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Rassegna bibliografica
1943-1945: la guerra civile italiana?di Marco Palla
Il volume che qui si presenta — Aa.Vv., La Repubblica sociale italiana 1943-45 (Atti del convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985, a cura di Pier Paolo Poggio, “Annali della Fondazione Luigi Micheletti”, Brescia, 1986, pp. VIII-467, sip) — può essere considerato non solo indispensabile, ma anche come lo sforzo collettivo di ricerca più importante sul tema non facile e controverso della Rsi. Il volume è infatti così dettagliato, articolato e documentato che altri contributi e libri di singoli autori, pur molto noti e stimati, non possono ormai più reggere al confronto. È un peccato che la mole ponderosa (il numero delle pagine di formato assai grande va raddoppiato, dato che ognuna è composta su due colonne), se correttamente risponde al fine di presentare tutte le voci del convegno in una sede editoriale appropriata, può forse non favorirne la diffusione presso un pubblico più ampio di quello degli specialisti. Per le loro implicazioni scientifiche e culturali, i risultati storiografici che qui sono pubblicati meritano una attenzione, una lettura e appunto una diffusione che superi, per così dire, la audience delle sedi e delle riviste specialistiche. La breve discussione che mi accingo a fare ha il limite di non poter citare, se non nella forma di un telegrafico resoconto, tutti i contributi dei relatori, le loro osservazioni metodologiche, le puntualizzazioni numerose e circostanziate, i solidi apporti documentari. Si deve tuttavia osservare che, per la sua parte, il volume conferma
uno dei dati generali più sconcertanti della situazione della ricerca storica in Italia, il fatto cioè che buona parte delle proposte più utili ed innovative non sono sollecitate dalla politica governativa e dai finanziamenti ministeriali alla ricerca scientifica, ma vedono la luce grazie agli sforzi preziosi di una società civile appassionata e curiosa di studiare e di sapere: sforzi di tipo privato, singolo, o di piccoli gruppi e istituzioni che danno prova di grande intelligenza e capacità di lavoro. In questo caso, si tratta della Fondazione Micheletti che ha sì avuto l’incoraggiamento degli enti locali, ma si è basata soprattutto sul volontariato dei suoi dirigenti, collaboratori e ricercatori, organizzando una mostra ed un convegno che hanno visto una partecipazione molto qualificata di studiosi e di pubblico. Nella presentazione di questo volume, Luigi Micheletti espone con chiarezza difficoltà e ostacoli, dovuti magari ad idiosincrasie di tipo accademico che hanno portato per esempio all’assenza ingiustificata di Renzo De Felice e di qualche suo allievo, pur invitati, e accenna a comportamenti “tortuosi” o “grotteschi” (“vengo ma lui non deve esserci”) con cui gli organizzatori hanno dovuto fare i conti (p. VI). Per Micheletti la Rsi godeva di adesioni reali, ma molto circoscritte, cui si contrapponevano le centinaia di migliaia di militari internati in Germania e che rifiutarono di aderire, i soldati stessi della Rsi che disertarono e quelli che, pur non disertando, collaboraro-
Italia contemporanea”, marzo 1988, n. 170
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no con la Resistenza, le miriadi di renitenti alla leva e, oltre ai partigiani combattenti e agli antifascisti militanti, la “moltitudine oppressa dalla guerra, sempre più ostile al fascismo identificato con la guerra, antifascista in senso prepolitico, sicuramente impermeabile agli slogan e alle promesse” repubblichine (p. VII). Frederick W. Deakin ha aperto il convegno con alcune considerazioni generali ed un richiamo al contesto internazionale in cui si situa l’episodica della Rsi; Enzo Collotti ha collocato Salò del Nuovo ordine europeo dei nazisti; Jens Pe- tersen ha illustrato la propaganda tedesca e Meir Michaelis ha descritto l’entità non trascurabile delle persecuzioni antiebraiche istigate ed eseguite dai repubblichini. Massimo Legnani ha ricostruito i rapporti economici e di potere, gli uomini e le amministrazioni locali, le condizioni dello spirito pubblico, le interessate consonanze se non affinità tra ministri della Rsi come Tarchi e industriali come Marinotti, mentre Gaetano Grassi ha analizzato statisticamente la contiguità della presenza del ceto imprenditoriale dal 1940 al 1945. P.P. Poggio e Gianni Sciola hanno ampiamente descritto la questione operaia, e Lidia Vaini altri aspetti dell’iniziativa del mondo economico e finanziario. Un gruppo molto interessante di relazioni ha preso in esame gli elementi caratteristici della propaganda e dell’attività “culturale” , con la ravvicinata e minuziosa analisi di pubblicazioni minori e di opuscoli compiuta da Mario In- senghi e gli studi di Giovanni De Luna su giornali e giornalisti, di Ivano Canteri sull’emittenza radiofonica, di Vittorio Paolucci su “Il lavoro” di Genova, di Augusto Sainati sulla stampa cinematografica, di Gloria Gabrielli sulla stampa repubblichina e la “defascistizzazione” badogliana nell’ “Italia invasa” , di Luciano Canfora su Gentile. Le difficoltà e la posizione particolare del clero e delle gerarchie della chiesa nel territorio controllato dalla Rsi, oscillanti tra titubanze, attendismo, mancati riconoscimenti e,
per contro, collaborazioni di cappellani militari e di giornalisti in tonaca sono state ben illustrate da Claudia Scagliola, Francesco Malgeri, Silvio Tramontin. Le situazioni locali di Trieste, del Cuneese, di Novara, della Toscana, sono state ampiamente descritte da Giancarlo Bertuzzi, Michele Calandri, Adolfo Mignemi, Giovanni Verni. Mentre Sandro Setta ha biografato Renato Ricci, Maria Fraddosio ha richiamato l’attenzione su un tema poco conosciuto come i gruppi fascisti repubblichini femminili, Aldo Gamba ha studiato lo spionaggio, Luciano Violante l’amministrazione della giustizia, Virgilio Ilari il ruolo istituzionale delle forze armate e il problema della loro reale o presunta “apoliticità” . Federico Cereja e Brunello Mantelli hanno illustrato la tragedia dei deportati italiani nei campi di sterminio nazisti; e Marco Revelli ha valutato il peso dell’eredità repubblichina sul neofascismo italiano. Ma è sulla relazione di Claudio Pavone La guerra civile che vorrei soffermarmi un momento, per l’impegno dimostrato nell’analisi serrata (condotta con una franchezza che si potrebbe dire sia benvenuta e salutare) di un tema particolarmente delicato e controverso. Pavone non rende esplicite tutte le implicazioni e le conseguenze del suo intervento, che mi sembrano molto importanti sul terreno scientifico anche se talora non sono convincenti o accettabili. Egli muove da presupposti culturali e da un’ispirazione civile che non ha niente a che vedere, è bene avvertirlo subito, con il tentativo strumentale di “parificare” e “nobilitare” entrambi i contendenti che sta dietro a parecchi interventi sulla “guerra civile” , a cominciare da quello del fascista Giorgio Pisano, che è stato un precursore dell’impiego di questo termine nel senso indicato. Micheletti ha del resto denunciato i “rischi di strumentalizzazione” e di “appropriazione indebita” della problematica storico-politica connessa alla Rsi, sia da parte dei “nostalgici veri e propri” sia da parte di “altre forze poli
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tico-culturali impegnate in una vasta operazione di recupero dell’eredità fascista” , forze e posizioni che trovano una “piattaforma comune, e grosse possibilità di sfondamento in direzione dell’arco costituzionale, partendo dal presupposto della pari dignità delle forze in campo” (p. V). Pavone sottolinea innanzitutto la necessità di una riconsiderazione unitaria della nostra storia recente, dalla quale non si può espungere evidentemente la Rsi: è questa un’esigenza fonda- mentale, condivisa da tutti gli studiosi intervenuti al convegno, e ribadita dalle conclusioni di Guido Quazza che indicano nel nesso Resistenza-Rsi il momento periodizzante di un’unica fase storica, che appunto non si può affrontare con storie “separate” e isolate né dell’una né dell’altra (pp. 447-448). Pavone non condivide la “reticenza” degli antifascisti ad usare l’espressione di “guerra civile”, che egli considera invece un “ovvio presupposto” che ha il “valore di categoria interpretativa generale” (p. 395). Nel corso della discussione al convegno, Silvio Lanaro si è detto d’accordo, aggiungendo anzi l’osservazione linguistica, secondo me inesatta, che “lotta partigiana” vuol dire la stessa cosa di “guerra civile” (p. 444). In altra occasione, lo stesso Pavone (“Italia contemporanea”, 1985, n. 160, p. 72) aveva parlato di “guerra civile” come di un dato “incontrovertibile”. Ma proprio in questa relazione al convegno di Brescia, Pavone è assai persuasivo nella diffusa analisi delle “reticenze” antifasciste, degli imbarazzi, per motivi diversi, sia di azionisti, sia di cattolici, sia di comunisti ad usare quella terminologia: reticenze e imbarazzi che risultano meno evidenti e palesi nel momento stesso della lotta durante gli anni 1943-45 e quelli immediatamente successivi. Mentre sono citate con grande acume e finezza le fonti dell’epoca e le testimonianze letterarie di un Calvino e di un Fenoglio, resta più in ombra la riflessione storiografica sulla proprietà di quel termine e di quella categoria interpretativa ge
nerale. Pavone tende ad un uso estensivo del concetto di guerra civile, che nella storia universale è stato impiegato sempre polemica- mente e comunque con forti sollecitazioni soggettive da tutti i contemporanei ma che dovrebbe avere, per gli storici, un significato più preciso e appropriato. La casistica qui ricordata (1789, 1917, Spagna 1936-39, Grecia 1945, Jugoslavia 1941-45, pp. 395, 397) è più un’esemplificazione di tipo, per così dire, asseverativo che non dimostrativo. L’esperienza della Spagna non viene mai, neppure per accenni, effettivamente comparata in termini storiografici con quella della Rsi. In generale, mancano nel testo quei riferimenti analogici che sembrano una costante in ogni studio di guerre civili, pur tra forzature e fraintendimenti: è noto che Marx (La guerra civile in Francia, 1871) paragona Thiers a Siila. Pur senza arretrare fino ai tempi di Mario e Siila, un raffronto comparativo con la guerra civile inglese negli anni quaranta del diciassettesimo secolo e con quella americana (detta anche, con termine significativo che meriterebbe un discorso a parte, guerra di secessione) degli anni sessanta del diciannovesimo secolo, avrebbero giovato a verifica- re la consistenza e la congruità del termine applicato al caso della Rsi. Pavone nega validità al criterio “quantitativo” usato per esempio da René Rémond per affermare che nella Francia di Vichy non vi fu una guerra civile che avrebbe appunto presupposto un rapporto di forze relativamente equilibrato; ma subito dopo ammette, con argomentazione di tipo geografico-quantitativo, che l’espressione sarebbe più legittima e “più completa” se “nel Mezzogiorno si fosse manifestata una guerriglia fascista” (p. 397); peraltro accetta il criterio quantitativo di Pe- tersen — “la distribuzione unilaterale delle cause della violenza” — che rende problematica e discutibile la definizione del 1919- 1922 come guerra civile.
Le guerre civili non implicano necessariamente l’assenza di interventi stranieri o la
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concomitanza di eventi “esterni” ; ma la definizione presuppone tuttavia una certa indi- pendenza dei fattori interni della divisione in due campi, che in quanto endogeni risultano anche prioritari e non certo secondari. Pavone è quindi costretto ad una certa so- pravalutazione di tali fattori endogeni ed interni, che non arriva al punto da collocare lo scontro Resistenza-Rsi in una sorta di vacuum storico nel bel mezzo del frastuono —- esterno alle pareti di casa — della seconda guerra mondiale. Tuttavia, si attribuisce ai protagonisti della contesa una volontarietà d’intenti ed una libertà d’azione che paiono eccessive, ove si afferma che “questo sbilanciamento fra le due situazioni, settentrionale e meridionale, conferma che la guerra civile si svolse tanto fra Regno del Sud e Rsi, quanto fra fascisti e antifascisti, e fu ovviamente combattuta solo sul territorio dove entrambe le parti erano presenti in quanto tali [sottolineatura mia]. Ne è riprova il fatto che sia il governo del Sud che quello del Nord evitarono [sottolineatura mia] lo scontro diretto, sulla linea gotica, delle rispettive truppe regolari” (p. 398). Un’argomentazione del genere potrebbe, a ben vedere, essere applicata a qualsiasi conflitto interno a qualsiasi area in qualsiasi circostanza, e non spiega di per sé la natura della guerra civile, implicando tra l’altro che Mussolini e Badoglio furono in grado di evitare lo scontro diretto perché potevano scegliere di farlo o, in alternativa, di non farlo, in autonomia dal fronte contrapposto di tedeschi e di anglo-americani. Esempio ulteriore di questo uso estensivo del termine è anche l’affermazione di Pavone che lo stesso Risorgimento italiano, prima della costituzione di uno stato nazionale, “aveva avuto tratti rilevanti di guerra civile” (p. 400). Le implicite conseguenze storiografiche dell’adozione di questo termine nel senso indicato sono niente meno che tale definizione può valere come “categoria interpretativa” sia per la storia italiana preunitaria, sia in
fondo per la maggior parte delle lotte di carattere “fratricida” , degli scontri di classe o ideologici o di religione o di fazione o intestini, insomma per la maggior parte dei momenti di polarizzazione della vita politica e sociale, stemperando o vanificando la specificità della “guerra civile” come termine scientificamente utile. Avrei molti dubbi ad usare l’espressione per i casi attuali del Libano, dell’Irlanda del Nord, dei palestinesi, dei baschi, del Sudafrica, per non parlare dei casi del passato come i Guelfi e i Ghibellini. Lo stato d’animo dei contendenti, che è indispensabile per la ricostruzione storica ed è quello su cui in sostanza si basa l’impianto del contributo di Pavone, non è da solo sufficiente a giustificare la nozione generale che viene impiegata. Essa può inoltre precludere lo studio circostanziato di un’altra “categoria interpretativa” non certo estranea al nostro caso, quella di collaborazionismo, che riguarda i repubblichini italiani, Pétain, il Manciukuò, la Norvegia di Quisling e che ha dato origine nella letteratura storiografica, in particolare anglosassone, alla definizione di governi-quisling applicabile a Ante Pavelic, alla Romania, alla Bulgaria, alla Slovacchia. La terribile novità e la straordinaria complessità della seconda guerra mondiale stanno anche nel suo carattere totale, nel coinvolgimento dell’intera popolazione civile che fu particolarmente brutale nei paesi soggetti all’occupazione militare nazista: è questo imprescindibile contesto generale che rende discutibile se non impropria la legittimità innanzitutto storiografica dell’espressione di guerra civile nel caso dell’Italia occupata dai tedeschi e retta con la collaborazione del governo fantoccio di Mussolini. Pavone ha il merito di aver sollevato un interrogativo importante a proposito di uno dei momenti più tragici e laceranti della nostra storia recente. Il tema della guerra civile nella storia italiana non è stato posto con particolare frequenza e attenzione: nel primo volume della Storia d ’Ita-
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Ha Einaudi (I caratteri originari, Torino, 1972), il solo Corrado Vivanti ha di sfuggita accennato all’avvento e al crollo del fascismo come due momenti in cui si verificò “qualcosa di molto simile a una guerra civile”, alTinterno di una carrellata di lunghissimo periodo sulle lacerazioni e i contrasti di ben altra portata che hanno contrassegnato le vicende del “paese chiamato Italia”, quali l’invasione longobarda e la Chiesa, il frazio
namento e la debolezza “economico-corpo- rativa”, la questione meridionale. Da un’angolazione molto specifica, Pavone riapre la discussione, che a mio parere comporta un’appendice di approfondimenti terminologici affinché la nozione di “guerra civile” non diventi ancella e valletta di una nuova e magari avvincente questione mal posée.
Marco Palla
“Nuovo ordine” europeo e deportazionidi Giorgio Vaccarino
Il volume (Spostamenti di popolazione e deportazioni in Europa, 1939-1945, Bologna, Cappelli, 1987, pp. 506, lire 32.000) raccoglie gli atti del convegno internazionale svoltosi su tale tema a Carpi nei giorni 4 e 5 ottobre 1985, sotto gli auspici della Regione Emilia Romagna nel quarantesimo della Liberazione, e costituisce un contributo fonda- mentale nella pluralità dei suoi aspetti alla comprensione di quella che fu nella storia 1’ “unicità” dell’imperialismo ideologico- razziale del nazionalsocialismo tedesco. Soltanto una parte dei temi trattati, per ovvie ragioni di spazio, potrà essere qui ricordata.
Nell’attuale fervore delle tendenze revisionistiche della storiografia tedesca non è forse inopportuno ricordare che una fatale nemesi si è abbattuta sul popolo tedesco, non solo quale prima vittima sin dagli anni trenta del terrore nazista, ma della manipolazione razziale dallo stesso nazismo programmata, mediante il riflusso coatto entro le frontiere della vecchia Germania, delle etnie tedesche sparse in Europa. A tale trasferimento non furono costrette soltanto quelle del Sud Tirolo, alle quali, anche se avevano op
tato a favore di esso, fu consentito, ancora dopo la sconfitta del Reich, di permanere nel paese (si veda la relazione di Karl Stuhlp- farrer dell’Università di Vienna).
In apertura del convegno, una robusta relazione di Enzo Collotti sul “piano nazista di nuovo ordine europeo” (pubblicata nel 1985 su “Italia contemporanea”, n. 161) analizza il programma di eliminazione fisica nei paesi occupati delle popolazioni “estranee alla razza”, giudicate come “un pericolo per il Reich” e, all’inverso, della ricolonizzazione tedesca degli spazi così occupati attraverso l’insediamento di cittadini tedeschi e di elementi di nazionalità germanica, rientrati dall’estero.
Il principio base della risistemazione etnica fu la distruzione dell’identità nazionale e culturale delle comunità nazionali. La prima sperimentazione fu avviata in Polonia dove, oltre l’annessione al Reich delle terre più occidentali (il cosiddetto Warthegan, con i suoi otto milioni di abitanti), altri (quindici milioni) del “governatorato” centrale dovevano esser sottoposti al processo distruttivo e alla “scrematura razziale” , per estrarre gli
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elementi recuperabili e cioè “germanizzabi- li” . Fondamentale per la distruzione del connettivo sociale fu allora l’intervento sul sistema scolastico. L’istruzione venne limitata in Polonia alle quattro classi elementari. Di qui l’iniziativa della resistenza polacca di far proseguire l’insegnamento clandestino in locali anche di fortuna, sino allo svolgimento di corsi universitari e alla pubblicazione di lavori scientifici grazie ad un fondo di solidarietà costituito nel 1942 a Cracovia e a Varsavia (cfr. Jean B. Neveux, Le fonc- tionnement et l’einsegnement supérieur po- lonais sous l’occupation allemande, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale”, 1960, n. 40). “Questa popolazione — prevedeva Himmler — [...] priva come sarà di una propria cultura, sarà chiamata, sotto la guida severa e giusta del popolo tedesco, a collaborare alle sue sempiterne opere di civiltà, [...] almeno per quanto riguarda la mole del lavoro bruto” . Con la sconfitta della Wermacht sotto le mura di Mosca nell’inverno 1941-42 si accelerò quel processo di selezione (e cioè di eliminazione) delle popolazioni non germanizzabili in tutti i territori occupati, che costituirà progressivamente il contenuto del Generalplan Osi, la più fedele espressione del progetto demografico del nazismo, da attuarsi dopo la vittoria bellica. A preparazione dell’insediamento di elementi germanici, in sostituzione delle comunità tradizionali espulse, circa 50 milioni di abitanti avrebbero dovuto essere evacuati nel corso di trent’anni dai territori occupati ad est dei confini tedeschi del 1939 verso la Siberia occidentale oltre il fiume Ural. E come in Polonia e in Russia, anche in Cecoslovacchia il 50 per cento degli abitanti, considerato non “germanizzabile” — in particolare modo l’intellighenzia — avrebbe dovuto subire lo stesso espatrio forzato. In minor misura analoghe manipolazioni razziali furono operate nei Balcani, ove le minoranze tedesche furono utilizzate quale punta di diamante nella disgregazione dall’interno
delle comunità nazionali consolidate. Nei paesi sopraffatti in Occidente, in particolare nella Francia, lo sfruttamento fu invece associato alla collaborazione, diversamente dai paesi dell’Est ove lo sfruttamento si accompagnò alla distruzione, all’annullamento biologico.
Sulla deportazione di massa dalla Jugoslavia ha parlato Tone Ferenc, in rappresentanza dell’Istituto di storia del movimento operaio di Lubiana. Particolare sollecitudine fu posta dai tedeschi nell’opera di “snazionalizzazione” in Slovenia della popolazione di “altra razza” . Nell’aprile 1941 Himmler aveva previsto la deportazione verso la Serbia di una cifra oscillante fra i 220 e i 960 mila abitanti di tale origine, mentre in realtà non ne furono trasferiti che una parte per le difficoltà dei trasporti, per l’impossibilità di una adeguata ricezione da parte sèrba e per l’insorgere della lotta partigiana. Come i tedeschi in Slovenia così gli ungheresi nei territori confiscati, in vista della costituzione della Grande Ungheria, attuarono programmi feroci di “denazionalizzazione” , decidendo di trasferire immigrati serbi nei territori della vecchia Serbia e della Croazia.
Soltanto la Croazia — che aveva incorporato la Bosnia e l’Erzegovina — fu riconosciuta, dopo le note intese con l’Italia, come stato indipendente, ancorché in realtà vassallo. Nondimeno gli “ustascia” croati dall’aprile 1941 diedero inizio all’annientamento biologico della popolazione serba ed ebrea, assassinando complessivamente circa700.000 persone tra serbi, ebrei e zingari; e ciò per sostituire alle comunità, soprattutto serbe, insediamenti di popolazione croata cattolica.
Sulla deportazione degli ebrei dall’Europa orientale ha riferito estesamente Czeslaw Madajczyk, in rappresentanza del Comitato di scienze storiche di Varsavia ed autore della fondamentale opera in due volumi (Fa- szyzm i okupacje 1938-1945. Wykonywanie okupacji przez panstwa Osi w Europie, Poz-
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nan, 1983-84) sull’occupazione nazifascista in Europa. Dopo un’emigrazione pressoché volontaria di mezzo milione di ebrei negli ultimi anni precedenti il secondo conflitto, erano rimasti nei loro paesi circa quattro milioni di ebrei polacchi e 250.000 cecoslovacchi. Dopo un fallito progetto di trasferirli nella colonia francese del Madagascar (che avrebbe dovuto essere ceduta alla Francia), gli ebrei furono concentrati nei ghetti polacchi nell’attesa, secondo il piano del governatore Hans Frank, di essere trasferiti all’Est, mentre i Gruppi operativi speciali (Einsatzgruppen) già avevano iniziato in più parti il loro triste compito dei massacri di massa. Fu alla conferenza di Wansee (Berlino) nel gennaio 1942 che fu infine affrontata per la sua pratica attuazione la “soluzione finale” . Fu allora deciso il trasferimento degli ebrei nei campi di rapido sterminio con l’utilizzazione degli individui validi fino all’esaurimento nel lavoro coatto. Senonché il meccanismo del genocidio fu intralciato, ma non impedito, dalle eroiche insurrezioni nei ghetti di Varsavia, Lublino, Bialystok, Sobibor e dalla solidarietà delle organizzazioni polacche clandestine e di una parte della popolazione.
Anche se la repressione in Occidente non fu mai così dura come in Polonia, è risultata interessante la relazione di C.J.F. Stulreher, dell’Istituto di storia della guerra di Amsterdam, sulle “proteste di massa contro le deportazioni, nell’Olanda occupata” . A questo fine uno sciopero — certamente il primo dell’Europa occupata — contro un rastrellamento di ebrei avviati alla deportazione, fu scatenato nella capitale per iniziativa della clandestinità, soprattutto comunista, nelle giornate del 25 e 26 febbraio 1941. Il secondo giorno fu represso dalla polizia tedesca. Gli scioperi contro la deportazione di soldati e ufficiali dell’esercito olandese furono rinnovati per tre giorni sulla fine dell’aprile 1943, in varie località industriali oltre che ad Amsterdam. Tale esteso movimento popola
re di solidarietà, non direttamente controllato in questo caso dalla resistenza, si concluse con uccisioni, condanne a morte e traduzione nei lager.
L’utilizzazione dei lavoratori deportati nell’industria tedesca, che costruiva a questo fine le sue fabbriche nei pressi dei lager, retribuendo a vile prezzo e direttamente alle Ss il lavoro dei “sottouomini” schiavizzati, è stato l’oggetto dell’intervento di Klaus Dro- bish dell’Accademia delle scienze di Berlino (Ddr). Si pensi fra gli altri allo stabilimento Ig Farben, strettamente associato al lager di Auschwitz (di cui l’Istituto di documentazione della politica sociale del nazismo di Amburgo si sta ora occupando in più di un volume) e a quello della Siemens, che sfruttò il lavoro dei deportati, prelevati da più parti e concentrati nel campo di Haselhorst, costruito appositamente nei pressi dello stabilimento omonimo da internati del lager di Sachsenhausen. Ma la relazione più estesa e documentata sulla “deportazione della mano d’opera in Germania” è stata quella di Dietrich Eichholtz dell’Accademia delle scienze di Berlino (Ddr), già autore della recente grande storia dell’economia di guerra tedesca nel corso del secondo conflitto (Ge- schichte der deutschen Kriegswirtschaft1939-1945, Berlin, Akademie Verlag, 1984).
Non poteva non essere riproposto nel convegno il tema assillante della conoscenza che gli Alleati e il Vaticano dovevano aver avuto delle deportazioni e in particolare del genocidio. Sulle reazioni dei primi ha riferito Arnold Paucher dell’Istituto Leo Baeck di Londra. Il pubblico americano non fu in generale informato dello sterminio degli ebrei fino al tardo 1944. Di tale disinformazione gli stessi fogli ebraici furono responsabili. L’elettorato ebraico era interamente fedele a Roosevelt, la cui amministrazione pareva voler sfuggire all’orripilante realtà o forse riluttava dal vedere accresciute le ondate immigratorie di popolazioni destinate a rimanere negli Usa dopo il conflitto.
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Silenziosa rimase la stampa cattolica, mentre fogli evangelici tenevano a dimostrare che le cifre della deportazione erano enormemente gonfiate. La Chiesa d’Inghilterra mostrò maggiore sensibilità e intervenne con slancio dai suoi livelli più alti, mentre la stampa cattolica ancora nel 1943 volle minimizzare le atrocità naziste incolpando gli ebrei dei mali che, lungo la loro storia, si erano attirati. Esemplare fu invece il lavoro svolto dal Concilio ecclesiastico mondiale di Ginevra, in stretta collaborazione con il Congresso mondiale ebraico. L’alta parola dei vescovi britannici Chichester, Bell e dell’arcivescovo Tempie contrastava con l’atteggiamento del governo di Sua Maestà, “tiepido e poco disponibile” .
Sulla conoscenza delle deportazioni e del genocidio e sui conseguenti atteggiamenti della Santa sede è intervenuto con equilibrio e persuasiva documentazione Giovanni Miccoli. “La sostanza dei fatti — egli ha concluso — poteva dirsi sconosciuta solo a chi non voleva conoscerla, o fosse mentalmente condizionato per non conoscerla” . L’affermare il contrario, per ciò che riguardava le possibilità conoscitive del Vaticano circa le atrocità naziste contro gli ebrei, costituirebbe “un’operazione mistificatoria, che non trova fondamento né corrispondenza nelle fonti, solo che queste si leggano senza preconcetti o aspirazioni apologetiche”.
Discorso a parte è stato fatto per la deportazione dei militari italiani dopo l’8 settembre 1943. Giorgio Rochat ha assolto al compito con un sistematico riesame del problema, lamentando l’assenza, ancora a quaran- t’anni dalla fine del conflitto, di studi scientifici sull’internamento. In merito all’entità delle adesioni al rientro in patria, al prezzo dell’integrazione nelle forze tedesche o in quelle della Rsi, Rochat ha respinto tutte le valutazioni sino ad ora avanzate. Come pura ipotesi di lavoro, a proposito dei 650.000 militari italiani catturati, propone come più probabile la percentuale del dieci per cento
delle adesioni: dato questo — Rochat ha inteso sottolineare — che, anziché svalutare lo spirito di sacrificio dei prigionieri, esalta nella sua esiguità l’eroismo della protesta, espressa in condizioni ambientali insostenibili. Altra cosa fu invece il lavoro forzato, a cui gran parte dei soldati finì con l’aderire per una semplice ragione di sopravvivenza: comportamento che non ledeva la dignità morale del combattente, che non si piegava a rinnegare i valori in cui credeva, come sarebbe accaduto nel caso di servizio prestato al nemico con le armi.
Bruno Vasari infine, in un appassionato intervento ha parlato del suo incontro a Mauthausen con maestranze deportate in seguito agli scioperi del marzo 1944 nell’Italia del nord e — altra insolita testimonianza — delle iniziative culturali quali lezioni e conferenze, organizzate dagli esausti prigionieri di Mauthausen nel periodo tra la liberazione del campo e il rimpatrio.
Il volume ora considerato costituisce certamente un primo ricco bilancio variamente articolato della storia della deportazione da cui qualsiasi ripensamento storiografico non potrà d’ora innanzi prescindere. Una lacuna di non lieve importanza è però a mio parere da rilevare: trattandosi di un ampio convegno senza dichiarati limiti tematici sui fenomeni di deportazione nell’ambito del secondo conflitto, come non considerare pertinenti (non fosse che per un interesse comparativo) anche le deportazioni inflitte dall’occupazione sovietica alla Polonia, ai paesi baltici, per non parlare di quelle in Siberia dei Tartari di Crimea, delle popolazioni del Nord Caucaso e di altre ancora? Tutto ebbe inizio con la cattura dei militari polacchi (da due a trecentomila) che avevano combattuto contro i tedeschi nel settembre 1939 e che, ripiegando sulla frontiera romena-ungherese che apriva loro la via verso le forze alleate in Occidente, vi incontrarono i reparti dell’Armata rossa in attesa, che li rinchiusero in vagoni sigillati e li trasportarono nel profon
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do dell’Urss. Seguirono nel biennio 1940-41 altre deportazioni dai territori occupati nella Polonia orientale. In gran parte i convogli erano costituiti da funzionari di stato, da membri della polizia, da professionisti, da coloni ricchi con le loro famiglie. Tutti coloro che non davano affidamento di accettare di buon grado l’occupazione e la snazionalizzazione vennero avviati ai campi di lavoro nel Kazastan e nella Siberia del nord, dove le temperature raggiungevano i meno 70 gradi centigradi e la mortalità era altissima. Di tali deportazioni ho trovato negli atti un solo occasionale accenno nel rapporti di Warlaw Dlugoborski dell’Università di Katowice (p. 166). E come anche non ricordare per la sola Lituania la deportazione, se non l’eliminazione, di migliaia di persone, per lo più rappresentanti della locale intellighenzia, al tempo della prima occupazione russa, dopo l’accordo tedesco sovietico dell’agosto del 1939 e le reciproche intese del 28 settembre di snazionalizzazione delle rispettive zone di occupazione?
Proprio in questo convegno si sarebbero
dovute approfondire le ancora mal conosciute ragioni di tali imponenti fenomeni di selezione sociale, se non più razziale. Stava alla loro origine la paventata difesa dell’identità nazionale da parte delle popolazioni soggiogate o l’accusa di un forse presunto loro massiccio collaborazionismo? (cfr. Alexandr Nekric, Thepuni- shed peoples. The deportation and fate o f So- viets minorities at thè end o f thè Second World War, New York, Norton & Co, 1978). Non appare in merito indifferente che nel corso dei lavori non si sia trattato soltanto dei crimini tedeschi, senza alcun dubbio prevalenti nella loro incommensurabile unicità, se l’attenzione si estese ai trasferimenti — sia pure indotti ma non per questo meno richiesti dalle autorità locali — tra le popolazioni dei paesi balcanici. A questo punto l’incomprensibile cesura tematica in un così ampio impegno di studio se non meglio spiegata potrebbe far nascere il sospetto di una singolare quanto anacronistica reticenza.
Giorgio Vaccarino
Un passato che non vuol passaredi Stefano Caviglia
L’acceso dibattito fra storici e intellettuali tedeschi a proposito del nazismo e dello sterminio degli ebrei in Europa è un intreccio delicatissimo in cui confluiscono motivi assai diversi, a mio avviso non sempre conciliabili, di importanza determinante per tutta la problematica storica contemporanea.
Principalmente a questo imponente carico di significati, e alle sue implicazioni politiche, bisogna ricondurre sia l’estrema asprezza dei toni che il clamore suscitato presso l’opinione pubblica tedesca ed europea — fenomeni entrambi inusuali per una polemi
ca nata in ambito accademico. A questo interesse ha risposto assai tempestivamente in Italia la casa editrice Einaudi con la pubblicazione dei principali interventi della “querelle”, preceduti da un’ampia introduzione di Gian Enrico Rusconi (Germania: un passato che non passa, Torino, Einaudi, 1987, pp. 164, lire 14.000) consentendo una prima riflessione sistematica su tutta la vicenda.
La disputa, come molti ricorderanno, si è accesa con un vibrato articolo del filosofo francofortese Jùrgen Habermas sul settimanale “Die Zeit” in risposta all’ormai celebre
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articolo che lo storico Ernst Nolte aveva precedentemente pubblicato sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, Il passato che non vuole passare. Le stesse testate verranno poi chiamate in causa e in qualche modo identificate con i due opposti schieramenti. Habermas, in realtà, aveva dedicato la sua attenzione solo in parte a Nolte, mettendo in guardia più in generale contro tutto un orientamento storiografico, definito “revisionista”, tendente a minimizzare i crimini nazisti, e chiamato in causa storici di nome come Michael Sttirmer, Andreas Hillgruber, Klaus Hildebrand, accusati di tentare un’operazione politica non dichiarata e soprattutto moralmente e culturalmente nefasta. In breve tempo ciò gli è valso una pioggia di critiche assai violente, non ultima quella di non essere abbastanza competente per esprimere giudizi in materia, da parte di Nolte, Hillgruber e Hildebrand, ai quali si è aggiunto per tempo Joachim Fest, celebre biografo di Hitler. Ciò che maggiormente ha irritato questi storici, secondo quanto affermano loro stessi, è che Habermas abbia presentato le loro posizioni come articolazioni di uno stesso disegno politico, quasi a lanciare l’allarme contro una pericolosa congiura.
Il primo nodo da affrontare, dunque, è quello dell’esistenza o meno di tale disegno politico nonché, eventualmente, delle sue caratteristiche fondamentali.
I tratti principali della tesi di Nolte sono forse ormai noti. In sintesi egli si chiede (retoricamente, poiché risponde con decisione in modo affermativo) se non sia il frutto di una eccessiva severità verso il popolo tedesco il fatto che i crimini nazisti siano considerati unici e ineguagliati nella storia e se essi non abbiano invece un degno termine di paragone e addirittura un “prius logico e fattuale” , cioè una causa scatenante, nei crimini commessi nella Russia sovietica precedente e contemporanea all’ascesa al potere di Hitler. Tutto questo viene collocato nella
deplorazione generale del fatto che (a suo avviso) i tedeschi sono ancora oggi, ad oltre quarant’anni di distanza, schiacciati sotto il peso di quella colpa (da qui l’emblematico titolo del suo primo intervento).
Meno note sono le argomentazioni con cui lo storico tedesco ritiene di mostrare fondata, ed anzi incontestabile la sua tesi. Vale la pena di entrare in dettaglio.
L’elemento centrale, quello che dovrebbe risultare illuminante ed aprire la via ad una nuova interpretazione dello sterminio ebraico da parte dei nazisti, è una frase che Hitler rivolse ai suoi più stretti collaboratori il 1° febbraio 1943 per anticipare che gli ufficiali tedeschi catturati a Stalingrado avrebbero ben presto collaborato con la propaganda sovietica: “figuratevi, uno arriva a Mosca; e pensate alla gabbia dei topi. A quel punto firma qualsiasi cosa. Farà confessioni, lan- cerà appelli...” . Ecco dunque la grande scoperta: quella “gabbia dei topi” non indica, come gli storici hanno sempre ritenuto, semplicemente la Lubjanka, bensì un’orrenda tortura che ben ricorderà chi ha letto il romanzo 1984 di George Orwell, che non sarebbe dunque un’invenzione letteraria dello scrittore inglese, ma un motivo diffuso con cui la propaganda antibolscevica degli anni venti, in modo più o meno veritiero (questo non è importante secondo Nolte), descriveva la barbarie rivoluzionaria. Da qui la conclusione: dal timore, dall’ossessione per una minaccia (vera o presunta, anche qui, non importa) di barbarie “asiatica” Hitler e il gruppo dirigente nazista avrebbero maturato il proposito di un’azione ancora più terribile verso gli ebrei, ritenuti gli artefici occulti e malvagi della minaccia bolscevica in qualsiasi parte del mondo.
Habermas definisce stravagante questa tesi, attirandosi perciò una risentita replica di Nolte, che dice fra l’altro: “Come filosofo, però, Habermas dovrebbe accettare questo enunciato” — che i crimini sovietici siano il prius di quelli nazisti — “poiché esso non è
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lontano dalla verità analitica che la rivoluzione è antecedente alla controrivoluzione” .
Riesce difficile credere che queste argomentazioni siano il frutto di una approfondita riflessione, volta ad allargare l’orizzonte conoscitivo sulle condizioni e le responsabilità che resero possibili i campi di sterminio nazisti. Se non vi intravedessimo un intento politico, in senso lato, che tende a stravolgere e a fuorviare la ricerca di elementi significativi su cui fondare l’analisi storica, saremmo tentati di attribuire colpe assai più gravi a Nolte e a coloro che sono scesi in campo per difenderlo. Non è qui essenziale sapere se essi abbiano davvero in mente, come sostiene qualcuno degli altri storici intervenuti nella polemica, di offrire servigi culturali alla cosiddetta politica della svolta (espressione del nuovo blocco moderato fra liberali, cristiano-democratici e cristiano-sociali). Ciò che va soprattutto tenuto presente è che queste ed altre affermazioni non possono essere comprese (ed anzi lasciano francamente increduli) al di fuori della necessità, vissuta come imperativa, di irrobustire l’identità nazionale del popolo tedesco attraverso la ricostruzione di una memoria storica. Le posizioni di Nolte, rispetto a quelle, più moderate, dei suoi difensori (che spesso sentono il bisogno di fornire una lettura attenuata degli elementi più criticabili o di dissociarsi da questo o quel punto) non sono che il tentativo più ardito e spericolato di risolvere lo stesso arduo problema — che per altro questi storici hanno in comune, sebbene in tutt’altro contesto e con argomenti assai diversi, con la prima storiografia conservatrice del dopoguerra.
In questo senso mi sembra del tutto legittimo e per nulla diffamatorio l’uso dell’espressione “tendenze neoconservatrici” fatto da Habermas per definire l’orientamento degli storici revisionisti, che ha suscitato le ire di Hillgruber nonché la censura di Rusconi nella sua prefazione al libro.
È perfettamente comprensibile che il curatore di un’opera di tal genere si sforzi di mantenersi in equilibrio fra le parti in contrasto e suggerisca di smussare le principali asperità di entrambe le posizioni. Tuttavia una verifica più severa della consistenza delle tesi revisioniste avrebbe potuto essere tentata. Rusconi mostra di preoccuparsi molto che non vengano lanciati anatemi o invocati tabù, che la ricerca, insomma, non venga limitata od ostacolata dal timore di toccare temi scabrosi o di rievocare memorie laceranti.
In questa direzione infatti Rusconi afferma: “allineare i crimini nazisti nella lunga serie dei genocidi del XX secolo, a cominciare da quello perpetrato dai turchi contro gli armeni per finire con i massacri di Poi Pot, serve alla loro più precisa comprensione? Formulata come ipotesi conoscitiva, questa domanda non può che ricevere una risposta positiva”.
In linea teorica non si può dissentire da questa affermazione. Occorrerebbe tuttavia procedere oltre, verso una minore generalità. Come è evidente, ogni vicenda storica contiene in sé innumerevoli elementi (e dunque innumerevoli connessioni possibili con altre vicende), ognuno dei quali può portare in direzioni molto diverse, non necessariamente contrastanti, la ricerca. Compito dello storico è operare una selezione fra quegli elementi, privilegiarne alcuni, trascurarne altri. Il quesito da porsi, dunque, ragionando in termini di metodo storico, dovrebbe essere piuttosto: è pregnante, è significativa la linea di interpretazione proposta, ai fini di una valutazione etica — poiché di questo si tratta anche per gli storici revisionisti — dei crimini del nazionalsocialismo? Non vi sono, a quello scopo, altre direzioni di ricerca di gran lunga più decisive, più proficue, più pertinenti? E se è così, perché sono state ignorate o trascurate? In altre parole, nessuno potrebbe contestare a questi storici il diritto o l’utilità presuntiva di impegnarsi a fondo sulle connessioni psicopatologiche del
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la mente di Hitler o sull’esistenza o meno di una recondita vocazione al genocidio radicata nell’umanità di tutti i tempi (solo per fare due esempi alla rinfusa), ma pretendere che questo modifichi il giudizio storico complessivo sul nazismo e i suoi crimini è ben altra cosa.
Il buon senso e l’interpretazione storica finora accettata dicono che il fatto moralmente più rilevante di quella vicenda è che una società assai evoluta abbia posto enormi mezzi tecnici, economici, intellettuali al servizio del massacro pianificato di milioni di persone, buona parte delle quali erano in età da non capire neppure cosa stesse accadendo. E che nessuno, o quasi, in quella società abbia trovato ragioni per opporsi o dissociarsi da quanto stava accadendo. Quando si parla di unicità o incomparabilità dei crimini nazisti (i termini presi di mira più duramente dagli storici revisionisti) si intende affermare, con un’espressione simbolica, che essi sono stati lo scacco per eccellenza dei valori di cui da secoli si nutre, o si illude di nutrirsi, la civiltà occidentale. Che essa è piombata per quella via ad un livello di barbarie assolutamente inimmaginabile, dato il grado di sviluppo fino ad allora raggiunto, tale che gli uomini di quell’epoca (ed anche di questa) avrebbero semplicemente rifiutato di credere possibile se non fossero stati costretti a vederlo con i propri occhi. Per questo si ritiene che quei crimini debbano rimanere come monito non solo per il popolo tedesco (seppure per esso in primo luogo) ma anche per tutto il mondo occidentale. Da un punto di vista funzionale-scientifico poi, il richiamo all’unicità di quei crimini significa più semplicemente e concretamente che il fenomeno del nazismo non può essere sussunto sic et simpliciter nella categoria interpretativa del fascismo e tanto meno in quella del totalitarismo poiché quelle categorie sono del tutto insufficienti a spiegare e forse anche solo ad inquadrare la vicenda dello sterminio degli ebrei in Europa.
Tutta questa sensibilità e puntigliosità filologica di Nolte e degli altri, che ci rammenta il fatto ovvio che ogni evento reale è unico e che tutti d’altronde sono comparabili, appare qui inconsistente e fuori luogo. A ben più severa critica potrebbe esser sottoposto l’uso del termine “olocausto”, adoperato tanto volentieri, che suggerisce appuntamenti della storia con il trascendente.
Con tutto ciò non si vuole naturalmente ignorare la vasta riflessione in atto da diversi anni sulla storia contemporanea della Germania, in cui pure quelle posizioni si inseriscono, o negare che da essa possano venire spunti di grande interesse anche per la comprensione delle condizioni che resero possibile il nazismo. Porre l’accento sulla criticità della posizione dell’impero tedesco in Europa o, più ancora, sugli effetti sociali e psicologici particolarmente destrutturanti in Germania dell’irruzione delle “cateratte della modernità”, può significare senza dubbio un approccio più profondo e più articolato all’atteggiamento e alla mentalità tedeschi nel periodo che comprende le due guerre mondiali.
Ciò che non può essere accettalo è l’uso strumentale di questi e di altri assai meno convincenti motivi per imbellettare la storia del Reich di cui la Rft, nel bene e nel male, ha assunto l’eredità. Dal punto di vista della memoria storica degli ebrei, e di tutti coloro che si sentono ancora oggi partecipi della sorte toccata loro durante la seconda guerra mondiale, è poi semplicemente inaccettabile che la vicenda dei campi di sterminio venga trattata come un’appendice fastidiosa, come un ostacolo da rimuovere a tutti i costi per condurre a termine quella operazione. Mi sembra che anche nei commenti apparsi sulla stampa italiana non sia stato dato il giusto peso a questa leggerezza e a questa sistematica volontà di non approfondire.
Nelle argomentazioni di Nolte questo tipo di atteggiamento è riscontrabile in modo preciso. Va citato anzitutto l’ambiguo richia
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mo alla tesi (che non si capisce bene in che misura venga condivisa) che l’assicurazione data da Weizman al governo britannico che gli ebrei di tutto il mondo avrebbero combattuto contro la Germania possa equivalere in qualche modo ad una dichiarazione di guerra e dunque aver autorizzato Hitler ad alcune forme di internamento preventivo. Ma pure tralasciando questo, si resta sconcertati di fronte alla conclusione del primo intervento di Nolte in cui egli ci invita a trarre, come maggiore insegnamento dalla vicenda in questione, l’impulso a liberarci dalla tirannia del “pensiero collettivistico”. Quella critica cioè, “di condizioni dalle quali gli individui non possono liberarsi (o solo con estrema difficoltà): cioè la critica verso gli ebrei, i russi, i tedeschi, o i piccolo-borghesi” . Oltre al tentativo di far sparire la corresponsabilità della società tedesca del tempo, e tutte le problematiche che essa potrebbe sollevare, va qui rilevato il cattivo gusto — per non dire che questo — di mettere su uno stesso piano la ‘critica’ verso gli ebrei, che è costata quasi sei milioni di morti nel giro di tre-quattro anni, e l’odierno atteggiamento critico verso il passato della Germania. Ma c’è di più. Lo stesso Nolte aveva commesso poche pagine prima la stessa mancanza da cui ci esorta a guardarci, chiedendosi con incredibile disinvoltura se per caso l’ostinato non voler passare del passato tedesco non dipenda anche “dall’interesse dei perseguitati e dei loro discendenti ad una condizione permamente di eccezionalità e di privilegio”.
Il fatto è che la motivazione di fondo che muove questi storici impedisce loro qualsiasi seria verifica dei processi logici proposti. Non altrimenti si può spiegare, a mio avviso, che sforici di fama e di grande esperienza inciampino malamente su questioni di metodo come accade a Hillgruber (nel saggio Duplice caduta. Lo smembramento del Reich tedesco e la fine dell’ebraismo europeo, Berlino, 1986) che nel descrivere il crollo del
fronte orientale tedesco alla fine della guerra, nel 1944-45, sente il bisogno di chiedersi con quale delle parti in causa lo storico debba identificarsi. E risponde che la sua prospettiva è quella della popolazione civile tedesca che cercava invano di resistere alla pressione sovietica e di coloro che l’aiutavano combattendo, nonostante all’interno di quel confine e grazie alla sua tenuta funzionassero a pieno regime i campi della morte.
Ad Habermas, che giustamente trova curioso che uno storico vada cercando, per identificarvisi, la prospettiva di una delle parti in causa e non scelga senz’altro la propria, quella cioè di uno studioso che scrive ad oltre quarant’anni di distanza, Hillgruber, evidentemente a corto di argomenti, riesce solo a rispondere pateticamente: “Si vuole forse — in contrasto con la nostra costituzione liberale — prescrivere qui per legge cosa agli storici è consentito fare e cosa no?”.
Ancora a quell’approccio distorto va ricondotto il liquidatorio discorso di Fest (che pure afferma contestualmente che nessun crimine può giustificarne o attenuarne un altro) secondo cui la principale linea di demarcazione fra i due schieramenti della polemica potrebbe essere individuata con profitto nella diversità fra un presupposto pessimisti- co e uno ottimistico sulla natura dell’umanità. Gli uni avrebbero una visione dell’uomo come “l’antico Adamo, la cui malvagità fa parte della condition humaine, su cui nessuna utopia ha mai potuto prevalere” . Gli altri, “dalle catastrofi morali del secolo hanno tratto in salvo la speranza di un tempo sulla perfettibilità dell’uomo e sulla possibilità di educarlo, e nell’Olocausto scorgono una aberrazione unica e atipica, dopo la quale si potrà procedere verso un mondo migliore”.
In definitiva, sia che si voglia diluirli nell’infinita serie di nefandezze della storia dell’umanità, sia che si cerchino connessioni e accostamenti o punti di vista alternativi, l’obiettivo è pur sempre quello di ridimensionare i crimini nazisti. Di attenuarne la cen
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tralità, fino ad oggi per lo più indiscussa, nella storia tedesca contemporanea. Poiché essi non possono essere ragionevolmente rimossi da quella posizione, gli storici revisionisti sono costretti a tentare analisi e ricostruzioni assai tortuose che, oltretutto, li allontanano costantemente dal merito della questione. In tutta la loro affannosa ricerca di connessioni, ad esempio, non si trova un solo riferimento al secolare antisemitismo cristiano né ai reali antecedenti storici dell’odio e della violenza contro gli ebrei. Ora, c’è da chiedersi, è possibile comprendere interamente la volontà sterminatrice dei nazisti e la generale indifferenza della popolazione in Germania e in Europa orientale prescindendo dal pregiudizio religioso e, più ancora, dalla sua trasfigurazione violentemente politica, affermatasi in Europa ai tempi della rivoluzione francese e mantenutasi in ottima salute fino alla fine della seconda guerra mondiale? Non è qui necessario chiamare in causa la propaganda reazionaria del diciannovesimo e ventesimo secolo che ricorreva con tanta larghezza al motivo degli ebrei giacobini, bolscevichi, capitalisti o massoni (a seconda delle congiunture e
delle convenienze), sempre nemici e sovvertitori del buon vecchio ordine del mondo cristiano? Non è il caso di riferirsi, se si cercano antecedenti, al processo Dreyfus, ai Protocolli dei savi anziani di Sion, ai pogrom spaventosi con cui nella Russia zarista si cercò di far fronte, manovrando masse considerevoli, ai problemi politici e sociali fino alla rivoluzione d’ottobre? Il ricordare questi elementi insieme ad una critica dell’atteggiamento incerto e a volte ipocrita del mondo libero, avrebbe forse potuto tornare di qualche sollievo per la coscienza storica dei tedeschi mostrando come quel crimine agghiacciante, incomparabile o meno che sia, comunque non è nato nel vuoto, non è stato una pura invenzione della Germania nazista.
È inevitabile il sospetto che, ancora una volta per ragioni ideologiche, risulti assai più comodo ricercare le radici dell’orrore nazista nel trauma e nell’esempio “asiatico” della rivoluzione bolscevica piuttosto che seguire tracce che potrebbero portare a spezzoni non marginali della cultura politica conservatrice d’Europa.
Stefano Caviglia
La Svizzera italiana nel ventennio fascistadi Elisa Signori
Dalla minacciosa battuta sul Canton Ticino “imbastardito e tedeschizzato” e sul Gottardo “confine naturale dellTtalia”, pronunciata dal neodeputato Mussolini al suo esordio parlamentare, il 21 giugno del 1921, sino al nebuloso “disegno finale” di una annessione dei cantoni della Svizzera meridionale, affiorato più volte a partire dal 1938 nelle conversazioni del duce con Ciano e Bottai e accennato anche in seno al Gran Consiglio,
corrono quasi vent’anni di relazioni italo- elvetiche, per la cui messa a fuoco nel contesto del gioco politico europeo tra le due guerre non si poteva contare fino a tempi recenti su indagini specifiche e di vasto impianto documentario. L’interesse degli studiosi della politica estera si è polarizzato — beninteso con ottime ragioni — intorno agli assi portanti della collocazione internazionale dell’Italia fascista — quali i rapporti con
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il Terzo Reich, con l’area danubiano- balcanica, con la Gran Bretagna, con la Francia, con gli Stati Uniti, con l’Etiopia — e intorno ai quesiti di fondo e ai modelli interpretativi adottati per ricostruirne le scelte e comprenderle: i nessi e le priorità tra politica interna e politica estera, il revisionismo, la coerenza o improvvisazione di Mussolini diplomatico, la continuità o discontinuità della direttrice imperialista, il colonialismo “straccione”, i miti e la realtà della politica di potenza. In tale vasta tessitura di ricerche i rapporti italo-elvetici, intesi ovviamente nel senso più ampio e non strettamente tecnico e diplomatico del termine, sono rimasti alquanto in ombra, limitandosi per lo più il commento storico alle ricorrenti impennate panitalianiste del duce nei confronti del Canton Ticino o alle campagne di stampa intimidatorie, venate di fermenti irredentistici, orchestrate a più riprese dal regime.
Certo per l’Italia fascista Berna fu un interlocutore di secondaria importanza, ma è pur vero che nel confronto con la confinante democrazia elvetica il peso specifico, per così dire, delle relazioni diplomatiche era accresciuto da un singolare intreccio di interessi e condizionamenti politici, economici e culturali. Basti ricordare che la Svizzera era seconda in Europa solo alla Francia per numero di fuorusciti antifascisti ammessi a godere dello status di perseguitato politico; che, inoltre, essa ospitava nutrite e attive comunità di lavoratori italiani, emigrati tra Otto e Novecento; che l’impatto del fascismo sulla vita politica del cantone di lingua italiana aveva creato e continuò a creare situazioni conflittuali ricche di promettenti prospettive per il regime, ma anche di rischiose incognite; che il movimento dei fasci italiani all’estero vantava appunto in Svizzera titoli di vera e propria primogenitura e che, assorbiti poi, sul finire degli anni venti in una struttura ramificata e rigidamente disciplinata da Roma, i fasci si configurarono come una corposa presenza istituzionale, in
cuneatasi a latere della tradizionale rappresentanza diplomatica nella società svizzera e operante di fatto come una proiezione ideologica e organizzativa del regime fuori dei suoi confini territoriali. Per non dire dei tentativi di imitazione del fascismo avviati in Svizzera e incoraggiati da Roma o della strisciante opera di penetrazione culturale perseguita da riviste pseudo scientifiche e letterarie. A questo sommario quadro di reciproci influssi si aggiunga qualche dato di carattere economico tra i più appariscenti — come la presenza in Italia di operatori svizzeri di grosso calibro in campo industriale, commerciale e finanziario e di capitali svizzeri investiti in vari settori d’attività, come un volume non trascurabile di scambi tra i due paesi o l’importanza strategica dei nodi ferroviari elvetici per i traffici dell’Italia con il centro e nord Europa — e si avrà netta la percezione della varietà di quesiti e problematiche connessi a questo capitolo di storia dell’Europa contemporanea.
A muoversi in questa direzione di indagine sono stati per primi gli studiosi d’oltralpe le cui ricerche, pur privilegiando per lo più l’ottica svizzera, offrono un contributo rilevante per la conoscenza non solo di questo particolare aspetto del confronto internazionale, ma anche di poco esplorate realtà del fascismo, a metà strada, se così si può dire, tra la storia delle istituzioni e quella della politica interna ed estera. Dopo il pionieristico lavoro di Katharina Spindler (trad. it.: La Svizzera e il fascismo italiano 1922-1930, Bellinzona, Casagrande-Milano, Longanesi e Co, 1980) apparso nel 1976 e dedicato agli anni venti, con un primo stimolante sondaggio delle fonti diplomatiche italiane e svizzere e la ricostruzione della fase d’avvio, aggressiva e tumultuosa, dei fasci in Svizzera, sono venute diverse indagini di taglio regionale — ad esempio il saggio di Paola Bernardi-Snozzi sull’irredentismo e filofascismo ticinese, quello di Claude Cantini {Per una storia del fascismo italiano a Lo-
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sauna, “Italia contemporanea”, 1975, n.119) sul fascismo italiano a Losanna e la più recente monografia di Mario Rigonalli {Le Tessin dans les relations entre la Suisse et l ’Italie, 1922-1940, Locamo, Pedrazzini, 1983), anch’essa dedicata al Cantón Ticino e alle relazioni italo-svizzere.
La pubblicazione nei primi anni ottanta di una sezione cospicua dei documenti ufficiali della diplomazia elvetica, nonché la messa a fuoco di personalità significative per le vicende in esame — si pensi al profilo del colonnello Arthur Fonjallaz, fondatore del fascismo svizzero, tracciato da Cantini {Il fa scismo elvetico del colonnello Fonjallaz nel Cantón Ticino, “Archivio storico ticinese”, 1981, n. 86-87) — e la accessibilità dei carteggi privati e semiufficiali di Giuseppe Motta, capo del Dipartimento politico federale fino al 1940, hanno dato ulteriore impulso allo studio di questi temi, che nel vasto e documentato lavoro di Mauro Cerutti, Tra Roma e Berna. La Svizzera italiana nel ventennio fascista, Milano, Angeli, 1986, pp. 528, lire 32.000 (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) trovano una prima organica e persuasiva trattazione. Situato all’incrocio tra storia regionale del Cantón Ticino e storia della Confederazione tout court, tra storia politica del fascismo e dell’antifascismo nella Svizzera italiana e storia delle relazioni diplomatiche tra i due stati confinanti, il volume di Cerutti si fonda su una condividibile ipotesi interpretativa e cioè che il confronto/scontro tra fascismo e antifascismo abbia funzionato come un formidabile “reagente” sul contesto delle istituzioni e della vita politica anzitutto ticinese e di riflesso elvetica. L’arco cronologico considerato è quello grosso modo compreso tra l’avvento del fascismo e la metà degli anni trenta (l’analisi del periodo successivo, dalla guerra d’Etiopia in poi, è rimandato ad un ulteriore studio già annunciato dallo stesso autore). Entro queste coordinate temporali Cerutti ricostruisce mi
nuziosamente le tappe del processo di coinvolgimento e quasi di osmosi politica creatosi tra Italia e Canton Ticino, seguendo l’evoluzione di un dibattito che con l’arrivo dei fuorusciti antifascisti e l’intensificarsi dell’attivismo dei fasci locali si trasforma in aperto conflitto e altera irreversibilmente il clima politico di quegli anni. L’indagine rientra dunque parzialmente anche nella prospettiva dell’“Italia giudicata” , ossia dell’immagine del fascismo all’estero, e, nel caso specifico, dei consensi e dissensi suscitati nello schieramento politico cantonale, nell’opinione pubblica, nel variegato panorama della stampa. Dalla dimensione regionale si passa però di continuo a quella federale, ove i contraccolpi delle vicende ticinesi innescano discussioni parlamentari e interventi diplomatici.
Uno dei risultati dell’analisi di Cerutti è di aver accertato un sensibile scarto tra gli orientamenti della politica federale e di quella ticinese in tema di diritto d’asilo, vero caposaldo del neutralismo democratico della Svizzera moderna, la cui applicazione s’intese a Berna in modo assai più cauto e in misura più selettiva che non a Bellinzona. In questa dimensione federale s’inquadra un tentativo di valutazione della politica di flessibilità praticata nei confronti dell’Italia fascista dal Consiglio federale sotto la guida di Giuseppe Motta: pur senza indulgere ad una interpretazione di tipo personalistico della politica estera svizzera — Cerutti bada a non trascurare la dialettica politica interna del Consiglio federale e a non attribuire al solo Motta la responsabilità di decisioni collegiali di tutto l’esecutivo — viene riconosciuto un ruolo centrale al capo del Dipartimento politico che, ticinese di nascita e culturalmente legato all’Italia, di fatto fu “l’esperto di cose italiane” e, dunque, il primo artefice delle scelte politiche e diplomatiche in questo ambito. La consultazione delle carte Motta permette a Cerutti di illuminare, nelle sue pieghe psicologiche oltre che cultu-
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rali e politiche, la linea perseguita dal capo della diplomazia elvetica: ne emerge un meditato ritratto che coniuga l’inflessibile avversione a qualsivoglia irredentismo con l’autentica simpatia per l’Italia, la coerente difesa dell’“elvetismo” con l’anticomunismo dichiarato, la fede cattolica con l’ammirazione per Mussolini e per molte realizzazioni del regime. Componente essenziale dell’atteggiamento di Motta resta d’altronde — e l’autore non manca di notarlo — la franca opposizione alla versione indigena, svizzera del fascismo: particolare questo illuminante per capire non solo Motta, ma anche uomini di cultura come Francesco Chiesa che, se guardavano con simpatia all’Italia e al fascismo italiano, non per questo approvavano il modello fascista e quindi consentivano a un eventuale suo trapianto in Svizzera.
Nel ripercorrere i momenti salienti della tenace “benevolenza” di Motta verso il fascismo Cerutti ne stigmatizza tuttavia con forza la miopia: a suo parere mancò a Motta la corretta percezione della politica ambivalente, a doppio binario, giocata da Mussolini e dei suoi obiettivi di aggressivo imperialismo nel lungo periodo. La compiacenza di Motta di fronte alle istanze della potente vicina — Cerutti documenta con cura i numerosi casi di attrito, da\V affaire Cesare Rossi al processo Bassanesi, alle espulsioni di Angelo Tonello e poi di Pacciardi, nonché l’intreccio dei servizi segreti italiani in terra elvetica — ebbe secondo l’autore effetti negativi sul clima politico e civile della Confederazione, contribuendo all’indebolimento di quei valori democratici sulla cui buona tenuta, in termini di consenso e di coscienza politica collettiva, la Svizzera giocava parte del suo futuro. “Sebbene piccola — conclude Cerutti — la Svizzera avrebbe avuto tutto da guadagnare in termini di salute delle istituzioni ostentando pubblicamente, con più vigore di quanto non fece, i suoi valori democratici. Ma il governo, con Motta in prima fila, troppo spesso scelse di piegare quei va
lori al dettame diplomatico dei buoni rapporti con Roma; le promesse mussoliniane di amicizia — di cui oggi conosciamo, a posteriori, la scarsa serietà — non meritavano, a nostro parere, un compenso talmente elevato” . Nel giudizio ci paiono fuse considerazioni di ordine etico e politico e valutazioni di carattere storico e diplomatico. Su questo secondo piano qualche precisazione sarebbe opportuna. Varrebbe la pena di domandarsi, ad esempio, se non convenga, specie per il periodo considerato, confrontare il savoir faire di Motta e persino la sua disponibilità al compromesso con le manifestazioni di stima, le larghe aperture di credito, le simpatie che da tanti leader del mondo democratico, europeo e non, vennero al regime. Anche senza parlare, come fece Salvemini, di “complicità” francesi e inglesi, va detto che non il solo Motta sentì la necessità di non rompere i ponti con Roma e di evitare che il confronto con la vicina dittatura assumesse il carattere di uno scontro ideologico tra opposti modelli politici e istituzionali. La posta in gioco era alta — la pace e la sicurezza — e diffusa fu la convinzione, almeno fino al 1935 e oltre, che i discorsi incendiari di Mussolini si potessero esorcizzare con concessioni di modesta entità. E del resto la storia del successo del fascismo e del nazionalsocialismo non è stata letta anche come la storia della loro fatale sottovalutazione, prima da parte degli interlocutori politici all’interno, poi nel contesto post Versailles della politica internazionale?
La flessibilità elvetica ci pare rientrare, insomma, in un clima e in una casistica internazionale di pragmatico opportunismo, che a posteriori è facile condannare, ma che sul piano storico merita una disamina articolata e assai cauta. Per tale articolato bilancio storico complessivo sulla politica di Motta ci pare manchino ancora molti elementi: a cominciare da una analisi degli effettivi rapporti di forza economici e militari, oltre che strettamente politici, esistenti tra i due vici
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ni, sulla cui base si possa verificare la praticabilità o meno di una linea di maggior rigore verso l’Italia e stimarne realisticamente i costi in termini di pace e di sicurezza. Per limitarci al solo settore economico sarebbe utile, ad esempio, disporre di una mappa degli interessi economici svizzeri in Italia, così come di un quadro dettagliato dell’import- export italo-elvetico, specie nel settore dell’industria meccanica e di precisione per applicazioni militari. Un primo assaggio di questi dati è proposto da Rigonalli nel suo citato studio, ma rimane ancora spazio per utili approfondimenti.
Tornando alla stimolante indagine di Ce- rutti resta da sottolineare il rilevante contributo ch’essa offre alla conoscenza di due realtà quasi inesplorate del fascismo fuori d’Italia: da un lato i fasci italiani nel Canton Ticino, dall’altro la nascita, evoluzione e crisi di un autoctono partito fascista svizzero, cui Mussolini non negò aiuti materiali e nemmeno una sorta di investitura politica. Mettendo a frutto un suggerimento di Enzo Santarelli (Intorno ai fasci italiani all’estero, in Fascismo e neofascismo. Studi e problemi di ricerca, Roma, Editori Riuniti, 1974), che riconosceva nell’“ambiguo, bicipite o pluralistico” movimento dei fasci italiani all’estero un elemento “peculiare del fascismo italiano fra gli altri fascismi europei” e come tale storicamente rilevante sia sotto il profilo dell’impostazione propagandistica che sotto quello dell’organizzazione “di massa”, Cerutti dedica un’analisi puntuale all’attività dei fasci italiani nel Canton Ticino, mettendone in luce il raccordo con la rete spionistica e informativa organizzata dalla polizia politica italiana e con le mute- voli esigenze del regime. La consultazione incrociata delle fonti archivistiche italiane e di quelle elvetiche, arricchita dallo spoglio della stampa ticinese e italiana, permette all’autore di organizzare in un quadro preciso e coerente la storia interna ed esterna di que
sta istituzione e nel contempo di studiarne i fiancheggiatori e i coraggiosi avversari: dal partito socialista ticinese, schierato con Guglielmo Canevascini inequivocabilmente dalla parte degli antifascisti, alle forze liberal- radicali, che proprio sul tema della solidarietà col fuoruscitismo maturarono le ragioni di una drastica scissione, dai cedimenti filo- fascisti della destra conservatrice alle vigorose campagne di stampa contro il regime, in parte ispirate dagli esuli italiani. Quanto al fascismo autoctono, Cerutti riesce a collegarne l’evoluzione, da un lato, agli appoggi venuti da Roma e voluti espressamente da Mussolini, dall’altro alle perplessità che la diplomazia italiana in Svizzera manifestò soprattutto in merito alla discutibile scelta di Fonjallaz come alfiere del movimento e alla malriposta fiducia nelle sue capacità politiche.
Le diverse vie battute dalla politica estera fascista risultano così recuperate con acume nella loro interdipendenza, a conferma del fatto che, come efficacemente scrisse Giorgio Rumi {Alle origini della politica estera fascista 1918-1923, Bari, Laterza, 1968) “il ‘regno d’Italia’ e ‘l’Italia fascista’ convivono anche se non senza contrasti, e Mussolini, volta a volta, gioca l’una o l’altra carta” . Più che parlare di slealtà o di cinismo, come talvolta capita di fare a Cerutti — ci pare il caso di riconoscere in questa prassi il segno peculiare della strategia mussoliniana, non priva di una sua logica interna, anche se eversiva delle consuetudini diplomatiche. È insomma una vasta tastiera di strumenti, che Mussolini — ma varrebbe la pena di accertare cosa ne pensavano le altre componenti dell’establishment fascista — suona nei rapporti con la Svizzera, muovendosi con duttilità tra diversi registri: la routine diplomatica non esclude l’intrigo, il conclamato pacifismo e le proteste d’amicizia non pregiudicano la permanente disponibilità all’avventura.
Elisa Signori
Rassegna bibliografica 155
Il “lungo Ottocento” di Eric Hobsbawmdi Massimo Legnani
Che il diciannovesimo secolo rappresenti l’asse centrale delle produzione storiografica di Eric J. Hobsbawm è un dato del tutto evidente anche al lettore italiano, che ha potuto via via disporre (per una volta con notevole tempestività) della traduzione dei principali lavori dello storico inglese: da I ribelli a / banditi; dagli Studi di storia del movimento operaio a La rivoluzione industriale e l’Impero-, dai contributi inseriti nella Storia del marxismo (tutti pubblicati da Einaudi a partire dal 1966) a Rivoluzione industriale e rivolta nelle campagne (scritto in collaborazione con George Rudé, Roma, Editori Riuniti, 1973), alla recente raccolta di saggi su Lavoro, cultura e mentalità nella società industriale (Roma-Bari, Laterza, 1986). Agli interessi specifici che questi titoli suggeriscono Hobsbawm ha accompagnato, sin quasi dagli inizi, un disegno di rappresentazione complessiva dell’Ottocento, avviato nel 1962 da The Age o f Revolution.Europe 1789- 1848 (Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963), proseguito nel 1975 con The Age o f Capital 1848-1875 {Il trionfo della borghesia 1848-1875, Ro- ma-Bari, Laterza, 1976) e concluso, nel 1987, da questo The Age o f Empire 1875- 1914 {L’età degli Imperi 1875-1914, Roma-Bari, Laterza, 1987). Distribuiti su un quarto di secolo, i tre volumi obbediscono ad una comune formula di haute vulgarisa- tion, il cui “lettore ideale — aveva scritto Hobsbawm nel 1962 — è costituito da queirindividuo teorico che è il cittadino intelligente e istruito, il quale non è soltanto curioso di conoscere il passato, ma desidera comprendere come e perché il mondo è diventato quello che è oggi e quale è la meta verso cui si avvia”. Ribadita nella prefazione all’ultimo volume, questa destinazione meriterebbe più di un semplice richiamo in
rapporto alle assai meno positive valenze che le finalità divulgative assumono nella media della produzione editoriale italiana. Nel nostro caso, essa si carica di un ulteriore significato legandosi a ciò che l’autore definisce come la “zona crepuscolare” collocata fra storia e memoria, “fra il passato come archivio generale aperto all’indagine relativamente spassionata, e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali” (p. 5).
Avvicinandosi, e poi decisamente inoltrandosi nel ventesimo secolo, l’intreccio tra conoscenza ed evocazione si complica attraverso il gioco delle prospettive esistenziali e generazionali. A ragione, in tale prospettiva, Hobsbawm può indicare nell’agosto 1914 “una delle più incontestabili ‘cesure naturali’ della storia” (p. 9), sulla quale l’imponente ed ininterrotto accumulo di letteratura raramente sfugge al dilemma tra la celebrazione della belle époque come luogo della nostalgia o come presa di distanza dal capitolo conclusivo del passato. In ogni caso, si tratta di attitudini che sarebbe arduo ricondurre a pure categorie storiografiche; e, si potrebbe aggiungere (Hobsbawm vi dedica un rapido cenno nell’epilogo), non separabili dal senso di precarietà del futuro che accompagna questa fine Novecento. Il fatto stesso che il 1914 sia oggetto di interesse costante da parte dei mass media ne accresce, nel senso comune, le valenze simboliche e serve a propagarne le suggestioni.
A differenza dei primi due, questo terzo volume presenta una intelaiatura meno nettamente squadrata. Allo schema fondato sulla successione racconto-analisi subentra una articolazione più fluida, che alterna continuamente i due piani e nella quale si può vedere riflesso lo sforzo di aderire ad una materia più complessa, contraddittoria e sfuggente. Se fino al 1875 si era trattato di
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delineare l’ascesa del potere borghese facendo spazio anche a incertezze e rallentamenti, ma tenendo ferma la sostanziale linearità e continuità del processo (interpretato sulla base di prevalenti categorie marxiste, che nell’instaurazione dei regimi liberali scorgono la sanzione di interessi già largamente affermatisi in campo economico), a partire dalla ‘grande depressione’ l’obiettivo che Hobsbawm si prefigge è di dar conto, parallelamente, e della ulteriore estensione di quel potere e del manifestarsi, al suo interno, di fattori che ne minano progressivamente la solidità. Tra i tanti “paradossi” di cui l’età imperiale costituisce un elenco “interminabile” , il maggiore, scrive l’autore, è proprio “quello del mondo e della società del liberalismo borghese avanzante verso la ‘strana morte’ [...] che lo coglie proprio quando esso raggiunge il suo apogeo” (p. 13). E d’altro canto, i modi del declino, dapprima quasi impercettibili (anzi, ammantati dei segni opposti: T “apogeo”), poi improvvisamente brutali (e qui l’agosto 1914 torna per vie diverse a convalidare quel carattere di spartiacque epocale prima suggerito dalla memoria) pongono nella giusta luce la vittima peculiare della crisi, la “società liberale borghese” , appunto: “questo libro — leggiamo ancora — studia il momento storico in cui diventò chiaro che la società e la civiltà create da e per la borghesia liberale occidentale non rappresentavano la forma permanente del mondo industriale moderno, ma solo una fase del suo sviluppo iniziale” (p. 15). Così si evidenzia fino in fondo l’asse portante dell’opera e la nozione stessa di “lungo Ottocento” come fase che trae la propria omogeneità dalla centralità economica, politica, culturale della classe borghese.
Gli anni 1880-1914 sono quelli in cui tra slanci, adattamenti, prime ritirate, si completa l’edificio di cui i decenni precedenti avevano posto le fondamenta, dall’omogeneizzazione del quadro mondiale agli interessi dei ceti dominanti delle grandi potenze
europee allo sgretolamento della antica base agraria accelerato dalla ‘grande depressione’, dalla comparsa del capitalismo oligopolistico alla ‘democratizzazione’ dei sistemi politici, dalla diffusione dei movimenti sindacali e socialisti alla loro crescente assimilazione ai contesti nazionali grazie agli strumenti di integrazione delle incipienti società di massa (l’esercito, la scuola), ma grazie anche alla pervasività delle dottrine imperialistiche, nazionalistiche e razziste. “Fu un’era — in definitiva — nonostante le apparenze, di crescente stabilità sociale nella zona delle economie industriali avanzate, un’era che fornì le esigue schiere di uomini in grado, con quasi sprezzante facilità, di conquistare e governare imperi vastissimi” (p. 13). Il quadro sociale che Hobsbawm muove entro questi confini è spesso assai vivo e ricco di scambi tra i suoi numerosi versanti. La borghesia che ora asseconda, ora manipola la ‘democratizzazione’ (p. Ili); che accentua gli spazi della vita privata e al tempo stesso paga uno dei prezzi delle trasformazioni vedendo crescere il distacco dai figli (e soprattutto dalle figlie, tra le quali germogliano i primi movimenti emancipazionisti) (pp. 193-196 e 233); che accompagna i propri agi con una crescente inquietudine sociale e spirituale (p. 215). Il proletariato che riflette, soprattutto attraverso gli orientamenti sindacali, modificazioni dell’assetto produttivo, tradizioni nazionali e regionali, identità culturali condizionate dalla urbanizzazione (pp. 141-151). I ceti intermedi, e più particolarmente quelli di ascendenza artigiana, che offrono il principale terreno di consenso al nuovo radicalismo nazionalistico su cui si innesta l’antisemitismo (pp. 180-183). Sono solo alcuni accenni che sottolineano l’attenzione che il libro dedica all’immagine (spesso alla autorappresentazione) dei diversi attori sociali, alla percezione che essi hanno del cambiamento, alle reazioni che manifestano. In questo senso la capacità di cogliere certi aspetti della ‘massificazione’ —
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siano essi la diffusione della stampa e degli spettacoli oppure le applicazioni tecnologiche alla organizzazione della vita domestica o ancora la diffusione della pratica sportiva a livello popolare o nel coté alto-borghese — si salda alle informazioni sull’andamento dei salari o sulla scolarizzazione e offre indicatori essenziali per fissare i ritmi della vita collettiva. Così come, su altro piano, riesce particolarmente incisivo il discorso sul mutamento scientifico e artistico, tanto per quanto riguarda il “divorzio fra scienza e intuizione” esemplificato attraverso le trasformazioni della matematica e della fisica (pp. 281-288), quanto per la frattura, che prende corpo con le avanguardie novecentesche, “fra ‘modernità’ politica e artistica” (p. 263). Il senso di precarietà che subentra alle certezze del progresso minando le basi dell’ideologia liberale emerge più nettamente, anche se indirettamente, in questo ambito che non nel campo delle scienze sociali, dove pure l’irruzione delle masse determina una inquieta attenzione all’“irrazionale”.
Tuttavia le maglie del discorso tendono ad allargarsi quando si spingono sul terreno della politica e della gestione del potere. Allora il predominio o quantomeno la connotazione borghese restano in qualche modo implicite, così da scolorire proprio un fenomeno centrale dell’età imperialistica, quello che lo stesso Hobsbawm definisce “crescente convergenza fra politica ed economia, cioè ruolo crescente del governo e del settore pubblico” (p. 63). Ceti parlamentari e ministeriali, apparati burocratici e strumenti di intervento, eserciti e diplomazie restano sullo sfondo, rendendo talvolta sfuggente proprio quel livello che fa da catalizzatore della fiducia e della incertezza, del senso di pericolo e delle convinzioni di tenuta. E resta sullo sfondo una più ampia analisi dei sistemi di alleanza, politica e sociale, che si scompongono e ricompongono alla svolta del secolo. L’attribuzione alla borghesia del ruolo di assoluta protagonista riposa (aven
do l’occhio anche ai precedenti volumi) su solide valutazioni, ma abbisogna di verifiche ed articolazioni che qui non sono quasi mai spinte al centro della scena.
I limiti di questa dimensione del discorso diventano soprattutto avvertibili nell’ultima parte del libro, quando lo storico inglese traccia la parabola verso la guerra. Mentre da un lato si moltiplicano i segni dell’impe- rialismo europeo sintetizzati dalla massima espansione dei sistemi coloniali (“non c’è mai stato nella storia né ci sarà mai più un secolo così europeo”, p. 22), dall’altro si appalesano, attraverso gli squilibri delle gerarchie che quell’imperialismo instaura (e Hobsbawm è molto efficace quando richiama le basi economiche del colonialismo, la mobilitazione culturale per affermare la superiorità biologica dei bianchi europei, gli sforzi di “occidentalizzazione” delle élites indigene), dall’altro si evidenziano segni di tensione e via via di destabilizzazione, cui le grandi potenze reagiscono accentuando la rigidità della spartizione di mercati ed aree strategiche, incrementando in modo irreversibile la corsa agli armamenti. Alle manifestazioni della crisi incipiente sono dedicati i capitoli XII e XIII, che delineano la mappa della instabilità procedendo per cerchi concentrici, dagli imperi persiano, cinese e ottomano al cuore del sistema europeo, dove il maturare per nulla rettilineo di due blocchi contrapposti (la cui genesi, dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa, copre l’intero periodo considerato) simboleggia la ‘deriva’ del continente e soprattutto il nodo esplosivo rappresentato dagli anelli deboli di quel sistema, dagli stati nei quali la pressione della politica interna su quella estera raggiunge limiti intollerabili. L’esempio estremo dell’Austria-Un- gheria, la quale “non poteva far altro che puntare la sua esistenza nel gioco d’azzardo militare, perché senza di esso sembrava condannata” (p. 368) conferma senza dubbio quell’intreccio di fattori economici e nazionali che le pagine di Hobsbawm propongo
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no, ma introduce anche varianti non diretta- mente riconducibili al declino della “società e civiltà borghese” , varianti che riportano piuttosto in primo piano una specificità continentale che, variamente sfumata, vede il potere borghese coesistere con componenti tradizionali della società e dello stato. E se di tramonto del mondo borghese occorre parlare, è in una accezione europea sulla quale la storiografia non ha ancora prodotto una valutazione complessiva (anche in corre
lazione all’ascesa, alPinterno come all’esterno, del capitalismo nordamericano). La “strana morte” che trova il proprio riferimento simbolico nell’agosto 1914 resta un problema per molti aspetti aperto e questo libro di Hobsbawm fornisce un contributo di assoluto rilievo al suo approfondimento. Anche per capire quale eredità il “lungo Ottocento” lasci alle crisi e trasformazioni del nostro secolo.
Massimo Legnani
Antifascismo e resistenza
Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 110, lire 10.000; Discorsi al Parlamento europeo, 1976-1986, a cura di Pier Virgilio Dastoli, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 390, lire 25.000.
Nell’arco di meno di un anno dalla scomparsa di Altiero Spinelli (23 maggio 1986), con una tempestività che depone per l’attenzione e la sollecitudine affettuose e insieme dolenti dei suoi ultimi collaboratori, sono apparsi sia il seguito, pur parziale e frammentario, della sua autobiografia Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia (a cura di Edmondo Paolini), sia la raccolta dei suoi Discorsi al Parlamento europeo, 1976-1986 (a cura di Pier Virgilio Dastoli), mentre si annunziano, a parte, gli interventi svolti in precedenza come deputato nazionale. Il frammento autobiografico è relativo agli anni tra l’estate 1943 e
quella del 1946, e riguarda, dopo il ritorno a casa, la fondazione a Milano del Movimento federalista europeo, l’intreccio con i casi più personali (il ritrovarsi con Ursula, la paternità), quindi il difficile lavoro di proselitismo e di consolidamento in Svizzera e Francia, l’intermezzo azionista ancora a Milano — segnato dall’incontro con Pani — e l’abbandono della scena politica, la malinconica “brughiera nazionale” su cui si va ormai stendendo la cappa della restaurazione più piatta. Si tratta in pratica del triennio cruciale con cui si compie la parabola culturale e politica avviata nel confino di Ventote- ne, culminante nella elaborazione del Manifesto, assieme a Eugenio Colorni e soprattutto a Ernesto Rossi, documento teorico e programmatico di base delle idee federaliste, accompagnato da saggi di approfondimento e seguito poi dalle Tesi e dalle Direttive di lavoro. Il Manifesto, a sua volta, segna il punto di snodo nella vicenda Spinelli e la svolta esistenziale, oltre che intellettuale e politica, nella sua vita. Come è noto
— ed egli stesso ne ha del resto lasciato corposa memoria nella prima parte dell’autobiografia, pubblicata nel 1984 (Come ho tentato di diventare saggio, Bologna, Il Mulino) e sottotitolata emblematicamente Io, Ulisse— Spinelli matura giovanissimo l’adesione al Pei verso cui10 sospinge non già l’ansia di giustizia sociale né il bisogno-dovere di disciplina, quanto piuttosto la liturgia e la religione del potere, l’impegno quasi sacerdotale nell’obbedire per comandare e creare, in forza di ciò, la società nuova. Accanto alla professione di rivoluzionario, da subito dopo la grande guerra, è viva in lui la sensibilità alla dimensione e all’essenza sovranazionale dei problemi. Di tali capisaldi, è il secondo a resistere nel tempo al continuo rovello della mente ‘prigioniera’ di un corpo privato della libertà per oltre sedici anni e che alla Libertà non intenderà però sacrificare anche11 diritto alle metamorfosi e alle avventure del pensiero e del proprio io morale, che gli saranno costantemente rimproverate e gli alieneranno l’amicizia
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o anche sola la considerazione di uomini tanto diversi tra loro come, ad esempio, Emilio Lus- su e Riccardo Bauer. L’uomo che ha teorizzato per sé la tensione continua alla ricerca, come Ulisse, appunto, e che della propria personalità e attitudine speculativa si esprime in termini di campi psichici di forze, abbandona insomma il comunismo, ma non per questo interrompe l’inesauribile sfida a rimettere in discussione l’esistente, che costantemente lo spinge al bisogno di azione e di protagonismo, ad inseguire una ‘grande idea’, lavorare a un grande disegno nuovo. Di qui, e dal convincimento sempre più profondo che il futuro può essere possibile solo sulle ceneri degli stati nazionali e delle corrispondenti logiche di potenza, la vigorosa e irruente, a tratti, rielaborazione del federalismo tornato in circolazione in Inghilterra fra le due guerre mondiali. Prende corpo su queste basi il ‘sogno’ dell’unità europea, nutrito, peraltro, della sincera e ‘necessaria’ fede antifascista e resistenziale.
Inizia anche, fra il 1943 e il 1945, la seconda parte della sua intensissima esistenza, articolata in sei “cicli di azioni fondate ciascuna su un’ipotesi diversa” — come egli stesso scrive — e corrispondenti a tappe della costruzione europea, ma insieme ad altrettante ‘avventure’ del proprio spirito e del proprio intelletto. In esse, il “linguaggio diurno” dell’agire quotidiano e il “linguaggio notturno” dell’insonne studio e della riflessione, nonché della programmazione, tendono a combinarsi.
E invero, i quasi dieci anni di attività parlamentare europea, attraverso due elezioni successive come candidato indipendente nelle liste del mai dimenticato Pei, si svolgono ancora sotto il segno di questa sua più generale avventura politica. A giudizio di Dastoli, Spinelli “ha certamente segnato [...] la storia e l’avvenire del Parlamento europeo, prima Assemblea dotata di legittimità democratica a livello europeo” (Discorsi, p. 16). In pratica fino alla vigilia della morte, compiutasi “casualmente, così come una candela si spegne casualmente quando un soffio porta via la sua fiamma o quando il lucignolo si annega nella cera fusa che ne circonda la base” — come egli stesso aveva anticipato molti anni innanzi — ha portato avanti un progetto originale e coraggioso per l’Europa: riformare i trattati di Roma per giungere a poteri sovranazionali effettivi, facendo leva sul parlamento del 1979, eletto finalmente a suffragio diretto. Bloccata tale strategia dalle resistenze della Commissione e del Consiglio, “il lupo battuto da avversari più potenti, coperto di non poche ferite, ed ora di nuovo solitario” (La goccia e la roccia, p. 94) non si arrende e lancia una nuova, ennesima parola d’ordine — mandato costituente per il prossimo parlamento europeo e referendum per l’Europa — che ha assunto ormai il valore di un testamento politico.
Guido D’Agostino
Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, Roma-Bari-Milano, Ca- riplo-Laterza, 1987, pp. 296, lire 20.000.
Quello di Riccardo Bauer (1896-1982) è un percorso di vita per tanti versi esemplare che egli ha provato a raccontare — cedendo già avanti negli anni alle sollecitazioni di amici ed estimatori, primo fra tutti Leo Va- liani — nel volume appena uscito, postumo, per cura congiunta della Cariplo e delle edizioni La- terza. Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, così come si presenta ai lettori, è in effetti, ancora, frutto di curatori amorosi e diligenti come Piero Malvezzi e Mario Melino, “educatori che avvertono l’importanza della storia come strumento di formazione umana, civile e culturale” , e reca un’attenta, partecipata presentazione di Arturo Colombo, in diverse occasioni misuratosi già con le idee e con la cultura politica di Bauer da lui messe in chiara e colta evidenza. A tanti, special- mente tra i lettori più giovani, il nome del protagonista di queste memorie antifasciste dice poco o nulla — supponiamo — anche per la modestia e la reticenza che ne hanno caratterizzato personalità e volontà. Eppure si tratta di un uomo che di un alto magistero civile e politico ha fatto la ragione della sua esistenza e che ha pagato la propria intransigenza e fedeltà alla religione, laicamente intesa, della libertà con durissimi anni di persecuzione, di carcere e di confino durante la dittatura fascista, da lui con ogni mezzo avversata.
Appartenente alla generazione di intellettuali e di militanti antifascisti del calibro di Calamandrei, Gobetti, La Malfa, Lussu, Parri, i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli; formatosi alla Bocconi e immer
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so e partecipe dell’ambiente riformatore e civile della Milano dei primissimi decenni del secolo; interventista internazionalista e valoroso combattente nella grande guerra, Riccardo Bauer elabora, di fronte alle prime avvisaglie delle inquietudini del dopoguerra e più tardi al palesarsi del fascismo, la propria concezione etica e politica a cui consacrerà l’intera vita. Si tratta di una originale ‘pedagogia della libertà’ in cui è fortissima l’influenza crociana, ma della libertà intesa compiutamente come processo di liberazione e, in quanto tale, egualitaria e nemica così di ogni condizione di privilegio materiale, come di qualsiasi situazione di compromesso culturale e ideologico. L’uomo è tuttavia parimenti sensibile ai dati materiali e, si direbbe, scientifici del reale; per questa via è dunque tutt’altro che inconsapevole dell’istanza sociale, e persino socialista, ma nell’ambito di una visione interamente antimarxista. È qui, certo, una discriminante precisa della sua persona e del suo stesso impegno militante antifascista che lo porta prima al fianco del Gobetti della “rivoluzione liberale” e poi all’adesione al movimento rosselliano di Giustizia e Libertà. Da tale adesione, e in ragione di essa, molti punti fermi, si deve ripeterlo, di ordine morale, politico e culturale. Politica e cultura, in particolare, binomio inscindibile, se è vero — come per Bauer è sempre e inflessibilmente stato — che la prima vale ad emendare dove possibile e cambiare quanto è necessario mutare; la seconda, ad impedire alla prima di rendersi pratica di manipolazioni dentro e attorno alla sfera del potere. Non solo,
ma dallo straordinario crogiuolo di forze e di idee, anche diverse, rappresentato da Giustizia e Libertà, gli provengono pure due elementi teorici e pratici, apparentemente contraddittori: la condanna netta del “preconcetto geometrico antagonismo di categorie arbitrariamente stabilite” quale egli individua nel principio marxista della lotta di classe, da un lato, e l’apprezzamento cosciente e complesso del fenomeno rivoluzionario, a cominciare dall’esemplare 1917 in Russia. Si comprendono, alla luce di ciò, i suoi severi giudizi sul primo dopoguerra e sull’A- ventino come rivoluzioni mancate perché giocate tutte o sul terreno sociale o su quello politico-istituzionale, ma senza incontro e senza sintesi fra i diversi ambiti, né suggellate dalla superiore mediazione culturale e civile. Ed anche, per certi versi, si capisce come simili valutazioni tornino anche nel caso della Resistenza — cui pure Bauer ha dato tanto — in cui egli vede, correttamente peraltro, ‘precipitare’ il corso lungo della storia italiana contemporanea dall’U- nità in poi, con il suo fardello di reazione politica e di ingiustizia sociale che ha alimentato costantemente le basi storiche di “servitù” e di ignoranza o analfabetismo politici del popolo. La ribellione popolare al fascismo di Salò, la lotta partigiana che conquista strati e ceti tradizionalmente lontani, strette dalla furia delle contingenze gravissime non sedimentano tuttavia, a suo giudizio, spessore politico sufficiente a innescare un processo di segno inverso e altrettanto lungo. Ne è riprova il secondo dopoguerra, con le sue lacerazioni, le sue insanabili di
varicazioni fra conservazione e progresso, le dure conseguenze sul sistema politico italiano, bloccato nella sterile contrapposizione fra De e Pei, fra opportunismi e arroganze.
Le lotte e i ricordi di Bauer si arrestano all’intensa e incisiva esperienza nel Cln, sia militare che civile, e quindi a quella svolta durante il governo Parri e nel Partito d’Azione fino al suo “fallimento” . E proprio a proposito del partito azionista ritornano le osservazioni tipiche in Bauer sull’effetto disgregante e perdente della mancata sintesi tra ‘anima’ laica e liberale e quella socialista; il suo esempio, la sua testimonianza di vita, il suo impegno non sono, evidentemente, bastati a scongiurarlo, allora, inducendolo al ritiro dalla vita politica attiva. Non certo da sconfitto, però, se ciò doveva riportarlo, in una sorta di emblematico ritorno alle origini, a riprendere l’antico ‘ufficio’ presso la Società Umanitaria, forse la più tipica istituzione laica, civile e ‘socialista’ milanese e la più consona all’educatore e al maestro che erano profondamente radicati in lui.
Nel volume ci sono, evidentemente, molte altre cose: l’incontro con uomini e cose, l’attraversare le più disparate e impegnative situazioni, con coraggio, fermezza e orgoglio della propria “schiena dritta” . Non facilmente dimenticabili, pur tra diverse altre, sono le secche, inappellabili prese di distanza nei confronti di personaggi come Giovanni Ansaldo, o come lo stesso Spinelli, o il colonnello italo-americano Poletti, ma anche di comportamenti e azioni di leader politici come Togliatti, di capi religiosi, di giudici e po
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liziotti asserviti al ‘regime’. Con lo stesso impeto, però, è pronto pure a riconoscere, nella ignoranza e nella incultura politica dei più — che assai lo angustiano — i piccoli e i grandi tesori di umanità, di intelligenza e di dignità ovunque si manifestino.
Una bella lezione, insomma, quella di Bauer, dai cui principi teorici ispiratori di fondo si può certamente dissentire (e ne dissentivano senz’altro i giovani milanesi che nel 1968 lo contestarono duramente), senza però che si possa legittimamente disconoscerla nel suo grandissimo valore umano e morale.
Guido D’Agostino
Franco Invernici, L ’alternativa di “Giustizia e Libertà”. Economia e politica nei progetti del gruppo di Carlo Rosselli, Milano, Angeli, 1987, pp. 204, lire 20.000.
“Sconfitti, non abbiamo lo stato d’animo dei vinti, non siamo dei rassegnati. Tutt’altro. Comincia oggi la nostra vera giornata. Siamo degli ottimisti, perché sentiamo che il fondo dell’abisso fu toccato ormai da tempo e che la disfatta è diventata il pegno di una lotta storica che vale davvero la pena di essere vissuta, per la quale è bello sacrificarsi, di una lotta che finalmente porta in prima linea quei problemi supremi che costringeranno il popolo italiano al suo tirocinio di popolo moderno” .
Ci sono in queste righe, scritte da Carlo Rosselli a soli 27 anni, accanto ai segni inconfondibili del suo carattere intransi
gente e irriducibile, le premesse e l’esigenza di un progetto di alternativa politica, sociale ed economica che di lì a poco assumerà contorni sempre più definiti.
Nella stretta coesione fra pensiero e azione che caratterizzerà tutta la sua vita, Rosselli aveva già alle sue spalle, in quel momento, una storia importante. Collaboratore de “La Riforma Sociale” di Einaudi, animatore del “Non Mollare” e di “Quarto Stato” , egli aveva saputo esemplarmente impersonare l’oppositore militante al fascismo e, insieme, l’intellettuale impegnato ad avviare una coraggiosa chiarificazione ideologica sul socialismo, i suoi caratteri, le sue finalità.
Proprio da qui prende le mosse Franco Invernici nel suo bel saggio L ’alternativa di “Giustizia e Libertà". In bilico fra la ricostruzione storica vera e propria e gli evidenti interessi per gli studi di filosofia politica, Invernici pone al centro della sua analisi quel rapporto fra economia e politica che tanta parte ha nel pensiero di Rosselli prima e, poi, nell’animato e spesso aspro dibattito dentro e fuori Gl. Quel che ne esce è una vera e propria foto di gruppo che va ad aggiungersi e ad integrarsi, con apporto indubbiamente originale, alla vasta e importante bibliografia prodotta negli ultimi anni sull’argomento (e che l’autore dimostra di ben padroneggiare).
Se infatti, nel nostro caso, si potrebbe pensare a prima vista a una rilettura e a una ripresa di temi già ampiamente noti e discussi, merito di Invernici è senz’altro quello di proporci, attraverso un attento lavoro di
scavo, una sorta di acuta biografia intellettuale di Rosselli e, in parte almeno, del gruppo di cui fino all’ultimo è rimasto leader incontrastato.
Dalla tesi di laurea (con cui Rosselli partecipa, con la passione consueta, al dibattito del primo dopoguerra) agli articoli di polemica politica del 1924- 1926, dalla critica e autocritica del “Quarto Stato” alle tesi del Socialismo liberale, dalla nascita del movimento ai “Quaderni” di Gl, l’autore va alla ricerca degli elementi di fondo di un progetto politico che pur tra velleitarismi e incertezze, fra accese polemiche e aspirazioni teoriche spesso accompagnate da scarso rigore scientifico, non manca ancora oggi di stupire per la modernità e la forza anticipatrice di tante intuizioni, molte delle quali troveranno puntuale riscontro nell’evoluzione economica postbellica. Pensiamo soltanto ad alcuni aspetti — fra quelli messi lucidamente in evidenza da Invernici — quali la proposta di un’economia mista, dove l’iniziativa privata dovrebbe convivere con l’intervento statale, oppure al significato profondo che viene ad assumere l’ideologia democratica sia in prospettiva italiana che europea e federalista o ancora l’intuizione della centralità, nel moderno sviluppo industriale, di problemi come quelli della fabbricazione in serie, del decentramento dell’industria, del fordismo come organizzazione della produzione, delle relazioni industriali, del ruolo delle leghe e dei sindacati.
Se Invernici, dunque, cerca di individuare nel pensiero di Rosselli e poi nel programma di
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Gl un nucleo più squisitamente economico, non può però esimersi dal dover riconoscere che, essendo per Rosselli “l’economia più che un’ipotesi astratta un aspetto della politica concreta”, proprio il nesso politica-economia diventa essenziale per cogliere il respiro di una vera e propria progettualità antifascista che accanto a un riesame spregiudicato e fecondo delle principali linee dottrinarie (prima fra tutte, l’aspirazione a superare il dualismo liberalismo-socialismo alla luce di un confronto anziché di un irriducibile e pregiudiziale antagonismo) indichi anche strumenti di intervento e istituti giuridico-e- conomici idonei. Se è vero — sottolinea Invernici — che risulterebbe quanto mai disagevole rappresentare l’andamento delle teorie economiche gielliste “secondo una linea di sviluppo di qualche regolarità” è altrettanto vero che “Rosselli e Gl considerano l’impossibilità di opporsi al fascismo semplice- mente basandosi su una pregiudiziale classista” . Per questo avvertono l’urgenza di esprimere una proposta rigorosamente coordinata: “togliere il movimento socialista dagli stereotipi e dagli immobilismi, riconoscere la valenza politica e sociale dei ceti medi e della borghesia non fascistizzata, proporre un piano di economia mista, porre allo stesso livello, in vista dell’alleanza, proletariato e ceti medi” .
Per ricostruire questa proposta Invernici sceglie di far parlare direttamente i documenti ripercorrendo — lo sottolinea già Arturo Colombo nella densa introduzione al volume — un po’ tutta la produzione giellista
in una minuziosità di analisi fatta di citazioni e raffronti comparativi. Anche se l’agilità della lettura talvolta ne soffre un poco, non si può non convenire che l’approfondimento condotto sui testi è tale da consentire all’autore di offrirci in sede di valutazione critica ben più di un’indicazione importante.
Basti dire delle acute note sull’influenza del socialismo inglese, belga e francese sul pensiero di Rosselli, delle pagine dedicate alla riflessione sul tema del liberismo, della liquidazione del determinismo marxista, dell’alleanza proletariato-ceto medio nel processo di trasformazione socialista della società e per finire, proprio in sede di conclusione, le pagine dedicate al rapporto élites-masse e alla valenza propulsiva e democratica che Rosselli dà all’elitismo rispetto alla funzione storica e conservatrice ad esso comunemente assegnata.
Un progetto, quello del gruppo Rosselli, in cui si fondono, dunque, teoria, politica, economia e che conserva inalterato tutto il suo fascino, per il forte contenuto etico, anche dopo mezzo secolo, nonostante molti degli enunciati abbiano talvolta valore più sul piano dei buoni propositi e della tensione morale, appunto, che nella realtà.
Del resto, come sottolinea acutamente Invernici, “Rosselli ha sempre intravisto soluzioni più proiettate verso il futuro che adattabili alla contingenza. Se da un punto di vista politico è facile tacciarlo di utopia, da un altro, da quello ideologico, è doveroso riconoscergli di aver suggerito ipotesi che nel tempo si sono rivelate quanto meno profetiche e con le quali le gran
di organizzazioni di sinistra (persino europee) si sono trovate a fare i conti, addirittura a decenni di distanza” .
Pierangelo Lombardi
Le formazioni “M atteotti” nella lotta di liberazione, a cura di Marco Brunazzi e Agostino Conti, Cuneo, L’Arciere, 1986, pp. 150, lire 14.000.
Il convegno di cui si pubblicano gli atti, tenuto a Torino nel marzo 1985 ed organizzato dall’Associazione Partigiani Matteotti e dal Gruppo consiliare del Psi torinese, pur nei limiti dell’intento commemorativo costituì una positiva occasione di dibattito e di messa a punto. Non poche infatti sono le questioni che intorno alla partecipazione socialista alla lotta armata, e più in generale alla politica del Psiup nella Resistenza, stentano a trovare una sistemazione storiografica lontana da ormai anacronistiche polemiche. Nonostante recenti contributi, tra cui quelli, a prevalente carattere documentario, di Libero Cavalli e Carlo Strada (Nel nome di Matteotti. Materiali per una storia delle Brigate Matteotti in Lombardia, 1943-1945 e II vento del Nord. Materiali per una storia del Psiup a Milano, 1943-45, entrambi Milano, Angeli, 1982), il ritardo nella raccolta e nell’elaborazione delle fonti rimane ancora assai grave, tanto più rispetto ai risultati acquisiti per altri partiti. Si tratta innanzitutto di individuare i caratteri distintivi della linea politica del Psiup e quindi le ragioni e i limiti del suo successo in quegli anni. Nella relazione
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introduttiva al convegno, Francesca Taddei, sintetizzando considerazioni già svolte nel suo bel saggio II socialismo italiano nel dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Milano, Angeli, 1984, indica nella rottura della continuità sociale ed istituzionale con il fascismo prima, nella trasformazione dello stato tramite la Costituente in seguito, il progetto politico distintivo del Psiup, destinato tuttavia ad arenarsi di fronte alla convergenza sostanziale realizzatasi tra la strategia togliattiana e il disegno politico perseguito dalle forze moderate e dagli Alleati. Un’interpretazione che ha l’indubbio merito di sottolineare la coerenza e la specificità del progetto socialista e di evidenziare la ricchezza dell’elaborazione del Psiup, anche se forse è eccessivo vedere in esso l’interprete “più fedele” dei valori resistenziali (pp. 17 e 28-29). Quel che tuttavia resta in ombra in questa analisi, e che spiega invece la mancata egemonia socialista nel movimento di resistenza, è il limite derivante dal carattere preminentemente ideologico della battaglia socialista, mentre la ricostruzione politica ed organizzativa del partito e, in certa misura, la sua stessa elaborazione, furono frenate da incertezze e ritardi e non di rado sollecitate dalla maturazione del movimento.
Tali problemi diventano palesi a proposito della lotta armata. Al di là delle risposte alle ingiustificate accuse di attendismo, nate già nei mesi della Resistenza, si tratta in questo caso di individuare motivazioni politiche, tempi di maturazione e capacità di iniziativa dell’orga
nizzazione militare socialista. La relazione di Riccardo Mar- chis, ricostruendo Io sviluppo delle Matteotti piemontesi in modo necessariamente schematico, ma sulla base di una valida documentazione archivistica, evidenzia le diverse ipotesi di partecipazione alla lotta armata presenti nel Psiup e quindi delinea la crescita di un’organizzazione militare di partito affidata in un primo tempo all’iniziativa individuale di alcuni dirigenti, in particolare Corrado Bonfantini e Renato Martorelli, ucciso dai tedeschi nell’estate 1944. Secondo Marchis fino al marzo 1944 fu l’iniziativa personale di alcuni esponenti socialisti il tramite attraverso il quale il Psiup manteneva contatti con bande partigiane che tuttavia non potevano ancora qualificarsi come socialiste. La costituzione delle Matteotti, tardiva rispetto a quella delle brigate di orientamento giellista e comunista, avvenne a partire dal maggio successivo attraverso tre principali linee di aggregazione: la qualificazione ideologica di bande già in contatto con i socialisti e da essi promosse, la fornitura di sostegno logistico a bande isolate, la capacità di offrire un riferimento alternativo all’opera di accorpamento contemporaneamente sviluppata dai comandi delle autonome.
Implicitamente discorde la relazione di Agostino Conti, ex comandante partigiano, quindi studioso e conservatore di una vasta documentazione archivistica sulle Matteotti piemontesi. Tracciando un’ampia panoramica della presenza delle Matteotti in tutta l’Italia occupata, Conti sottolinea piuttosto la so
stanziale continuità, politica ed organizzativa, tra l’attività militare promossa da alcuni socialisti fin dall’inverno 1943 e l’ori- gine delle brigate in seguito qualificatesi come Matteotti.
D’altronde, soltanto il censimento e la cronologia dell’operatività politica e militare delle brigate e dei comandi, quale potrà scaturire da ulteriori e più sistematiche ricerche, consentirà di chiarire tempi e modi di un’aggregazione di forze che non fu, e non poteva essere, lineare. II carattere composito di quel processo, sottolineato nel dibattito da Gianni Alasia, emerge peraltro dalle stesse testimonianze portate al convegno e accluse agli atti. Da esse sorge l’invito ad una ricerca che, accantonando pudori e orgogli di parte e sfuggendo alla tentazione di ritrovare prematuramente coerenze e sintesi, sappia ripercorrere e distinguere criteri e urgenze, ragioni e contraddizioni della lotta parti- giana.
Simone Neri Serneri
Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso va alla guerra, Milano, Mondadori, 1986, pp. 163, lire 16.000.
Un’autobiografia riguardante gli anni della Resistenza, scritta da un’autorevole protagonista quale Pajetta, non può non presentare alcuni problemi di lettura. Il ragazzo rosso va alla guerra non è e non vuole essere un contributo alla storia del movimento di liberazione, né tanto meno a quella del Partito comunista. Tuttavia il racconto rivela non pochi elementi di discreta rilevanza, sia pure
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mediati nella forma consentita dal genere, in merito a quella cruciale vicenda storica. L’autobiografia, infatti, oltre ad essere un prodotto letterario compiuto, può anche ridiventare materia prima per il lavoro storiografico, costituendo una testimonianza preziosa dell’autocoscienza dei protagonisti di un evento.
Il libro offre, a nostro avviso, due diversi piani di lettura, che peraltro si intersecano frequentemente. Ad un primo livello appare una articolata caratterizzazione dell’autore, l’autoritratto di una soggettività umana e politica forte, quale risulta soprattutto grazie alla scelta sapiente di episodi significativi e di un linguaggio estremamente fedele all’indole del personaggio.
L’intenzione, o soltanto la suggestione, che anima l’autore sembra essere quella di offrire oltre che una memoria personale, anche lo spaccato di un’umanità molto particolare: quella del comunista, del cospiratore che, uscito dagli anni duri del carcere, andrà a costituire il nerbo della resistenza armata di massa al nazifascismo. È una figura che Pajetta ricostruisce con qualche deliberata forzatura di ordine soggettivo, che non può non risaltare soprattutto se riproposta quarant’anni dopo, quando la comunicabilità di quell’orizzonte umano e politico è ormai divenuta problematica, o anche estremamente selettiva, se non mediata da un approccio più propriamente storiografico.
Numerosi sono i tasselli che compongono l’identità del comunista e Pajetta non li elenca in modo estrinseco, bensì li
enuclea uno ad uno da eventi ed episodi significativi, che rievoca senza retorica, ma con un visibile sentimento di orgoglio e di appartenenza.
Tuttavia il testo scorre senza finzioni e schivo di intenti celebrativi, anzi un linguaggio sovente aspro e spigoloso e un’inesauribile vena polemica conducono la narrazione a momenti veramente critici: è il caso dell’ingrato trattamento riservato a Eugenio Curiel che, dopo l’arresto, “non si comportò da comunista” (p. 29); ma è anche il caso della rimeditazione compiaciuta sui caratteri di quella “sicurezza e [...] arroganza di sempre di noi comunisti” (p. 55). Ma il libro presenta anche un secondo piano di lettura. Su questo livello affiorano più direttamente i problemi politici, i nodi delle valutazioni e delle scelte consumate in un periodo breve, ma intenso e decisivo per la storia italiana.
Anche qui l’autore si mantiene fedele ad una narrazione severa e priva di infingimenti: la problematica delle due Italie — quella del “vento del Nord” e quella del Sud liberato — attraversa dall’interno lo stesso Partito comunista. Il tema è quello dello scollamento tra l’iniziativa partigiana e la strategia to- gliattiana inaugurata con la ‘svolta’, una divaricazione che sembra materializzarsi nel differente clima politico, culturale e umano che caratterizza i centri politici delle due Italie, Roma e Milano.
Quando Pajetta, la cui attività cospirativa lo porta a cambiare continuamente identità (Rossi, Nullo, Luca, Mare), abbandona il capoluogo lombardo per una missione politica,
scopre che nel Partito non c’è “quella ferma passione partigiana che mi sarebbe sembrata naturale e che al Nord ci fa credere nella possibilità di un reale e profondo mutamento degli uomini e delle cose” (p. 104). Anzi, visti da Roma, i partigiani “appaiono un po’ come ragazzi che giochino alla guerra” (p. 105).
Tuttavia, queste considerazioni, gravi nella loro natura, non diedero luogo, almeno per quanto riguarda l’autore, a un dissenso politico. Così, il Togliatti “prudentissimo” , che non volle mai sapere cosa fossero state le brigate partigiane, occupato com’era a definire le linee della democrazia progressiva (tale appare nella narrazione la divaricazione tra questa riflessione strategica e l’esperienza resistenziale), è anche il dirigente che “ci permetterà di consolidarci e diventare più forti” (p. 104). Allo stesso modo e con lo stesso curioso equilibrio, Pajetta coniuga brani densi di passione insurrezionale con maliziose puntate di ironia e di autoironia antigiacobina.
In definitiva, quel disagio politico e umano che doveva inevitabilmente investire un militante che aveva dato il meglio di sé nella lotta partigiana non si traduce in dissenso, non acquista spessore politico, ma sembra rimanere fermamente confinato in un ambito prepolitico: “Forse mi aspettavo più calore per i partigiani” (p. 104). Su questo secondo piano di lettura si ha complessivamente l’impressione di un giudizio troppo ostentatamente ‘sereno’ in rapporto ai problemi in questione, e che probabilmente ap
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partiene più al Pajetta scrittore che al Pajetta protagonista.
Con questo intreccio, in soccorso dell’autore, è intervenuta Vastuzia di un genere letterario, che ha consentito la rivendicazione orgogliosa e matura di una storia, senza dover nel contempo riaffrontare quell’annosa costellazione di problemi politici e teorici, la cui ombra lunga non manca di investire ancora aspetti decisivi del nostro presente.
Salvatore Minolfi
A ned , Gli scioperi del marzo 1944, Tavola rotonda, 17 marzo 1944, con un saggio di Claudio Dellavalle, Milano, Angeli, 1986, pp. 64, lire 8.000.
Il numero degli operai italiani deportati nei lager di annientamento in seguito agli scioperi del marzo 1944 non è stato certamente trascurabile; lo documenta in maniera inoppugnabile l’appendice al libro che raccoglie gli atti della tavola rotonda organizzata a Torino dall’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. È stata l’occasione non solo per rievocare, attraverso testimonianze di indubbio interesse, uno degli episodi centrali del moto di liberazione, ma anche, come ha sottolineato Dellavalle nel suo saggio, per avviare una riflessione su un evento finora poco approfondito in sede di analisi storica.
A differenza delle agitazioni operaie dell’anno precedente, che accelerarono lo sfaldamento del “fronte interno”, lo sciopero del marzo 1944 fu prevalentemente politico, con parole d’ordine contro la guerra, i tedeschi,
i fascisti. Sciopero politico, ma con una piattaforma economica basata su rivendicazioni molto elementari che tenevano conto del grave disagio esistente nelle fabbriche. Un ruolo di primo piano nella mobilitazione dei lavoratori ebbero i militanti e i dirigenti del Pei, che intendevano fare della classe operaia una delle componenti fondamentali del movimento di liberazione. Si veniva, peraltro, formando proprio in quegli anni l’intelaiatura di un partito operaio comunista con un saldo insediamento sociale.
Significative le implicazioni dello sciopero, la cui ampiezza ed estensione non ebbero riscontro nell’Europa dominata dal nazismo. La demagogia sociale della Rsi, che si affidava alla carta della socializzazione, fu perentoriamente respinta. Da quel momento divenne a dir poco problematico lo sfruttamento dell’apparato produttivo italiano da parte dell’occupante tedesco, che per rappresaglia scatenò un feroce quanto miope repressione.
L’insubordinazione operaia non solo inflisse un durissimo colpo alle declinanti fortune del nazifascismo, ma concorse a rilanciare l’iniziativa delle forze più avanzate della Resistenza. La conseguenza più importante fu, però, il legame che si venne allora stabilendo tra lotta in fabbrica e guerra partigiana; legame che nei mesi successivi si andò consolidando sino a portare all’insurrezione generale del 25 aprile. A rendere originale l’esperienza della resistenza italiana, rispetto a quella degli altri paesi, è stato proprio l’intreccio tra lotta sociale e lotta politico-militare.
Un discorso a parte merita l’atteggiamento degli industriali, indotti dall’asprezza dello scontro ad assumere una posizione oggettivamente collaborazionista. Posizione quanto mai imbarazzante per chi con spregiudicatezza conduceva il doppio o triplo gioco con i nazisti, gli Alleati e i Cln.
Sono questi gli aspetti essenziali di una vicenda storica tratteggiata in maniera incisiva da Dellavalle, esponente di una corrente storiografica che ha cercato di fare luce sulle modalità e sugli esiti della transizione dal fascismo alla repubblica. Tuttavia, se si vuole comprendere appieno la portata e il significato delle agitazioni in fabbrica negli anni di guerra, non basta studiarle esclusivamente nella loro dinamica interna e porre solo attenzione al conflitto sociale tra operai e industriali da un lato, e alla dialettica classe-partito dall’altro. Né è sufficiente indagare sul rapporto tra lotte operaie e lotte contadine e sulle ripercussioni che le prime ebbero sugli orientamenti dei ceti medi urbani. Occorre mettere a fuoco soprattutto i nessi delle lotte operaie sia con il contesto sociale e politico nazionale e internazionale, sia con la storia d’Italia del ventesimo secolo.
A lungo considerata soltanto come un elemento decisivo della vittoria sul nazifascismo, la lotta operaia del periodo 1943- 45 va vista come un momento importante di una profonda crisi sociale, che fu tra le cause principali della disgregazione dei tradizionali rapporti di potere. Perciò questa lotta, espressione di uno specifico antifascismo proletario — proteso in
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primo luogo a smantellare l’apparato di dominio instaurato dal fascismo in fabbrica — va collocata nel quadro dei processi in atto negli anni trenta e quaranta anche al fine di intendere meglio la complessa e articolata condotta dei ceti dominanti di fronte alla crisi.
Francesco Soverina
Silvio Trentin, Federalismo e libertà. Scritti teorici 1935- 1943, a cura di Norberto Bobbio, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 398, sip.
11 quarto volume delle Opere scelte di Silvio Trentin antologizza la produzione del suo ultimo decennio di vita: da La crise du droit e de l ’Etat, uscito nel 1935, agli articoli comparsi su “Libérer et Fédérer. L’insurgé” nel corso del 1944.
Leggiamo così gli scritti più interessanti del Trentin rivoluzionario, fortemente nutriti di passione civile, ma al tempo stesso intenti a ragionare la crisi dell’ordine esistente e a definire proposte per un nuovo ordine. Rispetto al primo momento della sua conversione rivoluzionaria, Trentin ha in parte messo a punto l’apparato con cui guarda alle radici economiche della crisi.
Certo, tale apparato è comunque quello di un militante più che di uno studioso e la fondatezza dei giudizi che l’autore dà sui fenomeni economici non è pari a quella raggiunta dalle osservazioni critiche sugli aspetti istituzionali della crisi. Ma precisamente tale connotazione ideologica serve ora a sostenere una proposta politica
che si è fatta chiara e sicura. Trentin formula una propria risposta alle domande del presente, un proprio progetto. Questo mobilita tutta la sua precedente esperienza intellettuale ed i suoi più profondi convincimenti. La formazione di giurista e il radicato culto dell’autonomia concorrono a produrre una vigorosa ipotesi federalista.
Norberto Bobbio sottolinea nell’introduzione la natura specifica di tale federalismo; il quale non si preoccupa soltanto — com’era ovvio in vista della tragedia bellica — di trovare le forme per mediare la contrapposizione tra gli stati; ma muove piuttosto dall’assillo di “trovare un rimedio al dispotismo che comprime la libertà degli individui e l’autonomia dei gruppi” (Bobbio, p. XIV). Un federalismo dunque senz’altro pacifista, ma soprattutto libertario.
Quello di Trentin è un messaggio che non si può sottoscrivere tutto intero; specie laddove fa passare la speranza di un sistema economico-sociale più giusto e libero attraverso la cruna d’acciaio della dittatura, “strumento tecnico insostituibile per l’instaurazione rivoluzionaria dell’ordine nuovo” (p. 319). Ma è tuttavia un messaggio che, proprio quando dispiega la critica alle troppe negazioni sofferte dal principio dell’autonomia nell’esperienza statuale contemporanea, risulta assieme attuale e convincente. Persino gli aspetti minuti, i dettagli organizzativi su cui Trentin si diffonde, nei due progetti costituzionali che egli redasse (per la Francia e l’Italia libere), lungi dal subire il degrado del tempo,
si rivelano, appena elaborati, ancora densi di lezioni, oltreché di sapere giuridico.
Il pensiero trentiniano è in effetti una miniera di spunti e suscita interrogativi di ampia portata. Ad esempio, sul gioco tra pianificazione e libertà, tra collettivismo economico e pluralismo politico; oppure sul rispettivo ruolo della rappresentanza per territorio e della rappresentanza per interessi, e sulla possibilità di attivarle congiuntamente.
A proposito di quest’ultima questione, si noterà come il discorso di Trentin rielabori la posizione decisamente negativa nei confronti della rappresentanza dei cittadini in quanto produttori, assunta nei primi anni della polemica contro il fascismo, e non solo salvi quel modello costituzionale, ma anzi lo ponga a temperare il principio della rappresentanza territoriale o addirittura — secondo quanto legge Bobbio (p. XXXII) — lo ponga a base dell’assetto istituzionale da instaurarsi dopo la guerra.
Su questo e su altri problemi l’opera trentiniana può essere ulteriormente e proficuamente interpellata. E certamente allora la maggiore attenzione dovrà cadere proprio sui lavori contenuti in questo volume, che raccoglie il vertice del Trentin politico, così come il volume intitolato Dallo Statuto albertino al regime fascista (a cura di Alessandro Pizzorusso) ci aveva restituito alcune tra le più stimolanti pagine del Trentin giurista.
Ancora una volta, peraltro, questo secondo aspetto dell’eredità trentiniana viene lasciato, in questo volume, un po’ in
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ombra. Di un’opera assai importante. La crise du droit e de l ’E- tat, viene ripreso solo il capitolo conclusivo; e l’attenzione giustamente dedicata da Bobbio nell’introduzione (pp. XV e XXVI- XXVIII) serve a far rimpiangere ancor più la sua esclusione.
Occorre perciò di nuovo osservare (cfr. La doppia eredità di Silvio Trentin sul n. 162, 1986, di questa rivista) che il sacrificio del Trentin giurista realizzato dalla scelta degli scritti nell’arco dei quattro volumi non pare condivisibile. Anzitutto perché sulla cultura giuridica cresce il Trentin politico e di essa si alimenta quello che forse è l’elemento più specifico della sua posizione: la soluzione “istituzionale” ch’egli propone (Bobbio, p. XXXIV); ma anche perché una più larga accoglienza degli scritti, anche ‘tecnici’, del Trentin giurista avrebbe pure accolto una lezione implicita nella sua biografia: il suo transito dal diritto al diritto, dallo studio dell’ordinamento vigente alla delineazione d’un nuovo ordinamento — quasi a comprovare l’imprescindibilità del fattore giuridico nella figurazione del politico d’età contemporanea.
Fabio Rugge
Virgilio Santato, Un intellettuale nell’antifascismo. Francesco Viviani (1891-1945): dal- l ’“Italia Libera” a Buchenwald, presentazione di Enrico Opo- cher, Rovigo, Minelliana, 1987, pp. 154, sip.
Non era facile ricostruire la biografia di una figura complessa come quella di Francesco Viviani e occorre dire subito che il
Santato è riuscito nell’intento raccogliendo tutte le testimonianze rintracciabili e vagliandole con spirito critico, senza concessioni alla agiografia e senza rinunciare a indicare persino qualche pausa dell’attivismo antifascista del futuro martire. È difficile definire politica- mente Viviani nonostante la sua adesione, nel 1941, al Partito d ’Azione insieme all’amico Egidio Meneghetti; egli si sentiva soprattutto un intellettuale e, probabilmente, egli vide in quel partito l’effettiva valutazione del ruolo degli uomini di cultura. Lo stesso era avvenuto per la partecipazione a Italia Libera, un movimento senza un programma politico preciso se si esclude la denuncia delle operazioni avviate dal governo di Mussolini contro le libertà democratiche ed il richiamo agli ideali patriottici e risorgimentali dai quali il Viviani stesso aveva ricevuto l’ispirazione dell’atteggiamento interventistico nella prima guerra mondiale.
Professore di latino e greco nei licei, il Viviani ebbe una carriera burrascosa perché la schedatura come sovversivo in seguito alla partecipazione a una manifestazione pubblica contro il governo di Italia Libera provocò nei suoi confronti pretestuosi provvedimenti disciplina- ri quali sospensioni dallo stipendio, trasferimenti per servizio, licenziamenti. Egli si batté con molto coraggio contro le persecuzioni di cui era oggetto e riuscì in qualche modo, fino all’8 settembre 1943, ad evitare, pur tra umiliazioni e disagi, il peggio.
A Ferrara egli godette dell’amicizia e dell’appoggio di Nello Quilici, legatissimo a Italo Bal
bo, direttore del “Corriere padano” , giornale voluto culturalmente aperto quasi a sottolineare una sorta di separazione del gruppo balbiano dal fascismo nel suo insieme. Anche Viviani collaborò al quotidiano ferrarese ma in otto anni, dal 1930 al 1937, i suoi articoli non superano la ventina e sono in gran parte di argomento musicale e relativi alle stagioni liriche are- niane di Verona. Gli anni ferraresi furono i meno traumatici della sua carriera d’insegnante finché i suoi apprezzamenti sul fascismo gli procurarono una denuncia anonima con conseguente trasferimento per servizio; sul suo insegnamento al liceo della città estense e sul provvedimento nei suoi confronti si veda, oltre alle testimonianze ricordate dal Santato, quella illuminante di Lanfranco Caretti, che fu suo alunno, in La cultura ferrarese tra le due guerre mondiali. Dalla scuola metafisica a Ossessione, a cura di Walter Moretti, Bologna, Cappelli, 1980,pp. 218-220.
Sull’attività politica del secondo CIn veronese, costituitosi nel dicembre 1943 sotto la presidenza del Viviani, le notizie sono piuttosto limitate ma ciò è da attribuire a carenza di fonti, come risulta anche dal libro di Maurizio Zangarini, Politica e società a Verona in epoca fascista, Verona, Cierre, 1986, nel quale viene attentamente esaminata la storiografia della Resistenza nella città veneta; va notato che sia nel primo che nel secondo Cln veronese non figurano rappresentanti del partito della democrazia cristiana, fatto abbastanza strano per una città largamente cattolica. Viviani
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viene arrestato il 2 luglio 1944, affidato dai fascisti ai tedeschi che non tardano a trasferirlo nei campi di sterminio; morirà a Buchenwald.
L’antifascismo del Viviani dal 1923 al 1943 e la sua partecipazione alla Resistenza sono strettamente connessi alle sue idee liberali ed alla sua aspirazione alla restaurazione democratica in Italia; la convinzione del diritto dell’uomo alla libertà ha in lui origine culturale e non ci sembra legata ad un particolare programma politico o sociale. La sua designazione a presidente del secondo Cln veronese è legata soprattutto alla coerenza della sua opposizione ventennale al fascismo, al suo equilibrio ed al suo prestigio personale.
Le biografie delle figure di maggior rilievo sono uno degli strumenti per penetrare all’interno della Resistenza e cogliere gli aspetti particolari che distinguono il movimento di liberazione da una località all’altra; ben vengano, dunque, i lavori come questo del Santato su Francesco Viviani.
Luigi Ambrosoli
Lerino Candio , Con il piede straniero sopra il cuore, Como, Edizioni Graficop, 1987, pp. 286, sip (Istituto comasco per la storia del movimento di liberazione).
In un’avvertenza l’autore precisa che “non si tratta di un memoriale, che è un documento, ma di un romanzo, di un contesto quindi di fatti storici e di elementi d’invenzione” . Egli aggiunge che soltanto in un caso egli garantisce la fedeltà sto
rica ed è nella ricostruzione dell’episodio della ricerca e della individuazione, da parte di due partigiani, del comando della decima armata del generale Herr che si preparava a un’estrema difesa sui colli e sui fiumi veneti.
Quanto alla parte narrativa, occorre riconoscere all’autore il merito di aver rievocato senza enfasi il clima della Resistenza e di avervi inserito la vicenda di un giovane che entra nel movimento di liberazione, opera con una brigata partigiana, viene arrestato e deportato in Germania dove viene assegnato al campo di eliminazione di Mau- thausen.
Quanto alla parte che l’autore presenta come autenticamente storica, si tratta di una testimonianza senza dubbio interessante anche se avrebbe meritato maggiori chiarimenti l’affermazione che fu proprio la distruzione del comando della decima armata a determinare la rinuncia tedesca all’estrema difesa e ad anticipare di una decina di giorni la fine della guerra in Italia, risparmiando altre vittime e salvando gli impianti industriali del Nord.
Luigi Ambrosoli
L ’altro dopoguerra. Roma e il Sud ¡944-1945, a cura di Nicola Gallerano, Milano, Angeli, 1985, pp. 554, lire 30.000.
La vicenda che questo libro ricostruisce — il passaggio dal fascismo allo stato democratico della società centro meridionale italiana, liberata dagli Alleati in anticipo sul resto del paese — ha un respiro molto ampio.
L’opera, composta di molte tematiche che vengono analizzate in una grande varietà di situazioni locali, si compone di 38 saggi costituiti dalle relazioni e comunicazioni presentate al convegno tenutosi a Roma dal 4 al 6 giugno 1984 (organizzato dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza e dall’Amministrazione provinciale di Roma) ed è preceduta da una prefazione di Guido Quazza, da un’introduzione di Enzo Forcella e da un intervento di Nicola Gallerano che delinea le principali coordinate di quella breve e drammatica fase storica.
Il taglio del volume nel suo complesso può definirsi di tipo “sociale” . Specie nella prima sezione, rivolta all’analisi di problemi economico-sociali, che significativamente occupa quasi i due terzi dell’intera opera, l’intento prevalente degli autori è quello di chiarire nel modo più approfondito le trasformazioni avvenute nella vita concreta e quotidiana degli individui, dei nuclei familiari, dei gruppi sociali in seguito alla fine della guerra e di esaminare le conseguenti influenze sulle mentalità dei singoli e delle collettività. Viene messo in luce, in particolare in alcuni interventi che si avvalgono di narrazioni dirette, il carattere di assoluta eccezionalità che ha contrassegnato quella esperienza, con la conseguente sospensione delle ordinarie convenzioni sociali e la produzione nelle campagne di nuove forme di solidarietà e nei grandi centri urbani di modi di vita alternativi, destinati a sfuggire la miseria, da parte dei ceti popolari e delle classi medie a reddito fisso, travolte dall’in
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flazione ed escluse dal giro di affari della borsa nera. Nel volume vi è anche spazio per una riflessione sulle grandi questioni che caratterizzano questa fase storica, ad esempio le difficoltà di ripresa dell’industria meridionale, colpita dalle distruzioni belliche in misura maggiore rispetto al resto del paese; l’immancabile e generalizzato scatenarsi dell’inflazione e del mercato nero all’indomani della liberazione; l’inversione del rapporto di priorità fra zone agricole e centri urbani, a favore delle prime, in seguito agli effetti rovinosi e terrorizzanti dei bombardamenti.
Nella seconda e terza sezione vengono posti maggiormente in risalto i problemi di portata nazionale. Ad esempio le vicissitudini dei partiti politici, alle prese con l’immediata necessità di elaborare una strategia ricollegabile alla tradizione prefascista e al tempo stesso funzionale rispetto ai nuovi problemi dell’oggi, lo scontro, consumatosi in mille situazioni locali, fra le aspirazioni di rinnovamento radicale, da attuarsi anzitutto con un’epurazione sistematica negli organi della pubblica amministrazione e un desiderio di transizione “morbida” , quasi sempre prevalente per il favore degli Alleati e talvolta l’ausilio delle prefetture. Anche nell’affrontare tematiche di tale ampiezza prevale comunque la tendenza a cogliere la realtà nei suoi aspetti più minuti e precisi anche se meno appariscenti. Nomi di primissimo piano nella vicenda politica nazionale di quel periodo come Togliatti, De Gasperi, Parri, Croce, compaiono a volte, ma la loro personale collocazione in quegli eventi è appena sfiorata,
per dedicare attenzione alle personalità locali e alle trasformazioni che questi potevano operare nelle situazioni territoriali, negli ambienti di lavoro o nei circoli intellettuali e politici.
La ricerca sulle classi dirigenti locali può essere considerata uno dei tracciati interni che maggiormente caratterizzano il libro, contribuendo in modo determinante all’originalità dei risultati.
Stefano Caviglia
Rita Palumbo, Camilla Ravera racconta la sua vita, Milano, Rusconi, 1985, pp. 165, lire 16.000.
“Partecipare, fare politica, vivere ed essere non è mai stato nient’altro che un offrire discretamente ed incondizionatamente il suo pensiero e poi mettersi da parte” (p. 12). Così Rita Palumbo, giornalista napoletana e attenta osservatrice del nesso donna-lavoro, conclude la sua introduzione alla biografia di Camilla Ravera traducendo con sensibilità ed affetto il senso di una vita.
Un bel libro che si legge con passione e nel quale sono del tutto assenti i ‘toni elevati’ sicché anche i momenti più drammatici vengono raccontati con una sorta di pudore, quasi con umiltà. Il merito è certo anche della Palumbo che ha saputo rispettare la testimone-protagonista, facendosi quasi da parte e ritagliandosi un autonomo spazio di presenza e intervento — distinto anche graficamente nel testo —, per conseguire in questo modo un effetto di ‘coro’ dal quale la voce narrante risalta. La voce di una donna “dalla personalità ricchissima per sensibilità, sacrificio e dedizione
[...], una persona diversa da quella della rivoluzionaria di professione” (p. 9). La Ravera visse un’infanzia felice all’interno di una tipica famiglia della borghesia progressista torinese: la madre tenera ed esclusiva- mente dedita all’accudimento dei figli; il padre funzionario del ministero delle Finanze, aperto e molto preoccupato della cultura dei figli, maschi o femmine che fossero; più tardi, un’adolescenza e una giovinezza segnate dalla lettura delle opere di Marx, dai primi contatti con le organizzazioni operaie fino ai momenti in cui le scelte di fondo si realizzano e comincia l’intensa partecipazione alla vita politica. Di qui, il racconto di profonde esperienze: il congresso di Livorno e la nascita del Partito comunista; l’incontro con Lenin a Mosca e, dopo l’avvento del fascismo, responsabilità sempre crescenti nel partito, la clandestinità, l’arresto, il carcere. E a questa fase della vita della Ravera sono dedicate le pagine più intense del libro da cui emergono, con più evidenza, la strordi- naria fermezza e fedeltà ad un ideale di purezza di vita, vissuto in ogni occasione, anche le più difficili, con assoluta serenità. “Non ebbi mai un momento di sconforto, fui sempre serena [...] appena mi chiusero la porta della cella alle spalle, mi dissi: ora potrò leggere fin quando vorrò e potrò recuperare tutto il tempo perso” (pp. 97-98): forza e tranquillità d ’animo che le consentirono, dopo la Liberazione, di riprendere il proprio posto nel partito sempre con incarichi di grandissima responsabilità (consigliere comunale di Torino, deputato al Parlamento, membro del Comitato centrale e
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della Commissione centrale di controllo e, infine, nel 1982 senatrice a vita con nomina del Presidente Pertini).
L’attività politica non ha impedito alla Ravera di trasformare la sua esperienza in testimonianza storica e di pubblicare una serie di scritti sulla sua vita, uno dei quali — Diario di trent’anni — ha avuto 49 edizioni e, nel 1973, il Premio Viareggio. Di fronte a una donna come la Ravera, viene tuttavia fatto di chiedersi che differenza passi tra le sue scelte di vita e quelle di una donna d’oggi. È lei stessa a fornirci una risposta quando, nelle pagine dedicate agli ultimi anni del lunghissimo corso della sua esistenza, afferma: “senza alcun problema dimenticai di essere una donna. Non saprei dire quali furono i meccanismi che governarono le mie decisioni in quegli anni” (p. 159); eppure alle donne aveva dedicato parte non piccola della propria vita, da quando Gramsci le aveva affidato La tribuna delle donne su “Ordine Nuovo”, alla cura della redazione di “Compagne” , uno dei primi periodici femministi, e poi agli impegni nell’Udi, alle continue riunioni con le donne comuniste della provincia di Torino in pieno fascismo. La Ravera con grande chiarezza e molto presto aveva intuito la necessità di mantenere nella società da costruire la differenza di ruolo fra l’uomo e la donna, fuori dalla logica emancipazionista ed egualitaria dello stesso partito comunista. Perché dunque si accontentò dell’amicizia e non cercò mai l’amore? Alcune donne, le donne migliori, nel passato, hanno dovuto accontentarsi della serenità; forse oggi Camil
la Ravera riterrebbe giusto ricercare la felicità.
Laura Capobianco
A ntonio Cuffolo, Moj Dnev- nik. La seconda guerra mondiale vissuta dal ‘focolaio’ della canonica di Lasiz, Cividale del Friuli, Società Cooperativa Dom, 1986, pp. 239, sip.
Dal suo osservatorio della canonica di Lasiz, una piccola parrocchia della Valle del Natisene, punto di riferimento, in quegli anni roventi, per tutti coloro che combattevano per la libertà, l’autore fornisce, in questo volume pubblicato postumo, due distinte cronache della seconda guerra mondiale e degli avvenimenti che la precedettero e la seguirono, una delle quali in sloveno (dal 1938 al 1946) e l’altra in italiano (dal 1940 al 1947). Non si tratta però di semplici traduzioni. Mentre infatti il testo sloveno deve intendersi datato dall’epoca degli avvenimenti, quello italiano fu probabilmente scritto negli anni cinquanta, sulla base di quello sloveno. Entrambi i diari sono tratti da manoscritti.
“Uomo di frontiera che guarda i due versanti del monte sulla cui vetta si trova” (come giustamente dice Marino Qualizza nella prefazione al diario italiano) e nello stesso tempo intransigente difensore dell’identità della popolazione allogena della regione, nel 1933 l’autore rischierà l’arresto da parte delle autorità fasciste per avere tentato di infrangere il divieto relativo all’uso dello sloveno nei canti, nelle preghiere, nelle prediche e nell’insegnamento reli
gioso. Durante l’occupazione tedesca della regione, egli salverà il suo paese dalla distruzione ordinata dal comando delle truppe cosacche, che si erano insediate nella regione, ed aiuterà la fuga di trentacinque ufficiali britannici sfuggiti ai nazifascisti. Conclusa la guerra (ed è questa senz’altro la parte più interessante del diario) toccherà ancora al Cuffolo di battersi contro i rigurgiti nazionalisti dei “tricoloristi” che tentavano di fare mantenere in vigore i provvedimenti discriminatori contro la minoranza slava emessi durante il regime fascista.
In complesso il volume costituisce un utile strumento per comprendere il passato ed il presente di quella regione di confine e le contraddizioni dalle quali essa era travagliata. Unico difetto è costituito dall’imprecisione con la quale, probabilmente per motivi legati all’interpretazione calligrafica del manoscritto, sono riportati alcuni nomi (ad esempio Roeder per Reader e Funch per Funk). Si tratta comunque di difetti che potranno facilmente trovare rimedio in una successiva edizione del libro.
Franco Pedone
Italia repubblicana. Istituzioni e sistema politico
Piero Calandra, Il Governo della Repubblica, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 324, lire 24.000.
Inserito in una ormai collaudata e diffusa collana di studi giuridici delle edizioni del Mulino (“La nuova scienza, Diritto”) in cui sono comparsi, fra gli al
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tri, i noti saggi di Sabino Casse- se sul sistema amministrativo italiano, di Andrea Manzella sul Parlamento, di Mario Nigro sulla giustizia amministrativa, di Gustavo Zagrebelsky su quella costituzionale, il recente volume di Calandra affronta una tematica politico-costituzionale di non minor rilievo ed importanza. Il Governo della Repubblica, infatti, a dispetto di talune stantie posizioni dottrinali, ancora legate ad un’ottica giuspubblicistica tardottocentesca, che identificano nel parlamento il vero perno, il motore primo di ogni regime democratico rappresentativo, ha assunto, di fatto, un ruolo sempre più centrale e decisivo; è diventato l’asse portante dell’intera compagine politico-amministrativa dello stato contemporaneo. Resta comunque da stabilire se a questa mutazione ‘genetica’, a questa alterazione del classico modello parlamentare, abbia, o non, corrisposto un incremento degli spazi effettivi di partecipazione dei cittadini (e di controllo dei rappresentanti del popolo sovrano sugli atti dell’esecutivo) e se, quindi, sia più conveniente prospettare un’ulteriore svolta in senso centralistico ed effi- cientistico, oppure vagheggiare ed auspicare differenti e ben più robuste ‘sterzate’ assembleari- stiche. Come è noto, questa alternativa è, da alcuni anni, al centro di vivaci scontri fra i partiti di maggioranza e quelli di opposizione e ne condiziona le rispettive strategie istituzionali; polemiche, queste, rese più acute dalla indubbia propensione ‘decisionistica’ dimostrata dagli ultimi governi a guida socialista. Il fenomeno, in sé, è tuttavia incontestabile — e forse irre
versibile nel lungo periodo — e bene ha fatto l’autore a sottolineare questa reale preminenza dell’esecutivo, cui fa da pendant l’eclissi degli strumenti di partecipazione democratica, nell’o- dierno sistema politico italiano.
Il volume affronta, perciò, non solo i tradizionali profili strutturali e funzionali dell’organo in questione, ma si addentra con acume e competenza in quel labirinto di convenzioni, prassi, atteggiamenti, consuetudini che ormai completano ed integrano il puro ed astratto disegno costituzionale e che, da tempo, formano oggetto di interesse speculativo e di curiosità scientifica anche da parte dei politologi. A differenza delle consuete monografie di diritto costituzionale, solidamente costituite su di un impianto dogmatico ineccepibile, il lavoro di Calandra si presenta con un taglio più agile e discorsivo, manifesta, cioè, quegli intenti pratici e didascalici che paiono caratterizzare — sia pur con modalità diverse — gli altri contributi della citata collana editoriale. Ci si trova, dunque, di fronte ad un maneggevole vademecum, ad una sorta di guida tecnica, a delle vere e proprie ‘istruzioni per l’uso’, indispensabili ormai per orientarsi e districarsi nei difficili meandri e nelle sottigliezze ‘levantine’ dell’attuale ed incerta situazione politico istituzionale. I recenti avvenimenti legati alla caduta del secondo governo Craxi rendono ancor più opportune e tempestive le osservazioni e le indicazioni contenute nell’opera di Calandra. ‘Staffette’, fiducie ‘tecniche’, mandati ‘esplorativi’, pre-incarichi, crisi ‘rientrate’, ed altre ben conosciute formule
dell’inesauribile e fantasioso lessico politico istituzionale italiano, vengono adeguatamente e puntualmente analizzate e trattate. La contemporaneità ed attualità dei problemi del funzionamento del sistema costituzionale non fa tuttavia perdere di vista, all’autore, il loro spessore diacronico; i precedenti storici di molte norme, di diverse regole, di radicate consuetudini sono, infatti, diligentemente rammentati. Occorre precisare, in questo ambito specifico, che le considerazioni di Calandra paiono particolarmente preziose e stimolanti, giusta la nota — e tante volte deprecata — carenza, nel nostro paese, di studi di storia costituzionale e parlamentare orientati nel senso di una ricostruzione effettiva e concreta dell’andamento delle istituzioni.
Riconosciuto, perciò, il valore complessivo dell’opera e prescindendo — per ovvie ragioni di spazio — da una puntualizzazione critica di molti aspetti che pure meriterebbero una discussione ed un confronto dialettico più approfonditi, non possono essere taciute alcune ‘ombre’, né trascurati alcuni elementi (sia pure marginali) che non sembrano del tutto convincenti. Innanzitutto, avrebbe forse giovato, anche alla stessa ‘lettura’ dei nostri meccanismi costituzionali, qualche riferimento più ampio di diritto comparato, specialmente in rapporto a quelle esperienze straniere che si avvicinano maggiormente — per struttura sociale, quadro costituzionale o tradizione politica — al caso italiano; e pure in sede di proposizione di idonee soluzioni riformatrici e di suggerimento di eventuali diverse ‘regole del
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gioco’. In secondo luogo, occorre evidenziare come il carattere didascalico e descrittivo del lavoro finisca, talvolta, col far premio sulla profondità e sulla pregnanza delle argomentazioni. Così, ad esempio, nel segnalare — peraltro compiutamente — le diverse opinioni ed interpretazioni espresse su un determinato problema costituzionale, le affermazioni degli uomini politici e quelle dei giuristi, o dei politologi, vengono poste quasi sullo stesso piano; ci si limita, perciò, a fornire un semplice ‘resoconto’ del dibattito in corso.
Va, infine, osservato che la constatazione, comunque corretta nelle sue linee di fondo, della prevalenza delle esigenze proprie del sistema politico sulle teorizzazioni e concettualizzazioni della ingegneria costituzionale (esigenze delle quali si richiamano, opportunamente, i “margini di elasticità” ed i limiti intrinseci) può, forse, indurre coloro ai quali stanno a cuore le sorti della democrazia ad ‘abbassare la guardia’, a contemplare, con complice impotenza, l’attuale corsa allo sfascio degli apparati pubblici. Mai come in questo momento pare necessario che l’area, estesa e variegata, delle convenzioni, degli accordi informali, delle prassi (più o meno legittime), venga ristretta a vantaggio di una regolamentazione più puntuale, e giuridicamente vincolante, di tutti quei delicati momenti e congegni della vita politica, nonché dei rapporti fra i supremi organi dello stato, che sono spesso al centro di pretestuose polemiche fra i partiti e sottoposti ad indebiti patteggiamentio a logiche ‘spartitorie’. Pur ammettendo che,
quasi sempre, si avvera l’ipotesi contraria, non ci si può non augurare che siano proprio delle nuove e chiare ‘regole del gioco’ a modificare e condizionare — una volta tanto — i comportamenti e gli obiettivi dei diversi attori e soggetti politici.
Piero Aimo
Il sistema politico italiano, a cura di Gianfranco Pasquino, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 461, lire 29.000.
Un’ampia e qualificata rosa di collaboratori e un’altrettanto articolata impostazione per aree tematiche e problematiche danno corpo a questa densa antologia di saggi sul sistema politico italiano ideata e curata da G. Pasquino. Attorno al nodo complesso della triplice relazione tra partiti, società civile e istituzioni — centrale nella storia politica e sociale più recente del nostro paese e a cui richiama appunto in apertura il curatore — si dispone la dozzina di contributi prescelti, scritti in prevalenza tra il 1977 e il 1983, che “combinano elementi tecnici con analisi empiriche, valutazione del passato e prospettazione del futuro” (pp. VII-VIII). Delle quattro sezioni in cui il volume è suddiviso, le prime due riguardano i processi elettorali (“struttura e tipologia delle elezioni in Italia dal ’46 all’83” e “relazioni partiti-elettori e tipi di voto”) trattati da Piergiorgio Corbetta, Arturo Parisi e dallo stesso Pasquino, e gli ‘attori’ in campo (partiti, sindacati, movimenti), rievocati e analizzati da Mario Caciagli (il “resistibile declino” della De), G. Pasquino
(il Pei nel sistema politico nazionale), Franco Cazzola (“struttura e potere” del Psi), Miriam Golden (“neo-corporativismo ed esclusione della forza lavoro dalla rappresentanza politica”) e Yasmine Ergas (“allargamento della cittadinanza e governo del conflitto”). La terza e la quarta centrano a loro volta il discorso sulle istituzioni — Governo, Parlamento, Regione — con Sabino Cassese (“esiste un governo in Italia?”), Antonio Baldassarre (“le performances del Parlamento, 1970-1985”), Robert D. Putnam, Robert Leonardi, Raffaella Nanetti e Franco Pavoncello (“il rendimento dei governi regionali”) e sulle micidiali presenze, “dentro e contro il sistema”, di mafia (Raimondo Catanzaro) e terrorismi (Donatella Della Porta e Maurizio Rossi).
Impianto generale e titoli specifici già orientano, in una certa misura, su modi e intenti del ‘percorso’ in questione, guidato da scienziati sociali, della politica e della organizzazione istituzionale e amministrativa nel ‘labirinto’ del sistema politico italiano, più coerente e reattivo di quel che comunemente si creda.
È certo difficile rintracciare e definire linee univoche di ispirazione e di svolgimento in opere del genere; ancor più nel caso specifico, nel quale ricorrono, oltre alla scontata circostanza della presenza di posizioni e di risultati già noti ed entrati ‘in circolo’ da tempo, anche una notevole varietà di approcci, di esperienze e di ‘appartenenze’. Tuttavia è sicuramente un dato condiviso l’opzione per il “filone democratico-empirico delle scienze sociali contemporanee”
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(p. 146), sostanziata dal privile- giamento indiscusso delle istanze di conoscenza razionale, misurabile, verificabile e in chiave comparativa, con scarsa o nessuna indulgenza per intuizioni e per ideologie. Un volume utile e intelligente, dunque, che forse concede troppo poco alla specificità del ‘caso italiano’ ed in cui agli anni sessanta viene attribuito il carattere di spartiacque risolutivo nella sequenza storica contemporanea italiana. Sono precisi e persuasivi (a parte l’abbandono dello studio e delle analisi delle ‘tendenze’ a vantaggio dei ‘tipi’) gli scritti in materia elettorale, che del resto hanno fatto ‘scuola’; lucidi e attuali, suscitatori di rassicuranti ‘consonanze’ quelli dedicati ai tre partiti maggiori, al sindacato, all’interazione tra politiche istituzionali e dinamica conflittuale, “politiche sociali e politiche del sociale” (p. 234). Di indiscutibile dottrina i saggi sul governo e sul parlamento, ed originali quelli sulla mafia, il terrorismo e il rendimento istituzionale delle regioni, quest’ultimo sulla scorta di fattori misurabili e di correttivi ‘qualitativi’.
Certo, taluni passaggi e qualche conclusione, fondati su elaborati procedimenti statistici, fanno pensare talvolta che eguali risultati si potrebbero conseguire con minore spreco di energie, sia pure solo strumentali. Inoltre, qualche perplessità desta il tipo di rapporto che i saperi messi in campo nella raccolta antologica intrattengono con la storia, un rapporto tradizionale e, per ciò stesso, arcaico. Occorre ancora ripetere che la storia è una scienza con mezzi e fini abilitati e orientati alla misura del
l’incidenza del passato sul presente, risolutiva sul piano dei “perché dei come”, attenta al mutamento come alle persistenze, alle fratture come alla continuità? Per dirla in breve, una dimensione del reale e una categoria del conoscere, un sapere attivo ad altissima formalizzazione e capace in proprio, o anche in intelligenti combinazioni interdisciplinari, di fornire risposte e ragioni, “reti di spiegazioni” .
Guido D’Agostino
Renato Mannheimer e Giacomo Sani, Il mercato elettorale. Identikit dell’elettore italiano, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 185, lire 15.000.
Il libro di Mannheimer e di Sani si propone di sviluppare un’idea, quella dell’analogia tra mondo della politica e mondo dell’economia, che soprattutto a partire dall’ormai classico lavoro di Anthony Down (An Economie Theory o f Democra- cy, New York, 1957), ha influenzato un importante filone di riflessione teorica e di ricerca empirica, non solo nel mondo anglosassone, ma anche nel nostro paese (si pensi ai significativi contributi degli studiosi dell’Istituto Cattaneo). Tale analogia risulta più calzante, a giudizio degli autori, ove si consideri un momento particolare della vita politica, quello della competizione elettorale. Vale segnalare, tuttavia, che nell’indicazione del mercato elettorale quale oggetto della riflessione scientifica è consegnato non solo un approccio metodologico, ma anche l’esplicito auspicio che gli sviluppi futuri consen
tano una sempre più chiara definizione del luogo nel quale “i produttori di politiche pubbliche presentano le loro offerte a cittadini informati, liberi da pregiudizi e sciolti da legami col passato, che scelgono di volta in volta proprio sulla base delle alternative loro proposte”(p.8).
Nel definire le caratteristiche del mercato elettorale italiano negli anni ottanta, il libro articola e sviluppa i risultati di una ricerca demoscopica svoltasi nel 1985 in Italia ed in altri tre paesi dell’Europa del sud.
In particolare, l’analisi delle motivazioni, con la conseguente definizione delle tipologie di voto (si richiama in proposito la classica tripartizione in voto di appartenenza, voto di opinione e voto di scambio, compiuta dieci anni fa da Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino), sia pure arricchita da un più ampio spettro di indicatori utili a illustrare alcuni aspetti della scelta elettorale, dimostra scarse capacità di chiarire e prevedere la direzione del voto.
Similmente, anche l’analisi orientata alla considerazione delle variabili sociali ed economiche riesce a spiegare solo una parte modesta delle scelte elettorali, rivelando pertanto una debole capacità predittiva. Per spiegare e prevedere il comportamento di voto, appare necessario ricorrere ad altri elementi, quali le tradizioni, l’appartenenza a subculture, la forza organizzativa dei partiti, la struttura dei canali di comunicazione, la forza di persuasione dei leader.
Il tentativo degli autori è quello di fondare la possibilità della previsione sulla base della
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definizione di una struttura della scelta elettorale in Italia, posto che proprio il riferimento al ‘mercato’ potrebbe risultare astratto e fuorviante, qualora non desse conto della molteplicità di fattori che rendono estremamente diversificata la dinamica della formazione delle scelte. Il libro si fonda, come si è detto, su una ricerca demoscopica, il cui criterio animatore è quello della classificazione soggettiva dei cittadini, la loro autocollocazione lungo il continuum sinistra/destra, un modello di cui si sottolinea la perdurante validità. Il primo fattore utilizzato, il primo filtro che riduce le alternative considerate dagli elettori, è la preferenza politica negativa, vale a dire la vasta area delle preclusioni. Il meccanismo delle esclusioni, come risulta dall’inchiesta, appare correlato in modo abbastanza netto con gli orientamenti degli elettori favorevoli a questo o quel partito. In secondo luogo, viene considerata l’identificazione partitica, un fenomeno che riduce ulteriormente la scelta elettorale, e che in Italia coinvolge ancora una massa imponente di cittadini. Il terzo fattore è quello dell’identificazione di area, vale a dire l’ancoraggio sul continuum sinistra/destra. Infine, viene preso in esame il giudizio espresso sui leader politici: la connessione tra valutazione sui leader e intenzione di voto, pure rilevata, rende solo in parte ragione della preferenza partitica.
L’insieme degli elementi considerati consente un apprezzabile livello di approssimazione, concettuale e psicologica, all’intenzione di voto. Precisate
le aree interessate ad una dinamica di mercato, vengono prese in considerazione le varie componenti del processo di mutamento elettorale, approntando anche in questo caso un’articolata e persuasiva tipologia. Ne risulta complessivamente che la competizione nel sistema partitico italiano conserva tuttora un carattere notevolmente strutturato. Non ci si trova di fronte ad un unico mercato elettorale ove sono in competizione tutti i ‘produttori’ e tutti i ‘consumatori’, non ci si trova dinnanzi ad un bellum omnium contra omnes, come gli stessi autori sottolineano. Si tratta piuttosto di una pluralità di aree continue, talora parzialmente sovrapposte, nelle quali la competizione coinvolge segmenti diversi di elettorato e di forze politiche.
Un mercato in movimento, a giudizio degli autori, i quali tuttavia ricordano che l’entità e le caratteristiche delle trasformazioni rilevate non possono sollecitare aspettative di grossi cambiamenti nel breve periodo. L’attenta valutazione dei fattori di più lungo periodo, ai quali sembra ancorata la straordinaria continuità del sistema politico italiano, e la considerazione delle lente ma significative variazioni registratesi negli anni, fanno di questo volume un utile ed interessante contributo alla comprensione del ‘caso italiano’.
Salvatore Minolfi
Guido D ’A gostino, Alla ricerca di un futuro. Il voto a Napoli dal 1980 al 1985, Napoli, Athena, 1987, pp. 175, lire20 . 000.
Alla ricerca di un futuro è il più recente lavoro che Guido D’Agostino dedica alla storia elettorale di Napoli. Si tratta di un volume antologico che raccoglie una serie di articoli e saggi pubblicati in diversi giornali e riviste tra il 1980 e il 1986 e, pertanto, si pone come logica persecuzione di Napoli alle urne, ricostruzione ed analisi del voto urbano dal 1946 al 1979 (G. D’Agostino, Napoli alle urne. Il voto urbano dal 1946 al 1979, Napoli, Guida, 1980).
Suddiviso in nove capitoli, organizzati attorno ad altrettanti momenti salienti della storia elettorale cittadina, il libro si apre con un gruppo di articoli sul decentramento amministrativo della città. Il decennale processo che ha portato all’istituzione dei Consigli circoscrizionali (1980) è qui ripercorso nelle sue tappe fondamentali e, attraverso il minuzioso confronto tra il regolamento dei Consigli circoscrizionali proposto dalla giunta di sinistra allora in carica ed il testo definitivo approvato dal Consiglio comunale, viene ricordato il duro scontro che si ebbe tra le forze politiche nel momento in cui missini, democristiani e repubblicani, con la loro opera di resistenza e boicottaggio, mostrarono “di temere, più che desiderare e favorire, la partecipazione effettiva dei cittadini nei processi decisionali e di controllo [e preferire] il dato della funzionalità burocratica a scapito della sostanza progressiva presente nei tratti e nelle attribuzioni dei nuovi organismi” (p. 14). In definitiva, un arroccamento nella difesa del potere unitario e centralizzato che limitando compiti ed attribuzioni
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dei nascenti Consigli circoscrizionali li ha di fatto impoveriti e resi incapaci di operare incisivamente. In tale contesto non stupisce che i Consigli circoscrizionali abbiano rappresentato “l’esatto contrario della tensione, innovazione e coraggio necessari” ed abbiano riproposto al loro interno le stesse logiche di potere e prassi amministrative proprie di organismi più ampi e generali. Né, d ’altra parte, si sarebbe potuto sperare di meglio da “un personale politico scarsamente radicato nel territorio, e collocato invece nelle sezioni e negli uffici dei partiti, poco preparato e poco motivato, intenzionato anzi ad usare l’esperienza di consigliere circoscrizionale per avviarsi verso mete ritenute più prestigiose” (p. 30). Il decentramento, dunque, non appare a D’Agostino come sinonimo di partecipazione. Il decentramento rappresenta certo il prerequisito istituzionale ma la partecipazione richiede una chiara volontà politica (che, come abbiamo visto, è mancata) oltre che un diverso atteggiamento dei “cittadini-utenti” . L’esperienza di questi anni ha infatti dimostrato che quando vi sono una reale volontà politica e reali spazi di intervento ‘la base’ non è né abulica né assente, ma ha altresì confermato che troppo spesso permangono verso la sfera del politico fenomeni di diffidenza, qualunquismo e disinformazione che in definitiva favoriscono il clientelismo, la corruzione ed il malgoverno delle forze politiche più conservatrici. Si ha, insomma, una sorta di circolo vizioso, quello che in altra sede D’Agostino ha definito “effetto boomerang” (G. D’Agostino, Napoli: governo e
amministrazione della città dalla caduta del fascismo alla Repubblica 1943-1946, in Aa.Vv., Alle radici del nostro presente, Napoli, Guida, 1986 p. 42). La capacità di rompere questo stato di cose, la possibilità di ricreare un diverso rapporto tra società civile e ceto politico, è dunque il banco di prova per tutte le forze della sinistra, la cartina di tornasole con la quale misurare la consistenza di ogni ipotesi di sviluppo e progresso civile della città.
Ma, come dicevamo in apertura, non è solo il problema del decentramento ad essere affrontato dall’autore e dai suoi collaboratori (Maurizio Mandolini, Alessandro Nevola, Riccardo Vigilante) bensì tutti i principali momenti elettorali tra l’ottanta e l’ottantacinque. Vi troviamo, dunque, analisi dei risultati delle elezioni amministrative e politiche, dei referendum popolari e delle elezioni europee. Emerge, così, il carattere di insularità del voto napoletano (cioè la sua unicità, diversità rispetto al contesto provinciale, regionale, meridionale e nazionale); di orientazione tripolare (polo libe- ral-monarchico e neofascista, polo democristiano, polo comunista) dei suffragi; di enfatizzazione selettiva (la capacità della società napoletana di ridurre o amplificare tendenze più generali in atto sul territorio nazionale) nel quadro di un’accentuata contrapposizione tra piano locale e piano nazionale ben evidente nello scarto tra il voto amministrativo e quello politico. Il voto amministrativo, infatti, soltanto tra il 1963 ed il 1972 ha premiato un quadro politico omologo a quello nazionale (De) ma più spesso ha dato vita
a giunte municipali in netto antagonismo col governo centrale (si pensi all’esperienza laurina e, più recentemente, alle giunte di sinistra). II testo si presenta utile sia ai politici, quale insostituibile strumento di conoscenza e di lavoro sia agli storici che sempre più vedono nella storia elettorale una sorta di cerniera tra la storia elettorale stessa e quella politico-istituzionale e sociale (vedi, Lo spazio regionale. Contributi di storia elettorale e rassegne sul ceto politico locale, “Italia contemporanea” , 1987, n. 167).
Raffaele Messina
Gli ambasciatori italiani e la diplomazia oggi, a cura di Enrico Serra, Milano, Angeli, 1986, pp. 244, lire 24.000.
Proseguendo in un disegno avviato con il volume La diplomazia in Italia (Milano, Angeli, 1985), E. Serra, curatore di questo volume, tenta di gettare ulteriore luce su alcuni aspetti della politica internazionale e in particolare sul ruolo italiano in questo ambito. Dopo aver dato, con il primo libro, una serie di indicazioni sulla struttura del ministero degli Esteri, sulla sua evoluzione storica e amministrativa, sulle sue tradizioni, sulla ‘tecnica’ diplomatica, sulle fonti archivistiche, ora egli ha inteso offrire un gruppo di testimonianze ‘dall’interno’, redatte da alcuni fra i più rappresentativi esponenti della diplomazia italiana, in servizio e non: da Gaja a Farace, a Chelli, a Guazzarono a Maccotta, a Mondello, a Ortona, a Plaja, a Romano, a Tornetta, a Vita Finzi. Ad essi è stato affidato il compito
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di affrontare e analizzare brevemente aspetti diversi delle attività del diplomatico, nonché momenti della politica estera del paese. Sono stati così esaminati numerosi temi nei saggi: Dalla diplomazia sarda alla diplomazia italiana, La Santa Sede, L ’opinione pubblica, La diplomazia multilaterale, sino al saggio conclusivo e un poco inconsueto sul rapporto fra satira e diplomazia.
Nella presentazione, Serra, il quale conta di far seguire a questo un secondo volume, avverte come ci si trovi di fronte a “delle riflessioni e non a dei saggi storici”. Ciò nonostante, o forse proprio per questa ragione, il curatore sostiene che l’opera “offre un materiale prezioso tanto agli studiosi che ai diplomatici ed agli operatori internazionali” (p. 12).
In effetti il volume risente di questa peculiare impostazione. Molto diversi fra loro sono gli approcci metodologici scelti dai vari autori, da quello storico, a quello politologico, dalla memorialistica all’aneddotica. Né si può affermare che l’azione internazionale dell’Italia, per quanto ben presente nell’esperienza di tutti coloro che hanno contribuito al libro, rappresenti un elemento unificante tutti i saggi, perché a volte l’attenzione si è concentrata sulla politica estera di altri paesi o sulla diplomazia in quanto “strumento” di politica. A una lettura superficiale del volume risulterebbe quasi confermato il luogo comune secondo il quale una delle caratteristiche del diplomatico è il possesso di una certa dose di “eclettismo” . Quest’ul- tima osservazione è però in gran parte ingiusta. Alcuni con
tributi risultano, al contrario, particolarmente interessanti per la comprensione del retroterra culturale e politico, degli atteggiamenti ‘psicologici’ di una componente significativa del personale diplomatico italiano che ha operato tra la fine del fascismo e gli anni settanta; va ricordato come, ad eccezione di Claudio Chelli, Vincenzo Tor- netta e Sergio Romano, gli autori siano entrati “in carriera” durante gli anni trenta, raggiungendo gli incarichi di maggiore prestigio e responsabilità intorno agli anni sessanta. Alcuni saggi si fanno apprezzare inoltre per la vivacità dello stile, altri per la narrazione di episodi di rilievo, altri ancora per l’acutezza di certe valutazioni.
Non è questa la sede per un esame dettagliato di ogni singolo contributo, ma pare opportuno ricordare il saggio di Roberto Gaja, il quale contiene sintetiche e utili osservazioni sulla “doppia anima” della politica estera italiana, “quella classica, studiosa degli equilibri continentali, e quella nazionalistica, ansiosa di dare una nuova impostazione alle relazioni fra i popoli” (p. 34). Altrettanto interessanti risultano le brevi note biografiche di Sergio Romano, il quale ha cercato di spiegare il nesso esistente tra la propria esperienza di diplomatico e l’attività di storico e commentatore politico. Né si può infine dimenticare il contributo di Paolo Vita Finzi; egli ha infatti offerto alcune umoristiche osservazioni sui numerosi e spesso fuorviami luoghi comuni connessi all’attività del diplomatico.
In conclusione si può affermare che il volume offre utili
spunti di riflessione e non resta che attendere un ulteriore approfondimento su alcuni dei temi presi in considerazione, in particolare sull’azione e sul ruolo del ministero degli Esteri e del suo personale nella formazione della politica estera italiana.
Antonio Varsori
Giorgio Brosio e Carla Marchese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 204, lire 15.000.
Scritto da due economisti, ma indirizzato nelle intenzioni degli autori ad un pubblico non specializzato, interessato alle scienze sociali in genere, il volume si propone di ripercorrere l’evoluzione della spesa pubblica nella storia dell’Italia postunitaria fino alla “abnorme espansione” dell’ultimo ventennio. Più che alla ricostruzione storica, tuttavia, il ricco materiale informativo raccolto appare finalizzato alla definizione di una modellistica economica, alla quale gli autori — pur riconoscendo minore ricchezza analitica rispetto alla metodologia della storia — attribuiscono rigore e possibilità di verifica superiori. Il compito di “mettere in luce le relazioni essenziali fra il fenomeno studiato (la spesa pubblica) e il contesto societario in cui essa è determinata” resta perciò affidato all’individuazione, da un lato, delle regole del gioco politico (i meccanismi decisionali) e dall’altro, dei fattori che determinano le preferenze dei responsabili in materia di spesa, in una prò-
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spettiva di comparazione fra tre differenti assetti socio-istituzionali: l’Italia liberale, la dittatura fascista, la democrazia del dopoguerra. Proprio tale sforzo comparativo costituisce il merito maggiore del volume, al di là dei frequenti schematismi e di giudizi storici talvolta riduttivi o affrettati.
L’ipotesi centrale del lavoro considera la spesa pubblica come un fenomeno essenzialmente redistributivo, “uno strumento cioè che gruppi e singoli utilizzano, secondo quanto loro permesso dai contesti politicoistituzionali esistenti, per modificare la propria posizione relativa” . Il ruolo diretto dello stato nell’economia ed il suo contributo allo sviluppo della produzione restano perciò programmaticamente esclusi dall’analisi. A questa impostazione corrisponde la preferenza dichiarata per un modello interpretativo di tipo ‘politico’, secondo il quale all’allargamento della partecipazione politica corrisponde, nel lungo periodo ma inevitabilmente, un’espansione della spesa pubblica. Attraverso la costruzione di serie storiche che analizzano le categorie di spesa e la ripartizione del carico tributario, gli autori giungono alla conclusione che per il periodo liberale “appare storicamente più corretto, e analiticamente più sostenibile, un modello in cui la classe ristretta che detiene il diritto di voto, e che si amplia con lentezza, [...] difende accanita- mente, cercando di protrarlo il più a lungo possibile, il potere di sfruttamento delle classi più povere escluse dalla partecipazione politica”.
Una particolare attenzione è rivolta tuttavia al periodo re
pubblicano, considerato quello in cui il nesso espansione della spesa pubblica/partecipazione politica trova la sua concretizzazione più esplicita. L’analisi della struttura della spesa pubblica dimostra con chiarezza la diminuzione relativa della quota dei consumi e degli investimenti pubblici (le voci che contemplano un utilizzo diretto di risorse reali ed un intervento più incisivo nell’economia da parte del settore pubblico) rispetto alla quota dei trasferimenti (spese sociali e interessi sul debito), che non incidono sulle dimensioni relative del settore pubblico rispetto a quello privato in termini di produzione effettuata. Da ciò deriva la tesi per cui il ‘nocciolo duro’ del settore pubblico, nel periodo 1950- 1982, ha teso al declino, fornendo una quota via via minore di servizi reali all’organizzazione economica.
La centralità detenuta dal ruolo redistributivo, mediante strumenti fiscali e spese sociali, nella formazione e nel mantenimento delle maggioranze del dopoguerra spinge i due autori a stabilire una stretta analogia tra i modelli utilizzati per il regime fascista e la democrazia postbellica, per quanto concerne i meccanismi di decisione della spesa: ossia per il ruolo giocato, da un lato, dai gruppi di interesse e, dall’altro, dalla ricerca (seppure con modalità diverse) del consenso. Tale analogia non vuole coinvolgere la teoria dei sistemi politici, ma intende porre in relazione “un caso specifico di democrazia ‘bloccata’ [...] e un caso specifico di dittatura, con importanti caratteri di populismo, come quella fascista”. Nel secondo
dopoguerra, in ogni caso, all’aumento del numero dei gruppi sociali beneficiari della spesa e all’accentuazione del ritmo di crescita di quest’ultima, hanno corrisposto una perdita di chiarezza del senso della redistribuzione operata ed una moltiplicazione di fenomeni di “illusione finanziaria” come l’espansione delle entrate tramite l’indebitamento pubblico o i tributi prelevati con ritenute alla fonte.
In conclusione, alla domanda iniziale se una presenza pubblica tanto massiccia sia compatibile con la crescita a ritmi soddisfacenti dell’economia e con il mantenimento dei livelli di libertà raggiunti nelle scelte individuali, gli autori rispondono sottolineando la continuità storica del caso italiano, cioè la “netta preferenza per le soluzioni pubbliche” : “a meno che i problemi del finanziamento divengano così drammatici da imporre drastici tagli, non ci sono indicazioni che questa elevata propensione all’offerta di spesa pubblica da parte della classe politica italiana debba ridursi”. D’altra parte essi giudicano inaccettabile ogni valutazione aprioristicamente negativa dell’intervento pubblico, riconoscendo come le proposte di revisione costituzionale e di privatizzazione godano oggi, grazie alla ventata antistatalistica degli ultimi anni, di un credito “forse superiore alla loro effettiva consistenza” .
Stefano Battilossi
P ietro Barcellona, A ntonio Cantaro, La sinistra e lo Stato sociale, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 206, lire 16.000.
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Il lavoro è presentato dagli autori come una rielaborazione della riflessione collettiva svoltasi al Centro per la riforma dello Stato nel 1980-83. Il primo passo è una ricognizione delle forme della crisi dello stato sociale così come emergono nelle recenti analisi politologiche: la sfasatura tra apparato politico amministrativo e bisogni sociali— per cui la spesa pubblica non riesce a far fronte alle nuove domande sociali sull’ambiente, la qualità della vita, il sistema delle relazioni umane (è il tema delle domande sociali cosiddette post-materialistiche) — determina una contraddizione tra la necessità di legittimazione dell’apparato e la sua capacità di accumulazione (nell’aspettò di stato imprenditore, che è uno dei lati fondamentali della figura del welfare state sulla cui crisi verte il discorso); questa incapacità imprenditoriale si riflette poi nella impossibilità di mantenere efficiente la articolazione tra intervento statale ed accumulazione privata attraverso le funzioni diversificate della spesa pubblica.
La crisi del welfare state mostra dunque un aspetto ‘interno’— in termini di caduta di redditività della amministrazione pubblica — ed uno ‘esterno’ come caduta di credibilità presso gli strati sociali emarginati o portatori di nuove domande, rispetto ai quali la stessa dinamica della compensazione monetaria ad opera dello stato in qualità di redistributore della ricchezza sociale (altro lato del welfare state) risulta inefficace, e peraltro gravemente incrinata a partire dalla crisi dell’accumulazione negli anni settanta. In questa situazione è tutto il siste
ma di funzioni sulla cui chiara distinzione si sono rette fino ad oggi le democrazie europee a subire una complessiva distorsione: già la scelta di obiettivi puramente economici diviene nel nuovo contesto una selezione politica dall’alto della effettiva domanda sociale, mentre la funzione redistributiva ha percorso fino in fondo la via dell’assistenzialismo.
Gli autori rilevano la tendenza alla omologazione programmatica in politica economica tra destra e sinistra con la conseguente perdita, per il sistema politico, di quel ruolo fonda- mentale di filtro e organizzatore delle domande sociali intorno a solidarietà di diversi interessi e ben definite identità collettive.
In queste condizioni, politica e amministrazione tendono a confondersi: il ceto politico di governo si presenta come proprietario della impresa-amministrazione di cui gestisce gli apparati e la erogazione delle risorse mentre i partiti riducono il loro ruolo a quello di selezionare il personale dirigente e amministrativo (è la cosiddetta occupazione dello stato). Naturalmente i diversi aspetti della complessiva crisi di rappresentanza incidono con maggiore acutezza proprio su quei partiti — la sinistra italiana e in particolare il Pei — che maggiormente hanno lavorato in questi anni alla creazione di una identità collettiva poggiata su un complessivo progetto di mutamento dei rapporti tra politica, economia e società. I partiti tradizionali si trovano a dover fare i conti con una perdita di peso del conflitto capitale-lavoro nelle sue sedi classiche e con la frantumazione degli interessi
per l’emergere di nuove figure sociali nate dai nuovi processi produttivi ed anche generate dalla stessa politica redistributiva dello ‘stato sociale’.
È in sostanza l’intero modello neocorporativo a mostrare la corda in queste analisi, quel modello che — sulla base di rappresentanze stabili e legittimate delle grandi forze sociali e di istituti capaci di garantire lo scambio politico tra queste e lo stato — prevedeva la definizione consensuale delle compatibilità economiche e sociali grazie alla mediazione politico parlamentare e alla contrattazione collettiva.
Ripercorrendo le grandi fasi della politica economica in Italia dal dopoguerra, l’attenzione si volge all’anomala gestione di questi processi da parte della De, che deve svolgere il ruolo di partito che realizza al suo interno il compromesso sociale, ma anche di partito anticomunista, antagonista oggettivo di una gran parte del mondo del lavoro. La De disorganizza il blocco dominante degli industriali del nord e degli agrari del meridione colpendo i latifondi con la riforma agraria e costituendo un’industria di stato per condizionare a monte le scelte del processo di accumulazione, ed opera in tal modo anche un acquisto di potere contrattuale rispetto ai gruppi trainanti del capitalismo italiano; nello stesso tempo tende a ridurre il ruolo del movimento operaio e delle masse popolari dentro i confini della mediazione statale e istituzionale. Si configura così, in questa “grande operazione riformistica e reazionaria nello stesso tempo” (p. 77), la peculiarità di uno ‘stato sociale’ che si viene realizzando a scapito
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dell’unità del mondo del lavoro, scomponendo lo stesso blocco riformatore per impedire che l’aggregazione avvenga sul polo segnato dalla presenza del Pei.
Alla chiarezza di analisi, sia sul piano delle teorie complessive, sia su quello della singolare situazione italiana sino alle preoccupanti prospettive degli odierni processi di ristrutturazione, fa però riscontro una più discutibile individuazione delle proposte, — che finiscono col fare riferimento al “piano Meidner” per la “progressiva socializzazione dei mezzi di produzione attraverso l’istituzione di fondi collettivi dei lavoratori” (p. 203), cioè ad un modello di progetto economico che — come è dichiarato dagli stessi autori — nasce ed è pensabile solo in un contesto, quello svedese, totalmente diverso da quello puntualmente analizzato per l’Italia.
Luca Fiacco
Movimento cattolico
Giorgio Vecchio, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 324, lire28.000.
Il nodo del partito è sicuramente un punto di riferimento centrale nell’esperienza politica dei cattolici italiani. Ad esso si è costantemente rifatta quella storiografia di matrice cattolica che ha inteso farne l’asse portante di un processo di sviluppo continuo, anche se non lineare, attraverso il quale si afferma e si legittima l’ascesa del
movimento dei cattolici organizzati all’interno dello stato laico, fino alle massime responsabilità politiche e istituzionali.
La graduale affermazione del “partito di ispirazione cristiana” , “organismo tendenzialmente aconfessionale, laico, organizzato” , è appunto il filo conduttore dei saggi che G. Vecchio ha raccolto in questo volume e che, per quanto stesi in occasioni diverse, si presentano collegati da una sostanziale continuità tematica e cronologica. L’autore, ripercorrendo le esperienze storiche di alcuni protagonisti di primo piano e di alcuni significativi centri di aggregazione del movimento cattolico italiano, intende ricostruire i fondamenti culturali e politici, per molti aspetti condizionanti, delia presenza pubblica dei cattolici, dagli inizi del secolo fino alla vicenda del Partito popolare nel primo dopoguerra. Ne conseuge che il Ppi (al quale lo stesso Vecchio aveva già dedicato un ampio e documentato volume nel 1982) si presenta come il passaggio conclusivo del lungo travaglio collettivo di una intera generazione di dirigenti cattolici, piuttosto che come frutto peculiare del genio politico di Luigi Stur- zo, e al tempo stesso appare inserito nel generale processo di crescita democratica dei cattolici europei, ossia in un contesto assai più ampio e dinamico di quello segnato dai confini nazionali.
Senza entrare qui in un’analisi particolareggiata dei singoli saggi, si può osservare che Vecchio sviluppa efficacemente queste ipotesi di ricerca, anche se solo per sondaggi, come è
nella natura del suo lavoro, anziché attraverso un approfondimento organico del tema. Si che sorge immediatamente l’interrogativo su quanto la complessa realtà del movimento cattolico italiano possa confermare, nell’insieme, le pur significative esperienze affrontate dall’autore, tutte, per l’appunto, collocate nel contesto politico e culturale più avanzato, che è quello dell’Italia settentrionale. Ora, non c’è dubbio che Meda, Miglioli o l’Unione giovani cattolici milanesi rappresentino, nei rispettivi ambiti, le punte emergenti di questo processo di crescita dei cattolici italiani. (Diverso il discorso per quanto riguarda la Scuola sociale cattolica di Bergamo, di cui l’autore non manca di mettere in luce il “carattere tutto sommato superficiale e arretrato”). Resta da vedere quanto questi ‘casi’ possano essere assunti a rappresentazione di un’evoluzione generale e quanto invece restino aspetti particolari e perfino contraddittori rispetto alla realtà complessiva.
D’altra parte, centrando significativamente l’attenzione sui processi politici, l’autore evita di cadere nella tradizionale apologia della socialità clericale e di rifarsi esclusivamente alla letteratura specialistica di parte cattolica. Ciò gli consente di valutare criticamente la debolezza teorica e pratica dell’opposizione cattolica nell’Italia liberale e di ricondurre a questo “limite ereditario” il ritardo accumulato dai cattolici nel misurarsi concretamente con la problematica istituzionale e politica della democrazia moderna. Temi meritevoli di ulteriori approfondimenti e di
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approcci più generali, ma sui quali il volume fornisce comunque validi spunti di discussione.
Mario G. Rossi
Gianni La Bella, “L o Spettatore Italiano" 1948-1954, Brescia, Morcelliana, 1986, pp. 238, lire 20.000.
Nel dare conto di questo saggio è opportuno chiarire preliminarmente che il titolo è, almeno parzialmente, fuorviante: non si tratta infatti di una ricostruzione dell’esperienza culturale complessiva di questa rivista, bensì dell’analisi del percorso politico e culturale di alcuni noti intellettuali provenienti dalla ‘diaspora’ seguita allo scioglimento del partito della Sinistra cristiana, avvenuto nel dicembre 1945, che avevano trovato modo di esprimersi appunto sulle colonne del periodico fondato da Elena Croce, Raimondo Craveri e Pietro Antonelli: tra questi Filippo Sacconi, Gabriele De Rosa e, in posizione defilata ma non per questo meno importante (p. 31), Franco Rodano. La precisazione non è da considerarsi pedante o poco importante: “Lo Spettatore” era infatti nato nel 1948 con tu tt’altra caratterizzazione politica e culturale rispetto a quella che verrà ad assumere con il 1950-51, soprattutto in relazione all’ingresso nella redazione degli intellettuali citati. Si trattava inizialmente di una rivista a vocazione eminentemente critico letteraria, espressione di una “raffinata élite intellettuale” “di tradizione crociana e postidealista” ben esemplificata dai nomi
dei fondatori. Con l’inizio degli anni cinquanta la struttura della rivista cambiò, aggiungendosi alla parte letteraria “una parte politica sempre più nutrita” di cui De Rosa, Sacconi e soprattutto Rodano furono animatori. La collaborazione tra queste due anime tanto diverse durò poco: nel giugno del 1954, dopo alcuni mesi di crisi latente, avvenne la rottura cui seguì, l’estate stessa, la ripresa delle pubblicazioni su nuove basi, senza la componente che per brevità diremo ‘rodaniana’. Considerando il carattere paradossale del ‘luogo intellettuale’ scelto dal gruppo ‘rodaniano’ per esprimere le proprie idee — “volendo privilegiare un dialogo comunisti-mondo cattolico tutto da costruire, si parte da una tribuna che non appartiene a nessuno dei due campi” , ossia una rivista ‘crociana’ (Giovanni Tassani, p. 24) — a stupire non è tanto la fine della collaborazione, quanto la collaborazione stessa. Questa può essere spiegata sia dalla mediazione di Raffaele Mattioli, “amico da tempo di Franco Rodano e molto vicino all’esperienza dello Spettatore” (p. 22), sia da talune consonanze tra i punti programmatici espressi da Craveri (direttore della rivista tra il gennaio 1949 e il marzo 1952) — ad esempio “Lo Spettatore” non doveva essere né anticomunista né anticlericale e doveva opporsi alla guerra fredda (p. 24) — e alcune delle tematiche qualificanti delle posizioni dei redattori provenienti dalla Sinistra cristiana (si vedano in particolare i capitoli II e VI). In seguito l’aprirsi della forbice tra le opzioni politiche ed editoriali di Craveri e della Croce da un
lato, e quelle del gruppo ‘rodaniano’ dall’altro — fondamentale a questo riguardo sembra l’allineamento progressivo di quest’ultimo alle posizioni comuniste (pp. 79 e 82) — portò alla rottura del gruppo e alla crisi della rivista. Tuttavia le vicende interne della rivista interessano relativamente La Bella; del resto, anche la crisi de “Lo Spettatore” non va spiegata solamente con i motivi di cui si è detto, ma anche con difficoltà interne alle scelte ideologiche del gruppo redazionale cattolico, ossia con la “esaurita funzione politica e culturale della rivista” (p. 81); in altre parole, “Lo Spettatore” si era “quasi immobilizzato in una lettura dei fatti e degli avvenimenti politici nazionali e internazionali che col tempo era diventata anacronistica e che non riusciva più a confrontarsi e a collegarsi con quanto di nuovo veniva maturando sia sul piano delle idee che del loro sviluppo politico ed ideologico” (p. 81) alla metà degli anni cinquanta. Ne conseguì una nuova diaspora del gruppo dei cattolici-comunisti.
Oggetto del saggio, come ho cercato di chiarire in questa premessa, non è dunque “Lo Spettatore” in quanto tale, ma, per così dire, la Sinistra cristiana dopo la Sinistra cristiana: in altre parole, scopo di La Bella è quello di “vedere se, finita l’esperienza politica della Sinistra cristiana, ne sopravvisse qualche elemento culturale e in quale modo si evolsero gli intellettuali che avevano accettato di confluire nel Partito comunista” nel 1945 (pp. 14-15). La Bella ricostruisce dunque i temi trattati dalla rivista, aggiungen
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do al saggio una antologia di scritti apparsi su “Lo Spettatore”, tanto più utile quanto più difficile appare la reperibilità di un periodico che, pur essendo seguito dal mondo politico e intellettuale che contava, ebbe una tiratura che “non oltrepassò mai le 550-650 copie” (P. 27).
Espressione di un tentativo “di liberare il linguaggio politico da ogni ossessione ideologica, dalle ambiguità, dalle scaltrezze, dai pregiudizi di una stagione culturalmente ferrigna e discriminatoria” (p. 25) e come tale esperienza da seguire con interesse, “Lo Spettatore” aveva però molti limiti.
Ad esempio considerare la presidenza di Eisenhower “il primo passo [...] verso una probabile evoluzione di tipo fascista dello strapotere militare americano” (p. 40) e suggerire che “il comunismo internazionale avrebbe dovuto [...] profittare del contraccolpo che il moto involutivo americano avrebbe determinato sulle forze antifasciste per assumere le difese delle libertà borghesi e salvare il mondo politico dalla reazione e dal fascismo” (p. 41, e in appendice La bandiera delle libertà borghesi del 1952, pp. 99-101), appare una forzatura tanto più fastidiosa in quanto non si fa cenno della situazione esistente proprio in quel torno di tempo nei paesi dell’Europa orientale dove si era ben lontani dal salvaguardare le ‘libertà borghesi’. Ancora, il considerare l’egemonia europea “un fatto materiale e ideale che non poteva essere delegato” agli Usa, visti come detentori di una mera “potenza economica e materiale” (p. 39), ricorda da
vicino ideologismi, ampiamente diffusi nel mondo cattolico negli anni tra le due guerre, tesi ad esaltare la civiltà (cristiana) dell’Europa contro il materialismo ed il dominio della tecnica tipici dell’America. In conclusione vogliamo segnalare quella che fu l’ipotesi politica e culturale di fondo de “Lo Spettatore” o, meglio, del gruppo ‘ro- daniano’ al suo interno, quella cioè dell’incontro storico fra la chiesa cattolica e il Pei, “le uniche aggregazioni storiche portatrici di valori e verità ideali rivoluzionarie” (p. 82), con il corollario della negazione di “ogni legittimità e ogni valore storico-politico e ideale al ruolo e alla funzione della Democrazia cristiana” (pp. 82-83) che, dopo le elezioni del 1953, sembrava destinata a scomparire dalla scena politica italiana (pp. 59-61): un’ipotesi smentita ben presto dalla realtà.
Gilberto Bolliger
I cattolici italiani e la guerra di Spagna. Studi e ricerche, a cura di Giorgio Campanini, prefazione di Gabriele De Rosa, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 238, lire 20.000.
Nel panorama non particolarmente nutrito degli studi sulla chiesa e i cattolici di fronte alla guerra civile spagnola, la raccolta di saggi curata da Giorgio Campanini ha anzitutto il merito di individuare una lacuna e di porsi l’obiettivo d’iniziare a recuperare il ritardo.
I saggi vertono sulla condotta delle principali riviste e dei più diffusi quotidiani cattolici italiani durante la guerra di
Spagna, su Pio XI, nonché sull’atteggiamento di alcune personalità cattoliche di primissimo piano quali De Gasperi e Gonella, che seguono le vicende spagnole dal privilegiato osservatorio vaticano, e Luigi Sturzo che le valuta da quello londinese.
Indicando nell’Introduzione come “luogo comune” storiografico il presunto monolitismo del mondo cattolico italiano di fronte alle vicende spagnole, Campanini ricorda “che si registra qui una convergenza, ma non sempre una coincidenza, fra la linea dell’episcopato, del clero e della stampa cattolica italiani e quella della S. Sede” (p. 13). A riprova porta gli entusiasmi filofranchisti di larga parte delle testate prese in esame rispetto alla più prudente posizione ufficiale del Vaticano, la crisi strisciante all’interno della redazione di “Frontespizio”, le letture politiche della tragedia spagnola che fanno De Gasperi e Gonella in contrasto con le diffuse interpretazioni in chiave religiosa, l’esplicito dissenso del futuro leader dei cristiano-sociali Gerardo Bruni, degli allora giovanissimi cattolici-comunisti e di don Primo Mazzolari (di cui è proposto un interessante inedito). Elementi tutti che, nonostante la questione dei vergognosi silenzi sulle atrocità commesse dagli insorti (ivi compreso il bombardamento di Guernica), solo in parte giustificati dalla mancanza di informazioni di prima mano, rivelano la presenza a volte di significative differenze nelle valutazioni, altre volte di non meno interessanti sfumature.
Seguono gli studi di Egidio Walter Crivellin su Pio XI, pre
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valentemente condotto sulla scia dei lavori spagnoli di Antonio Marquina Barrio e soprattutto di Hilari Raguer i Suner; di Aldo Albonico sul cattolicesimo ambrosiano e le differenti linee rappresentate da Gemelli, dalle riviste dell’Università del Sacro Cuore e da “L’Italia” e “La Scuola cattolica”; di Leo Lestingi su “La Civiltà Cattolica” ; di Mario Tesini sul bolognese “L’Avvenire d ’Italia” ; di Gabriele Laterza su “L’Eco di Bergamo”; dello stesso Campanini su Sturzo e, infine, la descrizione ad opera di Luis Este- ban de Llera, dei documenti di Tommaso Gallarati-Scotti, ambasciatore a Madrid nel 1945- 46, conservati presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Pur con qualche disomogeneità nel livello d ’approfondimento (non sempre le fonti risultano adeguatamente ‘spremute’) complessivamente considerati i saggi offrono una panoramica sufficientemente completa e documentano il brusco mutamento d ’indirizzo sui fatti spagnoli in ottemperanza ad evidenti direttive provenienti dall’alto (è questo il caso de “L’Italia” e de “L’Avvenire d ’Italia”), il successivo generale allineamento alla ‘crociata’, il plauso per l’intervento italiano, il sostegno alla lettera collettiva dell’episcopato spagnolo del 1937, i colpevoli silenzi di cui si è detto.
Qualche considerazione a parte merita lo studio di Campanini sulla posizione del fondatore del Ppi, ricostruita attraverso i numerosi e lucidi articoli del periodo. Conoscitore della realtà iberica con la quale è stato ed è in contatto, il sacerdote di Caltagirone svolge dall’esilio
londinese una costante opera di chiarificazione intellettuale e di sostegno politico alle iniziative del Comitato per la pace civile e religiosa in Spagna di cui fa parte. In particolare mostra l’illegittimità dell’ alzamiento dal punto di vista cattolico, coglie e sottolinea a più riprese le radici politiche del conflitto del quale l’aspetto religioso non sarebbe che un riflesso, si batte affinché la chiesa assuma una posizione non di parte e compia proficua opera di pacificazione. Una posizione, com’è dato vedere e come Campanini rileva, che solo apparentemente avvicina Sturzo a De Gasperi e Gonella sulla base della lettura in chiave politica degli avvenimenti spagnoli, ma che in realtà è premessa nel primo caso ad una netta denuncia del movimiento eversivo nazionalista e ad una collocazione imparziale, mentre nel secondo si affaccia attraverso la teoria del “male minore” una finale propensione per la Spagna di Franco (p. 15).
Una serie di spunti stimolanti deriva in conclusione dalla lettura dei saggi che sollecitano la ricerca ad ulteriori approfondimenti sia nella direzione dei bollettini parrocchiali e diocesani, della pastorale, della predicazione e della pietà popolare, sia in quella della condotta dei vertici ecclesiastici.
Allo stato degli studi la corretta individuazione di difformità e sfumature nel seno del cattolicesimo italiano, non solleva i vertici della chiesa dalla responsabilità di un contegno sostanzialmente unilaterale. Certo, vari segnali ne rivelano le cautele e la difformità dei toni rispetto all’intransigenza dell’episcopato spagnolo che, come
da tempo ha chiarito la storiografia spagnola sull’argomento, ebbe un ruolo decisivo nel coinvolgere la Santa Sede a sostegno della causa franchista. Ma è anche vero, d ’altra parte, che la chiave anticomunista nella quale furono letti ed ingabbiati gli avvenimenti spagnoli venne elaborata con la Divini Redempto- ris al di qua dei Pirenei e che parimenti ‘romana’ fu la decisione di mettere a capo della chiesa spagnola l’intollerante Isidro Gomà y Tomàs, preferendolo al più equilibrato ed aperto al dialogo cardinale di Tarragona, Arxiu Vidal i Barraquer.
Il porporato catalano condusse dall’esilio un’incessante opera di mediazione, di ricucitura tra cattolici baschi, catalani e Vaticano che incontrò in questa sede più resistenze che incoraggiamento. Lo dimostra la documentazione del suo archivio in avanzata fase di pubblicazione, ma anche in questo caso sarà decisivo l’apporto che potrà venire dalle fonti di parte vaticana.
Alfonso Botti
Mario Tesini, Oltre la città rossa. L ’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-1958), Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 275, lire 20.000.
Le elezioni amministrative del 1951 nel Comune di Bologna furono vinte, sia pure per pochi voti, dai partiti della sinistra e quella città restò l’unico capoluogo regionale con una maggioranza socialcomunista. Cinque anni più tardi, nel tentativo di scalzare l’ultima e ormai mitica ‘cittadella rossa’ d’Italia, la Democrazia cristiana bolognese
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diede vita ad una asperrima campagna elettorale, contrapponendo al sindaco Giuseppe Dozza la forte personalità di Giuseppe Dossetti. Come è noto, quest’ultimo si era allontanato dalla lotta politica nel 1951, quando era vicesegretario nazionale della De, e nel 1958 si ritirò definitivamente “dal mondo” , abbracciando il sacerdozio.
Sia pure con alcuni limiti (sui quali torneremo), il volume di Mario Tesini affronta la ricostruzione del tentativo di “assalto alla città rossa” e di quella campagna elettorale, senza dubbio una delle più intolleranti offerte a Bologna grazie all’impegno congiunto della Democrazia cristiana, della Curia (guidata dal cardinale Lercaro) e del quotidiano locale “il Resto del Carlino” , allora diretto da Giovanni Spadolini (che, fra l’altro, costituisce la principale fonte per il volume, unitamente all’“Avvenire d’Italia” , il quotidiano della Curia bolognese). Se il volume può essere utile per conoscere, sommariamente, i testi degli interventi politici svolti da Giuseppe Dossetti nel corso della campagna elettorale, ci sembra alquanto carente per quanto concerne la ricostruzione più ampia del contesto politico e sociale del Bolognese, oltre che per inquadrare le stesse motivazioni che indussero Dossetti a ritornare nell’agone politico che aveva tanto clamorosamente abbandonato qualche anno prima. Anche se comprendiamo i motivi politici (l’autore è attualmente consigliere comunale a Bologna per la De) che inducono Tesini a sostenere che la candidatura di Dossetti fu voluta e costruita
dai giovani De (pp. 22-23), non possiamo certo giustificare che venga ignorato (o nascosto) quanto proprio Dossetti ha recentemente testimoniato: essere stato cioè non la De, ma il cardinale Lercaro a volerlo candidato e a indurlo ad abbandonare la vita di “studio e meditazione” che aveva ormai scelto. Del resto anche Gianni Baget- Bozzo, in un suo studio del 1977 (// partito cristiano e l ’apertura a sinistra. La De di Fanfani e di Moro 1954-1962, Firenze, Vallecchi, 1977) aveva sottolineato come Lercaro avesse imposto alla De bolognese quel candidato (non gradito!), di fronte alla impossibilità di trovare fra i dirigenti del partito bolognese una personalità adatta per contrapporsi adeguatamente alla maggioranza socialcomunista.
L’ampio schieramento che si coagulò attorno a Dossetti nella speranza di sconfiggere la maggioranza Pei e Psi e che vide, accanto ai tradizionali alleati della De bolognese (Ente Delta padano, Ordine dei medici, Associazione dei commercianti, Camera di commercio, Credito romagnolo...), anche ‘laici’ come Giovanni Spadolini (pp. 82-83), Leo Valiani, Ugo La Malfa (p. 159) e Nicola Matteucci (pp. 199- 201), pur innalzando a livelli esasperati i toni dell’attacco contro l’amministrazione Dozza, non conseguì i risultati sperati. Se la Democrazia cristiana aumentò di quindicimila voti i propri suffragi (e di quasi il 2 per cento), il Pei crebbe di ventottomila voti (e di quasi il 5 per cento) e il partito socialista guadagnò tremila voti (inspiegabilmente Tesini assicura che ebbe “qualche cosa in meno” , p. 181).
Ferocemente critico con i ‘laici’ che non “compresero tutta la complessità della sfida dossettiana” (p. 162) e con gli intellettuali che rifiutarono di schierarsi al fianco o in sostegno di quella che comunemente veniva chiamata la lista del cardinale Lercaro (e per primi Francesco Flora, Arturo Carlo Jemolo e l’intera redazione de “Il Mulino” , pp. 149-153) — ma è lo stesso Tesini a definire “retrospettiva e nostalgica” l’impostazione del programma elettorale di Dossetti (p. 125) — l’autore traccia un ritratto del tutto improbabile di Bologna, “infeudata” ai comunisti: una città “plumbea”, “arterioscle- rotica”, con una “cultura immiserita”, soggetta ad un “immobilismo conservatore” (pp. 115-116, 121, 144), una città in cui la gente correva “follemente a sbattezzarsi” (p. 184), secondo le parole che Lercaro pronunciò in piazza Maggiore quando conobbe i risultati elettorali.
A parte alcuni errori (fra questi non possiamo tacere di un fantomatico ottavo congresso dellTnternazionale comunista, p. 15, e dimenticanze, ad esempio la suddivisione amministrativa in quartieri per Bologna viene attribuita a Dossetti, mentre il Psi la aveva già realizzata alla fine degli anni dieci, come ha documentato più volte Nazario S. Onofri), il libro ci sembra soprattutto risentire della mancanza di una qualche meditata riflessione e di quello che potremmo chiamare un certo ‘distacco’ storico.
Il personaggio Dossetti che ne esce sembra il ritratto dell’asceta che nel 1986 ricevette dalle mani del sindaco di
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Bologna VArchiginnasio d ’oro, massimo riconoscimento che quella amministrazione con cede ai suoi più illustri cittadini.
Nelle pagine di Tesini non riconosciamo assolutamente quel Dossetti intollerante e aggressivo, dogmatico e integralista che nel 1956 rifiutò di unirsi al minuto di raccoglimento per le vittime di Budapest che era stato chiesto da tutti i Gruppi del Consiglio comunale di Bologna: il ‘suo’ cordoglio per i caduti dell’Ungheria doveva essere ‘diverso’ da quello espresso da tutti gli altri partiti.
Luciano Casali
P ietro Scoppola, La “nuova cristianità” perduta, Roma, Studium, 1985, pp. 209, lire14.000.
Questo scritto, il cui nucleo è costituito dalla relazione svolta da Scoppola nell’ambito del convegno promosso dalla Fondazione Rizzoli su “Intellettuali e società di massa dal 1945 ad oggi” tenutosi a Venezia nel 1980, non sembra aver ricevuto particolare attenzione, in parte certamente per la sua struttura atipica, in sede di critica storica. In esso comunque non vengono introdotte particolari novità né dal punto di vista documentario né da quello interpretativo, poiché l’autore si limita in sostanza ad una sistematizzazione ‘motivata’ delle tesi già esposte nelle precedenti opere sul cattolicesimo politico in Italia, avvalendosi altresì di una ampia utilizzazione critica dei principali contributi più o meno recenti alla storia della chiesa e del movi
mento cattolico in Italia (ad esempio quelli di Antonio Acerbi, Renato Moro, Andrea Riccardi, Giacomo Martina, Giovanni Miccoli, Sandro Magi- ster, Agostino Giovagnoli, Roberto Sani, Ennio Di Nolfo, Gianfranco Poggi, Alfonso Prandi, Gianni Baget-Bozzo). L’analisi di Scoppola muove dalla constatazione che l’ideale maritainiano della “nuova cristianità” descritto in Umanesimo integrale (Roma, Boria, 1980) come “un regime temporale o un’età di civiltà la cui forma ispiratrice sarebbe cristiana e risponderebbe al clima storico dei tempi nei quali entriamo” (p. 11) — inteso, pur variamente interpretato, come base essenziale della mobilitazione cattolica nel dopoguerra che trova espressione in progetti diversi di “(ri)costruzione della cristianità” — non si è realizzato e si deve ormai considerare definitivamente “perduto” . Il progetto di Pio XI e poi di Pio XII della restaurazione di un ordine cristiano posto in crisi dalla Riforma e dal liberalismo — ma più ampiamente, secondo Scoppola, la stessa ipotesi di una cristianità da costruire, che presuppone la possibilità della predeterminazione di un modello di società cristiano — sono entrati in crisi nonostante la posizione di forza della chiesa e l’egemonia cattolica fossero consolidate, nell’immediato dopoguerra, da un regime di “doppia garanzia” (concordataria e politica). L’affermazione del partito cattolico nel 1948, infatti, non ha segnato l’inizio di una rinascita della cristianità, ma di un processo di secolarizzazione del paese nel quadro di un fenomeno di “eterogenesi dei fini” : “quelle ener
gie cattoliche che si erano poste in movimento per la costruzione di una cristianità nuova, che si collocasse oltre la contrapposizione storica tra capitalismo e comunismo, di fatto hanno agito in una diversa direzione: sono servite a creare le condizioni di una nuova fase di compromesso fra capitalismo e democrazia e hanno reso perciò possibile quello sviluppo industriale che il paese ha registrato” (p. 19). Ma “mentre i cattolici si scontravano sulle piazze con la presenza comunista, considerata il pericolo maggiore per la fede degli italiani, o contestavano nello stato i residui spazi del laicismo risorgimentale, il nemico vero è venuto alle spalle, silenzioso e a lungo inavvertito, nelle forme di società consumistica, destinata a corrodere in profondità, senza scontri clamorosi, ma per questo con maggiore efficacia, la fede del popolo italiano” (p. 20). “La speranza di una nuova cristianità — conclude Scoppola — non è stata distrutta da ideologie opposte ma si è dissolta sotto la pressione dei meccanismi spontanei della società industriale” (P- 21).
Entro questo quadro interpretativo l’autore procede ad una ricostruzione storica — a grandi linee — dell’evoluzione della cultura e della presenza organizzata politica ed istituzionale dei cattolici nell’Italia del secondo dopoguerra che privilegia come termine di riferimento i processi di sviluppo economico e sociale ed i mutamenti culturali e di costume determinatisi in Italia nella transizione verso un modello di società consumistica e industriale — e poi postindustriale — di massa. L’attenzione
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viene quindi posta principalmente sui processi di industrializzazione e secolarizzazione e sulle loro conseguenze; questa ricerca è stata proseguita da Scoppola nel saggio Chiesa e società negli anni della modernizzazione contenuto nel volume a cura di A. Riccardi Le chiese di Pio X II (Roma-Bari, Laterza, 1986).
L’analisi della vicenda del cattolicesimo italiano nel secondo dopoguerra — che si estende dalla “successione” cattolica al fascismo (cap. 1), attraverso le epoche successive della mobilitazione anticomunista e del “monolitismo cattolico” (cap.2) , dell’industrializzazione del paese e del centrosinistra (cap.3) , del “disgelo conciliare” e della contestazione (cap. 4), fino ai referendum sul divorzio e sull’aborto — prelude, infine, ad una riflessione sulle condizioni di una nuova presenza dei cattolici nella società postindustriale.
La coscienza e la comprensione della realtà del processo di secolarizzazione, di una presenza cristiana ormai minoritaria nella società civile, della crisi dell’ideale di una “nuova cristianità” sono presupposti imprescindibili per l’assunzione di nuove responsabilità e la definizione di nuovi “comportamenti” da parte dei cattolici. Il discorso di Scoppola si struttura in questa fa se come “testimonianza, libera riflessione e proposta” (p. 7), investendo i principali “problemi della presenza cristiana” nella società attuale (dal rapporto chiesa-stato al “partito cristiano”) ed affermando con forza la necessità di una rinnovata visione “non-ideo-
logica”, da parte dei cattolici, della realtà industriale, ispirata da una “nuova spiritualità, capace di vivere conflittualmente la doppia fedeltà al messaggio cristiano e alle cose” (p. 207).
La stretta connessione funzionale tra ricerca e analisi storica, da un lato, riflessione personale e scelte progettuali conseguenti, dall’altro, distingue questo lavoro — come ammette lo stesso autore — da uno studio storico. Il contributo di Scoppola, per questa sua caratteristica, appare in certa misura ‘ad uso interno’ della cultura cattolica, benché una visione fortemente negativa del processo di modernizzazione e della secolarizzazione della società italiana — interpretata come “estranea [...] ad ogni mondo di valori” (p. 142) ed adducente ad un “vuoto etico” — induca l’autore ad osservare che la crisi di un modello di cristianità non è fatto che possa lasciare indifferente la cultura laica, an- ch’essa “sconfitta” dalla massificazione e dal conformismo dilaganti.
Non sembra dubbio, in ogni caso, che tanto la lettura interpretativa di quella crisi — fondata sulla ipotesi esplicativa della “eterogenesi dei fini” —, quanto la trattazione analitica delle sue diverse fasi storiche proposte da Scoppola possano suggerire esse stesse alla cultura laica numerosi spunti critici.
Marco Barbanti
Cristiani in politica, a cura di Bartolo Ganglio, Milano, Angeli, 1987, pp. 210, lire20.000.
Esaminare significato e prospettive di una proposta politica correlata ad una dottrina religiosa rappresenta ancora oggi un percorso di ricerca aperto e dibattuto. Si direbbe anzi che proprio l’epoca dei rapidi processi di industrializzazione e secolarizzazione abbia riproposto in termini urgenti il problema dell’attualità ed efficacia di ideali e movimenti di ispirazione cristiana. In particolare l’acquisizione di una specifica dimensione programmatica del movimento cattolico ha suscitato vivace attenzione anche nella recente storiografia italiana ed europea. Per rimanere nel panorama italiano basterà ricordare i recenti studi di Gabriella Fanello Marcucci, Alle origini della democrazia cristiana 1929-1944. Dal carteggio Spata- ro-De Gasperi, Brescia, Morcelliana, 1982 e Documenti programmatici dei democratici cristiani (1899-1943), Roma, Cinque Lune, 1983, accanto alle opere di Mario G. Rossi, Da Sturzo a De Gasperi. Profilo storico del cattolicesimo politico del Novecento, Roma, Editori Riuniti, 1985 e di Giorgio Vecchio, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Brescia, Morcelliana, 1987.
Su questi temi si erano confrontati studiosi italiani e stranieri in un convegno internazionale organizzato a Torino alla fine del 1985 dal Centro studi Carlo Trabucco. Di quelle giornate di studio sono stati ora pubblicati gli atti che permettono una organica rilettura dei contributi allora offerti.
L’analisi prende le mosse dall’elaborazione programmati
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ca del primo movimento democratico cristiano negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, sul quale indaga Alessandro Zussini. L’attenzione è concentrata soprattutto sul Programma di Torino del 1899 e sui suoi autori, Valente e Invrea, senza trascurare peraltro i vivaci dibattiti fra le diverse tendenze e specialmente tra i cattolici torinesi da un lato, Murri e il suo Programma massimo e minimo del 1901 dall’altro. Sullo sfondo il comune tentativo di superare una prospettiva fondamentalmente religiosa nel quadro delle più generali vicende legate alla crisi politica italiana di fine secolo.
L’elaborazione programmatica del movimento cattolico trova il suo primo sbocco politico nel Partito popolare. Su questo aspetto l’analisi di Giorgio Vecchio appare particolarmente approfondita e stimolante. Ricordati i precedenti del programma del 1919, Vecchio analizza dettagliatamente i dodici punti dello stesso, ponendone in risalto il carattere composito e gli elementi di continuità e novità. Discute quindi alcuni dati storiografici, da un lato ribadendo nettamente la continuità tra Ppi, prima democrazia cristiana, l’esperienza dei cattolici deputati e più in generale la presenza cattolica in età giolittiana; dall’altro soffermandosi opportunamente sul rapporto tra il popolarismo, inteso come l’originale progetto politico di Stur- zo, e il Ppi, che tale progetto non riuscì a rendere compiuto.
Altri gruppi e movimenti, benché di minor peso politico o privi di occasioni per misurare la loro consistenza elettorale, hanno contribuito ad elaborare
all’interno del movimento cattolico proposte, indicazioni, linee programmatiche. È il caso in particolare della sinistra cristiana e dei cristiano-sociali, esperienze prese in esame rispettivamente da Francesco Malgeri e Antonio Parisella. Seguendo la parabola di questi gruppi, peraltro dettagliatamente illustrata dai due studiosi in precedenti saggi, entrambi gli interventi favoriscono un opportuno riesame dell’apporto di questi movimenti minori al vivace dibattito ideologico e politico sviluppatosi specialmente negli anni trenta e nell’immediato dopoguerra.
Giorgio Campanini delinea la formulazione dei programmi della Democrazia cristiana. Sulla base di una puntuale ricognizione dei testi fondamentali prodotti negli anni 1942-1947, Campanini analizza in primo luogo le diverse sorgenti della cultura politica democratico cristiana che sta alla base dei vari programmi. Vi si ritrovano, variamente intrecciati, i richiami a Sturzo e al cattolicesimo sociale italiano, alla tradizione giuridi- co-istituzionalistica, al magistero di Pio XII e degli intellettuali in qualche modo collegati con l’Azione cattolica, al personalismo francese. Dei diversi programmi, raggruppati in tre momenti (crisi del regime fascista, periodo resistenziale, anni della Costituente), Campanini evidenzia successivamente gli elementi di differenziazione, per discutere soprattutto il rapporto di continuità e discontinuità con la precedente cultura del movimento cattolico e in particolare quella del popolarismo, ponendo in risalto, al di là delle evidenti numerose convergenze, alcuni aspetti di novità.
Contribuiscono infine ad arricchire la problematica affrontata nel volume i due saggi di Winfried Becker e Jean-Marie Mayeur, dedicati rispettivamente all’area tedesca ( /programmi dei movimenti cattolici democratici tedeschi del ’900) e francese (Les programmes des mou- vements politiques d ’inspiration démocrate chrétienne en France au XXème siècle). Emerge un affresco di ampie dimensioni, di variegate tendenze, che illustra situazioni diversificate dell’area europea, connotate però da processi di forte secolarizzazione. Le riflessioni dei due storici aiutano a ripercorrere, l’una, la catastrofe tedesca del ventesimo secolo, che “si compie in piena opposizione rispetto al mondo spirituale che anima il cattolicesimo politico” , ma che questo non ha potuto accantonare (p. 123); l’altra, la specificità dei gruppi democratici cristiani d ’oltralpe: l’attenzione ai problemi delle istituzioni e l’obbligo di inserirsi in una struttura marcatamente bipolare delle forze politiche (p. 134).
Il contributo di Francesco Traniello che introduce il volume sottolinea l’importanza del riferimento programmatico nella storia del movimento cattolico; esso appare come “un momento forte di autocoscienza e un fattore rilevante di identificazione, in termini politico-pratici ma anche teorici” . Di qui deriva anche una visione desacralizzante della politica, che ha favorito la distinzione tra identità religiosa e identità politica e che ha consentito ai movimenti cattolici “di inserirsi a pieno titolo nel contesto delle democrazie pluraliste” . Ancora una volta emerge in questa prospettiva
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l’apporto di Luigi Sturzo. Nel leader del Ppi infatti “il momento programmatico assumeva tutta la sua rilevanza come necessario punto d’incontro e di mediazione tra teoria e prassi, tra apparato ideale e obiettivi politicamente determinati” (pp. 11-13).
Dall’insieme dei contributi del volume, curato da Bartolo Gariglio e che inaugura la collana del Centro studi Carlo Trabucco di Torino, si possono ricavare non solo dati ed elementi finalizzati ad una ricostruzione storica in buona parte già conosciuta anche se per certi aspetti arricchita, ma soprattutto un valido contributo per riproporre interrogativi stimolanti sulle regole della democrazia moderna, sulla visione del potere in termini non sacrali, sul nesso tra democrazia e secolarizzazione.
E. Walter Crivellin
Cattolici, guerra e Resistenza in Piemonte. Le fon ti e gli archivi, a cura di Riccardo Marchis, Torino, Angeli, 1987, pp. 196, lire 11.000 (Istituto storico della resistenza in Piemonte).
La collana “Archivi”, promossa dall’Assessorato alla cultura della regione Piemonte, è aperta da una serie di quaderni dedicati alle fonti per la storia della guerra e della lotta di liberazione curati dall’Istituto storico della resistenza in Piemonte. Il primo quaderno, a cura di Riccardo Marchis, raccoglie gli atti di una giornata di studio svoltasi a Torino l’l l marzo 1986, su fonti e archivi cattolici.
Il seminario, cui parteciparono anche numerosi archivisti e il vicario episcopale di Torino, monsignor Franco Peradotto, mise in luce una serie di problemi relativi alle fonti “cattoliche” . Dalla questione, solo apparentemente semplice, di definizione e individuazione di una tipologia (intervento di Francesco Traniello), alla proposta di avvio di una catalogazione a partire dalle fonti “ecclesiastiche” (Maurilio Guasco).
Gli altri contributi pubblicati si muovono su più piani: riflessioni di carattere metodologico (Bartolo Gariglio), presentazione di ipotesi di lavoro o di studi già compiuti.
Fra questi la breve indagine dello stesso Marchis su Le relazioni dei parroci della diocesi di Acqui sulla guerra e la resistenza, in risposta all’iniziativa di raccolta di informazioni e documentazione assunta nel 1945 dalla direzione generale dell’Azione cattolica. Molto più dettagliato il lavoro di Giuseppe Griseri, Fascismo e resistenza nelle fon ti cattoliche monrega- lesi, che può costituire un esempio per studi futuri di altre realtà locali. Nel suo complesso il volume costituisce, se non una vera e propria guida, ancora evidentemente da fare, uno strumento utile per orientare i ricercatori nel vasto campo delle fonti cattoliche, anche al di là del periodo della guerra. Inoltre, attraverso le note bibliografiche che completano i saggi, è possibile ricostruire un panorama, per quanto non esaustivo, degli studi già pubblicati a livello regionale.
Paola Bresso
Libri ricevuti
Aa.Vv., Gli archivi per la storia contemporanea. Organizzazione e fruizione, Roma, Istituto poligrafico dello Stato, 1986, pp. 322, sip.
Aa.Vv., Concordato 1984: premesse e prospettive. Atti del convegno di Arezzo, gennaio 1985, Arezzo, Quattroventi, 1985, pp. 232, lire20 . 000 .
Aa.Vv., Idee e stile per la grande Cuneo. Mostra documentaria, Bo- ves, Artigrafiche Coralli, 1987, pp. 140, sip.
Giuseppe Alberigo (a cura di), Papa Giovanni, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 284, lire 32.000.
Salvatore Aldisio, Scritti, discorsi e interviste, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 362, lire18.000.
Jean Améry, Intellettuale ad A uschwitz, Torino, Bollati Boringhie- ri, 1987, pp. 162, lire 22.000.
Marianna Amico Roxas, Lettere a Giulia Vismara e altri, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 395, lire 22.000.
Giuseppe Andriani, La Repubblica del Sud. Vincenzo Calace, Bisce- glie, Edizioni Carmastro, 1987, pp. 194, lire 20.000.
Angelo Ara, Austria e Italia. Dalle cinque giornate alla questione alto-atesina, Udine, Del Bianco, 1987, pp. 345, lire 25.000.
Giovanni Artieri, Quarant'anni di repubblica, Milano, Mondadori, 1987, pp. 702, lire 35.000.
Corrado Barberis, Aristide Merloni. Storia di un uomo e di un ’industria in montagna, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 216, lire 20.000.
Vinicio Bernardi (a cura di), TV. 7 - Fondo Giovanni Dozio, Varese, La
188 Rassegna bibliografica
Tipografica, 1987, pp. 92, sip (Quaderni dell’Archivio storico Cgil Va- rese-Busto Arsizio).
Klaus von Beyme, Ipartiti nelle democrazie occidentali, Bologna, Zanichelli, 1987, pp. 392, lire 24.000.
Alberto Bianchini, Giampaolo Feli- gioni, Paola Peconi, Paolo Sorci- nelli, Paolo Giovannini, Anna Maria Tucci, Carlo Paladini, Paolo Giannotti, Serafino Giulietti, Lavoro, criminalità, alienazione mentale. Ricerche sulle Marche tra Otto e Novecento, Ancona, II Lavoro editoriale, 1987, pp. 188, lire 30.000.
Luigi Bontà, La pietà e lo spazio. Cappelle ed edicolette nell’abitato e nelle campagne di San Cataldo, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 148, lire 20.000.
Luigi Bontà, La religione e il paese. Edicole divote a Campofranco, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 84, lire 10.000.
Donato Bosca, ...io parto per la Merica. Storie di emigranti piemontesi, Cuneo, L’Arciere, 1987 (1985), pp. 196, lire 20.000.
Bruno Bottiglieri, Stet. Strategie e struttura delle telecomunicazioni, Milano, Angeli, 1987, pp. 465, lire50.000.
Karl Dietrich Bracher, Andreas Hillgruber, Wolfgang J. Momm- sen, Ernst Schulin, Hartmut Ull- rich, Gilbert Ziebura, La storia delle relazioni internazionali nella Germania contemporanea, a cura di Silvia Pizzetti, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 220, lire 21.000.
Vittore Branca, Ponte Santa Trinità. Per amore di libertà, per amore di verità, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 200, lire 22.000.
Gian Piero Brunetta, Federico Ce- reja, Guido Crainz, Giovanni De Luna, Enzo Forcella, Nicola Gal-
lerano, Ansano Giannarelli, Paolo Gobetti, Pierre Sorlin, Cinema storia resistenza 1944-1985, Milano, Angeli, 1987, pp. 165, lire 15.000 (Istituto storico della resistenza in valle d’Aosta).
Mario Caciagli e Piergiorgio Cor- betta (a cura di), Elezioni regionali e sistema politico nazionale, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 235, lire25.000.
Giorgio Campanini (a cura di), I cattolici italiani e la guerra di Spagna, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 238, lire 20.000.
Valerio Castronovo, “La Stampa” 1867-1925. Un’idea di democrazia liberale, Milano, Angeli, 1987, pp. 332, lire 30.000.
Centro di documentazione ricerca ed iniziativa delle donne, Intorno al rosa, Verona, Essedue, 1987, pp. 155, lire 24.000.
Jean Charbonnel, Edmond Michelet, Paris, Beauchesne, 1987, pp. 294, 120 franchi (Politiques & Chrétiens).
Gloria Chianese, Sindacato e Mezzogiorno: le Camere del Lavoro di Napoli nel dopoguerra (1943-1947), Napoli, Guida, 1987, pp. 245, lire22. 000 .
Amedeo Cignitti-Paolo Momigliano Levi, “77 racconterò tutto perché con la penna non posso spiegarm i...”, Aosta, Musumeci, 1987, pp. 316, lire 22.000.
Umberto Corsini e Rudolf Lill (a cura di), Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzioni, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 354, lire 34.000.
Giovanna Dal Poggetto, L ’ultimo giolittiano al Viminale. Paolo Tad- dei nel governo Facta, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 58, lire 10.000.
Enrico Deeleva, L ’incerto alleato. Ricerca sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, Milano, Angeli, 1987, pp. 332, lire 28.000.
Renzo De Felice e Pietro Gibellini (a cura di), D ’Annunzio politico, Atti del convegno, Il Vittoriale, 9- 10 ottobre 1985, “Quaderni dannunziani” , n. 1-2, 1987.
Andrea de Guttry-Natalino Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato tra Italia e Austria, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 408, lire 30.000.
Franco Della Peruta, Milano lavoro e fabbrica 1815-1915, Milano, Angeli, 1987, pp. 208, lire 23.000.
G. Laura Di Leo-Massimo Lo Curzio (a cura di), Messina, una città ricostruita. Materiali per io studio di una realtà urbana, Bari, Dedalo, 1985, pp. 172, lire 30.000.
Jean-Baptiste Duroselle (a cura di), Enjeux et puissances. Pour une hi- stoire des relations internationales au X X e siede, Paris, Publications de la Sorbonne, 1986, pp. 412, sip.
Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 170, lire 15.000.
Tommaso Fanfani, Scelte politiche e fa tti economici in Italia nel quarantennio repubblicano, Torino, Giappicchelli, 1987, pp. 275, lire22.000.
Lue Ferry-Alain Rénaut, Il ’68 pensiero. Saggio sull’antiumanismo contemporaneo, Milano, Rizzoli, 1987, pp. 275, lire 22.500.
Giampaolo Fissore, La cultura operaia nei giornali di fabbrica a Torino 1943-1955, Torino, Stamperia artistica nazionale, 1987, pp. 222, sip (Provincia di Torino - Assessorato alla cultura).
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Rassegna bibliografica 189
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David Forgacs, Rething Italian Fa- scism. Capitalism, populism and culture, London, Lawrence and Wi- shart, 1986, pp. 210, sip.
Gisela Framke, Im Kam pf und Sud- tirol. Ettore Tolomei (¡865-1952) und das 'A rchivio per l ’A Ito A dige ’, Tubingen, Max Niemeyer Verlag, 1987, pp. 328, sip.
Alessandro Galante Garrone, L ’albero della libertà dai giacobini a Garibaldi, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 322, lire 32.000.
Giuseppe Galasso, Napoli, Ro- ma-Bari, Laterza, 1987, pp. 506, lire 40.000.
Ettore Gentile, Letteratura della Resistenza, Napoli, Federico e Ardia, 1987, pp. 168, lire 12.800.
Eugenio Giommi, Catalogo dei periodici pratesi, (1900-1943), Prato, Biblioteca comunale Alessandro Lazzerini, 1987, pp. 75, sip
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Fey von Hassel, Storia incredibile. Dai diari di una “prigioniera speciale delle Ss”, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 192, lire 20.000.
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Giovanni Landucci, L ’occhio e la mente. Scienze e filosofia nell’Italia
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