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193 SAGGI RAPPRESENTANZA E GOVERNO, FRA RIFORME ELETTORALI (PARTIGIANE), PARTITI POLITICI (SREGOLATI) E GOVERNI (DEBOLI) di Silvio Gambino POLITICA DEL DIRITTO / a. XXXIX, n. 2, giugno 2008 Sommario: 1. Premesse. - 2. La difficile riforma della «Costituzione materiale»: il superamento della democrazia bloccata e l’alternanza al Governo come obiettivi delle riforme elettorali dei primi anni ’90. - 3. Partiti politici e forma di Governo: le peculiarità italiane del ParteienStaat. - 4. Riforme elettorali e modelli di democrazia. - 5. La legge n. 270/2005: una riforma elettorale «partitocratica». - 6. Le incerte prospettive del dibattito in corso sulla riforma elettorale e sui modelli di riferimento. 1. Premesse L’angolo di osservazione più adeguato per affrontare tale complessa tematica pare quello della stretta interazione tra sistema politico e sistema istituzionale-costituzionale. Non tra- scurando, naturalmente, come intervengano, a questo livello d’intreccio politico-costituzionale, ulteriori e fondamentali variabili di analisi come quelle culturali, quelle poste dalla continuità storico-istituzionale e, non ultime, quelle economiche, nel loro costituire al contempo evidenziamento e momento di accelerazione del processo di crisi istituzionale. Più precisamente, si vuole osservare, in premessa, che le forme di Governo contempora- nee non risultano validamente analizzabili in modo disancorato dall’analisi delle forme di Stato. In tale raccordo, infatti, esse assicurano la partecipazione dei cittadini, mediante i partiti politici, alla formazione della volontà dello Stato secondo mo- dalità che non risultano limitate alla mera espressione del voto, ma che sono tali da influenzare in modo significativo lo stesso assetto costituzionalizzato dei poteri. Solo uno sforzo analitico che parta da queste premesse appare idoneo a depurare gli elementi contingenti presenti nel dibattito in corso, alla ricerca

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SAGGI

RAPPRESENTANZA E GOVERNO, FRA RIFORME ELETTORALI (PARTIGIANE), PARTITI POLITICI (SREGOLATI) E GOVERNI (DEBOLI)

di Silvio Gambino

POLITICA DEL DIRITTO / a. XXXIX, n. 2, giugno 2008

Sommario: 1. Premesse. - 2. La difficile riforma della «Costituzione materiale»: il superamento della democrazia bloccata e l’alternanza al Governo come obiettivi delle riforme elettorali dei primi anni ’90. - 3. Partiti politici e forma di Governo: le peculiarità italiane del ParteienStaat. - 4. Riforme elettorali e modelli di democrazia. - 5. La legge n. 270/2005: una riforma elettorale «partitocratica». - 6. Le incerte prospettive del dibattito in corso sulla riforma elettorale e sui modelli di riferimento.

1. Premesse

L’angolo di osservazione più adeguato per affrontare tale complessa tematica pare quello della stretta interazione tra sistema politico e sistema istituzionale-costituzionale. Non tra-scurando, naturalmente, come intervengano, a questo livello d’intreccio politico-costituzionale, ulteriori e fondamentali variabili di analisi come quelle culturali, quelle poste dalla continuità storico-istituzionale e, non ultime, quelle economiche, nel loro costituire al contempo evidenziamento e momento di accelerazione del processo di crisi istituzionale. Più precisamente, si vuole osservare, in premessa, che le forme di Governo contempora-nee non risultano validamente analizzabili in modo disancorato dall’analisi delle forme di Stato. In tale raccordo, infatti, esse assicurano la partecipazione dei cittadini, mediante i partiti politici, alla formazione della volontà dello Stato secondo mo-dalità che non risultano limitate alla mera espressione del voto, ma che sono tali da influenzare in modo significativo lo stesso assetto costituzionalizzato dei poteri. Solo uno sforzo analitico che parta da queste premesse appare idoneo a depurare gli elementi contingenti presenti nel dibattito in corso, alla ricerca

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delle più profonde ragioni delle disfunzioni presenti in Italia sia nella forma di Stato che in quella di Governo1.

1 Per una bibliografia essenziale in materia cfr. almeno: A. Barbera, C. Fusaro, Il governo delle democrazie, Bologna, 1997; E. Bettinelli, All’origine della democrazia dei partiti, Milano, 1982; Id., All’origine della democrazia dei partiti, Milano, 1982; R.L. Blanco Valdés, Crisi del modello di partito di massa e razionalizzazione della forma di Governo, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Democrazia e forme di governo, Rimini, 1997; N. Bobbio, La teoria delle forme di governo nella storia del pensiero politico, Torino, 1976; Id., Stato, governo, società, Torino, 1989; S. Bonfiglio, Forme di governo e partiti politici, Milano, 1993; M. Calise (a cura di), Come cambiano i partiti, Bologna, 1992; Id., Il Governo di partito in prospettiva costituzionale, in ivi; S. Ceccanti, La forma di governo parlamentare in trasformazione, Bologna, 1997; E. Cheli, Intorno al problema della regolazione dei partiti politici, in Studi senesi, 1, 1958; P. Ciarlo, Partiti in trasformazione e revisione costituzionale, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Democrazia e forme di governo, cit.; J.M. Colomer, La politica in Europa, Bari, 1995; V. Crisafulli, I partiti nella costituzione italiana, in Studi per il XX anniversario dell’Ass. Cost., II, Firenze, 1969; M. Dogliani, Spunti metodologici per un’indagine sulle forme di Governo, in Giur. cost., 1973; L. Elia, voce «Governo (forme di)», in Enc. del dir., XIX, Milano, 1970; C. Esposito, I partiti politici nella Costituzione italiana, in Id., La Costituzione italiana, Padova, 1954; M. Duverger, I partiti politici, Milano, 1970; S. Fabbrini, S. Vassallo, Il Governo. Gli esecutivi nelle democrazie contemporanee, Roma-Bari, 1999; S. Fabbrini, Le regole della democrazia, Bari, 1997; Id., Quale democrazia. L’Italia e gli altri, Bari, 1994; P. Farneti, Il sistema dei partiti dalla Costituzione ad oggi, in AA.VV., Attualità e attuazione della Costituzione, Bari, 1979; G. Ferrara, Alcune osservazioni su popolo, stato e sovranità nella costituzione, in Rass. di dir. pub., 1969; Id., Il governo di coalizione, Milano, 1973; T.E. Frosini, Il Premierato nei governi parlamentari, Torino, 2004; G. Galli, Il bipartitismo imperfetto, Bologna, 1966; S. Gambino, Partiti politici e forma di governo, Napoli 1977; Id., G. Moschella, Regole elettorali, sistema politico e forma di Governo: il caso italiano, in AA.VV. (a cura di S. Gambino, G. Ruiz-Rico Ruiz), Forme di governo, sistemi elettorali, partiti politici: Spagna e Italia, Rimini, 1996; S. Gambino (a cura di), Diritto costituzionale comparato ed europeo, Milano, 2004; Id., Note su partiti politici e forme di Governo: il contributo di Leopoldo Elia al rinnovamento del metodo giuridico nella scienza costituzionale, in Scritti in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999; Id., Rappresentanza politica e Governo nelle democrazie contemporanee, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Forme di governo, cit.; G. Guarino, Lo scioglimento delle assemblee parlamentari, Napoli, V, 1948; Id., Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977; M.S. Giannini, Prefazione a G. Burdeau, Il regime parlamentare nelle costituzioni europee del dopoguerra, Milano, 1950; G. Guarino, Quale Costituzione. Saggio sulla classe politica, Milano 1980; G. Maranini, Il tiranno senza volto. Lo spirito della Costituzione e i centri occulti del potere, Milano, 1963; H. Kelsen, I fondamenti della democrazia, Bologna, 1955; A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Bologna, 1988; G. Lombardi, Modelli di Governo parlamentare razionalizzati. Riflessioni introduttive, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Democrazia e forme di governo, cit.; S. Mangiameli, La forma di governo parlamentare: evoluzione nell’esperienza di Regno Unito, Germania e Italia, Torino, 1988; G. Maranini, Miti e realtà della democrazia, Milano, 1958; T. Martines, Partiti sistema dei partiti pluralismo, in Studi parl. e di pol. cost., 1979; O. Massari, G. Pasquino, Rappre-sentare e governare, Bologna, 1994; Y. Mény, Istituzioni e politica. Le democrazie: USA, Gran Bretagna, Italia e RFT, Rimini, 1995; S. Merlini, Appunti sulle forme di governo, Torino, 1998; C. Mortati, Lezioni sulle forme di governo, Padova, 1973; G. Moschella, Alcune riflessioni in tema di rappresentanza politica e razionalizzazione della forma di Go-verno nella teoria costituzionale italiana, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Democrazia e forme di governo, cit.; G. Moschella, Forma di Governo, riforme elettorali e garanzie costituzionali in Italia, in ivi; G. Moschella, La riforma del voto segreto, Torino, 1991; Id., Rappresentanza politica e costituzionalismo, Rimini, 1999; A. Negri, Alcune riflessioni

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2. La difficile riforma della «Costituzione materiale»: il supera-mento della democrazia bloccata e l’alternanza al Governo come obiettivi delle riforme elettorali dei primi anni ’90

La legislazione elettorale e i relativi rapporti con la forma di Governo costituiscono una vexata quaestio, fin dal dibattito costi-tuente, caratterizzandosi, soprattutto a partire dagli anni ’80-’90, come oggetto di una riforma efficace (rispetto agli obiettivi attesi), anche qualora operante in una cornice costituzionale immutata. La capacità delle regole elettorali di assicurare un valido equilibrio tra le funzioni di rappresentanza e quelle di stabilità governativa, tuttavia, fu ben presto messa in questione a favore di una strategia costi-tuzionale volta ad intervenire direttamente sul livello costituzionale, riadeguando secondo formule differenziate la stessa legittimazione dell’Esecutivo e rafforzandone il relativo ruolo. Le formule (sia dottrinarie che parlamentari), come è noto, sono state molto diverse fra loro, inseguendo, nell’ultimo testo di revisione costituzionale (respinto dal corpo elettorale)2, un modello di «premierato forte», in parte secondo le soluzioni del cancellierato tedesco e in parte secondo quelle accolte nella forma di Governo israeliana, esse stesse successivamente superate (come si osserverà in seguito).

sullo «Stato dei partiti», in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 1964; G. Pasquino, Italia: un regime democratico in trasformazione, in J.M. Colomer, La politica in Europa, Bari, 1995; G. Pasquino, Capi di governo, Bologna, 2007; Id., Come eleggere il governo, Milano, 1992; Id., Crisi dei partiti e governabilità, Bologna, 1980; Id., Degenerazione dei partiti e riforme istituzionali, Bari, 1982; Id., Il sistema politico italiano, Bari, 1985; Id., Mandato popolare e governo, Bologna, 1995; S. Passigli, Riforme istituzionali e sistema politico, in Rivista italiana di scienza politica, 1984; G. Pitruzzella, Forme di governo e trasformazioni della politica, Bari, 1996; G.U. Rescigno, Potere politico e sistema dei partiti: limitare il sovrano, in Politica del diritto, 1, 1984; G. Sartori, Ingegneria costituzionale comparata, Bologna, 1995; Id., Partiti e sistemi di partito. Corso di scienza politica, Firenze, 1965; V. Tosato, Sovranità del popolo e sovranità dello Stato, Milano, 1957; P. Virga, Il partito nell’ordinamento giuridico, Milano, 1948; M. Volpi, Il presidenzialismo all’italiana ovvero dello squilibrio tra i poteri, in AA.VV. (a cura di F. Bassanini), Costituzione..., cit.; M. Volpi, Le forme di Governo contemporanee tra modelli teorici ed esperienze reali, in AA.VV. (a cura di S. Gambino), Democrazia e forme di governo, cit.; L. Basso, Il partito nell’ordinamento democratico moderno, in ISLE, Indagine sul partito politico. La regolazione legislativa, Milano, 1966.

2 Per una bibliografia (molto) essenziale sul punto cfr., almeno, AA.VV. (a cura di S. Gambino e G. D’Ignazio), La revisione costituzionale e i suoi limiti, Milano, 2007; AA.VV. (a cura di F. Bassanini), Costituzione, una riforma sbagliata, Firenze, 2004; AA.VV. (a cura di P. Calderisi, F. Cintioli, G. Pitruzzella), La Costituzione promessa, Soveria Mannelli, 2004; AA.VV. (a cura di D. Gallo, F. Ippolito), Salviamo la Costitu-zione, Taranto, 2005 (in quest’ultimo volume cfr., in particolare, L. Ferrajoli, Processo costituente); L. Vandelli, Devolution ed altre storie, Bologna, 2005.

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Ne consegue che un’attenta riflessione sul tema impone di assicurare un legame stretto fra le esigenze proprie della forma di Governo con quelle della forma dello Stato. Con ciò volendosi sottolineare le forti ed innovative scelte seguite dal legislatore repubblicano al momento di prevedere (per la prima volta in forma costituzionale) l’istituzione dei partiti politici come strumenti concorsuali nella partecipazione alla formazione della politica na-zionale; uno strumento, quest’ultimo, accompagnato da un ricco apparato di formule e strumenti costituzionali d’integrazione della democrazia rappresentativa con quella partecipativa. In tale cornice, pare necessario sottolineare come le soluzioni accolte e quelle che si vorranno prevedere in futuro devono dimostrare, per tabulas, la concreta idoneità ad assolvere, da parte di tali centri politico-comunitari, le funzioni di partecipazione politica costituzionalmente per essi previste. Per questa ragione, in un primo approccio al tema, si ritiene necessario richiamare, sia pure per grandi linee, le tematiche relative al rapporto fra riforme elettorali, sistema politico-partitico e partecipazione politica.

La riflessione sulle problematiche costituzionali poste dalla democrazia di partito (ma anche all’interno dei partiti, e in que-st’ultima direzione lo stesso tema delle elezioni primarie come opportunità per la riqualificazione della rappresentanza politica)3, all’interno, più in generale, di una forma di Stato e di un modello di democrazia fondati sui partiti, ha origine nel dibattito costi-tuente, conoscendo un seguito importante nell’immediato secondo dopoguerra4. In verità, tale affermazione non risulta del tutto corretta quando si consideri che la cesura effettiva fra lo Stato liberal-democratico e lo Stato sociale contemporaneo avviene già nella parte finale dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento,

3 S. Gambino (a cura di), Elezioni primarie e rappresentanza politica, Soveria Mannelli, 1995; G. Pasquino, Le Primarie? Lasciamo perdere, in Reset, 1995; E. Somaini, Elezioni primarie e coalizioni elettorali, in il Mulino, n. 5, 1993, e dello stesso autore Come sele-zionare un Cancelliere, in Reset, 1994; C. Trigilia, L’altra faccia del buon Governo. Perché non basta cambiare le regole elettorali, in I democratici, giugno, 1995; O. Massari, La selezione dei candidati, in AA.VV. (a cura di G. Pasquino), L’alternanza inattesa, Soveria Mannelli, 1995; S. Gambino, Una rilettura dell’art. 49 Cost.: la democrazia dei partiti e la democrazia nei partiti, in Studi in onore di Fausto Cuocolo, Milano, 2005.

4 Nell’ampia bibliografia sul punto, cfr. anche L. Elia, Il ruolo dei partiti nella democrazia italiana, Cadenabbia, 1965; S. Gambino, Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977; A. Bardusco, L’ammissione del cittadino ai partiti, Milano, 1967; S. Galeotti, Introduzione ad AA.VV. (a cura di C.E. Traverso, V. Italia, M. Bassani), I partiti politici, Milano, 1966.

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con l’evoluzione delle forme istituzionali della legittimazione politica dello Stato dalla mera espressione del voto (peraltro limitata fino allo Stato repubblicano in ragione del censo e del reddito) alla sua integrazione con la partecipazione di tipo partitico5.

L’asse centrale di una tale riflessione, pertanto, si concentra tanto sulla dinamica (formale e sostanziale) dei rapporti esistenti fra il sistema dei partiti e gli istituti costituzionali del circuito della rappresentanza e del Governo, quanto sulla questione della democratizzazione della vita interna dei partiti e della previsione di una diversa disciplina dei relativi rapporti con gli organi e i poteri costituzionali dello Stato, da realizzarsi con una disciplina legislativa delle più significative attività a rilevanza pubblicistica svolte dai partiti politici. Quest’ultima esigenza trova la sua giu-stificazione nella considerazione fattuale secondo cui i partiti si sono ormai trasformati (prima in modo embrionale ed in seguito in modo sempre più netto) in macchine organizzative sempre più chiuse in sé, autoreferenziali, in alcuni casi, più di recente, in veri e propri «partiti personali»6. Fatti penalmente rilevanti, disvelati a partire dai primi anni ’90, confermano come simili strumenti di partecipazione politica abbiano ormai perso gran parte della qualità rappresentativa, per concentrarsi su tecniche di ricerca del consenso fini a se stesse, e in quanto tali irrispettose del dettato costituzionale. L’approccio, in tal senso, non fa propri quegli autorevoli orientamenti7 secondo cui la legislazione elettorale di tipo (prevalentemente) maggioritario avrebbe distrutto (in modo irreversibile) i partiti di massa che abbiamo conosciuto nel secolo scorso. Al contrario, non solo tale effetto non si sarebbe prodotto, ma può aggiungersi che la funzione rappresentativa dei partiti risulta tutt’altro che conclusa, ancorché non possa non sottoli-

5 L’approccio in questo senso è di G.U. Rescigno, Potere politico e sistema dei partiti, in Politica del diritto, 1984, 1, cui adde anche, fra gli altri, i miei Crisi istitu-zionale e riforma della Costituzione, Pisa, 1983, e, qualche anno prima, Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977.

6 Cfr. M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, 2000; Id., Il Governo di partito in prospettiva costituzionale, in Id. (a cura di), Come cambiano i partiti, Bologna, 1992; Id., La Terza Repubblica. Partiti contro Presidenti, Roma-Bari, 2006; AA.VV. (a cura di G. Giraudi), Crisi della politica e riforme istituzionali, Soveria Mannelli, 2005; F. Raniolo, Partiti politici, in AA.VV. (a cura di A. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi), Manuale di sociologia politica, Roma, 2006; S. Ceccanti, S. Vassallo, Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, Bologna, 2004.

7 G.U. Rescigno, A proposito di prima e seconda Repubblica, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1994, p. 27, nonché Democrazia e principio maggioritario, Relazione al Convegno AIC, Democrazia maggioritaria e referendum, Siena, 3-4 dicembre 1993.

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nearsi come, soprattutto nell’ultimo decennio, si affermino sempre più modalità rappresentative di tipo personalistiche, assicurate dal ruolo assolto dalle leaderships. Queste ultime troverebbero il loro pendant costituzionale nelle prospettive della «democrazia d’investitura» e di nuovi assetti di «presidenzializzazione della politica»8 e delle istituzioni di Governo del Paese.

A meno di confondere, in modo inaccettabile, il profilo di ciò che si auspica e ciò che, al contrario, si osserva/analizza, in presenza della grave crisi in cui versano i partiti politici riteniamo tutt’altro che esaurite le funzioni di rappresentanza svolte da simili strutture associative e partecipative. Così come opportunamente ridefiniti alla luce delle nuove esigenze rappresentative imposte dalla stessa legislazione elettorale (sia di quella prevalentemente maggioritaria, sia anche di quella vigente), i partiti politici con-tinuano a costituire strumenti qualificati ed insostituibili per assicurare le funzioni di rappresentanza politica e di necessaria mediazione rispetto alla composita congerie degli interessi rappre-sentati in Parlamento, benché essi non possano rivendicare ruoli di «esclusività» nell’esercizio di tale funzione.

Quando si parla di crisi dei partiti, dunque, non è alla loro funzione di concorso alla formazione della politica nazionale che si fa riferimento – quest’ultima costituiva e costituisce tuttora un modello fortemente avanzato di democrazia politica –, quanto piut-tosto al processo di condizionamento degli organi costituzionali di Governo, operato da tali soggetti privati e, soprattutto, a ciò che veniva definita la fusione partitocratica di esecutivo e legislativo (con ciò che ne consegue in termini di deresponsabilizzazione e di con-fusione istituzionale)9. Lungi da ogni pretesa di svalorizzazione delle più recenti manifestazioni del concorso dei cittadini alla formazione della politica nazionale (di tipo occasionale e/o referendario), tale orientamento di pensiero, come si è già osservato in precedenza, assume che il principio partecipativo e quello democratico devono ulteriormente e più adeguatamente diffondersi sia nell’ambito delle

8 L. Elia, La presidenzializzazione della politica, in http://www.associazionedeicosti-tuzionalisti.it (29 novembre 2005); M. Calise, Presidentialization, Italian Style, in T. Poguntke, P. Webb, The Presidentialization of politics in democratic societies, Oxford, 2004.

9 Sia consentito rinviare anche ai nostri Crisi istituzionale e riforma della Costi-tuzione, Pisa, 1983, nonché Note su partiti politici e forme di Governo: il contributo di Leopoldo Elia al rinnovamento del metodo giuridico nella scienza costituzionale, in Studi in onore di Leopoldo Elia, Milano, 1999.

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organizzazioni partitiche che attraverso l’utilizzazione di nuovi e più efficaci strumenti di formazione della volontà politica. Ciò soprattutto dopo le scelte operate con le più recenti leggi elettorali, che, a loro volta, impongono di essere riformate se si vuole che le stesse possano assicurare quei medesimi obiettivi di coerenza sistemica sulla cui base erano state originariamente previste.

In tale visione, era stato assunto che il sistema elettorale – inteso non semplicemente come strumento tecnico-giuridico per la trasposizione dei voti in seggi, ma come un fondamentale elemento di ridefinizione della rappresentanza politica – potesse svolgere una delicata quanto fondamentale funzione istituzionale finalizzata alla trasformazione della stessa forma di Governo verso il modello prevalente nelle democrazie rappresentative contem-poranee, fondato sul ricambio della classe di Governo e sull’al-ternanza al potere fra partiti (o coalizioni di partiti) alternativi, tutti comunque legittimati a governare, realizzando in tal modo una democrazia «compiuta» e «governante».

Va tuttavia rilevato, a questo proposito, che l’approccio con cui, per lungo tempo, sia la dottrina costituzionale che (e soprattutto) i partiti politici hanno affrontato la questione elettorale si è rivelato del tutto strumentale ed insufficiente. Solo nel dibattito teorico e parla-mentare più recente la riforma della rappresentanza politica, infatti, viene presa in considerazione non più solo come valore autonomo, ma come elemento che va considerato in stretta correlazione con l’obiettivo sistemico identificabile nella definizione di una forma di Governo ispirata al principio di alternanza e a quello, correlato, del-l’effettualità della responsabilità politica del ceto politico (di Governo e di opposizione) nei confronti del corpo elettorale. Quest’ultima verrebbe conseguita anche attraverso una valorizzazione del peso decisionale del voto non più solo per la scelta delle rappresentanze parlamentari (e consiliari), in generale, ma per l’investitura quasi diretta dello stesso Governo e come «voto-sanzione».

In un orientamento di pensiero che è stato per lungo tempo maggioritario nel Paese (e che attualmente s’interroga10 sui gravi

10 Fra gli altri, in tal senso, cfr. anche Id., G. Moschella, La riforma elettorale in Italia: un modello discutibile di democrazia maggioritaria, in S. Gambino, G. Ruiz-Rico Ruiz, Forme di governo, sistemi elettorali, partiti politici: Spagna e Italia, Rimini, 1996; S. Gambino, Forma di Governo e riforma costituzionale. Dal «semipresidenzialismo debole» al «premierato assoluto», in Id., Diritto costituzionale comparato ed europeo. Lezioni, Milano, 2004; Id., Forma di Governo e rappresentanza politica fra costituzione

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limiti di riforme elettorali non accompagnate da riforme istituzionali e costituzionali), si era ritenuto che le distorsioni presenti nel sistema politico – che avevano la loro manifestazione più evidente nella crisi della rappresentanza11, nella carente funzionalità degli apparati istituzionali di Governo (circuito Parlamento-Governo) e ancor di più nell’occupazione partitica dello Stato – fossero aggredibili attraverso il superamento del carattere «bloccato» ed incompiuto della forma di democrazia conosciuta nel Paese (e della c.d. «prassi consociativa»), ispirandosi a concetti di democrazia di tipo sistemico. Pur avendo garantito il funzionamento delle istituzioni rappresen-tative durante le fasi cruciali della storia politico-costituzionale repubblicana, un simile «patto compromissorio» aveva finito con il privilegiare il metodo della cogestione rispetto all’esercizio del controllo democratico sul Governo e all’elaborazione di progetti alternativi, impedendo, in tal modo, una nitida differenziazione in ordine all’imputazione delle rispettive responsabilità e competenze istituzionali tra maggioranza e opposizione, tra Parlamento e Go-verno, e più in generale tra esecutivi e legislativi.

Pur nella sottolineatura dei rischi (almeno tendenzialmente) plebiscitari connessi allo sviluppo delle forme della «democrazia referendaria»12, si può ricordare come uno degli obiettivi centrali del movimento referendario che si era attivamente impegnato nei primi anni ’90 per l’abrogazione delle leggi elettorali a base proporzionale al tempo vigenti, fosse appunto quello di giungere ad un pieno dispiegamento del modello parlamentare attraverso la trasposizione delle regole istituzionali proprie dei regimi costitu-zionali c.d. dell’alternanza, che si caratterizzano per un’accentuata competitività delle forze politiche rappresentate in Parlamento, per le funzioni di critica, di controllo e di rappresentanza di posizioni alternative sulle singole issues svolte dall’opposizione, della quale viene pertanto garantita «istituzionalmente» la possibi-lità reale di sostituirsi al/i partito/i di maggioranza (battendolo/i

materiale e prospettive de jure condendo. Riflessioni introduttive, in AA.VV., Forme di governo. Esperienze europee e nord-americana, Milano, 2007.

11 Per una riflessione approfondita sul punto, fra gli altri, cfr. anche G. Azzariti, Rappresentanza politica e stabilità del Governo: due piani da non sovrapporre, in AA.VV. (a cura di Astrid), La riforma elettorale, Firenze, 2007, nonché, dello stesso Autore, Il rischi dell’«antipolitica» tra legge elettorale e referendum, in http://www.costituzio-nalismo.it (28 maggio 2007).

12 Y. Mény, Populismo e democrazia in Europa, in il Mulino, 2005, 1; M. Fedele, La democrazia referendaria, Roma, 1994.

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alle elezioni politiche) nel Governo del Paese. In tale contesto, l’avvio di un processo di riforme elettorali, in Italia, si era pro-posto l’obiettivo del superamento dei processi consociativi con i limiti che, in sede di «Costituzione reale», avevano caratteriz-zato la forma di Governo del Paese nell’ultima metà del secolo appena alle spalle.

Nel concreto svolgimento dei rapporti tra (funzioni di) rap-presentanza politica e (funzionalità degli) organi di Governo, infatti, la mancata alternanza tra forze politiche e in particolare l’operatività di convenzioni preclusive verso alcune forze politiche, a sinistra (PCI) e a destra (MSI) dello schieramento parlamentare, si erano accompagnate con prassi consociative, sia nell’ambito legislativo che nella stessa amministrazione. Corresponsabilizzando impropriamente (sia pure con diverso grado) le forze parlamentari di Governo e quelle di opposizione, tale prospettiva (di natura consociativa) aveva reso difficile per il cittadino-sovrano l’esercizio del voto-indirizzo e del voto-sanzione, essendo quest’ultimo, in tal modo, limitato ad esprimere, sostanzialmente, un mero voto-mandato al partito (e al sistema dei partiti). I limiti di un simile «Governo spartitorio»13, coniugandosi con le rigidità imposte dalla «crisi fiscale dello Stato» e con le resistenze del sistema poli-tico-istituzionale a varare riforme organiche nella direzione della razionalizzazione delle istituzioni pubbliche, avevano alimentato un convincimento diffuso sulle positive opportunità offerte da una riforma elettorale che si proponesse di conseguire l’obiettivo di una maggiore responsabilizzazione della rappresentanza politica, rispondendo meglio all’esigenza di sciogliere i principali nodi evidenziati nel sistema politico-istituzionale.

In tale ambito, i termini della questione erano stati identificati nella necessità di individuare nuovi e più efficaci strumenti di rappresentanza e di Governo in un panorama istituzionale capace di ridare un nuovo slancio e, quindi, un corretto svolgimento allo schema classico delle democrazie rappresentative, con una marcata distinzione di ruolo e di responsabilità tra maggioranza e opposizione parlamentare. Si poteva ritenere, infatti, che tali elementi potessero concorrere a rafforzare, anche all’interno della cultura e della prassi delle forze politiche, una tendenza

13 G. Amato, Il governo dell’industria in Italia, Bologna, 1973; Id., Economia, politica e istituzioni in Italia, Bologna, 1977.

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verso la trasformazione della vigente democrazia rappresentativa, con una riforma del sistema istituzionale che potesse segnare il passaggio dalla «cultura della coalizione alla cultura della rappresentanza» – che costituisce, come è noto, la regola di fondo della trasparenza e della responsabilizzazione politica delle istituzioni rappresentative e di Governo –. Come si può osservare, dunque, in tale contesto la questione elettorale era affrontata con riferimento alle reali condizioni del sistema poli-tico e a quella che era stata definita la «Costituzione materiale» realizzata dai più importanti centri di potere politico-comunitari, partiti politici in primis. In tale chiave interpretativa, la revisione del sistema elettorale si collocava, quindi, come un elemento di assestamento istituzionale rispetto ai profondi mutamenti registrati sul piano della «Costituzione materiale», che si riconducevano, fondamentalmente, alla crisi della concezione di esclusività nella rappresentanza politica, ritenuta anche al di là della previsione costituzionale, dai partiti politici, nonché all’inadeguatezza del modello consociativo a definire una forma compiuta di demo-crazia parlamentare.

Una siffatta analisi portava a sottolineare come – a fronte della natura peculiare della crisi istituzionale in atto nel Paese (più che nella debolezza dell’Esecutivo, consistente nella trasformazione complessiva del sistema costituzionale di Governo rispetto all’im-patto con il sistema politico-partitico) – s’imponesse una strategia istituzionale volta a restituire certezza alle regole, autorevolezza, funzionalità e capacità decisionale alle istituzioni costituzionali di Governo, unitamente alle funzioni rappresentative proprie delle assemblee elettive. È in tal senso che si era fatto osservare come la questione cruciale non fosse data dalla sola modifica della forma di Governo, quanto piuttosto dalla previsione di un sistema elettorale capace di consentire ai cittadini di operare in modo diretto delle scelte sui rappresentanti (eletti e partiti), sulle politiche (programmi politici) e sugli schieramenti (alternativi). In una parola, la riforma elettorale costituiva argomento centrale perché – secondo la filosofia istituzionale cui s’ispirava – era chia-mata ad operare una nuova legittimazione delle istituzioni della rappresentanza e del Governo, attraverso la responsabilizzazione delle forze politiche (nella dinamica maggioranza-opposizione), e una possibilità reale garantita ai cittadini-elettori di una loro sanzionabilità politica.

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3. Partiti politici e forma di Governo: le peculiarità italiane del ParteienStaat

Una riflessione sull’inquadramento del nostro tema nel più ampio dibattito sulle riforme istituzionali, la stessa valutazione delle proposte di riforma istituzionale-costituzionale in discussione tra le forze politiche e gli studiosi delle istituzioni, impongono di sottolineare un dato, che è anche di ordine metodologico, su cui concordano da tempo gli studiosi di diritto costituzionale. Esso è fornito dal superamento della stessa validità scientifica ed ermeneu-tica delle analisi sulle forme di Governo, le quali, come sappiamo, si fondano sul tradizionale principio della separazione dei poteri14.

L’evoluzione del costituzionalismo italiano (ma analogo discorso può farsi per gli altri ordinamenti costituzionali europei) – dalla fase liberal -democratica originaria a quella contemporanea – im-pone, infatti, di accogliere, accanto alla disciplina dei rapporti fra Stato e cittadini (posta a presidio delle libertà civili e politiche) e a quella relativa alle diverse relazioni fra i soggetti costituzio-nali, la presenza e l’operatività di attori sociali differenziati, di centri di potere politico-comunitari, che organizzano – rendendolo efficace – l’esercizio della libertà di partecipazione politica e che, in qualche modo, mettono in questione – condizionandola significativamente – la stessa attività e l’indirizzo degli organi costituzionali di Governo, in ciò concretizzandosi il modello della «democrazia di partiti»15, il ParteienStaat.

Per il tipo di rapporti che sono andati intessendo con lo Stato e la manifestazione sociale e pubblica dei relativi poteri, tali centri di potere comunitario – i partiti politici, che ne co-stituiscono l’espressione più stabile e qualificata – possono ben definirsi organi ausiliari dello Stato, se non veri e propri organi statali, come pure sono stati definiti da autorevole dottrina.

All’interno delle forme di Governo degli stati contemporanei, a livello embrionale nella fase originaria e in modo compiuto in quella più recente (come quella delineata dalla Costituzione italiana del ’48), così, i partiti politici, per le modalità di svolgimento delle

14 Sul punto rimane centrale l’approccio proposto da L. Elia, in Governo (forme di)..., cit.

15 Oltre al nostro Partiti politici e forma di governo (Napoli, 1977), sul punto cfr. anche, almeno, S. Bonfiglio, Forme di governo e partiti politici, Milano, 1993; P. Ridola, Partiti politici, in Enc. del dir., XXXII, 1982; L. Elia, Governo (forme di)..., cit.

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funzioni connesse alla rappresentanza politica (e alla mediazione fra gli interessi sociali), diventano sempre più, sia pure nella sola via fattuale, organi di rilievo costituzionale (o almeno di rilievo pubblico), capaci di determinare o anche solo di incidere in modo determinante sulla formulazione e sull’esercizio dell’indirizzo politico. Ma gli stessi, al contempo, sono associazioni di tipo privato e, in quanto tali, sono fortemente insediati nella società, apparendo difficile, anche per tale ragione, la ricomposizione strutturale e funzionale in una lineare, soddisfacente, definizione della loro natura giuridica.

Ciò, dunque, che risulta attualmente messo in questione non è tanto la funzione partecipatoria dei partiti nella formazione della volontà dello Stato, quanto il pressoché totale asservimento di quest’ultimo alla loro volontà, con la conseguente perdita di autonomia e sovranità delle istituzioni statali, a sostegno delle quali, nella concreta realtà degli svolgimenti istituzionali, non risultano sempre attivate le procedure garantistiche predisposte dalla Costituzione per la sua tutela. È soltanto in tale quadro, così, che si possono comprendere e giustificare la ricerca di forme più adeguate per il superamento della crisi di rappresentatività dei partiti e il ripristino della piena capacità rappresentativa e decisionale delle assemblee parlamentari e, più in generale, per l’attuazione di una forma di Governo stabile, forte e responsabile nel suo indirizzo, «ristabilendo, così, un equilibrio certo non facile tra rappresentanza e forma immediata di espressione della sovranità, equilibrio che è la condizione necessaria perché la legittimazione diretta dei Governi non acquisti tratti plebiscitari»16.

A una prima riflessione conclusiva della sommaria riflessione svolta sul quadro politico-costituzionale, così come si presenta ancora agli inizi degli anni ’90, si osserva che ad essa non può (e non dovrebbe) sfuggire nessuna proposta di (piccola o grande) riforma della Costituzione, quando si rifletta – secondo i migliori insegnamenti comparatistici – come ogni ordinamento politico-costituzionale si caratterizzi per le peculiarità della propria distribuzione dei poteri costituzionali e per i rapporti fra questi, le aspettative storico-politiche e la volontà di partecipazione dei soggetti comunitari. Non si può che concluderne, in tale ottica, che «ciò che diventa discriminante non è l’alternativa tra diverse

16 A. Barbera, Una riforma per la Repubblica, Roma, 1991, p. 92.

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forme di Governo (...) ma la verifica di quale modello di democra-zia una società ha veramente bisogno in una data fase storica»17.

Se le osservazioni fin qui svolte hanno una qualche fondatezza, sembra allora che si possa concludere su questo punto affermando che una delle ragioni principali della crisi istituzionale in Italia sembra da individuare nella concreta politica costituzionale pra-ticata nel sessantennio trascorso dalle forze sia politiche (partiti) che sindacali18. Alle scelte delle forze politiche, e fra queste, in particolare, ai partiti delle maggioranze di Governo, deve farsi ricondurre – almeno fino ai primi anni ’90 – una delle principali distorsioni della democrazia parlamentare registrata nel Paese, data dalla mancata alternanza al Governo fra maggioranza e opposizione, che è l’idea guida dello Stato costituzionale moderno e del suo modello di democrazia parlamentare. Ciò non per riaffermare tesi critiche sulle distorsioni della rappresentanza politica in sede di Costituzione reale, che sono state già ampiamente argomentate in dottrina, quanto piuttosto per sostenere la sostanziale inutilità di ogni riforma costituzionale che non affronti in modo preliminare il problema del ruolo effettivamente svolto dai partiti nel sistema costituzionale reale e la questione ormai matura di una riforma che li riguardi (nell’ordinamento interno e nell’esercizio delle relative funzioni a rilevanza pubblicistica, come è da dirsi soprattutto per il procedimento elettorale e, al suo interno, per la proposizione delle candidature, riconosciuta alla loro competenza materiale da un indirizzo ormai costante del Giudice delle leggi) e che si pro-ponga «l’obiettivo di ripristinare il processo di ripresa della loro funzione rappresentativa nel rapporto con i cittadini (nella loro effettiva caratterizzazione politico-sociale), in grado al contempo di garantire “incisività” e responsabilità nel rapporto con il circuito politico decisionale, in particolare Parlamento-Governo»19.

Le stesse osservazioni problematiche possono farsi a propo-sito delle proposte di riforma elettorale, come si vedrà meglio in seguito. Senza entrare nel merito delle singole proposte o soluzioni accolte, in una valutazione comparativa delle più si-gnificative esperienze costituzionali europee, si può dire, infatti,

17 O. Massari, Democrazia dell’alternanza e riforma elettorale, in Democrazia e diritto, 1991, 4, p. 38; A. Lijphart, Le democrazie contemporanee, Bologna, 1988, e G.F. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Bari, 1985.

18 S. Gambino, Crisi istituzionale e riforma della Costituzione, Pisa, 1983.19 G.F. Pasquino, Crisi dei partiti e governabilità, Bologna, 1980, p. 155.

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che il dibattito fra «grandi» e «piccole» riforme rimarrà molto probabilmente tale: poco più che una provocazione politica e/o accademica. Nonostante il diverso avviso delle prevalenti forze politiche del Paese che, nell’avviare il dibattito parlamentare sulla revisione della Costituzione, avevano escluso il tema delle riforme elettorali, della loro opportunità occorre ancora discutere perché le proposte in materia20, unitamente alla previsione di meccanismi istituzionali-costituzionali di razionalizzazione interna alla forma parlamentare del Governo, appaiono necessarie rispetto all’obiet-tivo di ridurre il livello della frammentazione, della polarizzazione politica e per rendere stabili, coesi – e per ciò stesso responsabili – le maggioranze parlamentari e gli indirizzi di Governo. Così riproposta la questione, il problema che si potrebbe porre è quello di sapere se esista davvero un comune interesse nelle forze politiche presenti in Parlamento, che renda concretamente possi-bili processi di piena responsabilizzazione delle forze politiche e, con esse, forme di alternabilità al Governo tra forze e coalizioni politiche differenziate che assicurino al contempo la stabilità e l’autorevolezza delle stesse. Sulla base dell’assunzione piena di questo presupposto, si potrà meglio attendere alla ricerca di nuove forme organizzative capaci di sbloccare il sistema politico-istitu-zionale, di rinnovarlo, «razionalizzando» con esso il Governo e i suoi circuiti istituzionali. Una mancata scelta a questo proposito fa dell’intero dibattito in atto sulle riforme costituzionali e sulle riforme elettorali quello che, a tutt’altro proposito, un autorevole studioso definiva nient’altro che «un pascolo di parole».

Per concludere su questo punto, si osserva che fra i limitati obiettivi della (breve) riflessione fin qui svolta non rientrava una discussione nel merito delle singole ipotesi di razionalizzazione della forma di Governo avanzate (più o meno di recente) dalla dottrina o dalle forze politiche (come non rientra l’obiettivo di discutere singole proposizioni di riforma elettorale), quanto piuttosto

20 La discussione sulla riforma elettorale e la forma di Governo ha ripreso il suo cammino dopo il referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006. Sul punto cfr. almeno AA.VV. (a cura di Astrid), La riforma elettorale, Firenze, 2007; A. Barbera, Audizione del 11 dicembre 2006, in Indagine conoscitiva delle Commissioni affari co-stituzionali della Camera dei deputati e del Senato della repubblica sul Titolo V della parte seconda della Costituzione, Roma, 2006; G.U. Rescigno, Audizione dell’11 dicembre 2006, Sull’attuazione del principio di sussidiarietà; T. Groppi, Audizione dell’11 dicembre 2006. Cfr., inoltre, i materiali del Seminario organizzato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle riforme istituzionali (Firenze, 25 settembre 2006).

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l’evidenziarne l’opportunità e l’urgenza come passaggio susseguente e consequenziale alla riforma che appare, nel presente scenario politico-costituzionale, come prioritaria e fondamentale21.

Tirando le fila complessive di queste osservazioni, così, si può dire che, se in astratto il dibattito sulle riforme istituzionali e costituzionali ha una sua validità, in quanto riflessione sui nodi politici della democrazia italiana e sulle cause che la ren-dono tuttora una democrazia bloccata, se non si vuole ricadere nel rischio di una chiusura autoritario-plebiscitaria del sistema politico (le cui premesse sembrerebbero già presenti), meglio varrebbe – contestualmente all’opera di razionalizzazione della forma di Governo – attendere alla soluzione di quelli che, a giudizio comune, costituiscono i nodi accertati da sciogliere: da una parte, quelli finalizzati ad un miglioramento dell’attività e del funzionamento dell’istituto parlamentare, nella direzione di una sua semplificazione numerica e di un miglioramento del processo decisionale, dall’altra – e in particolare – quelli relativi al superamento dei vincoli nella struttura dell’istituzione governa-tiva e dei relativi rapporti con il legislativo, includendo fra tali prospettazioni lo stesso rafforzamento dell’Esecutivo mediante una valorizzazione del principio monocratico rispetto a quello collegiale, attualmente prevalente.

Ma tale prospettiva si scontra – come si è detto – con una realtà che non è più composta di soli assetti giuridico-costitu-zionali, quanto di uomini, che rendono tali assetti concretamente vivi ed operanti, in un modo piuttosto che in un altro. Si vuole dire, cioè, che nessuna riforma appare praticabile o capace di produrre cambiamenti effettivi se non si affronta prioritariamente il problema degli uomini, quindi della classe politica, della sua qualità rappresentativa, del suo ampliarsi a dismisura, del suo ri-fiuto a darsi procedure e regole adeguate a riavviare la ripresa di un rapporto di fiducia e di affidabilità (che, al momento, appare fortemente compromesso). Se considerate in questa prospettiva, risultano adeguate le strategie istituzionali che si orientano a ga-rantire il continuo ricambio (al centro e in periferia) della classe politica e la sua responsabilizzazione. Prima ancora, risulta adeguato

21 Fra gli altri, sul punto, cfr., in particolare, AA.VV. (a cura di F. Bassanini), Co-stituzione una riforma sbagliata, Firenze, 2004 (in cui cfr. anche il nostro Una riforma «sbagliata», un «progetto che non aiuta»: la riforma costituzionale in discussione non risolve problemi (che andrebbero risolti) e ne crea molti altri).

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rispetto a tale obiettivo un ridimensionamento delle interferenze dei partiti nella dinamica dei poteri costituzionali. S’inscrivono in questa ottica le proposte da più parti avanzate di riduzione numerica22 e di sistemi di selezione adeguati dei parlamentari, accompagnate da una generale riduzione degli stessi costi della politica (sia di quella partitica che di quella istituzionale).

Un’altra direzione riformistica fondamentale nella direzione delle prospettive qui considerate, è quella più specificamente orientata a un intervento riformatore concernente taluni aspetti della vita del partito a maggiore gravitazione pubblicistica, nonché alla sottolineatura di altri aspetti della stessa vita interna dei partiti che, benché attribuiti all’autonomia interna degli stessi, devono rispondere a procedure giuridiche più trasparenti ed efficaci, al fine di rivitalizzare la partecipazione politica di tipo partitico. La previsione, in tal senso, di statuti-tipo che assicurino pienamente la democrazia interna dei partiti appare una questione non ul-teriormente rinviabile. La rivoluzione copernicana, come è stato bene sottolineato, consiste innanzitutto «nella penetrazione delle procedure democratiche nelle aree in cui si esercita il potere reale»23 per renderle al tempo stesso trasparenti e realmente partecipative. Come ai primordi dello Stato moderno, la sfida centrale del costituzionalismo contemporaneo, dunque, rimane quella di «limitare il sovrano»24, rappresentato a tutt’oggi dal sistema dei partiti (che è in crisi, ma rimane cionondimeno del tutto sregolato).

22 Non può non convenirsi, nel merito, sulla proposta di un correttivo ai sistemi proporzionali puri consistente nella riduzione del numero dei parlamentari. Con ri-ferimento all’ordinamento elettorale italiano, in particolare, si fa bene osservare che, «in tal modo, s’introdurrebbe una clausola di sbarramento per così dire “naturale”. Riducendo inoltre la platea dei parlamentari si renderebbero questi più autorevoli, facendo diventare la selezione più impegnativa. Anche le possibilità di raggiungere un solido compromesso parlamentare verrebbero ad aumentare, mentre più in generale si darebbe una maggiore funzionalità dell’organo parlamentare, senza però alterare il principio della rappresentanza proporzionale. Chi ritiene debba preservarsi la rap-presentanza delle diverse forze politiche adottando sistemi elettorali che non alterino sostanzialmente il voto nel momento della distribuzione dei seggi, ma vuole combattere la polverizzazione eccessiva della rappresentanza favorendo la discussione tra le diverse componenti in un organo non pletorico, potrebbe impegnarsi in questa direzione». Così G. Azzariti, Rappresentanza politica e stabilità del Governo..., cit., p. 4.

23 F. Lanchester, Verso la democrazia intrapartitica, in Democrazia e diritto, 1983, 1.24 G.U. Rescigno, Potere politico e sistema dei partiti, in Politica del diritto, 1984,

1, cui adde anche, fra gli altri, i miei Crisi istituzionale e riforma della Costituzione, Pisa, 1983, e, qualche anno prima, Partiti politici e forma di governo, Napoli, 1977.

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4. Riforme elettorali e modelli di democrazia

Si è già osservato in precedenza come una riflessione in materia elettorale e di partecipazione politica imponga di tenere strettamente legate le esigenze proprie della forma di Governo con quella dello Stato. Pertanto, pare necessario sottolineare come le soluzioni ac-colte e quelle che si vorranno in futuro ancora prevedere in tema di riforme elettorali devono assicurare la capacità di assolvere, da parte di tali centri di potere politico-comunitari, le funzioni di partecipazione politica per essi costituzionalmente previste.

La riflessione sulle problematiche costituzionali poste dalla democrazia dei partiti, ma anche all’interno degli stessi25, all’in-terno più generale di una forma di Stato e di democrazia fondata sui partiti, ha origine – come si è osservato in precedenza – nel dibattito costituente, conoscendo un seguito importante nell’imme-diato secondo dopoguerra; nei primi anni ’90, essa si sviluppa in occasione del varo delle nuove leggi elettorali per la Camera, per il Senato, per le amministrazioni locali e per le regioni. L’hard core di tale riflessione, come si è già osservato, s’incentra tanto sulla dinamica (formale e sostanziale) dei rapporti fra sistema dei partiti ed istituti costituzionali del circuito di rappresentanza e di Governo, quanto sulla questione della democratizzazione della vita interna dei partiti e sulla previsione di una diversa disciplina dei relativi rapporti con gli organi e i poteri costituzionali dello Stato (e delle assemblee rappresentative territoriali), da realizzarsi con una disciplina legislativa delle più significative attività a rile-vanza pubblicistica svolte da parte di questi ultimi. Quest’ultima esigenza trova la sua giustificazione nella considerazione fattuale secondo cui, come si è pure ricordato, i partiti si erano ormai trasformati, prima in modo embrionale e in seguito in modo sempre più netto, in macchine organizzative chiuse in sé26.

25 S. Gambino, Una rilettura dell’art. 49 Cost.: la democrazia dei partiti e la de-mocrazia nei partiti, in Studi in onore di Fausto Cuocolo, Milano, 2005; A. Amorth, Garanzie democratiche di fronte all’azione dei partiti, in Justitia, 1958.

26 M. Calise, Il partito personale, Roma-Bari, 2000; Id., Il Governo di partito in prospettiva costituzionale, in Id. (a cura di), Come cambiano i partiti, Bologna, 1992; Id., La Terza Repubblica. Partiti contro Presidenti, Roma-Bari, 2006; AA.VV. (a cura di G. Giraudi), Crisi della politica e riforme istituzionali, Soveria Mannelli, 2005; F. Raniolo, Partiti politici, in AA.VV. (a cura di A. Costabile, P. Fantozzi, P. Turi), Manuale di sociologia politica, Roma, 2006; S. Ceccanti, S. Vassallo, Come chiudere la transizione. Cambiamento, apprendimento e adattamento nel sistema politico italiano, Bologna, 2004.

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Lungi da ogni pretesa di svalorizzazione delle più recenti manifestazioni del concorso dei cittadini alla formazione della politica nazionale, tale orientamento di pensiero assume che il principio democratico e quello partecipativo devono ulteriormente e più adeguatamente diffondersi sia nell’ambito delle organizzazioni partitiche sia attraverso l’utilizzazione di nuovi e più efficaci stru-menti di formazione della volontà politica. Ciò soprattutto dopo la scelta operata con le (ormai non più recenti) leggi di riforma elettorale, che, come è facile osservare, non hanno conseguito gli obiettivi sistemici ai quali si erano ispirate, irrigidendo ulteriormente il carattere oligarchico ed autoreferenziale dei partiti politici.

In tale visione, era stato assunto che il sistema elettorale, inteso non semplicemente come strumento tecnico-giuridico per la trasposizione dei voti in seggi, ma come un fondamentale elemento di ridefinizione-riqualificazione della rappresentanza po-litica, potesse svolgere una delicata quanto fondamentale funzione istituzionale finalizzata alla trasformazione della stessa forma di Governo verso il modello prevalente nelle contemporanee demo-crazie rappresentative, fondato sul ricambio della classe di Go-verno e sull’alternanza al potere fra partiti (o coalizioni di partiti) alternativi, tutti comunque legittimati a governare, realizzando in tal modo una democrazia «compiuta» e «governante».

Per richiamare, in modo essenziale, con qualche interesse ai fini della comparazione con altri sistemi, le soluzioni offerte dalla riforma elettorale dei primi anni ’90 ed accostarsi alle problematiche che essa ha dischiuso nell’analisi giuridica e nel dibattito politico del Paese, occorre inquadrare l’intera tematica ora in considerazione nella più generale problematica posta dalla riforma istituzionale (e costituzionale), avviata da tempo, e che ha conosciuto una sua accelerazione, soprattutto a partire dai primi anni ’80, con la proposta socialista della «grande riforma» e con quelle dottrinarie avanzate dal c.d. «gruppo di Milano», orientate a una riforma costituzionale nella prospettiva di «governi presi-denziali» o «semi presidenziali», nel primo caso, verso «governi di legislatura», secondo l’orientamento del richiamato gruppo di giuristi milanesi. In questo contesto, le riforme elettorali venivano individuate come snodo obbligato per affrontare le problematiche istituzionali del l’instabilità governativa e della connessa difficoltà di assicurare la coesione delle coalizioni di Governo e l’omogeneità dei relativi indirizzi politici.

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L’analisi teorico-dottrinaria e il dibattito parlamen tare, nel loro complesso, hanno evidenziato, tuttavia, un atteggia mento di forte resistenza nelle forze politiche a ritrovare un accordo su riforme istituzionali e costituzionali relative alla forma di Governo e alla c.d. «legislazione di contorno». Le resistenze espresse dalle forze parlamentari a varare riforme istituzionali e costituzionali in tali ambiti, superate nel merito dall’intervento del corpo elettorale attraverso il referendum, rinviano alla questione centrale posta dall’esistenza nel Paese di una «Costituzione reale» che non sempre si conforma a quella formale, e, al suo interno, dalla centralità occupata dai partiti politici nel loro concreto impatto sulla forma di Governo effettivamente vigente.

Accanto ai meccanismi costituzionali predisposti per disciplinare in una forma «razionalizzata» (rispetto al parlamentarismo ottocentesco e alle stesse vigenti disposizioni costituzionali) i rapporti fra gli organi della rappresentanza politica e quelli del Governo, sotto il profilo costituzionale, così, la questione viene ricollegata alla necessità di analizzare tutta una serie di prassi e di convenzioni costituzionali (ultra, ma anche contra constitutionem) che, nelle diverse fasi della vita repubblicana del Paese, hanno caratterizzato lo svolgimento e gli equilibri costituzionali complessivi della forma di Governo. Dal punto di vista più strettamente politico, l’esperienza italiana si caratterizzava, fino alle elezioni politiche svolte con il sistema proporzionale, come è noto agli studiosi italiani e agli osservatori stranieri, per una costante indisponibilità ad aprire le coalizioni di Governo alle forze politiche collocate a destra e soprattutto a sinistra delle tradizionali coalizioni governative. Un’autorevole dottrina aveva colto in tale assetto materiale l’esistenza di una vera e propria «conventio ad excludendum»27, che delineava scenari di «democrazia zoppa», una democrazia, cioè, nella quale risultava assente la «regola aurea» del parlamentarismo liberal-democratico, cioè l’alternanza al Governo tra forze politiche, intesa come prin-cipio di trasparenza e di effettualità della responsabilità politica, rispettivamente, del Parlamento e del Governo.

Tale crisi delle forme costituzionali relative all’organizzazione e al funzionamento del Governo (soprattutto nelle sue fasi fonda-mentali relative alla formazione e alla crisi) si salda, soprattutto a cavallo degli anni ’90, con la crisi delle principali forze politiche

27 L. Elia, Governo (forme di)..., cit., p. 654.

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di maggioranza (e della relativa leadership), evidenziandosi con l’affermazione di movimenti politici nuovi, di caratterizzazione eminentemente localistica (leghe)28, e aggravandosi in modo ir-reversibile con riferimento al coinvolgimento giudiziario dei più importanti leaders partitici dell’area di Governo, ma anche di opposizione (sia pure in misura minore).

Così richiamati i termini fondamentali dello scenario politico in cui si affermano le nuove regole elettorali, occorre evocare, sia pure in termini essenziali, la filosofia politica ed i princìpi istituzionali invocati a sostegno delle riforme elettorali da parte del movimento referendario e della stessa dottrina che ne aveva sostenuto le ragioni29. Quali che fossero le scelte auspicate dai partiti politici, rimane come dato certo che, nelle aspettative del corpo sociale, gli obiettivi cui doveva conformarsi la riforma elettorale erano sostanzialmente di due tipi. Innanzitutto, si trat-tava d’individuare meccanismi capaci di assicurare una maggiore stabilità, forza e autorevolezza all’Esecutivo (riassunti nella for-mula descrittiva della «governabilità»), rafforzando le coalizioni di Governo attraverso i vantaggi assicurati dalla distribuzione dei seggi parlamentari effettuata con un sistema elettorale di tipo (prevalentemente) maggioritario.

Un secondo obiettivo assegnato alla riforma elettorale, sul quale erano stati enunciati orientamenti dottrinari articolati ed anche fortemente critici, era riassumibile, secondo una formula di suc-cesso di quegli anni, nella finalità della «restituzione dello scettro al principe» – i cittadini-sovrani –, uno scettro che era stato, con scarsa qualità rappresentativa, occupato dai partiti politici, che, da strumenti di partecipazione politica, gradualmente si erano andati costituendo come un vero e proprio diaframma tra i cittadini (titolari della «concorsualità» nella determinazione della politica nazionale attraverso i partiti politici) e i partiti (ormai stabilmente

28 G.F. Miglio, Come cambiare. Le mie riforme, Milano, 1992. 29 Fra cui anche chi scrive (cfr., in tal senso, Le riforme elettorali fra costituzione

materiale e democrazia dell’alternanza, in Politica del diritto, 1992, 2), che, evidentemente, ha dovuto cambiare opinione sull’ottimismo a suo tempo espresso circa l’effettiva disponibilità-capacità dei partiti politici a mettere in questione le risalenti prassi di (non) democrazia interna, poco aperte alle regole democratiche, ma che s’imponevano nel nuovo scenario, che, con una democrazia (prevalentemente) maggioritaria, avrebbe limitato importanti spazi partecipativi ai cittadini nell’ambito del procedimento elettorale per riconoscerli alle sole forze politiche, «dominae» della designazione dei candidati alle cariche elettive, come anche della formazione dei programmi elettorali.

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costituiti in oligarchie cristallizzate ed ossificate al loro interno e nella funzione di rappresentanza e di mediazione rispetto alle isti-tuzioni rappresentative e di Governo). Secondo tale profilo (che risulta centrale se si vuole riannodare il tema elettorale con quello dei partiti politici, e con lo stesso tema dell’efficienza del circuito parlamentare-governativo), tale orientamento assumeva, in modi e con finalità espliciti, la necessità di orientare le linee di direzione del processo riformistico (elettorale ed istituzionale) verso forme di democrazia che tendessero a comprimere i ruoli impropri svolti dai partiti politici per espandere una più piena e matura crescita par-tecipativa/decisionale del cittadino, come singolo, e nelle multiformi manifestazioni assicurategli dall’esercizio delle libertà costituzionali.

Tali modalità, nel dibattito costituzionale interno e nella ricerca comparatistica, con formula (indubbiamente schematica) mutuata dalla dottrina d’Oltralpe, sono state anche definite «immediate», per sottolineare un rapporto di diretta investitura dei governi da parte del corpo elettorale. Un nuovo orientamento a favore di sistemi elettorali a base maggioritaria, che altrove erano stati sperimentati da tempo e con relativo successo (rispetto agli obiet-tivi loro assegnati), appariva, così, maggiormente convincente per la sua capacità di dare una risposta alle aspettative del corpo sociale relativamente alla valorizzazione del conflitto democratico e alla garanzia dell’alternanza fra forze politiche, in una parola alla realizzazione di un processo di maggiore trasparenza dei (e nei) rapporti fra istituzioni rappresentative e di Governo ed il corpo elettorale30.

Accanto alle opportunità offerte dalle diverse formule elettorali, lo scenario politico-istituzionale di tale dibattito, come si può osservare, mette a confronto due diversi modelli di democrazia. Rispetto al primo dei due, che il Paese aveva sperimentato nell’ultima metà del secolo – un modello di democrazia «mediata», «consociativa», fondato sul pluripartitismo esasperato (benché bilanciato al suo interno dalla già richiamata clausola preclusiva, nella formazione dei governi, verso i partiti ritenuti «antisistema») –, il secondo dei due modelli ha rinviato a forme di organizzazione della democrazia di tipo «competitivo», che sono state anche definite «immediate»

30 Sul punto, cfr. anche S. Fabbrini, Quale democrazia. L’Italia e gli altri, Roma-Bari, 1994, nonché AA.VV., L’Italia fra crisi e trasformazione, Bari, 1994; P. Lauvaux, Les grandes démocraties contemporaines, Paris, 1998.

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per sottolineare la ricerca di un rapporto di maggiore prossimità del cittadino sovrano nel suo potere d’influenza/determinazione della politica nazionale, soprattutto in sede di scelta degli organi rappresentativi e dei vertici degli esecutivi, la cui determinazione, in tal modo, veniva sottratta alla disponibilità dei partiti. Secondo tale diversa (e nuova) formula, il modello di democrazia risultava particolarmente agevolato, trascorrendosi, in tal modo, da una cultura della coalizione a una dell’alternanza31.

Così richiamata la filosofia istituzionale ispiratrice della riforma elettorale dei primi anni ’90, rimane ora da chiedersi, alla luce di un decennio di sperimentazione, quali effetti concreti essa ha potuto/saputo esercitare sulla Costituzione materiale del Paese (so-prattutto in tema di coesione interna ai Governi «di coalizione»); rimane, inoltre, da riproporsi il quesito se la stessa sia stata (o meno) capace di assicurare quegli obiettivi attesi di «governabi-lità» ai quali si era ispirata (e che il corpo elettorale aveva fatto propri con un esito referendario particolarmente chiaro).

Nell’accostarsi a un tema che appare indubbiamente complesso, attesa la prossimità storica alla fase politico-istituzionale oggetto ora di analisi, può dirsi, in una prima valutazione generale, che la riforma elettorale dei primi anni ’90 ha indubbiamente assicurato uno degli obiettivi per i quali era stata richiesta e approvata, quello cioè di consentire l’effettività dell’alternanza al Governo tra forze politiche contrapposte. Nelle due legislature più recenti, infatti, due partiti che in precedenza erano stati ritenuti «antisistema» e che per questo erano stati esclusi dalla formazione dei governi per circa una metà di secolo – sia pure in uno scenario politico-istitu-zionale nuovo, caratterizzato dalla ridefinizione delle relative ragioni sociali e da nuovi programmi/statuti politici (PCI, poi trasformatosi in PDS e poi ancora in DS; MSI in AN) –, hanno potuto accedere per la prima volta al Governo, all’interno di governi di coalizione.

Con tale accesso all’interno delle maggioranze parlamentari di turno, si è parimenti determinato un secondo importante effetto, quello della loro piena legittimazione (nell’accesso al Governo) e di una loro reciproca legittimazione in quanto forze politiche democratiche, operanti nel sistema. Sotto tale profilo, dunque,

31 R. Ruffilli, A. Capotosti (a cura di), Il cittadino come arbitro, Bologna, 1988; nonché O. Massari, G. Pasquino, Introduzione: per eleggere rappresentanti e governanti, in O. Massari, G. Pasquino, Rappresentare e governare, Bologna, 1994; G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe, Roma-Bari, 1985.

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non può che sottolinearsi il pieno e positivo successo di un si-stema elettorale che ha visto allargata la base di formazione dei governi, confermando, in tal senso, la fondatezza e la lungimi-ranza presenti nelle aspettative in esso riposte sia da parte del corpo referendario sia da parte del Parlamento e della dottrina che ne aveva sostenuto (almeno parzialmente) le ragioni. Tut-tavia, problemi non erano mancati, soprattutto con riferimento alla debolezza dei vincoli di lealtà esistenti all’interno dei partiti della coalizione (soprattutto di Governo). Mentre nel corso della prima delle due richiamate legislature, basate sul sistema eletto-rale (prevalentemente) maggioritario (legge n. 276 del 1993), tale debolezza determinava un persistente ricorso alla risalente prassi (incostituzionale) delle crisi extra-parlamentari (con l’abbandono della maggioranza governativa del tempo da parte di una delle sue componenti più critiche, quella di Rifondazione comunista), nell’ultima legislatura (a partire dai suoi inizi) tale debolezza del vincolo coalizionale si manifestava come rafforzamento relativo di una delle componenti della maggioranza governativa, quella della Lega Nord, che aveva buon gioco, in tale quadro, a ricorrere ad un potere di «minaccia della crisi» per conseguire una negozia-zione politico-programmatica di favore. Il mancato prodursi di una nuova crisi extra-parlamentare in un simile quadro pare dovuto, da una parte, a una evidente capacità di negoziazione bilaterale all’interno della maggioranza governativa (con evidenti effetti critici su altre forze politiche che la compongono) e, dall’altra, alla piena disponibilità dell’indirizzo politico della maggioranza governativa e soprattutto del suo leader a farsi carico di una negoziazione sullo stesso testo di revisione della Costituzione secondo una direzione (almeno apparentemente) imposta dalla Lega Nord.

Prima di ritornare su tale questione (come faremo tra poco), occorre anche aggiungere che, se tale sistema elettorale (preva-lentemente maggioritario) non appare direttamente responsabile della crisi del partito di massa32, almeno può affermarsi che la sua pratica si è accompagnata con tale crisi. Le relative manife-

32 R. Blanco Valdés, Crisi del partito di massa e razionalizzazione della foma di Governo e P. Ciarlo, Partiti in trasformazione e revisione costituzionale, ambedue in S. Gambino (a cura di), Democrazia e forme di governo. Modelli stranieri e riforma costituzionale, Rimini, 1997; Id., Crisi del partito di massa, forma di Governo e riforme istituzionali. Dal semipresidenzialismo debole al premierato assoluto, in AA.VV. (a cura di G. Giraudi), Crisi della politica e riforme istituzionali, Soveria Mannelli, 2005.

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stazioni appaiono di comune osservazione; esse vanno dall’inde-bolimento del vincolo di lealtà politica fra eletti e partiti (con uno sviluppo abnorme del «transfughismo»), dalla costituzione di una molteplicità di gruppi parlamentari (con la crescita parimenti abnorme del numero dei parlamentari iscritti al gruppo misto sia alla Camera che al Senato), fino al rafforzamento della tendenza alla «personalizzazione» del potere (soprattutto, ma non solo, negli esecutivi). L’affermazione di «partiti personali», del c.d. «partito-azienda» (Forza Italia), costituisce, in tal senso, il sintomo di un processo più vasto e profondo, che rintraccia le sue radici in una perdita vieppiù progressiva del modulo partecipativo nella scelta dei candidati a favore di decisioni che si trasferiscono – sia all’interno del richiamato «partito-azienda», sia (ancorché in forme più celate) negli altri partiti – direttamente nelle mani del leader unico (nel primo dei due casi richiamati) ovvero nelle (egualmente ristrette) segreterie politiche (di norma esclusivamente nazionali), con riferimento alle altre ipotesi richiamate.

È a questo livello, in particolare, così, che trovano una loro giustificazione quegli orientamenti che si sono in precedenza richiamati circa l’opportunità/necessità che la riforma elettorale (prevalentemente) maggioritaria si accompagnasse con la ripresa di un’attenzione riformistica alla democrazia interna ai partiti e con la stessa apertura da parte di questi ultimi rispetto alla scelta dei candidati alle elezioni politiche e alle cariche elettive di vertice non solo al proprio interno, ma aprendosi anche a candidature provenienti dalla società civile (elezioni primarie aperte), secondo un metodo disciplinato in via legislativa. Ma, come si è già sot-tolineato in precedenza, ciò non si è verificato. Una delle ragioni del fallimento delle nuove regole elettorali risiede appunto nella mancata adesione da parte del sistema politico-partitico verso que-st’apertura alle regole della democrazia interna dei partiti e nella stessa mancata apertura (formale) del procedimento elettorale, da una parte, al sistema delle «elezioni primarie aperte», e, dall’altra, alla candidatura delle donne nelle liste elettorali33.

33 In questa sede non possiamo sviluppare quest’ultimo profilo – centrale in un’ot-tica di democrazia compiuta –, dovendo per questo rinviare agli approfondimenti di merito. Tuttavia, non può non sottolinearsi come costituisca sostanziale elusione del principio paritario quell’orientamento del Giudice delle leggi (sent. n. 49/2003) nel quale, chiamato a sindacare il rispetto di tre disposizioni costituzionali chiare (artt. 3, 51 e 117) in tema di democrazia paritaria (alternanza uomo/donna nell’accesso alle

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Si può allora sottolineare che la legislazione elettorale (pre-valentemente maggioritaria) dettata con la legge n. 276/1993 pareva aver risolto una delle questioni centrali nella formazione delle maggioranze parlamentari, quella cioè relativa all’investitura elettorale diretta (o quasi diretta) dei relativi leaders nelle cariche di Governo, la cui capacità di trascinamento elettorale si riflet-teva in modo indubbiamente positivo sulla (almeno tendenziale) stabilizzazione della forma di Governo, in un quadro che, come si è già detto, restava caratterizzato dal ricorso a governi di coa-lizione. Sotto quest’ultimo profilo, si potrebbe osservare che la nuova Costituzione materiale determinata dalla riforma elettorale sottraeva materialmente al Presidente della Repubblica l’indivi-duazione del leader incaricato della formazione del Governo; pur restando formalmente libero nell’esercizio di tale onere costitu-zionale, il capo dello Stato riceveva un indubbio ed inequivoco indirizzo da parte del corpo elettorale, risultandone in tal modo sostanzialmente condizionato.

Ciò che invece le nuove regole elettorali non potevano assi-curare era la coerenza di azione dei partiti all’interno di governi che erano (e restavano) di coalizione, con la conseguenza che alla parziale stabilità conseguita dall’Esecutivo attraverso l’investitura del suo leader non si accompagnavano la forza, la coesione interna e pertanto la stessa autorevolezza delle relative scelte politico-programmatiche. Qualora fosse stato assunto come traguardo da

cariche elettive) da parte di una legge elettorale regionale (nella specie la l.r. della Regione Valle d’Aosta n. 21/2002), si determinava nel senso della legittimità della richiamata legge elettorale, nella considerazione secondo cui quest’ultima prevedeva almeno una presenza femminile nelle liste elettorali e concludendo nel senso che il procedimento elettorale di designazione delle candidature rimane nelle sole dispo-nibilità dei partiti politici e dei gruppi elettorali, unici competenti a deciderle (con conseguente, discutibile, sottovalutazione della natura pubblicistica del procedimento elettorale). Cfr. S. Gambino, Verso la democrazia paritaria... cavalcando le lumache, in http://www.astridonline.it (26 febbraio 2005). Nell’ampia bibliografia sul punto cfr., almeno, L. Carlassare, L’integrazione della rappresentanza: un obbligo per le Regioni, in AA.VV., La rappresentanza democratica nelle scelte elettorali delle Regioni, Padova, 2002; M. Montalti, La rappresentanza del genere femminile. Riflessioni comparative, in Dir. pub. comp. ed europeo, 2000; L. Carlassare, La rappresentanza femminile: principi formali ed effettività, in AA.VV., Genere e democrazia, Torino, 1997; L. Califano, Donne e rappresentanza politica: una riforma che apre nuovi spazi, in Quad. cost., 2001; G. Brunelli, L’alterazione del concetto di rappresentanza politica, in Dir. e soc., 1994; U. De Siervo, La mano pesante della Corte sulle quote nelle liste elettorali, in Giur. cost., 1996; A. Deffenu, La parità tra sessi nella legislazione elettorali di alcuni paesi europei, in Dir. pub., 2001; S. Gambino, Cittadinanza e diritti sociali fra neoregionalismo e integrazione comunitaria, in Quad. cost., 2003, 1.

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conseguire (come, tuttavia, non assumiamo, in ragione della diversa e risalente storia parlamentare del Paese), tale obiettivo avrebbe potuto essere raggiunto ricorrendo esclusivamente (come il corpo referendario dei primi anni ’90 aveva probabilmente voluto, ma le forze politiche del tempo avevano assunto come non adeguato alle esigenze rappresentative e istituzionali del Paese) a un diverso sistema elettorale, di tipo maggioritario puro, a base uninominale. L’effetto di una simile formula elettorale sul sistema politico del Paese, in tal caso, avrebbe potuto più coerentemente e sistemi-camente operare secondo un’attesa logica bipolare. Tale sistema avrebbe consentito, probabilmente, la stessa presenza parlamentare di un partito eminentemente regionale, come la Lega Nord, al pari di quanto è dato osservare nel sistema britannico per lo Scottish party, esso stesso partito con base regionale. La formula elettorale utilizzata in Gran Bretagna, inoltre, come è ben noto, più che «investire» un leader legittimandolo direttamente nell’esercizio della funzione di capo del Governo, consente la scelta da parte degli elettori di un partito, chiamandolo direttamente alla responsabilità di Governo e sostenendolo nel suo indirizzo politico34. Tale scelta, in un’ottica che è appunto di tipo bipolare, si accompagna con regole parlamentari particolarmente stringenti, che sono volte ad assicurare al Governo una sua coesione interna e la continuità nell’indirizzo politico fra maggioranza parlamentare e maggioranza di Governo, accompagnata dalla stabilità della sua compagine istituzionale; con la conseguenza che, in caso d’inadeguatezza di quest’ultimo o di un contrasto ritenuto negativo da parte della maggioranza parlamentare di sostegno, quest’ultima potrà libera-mente decidere di sostituire il Premier senza dover ricorrere alle più complesse e macchinose previsioni di bilanciamento, come quelle di riconoscere al Premier un potere di scioglimento delle Camere e a queste ultime di poterlo comunque sostituire ricorrendo ad altro leader appartenente alla stessa maggioranza parlamentare (come si prevedeva nell’ultimo testo di revisione costituzionale).

Come si può osservare, la riflessione appena svolta rinvia alle esperienze comparatistiche in tema di «democrazia maggioritaria»; ciò anche in considerazione del fatto che l’attesa stabilità del Governo, in Italia, è stata sicuramente assicurata, ma non pare

34 In quest’ultimo senso cfr. anche G.F. Pasquino, Capi di Governo, Bologna, 2007, pp. 315 ss.

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potersi affermare che tale successo si estenda anche alla coerenza interna al Governo. I governi fondati su un bipolarismo (almeno tendenziale) sostenuto dalla legislazione elettorale (prevalentemente) maggioritaria adottata nei primi anni ’90 si sono rivelati, nella realtà, per quello che istituzionalmente essi sono, cioè «governi di coalizione», in altri termini governi sostenuti da forze politiche e fondati su accordi elettorali intorno a un leader, le quali, nel Parlamento, rivendicano (comprensibilmente) visibilità e respon-sabilità rappresentativa. Quali che siano i meccanismi utilizzati, dunque, non pare conseguito l’atteso obiettivo di una legislazione elettorale a sostegno di un «Governo del Premier».

Il tema ritorna così a riproporsi negli stessi termini dei primi anni ’90, allorché si era manifestato nel Paese un orientamento indiscusso verso la «democrazia maggioritaria», fatta in gran parte di scelte d’investitura diretta dei vertici degli esecutivi e di semplificazioni elettorali e partitiche, in breve, di formule orientate nella direzione della «personalizzazione» della politica e della «presidenzializzazione» del potere esecutivo. Dopo un decennio di pratica di tale modello di democrazia è ragionevole interrogarsi sui rapporti fra rappresentanza e governabilità per come assicurati da tale legislazione maggioritaria. Ciò appare particolarmente opportuno anche in ragione del fatto che se, da una parte, i partiti politici ne sono risultati (almeno in parte) delegittimati, dall’altra la dinamica dei rapporti fra Parlamento e Governo ha visto il primo pressoché totalmente asservito al secondo e quest’ultimo piegato a logiche di tutela di interessi settoriali e spesso «personali», incompatibili con un modello di democrazia che si assume come matura.

Se dunque, nell’intenzione dei riformatori dei primi anni ’90, il bipolarismo doveva costituire una modalità per farsi carico dei problemi della «governabilità», esso non pare riuscito nell’intento, ma, al contempo, pare aver compresso oltre il ragionevole le esi-genze della rappresentanza. Era (e rimane) ragionevole interrogarsi sui rendimenti sistemici ed istituzionali di tale legislazione. Che la soluzione seguita dalla più recente (ora vigente) riforma elettorale (legge n. 270 del 2005) costituisca una risposta plausibile appare del tutto discutibile, se non per un’evidente volontà orientata verso una strategia elettorale a breve termine, al fine cioè di ricavarne un possibile vantaggio competitivo da parte della maggioranza parlamentare del tempo. Al contrario, se l’obiettivo fosse stato

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quello di affrontare in modo adeguato il tema di un necessario ed equilibrato rapporto fra le esigenze della rappresentanza politica e quelle della «governabilità», sia nel dibattito dottrinario del Paese sia nell’esperienza di altri Paesi è dato individuare soluzioni adeguate a soddisfare ambedue i richiamati valori.

Fra le esperienze di razionalizzazione maggiormente richiamate sono da citare, in tal senso, quella tedesca35, nella quale si fa ricorso ad un sistema elettorale proporzionale con soglie di sbar-ramento (questo modello ha ben funzionato con riferimento alle esigenze di funzionalità del cancellierato tedesco), oppure – in un’alternativa che si vedrebbe comunque in continuità con l’op-zione in favore di sistemi a base maggioritaria – quella francese36, basata su un sistema elettorale maggioritario a doppio turno. Un nuovo sistema elettorale ispirato a quest’ultimo modello potrebbe prevedere, come correzione rispetto alla legislazione elettorale francese, l’ammissione al secondo turno, per l’assegnazione dei seggi che non siano stati assegnati al primo, di tutte le forze politiche che avessero conseguito almeno l’1% di consenso elet-torale (nel caso francese si prevede l’11,5%) e che stipulassero un accordo di adesione a una delle due coalizioni che accedono al secondo turno elettorale (ferma restando, comunque, la libertà delle forze politiche di non aderire a nessuna delle due coali-zioni). La ripartizione del premio elettorale in termini di seggi potrebbe perfino prevedere un’assegnazione di maggiori seggi ai partiti meno votati, al fine di consolidarne la lealtà coalizionale. Ma se non si volesse inseguire una scelta tanto netta e radicale, si potrebbe più semplicemente ripartire i seggi del premio elet-torale secondo un meccanismo proporzionale classico. Con una simile opzione, come si può facilmente cogliere, tutte le forze

35 L. Mezzetti, La forma di Governo tedesca, in S. Gambino (a cura di), Forme di governo e sistemi elettorali, Padova, 1995; V. Götz, L’esperienza tedesca: modello costituzionale e prassi, in S. Gambino (a cura di), Democrazia e forme di governo. Modelli stranieri e riforma costituzionale, Rimini, 1997; V. Götz, Presidenzialismi, semipresidenzialismi, parlamentarismi: l’esperienza tedesca, in L. Mezzetti, V. Piergigli, Presidenzialismi, semipresidenzialismi, parlamentarismi: modelli comparati e riforme istituzionali in Italia, Torino, 1997.

36 A. Di Virgilio, Semipresidenzialismo e doppio turno nella Quinta Repubblica fran-cese. Un modello di successo, in S. Gambino (a cura di), Forme di governo e sistemi elettorali, Padova, 1995; D. Amirante, Brevi note sul semipresidenzialismo «alla francese»: le difficoltà di esportazione di un modello di successo, in S. Gambino (a cura di), Democrazia e forme di governo..., cit.; S. Gambino, Presidenzialismo e parlamentarismo nella Va Repubblica francese e nelle proposte di riforma costituzionale in Italia, in L. Mezzetti, V. Piergigli, Presidenzialismi, semipresidenzialismi, parlamentarismi..., cit.

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politiche sarebbero attivamente presenti nell’agone elettorale e, al contempo, la stabilità dell’Esecutivo non dovrebbe fare ricorso a «stampelle» costituzionali (peraltro di dubbia legittimità), in quanto la maggioranza politica in Parlamento si fonderebbe su una esplicita investitura da parte degli elettori37.

Tuttavia, l’esigenza di una riforma elettorale ispirata a criteri sistemici, idonea a «chiudere la lunga transizione italiana», ma anche ad essere approvata dall’attuale, frammentata, rappresen-tanza parlamentare, porta a ritenere che, probabilmente, nessuna delle richiamate formule elettorali ritenute astrattamente idonee a farsi carico di una riforma elettorale organica – quella seguita in Germania, quella seguita in Spagna e quella seguita in Francia – avrà seguito concreto, dovendosi, per questo, ripartire dalla vigente legislazione elettorale, lasciando sostanzialmente stabili le previsioni del sistema elettorale previsto per la Camera e ri-pensando ex novo quello per il Senato38. In tale ottica, come si fa bene osservare, «l’unica via percorribile resta(/erebbe) quella dell’abolizione del premio di maggioranza, incompatibile con l’art. 57 della Costituzione (...) ed assicurare la governabilità attraverso la soglia di sbarramento e, semmai, la riduzione del numero dei

37 Rispetto alle oggettive difficoltà del presente quadro politico parlamentare di varare proposte di riforma elettorale compatibili con lo stato di oggettiva frammen-tazione del sistema partitico rappresentato in Parlamento, di recente è stata avanzata una proposta di rimodulazione della riforma elettorale «alla francese» (cfr. S. Passigli, Riforme istituzionali: la forma di Governo, in http.//astridonline.it, 25 settembre 2006), nella quale si ipotizza un sistema a doppio turno nel quale, seguendo un suggerimento di Sartori di alcuni anni addietro, «il passaggio al secondo turno non fosse legato al superamento di un livello prestabilito di consenso elettorale al primo turno, come in Francia, ma fosse un’opzione delle singole forze politiche, le quali rinunciando al passaggio al secondo turno concorrerebbero proporzionalmente alla distribuzione di un congruo numero di seggi, configurato come premio di maggioranza per la coalizione vincente» (ivi). Una proposta di questo tipo, come si vede, opera nella direzione da noi stessi seguita di valorizzare le opportunità del sistema elettorale francese ancorché piegandolo alle esigenze rappresentative del sistema politico-partitico italiano, che è caratterizzato dalla presenza di molti partiti minori, che costituiscono comunque una risorsa di partecipazione politica. Come si sottolinea, «Un simile meccanismo non solo permetterebbe la loro [dei partiti minori] sopravvivenza, ma addirittura potrebbe risultare per le forze minori in un numero di seggi maggiore di quello che avrebbero conseguito con la proporzionale (...) per ottenere pienamente il risultato voluto, e cioè la governabilità e la stabilità delle coalizioni, occorrerebbe tuttavia completare il quadro con l’introduzione del principio che i seggi ottenuti grazie a tale premio di maggioranza possono essere revocati se i partiti che ne hanno beneficiato ven-gano meno al vincolo di maggioranza provocando la caduta del Governo. È questo un aspetto essenziale, che implica ovviamente una riforma costituzionale (...)» (ivi).

38 A. Gigliotti, Pro e contro delle nuove leggi elettorali per la Camera e il Senato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it. (13 aprile 2006), p. 14.

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senatori, che renderebbe anche un sistema proporzionale mag-giormente selettivo»39. Nell’ottica di questo orientamento, che è molto sottolineato in dottrina, in ogni caso, «è necessario ridurre il numero e il potere dei piccoli partiti, favorendo l’aggregazione degli stessi sulla base di aree politico-culturali omogenee e la nascita di pochi grandi partiti sul modello europeo»40. Rimane, comunque, che una simile prospettazione de jure condendo non potrà che conoscere tutte le resistenze di un sistema politico-partitico nel quale si può ragionevolmente ipotizzare che, sia a destra che a sinistra degli attuali schieramenti politici, le piccole forze politiche esprimeranno forti resistenze, fino a minacciare (con esiti al momento incerti) la stabilità dell’attuale coalizione delle forze politiche al Governo e la disgregazione della coalizione delle forze di opposizione.

5. La legge n. 270/2005: una riforma elettorale «partitocra-tica»

L’analisi può ora proseguire con alcune brevi riflessioni sulle linee salienti della nuova legge elettorale a base proporzionale con premio di maggioranza (l. n. 270 del 21 dicembre 2005) e sulle relative discontinuità rispetto alle aspettative «maggioritaristiche» sollevate dai referendum degli anni ’90 (1991, 1993), nonché sulle relative previsioni legislative di riforma. Seguendo un approccio già utilizzato nell’analisi della legislazione elettorale previgente, in tale riflessione non ci soffermeremo sull’analisi delle soluzioni tecniche accolte nel nuovo testo (la cui legittimità, invero, è stata ampiamente messa in dubbio da parte di autorevole dottrina), rinviando alle specifiche analisi di dettaglio che si sono già pro-fuse in merito41. Non ci soffermeremo nemmeno sull’analisi dei singoli profili di irrazionalità contenuti in tale legge, in quanto

39 R. D’Alimonte, I rischi di una nuova riforma elettorale. In difesa del «mattarel-lum», in Quaderni costituzionali, 2004, 3.

40 Ivi, p. 14.41 L. Elia, Il voto rischia di essere delegittimato, in Europa, 29 novembre 2005; G.

Zagrebelsky, Una riforma del voto irrazionale e incostituzionale, in la Repubblica, 25 ottobre 2005; V. Onida, I guai della legge elettorale. Cancellati sia il voto di coalizione sia la scelta dei singoli candidati, in Il Sole 24 Ore, 20 dicembre 2005; A. Manzella, La corsia sbagliata della democrazia, in la Repubblica, 15 dicembre 2005; A. Pace, Senato, un aiuto a chi perde, in Europa, 1° novembre 2005.

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disciplinante la materia appunto in modo (almeno in parte) irra-zionale e per questo incostituzionale42. L’approccio cui c’ispireremo, pertanto, ci porterà a chiedere se esista (e quale sia) la logica sistemica sottesa alla nuova legge elettorale, spingendo anche ad interrogarsi sulla sua idoneità a farsi carico, al contempo, delle esigenze di rappresentanza e di governabilità e sui possibili (ma in realtà certi, quando si considerino gli impatti tuttora osservabili sul sistema politico e su quello istituzionale di Governo) effetti che la stessa ha registrato relativamente alla previsione delle «liste bloccate» nell’individuazione dei candidati e degli eletti. Una scelta – quest’ultima – di dubbia legittimità, che rischia di allontanare ulteriormente e in modo (forse) definitivo i cittadini dai partiti, riaffermando, in tal modo, quel principio di «esclusività» nella funzione di rappresentanza e di mediazione politica che già in precedenza si è ampiamente criticato.

Così richiamati i temi ora oggetto di analisi, non può non osservarsi come, sotto ognuno dei profili evocati, la vigente legge elettorale registri un netto abbandono dei princìpi sistemici che avevano in passato ispirato la riforma (prevalentemente) maggiori-taria (essi stessi, invero, molto incerti). Tale opzione, tuttavia, non sembrerebbe seguire un criterio formale di disinteresse istituzionale verso l’obiettivo della governabilità, quando si consideri che (al-meno) alcune disposizioni sono previste in tale prospettiva (art. 1, V co., della l. n. 270/2005), come, ad esempio, la presentazione alla Camera di un «programma elettorale» e l’indicazione dei dati personali del leader indicato dai partiti o dai gruppi politici organizzati quale «capo della forza politica»; indici – questi ul-timi – che farebbero assumere un interesse verso la formazione di coalizioni guidate da un leader certo. Ma si tratta, come si può osservare, di disposizioni ampiamente inadeguate rispetto all’obiettivo atteso della stabilità e della coesione interna della maggioranza di Governo, soprattutto se comparate con le più stringenti formule del sistema elettorale previgente, sia nella indi-viduazione del leader capofila delle coalizioni sia nei meccanismi di trasformazione dei voti in seggi parlamentari.

42 S. Ceccanti, La Val d’Aosta è cosa seria, in Europa, 20 dicembre 2005; M. Croce, «Se non ora quando?»: sui possibili vizi di costituzionalità della legge elettorale (e sui possibili modi per farli valere), in Forum di Quaderni costituzionali, 2007.

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È rispetto a questa incertezza di fondo nella garanzia della «governabilità», infatti, che appaiono del tutto incongrue ed irrazionali le farraginose soluzioni accolte con riferimento alla distribuzione del premio di maggioranza, fino a doversi sostenere, in unum con gli orientamenti della prevalente dottrina che si è fin qui occupata della questione, che siamo in presenza di una «irrazionalità complessiva» della legge, che, per questa ragione, non potrà che essere censurata dal Giudice delle leggi (qualora adito in sede di controllo incidentale della costituzionalità). Da una parte, infatti, la legge non prevede (ma forse non poteva, quando si consideri la previsione accolta nell’art. 67 Cost.) alcuna sanzione per le coalizioni di forze politiche che, dopo aver fruito del premio di maggioranza, immediatamente dopo decidano di sciogliersi per confluire in altre forze politiche, violando in tal modo il principio di eguaglianza del voto e alterando di conseguenza le condizioni della competizione elettorale; dall’altra – e soprattutto – occorre sottolineare la scarsa (e per questo irrazionale) capacità premiante del «premio di maggioranza» (rispetto alla ratio che ha guidato nel suo complesso la previsione legislativa del pre-mio medesimo), quando si consideri come la stessa, in sede di assegnazione dei seggi al Senato, finisca in realtà per annullarsi all’interno di ogni singola regione, non producendo quell’atteso effetto premiante e di stabilizzazione della coalizione di forze politiche vittoriose alle elezioni per assicurare alle stesse almeno il 55% dei seggi, a garanzia della stabilità governativa. Un premio regionale – quest’ultimo – che diviene manifestamente un «non premio» a livello nazionale, in quanto i differenti, singoli, premi possono finire per annullarsi (come è appunto avvenuto al Senato nelle elezioni del 2006). Si tratta, in conclusione, di un sistema elettorale a base proporzionale corretto con premio di maggio-ranza e sbarramenti (variegati), che, tuttavia, non risulta idoneo ad assicurare i princìpi proiettivi propri dei sistemi elettorali a base proporzionale43, né ad assicurare il ruolo di rappresentanza attraverso gli eletti44.

43 E ciò in ragione della congerie davvero irrazionale di sbarramenti previsti alla Camera e al Senato, nonché a causa della previsione di un premio di maggioranza per assicurare al Senato una maggioranza di seggi pari al 55% e alla Camera un numero di seggi pari a 340 su 630.

44 Ciò in considerazione della previsione di «liste bloccate», che consentono all’elet-tore di poter scegliere solo fra liste di partiti, coalizzate o meno fra loro, e non certo

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Il paradosso di una riforma tanto in contrasto con la filosofia della governabilità seguita nell’ultimo decennio, nonostante i già richiamati limiti di tale legislazione elettorale, consistenti nella sola garanzia della stabilizzazione della maggioranza non accompagnata dalla relativa coesione interna, tuttavia sollecita l’interrogativo circa l’esistenza (o meno) di congiunturali «interessi partigiani», che hanno spinto la maggioranza parlamentare del tempo (di centro-destra) a violare consolidate regole della Costituzione materiale – come quella di adottare una legge elettorale in limine e «in solitudine» – e in contrasto con i princìpi dello stesso patrimonio costituzionale europeo45. Naturalmente, una simile ricerca non può «assolvere» le ragioni d’irrazionalità, e pertanto d’illegittimità costituzionale, del nuovo sistema elettorale, per come già auto-revolmente sottolineate. Ma potrà forse aiutare a comprendere l’evidente difficoltà del recente legislatore, anche in ragione delle esigenze politiche di vedere garantita una coesione all’interno della maggioranza parlamentare rispetto al «potere di crisi» esercitato da una forza minore, come quella della Lega Nord46.

In un’ultima considerazione critica, infine, rimane da affron-tare la distanza – si direbbe siderale – di una simile riforma elettorale rispetto alla filosofia-ingegneria istituzionale posta a base del testo di revisione costituzionale (poi respinto in sede referendaria)47. Quest’ultimo sembrava ispirarsi a una «nuova democrazia» fondata sulla (pressoché esclusiva) investitura diretta dei governi, accompagnandosi con la volontà di attutire forte-mente (fino quasi a farli scomparire) meccanismi di equilibrio che i costituenti del ’48 avevano assegnato al capo dello Stato ed alla Corte costituzionale; equilibri – questi ultimi – che nel complesso hanno ben funzionato, nel loro ruolo di equilibratori del sistema fondato comunque sulla rappresentanza e sul Parla-

candidati ritenuti più capaci (sul punto cfr. anche G. Azzariti, I rischi dell’«antipolitica» tra legge elettorale..., cit., p. 5).

45 Codice di buona condotta in materia elettorale, adottato dal Consiglio d’Europa il 30 gennaio 2003.

46 G.C. Pinelli, E. Stradella, Un tentativo di «analisi di impatto» della nuova disciplina elettorale, in Forum di Quaderni costituzionali, 2006; La riforma del sistema elettorale. Anomalie e aspetti di incostituzionalità. Uno studio di Nens, paper, 2005.

47 AA.VV. (a cura di F. Bassanini), Costituzione, una riforma sbagliata, Firenze, 2004; AA.VV. (a cura di P. Calderisi, F. Cintioli, G. Pitruzzella), La Costituzione promessa, Soveria Mannelli, 2004; AA.VV. (a cura di D. Gallo, F. Ippolito), Salviamo la Costituzione, Taranto, 2005 (in quest’ultimo volume cfr., in particolare, L. Ferrajoli, Processo costituente); L. Vandelli, Devolution ed altre storie, Bologna, 2005.

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mento. Nel primo caso, infatti, si sarebbero determinate in modo compiuto le conseguenze piene della «democrazia d’investitura», per la quale il Parlamento sarebbe stato esautorato da ogni po-tere concreto d’indirizzo e di controllo sull’Esecutivo, a meno di non utilizzare come extrema ratio l’arma letale ed autodistrut-tiva della mozione di sfiducia (o quella, parimenti difficile dal punto di vista politico, di una mozione di sfiducia construens). Rispetto al secondo rapporto, la riforma avrebbe ridotto, fino a distruggerlo, il ruolo di «potere neutro» del Presidente della Repubblica, che tanta moderazione e saggezza può apportare (ed ha apportato) al sistema politico-costituzionale nei momenti di particolare crisi in cui quest’ultimo può venire a trovarsi (e si è concretamente trovato nel corso del tempo). Al contrario, con una metafora spesso utilizzata, il modello di Governo prospettato si allontanava dalla Manica (modello britannico) per avvicinarsi alla fallimentare esperienza israeliana. Non richiamava, infatti, il modello britannico perché il Premier inglese non dispone del potere di scioglimento delle Camere (e d’altra parte lo stesso può essere sostituito dalla sua maggioranza con altro leader, come è puntualmente avvenuto nell’avvicendamento fra la Thatcher e Major e fra Blair e Brown); si avvicinava fortemente, invece, a quello israeliano48, cioè ad un premierato espressamente elettivo con potere di scioglimento, modello di cui Israele si è presto disfatto per i conclamati limiti d’instabilità politica di quella formula di Governo.

L’orientamento qui seguito, naturalmente, non può essere inteso nel senso che il potere di scioglimento non sarebbe formalmente riconosciuto al Premier britannico, come si deduce dall’analisi della disciplina positiva e in dottrina49. Seguendo un approccio metodologico utilizzato da una parte della dottrina (benché allo scopo di dimostrare la tesi opposta a quella che qui si sostiene), pertanto, la tesi intende piuttosto sottolineare l’esistenza di regole convenzionali alla base dello scioglimento, alle quali concorrono tanto il potere formale del Premier, tanto la concreta operatività

48 F. Clementi, La riforma della Legge fondamentale sul Governo in Israele, in Quaderni costituzionali, 2001, 2.

49 G.F. Pasquino, Capi di governo, Bologna, 2007; T.E. Frosini, Premierato e scio-glimento delle Camere, in Federalismi.it, 2006, 1; S. Ceccanti, Il premierato. Matrici ideali e traduzione nell’oggi, Relazione al Seminario della Fondazione Italianieuropei (Roma, 9 gennaio 2003).

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del sistema elettorale maggioritario a base uninominale (e della connessa tendenza bipolare/bipartitica del sistema), secondo cui il corpo elettorale «elegge», nel senso di «sceglie» (nel senso forte di una legittimazione quasi diretta della premiership e della maggioranza parlamentare), tanto il Premier quanto appunto la stessa maggioranza che lo sosterrà in Parlamento50. È appunto a tale contestualità della legittimazione (quasi)-diretta da parte del corpo elettorale che si deve l’ulteriore conseguenza di un potere di scioglimento da parte del Premier, che risulterà indebolito rispetto al diverso avviso della «sua» maggioranza parlamentare, che per questo disporrebbe/dispone, fra le sue opzioni, anche di quella di sostituire il Premier con altro leader individuato nell’ambito della maggioranza parlamentare, individuando in tale cambia-mento del «cavallo di corsa» una scelta politicamente necessaria per assicurarsi il successo nella successiva tornata elettorale. Tali considerazioni, in conclusione, portano a sottolineare un ulteriore ed evidente paradosso, che nel fondo, poi, tale non è. In altri termini, sembrava volersi inseguire un modello di allontanamento dell’investitura della maggioranza parlamentare a favore di una leadership solitaria, cioè quella del capo del Governo, dominus, nella fase di formazione del Governo e nella sua vita istituzionale, del potere di risolvere la crisi ogni volta che essa insorgesse, ricorrendo alle risorse istituzionali/costituzionali piuttosto che a quelle, più adeguate, di un dialogo stringente fra il Premier e la sua maggioranza parlamentare. In breve, si sarebbe fatto ricorso a una «scorciatoia» costituzionale che sarebbe stata assoluta-mente in squilibrio rispetto al mix di «pesi e contrappesi» che sono necessari in una democrazia parlamentare e perfino in una forma presidenziale, come ci hanno insegnato gli stessi costituenti nord-americani.

6. Le incerte prospettive del dibattito in corso sulla riforma elettorale e sui modelli di riferimento

Il clima di transizione in cui, da più di un ventennio, versa il sistema politico del Paese, e nel quale sono stati sperimentati

50 Si rinvia sul punto alle analisi puntuali e convincenti di G.F. Pasquino, Capi di governo, Bologna, 2007, pp. 337 ss.

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reiterati (e vani) tentativi di riforma costituzionale volti a realizzare la strategia istituzionale del sostegno alle finalità partecipative e a quella della garanzia della stabilità governativa, sollecita, da ultimo, una riflessione sul dibattito in corso in tema di riforme elettorali. In un quadro di riferimento che auspica (e che as-sume comunque come determinante) un raccordo con la riforma costituzionale della forma di Governo, queste ultime assumono, così, una loro non superata centralità nella discussione politica ed istituzionale del Paese.

Prima di andare oltre nell’analisi, così, e diversamente da quanto si assumeva nei primi anni ’90, si sottolinea che un processo di riforma deve strettamente integrare l’autoriforma dei partiti politici, la riforma elettorale e la riforma costituzionale (sia nel senso di un’ispirazione al principio monocratico del Governo, sia nella direzione di una riduzione del numero dei parlamentari e dello stesso superamento dell’attuale bicameralismo). È convinzione diffusa che tali ultime riforme – riguardando la Costituzione in senso stretto ovvero materie che, pur senza esserlo formalmente, costituiscono materia costituzionale – impongano una loro approvazione con maggioranze diverse da quelle previste per l’approvazione delle leggi.

Entrando ora (sia pure brevemente) nel merito della rifles-sione sul tema, si può sottolineare, in via preliminare, che le soluzioni astrattamente ipotizzabili in tema di riforma elettorale possono essere variegate, ancorché «specializzate» in base al-l’angolo di osservazione più adeguato costituito dalle preferenze che si possono esprimere, in via generale, a favore dell’una o dell’altra articolazione interna dei vari sistemi elettorali astratta-mente adottabili. Molte, così, sarebbero le soluzioni astrattamente ipotizzabili come maggiormente adeguate a dare soluzione alle più significative problematiche di rappresentanza e di Governo presenti nel contingente quadro politico. Le problematiche po-litiche insite nella riforma di una legge elettorale, in ogni caso, portano ad osservare che le riforme che potranno/potrebbero concretamente affermarsi sono soltanto quelle che maggiormente rispondono agli interessi (partigiani) delle forze parlamentari che saranno chiamate alla relativa approvazione parlamentare e che rispondono a una valutazione di merito relativamente alle per-formances positive (o meno) del tipo di bipolarismo conosciuto nel Paese a seguito delle riforme elettorali dei primi anni ’90.

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Come ipotesi di lavoro, in ogni caso, pare potersi escludere che le prevalenti modellistiche invocate nel dibattito (attualmente) in corso possano avere un seguito parlamentare, atteso che le stesse (soprattutto nella modulazione accolta all’interno della c.d. Bozza Vassallo-Ceccanti) rispondono in modo pressoché esclusivo agli interessi partigiani dei due maggiori partiti del quadro politico attuale (il Partito Democratico, appunto, e il Partito del Popolo delle libertà).

Le formule elettorali maggiormente richiamate (e discusse) nel recente dibattito politico e in quello dottrinario sono date, da una parte, da quella accolta nel sistema elettorale tedesco e, dall’altra, da quella accolta dal legislatore elettorale spagnolo. Se, al contrario, la riflessione seguisse il criterio sistemico, costituito dall’integrazione fra legge elettorale, stabilità del Governo e ga-ranzia della rappresentanza, occorrerebbe sottolineare come, fra tutti i sistemi elettorali in campo, quello più prossimo a farsi carico dell’insieme degli obiettivi politico-istituzionali richiamati sarebbe il sistema elettorale francese. Tale sistema parrebbe co-stituire il logico e coerente sviluppo della legislazione elettorale (prevalentemente maggioritaria) dei primi anni ’90 (vigente fino all’adozione della legge n. 270 del 2005; c.d. legge Calderoli). Tuttavia, tale analisi non ha incontrato fin qui il consenso del-l’attuale coalizione delle forze di centro-destra, costituendo tale sistema elettorale, da più di un decennio, l’opzione istituzionale accolta nei programmi politici dei DS, almeno prima che que-sto partito (fondasse e) confluisse nel Partito Democratico. Gli orientamenti che precedono, in ogni caso, esprimono una mera valutazione tecnica, di coerenza politico-istituzionale, e non certo una preferenza personale nei riguardi del sistema elettorale d’Ol-tralpe, limitandosi a sottolineare come esso costituisca la formula maggiormente coerente all’esito referendario dei primi anni ’90 (che andava rispettata, al momento di progettare un nuovo sistema elettorale) e soprattutto al sistema elettorale adottato a valle di tale pronunciamento referendario (c.d. legge Mattarella)51.

51 Astrid, La riforma elettorale, Firenze, 2007; L. Elia, Riflessioni sui sistemi elettto-rali, in Astrid Rassegna, 30 novembre 2007; S. Stammati, Sul sistema elettorale tedesco e sulla sua applicazione in Italia, Seminario Astrid, 20 novembre 2007; F. Bassanini, Sul progetto di riforma elettorale del Partito democratico (Osservazioni sulla c.d. bozza Vassallo), in Astrid Rassegna, 2007, 19; S. Gambino, Riforme elettorali e modelli di democrazia, in Federalismi.it, 2006, 2.

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Così, nel considerare gli effetti di tale sistema elettorale sul sistema politico francese – ormai stabili da più di un trenten-nio –, non può non prendersi atto come, sotto lo stesso profilo della rappresentanza parlamentare, tale sistema abbia consentito un’efficace garanzia della stabilità e della governabilità attraverso la presenza parlamentare, a supporto del Governo, di almeno due forze politiche (la c.d. «quadriglia bipolare»), e la stessa articolazione si è registrata nell’opposizione parlamentare52. Nel merito dell’operatività di tale forma di Governo, tuttavia, deve sottolinearsi come la stessa non possa essere colta validamente qualora analizzata in modo disgiunto dalle caratteristiche istitu-zionali-costituzionali della forma di Governo accolta nella Quinta Repubblica francese (parlamentare razionalizzata con esecutivo diarchico), a sua volta strettamente connessa, nella Costituzione materiale di quel Paese, al presidenzialismo maggioritario e a tutto ciò che lo connota istituzionalmente: Esecutivo duale, ma gerarchizzato da un’indiscussa supremazia presidenziale, dominio dell’Esecutivo sulla maggioranza parlamentare, sistema partitico a logica quadripolare e a formato limitato. È per tale idoneità a conformare un bipolarismo articolato al suo interno (quadri-polarismo) e accompagnato da una previa conoscibilità da parte dell’elettore che si è assunto come tale sistema possa utilmente offrire i suoi servigi allo stesso frammentato quadro politico del Paese.

Passiamo ora, sia pure brevemente, a qualche riflessione essenziale sui sistemi richiamati nel dibattito in corso, a partire dal sistema elettorale tedesco e a seguire su quello spagnolo, per trarne, in conclusione, qualche prospettazione de jure condendo.

Il sistema elettorale tedesco – proporzionale personalizzato, corretto dalla clausola di sbarramento – si presenta come un sistema misto e si caratterizza, in particolare, per l’attribuzione all’elettore di due voti53. Tale sistema, come è noto, opera nel quadro di una forma di Governo stabile ed efficace, nella quale un ruolo di snodo è svolto indubbiamente dalla previsione costi-tuzionale della sfiducia costruttiva (peraltro operante nella stessa forma di Governo spagnolo, di cui si dirà in seguito) e dalla

52 A. Di Virgilio, Semipresidenzialismo e doppio turno nella Quinta Repubblica francese..., cit.

53 S. Corrado, I sistemi elettorali nei paesi della comunità europea, Rimini, 1984.

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primazia del Cancelliere federale rispetto ai Ministri; una primazia – quest’ultima – che si accompagna con il potere riconosciuto a tale organo di dettare «direttive» vincolanti nei confronti dei diversi Ministri che compongono l’Esecutivo.

Con il primo voto (Erststimme) l’elettore vota, a scrutinio uninominale (e a maggioranza relativa dei voti espressi), per l’elezione del 50% dei deputati del Bundestag in altrettante circo-scrizioni elettorali. Pertanto, con tale voto, da parte dell’elettore, si procede ad esprimere la propria preferenza per il candidato di uno dei partiti presenti nel collegio uninominale, risultando eletto quel candidato che abbia ottenuto la maggioranza relativa dei voti nel collegio stesso. Con il secondo voto (Zweistimme), l’elettore vota la seconda metà dei componenti il Bundestag, con sistema proporzionale, in base allo scrutinio di lista, secondo i voti riportati nei Länder dalle liste dei singoli partiti. Si tratta di un sistema volto a dare rappresentanza parlamentare a maggio-ranze già costituite, senza operare forzature sulla base di premi elettorali, tranne quelle della preclusione delle forze politiche che non raggiungano il 5% dei voti.

Il riparto dei seggi avviene, mediante l’applicazione del me-todo d’Hondt, fra le diverse liste di partiti in competizione, in proporzione ai voti riportati dalle singole forze politiche a livello nazionale che abbiano superato il 5% dei secondi voti in tutto il territorio della Federazione (ovvero che siano riuscite a conseguire almeno tre mandati diretti). Il riparto dei seggi fra i vari partiti avviene in una prima fase a livello statale ed in una seconda a livello dei singoli Länder. In sede di secondo riparto si determinano complessi effetti di scorporo, con la conseguenza che per un partito può verificarsi l’assegnazione di seggi detti di sovra-rappresentazione54. È stato bene osservato, sul punto, che l’originalità di tale sistema elettorale risiede appunto nel suo saper coniugare «i vantaggi e gli svantaggi dei due sistemi elettorali di base (il maggioritario e il proporzionale)»55.

Qualche ulteriore dato di funzionamento risulta utile ai fini di una migliore comprensione del funzionamento di tale sistema elettorale. In via generale, esso opera all’interno di

54 «Ciò avviene quando, nelle circoscrizioni elettorali di un Land, un partito ha otte-nuto, con i primi voti, un numero di seggi superiore a quello al quale avrebbe diritto in base ai risultati elettorali calcolati sulla base dei secondi voti espressi» (ivi, p. 86).

55 Ivi, p. 85.

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un’architettura politico-partitica di tipo centripeto, favorita dalla previsione costituzionale di esclusione dalla partecipazione politica di quelle forze politiche i cui statuti non assicurino la relativa conformazione ai princìpi liberal-democratici posti a base dell’ordinamento costituzionale (art. 21 LFB). Se si fa eccezione per i partiti che non superano lo sbarramento del 5% (ovvero che, qualora ottengano meno del 5%, abbiano vinto almeno in 3 collegi uninominali), pertanto, tale sistema elettorale opera come un sistema proporzionale puro. In questa cornice, fino alla recente performance della Linke di Lafontaine, in Germania, si registra una evidente sovra-rappresentazione dei due principali partiti (CDU/CSU e SPD)56. Dettaglio non secondario nel funzionamento di tale sistema elettorale, come si è già detto, pertanto, è quello che porta ad osservare che l’elettore esprime, sulla stessa scheda, due voti: uno per l’ele-zione dei parlamentari nei collegi uninominali maggioritari ed uno sulla lista bloccata. La questione centrale, tuttavia, è data dalla considerazione secondo cui, con il secondo voto, l’elet-tore può incidere anche sui risultati del primo voto espresso. È stato puntualmente osservato, sul punto, che «(...) il voto proporzionale determina “quanti” sono gli eletti (compresi quelli dei collegi uninominali) per cui non sono due voti alla pari, non si tratta di due pezzi non comunicanti del sistema. È un “proporzionale personalizzato”, dove il secondo decide tutto (proporzionale) e il primo (personalizzato) serve in sostanza a individuare “quali” sono gli eletti dentro la lista votata. Quindi, col voto di lista si determina “quanti” sono eletti; col voto nei collegi “quali” vengono eletti nell’ambito del partito votato col voto di lista»57. È da sottolineare, inoltre, come parte qualifi-cante di tale sistema, la previsione dei regolamenti parlamentari volta a vietare la creazione di gruppi parlamentari che non corrispondano a forze politiche che si sono presentate alle elezioni. Una previsione – quest’ultima – che dovrebbe essere prevista nelle riforme in discussione, qualunque sia il modello che alla fine prevarrà.

56 Secondo i dati forniti da R. D’Alimonte, Vantaggi impliciti ai big, qui il nodo, in Il Sole 24 Ore, 18 novembre 2007, alle ultime elezioni, in Germania, i due maggiori partiti hanno conseguito il 69,4% dei voti, a cui è corrisposto il 73% dei seggi.

57 «Scheda sul sistema elettorale tedesco (proporzionale personalizzata)», paper.

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Diversamente da quanto si prevede in una delle bozze di riforma elettorale maggiormente discusse in questa fase (la c.d. «bozza Vassallo», predisposta per la discussione interna al Partito Democratico58, laddove si prevede l’espressione unica del voto da parte dell’elettore), dunque, uno dei profili maggiormente caratterizzanti il sistema elettorale tedesco è appunto il sistema doppio di voto riconosciuto all’elettore, mediante il cui esercizio si procede da parte dell’elettore al voto per il singolo candidato e, al contempo, per il partito. A ben cogliere, la composizione del Parlamento dipenderà in gran parte dal risultato delle elezioni nella componente proporzionale del voto espresso.

Una seconda peculiarità di tale sistema elettorale, che in Italia non sarebbe, comunque, consentita dalla previsione costituzionale, concerne la possibilità tecnica (che è tuttavia prassi corrente) di mandati parlamentari in soprannumero rispetto a quelli previsti per la composizione del Bundestag.

Se appare di tutta evidenza la scarsa idoneità sistemica di una simile formula elettorale a sostenere la strategia politica del bipolarismo, possono comprendersi le ragioni di alcune forze politiche (e le connesse perplessità di altre) che hanno portato ad accogliere come strumento di lavoro la «bozza Vassallo», la quale si caratterizza per il suo ispirarsi al sistema elettorale te-desco del 1949 (prima cioè che, nel 1953, fosse introdotto nella scheda elettorale l’attuale doppio voto). La strategia istituzionale alla base di tale bozza, modificativa in modo significativo della formula elettorale tedesca, s’ispira espressamente alla finalità di «preservare la dinamica bipolare» del sistema politico del Paese; un bipolarismo del quale, tuttavia, occorre sottolineare come, per molti versi, sia risultato, fin qui, artificioso ed inadeguato quanto alla capacità di limitare la frammentazione partitica (successiva al voto) e alla capacità di assicurare la coesione interna alle forze politiche delle maggioranze di Governo. Un bipolarismo che si è accompagnato con fenomeni assolutamente negativi nella dinamica democratica interna ai partiti (nel senso cioè che spesso, e per talune forze politiche quasi sempre, il vincolo costituzionale del «metodo democratico» interno ai partiti è risultato assente sia negli statuti che nella prassi

58 S. Vassallo, Un sistema elettorale semplice, per un nuovo bipolarismo. Un po’ tedesco, un po’ spagnolo, un po’ italiano, in astridonline.it, 6 novembre 2007.

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della vita interna dei partiti), e che ha trovato la sua logica (e non contrastata) soluzione nell’adozione della lista bloccata dalla vigente legge elettorale (l. n. 270/2005), voluta per stra-tegie poco adamantine dalla maggioranza di centro-destra del tempo e non avversate in modo convincente dall’opposizione del centro-sinistra.

Con l’adozione del voto unico per il collegio uninominale (e dunque per l’elezione della metà dei parlamentari) e per il voto di lista, come è stato bene sottolineato, così, si vanifica una delle ragioni di maggiori criticità nei confronti della legge eletto-rale vigente, quella delle c.d. liste bloccate. La libertà di scelta dell’elettore, pertanto, ne risulta fortemente compromessa59. Al fine di una partecipazione anche da parte dei partiti più piccoli alla redistribuzione dei seggi della quota proporzionale, inoltre, secondo tale ipotesi di riforma si prevede che ogni forza politica debba presentarsi con propri candidati nei collegi uninominali. Una partecipazione, quest’ultima, che si presterebbe a valutazioni molto problematiche (e finanche al sospetto di perseguire «finalità truffaldine»60, non molto diverse da quelle che avevano guidato il precedente legislatore elettorale, che lo avevano portato alla previsione legislativa della soppressione del collegio uninominale) da parte di questi ultimi, in ragione di una variabilità molto forte delle «soglie implicite» determinate dalla dimensione delle circoscrizioni plurinominali.

Un secondo prevalente modello di riferimento richiamato nel dibattito elettorale in corso riguarda il sistema elettorale spa-

59 Come sottolinea in modo convincente O. Massari (Osservazioni rapide sulla Bozza Vassallo, in Seminario Astrid sui sistemi elettorali tedesco e spagnolo, 20 novembre 2007, «Il punto più debole, a mio avviso, è il voto unico per il collegio uninominale e il voto di lista. Questo vanifica il primo obiettivo. L’elettore non ha la libertà di scelta, essendo costretto a scegliere in blocco tanto il candidato (la persona) nel collegio uninominale quanto la lista bloccata. La libertà di scelta si ha, al contrario, se il voto alla persona è disgiunto dal voto alla lista. È questo il pregio del sistema tedesco. Il voto unico vanifica questo pregio, che è anche un vantaggio per l’elettore e i partiti. Il doppio voto sulla scheda, infatti, favorisce, come accade puntualmente nelle elezioni tedesche, il voto strategico (ossia, attraverso un’azione di coordinamento i due grandi partiti – o anche autonomamente gli elettorati fedeli – dirottano parte del loro voto sul loro più piccolo alleato, con il quale c’è stato un accordo pre-elettorale; i socialdemocratici verso i verdi nel voto di lista proporzionale, e i cristiano-democratici verso i liberali; viceversa i due grandi partiti ricevono più voti nei collegi uninominali, perché i due piccoli partiti alleati riversano parte del loro voto verso i grandi). È un meccanismo virtuoso che garantisce tanto la libertà dell’elettore, quanto la possibilità di costruire alleanze pre-elettorali chiare e coerenti (grazie appunto al voto disgiunto)».

60 Ivi, p. 2.

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gnolo. Pensato per conseguire un grado elevato di bipartitismo ed una buona rappresentanza dei partiti regionali e allo scopo di disincentivare la presenza nelle Cortes dei partiti minori na-zionali, tale esperienza fa egualmente ricorso al sistema elettorale proporzionale ma operante in collegi di piccola dimensione, con la conseguenza di produrre effetti selettivi molto efficaci di tipo maggioritario. Mediante una simile opzione, nelle elezioni parla-mentari come anche in quelle autonomiche, in Spagna, infatti, si è determinata una tendenza dei trends elettorali di tipo (fattual-mente) maggioritario, con una evidente sovra-rappresentazione dei due maggiori partiti (PSOE e PP)61. Fondato sull’operatività del sistema proporzionale puro all’interno di ogni circoscrizione elettorale e sul ritaglio del territorio in un numero molto elevato di circoscrizioni, corrispondenti alle province, il sistema, come si è già detto, opera con effetti fortemente selettivi, sulla base di uno «sbarramento implicito» molto consistente, destinato a favorire – sovrarappresentandole – le formazioni più grandi a discapito di quelle più piccole. Al contrario, non pare signifi-cativa la selettività operata dallo sbarramento formale, fissato al 3% a livello circoscrizionale. La concentrazione regionale di formazioni a base nazionalistica, ovvero regionale (che in Spagna costituiscono una connotazione rilevante del sistema politico), pertanto, non è tale da incorrere in effetti preclusivi operati dal livello basso dello sbarramento previsto. Il sistema, in tal modo, consente di acquisire il consenso di tali formazioni (medie o piccole), bilanciando in tal modo la rappresentatività popolare con quella territoriale espressa dalle istanze autonomistiche, molto spinte in questo Paese, come si è già ricordato. Diversamente da quanto deve dirsi per il sistema elettorale tedesco, sotto il profilo tecnico (ma non sotto quello della preferenza) un simile sistema, qualora adottato, si presenterebbe come fortemente adattabile al caso italiano, dal momento che occorrerebbe solo procedere ad una frammentazione ulteriore delle attuali circo-scrizioni elettorali.

61 Alle ultime elezioni, i due maggiori partiti spagnoli, con l’80,2% dei voti, hanno conseguito l’89% dei seggi, cioè 312 seggi su 350. Sul punto, nell’ampia bibliografia cfr. anche il nostro Forma di governo (Parlamento, Governo e Costituzione), in Atti Convegno: 1978-2008. I trent’anni della Costituzione spagnola, organizzato dalla Università Bocconi (Milano, 28 aprile 2008).

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Se tuttavia nessuna delle due esperienze richiamate parrebbe offrire riferimenti certi nell’ottica del sostegno al bipolarismo (bensì in quella premiante dei partiti maggiori del sistema politico), per come da molte parti si sollecita – a meno di non fare ricorso a premi elettorali per sostenere la formazione di maggioranze parlamentari, ovvero a sbarramenti debordanti, che mal celereb-bero la loro inidoneità ad assicurare l’eguaglianza costituzionale del voto – sembrerebbe doversi sottolineare, con qualche ragio-nevolezza e consequenzialità, l’inidoneità delle ipotesi di riforma elettorale maggiormente discusse in questa fase nell’ottica del sostegno al bipolarismo (il quale, come si è già detto, non ha saputo evidenziare profili di pregio per un intero ventennio di sperimentazione). D’altra parte, è anche chiaro a tutti come il bipolarismo non possa prodursi in modo artificioso, come risul-tato di una scelta legislativa («per decreto»)62, e che pertanto lo spazio politico da dissodare rimane quello della politica e della ricerca di riforme al suo interno, mediante aggregazioni libere tra forze politiche contigue e mediante una ripresa di attenzione all’autoriforma, alla democrazia interna ai partiti e all’integrazione di quest’ultima con forme di apertura degli stessi alla società ci-vile (le elezioni primarie costituiscono una indubbia innovazione in questa direzione).

In questo senso costituiscono una positiva novità nel sistema politico tanto la costituzione del Partito Democratico, quanto quella del Partito del Popolo delle Libertà. Tuttavia, con tale affermazione non s’intende esprimere valutazioni critiche sui limiti che hanno accompagnato (e che stanno accompagnando) lo sviluppo di tale processo (all’interno delle due aggregazioni politiche), opportunamente inquadrato da taluno – con riferimento specifico al Partito Democratico – come una «fusione fredda», per sottolineare come all’indubbio consenso nelle primarie in favore di Veltroni non si è accompagnato un significativo di-battito, aperto alle componenti sociali attive nella partecipazione politica (lato sensu intesa), sulle linee programmatiche e sui relativi valori di riferimento del costituendo partito. Con rife-rimento al Partito del Popolo delle Libertà pare più semplice osservare come, ad un’assenza di democrazia interna a Forza

62 P.A. Capotosti, Riforme costituzionali, riforme elettorali e governabilità, in Qua-derno Astrid sulla riforma elettorale.

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Italia – almeno apparentemente non contrastata dall’interno da parte degli iscritti, fin dalla sua istituzione – ha fatto seguito, con un coup de theatre di tutta evidenza, una mera trasformazione del partito in un altro partito, con diversa ragione sociale. A fronte della natura personale di determinati «partiti personali» non sembra potersi aggiungere molto altro (dal punto di vista giuridico, naturalmente)63.

Rispetto ai modelli elettorali richiamati, in conclusione, il modello di riferimento che appare astrattamente obbligato per la riforma della legge elettorale in discussione, sia in quanto non incorre in forzature legislative (premi in termini di seggi o di sbarramenti differenziati), sia, e soprattutto, per il suo presentarsi come rispettoso di una logica sistemica (se rapportato alle esi-genze della governabilità), risulta essere quello francese (sistema elettorale a doppio turno). Tale sistema, come si è già detto in precedenza, si potrebbe prestare ad alcune importanti modulazioni interne che non ne mettano in questione la piena funzionalità. Ad esempio, se indubbiamente il primo turno svolge la funzione di garanzia della rappresentatività per tutte le forze politiche in campo (e che sono, naturalmente, disponibili a presentarsi, con i loro programmi e i loro uomini), non si dovrebbe, in via di principio, escludere che, al secondo turno, possano essere am-messe più forze politiche rispetto a quanto prevede l’attuale legge elettorale francese (che, al contrario, prevede uno sbarramento dell’11,5% per passare al secondo turno). Un premio elettorale, in questo caso, premierebbe quelle forze politiche minori che si coalizzano per competere al secondo turno, nella cornice di un accordo politico che supera i limiti programmatici delle forze politiche singolarmente considerate. Rimane naturalmente aperta la scelta, per i partiti alle estremità degli schieramenti politici, di non partecipare all’accordo di coalizione per il secondo turno,

63 In questo quadro risulta anche convincente l’accorato invito di G. Amato nella direzione di una forte riconsiderazione della legislazione in tema di finanziamento ai partiti. Se risulta ormai chiaro come la crisi dei partiti significhi anche (sia pure in modo differenziato da partito a partito) riduzione del legame fra candidati, partiti ed elettori, «deve essere chiaro che il denaro dei contribuenti deve essere destinato esclusivamente alle formazioni politiche che si sono presentate davanti agli elettori e hanno ricevuto il consenso sufficiente ad entrare in Parlamento» (G. Amato, La riforma elettorale e il referendum, in Astrid, 9 ottobre 2007); deve essere parimenti chiaro che non può seriamente parlarsi di un bipolarismo a fronte dai premi elettorali elargiti con tanta dovizia dalla vigente legge elettorale.

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decidendo in tal modo di auto-emarginarsi dalla competizione po-litica. L’adozione di una simile legge risulta offrire argomentazioni convincenti a chi si interroga, senza ricevere risposte risolutive, sui rischi intrinseci del c.d. «nuovo bipolarismo» perseguito dal recente ed inedito accordo fra i leaders dei due maggiori partiti, Veltroni e Berlusconi64.

64 Riflettendo sugli scenari politici susseguenti al recente incontro fra i due im-portanti leaders politici, espressivi delle due forze (astrattamente) maggioritarie nel Paese, un osservatore attento ha acutamente concluso (il suo fondo per il giornale per il quale scriveva) sottolineando che, paradossalmente, i due leaders sembrano aver negoziato su un tipo di sistema proporzionale e non su uno tipo di maggioritario (G. Tabellini, Riforme elettorali tra illusioni e autogol, in Il Sole-24 Ore, 2 dicembre 2007). L’osservazione coglie un evidente paradosso, descrivendo bene lo strabismo presente nel presente dibattito elettorale fra le forze politiche del Paese. Lo strabismo sembra essere tanto quello del Partito Democratico, che sembra inseguire un sistema elettorale che gli consenta di avere «mani libere», potendo in tal modo operare inedite alleanze al centro (in concorrenza con la sinistra c.d. radicale, ma aprendosi a formazioni politiche di centro, come l’UDC), che quello di Forza Italia (ma soprattutto del suo leader) che, con il nuovo bipolarismo, rischia di rompere la solidarietà politica interna alla Casa delle Libertà. Cfr. J.M. Colomer, It’s the Parties that choose electoral Systems (or Duverger’s Laws upside down, in Political Studies, 2005, vol. 53. Per gli osservatori politici, nel fondo, si potrebbero configurare almeno due altri possibili scenari che potrebbero aiutare a comprendere il recente accordo elettorale. Il primo lascerebbe ipotizzare un possibile «sgretolamento» della sinistra interna al Partito Democratico, la quale confluirebbe verso un nuovo centro egemonizzato dalla Democrazia cristiana (le dichiarazioni recenti dei partiti c.d. «cespuglio» sembrano andare effettivamente in questa direzione); il secondo scommetterebbe piuttosto sulla strategia della «grande coalizione» (che impone una riflessione più sistematica che rinviamo ad altra sede). Nell’uno e nell’altro caso siamo comunque in presenza di fughe in avanti che poco si addicono all’analisi di scenari concreti, come quello costituito da una nuova legge elettorale che tutti assumono ed affermano essere assolutamente necessaria al fine di assicurare stabilità e coesione alle maggioranze di Governo (in una parola, la governabilità del Paese), salvo poi non volerla effettivamente, ed organizzarsi coeren-temente perché non si approdi a tale scelta di riforma. Ma rimane un ultimo dubbio, che esprimiamo proponendo un interrogativo. Si deve proprio escludere un terzo possibile scenario, costituito da un accordo (tacito o meno) fra i leaders delle due maggiori formazioni politiche del Paese, volto a prendere atto del fallimento di ogni tentativo di riforma della legge elettorale (sulla base della Bozza Vassallo e di ogni altro modello ipotizzato e ipotizzabile) per poi trarne la conclusione che non esistono alternative al referendum? Per i due maggiori partiti, la risposta in senso negativo a tale interrogativo potrebbe significare l’attribuzione (nell’ipotesi di vittoria elettorale) dell’intero premio elettorale, attualmente distribuito fra tutte le formazioni politiche della coalizione che vince le elezioni.