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Rassegna bibliografica 1943-1945: la guerra civile italiana? di Marco Palla Il volume che qui si presenta — Aa.Vv., La Repubblica sociale italiana 1943-45 (Atti del convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985, a cura di Pier Paolo Poggio, “Annali della Fonda- zione Luigi Micheletti”, Brescia, 1986, pp. VIII-467, sip) — può essere considerato non solo indispensabile, ma anche come lo sfor- zo collettivo di ricerca più importante sul te- ma non facile e controverso della Rsi. Il vo- lume è infatti così dettagliato, articolato e documentato che altri contributi e libri di singoli autori, pur molto noti e stimati, non possono ormai più reggere al confronto. È un peccato che la mole ponderosa (il nume- ro delle pagine di formato assai grande va raddoppiato, dato che ognuna è composta su due colonne), se correttamente risponde al fine di presentare tutte le voci del conve- gno in una sede editoriale appropriata, può forse non favorirne la diffusione presso un pubblico più ampio di quello degli speciali- sti. Per le loro implicazioni scientifiche e culturali, i risultati storiografici che qui so- no pubblicati meritano una attenzione, una lettura e appunto una diffusione che superi, per così dire, la audience delle sedi e delle ri- viste specialistiche. La breve discussione che mi accingo a fare ha il limite di non poter ci- tare, se non nella forma di un telegrafico re- soconto, tutti i contributi dei relatori, le loro osservazioni metodologiche, le puntualizza- zioni numerose e circostanziate, i solidi ap- porti documentari. Si deve tuttavia osserva- re che, per la sua parte, il volume conferma uno dei dati generali più sconcertanti della situazione della ricerca storica in Italia, il fatto cioè che buona parte delle proposte più utili ed innovative non sono sollecitate dalla politica governativa e dai finanziamenti mi- nisteriali alla ricerca scientifica, ma vedono la luce grazie agli sforzi preziosi di una so- cietà civile appassionata e curiosa di studiare e di sapere: sforzi di tipo privato, singolo, o di piccoli gruppi e istituzioni che danno pro- va di grande intelligenza e capacità di lavo- ro. In questo caso, si tratta della Fondazio- ne Micheletti che ha sì avuto l’incoraggia- mento degli enti locali, ma si è basata so- prattutto sul volontariato dei suoi dirigenti, collaboratori e ricercatori, organizzando una mostra ed un convegno che hanno visto una partecipazione molto qualificata di stu- diosi e di pubblico. Nella presentazione di questo volume, Luigi Micheletti espone con chiarezza difficoltà e ostacoli, dovuti magari ad idiosincrasie di tipo accademico che han- no portato per esempio all’assenza ingiusti- ficata di Renzo De Felice e di qualche suo allievo, pur invitati, e accenna a comporta- menti “tortuosi” o “grotteschi” (“vengo ma lui non deve esserci”) con cui gli organizza- tori hanno dovuto fare i conti (p. VI). Per Micheletti la Rsi godeva di adesioni reali, ma molto circoscritte, cui si contrapponeva- no le centinaia di migliaia di militari interna- ti in Germania e che rifiutarono di aderire, i soldati stessi della Rsi che disertarono e quelli che, pur non disertando, collaboraro- Italia contemporanea”, marzo 1988, n. 170

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Rassegna bibliografica

1943-1945: la guerra civile italiana?di Marco Palla

Il volume che qui si presenta — Aa.Vv., La Repubblica sociale italiana 1943-45 (Atti del convegno, Brescia, 4-5 ottobre 1985, a cura di Pier Paolo Poggio, “Annali della Fonda­zione Luigi Micheletti”, Brescia, 1986, pp. VIII-467, sip) — può essere considerato non solo indispensabile, ma anche come lo sfor­zo collettivo di ricerca più importante sul te­ma non facile e controverso della Rsi. Il vo­lume è infatti così dettagliato, articolato e documentato che altri contributi e libri di singoli autori, pur molto noti e stimati, non possono ormai più reggere al confronto. È un peccato che la mole ponderosa (il nume­ro delle pagine di formato assai grande va raddoppiato, dato che ognuna è composta su due colonne), se correttamente risponde al fine di presentare tutte le voci del conve­gno in una sede editoriale appropriata, può forse non favorirne la diffusione presso un pubblico più ampio di quello degli speciali­sti. Per le loro implicazioni scientifiche e culturali, i risultati storiografici che qui so­no pubblicati meritano una attenzione, una lettura e appunto una diffusione che superi, per così dire, la audience delle sedi e delle ri­viste specialistiche. La breve discussione che mi accingo a fare ha il limite di non poter ci­tare, se non nella forma di un telegrafico re­soconto, tutti i contributi dei relatori, le loro osservazioni metodologiche, le puntualizza­zioni numerose e circostanziate, i solidi ap­porti documentari. Si deve tuttavia osserva­re che, per la sua parte, il volume conferma

uno dei dati generali più sconcertanti della situazione della ricerca storica in Italia, il fatto cioè che buona parte delle proposte più utili ed innovative non sono sollecitate dalla politica governativa e dai finanziamenti mi­nisteriali alla ricerca scientifica, ma vedono la luce grazie agli sforzi preziosi di una so­cietà civile appassionata e curiosa di studiare e di sapere: sforzi di tipo privato, singolo, o di piccoli gruppi e istituzioni che danno pro­va di grande intelligenza e capacità di lavo­ro. In questo caso, si tratta della Fondazio­ne Micheletti che ha sì avuto l’incoraggia­mento degli enti locali, ma si è basata so­prattutto sul volontariato dei suoi dirigenti, collaboratori e ricercatori, organizzando una mostra ed un convegno che hanno visto una partecipazione molto qualificata di stu­diosi e di pubblico. Nella presentazione di questo volume, Luigi Micheletti espone con chiarezza difficoltà e ostacoli, dovuti magari ad idiosincrasie di tipo accademico che han­no portato per esempio all’assenza ingiusti­ficata di Renzo De Felice e di qualche suo allievo, pur invitati, e accenna a comporta­menti “tortuosi” o “grotteschi” (“vengo ma lui non deve esserci”) con cui gli organizza­tori hanno dovuto fare i conti (p. VI). Per Micheletti la Rsi godeva di adesioni reali, ma molto circoscritte, cui si contrapponeva­no le centinaia di migliaia di militari interna­ti in Germania e che rifiutarono di aderire, i soldati stessi della Rsi che disertarono e quelli che, pur non disertando, collaboraro-

Italia contemporanea”, marzo 1988, n. 170

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no con la Resistenza, le miriadi di renitenti alla leva e, oltre ai partigiani combattenti e agli antifascisti militanti, la “moltitudine oppressa dalla guerra, sempre più ostile al fascismo identificato con la guerra, antifa­scista in senso prepolitico, sicuramente im­permeabile agli slogan e alle promesse” re­pubblichine (p. VII). Frederick W. Deakin ha aperto il convegno con alcune considera­zioni generali ed un richiamo al contesto in­ternazionale in cui si situa l’episodica della Rsi; Enzo Collotti ha collocato Salò del Nuovo ordine europeo dei nazisti; Jens Pe- tersen ha illustrato la propaganda tedesca e Meir Michaelis ha descritto l’entità non tra­scurabile delle persecuzioni antiebraiche isti­gate ed eseguite dai repubblichini. Massimo Legnani ha ricostruito i rapporti economici e di potere, gli uomini e le amministrazioni locali, le condizioni dello spirito pubblico, le interessate consonanze se non affinità tra ministri della Rsi come Tarchi e industriali come Marinotti, mentre Gaetano Grassi ha analizzato statisticamente la contiguità della presenza del ceto imprenditoriale dal 1940 al 1945. P.P. Poggio e Gianni Sciola hanno ampiamente descritto la questione operaia, e Lidia Vaini altri aspetti dell’iniziativa del mondo economico e finanziario. Un gruppo molto interessante di relazioni ha preso in esame gli elementi caratteristici della propa­ganda e dell’attività “culturale” , con la rav­vicinata e minuziosa analisi di pubblicazioni minori e di opuscoli compiuta da Mario In- senghi e gli studi di Giovanni De Luna su giornali e giornalisti, di Ivano Canteri sull’e­mittenza radiofonica, di Vittorio Paolucci su “Il lavoro” di Genova, di Augusto Saina­ti sulla stampa cinematografica, di Gloria Gabrielli sulla stampa repubblichina e la “defascistizzazione” badogliana nell’ “Italia invasa” , di Luciano Canfora su Gentile. Le difficoltà e la posizione particolare del clero e delle gerarchie della chiesa nel territorio controllato dalla Rsi, oscillanti tra tituban­ze, attendismo, mancati riconoscimenti e,

per contro, collaborazioni di cappellani mili­tari e di giornalisti in tonaca sono state ben illustrate da Claudia Scagliola, Francesco Malgeri, Silvio Tramontin. Le situazioni lo­cali di Trieste, del Cuneese, di Novara, della Toscana, sono state ampiamente descritte da Giancarlo Bertuzzi, Michele Calandri, Adol­fo Mignemi, Giovanni Verni. Mentre San­dro Setta ha biografato Renato Ricci, Maria Fraddosio ha richiamato l’attenzione su un tema poco conosciuto come i gruppi fascisti repubblichini femminili, Aldo Gamba ha studiato lo spionaggio, Luciano Violante l’amministrazione della giustizia, Virgilio Ilari il ruolo istituzionale delle forze armate e il problema della loro reale o presunta “apoliticità” . Federico Cereja e Brunello Mantelli hanno illustrato la tragedia dei de­portati italiani nei campi di sterminio nazi­sti; e Marco Revelli ha valutato il peso del­l’eredità repubblichina sul neofascismo ita­liano. Ma è sulla relazione di Claudio Pavo­ne La guerra civile che vorrei soffermarmi un momento, per l’impegno dimostrato nel­l’analisi serrata (condotta con una franchez­za che si potrebbe dire sia benvenuta e salu­tare) di un tema particolarmente delicato e controverso. Pavone non rende esplicite tut­te le implicazioni e le conseguenze del suo intervento, che mi sembrano molto impor­tanti sul terreno scientifico anche se talora non sono convincenti o accettabili. Egli muove da presupposti culturali e da un’ispi­razione civile che non ha niente a che vede­re, è bene avvertirlo subito, con il tentativo strumentale di “parificare” e “nobilitare” entrambi i contendenti che sta dietro a pa­recchi interventi sulla “guerra civile” , a co­minciare da quello del fascista Giorgio Pisa­no, che è stato un precursore dell’impiego di questo termine nel senso indicato. Micheletti ha del resto denunciato i “rischi di strumen­talizzazione” e di “appropriazione indebita” della problematica storico-politica connessa alla Rsi, sia da parte dei “nostalgici veri e propri” sia da parte di “altre forze poli­

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tico-culturali impegnate in una vasta opera­zione di recupero dell’eredità fascista” , for­ze e posizioni che trovano una “piattaforma comune, e grosse possibilità di sfondamento in direzione dell’arco costituzionale, parten­do dal presupposto della pari dignità delle forze in campo” (p. V). Pavone sottolinea innanzitutto la necessità di una riconsidera­zione unitaria della nostra storia recente, dalla quale non si può espungere evidente­mente la Rsi: è questa un’esigenza fonda- mentale, condivisa da tutti gli studiosi inter­venuti al convegno, e ribadita dalle conclu­sioni di Guido Quazza che indicano nel nes­so Resistenza-Rsi il momento periodizzante di un’unica fase storica, che appunto non si può affrontare con storie “separate” e isola­te né dell’una né dell’altra (pp. 447-448). Pavone non condivide la “reticenza” degli antifascisti ad usare l’espressione di “guerra civile”, che egli considera invece un “ovvio presupposto” che ha il “valore di categoria interpretativa generale” (p. 395). Nel corso della discussione al convegno, Silvio Lanaro si è detto d’accordo, aggiungendo anzi l’os­servazione linguistica, secondo me inesatta, che “lotta partigiana” vuol dire la stessa co­sa di “guerra civile” (p. 444). In altra occa­sione, lo stesso Pavone (“Italia contempora­nea”, 1985, n. 160, p. 72) aveva parlato di “guerra civile” come di un dato “incontro­vertibile”. Ma proprio in questa relazione al convegno di Brescia, Pavone è assai persua­sivo nella diffusa analisi delle “reticenze” antifasciste, degli imbarazzi, per motivi di­versi, sia di azionisti, sia di cattolici, sia di comunisti ad usare quella terminologia: reti­cenze e imbarazzi che risultano meno evi­denti e palesi nel momento stesso della lotta durante gli anni 1943-45 e quelli immediata­mente successivi. Mentre sono citate con grande acume e finezza le fonti dell’epoca e le testimonianze letterarie di un Calvino e di un Fenoglio, resta più in ombra la riflessio­ne storiografica sulla proprietà di quel ter­mine e di quella categoria interpretativa ge­

nerale. Pavone tende ad un uso estensivo del concetto di guerra civile, che nella storia uni­versale è stato impiegato sempre polemica- mente e comunque con forti sollecitazioni soggettive da tutti i contemporanei ma che dovrebbe avere, per gli storici, un significato più preciso e appropriato. La casistica qui ri­cordata (1789, 1917, Spagna 1936-39, Grecia 1945, Jugoslavia 1941-45, pp. 395, 397) è più un’esemplificazione di tipo, per così dire, as­severativo che non dimostrativo. L’esperien­za della Spagna non viene mai, neppure per accenni, effettivamente comparata in termini storiografici con quella della Rsi. In genera­le, mancano nel testo quei riferimenti analo­gici che sembrano una costante in ogni stu­dio di guerre civili, pur tra forzature e frain­tendimenti: è noto che Marx (La guerra civi­le in Francia, 1871) paragona Thiers a Siila. Pur senza arretrare fino ai tempi di Mario e Siila, un raffronto comparativo con la guer­ra civile inglese negli anni quaranta del di­ciassettesimo secolo e con quella americana (detta anche, con termine significativo che meriterebbe un discorso a parte, guerra di secessione) degli anni sessanta del dicianno­vesimo secolo, avrebbero giovato a verifica- re la consistenza e la congruità del termine applicato al caso della Rsi. Pavone nega va­lidità al criterio “quantitativo” usato per esempio da René Rémond per affermare che nella Francia di Vichy non vi fu una guerra civile che avrebbe appunto presupposto un rapporto di forze relativamente equilibrato; ma subito dopo ammette, con argomenta­zione di tipo geografico-quantitativo, che l’espressione sarebbe più legittima e “più completa” se “nel Mezzogiorno si fosse ma­nifestata una guerriglia fascista” (p. 397); peraltro accetta il criterio quantitativo di Pe- tersen — “la distribuzione unilaterale delle cause della violenza” — che rende proble­matica e discutibile la definizione del 1919- 1922 come guerra civile.

Le guerre civili non implicano necessaria­mente l’assenza di interventi stranieri o la

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concomitanza di eventi “esterni” ; ma la de­finizione presuppone tuttavia una certa indi- pendenza dei fattori interni della divisione in due campi, che in quanto endogeni risul­tano anche prioritari e non certo secondari. Pavone è quindi costretto ad una certa so- pravalutazione di tali fattori endogeni ed in­terni, che non arriva al punto da colloca­re lo scontro Resistenza-Rsi in una sorta di vacuum storico nel bel mezzo del frastuono —- esterno alle pareti di casa — della secon­da guerra mondiale. Tuttavia, si attribuisce ai protagonisti della contesa una volontarie­tà d’intenti ed una libertà d’azione che paio­no eccessive, ove si afferma che “questo sbi­lanciamento fra le due situazioni, settentrio­nale e meridionale, conferma che la guerra civile si svolse tanto fra Regno del Sud e Rsi, quanto fra fascisti e antifascisti, e fu ovviamente combattuta solo sul territorio dove entrambe le parti erano presenti in quanto tali [sottolineatura mia]. Ne è ripro­va il fatto che sia il governo del Sud che quello del Nord evitarono [sottolineatura mia] lo scontro diretto, sulla linea gotica, delle rispettive truppe regolari” (p. 398). Un’argomentazione del genere potrebbe, a ben vedere, essere applicata a qualsiasi con­flitto interno a qualsiasi area in qualsiasi circostanza, e non spiega di per sé la natura della guerra civile, implicando tra l’altro che Mussolini e Badoglio furono in grado di evi­tare lo scontro diretto perché potevano sce­gliere di farlo o, in alternativa, di non farlo, in autonomia dal fronte contrapposto di te­deschi e di anglo-americani. Esempio ulte­riore di questo uso estensivo del termine è anche l’affermazione di Pavone che lo stes­so Risorgimento italiano, prima della costi­tuzione di uno stato nazionale, “aveva avu­to tratti rilevanti di guerra civile” (p. 400). Le implicite conseguenze storiografiche del­l’adozione di questo termine nel senso indi­cato sono niente meno che tale definizione può valere come “categoria interpretativa” sia per la storia italiana preunitaria, sia in

fondo per la maggior parte delle lotte di ca­rattere “fratricida” , degli scontri di classe o ideologici o di religione o di fazione o inte­stini, insomma per la maggior parte dei mo­menti di polarizzazione della vita politica e sociale, stemperando o vanificando la spe­cificità della “guerra civile” come termine scientificamente utile. Avrei molti dubbi ad usare l’espressione per i casi attuali del Li­bano, dell’Irlanda del Nord, dei palestinesi, dei baschi, del Sudafrica, per non parlare dei casi del passato come i Guelfi e i Ghibel­lini. Lo stato d’animo dei contendenti, che è indispensabile per la ricostruzione storica ed è quello su cui in sostanza si basa l’impianto del contributo di Pavone, non è da solo suf­ficiente a giustificare la nozione generale che viene impiegata. Essa può inoltre pre­cludere lo studio circostanziato di un’altra “categoria interpretativa” non certo estra­nea al nostro caso, quella di collaborazioni­smo, che riguarda i repubblichini italiani, Pétain, il Manciukuò, la Norvegia di Qui­sling e che ha dato origine nella letteratura storiografica, in particolare anglosassone, alla definizione di governi-quisling applica­bile a Ante Pavelic, alla Romania, alla Bul­garia, alla Slovacchia. La terribile novità e la straordinaria complessità della seconda guerra mondiale stanno anche nel suo carat­tere totale, nel coinvolgimento dell’intera popolazione civile che fu particolarmente brutale nei paesi soggetti all’occupazione militare nazista: è questo imprescindibile contesto generale che rende discutibile se non impropria la legittimità innanzitutto storiografica dell’espressione di guerra civile nel caso dell’Italia occupata dai tedeschi e retta con la collaborazione del governo fan­toccio di Mussolini. Pavone ha il merito di aver sollevato un interrogativo importante a proposito di uno dei momenti più tragici e laceranti della nostra storia recente. Il tema della guerra civile nella storia italiana non è stato posto con particolare frequenza e atten­zione: nel primo volume della Storia d ’Ita-

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Ha Einaudi (I caratteri originari, Torino, 1972), il solo Corrado Vivanti ha di sfuggita accennato all’avvento e al crollo del fasci­smo come due momenti in cui si verificò “qualcosa di molto simile a una guerra civi­le”, alTinterno di una carrellata di lunghissi­mo periodo sulle lacerazioni e i contrasti di ben altra portata che hanno contrassegnato le vicende del “paese chiamato Italia”, quali l’invasione longobarda e la Chiesa, il frazio­

namento e la debolezza “economico-corpo- rativa”, la questione meridionale. Da un’an­golazione molto specifica, Pavone riapre la discussione, che a mio parere comporta un’appendice di approfondimenti termino­logici affinché la nozione di “guerra civile” non diventi ancella e valletta di una nuova e magari avvincente questione mal posée.

Marco Palla

“Nuovo ordine” europeo e deportazionidi Giorgio Vaccarino

Il volume (Spostamenti di popolazione e de­portazioni in Europa, 1939-1945, Bologna, Cappelli, 1987, pp. 506, lire 32.000) racco­glie gli atti del convegno internazionale svol­tosi su tale tema a Carpi nei giorni 4 e 5 ot­tobre 1985, sotto gli auspici della Regione Emilia Romagna nel quarantesimo della Li­berazione, e costituisce un contributo fonda- mentale nella pluralità dei suoi aspetti alla comprensione di quella che fu nella storia 1’ “unicità” dell’imperialismo ideologico- razziale del nazionalsocialismo tedesco. Sol­tanto una parte dei temi trattati, per ovvie ragioni di spazio, potrà essere qui ricordata.

Nell’attuale fervore delle tendenze revisio­nistiche della storiografia tedesca non è for­se inopportuno ricordare che una fatale ne­mesi si è abbattuta sul popolo tedesco, non solo quale prima vittima sin dagli anni tren­ta del terrore nazista, ma della manipolazio­ne razziale dallo stesso nazismo programma­ta, mediante il riflusso coatto entro le fron­tiere della vecchia Germania, delle etnie te­desche sparse in Europa. A tale trasferimen­to non furono costrette soltanto quelle del Sud Tirolo, alle quali, anche se avevano op­

tato a favore di esso, fu consentito, ancora dopo la sconfitta del Reich, di permanere nel paese (si veda la relazione di Karl Stuhlp- farrer dell’Università di Vienna).

In apertura del convegno, una robusta re­lazione di Enzo Collotti sul “piano nazista di nuovo ordine europeo” (pubblicata nel 1985 su “Italia contemporanea”, n. 161) analizza il programma di eliminazione fisica nei paesi occupati delle popolazioni “estra­nee alla razza”, giudicate come “un pericolo per il Reich” e, all’inverso, della ricolonizza­zione tedesca degli spazi così occupati attra­verso l’insediamento di cittadini tedeschi e di elementi di nazionalità germanica, rien­trati dall’estero.

Il principio base della risistemazione etni­ca fu la distruzione dell’identità nazionale e culturale delle comunità nazionali. La prima sperimentazione fu avviata in Polonia dove, oltre l’annessione al Reich delle terre più oc­cidentali (il cosiddetto Warthegan, con i suoi otto milioni di abitanti), altri (quindici milioni) del “governatorato” centrale dove­vano esser sottoposti al processo distruttivo e alla “scrematura razziale” , per estrarre gli

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elementi recuperabili e cioè “germanizzabi- li” . Fondamentale per la distruzione del connettivo sociale fu allora l’intervento sul sistema scolastico. L’istruzione venne limi­tata in Polonia alle quattro classi elementa­ri. Di qui l’iniziativa della resistenza polacca di far proseguire l’insegnamento clandestino in locali anche di fortuna, sino allo svolgi­mento di corsi universitari e alla pubblica­zione di lavori scientifici grazie ad un fondo di solidarietà costituito nel 1942 a Cracovia e a Varsavia (cfr. Jean B. Neveux, Le fonc- tionnement et l’einsegnement supérieur po- lonais sous l’occupation allemande, “Revue d’histoire de la deuxième guerre mondiale”, 1960, n. 40). “Questa popolazione — preve­deva Himmler — [...] priva come sarà di una propria cultura, sarà chiamata, sotto la guida severa e giusta del popolo tedesco, a collaborare alle sue sempiterne opere di ci­viltà, [...] almeno per quanto riguarda la mole del lavoro bruto” . Con la sconfitta della Wermacht sotto le mura di Mosca nel­l’inverno 1941-42 si accelerò quel processo di selezione (e cioè di eliminazione) delle po­polazioni non germanizzabili in tutti i terri­tori occupati, che costituirà progressivamen­te il contenuto del Generalplan Osi, la più fedele espressione del progetto demografico del nazismo, da attuarsi dopo la vittoria bel­lica. A preparazione dell’insediamento di elementi germanici, in sostituzione delle co­munità tradizionali espulse, circa 50 milioni di abitanti avrebbero dovuto essere evacuati nel corso di trent’anni dai territori occupati ad est dei confini tedeschi del 1939 verso la Siberia occidentale oltre il fiume Ural. E co­me in Polonia e in Russia, anche in Cecoslo­vacchia il 50 per cento degli abitanti, consi­derato non “germanizzabile” — in partico­lare modo l’intellighenzia — avrebbe dovuto subire lo stesso espatrio forzato. In minor misura analoghe manipolazioni razziali fu­rono operate nei Balcani, ove le minoranze tedesche furono utilizzate quale punta di diamante nella disgregazione dall’interno

delle comunità nazionali consolidate. Nei paesi sopraffatti in Occidente, in particolare nella Francia, lo sfruttamento fu invece as­sociato alla collaborazione, diversamente dai paesi dell’Est ove lo sfruttamento si ac­compagnò alla distruzione, all’annullamen­to biologico.

Sulla deportazione di massa dalla Jugosla­via ha parlato Tone Ferenc, in rappresentan­za dell’Istituto di storia del movimento ope­raio di Lubiana. Particolare sollecitudine fu posta dai tedeschi nell’opera di “snazionaliz­zazione” in Slovenia della popolazione di “altra razza” . Nell’aprile 1941 Himmler aveva previsto la deportazione verso la Ser­bia di una cifra oscillante fra i 220 e i 960 mila abitanti di tale origine, mentre in realtà non ne furono trasferiti che una parte per le difficoltà dei trasporti, per l’impossibilità di una adeguata ricezione da parte sèrba e per l’insorgere della lotta partigiana. Come i te­deschi in Slovenia così gli ungheresi nei ter­ritori confiscati, in vista della costituzione della Grande Ungheria, attuarono program­mi feroci di “denazionalizzazione” , deciden­do di trasferire immigrati serbi nei territori della vecchia Serbia e della Croazia.

Soltanto la Croazia — che aveva incorpo­rato la Bosnia e l’Erzegovina — fu ricono­sciuta, dopo le note intese con l’Italia, come stato indipendente, ancorché in realtà vas­sallo. Nondimeno gli “ustascia” croati dal­l’aprile 1941 diedero inizio all’annientamen­to biologico della popolazione serba ed ebrea, assassinando complessivamente circa700.000 persone tra serbi, ebrei e zingari; e ciò per sostituire alle comunità, soprattutto serbe, insediamenti di popolazione croata cattolica.

Sulla deportazione degli ebrei dall’Europa orientale ha riferito estesamente Czeslaw Madajczyk, in rappresentanza del Comitato di scienze storiche di Varsavia ed autore del­la fondamentale opera in due volumi (Fa- szyzm i okupacje 1938-1945. Wykonywanie okupacji przez panstwa Osi w Europie, Poz-

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nan, 1983-84) sull’occupazione nazifascista in Europa. Dopo un’emigrazione pressoché volontaria di mezzo milione di ebrei negli ul­timi anni precedenti il secondo conflitto, erano rimasti nei loro paesi circa quattro mi­lioni di ebrei polacchi e 250.000 cecoslovac­chi. Dopo un fallito progetto di trasferirli nella colonia francese del Madagascar (che avrebbe dovuto essere ceduta alla Francia), gli ebrei furono concentrati nei ghetti polac­chi nell’attesa, secondo il piano del governa­tore Hans Frank, di essere trasferiti all’Est, mentre i Gruppi operativi speciali (Einsatz­gruppen) già avevano iniziato in più parti il loro triste compito dei massacri di massa. Fu alla conferenza di Wansee (Berlino) nel gennaio 1942 che fu infine affrontata per la sua pratica attuazione la “soluzione finale” . Fu allora deciso il trasferimento degli ebrei nei campi di rapido sterminio con l’utilizza­zione degli individui validi fino all’esauri­mento nel lavoro coatto. Senonché il mecca­nismo del genocidio fu intralciato, ma non impedito, dalle eroiche insurrezioni nei ghet­ti di Varsavia, Lublino, Bialystok, Sobibor e dalla solidarietà delle organizzazioni polac­che clandestine e di una parte della popola­zione.

Anche se la repressione in Occidente non fu mai così dura come in Polonia, è risultata interessante la relazione di C.J.F. Stulreher, dell’Istituto di storia della guerra di Amster­dam, sulle “proteste di massa contro le de­portazioni, nell’Olanda occupata” . A que­sto fine uno sciopero — certamente il primo dell’Europa occupata — contro un rastrella­mento di ebrei avviati alla deportazione, fu scatenato nella capitale per iniziativa della clandestinità, soprattutto comunista, nelle giornate del 25 e 26 febbraio 1941. Il secon­do giorno fu represso dalla polizia tedesca. Gli scioperi contro la deportazione di soldati e ufficiali dell’esercito olandese furono rin­novati per tre giorni sulla fine dell’aprile 1943, in varie località industriali oltre che ad Amsterdam. Tale esteso movimento popola­

re di solidarietà, non direttamente controlla­to in questo caso dalla resistenza, si concluse con uccisioni, condanne a morte e traduzio­ne nei lager.

L’utilizzazione dei lavoratori deportati nell’industria tedesca, che costruiva a questo fine le sue fabbriche nei pressi dei lager, re­tribuendo a vile prezzo e direttamente alle Ss il lavoro dei “sottouomini” schiavizzati, è stato l’oggetto dell’intervento di Klaus Dro- bish dell’Accademia delle scienze di Berlino (Ddr). Si pensi fra gli altri allo stabilimento Ig Farben, strettamente associato al lager di Auschwitz (di cui l’Istituto di documentazio­ne della politica sociale del nazismo di Am­burgo si sta ora occupando in più di un vo­lume) e a quello della Siemens, che sfruttò il lavoro dei deportati, prelevati da più parti e concentrati nel campo di Haselhorst, co­struito appositamente nei pressi dello stabili­mento omonimo da internati del lager di Sachsenhausen. Ma la relazione più estesa e documentata sulla “deportazione della ma­no d’opera in Germania” è stata quella di Dietrich Eichholtz dell’Accademia delle scienze di Berlino (Ddr), già autore della re­cente grande storia dell’economia di guerra tedesca nel corso del secondo conflitto (Ge- schichte der deutschen Kriegswirtschaft1939-1945, Berlin, Akademie Verlag, 1984).

Non poteva non essere riproposto nel con­vegno il tema assillante della conoscenza che gli Alleati e il Vaticano dovevano aver avuto delle deportazioni e in particolare del geno­cidio. Sulle reazioni dei primi ha riferito Ar­nold Paucher dell’Istituto Leo Baeck di Londra. Il pubblico americano non fu in ge­nerale informato dello sterminio degli ebrei fino al tardo 1944. Di tale disinformazione gli stessi fogli ebraici furono responsabili. L’elettorato ebraico era interamente fedele a Roosevelt, la cui amministrazione pareva voler sfuggire all’orripilante realtà o forse riluttava dal vedere accresciute le ondate im­migratorie di popolazioni destinate a rima­nere negli Usa dopo il conflitto.

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Silenziosa rimase la stampa cattolica, mentre fogli evangelici tenevano a dimostra­re che le cifre della deportazione erano enor­memente gonfiate. La Chiesa d’Inghilterra mostrò maggiore sensibilità e intervenne con slancio dai suoi livelli più alti, mentre la stampa cattolica ancora nel 1943 volle mini­mizzare le atrocità naziste incolpando gli ebrei dei mali che, lungo la loro storia, si erano attirati. Esemplare fu invece il lavoro svolto dal Concilio ecclesiastico mondiale di Ginevra, in stretta collaborazione con il Congresso mondiale ebraico. L’alta parola dei vescovi britannici Chichester, Bell e del­l’arcivescovo Tempie contrastava con l’at­teggiamento del governo di Sua Maestà, “tiepido e poco disponibile” .

Sulla conoscenza delle deportazioni e del genocidio e sui conseguenti atteggiamenti della Santa sede è intervenuto con equilibrio e persuasiva documentazione Giovanni Mic­coli. “La sostanza dei fatti — egli ha conclu­so — poteva dirsi sconosciuta solo a chi non voleva conoscerla, o fosse mentalmente con­dizionato per non conoscerla” . L’affermare il contrario, per ciò che riguardava le possi­bilità conoscitive del Vaticano circa le atro­cità naziste contro gli ebrei, costituirebbe “un’operazione mistificatoria, che non tro­va fondamento né corrispondenza nelle fon­ti, solo che queste si leggano senza precon­cetti o aspirazioni apologetiche”.

Discorso a parte è stato fatto per la depor­tazione dei militari italiani dopo l’8 settem­bre 1943. Giorgio Rochat ha assolto al com­pito con un sistematico riesame del proble­ma, lamentando l’assenza, ancora a quaran- t’anni dalla fine del conflitto, di studi scien­tifici sull’internamento. In merito all’entità delle adesioni al rientro in patria, al prezzo dell’integrazione nelle forze tedesche o in quelle della Rsi, Rochat ha respinto tutte le valutazioni sino ad ora avanzate. Come pu­ra ipotesi di lavoro, a proposito dei 650.000 militari italiani catturati, propone come più probabile la percentuale del dieci per cento

delle adesioni: dato questo — Rochat ha in­teso sottolineare — che, anziché svalutare lo spirito di sacrificio dei prigionieri, esalta nella sua esiguità l’eroismo della protesta, espressa in condizioni ambientali insosteni­bili. Altra cosa fu invece il lavoro forzato, a cui gran parte dei soldati finì con l’aderire per una semplice ragione di sopravvivenza: comportamento che non ledeva la dignità morale del combattente, che non si piegava a rinnegare i valori in cui credeva, come sa­rebbe accaduto nel caso di servizio prestato al nemico con le armi.

Bruno Vasari infine, in un appassionato intervento ha parlato del suo incontro a Mauthausen con maestranze deportate in se­guito agli scioperi del marzo 1944 nell’Italia del nord e — altra insolita testimonianza — delle iniziative culturali quali lezioni e confe­renze, organizzate dagli esausti prigionieri di Mauthausen nel periodo tra la liberazione del campo e il rimpatrio.

Il volume ora considerato costituisce cer­tamente un primo ricco bilancio variamente articolato della storia della deportazione da cui qualsiasi ripensamento storiografico non potrà d’ora innanzi prescindere. Una lacuna di non lieve importanza è però a mio parere da rilevare: trattandosi di un ampio conve­gno senza dichiarati limiti tematici sui feno­meni di deportazione nell’ambito del secon­do conflitto, come non considerare pertinen­ti (non fosse che per un interesse comparati­vo) anche le deportazioni inflitte dall’occu­pazione sovietica alla Polonia, ai paesi balti­ci, per non parlare di quelle in Siberia dei Tartari di Crimea, delle popolazioni del Nord Caucaso e di altre ancora? Tutto ebbe inizio con la cattura dei militari polacchi (da due a trecentomila) che avevano combattuto contro i tedeschi nel settembre 1939 e che, ripiegando sulla frontiera romena-ungherese che apriva loro la via verso le forze alleate in Occidente, vi incontrarono i reparti dell’Ar­mata rossa in attesa, che li rinchiusero in va­goni sigillati e li trasportarono nel profon­

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do dell’Urss. Seguirono nel biennio 1940-41 altre deportazioni dai territori occupati nella Polonia orientale. In gran parte i convogli era­no costituiti da funzionari di stato, da membri della polizia, da professionisti, da coloni ricchi con le loro famiglie. Tutti coloro che non da­vano affidamento di accettare di buon grado l’occupazione e la snazionalizzazione vennero avviati ai campi di lavoro nel Kazastan e nella Siberia del nord, dove le temperature raggiun­gevano i meno 70 gradi centigradi e la mortali­tà era altissima. Di tali deportazioni ho trova­to negli atti un solo occasionale accenno nel rapporti di Warlaw Dlugoborski dell’Universi­tà di Katowice (p. 166). E come anche non ri­cordare per la sola Lituania la deportazione, se non l’eliminazione, di migliaia di persone, per lo più rappresentanti della locale intelli­ghenzia, al tempo della prima occupazione russa, dopo l’accordo tedesco sovietico dell’a­gosto del 1939 e le reciproche intese del 28 set­tembre di snazionalizzazione delle rispettive zone di occupazione?

Proprio in questo convegno si sarebbero

dovute approfondire le ancora mal conosciute ragioni di tali imponenti fenomeni di selezione sociale, se non più razziale. Stava alla loro ori­gine la paventata difesa dell’identità nazionale da parte delle popolazioni soggiogate o l’accu­sa di un forse presunto loro massiccio collabo­razionismo? (cfr. Alexandr Nekric, Thepuni- shed peoples. The deportation and fate o f So- viets minorities at thè end o f thè Second World War, New York, Norton & Co, 1978). Non appare in merito indifferente che nel cor­so dei lavori non si sia trattato soltanto dei cri­mini tedeschi, senza alcun dubbio prevalenti nella loro incommensurabile unicità, se l’at­tenzione si estese ai trasferimenti — sia pure indotti ma non per questo meno richiesti dalle autorità locali — tra le popolazioni dei paesi balcanici. A questo punto l’incomprensibile cesura tematica in un così ampio impegno di studio se non meglio spiegata potrebbe far na­scere il sospetto di una singolare quanto ana­cronistica reticenza.

Giorgio Vaccarino

Un passato che non vuol passaredi Stefano Caviglia

L’acceso dibattito fra storici e intellettuali tedeschi a proposito del nazismo e dello ster­minio degli ebrei in Europa è un intreccio delicatissimo in cui confluiscono motivi as­sai diversi, a mio avviso non sempre conci­liabili, di importanza determinante per tutta la problematica storica contemporanea.

Principalmente a questo imponente carico di significati, e alle sue implicazioni politi­che, bisogna ricondurre sia l’estrema asprez­za dei toni che il clamore suscitato presso l’opinione pubblica tedesca ed europea — fenomeni entrambi inusuali per una polemi­

ca nata in ambito accademico. A questo in­teresse ha risposto assai tempestivamente in Italia la casa editrice Einaudi con la pubbli­cazione dei principali interventi della “que­relle”, preceduti da un’ampia introduzione di Gian Enrico Rusconi (Germania: un pas­sato che non passa, Torino, Einaudi, 1987, pp. 164, lire 14.000) consentendo una prima riflessione sistematica su tutta la vicenda.

La disputa, come molti ricorderanno, si è accesa con un vibrato articolo del filosofo francofortese Jùrgen Habermas sul settima­nale “Die Zeit” in risposta all’ormai celebre

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articolo che lo storico Ernst Nolte aveva precedentemente pubblicato sulla “Frank­furter Allgemeine Zeitung”, Il passato che non vuole passare. Le stesse testate verranno poi chiamate in causa e in qualche modo identificate con i due opposti schieramenti. Habermas, in realtà, aveva dedicato la sua attenzione solo in parte a Nolte, mettendo in guardia più in generale contro tutto un orientamento storiografico, definito “revi­sionista”, tendente a minimizzare i crimini nazisti, e chiamato in causa storici di nome come Michael Sttirmer, Andreas Hillgruber, Klaus Hildebrand, accusati di tentare un’o­perazione politica non dichiarata e soprat­tutto moralmente e culturalmente nefasta. In breve tempo ciò gli è valso una pioggia di critiche assai violente, non ultima quella di non essere abbastanza competente per espri­mere giudizi in materia, da parte di Nolte, Hillgruber e Hildebrand, ai quali si è ag­giunto per tempo Joachim Fest, celebre bio­grafo di Hitler. Ciò che maggiormente ha ir­ritato questi storici, secondo quanto affer­mano loro stessi, è che Habermas abbia pre­sentato le loro posizioni come articolazioni di uno stesso disegno politico, quasi a lan­ciare l’allarme contro una pericolosa con­giura.

Il primo nodo da affrontare, dunque, è quello dell’esistenza o meno di tale disegno politico nonché, eventualmente, delle sue ca­ratteristiche fondamentali.

I tratti principali della tesi di Nolte sono forse ormai noti. In sintesi egli si chiede (re­toricamente, poiché risponde con decisione in modo affermativo) se non sia il frutto di una eccessiva severità verso il popolo tede­sco il fatto che i crimini nazisti siano consi­derati unici e ineguagliati nella storia e se es­si non abbiano invece un degno termine di paragone e addirittura un “prius logico e fattuale” , cioè una causa scatenante, nei cri­mini commessi nella Russia sovietica prece­dente e contemporanea all’ascesa al potere di Hitler. Tutto questo viene collocato nella

deplorazione generale del fatto che (a suo avviso) i tedeschi sono ancora oggi, ad oltre quarant’anni di distanza, schiacciati sotto il peso di quella colpa (da qui l’emblematico titolo del suo primo intervento).

Meno note sono le argomentazioni con cui lo storico tedesco ritiene di mostrare fondata, ed anzi incontestabile la sua tesi. Vale la pena di entrare in dettaglio.

L’elemento centrale, quello che dovrebbe risultare illuminante ed aprire la via ad una nuova interpretazione dello sterminio ebrai­co da parte dei nazisti, è una frase che Hitler rivolse ai suoi più stretti collaboratori il 1° febbraio 1943 per anticipare che gli ufficiali tedeschi catturati a Stalingrado avrebbero ben presto collaborato con la propaganda sovietica: “figuratevi, uno arriva a Mosca; e pensate alla gabbia dei topi. A quel punto firma qualsiasi cosa. Farà confessioni, lan- cerà appelli...” . Ecco dunque la grande sco­perta: quella “gabbia dei topi” non indica, come gli storici hanno sempre ritenuto, sem­plicemente la Lubjanka, bensì un’orrenda tortura che ben ricorderà chi ha letto il ro­manzo 1984 di George Orwell, che non sa­rebbe dunque un’invenzione letteraria dello scrittore inglese, ma un motivo diffuso con cui la propaganda antibolscevica degli anni venti, in modo più o meno veritiero (questo non è importante secondo Nolte), descriveva la barbarie rivoluzionaria. Da qui la conclu­sione: dal timore, dall’ossessione per una minaccia (vera o presunta, anche qui, non importa) di barbarie “asiatica” Hitler e il gruppo dirigente nazista avrebbero matura­to il proposito di un’azione ancora più terri­bile verso gli ebrei, ritenuti gli artefici occul­ti e malvagi della minaccia bolscevica in qualsiasi parte del mondo.

Habermas definisce stravagante questa te­si, attirandosi perciò una risentita replica di Nolte, che dice fra l’altro: “Come filosofo, però, Habermas dovrebbe accettare questo enunciato” — che i crimini sovietici siano il prius di quelli nazisti — “poiché esso non è

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lontano dalla verità analitica che la rivolu­zione è antecedente alla controrivoluzione” .

Riesce difficile credere che queste argo­mentazioni siano il frutto di una approfon­dita riflessione, volta ad allargare l’orizzon­te conoscitivo sulle condizioni e le responsa­bilità che resero possibili i campi di stermi­nio nazisti. Se non vi intravedessimo un in­tento politico, in senso lato, che tende a stravolgere e a fuorviare la ricerca di ele­menti significativi su cui fondare l’analisi storica, saremmo tentati di attribuire colpe assai più gravi a Nolte e a coloro che sono scesi in campo per difenderlo. Non è qui es­senziale sapere se essi abbiano davvero in mente, come sostiene qualcuno degli altri storici intervenuti nella polemica, di offrire servigi culturali alla cosiddetta politica della svolta (espressione del nuovo blocco mode­rato fra liberali, cristiano-democratici e cri­stiano-sociali). Ciò che va soprattutto tenu­to presente è che queste ed altre affermazio­ni non possono essere comprese (ed anzi la­sciano francamente increduli) al di fuori della necessità, vissuta come imperativa, di irrobustire l’identità nazionale del popolo tedesco attraverso la ricostruzione di una memoria storica. Le posizioni di Nolte, ri­spetto a quelle, più moderate, dei suoi di­fensori (che spesso sentono il bisogno di fornire una lettura attenuata degli elementi più criticabili o di dissociarsi da questo o quel punto) non sono che il tentativo più ar­dito e spericolato di risolvere lo stesso ar­duo problema — che per altro questi storici hanno in comune, sebbene in tutt’altro con­testo e con argomenti assai diversi, con la prima storiografia conservatrice del dopo­guerra.

In questo senso mi sembra del tutto legit­timo e per nulla diffamatorio l’uso dell’e­spressione “tendenze neoconservatrici” fatto da Habermas per definire l’orientamento de­gli storici revisionisti, che ha suscitato le ire di Hillgruber nonché la censura di Rusconi nella sua prefazione al libro.

È perfettamente comprensibile che il cura­tore di un’opera di tal genere si sforzi di mantenersi in equilibrio fra le parti in con­trasto e suggerisca di smussare le principali asperità di entrambe le posizioni. Tuttavia una verifica più severa della consistenza del­le tesi revisioniste avrebbe potuto essere ten­tata. Rusconi mostra di preoccuparsi molto che non vengano lanciati anatemi o invocati tabù, che la ricerca, insomma, non venga li­mitata od ostacolata dal timore di toccare te­mi scabrosi o di rievocare memorie laceranti.

In questa direzione infatti Rusconi affer­ma: “allineare i crimini nazisti nella lunga serie dei genocidi del XX secolo, a comincia­re da quello perpetrato dai turchi contro gli armeni per finire con i massacri di Poi Pot, serve alla loro più precisa comprensione? Formulata come ipotesi conoscitiva, questa domanda non può che ricevere una risposta positiva”.

In linea teorica non si può dissentire da questa affermazione. Occorrerebbe tuttavia procedere oltre, verso una minore generali­tà. Come è evidente, ogni vicenda storica contiene in sé innumerevoli elementi (e dun­que innumerevoli connessioni possibili con altre vicende), ognuno dei quali può portare in direzioni molto diverse, non necessaria­mente contrastanti, la ricerca. Compito del­lo storico è operare una selezione fra quegli elementi, privilegiarne alcuni, trascurarne altri. Il quesito da porsi, dunque, ragionan­do in termini di metodo storico, dovrebbe essere piuttosto: è pregnante, è significativa la linea di interpretazione proposta, ai fini di una valutazione etica — poiché di questo si tratta anche per gli storici revisionisti — dei crimini del nazionalsocialismo? Non vi sono, a quello scopo, altre direzioni di ricer­ca di gran lunga più decisive, più proficue, più pertinenti? E se è così, perché sono state ignorate o trascurate? In altre parole, nessu­no potrebbe contestare a questi storici il di­ritto o l’utilità presuntiva di impegnarsi a fondo sulle connessioni psicopatologiche del­

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la mente di Hitler o sull’esistenza o meno di una recondita vocazione al genocidio radica­ta nell’umanità di tutti i tempi (solo per fare due esempi alla rinfusa), ma pretendere che questo modifichi il giudizio storico comples­sivo sul nazismo e i suoi crimini è ben altra cosa.

Il buon senso e l’interpretazione storica fi­nora accettata dicono che il fatto moralmen­te più rilevante di quella vicenda è che una società assai evoluta abbia posto enormi mezzi tecnici, economici, intellettuali al ser­vizio del massacro pianificato di milioni di persone, buona parte delle quali erano in età da non capire neppure cosa stesse accaden­do. E che nessuno, o quasi, in quella società abbia trovato ragioni per opporsi o disso­ciarsi da quanto stava accadendo. Quando si parla di unicità o incomparabilità dei crimi­ni nazisti (i termini presi di mira più dura­mente dagli storici revisionisti) si intende af­fermare, con un’espressione simbolica, che essi sono stati lo scacco per eccellenza dei valori di cui da secoli si nutre, o si illude di nutrirsi, la civiltà occidentale. Che essa è piombata per quella via ad un livello di bar­barie assolutamente inimmaginabile, dato il grado di sviluppo fino ad allora raggiunto, tale che gli uomini di quell’epoca (ed anche di questa) avrebbero semplicemente rifiutato di credere possibile se non fossero stati co­stretti a vederlo con i propri occhi. Per que­sto si ritiene che quei crimini debbano rima­nere come monito non solo per il popolo te­desco (seppure per esso in primo luogo) ma anche per tutto il mondo occidentale. Da un punto di vista funzionale-scientifico poi, il richiamo all’unicità di quei crimini significa più semplicemente e concretamente che il fe­nomeno del nazismo non può essere sussun­to sic et simpliciter nella categoria interpre­tativa del fascismo e tanto meno in quella del totalitarismo poiché quelle categorie so­no del tutto insufficienti a spiegare e forse anche solo ad inquadrare la vicenda dello sterminio degli ebrei in Europa.

Tutta questa sensibilità e puntigliosità fi­lologica di Nolte e degli altri, che ci ram­menta il fatto ovvio che ogni evento reale è unico e che tutti d’altronde sono comparabi­li, appare qui inconsistente e fuori luogo. A ben più severa critica potrebbe esser sotto­posto l’uso del termine “olocausto”, adope­rato tanto volentieri, che suggerisce appun­tamenti della storia con il trascendente.

Con tutto ciò non si vuole naturalmente ignorare la vasta riflessione in atto da diver­si anni sulla storia contemporanea della Ger­mania, in cui pure quelle posizioni si inseri­scono, o negare che da essa possano venire spunti di grande interesse anche per la com­prensione delle condizioni che resero possi­bile il nazismo. Porre l’accento sulla criticità della posizione dell’impero tedesco in Euro­pa o, più ancora, sugli effetti sociali e psico­logici particolarmente destrutturanti in Ger­mania dell’irruzione delle “cateratte della modernità”, può significare senza dubbio un approccio più profondo e più articolato al­l’atteggiamento e alla mentalità tedeschi nel periodo che comprende le due guerre mon­diali.

Ciò che non può essere accettalo è l’uso strumentale di questi e di altri assai meno convincenti motivi per imbellettare la storia del Reich di cui la Rft, nel bene e nel male, ha assunto l’eredità. Dal punto di vista della memoria storica degli ebrei, e di tutti coloro che si sentono ancora oggi partecipi della sorte toccata loro durante la seconda guerra mondiale, è poi semplicemente inaccettabile che la vicenda dei campi di sterminio venga trattata come un’appendice fastidiosa, come un ostacolo da rimuovere a tutti i costi per condurre a termine quella operazione. Mi sembra che anche nei commenti apparsi sul­la stampa italiana non sia stato dato il giusto peso a questa leggerezza e a questa sistema­tica volontà di non approfondire.

Nelle argomentazioni di Nolte questo tipo di atteggiamento è riscontrabile in modo preciso. Va citato anzitutto l’ambiguo richia­

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mo alla tesi (che non si capisce bene in che misura venga condivisa) che l’assicurazione data da Weizman al governo britannico che gli ebrei di tutto il mondo avrebbero com­battuto contro la Germania possa equivalere in qualche modo ad una dichiarazione di guerra e dunque aver autorizzato Hitler ad alcune forme di internamento preventivo. Ma pure tralasciando questo, si resta scon­certati di fronte alla conclusione del primo intervento di Nolte in cui egli ci invita a trar­re, come maggiore insegnamento dalla vi­cenda in questione, l’impulso a liberarci dal­la tirannia del “pensiero collettivistico”. Quella critica cioè, “di condizioni dalle quali gli individui non possono liberarsi (o solo con estrema difficoltà): cioè la critica verso gli ebrei, i russi, i tedeschi, o i piccolo-bor­ghesi” . Oltre al tentativo di far sparire la corresponsabilità della società tedesca del tempo, e tutte le problematiche che essa po­trebbe sollevare, va qui rilevato il cattivo gu­sto — per non dire che questo — di mettere su uno stesso piano la ‘critica’ verso gli ebrei, che è costata quasi sei milioni di morti nel giro di tre-quattro anni, e l’odierno at­teggiamento critico verso il passato della Germania. Ma c’è di più. Lo stesso Nolte aveva commesso poche pagine prima la stes­sa mancanza da cui ci esorta a guardarci, chiedendosi con incredibile disinvoltura se per caso l’ostinato non voler passare del passato tedesco non dipenda anche “dall’in­teresse dei perseguitati e dei loro discendenti ad una condizione permamente di ecceziona­lità e di privilegio”.

Il fatto è che la motivazione di fondo che muove questi storici impedisce loro qualsiasi seria verifica dei processi logici proposti. Non altrimenti si può spiegare, a mio avvi­so, che sforici di fama e di grande esperienza inciampino malamente su questioni di meto­do come accade a Hillgruber (nel saggio Du­plice caduta. Lo smembramento del Reich tedesco e la fine dell’ebraismo europeo, Ber­lino, 1986) che nel descrivere il crollo del

fronte orientale tedesco alla fine della guer­ra, nel 1944-45, sente il bisogno di chiedersi con quale delle parti in causa lo storico deb­ba identificarsi. E risponde che la sua pro­spettiva è quella della popolazione civile te­desca che cercava invano di resistere alla pressione sovietica e di coloro che l’aiutava­no combattendo, nonostante all’interno di quel confine e grazie alla sua tenuta funzio­nassero a pieno regime i campi della morte.

Ad Habermas, che giustamente trova cu­rioso che uno storico vada cercando, per identificarvisi, la prospettiva di una delle parti in causa e non scelga senz’altro la pro­pria, quella cioè di uno studioso che scrive ad oltre quarant’anni di distanza, Hillgru­ber, evidentemente a corto di argomenti, rie­sce solo a rispondere pateticamente: “Si vuole forse — in contrasto con la nostra costituzio­ne liberale — prescrivere qui per legge cosa agli storici è consentito fare e cosa no?”.

Ancora a quell’approccio distorto va ri­condotto il liquidatorio discorso di Fest (che pure afferma contestualmente che nessun crimine può giustificarne o attenuarne un al­tro) secondo cui la principale linea di demar­cazione fra i due schieramenti della polemi­ca potrebbe essere individuata con profitto nella diversità fra un presupposto pessimisti- co e uno ottimistico sulla natura dell’umani­tà. Gli uni avrebbero una visione dell’uomo come “l’antico Adamo, la cui malvagità fa parte della condition humaine, su cui nessu­na utopia ha mai potuto prevalere” . Gli al­tri, “dalle catastrofi morali del secolo hanno tratto in salvo la speranza di un tempo sulla perfettibilità dell’uomo e sulla possibilità di educarlo, e nell’Olocausto scorgono una aberrazione unica e atipica, dopo la quale si potrà procedere verso un mondo migliore”.

In definitiva, sia che si voglia diluirli nel­l’infinita serie di nefandezze della storia del­l’umanità, sia che si cerchino connessioni e accostamenti o punti di vista alternativi, l’o­biettivo è pur sempre quello di ridimensio­nare i crimini nazisti. Di attenuarne la cen­

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tralità, fino ad oggi per lo più indiscussa, nella storia tedesca contemporanea. Poiché essi non possono essere ragionevolmente ri­mossi da quella posizione, gli storici revisio­nisti sono costretti a tentare analisi e rico­struzioni assai tortuose che, oltretutto, li al­lontanano costantemente dal merito della questione. In tutta la loro affannosa ricerca di connessioni, ad esempio, non si trova un solo riferimento al secolare antisemitismo cristiano né ai reali antecedenti storici del­l’odio e della violenza contro gli ebrei. Ora, c’è da chiedersi, è possibile comprendere in­teramente la volontà sterminatrice dei nazi­sti e la generale indifferenza della popolazio­ne in Germania e in Europa orientale pre­scindendo dal pregiudizio religioso e, più ancora, dalla sua trasfigurazione violente­mente politica, affermatasi in Europa ai tempi della rivoluzione francese e mantenu­tasi in ottima salute fino alla fine della se­conda guerra mondiale? Non è qui necessa­rio chiamare in causa la propaganda reazio­naria del diciannovesimo e ventesimo secolo che ricorreva con tanta larghezza al motivo degli ebrei giacobini, bolscevichi, capitalisti o massoni (a seconda delle congiunture e

delle convenienze), sempre nemici e sovverti­tori del buon vecchio ordine del mondo cri­stiano? Non è il caso di riferirsi, se si cerca­no antecedenti, al processo Dreyfus, ai Pro­tocolli dei savi anziani di Sion, ai pogrom spaventosi con cui nella Russia zarista si cer­cò di far fronte, manovrando masse consi­derevoli, ai problemi politici e sociali fino alla rivoluzione d’ottobre? Il ricordare que­sti elementi insieme ad una critica dell’at­teggiamento incerto e a volte ipocrita del mondo libero, avrebbe forse potuto tornare di qualche sollievo per la coscienza storica dei tedeschi mostrando come quel crimine agghiacciante, incomparabile o meno che sia, comunque non è nato nel vuoto, non è stato una pura invenzione della Germania nazista.

È inevitabile il sospetto che, ancora una volta per ragioni ideologiche, risulti assai più comodo ricercare le radici dell’orrore nazista nel trauma e nell’esempio “asiatico” della rivoluzione bolscevica piuttosto che se­guire tracce che potrebbero portare a spez­zoni non marginali della cultura politica conservatrice d’Europa.

Stefano Caviglia

La Svizzera italiana nel ventennio fascistadi Elisa Signori

Dalla minacciosa battuta sul Canton Ticino “imbastardito e tedeschizzato” e sul Gottar­do “confine naturale dellTtalia”, pronun­ciata dal neodeputato Mussolini al suo esor­dio parlamentare, il 21 giugno del 1921, sino al nebuloso “disegno finale” di una annes­sione dei cantoni della Svizzera meridionale, affiorato più volte a partire dal 1938 nelle conversazioni del duce con Ciano e Bottai e accennato anche in seno al Gran Consiglio,

corrono quasi vent’anni di relazioni italo- elvetiche, per la cui messa a fuoco nel conte­sto del gioco politico europeo tra le due guerre non si poteva contare fino a tempi re­centi su indagini specifiche e di vasto im­pianto documentario. L’interesse degli stu­diosi della politica estera si è polarizzato — beninteso con ottime ragioni — intorno agli assi portanti della collocazione internaziona­le dell’Italia fascista — quali i rapporti con

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il Terzo Reich, con l’area danubiano- balcanica, con la Gran Bretagna, con la Francia, con gli Stati Uniti, con l’Etiopia — e intorno ai quesiti di fondo e ai modelli in­terpretativi adottati per ricostruirne le scelte e comprenderle: i nessi e le priorità tra poli­tica interna e politica estera, il revisionismo, la coerenza o improvvisazione di Mussolini diplomatico, la continuità o discontinuità della direttrice imperialista, il colonialismo “straccione”, i miti e la realtà della politica di potenza. In tale vasta tessitura di ricerche i rapporti italo-elvetici, intesi ovviamente nel senso più ampio e non strettamente tecnico e diplomatico del termine, sono rimasti al­quanto in ombra, limitandosi per lo più il commento storico alle ricorrenti impennate panitalianiste del duce nei confronti del Canton Ticino o alle campagne di stampa intimidatorie, venate di fermenti irredenti­stici, orchestrate a più riprese dal regime.

Certo per l’Italia fascista Berna fu un in­terlocutore di secondaria importanza, ma è pur vero che nel confronto con la confinante democrazia elvetica il peso specifico, per co­sì dire, delle relazioni diplomatiche era ac­cresciuto da un singolare intreccio di interes­si e condizionamenti politici, economici e culturali. Basti ricordare che la Svizzera era seconda in Europa solo alla Francia per nu­mero di fuorusciti antifascisti ammessi a go­dere dello status di perseguitato politico; che, inoltre, essa ospitava nutrite e attive co­munità di lavoratori italiani, emigrati tra Otto e Novecento; che l’impatto del fasci­smo sulla vita politica del cantone di lingua italiana aveva creato e continuò a creare si­tuazioni conflittuali ricche di promettenti prospettive per il regime, ma anche di ri­schiose incognite; che il movimento dei fasci italiani all’estero vantava appunto in Svizze­ra titoli di vera e propria primogenitura e che, assorbiti poi, sul finire degli anni venti in una struttura ramificata e rigidamente di­sciplinata da Roma, i fasci si configurarono come una corposa presenza istituzionale, in­

cuneatasi a latere della tradizionale rappre­sentanza diplomatica nella società svizzera e operante di fatto come una proiezione ideo­logica e organizzativa del regime fuori dei suoi confini territoriali. Per non dire dei ten­tativi di imitazione del fascismo avviati in Svizzera e incoraggiati da Roma o della stri­sciante opera di penetrazione culturale per­seguita da riviste pseudo scientifiche e lette­rarie. A questo sommario quadro di recipro­ci influssi si aggiunga qualche dato di carat­tere economico tra i più appariscenti — co­me la presenza in Italia di operatori svizzeri di grosso calibro in campo industriale, com­merciale e finanziario e di capitali svizzeri investiti in vari settori d’attività, come un volume non trascurabile di scambi tra i due paesi o l’importanza strategica dei nodi fer­roviari elvetici per i traffici dell’Italia con il centro e nord Europa — e si avrà netta la percezione della varietà di quesiti e proble­matiche connessi a questo capitolo di storia dell’Europa contemporanea.

A muoversi in questa direzione di indagi­ne sono stati per primi gli studiosi d’oltralpe le cui ricerche, pur privilegiando per lo più l’ottica svizzera, offrono un contributo rile­vante per la conoscenza non solo di questo particolare aspetto del confronto internazio­nale, ma anche di poco esplorate realtà del fascismo, a metà strada, se così si può dire, tra la storia delle istituzioni e quella della politica interna ed estera. Dopo il pionieri­stico lavoro di Katharina Spindler (trad. it.: La Svizzera e il fascismo italiano 1922-1930, Bellinzona, Casagrande-Milano, Longanesi e Co, 1980) apparso nel 1976 e dedicato agli anni venti, con un primo stimolante sondag­gio delle fonti diplomatiche italiane e svizze­re e la ricostruzione della fase d’avvio, ag­gressiva e tumultuosa, dei fasci in Svizzera, sono venute diverse indagini di taglio regio­nale — ad esempio il saggio di Paola Bernardi-Snozzi sull’irredentismo e filofa­scismo ticinese, quello di Claude Cantini {Per una storia del fascismo italiano a Lo-

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sauna, “Italia contemporanea”, 1975, n.119) sul fascismo italiano a Losanna e la più recente monografia di Mario Rigonalli {Le Tessin dans les relations entre la Suisse et l ’Italie, 1922-1940, Locamo, Pedrazzini, 1983), anch’essa dedicata al Cantón Ticino e alle relazioni italo-svizzere.

La pubblicazione nei primi anni ottanta di una sezione cospicua dei documenti ufficiali della diplomazia elvetica, nonché la messa a fuoco di personalità significative per le vi­cende in esame — si pensi al profilo del co­lonnello Arthur Fonjallaz, fondatore del fa­scismo svizzero, tracciato da Cantini {Il fa ­scismo elvetico del colonnello Fonjallaz nel Cantón Ticino, “Archivio storico ticinese”, 1981, n. 86-87) — e la accessibilità dei car­teggi privati e semiufficiali di Giuseppe Mot­ta, capo del Dipartimento politico federale fino al 1940, hanno dato ulteriore impulso allo studio di questi temi, che nel vasto e do­cumentato lavoro di Mauro Cerutti, Tra Ro­ma e Berna. La Svizzera italiana nel venten­nio fascista, Milano, Angeli, 1986, pp. 528, lire 32.000 (Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia) tro­vano una prima organica e persuasiva tratta­zione. Situato all’incrocio tra storia regiona­le del Cantón Ticino e storia della Confede­razione tout court, tra storia politica del fa­scismo e dell’antifascismo nella Svizzera ita­liana e storia delle relazioni diplomatiche tra i due stati confinanti, il volume di Cerutti si fonda su una condividibile ipotesi interpre­tativa e cioè che il confronto/scontro tra fa­scismo e antifascismo abbia funzionato co­me un formidabile “reagente” sul contesto delle istituzioni e della vita politica anzitutto ticinese e di riflesso elvetica. L’arco cronolo­gico considerato è quello grosso modo com­preso tra l’avvento del fascismo e la metà degli anni trenta (l’analisi del periodo suc­cessivo, dalla guerra d’Etiopia in poi, è ri­mandato ad un ulteriore studio già annun­ciato dallo stesso autore). Entro queste coordinate temporali Cerutti ricostruisce mi­

nuziosamente le tappe del processo di coin­volgimento e quasi di osmosi politica creato­si tra Italia e Canton Ticino, seguendo l’evo­luzione di un dibattito che con l’arrivo dei fuorusciti antifascisti e l’intensificarsi del­l’attivismo dei fasci locali si trasforma in aperto conflitto e altera irreversibilmente il clima politico di quegli anni. L’indagine rientra dunque parzialmente anche nella prospettiva dell’“Italia giudicata” , ossia del­l’immagine del fascismo all’estero, e, nel ca­so specifico, dei consensi e dissensi suscitati nello schieramento politico cantonale, nel­l’opinione pubblica, nel variegato panorama della stampa. Dalla dimensione regionale si passa però di continuo a quella federale, ove i contraccolpi delle vicende ticinesi innesca­no discussioni parlamentari e interventi di­plomatici.

Uno dei risultati dell’analisi di Cerutti è di aver accertato un sensibile scarto tra gli orientamenti della politica federale e di quel­la ticinese in tema di diritto d’asilo, vero ca­posaldo del neutralismo democratico della Svizzera moderna, la cui applicazione s’inte­se a Berna in modo assai più cauto e in mi­sura più selettiva che non a Bellinzona. In questa dimensione federale s’inquadra un tentativo di valutazione della politica di fles­sibilità praticata nei confronti dell’Italia fa­scista dal Consiglio federale sotto la guida di Giuseppe Motta: pur senza indulgere ad una interpretazione di tipo personalistico della politica estera svizzera — Cerutti bada a non trascurare la dialettica politica interna del Consiglio federale e a non attribuire al solo Motta la responsabilità di decisioni col­legiali di tutto l’esecutivo — viene ricono­sciuto un ruolo centrale al capo del Diparti­mento politico che, ticinese di nascita e cul­turalmente legato all’Italia, di fatto fu “l’e­sperto di cose italiane” e, dunque, il primo artefice delle scelte politiche e diplomatiche in questo ambito. La consultazione delle carte Motta permette a Cerutti di illuminare, nelle sue pieghe psicologiche oltre che cultu-

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rali e politiche, la linea perseguita dal capo della diplomazia elvetica: ne emerge un me­ditato ritratto che coniuga l’inflessibile av­versione a qualsivoglia irredentismo con l’autentica simpatia per l’Italia, la coerente difesa dell’“elvetismo” con l’anticomunismo dichiarato, la fede cattolica con l’ammira­zione per Mussolini e per molte realizzazioni del regime. Componente essenziale dell’at­teggiamento di Motta resta d’altronde — e l’autore non manca di notarlo — la franca opposizione alla versione indigena, svizzera del fascismo: particolare questo illuminante per capire non solo Motta, ma anche uomini di cultura come Francesco Chiesa che, se guardavano con simpatia all’Italia e al fasci­smo italiano, non per questo approvavano il modello fascista e quindi consentivano a un eventuale suo trapianto in Svizzera.

Nel ripercorrere i momenti salienti della tenace “benevolenza” di Motta verso il fa­scismo Cerutti ne stigmatizza tuttavia con forza la miopia: a suo parere mancò a Motta la corretta percezione della politica ambiva­lente, a doppio binario, giocata da Mussoli­ni e dei suoi obiettivi di aggressivo imperiali­smo nel lungo periodo. La compiacenza di Motta di fronte alle istanze della potente vi­cina — Cerutti documenta con cura i nume­rosi casi di attrito, da\V affaire Cesare Rossi al processo Bassanesi, alle espulsioni di An­gelo Tonello e poi di Pacciardi, nonché l’in­treccio dei servizi segreti italiani in terra el­vetica — ebbe secondo l’autore effetti nega­tivi sul clima politico e civile della Confede­razione, contribuendo all’indebolimento di quei valori democratici sulla cui buona tenu­ta, in termini di consenso e di coscienza poli­tica collettiva, la Svizzera giocava parte del suo futuro. “Sebbene piccola — conclude Cerutti — la Svizzera avrebbe avuto tutto da guadagnare in termini di salute delle istitu­zioni ostentando pubblicamente, con più vi­gore di quanto non fece, i suoi valori demo­cratici. Ma il governo, con Motta in prima fila, troppo spesso scelse di piegare quei va­

lori al dettame diplomatico dei buoni rap­porti con Roma; le promesse mussoliniane di amicizia — di cui oggi conosciamo, a po­steriori, la scarsa serietà — non meritavano, a nostro parere, un compenso talmente ele­vato” . Nel giudizio ci paiono fuse considera­zioni di ordine etico e politico e valutazioni di carattere storico e diplomatico. Su questo secondo piano qualche precisazione sarebbe opportuna. Varrebbe la pena di domandar­si, ad esempio, se non convenga, specie per il periodo considerato, confrontare il savoir faire di Motta e persino la sua disponibilità al compromesso con le manifestazioni di sti­ma, le larghe aperture di credito, le simpatie che da tanti leader del mondo democratico, europeo e non, vennero al regime. Anche senza parlare, come fece Salvemini, di “complicità” francesi e inglesi, va detto che non il solo Motta sentì la necessità di non rompere i ponti con Roma e di evitare che il confronto con la vicina dittatura assumesse il carattere di uno scontro ideologico tra op­posti modelli politici e istituzionali. La posta in gioco era alta — la pace e la sicurezza — e diffusa fu la convinzione, almeno fino al 1935 e oltre, che i discorsi incendiari di Mus­solini si potessero esorcizzare con concessio­ni di modesta entità. E del resto la storia del successo del fascismo e del nazionalsociali­smo non è stata letta anche come la storia della loro fatale sottovalutazione, prima da parte degli interlocutori politici all’interno, poi nel contesto post Versailles della politica internazionale?

La flessibilità elvetica ci pare rientrare, in­somma, in un clima e in una casistica inter­nazionale di pragmatico opportunismo, che a posteriori è facile condannare, ma che sul piano storico merita una disamina articolata e assai cauta. Per tale articolato bilancio storico complessivo sulla politica di Motta ci pare manchino ancora molti elementi: a co­minciare da una analisi degli effettivi rap­porti di forza economici e militari, oltre che strettamente politici, esistenti tra i due vici­

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ni, sulla cui base si possa verificare la prati­cabilità o meno di una linea di maggior rigo­re verso l’Italia e stimarne realisticamente i costi in termini di pace e di sicurezza. Per li­mitarci al solo settore economico sarebbe utile, ad esempio, disporre di una mappa de­gli interessi economici svizzeri in Italia, così come di un quadro dettagliato dell’import- export italo-elvetico, specie nel settore del­l’industria meccanica e di precisione per ap­plicazioni militari. Un primo assaggio di questi dati è proposto da Rigonalli nel suo citato studio, ma rimane ancora spazio per utili approfondimenti.

Tornando alla stimolante indagine di Ce- rutti resta da sottolineare il rilevante contri­buto ch’essa offre alla conoscenza di due realtà quasi inesplorate del fascismo fuori d’Italia: da un lato i fasci italiani nel Canton Ticino, dall’altro la nascita, evoluzione e crisi di un autoctono partito fascista svizze­ro, cui Mussolini non negò aiuti materiali e nemmeno una sorta di investitura politica. Mettendo a frutto un suggerimento di Enzo Santarelli (Intorno ai fasci italiani all’este­ro, in Fascismo e neofascismo. Studi e pro­blemi di ricerca, Roma, Editori Riuniti, 1974), che riconosceva nell’“ambiguo, bici­pite o pluralistico” movimento dei fasci ita­liani all’estero un elemento “peculiare del fascismo italiano fra gli altri fascismi euro­pei” e come tale storicamente rilevante sia sotto il profilo dell’impostazione propagan­distica che sotto quello dell’organizzazione “di massa”, Cerutti dedica un’analisi pun­tuale all’attività dei fasci italiani nel Canton Ticino, mettendone in luce il raccordo con la rete spionistica e informativa organizzata dalla polizia politica italiana e con le mute- voli esigenze del regime. La consultazione incrociata delle fonti archivistiche italiane e di quelle elvetiche, arricchita dallo spoglio della stampa ticinese e italiana, permette al­l’autore di organizzare in un quadro preciso e coerente la storia interna ed esterna di que­

sta istituzione e nel contempo di studiarne i fiancheggiatori e i coraggiosi avversari: dal partito socialista ticinese, schierato con Gu­glielmo Canevascini inequivocabilmente dal­la parte degli antifascisti, alle forze liberal- radicali, che proprio sul tema della solidarie­tà col fuoruscitismo maturarono le ragioni di una drastica scissione, dai cedimenti filo- fascisti della destra conservatrice alle vigoro­se campagne di stampa contro il regime, in parte ispirate dagli esuli italiani. Quanto al fascismo autoctono, Cerutti riesce a colle­garne l’evoluzione, da un lato, agli appoggi venuti da Roma e voluti espressamente da Mussolini, dall’altro alle perplessità che la di­plomazia italiana in Svizzera manifestò so­prattutto in merito alla discutibile scelta di Fonjallaz come alfiere del movimento e alla malriposta fiducia nelle sue capacità politiche.

Le diverse vie battute dalla politica estera fascista risultano così recuperate con acume nella loro interdipendenza, a conferma del fatto che, come efficacemente scrisse Gior­gio Rumi {Alle origini della politica estera fascista 1918-1923, Bari, Laterza, 1968) “il ‘regno d’Italia’ e ‘l’Italia fascista’ convivo­no anche se non senza contrasti, e Mussoli­ni, volta a volta, gioca l’una o l’altra carta” . Più che parlare di slealtà o di cinismo, come talvolta capita di fare a Cerutti — ci pare il caso di riconoscere in questa prassi il segno peculiare della strategia mussoliniana, non priva di una sua logica interna, anche se eversiva delle consuetudini diplomatiche. È insomma una vasta tastiera di strumenti, che Mussolini — ma varrebbe la pena di accerta­re cosa ne pensavano le altre componenti dell’establishment fascista — suona nei rap­porti con la Svizzera, muovendosi con dutti­lità tra diversi registri: la routine diplomati­ca non esclude l’intrigo, il conclamato paci­fismo e le proteste d’amicizia non pregiudi­cano la permanente disponibilità all’avven­tura.

Elisa Signori

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Il “lungo Ottocento” di Eric Hobsbawmdi Massimo Legnani

Che il diciannovesimo secolo rappresenti l’asse centrale delle produzione storiografica di Eric J. Hobsbawm è un dato del tutto evi­dente anche al lettore italiano, che ha potuto via via disporre (per una volta con notevole tempestività) della traduzione dei principali lavori dello storico inglese: da I ribelli a / banditi; dagli Studi di storia del movimento operaio a La rivoluzione industriale e l’Im­pero-, dai contributi inseriti nella Storia del marxismo (tutti pubblicati da Einaudi a par­tire dal 1966) a Rivoluzione industriale e ri­volta nelle campagne (scritto in collabora­zione con George Rudé, Roma, Editori Riu­niti, 1973), alla recente raccolta di saggi su Lavoro, cultura e mentalità nella società in­dustriale (Roma-Bari, Laterza, 1986). Agli interessi specifici che questi titoli suggerisco­no Hobsbawm ha accompagnato, sin quasi dagli inizi, un disegno di rappresentazione complessiva dell’Ottocento, avviato nel 1962 da The Age o f Revolution.Europe 1789- 1848 (Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Milano, Il Saggiatore, 1963), proseguito nel 1975 con The Age o f Capital 1848-1875 {Il trionfo della borghesia 1848-1875, Ro- ma-Bari, Laterza, 1976) e concluso, nel 1987, da questo The Age o f Empire 1875- 1914 {L’età degli Imperi 1875-1914, Ro­ma-Bari, Laterza, 1987). Distribuiti su un quarto di secolo, i tre volumi obbediscono ad una comune formula di haute vulgarisa- tion, il cui “lettore ideale — aveva scritto Hobsbawm nel 1962 — è costituito da quei­rindividuo teorico che è il cittadino intelli­gente e istruito, il quale non è soltanto cu­rioso di conoscere il passato, ma desidera comprendere come e perché il mondo è di­ventato quello che è oggi e quale è la meta verso cui si avvia”. Ribadita nella prefazio­ne all’ultimo volume, questa destinazione meriterebbe più di un semplice richiamo in

rapporto alle assai meno positive valenze che le finalità divulgative assumono nella media della produzione editoriale italiana. Nel nostro caso, essa si carica di un ulteriore significato legandosi a ciò che l’autore defi­nisce come la “zona crepuscolare” collocata fra storia e memoria, “fra il passato come archivio generale aperto all’indagine relati­vamente spassionata, e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali” (p. 5).

Avvicinandosi, e poi decisamente inol­trandosi nel ventesimo secolo, l’intreccio tra conoscenza ed evocazione si complica attra­verso il gioco delle prospettive esistenziali e generazionali. A ragione, in tale prospettiva, Hobsbawm può indicare nell’agosto 1914 “una delle più incontestabili ‘cesure natura­li’ della storia” (p. 9), sulla quale l’imponen­te ed ininterrotto accumulo di letteratura ra­ramente sfugge al dilemma tra la celebrazio­ne della belle époque come luogo della no­stalgia o come presa di distanza dal capitolo conclusivo del passato. In ogni caso, si trat­ta di attitudini che sarebbe arduo ricondurre a pure categorie storiografiche; e, si potreb­be aggiungere (Hobsbawm vi dedica un rapi­do cenno nell’epilogo), non separabili dal senso di precarietà del futuro che accompa­gna questa fine Novecento. Il fatto stesso che il 1914 sia oggetto di interesse costante da parte dei mass media ne accresce, nel sen­so comune, le valenze simboliche e serve a propagarne le suggestioni.

A differenza dei primi due, questo terzo volume presenta una intelaiatura meno net­tamente squadrata. Allo schema fondato sulla successione racconto-analisi subentra una articolazione più fluida, che alterna continuamente i due piani e nella quale si può vedere riflesso lo sforzo di aderire ad una materia più complessa, contraddittoria e sfuggente. Se fino al 1875 si era trattato di

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delineare l’ascesa del potere borghese facen­do spazio anche a incertezze e rallentamenti, ma tenendo ferma la sostanziale linearità e continuità del processo (interpretato sulla base di prevalenti categorie marxiste, che nell’instaurazione dei regimi liberali scorgo­no la sanzione di interessi già largamente af­fermatisi in campo economico), a partire dalla ‘grande depressione’ l’obiettivo che Hobsbawm si prefigge è di dar conto, paral­lelamente, e della ulteriore estensione di quel potere e del manifestarsi, al suo interno, di fattori che ne minano progressivamente la solidità. Tra i tanti “paradossi” di cui l’età imperiale costituisce un elenco “interminabi­le” , il maggiore, scrive l’autore, è proprio “quello del mondo e della società del libera­lismo borghese avanzante verso la ‘strana morte’ [...] che lo coglie proprio quando esso raggiunge il suo apogeo” (p. 13). E d’altro canto, i modi del declino, dapprima quasi impercettibili (anzi, ammantati dei segni op­posti: T “apogeo”), poi improvvisamente brutali (e qui l’agosto 1914 torna per vie di­verse a convalidare quel carattere di spar­tiacque epocale prima suggerito dalla memo­ria) pongono nella giusta luce la vittima pe­culiare della crisi, la “società liberale bor­ghese” , appunto: “questo libro — leggiamo ancora — studia il momento storico in cui diventò chiaro che la società e la civiltà crea­te da e per la borghesia liberale occidentale non rappresentavano la forma permanente del mondo industriale moderno, ma solo una fase del suo sviluppo iniziale” (p. 15). Così si evidenzia fino in fondo l’asse portan­te dell’opera e la nozione stessa di “lungo Ottocento” come fase che trae la propria omogeneità dalla centralità economica, poli­tica, culturale della classe borghese.

Gli anni 1880-1914 sono quelli in cui tra slanci, adattamenti, prime ritirate, si com­pleta l’edificio di cui i decenni precedenti avevano posto le fondamenta, dall’omoge­neizzazione del quadro mondiale agli inte­ressi dei ceti dominanti delle grandi potenze

europee allo sgretolamento della antica base agraria accelerato dalla ‘grande depressio­ne’, dalla comparsa del capitalismo oligopo­listico alla ‘democratizzazione’ dei sistemi politici, dalla diffusione dei movimenti sin­dacali e socialisti alla loro crescente assimi­lazione ai contesti nazionali grazie agli stru­menti di integrazione delle incipienti società di massa (l’esercito, la scuola), ma grazie anche alla pervasività delle dottrine imperia­listiche, nazionalistiche e razziste. “Fu un’e­ra — in definitiva — nonostante le apparen­ze, di crescente stabilità sociale nella zona delle economie industriali avanzate, un’era che fornì le esigue schiere di uomini in gra­do, con quasi sprezzante facilità, di conqui­stare e governare imperi vastissimi” (p. 13). Il quadro sociale che Hobsbawm muove en­tro questi confini è spesso assai vivo e ricco di scambi tra i suoi numerosi versanti. La borghesia che ora asseconda, ora manipola la ‘democratizzazione’ (p. Ili); che accen­tua gli spazi della vita privata e al tempo stesso paga uno dei prezzi delle trasforma­zioni vedendo crescere il distacco dai figli (e soprattutto dalle figlie, tra le quali germo­gliano i primi movimenti emancipazionisti) (pp. 193-196 e 233); che accompagna i pro­pri agi con una crescente inquietudine socia­le e spirituale (p. 215). Il proletariato che ri­flette, soprattutto attraverso gli orientamen­ti sindacali, modificazioni dell’assetto pro­duttivo, tradizioni nazionali e regionali, identità culturali condizionate dalla urbaniz­zazione (pp. 141-151). I ceti intermedi, e più particolarmente quelli di ascendenza artigia­na, che offrono il principale terreno di con­senso al nuovo radicalismo nazionalistico su cui si innesta l’antisemitismo (pp. 180-183). Sono solo alcuni accenni che sottolineano l’attenzione che il libro dedica all’immagine (spesso alla autorappresentazione) dei diver­si attori sociali, alla percezione che essi han­no del cambiamento, alle reazioni che mani­festano. In questo senso la capacità di co­gliere certi aspetti della ‘massificazione’ —

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siano essi la diffusione della stampa e degli spettacoli oppure le applicazioni tecnologi­che alla organizzazione della vita domestica o ancora la diffusione della pratica sportiva a livello popolare o nel coté alto-borghese — si salda alle informazioni sull’andamento dei salari o sulla scolarizzazione e offre indica­tori essenziali per fissare i ritmi della vita collettiva. Così come, su altro piano, riesce particolarmente incisivo il discorso sul mu­tamento scientifico e artistico, tanto per quanto riguarda il “divorzio fra scienza e in­tuizione” esemplificato attraverso le trasfor­mazioni della matematica e della fisica (pp. 281-288), quanto per la frattura, che prende corpo con le avanguardie novecentesche, “fra ‘modernità’ politica e artistica” (p. 263). Il senso di precarietà che subentra alle certezze del progresso minando le basi dell’i­deologia liberale emerge più nettamente, an­che se indirettamente, in questo ambito che non nel campo delle scienze sociali, dove pu­re l’irruzione delle masse determina una in­quieta attenzione all’“irrazionale”.

Tuttavia le maglie del discorso tendono ad allargarsi quando si spingono sul terreno della politica e della gestione del potere. Al­lora il predominio o quantomeno la conno­tazione borghese restano in qualche modo implicite, così da scolorire proprio un feno­meno centrale dell’età imperialistica, quello che lo stesso Hobsbawm definisce “crescente convergenza fra politica ed economia, cioè ruolo crescente del governo e del settore pubblico” (p. 63). Ceti parlamentari e mini­steriali, apparati burocratici e strumenti di intervento, eserciti e diplomazie restano sul­lo sfondo, rendendo talvolta sfuggente pro­prio quel livello che fa da catalizzatore della fiducia e della incertezza, del senso di peri­colo e delle convinzioni di tenuta. E resta sullo sfondo una più ampia analisi dei siste­mi di alleanza, politica e sociale, che si scompongono e ricompongono alla svolta del secolo. L’attribuzione alla borghesia del ruolo di assoluta protagonista riposa (aven­

do l’occhio anche ai precedenti volumi) su solide valutazioni, ma abbisogna di verifiche ed articolazioni che qui non sono quasi mai spinte al centro della scena.

I limiti di questa dimensione del discorso diventano soprattutto avvertibili nell’ultima parte del libro, quando lo storico inglese traccia la parabola verso la guerra. Mentre da un lato si moltiplicano i segni dell’impe- rialismo europeo sintetizzati dalla massima espansione dei sistemi coloniali (“non c’è mai stato nella storia né ci sarà mai più un secolo così europeo”, p. 22), dall’altro si ap­palesano, attraverso gli squilibri delle gerar­chie che quell’imperialismo instaura (e Hob­sbawm è molto efficace quando richiama le basi economiche del colonialismo, la mobili­tazione culturale per affermare la superiori­tà biologica dei bianchi europei, gli sforzi di “occidentalizzazione” delle élites indigene), dall’altro si evidenziano segni di tensione e via via di destabilizzazione, cui le grandi po­tenze reagiscono accentuando la rigidità del­la spartizione di mercati ed aree strategiche, incrementando in modo irreversibile la corsa agli armamenti. Alle manifestazioni della crisi incipiente sono dedicati i capitoli XII e XIII, che delineano la mappa della instabili­tà procedendo per cerchi concentrici, dagli imperi persiano, cinese e ottomano al cuore del sistema europeo, dove il maturare per nulla rettilineo di due blocchi contrapposti (la cui genesi, dalla Triplice Alleanza alla Triplice Intesa, copre l’intero periodo consi­derato) simboleggia la ‘deriva’ del continen­te e soprattutto il nodo esplosivo rappresen­tato dagli anelli deboli di quel sistema, dagli stati nei quali la pressione della politica in­terna su quella estera raggiunge limiti intol­lerabili. L’esempio estremo dell’Austria-Un- gheria, la quale “non poteva far altro che puntare la sua esistenza nel gioco d’azzardo militare, perché senza di esso sembrava con­dannata” (p. 368) conferma senza dubbio quell’intreccio di fattori economici e nazio­nali che le pagine di Hobsbawm propongo­

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no, ma introduce anche varianti non diretta- mente riconducibili al declino della “società e civiltà borghese” , varianti che riportano piuttosto in primo piano una specificità con­tinentale che, variamente sfumata, vede il potere borghese coesistere con componenti tradizionali della società e dello stato. E se di tramonto del mondo borghese occorre parlare, è in una accezione europea sulla quale la storiografia non ha ancora prodotto una valutazione complessiva (anche in corre­

lazione all’ascesa, alPinterno come all’ester­no, del capitalismo nordamericano). La “strana morte” che trova il proprio riferi­mento simbolico nell’agosto 1914 resta un problema per molti aspetti aperto e questo libro di Hobsbawm fornisce un contributo di assoluto rilievo al suo approfondimento. Anche per capire quale eredità il “lungo Ot­tocento” lasci alle crisi e trasformazioni del nostro secolo.

Massimo Legnani

Antifascismo e resistenza

Altiero Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di Ed­mondo Paolini, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 110, lire 10.000; Discorsi al Parlamento europeo, 1976-1986, a cura di Pier Virgilio Dastoli, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 390, lire 25.000.

Nell’arco di meno di un an­no dalla scomparsa di Altiero Spinelli (23 maggio 1986), con una tempestività che depone per l’attenzione e la sollecitudi­ne affettuose e insieme dolenti dei suoi ultimi collaboratori, sono apparsi sia il seguito, pur parziale e frammentario, della sua autobiografia Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia (a cura di Ed­mondo Paolini), sia la raccolta dei suoi Discorsi al Parlamento europeo, 1976-1986 (a cura di Pier Virgilio Dastoli), mentre si annunziano, a parte, gli inter­venti svolti in precedenza come deputato nazionale. Il fram­mento autobiografico è relativo agli anni tra l’estate 1943 e

quella del 1946, e riguarda, do­po il ritorno a casa, la fonda­zione a Milano del Movimento federalista europeo, l’intreccio con i casi più personali (il ritro­varsi con Ursula, la paternità), quindi il difficile lavoro di pro­selitismo e di consolidamento in Svizzera e Francia, l’inter­mezzo azionista ancora a Mila­no — segnato dall’incontro con Pani — e l’abbandono della scena politica, la malinconica “brughiera nazionale” su cui si va ormai stendendo la cappa della restaurazione più piatta. Si tratta in pratica del triennio cruciale con cui si compie la parabola culturale e politica avviata nel confino di Ventote- ne, culminante nella elabora­zione del Manifesto, assieme a Eugenio Colorni e soprattutto a Ernesto Rossi, documento teorico e programmatico di ba­se delle idee federaliste, accom­pagnato da saggi di approfon­dimento e seguito poi dalle Tesi e dalle Direttive di lavoro. Il Manifesto, a sua volta, segna il punto di snodo nella vicenda Spinelli e la svolta esistenziale, oltre che intellettuale e politi­ca, nella sua vita. Come è noto

— ed egli stesso ne ha del resto lasciato corposa memoria nella prima parte dell’autobiografia, pubblicata nel 1984 (Come ho tentato di diventare saggio, Bo­logna, Il Mulino) e sottotitola­ta emblematicamente Io, Ulisse— Spinelli matura giovanissi­mo l’adesione al Pei verso cui10 sospinge non già l’ansia di giustizia sociale né il biso­gno-dovere di disciplina, quan­to piuttosto la liturgia e la reli­gione del potere, l’impegno quasi sacerdotale nell’obbedire per comandare e creare, in for­za di ciò, la società nuova. Ac­canto alla professione di rivo­luzionario, da subito dopo la grande guerra, è viva in lui la sensibilità alla dimensione e al­l’essenza sovranazionale dei problemi. Di tali capisaldi, è il secondo a resistere nel tempo al continuo rovello della mente ‘prigioniera’ di un corpo priva­to della libertà per oltre sedici anni e che alla Libertà non in­tenderà però sacrificare anche11 diritto alle metamorfosi e alle avventure del pensiero e del proprio io morale, che gli sa­ranno costantemente rimprove­rate e gli alieneranno l’amicizia

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o anche sola la considerazione di uomini tanto diversi tra loro come, ad esempio, Emilio Lus- su e Riccardo Bauer. L’uomo che ha teorizzato per sé la ten­sione continua alla ricerca, co­me Ulisse, appunto, e che della propria personalità e attitudine speculativa si esprime in termi­ni di campi psichici di forze, abbandona insomma il comuni­smo, ma non per questo inter­rompe l’inesauribile sfida a ri­mettere in discussione l’esisten­te, che costantemente lo spinge al bisogno di azione e di prota­gonismo, ad inseguire una ‘grande idea’, lavorare a un grande disegno nuovo. Di qui, e dal convincimento sempre più profondo che il futuro può es­sere possibile solo sulle ceneri degli stati nazionali e delle cor­rispondenti logiche di potenza, la vigorosa e irruente, a tratti, rielaborazione del federalismo tornato in circolazione in In­ghilterra fra le due guerre mon­diali. Prende corpo su queste basi il ‘sogno’ dell’unità euro­pea, nutrito, peraltro, della sin­cera e ‘necessaria’ fede antifa­scista e resistenziale.

Inizia anche, fra il 1943 e il 1945, la seconda parte del­la sua intensissima esistenza, articolata in sei “cicli di azio­ni fondate ciascuna su un’ipo­tesi diversa” — come egli stes­so scrive — e corrisponden­ti a tappe della costruzione europea, ma insieme ad al­trettante ‘avventure’ del pro­prio spirito e del proprio intel­letto. In esse, il “linguaggio diurno” dell’agire quotidiano e il “linguaggio notturno” del­l’insonne studio e della rifles­sione, nonché della program­mazione, tendono a combi­narsi.

E invero, i quasi dieci anni di attività parlamentare europea, attraverso due elezioni successi­ve come candidato indipendente nelle liste del mai dimenticato Pei, si svolgono ancora sotto il segno di questa sua più generale avventura politica. A giudizio di Dastoli, Spinelli “ha certamente segnato [...] la storia e l’avvenire del Parlamento europeo, prima Assemblea dotata di legittimità democratica a livello europeo” (Discorsi, p. 16). In pratica fino alla vigilia della morte, compiu­tasi “casualmente, così come una candela si spegne casualmente quando un soffio porta via la sua fiamma o quando il lucignolo si annega nella cera fusa che ne cir­conda la base” — come egli stes­so aveva anticipato molti anni innanzi — ha portato avanti un progetto originale e coraggioso per l’Europa: riformare i tratta­ti di Roma per giungere a poteri sovranazionali effettivi, facen­do leva sul parlamento del 1979, eletto finalmente a suffragio di­retto. Bloccata tale strategia dalle resistenze della Commis­sione e del Consiglio, “il lupo battuto da avversari più potenti, coperto di non poche ferite, ed ora di nuovo solitario” (La goc­cia e la roccia, p. 94) non si ar­rende e lancia una nuova, ennesi­ma parola d’ordine — mandato costituente per il prossimo parla­mento europeo e referendum per l’Europa — che ha assunto ormai il valore di un testamento politico.

Guido D’Agostino

Riccardo Bauer, Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, Roma-Bari-Milano, Ca- riplo-Laterza, 1987, pp. 296, li­re 20.000.

Quello di Riccardo Bauer (1896-1982) è un percorso di vi­ta per tanti versi esemplare che egli ha provato a raccontare — cedendo già avanti negli anni al­le sollecitazioni di amici ed esti­matori, primo fra tutti Leo Va- liani — nel volume appena usci­to, postumo, per cura congiunta della Cariplo e delle edizioni La- terza. Quello che ho fatto. Treni’anni di lotte e di ricordi, così come si presenta ai lettori, è in effetti, ancora, frutto di cura­tori amorosi e diligenti come Piero Malvezzi e Mario Melino, “educatori che avvertono l’im­portanza della storia come stru­mento di formazione umana, ci­vile e culturale” , e reca un’at­tenta, partecipata presentazione di Arturo Colombo, in diverse occasioni misuratosi già con le idee e con la cultura politica di Bauer da lui messe in chiara e colta evidenza. A tanti, special- mente tra i lettori più giovani, il nome del protagonista di queste memorie antifasciste dice poco o nulla — supponiamo — anche per la modestia e la reticenza che ne hanno caratterizzato per­sonalità e volontà. Eppure si tratta di un uomo che di un alto magistero civile e politico ha fatto la ragione della sua esi­stenza e che ha pagato la pro­pria intransigenza e fedeltà alla religione, laicamente intesa, del­la libertà con durissimi anni di persecuzione, di carcere e di confino durante la dittatura fa­scista, da lui con ogni mezzo av­versata.

Appartenente alla generazio­ne di intellettuali e di militanti antifascisti del calibro di Cala­mandrei, Gobetti, La Malfa, Lussu, Parri, i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli; formatosi alla Bocconi e immer­

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so e partecipe dell’ambiente ri­formatore e civile della Milano dei primissimi decenni del seco­lo; interventista internazionali­sta e valoroso combattente nella grande guerra, Riccardo Bauer elabora, di fronte alle prime av­visaglie delle inquietudini del dopoguerra e più tardi al pale­sarsi del fascismo, la propria concezione etica e politica a cui consacrerà l’intera vita. Si tratta di una originale ‘pedagogia del­la libertà’ in cui è fortissima l’influenza crociana, ma della li­bertà intesa compiutamente co­me processo di liberazione e, in quanto tale, egualitaria e nemi­ca così di ogni condizione di pri­vilegio materiale, come di qual­siasi situazione di compromesso culturale e ideologico. L’uomo è tuttavia parimenti sensibile ai dati materiali e, si direbbe, scientifici del reale; per questa via è dunque tutt’altro che in­consapevole dell’istanza sociale, e persino socialista, ma nell’am­bito di una visione interamente antimarxista. È qui, certo, una discriminante precisa della sua persona e del suo stesso impe­gno militante antifascista che lo porta prima al fianco del Gobet­ti della “rivoluzione liberale” e poi all’adesione al movimento rosselliano di Giustizia e Liber­tà. Da tale adesione, e in ragio­ne di essa, molti punti fermi, si deve ripeterlo, di ordine morale, politico e culturale. Politica e cultura, in particolare, binomio inscindibile, se è vero — come per Bauer è sempre e inflessibil­mente stato — che la prima vale ad emendare dove possibile e cambiare quanto è necessario mutare; la seconda, ad impedire alla prima di rendersi pratica di manipolazioni dentro e attorno alla sfera del potere. Non solo,

ma dallo straordinario crogiuo­lo di forze e di idee, anche diver­se, rappresentato da Giustizia e Libertà, gli provengono pure due elementi teorici e pratici, apparentemente contraddittori: la condanna netta del “precon­cetto geometrico antagonismo di categorie arbitrariamente sta­bilite” quale egli individua nel principio marxista della lotta di classe, da un lato, e l’apprezza­mento cosciente e complesso del fenomeno rivoluzionario, a co­minciare dall’esemplare 1917 in Russia. Si comprendono, alla luce di ciò, i suoi severi giudizi sul primo dopoguerra e sull’A- ventino come rivoluzioni man­cate perché giocate tutte o sul terreno sociale o su quello poli­tico-istituzionale, ma senza in­contro e senza sintesi fra i diver­si ambiti, né suggellate dalla su­periore mediazione culturale e civile. Ed anche, per certi versi, si capisce come simili valutazio­ni tornino anche nel caso della Resistenza — cui pure Bauer ha dato tanto — in cui egli vede, correttamente peraltro, ‘preci­pitare’ il corso lungo della storia italiana contemporanea dall’U- nità in poi, con il suo fardello di reazione politica e di ingiustizia sociale che ha alimentato co­stantemente le basi storiche di “servitù” e di ignoranza o anal­fabetismo politici del popolo. La ribellione popolare al fasci­smo di Salò, la lotta partigiana che conquista strati e ceti tradi­zionalmente lontani, strette dal­la furia delle contingenze gravis­sime non sedimentano tuttavia, a suo giudizio, spessore politico sufficiente a innescare un pro­cesso di segno inverso e altret­tanto lungo. Ne è riprova il se­condo dopoguerra, con le sue lacerazioni, le sue insanabili di­

varicazioni fra conservazione e progresso, le dure conseguenze sul sistema politico italiano, bloccato nella sterile contrappo­sizione fra De e Pei, fra oppor­tunismi e arroganze.

Le lotte e i ricordi di Bauer si arrestano all’intensa e incisiva esperienza nel Cln, sia militare che civile, e quindi a quella svol­ta durante il governo Parri e nel Partito d’Azione fino al suo “fallimento” . E proprio a pro­posito del partito azionista ri­tornano le osservazioni tipiche in Bauer sull’effetto disgregante e perdente della mancata sintesi tra ‘anima’ laica e liberale e quella socialista; il suo esempio, la sua testimonianza di vita, il suo impegno non sono, eviden­temente, bastati a scongiurarlo, allora, inducendolo al ritiro dal­la vita politica attiva. Non certo da sconfitto, però, se ciò doveva riportarlo, in una sorta di em­blematico ritorno alle origini, a riprendere l’antico ‘ufficio’ presso la Società Umanitaria, forse la più tipica istituzione lai­ca, civile e ‘socialista’ milanese e la più consona all’educatore e al maestro che erano profonda­mente radicati in lui.

Nel volume ci sono, evidente­mente, molte altre cose: l’incon­tro con uomini e cose, l’attra­versare le più disparate e impe­gnative situazioni, con corag­gio, fermezza e orgoglio della propria “schiena dritta” . Non facilmente dimenticabili, pur tra diverse altre, sono le secche, inappellabili prese di distanza nei confronti di personaggi co­me Giovanni Ansaldo, o come lo stesso Spinelli, o il colonnello italo-americano Poletti, ma an­che di comportamenti e azioni di leader politici come Togliatti, di capi religiosi, di giudici e po­

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liziotti asserviti al ‘regime’. Con lo stesso impeto, però, è pronto pure a riconoscere, nella ignoranza e nella incultura poli­tica dei più — che assai lo an­gustiano — i piccoli e i grandi tesori di umanità, di intelligen­za e di dignità ovunque si mani­festino.

Una bella lezione, insomma, quella di Bauer, dai cui principi teorici ispiratori di fondo si può certamente dissentire (e ne dis­sentivano senz’altro i giovani milanesi che nel 1968 lo conte­starono duramente), senza però che si possa legittimamente di­sconoscerla nel suo grandissimo valore umano e morale.

Guido D’Agostino

Franco Invernici, L ’alternati­va di “Giustizia e Libertà”. Economia e politica nei progetti del gruppo di Carlo Rosselli, Milano, Angeli, 1987, pp. 204, lire 20.000.

“Sconfitti, non abbiamo lo stato d’animo dei vinti, non sia­mo dei rassegnati. Tutt’altro. Comincia oggi la nostra vera giornata. Siamo degli ottimisti, perché sentiamo che il fondo dell’abisso fu toccato ormai da tempo e che la disfatta è diven­tata il pegno di una lotta storica che vale davvero la pena di es­sere vissuta, per la quale è bello sacrificarsi, di una lotta che fi­nalmente porta in prima linea quei problemi supremi che co­stringeranno il popolo italiano al suo tirocinio di popolo mo­derno” .

Ci sono in queste righe, scrit­te da Carlo Rosselli a soli 27 anni, accanto ai segni inconfon­dibili del suo carattere intransi­

gente e irriducibile, le premesse e l’esigenza di un progetto di al­ternativa politica, sociale ed economica che di lì a poco assu­merà contorni sempre più defi­niti.

Nella stretta coesione fra pensiero e azione che caratteriz­zerà tutta la sua vita, Rosselli aveva già alle sue spalle, in quel momento, una storia importan­te. Collaboratore de “La Rifor­ma Sociale” di Einaudi, anima­tore del “Non Mollare” e di “Quarto Stato” , egli aveva sa­puto esemplarmente imperso­nare l’oppositore militante al fascismo e, insieme, l’intellet­tuale impegnato ad avviare una coraggiosa chiarificazione ideo­logica sul socialismo, i suoi ca­ratteri, le sue finalità.

Proprio da qui prende le mosse Franco Invernici nel suo bel saggio L ’alternativa di “Giustizia e Libertà". In bilico fra la ricostruzione storica vera e propria e gli evidenti interessi per gli studi di filosofia politi­ca, Invernici pone al centro del­la sua analisi quel rapporto fra economia e politica che tanta parte ha nel pensiero di Rosselli prima e, poi, nell’animato e spesso aspro dibattito dentro e fuori Gl. Quel che ne esce è una vera e propria foto di gruppo che va ad aggiungersi e ad inte­grarsi, con apporto indubbia­mente originale, alla vasta e im­portante bibliografia prodotta negli ultimi anni sull’argomento (e che l’autore dimostra di ben padroneggiare).

Se infatti, nel nostro caso, si potrebbe pensare a prima vista a una rilettura e a una ripresa di temi già ampiamente noti e di­scussi, merito di Invernici è sen­z’altro quello di proporci, at­traverso un attento lavoro di

scavo, una sorta di acuta bio­grafia intellettuale di Rosselli e, in parte almeno, del gruppo di cui fino all’ultimo è rimasto leader incontrastato.

Dalla tesi di laurea (con cui Rosselli partecipa, con la pas­sione consueta, al dibattito del primo dopoguerra) agli articoli di polemica politica del 1924- 1926, dalla critica e autocritica del “Quarto Stato” alle tesi del Socialismo liberale, dalla nasci­ta del movimento ai “Quader­ni” di Gl, l’autore va alla ricer­ca degli elementi di fondo di un progetto politico che pur tra velleitarismi e incertezze, fra accese polemiche e aspirazioni teoriche spesso accompagnate da scarso rigore scientifico, non manca ancora oggi di stupire per la modernità e la forza anti­cipatrice di tante intuizioni, molte delle quali troveranno puntuale riscontro nell’evolu­zione economica postbellica. Pensiamo soltanto ad alcuni aspetti — fra quelli messi luci­damente in evidenza da Inverni­ci — quali la proposta di un’e­conomia mista, dove l’iniziativa privata dovrebbe convivere con l’intervento statale, oppure al significato profondo che viene ad assumere l’ideologia demo­cratica sia in prospettiva italia­na che europea e federalista o ancora l’intuizione della centra­lità, nel moderno sviluppo in­dustriale, di problemi come quelli della fabbricazione in se­rie, del decentramento dell’in­dustria, del fordismo come or­ganizzazione della produzio­ne, delle relazioni industriali, del ruolo delle leghe e dei sinda­cati.

Se Invernici, dunque, cerca di individuare nel pensiero di Rosselli e poi nel programma di

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Gl un nucleo più squisitamente economico, non può però esi­mersi dal dover riconoscere che, essendo per Rosselli “l’e­conomia più che un’ipotesi astratta un aspetto della politi­ca concreta”, proprio il nesso politica-economia diventa es­senziale per cogliere il respiro di una vera e propria progettualità antifascista che accanto a un riesame spregiudicato e fecondo delle principali linee dottrinarie (prima fra tutte, l’aspirazione a superare il dualismo liberali­smo-socialismo alla luce di un confronto anziché di un irridu­cibile e pregiudiziale antagoni­smo) indichi anche strumenti di intervento e istituti giuridico-e- conomici idonei. Se è vero — sottolinea Invernici — che risul­terebbe quanto mai disagevole rappresentare l’andamento del­le teorie economiche gielliste “secondo una linea di sviluppo di qualche regolarità” è altret­tanto vero che “Rosselli e Gl considerano l’impossibilità di opporsi al fascismo semplice- mente basandosi su una pregiu­diziale classista” . Per questo avvertono l’urgenza di esprime­re una proposta rigorosamente coordinata: “togliere il movi­mento socialista dagli stereotipi e dagli immobilismi, riconosce­re la valenza politica e sociale dei ceti medi e della borghesia non fascistizzata, proporre un piano di economia mista, porre allo stesso livello, in vista del­l’alleanza, proletariato e ceti medi” .

Per ricostruire questa propo­sta Invernici sceglie di far par­lare direttamente i documenti ripercorrendo — lo sottolinea già Arturo Colombo nella den­sa introduzione al volume — un po’ tutta la produzione giellista

in una minuziosità di analisi fat­ta di citazioni e raffronti com­parativi. Anche se l’agilità della lettura talvolta ne soffre un po­co, non si può non convenire che l’approfondimento condot­to sui testi è tale da consentire all’autore di offrirci in sede di valutazione critica ben più di un’indicazione importante.

Basti dire delle acute note sul­l’influenza del socialismo ingle­se, belga e francese sul pensiero di Rosselli, delle pagine dedicate alla riflessione sul tema del libe­rismo, della liquidazione del de­terminismo marxista, dell’al­leanza proletariato-ceto medio nel processo di trasformazione socialista della società e per fini­re, proprio in sede di conclusio­ne, le pagine dedicate al rappor­to élites-masse e alla valenza propulsiva e democratica che Rosselli dà all’elitismo rispetto alla funzione storica e conserva­trice ad esso comunemente asse­gnata.

Un progetto, quello del grup­po Rosselli, in cui si fondono, dunque, teoria, politica, econo­mia e che conserva inalterato tutto il suo fascino, per il forte contenuto etico, anche dopo mezzo secolo, nonostante molti degli enunciati abbiano talvolta valore più sul piano dei buoni propositi e della tensione mora­le, appunto, che nella realtà.

Del resto, come sottolinea acutamente Invernici, “Rosselli ha sempre intravisto soluzioni più proiettate verso il futuro che adattabili alla contingenza. Se da un punto di vista politico è facile tacciarlo di utopia, da un altro, da quello ideologico, è doveroso riconoscergli di aver suggerito ipotesi che nel tempo si sono rivelate quanto meno profetiche e con le quali le gran­

di organizzazioni di sinistra (persino europee) si sono trova­te a fare i conti, addirittura a decenni di distanza” .

Pierangelo Lombardi

Le formazioni “M atteotti” nella lotta di liberazione, a cura di Marco Brunazzi e Agostino Conti, Cuneo, L’Arciere, 1986, pp. 150, lire 14.000.

Il convegno di cui si pubblica­no gli atti, tenuto a Torino nel marzo 1985 ed organizzato dal­l’Associazione Partigiani Mat­teotti e dal Gruppo consiliare del Psi torinese, pur nei limiti dell’intento commemorativo co­stituì una positiva occasione di dibattito e di messa a punto. Non poche infatti sono le que­stioni che intorno alla parteci­pazione socialista alla lotta ar­mata, e più in generale alla poli­tica del Psiup nella Resistenza, stentano a trovare una sistema­zione storiografica lontana da ormai anacronistiche polemi­che. Nonostante recenti contri­buti, tra cui quelli, a prevalente carattere documentario, di Li­bero Cavalli e Carlo Strada (Nel nome di Matteotti. Materiali per una storia delle Brigate Mat­teotti in Lombardia, 1943-1945 e II vento del Nord. Materiali per una storia del Psiup a Mila­no, 1943-45, entrambi Milano, Angeli, 1982), il ritardo nella raccolta e nell’elaborazione del­le fonti rimane ancora assai gra­ve, tanto più rispetto ai risultati acquisiti per altri partiti. Si trat­ta innanzitutto di individuare i caratteri distintivi della linea politica del Psiup e quindi le ra­gioni e i limiti del suo successo in quegli anni. Nella relazione

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introduttiva al convegno, Fran­cesca Taddei, sintetizzando considerazioni già svolte nel suo bel saggio II socialismo ita­liano nel dopoguerra: correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Milano, Angeli, 1984, indica nella rottura della continuità sociale ed istituzio­nale con il fascismo prima, nel­la trasformazione dello stato tramite la Costituente in segui­to, il progetto politico distinti­vo del Psiup, destinato tuttavia ad arenarsi di fronte alla con­vergenza sostanziale realizzatasi tra la strategia togliattiana e il disegno politico perseguito dal­le forze moderate e dagli Allea­ti. Un’interpretazione che ha l’indubbio merito di sottolinea­re la coerenza e la specificità del progetto socialista e di eviden­ziare la ricchezza dell’elabora­zione del Psiup, anche se forse è eccessivo vedere in esso l’in­terprete “più fedele” dei valori resistenziali (pp. 17 e 28-29). Quel che tuttavia resta in om­bra in questa analisi, e che spie­ga invece la mancata egemonia socialista nel movimento di resi­stenza, è il limite derivante dal carattere preminentemente ideo­logico della battaglia socialista, mentre la ricostruzione politica ed organizzativa del partito e, in certa misura, la sua stessa elaborazione, furono frenate da incertezze e ritardi e non di ra­do sollecitate dalla maturazione del movimento.

Tali problemi diventano pale­si a proposito della lotta arma­ta. Al di là delle risposte alle in­giustificate accuse di attendi­smo, nate già nei mesi della Re­sistenza, si tratta in questo caso di individuare motivazioni poli­tiche, tempi di maturazione e capacità di iniziativa dell’orga­

nizzazione militare socialista. La relazione di Riccardo Mar- chis, ricostruendo Io sviluppo delle Matteotti piemontesi in modo necessariamente schema­tico, ma sulla base di una valida documentazione archivistica, evidenzia le diverse ipotesi di partecipazione alla lotta armata presenti nel Psiup e quindi deli­nea la crescita di un’organizza­zione militare di partito affida­ta in un primo tempo all’inizia­tiva individuale di alcuni diri­genti, in particolare Corrado Bonfantini e Renato Martorelli, ucciso dai tedeschi nell’estate 1944. Secondo Marchis fino al marzo 1944 fu l’iniziativa per­sonale di alcuni esponenti so­cialisti il tramite attraverso il quale il Psiup manteneva con­tatti con bande partigiane che tuttavia non potevano ancora qualificarsi come socialiste. La costituzione delle Matteotti, tardiva rispetto a quella delle brigate di orientamento giellista e comunista, avvenne a partire dal maggio successivo attraver­so tre principali linee di aggre­gazione: la qualificazione ideo­logica di bande già in contatto con i socialisti e da essi promos­se, la fornitura di sostegno logi­stico a bande isolate, la capaci­tà di offrire un riferimento al­ternativo all’opera di accorpa­mento contemporaneamente sviluppata dai comandi delle autonome.

Implicitamente discorde la relazione di Agostino Conti, ex comandante partigiano, quindi studioso e conservatore di una vasta documentazione archivi­stica sulle Matteotti piemontesi. Tracciando un’ampia panora­mica della presenza delle Mat­teotti in tutta l’Italia occupata, Conti sottolinea piuttosto la so­

stanziale continuità, politica ed organizzativa, tra l’attività mili­tare promossa da alcuni sociali­sti fin dall’inverno 1943 e l’ori- gine delle brigate in seguito qua­lificatesi come Matteotti.

D’altronde, soltanto il censi­mento e la cronologia dell’ope­ratività politica e militare delle brigate e dei comandi, quale potrà scaturire da ulteriori e più sistematiche ricerche, consenti­rà di chiarire tempi e modi di un’aggregazione di forze che non fu, e non poteva essere, li­neare. II carattere composito di quel processo, sottolineato nel dibattito da Gianni Alasia, emerge peraltro dalle stesse te­stimonianze portate al conve­gno e accluse agli atti. Da esse sorge l’invito ad una ricerca che, accantonando pudori e or­gogli di parte e sfuggendo alla tentazione di ritrovare prematu­ramente coerenze e sintesi, sap­pia ripercorrere e distinguere criteri e urgenze, ragioni e con­traddizioni della lotta parti- giana.

Simone Neri Serneri

Giancarlo Pajetta, Il ragazzo rosso va alla guerra, Milano, Mondadori, 1986, pp. 163, lire 16.000.

Un’autobiografia riguardan­te gli anni della Resistenza, scritta da un’autorevole prota­gonista quale Pajetta, non può non presentare alcuni problemi di lettura. Il ragazzo rosso va alla guerra non è e non vuole essere un contributo alla storia del movimento di liberazione, né tanto meno a quella del Par­tito comunista. Tuttavia il rac­conto rivela non pochi elementi di discreta rilevanza, sia pure

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mediati nella forma consentita dal genere, in merito a quella cruciale vicenda storica. L’au­tobiografia, infatti, oltre ad es­sere un prodotto letterario com­piuto, può anche ridiventare materia prima per il lavoro sto­riografico, costituendo una te­stimonianza preziosa dell’auto­coscienza dei protagonisti di un evento.

Il libro offre, a nostro avvi­so, due diversi piani di lettura, che peraltro si intersecano fre­quentemente. Ad un primo li­vello appare una articolata ca­ratterizzazione dell’autore, l’autoritratto di una soggettivi­tà umana e politica forte, quale risulta soprattutto grazie alla scelta sapiente di episodi signi­ficativi e di un linguaggio estre­mamente fedele all’indole del personaggio.

L’intenzione, o soltanto la suggestione, che anima l’autore sembra essere quella di offrire oltre che una memoria persona­le, anche lo spaccato di un’u­manità molto particolare: quel­la del comunista, del cospirato­re che, uscito dagli anni duri del carcere, andrà a costituire il nerbo della resistenza armata di massa al nazifascismo. È una figura che Pajetta ricostruisce con qualche deliberata forzatu­ra di ordine soggettivo, che non può non risaltare soprattutto se riproposta quarant’anni dopo, quando la comunicabilità di quell’orizzonte umano e politi­co è ormai divenuta problema­tica, o anche estremamente se­lettiva, se non mediata da un approccio più propriamente storiografico.

Numerosi sono i tasselli che compongono l’identità del co­munista e Pajetta non li elenca in modo estrinseco, bensì li

enuclea uno ad uno da eventi ed episodi significativi, che rievoca senza retorica, ma con un visi­bile sentimento di orgoglio e di appartenenza.

Tuttavia il testo scorre senza finzioni e schivo di intenti cele­brativi, anzi un linguaggio so­vente aspro e spigoloso e un’i­nesauribile vena polemica con­ducono la narrazione a momen­ti veramente critici: è il caso dell’ingrato trattamento riser­vato a Eugenio Curiel che, do­po l’arresto, “non si comportò da comunista” (p. 29); ma è an­che il caso della rimeditazione compiaciuta sui caratteri di quella “sicurezza e [...] arro­ganza di sempre di noi comuni­sti” (p. 55). Ma il libro presenta anche un secondo piano di let­tura. Su questo livello affiora­no più direttamente i problemi politici, i nodi delle valutazioni e delle scelte consumate in un periodo breve, ma intenso e de­cisivo per la storia italiana.

Anche qui l’autore si mantie­ne fedele ad una narrazione se­vera e priva di infingimenti: la problematica delle due Italie — quella del “vento del Nord” e quella del Sud liberato — attra­versa dall’interno lo stesso Par­tito comunista. Il tema è quello dello scollamento tra l’iniziati­va partigiana e la strategia to- gliattiana inaugurata con la ‘svolta’, una divaricazione che sembra materializzarsi nel dif­ferente clima politico, culturale e umano che caratterizza i cen­tri politici delle due Italie, Ro­ma e Milano.

Quando Pajetta, la cui attivi­tà cospirativa lo porta a cam­biare continuamente identità (Rossi, Nullo, Luca, Mare), ab­bandona il capoluogo lombar­do per una missione politica,

scopre che nel Partito non c’è “quella ferma passione parti­giana che mi sarebbe sembrata naturale e che al Nord ci fa cre­dere nella possibilità di un reale e profondo mutamento degli uomini e delle cose” (p. 104). Anzi, visti da Roma, i partigia­ni “appaiono un po’ come ra­gazzi che giochino alla guerra” (p. 105).

Tuttavia, queste considera­zioni, gravi nella loro natura, non diedero luogo, almeno per quanto riguarda l’autore, a un dissenso politico. Così, il To­gliatti “prudentissimo” , che non volle mai sapere cosa fosse­ro state le brigate partigiane, occupato com’era a definire le linee della democrazia progres­siva (tale appare nella narra­zione la divaricazione tra que­sta riflessione strategica e l’e­sperienza resistenziale), è anche il dirigente che “ci permetterà di consolidarci e diventare più forti” (p. 104). Allo stesso modo e con lo stesso curioso equilibrio, Pajetta coniuga bra­ni densi di passione insurrezio­nale con maliziose puntate di ironia e di autoironia antigiaco­bina.

In definitiva, quel disagio po­litico e umano che doveva ine­vitabilmente investire un mili­tante che aveva dato il meglio di sé nella lotta partigiana non si traduce in dissenso, non ac­quista spessore politico, ma sembra rimanere fermamente confinato in un ambito prepoli­tico: “Forse mi aspettavo più calore per i partigiani” (p. 104). Su questo secondo piano di let­tura si ha complessivamente l’impressione di un giudizio troppo ostentatamente ‘sereno’ in rapporto ai problemi in que­stione, e che probabilmente ap­

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partiene più al Pajetta scrittore che al Pajetta protagonista.

Con questo intreccio, in soc­corso dell’autore, è intervenuta Vastuzia di un genere letterario, che ha consentito la rivendica­zione orgogliosa e matura di una storia, senza dover nel con­tempo riaffrontare quell’annosa costellazione di problemi politi­ci e teorici, la cui ombra lunga non manca di investire ancora aspetti decisivi del nostro pre­sente.

Salvatore Minolfi

A ned , Gli scioperi del marzo 1944, Tavola rotonda, 17 marzo 1944, con un saggio di Claudio Dellavalle, Milano, Angeli, 1986, pp. 64, lire 8.000.

Il numero degli operai italiani deportati nei lager di annienta­mento in seguito agli scioperi del marzo 1944 non è stato cer­tamente trascurabile; lo docu­menta in maniera inoppugnabi­le l’appendice al libro che racco­glie gli atti della tavola rotonda organizzata a Torino dall’Asso­ciazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti. È sta­ta l’occasione non solo per rie­vocare, attraverso testimonian­ze di indubbio interesse, uno de­gli episodi centrali del moto di liberazione, ma anche, come ha sottolineato Dellavalle nel suo saggio, per avviare una riflessio­ne su un evento finora poco ap­profondito in sede di analisi sto­rica.

A differenza delle agitazioni operaie dell’anno precedente, che accelerarono lo sfaldamento del “fronte interno”, lo sciope­ro del marzo 1944 fu prevalente­mente politico, con parole d’or­dine contro la guerra, i tedeschi,

i fascisti. Sciopero politico, ma con una piattaforma economica basata su rivendicazioni molto elementari che tenevano conto del grave disagio esistente nelle fabbriche. Un ruolo di primo piano nella mobilitazione dei la­voratori ebbero i militanti e i di­rigenti del Pei, che intendevano fare della classe operaia una del­le componenti fondamentali del movimento di liberazione. Si ve­niva, peraltro, formando pro­prio in quegli anni l’intelaiatura di un partito operaio comunista con un saldo insediamento so­ciale.

Significative le implicazioni dello sciopero, la cui ampiezza ed estensione non ebbero ri­scontro nell’Europa dominata dal nazismo. La demagogia so­ciale della Rsi, che si affidava alla carta della socializzazione, fu perentoriamente respinta. Da quel momento divenne a dir po­co problematico lo sfruttamen­to dell’apparato produttivo ita­liano da parte dell’occupante te­desco, che per rappresaglia sca­tenò un feroce quanto miope re­pressione.

L’insubordinazione operaia non solo inflisse un durissimo colpo alle declinanti fortune del nazifascismo, ma concorse a ri­lanciare l’iniziativa delle forze più avanzate della Resistenza. La conseguenza più importante fu, però, il legame che si venne allora stabilendo tra lotta in fabbrica e guerra partigiana; le­game che nei mesi successivi si andò consolidando sino a porta­re all’insurrezione generale del 25 aprile. A rendere originale l’esperienza della resistenza ita­liana, rispetto a quella degli altri paesi, è stato proprio l’intreccio tra lotta sociale e lotta politi­co-militare.

Un discorso a parte merita l’atteggiamento degli industria­li, indotti dall’asprezza dello scontro ad assumere una posi­zione oggettivamente collabora­zionista. Posizione quanto mai imbarazzante per chi con spre­giudicatezza conduceva il dop­pio o triplo gioco con i nazisti, gli Alleati e i Cln.

Sono questi gli aspetti essen­ziali di una vicenda storica trat­teggiata in maniera incisiva da Dellavalle, esponente di una corrente storiografica che ha cercato di fare luce sulle moda­lità e sugli esiti della transizione dal fascismo alla repubblica. Tuttavia, se si vuole compren­dere appieno la portata e il si­gnificato delle agitazioni in fab­brica negli anni di guerra, non basta studiarle esclusivamente nella loro dinamica interna e porre solo attenzione al conflit­to sociale tra operai e industria­li da un lato, e alla dialettica classe-partito dall’altro. Né è sufficiente indagare sul rappor­to tra lotte operaie e lotte con­tadine e sulle ripercussioni che le prime ebbero sugli orienta­menti dei ceti medi urbani. Oc­corre mettere a fuoco soprattut­to i nessi delle lotte operaie sia con il contesto sociale e politico nazionale e internazionale, sia con la storia d’Italia del vente­simo secolo.

A lungo considerata soltanto come un elemento decisivo del­la vittoria sul nazifascismo, la lotta operaia del periodo 1943- 45 va vista come un momento importante di una profonda cri­si sociale, che fu tra le cause principali della disgregazione dei tradizionali rapporti di po­tere. Perciò questa lotta, espres­sione di uno specifico antifasci­smo proletario — proteso in

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primo luogo a smantellare l’ap­parato di dominio instaurato dal fascismo in fabbrica — va collocata nel quadro dei proces­si in atto negli anni trenta e quaranta anche al fine di inten­dere meglio la complessa e arti­colata condotta dei ceti domi­nanti di fronte alla crisi.

Francesco Soverina

Silvio Trentin, Federalismo e libertà. Scritti teorici 1935- 1943, a cura di Norberto Bob­bio, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 398, sip.

11 quarto volume delle Opere scelte di Silvio Trentin antolo­gizza la produzione del suo ulti­mo decennio di vita: da La crise du droit e de l ’Etat, uscito nel 1935, agli articoli comparsi su “Libérer et Fédérer. L’insurgé” nel corso del 1944.

Leggiamo così gli scritti più interessanti del Trentin rivolu­zionario, fortemente nutriti di passione civile, ma al tempo stesso intenti a ragionare la crisi dell’ordine esistente e a definire proposte per un nuovo ordine. Rispetto al primo momento del­la sua conversione rivoluziona­ria, Trentin ha in parte messo a punto l’apparato con cui guar­da alle radici economiche della crisi.

Certo, tale apparato è co­munque quello di un militante più che di uno studioso e la fondatezza dei giudizi che l’au­tore dà sui fenomeni economici non è pari a quella raggiunta dalle osservazioni critiche sugli aspetti istituzionali della crisi. Ma precisamente tale connota­zione ideologica serve ora a so­stenere una proposta politica

che si è fatta chiara e sicura. Trentin formula una propria risposta alle domande del pre­sente, un proprio progetto. Questo mobilita tutta la sua precedente esperienza intellet­tuale ed i suoi più profondi convincimenti. La formazione di giurista e il radicato culto dell’autonomia concorrono a produrre una vigorosa ipotesi federalista.

Norberto Bobbio sottolinea nell’introduzione la natura spe­cifica di tale federalismo; il quale non si preoccupa soltanto — com’era ovvio in vista della tragedia bellica — di trovare le forme per mediare la contrap­posizione tra gli stati; ma muo­ve piuttosto dall’assillo di “tro­vare un rimedio al dispotismo che comprime la libertà degli individui e l’autonomia dei gruppi” (Bobbio, p. XIV). Un federalismo dunque senz’altro pacifista, ma soprattutto liber­tario.

Quello di Trentin è un mes­saggio che non si può sottoscri­vere tutto intero; specie laddove fa passare la speranza di un si­stema economico-sociale più giusto e libero attraverso la cru­na d’acciaio della dittatura, “strumento tecnico insostituibi­le per l’instaurazione rivoluzio­naria dell’ordine nuovo” (p. 319). Ma è tuttavia un messag­gio che, proprio quando dispie­ga la critica alle troppe negazio­ni sofferte dal principio dell’au­tonomia nell’esperienza statua­le contemporanea, risulta assie­me attuale e convincente. Persi­no gli aspetti minuti, i dettagli organizzativi su cui Trentin si diffonde, nei due progetti costi­tuzionali che egli redasse (per la Francia e l’Italia libere), lungi dal subire il degrado del tempo,

si rivelano, appena elaborati, ancora densi di lezioni, oltreché di sapere giuridico.

Il pensiero trentiniano è in effetti una miniera di spunti e suscita interrogativi di ampia portata. Ad esempio, sul gioco tra pianificazione e libertà, tra collettivismo economico e plu­ralismo politico; oppure sul ri­spettivo ruolo della rappresen­tanza per territorio e della rap­presentanza per interessi, e sul­la possibilità di attivarle con­giuntamente.

A proposito di quest’ultima questione, si noterà come il di­scorso di Trentin rielabori la posizione decisamente negativa nei confronti della rappresen­tanza dei cittadini in quanto produttori, assunta nei primi anni della polemica contro il fa­scismo, e non solo salvi quel modello costituzionale, ma anzi lo ponga a temperare il princi­pio della rappresentanza terri­toriale o addirittura — secondo quanto legge Bobbio (p. XXXII) — lo ponga a base del­l’assetto istituzionale da instau­rarsi dopo la guerra.

Su questo e su altri problemi l’opera trentiniana può essere ulteriormente e proficuamente interpellata. E certamente allo­ra la maggiore attenzione dovrà cadere proprio sui lavori conte­nuti in questo volume, che rac­coglie il vertice del Trentin poli­tico, così come il volume intito­lato Dallo Statuto albertino al regime fascista (a cura di Ales­sandro Pizzorusso) ci aveva re­stituito alcune tra le più stimo­lanti pagine del Trentin giu­rista.

Ancora una volta, peraltro, questo secondo aspetto dell’ere­dità trentiniana viene lasciato, in questo volume, un po’ in

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ombra. Di un’opera assai impor­tante. La crise du droit e de l ’E- tat, viene ripreso solo il capitolo conclusivo; e l’attenzione giusta­mente dedicata da Bobbio nel­l’introduzione (pp. XV e XXVI- XXVIII) serve a far rimpiangere ancor più la sua esclusione.

Occorre perciò di nuovo os­servare (cfr. La doppia eredità di Silvio Trentin sul n. 162, 1986, di questa rivista) che il sa­crificio del Trentin giurista rea­lizzato dalla scelta degli scrit­ti nell’arco dei quattro volumi non pare condivisibile. Anzitut­to perché sulla cultura giuridica cresce il Trentin politico e di es­sa si alimenta quello che forse è l’elemento più specifico della sua posizione: la soluzione “isti­tuzionale” ch’egli propone (Bobbio, p. XXXIV); ma anche perché una più larga accoglien­za degli scritti, anche ‘tecnici’, del Trentin giurista avrebbe pu­re accolto una lezione implicita nella sua biografia: il suo tran­sito dal diritto al diritto, dallo studio dell’ordinamento vigente alla delineazione d’un nuovo ordinamento — quasi a compro­vare l’imprescindibilità del fat­tore giuridico nella figurazione del politico d’età contempora­nea.

Fabio Rugge

Virgilio Santato, Un intellet­tuale nell’antifascismo. France­sco Viviani (1891-1945): dal- l ’“Italia Libera” a Buchenwald, presentazione di Enrico Opo- cher, Rovigo, Minelliana, 1987, pp. 154, sip.

Non era facile ricostruire la biografia di una figura comples­sa come quella di Francesco Vi­viani e occorre dire subito che il

Santato è riuscito nell’intento raccogliendo tutte le testimo­nianze rintracciabili e vaglian­dole con spirito critico, senza concessioni alla agiografia e senza rinunciare a indicare per­sino qualche pausa dell’attivi­smo antifascista del futuro mar­tire. È difficile definire politica- mente Viviani nonostante la sua adesione, nel 1941, al Partito d ’Azione insieme all’amico Egi­dio Meneghetti; egli si sentiva soprattutto un intellettuale e, probabilmente, egli vide in quel partito l’effettiva valutazione del ruolo degli uomini di cultu­ra. Lo stesso era avvenuto per la partecipazione a Italia Libera, un movimento senza un pro­gramma politico preciso se si esclude la denuncia delle opera­zioni avviate dal governo di Mussolini contro le libertà de­mocratiche ed il richiamo agli ideali patriottici e risorgimentali dai quali il Viviani stesso aveva ricevuto l’ispirazione dell’atteg­giamento interventistico nella prima guerra mondiale.

Professore di latino e greco nei licei, il Viviani ebbe una car­riera burrascosa perché la sche­datura come sovversivo in se­guito alla partecipazione a una manifestazione pubblica contro il governo di Italia Libera pro­vocò nei suoi confronti prete­stuosi provvedimenti disciplina- ri quali sospensioni dallo stipen­dio, trasferimenti per servizio, licenziamenti. Egli si batté con molto coraggio contro le perse­cuzioni di cui era oggetto e riu­scì in qualche modo, fino all’8 settembre 1943, ad evitare, pur tra umiliazioni e disagi, il peggio.

A Ferrara egli godette dell’a­micizia e dell’appoggio di Nello Quilici, legatissimo a Italo Bal­

bo, direttore del “Corriere pa­dano” , giornale voluto cultural­mente aperto quasi a sottolinea­re una sorta di separazione del gruppo balbiano dal fascismo nel suo insieme. Anche Viviani collaborò al quotidiano ferrare­se ma in otto anni, dal 1930 al 1937, i suoi articoli non supera­no la ventina e sono in gran parte di argomento musicale e relativi alle stagioni liriche are- niane di Verona. Gli anni ferra­resi furono i meno traumatici della sua carriera d’insegnante finché i suoi apprezzamenti sul fascismo gli procurarono una denuncia anonima con conse­guente trasferimento per servi­zio; sul suo insegnamento al li­ceo della città estense e sul provvedimento nei suoi con­fronti si veda, oltre alle testi­monianze ricordate dal Santa­to, quella illuminante di Lan­franco Caretti, che fu suo alun­no, in La cultura ferrarese tra le due guerre mondiali. Dal­la scuola metafisica a Osses­sione, a cura di Walter Moret­ti, Bologna, Cappelli, 1980,pp. 218-220.

Sull’attività politica del se­condo CIn veronese, costituitosi nel dicembre 1943 sotto la pre­sidenza del Viviani, le notizie sono piuttosto limitate ma ciò è da attribuire a carenza di fonti, come risulta anche dal libro di Maurizio Zangarini, Politica e società a Verona in epoca fasci­sta, Verona, Cierre, 1986, nel quale viene attentamente esami­nata la storiografia della Resi­stenza nella città veneta; va no­tato che sia nel primo che nel se­condo Cln veronese non figura­no rappresentanti del partito della democrazia cristiana, fatto abbastanza strano per una città largamente cattolica. Viviani

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viene arrestato il 2 luglio 1944, affidato dai fascisti ai tedeschi che non tardano a trasferirlo nei campi di sterminio; morirà a Buchenwald.

L’antifascismo del Viviani dal 1923 al 1943 e la sua parte­cipazione alla Resistenza sono strettamente connessi alle sue idee liberali ed alla sua aspira­zione alla restaurazione demo­cratica in Italia; la convinzione del diritto dell’uomo alla libertà ha in lui origine culturale e non ci sembra legata ad un partico­lare programma politico o so­ciale. La sua designazione a presidente del secondo Cln ve­ronese è legata soprattutto alla coerenza della sua opposizione ventennale al fascismo, al suo equilibrio ed al suo prestigio personale.

Le biografie delle figure di maggior rilievo sono uno degli strumenti per penetrare all’in­terno della Resistenza e cogliere gli aspetti particolari che distin­guono il movimento di libera­zione da una località all’altra; ben vengano, dunque, i lavori co­me questo del Santato su France­sco Viviani.

Luigi Ambrosoli

Lerino Candio , Con il piede straniero sopra il cuore, Como, Edizioni Graficop, 1987, pp. 286, sip (Istituto comasco per la storia del movimento di libera­zione).

In un’avvertenza l’autore precisa che “non si tratta di un memoriale, che è un documen­to, ma di un romanzo, di un contesto quindi di fatti storici e di elementi d’invenzione” . Egli aggiunge che soltanto in un ca­so egli garantisce la fedeltà sto­

rica ed è nella ricostruzione del­l’episodio della ricerca e della individuazione, da parte di due partigiani, del comando della decima armata del generale Herr che si preparava a un’e­strema difesa sui colli e sui fiu­mi veneti.

Quanto alla parte narrativa, occorre riconoscere all’autore il merito di aver rievocato senza enfasi il clima della Resistenza e di avervi inserito la vicenda di un giovane che entra nel movi­mento di liberazione, opera con una brigata partigiana, viene arrestato e deportato in Germa­nia dove viene assegnato al campo di eliminazione di Mau- thausen.

Quanto alla parte che l’auto­re presenta come autenticamen­te storica, si tratta di una testi­monianza senza dubbio interes­sante anche se avrebbe meritato maggiori chiarimenti l’afferma­zione che fu proprio la distru­zione del comando della decima armata a determinare la rinun­cia tedesca all’estrema difesa e ad anticipare di una decina di giorni la fine della guerra in Ita­lia, risparmiando altre vittime e salvando gli impianti industriali del Nord.

Luigi Ambrosoli

L ’altro dopoguerra. Roma e il Sud ¡944-1945, a cura di Nicola Gallerano, Milano, Angeli, 1985, pp. 554, lire 30.000.

La vicenda che questo libro ricostruisce — il passaggio dal fascismo allo stato democrati­co della società centro meridio­nale italiana, liberata dagli Al­leati in anticipo sul resto del paese — ha un respiro molto ampio.

L’opera, composta di molte tematiche che vengono analiz­zate in una grande varietà di si­tuazioni locali, si compone di 38 saggi costituiti dalle relazioni e comunicazioni presentate al convegno tenutosi a Roma dal 4 al 6 giugno 1984 (organizzato dall’Istituto romano per la sto­ria d’Italia dal fascismo alla re­sistenza e dall’Amministrazione provinciale di Roma) ed è pre­ceduta da una prefazione di Guido Quazza, da un’introdu­zione di Enzo Forcella e da un intervento di Nicola Gallerano che delinea le principali coordi­nate di quella breve e dramma­tica fase storica.

Il taglio del volume nel suo complesso può definirsi di tipo “sociale” . Specie nella prima sezione, rivolta all’analisi di problemi economico-sociali, che significativamente occupa quasi i due terzi dell’intera ope­ra, l’intento prevalente degli autori è quello di chiarire nel modo più approfondito le tra­sformazioni avvenute nella vita concreta e quotidiana degli in­dividui, dei nuclei familiari, dei gruppi sociali in seguito alla fi­ne della guerra e di esaminare le conseguenti influenze sulle mentalità dei singoli e delle col­lettività. Viene messo in luce, in particolare in alcuni interventi che si avvalgono di narrazioni dirette, il carattere di assoluta eccezionalità che ha contrasse­gnato quella esperienza, con la conseguente sospensione delle ordinarie convenzioni sociali e la produzione nelle campagne di nuove forme di solidarietà e nei grandi centri urbani di modi di vita alternativi, destinati a sfuggire la miseria, da parte dei ceti popolari e delle classi medie a reddito fisso, travolte dall’in­

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flazione ed escluse dal giro di affari della borsa nera. Nel vo­lume vi è anche spazio per una riflessione sulle grandi questioni che caratterizzano questa fase storica, ad esempio le difficoltà di ripresa dell’industria meri­dionale, colpita dalle distruzioni belliche in misura maggiore ri­spetto al resto del paese; l’im­mancabile e generalizzato scate­narsi dell’inflazione e del mer­cato nero all’indomani della li­berazione; l’inversione del rap­porto di priorità fra zone agri­cole e centri urbani, a favore delle prime, in seguito agli effet­ti rovinosi e terrorizzanti dei bombardamenti.

Nella seconda e terza sezione vengono posti maggiormente in risalto i problemi di portata na­zionale. Ad esempio le vicissitu­dini dei partiti politici, alle prese con l’immediata necessità di ela­borare una strategia ricollegabi­le alla tradizione prefascista e al tempo stesso funzionale rispetto ai nuovi problemi dell’oggi, lo scontro, consumatosi in mille si­tuazioni locali, fra le aspirazioni di rinnovamento radicale, da at­tuarsi anzitutto con un’epura­zione sistematica negli organi della pubblica amministrazione e un desiderio di transizione “morbida” , quasi sempre pre­valente per il favore degli Allea­ti e talvolta l’ausilio delle prefet­ture. Anche nell’affrontare te­matiche di tale ampiezza prevale comunque la tendenza a coglie­re la realtà nei suoi aspetti più minuti e precisi anche se meno appariscenti. Nomi di primissi­mo piano nella vicenda politica nazionale di quel periodo come Togliatti, De Gasperi, Parri, Croce, compaiono a volte, ma la loro personale collocazione in quegli eventi è appena sfiorata,

per dedicare attenzione alle per­sonalità locali e alle trasforma­zioni che questi potevano opera­re nelle situazioni territoriali, negli ambienti di lavoro o nei circoli intellettuali e politici.

La ricerca sulle classi dirigenti locali può essere considerata uno dei tracciati interni che maggiormente caratterizzano il libro, contribuendo in modo de­terminante all’originalità dei ri­sultati.

Stefano Caviglia

Rita Palumbo, Camilla Ravera racconta la sua vita, Milano, Ru­sconi, 1985, pp. 165, lire 16.000.

“Partecipare, fare politica, vi­vere ed essere non è mai stato nient’altro che un offrire discreta­mente ed incondizionatamente il suo pensiero e poi mettersi da parte” (p. 12). Così Rita Palum­bo, giornalista napoletana e at­tenta osservatrice del nesso don­na-lavoro, conclude la sua intro­duzione alla biografia di Camilla Ravera traducendo con sensibilità ed affetto il senso di una vita.

Un bel libro che si legge con passione e nel quale sono del tutto assenti i ‘toni elevati’ sic­ché anche i momenti più dram­matici vengono raccontati con una sorta di pudore, quasi con umiltà. Il merito è certo anche della Palumbo che ha saputo ri­spettare la testimone-protagoni­sta, facendosi quasi da parte e ritagliandosi un autonomo spa­zio di presenza e intervento — distinto anche graficamente nel testo —, per conseguire in que­sto modo un effetto di ‘coro’ dal quale la voce narrante risal­ta. La voce di una donna “dalla personalità ricchissima per sen­sibilità, sacrificio e dedizione

[...], una persona diversa da quella della rivoluzionaria di professione” (p. 9). La Ravera visse un’infanzia felice all’inter­no di una tipica famiglia della borghesia progressista torinese: la madre tenera ed esclusiva- mente dedita all’accudimento dei figli; il padre funzionario del ministero delle Finanze, aperto e molto preoccupato della cultu­ra dei figli, maschi o femmine che fossero; più tardi, un’adole­scenza e una giovinezza segnate dalla lettura delle opere di Marx, dai primi contatti con le organizzazioni operaie fino ai momenti in cui le scelte di fondo si realizzano e comincia l’inten­sa partecipazione alla vita poli­tica. Di qui, il racconto di pro­fonde esperienze: il congresso di Livorno e la nascita del Partito comunista; l’incontro con Lenin a Mosca e, dopo l’avvento del fascismo, responsabilità sempre crescenti nel partito, la clande­stinità, l’arresto, il carcere. E a questa fase della vita della Ra­vera sono dedicate le pagine più intense del libro da cui emergo­no, con più evidenza, la strordi- naria fermezza e fedeltà ad un ideale di purezza di vita, vissuto in ogni occasione, anche le più difficili, con assoluta serenità. “Non ebbi mai un momento di sconforto, fui sempre serena [...] appena mi chiusero la porta della cella alle spalle, mi dissi: ora potrò leggere fin quando vorrò e potrò recuperare tutto il tempo perso” (pp. 97-98): forza e tranquillità d ’animo che le consentirono, dopo la Libera­zione, di riprendere il proprio posto nel partito sempre con in­carichi di grandissima responsa­bilità (consigliere comunale di Torino, deputato al Parlamento, membro del Comitato centrale e

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della Commissione centrale di controllo e, infine, nel 1982 se­natrice a vita con nomina del Presidente Pertini).

L’attività politica non ha im­pedito alla Ravera di trasfor­mare la sua esperienza in testi­monianza storica e di pubblica­re una serie di scritti sulla sua vita, uno dei quali — Diario di trent’anni — ha avuto 49 edi­zioni e, nel 1973, il Premio Via­reggio. Di fronte a una donna come la Ravera, viene tuttavia fatto di chiedersi che differenza passi tra le sue scelte di vita e quelle di una donna d’oggi. È lei stessa a fornirci una risposta quando, nelle pagine dedicate agli ultimi anni del lunghissimo corso della sua esistenza, affer­ma: “senza alcun problema di­menticai di essere una donna. Non saprei dire quali furono i meccanismi che governarono le mie decisioni in quegli anni” (p. 159); eppure alle donne aveva dedicato parte non piccola della propria vita, da quando Gram­sci le aveva affidato La tribuna delle donne su “Ordine Nuo­vo”, alla cura della redazione di “Compagne” , uno dei primi pe­riodici femministi, e poi agli impegni nell’Udi, alle continue riunioni con le donne comuni­ste della provincia di Torino in pieno fascismo. La Ravera con grande chiarezza e molto presto aveva intuito la necessità di mantenere nella società da costruire la differenza di ruolo fra l’uomo e la donna, fuori dalla logica emancipazionista ed egualitaria dello stesso parti­to comunista. Perché dunque si accontentò dell’amicizia e non cercò mai l’amore? Alcune don­ne, le donne migliori, nel passa­to, hanno dovuto accontentarsi della serenità; forse oggi Camil­

la Ravera riterrebbe giusto ri­cercare la felicità.

Laura Capobianco

A ntonio Cuffolo, Moj Dnev- nik. La seconda guerra mondia­le vissuta dal ‘focolaio’ della canonica di Lasiz, Cividale del Friuli, Società Cooperativa Dom, 1986, pp. 239, sip.

Dal suo osservatorio della ca­nonica di Lasiz, una piccola parrocchia della Valle del Nati­sene, punto di riferimento, in quegli anni roventi, per tutti co­loro che combattevano per la li­bertà, l’autore fornisce, in que­sto volume pubblicato postu­mo, due distinte cronache della seconda guerra mondiale e degli avvenimenti che la precedettero e la seguirono, una delle quali in sloveno (dal 1938 al 1946) e l’altra in italiano (dal 1940 al 1947). Non si tratta però di semplici traduzioni. Mentre in­fatti il testo sloveno deve inten­dersi datato dall’epoca degli av­venimenti, quello italiano fu probabilmente scritto negli anni cinquanta, sulla base di quello sloveno. Entrambi i diari sono tratti da manoscritti.

“Uomo di frontiera che guar­da i due versanti del monte sul­la cui vetta si trova” (come giu­stamente dice Marino Qualizza nella prefazione al diario italia­no) e nello stesso tempo intran­sigente difensore dell’identità della popolazione allogena della regione, nel 1933 l’autore ri­schierà l’arresto da parte delle autorità fasciste per avere ten­tato di infrangere il divieto rela­tivo all’uso dello sloveno nei canti, nelle preghiere, nelle pre­diche e nell’insegnamento reli­

gioso. Durante l’occupazione tedesca della regione, egli salve­rà il suo paese dalla distruzione ordinata dal comando delle truppe cosacche, che si erano insediate nella regione, ed aiu­terà la fuga di trentacinque uf­ficiali britannici sfuggiti ai nazi­fascisti. Conclusa la guerra (ed è questa senz’altro la parte più interessante del diario) toccherà ancora al Cuffolo di battersi contro i rigurgiti nazionalisti dei “tricoloristi” che tentavano di fare mantenere in vigore i provvedimenti discriminatori contro la minoranza slava emessi durante il regime fascista.

In complesso il volume costi­tuisce un utile strumento per comprendere il passato ed il presente di quella regione di confine e le contraddizioni dalle quali essa era travagliata. Uni­co difetto è costituito dall’im­precisione con la quale, proba­bilmente per motivi legati al­l’interpretazione calligrafica del manoscritto, sono riportati al­cuni nomi (ad esempio Roeder per Reader e Funch per Funk). Si tratta comunque di difetti che potranno facilmente trovare ri­medio in una successiva edizione del libro.

Franco Pedone

Italia repubblicana. Istituzioni e sistema politico

Piero Calandra, Il Governo del­la Repubblica, Bologna, Il Muli­no, 1986, pp. 324, lire 24.000.

Inserito in una ormai collau­data e diffusa collana di studi giuridici delle edizioni del Muli­no (“La nuova scienza, Diritto”) in cui sono comparsi, fra gli al­

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tri, i noti saggi di Sabino Casse- se sul sistema amministrativo italiano, di Andrea Manzella sul Parlamento, di Mario Nigro sulla giustizia amministrativa, di Gustavo Zagrebelsky su quel­la costituzionale, il recente volu­me di Calandra affronta una te­matica politico-costituzionale di non minor rilievo ed importan­za. Il Governo della Repubbli­ca, infatti, a dispetto di talune stantie posizioni dottrinali, an­cora legate ad un’ottica giu­spubblicistica tardottocentesca, che identificano nel parlamento il vero perno, il motore primo di ogni regime democratico rap­presentativo, ha assunto, di fat­to, un ruolo sempre più centrale e decisivo; è diventato l’asse portante dell’intera compagine politico-amministrativa dello stato contemporaneo. Resta co­munque da stabilire se a questa mutazione ‘genetica’, a questa alterazione del classico modello parlamentare, abbia, o non, corrisposto un incremento degli spazi effettivi di partecipazione dei cittadini (e di controllo dei rappresentanti del popolo so­vrano sugli atti dell’esecutivo) e se, quindi, sia più conveniente prospettare un’ulteriore svolta in senso centralistico ed effi- cientistico, oppure vagheggiare ed auspicare differenti e ben più robuste ‘sterzate’ assembleari- stiche. Come è noto, questa al­ternativa è, da alcuni anni, al centro di vivaci scontri fra i par­titi di maggioranza e quelli di opposizione e ne condiziona le rispettive strategie istituzionali; polemiche, queste, rese più acu­te dalla indubbia propensione ‘decisionistica’ dimostrata dagli ultimi governi a guida sociali­sta. Il fenomeno, in sé, è tutta­via incontestabile — e forse irre­

versibile nel lungo periodo — e bene ha fatto l’autore a sottoli­neare questa reale preminenza dell’esecutivo, cui fa da pendant l’eclissi degli strumenti di parte­cipazione democratica, nell’o- dierno sistema politico italiano.

Il volume affronta, perciò, non solo i tradizionali profili strutturali e funzionali dell’or­gano in questione, ma si adden­tra con acume e competenza in quel labirinto di convenzioni, prassi, atteggiamenti, consuetu­dini che ormai completano ed integrano il puro ed astratto di­segno costituzionale e che, da tempo, formano oggetto di inte­resse speculativo e di curiosità scientifica anche da parte dei politologi. A differenza delle consuete monografie di diritto costituzionale, solidamente co­stituite su di un impianto dog­matico ineccepibile, il lavoro di Calandra si presenta con un ta­glio più agile e discorsivo, mani­festa, cioè, quegli intenti pratici e didascalici che paiono caratte­rizzare — sia pur con modalità diverse — gli altri contributi della citata collana editoriale. Ci si trova, dunque, di fronte ad un maneggevole vademecum, ad una sorta di guida tecnica, a delle vere e proprie ‘istruzioni per l’uso’, indispensabili ormai per orientarsi e districarsi nei difficili meandri e nelle sotti­gliezze ‘levantine’ dell’attuale ed incerta situazione politico istituzionale. I recenti avveni­menti legati alla caduta del se­condo governo Craxi rendono ancor più opportune e tempesti­ve le osservazioni e le indicazio­ni contenute nell’opera di Ca­landra. ‘Staffette’, fiducie ‘tec­niche’, mandati ‘esplorativi’, pre-incarichi, crisi ‘rientrate’, ed altre ben conosciute formule

dell’inesauribile e fantasioso lessico politico istituzionale ita­liano, vengono adeguatamente e puntualmente analizzate e trat­tate. La contemporaneità ed at­tualità dei problemi del funzio­namento del sistema costituzio­nale non fa tuttavia perdere di vista, all’autore, il loro spessore diacronico; i precedenti storici di molte norme, di diverse rego­le, di radicate consuetudini so­no, infatti, diligentemente ram­mentati. Occorre precisare, in questo ambito specifico, che le considerazioni di Calandra paiono particolarmente preziose e stimolanti, giusta la nota — e tante volte deprecata — caren­za, nel nostro paese, di studi di storia costituzionale e parla­mentare orientati nel senso di una ricostruzione effettiva e concreta dell’andamento delle istituzioni.

Riconosciuto, perciò, il valo­re complessivo dell’opera e pre­scindendo — per ovvie ragioni di spazio — da una puntualizza­zione critica di molti aspetti che pure meriterebbero una discus­sione ed un confronto dialettico più approfonditi, non possono essere taciute alcune ‘ombre’, né trascurati alcuni elementi (sia pure marginali) che non sem­brano del tutto convincenti. In­nanzitutto, avrebbe forse giova­to, anche alla stessa ‘lettura’ dei nostri meccanismi costituziona­li, qualche riferimento più am­pio di diritto comparato, spe­cialmente in rapporto a quelle esperienze straniere che si avvi­cinano maggiormente — per struttura sociale, quadro costitu­zionale o tradizione politica — al caso italiano; e pure in sede di proposizione di idonee soluzioni riformatrici e di suggerimento di eventuali diverse ‘regole del

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gioco’. In secondo luogo, oc­corre evidenziare come il carat­tere didascalico e descrittivo del lavoro finisca, talvolta, col far premio sulla profondità e sulla pregnanza delle argomentazio­ni. Così, ad esempio, nel segna­lare — peraltro compiutamente — le diverse opinioni ed inter­pretazioni espresse su un deter­minato problema costituziona­le, le affermazioni degli uomini politici e quelle dei giuristi, o dei politologi, vengono poste quasi sullo stesso piano; ci si limita, perciò, a fornire un semplice ‘resoconto’ del dibattito in corso.

Va, infine, osservato che la constatazione, comunque cor­retta nelle sue linee di fondo, della prevalenza delle esigenze proprie del sistema politico sulle teorizzazioni e concettualizza­zioni della ingegneria costituzio­nale (esigenze delle quali si ri­chiamano, opportunamente, i “margini di elasticità” ed i limiti intrinseci) può, forse, indurre coloro ai quali stanno a cuore le sorti della democrazia ad ‘ab­bassare la guardia’, a contem­plare, con complice impotenza, l’attuale corsa allo sfascio degli apparati pubblici. Mai come in questo momento pare necessa­rio che l’area, estesa e variegata, delle convenzioni, degli accordi informali, delle prassi (più o meno legittime), venga ristretta a vantaggio di una regolamenta­zione più puntuale, e giuridica­mente vincolante, di tutti quei delicati momenti e congegni del­la vita politica, nonché dei rap­porti fra i supremi organi dello stato, che sono spesso al centro di pretestuose polemiche fra i partiti e sottoposti ad indebiti patteggiamentio a logiche ‘spar­titorie’. Pur ammettendo che,

quasi sempre, si avvera l’ipotesi contraria, non ci si può non au­gurare che siano proprio delle nuove e chiare ‘regole del gioco’ a modificare e condizionare — una volta tanto — i comporta­menti e gli obiettivi dei diversi attori e soggetti politici.

Piero Aimo

Il sistema politico italiano, a cu­ra di Gianfranco Pasquino, Roma-Bari, Laterza, 1985, pp. 461, lire 29.000.

Un’ampia e qualificata rosa di collaboratori e un’altrettanto articolata impostazione per aree tematiche e problematiche dan­no corpo a questa densa antolo­gia di saggi sul sistema politico italiano ideata e curata da G. Pasquino. Attorno al nodo complesso della triplice relazio­ne tra partiti, società civile e isti­tuzioni — centrale nella storia politica e sociale più recente del nostro paese e a cui richiama appunto in apertura il curatore — si dispone la dozzina di con­tributi prescelti, scritti in preva­lenza tra il 1977 e il 1983, che “combinano elementi tecnici con analisi empiriche, valuta­zione del passato e prospettazio­ne del futuro” (pp. VII-VIII). Delle quattro sezioni in cui il vo­lume è suddiviso, le prime due riguardano i processi elettorali (“struttura e tipologia delle ele­zioni in Italia dal ’46 all’83” e “relazioni partiti-elettori e tipi di voto”) trattati da Piergiorgio Corbetta, Arturo Parisi e dallo stesso Pasquino, e gli ‘attori’ in campo (partiti, sindacati, movi­menti), rievocati e analizzati da Mario Caciagli (il “resistibile declino” della De), G. Pasquino

(il Pei nel sistema politico nazio­nale), Franco Cazzola (“struttu­ra e potere” del Psi), Miriam Golden (“neo-corporativismo ed esclusione della forza lavoro dalla rappresentanza politica”) e Yasmine Ergas (“allargamen­to della cittadinanza e governo del conflitto”). La terza e la quarta centrano a loro volta il discorso sulle istituzioni — Go­verno, Parlamento, Regione — con Sabino Cassese (“esiste un governo in Italia?”), Antonio Baldassarre (“le performances del Parlamento, 1970-1985”), Robert D. Putnam, Robert Leo­nardi, Raffaella Nanetti e Fran­co Pavoncello (“il rendimento dei governi regionali”) e sulle micidiali presenze, “dentro e contro il sistema”, di mafia (Raimondo Catanzaro) e terro­rismi (Donatella Della Porta e Maurizio Rossi).

Impianto generale e titoli specifici già orientano, in una certa misura, su modi e intenti del ‘percorso’ in questione, gui­dato da scienziati sociali, della politica e della organizzazione istituzionale e amministrativa nel ‘labirinto’ del sistema politi­co italiano, più coerente e reat­tivo di quel che comunemente si creda.

È certo difficile rintracciare e definire linee univoche di ispira­zione e di svolgimento in opere del genere; ancor più nel caso specifico, nel quale ricorrono, oltre alla scontata circostanza della presenza di posizioni e di risultati già noti ed entrati ‘in circolo’ da tempo, anche una notevole varietà di approcci, di esperienze e di ‘appartenenze’. Tuttavia è sicuramente un dato condiviso l’opzione per il “filo­ne democratico-empirico delle scienze sociali contemporanee”

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(p. 146), sostanziata dal privile- giamento indiscusso delle istan­ze di conoscenza razionale, mi­surabile, verificabile e in chiave comparativa, con scarsa o nes­suna indulgenza per intuizioni e per ideologie. Un volume utile e intelligente, dunque, che forse concede troppo poco alla speci­ficità del ‘caso italiano’ ed in cui agli anni sessanta viene at­tribuito il carattere di spartiac­que risolutivo nella sequenza storica contemporanea italiana. Sono precisi e persuasivi (a par­te l’abbandono dello studio e delle analisi delle ‘tendenze’ a vantaggio dei ‘tipi’) gli scritti in materia elettorale, che del resto hanno fatto ‘scuola’; lucidi e attuali, suscitatori di rassicu­ranti ‘consonanze’ quelli dedi­cati ai tre partiti maggiori, al sindacato, all’interazione tra politiche istituzionali e dinami­ca conflittuale, “politiche socia­li e politiche del sociale” (p. 234). Di indiscutibile dottrina i saggi sul governo e sul parla­mento, ed originali quelli sulla mafia, il terrorismo e il rendi­mento istituzionale delle regio­ni, quest’ultimo sulla scorta di fattori misurabili e di correttivi ‘qualitativi’.

Certo, taluni passaggi e qual­che conclusione, fondati su ela­borati procedimenti statistici, fanno pensare talvolta che egua­li risultati si potrebbero conse­guire con minore spreco di ener­gie, sia pure solo strumentali. Inoltre, qualche perplessità de­sta il tipo di rapporto che i sape­ri messi in campo nella raccolta antologica intrattengono con la storia, un rapporto tradizionale e, per ciò stesso, arcaico. Occor­re ancora ripetere che la storia è una scienza con mezzi e fini abi­litati e orientati alla misura del­

l’incidenza del passato sul pre­sente, risolutiva sul piano dei “perché dei come”, attenta al mutamento come alle persisten­ze, alle fratture come alla conti­nuità? Per dirla in breve, una dimensione del reale e una cate­goria del conoscere, un sapere attivo ad altissima formalizza­zione e capace in proprio, o an­che in intelligenti combinazioni interdisciplinari, di fornire ri­sposte e ragioni, “reti di spiega­zioni” .

Guido D’Agostino

Renato Mannheimer e Giaco­mo Sani, Il mercato elettorale. Identikit dell’elettore italiano, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 185, lire 15.000.

Il libro di Mannheimer e di Sani si propone di sviluppare un’idea, quella dell’analogia tra mondo della politica e mondo dell’economia, che soprattutto a partire dall’ormai classico la­voro di Anthony Down (An Economie Theory o f Democra- cy, New York, 1957), ha in­fluenzato un importante filone di riflessione teorica e di ricerca empirica, non solo nel mondo anglosassone, ma anche nel no­stro paese (si pensi ai significati­vi contributi degli studiosi del­l’Istituto Cattaneo). Tale analo­gia risulta più calzante, a giudi­zio degli autori, ove si consideri un momento particolare della vita politica, quello della com­petizione elettorale. Vale segna­lare, tuttavia, che nell’indica­zione del mercato elettorale quale oggetto della riflessione scientifica è consegnato non so­lo un approccio metodologico, ma anche l’esplicito auspicio che gli sviluppi futuri consen­

tano una sempre più chiara de­finizione del luogo nel quale “i produttori di politiche pubbli­che presentano le loro offerte a cittadini informati, liberi da pregiudizi e sciolti da legami col passato, che scelgono di volta in volta proprio sulla base delle alternative loro proposte”(p.8).

Nel definire le caratteristiche del mercato elettorale italiano negli anni ottanta, il libro arti­cola e sviluppa i risultati di una ricerca demoscopica svoltasi nel 1985 in Italia ed in altri tre paesi dell’Europa del sud.

In particolare, l’analisi delle motivazioni, con la conseguente definizione delle tipologie di vo­to (si richiama in proposito la classica tripartizione in voto di appartenenza, voto di opinione e voto di scambio, compiuta dieci anni fa da Arturo Parisi e Gianfranco Pasquino), sia pure arricchita da un più ampio spet­tro di indicatori utili a illustrare alcuni aspetti della scelta eletto­rale, dimostra scarse capacità di chiarire e prevedere la direzione del voto.

Similmente, anche l’analisi orientata alla considerazione delle variabili sociali ed econo­miche riesce a spiegare solo una parte modesta delle scelte eletto­rali, rivelando pertanto una de­bole capacità predittiva. Per spiegare e prevedere il compor­tamento di voto, appare neces­sario ricorrere ad altri elementi, quali le tradizioni, l’apparte­nenza a subculture, la forza or­ganizzativa dei partiti, la strut­tura dei canali di comunicazio­ne, la forza di persuasione dei leader.

Il tentativo degli autori è quello di fondare la possibilità della previsione sulla base della

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definizione di una struttura del­la scelta elettorale in Italia, po­sto che proprio il riferimento al ‘mercato’ potrebbe risultare astratto e fuorviante, qualora non desse conto della moltepli­cità di fattori che rendono estremamente diversificata la dinamica della formazione delle scelte. Il libro si fonda, come si è detto, su una ricerca demo­scopica, il cui criterio animato­re è quello della classificazione soggettiva dei cittadini, la loro autocollocazione lungo il conti­nuum sinistra/destra, un mo­dello di cui si sottolinea la per­durante validità. Il primo fatto­re utilizzato, il primo filtro che riduce le alternative considerate dagli elettori, è la preferenza politica negativa, vale a dire la vasta area delle preclusioni. Il meccanismo delle esclusioni, come risulta dall’inchiesta, ap­pare correlato in modo abba­stanza netto con gli orienta­menti degli elettori favorevoli a questo o quel partito. In secon­do luogo, viene considerata l’i­dentificazione partitica, un fe­nomeno che riduce ulterior­mente la scelta elettorale, e che in Italia coinvolge ancora una massa imponente di cittadini. Il terzo fattore è quello dell’iden­tificazione di area, vale a dire l’ancoraggio sul continuum si­nistra/destra. Infine, viene pre­so in esame il giudizio espresso sui leader politici: la connes­sione tra valutazione sui lea­der e intenzione di voto, pu­re rilevata, rende solo in par­te ragione della preferenza par­titica.

L’insieme degli elementi con­siderati consente un apprezza­bile livello di approssimazione, concettuale e psicologica, al­l’intenzione di voto. Precisate

le aree interessate ad una dina­mica di mercato, vengono prese in considerazione le varie com­ponenti del processo di muta­mento elettorale, approntando anche in questo caso un’artico­lata e persuasiva tipologia. Ne risulta complessivamente che la competizione nel sistema parti­tico italiano conserva tuttora un carattere notevolmente strutturato. Non ci si trova di fronte ad un unico mercato elettorale ove sono in competi­zione tutti i ‘produttori’ e tutti i ‘consumatori’, non ci si trova dinnanzi ad un bellum omnium contra omnes, come gli stessi autori sottolineano. Si tratta piuttosto di una pluralità di aree continue, talora parzial­mente sovrapposte, nelle quali la competizione coinvolge seg­menti diversi di elettorato e di forze politiche.

Un mercato in movimento, a giudizio degli autori, i quali tuttavia ricordano che l’entità e le caratteristiche delle trasfor­mazioni rilevate non possono sollecitare aspettative di grossi cambiamenti nel breve periodo. L’attenta valutazione dei fatto­ri di più lungo periodo, ai quali sembra ancorata la straordina­ria continuità del sistema politi­co italiano, e la considerazione delle lente ma significative va­riazioni registratesi negli anni, fanno di questo volume un utile ed interessante contributo alla comprensione del ‘caso ita­liano’.

Salvatore Minolfi

Guido D ’A gostino, Alla ricer­ca di un futuro. Il voto a Napo­li dal 1980 al 1985, Napoli, Athena, 1987, pp. 175, lire20 . 000.

Alla ricerca di un futuro è il più recente lavoro che Guido D’Agostino dedica alla storia elettorale di Napoli. Si tratta di un volume antologico che rac­coglie una serie di articoli e sag­gi pubblicati in diversi giornali e riviste tra il 1980 e il 1986 e, pertanto, si pone come logica persecuzione di Napoli alle ur­ne, ricostruzione ed analisi del voto urbano dal 1946 al 1979 (G. D’Agostino, Napoli alle ur­ne. Il voto urbano dal 1946 al 1979, Napoli, Guida, 1980).

Suddiviso in nove capitoli, organizzati attorno ad altret­tanti momenti salienti della sto­ria elettorale cittadina, il libro si apre con un gruppo di artico­li sul decentramento ammini­strativo della città. Il decennale processo che ha portato all’isti­tuzione dei Consigli circoscri­zionali (1980) è qui ripercorso nelle sue tappe fondamentali e, attraverso il minuzioso con­fronto tra il regolamento dei Consigli circoscrizionali propo­sto dalla giunta di sinistra allo­ra in carica ed il testo definitivo approvato dal Consiglio comu­nale, viene ricordato il duro scontro che si ebbe tra le forze politiche nel momento in cui missini, democristiani e repub­blicani, con la loro opera di re­sistenza e boicottaggio, mostra­rono “di temere, più che desi­derare e favorire, la partecipa­zione effettiva dei cittadini nei processi decisionali e di con­trollo [e preferire] il dato della funzionalità burocratica a sca­pito della sostanza progressiva presente nei tratti e nelle attri­buzioni dei nuovi organismi” (p. 14). In definitiva, un arroc­camento nella difesa del potere unitario e centralizzato che li­mitando compiti ed attribuzioni

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dei nascenti Consigli circoscri­zionali li ha di fatto impoveriti e resi incapaci di operare incisiva­mente. In tale contesto non stu­pisce che i Consigli circoscrizio­nali abbiano rappresentato “l’e­satto contrario della tensione, innovazione e coraggio necessa­ri” ed abbiano riproposto al lo­ro interno le stesse logiche di potere e prassi amministrative proprie di organismi più ampi e generali. Né, d ’altra parte, si sa­rebbe potuto sperare di meglio da “un personale politico scar­samente radicato nel territorio, e collocato invece nelle sezioni e negli uffici dei partiti, poco pre­parato e poco motivato, inten­zionato anzi ad usare l’esperien­za di consigliere circoscrizionale per avviarsi verso mete ritenute più prestigiose” (p. 30). Il de­centramento, dunque, non ap­pare a D’Agostino come sinoni­mo di partecipazione. Il decen­tramento rappresenta certo il prerequisito istituzionale ma la partecipazione richiede una chiara volontà politica (che, co­me abbiamo visto, è mancata) oltre che un diverso atteggia­mento dei “cittadini-utenti” . L’esperienza di questi anni ha infatti dimostrato che quando vi sono una reale volontà politica e reali spazi di intervento ‘la base’ non è né abulica né assente, ma ha altresì confermato che trop­po spesso permangono verso la sfera del politico fenomeni di diffidenza, qualunquismo e di­sinformazione che in definitiva favoriscono il clientelismo, la corruzione ed il malgoverno del­le forze politiche più conserva­trici. Si ha, insomma, una sorta di circolo vizioso, quello che in altra sede D’Agostino ha defini­to “effetto boomerang” (G. D’Agostino, Napoli: governo e

amministrazione della città dal­la caduta del fascismo alla Re­pubblica 1943-1946, in Aa.Vv., Alle radici del nostro presente, Napoli, Guida, 1986 p. 42). La capacità di rompere questo sta­to di cose, la possibilità di ri­creare un diverso rapporto tra società civile e ceto politico, è dunque il banco di prova per tutte le forze della sinistra, la cartina di tornasole con la quale misurare la consistenza di ogni ipotesi di sviluppo e progresso civile della città.

Ma, come dicevamo in aper­tura, non è solo il problema del decentramento ad essere affron­tato dall’autore e dai suoi colla­boratori (Maurizio Mandolini, Alessandro Nevola, Riccardo Vigilante) bensì tutti i principali momenti elettorali tra l’ottanta e l’ottantacinque. Vi troviamo, dunque, analisi dei risultati del­le elezioni amministrative e poli­tiche, dei referendum popolari e delle elezioni europee. Emerge, così, il carattere di insularità del voto napoletano (cioè la sua unicità, diversità rispetto al con­testo provinciale, regionale, me­ridionale e nazionale); di orien­tazione tripolare (polo libe- ral-monarchico e neofascista, polo democristiano, polo comu­nista) dei suffragi; di enfatizza­zione selettiva (la capacità della società napoletana di ridurre o amplificare tendenze più gene­rali in atto sul territorio nazio­nale) nel quadro di un’accentua­ta contrapposizione tra piano locale e piano nazionale ben evi­dente nello scarto tra il voto am­ministrativo e quello politico. Il voto amministrativo, infatti, soltanto tra il 1963 ed il 1972 ha premiato un quadro politico omologo a quello nazionale (De) ma più spesso ha dato vita

a giunte municipali in netto an­tagonismo col governo centrale (si pensi all’esperienza laurina e, più recentemente, alle giunte di sinistra). II testo si presenta utile sia ai politici, quale insostituibi­le strumento di conoscenza e di lavoro sia agli storici che sempre più vedono nella storia elettora­le una sorta di cerniera tra la storia elettorale stessa e quella politico-istituzionale e sociale (vedi, Lo spazio regionale. Con­tributi di storia elettorale e ras­segne sul ceto politico locale, “Italia contemporanea” , 1987, n. 167).

Raffaele Messina

Gli ambasciatori italiani e la di­plomazia oggi, a cura di Enrico Serra, Milano, Angeli, 1986, pp. 244, lire 24.000.

Proseguendo in un disegno avviato con il volume La diplo­mazia in Italia (Milano, Angeli, 1985), E. Serra, curatore di que­sto volume, tenta di gettare ulte­riore luce su alcuni aspetti della politica internazionale e in par­ticolare sul ruolo italiano in questo ambito. Dopo aver dato, con il primo libro, una serie di indicazioni sulla struttura del ministero degli Esteri, sulla sua evoluzione storica e ammini­strativa, sulle sue tradizioni, sulla ‘tecnica’ diplomatica, sulle fonti archivistiche, ora egli ha inteso offrire un gruppo di testi­monianze ‘dall’interno’, redatte da alcuni fra i più rappresentati­vi esponenti della diplomazia italiana, in servizio e non: da Gaja a Farace, a Chelli, a Guaz­zarono a Maccotta, a Mondel­lo, a Ortona, a Plaja, a Roma­no, a Tornetta, a Vita Finzi. Ad essi è stato affidato il compito

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di affrontare e analizzare breve­mente aspetti diversi delle atti­vità del diplomatico, nonché momenti della politica estera del paese. Sono stati così esami­nati numerosi temi nei saggi: Dalla diplomazia sarda alla di­plomazia italiana, La Santa Se­de, L ’opinione pubblica, La di­plomazia multilaterale, sino al saggio conclusivo e un poco in­consueto sul rapporto fra satira e diplomazia.

Nella presentazione, Serra, il quale conta di far seguire a que­sto un secondo volume, avverte come ci si trovi di fronte a “del­le riflessioni e non a dei saggi storici”. Ciò nonostante, o for­se proprio per questa ragione, il curatore sostiene che l’opera “offre un materiale prezioso tanto agli studiosi che ai diplo­matici ed agli operatori interna­zionali” (p. 12).

In effetti il volume risente di questa peculiare impostazione. Molto diversi fra loro sono gli approcci metodologici scelti dai vari autori, da quello storico, a quello politologico, dalla me­morialistica all’aneddotica. Né si può affermare che l’azione internazionale dell’Italia, per quanto ben presente nell’espe­rienza di tutti coloro che hanno contribuito al libro, rappresenti un elemento unificante tutti i saggi, perché a volte l’attenzio­ne si è concentrata sulla politica estera di altri paesi o sulla di­plomazia in quanto “strumen­to” di politica. A una lettura superficiale del volume risulte­rebbe quasi confermato il luogo comune secondo il quale una delle caratteristiche del diplo­matico è il possesso di una certa dose di “eclettismo” . Quest’ul- tima osservazione è però in gran parte ingiusta. Alcuni con­

tributi risultano, al contrario, particolarmente interessanti per la comprensione del retroterra culturale e politico, degli atteg­giamenti ‘psicologici’ di una componente significativa del personale diplomatico italiano che ha operato tra la fine del fascismo e gli anni settanta; va ricordato come, ad eccezione di Claudio Chelli, Vincenzo Tor- netta e Sergio Romano, gli au­tori siano entrati “in carriera” durante gli anni trenta, rag­giungendo gli incarichi di mag­giore prestigio e responsabilità intorno agli anni sessanta. Al­cuni saggi si fanno apprezzare inoltre per la vivacità dello sti­le, altri per la narrazione di epi­sodi di rilievo, altri ancora per l’acutezza di certe valutazioni.

Non è questa la sede per un esame dettagliato di ogni singo­lo contributo, ma pare oppor­tuno ricordare il saggio di Ro­berto Gaja, il quale contiene sintetiche e utili osservazioni sulla “doppia anima” della po­litica estera italiana, “quella classica, studiosa degli equilibri continentali, e quella nazionali­stica, ansiosa di dare una nuova impostazione alle relazioni fra i popoli” (p. 34). Altrettanto in­teressanti risultano le brevi note biografiche di Sergio Romano, il quale ha cercato di spiegare il nesso esistente tra la propria esperienza di diplomatico e l’at­tività di storico e commentatore politico. Né si può infine di­menticare il contributo di Paolo Vita Finzi; egli ha infatti offer­to alcune umoristiche osserva­zioni sui numerosi e spesso fuorviami luoghi comuni con­nessi all’attività del diploma­tico.

In conclusione si può affer­mare che il volume offre utili

spunti di riflessione e non resta che attendere un ulteriore ap­profondimento su alcuni dei te­mi presi in considerazione, in particolare sull’azione e sul ruolo del ministero degli Esteri e del suo personale nella forma­zione della politica estera ita­liana.

Antonio Varsori

Giorgio Brosio e Carla Mar­chese, Il potere di spendere. Economia e storia della spesa pubblica dall’Unificazione ad oggi, Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 204, lire 15.000.

Scritto da due economisti, ma indirizzato nelle intenzioni degli autori ad un pubblico non specializzato, interessato alle scienze sociali in genere, il volu­me si propone di ripercorrere l’evoluzione della spesa pubbli­ca nella storia dell’Italia postu­nitaria fino alla “abnorme espansione” dell’ultimo venten­nio. Più che alla ricostruzione storica, tuttavia, il ricco mate­riale informativo raccolto appa­re finalizzato alla definizione di una modellistica economica, al­la quale gli autori — pur rico­noscendo minore ricchezza ana­litica rispetto alla metodologia della storia — attribuiscono ri­gore e possibilità di verifica su­periori. Il compito di “mettere in luce le relazioni essenziali fra il fenomeno studiato (la spesa pubblica) e il contesto societa­rio in cui essa è determinata” resta perciò affidato all’indivi­duazione, da un lato, delle re­gole del gioco politico (i mecca­nismi decisionali) e dall’altro, dei fattori che determinano le preferenze dei responsabili in materia di spesa, in una prò-

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spettiva di comparazione fra tre differenti assetti socio-istituzio­nali: l’Italia liberale, la dittatura fascista, la democrazia del do­poguerra. Proprio tale sforzo comparativo costituisce il meri­to maggiore del volume, al di là dei frequenti schematismi e di giudizi storici talvolta riduttivi o affrettati.

L’ipotesi centrale del lavoro considera la spesa pubblica co­me un fenomeno essenzialmente redistributivo, “uno strumento cioè che gruppi e singoli utiliz­zano, secondo quanto loro per­messo dai contesti politico­istituzionali esistenti, per modi­ficare la propria posizione rela­tiva” . Il ruolo diretto dello stato nell’economia ed il suo contri­buto allo sviluppo della produ­zione restano perciò program­maticamente esclusi dall’analisi. A questa impostazione corri­sponde la preferenza dichiarata per un modello interpretativo di tipo ‘politico’, secondo il quale all’allargamento della parteci­pazione politica corrisponde, nel lungo periodo ma inevitabil­mente, un’espansione della spe­sa pubblica. Attraverso la co­struzione di serie storiche che analizzano le categorie di spesa e la ripartizione del carico tribu­tario, gli autori giungono alla conclusione che per il periodo li­berale “appare storicamente più corretto, e analiticamente più sostenibile, un modello in cui la classe ristretta che detiene il di­ritto di voto, e che si amplia con lentezza, [...] difende accanita- mente, cercando di protrarlo il più a lungo possibile, il potere di sfruttamento delle classi più povere escluse dalla partecipa­zione politica”.

Una particolare attenzione è rivolta tuttavia al periodo re­

pubblicano, considerato quello in cui il nesso espansione della spesa pubblica/partecipazione politica trova la sua concretizza­zione più esplicita. L’analisi del­la struttura della spesa pubblica dimostra con chiarezza la dimi­nuzione relativa della quota dei consumi e degli investimenti pubblici (le voci che contempla­no un utilizzo diretto di risorse reali ed un intervento più incisi­vo nell’economia da parte del settore pubblico) rispetto alla quota dei trasferimenti (spese sociali e interessi sul debito), che non incidono sulle dimen­sioni relative del settore pubbli­co rispetto a quello privato in termini di produzione effettua­ta. Da ciò deriva la tesi per cui il ‘nocciolo duro’ del settore pubblico, nel periodo 1950- 1982, ha teso al declino, for­nendo una quota via via minore di servizi reali all’organizzazio­ne economica.

La centralità detenuta dal ruolo redistributivo, mediante strumenti fiscali e spese sociali, nella formazione e nel manteni­mento delle maggioranze del dopoguerra spinge i due autori a stabilire una stretta analogia tra i modelli utilizzati per il re­gime fascista e la democrazia postbellica, per quanto concer­ne i meccanismi di decisione della spesa: ossia per il ruolo giocato, da un lato, dai gruppi di interesse e, dall’altro, dalla ricerca (seppure con modalità diverse) del consenso. Tale ana­logia non vuole coinvolgere la teoria dei sistemi politici, ma intende porre in relazione “un caso specifico di democrazia ‘bloccata’ [...] e un caso speci­fico di dittatura, con importan­ti caratteri di populismo, come quella fascista”. Nel secondo

dopoguerra, in ogni caso, al­l’aumento del numero dei grup­pi sociali beneficiari della spe­sa e all’accentuazione del ritmo di crescita di quest’ultima, han­no corrisposto una perdita di chiarezza del senso della redi­stribuzione operata ed una mol­tiplicazione di fenomeni di “il­lusione finanziaria” come l’e­spansione delle entrate tramite l’indebitamento pubblico o i tri­buti prelevati con ritenute alla fonte.

In conclusione, alla domanda iniziale se una presenza pubbli­ca tanto massiccia sia compati­bile con la crescita a ritmi soddi­sfacenti dell’economia e con il mantenimento dei livelli di li­bertà raggiunti nelle scelte indi­viduali, gli autori rispondono sottolineando la continuità sto­rica del caso italiano, cioè la “netta preferenza per le soluzio­ni pubbliche” : “a meno che i problemi del finanziamento di­vengano così drammatici da im­porre drastici tagli, non ci sono indicazioni che questa elevata propensione all’offerta di spesa pubblica da parte della classe politica italiana debba ridursi”. D’altra parte essi giudicano inaccettabile ogni valutazione aprioristicamente negativa del­l’intervento pubblico, ricono­scendo come le proposte di revi­sione costituzionale e di priva­tizzazione godano oggi, grazie alla ventata antistatalistica degli ultimi anni, di un credito “forse superiore alla loro effettiva con­sistenza” .

Stefano Battilossi

P ietro Barcellona, A ntonio Cantaro, La sinistra e lo Stato sociale, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 206, lire 16.000.

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Il lavoro è presentato dagli autori come una rielaborazione della riflessione collettiva svol­tasi al Centro per la riforma del­lo Stato nel 1980-83. Il primo passo è una ricognizione delle forme della crisi dello stato so­ciale così come emergono nelle recenti analisi politologiche: la sfasatura tra apparato politico amministrativo e bisogni sociali— per cui la spesa pubblica non riesce a far fronte alle nuove do­mande sociali sull’ambiente, la qualità della vita, il sistema del­le relazioni umane (è il tema del­le domande sociali cosiddette post-materialistiche) — deter­mina una contraddizione tra la necessità di legittimazione del­l’apparato e la sua capacità di accumulazione (nell’aspettò di stato imprenditore, che è uno dei lati fondamentali della figu­ra del welfare state sulla cui crisi verte il discorso); questa incapa­cità imprenditoriale si riflette poi nella impossibilità di mante­nere efficiente la articolazione tra intervento statale ed accu­mulazione privata attraverso le funzioni diversificate della spe­sa pubblica.

La crisi del welfare state mo­stra dunque un aspetto ‘interno’— in termini di caduta di reddi­tività della amministrazione pubblica — ed uno ‘esterno’ co­me caduta di credibilità presso gli strati sociali emarginati o portatori di nuove domande, ri­spetto ai quali la stessa dinami­ca della compensazione moneta­ria ad opera dello stato in quali­tà di redistributore della ric­chezza sociale (altro lato del welfare state) risulta inefficace, e peraltro gravemente incrinata a partire dalla crisi dell’accumu­lazione negli anni settanta. In questa situazione è tutto il siste­

ma di funzioni sulla cui chiara distinzione si sono rette fino ad oggi le democrazie europee a su­bire una complessiva distorsio­ne: già la scelta di obiettivi pu­ramente economici diviene nel nuovo contesto una selezione politica dall’alto della effettiva domanda sociale, mentre la fun­zione redistributiva ha percorso fino in fondo la via dell’assi­stenzialismo.

Gli autori rilevano la tenden­za alla omologazione program­matica in politica economica tra destra e sinistra con la conse­guente perdita, per il sistema politico, di quel ruolo fonda- mentale di filtro e organizzatore delle domande sociali intorno a solidarietà di diversi interessi e ben definite identità collettive.

In queste condizioni, politica e amministrazione tendono a confondersi: il ceto politico di governo si presenta come pro­prietario della impresa-ammi­nistrazione di cui gestisce gli ap­parati e la erogazione delle ri­sorse mentre i partiti riducono il loro ruolo a quello di seleziona­re il personale dirigente e ammi­nistrativo (è la cosiddetta occu­pazione dello stato). Natural­mente i diversi aspetti della complessiva crisi di rappresen­tanza incidono con maggiore acutezza proprio su quei partiti — la sinistra italiana e in parti­colare il Pei — che maggior­mente hanno lavorato in questi anni alla creazione di una iden­tità collettiva poggiata su un complessivo progetto di muta­mento dei rapporti tra politica, economia e società. I partiti tra­dizionali si trovano a dover fare i conti con una perdita di peso del conflitto capitale-lavoro nel­le sue sedi classiche e con la frantumazione degli interessi

per l’emergere di nuove figure sociali nate dai nuovi processi produttivi ed anche generate dalla stessa politica redistributi­va dello ‘stato sociale’.

È in sostanza l’intero modello neocorporativo a mostrare la corda in queste analisi, quel mo­dello che — sulla base di rappre­sentanze stabili e legittimate del­le grandi forze sociali e di istitu­ti capaci di garantire lo scambio politico tra queste e lo stato — prevedeva la definizione con­sensuale delle compatibilità eco­nomiche e sociali grazie alla me­diazione politico parlamentare e alla contrattazione collettiva.

Ripercorrendo le grandi fasi della politica economica in Ita­lia dal dopoguerra, l’attenzione si volge all’anomala gestione di questi processi da parte della De, che deve svolgere il ruolo di partito che realizza al suo inter­no il compromesso sociale, ma anche di partito anticomunista, antagonista oggettivo di una gran parte del mondo del lavo­ro. La De disorganizza il blocco dominante degli industriali del nord e degli agrari del meridio­ne colpendo i latifondi con la ri­forma agraria e costituendo un’industria di stato per condi­zionare a monte le scelte del processo di accumulazione, ed opera in tal modo anche un ac­quisto di potere contrattuale ri­spetto ai gruppi trainanti del ca­pitalismo italiano; nello stesso tempo tende a ridurre il ruolo del movimento operaio e delle masse popolari dentro i confini della mediazione statale e istitu­zionale. Si configura così, in questa “grande operazione ri­formistica e reazionaria nello stesso tempo” (p. 77), la pecu­liarità di uno ‘stato sociale’ che si viene realizzando a scapito

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dell’unità del mondo del lavo­ro, scomponendo lo stesso blocco riformatore per impedi­re che l’aggregazione avvenga sul polo segnato dalla presenza del Pei.

Alla chiarezza di analisi, sia sul piano delle teorie complessi­ve, sia su quello della singolare situazione italiana sino alle preoccupanti prospettive degli odierni processi di ristruttura­zione, fa però riscontro una più discutibile individuazione delle proposte, — che finiscono col fare riferimento al “piano Meidner” per la “progressiva socializzazione dei mezzi di produzione attraverso l’istitu­zione di fondi collettivi dei la­voratori” (p. 203), cioè ad un modello di progetto economico che — come è dichiarato dagli stessi autori — nasce ed è pen­sabile solo in un contesto, quel­lo svedese, totalmente diver­so da quello puntualmente ana­lizzato per l’Italia.

Luca Fiacco

Movimento cattolico

Giorgio Vecchio, Alla ricerca del partito. Cultura politica ed esperienze dei cattolici italiani nel primo Novecento, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 324, lire28.000.

Il nodo del partito è sicura­mente un punto di riferimento centrale nell’esperienza politica dei cattolici italiani. Ad esso si è costantemente rifatta quella storiografia di matrice cattoli­ca che ha inteso farne l’asse portante di un processo di svi­luppo continuo, anche se non lineare, attraverso il quale si af­ferma e si legittima l’ascesa del

movimento dei cattolici or­ganizzati all’interno dello sta­to laico, fino alle massime re­sponsabilità politiche e istitu­zionali.

La graduale affermazione del “partito di ispirazione cristia­na” , “organismo tendenzial­mente aconfessionale, laico, or­ganizzato” , è appunto il filo conduttore dei saggi che G. Vecchio ha raccolto in questo volume e che, per quanto stesi in occasioni diverse, si presen­tano collegati da una sostanzia­le continuità tematica e crono­logica. L’autore, ripercorrendo le esperienze storiche di alcuni protagonisti di primo piano e di alcuni significativi centri di ag­gregazione del movimento cat­tolico italiano, intende rico­struire i fondamenti culturali e politici, per molti aspetti condi­zionanti, delia presenza pubbli­ca dei cattolici, dagli inizi del secolo fino alla vicenda del Par­tito popolare nel primo dopo­guerra. Ne conseuge che il Ppi (al quale lo stesso Vecchio ave­va già dedicato un ampio e do­cumentato volume nel 1982) si presenta come il passaggio con­clusivo del lungo travaglio col­lettivo di una intera generazio­ne di dirigenti cattolici, piutto­sto che come frutto peculiare del genio politico di Luigi Stur- zo, e al tempo stesso appare in­serito nel generale processo di crescita democratica dei cattoli­ci europei, ossia in un contesto assai più ampio e dinamico di quello segnato dai confini na­zionali.

Senza entrare qui in un’anali­si particolareggiata dei singoli saggi, si può osservare che Vec­chio sviluppa efficacemente queste ipotesi di ricerca, anche se solo per sondaggi, come è

nella natura del suo lavoro, an­ziché attraverso un approfondi­mento organico del tema. Si che sorge immediatamente l’in­terrogativo su quanto la com­plessa realtà del movimento cattolico italiano possa confer­mare, nell’insieme, le pur signi­ficative esperienze affrontate dall’autore, tutte, per l’appun­to, collocate nel contesto politi­co e culturale più avanzato, che è quello dell’Italia settentriona­le. Ora, non c’è dubbio che Me­da, Miglioli o l’Unione giovani cattolici milanesi rappresenti­no, nei rispettivi ambiti, le pun­te emergenti di questo processo di crescita dei cattolici italiani. (Diverso il discorso per quanto riguarda la Scuola sociale catto­lica di Bergamo, di cui l’autore non manca di mettere in luce il “carattere tutto sommato su­perficiale e arretrato”). Resta da vedere quanto questi ‘casi’ possano essere assunti a rappre­sentazione di un’evoluzione ge­nerale e quanto invece restino aspetti particolari e perfino contraddittori rispetto alla real­tà complessiva.

D’altra parte, centrando si­gnificativamente l’attenzione sui processi politici, l’autore evita di cadere nella tradiziona­le apologia della socialità cleri­cale e di rifarsi esclusivamente alla letteratura specialistica di parte cattolica. Ciò gli consente di valutare criticamente la de­bolezza teorica e pratica del­l’opposizione cattolica nell’Ita­lia liberale e di ricondurre a questo “limite ereditario” il ri­tardo accumulato dai cattolici nel misurarsi concretamente con la problematica istituziona­le e politica della democrazia moderna. Temi meritevoli di ul­teriori approfondimenti e di

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approcci più generali, ma sui quali il volume fornisce co­munque validi spunti di discus­sione.

Mario G. Rossi

Gianni La Bella, “L o Spetta­tore Italiano" 1948-1954, Bre­scia, Morcelliana, 1986, pp. 238, lire 20.000.

Nel dare conto di questo sag­gio è opportuno chiarire preli­minarmente che il titolo è, al­meno parzialmente, fuorviante: non si tratta infatti di una rico­struzione dell’esperienza cultu­rale complessiva di questa rivi­sta, bensì dell’analisi del per­corso politico e culturale di al­cuni noti intellettuali prove­nienti dalla ‘diaspora’ seguita allo scioglimento del partito della Sinistra cristiana, avvenu­to nel dicembre 1945, che ave­vano trovato modo di esprimer­si appunto sulle colonne del pe­riodico fondato da Elena Cro­ce, Raimondo Craveri e Pietro Antonelli: tra questi Filippo Sacconi, Gabriele De Rosa e, in posizione defilata ma non per questo meno importante (p. 31), Franco Rodano. La preci­sazione non è da considerarsi pedante o poco importante: “Lo Spettatore” era infatti nato nel 1948 con tu tt’altra caratte­rizzazione politica e culturale rispetto a quella che verrà ad assumere con il 1950-51, so­prattutto in relazione all’ingres­so nella redazione degli intellet­tuali citati. Si trattava inizial­mente di una rivista a vocazio­ne eminentemente critico lette­raria, espressione di una “raffi­nata élite intellettuale” “di tra­dizione crociana e postideali­sta” ben esemplificata dai nomi

dei fondatori. Con l’inizio degli anni cinquanta la struttura del­la rivista cambiò, aggiungendo­si alla parte letteraria “una par­te politica sempre più nutrita” di cui De Rosa, Sacconi e so­prattutto Rodano furono ani­matori. La collaborazione tra queste due anime tanto diverse durò poco: nel giugno del 1954, dopo alcuni mesi di crisi laten­te, avvenne la rottura cui seguì, l’estate stessa, la ripresa delle pubblicazioni su nuove basi, senza la componente che per brevità diremo ‘rodaniana’. Considerando il carattere para­dossale del ‘luogo intellettuale’ scelto dal gruppo ‘rodaniano’ per esprimere le proprie idee — “volendo privilegiare un dialo­go comunisti-mondo cattolico tutto da costruire, si parte da una tribuna che non appartiene a nessuno dei due campi” , ossia una rivista ‘crociana’ (Giovanni Tassani, p. 24) — a stupire non è tanto la fine della collabora­zione, quanto la collaborazione stessa. Questa può essere spie­gata sia dalla mediazione di Raffaele Mattioli, “amico da tempo di Franco Rodano e molto vicino all’esperienza del­lo Spettatore” (p. 22), sia da ta­lune consonanze tra i punti pro­grammatici espressi da Craveri (direttore della rivista tra il gen­naio 1949 e il marzo 1952) — ad esempio “Lo Spettatore” non doveva essere né anticomu­nista né anticlericale e doveva opporsi alla guerra fredda (p. 24) — e alcune delle tematiche qualificanti delle posizioni dei redattori provenienti dalla Sini­stra cristiana (si vedano in par­ticolare i capitoli II e VI). In se­guito l’aprirsi della forbice tra le opzioni politiche ed editoriali di Craveri e della Croce da un

lato, e quelle del gruppo ‘roda­niano’ dall’altro — fondamen­tale a questo riguardo sembra l’allineamento progressivo di quest’ultimo alle posizioni co­muniste (pp. 79 e 82) — portò alla rottura del gruppo e alla crisi della rivista. Tuttavia le vi­cende interne della rivista inte­ressano relativamente La Bella; del resto, anche la crisi de “Lo Spettatore” non va spiegata so­lamente con i motivi di cui si è detto, ma anche con difficoltà interne alle scelte ideologiche del gruppo redazionale cattoli­co, ossia con la “esaurita fun­zione politica e culturale della rivista” (p. 81); in altre paro­le, “Lo Spettatore” si era “qua­si immobilizzato in una lettu­ra dei fatti e degli avvenimen­ti politici nazionali e interna­zionali che col tempo era diven­tata anacronistica e che non riusciva più a confrontarsi e a collegarsi con quanto di nuovo veniva maturando sia sul piano delle idee che del loro sviluppo politico ed ideologico” (p. 81) alla metà degli anni cinquanta. Ne conseguì una nuova diaspo­ra del gruppo dei cattolici-co­munisti.

Oggetto del saggio, come ho cercato di chiarire in questa premessa, non è dunque “Lo Spettatore” in quanto tale, ma, per così dire, la Sinistra cristia­na dopo la Sinistra cristiana: in altre parole, scopo di La Bella è quello di “vedere se, finita l’e­sperienza politica della Sinistra cristiana, ne sopravvisse qual­che elemento culturale e in qua­le modo si evolsero gli intellet­tuali che avevano accettato di confluire nel Partito comuni­sta” nel 1945 (pp. 14-15). La Bella ricostruisce dunque i temi trattati dalla rivista, aggiungen­

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do al saggio una antologia di scritti apparsi su “Lo Spettato­re”, tanto più utile quanto più difficile appare la reperibilità di un periodico che, pur essendo seguito dal mondo politico e in­tellettuale che contava, ebbe una tiratura che “non oltre­passò mai le 550-650 copie” (P. 27).

Espressione di un tentativo “di liberare il linguaggio politi­co da ogni ossessione ideologi­ca, dalle ambiguità, dalle scal­trezze, dai pregiudizi di una stagione culturalmente ferrigna e discriminatoria” (p. 25) e co­me tale esperienza da seguire con interesse, “Lo Spettatore” aveva però molti limiti.

Ad esempio considerare la presidenza di Eisenhower “il primo passo [...] verso una pro­babile evoluzione di tipo fasci­sta dello strapotere militare americano” (p. 40) e suggerire che “il comunismo internazio­nale avrebbe dovuto [...] pro­fittare del contraccolpo che il moto involutivo americano avrebbe determinato sulle forze antifasciste per assumere le di­fese delle libertà borghesi e sal­vare il mondo politico dalla reazione e dal fascismo” (p. 41, e in appendice La bandiera del­le libertà borghesi del 1952, pp. 99-101), appare una forzatura tanto più fastidiosa in quanto non si fa cenno della situazione esistente proprio in quel torno di tempo nei paesi dell’Europa orientale dove si era ben lonta­ni dal salvaguardare le ‘libertà borghesi’. Ancora, il considera­re l’egemonia europea “un fat­to materiale e ideale che non poteva essere delegato” agli Usa, visti come detentori di una mera “potenza economica e materiale” (p. 39), ricorda da

vicino ideologismi, ampiamente diffusi nel mondo cattolico ne­gli anni tra le due guerre, tesi ad esaltare la civiltà (cristiana) dell’Europa contro il materiali­smo ed il dominio della tecnica tipici dell’America. In conclu­sione vogliamo segnalare quella che fu l’ipotesi politica e cultu­rale di fondo de “Lo Spettato­re” o, meglio, del gruppo ‘ro- daniano’ al suo interno, quella cioè dell’incontro storico fra la chiesa cattolica e il Pei, “le uni­che aggregazioni storiche porta­trici di valori e verità ideali ri­voluzionarie” (p. 82), con il co­rollario della negazione di “ogni legittimità e ogni valore storico-politico e ideale al ruolo e alla funzione della Democra­zia cristiana” (pp. 82-83) che, dopo le elezioni del 1953, sem­brava destinata a scomparire dalla scena politica italiana (pp. 59-61): un’ipotesi smentita ben presto dalla realtà.

Gilberto Bolliger

I cattolici italiani e la guerra di Spagna. Studi e ricerche, a cura di Giorgio Campanini, prefa­zione di Gabriele De Rosa, Bre­scia, Morcelliana, 1987, pp. 238, lire 20.000.

Nel panorama non partico­larmente nutrito degli studi sul­la chiesa e i cattolici di fronte alla guerra civile spagnola, la raccolta di saggi curata da Giorgio Campanini ha anzitut­to il merito di individuare una lacuna e di porsi l’obiettivo d’i­niziare a recuperare il ritardo.

I saggi vertono sulla condot­ta delle principali riviste e dei più diffusi quotidiani cattolici italiani durante la guerra di

Spagna, su Pio XI, nonché sul­l’atteggiamento di alcune per­sonalità cattoliche di primissi­mo piano quali De Gasperi e Gonella, che seguono le vicende spagnole dal privilegiato osser­vatorio vaticano, e Luigi Sturzo che le valuta da quello londi­nese.

Indicando nell’Introduzione come “luogo comune” storio­grafico il presunto monolitismo del mondo cattolico italiano di fronte alle vicende spagnole, Campanini ricorda “che si regi­stra qui una convergenza, ma non sempre una coincidenza, fra la linea dell’episcopato, del clero e della stampa cattolica italiani e quella della S. Sede” (p. 13). A riprova porta gli en­tusiasmi filofranchisti di larga parte delle testate prese in esa­me rispetto alla più prudente posizione ufficiale del Vatica­no, la crisi strisciante all’inter­no della redazione di “Fronte­spizio”, le letture politiche della tragedia spagnola che fanno De Gasperi e Gonella in contrasto con le diffuse interpretazioni in chiave religiosa, l’esplicito dis­senso del futuro leader dei cri­stiano-sociali Gerardo Bruni, degli allora giovanissimi cattoli­ci-comunisti e di don Primo Mazzolari (di cui è proposto un interessante inedito). Elementi tutti che, nonostante la questio­ne dei vergognosi silenzi sulle atrocità commesse dagli insorti (ivi compreso il bombardamen­to di Guernica), solo in parte giustificati dalla mancanza di informazioni di prima mano, rivelano la presenza a volte di significative differenze nelle va­lutazioni, altre volte di non me­no interessanti sfumature.

Seguono gli studi di Egidio Walter Crivellin su Pio XI, pre­

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valentemente condotto sulla scia dei lavori spagnoli di Anto­nio Marquina Barrio e soprat­tutto di Hilari Raguer i Suner; di Aldo Albonico sul cattolicesi­mo ambrosiano e le differenti li­nee rappresentate da Gemelli, dalle riviste dell’Università del Sacro Cuore e da “L’Italia” e “La Scuola cattolica”; di Leo Lestingi su “La Civiltà Cattoli­ca” ; di Mario Tesini sul bolo­gnese “L’Avvenire d ’Italia” ; di Gabriele Laterza su “L’Eco di Bergamo”; dello stesso Campa­nini su Sturzo e, infine, la de­scrizione ad opera di Luis Este- ban de Llera, dei documenti di Tommaso Gallarati-Scotti, am­basciatore a Madrid nel 1945- 46, conservati presso la Biblio­teca Ambrosiana di Milano.

Pur con qualche disomoge­neità nel livello d ’approfondi­mento (non sempre le fonti ri­sultano adeguatamente ‘spre­mute’) complessivamente consi­derati i saggi offrono una pano­ramica sufficientemente com­pleta e documentano il brusco mutamento d ’indirizzo sui fatti spagnoli in ottemperanza ad evidenti direttive provenienti dall’alto (è questo il caso de “L’Italia” e de “L’Avvenire d ’I­talia”), il successivo generale al­lineamento alla ‘crociata’, il plauso per l’intervento italiano, il sostegno alla lettera collettiva dell’episcopato spagnolo del 1937, i colpevoli silenzi di cui si è detto.

Qualche considerazione a parte merita lo studio di Cam­panini sulla posizione del fon­datore del Ppi, ricostruita attra­verso i numerosi e lucidi articoli del periodo. Conoscitore della realtà iberica con la quale è sta­to ed è in contatto, il sacerdote di Caltagirone svolge dall’esilio

londinese una costante opera di chiarificazione intellettuale e di sostegno politico alle iniziative del Comitato per la pace civile e religiosa in Spagna di cui fa par­te. In particolare mostra l’ille­gittimità dell’ alzamiento dal punto di vista cattolico, coglie e sottolinea a più riprese le radici politiche del conflitto del quale l’aspetto religioso non sarebbe che un riflesso, si batte affinché la chiesa assuma una posizione non di parte e compia proficua opera di pacificazione. Una po­sizione, com’è dato vedere e co­me Campanini rileva, che solo apparentemente avvicina Sturzo a De Gasperi e Gonella sulla ba­se della lettura in chiave politica degli avvenimenti spagnoli, ma che in realtà è premessa nel pri­mo caso ad una netta denuncia del movimiento eversivo nazio­nalista e ad una collocazione imparziale, mentre nel secondo si affaccia attraverso la teoria del “male minore” una finale propensione per la Spagna di Franco (p. 15).

Una serie di spunti stimolanti deriva in conclusione dalla let­tura dei saggi che sollecitano la ricerca ad ulteriori approfondi­menti sia nella direzione dei bol­lettini parrocchiali e diocesani, della pastorale, della predica­zione e della pietà popolare, sia in quella della condotta dei ver­tici ecclesiastici.

Allo stato degli studi la cor­retta individuazione di diffor­mità e sfumature nel seno del cattolicesimo italiano, non sol­leva i vertici della chiesa dalla responsabilità di un contegno sostanzialmente unilaterale. Cer­to, vari segnali ne rivelano le cautele e la difformità dei toni rispetto all’intransigenza dell’e­piscopato spagnolo che, come

da tempo ha chiarito la storio­grafia spagnola sull’argomento, ebbe un ruolo decisivo nel coin­volgere la Santa Sede a sostegno della causa franchista. Ma è an­che vero, d ’altra parte, che la chiave anticomunista nella qua­le furono letti ed ingabbiati gli avvenimenti spagnoli venne ela­borata con la Divini Redempto- ris al di qua dei Pirenei e che pa­rimenti ‘romana’ fu la decisione di mettere a capo della chiesa spagnola l’intollerante Isidro Gomà y Tomàs, preferendolo al più equilibrato ed aperto al dia­logo cardinale di Tarragona, Arxiu Vidal i Barraquer.

Il porporato catalano condus­se dall’esilio un’incessante ope­ra di mediazione, di ricucitura tra cattolici baschi, catalani e Vaticano che incontrò in questa sede più resistenze che incorag­giamento. Lo dimostra la docu­mentazione del suo archivio in avanzata fase di pubblicazione, ma anche in questo caso sarà decisivo l’apporto che potrà ve­nire dalle fonti di parte vati­cana.

Alfonso Botti

Mario Tesini, Oltre la città ros­sa. L ’alternativa mancata di Dossetti a Bologna (1956-1958), Bologna, Il Mulino, 1986, pp. 275, lire 20.000.

Le elezioni amministrative del 1951 nel Comune di Bologna fu­rono vinte, sia pure per pochi voti, dai partiti della sinistra e quella città restò l’unico capo­luogo regionale con una mag­gioranza socialcomunista. Cin­que anni più tardi, nel tentativo di scalzare l’ultima e ormai miti­ca ‘cittadella rossa’ d’Italia, la Democrazia cristiana bolognese

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diede vita ad una asperrima campagna elettorale, contrap­ponendo al sindaco Giuseppe Dozza la forte personalità di Giuseppe Dossetti. Come è no­to, quest’ultimo si era allonta­nato dalla lotta politica nel 1951, quando era vicesegretario nazionale della De, e nel 1958 si ritirò definitivamente “dal mondo” , abbracciando il sacer­dozio.

Sia pure con alcuni limiti (sui quali torneremo), il volume di Mario Tesini affronta la rico­struzione del tentativo di “as­salto alla città rossa” e di quel­la campagna elettorale, senza dubbio una delle più intolleran­ti offerte a Bologna grazie al­l’impegno congiunto della De­mocrazia cristiana, della Curia (guidata dal cardinale Lercaro) e del quotidiano locale “il Re­sto del Carlino” , allora diretto da Giovanni Spadolini (che, fra l’altro, costituisce la principale fonte per il volume, unitamente all’“Avvenire d’Italia” , il quo­tidiano della Curia bolognese). Se il volume può essere utile per conoscere, sommariamente, i testi degli interventi politici svolti da Giuseppe Dossetti nel corso della campagna elettora­le, ci sembra alquanto carente per quanto concerne la rico­struzione più ampia del conte­sto politico e sociale del Bolo­gnese, oltre che per inquadrare le stesse motivazioni che indus­sero Dossetti a ritornare nell’a­gone politico che aveva tanto clamorosamente abbandonato qualche anno prima. Anche se comprendiamo i motivi politici (l’autore è attualmente consi­gliere comunale a Bologna per la De) che inducono Tesini a sostenere che la candidatura di Dossetti fu voluta e costruita

dai giovani De (pp. 22-23), non possiamo certo giustificare che venga ignorato (o nascosto) quanto proprio Dossetti ha re­centemente testimoniato: essere stato cioè non la De, ma il car­dinale Lercaro a volerlo candi­dato e a indurlo ad abbandona­re la vita di “studio e medita­zione” che aveva ormai scelto. Del resto anche Gianni Baget- Bozzo, in un suo studio del 1977 (// partito cristiano e l ’a­pertura a sinistra. La De di Fanfani e di Moro 1954-1962, Firenze, Vallecchi, 1977) aveva sottolineato come Lercaro aves­se imposto alla De bolognese quel candidato (non gradito!), di fronte alla impossibilità di trovare fra i dirigenti del parti­to bolognese una personalità adatta per contrapporsi ade­guatamente alla maggioranza socialcomunista.

L’ampio schieramento che si coagulò attorno a Dossetti nella speranza di sconfiggere la mag­gioranza Pei e Psi e che vide, accanto ai tradizionali alleati della De bolognese (Ente Delta padano, Ordine dei medici, As­sociazione dei commercianti, Camera di commercio, Credito romagnolo...), anche ‘laici’ come Giovanni Spadolini (pp. 82-83), Leo Valiani, Ugo La Malfa (p. 159) e Nicola Matteucci (pp. 199- 201), pur innalzando a livelli esa­sperati i toni dell’attacco contro l’amministrazione Dozza, non conseguì i risultati sperati. Se la Democrazia cristiana aumentò di quindicimila voti i propri suffra­gi (e di quasi il 2 per cento), il Pei crebbe di ventottomila voti (e di quasi il 5 per cento) e il partito socialista guadagnò tremila voti (inspiegabilmente Tesini assicura che ebbe “qualche cosa in me­no” , p. 181).

Ferocemente critico con i ‘laici’ che non “compresero tut­ta la complessità della sfida dossettiana” (p. 162) e con gli intellettuali che rifiutarono di schierarsi al fianco o in soste­gno di quella che comunemente veniva chiamata la lista del car­dinale Lercaro (e per primi Francesco Flora, Arturo Carlo Jemolo e l’intera redazione de “Il Mulino” , pp. 149-153) — ma è lo stesso Tesini a definire “retrospettiva e nostalgica” l’impostazione del programma elettorale di Dossetti (p. 125) — l’autore traccia un ritratto del tutto improbabile di Bologna, “infeudata” ai comunisti: una città “plumbea”, “arterioscle- rotica”, con una “cultura im­miserita”, soggetta ad un “im­mobilismo conservatore” (pp. 115-116, 121, 144), una città in cui la gente correva “follemente a sbattezzarsi” (p. 184), secon­do le parole che Lercaro pro­nunciò in piazza Maggiore quando conobbe i risultati elet­torali.

A parte alcuni errori (fra questi non possiamo tacere di un fantomatico ottavo congres­so dellTnternazionale comuni­sta, p. 15, e dimenticanze, ad esempio la suddivisione ammi­nistrativa in quartieri per Bolo­gna viene attribuita a Dossetti, mentre il Psi la aveva già realiz­zata alla fine degli anni dieci, come ha documentato più volte Nazario S. Onofri), il libro ci sembra soprattutto risentire della mancanza di una qualche meditata riflessione e di quello che potremmo chiamare un cer­to ‘distacco’ storico.

Il personaggio Dossetti che ne esce sembra il ritratto del­l’asceta che nel 1986 ricevet­te dalle mani del sindaco di

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Bologna VArchiginnasio d ’oro, massimo riconoscimento che quella amministrazione con ce­de ai suoi più illustri citta­dini.

Nelle pagine di Tesini non ri­conosciamo assolutamente quel Dossetti intollerante e aggres­sivo, dogmatico e integralista che nel 1956 rifiutò di unirsi al minuto di raccoglimento per le vittime di Budapest che era stato chiesto da tutti i Grup­pi del Consiglio comunale di Bologna: il ‘suo’ cordoglio per i caduti dell’Ungheria doveva es­sere ‘diverso’ da quello espresso da tutti gli altri partiti.

Luciano Casali

P ietro Scoppola, La “nuova cristianità” perduta, Roma, Studium, 1985, pp. 209, lire14.000.

Questo scritto, il cui nucleo è costituito dalla relazione svolta da Scoppola nell’ambito del convegno promosso dalla Fon­dazione Rizzoli su “Intellettuali e società di massa dal 1945 ad oggi” tenutosi a Venezia nel 1980, non sembra aver ricevuto particolare attenzione, in parte certamente per la sua struttura atipica, in sede di critica storica. In esso comunque non vengono introdotte particolari novità né dal punto di vista documentario né da quello interpretativo, poi­ché l’autore si limita in sostanza ad una sistematizzazione ‘moti­vata’ delle tesi già esposte nelle precedenti opere sul cattolicesi­mo politico in Italia, avvalendo­si altresì di una ampia utilizza­zione critica dei principali con­tributi più o meno recenti alla storia della chiesa e del movi­

mento cattolico in Italia (ad esempio quelli di Antonio Acer­bi, Renato Moro, Andrea Ric­cardi, Giacomo Martina, Gio­vanni Miccoli, Sandro Magi- ster, Agostino Giovagnoli, Ro­berto Sani, Ennio Di Nolfo, Gianfranco Poggi, Alfonso Prandi, Gianni Baget-Bozzo). L’analisi di Scoppola muove dalla constatazione che l’ideale maritainiano della “nuova cri­stianità” descritto in Umanesi­mo integrale (Roma, Boria, 1980) come “un regime tempo­rale o un’età di civiltà la cui for­ma ispiratrice sarebbe cristiana e risponderebbe al clima storico dei tempi nei quali entriamo” (p. 11) — inteso, pur variamen­te interpretato, come base es­senziale della mobilitazione cat­tolica nel dopoguerra che trova espressione in progetti diversi di “(ri)costruzione della cristiani­tà” — non si è realizzato e si de­ve ormai considerare definitiva­mente “perduto” . Il progetto di Pio XI e poi di Pio XII della re­staurazione di un ordine cristia­no posto in crisi dalla Riforma e dal liberalismo — ma più am­piamente, secondo Scoppola, la stessa ipotesi di una cristianità da costruire, che presuppone la possibilità della predetermina­zione di un modello di società cristiano — sono entrati in crisi nonostante la posizione di forza della chiesa e l’egemonia cattoli­ca fossero consolidate, nell’im­mediato dopoguerra, da un re­gime di “doppia garanzia” (con­cordataria e politica). L’affer­mazione del partito cattolico nel 1948, infatti, non ha segnato l’i­nizio di una rinascita della cri­stianità, ma di un processo di secolarizzazione del paese nel quadro di un fenomeno di “ete­rogenesi dei fini” : “quelle ener­

gie cattoliche che si erano poste in movimento per la costruzio­ne di una cristianità nuova, che si collocasse oltre la contrappo­sizione storica tra capitalismo e comunismo, di fatto hanno agi­to in una diversa direzione: so­no servite a creare le condizioni di una nuova fase di compro­messo fra capitalismo e demo­crazia e hanno reso perciò pos­sibile quello sviluppo industria­le che il paese ha registrato” (p. 19). Ma “mentre i cattolici si scontravano sulle piazze con la presenza comunista, considera­ta il pericolo maggiore per la fe­de degli italiani, o contestavano nello stato i residui spazi del lai­cismo risorgimentale, il nemico vero è venuto alle spalle, silen­zioso e a lungo inavvertito, nel­le forme di società consumisti­ca, destinata a corrodere in profondità, senza scontri cla­morosi, ma per questo con maggiore efficacia, la fede del popolo italiano” (p. 20). “La speranza di una nuova cristiani­tà — conclude Scoppola — non è stata distrutta da ideologie opposte ma si è dissolta sotto la pressione dei meccanismi spon­tanei della società industriale” (P- 21).

Entro questo quadro inter­pretativo l’autore procede ad una ricostruzione storica — a grandi linee — dell’evoluzione della cultura e della presenza or­ganizzata politica ed istituziona­le dei cattolici nell’Italia del se­condo dopoguerra che privilegia come termine di riferimento i processi di sviluppo economico e sociale ed i mutamenti cultura­li e di costume determinatisi in Italia nella transizione verso un modello di società consumistica e industriale — e poi postindu­striale — di massa. L’attenzione

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viene quindi posta principal­mente sui processi di indu­strializzazione e secolarizza­zione e sulle loro conseguen­ze; questa ricerca è stata pro­seguita da Scoppola nel sag­gio Chiesa e società negli an­ni della modernizzazione con­tenuto nel volume a cura di A. Riccardi Le chiese di Pio X II (Roma-Bari, Laterza, 1986).

L’analisi della vicenda del cattolicesimo italiano nel secon­do dopoguerra — che si estende dalla “successione” cattolica al fascismo (cap. 1), attraverso le epoche successive della mobili­tazione anticomunista e del “monolitismo cattolico” (cap.2) , dell’industrializzazione del paese e del centrosinistra (cap.3) , del “disgelo conciliare” e della contestazione (cap. 4), fi­no ai referendum sul divorzio e sull’aborto — prelude, infine, ad una riflessione sulle condi­zioni di una nuova presenza dei cattolici nella società postindu­striale.

La coscienza e la compren­sione della realtà del processo di secolarizzazione, di una pre­senza cristiana ormai minorita­ria nella società civile, della cri­si dell’ideale di una “nuova cri­stianità” sono presupposti im­prescindibili per l’assunzione di nuove responsabilità e la defini­zione di nuovi “comportamen­ti” da parte dei cattolici. Il di­scorso di Scoppola si struttura in questa fa se come “testimo­nianza, libera riflessione e pro­posta” (p. 7), investendo i prin­cipali “problemi della presenza cristiana” nella società attuale (dal rapporto chiesa-stato al “partito cristiano”) ed affer­mando con forza la necessità di una rinnovata visione “non-ideo-

logica”, da parte dei cattolici, della realtà industriale, ispirata da una “nuova spiritualità, capace di vivere conflittual­mente la doppia fedeltà al mes­saggio cristiano e alle cose” (p. 207).

La stretta connessione fun­zionale tra ricerca e analisi sto­rica, da un lato, riflessione per­sonale e scelte progettuali con­seguenti, dall’altro, distingue questo lavoro — come ammette lo stesso autore — da uno stu­dio storico. Il contributo di Scoppola, per questa sua carat­teristica, appare in certa misura ‘ad uso interno’ della cultura cattolica, benché una visione fortemente negativa del proces­so di modernizzazione e della secolarizzazione della società italiana — interpretata come “estranea [...] ad ogni mondo di valori” (p. 142) ed adducente ad un “vuoto etico” — induca l’autore ad osservare che la cri­si di un modello di cristianità non è fatto che possa lasciare indifferente la cultura laica, an- ch’essa “sconfitta” dalla massi­ficazione e dal conformismo di­laganti.

Non sembra dubbio, in ogni caso, che tanto la lettura inter­pretativa di quella crisi — fon­data sulla ipotesi esplicativa della “eterogenesi dei fini” —, quanto la trattazione analiti­ca delle sue diverse fasi stori­che proposte da Scoppola pos­sano suggerire esse stesse alla cultura laica numerosi spunti critici.

Marco Barbanti

Cristiani in politica, a cura di Bartolo Ganglio, Milano, Angeli, 1987, pp. 210, lire20.000.

Esaminare significato e pro­spettive di una proposta politi­ca correlata ad una dottrina re­ligiosa rappresenta ancora oggi un percorso di ricerca aperto e dibattuto. Si direbbe anzi che proprio l’epoca dei rapidi pro­cessi di industrializzazione e se­colarizzazione abbia riproposto in termini urgenti il problema dell’attualità ed efficacia di ideali e movimenti di ispirazio­ne cristiana. In particolare l’ac­quisizione di una specifica di­mensione programmatica del movimento cattolico ha suscita­to vivace attenzione anche nella recente storiografia italiana ed europea. Per rimanere nel pa­norama italiano basterà ricor­dare i recenti studi di Gabriella Fanello Marcucci, Alle origini della democrazia cristiana 1929-1944. Dal carteggio Spata- ro-De Gasperi, Brescia, Mor­celliana, 1982 e Documenti pro­grammatici dei democratici cri­stiani (1899-1943), Roma, Cin­que Lune, 1983, accanto alle opere di Mario G. Rossi, Da Sturzo a De Gasperi. Profilo storico del cattolicesimo politi­co del Novecento, Roma, Edi­tori Riuniti, 1985 e di Giorgio Vecchio, Alla ricerca del parti­to. Cultura politica ed esperien­ze dei cattolici italiani nel pri­mo Novecento, Brescia, Mor­celliana, 1987.

Su questi temi si erano con­frontati studiosi italiani e stra­nieri in un convegno internazio­nale organizzato a Torino alla fine del 1985 dal Centro studi Carlo Trabucco. Di quelle gior­nate di studio sono stati ora pubblicati gli atti che permetto­no una organica rilettura dei contributi allora offerti.

L’analisi prende le mosse dall’elaborazione programmati­

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ca del primo movimento demo­cratico cristiano negli anni a ca­vallo tra Ottocento e Novecen­to, sul quale indaga Alessandro Zussini. L’attenzione è concen­trata soprattutto sul Program­ma di Torino del 1899 e sui suoi autori, Valente e Invrea, senza trascurare peraltro i vivaci di­battiti fra le diverse tendenze e specialmente tra i cattolici tori­nesi da un lato, Murri e il suo Programma massimo e minimo del 1901 dall’altro. Sullo sfondo il comune tentativo di superare una prospettiva fondamental­mente religiosa nel quadro delle più generali vicende legate alla crisi politica italiana di fine se­colo.

L’elaborazione programmati­ca del movimento cattolico tro­va il suo primo sbocco politico nel Partito popolare. Su questo aspetto l’analisi di Giorgio Vec­chio appare particolarmente ap­profondita e stimolante. Ricor­dati i precedenti del programma del 1919, Vecchio analizza det­tagliatamente i dodici punti del­lo stesso, ponendone in risalto il carattere composito e gli ele­menti di continuità e novità. Di­scute quindi alcuni dati storio­grafici, da un lato ribadendo nettamente la continuità tra Ppi, prima democrazia cristia­na, l’esperienza dei cattolici de­putati e più in generale la pre­senza cattolica in età giolittiana; dall’altro soffermandosi oppor­tunamente sul rapporto tra il popolarismo, inteso come l’ori­ginale progetto politico di Stur- zo, e il Ppi, che tale progetto non riuscì a rendere compiuto.

Altri gruppi e movimenti, benché di minor peso politico o privi di occasioni per misurare la loro consistenza elettorale, hanno contribuito ad elaborare

all’interno del movimento cat­tolico proposte, indicazioni, li­nee programmatiche. È il caso in particolare della sinistra cri­stiana e dei cristiano-sociali, esperienze prese in esame rispet­tivamente da Francesco Malgeri e Antonio Parisella. Seguendo la parabola di questi gruppi, pe­raltro dettagliatamente illustra­ta dai due studiosi in precedenti saggi, entrambi gli interventi fa­voriscono un opportuno riesa­me dell’apporto di questi movi­menti minori al vivace dibattito ideologico e politico sviluppato­si specialmente negli anni trenta e nell’immediato dopoguerra.

Giorgio Campanini delinea la formulazione dei programmi della Democrazia cristiana. Sul­la base di una puntuale ricogni­zione dei testi fondamentali prodotti negli anni 1942-1947, Campanini analizza in primo luogo le diverse sorgenti della cultura politica democratico cri­stiana che sta alla base dei vari programmi. Vi si ritrovano, va­riamente intrecciati, i richiami a Sturzo e al cattolicesimo sociale italiano, alla tradizione giuridi- co-istituzionalistica, al magiste­ro di Pio XII e degli intellettuali in qualche modo collegati con l’Azione cattolica, al personali­smo francese. Dei diversi pro­grammi, raggruppati in tre mo­menti (crisi del regime fascista, periodo resistenziale, anni della Costituente), Campanini evi­denzia successivamente gli ele­menti di differenziazione, per discutere soprattutto il rapporto di continuità e discontinuità con la precedente cultura del movi­mento cattolico e in particolare quella del popolarismo, ponen­do in risalto, al di là delle evi­denti numerose convergenze, al­cuni aspetti di novità.

Contribuiscono infine ad ar­ricchire la problematica affron­tata nel volume i due saggi di Winfried Becker e Jean-Marie Mayeur, dedicati rispettivamen­te all’area tedesca ( /programmi dei movimenti cattolici demo­cratici tedeschi del ’900) e fran­cese (Les programmes des mou- vements politiques d ’inspiration démocrate chrétienne en France au XXème siècle). Emerge un affresco di ampie dimensioni, di variegate tendenze, che illustra situazioni diversificate dell’area europea, connotate però da pro­cessi di forte secolarizzazione. Le riflessioni dei due storici aiu­tano a ripercorrere, l’una, la ca­tastrofe tedesca del ventesimo secolo, che “si compie in piena opposizione rispetto al mondo spirituale che anima il cattolice­simo politico” , ma che questo non ha potuto accantonare (p. 123); l’altra, la specificità dei gruppi democratici cristiani d ’oltralpe: l’attenzione ai pro­blemi delle istituzioni e l’obbli­go di inserirsi in una struttura marcatamente bipolare delle forze politiche (p. 134).

Il contributo di Francesco Traniello che introduce il volu­me sottolinea l’importanza del riferimento programmatico nel­la storia del movimento cattoli­co; esso appare come “un mo­mento forte di autocoscienza e un fattore rilevante di identifi­cazione, in termini politico-pra­tici ma anche teorici” . Di qui deriva anche una visione desa­cralizzante della politica, che ha favorito la distinzione tra iden­tità religiosa e identità politica e che ha consentito ai movimenti cattolici “di inserirsi a pieno ti­tolo nel contesto delle democra­zie pluraliste” . Ancora una vol­ta emerge in questa prospettiva

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l’apporto di Luigi Sturzo. Nel leader del Ppi infatti “il mo­mento programmatico assume­va tutta la sua rilevanza come necessario punto d’incontro e di mediazione tra teoria e pras­si, tra apparato ideale e obietti­vi politicamente determinati” (pp. 11-13).

Dall’insieme dei contributi del volume, curato da Bartolo Gariglio e che inaugura la col­lana del Centro studi Carlo Trabucco di Torino, si possono ricavare non solo dati ed ele­menti finalizzati ad una rico­struzione storica in buona parte già conosciuta anche se per cer­ti aspetti arricchita, ma soprat­tutto un valido contributo per riproporre interrogativi stimo­lanti sulle regole della demo­crazia moderna, sulla visione del potere in termini non sacra­li, sul nesso tra democrazia e secolarizzazione.

E. Walter Crivellin

Cattolici, guerra e Resistenza in Piemonte. Le fon ti e gli archi­vi, a cura di Riccardo Marchis, Torino, Angeli, 1987, pp. 196, lire 11.000 (Istituto storico del­la resistenza in Piemonte).

La collana “Archivi”, pro­mossa dall’Assessorato alla cul­tura della regione Piemonte, è aperta da una serie di quaderni dedicati alle fonti per la storia della guerra e della lotta di libe­razione curati dall’Istituto sto­rico della resistenza in Piemon­te. Il primo quaderno, a cura di Riccardo Marchis, raccoglie gli atti di una giornata di studio svoltasi a Torino l’l l marzo 1986, su fonti e archivi catto­lici.

Il seminario, cui partecipa­rono anche numerosi archivisti e il vicario episcopale di Tori­no, monsignor Franco Peradot­to, mise in luce una serie di problemi relativi alle fonti “cat­toliche” . Dalla questione, solo apparentemente semplice, di definizione e individuazione di una tipologia (intervento di Francesco Traniello), alla pro­posta di avvio di una catalo­gazione a partire dalle fonti “ecclesiastiche” (Maurilio Gua­sco).

Gli altri contributi pubblicati si muovono su più piani: rifles­sioni di carattere metodologico (Bartolo Gariglio), presentazio­ne di ipotesi di lavoro o di studi già compiuti.

Fra questi la breve indagine dello stesso Marchis su Le rela­zioni dei parroci della diocesi di Acqui sulla guerra e la resisten­za, in risposta all’iniziativa di raccolta di informazioni e do­cumentazione assunta nel 1945 dalla direzione generale dell’A­zione cattolica. Molto più det­tagliato il lavoro di Giuseppe Griseri, Fascismo e resistenza nelle fon ti cattoliche monrega- lesi, che può costituire un esem­pio per studi futuri di altre real­tà locali. Nel suo complesso il volume costituisce, se non una vera e propria guida, ancora evidentemente da fare, uno strumento utile per orientare i ricercatori nel vasto campo del­le fonti cattoliche, anche al di là del periodo della guerra. Inoltre, attraverso le note bi­bliografiche che completano i saggi, è possibile ricostruire un panorama, per quanto non esaustivo, degli studi già pub­blicati a livello regionale.

Paola Bresso

Libri ricevuti

Aa.Vv., Gli archivi per la storia contemporanea. Organizzazione e fruizione, Roma, Istituto poligrafi­co dello Stato, 1986, pp. 322, sip.

Aa.Vv., Concordato 1984: premes­se e prospettive. Atti del convegno di Arezzo, gennaio 1985, Arezzo, Quattroventi, 1985, pp. 232, lire20 . 000 .

Aa.Vv., Idee e stile per la grande Cuneo. Mostra documentaria, Bo- ves, Artigrafiche Coralli, 1987, pp. 140, sip.

Giuseppe Alberigo (a cura di), Pa­pa Giovanni, Roma-Bari, Laterza, 1987, pp. 284, lire 32.000.

Salvatore Aldisio, Scritti, discorsi e interviste, Caltanissetta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 362, lire18.000.

Jean Améry, Intellettuale ad A u­schwitz, Torino, Bollati Boringhie- ri, 1987, pp. 162, lire 22.000.

Marianna Amico Roxas, Lettere a Giulia Vismara e altri, Caltanisset­ta, Edizioni del Seminario, 1987, pp. 395, lire 22.000.

Giuseppe Andriani, La Repubblica del Sud. Vincenzo Calace, Bisce- glie, Edizioni Carmastro, 1987, pp. 194, lire 20.000.

Angelo Ara, Austria e Italia. Dalle cinque giornate alla questione al­to-atesina, Udine, Del Bianco, 1987, pp. 345, lire 25.000.

Giovanni Artieri, Quarant'anni di repubblica, Milano, Mondadori, 1987, pp. 702, lire 35.000.

Corrado Barberis, Aristide Merlo­ni. Storia di un uomo e di un ’indu­stria in montagna, Bologna, Il Mu­lino, 1987, pp. 216, lire 20.000.

Vinicio Bernardi (a cura di), TV. 7 - Fondo Giovanni Dozio, Varese, La

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Tipografica, 1987, pp. 92, sip (Qua­derni dell’Archivio storico Cgil Va- rese-Busto Arsizio).

Klaus von Beyme, Ipartiti nelle de­mocrazie occidentali, Bologna, Za­nichelli, 1987, pp. 392, lire 24.000.

Alberto Bianchini, Giampaolo Feli- gioni, Paola Peconi, Paolo Sorci- nelli, Paolo Giovannini, Anna Ma­ria Tucci, Carlo Paladini, Paolo Giannotti, Serafino Giulietti, Lavo­ro, criminalità, alienazione menta­le. Ricerche sulle Marche tra Otto e Novecento, Ancona, II Lavoro edi­toriale, 1987, pp. 188, lire 30.000.

Luigi Bontà, La pietà e lo spazio. Cappelle ed edicolette nell’abitato e nelle campagne di San Cataldo, Caltanissetta, Edizioni del Semina­rio, 1987, pp. 148, lire 20.000.

Luigi Bontà, La religione e il paese. Edicole divote a Campofranco, Caltanissetta, Edizioni del Semina­rio, 1987, pp. 84, lire 10.000.

Donato Bosca, ...io parto per la Merica. Storie di emigranti piemon­tesi, Cuneo, L’Arciere, 1987 (1985), pp. 196, lire 20.000.

Bruno Bottiglieri, Stet. Strategie e struttura delle telecomunicazioni, Milano, Angeli, 1987, pp. 465, lire50.000.

Karl Dietrich Bracher, Andreas Hillgruber, Wolfgang J. Momm- sen, Ernst Schulin, Hartmut Ull- rich, Gilbert Ziebura, La storia del­le relazioni internazionali nella Ger­mania contemporanea, a cura di Silvia Pizzetti, Milano, Jaca Book, 1987, pp. 220, lire 21.000.

Vittore Branca, Ponte Santa Trini­tà. Per amore di libertà, per amore di verità, Venezia, Marsilio, 1987, pp. 200, lire 22.000.

Gian Piero Brunetta, Federico Ce- reja, Guido Crainz, Giovanni De Luna, Enzo Forcella, Nicola Gal-

lerano, Ansano Giannarelli, Paolo Gobetti, Pierre Sorlin, Cinema sto­ria resistenza 1944-1985, Milano, Angeli, 1987, pp. 165, lire 15.000 (Istituto storico della resistenza in valle d’Aosta).

Mario Caciagli e Piergiorgio Cor- betta (a cura di), Elezioni regionali e sistema politico nazionale, Bolo­gna, Il Mulino, 1987, pp. 235, lire25.000.

Giorgio Campanini (a cura di), I cattolici italiani e la guerra di Spa­gna, Brescia, Morcelliana, 1987, pp. 238, lire 20.000.

Valerio Castronovo, “La Stampa” 1867-1925. Un’idea di democrazia liberale, Milano, Angeli, 1987, pp. 332, lire 30.000.

Centro di documentazione ricerca ed iniziativa delle donne, Intorno al rosa, Verona, Essedue, 1987, pp. 155, lire 24.000.

Jean Charbonnel, Edmond Miche­let, Paris, Beauchesne, 1987, pp. 294, 120 franchi (Politiques & Chrétiens).

Gloria Chianese, Sindacato e Mez­zogiorno: le Camere del Lavoro di Napoli nel dopoguerra (1943-1947), Napoli, Guida, 1987, pp. 245, lire22. 000 .

Amedeo Cignitti-Paolo Momiglia­no Levi, “77 racconterò tutto per­ché con la penna non posso spiegar­m i...”, Aosta, Musumeci, 1987, pp. 316, lire 22.000.

Umberto Corsini e Rudolf Lill (a cura di), Istituzioni e ideologie in Italia e in Germania tra le rivoluzio­ni, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 354, lire 34.000.

Giovanna Dal Poggetto, L ’ultimo giolittiano al Viminale. Paolo Tad- dei nel governo Facta, Firenze, Le Monnier, 1987, pp. 58, lire 10.000.

Enrico Deeleva, L ’incerto alleato. Ricerca sugli orientamenti interna­zionali dell’Italia unita, Milano, Angeli, 1987, pp. 332, lire 28.000.

Renzo De Felice e Pietro Gibellini (a cura di), D ’Annunzio politico, Atti del convegno, Il Vittoriale, 9- 10 ottobre 1985, “Quaderni dan­nunziani” , n. 1-2, 1987.

Andrea de Guttry-Natalino Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato tra Italia e Austria, Milano, Giuffrè, 1987, pp. 408, lire 30.000.

Franco Della Peruta, Milano lavoro e fabbrica 1815-1915, Milano, An­geli, 1987, pp. 208, lire 23.000.

G. Laura Di Leo-Massimo Lo Cur­zio (a cura di), Messina, una città ricostruita. Materiali per io studio di una realtà urbana, Bari, Dedalo, 1985, pp. 172, lire 30.000.

Jean-Baptiste Duroselle (a cura di), Enjeux et puissances. Pour une hi- stoire des relations internationales au X X e siede, Paris, Publications de la Sorbonne, 1986, pp. 412, sip.

Luigi Einaudi, La guerra e l’unità europea, Bologna, Il Mulino, 1987, pp. 170, lire 15.000.

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Rassegna bibliografica 189

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190 Rassegna bibliografica

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Bartolomeo Vanzetti, Una vita pro­letaria, Salerno, Galzerano, 1987, pp. 78, lire 9.000.

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