ALPA-BESSONE-FUSARO Tipicità e numero chiuso dei diritti reali

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29/08/12 Tipicità e numero chiuso dei diritti reali. Dottrina e orientamenti giurisprudenziali 1/34 www.altalex.com/index.php?idnot=6899 Tipicità e numero chiuso dei diritti reali. Dottrina e orientamenti giurisprudenziali Articolo di Guido Alpa, Mario Bessone, Andrea Fusaro 09.02.2004 TIPICITA’ E NUMERO CHIUSO DEI DIRITTI REALI. POSIZIONI DELLA DOTTRINA,ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI (*) GUIDO ALPA, MARIO BESSONE, ANDREA FUSARO * Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro, e gli altri che in medesima materia seguiranno sono parte di capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà ,casa editrice S.e.a.m, Roma ,dove si trattano gli argomenti enumerati dal circostanziato. Come si sa,la tipicità dei diritti reali è tradizionalmente ritenuta uno dei principi fondamentali dell’ordinamento. Mentre le parti sono libere di concludere, nella loro autonomia negoziale,qualsiasi tipo di contratto, con qualsiasi contenuto (art. 1322 c.c.) non sono invece libere di costituire nuovi diritti reali, diversi da quelli espressamente disciplinati dal codice civile. Questo principio esprime linee di politica del diritto assai precise: non si vuol gravare la proprietà di pesi ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge e, al tempo stesso, si vuol tutelare chi entra in rapporto con il proprietario, o il titolare del diritto reale minore, al fine di porlo in condizione di conoscere con esattezza l’ampiezza dei propri diritti; tutela dei proprietari, quindi, e contestuale tutela dei terzi. Il numero chiuso dei diritti reali non deve però confondersi con la immutabilità dei diritti reali. Anche in questa ipotesi occorre compiere una analisi in prospettiva storica, e ricordare che, prima della codificazione napoleonica, esistevano molteplici diritti reali, diversi rispetto a quelli dell’oggi. Si conoscevano, per es., molti tipi di servitú, che si erano moltiplicati con la colonizzazione dei territori di conquista e la diffusione della schiavitú. Si contavano infatti servitú personali (che legavano lo schiavo, il famulo, il vassallo, il figlio al loro «padrone»), servitú reali (che sottoponevano un fondo ad altro fondo), e servitú miste (obbligo di andare ai molini, come vincolo di persona a cosa, oppure, uso, usufrutto abitazione, come vincolo di cosa a persona). Abolita la schiavitú, il Code civil limitò le servitú a quelle reali. Anche nel codice vigente vi sono novità: nel codice del 1865, infatti, non era disciplinata la superficie, che appariva più come creazione giurisprudenziale che non come individuazione legislativa di un nuovo tipo di diritto reale minore. E si registrano novità anche nella legislazione speciale: la legge sulla «casa» (l. 865/1971) ricorre infatti al diritto di superficie per la realizzazione di impianti e di edifici pubblici o di immobili da adibire a edilizia economica e popolare, concedendo tale diritto a chi intenda realizzare i programmi di edilizia (dopo aver espropriate le aree relative: art. 35, co. 4° e 8°). Si discute anche in dottrina se la distinzione tra diritti reali e diritti di credito, così come proposta dalla tradizione, sia sempre attuale: il problema nasce, per i diritti di credito, relativamente a figure che sono facilmente assimilabili ai diritti reali (per es. locazione ultranovennale), e per i diritti reali, a figure che si possono assimilare ai diritti di credito (per es. oneri reali o convenzioni, come la convenzione edilizia prevista dall’art. 8 della l. 10/1977, che debbono essere trascritti e limitano notevolmente l’autonomia privata). Avvertiva già Lodovico Barassi, in tempi ormai lontani, che il diritto reale limitato ostituisce un fatto anomalo, dal

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Tipicità e numero chiuso dei diritti reali. Dottrina e orientamenti giurisprudenzialiArticolo di Guido Alpa, Mario Bessone, Andrea Fusaro 09.02.2004

TIPICITA’ E NUMERO CHIUSO DEI DIRITTI REALI.

POSIZIONI DELLA DOTTRINA,ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI (*)

GUIDO ALPA, MARIO BESSONE, ANDREA FUSARO

* Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro, e gli altri che in medesima materia seguiranno

sono parte di capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà ,casa editrice

S.e.a.m, Roma ,dove si trattano gli argomenti enumerati dal circostanziato.

Come si sa,la tipicità dei diritti reali è tradizionalmente ritenuta uno dei principi fondamentali dell’ordinamento.

Mentre le parti sono libere di concludere, nella loro autonomia negoziale,qualsiasi tipo di contratto, con qualsiasicontenuto (art. 1322 c.c.) non sono invece libere di costituire nuovi diritti reali, diversi da quelli espressamente

disciplinati dal codice civile. Questo principio esprime linee di politica del diritto assai precise: non si vuol gravare

la proprietà di pesi ulteriori rispetto a quelli espressamente disciplinati dalla legge e, al tempo stesso, si vuol

tutelare chi entra in rapporto con il proprietario, o il titolare del diritto reale minore, al fine di porlo in condizione

di conoscere con esattezza l’ampiezza dei propri diritti; tutela dei proprietari, quindi, e contestuale tutela dei terzi.

Il numero chiuso dei diritti reali non deve però confondersi con la immutabilità dei diritti reali. Anche in questa

ipotesi occorre compiere una analisi in prospettiva storica, e ricordare che, prima della codificazione

napoleonica, esistevano molteplici diritti reali, diversi rispetto a quelli dell’oggi. Si conoscevano, per es., molti tipi

di servitú, che si erano moltiplicati con la colonizzazione dei territori di conquista e la diffusione della schiavitú. Si

contavano infatti servitú personali (che legavano lo schiavo, il famulo, il vassallo, il figlio al loro «padrone»),servitú reali (che sottoponevano un fondo ad altro fondo), e servitú miste (obbligo di andare ai molini, come

vincolo di persona a cosa, oppure, uso, usufrutto abitazione, come vincolo di cosa a persona). Abolita la

schiavitú, il Code civil limitò le servitú a quelle reali. Anche nel codice vigente vi sono novità: nel codice del 1865,infatti, non era disciplinata la superficie, che appariva più come creazione giurisprudenziale che non come

individuazione legislativa di un nuovo tipo di diritto reale minore. E si registrano novità anche nella legislazione

speciale: la legge sulla «casa» (l. 865/1971) ricorre infatti al diritto di superficie per la realizzazione di impianti e di

edifici pubblici o di immobili da adibire a edilizia economica e popolare, concedendo tale diritto a chi intenda

realizzare i programmi di edilizia (dopo aver espropriate le aree relative: art. 35, co. 4° e 8°).

Si discute anche in dottrina se la distinzione tra diritti reali e diritti di credito, così come proposta dalla tradizione,

sia sempre attuale: il problema nasce, per i diritti di credito, relativamente a figure che sono facilmente assimilabili

ai diritti reali (per es. locazione ultranovennale), e per i diritti reali, a figure che si possono assimilare ai diritti di

credito (per es. oneri reali o convenzioni, come la convenzione edilizia prevista dall’art. 8 della l. 10/1977, chedebbono essere trascritti e limitano notevolmente l’autonomia privata).

Avvertiva già Lodovico Barassi, in tempi ormai lontani, che il diritto reale limitato ostituisce un fatto anomalo, dal

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punto di vista di una piena signoria dominicale,sulla cosa che ne consenta la piú utile gestione.

Vediamo le possibili conseguenze di questa anomalia.

Anomalia non vuol dire però sfavore legislativo. Perché il sistema dei diritti reali limitati costituisce in

fondo l’espressione della solidarietà umana applicata alle cose: esso significa l’estensione ad altrepersone o ad altri fondi delle utilità esuberanti che possegga una cosa. Tanto che questa solidarietà può

anche essere imposta, come accade per le servitù (vere servitù) imposte dalla legge.

Una prima conseguenza in astratto potrebbe essere questa: appunto perché fatti anomali, non si possono

creare diritti reali limitati in aggiunta a quelli esplicitamente previsti dalla legge. Come dire che questi

diritti reali dovrebbero adunque avere struttura tipica, cioè corrispondere solo ai tipi ammessi dalla

legge.

Però questa anomalia non è da sé sufficiente a produrre questa conseguenza. Perché la formazione di

queste signorie reali limitate corrisponde pur sempre a una forte esigenza sociale. E se è così non è da

escludere – in astratto – che gli interessati possano stipulare quante limitazioni reali essi ritenganoopportune e insieme tollerabili, anche per raggiungere scopi economici non previsti dalla legge, la quale

d’altronde non può tutto prevedere. E l’art. 1103 dimostra che perciò essa lascia agli interessati la curadi regolare i loro interessi come essi credono, nei limiti consentiti dalla stessa legge, dall’interesse

pubblico, dal buon costume.

E se è così vuol dire che il problema dell’atipicità o no dei diritti reali limitati va risolta partendo da altre

considerazioni diverse dalla loro anomalia. Questo problema si confonde con quello (più generalmenteformulato) della tipicità dei diritti reali, sul quale problema generale non vogliamo qui tornare. Noi

abbiamo sempre sostenuto che i diritti reali – che è quanto dire i diritti reali diversi dalla proprietà, cioèquelli limitati – hanno struttura tipica: non possono cioè essere che i «tipi» previsti e più o meno regolati

dalla legge: perché la loro opponibilità a tutti i terzi, se formalmente la loro formazione è perfetta, è unfatto socialmente troppo grave perché ne sia consentita la libera costituzionalità a piacere degli

interessati. Ciò a differenza dei contratti obbligatori. Recentemente tuttavia furono elevate obiezioni chequi ci limitiamo ad accennare. In sostanza si distingue negozio creativo di un diritto reale dal diritto reale

in sé: anche ammesso che questo sia tipico, si nega la tipicità per quello. Come dire che l’art. 1103, chericonosce i contratti innominati, si riferirebbe non ai soli contratti creativi di obbligazioni – come tendecoerentemente a ritenere la dottrina che ammette la tipicità dei diritti reali – ma anche a quelli creativi di

diritti reali.

Qui ci limitiamo a riaffermare che non basta che la legge ammetta la realizzazione giuridica di un datoscopo pratico, per concludere che quella attuazione possa farsi in qualunque modo, vincolando in

qualunque caso tutti i terzi a rispettare quell’attuazione.

Per es. la legge non ha nulla in contrario che il proprietario di un fondo stipuli con un terzo un contrattocon cui si obblighi a permettere al terzo l’accesso al fondo a scopo di caccia anche nei casi in cui a rigore

la legge sulla caccia, nel silenzio degli interessati, l’escluderebbe. Obbligato è in tal caso solo ilproprietario: «contento lui contenti tutti».

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(L. Barassi, Diritti reali limitati, Milano, 1937, pp. 50-51).

E il principio è ripreso da Francesco Messineo, secondo il quale «i diritti reali su cosa altrui sono tipici, nel senso

che la volontà del costituente non può creare figure nuove e diverse da quelle che la legge contempla e disciplina.Il che, detto con altra espressione, significa che i diritti reali su cosa altrui sono tassativi, come numero e come

tipo».

Proseguiva Messineo:

Sono tipici anche in un altro senso: che la loro disciplina giuridica non può essere modificata dallavolontà del costituente, almeno nei suoi tratti fondamentali e, sopratutto, nel senso che il proprietariodella cosa, a carico della quale nasce il diritto reale, non può restarne aggravato più di quanto esso sia

già, in virtù della legge.

In questo senso, è sintomatica la scomparsa – nel c.c. – di talune norme (artt. 476, 616) del codice del1865, che rimettevano alla volontà delle parti, la possibilità di deroga, o di modificazione, della disciplina

giuridica dell’usufrutto e delle servitù.

Quelle riprodotte nel codice attuale toccano lati secondari della disciplina di quegli istituti: così, per es.,l’art. 957 e l’art. 1063.

Pertanto, anche l’interprete deve tener presente un siffatto canone, nell’applicare le norme disciplinatricidei diritti reali su cosa altrui.

La tipicità dei diritti reali su cosa altrui dipende dal principio, sopra ricordato, della libertà fondiaria: il

moltiplicarsi di questi diritti finirebbe col soffocare, e praticamente con lo svuotare di contenuto, il dirittodel proprietario di bene immobile, così come era avvenuto nell’Età di mezzo. L’opposto sistema, oggi

vigente, ha finito con l’estendersi, per ragioni di omogeneità, anche alla proprietà mobiliare, anche se,qui, come nei casi dell’usufrutto e dell’uso mobiliare, non è in gioco alcun pregiudizio alla libertà

fondiaria.

Ma la tipicità dei diritti reali su cosa altrui va intesa soltanto con la portata sopra indicata: non anche

nel senso che il legislatore non possa innovare, ovvero aggiungere, alle figure tradizionali di diritti realisu cosa altrui; sarebbe, questo un significato erroneo ed evidentemente inammissibile del principio e che,

in ogni modo, è smentito dal contegno concretamente tenuto anche dal legislatore italiano, nell’ultimariforma legislativa.

Infatti, come si è già veduto […] è oggi acquisita, nella dogmatica dei diritti reali, la figura della

concessione ad aedificandum, la quale crea indubbiamente un diritto reale su cosa altrui, nuovo rispetto

al sistema legislativo del codice del 1865; ma la cui introduzione non ha compromesso affatto il principiodella tipicità dei diritti reali su cosa altrui, nell’altro (e unico) significato legittimo, che quanto ha fatto il

legislatore, non potrebbero fare le parti, o l’interprete.

Pertanto un negozio che, eventualmente, fosse inteso a creare nuove figure di diritti reali su cosa altrui,

sarebbe contra legem, e però nullo […] o, quanto meno, inefficace.

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Il principio della tipicità si riflette, quindi, come limite all’autonomia negoziale (o contrattuale) dei singoli

[…] nel senso che ai singoli è negata la potestà di creare figure nuove (atipiche) di diritti reali, per cuivanamente la loro volontà sarebbe adibita a tale scopo; il quale è interdetto.

(F. Messineo, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1966, pp. 567-568).

Le considerazioni di Francesco Messineo sono condivise ancor oggi dalla dottrina prevalente. Ma anche chi

mostra di aderire alla tesi per così dire «tradizionale» compie una revisione del dogma.

In un saggio su questo problema, Giovanni Pugliese scrive infatti che «se si delimita la categoria dei diritti reali

[…]accogliendo in essa solo quelli che senza incertezza» si possono classificare come tali, si riesce a delineare un

nucleo di situazioni giuridiche sufficientemente omogenee e dotate di proprie sicure caratteristiche. Essa

comprende solo i c.d. diritti reali di godimento e viene individuata dai seguenti elementi distintivi: obbligo di tutti iterzi di astenersi da ingerenze (determinate o no) rispetto alla cosa; corrispondente pretesa del titolare verso i

terzi; facoltà spettante al titolare medesimo di compiere sulla (o riguardo alla) cosa atti (determinati o no) di uso,

godimento, sfruttamento. Questi elementi si riscontrano in tutti i diritti della categoria e, per converso, non si

riscontrano, riuniti, in nessun altro diritto.

Il principio della tipicità dei diritti reali tuttavia è oggi soggetto a critiche.

Nella letteratura giuridica recente, infatti, si erode il dogma della tipicità, che molti fanno risalire al diritto romano,

con una indagine che si avvale della prospettiva storica; ma sopratutto si pone in evidenza il fatto che nella prassi

il principio della tipicità soffre talune eccezioni. Vi sono infatti alcune figure di diritti di godimento che si

avvicinano, nei loro contenuti, ai diritti reali; e, per converso, talune figure di incerta classificazione, come gli onerireali o le obbligazioni propter rem, che sembrano esser piú simili ai diritti di credito che non ai diritti su cosa altrui

.

Questa considerazione era stata già svolta da Michele Giorgianni in contributi coevi alla codificazione del 1942.Ed è ora ripresa dall’autore – con finezza di argomentazioni – nella voce enciclopedica dedicata ai diritti reali, là

dove si opera il raffronto tra la disciplina dei diritti sulle cose e la disciplina dei diritti di credito.

Avverte Giorgianni:

La nozione del diritto reale e la contrapposizione tra esso e il diritto di credito si rivela fondata su basi

ben diverse rispetto a quelle comunemente accettate. In realtà, codeste basi avevano come presuppostoun certo stadio dell’economia, in cui campeggiava la proprietà (specie immobiliare) che – nel pensiero

dei filosofi e dei giuristi – costituiva il diritto perfetto per eccellenza, il quale si contrapponeva al diritto

di credito che costituiva semplicemente uno stadio di aspettativa rispetto alla proprietà.

Una volta che, con l’evolversi del sistema economico, i diritti diversi dalla proprietà – e specie il diritto

di credito – hanno arricchito il loro numero e il loro contenuto, si impone una revisione delle basi stesse

della distinzione.

Secondo quanto abbiamo sopra esposto, le due categorie sono frutto di una valutazione dei diritti

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patrimoniali fatta da due punti di vista diversi e assolutamente indipendenti l’uno dall’altro. Laonde, allo

stesso modo in cui avviene che un rapporto, che in base alla prima valutazione rientra tra i diritti di

godimento, appartenga poi in base alla seconda valutazione ai diritti reali, così può avvenire che unrapporto che in base alla prima valutazione rientra tra i diritti di credito, appartenga poi in base alla

seconda ai diritti reali. Ed infatti l’usufrutto, che è un diritto di godimento (1a valutazione), è diritto

reale (2a valutazione) quando il titolo di costituzione sia trascritto; mentre la servitú negativa, nella

quale, come ci siamo sforzati di dimostrare, l’interesse del titolare viene raggiunto mediante un rapportoobbligatorio, ed è quindi un’obbligazione (1a valutazione), è altresì un diritto reale (2a valutazione)

quando il titolo di costituzione sia trascritto: il che non è privo di conseguenze pratiche perché consente

di applicare alla servitù negativa le norme relative ai rapporti obbligatori e quelle relative agli obblighinegativi (così per es. l’art. 2933 c.c.) oltre a quelle che regolano i diritti reali.

Il risultato cui siamo pervenuti ci consente poi di inquadrare esattamente la figura della obligatio propter

rem e dell’onere reale, e può avere rilevanza nella soluzione del problema che riguarda la valutazione e ilimiti di efficacia di talune fattispecie pratiche che si fanno sempre più frequenti. La dottrina ha isolato

talune ipotesi in cui la persona del debitore è individuata non già in relazione ai suoi connotati fisici, ma

in quanto si trova in relazione con una cosa e più precisamente con un fondo determinato (ipotesi di talgenere sono previste per es. dagli artt. 882, 883, 1090, 1104 c.c.; secondo qualcuno sarebbero altresì da

comprendere in queste ipotesi le cosiddette limitazioni legali cui è sottoposto il proprietario nell’esercizio

del suo diritto, nel caso in cui queste possano considerarsi come vere e proprie obbligazioni, e cioè

quando al dovere del proprietario corrispondono il diritto di un’altra persona). Queste ipotesicostituirebbero la categoria delle obligationes propter rem o obbligazioni reali.

Si discute poi se, accanto a questa categoria, possa trovare cittadinanza nel nostro ordinamento

giuridico anche la categoria dell’onere reale, istituto essenzialmente germanistico. In forza dell’onerereale (o Reallast), il possessore di un fondo è tenuto verso una determinata persona a certe prestazioni,

ordinariamente periodiche (vd. per es. par. 1105 BGB). Secondo alcuni, un caso di onere reale ammesso

dal nostro ordinamento giuridico sarebbe costituito dal canone enfiteutico. Non è certo questo il luogoper affrontare la questione della ammissibilità dell’onere reale e della sua differenziazione rispetto

all’obbligazione reale.

(M. Giorgianni, Diritti reali, (diritto civile), voce del Novissimo Digesto italiano., Torino,p. 752).

Sintomi di queste incertezze, che si riflettono in una revisione dei dogmi della tradizione, si registrano anche in

giurisprudenza.

Risulta difficile, per es., distinguere la costituzione di una servitú, quale vero e proprio diritto reale minore, e la

assunzione di una obbligazione avente contenuti identici alla servitú, come accade quando due proprietari si

accordano perché uno di essi si accolli l’obbligo di erigere a proprie spese sul proprio suolo il muro divisorio deirispettivi fondi. Il criterio distintivo diviene allora imponderabile, perché riferito alla «volontà» delle parti. Di

questo problema già si è fatta menzione. Le soluzioni, come risulta dall’orientamento della giurisprudenza, sono

molteplici.

Decide a questo riguardo la Corte di Cassazione in una rilevante sentenza, che

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«in linea generale, il vantaggio che un fondo trae da un altro costituisce un dato meramente economico e

perciò giuridicamente amorfo. Esso è bensì indispensabile all’esistenza e al permanere della servitù (artt.

1027 e 1074 c.c.), ma non serve per distinguere quest’ultima dall’obbligazione, potendo essere assicurato– beninteso, con diverse conseguenze sul piano giuridico – anche mediante la costituzione di rapporti

obbligatori. Affinché sia oggetto di una servitù, occorre che sia voluto dalle parti non come risultato di

una prestazione, ma come «peso» imposto al fondo, ossia come effetto di un rapporto di servizio, direttoe valido erga omnes, tra quel fondo, che per questo si dice servente, e un altro, che diviene dominante.

«Pertanto, ciò che i ricorrenti, con evidente allusione all’istituto che vorrebbero vedere riconosciuto

nella specie, insistono nel qualificare utilitas, non è altro che l’interesse economico perseguito da DeNatale, allorché chiese e ottenne che Salipigni erigesse a proprie spese sul proprio suolo il muro divisorio

fra le due zone del capannone. Ma una volta individuato tale interesse, restava ancora da stabilire come,

ossia con quale strumento giuridico e con quale estensione, i contraenti intesero realizzarlo. Infatti, non

v’era ragione logica o giuridica per escludere a priori né l’ipotesi di una stipulazione di accordo soltantoobbligatorio, in virtù del quale il venditore erasi semplicemente liberato dall’onere di recingere il proprio

fondo, addossandolo tutto al compratore; né l’ipotesi, più complessa, di immediata costituzione di

un’obbligazione avente a oggetto sempre la costruzione del muro divisorio, ma accompagnata dallacontemporanea previsione di asservimento del manufatto alla porzione di capannone di De Natale.

(Cass. 10.4.1974, n. 1016).

Tuttavia è orientamento costante il principio che non si possono costituire nel nostro ordinamento servitú

personali:

Sotto il profilo giuridico va osservato che nel nostro ordinamento giuridico non sono ammesse le servitùpersonali, dette anche irregolari, intese come limitazioni al diritto di proprietà su una cosa a beneficio di

una persona: la legge riconosce soltanto le servitù prediali intese come peso imposto sopra un fondo per

l’utilità di un fondo appartenente a diverso proprietario (art. 1027 c.c.).

Tuttavia può essere concesso a favore di una persona il diritto di trarre alcune utilità da un fondo senzagravare questo in un peso reale: si dà vita, in tal caso, a un diritto personale a contenuto obbligatorio,

privo, cioè, degli effetti della realità e non assistito dal diritto di sequela (ne costituiscono esempi il diritto

concesso dal proprietario del fondo ad altra persona di passeggiare sul proprio fondo, di attingere acqua

alla propria fonte e così via)

(Si confronti: sez. 11, 7.6.1947, n. 880).

In relazione a siffatta impostazione giuridica del problema (le contraenti-appellanti avevano dedotto, in

proposito, uno specifico motivo d’appello), la Corte del merito ha trascurato di esaminare quali fossero

le caratteristiche dei cancelli e l’uso a cui essi erano destinati e quale fosse stata la reale intenzione delle

parti nello stipulare il patto per la realizzazione di essi.

L’enunciazione della sentenza che essi dovevano avere una funzione meramente architettonica e

decorativa è del tutto immotivata e non vale, perciò, a spiegare le ragioni attraverso le quali la Corte è

pervenuta al suo convincimento. […]

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(Cass. 10.1.1977, n. 76).

Altre volte, si discute se sia possibile qualificare in pegno irregolare la figura del deposito cauzionale di un bene

mobile registrato; si dibatte, in altri termini, se il pegno irregolare possa avere a oggetto un bene mobile registrato

o non sia invece preclusa questa possibilità, e si debba configurare la fattispecie come datio in solutum. Nella

prassi il problema è frequente, come risulta da questa pronuncia, relativa al pagamento di un’auto nuova

mediante la somma residua tra il suo prezzo e il prezzo di un’auto usata, appartenente al compratore e «resa» alvenditore:

Motivi: II. Passando a esaminare brevemente la natura e il contenuto degli accordi tra le parti quali

risultano dalla lettera Bordese 29.11.1974, va affermato che:

1) In ordine alla nuova auto Land Rover, il detto documento non attesta affatto – come pretende il

convenuto – il semplice impegno dell’attore di «ordinare» (in futuro)un’auto nuova ma attesta, invece,confermandola per iscritto, la già avvenuta stipula orale di un vero e proprio contratto di compra-

vendita avente per oggetto un’auto nuova modello Land Rover regular Diesel. L’esistenza di un tale

contratto risulta dall’intero tenore del documento de quo, il quale, parlando del «ritiro» della vecchia

Citroën «per l’ordinazione della nuova auto» intende ovviamente riferirsi a una già avvenuta

ordinazione (e ciò trova conferma nel fatto che, come si vedrà, la consegna della vecchia auto fu fatta

non già a titolo di garanzia per l’esecuzione del preteso stipulando contratto relativo alla Land Rover,

ma a titolo di datio in solutum per il prezzo della nuova auto e comunque a titolo di negozio di

alienazione funzionalmente collegato con la vendita della nuova auto o eventualmente a titolo dipermuta con quest’ultima); la stessa esistenza risulta altresì e piú in particolare dal fatto che il

documento de quo contiene tutti gli elementi necessari per integrare un contratto di vendita, esattamente

indicato con tutti gli optional (prezzo determinato per relationem a quello del listino vigente alla prevista

data di consegna; data stessa della consegna) e non fa invece alcuna riserva o comunque menzione

dell’ulteriore, futura stipula di un contratto definitivo (superfluo dire che l’atto notar., che può consistere

per legge anche in una semplice dichiarazione unilaterale del venditore, sarebbe stato necessario agli

esclusivi fini della trascrizione nel PRA del già avvenuto contratto di vendita e non certo anche perperfezionare nei rapporti fra le parti il già intervenuto contratto). Aggiungasi che l’interpretazione qui

accolta è del tutto conforme alla prassi (rilevante ex art. 1368 c.c.) commerciale dei rivenditori di

autovetture; mediante l’interpretazione proposta dalla difesa del convenuto (e a essa stessa mostra di

non credere troppo) contrasta radicalmente con una tale prassi.

2) Quanto alla consegna da parte dell’attore (acquirente della nuova Land Rover) della sua vecchia

Citroën al convenuto (venditore dell’auto nuova) va recisamente respinta la tesi del convenuto, secondocui essa avvenne per il titolo quale letteralmente indicato nel documento de quo e cioè «a titolo di

deposito cauzionale» e quale interpretato dalla difesa del convenuto, e cioè a titolo di garanzia reale per

l’esecuzione, da parte dell’acquirente, del suo obbligo di pagare integralmente il prezzo della nuova auto

e salva facoltà del venditore di trattenere definitivamente l’auto vecchia per una somma (da scomputarsi

dal prezzo dell’auto nuova) di lire 3.700.000.

Ed invero:

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A) la figura, nota alla prassi, del «deposito cauzionale» corrisponde alla figura, elaborata dalla dottrinasulla base testuale dell’art. 1851 c.c., del «pegno irregolare»: orbene, un tale negozio può avere per

oggetto esclusivamente una somma di denaro (o altri beni strettamente fungibili rispetto al denaro e

facilmente convertibili in esso sulla base dei prezzi risultanti da pubblici listini; per es., titoli

obbligazionari) consegnata in garanzia dell’esecuzione di una futura obbligazione monetaria e con

legittimazione (che è, al tempo stesso, un diritto e un obbligo) per il creditore «pignoratizio irregolare» di

trattenere definitivamente la somma stessa a titolo di soddisfo (compensazione) del suo futuro creditore

se e fino alla misura in cui esso sorgerà.

Il pegno irregolare (e, quindi, il «deposito cauzionale») di un altro bene non è assolutamente ammissibile

in quanto la disciplina di tale istituto, come ora concisamente richiamata, è radicalmente incompatibile

con la disciplina che la legge detta per il pegno dei beni mobili in genere, e segnatamente col divieto di

patto commissorio (art. 2744 c.c.) e con la conseguente necessità, per il creditore pignoratizio, di far

vendere la cosa oppignorata per soddisfare il credito a garanzia del quale la cosa stessa gli è stata

consegnata in pegno (art. 2796 c.c.).

Va altresì aggiunto, con specifico riguardo alla particolare natura giuridica (bene mobile registrato)

dell’auto che si pretende costituita in pegno, che è addirittura esclusa la possibilità di costituire in pegno

regolare un bene mobile registrato, dato che per tale categoria di beni la legge prevede, come forma di

loro costituzione in garanzia reale, la specifica figura dell’ipoteca mobiliare (art. 2810, co. 2° o 3°, c.c. e

legislazione ivi richiamata). È ben vero che l’art. 2784 c.c. non esclude espressamente, dal novero dei

beni immobili costituibili in pegno, la particolare categoria dei beni mobili registrati, ma tale esclusione

pare emergere con sicurezza dall’intero sistema della disciplina del pegno in rapporto a quello delladisciplina dei beni mobili registrati. Ed invero ex art. 1156 c.c. il principio «possesso vale titolo per il

terzo (acquirente) in buona fede» non si applica ai beni mobili registrati, gli atti negoziali riguardanti i

quali sono invece soggetti alla disciplina ex art. 2644 c.c. richiamata dall’art. 2648; da ciò consegue che

a) il debitore oppignorante potrebbe vendere il bene mobile costituito in pegno, e di fronte al nuovo

acquirente in buona fede e che abbia trascritto il proprio titolo il creditore pignoratizio non potrebbe

opporre il proprio diritto di pegno (risultante dal semplice possesso e non suscettibile di trascrizione come

risulta ex art. 2684 c.c.); b) d’altra parte, il creditore pignoratizio non potrebbe utilmente far vendere exart. 2796 c.c. il bene mobile costituitogli in pegno, in quanto non disporrebbe di un titolo che legittimi la

trascrizione di tale vendita e la renda quindi opponibile ai terzi e in primis allo stesso proprietario

debitore oppignorante.

In sostanza, la costituzione in pegno di un bene mobile registrato sarebbe del tutto inutile rispetto ai fini

istituzionali propri del pegno. Da ciò risulta che l’ipoteca mobiliare (la quale, col suo sistema di

iscrizione, elimina del tutto gli inconvenienti – che ammontano a una vera e propria impossibilità – sopraevidenziati) non è semplicemente, rispetto ai beni mobili registrati (e analogo discorso potrebbe farsi per

le rendite dello Stato), una forma di garanzia reale concorrente con quella del pegno, ma l’unica forma

ammissibile di garanzia reale.

Concludendo va dunque detto che: a) è impossibile costituire un comune bene mobile (diverso da una

somma di denaro o titolo equivalente) in «deposito cauzionale» o pegno irregolare (e ciò è a maggior

ragione impossibile per un bene mobile registrato, che non è neppure suscettibile di essere costituito in

pegno regolare);

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b) nell’ipotesi (peraltro da escludersi tassativamente) che fosse possibile costituire un comune bene

mobile in pegno irregolare, in forza della disciplina che regola tale istituto (quale risulta ex art. 1851 c.c.

e meglio esplicitata dalla consolidata giurisprudenza della Suprema Corte) il creditore pignoratizio non

acquisterebbe affatto – come sostiene invece il convenuto – la semplice «facoltà» di trattenere il bene

oppignorato a soddisfo del suo futuro credito assieme alla concorrente e alternativa facoltà, al momento

in cui il suo credito diventa liquido ed esigibile, di esigere dal debitore il soddisfo in denaro dell’intero suo

credito con restituzione dei bene stesso; ma, subordinatamente al sorgere del suo credito, acquisterebbedefinitivamente la proprietà del bene stesso, con automatica riduzione del suo credito per un importo

pari a quello del bene costituito in pegno irregolare. […].

C) Passando ora a delibare sommariamente il problema della esatta qualifica giuridica da darsi al

negozio di cessione dell’auto vecchia avente il contenuto pratico ora evidenziato, si può anzitutto dire

che esso è comunque un negozio di alienazione a titolo oneroso. Tale generica qualifica richiede peraltro

un’ulteriore specificazione essenzialmente al fine di precisare i rapporti fra il negozio di alienazionedell’auto vecchia e quello di alienazione dell’auto nuova; e a tal fine si può brevemente osservare a

proposito delle tre soluzioni alternative ragionevolmente prospettabili:

a) La qualifica – sostenuta dall’attore – di permuta da darsi all’intero affare (ritiro dell’auto vecchia e

alienazione a prezzo scomputato dall’auto nuova) appare prestarsi molto male all’affare stesso, sia

perché la cessione dell’auto vecchia non è un elemento che si ponga sullo stesso piano dell’acquisto

dell’auto nuova, ma è funzionale e anzi chiaramente strumentale all’acquisto di quest’ultima (sicchémanca, sia dal punto di vista pratico che da quello giuridico, quella reciprocità di trasferimenti prevista

dall’art. 1552 c.c. e che implica anche una nozione di pariteticità, di equivalenza funzionale delle due

prestazioni), sia e sopratutto perché non solo il doppio trasferimento comporta inoltre e in ogni caso la

dazione di una somma da parte dell’acquirente dell’auto nuova (sicché potrebbe, al massimo, parlarsi di

un contratto misto di permuta e vendita) ma anche e comunque la cennata somma è di importo

approssimativamente eguale (come nel caso di specie; se non addirittura, come per lo più avviene,

notevolmente superiore) al valore che viene attribuito all’auto vecchia; e inoltre la dazione della somma

stessa ha, nell’economia dell’affare complessivo, una funzione essenziale (e, almeno dal punto di vista delvenditore dell’auto nuova, assolutamente preminente) nell’equilibrio di contrapposti interessi che si

realizza nell’affare complessivo.

b) Una qualifica che, in prima approssimazione, potrebbe apparire più soddisfacente sarebbe, per la

dazione dell’auto vecchia, quella di contratto di compravendita (con il cliente come venditore e il

rivenditore dell’auto nuova come compratore)

dall’auto stessa funzionalmente collegato al contratto di compravendita dell’auto nuova (con il

rivenditore nella «giusta» veste di venditore e il cliente nella appropriata veste di acquirente). Conferma

di tale «costruzione» dogmatica potrebbe trovarsi nel fatto che nel documento scritto che le parti

redigono la cessione dell’auto vecchia è per lo più qualificata come fatta a titolo di vendita. Ma tale

qualifica non vincola ovviamente l’interprete; ed è per contro evidente la sua natura di comodo – al solo

fine, cioè, di fornire il rivenditore (e cioè il venditore dell’auto nuova) di un titolo noto lippis et

tonsoribus (e quindi anche alla conservatoria del PRA) che pacificamente lo legittimi a vendere a terzil’auto stessa. (La natura strumentale di tale titolo al detto fine è evidenziata dal fatto che il rivenditore si

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fa anche rilasciare una procura che lo abiliti alla vendita a nome del suo cedente: sicché nel PRA la

vendita figura poi come fatta direttamente dal cliente, tramite procuratore, al terzo acquirente dal

rivenditore stesso). Ciò stabilito, appare evidente che, mutatis mutandis, le considerazioni svolte sub a)

per negare la qualifica di permuta si possano utilizzare (anche se, innegabilmente, con una minor forza

cogente) anche per respingere o, quanto meno, porre fortemente in dubbio la qualifica di vendita

collegata ad altra vendita.

(Trib. Torino, 23.12.1977).

Nella prassi, si registrano poi figure di diritti di godimento atipici e contratti che impongono obblighi al

proprietario, in quanto titolare di poteri su di una cosa. La loro trascrizione sui registri immobiliari rende

opponibili ai terzi i diritti che sorgono da questi rapporti, e anche ambulatori gli obblighi che si sono previsti. Si è

in presenza allora di figure anomale di diritti reali? E si è superato il principio della tipicità? Lo si discute a

proposito delle C.U.: e si sottolinea che in questo caso la trascrizione viene adoperata per uno scopo

sconosciuto al c.c., e cioè per garantire la inerenza di un obbligo.

Precisa ancora Michele Giorgianni:

Con sempre maggiore frequenza si sono presentate ipotesi di obbligazioni inerenti a una cosa, nel diritto

edilizio. Come è noto, le esigenze degli agglomerati urbani hanno esteso in misura ognora crescente le

limitazioni al diritto della proprietà delle aree urbane. Oltre agli obblighi imposti da provvedimenti

dell’autorità amministrativa (piani regolatori, regolamenti edilizi), sorgono obblighi contrattuali in virtùdelle cosiddette convenzioni edilizie stipulate con i Comuni, con le cosiddette lottizzazioni, o più

semplicemente mediante accordi tra due (o più) proprietari vicini.

Ulteriore materia di obblighi inerenti a una cosa è offerta da cosiddetti regolamenti di condominio, nei

quali sono disposti obblighi negativi o positivi a carico dei condomini di case per piani.

Gli obblighi sorgenti dalle fattispecie citate possono avere il più vario contenuto, quale quello di non

costruire che a una certa distanza dai confini o solo in una certa frazione dell’intero «lotto», di destinareparte dell’area a «verde» ovverosia a zona alberata o privata, di costruire e mantenere strade e

marciapiedi privati, di destinare l’edificio (o l’appartamento) esclusivamente a uso di abitazione ovvero

di non destinarlo a certi usi, ecc.

La dottrina e la giurisprudenza, invischiate dal vecchio criterio di distinzione tra diritti reali e diritti di

credito, hanno ritenuto che, attribuendo ai rapporti descritti natura di obbligazione, se ne escludesse

l’efficacia verso i terzi, ovverosia verso coloro i quali acquistassero l’immobile rispetto al quale lalimitazione era stata consentita.

D’altro canto, è evidente che solo il trapasso di quelle limitazioni a favore o a carico di tutti i successivi

subacquirenti potrebbe far raggiungere il pieno soddisfacimento degli interessi avuti di mira dalle parti.

Si è assistito, quindi, al tentativo di far rientrare questi rapporti nell’ambito delle «servitù». Ciò è stato

agevole esclusivamente nelle ipotesi di limitazioni che si concretassero in una mera inattività del soggetto(servitù negativa). Ben presto, però la dottrina e la giurisprudenza si sono accorte che il contenuto delle

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prestazioni derivanti da quei rapporti, è tale da renderne impossibile l’inserimento nello schema della

servitù. Fu, è vero, contestata da taluno la autenticità del principio romanistico «servitus in faciendo

consistere nequit»: ma in realtà qui non si trattava di ricercare se quel principio fosse o meno autentico,

quanto di controllare se le nuove situazioni – sicuramente sconosciute e al diritto romano e al diritto

meno recente – potessero inserirsi nello schema di un rapporto, quale quello della servitù, che esclude

nella sua struttura intima lo strumento dell’obbligo, se non nella manifestazione meramente marginale

della prestazione negativa. Senza dire che in talune di quelle situazioni verrebbero a fare difetto persino i

presupposti più elementari della servitù, quale per es., il fondo dominante.

Forse per la coscienza di tali difficoltà, o forse anche perché le insistenti critiche alle posizioni

tradizionali sul concetto di diritto reale fanno man mano breccia, la dottrina e specie la giurisprudenza

più recenti hanno rinunciato a qualificare come servitù i rapporti suddetti, limitandosi a riconoscere che

essi, in virtù della trascrizione, vengono a trapassare a tutti i successivi acquirenti del fondo.

A noi sembra che la descritta evoluzione della dottrina e della giurisprudenza sul tema dei rapportiinerenti a una cosa, debba considerarsi altamente esemplare. Si è finito, infatti, col riconoscere da un

canto che quei rapporti si realizzano esclusivamente a mezzo di un vero e proprio rapporto obbligatorio,

e dall’altro che le finalità avute di mira dalle parti possono trovare soddisfacimento attraverso la

inerenza dell’obbligo ovverosia attraverso il suo automatico trapasso in capo ai successivi acquirenti

della res. In altri termini, si è finito col riconoscere che si tratta di rapporto obbligatorio dal primo punto

di vista, e reale dal secondo. In fondo, il paradigma non è nuovo: esso si riscontra esattamente in un

vecchissimo istituto quale l’onere reale, la cui sistemazione era stata oggetto di eterne dispute proprioper la inadeguatezza del tradizionale criterio di distinzione tra diritti reali e diritti di credito.

Da un altro punto di vista, ancora, è da segnalare la descritta evoluzione della dottrina e della

giurisprudenza sul tema di cui ci occupiamo. Il raggiungimento degli scopi, avuti di mira dalle parti, è

stato ritenuto possibile, come si è visto, attraverso la trascrizione della convenzione. Questo mezzo di

pubblicità viene quindi adoperato per uno scopo sconosciuto al Codice, e cioè per garantire la inerenza

di un obbligo; già qualche precedente manifestazione giurisprudenziale si era avuta sul terreno dellecosiddette servitù irregolari, per es., in tema di luci di tolleranza. È peraltro da segnalare che qualche

legge speciale ha già fatto ricorso allo strumento della trascrizione per raggiungere la imposizione di

vincoli e obblighi pubblicistici in capo al proprietario.

(Giorgianni, Diritti reali, cit., p. 756).

Si è tuttavia ritenuto di dover giustificare il principio del numero chiuso dei diritti reali sulla base di due

fondamentali regole: la tutela del contraente debole e la funzione sociale della proprietà.

Occorre anzitutto ricordare che la problematica del numerus clausus è diversa, come ormai è

generalmente riconosciuto, da quella della tipicità, attenendo la prima alla esclusività della fonte, e cioè

all’ordinamento che limita l’autonomia del soggetto, e la seconda alla determinazione del contenuto, cioè

del «tipo» della situazione reale che il soggetto può prescegliere.

Numerus clausus e Typenzwang sono princìpi interdipendenti che sembrano ancora sussistere entrambinegli ordinamenti di Civil Law. Nonostante che essi non siano espressi chiaramente da una specifica

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norma, la loro esistenza può essere desunta dalla tradizionale indicazione dei tipici schemi dei diritti reali

che gli ordinamenti di Civil Law presentano, nonché dalla mancanza, nel settore, di una norma

riferentesi all’autonomia dei privati, quale quella di cui all’art. 1322 c.c. Si tratta di direttive che

possono, almeno allo stato attuale dell’esperienza storico-giuridica, essere qualificate come princìpi di

ordine pubblico, in quanto espressione dei fondamentali criteri ordinanti accolti dall’ordinamento

nell’assetto degli schemi di godimento delle cose.

La giustificazione dei due princìpi non sembra piú potersi rinvenire nell’esigenza della Freiheit des

Eigentum, avvertita sopratutto nel momento della massima liberalizzazione dell’economia ottocentesca,e contraddetta attualmente dal rilievo costituzionale della funzione sociale, prevista ai fini della

delimitazione interna del diritto di proprietà (art. 42, co. 2° Cost.), unitamente a varie situazioni semplicidi svantaggio, come obblighi e limiti, che pur compongono il nucleo interno del diritto.

In realtà l’ordinamento intende riservare a sé medesimo l’azione ordinante delle situazioni reali, attesal’importanza, sotto il profilo sociale ed economico, che tali situazioni acquistano nell’utilizzazione dei

beni e nell’assetto generale del settore patrimoniale.

Tale riserva si esprime sia con il principio della tipicità, relativo all’individuazione degli schemiattraverso i quali viene ordinata l’attività di utilizzazione della res, sia con l’altro principio del numerusclausus, comportante una limitazione per l’autonomia del privato nella scelta di nuovi schemi reali al di

fuori di quelli previsti.

Sotto un profilo pratico e funzionale, sarebbe difficile ipotizzare un sistema che non sia quello dellariserva, da parte dell’ordinamento, della individuazione dei tipi delle situazioni reali.

Infatti, dinanzi alla importanza della peculiare disciplina delle situazioni reali, e alla gravità degli effettiche l’opponibilità comporta sul destino futuro delle cose e sul regolamento patrimoniale dei beni, è arduo

ammettere che i privati siano lasciati arbitri di dar vita a nuovi schemi reali importanti stabiliconseguenze sia sul piano dei rapporti con gli altri consociati che sul piano dell’assetto della utilizzazione

economica dei beni. Non si tratta tanto del regolamento di interessi fra le parti, che esse, entro i limitiposti dall’ordinamento, sono autorizzate a concordare: si tratta invece di effetti che toccano

direttamente le cose e riguardano pertanto i futuri titolari della cose stesse, determinando la sorte deibeni, normalmente per lunghi periodi di tempo, e quindi incidendo fortemente sul sistema economico esociale di una collettività.

Del resto, riflettendo sui risultati concreti di un sistema basato sulla libera e piena esplicazione

dell’autonomia privata, e sui diversi risultati di altro sistema che limiti tale autonomia e predispongaschemi tipici per l’attuazione dei rapporti patrimoniali, è possibile ritenere meritevoli di mantenimento i

due princìpi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali, in quanto attraverso essi si perviene allatutela del soggetto più debole nei confronti del soggetto più forte, che potrebbe servirsi dello strumentocontrattuale per imporre, a danno di altri soggetti, particolari modi di godimento dei beni realizzanti

posizioni atipiche di privilegio.

L’esperienza del settore contrattuale sembra invero dimostrare che il più ampio spazio all’autonomiaprivata tende a risolversi in strumento di vantaggio del contraente più forte nei confronti di quello più

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debole: come l’evoluzione del sistema economico verso un mercato dominato da gruppi oligopolistici omonopolistici ha evidenziato l’illusorietà dei postulati del pensiero liberale classico nella ricerca di un

equilibrio automatico stabilito dalla libera concorrenza, così il fenomeno della contrattazione di massamediante un regolamento-tipo imposto dai grandi complessi industriali, commerciali o finanziari(pubblici o privati) ha chiarito i notevoli limiti della concezione dell’autonomia privata, basata sulla

libertà del volere, come elemento fondamentale dell’organizzazione dei rapporti economici.

Proprio per evitare l’iniquità di certi risultati che segnano l’evidente svantaggio della parte più debole,gli ordinamenti europei hanno progressivamente attuato modelli di economia mista, nei quali cioè la

libertà d’iniziativa economica è controbilanciata da una serie di controlli, di interventi, di programmi odi altre varie iniziative da parte dello Stato; e, per quanto concerne la disciplina giuridica delleobbligazioni e dei contratti, hanno introdotto attraverso clausole generali o leggi speciali, strumenti

dirigistici e norme limitative dell’autonomia privata, diretti a stabilire un regolamento legale delrapporto in sostituzione di quello eventualmente previsto dalle parti.

Tale esperienza, storicamente dimostrata nella sua realtà, non può essere dimenticata nel settore dei tipi

di utilizzazione dei beni il quale, anzi, attraverso un’indagine condotta in concreto sulle principali formedi convenzioni, sembra evidenziare la stessa tendenza manifestata dal diritto delle obbligazioni e deicontratti.

Sono, infatti, sopratutto le convenzioni dettate dai grandi complessi economici a mostrare tentativi di

superamento dei princìpi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali, per la realizzazione di nuovesituazioni appositamente ideate allo scopo di tutelare particolari esigenze che i tipi esistenti non riescono

a soddisfare. Si dà allora luogo, di norma, a una duplicità di problemi spesso in conflitto tra loro: da unlato, appunto, il problema della creazione di nuovi schemi giuridici per il regolamento di certi interessi di

utilizzazione dei beni; dall’altro lato, l’esigenza che tali nuovi schemi siano stabilmente inerenti alla cosae opponibili ai terzi come le figure tipiche dei diritti reali. Man mano che l’operatore si allontana dai«tipi» offerti dall’ordinamento, egli corre il pericolo di non poter più usufruire delle caratteristiche di

stabilità e sicurezza garantite dal regolamento dei diritti reali.

L’esperienza pratica mostra una serie di esempi estremamente significativi.

Si pensi all’ipotesi delle convenzioni di lottizzazione di aree edificabili, nelle quali i lottizzanti hannoricercato strumenti diretti a limitare e regolare le future costruzioni, anche nei confronti degli ulterioriaventi causa, e alla larghezza con cui per alcuni decenni, è stata ammessa la costituzione convenzionale

di oneri reali e obbligazioni propter rem, anche al di fuori dei tipi previsti dalla legge fino a che ilproblema non fu risolto attraverso la figura delle servitù reciproche.

Si pensi, ancora, alla questione sollevata, sempre da soggetti interessati alla lottizzazione di aree, della

possibilità di imporre, a carico degli attuali e dei futuri proprietari dei lotti, un obbligo, di piantare emantenere determinati alberi, attraverso lo schema della servitus amoenitatis causa, oppure al problema,di grande attualità, dei vincoli di non edificabilità sulla residua superficie non edificata.

Si ricordino, poi, le convenzioni-tipo predisposte dalle società petrolifere per l’utilizzazione di aree per

distributori di carburante, nelle quali si cerca di soddisfare le esigenze delle società mediante figure

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giuridiche che si avvicinano a quelle del diritto di superficie, dando luogo a molteplici controversie al

riguardo.

Si considerino, ancora, i vari tentativi diretti a tutelare, attraverso lo schema delle servitù, interessi non

attinenti all’utilità fondiaria, quali quelli relativi alla destinazione di una certa azienda (c.d. servitùaziendali), od alla attività imprenditoriale (c.d. servitù di non concorrenza).

Si veda, infine, la tendenza, nel settore della proprietà agraria, ad ampliare smisuratamente i tipi dei

contratti agrari previsti, e a dar luogo a una infinita varietà di rapporti, talvolta anche allo scopo dieludere le norme cogenti della legislazione speciale sui principali contratti: estremamente significativa è,

al riguardo, la necessità avvertita dal legislatore di prevedere, nell’interesse dei coloni, il divieto distipulazione di nuovi contratti agrari di concessione di fondi rustici che non appartengono ai tipi regolatidalla legge.

L’esemplificazione di cui sopra, tratta dalla concreta esperienza del regolamento dei diritti sulle cose,

sembra sufficiente a dimostrare che il tentativo di superamento dell’attuale sistema chiuso di diritti realiavviene per lo più a opera dei gruppi economicamente più potenti, che ravvisano nel libero campo di

azione dell’autonomia privata un mezzo più sicuro di soddisfacimento dei loro specifici interessi, al di làdegli schemi legali, e di affermazione del loro potere.

Il mantenimento dei princìpi del numerus clausus e della tipicità dei diritti reali, non sembri dunquevalutabile con il giudizio sfavorevole di chi ravvisa in tali princìpi un mero strumento di soffocamento

della spontaneità sociale delle convenzioni.

Sembra invece auspicabile tale mantenimento, per l’esigenza di tutelare il soggetto più debole dinanzi almaggior potere del più forte, esigenza che dovrebbe costituire oggi, dopo il superamento storico delloscopo della Freiheit des Eigentums, il fine più interessante perseguito dall’ordinamento attraverso i detti

princìpi.

Già nel settore contrattuale l’ordinamento è intervenuto e interviene in misura sempre più marcata alimitare il libero giuoco dell’autonomia privata, a fissare d’imperio i prezzi di certi beni o servizi, a

disciplinare autoritativamente taluni contratti di grande importanza per l’assetto economico e sociale:nel settore dei diritti reali l’ordinamento ha riservato a se stesso la disciplina-quadro degli schemi digodimento dei beni, determinando un grave limite all’autonomia privata per quanto riguarda la

possibilità di costituzione di nuove figure di diritti reali. L’intervento dell’ordinamento nel settore deidiritti reali è dunque più consistente rispetto a quello nel settore contrattuale: ma ciò ben si spiega, se si

tien conto del maggior campo di effetti, sia intersoggettivi che temporali, che le situazioni reali, con laloro stabile incorporazione alle cose, determinano.

Del resto va anche prospettata l’ipotesi della incostituzionalità di una eventuale normativa finalizzata asopprimere il principio del numero chiuso dei diritti reali, perché il risultato di avvantaggiare il soggetto

più forte, cui perverrebbe tale eventuale normativa, oltre a contrastare con il criterio di cui all’art. 3, co.2° Cost., apparirebbe, anche in conflitto con il criterio della funzione sociale, cui la Carta costituzionale

ha subordinato, come si è visto, il riconoscimento del diritto reale e la determinazione dei suoi modi dicostituzione e di godimento, nonché dei suoi limiti (art. 42, co. 2° Cost.).

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(M. Comporti, Diritti reali, Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 1980, pp.216-222).

Lo «stile italiano» in tema di tipicità e numero chiuso ha ricevuto una rilettura critica da parte di UmbertoMorello, sullo sfondo dello studio della multiproprietà.

In Italia, già a partire dalla fine dell’Ottocento, si sono recepiti i metodi e i principali istituti elaborati

dalla pandettistica, con riferimento alla nozione di proprietà; al sistema dei diritti reali; al principio delnumero chiuso; allo sfavore verso l’applicazione di clausole generali compresa, tra queste, la clausola

dell’ordine pubblico.

La recezione del sistema tedesco ha infatti determinato la cristallizzazione delle regole operative

elaborate alla fine dell’Ottocento, su tutti i punti che abbiamo fin qui considerato.

In particolare, il principio del numero chiuso dei diritti reali è stato giustificato sopratutto daconsiderazioni tecniche, mentre le ragioni di ordine pubblico che ne erano alla base sono viste come veri

e propri motivi politici, tali comunque da non influenzare l’ambito di applicazione del principio.

Nessuna applicazione flessibile è stata così possibile, mentre si dibattono ancora agli stessi problemi

formali che avevano affrontato i giuristi tedeschi tra il primo Novecento e gli anni Trenta.

Questa impostazione è stata, anzi, quella privilegiata dalla dottrina dominante e dalla giurisprudenza(sopratutto dalla Corte Suprema) fino agli anni Sessanta, per ragioni che sarebbe ora troppo lungo

analizzare e anche quando, nella stessa Germania, i metodi interpretativi formali erano ormai da tempoabbandonati.

Solo a partire dagli anni Settanta si è assistito in Italia al diffondersi di sistemi interpretativi e di tecnicheoperative diverse, nel quadro di una maggiore disposizione alla comparazione e di una più ampia

attitudine all’analisi economica del diritto (sopratutto nei settori della responsabilità civile e deicontratti).

Nondimeno, la mancanza di un’esperienza ampia come quella francese o tedesca sulle tecniche operative

proprie di un sistema «valutativo» (concretizzazione di clausole generali, o di principi costituzionali) nonha consentito una evoluzione sicura.

Così il sistema italiano continua a essere caratterizzato, ancora oggi, da aree di accentuato formalismo eda aree dove la denuncia di soluzioni non più adeguate è ampia e raffinata (ed è sostenuta da

argomentazioni storiche e comparatistiche di notevole pregio) ma senza che questi spunti critici riescanoa tradursi in valide tecniche operative.

Nel settore dei diritti reali questa situazione è particolarmente evidente: mi limito quindi a pocheosservazioni.

L’interpretazione dell’art. 42 della Costituzione ha condotto all’elaborazione di direttive (dopo un

tormentoso processo evolutivo) che tendono ancora a definire un nucleo minimo di potenzialità

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edificatorie garantito a ogni proprietario.

La tradizionale nozione di proprietà non appare quindi sostanzialmente mutata, anche se è ormairiconosciuto da tutti che il contenuto della proprietà deve essere definito diversamente con riferimento ai

diversi oggetti e che limiti sostanziali possono essere imposti dalle leggi speciali.

Il quadro è simile a quello che appariva, oltre vent’anni fa, all’osservatore dell’esperienza francese etedesca, dovendosi anche sottolineare che, in quei sistemi, si era risolto da tempo il problema di garantire

a tutti i proprietari un minimo di eguaglianza;

di non far pesare su pochi il costo delle urbanizzazioni; di stabilire limiti al potere discrezionale eccessivodell’amministrazione: problemi invece ancora aperti nel nostro paese.

La distinzione tra proprietà e altri diritti reali non può dunque apparire più problematica, ancora oggi, diquanto apparisse ai giuristi francesi e tedeschi negli anni Sessanta e, in effetti, i tentativi di ricostruzione

operati dai giuristi italiani su questo punto fanno riferimento ai dibattiti sollevati in questi paesi oltrevent’anni fa.

Il principio del numero chiuso dei diritti reali trova applicazioni non molto diverse da quelle indicatedalla dottrina tradizionale, secondo metodi operativi che, non facendo riferimento (espressamente o nei

fatti) a principi di ordine pubblico, non possono essere flessibili e storicamente relativi, ma tendono aessere rigidi e assoluti.

In questa situazione, un diritto reale nuovo può essere considerato inammissibile solo perché atipico (o

perché tale da modificare elementi considerati strutturali di un tipo regolato dalla legge), e non perché sisono effettuate quelle valutazioni complesse che in altri sistemi il giudice invece compie.

Così, non si pongono all’interprete né problemi di concretizzazione della clausola generale di ordinepubblico al particolare settore in esame (o semplicemente di evidenziazione delle ragioni economiche a

giustificazione del limite imposto all’autonomia privata); né problemi di tipizzazione dei casi ammessidalla giurisprudenza; né problemi di razionalizzazione dei nuovi orientamenti.

La giurisprudenza, sospinta dalla prassi degli operatori, ha per la verità notevolmente esteso il numerodei diritti reali ammessi e ha modificato il quadro operativo dei limiti generali alla autonomia privata nei

vari settori fin qui considerati.

Nondimeno, la mancanza di direttive elaborate dalla dottrina ha determinato un’evoluzione pocotrasparente (mascherata cioè da diversi tecnicismi o argomentazioni formali) col rischio di decisioni

casuali sotto il profilo economico, e definitivamente precludendo un idoneo processo di razionalizzazione.

Si deve anche sottolineare che l’abitudine a metodi operativi formali, non ha neppure consentito (come è

avvenuto sovente in Francia) l’affermazione di regole operative adeguate, anche se non esplicitate; o latrasparenza sostanziale dei tecnicismi proposti.

Questi punti meritano tuttavia un certo approfondimento, poiché assumono un’importanza centrale sia

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per comprendere bene il divario esistente tra law in books e law in action, sia per l’impostazione delsuccessivo discorso critico.

Mi limiterò a ricordare alcuni tra i casi più significativi, senza nessuna pretesa di completezza e conriferimento ai problemi di applicazione, in concreto, dei «limiti generali» alla libertà di contrarre.

2.2. Numero chiuso e nuovi diritti reali. La giurisprudenza, sopratutto quella della Corte Suprema, e la

dottrina tradizionale manifestano con chiarezza la tendenza a ricomprendere le nuove figure di dirittireali proposte dalla prassi degli operatori nelle figure tipiche regolate dal codice sovente cercando di

interpretare con ampiezza le caratteristiche definite «strutturali» dei diritti reali disciplinati dal Codice.Si tratta di un processo evolutivo ben noto e, di conseguenza, mi limiterò a poche osservazioni conriferimento alle diverse categorie di diritti reali.

A) Servitù prediali. Sono state da tempo inquadrati tra le servitù prediali (definendole come servitù

reciproche) i vincoli a carico dei proprietari di lotti fabbricabili nel quadro di un piano di lottizzazioneorganizzato secondo una convenzione urbanistica o secondo un regolamento contrattuale di particolare

ampiezza e complessità.

Sempre tra le servitù, sono stati compresi anche i cosiddetti «asservimenti» a favore del Comune; le

«riserve» e le cessioni volontarie di volumetria.

Si sono poi ammesse servitù definite come «industriali», a vantaggio di uno stabilimento o di un’attività,tutte le volte che fosse possibile ravvisare una qualche connessione tra il terreno e l’attività svolta su di

esso, riaffermando così l’elemento della «predialità» considerato «strutturale» della servitù.

Si è detto, ancora, che sono possibili servitù che consistono in un «facere» sempre che vi sia la possibilità

di considerarle prestazioni «positive» come accessorie di una servitù prediale che comporta un semplice«pati».

B) Superficie, enfiteusi e usufrutto. Possiamo ricordare la ammissibilità di usufrutti successivi stabiliti per

contratto, ritenuti validi nei limiti indicati dall’art. 598 c.c.; l’ammissibilità di enfiteusi urbane;l’ammissibilità del c.d. «condominio precostituito» fondato su presunte concessioni reciproche di diritti disuperficie; la possibilità di definire il diritto del concessionario come diritto reale, solo se inquadrabile in

un diritto assimilabile alla superficie o all’usufrutto.

C) Comproprietà e condominio. In questo settore possono essere individuati due orientamenti di fondo.Da un lato, come si è visto poc’anzi, si tende a non considerare possibile una estensione delle norme in

tema di comunione o di condominio a situazioni complesse (proprie di solito di grandi struttureimmobiliari) dove numerose norme regolamentari sono ritenute valide e opponibili ai terzi, solo se

possono essere qualificate come vere e proprie servitù prediali.

Nello stesso senso, si afferma che il c.d. «condominio precostituito» non può essere retto e spiegato solo

con le norme del condominio, ma deve necessariamente comportare, come s’è detto, la costituzione di«reciproci» diritti di superficie.

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D’altro lato, si afferma invece la possibilità di estendere le norme della comunione (o di applicarle per

analogia) alla multiproprietà, superando variamente i dubbi che questa soluzione comporta.

Su questo punto, che assume un’importanza centrale per la verifica delle impostazioni fin qui seguite, ci

proponiamo tuttavia di ritornare con maggiore ampiezza in seguito.

D) Proprietà. La concorrenza di più proprietà su uno stesso bene è ammessa, in definitiva, solo se vi è lapossibilità di ricondurla a istituti tipici.

Così è ammessa la proprietà di chi ha un bene con possibilità di risoluzione degli effetti contrattuali (ed èdefinita reale la corrispondente aspettativa di chi può acquistare sotto condizione sospensiva); è pure

ammessa la proprietà temporanea. Si nega invece possa parlarsi di proprietà fiduciaria date lecaratteristiche che il nostro sistema assegna ai diversi contratti dai quali possono derivare situazioni di

fiducia.

Si dubita in ordine all’ammissibilità di una proprietà turnaria e si nega decisamente la possibilità di unaproprietà a scopo di garanzia, così come la possibilità di definire forme di proprietà la posizione del

concessionario o dell’utilizzatore di beni in leasing, o di colui che utilizza un appartamento costruito sullabase di un diritto di superficie sull’area fabbricabile.

Non si ritiene esistente, infine, una forma di «proprietà» concorrente con quella del titolare dell’area, neicasi in cui si debba riconoscere ai Comuni uno ius aedificandi.

E) Numero chiuso dei diritti reali. Il principio è riaffermato dalla dottrina dominante e dalla

giurisprudenza, come un principio generale dell’ordinamento giuridico, da applicare in modo rigido.

Le ragioni che sono addotte per giustificare il principio sono infatti considerate, tutte, come motivi

tecnico-politici che giustificano la regola, senza peraltro condizionarne le modalità applicative.

Nei fatti, e lo abbiamo visto con riferimento a talune ipotesi, l’evoluzione del sistema è costante epropone nuove forme di diritti reali desunti da leggi speciali o proposti dalla prassi degli operatori e

riconosciuti dalla giurisprudenza (di solito inquadrandoli in istituti tipici e ammettendo larghe derogheagli elementi considerati essenziali del tipo).

La dottrina ha cercato di razionalizzare questo trend evolutivo proponendo diverse costruzioni.

Innanzitutto si è detto che è necessario distinguere nettamente tra tipicità dei diritti reali e numerochiuso. La tipicità potrebbe infatti essere derogata dalla volontà delle parti, finché non si modifichino gli

elementi considerati veramente strutturali (o di fondo) del tipo legale. Il numero chiuso impedirebbeinvece di dar luogo a diritti reali del tutto atipici e questo principio sarebbe giustificato, secondo taluni,anche da norme espresse del nostro sistema e fondato, perfino, su principi costituzionali.

Si tratta, come sembra evidente, di una teoria formale di chiara origine tedesca, che riprende la

distinzione cara ai giuristi degli anni Trenta, tra Typenzwang e Typenfixierung.

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Altri sottolineano che il numero chiuso dei diritti reali, in qualunque modo lo si intenda, non impedisce ilriconoscimento di nuovi istituti regolati dalla legge o, da questi, l’elaborazione di nuove e più generali

figure di diritti reali che debbono, ancora, ritenersi tipici per quanto complessa sia l’operazione diricostruzione promossa dall’interprete.

Si manifesta però talvolta la tendenza, nel diritto in azione, a ignorare o disapplicare nei fatti il principiodel numero chiuso (anche perché la dottrina tradizionale non propone regole operative tali da poter

guidare la giurisprudenza).

Taluno giunge chiaramente a negare che il principio sia, oggi, ancora vincolante e non si esita talvolta adire che il numero chiuso dei diritti reali sia «poco più che un pregiudizio».

Questo orientamento tuttavia non riesce a dar conto non solo dei casi che la giurisprudenza continua anon qualificare come diritti reali veri e propri, rifiutando di considerare esistenti gli elementi eventuali

della servitù o di altri diritti reali tipici, ma, sopratutto, di tutti quei casi dove la negazione degli effettireali continua a essere affermata proprio in base all’applicazione dei numero chiuso dei diritti reali.

Converrà infine rilevare che, nel sistema italiano, il numero chiuso dei diritti reali è considerato datempo un principio limitato esclusivamente al settore dei diritti reali (anche se fondato su ragioni che si

desumono da diversi istituti inquadrabili in altri settori). Di conseguenza, non si ritiene di poter enunciare(come regole derivate dal principio del numero chiuso) la regola della tipicità dei contratti con effetto

reale; né si ritiene di collegare in modo organico questo principio con le altre regole che abbiamo inprecedenza indicato come «limiti generali» all’autonomia privata.

(U. Morello, Multiproprietà e autonomia privata, Milano,1984, pp. 71 ss.)

La servitù coattiva, concepita in relazione a esigenze dell’industria o dell’agricoltura, è stata estesa ai bisogni eutilità dei portatori di handicap dalla Corte Costituzionale con la sent. 29.4-10.5.1999 n. 167:

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1052, co. 2° c.c., promosso con ordinanza emessa il

19.9.1997 dal pretore di La Spezia sul ricorso proposto da Sturlese Giorgio contro Fernando Santino ealtri, iscritta al n. 532 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella G.U. n. 29, prima serie speciale,dell’anno 1998.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del

24.2.1999 il Giudice relatore Annibale Marini.

Ritenuto in fatto 1. Nel corso di un procedimento ex art. 700 del c.p.c. promosso da un portatore dihandicap, invalido civile al 100%, proprietario di un appartamento in condominio, al fine di ottenerel’autorizzazione a esercitare, via d’urgenza, il passaggio sino alla via pubblica su un orto confinante con

lo stabile condominiale, il Pretore di La Spezia ha sollevato – sospendendo il procedimento cautelare –questione di legittimità costituzionale dell’art. 1052, co. 2°, c.c., in riferimento agli artt. 2, 3, co. 2°, 32 e

42, co. 2° Cost., «nella parte in cui non consente di costituire la servitù di cui al co.1° in favore di edificidi civile abitazione, al fine di garantire un adeguato accesso alla via pubblica per mutilati e invalidi con

difficoltà di deambulazione». Deduce il giudice rimettente – quanto alla rilevanza della questione – che il

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ricorrente agisce in via d’urgenza, quale proprietario di un appartamento facente parte di un condominio

avente accesso alla via pubblica solamente attraverso una scalinata di settantacinque gradini, al fine diottenere l’anticipazione degli effetti di una sentenza costitutiva di servitù coattiva di passaggio su di unorto di proprietà di taluni condomini dell’edificio steso posto sul retro dello stabile, attraverso il quale

sarebbe possibile raggiungere agevolmente la via pubblica con percorso in piano. Ritiene il remittenteche la proposta domanda cautelare sia ammissibile che sussista, nella fattispecie, il presupposto del

pericolo nel ritardo, in quanto la tutela invocata dal ricorrente è strettamente connessa al suo interesse auna accettabile vita di relazione, nelle more pregiudicato, stante la sua condizione di invalido totale,

dalla situazione di difficoltoso accesso alla via pubblica, non adeguabile se non con eccessivo dispendio edisagio. Osserva tuttavia lo stesso rimettente che, poiché il fondo a favore del quale dovrebbe chiedersinel giudizio di merito la costituzione di servitù non è intercluso, la norma da prendere in considerazione

ai fini della valutazione del fumus boni iuris risulta quella di cui all’art. 1053 c.c. (Passaggio coattivo afavore di fondo non intercluso), secondo la quale la servitù di passaggio a favore di un fondo avente un

accesso alla via pubblica che sia inadatto o insufficiente ai bisogni del fondo stesso e non sia ampliabilepuò essere concessa dall’autorità giudiziaria «solo quando questa riconosce che la domanda risponde

alle esigenze dell’agricoltura o dell’industria». Ne dovrebbe dunque conseguire il rigetto della domandacautelare, non ricorrendo nella fattispecie le esigenze di tipo produttivo considerate in via esclusiva dallanorma. Ritiene tuttavia il giudice a quo che la norma stessa, per la parte in cui consente appunto la

costituzione della servitù solo in vista delle esigenze dell’agricoltura e dell’industria e non anche inconsiderazione delle esigenze di vita di mutilati e invalidi con difficoltà di deambulazione, sia in contrasto

con gli artt.2,3, co. 2°, 32 e 42, co. 2°, Cost. L’interesse del disabile a ottenere un passaggio sul fondoaltrui al fine di accedere agevolmente alla via pubblica sarebbe infatti ricollegabile al diritto inviolabile a

una normale vita di relazione, tutelato dall’art. 2 Cost., e al diritto alla salute – inteso come interesse delsingolo e della collettività alla eliminazione delle discriminazioni dipendenti dalle situazioni invalidanti –

tutelato dall’art. 32 Cost. Il diritto di proprietà, ai sensi dell’art. 42, co. 2°, Cost., può d’altro cantosubire limitazioni al fine di assicurarne la funzione sociale e ciò giustificherebbe la sua sottomissione aidoveri di solidarietà enunciati dall’art. 2 Cost., anche in relazione all’esistenza di un principio inteso a

consentire l’adeguato svolgimento della personalità rimuovendo gli ostacoli che si frappongono alsuperamento di situazioni di diseguaglianza (art. 3, co. 2°, Cost.). La vigente legislazione in tema di

eliminazione delle barriere architettoniche offrirebbe poi – ad avviso del rimettente – ulteriori elementi asostegno del dubbio di legittimità, sia perché essa ha già introdotto limitazioni speciali al diritto di

proprietà al fine di garantire l’accessibilità dei disabili agli edifici (quali le deroghe al regime ordinariodelle distanze e a quello delle delibere condominiali) sia soprattutto in quanto l’intero impiantonormativo dimostra che l’accessibilità a fini abitativi costituisce non solo un interesse del disabile ma

un’utilità e un carattere intrinseco dell’immobile, non diversamente dalle possibilità di sfruttamentoagricolo e industriale considerate dall’art. 1052 c.c. L’esistenza di una normativa intesa a favorire

l’eliminazione delle barriere architettoniche non escluderebbe, d’altro canto, l’interesse alla costituzionedella servitù coattiva di un passaggio in tutti quei casi in cui – come nella fattispecie sottoposta all’esame

del giudice a quo – il passaggio esistente non possa adeguarsi se non con dispendio o disagio eccessivo ocomunque notevolmente superiore al pregiudizio che, con l’imposizione della servitù, verrebbe arrecatoal fondo limitrofo.

2. È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, per mezzo dell’Avvocatura generale

dello Stato, concludendo per l’inammissibilità della questione.

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Secondo quanto dedotto dall’Avvocatura la norma denunciata sarebbe inapplicabile alla fattispecieoggetto del giudizio, sia perché diretta a regolamentare (secondo la tradizione romanistica delle servitù

prediali) situazioni inerenti alla qualitas dei fondi più che alle contingenti e soggettive esigenze deiproprietari, sia soprattutto perché dal suo ambito di applicazione risultano escluse, in base al dispostodell’art. 1051, ultimo comma, espressamente richiamato dall’art. 1052, co. 1°, «le case, i cortili, i

giardini e le aie» e tale esclusione dovrebbe estendersi, sempre ad avviso dell’Avvocatura, anche agliorti.

Considerato in diritto 1. Il Pretore di La Spezia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1052,

co.2°, del codice civile, in riferimento agli artt. 2, 3, co. 2°, 32 e 42, co. 2°, Cost., «nella parte in cui nonconsente di costituire la servitù di cui al co. 1° in favore di edifici di civile abitazione, al fine di garantireun adeguato accesso alla vita pubblica per mutilati e invalidi con difficoltà di deambulazione». La norma

denunciata contrasterebbe infatti, ad avviso del rimettente, con il principio di eguaglianza in sensosostanziale sarebbe altresì lesiva, nei confronti dei portatori di handicap, sia del diritto inviolabile a una

normale vita di relazione, sia del diritto alla salute, inteso come interesse del singolo e della collettivitàalla eliminazione delle discriminazioni dipendenti dalle situazioni invalidanti. Essa inoltre, consentendo la

costituzione di servitù coattiva di passaggio a favore di fondo non intercluso solo per finalità produttivee non anche in relazione alle esigenze di vita degli invalidi, si porrebbe in contrasto con la funzionesociale del diritto di proprietà.

2. Va preliminarmente disattesa l’eccezione di irrilevanza e, quindi, di inammissibilità della questione

sollevata dall’Avvocatura generale in base all’assunto che l’orto, su cui dovrebbe nella specie costituirsila servitù coattiva di passaggio, sarebbe, come le «case, i cortili, i giardini e le aie a esse attinenti», un

bene esente da siffatta servitù ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 1051 c.c. contrariamente a quantoritenuto dall’Avvocatura, l’esenzione stabilita da tale norma, essendo intesa a evitare l’eccessivaonerosità che, avuto riguardo alla destinazione abitativa degli immobili, come appunto i cortili, i giardini

e le aie, che alle case sono legati da un vincolo pertinenziale.

Mentre del tutto estranei allo scopo e alla previsione della norma devono considerarsi gli orti,intendendosi per tali, secondo il significato comune del termine, quei fondi agricoli, di modeste

dimensioni, destinati a soddisfare le esigenze alimentari del coltivatore e dei suoi familiari e privi, inrelazione alla loro vocazione tipicamente agricola, del carattere di accessorietà alla casa di abitazione.La qualificazione in concreto del fondo come orto nel senso precisato, piuttosto che come giardino o aia,

costituisce poi questione di fatto rimessa alla esclusiva valutazione del giudice a quo. Sicché, anche sottotale aspetto, l’eccezione d’inammissiblità della questione risulta priva di fondamento.

3. Nel merito, la questione è fondata.

4. L’art. 1052 c.c.. disciplina l’ipotesi di costituzione di passaggio coattivo a favore di fondo nonintercluso, che cioè abbia un proprio accesso alla vita pubblica, tuttavia inadatto o insufficiente ai

bisogni del fondo e non ampliabile. Va premesso che l’«ampliabilità» di cui alla citata disposizione deveessere intesa, secondo la giurisprudenza di legittimità, non in senso letterale, cioè con riferimento alla

sola larghezza del passaggio, ma nel più ampio e generico significato di riducibilità a sufficienza eadeguatezza. L’accesso alla pubblica via va, d’altro canto, considerato non ampliabile non soltanto

quando il suo adeguamento sia materialmente impossibile, ma anche quando risulti eccessivamente

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oneroso o difficoltoso, secondo la disposizione di cui al co. 1° dell’art. 1051 c.c., ritenuta dalla

giurisprudenza applicabile alla fattispecie disciplinata dall’ art. 1052 in virtù dell’espresso richiamocontenuto in quest’ultima norma e della evidente identità di situazione e di ratio giustificatrice.

La concessione del passaggio coattivo è subordinata, dalla norma denunciata, non solo allainadeguatezza dell’accesso alla via pubblica, non solo all’ampliabilità, ma anche alla sussistenza di una

ulteriore condizione, rappresentata dalla circostanza che la domanda risponda «alle esigenzedell’agricoltura o dell’industria». Con tale disposizione – ignota al codice civile previgente – il

legislatore, per il caso di fondo non intercluso, ha inteso ricollegare la costituzione della servitù coattivadi passaggio non soltanto alle necessità del fondo (come nel caso di costituzione di servitù a favore difondo intercluso), ma anche alla sussistenza in concreto di un interesse generale, all’epoca identificato

nelle esigenze dell’agricoltura o dell’industria. Mentre estranee alla previsione della norma e prive,pertanto, di ogni rilievo ai fini della costituzione del passaggio coattivo risultano le esigenze abitative,

pur se riferibili a quegli interessi fondamentali della persona la cui tutela è indefettibile. Ed è in relazionea quest’ultimo aspetto che la norma si pone, come si vedrà, in contrasto con i principi costituzionali

evocati dal rimettente.

5. Va in proposito ricordato che la più recente legislazione relativa ai portatori di handicap – in

particolare la l. 9.1.1989, n. 13 (disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barrierearchitettoniche negli edifici privati), e la l. 5.2.1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione

sociale e i diritti delle persone handicappate) – non si è limitata a innalzare il livello di tutela in favore ditali soggetti, ma ha segnato, un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i

problemi delle persone affette da invalidità, considerati ora quali problemi non solo individuali, ma talida dover essere assunti dall’intera collettività. Di tale mutamento di prospettiva è segno evidentel’introduzione di disposizioni generali per la costruzione degli edifici privati e per la ristrutturazione di

quelli preesistenti, intese alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dallaeffettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone handicappate.

Risulta, allora, chiaro come la tutela di queste ultime sia potuta divenire uno dei motivi di fondo della

vigente legislazione abitativa attraverso anche (ma non esclusivamente) la fissazione delle caratteristichenecessarie all’edificio abitativo considerato nella sua oggettività e astraendo dalla condizione personale

del singolo utilizzatore. Così, l’accessibilità – che l’art. 2 del d.m. 14.6.1989, n. 236 (Prescrizioni tecnichenecessarie a garantire l’accessibilità, l’adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di ediliziaresidenziale pubblica sovvenzionata e agevolata, ai fini del superamento e della eliminazione delle

barriere architettoniche), definisce come «la possibilità, anche per persone con ridotta o impeditacapacità motoria o sensoriale, di raggiungere l’edificio e le sue singole unità immobiliari e ambientali, di

entrarvi agevolmente e di fruirne spazi e attrezzature in condizioni di adeguata sicurezza e autonomia» –è divenuta una qualitas essenziale degli edifici privati di nuova costruzione a uso di civile abitazione,

quale conseguenza dell’affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere,preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette dahandicap fisici. Per quanto riguarda poi gli edifici privati già esistenti, vengono in considerazione, come

espressione dello stesso indirizzo legislativo, gli interventi previsti dall’art. 2 della citata l. n. 13 del 1989,in virtù dei quali è possibile apportare all’immobile condominiale, a spese dell’interessato e anche in

deroga alle norme sul condominio degli edifici, le modifiche necessarie per renderlo più comodamenteaccessibile. È peraltro evidente come la citata normativa possa in concreto risultare del tutto

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insufficiente rispetto al fine perseguito, ove le innovazioni necessarie alla piena accessiblità dell’immobilerisultino in concreto impossibili o, come nella specie, eccessivamente onerose o comunque di difficilerealizzazione. Ed è appunto in relazione a tali ipotesi che la non inclusione della accessibilità

dell’immobile tra le esigenze che, ai sensi dell’art. 1052, co. 2°, c.c., possono legittimare la costituzionedella servitù coattiva di passaggio, risulta lesiva di quei principi costituzionali che, come si è accennato,

l’accessibilità dell’abitazione è intesa a realizzare.

6. Più specificamente, la impossibilità di accedere alla pubblica via, attraverso un passaggio coattivo sulfondo altrui, si traduce nella lesione del diritto del portatore di handicap a una normale vita di relazione,

che trova espressione e tutela in una molteplicità di precetti costituzionali: evidente essendo che l’assenzadi una vita di relazione, dovuta alla mancanza di accessibilità abitativa, non può non determinare quelladiseguaglianza di fatto impeditiva dello sviluppo della persona che il legislatore deve, invece, rimuovere.

L’omessa previsione della esigenza di accessibilità, nel senso già precisato, della casa di abitazione,accanto a quelle, produttivistiche, dell’agricoltura e dell’industria rende, pertanto, la norma denunciatain contrasto sia con l’art. 3 sia con l’art. 2 della Costituzione, ledendo più in generale il principio

personalista che ispira la Carta costituzionale e che pone come fien ultimo dell’ organizzazione sociale losviluppo di ogni singola persona umana.

7. Sotto un diverso aspetto, poi, questa Corte ha già avuto modo di affermare come debba ritenersiormai superata la concezione di una radicale irrecuperabilità dei portatori di handicap e come la

socializzazione debba essere considerata un elemento essenziale per la salute di tali soggetti sì daassumere una funzione sostanzialmente terapeutica assimilabile alle pratiche di cura e riabilitazione(sent. n. 215 del 1987).

S’intende allora come la norma denunciata, impedendo od ostacolando la accessibilità del’immobile

abitativo e, quale riflesso necessario, la socializzazione degli handicappati, comporti anche una lesionedel fondamentale diritto di costoro alla salute intesa quest’ultima nel significato, proprio dell’art. 32Cost., comprensivo anche della salute psichica la cui tutela deve essere di grado pari a quello della salutefisica.

8. Avverso l’affermata incostituzionalità della norma denunciata, non vale opporre, come fal’Avvocatura, che l’accessibilità propria degli edifici abitativi farebbe riferimento alla persona deiproprietari più che a una qualitas dei fondi, cosicché difetterebbe, nella specie, il carattere dellapredialità, proprio delle servitù. Si è già visto, infatti, che la legislazione in tema di eliminazione delle

barriere architettoniche ha configurato la possibilità di agevole accesso agli immobili, anche da parte dipersone con ridotta capacità motoria, come requisito oggettivo quanto essenziale degli edifici privati dinuova costruzione, a prescindere dalla loro concreta appartenenza a soggetti portatori di handicap.Mentre dottrina e giurisprudenza hanno, per altro verso, chiarito come la predialità non sia certo

compatibile con una nozione di utilitas che abbia riguardo – specie per gli edifici di civile abitazione –alle condizioni di vita dell’uomo in un determinato contesto storico e sociale, purché detta utilitas siainerente al bene così da potersi trasmettere a ogni successivo proprietario del fondo dominante. Nè,d’altronde, la previsione della servitù in parola può trovare ostacolo nella garanzia accordata al dirittodi proprietà dall’art. 42 Cost.

Come osservato dal remittente, infatti, il peso che in tal modo si viene a imporre sul fondo altrui può

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senz’altro ricomprendersi tra quei limiti della proprietà privata determinati dalla legge, ai sensi dellacitata norma costituzionale, allo scopo di assicurarne la funzione sociale.

P.Q.M. la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 1052, co. 2° c.c., nella partein cui non prevede che il passaggio coattivo di cui al co. 1° possa essere concesso dall’autoritàgiudiziaria quando questa riconosca che la domanda risponde alle esigenze di accessibilità – di cui allalegislazione relativa ai portatori di handicap – degli edifici destinati a uso abitativo.

La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente.

La distinzione tra diritti reali e diritti di credito ha poi trovato utile rilettura ad Opera di Attilio Guarneri nella voceDiritti soggettivi (categorie di), in Digesto IV, Sez. Civ., vol. V, Torino, 1989, da cui sono tratte le pagine che

seguono.

Come già si è accennato, una consolidata tradizione scolastica, comune a tutta l’arca dei diritti romano-germanici, ci consegna la distinzione diritti reali-diritti di credito.

Codici e leggi speciali utilizzano tale partizione, cui riconnettono un particolare tipo di disciplinagiuridica.

La rapida ricognizione degli atteggiamenti degli interpreti nelle varie esperienze giuridiche,

precedentemente svolta, permette di rilevare una grande varietà di accezioni dei termini della partizione:l’assenza di una chiara delimitazione delle due categorie;

atteggiamenti minoritari ricorrenti, favorevoli a un superamento dell’antitesi, onde sostituirla con unacategoria unitaria dei diritti patrimoniali, o con nuove forme di aggregazione, con nuovi tipi di

classificazione, fondati su nuove e diverse combinazioni dei caratteri differenziatori: è un’opinionedottrinale prevalente, favorevole, sia pure con varie sfumature, al mantenimento della classificazione.

Si tratta ora di analizzare quale sia il ritmo di evoluzione, trasformazione ed eventualmente di

deperimento della classificazione, misurando se esso abbia raggiunto gli stessi traguardi nei vari paesiromanisti negli stessi momenti storici e nei vari istituti giuridici o se, invece, abbia investito le varie areein tempi diversi e con intensità disuguale. Naturalmente, per fare ciò, dovrà rivolgere l’attenzione aidiversi problemi pratico-giuridici sostanziali, in funzione dei quali la classificazione viene inconsiderazione. Sotto questo profilo, un momento essenziale dell’analisi deve consistere nel rinvenimento,

nelle varie esperienze giuridiche, dei punti di emersione dell’antitesi, dei casi in cui il legislatore e/ol’interprete ricorrono alla distinzione per indicare una diversa disciplina dell’un diritto soggettivopatrimoniale rispetto all’altro. La comparazione dei dati così raccolti permette di misurare l’incidenzadelle classificazioni dottrinali sulle soluzioni concrete e, prima ancora, la propensione di una dottrinagiuridica alle classificazioni: in prima approssimazione, una metodologia concettuale, fondata su un

sistema di dogmi, che non possono patire eccezioni, come quella della tradizione germanico-pandettistica, spinge l’interprete a porre l’accento sulla distinzione e a trattare e risolvere l’insieme deiproblemi sub specie della medesima, all’opposto, una metodologia fondata su definizioni elastiche, chepossono patire eccezioni senza snaturarsi, come è quella francese, finisce per conferire all’antitesi un

rilievo puramente indicativo, tendenziale, comunque non decisivo nella soluzione del caso singolo.

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Ancora, la comparazione consente di individuare in un sistema dato la presenza di modelli impliciti, dicriptomodelli non verbalizzati che i principi generali, enfatizzati dalla dottrina, tendono a occultare, cosìdeformando l’immagine di una data esperienza giuridica.

Ancora, i dati così raccolti possono poi servire a risolvere i problemi classificatori di singoli dirittipatrimoniali che oggi e in passato, in misura diversa, hanno affaticato e affaticano gli interpreti, quali,per es., la natura personale o reale del diritto del conduttore, dell’affittuario, del mezzadro, del creditore

anticretico, dei diritti su beni immateriali, dei diritti di garanzia, e, di recente, del diritto dell’assegnatariodi alloggi di edilizia economica e popolare, del diritto dell’utente del bene concessogli in leasing, deldiritto nascente da una convenzione di lottizzazione, da una cessione di cubatura, ecc. La soluzione,talvolta, non sarà necessariamente netta in un senso o nell’altro, ben potendo un singolo dirittosoggettivo sotto un profilo (per es. in materia di fallimento) avere la disciplina propria dei diritti

obbligatori e sotto un altro profilo (per es. in materia di tutela aquiliana) avere la disciplina peculiare deidiritti reali.

Senza pretesa di completezza, qui di seguito vengono elencati vari possibili punti di emersione e dirilevanza della distinzione tra diritti reali e diritti di credito.

Un primo punto di emersione si riscontra in tema di circolazione dei diritti per atto tra vivi: l’arcagermanica e le aree per le quali la stessa è divenuta modello con la regola dell’investitura formale deldiritto sono aree conservatrici della distinzione tra diritti reali e diritto di credito, prevedendo una doppia

regola traslativa per ciascuna delle due categorie di diritti soggettivi, laddove l’area franco-italiana e learee che su di essa si sono modellate con la regola unitaria dell’effetto traslativo del consensotenderebbero, secondo l’insegnamento prevalente, a un superamento della distinzione, conoscendoperaltro una serie numerosa di momenti di riemersione dell’antitesi con il ripristino della doppia regolaacquisitiva.

Un secondo punto di emersione è rappresentato dall’atto ricognitivo, ove l’interprete sottolineal’esigenza di operare una distinzione tra diritti reali e diritti di credito, restringendo l’applicazionedell’art. 1988 c.c. ai soli diritti obbligatori.

Alle fattispecie estintive è riconducibile un importante momento di rilievo dell’antitesi: la rinunzia aldiritto. Pur essendo prevalsi, specie in passato, atteggiamenti favorevoli a una disciplina uniformedell’atto abdicativo, identificato ora come atto sempre bilaterale, ora come atto sempre unilaterale,l’atteggiamento prevalente è favorevole a una distinzione, richiedendo per il diritto reale un atto

unilaterale e per il diritto di credito un atto bilaterale (modello tedesco) o un contratto a formazioneunilaterale (modello francese e italiano).

Sempre alle fattispecie estintive possono ricondursi, quale punto di emersione, la confusione per i dirittidi credito e la consolidazione per i iura in re aliena, che presentano una disciplina diversificata.

Un altro grande capitolo di rilievo della distinzione è rappresentato dalla protezione dei diritti.

Sul piano della tutela aquiliana, l’indagine comparativa ci presenta un sistema germanico, dove l’antitesi

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è assai salda, salvo particolari temperamenti, nel senso di restringere la tutela ai soli diritti reali e diammetterla per i diritti di credito solo in presenza di particolari fattispecie.

Al contrario, nell’area francese la tutela aquiliana è del tutto indipendente da qualsiasi riferimento altipo di situazione giuridica soggettiva protetta, sicché tra tutela aquiliana e partizione in esame non viene

istituito alcun rapporto.

L’area italiana è un po’ incerta tra questi due atteggiamenti: mentre fino a pochi anni or sono sembravaprevalere un atteggiamento germanizzante, volto ad ancorare il problema della tutela delle situazionisoggettive all’antitesi in esame, di recente sembra essersi affermato un atteggiamento opposto,

uniformatore, che ha progressivamente esteso la tutela aquiliana anche a taluni diritti di credito inparticolari fattispecie: non mancano, peraltro, resistenze, perplessità, dissensi, riconducibili a unatteggiamento favorevole alla conservazione della rilevanza della distinzione.

Sempre sul piano della protezione, l’indagine comparativa ci riserva, peraltro, una sorpresa: fin quiabbiamo visto che a una esperienza fortemente conservatrice dell’antitesi, quale quella germanica,corrisponde un’esperienza, quale quella francese, che ha progressivamente uniformato la disciplinapositiva dei diritti soggettivi patrimoniali, rendendo sempre meno rilevante sul piano operativo ladistinzione, e infine l’esperienza italiana, che appare un po’ irresoluta, anche se pare lentamente

orientarsi nella direzione dell’esperienza francese.

Orbene, se guardiamo al possesso e a ciò che nell’area germanica è chiamato Besitz, osserviamo chenell’area franco-italiana a far tempo dalle codificazioni si distingue nettamente tra potere di fatto

corrispondente all’esercizio di un diritto reale (possesso) e potere di fatto corrispondente all’esercizio diun diritto di credito (detenzione), mentre nell’area germanica tale distinzione è sconosciuta.

Dunque, sotto questo profilo, inaspettatamente, l’area germanica misconosce l’antitesi che, al contrario,è nettamente configurata nell’area franco-italiana.

Tale contrapposizione di modelli si proietta in sede di tutela possessoria: a una disciplina germanica(ABGB, BGB e ZBG), che non distingue, corrisponde nell’area franco-italiana una disciplina che,seguendo una tradizione risalente al droit coutumier, preclude al detentore l’azione di manutenzione e leazioni nunciatorie. Una recente legge francese (vd. più oltre) ha aperto al detentore la legittimazione

all’azione di manutenzione, avvicinando così l’esperienza francese alla tradizione uniformatrice del Besitzdelle esperienze dei paesi tedeschi.

Sempre sul piano della protezione, l’antitesi in esame è assai visibile nel diritto ottocentesco per la più

intensa tutela accordata ai diritti reali, identificantesi con la cosiddetta «rimessione in pristino», di cuialle tradizionali azioni di rivendicazione, confessoria, negatoria, ecc. e consistente nella condanna allarestituzione della cosa oggetto del diritto, nella cessazione di attività da altri esplicate indebitamentesulla cosa, nella eliminazione di opere, che turbino l’esercizio del diritto, ecc.

Tali azioni, come è noto, prescindono dall’esistenza di un danno, dal dolo o dalla colpa del soggettoagente e anche qualora la reintegrazione in forma specifica risulti eccessivamente onerosa non possonoportare al risultato di un risarcimento per equivalente.

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All’opposto, la disciplina tradizionale protegge il creditore con il solo risarcimento per equivalente erichiede, quali presupposti della tutela, il danno e il dolo o la colpa del debitore.

Tale contrapposizione è, peraltro, da tempo impallidita per la progressiva estensione al creditore dellatutela del risarcimento in forma specifica, sia che l’oggetto del credito sia la consegna di una cosa

determinata, il trasferimento di un diritto o addirittura una quantità di cose di genere.

L’antitesi è dunque assai meno netta che in passato: peraltro, la tendenza evolutiva è nel segno dimantenere alla distinzione un certo ruolo, con il conservare, in ogni caso, anche presso gli interpreti piùinnovatori, la distinzione tra risarcimento in forma specifica, tendenzialmente estensibile anche ai crediti

e tradizionale tutela petitoria, di esclusiva applicazione ai diritti reali.

Sempre sotto il profilo della protezione, ulteriori punti di emersione sono l’opponibilità del diritto agliomnes, tendenzialmente ristretta ai soli diritti reali e l’incidenza del fallimento, cui non sono opponibili i

crediti e sono, invece, opponibili i diritti reali.

Altri punti di emersione dell’antitesi si ritrovano in tema di occupazione, usucapione, regola «possessovale titolo», trascrizione, tutti istituti peculiari ai diritti reali.

Sul piano della contitolarità, l’istituto della comunione attiene ai soli diritti reali.

Parallelamente, secondo l’atteggiamento prevalente, che si rifà al vecchio adagio nomina et debitahereditaria ipso iure dividuntur, non cadono in comunione ereditaria i debiti e i crediti del defunto, adifferenza dei diritti reali.

Sotto il profilo dell’autonomia negoziale, i principi tradizionali del Typenzwang (numerus clausus) e dellaTipenfixierung, quali principi di ordine pubblico introdotti dalla Rivoluzione francese a tuteladell’integrità e della libertà del dominio contro eventuali tentativi negoziali di ripristinare istituti feudali,

sono tradizionalmente peculiari ai diritti reali e del tutto sconosciuti in materia di diritti obbligatori, per iquali, come è noto, vi è la libertà sia di costituire diritti obbligatori qualsiasi, sia di determinarne ilcontenuto.

Discusso è poi se l’atto emulativo, l’abuso del diritto, la funzione sociale. le regole di correttezza siano

applicabili indistintamente al diritti reali e ai diritti obbligatori o, invece, volta a volta solo ai diritti dellaprima o della seconda categoria.

Di fronte a simile molteplicità di punti di emersione e possibile solo svolgere un’indagine per campione,scegliendo alcuni momenti di rilevanza tra i più significativi ed evidenziando attraverso l’esame dei

medesimi esempi di tenacia ed esempi di cedevolezza dell’antitesi.

I punti di emersione prescelti sono: a) l’acquisto per atto tra vivi; b) la tutela aquiliana; c) la tutelapossessoria.

Nemmeno ai fini di questa indagine converrà che noi fissiamo cosa intenderemo per diritto reale e per

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diritto obbligatorio. Non ci è possibile inventare per l’occasione una definizione nostra e non vogliamoaffidarci a tentativi sistematici altrui, né a distinzioni condizionate a una ricostruzione, convincente cheessa sia, di un solo ordinamento positivo.

Al contrario, poiché l’indagine misura la sopravvivenza di una dicotomia, giunta a maturazione nel iuscommune, i «diritti reali» e i «diritti personali» oggetto di indagine sono ai fini di questa ricerca quelliche sono stati così etichettati alla vigilia delle codificazioni.

Al Convegno di Venezia «La civilistica italiana dagli anni cinquanta ad oggi tra crisi dogmatica e riformelegislative» (i cui atti sono stati pubblicati da CEDAM nel 1991) Marco Comporti è ritornato sui diritti reali nellaseconda parte della sua relazione Considerazioni sulla proprietà e sui diritti reali nella dottrina civilisticaitalianadell’ultimo quarantennio, che qui si riporta.

Mentre il dibattito sul tema della proprietà si è sviluppato nella dottrina e nella giurisprudenza conampiezza e passione, tenuto anche conto dell’importanza sia ideologica che pratica degli argomenti edelle conseguenze dei giudizi di legittimità costituzionale sulla legislazione speciale e quindi suiprogrammi operativi in corso, il tema dei diritti reali, pressoché fermo nella nostra dottrina dagli studi di

Barassi degli anni Cinquanta, è stato ripreso, dopo circa venti anni, da studi ora diretti a evidenziare unprofilo oggettivo e più realistico del diritto reale in generale, ora volti a scoprire, specie sotto il profilostorico-ideologico, le varie forme giuridiche di appartenenza dei beni e le diverse concezioni dogmaticheal riguardo, ora, invece, mirati ad approfondire aspetti più particolari, ma non meno interessanti, quali

quelli del contenuto del diritto reale nel rapporto tra poteri e obblighi, della tipicità, del riconoscimentodei diritti reali.

Non è possibile in questa sede, ovviamente, ripercorrere o sintetizzare tutti i temi toccati dalla dottrinasul diritto reale; sarà sufficiente una breve indicazione per quanto riguarda la configurazione generale di

esso.

La dottrina degli ultimi decenni è stata pressoché concorde nel ritenere superata, sotto il profilo storico esotto quello dogmatico, la concezione personalistica del diritto reale, secondo la quale la relazione fra

soggetto e cosa non avrebbe giuridica rilevanza, perché il diritto sarebbe costituito dall’insieme delleregole attinenti alle relazioni intersoggettive, e il rapporto giuridico intercorrerebbe esclusivamente frasoggetto e soggetto. Questa impostazione formalistica, che veniva a togliere rilievo al valorefondamentale del contenuto della situazione, doveva essere superata dalle nuove tendenze realistichevolte a cogliere i valori e gli effettivi e concreti interessi meritevoli di tutela, e doveva venire a cadere nel

momento in cui veniva affermato che il c.d. dovere negativo di astensione che graverebbe su tutti iconsociati, altro non sarebbe che il c.d. dovere di rispetto o di alterum non laedere, dovere che dovrebbeproteggere tutte le sfere giuridiche, tutti i diritti soggettivi, e così anche i diritti di credito.

Occorreva perciò ritornare, come ipotesi di studio, alla concezione classica del diritto reale e inquadrare

la problematica essenzialmente sotto il profilo contenutistico e interno della particolare relazione cheviene a porsi fra il soggetto e il bene.

Nell’ambito di tale concezione classica, molto diffusa appare la rappresentazione del diritto reale come

potere immediato e diretto del titolare sulla cosa. Tale concezione fioriva nel momento in cui,

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nell’economia statica della società borghese espressa dalla Rivoluzione francese, la proprietà e iprincipali diritti reali assumevano un ruolo di primo piano, e veniva riconosciuto al proprietario od altitolare di altro diritto reale un netto potere di supremazia e di preminenza non solo in relazione al bene,ma anche nell’ambito della società.

Le istanze espresse dalla realtà socio-economica del momento venivano pertanto a tradursi,nell’ordinamento nascente dal Code Napoléon, nella decretata superiorità del sistema chiuso dellaproprietà e degli altri principali diritti reali sul sistema delle obbligazioni, considerate solo quale

strumento per la costituzione del diritto reale, come «acheminement vers le droit réel» (Demogue).

Ma con l’avvento dell’era industriale, si affermano nuove esigenze di una società inquieta e in rapidatrasformazione; il fenomeno dell’impresa e del lavoro viene ad assumere un ruolo determinante rispettoalla proprietà statica e alla rendita di mero capitale; il soggetto utilizzante in concreto il bene per

l’esercizio di una attività produttiva viene ad acquistare una considerazione prioritaria sul soggettotitolare del diritto, fino a che, poco a poco, attraverso una legislazione speciale variamente diffusa neiprincipali paesi industrializzati, nel conflitto tra interessi della proprietà e interessi degli affittuari, deicoltivatori diretti, dei coloni, degli inquilini, vengono gradualmente ad affermarsi gli interessi di questiultimi.

Perfettamente giustificate, dal punto di vista storico, appaiono così le nuove tendenze della letteraturagiuridica che, dapprima, riconosce al titolare di certe prerogative sulla cosa, fino ad allora consideratesecondo lo schema del rapporto obbligatorio, un potere diretto e immediato sulla cosa stessa, tale da dar

luogo alla configurazione della nuova categoria dei diritti di godimento da parte della dottrina italiana(Giorgianni, Natoli, Lazzara, Mirabelli, Giannattasio, Luminoso), e indi tenta di riscontrare nellesituazioni più stabilmente ancorate alla cosa la figura del diritto reale (Comporti).

Con la creazione della nuova categoria dei diritti di godimento veniva pertanto superata, da un lato, la

tradizionale dicotomia fino ad allora esistente tra diritti reali e diritti di credito, e dall’altro lato, laconcezione classica che, come si è visto, ravvisava il diritto reale nel potere immediato e diretto sullacosa.

È evidente allora che, per individuare il diritto reale, occorreva approfondire il fenomeno indicato dalla

dottrina con l’espressione «inerenza del diritto reale alla cosa», espressione che viene desunta, del resto,dalla terminologia usata talvolta dal c.c. (art. 1964 c.c. 1865; artt. 2808, 2809, 1027 c.c. 1942).Occorreva cioè considerare sopratutto il profilo garantistico del diritto, ossia quello della particolare erafforzata tutela che l’ordinamento offre a certe situazioni giuridiche stabilmente ancorate a una cosa:

situazioni che seguono la cosa e restano efficaci anche nei confronti dei terzi aventi causa a titoloparticolare; sono tutelate per la realizzazione e l’esercizio del loro contenuto attraverso particolari azionipetitorie, con possibilità di reintegrazione in pristino e di inibitoria; e infine evidenziano uno strettocollegamento tra le vicende del diritto e le vicende della cosa, tale da influenzare reciprocamente levicende relative alla costituzione, alla modifica e alla estinzione.

L’opponibilità sotto il profilo della tutela e del diritto di seguito e la stretta correlazione tra vicende dellacosa e vicende del diritto sono sembrate dunque le attuali caratteristiche fondamentali del diritto reale,rilevate sulla base della disciplina positiva.

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In tal modo, se l’indagine dell’essenza del diritto reale viene orientata ad approfondire il profilooggettivo dell’inerenza (presentato addirittura quale incorporazione reale del diritto alla cosa), siabbandona ovviamente la concezione ideologica del diritto reale come situazione di supremazia e dipotere sugli altri soggetti e sulla cosa, e si cerca più realisticamente di cogliere il significato della

situazione in riferimento alla peculiarità della disciplina prevista dall’ordinamento e alle ragioni di talepeculiarità.

Il diritto reale, dunque, pur costituendo una situazione giuridica con caratteristiche sue proprie perquanto concerne la suddetta opponibilità, non sembra più configurabile come categoria assoluta, ma

come categoria strumentale che serve, nell’attuale momento dell’esperienza storica, a individuare unparticolare tipo di regolamentazione dei diritti patrimoniali su cose, dotati dell’inerenza e del seguito.

Nella configurazione del diritto reale non rileva più, come dato fondamentale, l’idea del potere, ma si

esalta, più realisticamente, lo strumento della tutela, in precedenza oscurato e nascosto dal simbolotradizionale del dominio.

In altri termini, la figura del diritto reale, svalutata nella sua forza ideologica e nel suo valore ontologico,sembra ridursi adesso a un dato meramente relativo, a un termine convenzionale con cui si individua un

particolare tipo di disciplina giuridica, previsto per uno stabile ancoraggio di certe situazioni alla cosa,con sicura efficacia nel tempo e valida opponibilità ai terzi.

Nel corso del medesimo convegno, Francesco Romano ha sollevato un interrogativo:

I diritti reali: eclissi di una categoria giuridica?

Nel corso della elaborazione normativa del materiale che poi avrebbe costituito il contenuto del Lib. IIIdel c.c. – come risulta dai lavori preparatori –, v’è stato un momento nel quale l’intitolazione di detto

libro suonava «delle cose e dei diritti reali».

Dopodiché, nella redazione definitiva, scompare il riferimento ai diritti reali, e torna, sola, la«proprietà». Forse estremo omaggio formale a quella figura che nel codice del ’65 giuocava un ruolodominante; forse prime avvisaglie di una incertezza e insicurezza conoscitive nei confronti del tipico

prodotto di un processo teorizzante e astraente, una «categoria» concettualmente elaborata, carica diideologie temporalmente relative.

Nel corso di un’altra elaborazione, quella del programma tematico per questo nostro incontro, il tema di

questa sezione venne indicato come concernente la proprietà e i diritti reali (e per me, appunto, residuòla riflessione sui diritti reali). Ed ecco che nella redazione definitiva del programma l’intitolazione ai«diritti reali» scompare. Per mille vie la tendenza egemonica della proprietà riesce ad affermarsi; mariesce ancora, la proprietà, nella sua frammentata veste attuale, a costituire un modello valido eomogeneo e coerente per consentire l’enucleazione di un concetto di sintesi quale è la «categoria» dei

diritti reali?

Dunque questa è stata la chiave di verifica che ho tentato, allorché mi sono posto il problema di

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esaminare cosa fosse avvenuto non dal ’50 a oggi, ma in questo ultimo cinquantennio, cioè in un periodoche include due accadimenti estremamente rilevanti: il c.c. del 1942 e la Costituzione della Repubblica.

L’attenzione si è rivolta ai manuali istituzionali; a ciò che in tema di diritti reali si legge nei libri diistituzioni privatistiche. E questo non solo per un fattore emotivo – noi qui siamo convenuti idealmenteraccolti da un richiamo promanante da un magistrale libro di istituzioni –, ma per una ragione oggettiva,

connessa ai fattori formativi della educazione del giurista. Qui ho sentito dire, nel corso dei nostri lavori,che il magistrato può trovarsi in difficoltà a seguire le elucubrazioni dei teorici, e che non di tuttopossono leggere i giudici (e l’osservazione, compiuta proprio da un magistrato, portava con sé una sottilegarbata velatura di rimprovero). Ma il manuale di istituzione tutti lo abbiamo letto; e sono convinto checerte idee di fondo lì còlte si trasferiscono nel lettore, e vi rimangono aderenti più di quanto non avvenga

leggendo una monografia:

probabilmente perché il messaggio del manuale istituzionale è quello che arriva per primo; perché arrivaavendo già filtrato la complicazione del discorso scientifico che è articolato laddove l’altro è sintetico,

che è complesso laddove l’altro è semplice.

Come punto di riferimento, alla origine, ho posto il Manuale di Fulvio Maroi; e la scelta, tra le diversepossibili, è stata determinata da due fattori. Il primo è di ordine temporale; infatti l’opera è datata 1937,quindi praticamente, coeva ai lavori preparatori del nuovo c.c. Il secondo è rappresentato dal fatto che

alle spalle di questo libro c’è quello del De Ruggero, per cui esso si presenta come acme di una esperienzae cultura giuridica. Orbene il raffronto tra queste pagine di Maroi, e quelle che si sono succedute, fino aoggi, nel tempo, non consente di rilevare variazioni ed evoluzioni sostanziali (ed il raffronto è pur statofrequentissimo, vista la ricchezza di produzione recente nel campo dei manuali).

Trarre da questa osservazione la valutazione di una immobilità del settore, sia normativa chespeculativa, sarebbe semplicistico. Ma non c’è dubbio che l’ottica del manuale di istituzioni tendeall’essenziale; e confina le discussioni nel limbo esclusivo della astrazione, se di queste discussioni nonriesce a cogliere aspetti utilizzabili sul piano delle grandi sintesi operative, come sono quelle del testo

istituzionale. Lo studente di oggi acquisisce, sui diritti reali, cognizioni non dissimili da quelle che inserivanella memoria lo studente di cinquanta anni or sono. Poiché questo apprezzamento non potrebbe certoripetersi per quanto concerne la proprietà, mi pare evidente che difetta ancora l’operazione di raccordotra l’attuale essenza dell’archetipo (la proprietà) e le circostanze sulle quali è modellata la categoria (idiritti reali).

Un versante nella tematica che riguarda i diritti reali si è indubbiamente evoluto e lo si nota quando sisegue lo sviluppo della discussione (con consapevolezza scientifica avviata agli inizi dell’Ottocento) sullecaratteristiche della situazione reale in una prospettiva di confronto con la situazione creditoria. Ma aben vedere è il diritto di credito che si evolve, come deve riconoscersi allorché si ammette, per es., che un

profilo di assolutezza non può negarsi, con riferimento alla tutela, anche a situazioni caratteristicamentecreditorie (la c.d. tutela aquiliana del credito). Così per la opponibilità erga omnes, anche questa untempo riferita esclusivamente al diritto reale, ma oggi difficilmente riconducibile solo al diritto reale.Non intendo soltanto riferirmi all’argomento, abusato, che richiama la locazione ultranovennale, quando

sia trascritta, quale esempio di diritto di credito opponibile a tutti (e allorché si considera che questanotazione potrebbe – e lo è stata – entrare in un ragionamento per affermare la «realità» del diritto di

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locazione, ci si rende conto di come lo strumento concettuale rappresentato dalla «categoria» vadasfilacciandosi).

Richiamo adesso una previsione normativa recente, quella contenuta, nell’art. 6 della legge sul divorziocome novellata nel 1987.

Vi si legge che la assegnazione del diritto di abitazione nella casa familiare, rispetto alla quale è pacifica

la ricostruzione in termini di diritto personale di godimento, è trascrivibile e opponibile ai terzi.Utilizzando la tecnica del c.c., che prevede la trascrizione degli atti, questa regola finisce per rompere inbreccia una tradizione normativa e dottrinaria. La tradizione che vuole la opponibilità quale connotatoesclusivo dei diritti reali, e la trascrivibilità esclusivamente riservata agli atti che costituiscono,modificano, trasferiscono diritti reali. La sequenza: trascrizione – diritto reale appare meno ferma; così

come il suo risvolto: diritto reale – trascrizione meno rigoroso. La convinzione che ebbi occasione diesprimere, per cui la legge è precisa nell’indicare gli atti che si devono trascrivere, ma non pregiudica inalcun senso lo spazio del potere trascrivere, trova applicazione proprio nel contesto della regola dettataper l’assegnazione della abitazione familiare («…in quanto trascritta…»: quindi riconoscimento delpotere di trascrivere).

Alla caduta di diversità non più plausibili, si accompagna il mantenimento di differenze di trattamentodelle quali mi riesce difficile rinvenire una giustificazione convincente. Ciò di cui non scorgo conprecisione il fondamento giuridico è la affermazione, che per altro tutti mi pare ripetano, per cui al

diritto reale segue una actio in rem, mentre al diritto di credito si accompagna una actio in personam.

Cosa vuol dire questo in concreto? Immaginiamo un esempio. Concessione in comodato di un bene. Ilcomodato è senza termine, non è pattuita la scadenza. Allorché il comodante richiede il bene il rapportocessa, e il comodatario deve restituire la cosa (ho fatto l’ipotesi del rapporto senza termine di durata,

perché mi sembra che in questo caso è ancora più accentuata la relatività del distacco rispetto alproprietario del bene concesso al godimento altrui).

Se il già comodatario non restituisce il bene, che azione ha il proprietario per ottenere la restituzione? Larisposta appare scontata: ha una azione ex contractu, cioè una azione personale. Eppure, se ragioniamo

senza preconcetti, potrebbe svilupparsi una diversa costruzione. Chi ha concesso in comodato èproprietario, ed era possessore.

Quando ha dato la cosa in comodato ha operato anche sul piano possessorio, consentendo al

comodatario di instaurare una relazione diretta col bene (possesso, detenzione).

Allorché cessa il vigore del titolo che fonda la relazione possessoria del comodatario, questi diviene unpossessore senza titolo. E allorché egli non restituisce il bene, e quindi possiede contro la volontà deltitolare, con ciò attua uno spoglio. Ebbene il comodante ritiene di agire in via possessoria, perché questa

via gli consentirebbe di raggiungere più sollecitamente il risultato cui tende, cioè il recupero del bene.

Intentata l’azione reale, il procedimento segue queste fasi. Il giudice innanzi tutto conosce del rapportoper accertare quali siano le rispettive posizioni.

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Allorché emerge che all’origine del rapporto c’è un contratto, e che il rapporto si è esaurito, il giudicerisponde: il comodatario possiede la cosa illecitamente; la cosa deve essere restituita al proprietario, mala condanna alla restituzione può essere pronunciata solo in accoglimento di una azione personale. E conciò vanifica l’azione possessoria. Perché? Possiamo spingere il discorso più avanti? Il proprietario

costituisce un usufrutto mediante contratto. Poi non consegna la cosa. L’usufruttuario, titolare di undiritto reale, che azione ha a disposizione? Secondo lo schema comune solo una azione ex contractu. Madove sta scritto che, essendo egli in pratica spossessato della cosa (lui, che ha «il diritto di conseguire ilpossesso», come plasticamente dice l’art. 982 c.c.) non possa esercitare una azione reale?

Non mi sembra seriamente contrastabile che questi problemi debbano essere ripensati in una riflessioneaggiornata sui diritti reali, sulle situazioni soggettive tutelate.

Io ritengo che le ragioni della distinzione tra diritti reali e diritti di credito si fondino su due ordini di

fattori, tra di loro diversamente collegabili. Da un lato fattori legati ai sistemi di tutela approntatidall’ordinamento; dall’altro fattori strutturali connaturati all’esercizio dei diversi poteri giuridici.

Al primo ordine di fattori appartiene senz’altro quel principio ideologico che si esprime con la formulanumerus clausus. Un fondamento positivo di questo principio lo si può rinvenire solo attribuendo

all’ordinamento generale l’intento di non vedere frazionabili, oltre le ipotesi regolate, i rapporti diretticon le cose, e in sostanza evitare attentati alla pienezza del potere proprietario. Ma le vicende del dirittodi proprietà potrebbero far ritenere che oggi quello del numerus clausus sia solo un resistente statod’animo.

Indubitabile la originalità del diritto reale per quanto attiene alla configurazione del potere che consenteun rapporto diretto con la cosa onde soddisfare l’interesse del titolare, a differenza del diritto di creditodove la soddisfazione è mediata dalla prestazione di un altro soggetto; ma anche in questa dimensione èsolamente la proprietà che mantiene una sua completa autosufficienza soggettiva. Il proprietario è solo

con la cosa, e potenzialmente non ha bisogno di altri. Tutte le ulteriori figure di diritto reale nascono dalrapporto con un altro soggetto (salvo i modi di acquisto a titolo originario, dove i rapporti si instauranosuccessivamente), e la matrice è la stessa dei diritti di credito, e la normativa del codice è punteggiata dirichiami a situazioni obbligatorie. Non è qui il caso di indagare sulle origini culturali del fenomeno e dellastessa terminologia, ma già l’espressione «diritto» reale appare estremamente sintetica e figurata. Infatti

le figure che conosciamo sotto questo nome appaiono non come esclusive posizioni di potere, ma comesintesi variamente bilanciate di potere e dovere. E nella realtà funzionale dell’ordinamento è proprio lamisura del dovere che differenzia e conforma le situazioni reali; al punto che l’inosservanza del dovere favenir meno il «diritto». Quando l’usufruttuario altera la destinazione economica meno un elemento della

definizione del diritto (art. 918 c.c.). L’enfiteuta che non osserva i dovere di migliorare il fondo cessa diessere tale.

Diversamente se non paga il canone: questo è un momento tipico del rapporto obbligatorio che lo lega alconcedente.

In definitiva lo scenario va cambiando. La proprietà vede sfumare i suoi spigoli taglienti; vedeaddirittura forzati i serrami costituiti dal sistema rigido dei modi di acquisto.

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29/08/12 Tipicità e numero chiuso dei diritti reali. Dottrina e orientamenti giurisprudenziali

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Avendo costituito la proprietà il modello sul quale si è costruita la categoria del diritto reale, lo studio diquesto settore deve necessariamente procedere con la consapevolezza di quanto è mutato nel prototipo, ecapire come questo reagisca sulla stessa metodologia di indagine. I segnali di cambiamento attengono,per ora, sopratutto a specifici momenti applicativi (si veda la tutela acquiliana non più esclusiva; latrascrivibilità che valica il confine del reale; la scarsa credibilità del diverso campo applicativo delle

azioni in rem e in personam). Manca, per quanto mi è dato constatare, una traduzione rigorosa di questevicende sul piano della ricostruzione teorica generale: ma qualcuno potrebbe domandarsi se questo siaancora il momento propizio per costruzioni teoriche generali.

E al convegno «Clausole e principi generali nell’argomentazione giurisprudenziale degli anni novanta»

organizzato a Genova da Luciana Cabella Pisu e Luca Nanni (i cui atti sono pubblicati nel volume editoda CEDAM nel 1998), Antonio Gambaro ha formulato le seguenti osservazioni in chiusura della suarelazione «Note sul principio di tipicità dei diritti reali»:

In primo luogo è da rilevarsi che le ragioni addotte concernono tutte le situazioni reali, o, in altrolinguaggio giuridico, tutti i property rights. Ciò conferma che quello in esame è autenticamente unprincipio e non già una regola particolare.

In secondo luogo, però, è da rilevarsi che se il problema di fondo viene identificato con l’effetto di

accumulo, allora è improbabile che la soluzione più razionale coincida con il criterio del numero chiusodei diritti reali, essendo più attraente considerare tale problema dallo stesso punto di vista da cui siconsiderano i contratti a lungo termine, in cui i meccanismi di adattamento sono inseriti ex lege alla luce,come ha sottolineato Mel Eisenberg, di quella limited cognition di cui dispongono le parti contraentirispetto a un futuro piuttosto remoto.

In terzo luogo è da osservarsi che se il problema di fondo si riduce a quello generato da una dissimmetriainformativa, allora la soluzione ovvia coincide con l’introduzione di un sistema di pubblicità. Perconseguenza la tipicità deve considerare una regola ancillare, dipendente dal tipo di organizzazione del

sistema di pubblicità in uso e non già da un principio dotato di una giustificazione a se stante. Essocomunque non può essere riferito alla necessità di non gravare la proprietà perché tale ragione ècontraddittoria.

In definitiva una analisi anche sommaria invita a considerare il principio della tipicità dei diritti reali

come un criterio di organizzazione, la cui razionalità merita di essere verificata di tempo in tempo allaluce delle necessità pratiche dell’ora presente.

Del resto se, come ha insistentemente sottolineato Christian Atias, quella dei diritti reali è sempre e solouna tecnica di ripartizione della utilità delle cose tra gli uomini, tanto vale che sia una tecnica buona e

moderna.

(*) Questi materiali antologici raccolti da Andrea Fusaro, e gli altri che in medesima materia seguiranno sonoparte di capitolo del secondo volume di Poteri dei privati e statuto della proprietà ,casa editrice S.e.a.m, Roma,dove si trattano gli argomenti enumerati dal circostanziato indice dell’opera