldorf-Wien, 1973) — hanno dedicato tutte le loro energie a ricostruire i frammenti più minuti della vita di Hitler, soprattutto nella sua parte iniziale, con l’o­biettivo di cogliere le motivazioni psicologi­che degli atti e dei crimini di cui Hitler si sa­rebbe reso protagonista in seguito. L’appro­fondimento psicologico del personaggio non ha dato certo i risultati sperati, anche a causa dello scarso spessore di colui che è sta­to correttamente definito un “non personag­gio” . Le indagini anche più minuziose non hanno contribuito granché a spiegare meglio le ragioni per cui Hitler fece ciò che fece, né tantomeno ci sono state d’aiuto per capire

perché milioni di tedeschi, di ogni ceto e di ogni età, abbiano aderito al nazionalsociali­smo, militato nelle sue file e collaborato (a vario titolo) alle sue imprese. Non va, poi, dimenticato che concentrare l’attenzione della ricerca sulla figura di Hitler ha — al­meno oggettivamente — significato in talu­ne congiunture storiche mettere in secondo piano le colpe e le responsabilità altrui, gio­cando su un capro espiatorio così ‘facile’.

Rainer Zitelmann, un giovane ricercatore che si è messo in luce con uno straordinario attivismo editoriale nell’ultimo quinquen­nio, ha affrontato queste spinose questioni con grande equilibrio e abilità, scrivendo una “biografia politica” — così recita il sot­totitolo dell’edizione originale tedesca, omesso dal traduttore italiano — di Hitler (Roma-Bari, Laterza, 1991, ed. orig. Gòt- tingen-Zürich, 1989, pp. 232, lire 35.000) che soddisfa i criteri della più limpida scien­tificità, ma che nello stesso tempo si fa leg­gere agevolmente, anche per le contenute di­mensioni. Zitelmann ha scritto una biogra­fia breve, ma non per questo meno ricca di spunti analitici e di riflessioni degne di at­tenzione. Una biografia in cui il personaggio Hitler e le sue idee programmatiche vengono valorizzate in contrapposizione con le tesi cosiddette “funzionaliste” , che negano a Hi­tler un ruolo preponderante nel contesto del sistema politico nazionalsocialista. Si deve far rilevare, poi, che la biografia qui recensi­ta segue una linea interpretativa precisa e molto netta, che Zitelmann aveva proposto qualche anno fa in una ponderosa monogra­fia intitolata: Hitler. Selbstverstandnis eines Revolutionàrs (Stuttgart, Klett-Cotta, 1987); un libro che al suo apparire aveva suscitato giudizi molto positivi dalla critica. In estre­ma sintesi, questa linea interpretativa si fon­da sul presupposto di esaminare con la mas­sima attenzione tutte le prese di posizione di Hitler: discorsi, articoli di giornale, dichia­razioni alla stampa, e non solo le opere co­siddette teoriche scritte alla metà degli anni

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venti. Nella succitata monografia, e poi nel­la biografia qui recensita, Zitelmann ha fon­dato la sua analisi sulla minuziosa ricostru­zione del pensiero di Hitler, nelle sue molte­plici sfaccettature. Sembra quasi paradossa­le — ma corrisponde allo stato dei fatti — che prima di Zitelmann nessuno studioso si sia assunto il compito (certo non agevole) di passare a pettine fitto l’enorme produzione oratoria e giornalistica di un personaggio storico così importante come Hitler! Il se­condo elemento portante della sua interpre­tazione, evidente fin nel titolo della mono­grafia, consiste nel dare credibilità alle mol­teplici dichiarazioni di stampo rivoluziona­rio di Hitler, cui la storiografia, soprattutto quella di parte marxista, aveva finora attri­buito piuttosto la funzione di trarre in in­ganno la classe operaia per conquistarne il consenso. Gli storici liberali, invece, aveva­no dedicato un’attenzione maggiore alle te­matiche razziali e antisémite, considerandole il fulcro del programma e della Weltan­schauung hitleriani.

A parere di Zitelmann, invece, nel suo in­timo Hitler avrebbe desiderato un rivoluzio­namento delle gerarchie sociali e un ridimen­sionamento del ruolo egemonico della bor­ghesia, per favorire l’ascesa di una nuova classe dirigente, reclutata fra i migliori ele­menti del proletariato. Egli avrebbe conside­rato la borghesia come destinata alla deca­denza e si sarebbe alleato a essa solo per ra­gioni strumentali, perché consapevole di non poter conquistare il potere senza il suo sostegno. Inoltre, Zitelmann ci presenta l’immagine di un Hitler attento alle grandi questioni sociali e con una mentalità nien- t ’affatto retrograda o legata a cliché rurali- stici e preindustriali. Zitelmann non dimen­tica certo di considerare la fissazione antise­mita e razzista, ma critica quegli studiosi che si sono soffermati unilateralmente su di es­sa. In contrasto con questa visione domi­nante, il giovane storico berlinese — cui non manca il gusto del ‘revisionismo’ esacerbato

— sottolinea le finalità rivoluzionarie di Hi­tler e rileva come queste non siano rimaste confinate esclusivamente nella sfera degli auspici, ma abbiano trovato un’attuazione perlomeno parziale. Va ricordato, peraltro, che Hitler ebbe un numero ridotto di anni a disposizione per avviare l’attuazione del suo programma sociale, che cionondimeno Zi­telmann considera una parte importante del­la sua visione del mondo.

Entrando nel merito di un’altra questione cruciale — su cui la storiografia si è divisa: se Hitler debba essere considerato un oppor­tunista, pronto ad adattarsi alle specifiche circostanze, o se invece egli si sia mosso sempre con la finalità di realizzare le proprie idee fisse — Zitelmann assume una posizio­ne mediana, affermando che “Hitler aveva stilato un programma d’azione sin dai pri­missimi tempi e aveva cercato di metterlo in pratica. Tuttavia, egli non seguiva una ‘ta­bella di marcia’ rigida, ma cercò piuttosto di sfruttare le occasioni favorevoli [...] Non si preoccupò mai tanto dei passaggi intermedi compresi fra la realizzazione dei suoi disegni visionari e le azioni politiche quotidiane” (p. 127). Grazie a questa tattica Hitler si sareb­be dimostrato maestro nel dominare le innu­merevoli situazioni di crisi in cui finì per tro­varsi.

Questa biografia di Hitler si presenta per­ciò con un taglio molto innovativo, propo­nendo interpretazioni originali su di una fi­gura che ogni volta che viene studiata da una prospettiva diversa presenta tratti nuovi e sconosciuti. Viene evidenziato il carattere “rivoluzionario” del programma politico hi­tleriano e nello stesso tempo viene sottoli­neata l’attenzione di Hitler per i temi eco­nomici e tecnici, ribaltando in entrambi i casi dei consolidati luoghi comuni. Zitel­mann suffraga la sua interpretazione con frequenti riferimenti a una nuova fonte, messa a disposizione degli studiosi grazie a un paziente lavoro di ricostruzione filologi­ca: i diari di Goebbels. Stretto collaboratore

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di Hitler (almeno in alcune fasi) e dotato di una notevole intelligenza politica, Goebbels ha affidato ai suoi diari una messe di notizie e di osservazioni, sulle quali gli storici avranno modo di sbizzarrirsi anche in fu­turo.

Sottolineate le caratteristiche salienti della biografia scritta da Zitelmann, rimane co­munque da far presente come l’interpreta­zione revisionistica che lo sottende non sia — a mio parere — sempre adeguatamente dimostrata. Non sempre Zitelmann riesce a collegare le prese di posizione di Hitler con le specifiche vicende a cui queste di volta in volta si richiamano; perciò, la sua costruzio­ne di un’immagine “nuova” di Hitler rischia di essere troppo astratta. Inoltre, è da osser­vare come la credibilità assoluta che Zitel­mann attribuisce alle prese di posizione di Hitler non favorisca un adeguato distacco interpretativo e induca talora a immedesi­marsi troppo — certo non dal punto di vista politico — con la persona oggetto di studio.

Si tratta di una critica frequentemente solle­vata in Italia nei confronti della biografia mussoliniana scritta da Renzo De Felice.

Tuttavia, la proposta interpretativa di Zi­telmann offre sicuramente nuovi spunti per riconsiderare la questione del consenso al re­gime, questione che non può essere liquidata unilateralmente richiamandosi alla forza della repressione, ovvero della propaganda. Il nazionalsocialismo significò sterminio, re­pressione, discriminazione — sottolinea Zi­telmann —, ma “anche maggiori possibilità di ascesa sociale per i gruppi socialmente svantaggiati, progressi assistenziali e previ­denziali per ampi strati della popolazione, successi sorprendenti in politica economica ed estera” (p. 204).

Su queste basi Hitler conquistò e conso­lidò la sua popolarità, che resse fino alle ultime settimane di guerra, nonostante l’evi­denza della prossima sconfitta.

Gustavo Corni

Storia militare

Enrico A cerbi, Le truppe da montagna dell’esercito austro- ungarico nella Grande Guerra 1914-1918, Valdagno, Gino Rossato, 1991, pp. 238, lire28.000.

Le province dell’arco alpino orientale hanno visto in questi ultimi decenni un grosso svilup­po della ricerca storica che in buona parte possiamo definire “alpina”. Una ricerca che nasce al di fuori (o con un concorso marginale) delle strutture uni­versitarie, per iniziativa di sin­goli e gruppi locali, come ricu­pero e documentazione di un passato regionale in cui la gran­de guerra ha il primo posto, ma

che può estendersi ai secoli pas­sati (come nel caso di “Passato- Presente”, rivista del gruppo “Il Chiese” di Storo, appunto in Val di Chiese) o giungere alla seconda guerra mondiale e alla guerra partigiana, con un gros­so apporto degli Istituti per la storia della resistenza. Pur nella varietà di risultati e orienta­menti (si passa dalla straordina­ria attività del gruppo di “Ma­teriali di lavoro” di Rovereto a pubblicazioni di valore pura­mente locale, condizionate da interessi turistici), questo insie­me di ricerche ha una grande vitalità e novità, che trova sup­porto nella dinamica attività di piccole case editrici radicate nel territorio, ma pure capaci di proporre studi di assoluto rilie­

vo nazionale, come Alessandro Massignani, Alpini e tedeschi sul Don, dell’editore Rossato (Valdagno, 1991), Marco di Giovanni, I paracadutisti, del­la Editrice goriziana (Gorizia, 1991), Mimmo Franzinelli, Il riarmo dello spirito sui cappel­lani militari 1940-1945 (recen­sito in queste pagine di “Italia contemporanea”).

La maggioranza di questa produzione è però concentrata sulla grande guerra (da qui la nostra definizione di storiogra­fia “alpina”, che non intende essere riduttiva, bensì segnala­re un fecondo radicamento ter­ritoriale e una originalità e ric­chezza a livello nazionale), stu­diata sulle carte e sul terreno, spesso con la collaborazione