QUESTO È IL TESTO DEL 2 MAGGIO 2000 SU CUI STO...

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02/10/2012 1 NOTA: dopo la parola “fine” ci sono brani scartati o doppi Mi ci sono voluti almeno 6 mesi per preparare per la stampa Mistero buffo. Una lavorata incredibile! Ho scartato moltomateriale interessante perché Dario non ne ha voluto sapere!!! Franca ULTIMA EDIZIONE PER “I MILLENNI” MARZO 2001 MISTERO BUFFO EDIZIONE 2000 di Dario Fo a cura di Franca Rame

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NOTA: dopo la parola “fine” ci sono brani scartati o

doppi Mi ci sono voluti almeno 6 mesi per preparare

per la stampa Mistero buffo. Una lavorata incredibile!

Ho scartato moltomateriale interessante perché Dario non ne ha voluto sapere!!! Franca

ULTIMA EDIZIONE PER

“I MILLENNI”

MARZO 2001

MISTERO BUFFO EDIZIONE 2000

di Dario Fo

a cura di Franca Rame

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Indice Prologo

Rosa fresca e aulentissima

Il rito dei mammuthones e dei capri

La strage degli innocenti

Moralità del cieco e dello storpio

Il miracolo delle nozze di Cana

Nascita del villano

La nascita del giullare

La resurrezione di Lazzaro

La Madonna incontra Marie

Maria alla croce

Il Matto e la Morte

I crozadór (inchivatori)- (Il gioco del Matto sotto la

croce)

Il Matto sotto la croce a monologo

BonifacioVIII

Storia di san Benedetto da Norcia

Il primo miracolo di Gesù bambino

I grammellot

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La fame dello Zanni

Il grammelot di Scapino

Il grammelot dell’ avvocato inglese

Il grammelot napoletano di Razzuillo

Grammelot “Caduta del potere”

Golfo---Nozze Cana- Lazzaro-

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PROLOGO

I MISTERI

ATTORE “Mistero” è il termine usato già dai greci

dell’epoca arcaica, per definire una rappresentazione sacra:

misteri eleusini e dionisiaci. Il termine fu ripreso dai cristiani

per indicare i propri riti fin dal II e III secolo dopo Cristo.

Ancora oggi, in chiesa ci capita di ascoltare il sacerdote che

declama: “Nel primo mistero glorioso... nel secondo

mistero...”, e via dicendo. Mistero significa dunque

rappresentazione sacra, mistero buffo significa

rappresentazione di temi sacri in chiave grottesco-satirica.

Ma sia chiaro che il giullare, cioè l’attore comico popolare

del Medioevo, non si buttava a sbeffeggiare la religione, Dio

e i santi, ma piuttosto si preoccupava di smascherare,

denunciare in chiave comica le manovre furbesche di coloro

che approfittando della religione e del sacro si facevano gli

affari propri.

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Fin dai primi secoli dopo Cristo, i fedeli si divertivano, sotto

la direzione di giullari o preti particolarmente spiritosi, a

mettere in scena spettacoli in forma ironico-grottesca,

proprio perché per il popolo, il teatro, specie il teatro

comico, è sempre stato il mezzo primo d’espressione, di

comunicazione, ma anche di provocazione e di agitazione

delle idee.

Il teatro era il giornale parlato e drammatizzato delle

cosiddette “classi inferiori”.

ROSA FRESCA AULENTISSIMA

Per quanto riguarda la nostra storia, o meglio la storia del

popolo minuto, uno dei testi primi del teatro parodistico-

grottesco, satirico, è “Rosa fresca aulentissima” di Ciullo -

o Cielo - d’Alcamo.

Ebbene, perché noi vogliamo parlare di questo testo?

Perché è il testo più mistificato che si conosca nella storia

della nostra letteratura, in quanto mistificato è sempre stato il

modo di presentarcelo.

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Al liceo, al ginnasio, quando ci propongono quest’opera, di

fatto ci propinano una vera e propria truffalderia. Prima di

tutto ci fanno credere che si tratti di un testo scritto da un

autore aristocratico, probabilmente un letterato-poeta alla

corte dell’imperatore Federico II di Svevia, che, pur usando

il volgare, si è dimostrato talmente dotato da riuscire a

tramutare “il fango in oro”. Egli ha trasformato un tema

bassamente triviale, una situazione rasentante l’osceno,

come il dialogo che prelude a un amplesso d’amore carnale,

in una poesia sublime e “culta”, propria della “classe

dominante”.

Per dimostrarci l’assoluta attendibilità di questa teoria, i sacri

autori illuminati, chiosatori dei testi scolastici, da De Sanctis

al D’Ovidio, eseguono serie incredibili di capriole e salti

mortali da applauso spaccapalme. E qui voglio svelarvi che

il primo a eseguire un gioco di prestigio e truffa è stato

Dante Alighieri. Infatti, più o meno esplicitamente, nel suo

De Vulgari Eloquentia, commentando “Rosa fresca e

aulentissima” sentenzia con una certa sufficienza “…

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d’accordo… c’è pure qualche crudezza in questo

“contrasto”, qualche rozzezza, ma certamente l’autore è da

ritenersi un erudito, un colto”.

Non parliamo poi di cosa abbiano escogitato gli studiosi

della poesia trobadorica giullaresca del Settecento e

Ottocento a proposito dell’origine “alta” di questo testo; il

culmine dello spasso l’abbiamo avuto sotto il fascismo, ma

anche poco prima non si scherzava. Lo stesso Croce,

Benedetto Croce, il filosofo liberale, dichiara: “A proposito

di Ciullo d’Alcamo ci troviamo di fronte a un autore privo di

ogni affinità con giullari o fabulatori d’origine popolare.

Infatti, l’espressione poetica delle classi culturalmente

assoggettate, si limita immancabilmente a ripetere i temi e le

chiavi stilistiche delle classi dominanti”.

Il popolo, si sa, non è in grado di creare, di elevarsi al di

sopra della sua innata e normale banalità. Il volgare è la sua

costante vitale e quindi riesce al massimo a copiare

“meccanicamente” dagli autori aristocratici, i soli in grado di

creare espressioni d’arte. Il poeta di alta conoscenza e livello

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morale può trovarsi anche a sguazzare nel fango... ma ecco

che gli basta fare ricorso al proprio lirico afflatto e... un,

due... un saltello, uno zompo fantasticante... ecco che si libra

nell’aria come un airone leggiadro... miracolo della classe.

Invece, il giullare uso ad esibirsi sui banchi dei mercati può

prendere rincorse a spaccafiato, sgambarsi, sbattere braccia a

mulinello... SFLAM!... ricade immancabilmente nella melma

maleodorante da cui nasce e prende linfa.

Ma a buttare all’aria tutta questa bell’impostazione ecco

spuntare all’improvviso due sciamannati spaccatutto, nel

senso cordiale naturalmente del termine, un certo Toschi e

un altro che si chiama De Bartolomeis; notate bene, due

studiosi di formazione cattolica, oltretutto. Costoro hanno

combinato una vera e propria carognata, cioè hanno

dimostrato che il “contrasto” in questione è un testo

straordinario, ma opera di un giullare di estrazione e cultura

popolare.

Come? Ecco qua, basta analizzare con attenzione l’impianto

dell’opera e scopriremo che chi parla è proprio un giullare,

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ovvero il classico buffone dei mercati. Il giullare si presenta

nei panni di un gabelliere, più precisamente di un

personaggio che come professione si preoccupa di ritirare la

tassa, che permette di metter banco nei mercati. Anticamente

a questi gabbellieri si appioppava un soprannome piuttosto

curioso, li si chiamava gru o grue, il noto fenicottero

trampoliere. Perché? Per il fatto che tenevano un libro, un

registro, attaccato ad una coscia con una cinghia e quando

dovevano ritirare i soldi per segnare l’introito incassato dai

vari mercanti si ponevano in questa posizione piuttosto

curiosa (solleva una gamba, appoggiando il piede ginocchio

della gamba ritta), appunto come le gru e tutti i fenicotteri in

genere così poteva comodamente sollevare il gonnellone e

scoprire il registro sul quale andava scrivendo.

Ora questo gru o grue si trova a dichiarare il suo amore

appassionato a una ragazza affacciata a una finestra. E come

il giovane, nascondendosi il libro che ha sulla coscia con una

falda della sottana, si fa credere nobile e ricco, così anche la

ragazza dal verone, inventa truffaldina di essere la figlia del

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proprietario del palazzo. In verità si tratta di una ragazza a

servizio in quella casa, la classica servetta. Da cosa lo si

intuisce? Da un sonetto ironico recitato dal corteggiatore che

così si esprime: “Di canno - da quando - ti vistìsti di maiùto -

vestita di maiùto, di saio - bella, da quello jòrno so’ ferùto -

ferito”, cioè la ragazza appare vestita di telo di juta,

abbigliamento classico delle sguattere, delle lavandaie. Il

gabelliere, gabba la ragazza ricordandole evidentemente

d’averla veduta sciacquare i panni nella posizione assisa coi

glutei all’aria frementi dallo sbattere nel risciacquo, classica

azione che innamora alla follia i fortunati transitanti a tergo.

Ora conosciamo la collocazione sociale dei due personaggi:

la ragazza che millanta la propria posizione aristocratica e il

giovane che fa altrettanto.

Il ragazzo declama: “Rosa fresca aulentissima ch’apàri in ver

la stati…” è linguaggio aulico, raffinato, volutamente

caricato per far intendere che il giovane sta inventandosi

spudorato una propria origine aristocratica.

“Rosa fresca aulentissima ch’apàri invèr’ la state,

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le donne te disìano, pulzèll’ e maritate”.

Cioè, sei talmente bella figliola, che tanto le fanciulle che le

maritate vorrebbero fare l’amore con te. Per non parlare

delle vedove!

Ma dico, è una pazzia! Ma pensate voi, a scuola, il povero

professore che dovesse spiegare il dialogo così come appare

in superficie: “ (Con tono professionale) È normale ragazzi...

nel Medioevo le donne s’accoppiavano tra di loro con molta

facilità”. Gli arriva un pernacchio misto a risate a non finire

e viene cacciato, spedito a insegnare in Libia da Gheddafi.

Ecco perché il povero insegnante, che fra l’altro “tiene

famiglia”, è costretto a mentire.

Attenti però, trovandoci noi davanti ad una giullarata, non

dobbiamo mai dimenticarci dei lazzi a ribaltone che il

fabulatore esibisce sempre in giochi di doppio senso, spesso

scurrili. Quindi declamando rosa fresca e aulentissima,

siamo sicuri che il corteggiatore alluda proprio alla ragazza?

Il verso termina con “c’appari in ver la stati”. Ma quando

mai la rosa fresca e profumata fiorisce nell’estate? Semmai

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in primavera. Nel caldo solleone la rosa si spampana! E

allora a che razza di rosa si allude? E a stati significa proprio

l’estate? No, il giullare nei panni del grue ha sollevato il

gonnellone che, guardacaso nell’antico linguaggio siciliano

si chiamava proprio astati, cioè una gonna composta da tante

“aste di stoffa” . Quindi quel bocciolo di rosa che spunta da

sotto il sottano è un fiore di ben altra origine e consistenza.

(Il pubblico immancabilmente esplode in una fragorosa

risata) Ohh!, ecco svelato il gioco satiresco.

Invero, la preoccupazione di correggere la verità nasce già

al momento di decifrare il soprannome dell’autore; infatti

viene, quasi sempre citato nei testi di scuola, non come

Ciullo d’Alcamo, ma come Cielo d’Alcamo.

Attenzione, i lombardi sanno cosa significhi il termine

“ciullo”. Senza voler fare della scurrilità gratuita, “ciullo”

allude correttamente al sesso maschile. Anche ad Alcamo,

sopra Palermo, ha il medesimo significato. Provatevi a

recarvi in quel paese ad apostrofare il primo abitante che

incontrate con “Ehi, testa di ciullo!” vi arriva una mazzata in

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fronte che vi stende secchi! Quindi, per evitare equivoci di

sorta vi ribadisco che Ciullo d’Alcamo significa “sesso

maschile d’Alcamo”.

Tornando alla scuola, vi rendete conto che questo termine

deve essere subito modificato e naturalmente il professore

dice: “C’è un errore!”. In aiuto degli insegnanti sono giunti

alcuni ricercatori che hanno fatto carte false per indicare

un’altra lettura. Prendere per buono un soprannome tanto

scurrile significava accettare che il Ciullo in questione fosse

sicuramente un giullare, infatti quasi tutti i giullari nel

Medioevo si fregiano di epiteti scopertamente triviali.

Abbiamo “Salsiccia tronfia”, “Ganassa scassa natiche” fino

ad Angelo Beolco Pavan, detto “il Ruzzante” che a nostro

avviso si può ben definire “l’ultimo dei giullari”. Il suo

soprannome viene da “ruzzare”... qualcuno che è di Padova

o delle vicinanze, sa che “ruzzare” significa “andare con gli

animali”. Ma in che senso “andare”? Ce lo svela un erudito

che così si esprime: “Ruzzante è colui che s’accompagna

agli animali non per andarci a passeggio ma per accoppiarsi

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ad essi nei tempi e nei modi preferiti dai medesimi”. Non si è

mai capito se i medesimi siano i ruzzati o i ruzzanti. Ma sono

particolari di poco conto. Dunque, non si può dire “ciullo”.

Non si può, in una scuola come la nostra, dove l’ipocrisia e

la morbosità si manifestano ancora, salvo eccezioni, fin

dall’asilo. Ora, proseguendo nella nostra analisi, scopriamo

un altro gioco satirico verso il linguaggio amoroso dei due

giovani. Il ragazzo supplica: “Tràgemi d’èste focòra, se

t’èste a bolontàte” - fammi uscire da questo fuoco, se ne hai

volontà, ragazza. E si sa benissimo come riescano le ragazze

a far uscire dal fuoco d’amore e dal desiderio i ragazzi,

quando esse ne abbiano volontà. Ma qui, non si commenta...

sono particolari che non interessano e si procede con la

risposta della ragazza che si esprime in modo piuttosto greve

e scoprendo la propria autentica origine sociale. Essa più o

meno recita: “Puoi andare ad arare il mare e a seminare al

vento, ma a rotolarti con me in un letto non ci arriverai mai.

Anzi, ti dirò di più, che se tu insisti, piuttosto di accettare di

fare l’amore con te, mi rinchiudo suora in un convento “li

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cavèlli m’aritónno - mi faccio radere i capelli tondo tondo -

calzando una scodella come copricapo e così non ti ho più

tra i piedi! Ah, come starò bene!” E il ragazzo risponde: “Ah

sì? Tu ti vai a ritónnere li cavèlli? E allora anch’io mi faccio

rapare a tondo la capigliatura... mi faccio frate... vengo nel

tuo convento, ti confesso... e al momento buono...

sgàcchete!” Lo sgnàcchete l’ho aggiunto io, ma è implicito.

La ragazza impallidisce e urla: “Ma sei un anticristo! Sei un

infame!... ma come ti permetti solo di pensarlo un simile

sacrilegio?! Guarda, piuttosto di accettare la tua violenza io

mi butto nel mare e mi annego!”

“Ti anneghi? Anch’io... No, non mi annego: mi butto nel

mare a mia volta, ti vengo a prendere laggiù, nel fondo, ti

trascino sulla riva, ti stendo sulla spiaggia e, annegata come

sei, risgnàcchete!, faccio all’amore!”

“Un’altra volta?!”

“Sì!”

“Con me, annegata?”

“Sì!”

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“Oheau! - esclama la ragazza con molto candore - Ma non si

prova nessun piacere a fare l’amore con le annegate!”

Lei sa già tutto, naturalmente. Una sua cugina era annegata,

distesa sulla rena… è passato uno di lì, s’è guardato intorno:

“Io ci provo”... (Pausa, con espressione disgustata) Meglio

il pescespada!”

La ragazza è sconvolta. Si riprende e lo aggredisce

minacciosa: “Bada a te, se tu solo ti provi a farmi violenza,

io mi metto ad urlare, arrivano i miei parenti e ti ammazzano

a legnate!”

E il ragazzo risponde sbruffone - attenti, recito il testo

originale: “ Se li tòi parenti truòvami e che ci puòzzon

fare?” - Se i tuoi parenti mi trovano mentre ti faccio

violenza e che mi possono fare? -“Una defènsa mèttoci di

dumìli’ - duemila - augostàri! No’ mi toccare patre to’ co’

quanto tene a Bari. Viva l’imperador grazie a deo! Intendi,

bella quel che te dico eo?” e non si capisce un ostrega!

La difficoltà del comprendere il testo non è dovuta ad una

particolare astrusità di linguaggio, ma dal fatto che ci

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troviamo dinanzi ad eventi storici e leggi di cui nulla

sappiamo, e normalmente gli insegnanti si guardano bene di

svelarcene il significato. Cerchiamo di scoprirlo insieme:

“Se i tuoi parenti mi sorprendono mentre ti faccio violenza e

che mi possono fare? Una defènsa mèttoci di dumìli’ -

duemila - augostàri!”

Cos’è l’augustario? Era la moneta dell’Augusto inteso come

Federico II, infatti siamo nel 1231-32, proprio al tempo in

cui in Sicilia governava Federico II di Svevia. Duemila

augustàri equivalevano, più o meno, al costo di due cavalli

di razza.

E che cosa è questa defènsa? Fa parte di un gruppo di leggi

promulgate a vantaggio dei nobili, dei ricchi signori-

possidenti e dei mercanti d’alto livello, dette “leggi

melfitane”, volute proprio dall’imperatore svevo. In poche

parole, si tratta del dono di un privilegio particolare a difesa

degli altolocati.

Ecco allora che un ricco poteva violentare tranquillamente

una ragazza; bastava che nel momento in cui il padre o altri

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parenti dell’aggredita fossero sul punto di intervenire, il

violentatore estraesse duemila augustàri, li stendesse vicino

al corpo della ragazza, sollevasse le braccia e declamasse:

“Viva lo ‘mperadore, grazi’ a Deo!” Il rito del versamento

della defènsa era sufficiente a salvarlo. Era come avesse

detto: “Attenti a voi! Chi mi tocca verrà subito impiccato!”

Infatti chi toccava l’altolocato che aveva pagato la tassa

veniva immediatamente appeso al ramo dell’albero più

vicino… sulla destra!

Grande vantaggio per il violentatore medievale consisteva

nel fatto che, allora, le tasche non facevano parte dei

pantaloni. Erano staccate: borse che si appendevano alla

cintola, il che offriva una condizione vantaggiosissima

all’amatore assatanato: nudo, però con la borsa. Così nel

caso: “Oddio, arrivano i castigatori!” trak!, defènsa... op...

“Ecco i quattrini!” Naturalmente bisognava muoversi sempre

con i soldi contati. È logico, non si può: “Scusi, aspetti un

attimo... gli spiccioli!... Ha da cambiarmi per favore?”

Subito, subito, lì, veloci! È risaputo che in quel tempo una

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madre di razza nobile, che avesse a cuore l’incolumità del

proprio figliolo, quando questi stava per uscire di casa

immancabilmente gli chiedeva: “Caro, hai con te i denari per

la defènsa?”.

Ad ogni modo questo vi fa capire quale fosse la chiave della

“legge”, la brutalità di un espediente, la defènsa, che offriva

il vantaggio spudorato ai soli potenti di uscire indenni da

ogni atto di violenza.

E chi se non un giullare autentico poteva rischiare esibendosi

sulla piazza di scoprire al popolo minuto, con la sola voce e i

gesti di tutto il suo corpo, quale fosse la sua reale condizione

di “cornuto e mazziato”, come dicono ancora a Napoli, cioè

bastonato oltre che cornuto.

IL RITO DEI MAMMUTTONES E DEI CAPRI

(Viene proietta sul fondale la foto di un dipinto)

Ecco, questa è l’immagine di una buffonata, cioè una specie

di preparazione agli spettacoli ironico-grotteschi ai quali

partecipava in prima persona la gente delle contrade o

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quartieri, truccata e travestita. Li vedete... (indicando i

personaggi diversi della scena proiettata) questo camuffato

addirittura da “mammuttones”.

Cos’è il “mammuttones”?

È un’antichissima maschera mezzo capro, mezzo diavolo. In

Sardegna ancora oggi, i contadini e pastori durante le feste

dei sostizi, primavera-estate, si calzano in viso maschere di

animali diversi, arieti, capri e tori, si addobbano con pelli

varie e si caricano di un gran numero di campanacci. Così

vanno saltelloni per le strade terrorizzando donne e

ragazzine che fuggono urlando. I mammuttones calzano

maschere che potete osservare in questa immagine,

riproducono volti di diavoli animaleschi. Ecco, questo è un

giullare, questo è il personaggio del Jolly, il matto -allegoria

del pensiero non ufficiale - e questo è un altro diavolo... un

altro ancora. Ecco un’altra sequenza. (Seconda proiezione

raffigurante una processione grottesca) Diavoli, streghe e

un frate decorativo di passaggio. Notate un altro particolare:

tutti hanno strumenti per produrre rumore, perché il gioco

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del fracasso, del frastuono, era essenziale in queste feste.

(Indicando un personaggio della processione grottesca)

Questo addirittura ha fra le mani un “ciucciuè” del

napoletano composto da un tamburo nel quale è conficcata

un asta che mossa in modo adeguato produce gemiti e

pernacchi strazianti.

Qui c’è un altro buffone con la gamba alzata, che non ha

bisogno di strumenti: è un auto-produttore: pernacchi e

gemiti li produce da sé: esecuzione naturale. Questi altri

emettono suoni differenziati.

Durante la buffoneria i personaggi mascherati si riunivano

tutti quanti nella piazza e organizzavano una specie di

processo finto ma realistico ai nobili, ai padroni in genere,

tra i quali erano rappresentati anche mercanti, imperatori,

strozzini, banchieri... che nel Medioevo erano ritenuti della

stessa classe - insisto: solo nel Medioevo… prrocesso con

accuse precise di sfruttamenti e prevaricazioni. In grande

evidenza apparivano anche vescovi e cardinali.

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Non ho mai capito perché nell’evo antico, santi uomini della

chiesa venissero associati ai potenti ipocriti e simoniaci.

Come cambiano i tempi!

Il momento più avvincente del tribunale grottesco si

sviluppava di certo nel finale: una specie d’inferno nel quale,

tutti i “maggiori” , venivano precipitati deréntro pentoloni

stracolmi di olio bollente, finto, naturalmente.

Alla fine, l’assemblea dei “minori”, donne e uomini tutti

mascherati, preceduti da mimi, acrobati e pagliacci,

entravano in chiesa.

La chiesa nel Medioevo rispettava il significato originale di

ecclesiam, cioè luogo di assemblea. Al rito grottesco spesso

presenziava il vescovo in persona che attendeva i

protagonisti della buffonata in piedi sul transetto. Il vescovo

si spogliava di tutti i paramenti e li offriva al capo dei

giullari; costui saliva sul pulpito e dava inizio ad un’omelia,

una predica, nella chiave esatta dei sermoni normalmente

tenuti dal vescovo, recitando in parodia.

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Quando capitava un giullare di notevole talento, riusciva a

scatenare vere e proprie ovazioni con risate allo scompiscio

nel pubblico dei fedeli. Un pubblico che indovinava ad ogni

passo l’ironia, le allusioni, la satira al linguaggio di un

potere, elargito e benedetto, pare, dal creatore in persona.

Si racconta che a Brescia, al tempo dei comuni, il vescovo,

tale Ilario, che durante la concione carnevalesca del giullare

aveva subito lazzi e ironie feroci, non ebbe più la forza di

salire sul pulpito per tenerci i propri sermone, giacché,

appena iniziava con la predica i presenti si lasciavano andare

a matte risate... fino a singhiozzare in un pianto carico di un

autentico misticismo sganasciante.

Si racconta ancora che un altro vescovo, il primate di

Ferrara, per evitare la faticosa rimonta di credibilità che

doveva produrre dopo ogni zannata satirica, si rifiutò di

consegnare i propri arredi al re del carnevale... e tentò anche

di impedire alla turba delle maschere di invadere la

cattedrale nei quattro giorni della “Ghignata”. A furor di

popolo, quel vescovo, fu cacciato dalla città.

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Andando avanti con le proiezione, (quarta proiezione)

troviamo questa immagine che ci mostra un’altra

rappresentazione sacra, questa volta drammatica e grottesca

insieme. Si tratta di uno spettacolo che si svolge nelle

Fiandre, intorno al 1360 - la data è segnata sulla tavola.

Osservate… qui c’è una donna con un agnello in braccio. Ve

lo segnalo perché allude allo stesso testo sulla passione dei

villani che Franca reciterà tra poco: “La strage degli

innocenti”.

Andiamo avanti. (Quinta proiezione) Qui c’è un’altra

immagine abbastanza importante: ci troviamo ad Anversa

nel 1465, esattamente l’anno prima dell’editto di Toledo.

Quello di Toledo è l’editto che vietò definitivamente al

popolo di rappresentare i misteri buffi. E lo capirete già da

questa immagine, il perché di questa censura. Osservate: qui

è rappresentato Gesù Cristo, un attore che rappresenta Gesù

Cristo, qui due sgherri. Qui c’è un banditore, un altro attore

s’intente, e il popolo, sotto, che reagisce, replica alla battuta

del banditore.

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E cosa propone il banditore? Urla: “Chi volete sulla cròse?

Gesù Cristo o Barabba?” E sotto la folla risponde urlando:

“Jean Gloughert!!”, che era il sindaco della città.

È risaputo che il maggiorente in questione non amava le

giullarate.

Una rappresentazione del genere, anzi, sensibilmente più

violenta se vogliamo, è raccontata in questo dipinto. (Sesta

proiezione) Parigi, qui siamo nell’antica piazza del Louvre,

sempre intorno allo stesso periodo. Scopriamo in questo

teatrino, un attore che recita il ruolo di Gesù Cristo, e altri

attori. Appresso s’indovina Ponzio Pilato con la bacinella già

pronta, che si appresta a intingervi le mani, e di fronte a lui

ci sono due vescovi... notate sono due vescovi cattolici.

Dovrebbero esibire costumi del rito ebraico, no, di foggia ed

elementi decorativi completamente diversi, a partire dal

classico copricapo a cupola da sacerdoti di Israele? Invece i

rozzi allestitori dello spettacolo, fingendo di non saperne

niente di epoche e di costumi, ci hanno piazzato due vescovi

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del rito cattolico-apostolico-romano. E credetemi, non si

tratta di un lapsus, di uno sfondone anacronistico.

(Settima proiezione) Ecco un giullare che gioca sulle

allegorie dei testi biblici. È la rappresentazione della famosa

sbronza di re Davide. Nella Bibbia si racconta che Davide un

certo giorno bevve in abbondanza. Durante questa sbronza

se la prende un po’ con tutti, e brillo com’è canta e danza

applaudito da altri ubriachi come lui, scandalizzando invece

gli astemi. Nell’euforia sollecitata dal vino, si tramuta in un

vero e proprio giullare, facendosi beffe perfino del padre

suo, non solo quello carnale ma anche quello celeste e in

particolare se la prende con i propri sudditi, specie con “i

miseri e gli asserviti”. Il giullare, vestiti i panni sontuosi che

ricordavano quelli del re, gli faceva il verso sulla piazza e

recitava: “E voi... laggiù... miseri e striminziti - urlava - te e

te e te e te, e anche le vostre femmine, lavorerete per me e

per tutti quelli che vi comandano come me e se vi lamentate

vi faccio sbattere all’inferno, come è vero che sono... stato

eletto... e anche unto da Dio! Perdio! Così imparerete a bervi

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tutte le frottole che vi raccontano, a credere che la terra che

lavorate sia stata assegnata ai vostri signori da Dio in

persona. No, o coglioni, quelli se la sono pappata perché

sono più svelti di voi e poi ve la “sgnaccano” da lavorare e

vi pagano giustamente una miseria!”

Ora capirete la ragione del perché tanto spesso i giullari

venivano cacciati dalle città e anche dalle campagne.

Ci fu un tale, un certo Hans Holden (indica l’ottava

proiezione)… eccolo… famoso giullare tedesco,

bravissimo in questo gioco dell’ubriacatura di Davide, che si

permise di mettere in piazza questo brano ignorando l’editto

che ne vietava la rappresentazione. Finì sul rogo.

Nel Medioevo si usava anche un particolare “battage”

pubblicitario, per annunciare gli spettacoli sacri. Ancora

oggi, in Puglia, durante i festeggiamenti del beato protettore

della città, San Nicola da Bari - un famoso vescovo negro,

giunto dall’Oriente - si celebrano processioni.

Oggi questa festa si è ridotta a una sfilata generica, nella

quale vengono portati intorno gonfaloni con scene dipinte di

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cui i fedeli ormai ignorano il significato. In antico quei

dipinti illustravano al pubblico le varie scene che sarebbero

state rappresentate la sera stessa. Dietro c’erano dei

“battuti”, ovvero dei flagellanti, che andando intorno si

appioppavano frustate della madonna... non per niente si

trattava di uno spettacolo sacro!

Lo stesso rito viene eseguito ancora nelle processioni del

venerdì santo nel veneto. Si canta, con tanto di flagellazione,

più o meno così:

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LAUDA DEI BATTUTI

Prototipi: Pordenone, Brescia, campagna mantovana.

Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Compagnón, metìf in stcera,

batìf forte e volentéra,

n’avì’ dòia d’ésti bóti: batìve!

No’ trambìt de vès isbiòt(i),

no’ trambìt le visigàde,

carne róte e distciuncàde.

Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Chi vòl tórse salvasión

c’ol se bata de rüscón

col fragèl a batasciòch,

no’ fi’ mostra de daf bòt: batìve!

C’ol Segnor onniputént(e)

foe batüd veritamént(e).

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Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Se vorsì’ tór peniténsa

a scuntà la gran senténsa

c’la se pròxima a ‘rivàre

che niün podrà scampàre: batìve!

Che ‘gnirà de contra a noj,

ohi batémose cunt dòj!

Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Par salvàrghe d’ol pecàt

Jesus Cristo foe picàt,

’nsu la cróze foe ’nciudàt,

su la fàcia gh’ foe spüdàt: batìve!

E l’aséd gh’ foe dàit a bévar

e no’ gh’éra lì ól sant Pédar.

Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

E vui segnori de l’usüra,

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vui n’avrït malaventüra,

vui c’havìt spüàt a Cristo

col sciorìrve al mal acquìsto: batìve!

Vui c’havìt turciàt ‘mé l’üga

i dinàri a quièi che süda.

Ohiohioh… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

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TRADUZIONE

Ohioihi… battete, battetevi!

Ehiaieehie!

Compagni, mettetevi in schiera (fila),

battetevi forte e volentieri,

non abbiate doglia (non lamentatevi) di queste botte:

battetevi!

Non tremate d’esser nudi,

non tremate (non abbiate paura) delle frustate che vescicano

(fanno vesciche, piaghe),

carni rotte e disgiunte (dalle ossa).

Ohioihi… battete, battetevi!

Ehiaieehie!

Chi vuol prendersi salvezza

che si batta col flagello

con il flagello facendolo schioccare,

non fingete di darvi botte: battetevi!

Ché il Signore onnipotente

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fu battuto veramente.

Ohioihi… battete, battetevi!

Ehiaieehie!

Se volete prendere (fare) penitenza

e scontare la grande sentenza

che è prossima ad arrivare

che nessuno potrà scampare: battetevi!

Che verrà addosso a noi,

ohi battiamoci con dolore.

Ohioihi battete, battetevi!

Ehiaieehie!

Per salvarci (liberarci) dal peccato

Gesù Cristo fu picchiato,

sulla cròse fu inchiodato,

sulla faccia gli fu sputato: battetevi!

e l’aceto gli fu dato a bere

e non c’era lì San Pietro.

Ohioihi battete, battetevi!

Ehiaieehie!

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E voi signori dell’usura,

voi ne avrete malaventura,

voi che avete sputato a Cristo

arricchendovi col malacquisto: battetevi!

voi che avete torchiato come (si pigia) l’uva

i denari a quelli che sudano

ohioihi battete, battetevi!

Ehiaieehie!

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LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

PROLOGO PRIMA EDIZIONE EINAUDI

Qualche anno fa si è tenuta presso Milano,

all’abbazia di Chiaravalle, una straordinaria mostra di

macchine teatrali. Si trattava di splendide statue in cui

tutti gli arti erano mobili, articolati, esattamente come

nei burattini o nelle bambole. Il movimento era

regolato da una serie di leve e di ganci che venivano

manovrati da un burattinaio nascosto nell’incavo

dietro la statua, che non era a tutto tondo, ma

costruita solo per la metà anteriore. C’era per

esempio una stupenda Madonna col bambino del

1100 in cui entrambi i personaggi si muovevano,

braccia, tronco, gomiti e perfino gli occhi, giocando

anche sul trucco del déséquilibre dei burattinai

fiamminghi: per esempio, nell’avambraccio, a

bilanciere, a snodo dentro la mano, c’era un perno,

per cui qualsiasi colpo, anche piccolo, faceva roteare

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la mano sul polso, prima che ritrovasse il proprio

equilibrio stabile. Qualsiasi piccolo colpo faceva in

modo che le mani, o un’altra parte del corpo, si

muovessero con una grazia straordinaria. Il che dava

l’impressione di qualcosa di vivo.

Con lo stesso principio è stato costruito un altro

pezzo famoso, il Cristo d’Aquileia: non lo si vede

perché è vestito di una tunica che gli ricopre tutto il

corpo, ma, a nudo, è tutto articolato, fino al collo.

Perché il popolo ricorreva a queste macchine per

rappresentare la divinità, quando metteva in scena i

propri spettacoli? Forse aveva timore di fare atto di

blasfemia, di intaccare la sacralità del personaggio

divino? No! Niente affatto, ciò avveniva perché

l’attore, il comico, voleva che l’interesse del pubblico

fosse accentrato non tanto verso il divino, ma verso

l’uomo: se un attore fosse entrato prima nel costume

di Gesù Cristo si sarebbe presa tutta l’attenzione,

mentre una statua era soltanto indicativa,

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emblematica, e l’attore aveva agio di sviluppare la

drammaticità della condizione umana, sottolinearla

maggiormente: la disperazione, la fame, il dolore.

Ho fatto questo discorso sulle macchine teatrali

perché il pezzo che reciterò ora ne prevede l’impiego,

appunto l’impiego di una macchina che raffigura la

Madonna col bambino in braccio. Con lei abbiamo in

scena una donna che tiene in braccio un agnello, una

pazza: ecco perché vi ho fatto notare prima

quell’immagine delle Fiandre in cui si vede una

donna con un agnello in braccio. È una donna alla

quale hanno ammazzato il bambino durante la strage

degli innocenti e ha trovato in un ovile un agnello, se

l’è preso in braccio e, convinta, va a dire a tutti che

quello è il proprio figlio. L’allegoria è chiara:

l’agnello è l’“Agnus Dei”, il figlio di Dio, quindi

questa donna è anche la Madonna.

Questo doppio gioco del personaggio

donna-Madonna è molto antico, viene addirittura dai

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greci; la donna può permettersi di dire delle cose che

una Madonna vera, un’attrice che facesse la

Madonna, o meglio un attore truccato da Madonna,

come si usava allora, non avrebbe mai potuto dire.

Questa donna bestemmia addirittura contro Dio, con

una violenza incredibile. Si mette a urlare con

quest’agnello in braccio: “...potevi tenertelo presso di

te tuo figlio, se doveva costarci tanto patimento, tanto

dolore! Verrai a comprendere il dolore degli uomini,

tu che hai voluto subito un cambio a tuo vantaggio,

per una tazzina di sangue tuo hai voluto un fiume di

sangue, mille bambini per uno tuo. Potevi tenerlo

presso di te tuo figlio, se doveva costarci tanto

patimento, tanto dolore! Verrai a capire anche tu il

dolore, la pena degli uomini, la disperazione, il

giorno che verrà a morirti tuo figlio in croce. In quel

giorno capirai quale tremendo castigo hai imposto a

tutti gli uomini, per un peccato, per un errore!

Ebbene, sulla terra, nessun padre, per quanto

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malvagio, avrebbe avuto il coraggio di imporlo al

proprio figliolo. Per quanto fosse carogna, questo

padre!”

È certo la più grande bestemmia mai udita! È come

dire: “Padre, padreterno, sei la zozza della zozza!

Nessun padre è tanto carogna quanto te”. E perché

tanto odio da parte del popolo verso il padreterno?

L’abbiamo visto prima. Perché il padreterno è

rappresentativo di quello che i padroni hanno

insegnato al popolo, è quello che ha fatto le divisioni,

che ha dato terre, poteri, privilegi a un certo gruppo

di persone, e invece fastidi, disperazione,

sottomissione, umiliazione, mortificazione all’altra

parte del popolo. Ecco perché Dio è odiato, perché

rappresenta i padroni, è quello che dà le corone, i

privilegi; mentre è amato Gesù Cristo, che è quello

che viene sulla terra a cercare di ridare la primavera.

È, soprattutto, la dignità. Il discorso della dignità è, in

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queste storie del popolo, ripetuto quasi a tormentone,

con un’insistenza incredibile. La dignità.

Andremo ora alla rappresentazione della Strage degli

innocenti. Devo indicarvi soltanto un particolare: il

linguaggio. Il linguaggio, il dialetto, sarebbe meglio

dire una lingua, perché è il padano dei secoli XIII-XV,

ma recitato da un attore, il quale si trovava costretto a

cambiare paese ogni giorno. Oggi era a Brescia,

domani a Verona, a Bergamo ecc. ecc., quindi si

trovava a dover recitare in dialetti completamente

diversi l’uno dall’altro. Erano centinaia i dialetti, e

c’era una grandissima differenziazione, maggiore che

quella attuale, fra un paese e l’altro, per cui il giullare

avrebbe dovuto conoscere centinaia di dialetti. E

allora, che cosa faceva? Ne inventava uno proprio.

Un linguaggio formato da tanti dialetti, con la

possibilità di sostituire parole in determinati momenti,

e quando si trovava nell’impaccio di non sapere quale

parola scegliere, per far capire qualche cosa, ecco che

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subito metteva tre, quattro, cinque sinonimi. C’è un

esempio straordinario: un giullare di Bologna

racconta di una ragazza che si trova ad abbracciare un

uomo che ama. Ma di colpo ne ha paura. Ha voluto

ad ogni costo far l’amore con lui, ma quando si trova

nel momento delicato, ecco che subito lo allontana e

dice: “Non me tocar a mi, che mi a son zovina, son

fiola, tosa son e garsonetta”. Ha detto tutto: sono

ragazza, sono ragazza, sono ragazza e anche ragazza.

Così ognuno si può scegliere il termine che meglio

comprende. Queste iterazioni le sentirete in questo

spettacolo molte volte, ma sono usate anche ad altro

scopo: raddoppiare il momento poetico e, soprattutto,

nel ritmo, ingigantire la drammaticità. E questa è una

cosa sola, unica, del giullare, del teatro del popolo,

cioè, la possibilità di poter scegliere i suoni più adatti

al momento. Per cui si sente “croz”, “cros”, “crosge”

ed è sempre “croce”, presa da diversi dialetti, per

rendere il momento più adatto al valore scenico. La

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rappresentazione è eseguita da un solo personaggio e

poi vi spiegherò il perché. Non è soltanto un fatto di

esibizione, ma c’è una ragione reale di fondo. Ci sarà

il gioco delle statue mobili, come vi ho già detto, il

coro dei battuti, quello che inizia il canto e a un certo

punto, vedrete, c’è un soldato che viene scannato e

muore, e il coro dei battuti indica l’andamento

funebre di un canto.

Aggiornamento del prologo: 2000

Qualche anno fa si è tenuta presso Milano, all’abbazia di

Chiaravalle, una straordinaria mostra di macchine teatrali. Si

trattava di splendide statue lignee e policrome, in cui tutti gli

arti erano mobili, articolati, esattamente come nei burattini o

nelle bambole. Il movimento era regolato da una serie di

leve e di ganci che venivano manovrati da un burattinaio,

posto dietro un apposito fondale, oppure, nel caso le statue

fossero di grandi dimensioni, nascosto nell’incavo a tergo

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della statua in quanto la scultura non era a tutto tondo, ma

costruita solo per la metà anteriore. Tra le altre era esposta

una stupenda Madonna col bambino del 1100 in cui

entrambi i personaggi si muovevano, braccia, tronco, gomiti

e perfino gli occhi, giocando anche sul trucco del

déséquilibre dei burattinai fiamminghi: per esempio,

nell’avambraccio, a bilanciere, a snodo deréntro la mano,

c’era un perno, che al minimo spostamento provocava una

rotazione della mano sul polso, prima di ritrovare il proprio

equilibrio stabile. Così succedeva per qualsiasi altra parte del

corpo, che ad ogni sollecitazione si muoveva con una grazia

straordinaria: il che dava l’impressione di qualcosa di vivo.

Nella cattedrale di san Zeno a Verona, si può ammirare

ancora oggi un Cristo seduto in groppa ad un asino; l’asino

ha infisse negli zoccoli delle ruote che permettono al

cavaliere e alla sua cavalcatura di essere trascinati in

processione nella rappresentazione del famoso e trionfale

ingresso in Gerusalemme.

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Con lo stesso principio è stato costruito un altro pezzo

famoso, il Cristo d’Aquileia: in quella scultura teatrale gli

snodi seppur numerosi, non si notano perché il suo corpo è

interamente ricoperto da un abito panneggiato.

Perché gli organizzatori dei misteri medioevali preferivano

portare sulla scena per i ruoli dei santi, queste immagini

scultoree? Forse temevano, che l’impiego di attori intaccasse

la sacralità del personaggio divino e rischiassero così, di

commettere atto di blasfemia? Sì, c’era anche questa

preoccupazione ma il motivo reale che faceva preferire

l’impiego di statue se moventi nel ruolo di Cristio la Vergine

ecc. era determinato dal maggioe peso che relizzava l’attore

fabulante nel presentare il dramma prestando le voci e i gesti

ai personaggi, commentando e rivolgendosi al pubblico

spesso in tono provocatorio e trascinandolo in una

straordinaria commozione.

Le sculture venivano agite quasi a vista da aiuti di scena, il

fabulatore, muovendosi come un buttafuori tra quei

personaggi indicativi, riusciva così a meglio sottolineare la

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passione del figlio di Dio e quasi in contrappunto il dramma

della condizione umana la disperazione, la fame, il dolore.

Ho insistito su questo tema delle macchine teatrali, proprio

perché la giullarata che reciterà ora Franca ne prevede

l’impiego, cioè l’entrata in scena di una statua sè movente

che raffigura la Madonna col suo bambino in braccio. Con

lei nell’azione drammatica, abbiamo una donna pazza che

tiene tra le braccia, avvolto in uno scialle, un agnello.

Ecco perché, poco fa, vi avevo fatto notare quell’immagine

delle Fiandre, in cui si vede una donna con un agnello tra le

braccia. Si tratta della stessa situazione drammatica che vi

presenteremo tra poco: una madre, alla quale hanno

ammazzato il bimbo durante la strage degli innocenti che per

il dolore è impazzita. La donna che ha perso la ragione, ha

raccolto in un ovile un agnello, se l’è preso in braccio e va

intorno dicendo ad ognuno che quello è suo figlio sfuggito

alla strage. L’allegoria è chiara: l’agnello è l’“Agnus Dei”, il

figlio di Dio, quindi questa donna è anche la Vergine.

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Questo doppio ruolo di folle-Madonna è molto antico, risale

addirittura ai greci attici; alla madre, fuori di senno, è

concesso di pronunciare discorsi che un’attrice nel ruolo di

Maria non può nemmeno permettersi di accennare.

E’ così che, con l’alibi della follia, la pazza pronuncia insulti

contro il Padre creatore. Essa dice a gran voce: “...potevi

tenertelo presso di te tuo figlio, se doveva costarci tanto

patimento, tanto dolore!” E continua per lungo tratto su

questo tono.

È certo la più grande bestemmia mai udita in una

rappresentazione sacra.

Con questo espediente scenico, i fedeli di certe comunità, il

cui pensiero ricorda quello di certi movimenti catari,

contestano duramente il Padreterno per aver favorito alcune

classi sociali a tutto detrimento della stragrande maggioranza

degli uomini, costretti in una insostenibile condizione

sfruttamento, di ingiustistia e disperata miseria.

Al contrario Gesù Cristo, non solo è ben accetto, ma

addirittura amato, applaudito come un liberatore. E’ il Dio

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che si fa uomo e viene sulla terra a ridare speranza, ad offrire

la primavera e soprattutto, la dignità. Il discorso della dignità

è, in queste storie del popolo, riproposto quasi a tormentone,

con un’insistenza incredibile.

Andremo ora a rappresentare “La Strage degli innocenti.

Devo indicarvi soltanto un particolare: il linguaggio. Il

linguaggio, il dialetto, ovvero il volgare parlato nella piana

del Po dal secolo XIII al XV. L’attore o l’attrice che

recitavano quelle giullarate sacre o profane andavano

deambulando di paese in paese seguendo l’iter delle varie

fiere e delle sagre religiose. E’ risaputo che il volgare di una

vasta regione come la Padania non fosse assolutamente

omogeneo tanto che i giullari per farsi intendere ogni volta

erano costretti ad adattare il testo inserendo termini del

luogo onde rendere più accessibile la loro parlata. Ma

quell’espediente era spesso insufficiente quindi i comici

vaganti cominciarono ad inventarsi una lingua paspartou. Si

trattava di una specie di linguaggio franco composto da

espressioni mutuate da vari dialetti e anche da diversi idiomi:

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provenzale, catalano e perfino latino. Ma la chiave di volta

di questa parlata del tutto teatrale era esaltata dalla

onomatopeica. Cioè, si sceglievano espressioni che già nel

suono e nella ritmica alludevano chiaramente ad un

determinato concetto o situazione. Esempio: casa squarrata,

caduta a spiccicata, femmina sgualdrappona.

A proposito di espedienti linguistici, vi propongo l’aneddoto

che vede protagonista una ragazza illibata che si ritrova tra le

braccia di un uomo del quale è follemente innamorata. La

giullarata è del XIV secolo ed è narrata da un giullare di

Bologna, che ci presenta la fanciulla decisa a far l’amore con

l’uomo che ama, ma al momento dell’amplesso

appassionato, ecco che la giovane si blocca, di colpo ha

paura, teme la violenza dell’amplesso. Tende le braccia,

allontana l’uomo da sé e dice tremante:

“Te pregi, no’ me tocàr a mi, che mi fiòla son, puta son,

zóvina son, tosa son et garsonètta”.

In poche parole ha ripetuto senza fiato in cinque idiomi

diversi: sono ragazza sono ragazza sono ragazza sono

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ragazza sono ragazza. Questo espediente è chiamato

iterazione ma non produce solo il vantaggio di farsi meglio

intendere, produce anche l’effetto quasi lirico di caricare

d’ansia la situazione drammatica.

Abbiamo accennato poco fa all’impiego dei battuti nelle

sacre rappresentazioni. Spesso questi cantori che si

flagellavano a ritmi ossessivi avevano anche l’incombenza

di introdurre i vari brani tragici o grotteschi con brevi litanie

che eseguivano anche durante le pause tra un’azione e l’altra

del dramma; soprattutto le loro grida timbrate dai tamburi

chiudevano ogni sequenza tragica e la commentavano.

Esempio particolare è questo frammento, musicalmente

simile a quello che già conoscete, che introduce “La strage

degli innocenti”. I battuti si frustavano con violenza ma ogni

flagellante teneva nascosta in pugno una spugna inzuppata in

una broda di color rosso, al momento della frustata fingendo

di asciugarsi spruzzava sul dorso il liquido vermiglio. Alcuni

penitenti al loro primo ingaggio tra i battuti si colpivano col

flagello per davvero, con violenza inaudita; vero era il loro

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urlo di dolore e autentico lo sgorgar del loro sangue. Sotto i

loro capucci i veterani della frappata sghignazzavano allo

scompiscio.

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LA STRAGE DEGLI INNOCENTI

CORO DEI BATTUTI

Ohioihi… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Cont dulüri e cont laménti

par la straze d'innozénti,

innozént mila fiolìt

i han scanà ‘mé pegurìt,

da le mame stralunàdi

ól Re Erode i ha scarpàdi.

Ohioihi… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Ahaiaiheih!

(In falsetto acuto) Ahiaeeeee!

In scena troviamo due soldati e una donna. I soldati stanno

per ucciderle il figlio.

PRIMA MADRE 'Sasìn... pòrch... no' tocà ól me fiòl.

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PRIMO SOLDATO Làsel andà... mòla 'sto fiòl o at taj le

mane... at dagh 'na pesciàda in la panza... mòla!

DONNA (disperata) Nooo! 'Màsum a mi pitòst... (Il soldato

riesce a strapparle il bimbo dalle braccia e lo uccide: urlo

terribile della madre) Ahaaa... ahaa... at m'l'hàit ‘masàt,

cupàtt. (La donna allucinata, esce di scena, piangendo

disperatamente, tenendosi stretto al petto il bambino

sgozzato).

Entra un'altra donna, tiene tra le braccia, un bimbo

completamente avvolto in uno scialle.

PRIMO SOLDATO Oh, t'en chi 'n'óltra... Férmet dóa at sèit,

dòna!, o v'infìlzi a tüti e dòi... ti e ól bambìn!

SECONDA MADRE Infìlzegh püra, che mi a prefèrzo...

SECONDO SOLDATO No' far la mata... at sèit ancmò

zúina ti e at hàit ól témp de sfurnàn 'n'altra dunzéna de

fiolìt... Dam chi quèl... fa' la brava...

Il soldato tenta di strapparle il bimbo.

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SECONDA MADRE No! Giò 'sti sciampàsc de doss! (Gli

morde una mano).

SECONDO SOLDATO Ahio... a te sgagni eh... e alóra cata

quèst... (le appioppa un violento ceffone) e mòla 'stu fagòtt!

SECONDA MADRE (difende disperatamente il bambino)

Pità, at prégi... no'l mé masàl... at dagh tüt quèl che a gh'ho...

Il soldato riesce a strappare il fagotto che la donna tiene tra

le braccia, nella colluttazione, lo scialle cade a terra e l’uomo

si ritrova fra le mani un agnellino.

SECONDO SOLDATO Ohj, ma se l'è quèst?! Un pegurìn...

un berìn?!

SECONDA MADRE Oh sì, non l'è un bambìn, a l'è un

berìn... mi ne' gh'ho gimài aüdi de bambìn... no' so' capàze,

mi. (Implorante) Ohj te prégi, soldàt, no' masàrme 'sto

berìn... che non l'è ancmò Pasqua... e at farìet gram pecàto se

at m'lo masi!

SECONDO SOLDATO Oh, dòna! Ti me vòl tòr par ól de

drio o ti è mata de cuntra?

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SECONDA MADRE Mi mata? No che no'l son mata.

PRIMO SOLDATO Végn óltra, làsegh ól berìn... (il secondo

soldato restituisce l'agnello alla madre) che quèla a l'è vüna

che ól s'è ruersà ól çervèl par ól dulür che gh'èm cupàt ól

fiolìn. (Il secondo soldato si porta le mani al petto e si

preme lo stomaco) 'S'te cata? Meuvete, che agh n'èm ancmò

una gran mügia de scanà.

SECONDO SOLDATO Pècia... ch'am vègn de tra sü...

PRIMO SOLDATO Bela forza! At màgnet 'mé 'na vaca:

scigùli, muntùn salàdi e poe... Vègn chi al cantùn… gh'è

'n'ostaria... at fagarò bévar un bel grapòt.

SECONDO SOLDATO No, no' l'è par ól mangià! A l'è par

'stu macèl, ‘sta becarìa de fiulìt ch'èm tràit in pie, che ól me

s'è ruersà el stómegh.

PRIMO SOLDATO Se ól savévet d'es inscì delicàt, no' te

dovévet 'gnì a fà 'stu mesté d'ól suldàt.

SECONDO SOLDATO Mi eri 'gnüd suldàt par masàr òmeni

nemìsi...

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PRIMO SOLDATO E magari per sbatascià anca quài dòna

ruèrsa sul paión... eh?

SECONDO SOLDATO Bòn, se la capitava... ma sémper

dóna di nemìsi!

PRIMO SOLDATO E scanàgh ól bestiàm...

SECONDO SOLDATO Ai nemìsi!

PRIMO SOLDATO Brüsàgh le case... copàgh i vègi... le

gaìne... e i fiulìt. Fiulìt sémpar di nemìsi!

SECONDO SOLDATO Sì, anca i fiulìt... ma in guèra! In

guèra non l'è desunùr: agh son le trombe che e sòna, i

tamburi che i pica e cansón de batàja e i bèi paròli d'i

capitani a la fin!

PRIMO SOLDATO Oh, anca par 'sto macèl ti gh'avrà d'i

bèi paròli d'i capitani!

SECONDO SOLDATO Ma chì, as masa di inozénti!

PRIMO SOLDATO E perchè, in guèra no' i sont tüti

inozénti? Cosa t'han fàit a ti, quèi? T'han fàit quajcòsa 'sti

poveràz che at cópett e at scani col sonàr de e trombe? (Sul

fondo scorre il manichino raffigurante la Madonna col

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bambino) Ch'am s'débia sguerciàr i ögi se quèla no' a l'è la

Vérzen Maria col so' bambìn che sèm óltra a cercà!

'Ndémegh a prèss inànz che la ghe scapa... meuvete che '‘sta

volta agh caterémo ól prémi, ch'a l'è gròso!

SECONDO SOLDATO No' al vòj 'sto prémi sgaróso,

sporcelénto...

PRIMO SOLDATO Bòn, al catarò mi ad zólo!

SECONDO SOLDATO No, ne manco ti ól catarét... (Gli

sbarra la strada).

PRIMO SOLDATO Ma ti è 'gnüdo mato? Làsame pasàr,

che gh'èm l'órden de masàrghe ól so' fiòl a la Vérzen...

SECONDO SOLDATO Agh caghi su l' òrden mi! No'

bogiàrte de lì lòga che at stciùnchi!

PRIMO SOLDATO Disgrasiàd... no' t'è an' mò capìt che se

quèl bambìn ól resterà in vita, ól 'gnirà lü ól re de Galilea al

pòst d'ól'Erode... che gl'hài dit la profezia, quèl!

SECONDO SOLDATO Agh caghi anco su l'Erode e la

profezìa, a mi!

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PRIMO SOLDATO At gh'hàit besógn de 'ndà de corpo,

minga de stòmegh te, alóra... Fate in d'una part e láseme

pasàre... che mi no' vòi perd ól prémi, a mi!

SECONDO SOLDATO No, ghe n'hàit abàsta de vidè

amasàr fiulìt!

PRIMO SOLDATO Alóra ól sarà pejòr par ti! (Lo trafigge

con la spada).

SECONDO SOLDATO (si porta le mani al ventre) Ohia...

ch'at m'hàit cupàt... Disgraziàt... at m'hàit sfondàde le buèle.

PRIMO SOLDATO Am rincrèss... at sèt stàit impròpi un

tarlòch... mi no' vorsévi miga...

SECONDO SOLDATO Am pisa ól sàngu da part tüt... Oh

mama... mama... indùa at sètt, mama... ól vègn scür... hàit

frèc, mama... mama... (Cade a terra, morto).

PRIMO SOLDATO No' l'hao cupàt mi... quèst a l'èra già

cadàver in dól mumént che l'ha scomenzà a 'vegh pità:

"Suldàt ch'ól sént pità a l'è già bèlo morto cupà!" ól dis anca

ól proverbio! E 'ntànt ól m'ha fàit pèrd l'ocasión de catà la

Vérzen col bambìn!

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Mentre il soldato se ne va trascinando il cadavere del suo

compagno, viene fatto scivolare in scena il manichino che

rappresenta la Madonna. Alle sue spalle entra la pazza con

l'agnello tra le braccia avvolto nello scialle.

Il coro dei battuti riprende, sommesso, il suo lamento.

CORO DEI BATTUTI

Ohioihi batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

Cont dulüri e cont laménti

par la straze d'innozénti,

innozént mila fiolìt

i han scanà ‘mé pegurìt,

da le mame stralunàde

ól Re Erode i ha scarpàdi.

Ohioihi batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

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SECONDA MADRE (si rivolge al manichino della

Madonna) No' scapìt, Madona... no' curìt… no' catév pagüra

che mi no' sont un soldàt... sunt ‘na dòna... ‘na mama

anch'mi col mé bambìn... Scondìv chi lòga tranquìla, che i

suldàt i sont andàit via... No' gh’avìt pagüra… l'è fornìto ól

masàcro, l'è fornìto ól masèlo… No' plangìt, no' trambìt…

Sentéve, pòra dòna, che n'avìt fàito d'ól curìr... Fèime vardà

ól vostro fiolì'... Oh ‘mé l'è bèl et culorìt! Bèlo, bèlo... ‘mé l'è

alégher... Ma che fàcia sempàtega che ól gh'ha! Ne farà de

strada quèsto, cara! Quant témp ól gh'ha? Ol dév avérghe

giùsta ól témp d'ól mé... ‘Mé ól gh'ha nom? Jesus? L'è un bèl

nom! (Al bambino) Jesus! Bèlo bèlo... Jesulìn... ól gh'ha già

dòi dencìt! Ohi che simpàtech! Ol mé n'ól gh'ha ancmò fàit i

dénci... l'è stàito un pòch malàd ól mes pasàt, ma adés ól ‘sta

bén... l'è chì che ól dòrma pròpi ‘mé un angiulìn... (lo

chiama) Marco? (A Maria) Ol gh'ha nóm Marco... ól dorma

pròpi de güst! (Al figlio) Oh cara, ‘mé t'sét bèl! Sét bèl anca

ti Marcolìn! (Alla Madonna) L'è anca vera che nojàltre

mame a sèm fàit in d'una manéra che anco se ól nòster fiolìn

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ól gh'ha qualche difècto... nünch, no' l' vidèm miga. Agh vòj

tanto de quèl bén a 'sto bestiolìn, che se m'al purtàsen via a

'gnirìa mata!

Se agh pénsi al grand dulùr… stremìzi che gh'ho üt

stamatìna, quand che mé sont desvegiàta… ho sentìt criàre…

sont andàda a la cüna e la gh'ho truvàda svöja… piéna de

sàngu e ól mè fiulìn ól gh'éra piú... e gh'ho sentìt criàre…

plorìr e plangi de foravìa… sunt andàda coréndo a la porta…

in la strada a gh’éra suldàt che scanàva fiulìt… matri che

chiagnéva desperàt… e sangu… sangu d ‘partüto! "Me

l'hann masàito! Me l'hann masàito ol mé fiulìn! - me son

metùa a vusà stramortìta… - Me l'hann masàito!"

Par fortüna che no' l'éra vera nagòt... che a l'éra domà un

sógn… ma mi n'ól savévi miga che a l'éra un sógn… tant che

de lì a pòch mé sont desvegiàda ancmò sota l'impresiün d'ól

'sognamént, e tüta desesperàda che parévi 'na mata, sunt

andàda de föra in d'la curt e gh'ho scomensà a biastemà

contra al Segnür: "Deo treménd e spietàt - agh criàvi - at

l'hàit comandàt ti 'sto 'mazamént... a l'hàit vorsüdo ti 'sto

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sacrifìzi in scambi de fagh 'gni giò ól to' fiòl: mila fiolìt

scanàt par vün de ti! Un fiüm de sàngu par 'na tasìna! T'ól

podévet bén tegnìl in prèsa a ti, 'sto fiòl, se agh duéva

costàrghe tanto sacrifìzi a nunch pòver crist... Oh, at 'gnirà a

cumprénd in fin anca ti, se ól veur di' crepàr de dulùr in t'ól

dì che 'gnirà a murìte ól fiòl in su la cróse. At 'gnirà anca a

comprénd infìna co l'è stàit ben grand treménd castigo che

t'hàit picàt a i òmeni in eterno... (Accorata) Patre… no' ti è

bòn, ti… no' ti è padre! Che niùno patre in sü la tèra no'

gh'avarìa gimài üt ól coeur de 'mpórghe a un so’ fiòl

l’incrusàda… per quant c'ól fudèss malvàz."

Ero smarìta, Madona… mé capìt?…

Biastemàvo parchè no' ól savéve… Ero immatìda… De

bòt… mé son sentìda ciamàr dal mé fiolìn… ho voltà là i ögi

e dénter a l’uvìl, in mèz a i pegurì, ho descovèrto ól mé

bambìn che ól piagnéva! Mé ciamàva: "Bèèè, bèèèè…" ‘mé

'na pégura… A l'éra el mè fiulìn! De sübet agh l'ho

recognosüd... Sun cùrsa in de l'ovìl… Ma cossa el ghé

faséva el mè fiolìn tra i pegùr?! A l’éra lì lòga, gatóni…

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ingrupàt… L'hàit catàt in ti brazi... l'ho stringiùo… l'ho

basàt… e ho scomensà a piàngere de consolaziùn: "At

domandi pardon Segnur misericurdiùs par 'sti brüti paròli

che t'hàit criàti, che mi no' le penzàva miga... che o l'è stàit ól

diàvul... sì, ól è stàit ól diàvul a sugerìmei! Ti è tanto bòn,

Segnur, che te ml'hàit salvàd ól fiòl de mi!... E ti gh'ha fàit

de manéra che tüti ól ciàpa par ün pegurìn-berìn veràz. E

anco i soldàt no' se n' incòrge miga e am lo làseno campare!”

Dovarò giüsta stagh aténta… in campana, in t'ól dì che 'gnirà

la Pasqua, che quèl a l'è ól témp che as masa pegurìt-berìn

compàgn che incoeu bambìn.

A 'gniràn i becàri, i maselàri a cercàmel... ma mi agh metarò

'na scufièta in su la crapa e ól faserò tüto de pèssa... in

manére che ól scàmbia per un bambìn. Ma a près, de sübet,

a varderò bén che n'ól débian recognósarlo gimài plú, par un

bambìn... anze, ól menarò a pascolare e agh fagarò 'mparàre

a magnàr l'erba in manéra che ól sembrerà... par tüti un

pegurìn... imparchè ól vegnirà plu fazile, a 'sto mé fiòl,

campàr de pégura, che non d'òmo, in 'sto mundo infamàt!

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(Cambia tono) Oh, ól s'è desvegià... ól ride! Vardìt, Madona

se no' l'è bèl de catà ól mé Marcolìn... (La donna scosta lo

scialle e mostra alla Madonna l’agnellino che tiene tra le

braccia. La Vergine ha un malore) Oh Madona, av sentì

mal? Cossa hai fàìto?… Parchè trambìt, parchè gh'avìt

pagüra Madona?… No' ghè nisciuno… i soldat i son andàit

via… ól gh'è el sole che l'è covèrto de nìvole… vegnirà a

piòver e tüto el sangu che gh'è par tèra ól se laverà

Madona… Suridéme Maria… suridéme… Oh, surìd anca ól

fiolìn caro… Varda… bèlo! Jesulìn?… Ol gh'ha vója de

durmì… Anca ól mé ól gh'ha sògno… I niném insémbia

Maria? Voi niné el vostro e mi nino el méo… i ninémo

insèmbia tüti e dòi… li fémo dormire… Vòj cantare

Madona? (Cullando l'agnello canta)

Nana, nana,

bel bambìn de la tua mama.

La Madona la ninava

'tant che i àngiuli cantava,

San Giusep in pie ól dormiva,

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e Gesù bambìn rideva

e l'Erode ól biestemàva,

mila fiolìt in zel volava,

nana, nana…

nan, nana…

Mentre si abbassa lentamente la luce, alla voce della madre

si sovrappone il canto dei battuti.

CORO DEI BATTUTI

Ohioihi… batì’, batìve!

Ehiaiehieh! -

Cont dulüri e cont laménti

par la straze d'innozénti,

innozént mila fiolìt

i han scanà ‘mé pegurìt,

da le mame stralunàdi

ól Re Erode i ha scarpàdi.

Ohioihi… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

E fàite laude al Segnore

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che tanto pietoso l’è de core,

da far sortìr de çervèllo i desesperàdi

che pi’ no’ réze per ól grand dolore!

Ohioihi… batì’, batìve!

Ehiaiehieh!

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Traduzione

CORO DEI BATTUTI

Ohiohi battete, battetevi!

Eheiaiehieh!

Con dolori e con lamenti

per la strage degli innocenti,

innocenti mille bimbetti,

li han scannati come capretti,

dalle mamme stralunate

re Erode li ha strappati.

Ohiohi battete, battetevi!

Ehiaiehieh!

DONNA Assassino... porco... non toccare il mio bambino.

PRIMO SOLDATO Lascialo andare... molla 'sto bambino o

ti taglio le mani... ti do un calcio nella pancia... molla!

DONNA Nooo! Ammazza me piuttosto... (Il soldato le

strappa il bambino e lo uccide) Ahia... ahaa... me lo hai

ammazzato, accoppato. (La donna disperata esce di scena)

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Entra un'altra donna, tiene tra le braccia un bimbo

completamente avvolto in uno scialle.

SECONDO SOLDATO Oh, eccone qui un'altra... Fermati

dove sei, donna... o v'infilzo tutte due... te e il tuo bambino!

MADRE Infilzaci pure, che io preferisco...

SECONDO SOLDATO Non far la matta... sei ancora

giovane tu e hai il tempo di sfornarne un'altra dozzina di

bambini... Dammi qui quello... fa' la brava.

Il soldato tenta di strapparle il bambino.

MADRE No... giù queste zampacce di dosso (Gli morde

una mano).

SECONDO SOLDATO Ahia... mordi eh... e allora prendi

questo (le appioppa un gran ceffone) e lascia 'sto fagotto!

MADRE (La donna difende disperatamente il bimbo) Pietà,

ti prego... non ammazzarmelo... ti do tutto quello che ho.

Il soldato riesce a strappare il fagotto che la donna tiene tra

le braccia e si ritrova fra le mani un agnello.

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SECONDO SOLDATO Oh, ma cos'è questo?! Un

pecorino... un agnellino...?

MADRE Oh sì, non è un bambino, è un pecorino... io non

ho mai avuto bambini... non sono capace, io. Oh ti prego,

soldato, non uccidermi questo agnello... che non è ancora

Pasqua... e faresti un grande peccato se me lo ammazzi!

SECONDO SOLDATO Oh, donna! Mi vuoi prendere per il

didietro... o forse sei matta?

MADRE Io matta? No che non sono matta!

PRIMO SOLDATO Vieni via, lasciale l'agnello...(il

secondo soldato restituisce l'agnello alla madre) che a

quella si è rovesciato (stravolto) il cervello... per il dolore

che le abbiamo accoppato il figlio. (Il secondo soldato si

porta le mani all’addome e se lo preme) Cosa ti prende...

muoviti, che ne abbiamo ancora una gran nidiata da

scannare.

SECONDO SOLDATO Aspetta... che mi viene da

vomitare...

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PRIMO SOLDATO Bella forza! Mangi come una vacca:

cipolle, montone salato e poi... Vieni qui all'angolo, c'è

un'osteria... ti farò bere un bel grappotto.

SECONDO SOLDATO No, non è per il mangiare! È per

questo macello, questa scannatoio di bambini che abbiamo

messo in piedi, che mi si è rovesciato la stomaco.

PRIMO SOLDATO Se sapevi di essere così delicato non

dovevi venire a fare questo mestiere del soldato.

SECONDO SOLDATO Io ero venuto soldato per uccidere

uomini nemici...

PRIMO SOLDATO E magari anche per sbattere riversa

qualche donna sul paglione... eh?

SECONDO SOLDATO Beh, se capitava... ma sempre

donna di nemici!

PRIMO SOLDATO E scannargli il bestiame...

SECONDO SOLDATO Ai nemici!

PRIMO SOLDATO Bruciargli le case... uccidergli i

vecchi... le galline e i bambini... Bambini sempre di nemici.

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SECONDO SOLDATO Sì, anche i bambini... ma in guerra!

In guerra non è disonore: ci sono le trombe che suonano, i

tamburi che rullano e canzoni di battaglia e le belle parole

dei capitani alla fine!

PRIMO SOLDATO Oh, anche per questo macello avrai

delle belle parole dai capitani.

SECONDO SOLDATO Ma qui, si ammazzano degli

innocenti!

PRIMO SOLDATO E perché, in guerra non sono tutti

innocenti? Cosa hanno fatto a te quelli? T'hanno fatto forse

offeso a sangue quei poveracci che uccidi e scanni col suono

delle trombe? (Sul fondo scorre il manichino raffigurante la

Madonna col bambino).

PRIMO SOLDATO Che mi si possano accecare gli occhi se

quella non è la Vergine Maria col suo bambino che stiamo

cercando! Andiamole appresso, prima che ci scappi...

muoviti, che questa volta prenderemo il premio, che è

grosso.

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SECONDO SOLDATO Non lo voglio 'sto premio schifoso,

infame!

PRIMO SOLDATO Bene, lo accatterò

io solo!

SECONDO SOLDATO No, neanche tu te lo pigli... (gli

sbarra la strada).

PRIMO SOLDATO Ma sei diventato matto? Lasciami

passare, che abbiamo l'ordine di ammazzare il figlio suo alla

Vergine...

SECONDO SOLDATO Ci cago sull'ordine io! Non

muoverti da lì o ti stronco!

PRIMO SOLDATO Disgraziato... non hai ancora capito che

se quel bambino resterà in vita, diventerà lui il re di Galilea

al posto di Erode... che gliel'ha detto la profezia, quello!

SECONDO SOLDATO Cago anche su l'Erode e la

profezia, io!

PRIMO SOLDATO Hai bisogno di andar di corpo tu, mica

di stomaco, allora... Vai in un prato e lasciami passare... che

non voglio perdere il premio, io!

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SECONDO SOLDATO No, ne ho abbastanza di veder

accoppare bambini!

PRIMO SOLDATO Allora sarà peggio per te! (Lo trafigge

con la spada)

SECONDO SOLDATO (Si porta le mani al ventre) Ahia...

che mi hai fottuto... Disgraziato... mi hai sfondato le

budella...

PRIMO SOLDATO Mi rincresce... sei stato proprio un

tarlocco (coglione)... io non volevo...

SECONDO SOLDATO Mi piscia il sangue dappertutto...

oh mamma... mamma... dove sei, mamma... Viene scuro... ho

freddo, mamma... mamma... (Cade a terra, morto)

PRIMO SOLDATO Non l'ho accoppato io... questo era già

cadavere al momento che ha cominciato ad avere pietà.

"Soldato che sente pena è già disteso sulla schiena!" lo dice

anche il proverbio! E intanto mi ha fatto perdere l'occasione

di acchiappare la Vergine col bambino.

I battuti riprendono la litania della strage. Il soldato esce

trascinandosi via il cadavere del compagno.

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Lentamente, portandosi in proscenio entra il manichino della

Madonna, seguita dalla pazza che tiene l’agnello nascosto

deréntro lo scialle.

CORO DEI BATTUTI

Ohiohi battete, battetevi!

Eheiaiehieh!

Con dolori e con lamenti

per la strage degli innocenti,

innocenti mille bimbetti,

li han scannati come capretti,

dalle mamme stralunate

re Erode li ha strappati.

Ohiohi battete, battetevi!

Ehiaiehieh!

MADRE Non scappate Madonna… non correte... non

abbiate paura ché io non sono un soldato... sono una donna...

una mamma anch'io... col mio bambino... Nascondetevi qui

tranquilla, che i soldati sono andati via... Non abbiate

paura… è finito il massacro, è finito il macello. Non

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piangete, non tremate... Sedetevi povera donna che ne avete

fatto del correre!... Fatemelo guardare il vostro bambino…

Oh, com'è bello e colorito! Bello, bello... come è allegro...

Ma che faccia simpatica che ha! Ne farà di strada questo,

cara! (A Maria) Quanto tempo ha? Deve avere giusto il

tempo del mio... Come ha nome? Gesù? È un bel nome! (Al

bambino) Gesù! Bello, bello... Gesulino... Ride… ha già due

dentini... Ohi, che simpatico! Il mio non li ha ancora fatti

(messi) i denti... è stato un po' malato il mese passato

(scorso), ma adesso ‘sta bene... è qui che dorme proprio

come un angiolino... (Lo chiama) Marco? Ha nome (si

chiama) Marco... dorme proprio di gusto! Oh cara, come sei

bello! Sei bello anche tu Marcolino! (Alla Madonna) È

anche vero che noialtre mamme siamo fatte in una maniera

che anche se il nostro bambino ha qualche difetto... noi, non

lo vediamo mica. Voglio tanto di quel bene a 'sto bestiolino,

che se me lo portassero via diventerei matta!

Se penso al grande dolore... allo spavento che ho avuto

questa mattina, quando mi sono svegliata… ho sentito

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gridare… sono andata alla culla e l'ho trovata vuota… piena

di sangue e il mio figliolino non c'era più... E ho sentito

gridare i soldati fuori nella strada… sono corsa… madri che

piangevano disperate… e bambini scannati… "Me l'hanno

ammazzato! Me l'hanno ammazzato!"

Per fortuna che non era vero niente... che era solo un sogno,

ma io non sapevo... tanto che di lì a poco mi sono svegliata

ancora sotto l'impressione del sogno, e tutta disperata che

sembravo una pazza, sono andata fuori nella corte e ho

cominciato a bestemmiare contro il Signore: "Dio tremendo

e spietato - gli gridavo - l'hai comandato tu 'sto

ammazzamento... l'hai voluto tu questo sacrificio in cambio

di far venir giù (scendere) tuo figlio: mille bambini scannati

per uno tuo! Un fiume di sangue per una tazzina! Potevi ben

tenerlo vicino a te, 'sto figlio, se doveva costare tanto

sacrificio a noi poveri cristi... Oh, verrai a comprendere alla

fine anche tu, cosa vuol dire crepare di dolore, nel giorno

che verrà a morirti il figlio sulla croce! Arriverai anche a

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comprendere infine che è stato ben gramo e tremendo

castigo che hai imposto agli uomini in eterno!

Padre… non sei buono, tu... Non sei padre!

Ché nessun padre sulla terra non avrebbe giammai avuto il

cuore d'imporre ciò a un suo figlio, per quanto fosse

malvagio!"

Ero smarrita Madonna... mi capite? Bestemmiavo perché

non sapevo… ero impazzita (fuori di testa)!

Di colpo, ho voltato là (girato) gli occhi e deréntro l'ovile, in

mezzo alle pecore, ho scoperto il mio bambino che

piangeva! Mi chiamava: "Beeeee, beeee…" come un

agnello… era mio figlio! Subito l'ho riconosciuto... Sono

corsa nell'ovile… ma cosa ci faceva il mio bambino tra le

pecore? Era lì "gattoni"… L'ho preso tra le braccia... l'ho

stretto… l'ho baciato… e ho cominciato a piangere di

consolazione: "Ti domando perdono Signore misericordioso

per 'ste brutte parole che t'ho gridato, che io non le pensavo

mica... ché è stato il diavolo… sì, è stato il diavolo che mi

sta sempre qui… appiccicato all’orecchio… è stato lui a

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suggerirmele! Tu sei tanto buono, Signore, che mi hai

salvato il figlio mio!... E hai fatto in modo che tutti lo

scambino per un agnello-pecorino, verace. E anche i soldati

non se ne accorgono mica, e me lo lasciano campare!

Dovrò giusto stare attenta, in campana, nel giorno che verrà

la Pasqua, ché quello è il tempo che si ammazzano agnelli-

pecorini come oggi bambini. Verranno i macellai a

cercarmelo... ma io gli metterò una cuffietta in testa e lo

fascerò tutto con le pezze... in modo che lo scambino per un

bambino. Ma appresso, subito, guarderò bene che non lo

debbano riconoscere mai più per un bambino... anzi, lo

porterò a pascolare e gli farò imparare a mangiare l'erba in

modo che sembrerà... a tutti un pecorino... perché verrà

(sarà) più facile, a 'sto mio figlio, campare da pecora, che

non da uomo, in 'sto mondo infame!"

Oh, si è svegliato... ride! Guardate Madonna se non è bello

da cogliere ('cogliere' come fosse un fiore) il mio

Marcolino... (La donna scosta lo scialle e mostra alla

Madonna la pecorella. La Vergine ha un malore) Oh,

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Madonna, vi sentite male? Cosa vi capita? Perché tremate?

Perché avete paura Madonna?… Non c'è nessuno… i soldati

sono andati via... c'è il sole che è coperto dalle nuvole…

verrà a piovere e tutto il sangue sui muri e per terra sarà

lavato Maria!

Sorridetemi Madonna, sorridetemi… Oh, sorride anche il

bambino caro… Guarda... Bello! Gesulino… Ha voglia di

dormire… anche il mio ha sonno… Li ninniamo insieme

Maria? Li ninniamo insieme tutti e due... Vuoi cantare

Madonna? (Cullando l'agnello canta)

Nanna, nanna

bel bambino della tua mamma.

La Madonna cullava

intanto che gli angeli cantavano,

San Giuseppe in piedi dormiva,

il Gesù bambino rideva

e l'Erode bestemmiava,

mille bambini in cielo volavano,

nanna, nanna!

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A coprire il canto della pazza sale lentamente il coro dei

battuti.

CORO DEI BATTUTI

Battetevi, battetevi,

con dolore e con lamenti

e fate grazia al Signore

tanto misericordioso

da far uscir di cervello i disperati

che regger non posson il dolore!

E fate laude al Signore

che tanto è pietoso di cuore

da far sortir di cervello i disperati

che non ce la fanno a reggere

per il grand dolore!

Ohiohi battete, battetevi!

Eheiaiehieh!

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MORALITA’ DEL CIECO E DELLO STORPIO

EINAUDI I ediz. Prologo

Sempre legata al tema della dignità è la Moralità del cieco e

dello storpio. È uno dei temi più famosi e diffusi nel teatro

medievale di tutta Europa; se ne conoscono versioni un po’

dappertutto: più di una in Francia (foto 9), nello Hainaut

belga. In Italia una versione celebre, di Andrea della Vigna,

è della fine del Quattrocento.

Foto 9. “Moralité de l’aveugle et du boiteux” (Moralità del

cieco e dello storpio).

Frontespizio di una stampa francese del secolo XVI.

Ebbene, a un certo punto il cieco dice: “Non è dignità avere

le gambe dritte, avere gli occhi che vedono, dignità è non

avere un padrone che ti sottomette”. La libertà vera è quella

di non aver padroni, non soltanto io, ma vivere in un mondo

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dove anche gli altri non abbiano padroni. E questo, pensate!,

intorno al 1200-1300.

Naturalmente, queste sono cose che a scuola non ci

insegnano, perché far sapere ai ragazzini che già nel

Medioevo i poveracci avevano capito certe dimensioni, il

significato dell’essere sfruttato, è molto pericoloso!

PROLOGO 2000

La moralità del cieco e dello storpio. Abbiamo mostrato in

più occasioni come nell’antico teatro popolare, testi con

numerosi ruoli venissero realizzati da singoli giullari che

interpretavano, uno appresso l’altro, tutti i personaggi

dell’opera. Anche nel contrasto che andremo tra poco ad

eseguire troviamo due giullari interpretati da un solo mimo-

recitante (viene proiettata la lastrina n. 9). Ma spesso, nel

medioevo, in particolare questo contrasto, veniva messo in

scena facendo agire due distinti protagonisti. Arturo Corso,

da anni mio collaboratore, ha infatti ripreso questa chiave in

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Belgio, “l’aveugle et le boiteux” affidando i due ruoli a due

diversi interpreti della Compagnia Fiamminga “Nuovelle

Scène”: il gioco contrasto tra cieco e storpio recitato in

coppia funzionava a meraviglia anche così.

È risaputo che le giullarate nel medioevo venivano chiamate

anche “moralità” e non a caso in questo gioco grottesco

affiora evidente un intento morale di altissimo valore. Il

tema in questione è quello della dignità del guadagnarsi la

vita. La chiave della storia è semplice, quasi elementare: un

cieco, abbandonato dal suo cane, si trova disperato in mezzo

alla strada senza sapere come muoversi, chiede aiuto. Gli

risponde d’appresso un infelice come lui, si tratta di uno

storpio che si trascina su un carrettino; purtroppo le ruote

incastrandosi deréntro i solchi di una carreggiata, si sono

spezzate, così a sua volta chiede aiuto. Il cieco allora

pilotato a voce dal compagno di sventura lo raggiunge, ha

un’idea davvero geniale: si caricherà sulle spalle lo storpio

cosicché egli vedrà attraverso gli occhi dello sciancato e

l’altro camminerà grazie alle gambe del cieco. Lo storpio

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esulta per la stupenda trovata del compare e già prevede la

possibilità di indurre i passanti ad una maggiore

commozione nello scoprire quel tragico connubio di infelici;

quella visione li indurrà a essere più generosi nell’offrire

loro la carità!

La versione che noi recitiamo è molto simile a quella

francese di André de la Vigne, autore satirico della fine del

‘400. Se ne conoscono altre numerose versioni, tutte con

varianti diverse, ma ognuna riprende il tema della dignità di

cui accennavamo poc’anzi. Quando i due scorgono da fuori

scena Cristo legato alla colonna e bastonato, ne provano

pietà. E da qui ha inizio il capovolgimento della morale.

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MORALITA’ DEL CIECO E DELLO STORPIO

Versione per due giullari recitanti, nei due ruoli.

Il cieco sta sulla destra della scena. Lo sciancato è in

ginocchio sul lato opposto.

CIECO Aidème, bona zénte... fàiteme la carità, a mi che son

povarèto e desgrasió, orbo de dòj ögi, che, oh meno male,

no’ me pòdo vardàrme, che m' gh’avaría gran compassión e

vegnaría disperàt a amatìrme.

STORPIO Ohj zénte de còre, ahibèt pità de mi che sont

consciàt in la manéra che an dól vardàrme am senti catàr de

tanto spavéntu che voraría scapàr de tüte giàmbe, se no’

fusse che sont storpiàt de no’ mòverme se no’ cont ól carèt.

CIECO (mima di andare a sbattere contro ad una colonna)

TOC! Ohj che no’ pòdi andà intórna che pichi a rebatóni co’

la crapa in tüti i culòni e in di cantún... Aidème quajcün!

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STORPIO Ohj che no’ sont pu’ capàze de ‘gnir via de ‘sta

caregiàda, che i me sont s’cepàde le ròde del caretí’(n)… a

‘gnirò a crepare chí lòga de fame, se no’ m'aída quajcün!

CIECO Gh'avévi un sí bravo cagnàso che ól me

scumpagnàva... ól m'è scapàd arénta a una cagna in frégula...

almànch mi credi che la sia stada fèmena ‘sta cagna, che agh

vedi miga mi e no’ pòdi es següro... ch'ól podría anch' ess

stad un can sporcèl viziùso, o un gato smorbióso che am l'ha

fàit inamuràt, ól me can. (Con tono sempre più lacrimevole

e lamentoso) Aidéme! Aidéme!

STORPIO Aída, aída... no’ gh'è njùno che gh’àbia quatro

ròde nòve da imprestàme pol mé caretí (n)? Deo Segnor,

fame la gràsia d’avérghe quatro ròde!

CIECO Chi è che s’laménta che ól vòle le ròde de Deo?

STORPIO Sont mi quèl, ól s’ciancàt instorpiàt coi ròdi

s'cepàdi.

CIECO Végna arénta de mi, da ‘sta óltra banda d'la strada,

che vedarò d’aidàt.No’ che no’ podarò védar... almànch d'on

miracolo. Ma ben, vedarèm!

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STORPIO A no’ pòdo miga ‘gní lilò... Deo maledìga toeti i

ròdi del mundo e a faga ‘gní quadràde che i no’ pòdan pu’

andà intorno a rudulà.

CIECO Oh se as poderèse far de manéra de ‘gní mi de

drisàda infína a ti... stat següro, varda, che agh staría fin a

cargàrte in sora a e spale de mi tüto intrégo… salvo le ròde e

ól caretí (n)! Agh strasfurmarèm int ’na criadüra sola de dòj

che sémo... e gh’avarièm satisfasión intràmboli. Mi andaría

intórna co’ i to ögi de ti e ti co’ i mé giàmbi de mi.

STORPIO Ohj che pensàda! Dei avérghe on gran zervèlo ti,

piegn de ròde e rodèle. (Spalancando le braccia verso il

cielo) Ohj che el Segnur Deo m'ha fàito la grasia de

'mprestàrme le ròde del to’ zervèlo per farme andare intùrna

de nòvo a dimandàr la carità!

CIECO Sigúta a parlà che mé orisùnti... (si avvia) Vagh ben

in ‘sta diresiùn?

STORPIO Sí, végn tranchìll che at sièt sora la róta ziùsta.

CIECO Par no’ topigàr a l'è mejòr che am büti gatóni. Ehi, a

vagh sémper de drita?

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STORPIO ‘Pògia un pòch de manca... No! Esageràt! Quèla a

l'è una viràda... Büta l’àncura e torna in drio… Bòn... föra i

remi, sü le vele... driza, driza... Ben, végn sigüro adès.

CIECO At m’hàit catàt per un galeón? Slùngame una man

quando at sont après.

STORPIO Ma té 'e slónghi tote e dòje e mane! Végn, végn,

bel fiolí’ de la tòa mama... ch'agh sèt... No!... ‘craméntu! no’

andar via de derìva... driza a la drita... Oh, ól mé barcón de

salvatàgio!

CIECO At'hàit catàt? At se' ti, proprio ti?

STORPIO A sont mi quèl, o bel sguerción d’ori... fat

imbrasà!

CIECO Agh stàit pu’ in d'la pèl d'la contentèsa, caro ól mé

sturpiàt! Végn che té carégo... móntame su e spale...

STORPIO Agh monti sí... rivòltes a l'incontràri... ‘sta' bas

con la s'céna... Issa! Agh son!

CIECO Ohj, no’ picàrme i ginögi in le reni... co’ ti mé

s'ciónchi!

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STORPIO Perdóname... o l'è la préma voelta co munti a

cavalo, no’ ghe sont abituàt. Ohj ti, fagh atensión a no’

sbortolàrme de sóto, me aricomàndo!

CIECO Stat següro che at tegnirò caro, compàgn ch'at

fudèset on sach de rape róse. Ti fame da guida polìto pitòst...

de no’ mandàrme a pestà i buàgne di vacch.

STORPIO Fagarò atensiú’, va' schìscio. Pitòsto, no’ ti gh'ha

un fèro de casciàrte in bóca a fagh de morso e un para de

sìnghie ‘tacàde? Am saría plu fàzile a menàrte intórna.

CIECO Oh ben: ti m'hàit catàt par un àsin? Ohjamí come té

péset! Come ól va che et cosí pesàntu?

STORPIO Camìna... scunsüma miga ól fiàt... (Felice,

incitandolo) Ahrii! Trota, me bel sguerciòt, e fagh atensión

che quand té tiri l'orègia de manca, ti té duarèt voltar de

manca... e quando tiri...

CIECO Hàit capìt! Hàit capìt... sont miga un àsen. Ohj!

Boia, bèstia, at sèt tròp pesàntu!

STORPIO Pesàntu mi?... Ma ste dìset? Sont 'na pluma... una

parpàja!

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CIECO Una parpàja de piombo, che se at lasi burlàr par tèra

at fàit un büso de trovàrghe l'acqua sorgiva... sanguededìo!

T'hàit magnà un incüden de fèro a colasión?

STORPIO A ti se mato… a son dòj giorni che no’ magno.

CIECO Bòn, ma i saran purànco dòj mesi che no’ ti caghi!

STORPIO Ohj che sberlusciàdi: Deo me végna a testimoni...

a i sont sie die apéna che no’ i vagh de corpo.

CIECO Sie die? Dòi pasti almànco al ziorno ai fano dódese

covèrti. San Gerolamo protetór de i fachìni… son drio a

portàrme intórna un magaséno de scorta par un ano de

carestia. Am despiàse ma mi at scarégo chi lòga e ti am fèt ól

sacrosanto piasér d’andàrte a scaregàr ól ‘magasinaménto

inlegàle!

STORPIO Férmate, no’l senti ‘sto fracàso?

CIECO Sì, ól me pare de zénte che cria e biastéma! Contra a

chi l'è che i vósa?

STORPIO Fàit un pòch plu in drio che agh s’ciàro de

vardàrghe... (imitando il coccchiere quando frena il cavallo)

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lilò pògiaaa... Bòn, adèso ól vedi... Agh l'han con lü...

pòvaro Cristo!

CIECO Pòvaro Cristo a chi?

STORPIO A lü, Cristo in la persona... Jesus, fiòl de Deo!

CIECO Fiòl de Deo? Lo qual?

STORPIO Come: lo qual? Lo ünigo fiòl, ‘gniuràntu! Un fiòl

santìsim... e i ghe dise che ól fa ròbe miràbil, meravegióse.

Ol guarìse e maladìe, le pejór tremende co gh'è al mundo a

chi e sopòrta con l’ànema zoiósa. Dònca a l'è mejòr che

sbarachéme de ‘‘sta contràda.

CIECO Sbaracàr? E par qual resòn?

STORPIO Parchè mi no’ pòdo tòr ‘sta condisión con

alegrèsa. I dise che se ‘sto fiòl de Deo ól ‘gnise a pasàr de

chi lòga, mi ‘gnería miracolàt d'un bòto... e ti anca, a la

misma manéra... Pénsaghe un pòch, se davéro ghe cata a tüti

e dòj la desgràzia de vès liberàdi di nostri desgràzi! D'un

bòto agh s'trovarìam in la cundisión d'es obligàt a tòr via un

mestér per impodér campare.

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CIECO Mi a digaría d’andàrghe incóntra a ‘sto santo, che ól

ghe traga föra de ‘sta sventüra malarbèta.

STORPIO At dighi de bòn? At ‘gniràt miracolàt, bòn, e at

tocherà crepar de fame... che toeti i té criaràn: “Vagj a

lavorar!”

CIECO Ohj che me cata i sudori frègi in del pensàrghe...

STORPIO “Vagj a lavorar, vagabondo - i té diserà - brasce

robàde a la galera!” E a perderèsmio ól gran previléz che

gh’avémo in pari ai siòri, ai paróni, de tór gabèla: lori col

slongàr i truchi de la lége, nojàrtri con la pità. Li dòj a gabàr

cojóni!

CIECO Andémo, scapémo via de ‘sto incontro col santo, che

mi a vòj pitòsto morir. Ohj mama de mi... 'ndèm... 'ndèm de

vulàda al galòp... ‘tàchete a e orège, da guidàrme pi’ lontan

che ti pòl de ‘sta çità! Andarèm föra anch de Lombardia...

Andarèm in Franza o in un sito dove no’ podarà ‘rivàr gimài

‘sto Jesus fiòl de Deo. Andarémo a Roma!

STORPIO Sta' calmo, calmo, spiritàt ‘matìdo, che ti mé

sgròpi in tèra...

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CIECO Ohi, té pregi, sàlvame!

STORPIO State bòn... che agh salveremo tòt dòj in

compagnia... no’ gh'è anch mo pericolo, co la procesión che

mena ól santo no’ la s'è ancmò movüda.

CIECO Agh fan cos’è?

STORPIO L'han ligàt a una colòna... e i è dre' a picàl. Ohj

come i pica, ‘sti scalmanàt!

CIECO Oh poer fiòl... perché ól pìchen? Cos ól gh'ha fàit a

lóri... ‘sti malnàt?

STORPIO L'è ‘gní a parlàgh de vès tüti amorosi, compàgn

de tanti fradèli. Ma ti varda ben de no’ lasàrte miga catàr de

cumpassión par lü, che o l'è ól plù gran perìcol de vès

miraculàt!

CIECO No, no... no’ gh'ho compasión... che par mi no’ l'è

nisciùn quèl Crist... che no’ ghe l'ho gimài cognosüdo mi...

Ma dime cosa agh fan adèso?

STORPIO Agh spùen adòso... sgarùsi purscèl, in fàcia agh

spüen!

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CIECO E lü cossa ól fa... cosa ól dise, ‘sto poaràso santo fiòl

de Deo?

STORPIO No’ dise... no’l parla... no’l se rebèla... e no’ i

varda miga d'inrabít a quèi desgrasió...

CIECO E come i varda?

STORPIO I varda con malencunìa...

CIECO Oh car fiòl... No’ me dighi pù’ nagòta de quèl che va

a sucéd che mi am senti sgriscí ól stòmego... e frèg al core...

che gh'ho pagüra che àbia vès quajcòs che ‘somégia a la

compasión.

STORPIO Anch mi am senti ól fiàt che am sgiùngia al

gargaròz e i sgrìsci in di brasci... Andèm, andèm via de chi

lòga!

CIECO Sí, 'ndèm a intrupàrse in quài lògu dua lü pòda fa' a

mén de ‘gní a descovrìr de ‘sta nostra comusiùn per ól so’

patimént. Mi cognóso una hostarìa...

STORPIO ‘Scolta!

CIECO Cosa?

STORPIO ‘Sto gran frecàs chi a rénta…

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CIECO No’ sarà miga ól santo fiòl che ‘rìva?

STORPIO Oh Deo grazia, no’ me farme stremìre che

sarèssimo perdúj... Là intórna a la culòna non gh'è pu’

niùno...

CIECO Ne manco ól Jesus fiòl de Deo? Dove i se son

casciàdi?

STORPIO I son qua! Ècoi che i ‘riva toeti in procesión... A

sémo ruinàdi!

CIECO A gh'è chí anco ól santo?

STORPIO Sí, a l'è in d'ól mèso... e l'han anca cargàdo d'una

cróse pesànta ól poarèto!...

CIECO No’ stat a pèrderte in compasión... desbrégate

pitòsto a guidàrme in quài lògu indóe ghe podémo

nascondere ai so’ ögi...

STORPIO Sí, andémo... pògia de drita... córi, córi, prima

che ól ghe pòda vardà, ‘sto santo miracoloso.

CIECO Ohj che me sont inzupàd in d'una cavégia... che no’

sont piú capàz de mòverme!

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STORPIO Té végna un càncaro! Improprio adèso? No’ ti

podévi guardare in do’ té metévi i pie?

CIECO Eh no che no’ podévo vardàre... che mi sont

sguèrcio e no’ me pòdo védar i pie! (Interrompendosi di

colpo, sbalordito) Come no’ i pòdo?!… Sí che i pòdo

védar... me i vedo!! (Quasi in estasi, scopre tutto quello che

lo circolda partendo dal suo corpo) Me vedo i pie! O che

bèi dòj pie che gh'ho! Santi, bèi... con tüti i didi... quanti

didi! Sinco par pie... e coi óngi grosète e picinìne

disgradànte in fila! (Rivolto ai piedi) Oh, vòj basàrve tòti… a

un par una! (Si abbassa e lo storpio crolla a terra

disarcionato).

STORPIO (urlando mentre piomba a terra) Mato... stàite

bòn che ti mé stravàchi. Ohj... che ti m'ha ‘copàd!

Desgrasió... at podèsi tór a pesciàdi... Toi! (Gli molla un

calcio).

CIECO (sempre estasiato da quello che vede) Ohj

maravégia... Agh vedi anca ól ciél... e i àrbori... e le done!

(Come se le vedesse passare) Bele le done!... Miga tüte!

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STORPIO (un attimo di meraviglia) Ma sont stàit pròpi mi

che t'ho molàt la pesciàda?! (Pausa: sbalordito) Fame

provàr de nòvo: sí... sí... (Disperato) Còl sia malarbèto ‘sto

ziórno! A sont roinàt!

CIECO (ispirato) Ol sia benedèto ‘sto fiòl santo che ól m'ha

guarìt! A vedi quèl che no’ gh'ho gimài vedüo in vida mea...

e géri stat grama bestia a vorséme scapàr de lü, che no’ gh'è

ròba pi’ dólza e zoiósa al mundo co valga la luz!

STORPIO Ol diàvol gh’hàbia a menàrselo via e con lü,

insèma, lo quèi ch’agh sont recognisénti! Duéva pròpi es

tant malàrbio sfortunàt de vès vardàt da quèl inamorós? A

son desesperàt! Am tocherà morir de buèle svòje... am

magnería ‘ste giàmbe rinsanìde bele crue, p'ól despèt!

CIECO Mato a géro mi, mo ól véghi ben, a scapàre del bòn

camino par tegnìrme su quèlo scuro... che non savéva mi ‘sto

gran premio co fusse ól vedérghe! Oh beli i colori coloràdi...

i ögi de e done... i lavri e… ól rest! Beli i formìghi e e

mosche... e ól sole... Agh pòdi pu’ che végna note par

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vedégh i stele e ‘gní a l'hostarìa a descovrìr ól colór del vin!

Deo gratias, fiòl de Deo!

STORPIO Ohj me mi... che 'm tocarà andar de sòta a un

padrón a sudar sangu per magnàre... Ohi mala sventüra

sventuràda sporscèla... dovarò 'ndàrme intórna a cercàrme un

altro santo che ól mé faga la gràsia de storpiàrme de nòvo i

garèti! (Alza la voce) Zénte, no’ cognosìt qualche dün che ól

cognóse qualche stregognàsso c’ho gh’àbbia un inguénto e

che mé stópia de giàmbe come avanti?

CIECO Fiòl de Deo maravigióso... no’ gh'è parole né in

volgar né in latino che pòden di' de la tòa pità… l'è un fiüm

in piena! Schisciàd sòta ‘na crose, ti gh'ha ancmò de giünta

tanto amor de pensàrghe pur anco e a desgràsie de nojàlteri

disgrasiàt!

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MORALITA’ DEL CIECO E DELLO STORPIO

TRADUZIONE Prima Edizione Einaudi

CIECO Aiutatemi, buona gente... fatemi la carità, a me che

sono poveretto e disgraziato, orbo di due occhi, che meno

male, non mi posso guardare, che io avrei tanta compassione

e mi dispererei da ammattirmi.

STORPIO Oh gente di cuore, abbiate pietà di me che sono

conciato in modo che solo a guardarmi mi sento prendere da

tanto spavento che vorrei scappare a gambe levate, se non

fosse che sono storpiato da non muovermi se non col

carretto. (Mima di andare a sbattere contro una colonna)

CIECO TOC! Ahi che non posso andare intorno che picchio

e ripicchio (a ripetizione) la testa in tutte le colonne e nei

cantoni... Aiutatemi qualcuno.

STORPIO Ohi che non sono più capace di venir via (uscire

fuori) da ‘sta carreggiata, ché mi si son rotte le ruote del

carrettino, e finirò col crepare qui di fame, se non mi aiuta

qualcuno.

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CIECO Avevo un cosí bravo cagnone che mi

accompagnava... mi è scappato dietro a una cagna in

fregola... almeno io credo che sia stata femmina ‘sta cagna,

ché non ci vedo e non posso esser sicuro... che potrebbe

anche essere stato un cane porcello vizioso, o un gatto

smorfioso che me l'ha fatto innamorare. (Con tono sempre

più lacrimevole e lamentoso) Aiutatemi! Aiutatemi!

STORPIO Aiuto, aiuto... non c'è nessuno che abbia quattro

ruote nuove da prestarmi per il mio carrettino? Dio Signore,

fammi la grazia di avere quattro ruote!

CIECO Chi è che si lamenta che vuole le ruote da Dio?

STORPIO Sono io quello, lo sciancato storpiato con le ruote

rotte.

CIECO Vieni vicino a me, da quest'altra parte della strada,

che vedrò di aiutarti... No’ che non potrò vedere... a meno

d'un miracolo. Ma bene, vedremo!

STORPIO Non posso venire lí... Dio maledica tutte le ruote

del mondo e le faccia divenire quadrate che non possano piú

andare intorno a rotolare.

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CIECO Oh se si potesse fare in modo che venga io di

indrizzata fino a te... sta sicuro, guarda, che ci starei perfino

a caricarti sulle spalle tutto intero, salvo le ruote e il

carrettino! Ci trasformeremo in una creatura sola da due che

siamo... e avremmo soddisfazione entrambi. Io andrei

intorno con i tuoi occhi e tu con le mie gambe.

STORPIO Oh che pensata! Devi avere un gran cervello tu,

pieno di ruote e rotelle. (Spalanca le braccia verso il cielo)

Oh che il Signore Iddio m'ha fatto la grazia di prestarmi le

ruote del tuo cervello per farmi andare intorno di nuovo a

domandare la carità!

CIECO Seguita a parlare che mi orizzonto... (Si avvia) vado

bene in ‘sta direzione?

STORPIO Sí, vieni tranquillo che sei sulla rotta giusta.

CIECO Per non inciampare è meglio che mi butti (metta) a

gattoni (a quattro zampe). Ehi, vado sempre a dritta?

STORPIO Appoggia un poco a manca... No! Esagerato!

Quella è una virata... Butta l'ancora e torna indietro... bene...

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fuori i remi, su le vele... raddrizza, raddrizza... bene, vieni

sicuro adesso.

CIECO Mi hai preso per un galeone? Allungami una mano

quando ti sono appresso (vicino).

STORPIO Ma te le allungo tutt'e due le mani! Vieni vieni,

bel bambino della tua mamma... che ci sei... No...

sacramento!... Non andare via di deriva... raddrizza a dritta...

Oh, il mio barcone di salvataggio!

CIECO Ti ho preso? Sei tu, proprio tu?

STORPIO Sono io quello, o bel sguercione d’oro... fatti

abbracciare!

CIECO Non sto piú nella pelle per la contentezza, caro il

mio storpio! Vieni che ti carico... montami sulle spalle...

STORPIO Ci monto sí... girati all'incontrario (di spalle)...

stai basso con la schiena... Issa! Ci sono!

CIECO Ohi, non picchiarmi (piantarmi) le ginocchia nelle

reni... che mi stronchi.

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STORPIO Perdonami... è la prima volta che monto a

cavallo, non ci sono abituato. Ohi tu, fai attenzione a non

sbattermi (farmi rotolare) di sotto, mi raccomando.

CIECO Stai sicuro che ti terrò caro, come se tu fossi un

sacco di rape rosse. Tu fammi la guida pulito (attento)

piuttosto... da non mandarmi a pestare lo scagazzo (merde)

delle vacche.

STORPIO Farò attenzione, va' tranquillo. Piuttosto, non hai

un ferro da cacciarti in bocca che faccia da morso e un paio

di cinghie attaccate? Mi sarebbe piú facile menarti (portarti)

intorno.

CIECO Oh bene: mi hai preso per un asino? Ohimè come

pesi! Come va che sei cosí pesante?

STORPIO Cammina... non consumare il fiato... (Felice,

incitandolo) Ahrii! Trotta, mio bel sguerciotto, e fai

attenzione che quando ti tiro l'orecchio di manca (sinistra),

tu dovrai girare a manca... e quando tiro...

CIECO Ho capito! Ho capito... non sono un asino. Oh! Boia,

bestia, sei troppo pesante!

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STORPIO Pesante io?... Ma cosa dici? Ma sono una piuma...

una farfalla!

CIECO Una farfalla di piombo, che se ti lascio cadere per

terra fai un buco da trovare l'acqua sorgiva... sangue di Dio!

Hai mangiato un incudine di ferro a colazione?

STORPIO Sei matto, sono due giorni che non mangio.

CIECO Bene, ma saranno puranco due mesi che non caghi.

STORPIO Ohi che sfottuta: Dio mi venga a testimone... sono

sei giorni appena che non vado di corpo.

CIECO Sei giorni? Due pasti almeno al giorno fanno dodici

coperti. San Gerolamo protettore dei facchini, sto

portandomi intorno un magazzino di scorte per un anno di

carestia. Mi dispiace ma io ti scarico qui e tu fai il sacrosanto

piacere di andare a scaricare l'immagazzinamento illegale!

STORPIO Fermati, non senti ‘sto fracasso?

CIECO Sí, mi pare gente che grida e che bestemmia! Contro

chi gridano?

STORPIO Fatti un po' piú indietro che c’è chiaro da

vederci... (Imitando il cocchiere quando frena il cavallo)

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T’arresta... così… Bene, adesso lo vedo.... ce l'hanno con

lui... povero Cristo!

CIECO Povero Cristo a chi?

STORPIO A lui, Cristo in persona... Jesus, figlio di Dio!

CIECO Figlio di Dio? Quale?

STORPIO Come: quale? L'unico figlio, ignorante! Un figlio

santissimo... dicono che fa cose mirabili, meravigliose.

Guarisce le malattie, le peggiori e tremende che ci sono al

mondo, a chi le sopporta con anima gioiosa. Dunque è

meglio che sbaracchiamo da questa contrada.

CIECO Sbaraccare? E per quale ragione?

STORPIO Perché io non posso accettare ‘sta condizione con

allegria. Dicono che se ‘sto figlio di Dio venisse a passare da

questa parte, io verrei miracolato di colpo... e tu anche, nella

medesima maniera... Pensaci un poco, se davvero capita a

tutti e due la disgrazia di essere liberati dalle nostre

disgrazie! Di colpo ci troveremmo nella condizione d'essere

obbligati a prendere un mestiere per poter campare.

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CIECO Io direi di andare incontro a questo santo, che ci

tragga (tolga) da questa sventura maledetta.

STORPIO Dici davvero? Verrai miracolato, bene, e ti

toccherà crepare di fame... ché tutti ti grideranno: “ Vai a

lavorare!”.

CIECO Ohi che mi vengono i sudori freddi nel pensarci...

STORPIO “Vai a lavorare, vagabondo - ti diranno - braccia

rubate alla galera! ” E perderemmo il grande privilegio che

abbiamo pari ai signori, ai padroni, di prendere gabelle: loro

arrangiando a proprio vantaggio i trucchi della legge, noi

con la pietà. Tutti e due (loro e noi) a gabbare coglioni!

CIECO Andiamo via… scampiamo da questo incontro con il

santo, che io voglio piuttosto morire. Ohi mamma mia...

andiamo... andiamo di volata al galoppo... attaccati alle

orecchie, da guidarmi il piú lontano che tu puoi da ‘sta città!

Andremo fuori anche dalla Lombardia... Andremo in Francia

o in un luogo dove non potrà arrivare giammai ‘sto Jesus

figlio di Dio. Andremo a Roma!...

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STORPIO Stai calmo, calmo, spiritato ammattito, che mi

scarichi (stravacchi-disarcioni) a terra...

CIECO Ohi, ti prego, salvami!

STORPIO Stai buono... che ci salveremo tutti e due in

compagnia... non c'è ancora pericolo, ché la processione col

santo non si è ancora mossa.

CIECO Cosa fanno?

STORPIO L'hanno legato a una colonna... e stanno

picchiandolo. Ohi come picchiano, 'sti scalmanati!

CIECO Oh povero figlio... perché lo picchiano? Cosa gli ha

fatto... a 'sti malnati?

STORPIO È venuto a parlargli di essere tutti amorosi come

tanti fratelli. Ma tu guarda bene di non lasciarti prendere da

compassione per lui, che è il piú gran pericolo di essere

miracolati.

CIECO No, no, non ho compassione... che per me non è

nessuno, quel Cristo... che non l'ho gimmai conosciuto io...

Ma dimmi cosa gli fanno adesso?

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STORPIO Gli sputano addosso... porci zozzi, in faccia gli

sputano!

CIECO E lui cosa fa... cosa dice, 'sto poveraccio santo figlio

di Dio?

STORPIO Non dice... non parla... non si ribella... e non li

guarda da arrabbiato a quei disgraziati...

CIECO E come li guarda?

STORPIO Li guarda con malinconia.

CIECO Oh caro figlio... non dirmi piú niente di quello che

va succedendo che io mi sento torcere le budella e freddo al

cuore, e ho paura che debba essere qualcosa che assomiglia

alla compassione.

STORPIO Anch'io sento il fiato che mi strozza il gargarozzo

e i brividi alle braccia... Andiamo, andiamo via da qui.

CIECO Sí, andiamo a rintanarci in qualche luogo dove a lui

non sia possibile di scoprire questa nostra compassioneper il

suo patire.

STORPIO Ascolta!

CIECO Cosa?

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STORPIO ‘Sto grande fracasso qui vicino...

CIECO Non sarà il santo figlio che arriva?

STORPIO Oh, Deo grazia non mi fare spaventare ché

saremmo perduti... Là intorno alla colonna non c'è piú

nessuno...

CIECO Nemmeno Gesú figlio di Dio? Dove si sono

cacciati?

STORPIO Sono qua! Eccoli che arrivano tutti in

processione... Siamo rovinati!

CIECO C'è anche il santo?

STORPIO Sí, è nel mezzo... e l'hanno anche caricato di una

cròse pesante il poveretto!...

CIECO Non stare a perderti in compassione... sbrigati

piuttosto a guidarmi in qualche luogo dove ci possiamo

nascondere ai suoi occhi...

STORPIO Sí, andiamo... appoggia di dritta... corri, corri,

prima che ci possa guardare, ‘sto santo miracoloso...

CIECO Ohi, mi sono azzoppato una caviglia... non sono piú

capace di muovermi.

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STORPIO Ti venga un cancro, proprio adesso?... non potevi

guardare dove mettevi i piedi?

CIECO Eh no che non potevo guardare... ché io sono

guercio e non mi posso vedere i piedi! (Interrompendosi di

colpo sbalordito) Come non posso?!... Sí che li posso

vedere... me li vedo!! (Quasi in estasi scopre tutto quello che

lo circonda partendo dal suo corpo) Mi vedo i piedi! Oh che

bèi due piedi che ho! Santi, belli... con tutte le dita... quante

dita! Cinque per piede... e con le unghie grossette e piccoline

degradanti in fila! (Rivolto ai piedi) Oh, voglio baciarvi

tutte, una per una. (Si abbassa e lo storpio crolla a terra

disarcionato)

STORPIO (urlando mentre piomba a terra) Matto... sta

buono che mi scarichi abbasso (mi fai cadere). Ohi... che mi

hai accoppato! Disgraziato... Potessi prenderti a pedate...

tieni! (Gli molla un calcio)

CIECO (sempre estasiato da quello che vede) Oh

meraviglia... vedo anche il cielo... e gli alberi... e le donne!

(Come se le vedesse passare) Belle le donne!... Mica tutte!

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STORPIO (un attimo di meraviglia) Ma sono stato proprio

io che ti ho mollato la pedata? (Pausa: sbalordito) Fammi

provare di nuovo: sí... sí... (Disperato) Che sia maledetto

‘sto giorno! Sono rovinato!

CIECO (Ispirato) Sia benedetto ‘sto figlio santo che mi ha

guarito! Vedo quello che non ho giammai visto in vita mia...

ero stato grama bestia a voler scappare da lui, ché non esiste

cosa piú dolce e gioiosa al mondo che valga la luce!

STORPIO Che il diavolo abbia a portarselo via e insieme a

lui quelli che gli sono riconoscenti! Doveva proprio

capitarmi tanta scarogna maledetta da essere guardato da

quell'innamoroso (uomo pieno d'amore)? Sono disperato! Mi

toccherà morire di budelle vuote... mi mangerei ‘ste gambe

risanate belle crude, per il dispetto (la rabbia)!

CIECO Matto ero io, ora lo vedo bene, a scappare dal buon

cammino per tenermi su quello oscuro... che non sapevo io

che grande premio fosse il vederci! Oh belli i colori

colorati... gli occhi delle donne... le labbra... e il resto! Belle

le formiche e le mosche... e il sole... non ne posso piú che

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venga notte per vedere le stelle e andare all'osteria a scoprire

il colore del vino! Deo gratias, figlio di Dio!

STORPIO Oh povero me... ché mi toccherà andare sotto a

un padrone a sudar sangue per mangiare... Oh mala sventura

sventurata e porca... Dovrò andarmene intorno a cercarmi un

altro santo che mi faccia la grazia di storpiarmi di nuovo i

garretti! (Alza la voce) Gente nn conoscete qualcuno che

conosca qualche stregone che abbia un unguento e che mi

storti le gambe come prima?

CIECO Figlio di Dio meraviglioso... non ci sono parole né in

volgare né in latino che possano dire della tua pietà... è un

fiume in piena! Schiacciato sotto una cròse, hai ancora, in

sovrappiù, tanto amore da pensare puranche alle disgrazie di

noialtri disgraziati!

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MORALITA DEL CIECO E DELLO STORPIO (2000)

Versione per un solo giullare che interpreta entrambi i ruoli.

CIECO Aidème, bona zénte... fàiteme la carità, a mi che son

povarèto e desgrasiò, orbo de dój ògi, che meno male, no’

me pòdo vardàrme, che m'gh’avaría gran compassión de mi

e vegnaría disperàt a ‘matìrme. Aìda mè, aìdame che gh’ho

perdùo… (mima di andare a sbattere contro ad una

colonna) Ahia! Pota! ‘Sta colòna! Aidéme che so’

inciuchìt… (sbatte contro un’altra colonna) STON! Ohio!,

‘n’altra colonna!… Aìda mè! (Altra colonna) TON!

(Disperato) Son cirdondà de colòne, pregionér de colòne!

Aidéme che ho gh’hai perdüo ól can che ól me

scumpagnàva… no… no’ l’hai perdüo: el m’è scapà… ól

tegnéva co’ ‘na corda… m’ha dàito ün stratùn… e ‘sto can

smòrbio l’è andàit via… l’è ‘ndàit drio a ‘na cagna in

fregola, in calór, imbreàgo… che no’ pensa che a quèlo, ‘sti

cagnàsi! Boh, almén mi créo ch’ol sia stàito ‘na cagna in

calór ma podrìa èser stàit anco un gato visióso, che ghe ne

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son de quèi che i van a far moine drio ai can dei orbàt ‘mé

mi… che nisciùno aìda! (Mima di sbattere contro

un’ennesima colonna) PAM! Ohi, no’ sòi capàze de sortìr!

No’ pòdi andà intórna che pichi a rebatón con la crapa in tüti

i culòni e in di cantón... (A voce spiegata, più che disperato)

Aidème quajcun! (Si sposta sul lato opposto della scena

ponendosi in ginocchio: all’istante si trasforma ne “lo

storpio”)

STORPIO (quasi piangente) Ohj zénte de core, ahibèt pità

de mi che sont consciàt in la manéra che an dòl vardàrme am

senti catàr de tanto spavéntu che voraría scapàr de tüte

giàmbe, se no’ fuèsse che sun storpiàt… no’ pòdo mòverme

se no’ cont ‘sto trabìcul carèt, ma ól mé carèto l’è andàit a

fornìre deréntro ‘sti squaràci intrafesà in de la strada e tüte

quatro le rote a se sont stcepà. Aída, aída... no’ gh'è njùno

che gh'abia quatro ròde nòve da imprestàme? Deo Segnor,

fame la grasia d'avérghe quatro ròde sane! Deo aìdame! Se

niscün ól pasa de chi-lòga a darme de carità, come‘l fagarò a

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magnàre?! Aìda mé! Pità a mè! (Si porta sul lato opposto e

riprende il personaggio del “cieco”)

CIECO Chi è che vusa pità? Oh!, a ól dit par primo mi, eh!

Chi s'laménta che ól vòle le ròde de Deo? Chi è té?

Altro cambio di posizione.

STORPIO Sont mi quèlo che ól se lamenta… ól s’ciancàt…

instorpiàt… coi ròdi stcepàdi. At mé recognóset?

CIECO Sì, sì… Végna arénta de mi… da ‘sta óltra banda

d'la strada, che vedarò d'aidàrte...

Da questo momento, basteranno piccoli gesti ad indicare il

cambio di personaggio.

STORPIO A no’ pòdo miga ‘gní lilò... Déo maledìga toeti i

ròdi del mundo e a le faga ‘gní quadràde che i no’ pòdan pu’

andà intórna a rutulà! Végne chi-lòga ti… végne che mi no’

pòdo mòverme da ‘sta caregiàda!

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CIECO: Ma com’è che pòdo vegnìr de ti che gh’ho tüte ‘ste

colòne che no’ me fano pasàr! Déo maldìga tüte le colonne

del mundo, ól faga incrodàr su la crapa de tüti, come

tempesta! Maledìcte colòne! (Cambia tono) Oh gh’ho ‘na

pensàda: a furia de ciapàr bòte sü el zervèlo ól mé s’è avèrto

sparancàdo! A podrìa far de manéra de vegnìr de drisàda

infìna a ti. Se ti té mé ciàmet e mé dise dov’è ‘na colòna…

(Parla come fosse lo storpio) “No, fermo! Gh’è ‘na

colonna… pasa de là… sbàsate, gh’è ‘n’altra colòna…” e mi

végno avanti… ‘rivo. Varda, agh starìa fin a caregàrte in

sòra le mée spale de mi, tüto intrégo, salvo le ròde e ól

carèt. Agh trasfurmerèm in una creadùra sola de dòj che

sémo: té carégo in gropa a mi com té fusse un cavajér a

cavalo… int un bòto mi devénto le giàmbe de ti e ti té devién

li ögi de mi e insémbia anderèm intórna con quatro mani a

dimandàr carità! Carità! Carità! Carità!… Gran pità farèm!

STORPIO Ohj che pensàda! Dei avérghe on gran zervèlo ti,

piégn de ròde e rodèle! (Spalancando le braccia verso il

cielo) Ohj, che el Segnur Deo m'ha fàit la grazia de

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'mprestàrme le ròde del to’ zervèlo per farme andare intùrna

de nòvo a dimandàr la carità!

CIECO Sigúta a parlà che me oriénti... (si avvia) Vagh ben

in ‘sta diresiùn?

STORPIO Sí, végn tranquìll che at sièt sora la róta giüsta.

CIECO A vagh sémper de drita?

STORPIO Sì, va tranchìlo che té do la diresiùn.

CIECO: A vegnó… Aìdeme… parla, parla che ‘rivo. (Si

blocca, minaccioso) Ah, no’ far schèrsi a un pòver orbiàss,

che végni e té strósi!

STORPIO: T’ho dit de andà tranchilo! Partémo! Va segùro

che no’ ghe son colòne.

CIECO: Següro? No’ gh’è colòne? (S’incammina e mima di

andare a sbattere contro una colonna) TON! Ma…

STORPIO: L’è un àrbaro!

CIECO: (inviperito) Ol so che ‘no l’è ‘na colòna: l’è un

àrboro… ma spàcan la crapa anche i àrbari! Maledìcto! Ti

mé devi advisàre! No’ solo i colòni, anca i àrbori, anca i

pilon, anche le case! Par no’ topigàr a l'è mejòr che am büti

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gatóni (si pone in ginocchio, carponi; cambiando tono) A

végni avanti… pòdo? Me mòvo? Segùro? Me mòvo.

(Esegue. Si blocca e annusa una mano disgustato) No’ è una

colòna, no’ è un àrboro, ma spüsa! L’è merda! ‘Na

stramerdàda! A me végno de ‘n’altra via. No’ me fido de tòi

consèj… (va verso lo storpio muovendosi a rovescio come

un granchio) cossì anco se gh’è e colòne, àrbori, merda,

sbato sojaménte in tel cül! Aténto che végno!

STORPIO Végne, végne bel fiolí’ de la tòa mama, végne de

chi-lòga… végne caro, no’ aver pagüra! No’ andar via de

deriva... driza a la drita... Oh, ól me barcón de salvatàgio!

(Tra sè orgoglioso) A son poeta anca! Végne bèlo, végne…

Aténto… aténto che gh’è una buàgna! Te sèt andàt deréntra!

D’acòrdo che té sèt orbiàt de tüti i dòj ögi, ma té sèt orbiàt

anca de naso si no’ senti la spüsa! Oh, poér desgrasiò tüt

smerdosénto! Vén chi meschinàsc…

CIECO (mima di aver trovato l’amico) At hai catàt?! At sèt

propri ti?

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STORPIO A son mi quèlo, oh bel sguerción d’ori! Fàit

imbrasàr! (Si abbracciano) No’ co’ i mani! (Recita disgusto,

ripulendosi la faccia) Végn chi-lòga, caro… che te do un

basìn!

CIECO: A sunt arivàt! Sunt arivàt! Oh, gràsie méo san

Cristòfor! Adés végne… sü, munta in spala… dam la

giàmba… La giàmba, no’ ól braso! (S’interrompe

meravigliato) L’è una giamba quèsta?! Che schìvio! A sunt

contént d’èser orbo par no’ vederla! Dame l’óltra… sü, sü…

madona! Oh… cara, cara oh… Cosa sèt? Un cunjo? (Tra sè)

Oh, al me fa pità! (Al compare) Végne sü, sü, dame un culp

cunt ól cül… su, monta con ‘sto culón! Ohi, té gh’èt le

giàmbe de conjo, ma el cül d’elefànto, eh! Vérgene Madre!

‘Ndémo… mòlame un trisùn… dahee! Op, Op… (Risentito)

Ohj, no’ picàrme i ginögi in le reni... co’ ti me stciónchi...

STORPIO Perdonàme... o l'è la préma voelta co munti a

cavalo, no’ ghe sont abituàt. Ohj ti, fagh atensiùn a no’

sbortolàrme de soto, me aricomàndo.

CIECO Ferma, ferma! Ohia che quintalàda che té sèt!

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STORPIO Quintalàda mi?... Ma se a sont 'na pluma... una

parpàja!

CIECO Una parpàja de piombo, che se at lasi burlàr par tèra

at fàit un büso de trovàrghe l'acqua sorgiva... sangodedìo!

T'hàit magnà ‘n’ incùden de fèro a colasión?

STORPIO A ti se mato, a son dòj ziórni che no’ magno.

CIECO Bòn, ma i saran purànco dòj mesi che no’ ti caghi!

STORPIO Ohj che sberlusciàdi...: Déo me végna a

testimòni... a i sont sie die apéna che no’ i vago de corpo.

CIECO Sie die? Dòj pasti almanco al ziòrno ai fano dódese

covèrti. San Gerolamo protetór de i fachìni… son drio a

portàrme intórna un magaséno de scorta par un ano de

carestia. Am despiàse ma mi at scarégo chi lòga e ti am fèt ól

sacrosanto piasér d'andàrte a sbrofàr de föra ‘sto

‘magasinaménto inlegàle!

STORPIO: Ma no’ dir demiénse, stupidàe! (Felice) Oih, che

bel cavalón che té sèt, orbiàt! Orco… son a cavalo! Cuma l’è

bèlo… Voi comprà un cavalo! (Incitandolo) Tròta, me’ bel

sguerciòt! Hhhiiii!

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CIECO: No’ sbàterme in ‘sta manéra che mé se stròpian i

reni!

STORPIO: Oh!, senta: no’ té gh’ha un fèro de casciàrte in

boca a fagh da morso con un para de singhe ‘tacàde. Am

sarìa plu fàzile a menàrte intorno… che te tiro de chi… te

tiro de là e pö ‘na… Bòn… ól fagarò co’ le urège… ‘sta

aténto: quando té tiro l’orègia de manca, té ve a manca,

quando…

CIECO: Ol so!

STORPIO Férmate! No’ ól sente ‘sto fracàso?

CIECO Sí, ól me pare de zénte che sbraita e biastéma!

STORPIO Contra chi l'è che i vusa? Fàit un pòch plu in drio

che agh è ól stciàro de vedérghe... (Come stesse parlando ad

un cavallo) Lilò pògiaaaa... leuuuuu! Bòn, adèso ól vedi...

agh l'han con lü... pòvaro Cristo!

CIECO Pòvaro Cristo a chi?

STORPIO A lu… ól Cristo in la persona... Jesus, fiòl de

Deo!

CIECO Fiòl de Deo? Lo quale?

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STORPIO Come, lo quale? Lo ünigo fiòl, ‘gniuràntu!

CIECO At mé végne a dir ca Déio ne gh’ha vüno sol de fiòl?

Poeràsso!

STORPIO L'han ligàt a ‘na colòna... e i è dre' a picàl. Ohj,

come i pica, ‘sti manàt!

CIECO Oh poer fiòl... perchè ól pìchen? Cos ól gh'ha fàit a

lori... a ‘sti scalmanàt?

STORPIO L'è ‘gní a parlàgh de vès tüti amorosi, compàgn

de tanti fradèli. L’è un santòn stregonàsso che no’ ghe n’è un

ólter ihuàl! I dise che ól fa robe miràbil, meravegióse: ól

guarìse e maladìe, le pejòr tremende co’ gh'è al mundo a chi

e sopórta con l'ànema zoiósa. Comosión e amor ul sente par

ti. No’ ti dimanda se té sèt contento se té drisa una giàmba,

se té fa vèder da un ögio: te miràcula e basta! Ma ti varda

ben de no’ lasàrte miga catàr de cumpassión par lü, che o l'è

ól plu’ gran perìcol de vès miraculàt. No’ fàite comosìon,

no’ sdolzìrte de pità! A l'è mejòr che sbarachéme de ‘sta

contràda.

CIECO Sbaracàr? E par qual resòn?

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STORPIO I dise che se ‘sto fiòl de Deo ól ‘gnise solo a

traversàr de chi lòga, mi ‘gnería miracolàt d'un bòto... e ti

anca, a la misma manéra! TOC! Meracolà, fregà, fotùo!

Sarèsmo fotüi! No’ té comprende? Mi no’ pòdo tór ‘sta

condisión con alegrèssa. Dovarémo lavorar sóto padrón, col

criàr, coi bastùn… perderèsmo ól privilegio mas de cui

vivémo!

CIECO Ohj che me cata i südori frègi in del pensàrghe! T’è

gh’ha rasùn! Ol màsimo priviléz che gh’avémo l’è quèlo de

avérghe in pari ai siòri, i magióri, de tòr gabèla: lori coi libri

lori, con le spade… nojàrtri co’ la pità! Se ól ghe meràcula a

dio ‘catunàg!

STORPIO: Oh! Te l’hàit capìda finalmént! Sgomberèm de

chi-lòga prima che ól ghe piómba adòso ‘sto stregonàsso.

'Ndèm a intapàrse in quai bögio, dua no’ riéssa a trovàrghe

‘sto miracoladór! Mi cognóso una hostària... Córi, córi!

CIECO: No, dovémo andàr plu lontàn! Föra da la çitàde.

Andémo a Ferara!

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STORPIO: Ferara! Bòn, ‘démo… Vaì vaì vaì! (Si blocca

spaventato) Ferma! Jesus Cristo ól ‘riva de següro anco a

Ferara, ól sàbie me!

CIECO Bòn, andémo a Bologna! ‘Ndemo,‘ndémo a

Bologna!

STORPIO (sconfortato) Ferma! Ol vai anco a Bologna…

Jesus ól va dapartüto!

CIECO: No! Ol gh’ha una çità dove no’ l’arìva! (Pausa) A

Roma! A Roma no’ ghe va de següro! ‘Démo, ’démo…

(Mima si scivolare) MUAH! Desgrasió! Un’ altra buàgna!

Sont ‘ndà a slisegàr! Ohj che me sont inzupàd... no’ sont plú

capàz de mòverme!

STORPIO Té végna un càncaro! Impròprio adèso?! No’ ti

podévi vardàre in do’ té metévi i pie?

CIECO: Come fago a vardàr che no’ ghe vedo! No’ ghe

vedo, no’… (interrompendosi sbalordito:pausa) Bòja! Ghe

vedo!! Deo grazie, ghe vedo! (Quasi in estasi, scopre tutto

quello che lo circonda partendo dai suoi piedi) Ohoo… i

miei pie! Varda che bèi pie! Ün, dü, tri, quatro didìni… Oh

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che bel didón!… Varda! I àrbori… i sasi… Ohoo! Varda tüti

i èrbori coi fiorelìn… mé voi ‘basàre a còjere un… (si

abbassa e lo storpio crolla a terra disarcionato).

STORPIO Desgrasiào, maledècto! Té m’è fàit tombàr par

tèra!… (Gli sferra un calcio) TOC! (Un attimo di

sbigottimento) Ma sont stàit propi mi che t'ho molàt la

pesciàda? Fame provàr de nòvo… (Altra pedata) Sí... sí!

(Cambia tono) No’ fémo schèrsi! Chi me valzà la giàmba de

drio? Chi m’alsà la giàm… (si interrompe sbalordito: pausa)

Dòj giàmbe meracolàt! Dòj giàmbe en una volta sola! Cristo,

esageràt! C'ól sia malarbéto ‘sto ziórno... A sont roinàt!

CIECO: (continuando a guardarsi inorno, estasiato) Le

formìgole, varda! Bele, care! I moschi… quèsti a son de

segùro i moschi! Ohi che moscón… no, quèlo l’è ‘n’usélo…

dòj uséli! Le piante, quèlo l’è ól verde de le föje… quante

föje! Oh quante föie… ün, dòj, tri, quater, sinc, sise (contina

a contare molto velocemente, quindi s’interrompe,

cambiando tono)… i conti dopo! (Spalanca gli occhi rapito)

Le done! Va che bele le done! (Sempre più esaltato) Va che

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bele le done! Vuah! (Serie di suoni onomatopieci in segno di

grande apprezzamento, dopo un lungo sguardo a

“panoramica”)… Miga tutte! (Ispirato) Ol ziélo, ól ziélo

che fondo… ohi che lóngo co è! Adèso comprendo còssa l’è

ól colór… che bèlo! Ol sol còmo es che pica! Oh luz, luz,

luz, luz che no’ riésso plù de mirarla che me inciuchìse… co

mé strarìpa in tèl zervèlo!

Jesus gràsie!

Ol miràculo plu grando che te me fàito l’è quèl de

comprénder che dignitàt no’ ès campàr traiénde pità a i altri,

dimandàr carità a chi sgòba e fadìga. Mejòr andàr sota

padron ma co’ tüte giàmbe e ügi sani e brigàr par cavarsélo

da le spale quèl che te ciücia ól sangue.

STORPIO Ma che descórsi de baléngo te vai faséndo.

Avérghe padron ma farse scanàr par liberàrse. No, mi no’

ghe sto miga! (Lo spintona con rabbia) Desgrasiò…

t’ancorgerìt quando saràit sóto padròn, bastonàt… e quando

la tòa dona andrà a putàne e i fiöl de té, desclàvi e imbregà a

morir de fame… t’ancorgerìt col’è ‘sta dignitàd. Mi no’

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apzètto ‘sta condisión, mi no’ voi ‘sto meràcolo. Mi

pretendo de tornar come avànte:acatón! (Andando intorno

come impazzito, con voce disperata) Zénte, no’ cognosìt

qualche stregognàsso c’ho gh’àbbia un inguénto o che me

faga dei segni coi man, col fògo, col fèro de fàrme tornare le

giàmbe incrusciàde, storpiàt? Aidème, no’ cognosìt vün...

anca fèmena-stròliga (Piangendo) Aidéme! Aidéme a

storpiàrme le giàmbe come avanti!

Jesus! Dove sei? Jesus! Jesus, pitàt! No’ té gh’’ho giamài

blasfemàto mi! Jesus parchè m’hai condanàto? Jesus, Jesus!

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MORALITÀ’ DEL CIECO E LO STORPIO 2000

TRADUZIONE

Versione per un solo giullare che interpreta entrambi i ruoli.

CIECO Aiutatemi, buona gente... fate la carità, a me che

sono poveretto e disgraziato, orbo di due occhi, che per

fortuna, non mi posso guardare, che mi farei una tal

compassione disperata da ammattirmi. Aiutatemi! Aiutatemi

che ho perduto… (mima di zandare a sbattere contro ad una

colonna) Ahia! Merda! ‘Sta colonna! Aiutatemi che sono

ubriaco... (sbatte contro un’altra colonna) STON! Ohio!,

un’altra colonna!... Aiutatemi! (Altra colonna) TON!

(Disperato) Sono circondato da colonne, prigioniero di

colonne! Datemi una mano… che ho perduto il cane che mi

accompagnava… no... non l’ho perduto: mi è scappato... lo

tenevo con una corda... m’ha dato uno strattone... e ‘sto cane

vizioso-degenerato è corso dietro a una cagna in fregola, in

calore, ubriaco... che non pensano che a quello ‘sti cagnacci!

Beh, almeno io credo fosse una cagna in calore che me l’ha

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imbesuito, ma potrebbe essere stato anche un gatto vizioso

che ce ne sono di quelli che vanno a far moine dietro i cani

degli accecati come me... che nessuno aiuta! (Mima di

sbattere contro un’ennesima colonna) PAM! Ohi, non mi

riesce di sortire da ‘sta trappola! Non posso andare intorno

che picchio e ripicchio con la crapa in tutte le colonne e in

tutti i cantoni... (A voce spiegata, più che disperato)

Qualcuno mi aiuti! (Si sposta sul lato opposto della scena

ponendosi in ginocchio: all’istante si trasforma ne “lo

storpio”)

STORPIO (quasi piangente) Ohi gente di cuore, abbiate

pietà di me che sono conciato al punto che nel guardarmi mi

sento prendere da tanto spavento che vorrei scappare a tutte

gambe, se non fosse che sono storpio… non posso

muovermi se non con questo trabiccolo, ma ‘sto mio carretto

è andato a finire dentro ‘sti squarci che s’aprono

all’improvviso nel selciato e tutte quattro le ruote si sono

rotte (spezzate). Aiuto, aiuto! Non c’è nessuno che abbia

quattro ruote nuove da prestarmi? Dio Signore, fammi la

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grazia di quattro ruote sane! Dio aiutami! Se nessuno passa

di qua a farmi la carità, come riuscirò a campare! Aiutatemi!

Abbiate pietà di me! (Si porta sul lato opposto e riprende il

personaggio del “cieco”)

CIECO Chi grida pietà? Oh!, l’ho detto per primo io, eh!

Chi si lamenta che vuole le ruote di Dio? Chi sei tu?

Altro cambio di posizione.

STORPIO Sono io che mi lamenta... lo sciancato... storpio

con le ruote spaccate. Mi riconosci?

CIECO Sì, sì… Vieni vicino a me... da quest’altra banda

(parte) della strada, che vedrò di aiutarti...

Da questo momento, basteranno piccoli gesti ad indicare il

cambio di personaggio.

STORPIO Non posso, non mi riesce di raggiungerti... Dio

maledica tutte le ruote del mondo e le faccia divenire

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quadrate che non gli riesca più di andare intorno a rotolare!

Vieni qui tu... che io non ce la faccio a spostarmi da ‘sta

carreggiata!

CIECO: Ma come faccio venire da te che ho tutte ‘ste

colonne che non mi fanno passare! Dio maledica tutte le

colonne del mondo… le faccia crollare sulla crapa di tutti,

come tempesta! Maledette colonne! (Cambia tono) Ho una

pensata: a furia di prendere botti sul cervello mi si è aperto

spalancato! Potrei fare in modo di venire diritto fino a te…

se tu mi parli e mi avverti quando sto per andar a sbattere

contro una colonna... (parla come fosse lo storpio) “No,

fermo! C’è una colonna… passa di là… abbassati, c’è

un’altra colonna…” io vengo avanti… ti raggiungo. Guarda,

ci starei perfino a caricarti sulle mie spalle, tutto intero, salvo

le ruote e il carretto. Ci trasformeremo in una creatura sola di

due che siamo: ti carico in groppa come se tu fossi un

cavaliere a cavallo... in un botto (colpo) io divento le gambe

tue e tu diventi gli occhi miei e insieme andremo intorno con

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quattro mani a domandare carità! Carità! Carità! Carità!…

Gran pietà faremo!

STORPIO Ohi, che pensata! Devi avere un gran cervello tu,

pieno di ruote e rotelle! (Spalancando le braccia verso il

cielo) Ohi, che il Signore Dio m'ha fatto la grazia di

prestarmi le ruote del tuo cervello per farmi andare intorno

di nuovo a pietire la gente!

CIECO Seguita (continua) a parlare che mi oriento... (mi

orizzonto) (si avvia) Vado bene in questa direzione?

STORPIO Sí, vai sicuro che sei sulla rotta giusta.

CIECO Vado sempre a dritta?

STORPIO Sì, va tranquillo che ti do (indico) la direzione.

CIECO: Vengo... Aiutami… parla, parla… che arrivo. (Si

blocca, minaccioso) Ah, non fare scherzi a un povero cieco,

che se poi t’abbranco, ti strozzo!

STORPIO: T’ho detto di andare tranquillo! Partiamo! Va

sicuro che non ci sono colonne.

CIECO: Sicuro? Non ci sono colonne? (S’incammina e

mima di andare a sbattere contro una colonna) TON! Ma…

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STORPIO: È un albero!

CIECO: (inviperito) Lo so anch’io che non è una colonna: è

un albero... ma spaccano la crapa (testa) anche gli alberi!

Maledetto! Tu mi devi avvisare! Non solo le colonne, anche

gli alberi, anche i paloni, anche le case! Per non andare a

sbattere è meglio che mi butti gattoni (si pone in ginocchio,

carponi. Cambiando tono) Vengo avanti... posso? Mi

muovo? Sicuro? Mi muovo. (Esegue. Si blocca e annusa

una mano disgustato) Non è una colonna, non è un albero,

ma puzza! È merda! Una stramerda! Me ne vengo per

un’altra strada. Non mi fido dei tuoi consigli... (va verso lo

storpio muovendosi a rovescio come un granchio) così

anche se ci sono colonne, alberi, merda, sbatto solamente col

culo! Attento che vengo!

STORPIO Vieni, vieni bel bambino della tua mamma, vieni

qui... vieni caro, non aver paura! Non andar via alla deriva...

raddrizza a dritta... Oh, il mio barcone di salvataggio! (Tra

sè orgoglioso) Sono anche poeta! Vieni bello, vieni...

Attento... attento... che c’è uno smerdazzo di vacca! Ci sei

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andato deréntro! D’accordo che sei orbo da tutte e due gli

occhi, ma sei orbo anche di naso se non senti quel tanfo! Oh

povero disgraziato tutto smerdazzato! Vieni qua

meschinaccio...

CIECO (mima di aver trovato l’amico) Ti ho preso?! Sei

proprio tu?

STORPIO Sono io quello, oh bel sguercione d’oro! Fatti

abbracciare! (Si abbracciano) No con le mani! (Recita

disgusto ripulendosi la faccia) Vieni qui, caro... che ti do un

bacino!

CIECO: Sono arrivato! Sono arrivato! Oh, grazie mio san

Cristoforo! Adesso muoviti… su, montami in spalla…

dammi la gamba... La gamba, non il braccio! (S’interrompe

meravigliato) È una gamba questa?! Che schifo! Sono

contento di essere orbo per non vederla! Dammi l’altra... su,

su... madonna! Oddio... Cosa sei? Un coniglio? (Tra sè) Oh,

mi fa pietà! (Al compare) Vieni su, su, dammi un colpo (una

spinta) col culo… su, monta con ‘sto culone! Ohi, hai le

gambe da coniglio, ma il culo d’elefante, eh! Vergine

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Madre! Andiamo... dammi una spinta forte... daiii! Op, Op…

(Risentito) Ohi, non piantarmi le ginocchia nelle reni che mi

stronchi...

STORPIO Perdonami... è la prima volta che monto a

cavallo, non ci sono abituato. Ohi tu, fai attenzione a non

sbattermi di sotto, mi raccomando!

CIECO Ferma, ferma! Ohia, che quintalata che sei!

STORPIO Quintalata io?... Ma se sono una piuma... una

farfalla!

CIECO Una farfalla di piombo, che se ti lascio cascare per

terra fai un buco da trovarci l’acqua sorgiva... sangue di dio!

Hai mangiato un incudine di ferro a colazione?

STORPIO Sei matto, sono due giorni che non mangio.

CIECO Bene, ma saranno puranche due mesi che non caghi!

STORPIO Ohi che sbroffonate triviali: Dio mi venga a

testimone... sono sei giorni appena che non vado di corpo.

CIECO Sei giorni? Almeno due pasti al giorno fanno dodici

coperti. San Gerolamo protettore dei facchini... sto

portandomi intorno un magazzino di scorte per un anno di

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carestia. Mi dispiace ma io ti scarico qui e tu mi fai il

sacrosanto piacere d’andare a scagazzar fuori ‘sto

immagazzinamento illegale!

STORPIO: Piantala di ciarlare! (Felice) Ohi, che bel

cavallone che sei, orbo! Orco… sono a cavallo! Com’è

bello... Voglio comprare un cavallo! (Incitandolo) Trotta,

mio bel sguerciotto! Hhhiiii!

CIECO: Non sbattermi in ‘sta maniera che mi si stroncano le

reni!

STORPIO: Oh!, senti: non hai un ferro da cacciarti-infilarti

in bocca a fare da morso con attaccate un paio cinghie? Mi

sarebbe più facile guidarti intorno... che ti tiro di qui... ti tiro

di là e poi una... Bene... lo farò con le orecchie... stai attento:

quando ti tiro l’orecchio di sinistra, tu vai a sinistra,

quando...

CIECO: Lo so!

STORPIO Fermati! Non senti ‘sto fracasso?

CIECO Sí, mi pare di gente che sbraita e bestemmia!

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STORPIO Contro chi gridano? Fatti un poco più in dietro

che c’è più chiaro e posso vedere meglio... (Come stesse

parlando ad un cavallo) Pogiaaaa... leuuuuu! Bene, adesso

lo vedo... ce l’hanno con quello... povero Cristo!

CIECO Povero Cristo a chi?

STORPIO A lui… al Cristo in persona... Jesus, figlio di Dio!

CIECO Figlio di Dio? Quale?

STORPIO Come, quale? L’unico figlio, ignorante!

CIECO Ah, mi vieni a dire che Dio ne ha uno solo di figlio?

Poveraccio!

STORPIO L’hanno legato a una colonna... e lo stanno

bastonando. Ohi, come pestano, ‘sti malnati!

CIECO Oh povero figliolo... perché lo picchiano? Cos’ha ha

fatto a ‘sti balordi?

STORPIO È venuto a insegnarci ad essere tutti amorosi,

come tanti fratelli. È un santone-stregone che non ce n’è un

altro eguale! Dicono che fa cose mirabili, meravigliose:

guarisce le malattie, le peggiori tremende che ci siano al

mondo a chi le sopporta con anima gioiosa. Commozione e

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amore sente per te. Non ti chiede se sei d’accordo che ti

raddrizzi una gamba, che ti faccia vedere da un occhio: ti

miracola e basta! Ma tu guardati bene dal lasciarti prendere

dalla compassione per lui, che lì sta il rischio maggiore di

essere miracolati. Non lasciarti andare, non sdolcirti

(addolcirti) di pietà! È meglio che sbaracchiamo da ‘sta

contrada.

CIECO Sbaraccare? E per quale ragione?

STORPIO Dicono che se a ‘sto figlio di Dio capitasse solo

di passare di qui, io verrei miracolato all’istante... e tu anche,

alla stessa maniera! Toch! Miracolato, fregato, fottuto!

Saremmo fottuti! Non capisci? Non posso accettare ‘sta

condizione con allegria. Dovremmo lavorare sotto padrone,

sopportar urla bastonate... di colpo ci ritroviamo spogliati del

privilegio massimo di cui godiamo!

CIECO Ohi… che son preso da sudori freddi al solo

pensarci! Hai ragione! Il massimo privilegio che abbiamo è

quello di avere pari ai signori, ai maggiori, di prendere

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gabelle: quelli, coi libri loro, con le spade... noialtri con la

pietà! Se ci miracola addio accattonaggio!

STORPIO: Oh! L’hai capita finalmente! Sgombriamo di qui

prima che ci capiti addosso ‘sto stregone. Andiamo a

“intapparci” in qualche buco, dove non riesca a trovarci ‘sto

miracolatore! Io conosco un’osteria... Corri, corri!

CIECO: No, dobbiamo andare più lontano! Fuori dalla città.

Andiamo a Ferrara!

STORPIO: Ferrara! Bene, andiamo... Vai, vai, vai! (Si

blocca spaventato) Ferma! Gesù Cristo arriva di sicuro

anche a Ferrara, io lo so!

CIECO Bene, andiamo a Bologna! Andiamo, andiamo a

Bologna!

STORPIO (sconfortato) Fermo! Va anche a Bologna…

Jesus va dappertutto!

CIECO: No! C’è una città dove non arriva! (Pausa) A

Roma! A Roma non va di sicuro! Andiamo, andiamo...

(Mima di scivolare) MUAH! Disgraziato! Un altro

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smerdazzo di vacca! Sono scivolato! Ohi, mi sono

azzoppato... non riesco più a muovere il piede!

STORPIO Ti venisse un cancro! Proprio adesso?! Non

potevi guardare dove poggi ‘ste zampe?

CIECO: Come faccio a guardare che non ci vedo! Non ci

vedo, non... (interrompendosi di colpo, sbalordito) Boia! Ci

vedo!! Deo grazia, ci vedo! (Quasi in estasi, scopre tutto

quello che lo circonda partendo dai suoi piedi) Ohoo... i

miei piedi! Guarda che bei piedi! Uno, due, tre, quattro

ditini… Oh che bel ditone!… Guarda! Gli alberi… i sassi...

Ohoo! Guarda l’erba con i fiorellini... mi voglio chinare a

cogliere un… (esegue e lo storpio crolla a terra

disarcionato).

STORPIO Disgraziato, maledetto! Mi hai fatto cadere per

terra!... (Gli sferra un calcio) TOC! (Un attimo di

sbigottimento) Ma sono stato proprio io che ti ho mollato la

pedata? Fammi provare di nuovo... (Altra pedata) Sí... sí!

(Cambia tono) Non facciamo scherzi! Chi mi ha sollevato la

gamba da dietro? Chi mi ha alzato la gam... (s’interrompe

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sbalordito: pausa) Due gambe miracolate! Due gambe in

una volta sola! Cristo, esagerato! Che sia maledetto ‘sto

giorno... Sono rovinato!

CIECO: (continuando a guardarsi intorno, estasiato) Le

formiche, guarda! Belle, care! Le mosche... queste sono di

sicuro le mosche! Ohi che moscone... no, quello è un

uccello... due uccelli! Le piante… quello è il verde delle

foglie... quante foglie! Oh quante foglie... una due, tre,

quattro, cinque, sei (continua a contare molto velocemente,

quindi s’interrompe, cambiando tono)… le conterò dopo!

(Spalanca gli occhi rapito) Le donne! Va che belle le donne!

(Sempre più esaltato) Va che belle le donne! Vuah! (Serie di

suoni onomatopieci in segno di grande apprezzamento.

Dopo un lungo sguardo a “panoramica”)… Mica tutte!

(Ispirato) Il cielo, il cielo che profondo! Ohi che lungo che

è! Adesso capisco cos’è il colore... che bello! Il sole come

picchia! Oh luce, luce, luce… luce che non riesco più a

rimirarla che mi ubriaca... che mi straripa nel cervello!

Jesus grazie!

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Il miracolo più grande che mi hai fatto è quello di farmi

intendere che dignità non è campare traendo pietà dagli altri,

chieder l’elemosina a chi sgobba e fatica. Meglio andar sotto

padrone ma con le gambe e gli occhi sani e brigare per

cavarti dalle spalle quelli che ci succhiano il sangue.

STORPIO Ma che discorsi da balengo vai facendo. Avere

padroni, ma farsi scannare per liberarsene! No, io non ci sto.

(Lo spintona con rabbia) Disgraziato... t’accorgerai quando

sarai sotto padrone, bastonato… e quando la tua donna andrà

a far la puttana e i figli tuoi, schiavi e costretti a morire di

fame... t’accorgerai di cos’è fatta ‘sta dignità. Io non accetto

‘sta condizione, io non voglio ‘sto miracolo. Io pretendo di

tornare come prima: accattone! Voglio campare di poco pane

ma di tutta libertà! (Andando intorno come impazzito, con

voce disperata) Gente, non conoscete qualche stregone che

abbia un unguento o che mi faccia dei segni con le mani, col

fuoco, col ferro per farmi tornare le gambe storpiate?

Aiutatemi, non conoscete uno... anche femmina-strega…

(Piangendo) Aiutatemi! Aiutatemi a storpiarmi le gambe

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come prima!Jesus! Dove sei? Jesus! Jesus, pietà! Non ti ho

mai bestemmiato, io! Jesus perché m’hai condannato? Jesus,

Jesus…

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IL MIRACOLO DELLE NOZZE DI CANA

Prologo Einaudi - Prima edizione

Un inglese, certo Smith, nell’Ottocento ha raccolto in un

volume parecchie rappresentazioni sacre d’Italia (viene

proietta la foto 10). Ecco, questa è l’immagine di un

“mistero” che ancora oggi si rappresenta in Sicilia,

esattamente nella Piana dei Greci. Questa azione corale

indica tre riti diversi che si esprimono in una situazione

analoga: l’entrata di Cristo in Gerusalemme applaudito come

re di Israele, attorniato dal popolo festante che agita rami

d’ulivo e tralci di palma. Ancora rappresenta Bacco, il dio

dell’allegrezza e dell’ebbrezza, in processione con i satiri; e

infine Dioniso accompagnato dai sileni e dalle baccanti che

scende agli inferi. A proposito di questa divinità della Grecia

primitiva, di origine tessalico-minoica, dobbiamo ricordare

Foto 10. “La Domenica delle Palme”. Stampa popolare del

secolo XVIII.

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che nelle prime catacombe cristiane troviamo la figura di

Cristo rappresentata con la stessa immagine del dio greco

arcaico. Di lui si racconta che preso di immenso amore per le

creature umane, quando Plutone, dio delle tenebre, venne

sulla terra a rapire Core-Proserpina, vergine dea “del novello

aprile” (come si canta in un maggio toscano) per trascinarla

agli inferi e godersela tutta per sé, egli Dioniso, si sacrificò:

salì in groppa a un mulo, scese all’Ade, pagò di persona, con

la propria vita, pur di restituire agli uomini la dolce fanciulla

simbolo della primavera.

Anche Gesù, appresso, è quel Dio che viene sulla terra per

cercar di ridare la primavera agli uomini.

Questo incastrare le divinità e i loro eventi l’uno deréntro

l’altro, notate bene, non è casuale nella storia delle religioni

di tutti i popoli, assomiglia piuttosto a un disegno a cerchi

susseguenti che riproducono gli stessi motivi trasformandoli

e riproponendoli all’infinito. A raccontare questo mistero,

sacro e buffo insieme, “Le nozze di Cana” abbiamo il

personaggio dell’ubriacone, personaggio-guida di questa

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giullarata, che racconta come, trovandosi ad una festa

nuziale, si sia ubriacato con il vino fabbricato, inventato

espressamente da Gesù Cristo. Gesù Cristo, dunque, che

diventa Bacco, e che ad un certo punto è rappresentato

all’impiedi, sopra un tavolo, mentre esaltato incita tutti i

commensali: “Imbriaghìve zénte, fèite alegrèssa, inciuchìve,

fèit bòn! No' aspecìt dòpo!” Siate felici, è questo che conta:

non aspettate il paradiso “dopo”, appresso, il paradiso è

anche qua sulla terra.

Proprio il contrario di ciò che ci insegnano a dottrina, da

ragazzini, quando ci spiegano che, insomma, bisogna pur

sopportare... siamo in una valle di lacrime... non tutti

possono essere ricchi, c’è chi va bene e chi va male, ma poi

ognuno viene ricompensato quando saremo nell’aldilà...

State tranquilli, state buoni e non rompete le scatole. Questo,

più o meno.

Due sono i personaggi che conducono questa

rappresentazione: l’ubriaco e l’angelo. L’angelo, meglio un

arcangelo, vorrebbe raccontare il prologo di uno spettacolo

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sacro, deréntro i canoni tradizionali; l’ubriaco sproloquiante,

vuole a sua volta, ad ogni costo, raccontare l’evento come lo

ha vissuto di persona a testimoniare della sbronza

procuratasi col vino delle nozze di Cana.

L’angelo parla un veneto aristocratico, elegante, forbito;

l’altro in un volgare rozzo, becero e fortemente colorito.

I due giungeranno ad un diverbio poco dialettico che si

risolverà con pedate e spintoni: l’angelo sarà costretto alla

fuga.

La giullarata sarà da me realizzata senza l’aiuto di alcun

attore di “spalla”, non per un eccesso di protagonismo ma

perché me lo impone la struttura monologante del brano.

Abbiamo tentato più di una volta a mettere in scena brani di

questo tipo con diversi interpreti ma abbiamo scoperto che

non reggevano. L’azione nella versione dialogata ristagna, si

creano continui vuoti di ritmo e spesso cala ogni tensione

comica e drammatica.

Al contrario l’affabulazione del giullare, unico interprete,

realizza effetti di sintesi e velocità di sdoppiamenti, che

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proiettano un fitto gioco d’azioni allusive, cariche di

fantastica teatralità e che raddoppiano tensione e comicità.

Allora, quando mi troverò da questo lato del proscenio

(indica a sinistra), rappresenterò l’angelo, aristocratico, con

bei gesti; quando mi sposterò sull’altro lato (indica a

destra), sarò l’ubriaco.

(Fino a quando il personaggio dell’angelo rimarrà in scena,

ne sarà proiettata sul fondo l’immagine: foto 11. Un

“angelo”, di Cimabue, Assisi, Triforio di San Francesco

(fine secolo XIII).

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LE NOZZE DI CANA

Prologo 2000

“Le nozze di Cana”: si tratta evidentemente della festa di

nozze - il mariazzo - con l’immancabile miracolo del vino. Il

racconto del miracolo è introdotto da un “contrasto” fra un

angelo e un ubriaco, un beone che si è inciucchito grazie al

vino fabbricato da Gesù Cristo. La descrizione della qualità

di questo vino è espressa in un linguaggio quasi luculliano,

ma la parte più epica della giullarata è senz’altro la

presentazione di Cristo. L’ubriaco ce lo descrive come una

persona profondamente umana di una simpatia e giovialità a

dir poco divina, forse fin troppo espansivo… Gesù alla

levata dei calici, sferra manate sulle spalle degli invitati da

procurar loro un pneumatorace spontaneo! Ad un certo

punto, sale su un tavolo e mesce da bere a tutti, invitando i

commensali a gran voce ad un brindisi quasi orgiastico.

Uguale e preciso a quei Gesù che noi conosciamo grazie la

raffigurazione classica del Quattro e Cinquecento... non so

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se avete in mente quella scena, la gran tela delle “Nozze di

Cana” dipinta dal Veronese dove appare un Cristo bellissimo

con boccoli fluttuanti che scendono a cascata fin sulle

spalle... occhi che spargono luce, naso sottile, barba fitta e

riccioluta: Sandokan, tanto per capirci. Avvolto in un

panneggio con pieghe studiate, proiettanti riflessi, double

face. Il dipinto ci mostra ancora uno stuolo di belle signore

eleganti, tutte ornate di collane splendide, che fan cerchio al

Messia: “Che ci offre oggi, Maestro? Ci suona qualcosa?” ...

e un discepolo le avverte: “ E’ un altro maestro, questo!” Si

sa... nei ricevimenti fastosi si cade spesso in confusione.

Proprio un ambiente da gran signori: colonne a torciglioni,

archi, tendaggi... quassù gli invitati di riguardo, più sotto

quelli della corte bassa che trincano e sbevazzano, versando

da otri e botticelle il vino del miracolo... Cristo fra i notabili

regge una coppa di cristallo... Lui beve whisky.

Vi posso ricordare anche di quell’altro Cristo... quello

aristotelico, quasi euclideo, opera sublime di Piero della

Francesca, pittore straordinario. Vediamo il figlio di Dio

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collocato deréntro una perfetta geometria prospettica,

capolavoro di metafisica! Colonne in progressione, con

trabeazioni a scorcio, lui, Cristo... nudo, legato ad una

colonna... un raggio di taglio, una splendida luce che mette

in risalto il fluire dei capelli... così: (si atteggia a statua

ellenistica, tenendo il viso alto e leggermente piegato)…la

sua parte buona è questa (indica un lato del viso)” ...

appoggiato su una gamba, l’altra ripiegata... gioco a basculla

dell’anca, la spalla di destra un poco alzata, il busto

leggermente torto... Prassitele, insomma! Ai lati del Cristo

due energumeni che lo aggrediscono con flagelli e verghe...

froppate della madonna! Sudati, abbruttiti... nella foga di

battere si sono quasi attorcigliati su se stessi, lo percuotono

con furore inaudito e lui è lì... assente che sembra dire

annoiato: “Ne avete ancora per molto?” Non ha

partecipazione umana. D’altra parte è DIO... che gliene

frega: “Il corpo è lì ed è dell’uomo, ma io sto lassù!”

Invece quest’altro Gesù che vi presentiamo ora è proprio

deréntro tutto il suo corpo; sto parlando del Cristo descritto

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dall’ubriaco. Lo vediamo in piedi sul tavolo che incita i

commensali a godere del suo vino: “Bevét zénte, inciuchìve,

imbriachìve... fàit bón... no’ aspecít... dopo... de morti, a vès

felìz!”. Bevete gente… state bene… subito qua, su questa

terra! Non aspettate dopo… da morti ad essere felici!

In fondo sono proprio gli stessi discorsi, precisi, che il curato

o cugitore ci propinano da ragazzini a dottrina. Ci spiegano

che siamo in una valle di lacrime, che bisogna sopportare

pazienti, che siamo di transito... come in una sala d’aspetto:

ognuno che attende il proprio turno. (Fa immaginare

l’ingresso di un angelo-uscere che legge su un registro)

“Alfonso Pierin! Si va !” (Mima il levarsi di scatto di

un’anima) “Tocca a me... addio gente! (Accenna ad

un’ascesa leggera, quasi danzata, in cielo)” “Fiornina

Lazzati: via!” “Tocca a me! Saluti alla compagnia... ci

vediamo!”

I parroci ci assicurano anche che nascere poveri in un certo

senso è una fortuna: “Povero, sei povero! Beati i poveri di

spirito…” “Ah sì?... Caspita!! (Gesto di allegria mistica)

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Ah, ah, ah... fino a poco fa mi sentivo un catorcio, un

diseredato... ma adesso che me lo dici tu... mi stento proprio

beato... ah, ah, ah... sto proprio bene, guarda... ah, ah, ah

(sghignazza saltellando felice)... sono povero, sono povero!”

(Cambio rapido di tono e atteggiamento) Al contrario, per i

ricchi: “Porco cane, mi è andata male, sono nato ricco!

Vabbé”.

Senza scherzi: essere ricchi al tempo in cui in Palestina

viveva Gesù era un’autentica iattura, perché quel Cristo era

un santo tosto! Vi ricordate le insolenze che lanciava... un

tremendo moto d’accidia verso il ricco, quasi un odio di

classe... non l’ho mai capito.

(Entra nel personaggio di Gesù che s’arresta indicando

lontano con il braccio teso): “Ricco!” (agita la mano in

segno di minaccia, mima di afferrare il ricco, gettarlo a

terra e di schiacciarlo come un bacherozzo. Alla fine della

pantomima commenta) Tanto che i ricchi in Palestina non

uscivano neanche di casa, vivevano nel terrore di incontrare

Gesù: “Andiamo fuori a prendere una boccata d’aria?”

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“No, no... poi incontro Gesù di Nazaret che mi punta il

dito!”

“Sta tranquillo, è nell’orto dei Getsèmani che prega. ”

“No, io non esco! ”

Rimanevano chiusi in casa, guardavano attraverso le

imposte. Sono nate in quel tempo le persiane... per

premettere ai ricchi di sbirciare fuori, senza essere scorti

(mima di spiare attraverso le imposte). “Non c’è, non c’è (si

ritira di colpo, spaventato)...CRISTO!!”

Ed è lì che è nata questa espressione. Prima d’allora era

assolutamente sconosciuta. Uscivano solo di notte, quando

non c’era anima viva per la città: “Vieni, respiriamo un po'

d’aria fresca... non c’è nessuno... piano, piano... ah, che

bello!”... TOM! Il dito terribile di Gesù Cristo che spunta

dall’angolo: (in atteggiamento di giudice estremo) “Ricco, è

più facile che un cammello entri nella cruna di un ago, che tu

nel regno mio dei cieli... ah, ah, ah!” (Sghignazzando agita

le braccia e produce l’immagine di Cristo che spiega le ali e

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spicca il volo, salendo in cielo, sempre più piccolo fino a

scomparire nell’infinito).

Io da ragazzo mi chiedevo perché ce l’avessero tanto con

questo povero cammello, al punto di volerlo ficcare ad ogni

costo deréntro la cruna di un ago. Ma che v’aveva fatto ‘sta

povera bestia? E mi vedevo una banda di energumeni

scatenati: “Dov’è ‘sto cammello... acchiappalo, dai... reggi la

cruna... spingi, ruzza... forza! Tutti insieme! Dai che s’infila.

No... si è bloccato... maledetta gobba! Spingiamo...

ohohoh”... FLOOP (mima l’infilata dell’animale nella cruna

sventrata dell’ago). Fatto: vien fuori un cammello senza

gobbe... Ecco come e quando è nato il cavallo.

Torniamo al “dialogo a contrasto” fra l’angelo e l’ubriaco.

Anche qui abbiamo un unico giullare che rappresenta i due

personaggi. Immaginate da questa parte (indica il lato destro

del proscenio) c’è l’ubriaco, dall’altra l’angelo. Basterà di

volta in volta che io accenni solo al cambio di posizione e

voi indovinerete chi dei due sta parlando.

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Il volgare che ascolterete in questa “conta” è ancora

lombardo, ma naturalmente infarcito di termini provenzali,

veneti, romagnoli con qualche espressione napoletana, tanto

per renderlo più brillante. Il primo a intervenire è l’angelo

che si prepara ad introdurre il mistero del vino in forma

canonico, l’altro lo interrompe per raccontare a sua volta il

miracolo ma come sua esperienza personale: lui c’era a quel

miracolo. Nel diverbio, vengono addirittura alle mani.

L’angelo ci appare in tutto il suo splendore, biondo, occhi

grandi e luminosi, slanciato, elegante in ogni suo gesto... qui

(indicando se stesso) dovrete dimostrare molta fantasia!

(Parte il contrasto )

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LE NOZZE DI CANA

Monologo

ANGELO (si rivolge al pubblico sollevando le braccia al

cielo ad imitazione degli oranti) Fèite atensión, brava zénte,

che mi vòi parlarve de una storia vera, una storia che l'è

cominzàda...

UBRIACO (interrompendolo) Anco mi ve voi ‘contàre de

una storia maravegiósa... de ‘na ciùca belìsima che me son

catàt!

ANGELO 'Briagon!... Cito!

UBRIACO Vorìa ‘contàre anca mi...

ANGELO No! Ti no' te conti! Che mi son lo spròlogo e

débio sprologàre a mi! Föra!

UBRIACO (accenna a parlare) Ma…

ANGELO: Cito! (Al pubblico riprendendo la posizione

iniziale) Brava zénte, tüto quèlo che anderémo a ‘contàre ól

sarà tüto vero, tüto el sorte dai libri dei vanzéli e quèl pòch

che gh'èm tacà de fantasia...

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UBRIACO Mi no’ ghe taco de fantasia, l'è una storia vera:

me son catàt un'imbriagadüra si dólza, che non me vògio

gimài plù embriagàre al mundo...

ANGELO Cito! 'Briagón!

UBRIACO No' pòdo nemanco ‘contàre...

ANGELO No!

UBRIACO Eh... ma mi...

ANGELO No, ti no' te ‘cónti! (Al pubblico, come sopra)

Bòna zénte... Tüto quèlo che anderémo a ‘contàrve ól sarà

tüto vero, tüto o l'è sortío dei libri e dei vanzéli e quèl pòch

che gh'èm tacàt de fantasia...

UBRIACO (sottovoce e mimando) Dopo (indica col dito) ve

raconto de quèsta ciòca belìsima...

ANGELO Oh!, imbriagón!

UBRIACO Non fazéva niente!... Solo col dido...

ANGELO Neanche col dido!

UBRIACO Eh, ma non fago rumor col dido!

ANGELO Ti fa' rumor sì... Te fasévi: rrrrr...

UBRIACO No' è vera!

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ANGELO: Cito!

UBRIACO: Eh, ma no' pòdo nemanco fiadàre?

ANGELO: No!

UBRIACO: No' pòdo fiadàre?

ANGELO: No!

UBRIACO: Nemanco col naso?

ANGELO: No!

UBRIACO: Se no' fiàdo a s’ciòpo!

ANGELO S’ciòpa!

UBRIACO Ah ma... se a s'ciòpo a fago rumor, ah!

ANGELO S’ciòpa in silénsio!

UBRIACO: Oh, ma l'è dificile s’ciopàre in silénsio!

ANGELO: Cito!

UBRIACO (ribadisce) Ma no' son capàze!

ANGELO Citooo! (Al pubblico) De tüto quèlo che

andarémo a ‘contàre ól sarà tüto vero, tüto o l'è sortío dai

livri, dai vanzéli… quèl pòch che gh'èm tacàt de fantasia...

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02/10/2012 159

L'ubriaco si avvicina all'angelo giungendogli a tergo e gli

strappa una piuma.

UBRIACO (sottovoce, tra sè, mimando di far volare la

piuma) Uhi, che bela pluma coloràda...

ANGELO Briagón!...

UBRIACO (sussulta spaventato, getta la piuma per aria e

mimando fa immaginare che una delle piume, ricadendo,

gli si infili in bocca: tossisce rumorosamente) Eh... ma... Te

me l'hai fàita magnàre!?... (Si torce come preso da un gran

solletico nello stomaco) I sgrìsoi!... El galìttigo!

ANGELO (indispettito) Cito!

UBRIACO Eh, ma mi... non...

ANGELO Föra!

UBRIACO: Ma mi... (continua a sghignazzare per il

solletico) Oh, oh...

ANGELO (lancia un’occhiataccia all’ubriaco e riprende il

suo discorso) Tüto quèlo che anderémo a ‘contàr el sarà tüto

vero, tüto o l'è sortío dai livri, dai vanzéli... (L'ubriaco torna

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vicino all'angelo e gli strappa, da dietro, altre piume, mima

l'ammirazione per le medesime; ne strappa un’altra e

l’annusa: disgustato la butta. Compone le piume a

ventaglio, si fa vento e si pavoneggia. L'angelo se ne

accorge) 'Briagón!...

UBRIACO Eh?... (Butta in aria le piume che fa immaginare

ricadano come pioggia) Névega...

ANGELO Ma ti vòl sortìr da ‘sto palco? Se no' ti sorti

subetaménte mi te trago föra a pesciàdi!

UBRIACO: A pesciàdi?!

ANGELO: Sì, a pesciàdi! Föra!

UBRIACO: (al pubblico, indignato) Zénte!... Avìt ascultàt?

Un ànzelo che me vòl casciàr via a pesciàde... a mi! Un

ànzelo!! (Aggressivo, all’angelo) Végne, végne anzelón,

végne galinàsso! Che mi te strapo i plume a vuna a vuna,

anco dal cül... dal de drio... Végne, galinón... Végne!

ANGELO Aído... No’ tocàrme! Aìdo! ‘Sassìnoo... (Fugge

spaventato).

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UBRIACO L'ànzelo l'è scapàt e m'ha dit ‘sasìno! Ma come

pòl dirme ‘sasìno a mi? A mi che me retruòvo con tanta

bontà adòso, che me sorte dolzór de santo anco da le orègie,

gràsie a 'sto vin che me se deslèngua da partüto, me se sglòsa

anca partèra, de spanzegàrghe de soravìa... Che mi non

imazinàva mia che se saría finìda si bén sta zornàda, ca o

l’éra cominzàda in una manéra malarbèta, desgrasiàda...

Mi s'eri invitào in un mariazzo, un spusalìsio, in un loegu

chi-lòga che ciàmeno Cana... Cana... che apòsta, dòpo, ghe

digaràno: nosse di Cana. Bón, lì, mi son andàit! Son ‘rivào...

gh’éra un gran tavolón con la roba de mangiare soravìa...

tanti invitati... no' sentà, tüti in pie, che o i biastemàva o i

spüdàva par tèra, dàvan pesciàdi tremende a le piére de

rutulàrle. O gh’éra la sposa che la piagnéva, la madre de la

sposa che se strasàva i cavèi. O gh’éra ól patre de la sposa

devànti al muro che quèl dava testunàti, a rebatùn... catìvo!

"Ma cosa è capitàt?” a domandi. “Oh, desgràsia?” - “O l’è

scapàt el sposo?" - "No! El sposo è quèl li-lòga (indica) che

biastéma pù de tüti!" - "Ma cosa è capitàt alóra?" - "Oh,

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desgràsia... émo descovèrto che un tinàsso empiegnìdo de

vino par ól banchèto del sponsalìsi, ól s'è rovérso tüto in

aséto!" - "Tüto in asét?! Bòja che disgràsia! Sposa bagnàda a

l'è fortunàda, ma bagnàda in du l'asét a l'è desgrasiàda de

schisciàre e casciàre via!" E tüti che piangnévan, ól sposo

biastemàva, la matre se strasciàva i cavèi, la sposa la

piagnéva, ól padre de la sposa devànti al muro ch'ól dava

testunàde a rebatùn, catìvo! In quèl mentre ‘riva dénter un

zióvine, un che ghe dìseno Jesus... fiòl de Deo de

sovranóme. No l’éra sulèngo, a no, l’éra incumpagnàt de la

sòa mama, vüna che ghe dígheno la Madona. Gran bela

dona! (Accenna ad una camminata elegante e fascinosa)

Eveno invitati de riguardo, che rivàveno un pòch in ritardo.

Apéna questa sciüra Madona l’è vegnüda a savér de sto

impiastro burlérei che o gh’éra in pie per ‘sto facto che s'era

roversàt el vin en asét, la gh'è andàda visín al so Jesus, fiòl

de Deo, fiòl anca de la Madona, e ól gh'ha dit(si esprime

infilando le parole una dopo l’altra a grande velocità senza

prender fiato): “Ti fiòl che ti è tanto bòn zóvin caro che te

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fa' de robe meravigliose par tüti quèi che gh'han besógn in

quèsto momento de tristìssia varda se te ha el plasér de traj

foera de impiàster burlérei che i ha infesciàt sta povera zént

e daghe plasér ‘legrèssa che se pòda recordàr de ‘sto santo

ziórno. Alelùia! Alelùia!”. Apéna la Madona l'è andà a

dirghe quèste quattro cialàde al so' fiòl, emo visto tüti

fiorìrghe sui làver del Jesus, un surìso dólzu, ma cossì

dólzu... che se nu’ te stàvet aténtu, te se stacàvan i rudèli di

genöcc a tumburlàrse sui didón dei pie, par la cumusiùn! E

tüto d'un colpo 'sto Jesus l'ha dit: “Bòn, zénte, podarìa

‘verghe dódeze sidèle o ótri impiegnìde de acqua ciàra e

nèta?”

L'è stat un fülmin, tràchete, dódeze otri son ‘rivà lí davanti,

impiegnìde d'acqua, che mi, vedè tuta quèl'acqua in un culp

sol, me sont sentí infìn male... me pareva de negare... Bòja!

S'è fai un silénsio che pareva de v’èsser in gésa al Santus, e

‘stu Jesus l'ha insciunscicà un po' cui man, slongàndo (fa il

gesto di tirarsi le dita), vun per vun i didi a s'cioch, e po’ l'ha

valzà su tri didi, sojaménte tri didi, i alter dòi i tegnéva

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schisciàt... e l'ha cuminzàt a far di segni suravía a l'acqua...

di segni che fan sojaménte i fiòl de Deo. Mi, che s’eri

distacàt de söravia, che v’ho dito: l'acqua me fa impressiùn a

vardàrla... no’ vardàva... miravo i ögi in del vòdo co’

tristìssia... s'eri pugià sóra lí, un po’ tristànso, e d'un bòto me

senti ‘rivà de deréntro i böcc del naso un parfüm come de

üga schisciàda! No pudéva cunfùnderse... a l’éra vino! Bòja,

che vin! Me n'han pasàt ‘na bròca, gh’ho pugià i làver, hu

mandà giò un góto... (come in estasi) bòja!... Oh... Oh...

beati del purgatorio, che vin!... ‘Bucàta apéna, amareul in tul

fund, un frizzìch frizzantìn, saladín in tèl mèzz, c'ól mandava

stralüzz de garànza e barbàj da par tüt, senza fiùr né bave, tri

an almànco de stagiunadüra... anàta d'ora! Che l’andava giò

slizigàndo par ul gargòzz a gorgogiàr fin in dul stòmego... ul

se freluntàva un pochetìn fremendo, ul restava lí de rimpiàz,

peu, gnòch, ól dava un rigatón, turnàva indré a rutulún sü

par ól gargòzz, ól ‘rivàva fina ai böcc del nas, ól se

spantegàva in feura tütt el parfùm... che se pasàva vun anca a

cavalo, de prèscia, (mima l’impennarsi di un cavallo col

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cavaliere allocchito in atteggiamento monumentale) gniuu...

bll... “A l'è primavera! " el vusàva!

Che vin!... E tüti che ‘plaudiva al Jesus, “Bravo Jesus, at sei

divino! ” E tüti che tracanàva, s’enciuchìva, balàvan, balàva

la sposa, cantava lo sposo. Sojaménte o gh’éra ól patre de la

sposa, devànti a un müro, c'ul dava testunàde a ribatón,

catìvo... che nisciün ól gh’avéa ‘vertìdo del miracolo!

Ol Jesus a l'éra montàt in còpa a un banco, in pie, ul masceva

vin par tüti. “Bevé zénte, fèite ‘legrìa, fèite bòn!,

inchiuchìve, imbriaghìve, no aspetí ól paradiso dòpo...

sübito, adèso catélo... no’ dopo de morti!”

D’un bòto ól s’è incurgiùt dela sòa mama: “Perdunéme

mama sunt andàit un po' in barlòcca!... Bévete un góto de

vino, mama!" - “No, no, fiòl, gràsie, at ringràsi, ma mi no’

podi béver, che mi no’ son abituàda al vino... me fa turnà la

testa... che dopo disi i stupidàdi.”

“Ma no, mama, no’ te pò far mal, te menarà solamente un po'

de alegrèssa! No te pò far mal, ‘sto vino, l'è bòn, l'è santo, a

l'è vin s’cèto... a l'ho fai me!”

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E peu, a ghe son amò i canàja malarbèti, che va intórna a

racontàre che ól vino a l'è un'invensiùn del diàol satànazzo e

l'è pecàto. Ma te paresse che se ól vin ól fudèsse pecàto, ól

Jesus ghe l'avaria dato de bévere a la sua mama? A la sua

mama de lu? Che lu l'è ciapàt de tanto amor par lée, che mi

no gh'ho par tuta la sgnapa de ‘sto mondo! Mi son següro

che se el Deo Padre in la persona, invece de imparàrghelo al

Noè, tanto tempo dòpo, ‘sto truco meravigióso de schisciàre

l'üga, de trar foeura el vino, ól ghe l'avesse insegnàt sübit, fin

dal prinzìpio, all'Adamo, (levando il tono della voce) subito,

prima de l’Eva, sübit, come l'aveva impastàt co' la

mota,(mima l’azione di uno scultore che fabbrica un

pupazzo di creta) co' la tèra, cu' l'hai fàito un prucugnùn

(allude alla testa del pupazzo)... po' gh'aveva fàit dò bögi per

i ögi, po' le balète de i ögi, le palète de le orège par

sentìrghe, ól naso coi bügit, la boca...(infilare due dita nella

bocca del pupazzo) "Sta 'tento co' quei dencìt de no' cagnàre,

veh! Adèso el còlo... spalète, po’ i brascìt... i gómbeti, i

didi... Le fago come ghe le ho mi… (conta le proprie dita)

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un, du, tri, quattro, cinque par parte… cunt ól biro… (mima

con discrezione, di improntare il sesso di Adamo) ól pisèlo,

le ciapète, végni giò coi giambi, coi pie, anche chi… cinque

dida... Mo’ te dago la vida... (come gli soffiasse in bocca)

FFFPPPHHOO... respira Adamo... (soffia come un mantice e

lo incita ad aspirare aria con forza) ah, ah, ah, ah... Vita vita

Adamo! Dèrva i ögi, vai che te sèt vivo! (Mima di

sorreggere la creatura costringendola a camminare) Adèso

‘spècia che te preparo ól mèsto. (Fa il gesto di approntare

un gran mastello e invita Adamo ad entrarci) Deréntro, chi-

lòga, deréntro ól mastèlo... adèso l'üga, va che graspi d'üga,

dai schìscia l'üga, dai bala, sgàmba, salta, via, alè...

spantéga! (Lo incita a danzare e a calpestare il mosto

battendo le mani a segnare il ritmo)”

(Staccandosi dall’azione viene in proscenio e commenta con

foga) Subito Deo dovéa insegnàrghe: “Adamo, uva, Eva,

vino!” Non sarèsmo in ‘sto mundo malarbèto, sarèsmo tüti in

paradiso (fa il gesto di sollevare un bicchiere e brindare):

salüt! Parchè a l’éra a basta che in tèl ziórno malarbèto che

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atacàdo... a rénta a l'Adamo a l'è ‘‘rivàto el serpentùn canàja

cont in boca la pòma che ól diséva: “Magna la pòma,

Adamo! (Come in una danza orientale mima i movimenti a

torciglione del serpente che si annoda intorno all’Adamo

tenendo il pomo nelle fauci spalancate) Dólze, bòne, dólze

le pòme... rosse!, bòne le pòme ‘mé l'üga!”. L'éra basta che

l'Adamo gh’avéa aut nascondùo int tèl de drio un biceròt

impiegnìdo de vino l'avría catàt á pesciàdi tüti i pomi de la

terra, schisciàt la crapa al serpentón, e l’avrìa criàt

(brindando): "Salüt! Alè! Partì, par lü, ‘legrìa, 'cu Dio la

t’era!".

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TRADUZIONE

ANGELO (si rivolge al pubblico sollevando le braccia ad

imitazione degli oranti) Fate attenzione, brava gente, che io

voglio parlare di una storia vera, una storia che è

cominciata...

UBRIACO (interrompendolo) Anch’io vi voglio raccontare

una storia meravigliosa… di una ubriacatura bellissima che

mi sono preso!

ANGELO Ubriacone!...Zitto!

UBRIACO Vorrei raccontare anch’io...

ANGELO No! Tu non racconti! Che io sono il prologo e

devo prologare io! Fuori!

UBRIACO: (accenna a parlare).

ANGELO Zitto! (Al pubblico riprendendo la posizione

iniziale) Buona gente, tutto quello che vi andremo a

raccontare sarà tutto vero, tutto sorte (esce, viene) dai libri e

dai vangeli e quel poco che abbiamo aggiunto di fantasia...

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UBRIACO Io non ci attacco niente di fantasia, è una storia

vera: mi sono preso una ubriacatura così dolce mi sono presa

una ubriacatura così dolce, che non voglio più ubriacarmi al

mondo...

ANGELO Zitto!… Ubriacone!...

UBRIACO Non posso nemmeno raccontare…

ANGELO No!

UBRIACO Eh... ma io...

ANGELO No, tu non racconti! Sssss!... (Al pubblico, come

sopra) Buona gente... Tutto quello che andremo a

raccontarvi sarà tutto vero, tutto è sortito dai libri e dai

vangeli. Quel poco che ci abbiamo aggiunto di fantasia...

UBRIACO (sottovoce e mimando) Dopo, (indica col dito) vi

racconto di questa ubriacatura bellissima...

ANGELO Oh!, ubriacone!

UBRIACO Non facevo niente... solo col dito…

ANGELO Neanche col dito!

UBRIACO Ma non faccio rumore col dito!

ANGELO Sì, fai rumore... facevi: rrrrrr!

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UBRIACO Non è vero!

ANGELO Zitto! Te fasévi: rrrrrr!

UBRIACO E ma non posso nemmeno fiatare (respirare)?

ANGELO No!

UBRIACO Non posso fiatare?!

ANGELO No!

UBRIACO Nemmeno col naso?...

ANGELO No!

UBRIACO Se non respiro scoppio!

ANGELO Scoppia!

UBRIACO Ah ma... se scoppio farò rumore, eh!

ANGELO Scoppia in silenzio!

UBRIACO: Oh, ma è difficile scoppiare in silenzio!

ANGELO: Zitto!

UBRIACO (ribadisce) Ma no' son capace...

ANGELO Zittooo! (Al pubblico) Di tutto quello che andremo

a raccontare sarà tutto vero, tutto è sortito dai libri, dai

vangeli: quel poco che abbiamo aggiunto di fantasia...

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L’ubriaco si avvicina all’angelo giungendogli a tergo e gli

strappa una piuma.

UBRIACO (sottovoce, tra sè, mimando di far volare la

piuma) Oh, che bella piuma colorata...

ANGELO Ubriacone!...

UBRIACO (sussulta spaventato, getta la piuma per aria e

mimando fa immaginare che la piuma, ricadendo, gli si

infilata in bocca: quindi tossisce rumorosamente) Eh... ma...

Me l'hai fatta mangiare!?... (Si torce come preso da un gran

solletico nello stomaco) Il solletico!

ANGELO (indispettito) Zitto!

UBRIACO Eh, ma io... non...

ANGELO Fuori!

UBRIACO: Ma io... (continua a sghignazzare per il

solletico) Oh, oh...

ANGELO (lancia un’occhiataccia all’ubriaco e riprende il

suo discorso) Tutto quello che andremo a raccontare sarà

tutto vero, tutto è sortito dai libri, dai vangeli... (L'ubriaco

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torna vicino all'angelo e gli strappa, da dietro, altre piume,

mima l'ammirazione per le medesime; ne strappa un’altra e

l’annusa, disgustato la butta. Compone le piume a ventaglio,

si fa vento e si pavoneggia. L'angelo se ne accorge)

Ubriacone!...

UBRIACO Eh?... (Butta in aria le piume che fa immaginare

ricadano come pioggia) Nevica...

ANGELO Ma vuoi sortire da questo palco? Se non sorti

subito io ti caccio fuori a pedate!

UBRIACO A pedate?!

ANGELO Sì, a pedate! Fuori!...

UBRIACO (al pubblico, indignato) Gente!... Avete ascoltato?

Un angelo che mi vuol buttare fuori a pedate... a me! Un

angelo!! (Aggressivo, all’angelo) Vieni... vieni angiolone...

vieni gallinaccio! Che io ti strappo le penne a una a una,

anche dal culo… dal di dietro... Vieni, gallinone... Vieni!

ANGELO Aiuto... Non toccarmi! Aiuto! Assassinoo...

(Fugge spaventato).

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UBRIACO L’angelo è scappato e m’ha detto (chiamato)

assassino!?!... Ma come può dire assassino a me? Ma come

può dire assassino a me che mi ritrovo con tanta bontà

addosso sono così buono che mi esce bontà anche dalle

orecchie... grazie a ‘sto vino che mi si scioglie dappertutto,

mi si spampana anche per terra da scivolarci sopra... Che io

non immaginavo che sarebbe finita così bene questa

giornata, che era cominciata in modo maledetto,

disgraziato...

Io ero invitato a un matrimonio, uno sposalizio, in un luogo

qui vicino, che chiamano Cana... Cana... che apposta, (per

questa ragione) dopo, diranno: “Le nozze di Cana”. Bene, lì

io sono andato! Sono arrivato... c’era un gran tavolo con la

roba da mangiare sopra... tanti invitati… non seduti, tutti in

piedi, che o bestemmiavano o sputavano per terra, o davano

pedate tremende alle pietre facendole rotolare. C'era la sposa

che piangeva, la madre della sposa che si strappava i capelli.

C’era il padre della sposa, davanti ad un muro, che dava

testate, a ripetizione, cattivo!

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“Ma cosa è successo?” chiedo io... “Oh, disgrazia...” “È

scappato lo sposo?...” “No, lo sposo è quello lì (indica) che

bestemmia più di tutti!”

“E cosa è successo allora?”

“Oh disgrazia... abbiamo scoperto che un tino pieno di vino

preparato per il banchetto del matrimonio, si è rovesciato in

aceto”. “Tutto in aceto?! Boia che disgrazia! Sposa bagnata

è fortunata, ma bagnata nell’aceto è disgraziata da

schiacciare e cacciare via!”

E tutti che piangevano… lo sposo bestemmiava, la madre

della sposa si stracciava (strappava) i capelli, la sposa

piangeva, il padre della sposa davanti al muro che dava

testate a ripetizione cattivo!

In quel mentre arriva deréntro un giovane, un certo Gesù…

figlio di Dio di soprannome. Non era solo, no, era

accompagnato dalla sua mamma, una che le dicono (la

chiamano) la Madonna. Gran bella donna! (Accenna ad una

camminata elegante e fascinosa) Erano invitati di riguardo

che arrivavano giusto con un po’ di ritardo. Appena questa

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02/10/2012 176

signora Madonna è venuta a sapere di questo pasticcio che

c’era in piedi (questo fatto) che si era mutato il vino in aceto,

è andata vicino al suo Gesù, figlio di Dio e anche della

Madonna, e gli ha detto (si esprime infilando le parole una

dopo l’altra a grande velocità senza prender fiato): “Tu

figlio che sei tanto buono giovane caro che fai delle cose

meravigliose per tutti quelli che hanno bisogno, in questo

momento di tristezza guarda se hai il piacere di tirar fuori da

questo pasticcio che ha imbarazzato (messo nell’imbarazzo)

questa povera gente e dar loro piacere allegria che si possano

ricordare di ‘sto santo giorno. Alleluia! Alleluia!”.

Appena la Madonna è andata a dire ‘ste quattro chiacchiere a

suo figlio, abbiamo visto tutti fiorirgli sulle labbra di Gesù

un sorriso così dolce, ma così dolce… che se non stavi

attento, ti si staccavano le rotelle (rotule) dalle ginocchia e

tombolavano (cadevano) sui ditoni (alluci) dei piedi, per la

commozione. E tutto d’un colpo ‘sto Gesù ha detto: “Bene,

gente, potrei avere dodici secchie piene di acqua chiara e

pulita?”

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È stato un fulmine, tracchete, dodici secchie sono arrivate lì

davanti, piene d’acqua, che io, a vedere tutta quell’acqua in

un colpo solo, mi sono sentito perfino male… mi sembrava

di annegare... Boia!

S’è fatto un silenzio che sembrava di essere in chiesa al

Sanctus, e ‘sto Gesù si è massaggiato le mani strofinandosele

e dando di schiocco (schioccando le dita) (fa il gesto di

tirarsi le dita), e poi ha alzato tre dita… solamente tre dita,

ché le altre due le teneva piegate (contro il palmo), e ha

cominciato a fare dei segni sopra l’acqua... dei segni che

fanno solamente i figli di Dio. Io, che ero un po’ in là, che ve

l’ho detto: l’acqua mi fa impressione a guardarla… non

guardavo, miravo il vuoto con tristezza… e di colpo mi

sento arrivare deréntro i buchi del naso un profumo come di

uva schiacciata… non ci si poteva confondere... era vino!

Boia, che vino!

Me n’hanno passata una brocca, ho appoggiato le labbra, ne

ho mandato giù un goccio... (come in estasi) boia!... Oh...

Oh... beati del purgatorio, che vino!... Abboccato appena,

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amarognolo nel fondo, un poco frizzantino, salatino nel

mezzo, che mandava luccichii (rosso) di garanza e bagliori

dappertutto! Senza fioriture né bave, tre anni di stagionatura

almeno, annata d’oro! Che andava giù scivolando per il

gargarozzo a gorgogliare fin nello stomaco, si sparpagliava

un pocchettino fremendo, restava lì calmo, come PER

PRENDER FIATO, poi, gnoch!, dava un colpo, tornava

indietro a rotoloni giù per il gargarozzo, arrivava fino ai

buchi del naso, si spargeva fuori tutto il profumo... che se

passava uno anche a cavallo al galoppo (mima l’impennarsi

di un cavallo col cavaliere allocchito in atteggiamento

monumentale) gniuu... bll... “È primavera!” gridava.

Che vino!... E tutti che applaudivano: “Bravo Jesus, sei

divino!”

E tutti che tracannavano, si ubriacavano, ballavano, ballava

la sposa, cantava lo sposo. Il padre della sposa, davanti a un

muro, dava testate a ribattone, cattivo... che nessuno lo

aveva avvertito del miracolo!

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Gesù era montato all’impiedi su un tavolo, e mesceva vino

per tutti: “Bevete gente, fate allegrezza (siate allegri), siate

felici!, ubriacatevi, non aspettate dopo… da morti!.”

All’improvviso si è accorto di sua madre: “Perdonatemi

mamma, sono andato un po’ in garbuglio di cervello…

Bevete un goccio di vino, mamma!” “No, no, figliolo,

grazie, ti ringrazio, ma io non posso bere, ché io non sono

abituata al vino, mi fa girar la testa... e dopo dico

stupidaggini…”.

“Ma no, mamma, non ti può far male, ti porterà solamente

un po’ di allegria! Non ti può far male, ‘sto vino è buono, è

sano, è vino schietto... l’ho fatto io!” (Al

pubblico,cambiando tono e stteggiamento) E poi, ci sono

ancora delle canaglie maledette, che vanno in giro a

raccontare che il vino è un’invenzione del diavolo

satanasso… ma ti pare che se il vino fosse un’invenzione del

demonio e peccato, Gesù l’avrebbe dato da bere alla sua

mamma? Alla sua mamma di lui? Che lui è preso da tanto

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amore per lei, che io non ho per tutta la grappa di ‘sto

mondo!

Io sono sicuro che se il Dio Padre in persona, invece di

insegnarglielo al Noè, tanto tempo dopo, questo trucco

meraviglioso di schiacciare l’uva, di tirar fuori il vino, glielo

avesse insegnato subito, fino dal principio, all’Adamo,

subito, prima dell’Eva, subito!... come l’aveva costruito con

il fango (inizia a mimare l’impasto della creta per cavarci

una figura) ha impastato un gran gnocco… gli aveva fatto

due buchi per gli occhi, poi anche dentro gli occhi le

palline… le palette per le orecchie il naso coi buchi, la

bocca… (finge di infilare due dita in bocca del pupazzo)

"Stai attento con quei dentini di non morsicare veh!" Poi il

collo… le spallette, i gomiti, le dita...: “Le faccio come le ho

io… (conta le proprie dita) una, due, tre, quattro, cinque per

parte… poi sotto la pancia il bigolo (mima con discrezione,

di improntare il sesso di Adamo) il pisello, le chiappette,

vengo giù con le gambe, coi piedi… anche qui cinque dita...

Ora ti do la vita... (gli soffia in bocca) FFFPPPHHOO…

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respira Adamo! Ah, ah, ah, ah… apri gli occhi… va Adamo,

dai che sei vivo (mima di sorreggere la creatura

costringendola a camminare. Descrive un mastello e invita

Adamo ad entrarci) Dentro, dentro al mastello… adesso

l’uva, va che graspi d’uva… dai schiaccia l’uva, dai balla

via, alè... (lo incita a danzare e a calpestare il mosto,

battendo le mani a segnare il ritmo:) Alé! Alé! Subito Dio

doveva insegnargli: Adamo, uva, vino, Eva!

Non saremmo in questo mondo maledetto, saremmo tutti in

paradiso (fa il gesto di sollevare un bicchiere e brindare):

salute! Perché sarebbe bastato che in quel giorno maledetto

che appresso all’Adamo è arrivato il serpentone canaglia con

in bocca la mela e che diceva (con tono da imbonitore):

“Mangia la mela, Adamo!... dolci, buone, dolci le mele,

rosse, buone le mele come l’uva!” Sarebbe bastato che

Adamo avesse avuto nascosto dietro la schiena un

bicchierotto pieno di vino... avrebbe preso a pedate tutte le

mele della terra, schiacciata la testa al serpentone e avrebbe

gridato: “Salute! Alé! Per te, per lui, allegria, come Dio!”

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LA NASCITA DEL VILLANO

PROLOGO EINAUDI I EDIZIONE

Foto 13. “La nascita del villano” (da un manoscritto del

Trecento).

Si tratta di un’immagine tratta da una miniatura. È la

rappresentazione di un pezzo di un famoso giullare:

Matazone da Caligano. Matazone è un soprannome che vuol

dire mattacchione (questa volta non è scurrile, come vedete

ci sono delle eccezioni); Caligano, Carignano, è un paese

vicino a Pavia. Il linguaggio, un dialetto dell’allora territorio

di Pavia, è chiarissimo per noi lombardi; e, dico la verità, ho

provato ad eseguirlo anche in Sicilia, ed arrivavano a capire

tutto. Vedete: lassù c’è un angelo, qui il padrone, il signore,

il signore delle terre, e qui c’è il contadino, o meglio il

villano.

Che cosa succede in questa rappresentazione? È il momento

della consegna, al padrone, del primo villano creato dal

padreterno.

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La giullarata racconta dell’uomo che, stanco di lavorare la

terra, dopo sette generazioni, va dal padreterno e gli dice:

“Senti, io non ce la faccio più a soffrire la fatica in questa

maniera, devi alleviare la mia fatica. Mi avevi promesso che

avresti rimediato in qualche modo!” “Come non ho

rimediato?! – dice il padreterno, – ti ho dato l’asino, il mulo,

il cavallo, il bue...” “Eh sì, ma sempre io devo spingere

dietro l’aratro, – dice l’uomo, – sempre io devo andare a

remondare la stalla, sempre io devo fare i lavori più bassi,

come mettere lo sterco nei campi, mungere, ammazzare il

maiale... Io vorrei che tu mi creassi qualcuno che mi aiutasse

in tutto e per tutto, che mi sostituisse anzi, e io potrei

finalmente riposare!” “Ah, ma tu vorresti un villano!” “E chi

è?” “È proprio uno di quelli che vorresti tu... D’altra parte

non lo puoi conoscere, non l’ho ancora creato! Vieni,

andiamo a crearlo adesso...” E vanno da Adamo. Appena

Adamo vede arrivare il Padreterno assieme ad un uomo, zac!

si mette le mani intorno al torace e urla: “No, basta, io di

costole non ne mollo più!” “Ecco, va be’, hai ragione anche

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tu, – dice il padreterno, – ma cosa posso fare?” In quel

momento passa un asino, e al padreterno viene un’idea: fa un

gesto con le dita, e l’asino si gonfia. Rimane incinto.

Ecco: da questo momento seguo il testo originale. È

Matazone da Caligano che parla. Esiste un testo stampato in

una forma un po’ diversa da questa, che è stata ricostruita

mettendo insieme vari frammenti, per dare maggiore

continuità e logica al testo.

Prologo 2000

Nell’immagine ora proiettata sono rappresentati un angelo

con le ali spiegate che si affaccia sul lato destro, che affida

Didascalia all’immagine : “Il contadino e il pastore” ,

indicato anche come “Il villano e il suo padrone” (da un

manoscritto del Trecento)

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al suo padrone il servo appena creato: un villano malconcio

che si appoggia a un grosso bastone

Questa miniatura ci porta alla memoria una famosa giullarata

il cui testo si ritrova nelle pubblicazioni che trattano delle

origini poetico-satiriche del volgare italiano. L’autore di

questo testo è conosciuto come Mattacchione da Calignano o

da Carignano, un piccolo borgo della provincia di Pavia. Per

quanto riguarda il tempo in cui fu scritto e sicuramente

recitato, alcuni ricercatori indicano la data sicura prima del

Duecento, altri propendono per il Quattrocento. Il monologo

è scritto in un lombardo primordiale con termini propri

dell’ambiente agreste, un lessico specifico da contado. La

giullarata inizia con una lamentazione dell’uomo, figlio di

Adamo, che ricorda a Dio la promessa di un aiuto e di uno

sconto di pena trascorse le sette generazioni sette: “ Signore,

io non ce la faccio più! Il tuo castigo è stato davvero

pesante: lavorare la terra mi abbruttisce e la mia donna

invecchia anzitempo! Avevi promesso che, trascorse sette

generazioni sette, mi avresti concesso un aiuto! ”

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E il Padre eterno: “ E non è forse stato un aiuto regalarti

l’asino da caricare di ogni sacco, il bue che trascina l’aratro,

il cavallo da porre tra le stanghe dei carri?”

“Sì, ribatte l’uomo, ma sempre a me tocca spingere l’aratro,

sollevare i sacchi e condurre il cavallo. Io ti chiedo qualcuno

che mi sostituisca in queste fatiche, così che io possa

governare, godere i frutti del suo lavoro e riposare!”

“Ah, ho capito: tu vorresti un villano.”

“Chi è ‘sto villano?”

“Se non l’ho ancora creato, come lo puoi conoscere. Vieni...

andiamo a metterlo al mondo… andiamo da Adamo.”

Come Adamo vede arrivare il Padreterno accompagnato ad

un uomo, subito sospetta che si voglia ancora usare di lui, si

porta le mani al torace e urla: “Basta Signore! Io di costole

non ne mollo più... ho già pagato con la nascita di Eva!”

“Ecco, va beh, hai ragione anche tu - ammette il Padreterno

- ma adesso come risolvo, io?”

In quel momento passa un asino e al Padreterno gli fulmina

un’idea, che per quello lui è un vulcano viene un’idea: fa un

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gesto sollevando la mano e il ventre dell’asino, all’istante, si

gonfia; rimane ingravidato.

Ecco: da questo punto recito il testo in volgare lombardo. Il

giullare è Matazone da Calignano ma mi sono permesso di

arricchire la fabulata originale inserendo brani e passaggi

grotteschi tratti da Bescapè e Bonvesin de la Riva il tutto

condito di detti , proverbi della tradizione popolare padana. e

canzoni del Medioevo.

Inizio dal momento in cui il Signore scorge l’asino e lo

ingravida.

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LA NASCITA DEL VILLANO

In quèl mumént, varda ti l’ucasiùn, pasa de lì un àseno che

ól va intórna bighelón… al Signur ghe vién ‘na ‘spirasiùn, ól

valza ‘na man sura ‘sto corpaciün e trak, a l’àseno in un bòto

ghe se sgiónfia la panza de stciopà. Per parlà stcèto ól resta

ingravidàd.

Passà i neuv mesi… la panza de la bèstia l'éra ingrusìda de

stciupà... se sént un gran frecàs, l'àsen ól trà una slòfa

treménda e con quèla salta feura ól vilàn spusénto.

Commento di un ascoltatore del fabulazzo.

"Ohi che bela natività!"

"Cito ti!"

In de quèl, vègn óltra un tempuràl dilùvi e giò acqua revèrsa

al fiòl de l'asino... e peu gràndina e torménta e fùlmeni e tüti

sul curpasón del vilàn, parchè ól se faga de sübit cosiénza de

la vita che ghe se presénta.

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'Na volta che l'è ben netàd, 'riva giò l'àngel dol Signùr, ól

ciàma l'òno e ól ghe dise:

"Par ordine del Segnùr, ti, da 'sto moménto, ti serà patrón e

majór, e lü, vilàn minór. Mo' est stabilìcto et scripto che 'sto

vilàn débia aver par victo pan de crusca con la scigóla cruda,

faxòj, fava alèsa e spüda. C'ól débia dormìr sòra a un pajón

che d'ól so' stato as faga ben rasón. Da po' che lü l'è nato

snudo déighe un tòco de canovàzo crudo… de quèi c'as

dòpra a insacàr saràche, parchè ól se faga un bel par de

brache. Brache spacà in d'ól mèzo e dislasà, che n'ól débia

perd trop témp in d'ól pisà.".

Par inségna d'ól so’ casàt zentìl

mètighe in spala vanga e badìl.

Fal'andà intórna sémper a pié biòt

che tanto niùn ól te dirà nagòt .

De zenàro daghe un furcùn in spala

e càscialo a remundà la stala.

De febràro fa' che ól süda nei campi a frànger i zòl

ma no' fat pena se ól gh'ha i fiàch al col,

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se ól 'gnirà impiegnìd de piàghi e cal,

agh n'avràn vantàg i to’ cavàl

liberàt di móschi e di tafàn

che tüti 'gniràn a stà de casa d'ól vilàn.

Pònighe 'na gabèla sü òmnia ròba ól faga,

métighe 'na gabèla infina a quèl che caga.

De carnovàl làselo pur balàr

e pur cantar che ól s'àbia de ‘legràr,

ma pòch, che no' s' débia smentegàre

co l'è a 'sto mundo par fatigàre.

Anco de marzo falo andar descàlzo.

Faghe podàr la vigna

c'ól se cati la tigna.

Del mese d'avrìle

c'ól stia in d'el ovìl

co' e pégore a dormìr,

dormire desvegiàto

che ól luvo el s'è afamàto.

Se l'afamàto luvo vòl tórse qualche arménto

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02/10/2012 191

as' tolga ól vilàn pure, che mè no' mé lamento.

Mandalo a ranzàr l'erba

de màjo con le viole

ma varda che no' se perda

coréndo le bele fiòle.

Le bele fiòle sane,

n'importa se vilàne,

fale balàr distese

con ti, par tüto ól mese.

Das po' che at 'gnirà noiosa

dàghela al vilàn in sposa,

in sposa già impregnìda

che no 'l débia far fadìga.

De zugno a tòr scirése fàit che ól vilàn vaghi,

su i àrbori de brügne, de pèschi e de mügnàghi,

ma innànz, parchè no' débia sbafàrse le plú bèle

faghe magnàr la crusca che 'agh stòpi le budèle.

De lùlio e de l'agosto,

col caldo che at manda aròsto,

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per farghe pasàr la sét

daghe de bévar l'azét

e, s'ól biastéma d'inrabìt,

no' te casciàr de so' pecàt:

che ól vilàn sia bòn o malnàt

sémpr a l'inferno l'è destinàt.

D'ól mese de setémbre,

par farlo ben desténdre,

màndelo a vendemiàre

le üghe a torcinàre

e i graspi i rèsta a lü fali donàre

ma innànz fali ben schisciàre

che cont quèl vin de sguazza

no'l se pòda imbriagàre.

D'otüber bel, faghe mazà ól purscèl

e a lü par premio làsighe i büdèl

ma non lasàrghele proprio tüte,

che vién bòne par sacàr salsìze.

Al vilàn làseghe i sanguinàzi

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che i è venenùsi e intosigàzi.

I bòn parsüti stagni

làsighe a quei vilàni...

làsegheli da salare,

da po' fali menàre a la casa de ti,

che ól sarà un gran bel magnàre.

De novémbre e ancor dezémbre

c'ól fredo no'l débia oféndre,

par farlo descaldàre

màndelo a caminàre,

màndelo a tajàr legna

e fa' che spèso végna,

ch'ól végna carigàdo

che no' l 'gnirà infregiàdo,

e quando as prèsa al fògu

càsalo in altro lògu,

càsalo föra de l'üss

che ól fògo ól rimbambìs.

Se feura ól pióv de spèsa

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digh' che vaga a mèsa,

in gésa l'è riparà

e ól podrà anca pregà...

pregà per pasatémp

che tanto ghe végn niént,

che tant no' gh'n'avrà salvamént,

che l'ànema no' ghe l'ha

e ól Deo nól pòl scultà.

E com podrìa avègh l'ànema 'sto vilàn bèch

se l'è 'gnì feura d'un àseno cun t'un pèt?

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TRADUZIONE

In quel momento, guarda tu l’occasione, passa di lì un asino

che va intorno bighellone (bighellonando) e al Padreterno

viene un’ispirazione, gli è fulminata un'idea… che per

quello, lui è un vulcano!, leva una mano sopra quel

corpaccione e trak!, all’asino gli si gonfia la pancia da

scoppio (scoppiare). In poche parole, per parlare chiaro,

resta ingravidato.

Passati i nove mesi… la pancia - il ventre della bestia si era

ingrossato da scoppiare... si sente un gran fracasso, l'asino

tira una scoreggia tremenda e con quella, salta fuori il

villano puzzolente.

Commento di un ascoltatore del fabulazzo.

"Oh che bella natività!"

"Zitto tu!"

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In quel (mentre) viene avanti (esplode) un temporale -

diluvio e giú acqua a rovescio sul figlio dell'asino… e poi

grandine e tormenta e fulmini e tutti sul corpaccione del

villano, perché si faccia da subito coscienza della vita che

gli si presenta. Una volta che è ben nettato (pulito), ecco che

arriva giú (scende) l'angelo del Signore, chiama l'uomo e gli

dice:

"Per ordine del Signore,

tu, da ‘sto momento,

sarai padrone e maggiore

e lui, villano minore.

Ora è stabilito e scritto

che ‘sto villano debba aver per vitto pane di crusca con la

cipolla a ufo (a volontà),

fagioli, fava lessa e sputo.

Che debba dormire sopra un paglione (pagliericcio) ché del

suo stato si faccia ben ragione.

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Dal momento che lui è nato nudo, dategli un pezzo di

canovaccio crudo… di quelli che si adoperano per insaccare

saracche, perché si faccia un bel paio di bracche (braghe).

Braghe spaccate in mezzo a patta slacciata,

che non debba perdere troppo tempo per ogni pisciata!"

Come insegna del suo casato gentile

mettigli in spalla vanga e badile.

Fallo andare intorno scalzo come un capretto

che tanto nessuno ne avrà dispetto.

Di gennaio dagli un forcone in spalla

e caccialo a ripulire (rimondare) la stalla.

Di febbraio fai che sudi nei campi a franger terra con le

zappe

ma non darti pena se avrà la schiena a fiacche

se verrà pieno (che si riempirà) di piaghe e calli,

ne avran vantaggio i tuoi cavalli

liberati dalle mosche e dai tafani

che tutti verranno (andranno) a star di casa dai villani.

Ponigli una gabella (tassa) secca sulla paga

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mettigli una gabella persino su quel che caga.

Di carnevale lascialo pur ballare

e pur cantare che s'abbia da allegrare (così che si possa

rallegrare)

ma poco, che non si debba scordare

che è a 'sto mondo per faticare.

Anche di marzo fallo andare scalzo.

Fagli potare la vigna,

che si prenda la tigna.

Nel mese di aprile

che stia all'ovile

con le pecore a dormire,

dormire svegliato (sveglio)

ché il lupo è affamato!

Se l'affamato lupo vuol prendersi qualche armento,

si prenda pure il villano, che io, non mi lamento.

Mandalo a tagliar l'erba

di maggio con le viole,

ma guarda che non si perda (distragga)

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rincorrendo le figliole.

Le belle figliole sane,

non importa se villane,

falle ballar distese con te

per tutto il mese.

Dipoi che ti verrà noiosa (a noia)

dalla al villano in sposa,

in sposa con la pancia ben gonfiata (gravida)

così che la trovi già impregnata.

Di giugno s’arrampichi sui rami lesto

E di ogni frutto ne colga un gran cesto

ciliegie grosse, prugne e pesche toste

ma prima, perché non debba sbaffarsi le più belle

fagli mangiar la crusca che gli stoppi le budelle.

Di luglio e d'agosto,

col caldo che ti manda arrosto,

perché non schiatti assetato

fagli bere acqua e aceto ben salato

e, se bestemmia d’arrabbiato,

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non ti dar pena (preoccupare) del suo peccato:

che il villano sia buono o malnato (cattivo)

sempre all'inferno è destinato.

Nel mese di settembre

per farlo ben distendere,

mandalo a vendemmiare

le uve a premere torchiate

e le sbobbe (scarti) che restan

saranno a lui donate

innanzi anche quei resti falli macerare

affinché con quell’intruglio a sguazzo non si possa

ubriacare.

D'ottobre bello, non gli far scordare di scannare vivo il tuo

maiale

e a lui per premio lasciagli le trippe

ma non lasciargliele proprio tutte, che vengono buone

(possono servire) per insaccare salsicce.

Al villano lasciagli il sangue del porcel sgozzato

che è velenoso e intossicato.

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I prosciutti grassi e lisci

ali villan è meglio che lasci

lasciaglieli da salare,

ma una volta stagionati

al tuo desco falli portare

che sarà un gran bel mangiare!

Di novembre , così come in dicembre

perché il freddo non lo debba offendere,

per farlo riscaldare

mandalo a camminare,

i ciocchi mandalo a tagliare

e fa' che debba poi tornare

che torni caricato

caricato come un mulo addirittura

che così non si catterà (prenderà) l’infreddatura.

E quando si avvicina al fuoco

caccialo in un altro loco,

caccialo fuori dall'uscio

ché il calor lo rimbambisce.

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Se fuori l’acqua vien giù spessa

digli che vada a messa,

in chiesa è riparato

e potrà pregare e cantar beato

Pregare senza passion ne carità

ché tanto nessun salvamento n’avrà

lui, l’anima non ce l’ha

e Dio ascoltar non lo potrà.

E come potrebbe avere l'anima ‘sto villan malnato

‘sto disumano mulo

che non da una femmina è sortito

ma da un ciuco

anzi

con una scoreggia dal suo culo!

(I EDIZIONE Einaudi-Commento al brano: Voglio

velocemente soffermarmi su un particolare: la storia

dell’anima. Dice Matazone: “Tu, villano, non puoi avere

un’anima in quanto sei stato partorito da un asino”. Ebbene,

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02/10/2012 203

è quasi un consiglio ad accettare questa condizione, a non

accettare l’anima: poiché l’anima costituisce il pretesto per il

più grosso ricatto che si possa fare. È quanto sostiene

Bonvesin de la Riva nel Rispetto tra l’anima e il corpo:

“Ringrazia Dio, anima, di non avere il sedere, perché te lo

riempirei di pedate: tu sei il mio piombo, io non posso volare

perché mi pesi addosso”. Perché, questo rifiuto dell’anima?

Perché è il più grosso ricatto cui il padrone possa ricorrere

contro di noi. Nel momento della disperazione uno potrebbe

anche dire: “Ma che me ne frega, un minimo di dignità, io la

coltellata gliela do a questo padrone bastardo!” E allora il

padrone, o il padrone attraverso il prete: “No! Ferma! Ti

vuoi rovinare? Hai sofferto tutta la vita e adesso che hai la

possibilità, tra poco crepi, di andare in paradiso, perché Gesù

Cristo te l’ha detto, tu sei l’ultimo degli uomini e avrai il

regno dei cieli... Ebbene, vuoi rovinare tutto? Calmati, stai

tranquillo, non ribellarti!... e aspetta dopo. Io sì, perdio, sono

rovinato! Io sono il padrone, per la miseria! E cosa mi ha

detto Gesù Cristo? “Tu non entrerai mai nel regno dei cieli,

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02/10/2012 204

tu sei come il cammello (o meglio il cameo, che è la fune

delle navi), che non passerà mai attraverso la cruna di un

ago...” L’hai capita la fregatura? Per forza devo farmelo qui,

un piccolo paradiso. Ed è per questo che mi do da fare a

tenerti sotto, a schiacciarti, a derubarti: ti porto via anche

l’anima, certo! Io voglio il mio piccolo paradiso, piccolo ma

tutto per me, subito, per il tempo che sto al mondo. Beato te

che ce l’avrai tutto quanto, il paradiso! Dopo, è vero, ma per

l’eternità!...”)

EDIZIONE 2000

Sembra proprio di ritrovarci con certi imprenditori del nostro

tempo!

Andando in giro per l'Italia, ci capita continuamente di

incontrarci con realtà dia dir poco grottesche. Per esempio,

arrivati a Verona per uno spettacolo ci siamo ritrovati con il

teatro completamente decorato di striscioni e grandi

manifesti, che un centinaio di ragazze avevano appiccato su

ogni parete. Le scritte denunciavano la loro situazione in

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02/10/2012 205

fabbrica. Erano tutte in sciopero per protestare contro il

proprietario della tessitura che aveva imposto un orario

unico per i bisogni corporali delle lavoranti.

Cioè, una sentiva una impellenza fisica: “Scusi, posso?”

“No… e no!” Dovevano andare tutte al gabinetto alle 11,25:

driiiiin, e pipì. E chi non aveva in quel momento bisogno,

basta, il turno dopo:17,10.

Avevano minacciato di occupare la fabbrica pur di

conquistare il diritto di mescita ad orario libero.

Quella sera con il pubblico e le ragazze in sciopero abbiamo

scritto una canzone che poi abbiamo eseguito in “Ci ragiono

e canto” *

Se permettete ve la proponiamo.

SIGNOR PADRONE NON SI ARRABBI

Signor padrone non si arrabbi

ci sei stato l’altro ieri

tutti i giorni ci vuoi andare

mi vuoi proprio rovinare

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02/10/2012 206

la catena fai rallentare.

Signor padrone ci prometto

che da domani non ci vado

mangio solo roba in brodo

e farò solo pipì

la faccio qui!

Vai, ma sbrigati in tre minuti

come è scritto nel contratto

non si fuma ala gabinetto

né si legge l’Unità

c’è il periscopio che ti vedrà.

Sei secondi per arrivarci

sei secondi per spogliarti

tre secondi per sederti

viene il capo a sollecitarti

non ti resta che sbrigarti

tre secondi per alzarti

due secondi per vestirti

se hai fortuna puoi pulirti

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e corri subito a lavorar

a lavorar

a lavorar.

* “Ci ragiono e canto” spettacolo di canti popolari realizzato

da Dario Fo con la collaborazione del Nuovo Canzoniere

Italiano nel 1966:Teatro Odeon Milano.

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LA NASCITA DEL GIULLARE

PROLOGO

Questo è un testo ragusano, raccolto nel secolo scorso da un

amico e collaboratore di Pitré, il famoso ricercatore di

Palermo che ha pubblicato una mole incredibile di

documentazione sulla tradizione popolare della Sicilia. Più

tardi mi sono capitati per le mani frammenti di una giullarata

che svolgeva lo stesso tema, provenienti dal Nord d’Italia,

esattamente da Cremona. Ho innestato questi ultimi nel testo

ragusano e ne è venuta fuori la “conta”1 che vi presento.

Possiamo dire che si tratta di un testo quasi autobiografico di

un giullare che narra come ha scelto di montare “in banco”

per divertire e provocare il pubblico dei mercati. A inizio

arringa il giullare promette che con i suoi lazzi e le sue

trovate riuscirà a far scompisciare dalle risate a tal punto i

presenti, da provocare veri e propri miracoli: per il gran

ridere un gobbo si rizzerà all’istante, petto in fuori e schiena

piallata, una donna alla quale s’è arrestata la monta del latte

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vedrà le proprie zinne rigonfiarsi fino a spruzzare latte dai

capezzoli come una fontana. Il giullare ci appare

inarrestabile nel suo sproloquio quando, all’istante, cambia

tono e decide di raccontare di sé e delle sue origini: “Io ero

contadino, – comincia, – non avevo nessuna intenzione di

scegliermi questo mestiere. Non c’ero per niente tagliato”. E

qui ci svela un accadimento davvero incredibile: ci assicura

che chi l’ha convinto a scegliere il mestiere di buffone è

stato Cristo in persona. “Fare il contadino è davvero duro, –

ci assicura il giullare, – specie dovendo lavorare sotto

padroni in una terra che non ti appartiene. Lavorando

dall’alba a sera, sempre la prima acqua che si beve il terreno

è il mio sudore!” Ma un giorno, salendo un monte, scopre

quasi per caso un terreno incolto e roccioso che non

appartiene a nessuno. Aiutato dalla propria donna e dai figli,

stende sul greto nuova terra e trova l’acqua per irrigare. A

questo punto gli si presentano, uno dopo l’altro, un prete e

un notaio, forse avvocato... entrambi reclamano il possesso

di quel territorio sulla montagna a nome del possessore di

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tutta la vallata. Lui, deciso e sicuro, li scaccia tutti, ma alla

fine giunge il Signore che con maggior foga e prosopopea

pretende la restituzione della terra; il contadino resiste e gli

si oppone. Il Signore allora lo aggredisce facendolo

bastonare dai suoi scherani, quindi davanti ai suoi occhi,

violenta la sua donna che impazzisce e se ne va; gli brucia il

raccolto e la casa. Sconfitto e umiliato, il contadino decide di

impiccarsi all’ultima trave rimasta tesa fra i muri diroccati

dal fuoco, quando appaiono davanti al lui all’improvviso tre

accattoni macilenti che gli chiedono dell’acqua. Uno di loro

è Gesù che parla al contadino quasi aggredendolo. Gli tiene

una vera e propria lezione sulla condizione umana, gli parla

della giusta punizione che co glie tutti quelli che, come lui,

scelgono di muoversi da soli per non dover spartire le

proprie fortune e i vantaggi con i disperati della sua razza.

Per finire, gli insegna l’uso dei gesti e delle parole per

guadagnare la fiducia in sé e negli altri, come lui, sottomessi

e offesi.

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Ma quel discorso è meglio che lo ascoltiate direttamente e

per intero nel linguaggio originale.

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LA NASCITA DEL GIULLARE.

Ahh... gént... vegní chi che gh’è ’l giulàr! Giulàr, ca son mi

quèl... che fa i salt e ca ’l tràmbula de folía e che... (Esegue

una piroetta buffa) Oh... oh... a ve gh’ho fàit ríder! Vegnít

che ve fagarò scompisciàr… murír de ridàde quand ve farò

descovrìr i magiorént che i van intórna tronfi e gonfiàt ’me

balóni a far guère e a scanàr… ma basta stapàrli, tràrghe via

ol pirœ dal cül e... pff!!, se sgiónfia e i stciòpa ’me vesíghe!

Vegní chi… che l’è ora e lògo che mi faga ol pajàsso per

vui! Tütt intúrna a mi! Vegnít! V’insegni ’na manéra nòva

de sta’ al mondo. Vegní... vegní! Aténti ’me sgambèto

intorno a l’improvíso… ’na cantadína, e fo’ anca i falsèti a

saltabèch!

Vardé la méa léngua ’me la gira! Ah... ah... a l’è un mulinèl,

un cultèll... che tàja i garèti ai bosiàrdi impostór! Ma avànte

ve vòjo contàr in che manéra mi a son diventàt bufón che ol

fa scompisciàr la zénte da le rigolàde! Che mi no’ son nasüo

d’un fiàt tombàt dal ziélo, e, op!, son chi: “Bondí, bonasíra!”

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No! Mi, sensa vantàm, a son un miràcol vivént! No’ vursí

crédem?

Sí, a l’è vera, mi son nasüt contadín. Pròpri vilàn sapa-zòle.

A no’ gh’avéo tanto de sta alégro: no’ gh’avévi tèra. No’

gh’avéa nagòta!

L’ünega par podér campare l’éra mèterme sóta padrón:

stcéna cürva e fadíga da strasabràsci.

Duvít créderme… déme confiànsa!

No’ l’è nemànco capitàt par caso che a son saltàt sül banco a

fav fa ridàde a sganàscio… No, e nemànco l’è sucedüt che

méa matre, vardàndome bambín stravacào in la cüna che a

rideva a sganàsso, l’àbia ’sclamàt: “Ma che bèla facína

sempàtega... Alegrèsa te me fa!, spaiasolín ridente! Varda,

de grando te fago far el julàr!”

No! E nemànco l’è capitàt che me son ’speciàt, rimiràt

deréntro ol cül de üna padèla lüstra che la me faséva de

spècio, cossí che a vardàrme: “Ohi che ögi sbarluscénti de

’legrèssa che spantegalûz felíz d’ògni lógo! Son pròpri

sempàtego, spendído! Vago a far el giulàre!”

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E nemànco l’è capitàt che ol Deo Padre, ch’ol vègne sémper

a spia’ föra de le nívule... ch’ol gh’ha niénte de fare quèl…

’mirando ol so’ creato, beato ol vúsa: “Oh!, che bèla tèra che

gh’ho partorít! Oh!, bèi àlbari gh’ho metüo in pie! (Cambia

tono) E chi l’è quèlo? L’è un vilàn! Cun quèla fàcia!

Sempàtiga! “Ehi, cuntadín… zèta la vanga, mòla ’sta tèra e

va a fa’ el giulàr e no’ rompe’ i cojóni!”.

No, no, no’ l’è stàit lü! L’è sta’ ol so’ Fiól Jesus.

Un meràcolo!

No’ vàgo ciarlàndo, v’el ziúro! Un miracolo impròprio de lü:

Jesus Cristo en la persona. L’è lü co’ m’ha fàito devegnír

giulàr!

No’ me credét? Ol sàvie bén! Alóra el vo’ a mostràrve!

D’acòrde?

Ogne matína me valzàvo co a l’éra anc mò scüro… ol sol

no’ éra ’mò incresúo e mi andava scurvà co’ sapa e picón a

spacàre zòle: ol me sudór a l’éra la préma acqua co’ la tèra la

bivéa.

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A la sira stornào a la casa imbriàgo... straco morto, co’ i ögi

sbiancàt de lûz e nemànco la vója de ziogàr co’ i me’ fiolít…

far ziòghi d’amore co’ la mia puta de mi… mojér de mi…

me slungàvo strafugnà stordít in sü el lèto... un paiún... e

m’endormío. No che no’ mi indormentívo! Desvegnívo! E in

la nòte deréntro al me sòno no’ gh’éra insognamento.

Chicchirichí!

Maledícto! De nòvo a fatigàre!

Ma un ziórno tornào del campo ’travèrso la rivéra del rio en

zérca de quarche granco… me so’ sperdúo camíno e, de

bòta, me son truvà devànti a üna montagna negra che no’

cognosévo.

Tremenda, alta!

E gh’hoi domandado a ün careté ca ol pasàva de lí: –

Compagnón, de chi l’è èsta montagna smargiàsa co la se risa

a l’improvísa?

– De nisciün.

– Ma coma ol po’ vès ca l’è de nisciün ’sto monte gigante?!

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– La val negóta. L’è piéra negra rutàda da un vulcàgn. La

ciàmen: la cagàda del diàvulo!

– Ol ghe sarà vegnüo un gran mal de cül a ol diàvul nel

sbrofà da i ciàpp ’sta cagàda!

E mi sunt andài fin sü... ’rampegàndome gatóni sü un dòss e

raspàndo cüj ungi… ho descovèrto che gh’éra un fregüj de

tèra… lo usmàt: dulza, grasa! Sont ’ndài coréndo fin a casa

da la méa fumna, la fèmena de mi. La gh’ho ciamàda in

quartiér criàndo de ’legrèssa… l’ha brancàt sapa e sègia e

m’è vegnüda après co’ i fiulín.

Zónti sül dosso, sensa nemànco catàr fiàt, avémo comenzàt a

sapàr da partüto cavàndo quèl poch de tèra e po’ sèm

desendüi giò a la riviéra del fiüm a catàr sidelàde de terén.

Sémo andàit anco al simitério, sémo andàiti a robàr tèra ai

morti! Bèla la tèra de le tombe vègie! Grassa! E se montàva

càrighi de sidèli e se spantegàva ’sto terén letamóso: ziórno

pe’ ziórno, se improntàveno gradóni… ’na scalenàda de

gradóni!

Tüti a lavorar, con anco i fiülí.

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Contenti!

E la mojér de mi, bèla, bianca… la andava co’ ’sti paniér

pién de tèra in sü la testa. Un mòverse a diríto ’me ’na reìna!

Ögi luzénti, le zinne tunde e sode… co’ quando avanzava

coréndo, i susultàveno apéna ’me fructi par ol vénto. Oh... se

l’è bèla! Dolze amore meo! Dolze amor de mi!

E la cantava! La cantava tanto bén che la so’ vóse drita in tèl

zervèl t’arivàva!

Ziórno per ziórno, lüne de lüne, sèm ’rivàti a montàr tanti

gradón ch’ol paréa la Tore de Babele!

Ma no’ gh’éra l’acqua…

Co’ le piche de fèro se faséva bögi de sonda ma no’ sortíva

’na spüdàda. Ghe tocàva desénder fino al fiüm, deséndere e

rimontàr, tüti, mojér e fiulít, con sègi e sègi, ma sémper sèca

la turnàva: bivéva ’sta tèra ’me se de sóta ghe fóse un drago

asetàt!

Un ziórno sunt ’ndàit cul picún in spala insíma a ’sta

montagna biastemàndo: “Deo maledícto!” e pién de ràbia ho

picàt ’na bòta a zancàda con fòrsa in de la piéra: pium! La

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piéra s’è spacàda e svuooom!, sccihuum!, è sortío ’na gran

sbrofàda d’acqua che m’ha inundà.

– Oh Segnór… gràssia! Besógna propri blasfemàrte par farte

fa i miràculi, Deo santo!

Fotón d’acqua che sbotàva da partüto... e gorgojàndo

spantegàveno ziò per la scarpàda inondàndo a inquitrinà

ògni terén!

La mojér de mi a l’è stciopàda en lacrime co’ un pianto de

ziòia e i fiülín empaltàt i sguasàva ’me pèssi in frégula!

– Gràsia! Gràsia Deo!

Un parfüm dólze se spantegàva da par tüto… e l’erba che de

sübito sortíva! Gh’ho piantà una semente de segale, n’ho

gh’ho fàito a témp a vultàrme che tack!, un bütón de föietíne

spuntava!

O l’éra tèra d’oro!

Una sira me son desmentegàdo la sapa impiantàda en tèl

terén: ol ziórno aprèso son tornào, l’éra fiurída! La sapa

fiurída!

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Da i àrbori sbutàva fructi… üsèi co i vegníva a farse ol

nido… parfümi… ol grano, el fromento… Oh! Che folía!

Gh’avévi ol terór de desvegiàrme de un sógn.

Son ’ndàit de cóntra al ziél rosàdo, col sol che l’éra rénta a

calare drio i monti e ho dit: – Deo! Ol cognóssi bén… ol so

da sémper che te sèt deréntro ol sol anca in ’sto momento e

te rengràsio del dono grando che ti m’è fàito co’ ’sto

meràcolo! Te ghe sarò reconosénte… a costo de südàr

sangu, te la fagarò vegníre un paradís terèstre ’sta tèra.

Amen!

I pasàva i me’ cumpàgn contadín e i diséva: – Che cül che te

ghe aüt! Da ’na muntàgna sèca, t’hàit tirà föra el giardín de

un pascià! – E invidia i gh’avéa.

Sunt lí in tèl campo, svòlto la testa e te scòrzo sul so’ cavàlo

el padrún de tüta la vale che ol me punta. Ol ziràva i ögi

intórna e ol me vardàva… e pœ ol sbòta a dirme: – Chi che

l’ha tràito in pie ’sto miracolamento? Chi è che l’ha fàita

sbotà en fiore ’sta tèra?

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– Mè, segnór! Mè, a l’ho fàita… zòla sü zòla gh’ho portàt…

gh’ho montàt gradóni… Mè! Anco l’acqua che no’ gh’éra...

mè la gh’ho fata spüdàr föra a sapàde! Méa è ’sta muntàgna

che l’éra de nisciün!

– Roba de nisciün l’è üna manéra de dire che no’ exíste

miga. Chi-lòga, se no’ ti sa, par tüta la vale, anco fiüm, tèra,

piére, tüto… ol gh’ha ün padrón. E mi son quèl! Padrón anca

de l’àire che te respiri.

– Ma gh’ho domandào intorno... ’sto monte el ciàmeno la

cagàda del diavolo impròprio per dir che nisciün l’ha gimài

vorsüda. Nemànco vui patrón.

– Pòle darse... un témp… ma adèso gh’hàit ripensàt: l’è méa!

Ol s’è fàito ’na ridàda e via, gh’ha dàito de spròn al cavalón

e l’è disparüt!

Qualche ziórno aprèso ’l vedo in fonda el prévete, ch’ol

végn abijàt tüto in nério, ol südàva e col fasülèt se sgrusàva

ol sudór che ol colava da la fronte ziú fino al còlo… e già de

luntàn me vosàva (in grammelot imitando il latino): –

Cuntadín, vilàn caro, in pax tòa végno a dessòlvere tòa

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spudénzia et presonzión de penzàr che ti pòda poxedére

pruoprietà de un teretòrio. Nullo ex libero de posexiònem et

ogne palmo de tèra habe una sòja pruoprietàt che illo Papa e

l’Emperadór han comcèxo a èsto mazzorénte üneco e ti fiól

meo debbi zéder en santa pax domine!

Come l’è stàit aprèso, gh’ho dàit ’na sapàda che per poch

no’ lo gh’ho inciudà, lü insémbia al so’ àseno che ol

montava! Mai vedüda ’na ziravòlta cossí de fulmine:

molàndo zachignàde co’i talón sü le bale del ciúcio, l’andava

saltelón blasfemàndo d’üna manéra che me son fàito el

segno de la cróse!

Do’ ziórni che vègne a près, ’riva sü ol nodàro co’ ’na bèla

müla gròsa, con un gran cül… lü, ol nodàro con un cülón

anca lü, che quando l’è desendüo da la sèla no’ se capiva se

l’éra desendúo ol cül de lü o quèl de la müla!

O l’ha srotolào ’na pergamena lònga e scüra tempestàda de

segn, sbirolízzighi svirgulamént e cróse e l’ha dit sanza fiàt,

spüdàndo paròli ’me ’na letanía: – Meo caro amígo, sàvio

bén e te dago fiéra rasón del facto che per ol volgo l’éra

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sconosiüda alcuna possessión de ’sto monte, ma dàndoghe

ün’ügiàda a ’ste carte de pergamena antíga, se descòvre

ciàro che ’sto lògo terén o l’éra posesión del rèi Boésio prim,

che gh’avéa donàt ol teritòrio metà, al de chi d’ol fiüm, a

una sòa enamorósa… ’na santa mònegha, e l’ólter fondo a

un fiól bastardo, el so’ plü amato tra tüti i bastardi che ol

tegníva. Ma l’è capitàt in quèl témp che ol fiüm par una gran

tempesta ol stravacàss föra de i árgen e ol s’è redopiàt in dòi

rivi: metà da un canto, metà da l’óltro, lasàndo in mèso

un’isola con soravía un monte negro. Per ’sta resón, par

secoli ol monte no’ l’è risultàt de nisciün. Ma adèso ol nòster

segnór e padrón l’ha descovèrto ol facto de la straripàda del

fiüme e ol pretende justament de ricatàrse la posessión de

’sta deabòlega cagàda!

No’ l’avea nemànco reciapàt fiàt ol nodàro che gh’ho molàt

’na gran bòta, ’na cagnàda sü i ciàp che l’è scapà via al

galòpo, lü e la sòa müla!

– De ’ste brase ès ’sta tèra! No che no’ la mòlo a nisciúno!

Ma èco che ün dí respúnta ol padrón coi so’ sbiri.

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Nünch érum in dei campi a trabajàr co’ i fiulít, la mia

mojér… e i soldàt de lü m’han catà, slargà le brase e m’han

tegnüo fermo. Ol padrón ol s’è calàit i braghi, u l’ha ciapàt

la mia mojér de mi e l’ha sbatüda par tèra: ol gh’ha strasciàt

i sòchi… slargàe le giàmbe, ol gh’è saltàt de sóra, u l’ha

fàita come fudèss ’na mansa. E tüti i suldàt i rideva.

I fiolít me vardàva coi ögi sbaràt… sbiadít. I vardàva la

madre… i vardàva mi.

E mi davo gran scosón… me sunt liberàt, ho catàit ’na sapa,

hu vusà: – Disgrassià! Ciàpa!

– Fermo fiól! Fermo! – m’ha criàt la mojér de mi. – No’

darghe ul pritèsto de ’copàrte. No’ i spècia óltro. Ti ziústo ti

pénsi de crepàr pitòsto de spatasciàr el to’ onor... ma ti no’ ti

gh’ha onor. Onor ghe l’hano soiaménte chi roba tégne,

denàr, tère! Noiàltri sbiòti de tüto no’ gh’avémo onor!

Nostro onor è la tèra! Salva la tèra, tégna la tèra e spüdaghe

sóra a ’sto onor!

E mi de bòto ho franàt de ogne volontà… ho molàt la sapa

par tèra.

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I soldàt sghignàva de frecàso: – Bèch, cojón sensa dignitàd!

Gh’han muntàt la fémena e lü ol sta lí inciulinàt ’me un

lifròch!

Ol segnór l’è montàito a cavàl e drio a lü, se encaminàva i

so’ sbíri.

– Adèso te la pòl pur tegníre la tòa tèra. Te me la gh’hàit bén

pagàda! – E rigulàva.

Andando inànz cumpàgn de ün fròk de cavre sbandàt, sémo

tornài a la casa.

La mojér l’andava avanti, in testa a tüti. No’ vardava

nisciün.

I fiól no’ me vardàva.

Mi no’ vardavi.

Nisciün se vardàva.

Quando po’ la mia mojér l’è desendüda in paés per fa’ scorta

de maserizie, la gént al so’ pasàg se scansàva. Nusciün che

ghe diséa bòn dí… cumpàgn che nusciün la vedèse.

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Pasàda qualche note la mia mojér, criàndo, l’è fuíta curéndo

in sü par la muntàgna… la montava feséndo ridàde…

sbatéva i man, cantava a perdifiàt co’ paròli de svergognàda.

Mata éra.

– Ferma! Férmate amor méo dólze! Torna indrío col

zervèlo… a mi no’ me empòrta… sémper ol méo amor te sèt

par mè!

No’ me dava tra. L’è desparüda. No’ la gh’ho plü gimài

vedüa.

I fiól no’ diséan parole, no’ ziogàva, no’ i ridéa, no’

piagnéva.

Ziórno per ziórno smagríveno: morti!

Vün par vün, morti son!

Soléngo sont restàit… ünego cristiàn sü ’sta tèra brüsàda…

per la resón che i suldàt gh’avéano dàito fògo a la casa e al

bósch.

Imbesüit no’ savéa còssa che fare. ’Na sira ho catàt un tòco

de corda, l’ho lanzàda sü ’na trave, l’ünega restàda sana tra i

müri fumigàt… hu fàito un grópo, mè ’l son sistemào

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intorno al còlo e ho dit: – Deo che anco in de lo scüro de la

note te varde i òmeni ’traverso i mila sbarlüsci de le stèle…

par qual ziògo malerbèto, Segnór ti m’è dàito ’sto dón de la

tèra e de l’aqua carigàndome de sperànsia… per pœ, aprèso,

stravacàrme in la merda de desperasiün?! Ti te dovéa mè dir

che o l’éra per segnàrme col fèro ruventàd e darme testamén

ciàro che chi coménsa da vilàn poarèto, sémper uguàl dovéa

restàr… no’ farse sperànse né ’sognamenti de presonsión!

Segnor, te digo che a l’è stàito gran sbefezzamento cruèl èsto

de farme provare chi-lò, in tèra ol paradiso, per despò

rebutàrme cont ün spernàch zó, a l’enfèrno, sinza pità!

E alóra te vòjo dir che ’sta vida de merda co a te me dàio, mi

te la retórno in drio! Tégnetela ’sta vida!

Ol fago per slanzàrme empicàdo, u me sénti pugià ’na

manàda chi in sü’ la spala, me volto e gh’è un zióvin co’ i

cavèli lònghi… strepenà… la fàcia smorta… i ögi grandi,

dólzi e tristi che ol me dise: – A podría avérghe un poco

d’àqua de bévar che gh’ho sete?

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– Ma te par el momento de vegnír a domandàr da bévar a ün

che a l’è drio a impicàrse? Ma dua a l’è la creànsa?

Ghe do ’n’ügiàda… ol gh’avéa ’na fàcia de pòer crist anca

lü. Daprèso a quèlo ghe n’è àlter dòi desperà: vüno co’ i

cavèli e la gran barba bianca e l’óltro sansa barba… màgher

e smòrti che i paréa lavàt in de la calcína… co’ la fàcia

patída.

– A gh’èt altro besógn che de bévar voàltri! De magnàre ghe

vòl! (Fa il gesto di togliersi il cappio dal collo) Bòn, ve do

un quaicòs de magnàre e pœ me impíco!

Vago… zérco sóta un arcón restàito in pie: fave soiaménte

gh’ho trovàit e dòi sigóje. Le gh’ho còte bolíte. Gh’ho

impiegnít tre baslòtti e ghi ho metüt in di man. I magnàva

con la golosía de afamàt. Das pœ che han magnào, quèlo

zióvin de figüra svèlta e co’ i ögi grandi, soriéndo me dise: –

Gràsie de ’sta minestra calda! A ti, te vègne in mente chi

pòsa èser mi?

Al vardo bén: – Me parèse che ti… squàsi… te sièt el Jesus

Cristo!

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– Bòn! Ti gh’hai indovinào! Èsto l’è Paolo e l’oltro l’è

Petro.

(China il capo in segno di saluto) – Piazére! E còssa che

pòdo far anco’ per vui?

– L’è basta de quèl che te ghe dàito col magnàre. Mi te

cognósso a ti vilàn, mi sae còssa te gh’ha capitàt… còssa te

fàit te… a cugnósi la fadíga che t’è custàda pe’ tiràr in pie

’sta tèra, far fiorir ’sta muntàgna sbrofàda föra da le ciàpe

d’ol diàvul. Al so del sudór dei tòi fiói e de la tòa mojér… e

della violénsia del segnór meno sü la tòa dòna. Tüto par

l’orgójo de no’ molàr ’sta tèra! Bòn de fòrsa, coràjo… bravo

òm ti gh’ha demostràt de vès! Ma l’è ziústo che te séa fornít

cossí… a ’sta manéra.

(Tono risentito del contadino) – Par che rasón Cristo?!

– Parchè te l’è tegnüda tüta soiaménte par ti la tèra e no’

l’hàit spartída co’ i altri vilàn, strepenàt ’me ti!

– Ma te díset cus’è?! Spartír co’ i óltri un fasolèto de tèra

che nu’ l’éra nemànco a basta par mi e per la méa zént?!

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– Fa no’ el piagnún… a pudévan vegní chi a campà tanti

ólter disperàt ’me ti! Dime vilàn… ti te sèt andàito intorno

per casali… le case de’ paión a ’contare la tòa storia? Te

gh’ha cercàt de tirài derénter la tòa vida? No? Bòn, mo’ at

dévet far en manéra che i ólter se caréghen lor mèsmi de

quèl che t’è capitàt… at dévet dírghe de ol padrón… de la

bastardàda co l’ha fàito co’ la tòa dòna, e avànte del prévete

e del nodàro! E po’ ’scolta quèl che te conta lori. E sóvra

ógne còssa no’ racontàr de piagnón ma co’ ’na rigolàr-

sghignasón… Aprénde a rigolàr! A trasbotà anco el terór in

ridàda… Rebaltàr col cül per aria i furbación che i çérca de

incastràrve-ciulàrve co’ i paroli… co’ le gran ciciaràde!... E

fa che tüti sbròfa in gran sghegnàz… che rigolàndo ògni

pagüra se desléngua!

– Ma mi no’ sàbie, no’ sàbie dir parole roversàde… no’ so

farghe el controcanto de bufón… e nemànco filastròche a

torción sbefàrdo che la léngua me se intorpéga deréntro i

dénci… col çervèlo che tégno inciuchído dal sol e da la

fatíga!

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– Te gh’hàit rasón. Ghe vòl el meràcolo!

M’ha catàt par la crapa… ul m’ha tiràt visín a la sòa fàcia e

ol m’ha dit: – Mi, Jesus Cristo, de ’sto momento te do un

baso sü la bóca e ti senterét la tòa léngua frolàr a tirabusción

e pœ devegníre còmo un coltèlo che pónta e tàja…

smovéndo parole e sfrasegàr ciàri còmo un Evanzélo. E pœ

córe in la piàsa! Ziulàre ot sarai! Ol padrón sbragherà,

soldàit, préveti, nodàri i sbiancheràn scoprendóse desbiòti

’me vèrmeni!

E cossí ol m’ha catàit la testa, m’ha portàit i labri sòi dólzi ai

me’ et m’ha basàdo. Me arivàt un gran tremór de fògo süi

lavri… la méa léngua l’ha me gh’ha comenzàt a trilurà a

torcejón ’me ’na bissa. Parole nòve slisigàveno rotolando in

de la méa crapa. Ogne penzér me se revoltolàva… ògni idea

me sortéva capovolzüda.

Son corsüt a perdefiàt ziò in borgo, son saltà süi gradón del

batistério e ho gridàt: – Ehi! Zénte! El giulàr son mi! Vegní

chi, fàite ’tensión… ’sculté! A ve mostrerò ’me se

trasfórmeno i paròli in lame tajénti che i stronca d’un bòto i

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garèti dei impostori infami... e altre parole che divégne

tambüri per desvegiàre çervèli dormiénti! Venít! Venít

zénte! Venít!

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TRADUZIONE

Ahh... gente... venite qui che c’è il giullare! Giullare, che

sono io quello... che fa salti e che straparla folle e che...

(Esegue una piroetta buffa) Oh... oh... vi ho fatto ridere!

Venite che vi farò scompisciare… morire dalle risate quando

farò scoprire i maggiorenti che vanno intorno tronfi e

gonfiati come palloni a far guerre e a scannare... ma basta

stapparli, cavargli fuori il tappo dal culo e... pff!!, si

sgonfiano e scoppiano come vesciche!

Venite qui… è il tempo e il luogo che io faccia il pagliaccio

per voi! Tutti intorno a me! Venite! V’insegno un modo

nuovo di stare al mondo. Venite... venite! Attenti che

sgambetti e lazzi v’improvviso… una cantatina, e faccio

pure i falsetti a saltabecco!

Guardate la mia lingua come gira! Ah... ah... è un mulinello,

un coltello… Vi mostrerò come si trasformano le parole in

lame taglienti che mozzano i garretti ai bugiardi impostori!

Ma avanti vi voglio raccontare di come mi sono ritrovato

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buffone che fa scompisciar la gente dalle risate! Che io non

sono nato da un fiato caduto dal cielo, e, op!, sono qui:

“Buondì, buonasera!” No! Io, senza vantarmi, sono miracolo

vivente! Non volete credermi?

Sì, è vero, io sono nato contadino. Proprio villano zappa-

zolle. Non avevo tanto da stare allegro: non avevo terra. Non

avevo niente!

L’unica per poter campare era mettermi sotto padrone:

schiena curva e fatica da spaccabraccia.

Dovete credermi… datemi ascolto!

Non è nemmeno per caso che son saltato sul banco a farvi

far sghignazzi... No, e nemmeno è successo che mia madre,

guardandomi bambino spaparanzato nella culla che ridevo a

sganascio, abbia esclamato: “Ma che bella faccina

simpatica... Allegria mi fai!, pagliacciolino ridente! Guarda,

da grande ti faccio fare il giullare!”

No! E nemmeno è capitato che mi sia rimirato dentro il culo

di una padella lustra che mi faceva da specchio, così che a

guardarmi: “Ohi, che occhi sbaraglianti di allegria che

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spargono luce felice da ogni luogo [felicità in ogni luogo]!

Sono proprio simpatico, splendente! Vado a fare il giullare!”

E nemmeno è capitato che Dio Padre, che viene sempre a

spiare fuori dalla nuvole... che non ha niente da fare

quello… rimirando il suo creato, beato gridi: “Oh!, che bella

terra che ho partorito! Oh!, che begli alberi ho messo in

piedi! (Cambia tono) E chi è quello? È un villano! Con

quella faccia! Simpatica! “Ehi, contadino… butta la vanga,

molla ’sta terra, vai a fare il giullare e non rompere i

coglioni!””.

No, no, non è stato lui! È stato suo Figlio Gesù.

Un miracolo!

Non vado ciarlando, ve lo giuro! Un miracolo proprio di lui:

Jesus Cristo in persona. È lui che mi ha trasformato in

giullare!

Non mi credete? Lo vedo bene! Allora ve lo vado a

mostrare! D’accordo?

Ogni mattina mi alzavo che era scuro… il sole non era

ancora salito e io andavo curvo con zappa e piccone a

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spaccar zolle: il mio sudore era la prima acqua che la terra

beveva.

A sera tornavo a casa ubriaco... stanco morto, con gli occhi

sbiancati dalla luce e neanche la voglia di giocare con i miei

bambini... fare giochi d’amore con la ragazza mia… moglie

mia… mi allungavo stravolto sul letto… un pagliericcio... e

mi addormentavo. No che non mi addormentavo! Svenivo! E

nella notte nel mio sonno non c’erano sogni.

Chicchirichì!

Maledetto! Di nuovo a faticare!

Ma un giorno tornando dal campo attraverso la riva del

fiume in cerca di qualche granchio… ho perso il cammino e,

di botto, mi sono trovato davanti a una montagna nera che

non conoscevo.

Tremenda, alta!

E ho domandato a un carrettiere che passava di lì: –

Compare, di chi è questa montagna smargiassante che si

rizza all’improvviso?

– Di nessuno.

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– Ma come può essere di nessuno ’sto monte gigante?!

– Non vale niente. È pietra nera ruttata da un vulcano. La

chiamano: la cagata del diavolo!

– Gli sarà venuto un gran mal di culo al diavolo sbroffando

dalle chiappe ’sta cagata!

E io sono andato fin su... arrampicandomi gattoni su un

dosso e raspando con le unghie da una zanca fessata... ho

cavato una manciata di terra… l’ho annusata: dolce, grassa!

Sono sceso correndo fino a casa dalla mia femmina. L’ho

chiamata in corte [cortile] gridando di allegrezza... ha

brancato zappa e secchio e mi è venuta appresso con i

bambini.

Giunti sul dosso, senza nemanco prendere fiato, abbiamo

cominciato a zappare dappertutto cavando quel poco di terra

e poi siamo scesi alla riva del fiume a raccogliere meno

secchiate di terreno. Siamo andati anche al cimitero, siamo

andati a rubare terra ai morti! Bella la terra delle tombe

vecchie! Grassa! E si montava carichi di secchi e si spargeva

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’sto terreno letamoso: giorno dopo giorno, si tiravano su

gradoni… una scalinata di gradoni!

Tutti a lavorare, anche i bambini.

Contenti!

E mia moglie, bella, bianca… andava reggendo panieri di

terra in capo. Un muoversi a dritto come da regina! Occhi

lucenti, le zinne tonde e sode… che quando avanzava

correndo, sussultavano appena come frutti per il vento. Oh...

se è bella! Dolce amore mio!

E cantava! Cantava tanto bene che la sua voce dritta nel

cervello ti arrivava!

Giorno dopo giorno, luna dopo luna, siamo arrivati a

montare tanti gradoni che pareva la Torre di Babele!

Ma non c’era l’acqua...

Con le picche di ferro si facevano buchi per sondare ma non

sortiva uno sputo. Ci toccava discendere fino al fiume,

scendere e rimontare, tutti, moglie e figli, con secchi e

secchi, ma sempre asciutta tornava: beveva ’sta terra come

sotto ci fosse un drago assetato!

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Un giorno sono andato col piccone in spalla in cima a ’sta

montagna bestemmiando: “Dio maledetto!” e pieno di rabbia

ho picchiato una botta a zappata con forza là nella pietra:

pium! La pietra si è spaccata e svuooom!, sccihuum!, è

sortita una gran sbroffata d’acqua che mi ha inondato.

– Oh Signore… grazie! Bisogna proprio bestemmiarti per

farti fare i miracoli, Dio santo!

Getti d’acqua che sbottavano dappertutto... e gorgogliando

scendevano per la scarpata inondando ogni terreno!

Mia moglie è scoppiata in lacrime con un pianto di gioia e i

bambini infangati sguazzavano come pesci in fregola!

– Grazie! Grazie Dio!

Un profumo dolce si spargeva dappertutto... e l’erba che

subito sortiva! Ho piantato un seme di segale, non ho fatto in

tempo a voltarmi che tack!, un butto di fogliettine spuntava!

Terra d’oro era!

Una sera mi sono dimenticato la zappa piantata nel terreno:

il giorno appresso sono tornato, era fiorita: la zappa fiorita!

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Dagli alberi sbottavano frutti… uccelli che venivano a farsi

il nido… profumi… il grano, il frumento... Oh! Che follia!

Avevo il terrore di risvegliarmi da un sogno

Sono andato incontro al cielo rosato, col sole che stava

calando dietro ai monti e ho detto: – Dio! Lo so bene… lo so

da sempre che dentro il sole te ne stai anche in questo

momento e ti ringrazio del dono grande che mi hai fatto con

’sto miracolo! Ti sarò riconoscente… a costo di sudare

sangue, te la farò diventare un paradiso terrestre ’sta terra.

Amen!

Passavano i miei compagni villani e dicevano: – Che culo

hai avuto! Da una montagna secca hai tirato fuori il giardino

di un pascià! – E invidia avevano.

Sono lì nel campo, volto la testa e ti scorgo sul suo cavallo il

padrone di tutta la valle che mi punta. Girava gli occhi

intorno e mi guardava… e poi sbotta a dirmi: – Chi ha messo

in piedi ’sto miracolo? Chi ha fatto sbottare in fiore ’sta

terra?

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– Io, signore! Io, l’ho fatta… zolla su zolla ho portato… ho

montato i gradoni... Io! Anche l’acqua che non c’era... io

l’ho fatta sputare fuori a zappate! Mia è ’sta montagna che

era di nes-

suno!

– Roba di nessuno è un detto che non esiste. Qui, se non lo

sai, per tutta la valle, anche il fiume, terra, pietre, tutto… ha

un padrone. E io sono quello! Padrone anche dell’aria che

respiri.

– Ma ho domandato intorno... ’sto monte lo chiamano la

cagata del diavolo proprio per dire che nessuno l’ha mai

voluto. Nemanco voi padrone.

– Può darsi... un tempo… ma adesso ci ho ripensato: è mia!

S’è fatto una risata e via, ha dato di sprone al cavallo ed è

sparito!

Qualche giorno appreso scorgo là in fondo il prete, che sale

la china abbigliato tutto di nero, sudava e col fazzoletto si

tergeva il sudore che colava dalla fronte giù fino al collo, e

già da lontano mi urlava (in grammelot imitando il latino): –

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Cuntadino, villano caro, in pax tòa végno a dessólvere tòa

spudénzia et presonzión de penzàr che ti pòda poxedére

pruoprietà de un teretòrio. Nullo ex libero de poxexiònem e

ogni palmo di terra abe una sòja pruoprietàt che illo Papa e

l’Emperadór han comcèxo a èsto mazzorénte unico e tu

figlio mio devi cedere en santa pax domine! Come mi è

arrivato vicino, gli ho dato una zappata che per poco non

l’ho inchiodato, lui con l’asino che montava! Mai vista una

giravolta tanto repentina: mollando pedate coi talloni sulle

palle del ciuccio, andava saltelloni bestemmiando in una

maniera che mi sono fatto il segno della croce!

Due giorni appresso, arriva su il notaio con una bella mula

grossa, con un gran culo... il notaio con un culone anche lui,

che quando è disceso dalla sella non si capiva se fosse sceso

il culo di lui o quello della mula!

Ha srotolato una pergamena lunga e scura tempestata di

segni, sghiribizzi e croci e ha detto senza prender fiato,

sputando parole come una litania: – Mio caro amico, lo so

bene e ti do fiera ragione del fatto che per il volgo era

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sconosciuta alcuna possessione di ’sto monte, ma dando

un’occhiata a ’ste carte di pergamena antica, si scopre

chiaramente che questo terreno era possessione del re

Boezio I, il quale aveva donato il territorio metà, al di qua

del fiume, a una sua amante… una santa monaca, e l’altro

lato a un figlio bastardo, il più amato tra tutti i bastardi suoi

che teneva. Ma è capitato in quel tempo che il fiume per una

gran tempesta straripasse dagli argini e si dividesse in due

corsi: metà da un canto [lato], metà dall’altro, lasciando in

mezzo un’isola con sopra un monte nero. Per questa ragione,

per secoli il monte non risultò di alcuno. Ma oggi il nostro

signore padrone ha scoperto l’accaduto della straripata del

fiume e pretende giustamente di tornare in possesso di

questa diabolica cagata!

Non aveva manco ripreso fiato il notaio che gli ho

ammollato una gran botta, una azzannata sulle chiappe, che è

partito al galoppo lui e la sua mula!

– Di queste braccia è la terra! Non la mollo a nessuno!

Ma ecco che un giorno riappare il padrone con i suoi sbirri.

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Noi si era nei campi a lavorare, con i bambini, mia moglie…

e i suoi soldati mi hanno afferrato, allargate le braccia e mi

hanno tenuto fermo. Il padrone si è calato le brache, ha preso

mia moglie e l’ha scaraventata a terra: le ha strappato le

sottane... allargate le gambe, gli è saltato sopra, l’ha montata

come fosse una manza. E tutti i soldati ridevano.

I bambini mi guardavano con occhi sbarrati... sbiaditi.

Guardavano la madre... guardavano me.

E io mi dibattevo… sono riuscito a liberarmi, ho afferrato

una zappa e ho urlato: – Disgraziato! Prendi!

– Fermo figlio! Fermo! – mi ha gridato mia moglie. – Non

dargli il pretesto di accopparti. Non aspettano altro. Tu

giustamente pensi di crepare piuttosto che inzozzare il tuo

onore... ma tu non hai onore. Onore l’hanno solamente quelli

che possiedono roba, denaro, terre! Noialtri nudi di tutto non

abbiamo onore! Nostro onore è la terra! Salva la terra, tieni

la terra e sputaci sopra a ’sto onore!

E io di colpo ho franato [ho perso] di ogni volontà… ho

mollato la zappa a terra.

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I soldati sghignazzavano con fracasso: – Becco, coglione

senza dignità! Gli hanno montato la femmina e lui sta lì

imbambolato come un allocco!

Il signore è montato a cavallo e dietro a lui si

incamminavano i suoi sbirri.

– Adesso te la puoi pure tenere la tua terra. Me l’hai ben

pagata! – E rideva.

Muovendoci come un gregge sbandato siamo tornati alla

casa.

La mia donna andava avanti, in testa a tutti. Non guardava

nessuno.

I figli non mi guardavano.

Io non guardavo.

Nessuno si guardava.

Quando poi mia moglie è discesa in paese per fare scorta di

masserizie, la gente al suo passaggio si scansava. Nessuno

che le dicesse buongiorno… come se nessuno la vedesse.

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Dopo qualche notte mia moglie, gridando, è fuggita

correndo su per la montagna... saliva ridendo... batteva le

mani, cantava a perdifiato con parole da svergognata.

Matta era.

– Ferma! Fermati bene mio dolce! Torna indietro col

cervello... a me non importa... sempre il mio amore sei per

me!

Non mi dava retta. È sparita. Non l’ho mai più vista.

I bambini non dicevano parole, non giocavano, non

ridevano, non piangevano.

Giorno dopo giorno dimagrivano: morti!

Uno dopo l’altro, morti sono!

Solo sono restato... unico cristiano su ’sta terra bruciata...

giacché i soldati avevano dato fuoco anche alla casa e al

bosco.

Imbesuito non sapevo cosa fare. Una sera ho preso un pezzo

di corda, l’ho lanciata su una trave, l’unica restata sana tra i

muri affumicati... ho fatto un nodo, me lo sono sistemato

intorno al collo e ho detto: – Dio che anche nel buio della

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notte guardi gli uomini attraverso i mille luccichii delle

stelle… per quale gioco maledetto, Signore mi hai dato ’sto

dono della terra e dell’acqua caricandomi di speranza... per

poi, appresso, rovesciarmi nella merda della disperazione?!

Tu dovevi dirmelo che era per segnarmi col ferro arroventato

e dare testamento chiaro che chi inizia la sua vita da villano

povero, sempre uguale deve restare… non farsi né speranze

né sogni di presunzione! Signore, ti dico che è stata gran

sbeffeggiata crudele questa di farmi provare qui, in terra il

paradiso, per poi ributtarmi con uno spernacchio giù,

all’inferno, senza pietà!

E allora ti voglio dire che ’sta vita di merda che mi hai dato,

io te la ritorno indietro. Tientela ’sta vita!

Faccio per lanciarmi impiccato, mi sento appoggiare una

mano qui sulla spalla, mi volto e c’è un giovane con i capelli

lunghi... malmesso... la faccia pallida... gli occhi grandi,

dolci e tristi che mi dice: – Potrei avere un po’ d’acqua da

bere che ho sete?

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– Ma ti pare il momento di venire a domandare da bere a uno

che sta per impiccarsi? Ma dov’è la creanza?

Gli do un’occhiata... aveva una faccia da povero cristo anche

lui. Appresso a quello ci sono altri due disperati: uno con i

capelli e la gran barba bianca e l’altro senza barba… magri e

smorti che parevano lavati nella calcina... con la faccia

patita.

– Avete altro che bisogno di bere voialtri! Da mangiare ci

vuole! (Fa il gesto di togliersi il cappio dal collo) Bene, vi

do un po’ da mangiare e poi mi impicco!

Vado... cerco sotto un arcone l’unico non franato: fave

solamente ho trovato e due cipolle. Le ho cotte bollite. Ho

riempito tre ciotole e gliele ho messe in mano. Mangiavano

con golosia da affamati. Di poi che si son sfamati, quello

giovane di figura svelta e con gli occhi grandi, sorridendo mi

dice: – Grazie per ’sta minestra calda! A te, viene in mente

chi possa essere io?

Lo guardo bene: – Mi pare che tu... quasi... sia Jesus Cristo!

– Bene! Hai indovinato! Questo è Paolo e l’altro è Pietro.

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(China il capo in segno di saluto) – Piacere! E cosa posso

fare ancora per voi?

– È abbastanza quello che ci hai offerto. Io ti conosco

contadino, io so cosa ti è capitato... quello che hai fatto…

conosco la fatica che t’è costata tirare in piedi ’sta terra, far

fiorire ’sta montagna sbroffata fuori dalle chiappe del

diavolo. So del sudore dei tuoi figli e di tua moglie… e della

violenza del signore sulla tua femmina. Tutto per l’orgoglio

di non lasciare ’sta terra! Grande forza e coraggio... hai

dimostrato di essere un bravo uomo! Ma è giusto che tu sia

finito così... in ’sto modo.

(Tono risentito del contadino) – Per quale ragione Cristo?!

– Perché l’hai tenuta tutta solamente per te la terra e non

l’hai spartita con gli altri villani, poveri come te!

– Ma cosa dici?! Spartire con gli altri un fazzoletto di terra

che non bastava nemmeno per me e per la mia gente?!

– Non fare il piagnone… ci potevano venire a campare tanti

altri disperati come te! Dimmi villano… sei andato intorno

per casali... per le capanne di paglia a raccontare la tua

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storia? Hai cercato di tirarli dentro la tua vita? No? Bene,

ora da adesso devi fare in modo che gli altri si facciano

carico di quello che ti è capitato... devi dirgli del padrone...

della bastardata che ha fatto con la tua donna, e prima del

prete e del notaio! E poi ascolta quel che ti contano loro. E

sopra ogni cosa non raccontare piagnucolando ma con lo

sghignazzo… Impara a ridere! A tramutare anche il terrore

in risata. Ribaltare col culo per aria i furbacchioni che

cercano di incastrarvi con le gran chiacchierate !… E fa che

tutti sbottino in gran risate… così che ridendo ogni paura si

sciolga!

– Ma io non so, non so dire parole rovesciate... non so fare il

controcanto da buffone... e nemanco filastrocche a

torciglione beffardo che la lingua mi si inceppa dentro i

denti… col cervello che tengo ubriacato dal sole e dalla

fatica!

– Hai ragione. Ci vuole il miracolo!

Mi ha preso per la testa… mi ha tirato vicino alla sua faccia

e mi ha detto: – Io, Jesus Cristo, da ’sto momento ti do un

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bacio sulla bocca e tu sentirai la tua lingua frullare a

cavatappi e poi diventare come un coltello che punta e

taglia... smuovendo parole e frasi chiare come un Vangelo. E

poi corri nella piazza! Giullare sarai! Il padrone sbragherà,

soldati, preti, notai sbiancheranno scoprendosi nudi come

vermi!

E così mi ha preso la testa, ha portato le labbra sue dolci alle

mie e mi ha baciato. Mi è arrivato un gran tremore di fuoco

sulle labbra... la lingua ha cominciato a trillare a torciglione

come una biscia. Parole nuove scivolavano rotolando nel

mio cervello. Ogni pensiero mi si rivoltava... ogni idea mi

sortiva capovolta.

Sono corso a perdifiato giù nel borgo, sono saltato sui

gradoni del battistero e ho gridato: – Ehi! Gente! Il giullare

son io! Venite qui, fate attenzione… ascoltate! Vi mostrerò

come si trasformano le parole in lame taglienti che stroncano

d’un botto i garretti degli infami impostori... e altre parole

che diventano tamburi per svegliare i cervelli addormentati!

Venite! Venite gente! Venite!

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LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Prologo Einaudi prima edizione

Foto 14. “La Resurrezione di Lazzaro”

(disegno di Dario Fo, da una sinopia rinvenuta nel

camposanto di Pisa).

Passiamo ora al miracolo di Lazzaro.

Questo testo è un “cavallo di battaglia” da virtuosi, perché il

giullare si trova a dover eseguire qualcosa come

quindici-sedici personaggi di seguito, senza indicarne gli

spostamenti se non con il corpo: nemmeno variando la voce,

con gli atteggiamenti soltanto. Quindi è uno di quei testi che

costringe chi lo esegue ad andare un po’ a soggetto,

regolandosi sul ritmo delle risate, dei tempi e dei silenzi del

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pubblico. È, in pratica, un canovaccio sul quale dovrò

improvvisare di volta in volta. Motivo dominante del testo è

la satira a tutto ciò che costituisce il “momento mistico”,

attraverso l’esposizione di ciò che il popolo intende

normalmente per “miracolo”. La satira si rivolge contro

l’esibizione del miracolistico, della magia, dello stregonesco,

che è una costante di molte religioni, compresa la cattolica: il

fatto cioè di esibire il miracolo come un evento

soprannaturale, allo scopo di indicare che, indubbiamente, è

Dio che l’ha eseguito: laddove, all’origine del racconto del

miracolo, predomina il significato di amore e di

attaccamento della divinità al popolo, all’uomo.

Qui, il miracolo è raccontato dal punto di vista dei fedeli

della classe dei “minori”: tutto è visto e presentato in

funzione di uno spettacolo dove più che “il figlio divino

dell’uomo” si esibisce un grande prestigiatore, un mago,

qualcuno che riesce a fare cose straordinarie e

immensamente spettacolose. Nessun accenno a quello che si

pretende ci sia dietro.

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In una sinopia del camposanto di Pisa è raffigurata la

resurrezione di Lazzaro. (Sinopia è l’abbozzo che precede

l’esecuzione dell’affresco: strappato l’affresco per un

restauro, è venuto alla luce l’abbozzo, ben conservato).

Lazzaro non appare neanche: l’attenzione è tutta concentrata,

come nella giullarata che tra poco reciterò, su una folla di

personaggi attoniti, che esprimono col gesto, la meraviglia

per il miracolo. Si nota anche tra la folla qualcuno

approfittare della tensione che provoca l’evento, per ficcare

le mani nella borsa di uno spettatore tutto teso a seguire la

resurrezione, per alleggerirlo dei quattrini.

LA RESURREZIONE DI LAZZARO

Prologo 2000

Nel medioevo il senso della comunicazione e dello

spettacolo era enorme e lo capirete ascoltando il brano de la

“Resurrezione di Lazzaro”. Come mai era così importante, in

particolare questa giullarata che ora andrò ad eseguire,

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riproposta decine di volte come ci testimoniano i testi e i

numerosi frammenti che abbiamo trovato? Perché trattava di

un argomento che stava a cuore alla gente, quello del

mercato delle cose sacre. Infatti, come già abbiamo spiegato,

"Mistero Buffo" significa rappresentazione sacra, messa in

grottesco, nel senso di fare ironia e satira verso coloro che

delle cose sacre si approfittano per fare mercato. A quel

tempo è risaputo, una delle grandi speculazioni e giochi di

basso profitto, contro le quali, con ferocia, si era scagliato

Martin Lutero, era, da una parte il commercio delle reliquie e

dall'altra quello delle indulgenze. Voi sapete che la chiesa

offriva indulgenze a pagamento, attraverso messe e altri

rituali per le anime dei beati che si trovavano in purgatorio:

si diceva che quando un ricco andava morendo e l'anima

usciva dal corpo del defunto, otteneva una propellenza

spaventosa, grazie alle orazioni, alle messe cantate, dette,

recitate dal clero, dalle confraternite, dalle congreghe

religiose, che per questa loro assistenza ricevevano un obolo

piuttosto vistoso. L’anima, caricata di indulgenze, veniva

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sparata fuori dal corpo quasi come un tappo di

champagne... e andava a proiettarsi verso il Purgatorio dove

avrebbe dovuto scontare anni e anni per i peccati commessi,

ma trovandosi linda e pulita grazie alle indulgenze e

giaculatorie, non rallentava manco per prendere fiato, anzi

accelerava la sua corsa verso il Paradiso.

Sotto, i penitenti del Purgatorio quando scorgevano

un’anima benedetta: “Ferma che sei arrivata!”, ma quella

imperterrita proseguiva traforando le nubi per sparire

nell’infinito. E non s’arrestava manco in vista del Paradiso.

C'era San Pietro che si sbracciava: “Anima benedetta, scendi

a godere delle grazie celesti!”. E l’anima manco una piega.

Travolgeva due angeli e quattro beati e via WUUUUMMM

(gesto di velocità a razzo)! Tanto che ancor oggi degli

astronauti spesso scorgono dal loro oblò anime dei beati che

vagano disperate alla ricerca del Paradiso.

Come vi dicevo, un altro oggetto di mercato che indignava la

popolazione nel medioevo era quello delle reliquie. E’

risaputo che i Santi appena deceduti, venivano letteralmente

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spogliati dei loro abiti e spesso anche delle loro carni,

cartilagini e ossa. Venivano fatti a pezzi, insomma, messi

sotto vetro, portati in teche, venduti, comprati. In poche

parole se una chiesa non possedeva almeno quattro o cinque

pezzi si santi da mostrare non era neanche da prendersi in

considerazione. C’erano addirittura città come Milano che,

oltre ad un santo patrono - il mitico Ambrogio - poteva

esibire altri due, tre santi protettori di riserva.

La città di Norcia ha sempre vantato un grande santo, ma

purtroppo, dopo l’ultima guerra, i fedeli della città si sono

resi conto, aprendo l’urna, che le spoglie del santo erano

state letteralmente saccheggiate. Il corpo benedetto era stato

smembrato e frammenti del medesimo, venduti a varie

chiese d’Europa. Ma come potevano i norcini presentare ai

visitatori stranieri le due o tre ossa striminzite rimaste della

grande reliquia? Così si formò un comitato di cittadini che

versarono parecchi denari e ingaggiarono dei ricercatori di

reliquie perché si recassero in tutte quelle chiese dove le

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vestigia del loro beato protettore erano state sparse, col

compito di ricomprarle a qualsiasi prezzo.

Dopo un certo tempo, ecco i ricercatori tornare, ognuno col

proprio sacchetto contenente frammenti recuperati. Hanno

consegnato il tutto a una troupe specializzata

nell’assemblaggio di pezzi ossei che, stesi tutti i frammenti

su un’enorme tavola, hanno dato inizio ai lavori fino a

ricomporre il corpo del santo. Un vero e proprio puzzle: “

Ecco qua una tibia… due tibie… un perone… tre peroni?!

Ce n’è uno in più (mima di sbarazzarsene con stizza)! Via!”

Così alla fine, ecco il miracolo: la sacra spoglia è

ricomposta. Un mammut! (Mima le enormi zanne che

escono da sotto il lungo naso del pachiderma)

Non posso garantire sull’autenticità di questa storia, ma

molti cittadini dell’Umbria sono pronti a giurarci sul

mammut…voglio dire… sul santo!

Esiste un altro famoso aneddoto a proposito di sante reliquie,

certamente autentico e suffragato da testimonianze storiche: quello legato alla nascita del regno d’Inghilterra. Voi

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sapete che fu Guglielmo il conquistatore, William il rosso, il normanno terribile, che riuscì a raccogliere

sotto la stessa bandiera, popoli celtici, angli e sassoni, per

farne un’unica nazione. Ma nel ben mezzo dell’operazione, i

preti cristiani che l’avevano indotto al battesimo, gli fecero

notare che alla creazione effettiva di quel regno mancava il

Patrono benedetto. Senza quella santa reliquia non ci si

poteva eleggere a nazione. “Beh, cosa aspettate, trovatemene

uno!” - “É una parola! Questi barbari si sono fatti da poco

cristiani e dove li trovi dei santi barbari?”

Così, Guglielmo fu sollecitato a inviare dei messi ricercatori

di là della Manica per acquistare un santo degno, con tanto

di simboli e bandiera. I messi sbarcano in Danimarca:

“Avete per caso un bel santo che vi avanzi da venderci?”

“Ma che scherziamo? Ne abbiamo solo uno e pare pure si

tatti di una copia fasulla! Anzi, se andando intorno ne trovate

un paio anche per noi, portateceli!”

I messi ricercatori raggiungono la Francia. Come si

azzardano a raccontare che sono disposti a comprarsi un

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santo, per poco non rischiano il linciaggio: “Ma come vi

permettete, inglesi bastardi! Da quando in qua si comprano i

santi protettori? Un santo è una cosa sacra! Via i barbari

zozzoni!” Quando arrivano in Spagna e ripetono la richiesta

solo per miracolo si salvano dall’essere arsi vivi su un

enorme rogo. Alla fine, ormai demoralizzati, giungono in

Italia; sbarcano a Genova. Sulla banchina del porto

incontrano alcuni liguri e, quasi meccanicamente, come in

una tiritera recitata senza speranza, ripetono la loro richiesta:

“Scusate, ci sapreste indicare una qualche città dove

potremmo trovare qualcuno disposto a venderci un santo,

anche di seconda mano?” Gli interpellati rispondono: “Qui!

É inutile andare d’intorno, vi cediamo il nostro santo

protettore!”

Si sa, a Genova ti venderebbero anche la madre!

Avrete notato dal tono usato, che questa battuta m’è uscita

con un certo timore. La ragione è dovuta dal fatto che

quando l’ho pronunciata in America per poco non mi

succedeva un vero e proprio disastro. Eravamo nel 1986 a

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Boston, si debuttava per la prima volta negli Stati Uniti…

Mi avevano avvertito: “Guada che Boston è una piazza

difficile, il pubblico che viene a teatro ha la presunzione di

possedere un gusto e una cultura dello spettacolo

eccezionale, sono i figli diretti dei famosi pellegrini…”

Infatti, per tutta la prima parte dello spettacolo, che era

proprio “Mistero Buffo”, un silenzio in sala da tagliare col

coltello. Spettatori attenti ma manco una risata, un accenno

d’applauso. Ecco però, che come inizio il prologo del

“Miracolo di Lazzaro” proprio il brano che vi sto

presentando, gli spettatori cominciano a scaldarsi e arriva

perfino qualche risata. “Ci siamo - mi dico - si sono

sbloccati!”. Ma appena accenno la battuta: “Si sa, per denaro

i genovesi venderebbero eccetera” per la miseria, in terza fila

si leva all’impiedi un genovese emigrato a Boston da chissà

quanti anni, un vero e proprio energumeno che, con un

vocione da brividi, urla: “ Non è vero, noi genovesi non

vendiamo nostra madre!”

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Un gelo tremendo per tutta la sala. Rapidissimo,

correggendomi, “Beh, se gliela pagano bene!” e lui “Ah,

allora... “ e si risiede soddisfatto.

Ero salvo!

Come stavo dicendo, nell’XI secolo i genovesi hanno offerto

agli inglesi il loro santo e glielo hanno pure venduto. E

sapete bene qual è il santo di Genova? San Giorgio!

E guarda caso, oggi, San Giorgio è ancora il santo degli

inglesi. Tutto gli hanno venduto: la mummia intera con il

suo elmo, la corazza con gli spalloni, insomma la parure al

completo. Fateci caso, com’era la bandiera di Genova?

Bianca con una croce rossa, lunga e stretta… esattamente

l’antica bandiera inglese. E per completare la parure gli

hanno venduto anche il drago… un draghetto un po’

incartapecorito, tutto torto, avvinghiato a San Giorgio, che

ormai col tempo, era nato un profondo affetto.

Ebbene due secoli dopo, il Papa, da Roma ha decretato che

San Giorgio era un santo inesistente! Non vi dico gli inglesi

come se la sono presa, se la sono legata al dito!

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La cosa straordinaria è che gli inglesi, qualche anno fa si

sono recati alla loro cattedrale di Saint Paul , dove è esposta

la teca del santo per esaminarne la reliquia.

Volevano scoprire da dove provenisse quella mummia.

L’hanno fotografata con gli infrarossi, l’hanno sezionata, gli

hanno analizzato il DNA e, alla fine, hanno scoperto che si

trattava del cadavere... di un turco! Di un turco! Neanche di

un cristiano! Guarda che bisogna essere proprio balordi

come i genovesi! Inoltre si è scoperto che il drago non era un

vero drago ma un coccodrillo del Nilo con la scogliosi!

Io e Franca abbiamo recitato per parecchi mesi a Londra,

ebbene tutte le sere quando raccontavo questo particolare

c’era il pubblico inglese che sin-ghioz-zava per la

mortificazione. E in fondo alla sala gli irlandesi che

sghignazzavano a crepapelle.

Ma torniamo allo spettacolo.

Perché i giullari sceglievano proprio questo episodio del

Vangelo e non altri per far satira alla speculazione e al

mercato delle cose sacre? Credo perché nella tradizione

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popolare legata al Vangelo questo fosse il miracolo più

importante compiuto da Gesù Cristo. Inoltre è la sua prima

resurrezione, un miracolo realizzato come gesto d’amore

verso la madre.

La Madonna, era parente stretta di Lazzaro e Lazzaro era

amato da lei come e più di un figlio. Era un uomo giusto,

generoso, capace di offrirle gran conforto, specie quando il

figlio se ne andava intorno a predicare.

Quel Gesù non si poteva proprio chiamare un figliolo di

casa.

Quando Lazzaro muore, la Madonna è colpita da un dolore

inenarrabile: deperisce a vista d’occhio. I parenti preoccupati

mandano subito a chiamare Gesù, ma nessuno ha idea di

dove si possa trovare. Il Nazareno non si preoccupava mai di

comunicare un suo programma... andava, tornava... tutto

improvvisato; non era certo organizzato nei suoi viaggi come

invece lo è il suo attuale rappresentante in terra.

Un gruppo di parenti parte alla sua ricerca: “Avete visto

Gesù?” “Sì, è passato di qua tre giorni fa seguito da un sacco

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di gente.” Lo trovano finalmente lassù, in cima alla

montagna, circondato da una folla di fedeli, sistemati come

in un grande anfiteatro che si apprestano ad ascoltare il suo

sermone: appunto, il famoso discorso della montagna. Uno

degli apostoli si rivolge a Gesù e dice: “Maestro, questa

gente non ce la fa più, ha camminato per tre giorni e nessuno

ha toccato boccone, stanno crollando per l’inedia!”. E Gesù:

“Accidenti, mi era andato via proprio di testa! Voi apostoli,

avete portato qualcosa da mangiare?” “No, è andato via di

testa anche a noi!” “Cominciamo bene con ‘sta nuova

redenzione!”

Il Nazareno si rivolge alla gente: “Qualcuno ha portato con

sè del cibo?” “Io - risponde un fedele - ho qui un pezzo di

pane!” “E il companatico? Per caso qualcuno ha con sè

carne secca, qualche legume... formaggi, insaccati?” “Un

pesce. Io mi sono portato un pesce... ce l’ho qua!” Infila una

mano nella saccoccia e tira fuori un pesce... una specie di

merluzzo che si è tenuto deréntro una tasca per tre giorni.

Infatti sta lì quasi isolato, con tutti i fedeli che gli stanno alla

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larga per il tanfo e imprecano: “Ma chi ci ha addosso ‘sto

puzzo da vomito?!” Tira fuori il pesce, lo offre a Gesù... il

Nazareno lo sistema in un cesto con il pezzo di pane, scuote

il cesto, lo getta per aria: FUAFF! Dal cielo scende una

tempesta di paninoni imbottiti di pesci con già fuori la lisca e

l’oliva già infilzata insieme al limone. E tutti che azzannano

affamati e urlano: “Che bella religione è questa!”

Uno dei parenti venuto a cercarlo, grida: “Gesù, Lazzaro è

morto!” Il Nazareno si porta le mani al viso ed esclama:

“Oddio!”... espressione tipica di Gesù. Si sistema nel giusto

equilibrio in capo il cerchio d’oro e scende giù a valle.

Appena giunto alla casa della madre, la trova disperata; sono

giorni e giorni che non mangia, non dorme, piange come una

fontana. Il figlio, vedendo il suo dolore, è talmente rattristito

e preoccupato che decide di ridare la vita a Lazzaro. È

proprio per lei, per rivedere il sorriso e la serenità sul viso di

sua madre che realizza questo miracolo.

Il luogo deputato della giullarata è il cimitero. All’inizio non

c’è anima viva, ma ecco apparire tra le tombe un primo

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personaggio. È un curioso che viene a prendere posto per lo

spettacolo. Pian piano ecco, il camposanto si riempie di

spettatori che spingono, s’ammassano, s’insultano; ognuno

vuol godersi il miracolo dal posto più prossimo alla tomba di

Lazzaro. Entra in scena anche un ambulante che offre sedie

alle donne perché possano godersi lo spettacolo comode. Lo

segue un pescivendolo che offre sardine, acciughe appena

fritte. Per finire ecco un gruppo di scellerati che tengono

banco per le scommesse. Scommettono sul tempo che

impiegherà il Santo per far tornare in vita il defunto, se ci

riuscirà o meno e se Lazzaro risorto apparirà vispo o

allocchito.

In poche parole, in questa giullarata viene posto ben in

evidenza come tutta quella folla sia interessata unicamente

allo spettacolo e ignori il miracolo nel suo senso mistico e

nel grande significato d’amore che esprime.

Come per le altre giullarate anche in quest’ultima il

linguaggio usato è costituito da molti dialetti del nord Italia e

da termini onomatopeici, spesso inventati.

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Un solo giullare interpreta tutti i ruoli dei personaggi che

man mano si avvicendano sulla scena. Ma, è qui è proprio

nello stile dei cantastorie, essi vengono appena accennati nel

loro particolare ruolo. Basterà un lieve cambio di tono o

cadenza, una piccola variante di atteggiamento o gestualità

perché possiate intuire quali dei presenti stia parlando.

Inizieremo, come ho già detto, dall’entrata del primo

personaggio che si rivolge al guardiano del camposanto e gli

chiede dove si trovi la tomba del miracolando. Il guardiano

prende da ogni visitatore del denaro per concedere il diritto

di assistere allo spettacolo. Chiede due palanche anche ad

una donna e mezza palanca per il bimbo che tiene in

braccio.

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RESURREZIONE DI LAZZARO

Giullarata a una voce sola. Inizia il dialogo tra il primo

visitatore e il guardiano del camposanto.

“Ch'al scüsa… oh l'è quèsto ól simitéri, campusànto, due che

vai a fa’ ól ‘suscitaménto d'ul Làsaro? Quèlo che l'hano

sepelìto da quàter ziórni, che dòpo ‘riva un santón, un

stregonàsso, Jesus… me pare che se ciàmi… Fiòl de Déo de

sovranóme… salta föra el morto co' i ögi spiritàt e tüti che

vusa: “L'è vivo! L'è vivo!... e po’ ‘dèm tüti a béver che

s'enciuchémo ‘mé Dio!”. L'è chi lòga?

“(Nel ruolo del guardiano del camposanto) Sí, dòe baiòcchi

se vòi véder ól miracolo!

“(Torna ad interpretare il personaggio del visitatore) Dòi

baiòcchi mi a ti, parchè?”

“(Torna nel ruolo del guardiano del camposanto) Parchè mi

a sont ól guardiàn d'ól camposanto e déa èsser recompensà’

per tüti i impiastri e burdeléri che viàltri m'impiantì… che a

vegnìt chi… andì sü i sépi… pesté i tómbi… andé sui crósi,

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ve senté sui crósi… mé storté tüti i brasi de le crósi e me

rubìt tüti i lumìni! (Prende fiato) Dòi baiòcchi, se no andé in

un’óltro camposanto! Vòi véder se lì truvé un’óltro santo

bravo come ól nòster che con do' segni a tira föra i morti

come fungi! Andé, andé! Anca ti dòna, dòe baiòcchi! Ol

bambìn mèso baiòcco! Nol me importa se nol capìsse

negótta, quando serà grando te ghe dirà: "Pecàto che te s'éri

cusì inscimìt, incrugnìt de crapa, che no' t'è capì negòta e sul

plù bèlo del miracolo te me gh'ha pisà anca adòso!". (Si

rivolge ad un immaginario ragazzino che cerca di entrare

nel cimitero scavalcando il muro di cinta) Föra! Föra dal

müro! Desgrasió, canàja! Furbàsso… al vö vegnì deréntro a

vedérse ól miracolo a gratis!

(Rientrando nel ruolo del primo visitatore) “Bòja quante

tombe che gh'è! Che simitiéro grande! Varda quante cróse!

(Si rivolge direttamente al pubblico) Mi son vegnü apòsta a

la matìna presto a tegnì il pòsto parchè me piàse èsser

davanti bén ciàro a la tomba avèrta… a gh'è dei santoni

stregonàssi che fa' dei trüchi treméndi: i prepara un morto de

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soravìa, un vivo de sóta, fa i segni... TRACCHETE! Se

revòlta ól mesté: "L'è vivo! L'è vivo!". Mi vòi vedérghe

ciaro!

L'altra volta son 'rivà chi la matìna presto, dòpo mèsa

ziornàda che stévo chi a ‘speciàre, el miracolaménto l'han fa'

là in fondo e mi son restà chi come un barlòcco ciolà! Ma

'stavolta me son interessà, l'è chi-lòga ól Làsaro... Varda

quanta zénte che arìva... (Rivolgendosi alla gente intorno)

Eh! Ve piàse i miracoli, eh? No' gh’avìt niénte de fare eh?

(Mima di perdere l’equilibrio per uno spintone) Bòja no'

spignére! La tomba l'è avèrta! Bòrlo deréntro, po' ‘riva ól

santo: "Vivo! Vivo!"... e mi éro già vivo! (Indicando intorno

a sè) I arìva anca da la montagna... Ehi montagan, no' gh'avìt

mai visto un miracolo viàltri, eh?... (Commenta con ironia)

Forèsti! (A gesti, fa immaginare la presenza di un uomo di

bassa statura) Oh, pìcolo no' spìgnere! Pìcolo no' spìgnere!!

No' me importa se te s'èt picinìn e no' te vedi! Pìcoli, nani, e

stciancàt in ginögio, dée vegnìr la matìna a l'alba a tórse ól

pòsto! (Commenta con ironia) Ah, ah, ah... còssa te crede

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de vès in Paradiso, ti? Che i pìcoli saran i primi e i grandóni

in fila, i ültimi? Ah, ah, ah! (Si rivolge ad un altro

personaggio) Oh, dòna no' spìgnere! No' me importa se te

sèt fèmena! Devànti a la morte sémo tüti uguali!

(Direttamente al pubblico) No' végno miga qua per ól

miracolo, végno per le ridàde che me fago. (Gridando verso

l’esterno) Alóra, arìva ól santo? No' gh'è qualche d'ün de

voialtri che cognósse dóe sta de casa 'sto santo che lo vaga a

ciamàre... a dighe che sémo tüti preparàdi… che no' se pòl

‘speciàre tüta una ziornàda, andémo… per un miracolo...

Gh’émo altro de fare!... Ma metéghe un orario a 'sti

miracoli! E rispetélo! (Tra sè) ‘Riva?... (Ai presenti) No'

arìva!

(Fa immaginare l’ingresso di un affitta-sedie) Cadréghe!

Chi vòle cadréghe? Dòne! Catéve 'na cadréga! Dòi bajòchi

'na cadréga! Sentéve, che l'è grave pericolo restà in pie a

vardàrse un miracolamento! Che quando ‘riva ól santo, fa

dei ségn, el fa vegní feura ul Làsaro in pie... cui ögi

spiritati... ciapé un tal stremìsio-spavénto, andé indrìo cunt la

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crapa… andé a bàter sü un saso... TACCHETE! Morte!

Sèche! (Rivolto al pubblico) E ul santo ne fa ün sojaméente

de miracolo, incöe, eh! Catéve, catéve la cadréga! Dòe

baiòcchi! (Accenna ad uscire di scenae ritorna ad

interpretare il ruolo del primo visitatore) Pìcul… te sèt catà

'na cadréga, eh? Per diventar plù grando! Ma bravo! Monta,

monta che t'aìdo! Oplà! Va che pìcolo-grando! No' apogiàrte

chi-lòga sü la mia spala… te do' un trusùn che te sbato

deréntro la tomba 'vèrta, po' ciàpo ól quèrcio, te lo mèto de

soravìa, (mima di bussare da dentro la tomba) TON TON:

silénsio! TON TON etèrnum! (Sporgendosi verso l’esterno)

‘Rìva 'sto santo? No’ arìva! Ma no’ se pòl ‘speciàre tanto…

végne scüro! Ghe tóca pisà tüti i lumini, ‘riva il santo, se

sbàja de tomba, va su un'altra tomba e resuscita un’àlter

morto... ‘Riva la mama del Làsaro, comincia a piàgnere…

tóca ‘masàre ól morto apéna resuscitato! No' se fa 'ste

figure... gh'è i forèsti!

(All’istante mima l’ingresso di un venditore di pesce fritto)

Ohhhoh! Sardèle, sardèle, bòne, dólze, frite… dòi bajòchi…

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catévene un cartòcio. Bòne!… che i fa ‘suscitare i morti!

(Nel ruolo di un visitatore) Daghe un cartòcio al Làzaro, che

se prepara el stòmego!

(Altro visitatore) Cito, blasfemo!

(Nel ruolo del primo spettatore) Arìva la gént, tüti, tüti, i

apostoli, varda, varda! Tüti in fila col santo... Quel con tüti i

risulìn e la barba lònga l'è Piétro, quèl'altro con la crapa

pelàda e con la barba tüta rìsula, quèlo là l'è Paolo...

quèl'altro... (portando festoso la voce) Maarcooo!... (Cambio

tono: pavoneggiandosi, al pubblico intorno) Cognósso! Sta

'tacà de casa mia! (Leva le mani agitandole vistosamente in

segno di saluto, quindi, a gesti, avverte il santo che lo

attenderà a miracolo avvenuto per invitarlo ad una grande

bevuta) Ah, guarda quèlo l'è Jesus… quèlo pìcolo... Com a

l'è zióvin... guarda no' gh'ha gniànca la barba... come l'è

delicàt… ól pare un bagài. Mi me l’immazinàva plu tosto,

con una gran crapa de cavèi, cun dei paletóni (indica le

orecchie), cunt un crestón treméndo, cunt dei dénci, de le

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manàsse, che quand faséva i benedisiùn PAA!... faséva in

quattro i fedeli! Che zóvine che o l’è!

(Una voce fra la folla) Jeesuuus! Faghe ‘n'altra volta ól

miracolo de la moltiplicasióne dei pani e dei pessìt che éran

sì bòni... Dio la magnàda che gh'ho fàito!

(Altro personaggio) Ohi, ma ti no' ti pensi che a magnàre!?

(Risponde chi ha parlato prima) E per fòrsa! L’è par via che

semo chi-lò, in del çimitério… a mi la tensiön dei miracoli

me svòda ól stòmego in una manéra che me végne ‘na fame

de magnàrmi anco Dèo!

(Uno dei visitatori) Cito, cito che ól Jesus l’ha dàito l’órdén

de ingiunugiàs! Tüti i santi s'è metü in ginögio a pregare... e

anco i altri… anca noàltri dovémo andare in ginögio, se no il

miracolaménto no’ riésse!

(Altro visitatore) Mi no’ ghe vago. Mi no’ ghe vago! No' me

importa! No' ghe credo e no' ghe vago in ginögio!

(Altro visitatore) Te catàsse un fülmine che te storpiàsse i

giambi! (Mima di camminare da storpio) Po' va da Jesus:

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"Jesus, fame ól miracolo de...". Niénte! Un’altér fülmine...

TRAK!, anca le brasse! (Mima braccia da paralitico)

(Altro personaggio) Cito, cito… gh'ha da' l’órden de valsà la

piéra de la tomba.

(Uno dei presenti urlando, ordina e dirige il sollevamento

della pietra) Vàie insèma! Valzé ‘sto lastrón! Aténti ai pie!

(Uno spettatore tappandosi il naso) Bòja che spüssa che

végn föra! Che tanfo! Ma cosa gh’han bütà deréntro... un

gato marscìo?

(Altro visitatore) No, no, l'è lü… l'è Làsaro… Varda come l'è

cunscià!

ALTRO VISITATORE Ohia, l'è descomponìo... tüti i

vèrmini che ghe vegn föra dai ögi... Ah, che schìvio!

(Altro visitatore) Che schèrso che gh'han fato!

(Altro visitatore) A chi?

(Altro visitatore) Al Jesus! Gh'avéan dito che l'éra quatro

ziórni che l’avéan interà... Sarà almanco un mese che l'è sóto

tèra! No' ghe pòl riussìre 'sto miracolaménto...

(Altro spettatore) Parchè?

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(In risposta) Parchè l'è tròpo infrolàto 'sto morto!

(Altro visitatore) Ghe riésse uguale, parchè quèl lì è un

santón tale, che anco se in de la tomba ghè derentro quatro

òsi marscìdi e tüti sbirulàt, basta che lü ghe rivolta i ögi al

ziélo... due parole a suo Padre, e 'ste òsa de colpo se riempie

de carne, de muscoli e VUUUMMM!, ól va via ‘mé 'na

légura a saltelón!

(Altro personaggio) No' di' strunsàde!

(Altro visitatore) Come strunsàde?! Fémo scomèsa? Sìnquo

contro quatro che ghe riésse!

(Altro visitatore) Sète contro diése che no' ghe riésse! Tégno

banco mi! (Rivolto agli immaginari spettatori con tono da

bookmaker che raccoglie scommesse) Tre, quattro, dòi... oto

che riése… sète che no’ ghe la fa…

(Altro visitatore, disgustato) Basta! Vergogna! Col santo

ancora lì ch'el prega, e lori a far scomèsa! Blasfémio!

Vergogna!... (All’improvviso) Zìnque baiòcchi per mi che

ghe riésse!

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(Altra voce) Cito! Ól santo el punta ól morto e ghe ordina:

"Végne föra Làsaro!".

(Altro personaggio) Ah, ah, vegniràn föra i vèrmini che l'è

impiegnìdo!

(Altro spettatore indignato) Cito blasfémio!

(Altro personaggio, allibito) Ol s'è moeve! Deo gràsia ól s'è

moeve! Ol l'è vivo! (Mima il movimento di Lazzaro che

risorge, barcollando) Ol Làsaro ól mónta, mónta, mónta...

végn sü, végn sü, végn sü... ól bòrla, ól bòrla, ól bòrla... va

giò, va giò, végn sü! Se scròda come un cagn che végne föra

da l'acqua… tüti i vermèni spantegà! (Mima di ripulirsi

schifato, faccia e corpo dei vermi che gli sono arrivati

addosso) Oh! Desgrasiò! Va piàn co' 'sti vèrmeni!

(Altro visitatore cadendo in ginocchio) Miracolo! Ol l'è

vivo! Ol l'ha resüscitàt! Bòja, varda ól ride, ól piagne.

A turno i personaggi si esaltano per il miracolo

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(Altro visitatore, a sua volta in ginocchio) Meravegióso fiòl

de Deo! Mi no' credevo miga che ti té fudèsse cossì

miracolànte... (quindi, veloce verso il bookmaker) Gh’ho

vinciü mi! Sète baiòcchi cóntra sìnque! (A Gesù)

Maravegióso! Bravo Jesus, bravo!... (All’istante si palpa sul

ventre e sul fianco) La mia borsa!?... Ladro! Bravo Jesus!

(Volto verso l’esterno) Ladro! Ladro! Jesus, bravo!... (Esce

correndo, volgendo ripetutamente il capo sia verso Gesù che

verso l’esterno) Ladroooo!… Jesus bravo, Jesus! Ladroooo!

Jesus bravo, Jesus! Ladroooo!

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TRADUZIONE

Inizia il dialogo tra il primo visitatore e il guardiano del

camposanto

“Scusi... è questo il cimitero, camposanto, dove vanno a fare

il resuscitamento (la resurrezione) del Lazzaro? Quello che

hanno seppellito da quattro giorni, che dopo arriva un

santone, uno stregone, Jesus... mi pare che si chiami… Figlio

di Dio di soprannome… salta fuori il morto con gli occhi

spiritati e tutti che gridano: “È vivo! È vivo!... e poi andiamo

a bere e ci ubriachiamo come Dio!”. È qui?

“(Nel ruolo del guardiano del camposanto) Sì, due baiocchi

se vuoi vedere il miracolo!”

“(Torna ad interpretare il personaggio del visitatore) Due

baiocchi io a te? Perché?”

“(Torna nel ruolo del guardiano del camposanto) Perché io

sono il guardiano del camposanto e devo essere

ricompensato per tutti gli impiastri e bordelli che voialtri mi

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combinate... che venite qui… mi schiacciate le siepi…

calpestate le tombe… vi sedete sulle croci… mi stortate tutte

le braccia delle croci... e mi rubate pure i lumini! (Prende

fiato) Due baiocchi, se no andate in un altro camposanto!

Voglio vedere se trovate un altro santo bravo come il nostro

che con due segni tira fuori i morti come funghi! Andate,

andate! Anche tu donna, due baiocchi! Il bambino mezzo

baiocco! Non mi importa se non capisce niente, quando sarà

grande gli diranno: “Peccato che eri così tonto… imbesuito

di testa, che non hai capito niente e oltretutto, sul più bello

del miracolo mi hai spiaccicato anche addosso! (Si rivolge

ad un immaginario ragazzino che cerca di entrare nel

cimitero scavalcando il muro di cinta) Fuori! Fuori dal

muro! Disgraziato, canaglia! Furbastro, vuole venire

deréntro a vedersi il miracolo gratis!”

(Rientrando nel ruolo del primo visitatore) “Bestia, quante

tombe che ci sono! Che cimitero grande! Guarda quante

croci! (Si rivolge direttamente al pubblico) Io sono venuto

qua apposta la mattina di buon’ora a prendermi un bel posto,

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perché mi piace esser davanti... mi piace vedere ben chiaro

dentro la tomba aperta… ci sono dei santoni-stregoni che

fanno dei trucchi tremendi: sistemano dentro un morto sopra,

un vivo sotto, fanno gesti da santoni... TRACCHETE!, si

rivolta il marchingegno: “È vivo! È vivo!”. Io voglio vederci

chiaro!

L’altra volta sono arrivato la mattina presto, dopo mezza

giornata che stavo qui ad aspettare, il miracolo l’han fatto là

in fondo e io sono restato qui come un imbesuito fottuto! Ma

‘stavolta mi sono interessato, è qui il Lazzaro... Guarda

quanta gente che arriva... (Rivolto alla gente intorno) Eh! Vi

piacciono i miracoli, eh? Non avete niente da fare eh? (Mima

di perdere l’equilibrio per uno spintone) Boia non spingete!

La tomba è aperta! Ci casco dentro, poi arriva il santo:

“Vivo! Vivo!”... e io ero già vivo! (Indicando intorno a sè)

Arrivano anche dalla montagna... Ehi montanari non avete

mai visto un miracolo voialtri, eh?... (Commenta con ironia)

Forestieri! (A gesti, fa immaginare la presenza di un uomo

di bassa statura) Oh, piccolo non spingere! Piccolo non

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spingere!! Non m’importa se sei basso e non vedi! Piccoli,

gli storpi nelle ginocchia, devono venire all’alba a prendersi

il posto! (Commenta con ironia) Ah, ah, ah... credi di essere

in Paradiso, dove i piccoli saranno i primi e i grandoni in

fila, gli ultimi? Ah, ah, ah! (Si rivolge ad un altro

personaggio) Oh, donna non spingere! Non mi importa se tu

sei femmina! Davanti alla morte siamo tutti uguali!

(Direttamente al pubblico) Non vengo mica qua per il

miracolo, vengo per le gran risate che mi faccio. (Gridando

verso l’esterno) Allora, arriva il santo? Non c’è qualcuno di

voialtri che conosca dove sta di casa ‘sto santo che lo vada a

chiamare... a dirgli che siamo tutti preparati… che non si

può aspettare tutta una giornata, andiamo… per un

miracolo... Abbiamo altro da fare!... Ma metteteci un orario

a ‘sti miracoli! E rispettatelo! (Tra sè) Arriva?... (Ai

presenti) Non arriva! (Fa immaginare l’ingresso di un

affitta-sedie) Sedie! Chi vuole sedie? Donne! Affittatevi una

sedia! Due baiocchi una sedia! Assettatevi, che è grave

pericolo stare in piedi e rimirarsi un miracolo! Che appena

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arriva il Santo e fa dei segni, sorte il Lazzaro ritto... con gli

occhi spiritati… vi prende un tale spavento che vi rovesciate

all’indietro con un gran tonfo e sbattete la testa su una

pietra... TACCHETE! Morte! Secche! (Rivolto al pubblico)

E il santo ne fa uno solamente di miracolo oggi, eh!

Prendete, affittatevi la sedia! Due baiocchi! (Accenna ad

uscire di scena e ritorna ad interpretare il ruolo del primo

visitatore) Piccolo… ti sei preso una sedia, eh? Per diventare

più grande! Ma bravo! Monta, sali che ti aiuto! Oplà! Va che

piccolo-grande! Non appoggiarti sulla mia spalla… che ti

ammollo una spintonata... ti sbatto dentro la tomba

spalancata, poi acchiappo il coperchio, te lo sistemo sopra,

(mima di bussare da dentro la tomba) TON TON: silenzio!

TON TON: eterno!...

(Sporgendosi verso l’esterno) Arriva ‘sto santo? Non arriva!

Ma non si può aspettare così tanto… viene scuro! Ci tocca

appicciare (accendere) tutti i lumini, arriva il santo, si

sbaglia di tomba, va su un’altra tomba e resuscita un altro

morto… Spunta la mamma di Lazzaro, scoppia a piangere…

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tocca ammazzare il morto appena resuscitato! Non si

possono fare ‘ste figure... c’è gente di fuori! (All’istante

mima l’ingresso di un venditore di pesce fritto) Ohhhoh!

Sardine, sardine, buone, dolci, fritte… due baiocchi…

prendetevene un cartoccio! Buone!… che fanno resuscitare i

morti!

(Nel ruolo di un visitatore) Ehi sardine, danne un cartoccio

al Lazzaro, che si prepara lo stomaco!

(Altro visitatore) Zitto, blasfemo!

(Nel ruolo del primo visitatore) Arriva la gente, tutti, tutti,

gli apostoli... guarda, guarda! Tutti in fila con i santo...

quell’apostolo lì... è Pietro, con tutti i ricciolini, la barba

lunga... quel altro con la testa pelata e con la barba tutta

riccia, quello è Paolo... quell’altro... (portando festoso la

voce) Maarcooo!... (Cambio tono: pavoneggiandosi, al

pubblico intorno) Conosco! Sta appresso a casa mia... (Leva

le mani agitandole vistosamente in segno di saluto, quindi, a

gesti, avverte il santo che lo attenderà a miracolo avvenuto

per invitarlo ad una grande bevuta) Ah, guarda quello è

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Gesù… quello piccolo... Come è giovane... guarda non ha

neanche la barba... com’è delicato… pare un ragazzino. Io

me lo immaginavo più tosto, con una gran testa di capelli...

con delle pallettone (indica le orecchie), una crestona

tremenda, con dei denti, delle manone, che quando

cominciava a benedire: PAA!... troncava in quattro i fedeli!

Che giovane che è!...

(Una voce fra la folla) Jeesuuus! Facci un’altra volta il

miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci che eran

così buoni... Dio la mangiata che ho fatto!

(Altro personaggio) Ohi, ma tu non pensi che a mangiare!?

(Risponde chi ha parlato prima) E per forza! Siamo qua, al

cimitero... a me la tensione dei miracoli mi svuota lo

stomaco in un modo che mi viene una fame che mio

mangerei anche Dio!

(Uno dei visitatori) Zitto, zitto che Jesus ha dato l’ordine di

inginocchiarsi! Tutti i santi si sono messi in ginocchio a

pregare… e anche gli altri… anche noi dobbiamo

inginocchiarci, se no il miracolo non riesce!

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(Altro visitatore) Io non ci vado. Io non ci vado! Non mi

importa! Non ci credo e non ci vado in ginocchio!

(Altro visitatore) Ti prendesse (colpisse) un fulmine che ti

storpia le gambe! (Mima di camminare da storpio) Poi vai

da Gesù: “Gesù, fammi il miracolo di...” Niente! Un altro

fulmine... TRAK!, anche le braccia! (Mima braccia da

paralitico)

(Altro personaggio) Zitto, zitto… ha dato l’ordine di

sollevare la pietra della tomba. (Uno dei presenti urlando,

ordina e dirige il sollevamento della pietra) Forza! Insieme!

Alzate ‘sto lastrone! Attenti ai piedi!

(Uno spettatore tappandosi il naso) Boia che puzza che

viene fuori! Che tanfo! Ma cosa ci hanno buttato dentro... un

gatto marcio?

(Altro visitatore) No, no, è lui, è Lazzaro, guarda come è

ridotto!

(Altro visitatore) Ohia, quasi putrefatto… tutti i vermi che

gli sortono dagli occhi... Ah, che schifo!

(Altro visitatore) Che scherzo che gli hanno fatto!

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(Altro visitatore) A chi?

(Altro visitatore) A lui, a Gesù! Gli avevano raccontato che

era seppellito da soli quattro giorni... Sarà almeno un mese

che è sotto terra! Non gli può riuscire ‘sto miracolo...

(Altro spettatore) Perché?

(In risposta) Perché è troppo frollo ‘sto morto!

(Altro visitatore) Io son sicuro che ce la fa eguale, perché

quello è un santone tale, che anche se nella tomba ci stanno

quattro ossa marce fradice, basta che lui rivolga gli occhi al

cielo... due parole a suo Padre, e ‘ste ossa di colpo si

riempiono di carne, di muscoli, e VUUUMMM!, va via a

saltelloni come una lepre!

(Altro personaggio) Non dire stronzate!

(Altro visitatore) Come stronzate?! Facciamo scommessa?

Cinque contro quattro che ci riesce!

(Altro visitatore) Sette contro dieci che non ci riesce! Tengo

banco io! (Rivolto agli immaginari spettatori con tono da

bookmaker che raccoglie scommesse)

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(Altro visitatore) Tre, quattro, due… otto che riesce… sette

che non ce la fa…

(Altro visitatore, disgustato) Basta! Vergogna! Col santo

ancora lì, che prega e loro che fanno scommesse! Blasfemi!

Vergogna!... (All’improvviso) Cinque baiocchi per me che ci

riesce!

(Altra voce) Zitti! Il santo punta il morto e gli ordina: “Vieni

fuori Lazzaro!”.

(Altro personaggio) Ah, ah, verran fuori i vermi del ripieno.

(Altro spettatore) Zitto blasfemo!

(Altro personaggio, allibito) Si muove! Deo grazia si

muove! È vivo! (Mima il movimento di Lazzaro che risorge,

barcollando) Il Lazzaro si rizza, monta, è in piedi... casca,

casca, casca... va giù, va giù, viene su! Si scrolla come un

cane che sorte dall’acqua... tutti i vermi si spargono intorno!

(Mima di ripulirsi schifato, faccia e corpo dei vermi che gli

sono arrivati addosso) Oh disgraziato! Va piano con ‘sti

vermi!

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(Altro visitatore cadendo in ginocchio) Miracolo! È vivo!

L’ha resuscitato! Boia, guarda: ride, piange.

A turno i personaggi si esaltano per il miracolo

(Altro visitatore, a sua volta in ginocchio) Meraviglioso

figlio di Dio, io non credevo che tu fossi così miracoloso!

(quindi, veloce verso il bookmaker) Ho vinto io! Sette

baiocchi contro cinque! (A Gesù) Meraviglioso! Bravo

Jesus, bravo!... (All’istante si palpa sul ventre e sul fianco)

La mia borsa!?... Ladro!

(Volto verso l’esterno) Ladro! Ladro! Gesù, bravo! (Esce

correndo, volgendo ripetutamente il capo sia verso Gesù che

verso l’esterno) Ladroooo!… Jesus bravo, Jesus! Ladroooo!

Jesus bravo, Jesus! Ladroooo!

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LA MADONNA INCONTRA LE MARIE -

Prologo 2000

Il brano che segue è relativo ad un'altra situazione tragica:

una passione laica che proviene dalle laudi antiche dell'Italia

centro meridionale, in particolare dall'Umbria.

Si tratta della Madonna che incontra per la strada le Marie

che stanno andando al mercato. Con loro discute della spesa

e dei prezzi. Sul fondo passano le croci, si sentono grida e

insulti. Questo ricorda un quadro famoso di Bruegel dove

vediamo Maria con le altre donne in primo piano; c'è il

mercato, ci sono i saltimbanchi, c'è baccano, festa, e in

fondo, minuto, s'intravede il passaggio delle croci, la

crocefissione, e tutto avviene lì come dimenticato, come un

fatto secondario.

L'insieme é un'invenzione drammatica sconvolgente.

Il brano può essere agito con la partecipazione di attori

diversi che interpretano i vari ruoli. Nel nostro caso abbiamo

preferito seguire la tradizione dei fabulatori medioevali che

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da soli riuscivano a interpretare tutti i ruoli. Franca si

accollerà il difficile compito di recitarlo in una lingua

inventata dai giullari del sud.

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LA MADONNA INCONTRA LE MARIE

Versione in pseudo campano

PERSONAGGI

Maria-Amelia -Joànna-Veronica

La Madonna jéva pe' la via, e quànno giònse d'apprèsso allo

mercato vecchio, encontròe Amelia e Joànna amiche sòe:

"Salute Joànna e bòna jornàta anche a té Amelia... avìte già

fatte le spese?"

Quìnci se fanno li sòliti commentàri su li prezzi che mónteno

sanza raggióne. De botto se séntono crida e vociàre con

trambùsto:

"Che d'è? - dimànna la Maria - Dove se ne sta annàndo tutta

‘sta ggiénte? Che accade laggiù in lo fónno?"

"Ce sarà de segùro 'nu matremònio-sponsàle." fa Joànna.

"Sì, ci hai endovenàto, è 'nu sponsàle… - s'affrétta Amelia -

stàggio vegnéndo jùsto de ìllo lòco impròprio mò."

"Jàmmoce a véde!" dice la Madonna, e s'avvìa.

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Joànna l'arresta: "No, affrettàmoce allu mercato."

"Ma 'no, un àttemo soléngo … fàmmece véde, che mé

gustano assàje li sponsàli! Cómme all'è la sposa... gliè

giòvina? E lo sposo, tu lo conósse?"

"Créo che débbia esse ‘no forèsto. Jammocénne Maria...

tornàmmoce alla casa, che ce avìmmo anco’ da métterce

l'acqua allu fòco."

"Attiénde... ascùlta... se stanno a biastemàre chilli!"

"Biastamaranno pe' 'lecrìa e contintézza…"

"No, mé rassoméglia che lo dìcheno co' rabbia. Strigóne,

stròlego... hanno criàto... sì, l'intendìo ziùsto... Ascórtate che

i vanno a repètere... Contro chi ce l'avranno Amelia?"

"Mo' che mé arrecòrdo, no' all'è pe’ 'nu sponsàle

ch’allùccano, ma di contra a uno che l'hanno descovèrto èsta

notte che stéva a ballà co' 'no cavróne, che po' illo ell’éra lu

diàbbolo."

"Ah, pe' ‘sta raggióne jé dìcheno stregonàzzo!"

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"Sì, ello serà pe' chisto... ma jammocénne alla casa che no'

so' spectàculi da véde a chilli... che té po' pijà lü

maluòcchio."

La Madonna Maria se vòlze a mirà lo fónno de la via e ce

remàne sanza respìro: "Vìde, ci stà 'na crócie che spónna

sóvra le teste de la ggiènte... e là... altre doi crócie che

mónteno mo'!"

Joànna jé dà de spónna: "Sì, cotest'altre so' de dòi

laddróni..."

"Meschìna ggiènte... li vanno a encrocefìggere a tutt'e tre…

Chissà la màtre a lloro! E magàre, poradònna mànco sàpe

che li stanno a occìdere lo so' fijòlo."

En quèllo zónze currènno la Maddalena. Ella co' lo fiatóne jé

crìda:

“Maria! Oh Maria… lo fìjo vuóstro... Jesus...”

Joànna l'ammùtola allo istànte e la spentóna: “Ma sì, ma sì...

issa lo sàpe già pe' conto sòjo…(A parte) E statte azzìtta

desgrazziàta!"

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E Maria: "Che d'è che saccìo de già? Che jè capetàto allo fìjo

mèo?"

"Nunca... còssa vulìte che jé càpeta allo fìjo vuóstro... santa

fémmena? Jè sojamènte... (cambia tono) Ah, ancora nu' té

l'avéa ditto? Oh, sànza càpa che songh'ìo! Lo fìjo tòjo mé

avéa fatto prèscia de dàtte l'avvisàta che ìllo no' sarrìa

returnàto a mèzzo jùorno... che s'è accattàto l'empégno

d'annà sovra lü monte a contà paràbbule."

E Maria alla zóvine: "Quìnce, è cotésta l’ambbassciàta che

mé volìvi dàmme pure tu?"

"Sì, cotésta ellèra, Madonna..."

"El Segnore séa benedécto fijòla! Tu eri zonta cossì

all'intrasàtte corrènno anseósa, che m'ero accattàto 'nu

spaviénto da sbattecòre. Mé c'ero affiguràta nun sàccio quàre

desgràzia! Quanto sìmmo allòcche noàltre màtri àlle vvòte!

Pe’ gniénte ce se póne allo tràggeco!"

E Joanna ce pone 'no càreco de òndece: "Sì, ma anco ‘sta

ammattìta che zónze corrènno alla desesperàta pe' venì a

dàtte l'annònzio de ‘sta cojonarìa!"

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"Bòna, Joanna… no' stàtte a vosciàre de contra ‘sta

criatùra… Non dementegà che 'll'è venuta a famme lo

piazére de 'n'ambbasciàta! (Alla Maddalena) Cómme té

chiàmmi té pitòsto... che mé pare de acconóserte?"

"(Con imbarazzo) Io… mi son la Maddalena…"

"Maddalena? La quale?… Chèlla?"

E Joànna: "Sì, è a chèlla... la cortezzàna. Jammocénne

Maria, jàmme alla casa ch'è mejór assàje che nu' ce facìmmo

véde co' certa ggiènte, che no' istà bbène."

"Ma io nu' fazzo cchiù lü mestiere."

"Ello sarrà pecchè no' té retruóvi cchiù zozzóni da pijàre.

Vatténne, svergognàta!"

"No, nun l'alluccà accussì, pòvara criatùra. Si lo Jesù mèo la

tène en tanta attenzione d'enveàrla a mé per damme avvisàta,

èllo segno che mo' ha mìso jodìzio... (Alla Maddalena) L'è

vero?"

"Sì, jò fazzo jodìzio mo'."

E Joànna tosta: "Sì, vàcce a créde... Lo fatto gli è che lo fìjo

tòjo è troppo bono assàje… Se lasse còjere de la

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cumpassiòne... e lo fòtteno tutt'e quanti! Tène sèmpe

attuòrno 'nu sacco de poltróni, sfatecàti, sanza nì lavoro, nì

arte... muórte e fàmme... desgrazziàti e pottàne... pari a

chèlla!”

“Tu allùcchi da cattìva Joànna! Illo, lo fìjo méo, dìsce sempe

che è per issi, sóvra ógne cosa, per issi... sbarandàti e

perdùti… pe’ chilli, che allè vegnùto a 'sto mònno: pe' dacce

la esperànza!”

“Va buóno... ma nun té capàcita che in ésta mannèra, ìllo nu'

ce fa bòna fegùra… se fa parlà d'arrèta! Co' tutta la ggiènte

de bòna levàta che ce stà ìnta lü paese: li segnòri co' le dame

lori, li dottori, li mercànti... che ìllo co' lo so' fare zantìle,

arudìto e saviénte se arritrovarébbe sùbbeto nelle màneche

lori e n'averébbe onnòre e l'aiùti, se n'avesse lo besògno. E

envéce, no! Sacrepànte, se va a emmeschiàre co' li

petocchiòsi-villani e contra a chilli là!”

“(Maria accorata) Fate mente cómme a crìdeno e rìdeno!

Ma no' se scòrgheno cchiù le crósci!”

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“(Giovanna proseguendo nel suo discorso) A parte che

poderébbe pure facce a meno de sbeceràre de contìnuo

contra li prèveti e li monsegnòri... chìlli no' la perdòneno a

nisciùno!”

“(La Madonna con lo sguardo al di là delle mura) Ah, vìde

a nuovo le tre crósci!”

“(Giovanna non si arresta di discorrere) Chìlli, ‘nu jórno jé

la fagarà pagare! Jé fagarànnu déllu male!”

“Fàje déllu male a lu fìjo méo? E pecché... ch'è accussì

bbòno? No' ddona che bbeni a ognuno... anco a chille che

no' jé lo dimànna! (Tutta presa da ciò che sta succedendo in

fondo alla strada) Siénte... stanno a réta a sghegnazzà de

nòvo! Uno de li tre ha da esse cascato pe' terra… (Riprende

il dialogo con le donne) Ogne uno ce vo' bbene allo fìjo

méo... no' è 'o vero? Dìmme Maddalena…”

“Sì, anco io jé vòjo bbene!”

“Oh, lo canuscìmmo tutti, che ispiràto bbene i vòi tu, allo

fìjo sòjo de la Maria!.”

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“Io no' tèngo che 'n'ammóre iguàle che pe' 'nu fratello, pe'

ìllo... mo'!”

“Mo'? Pecché, ànte allora?”

“Joànna, furnìsci 'nu mumènto de dàcce turmiénto a ‘sta

criatùra... Che t'ha fatto? Nu' vìde che già sta murtificàta!

(Cambia tono: molto angosciata) Comm'è che crìeno tanto?

(Torna a dialogare) E se ànco fusse che ella, ‘sta jóvine,

tegnésse un'ammóre pe' ìsso, de chello chi le fémmene dellu

normale tèneno pe' l'òmmi che ce piàceno... e bbene, allora?

Nun è 'n'òmmo lo fìjo méo forse… en oltre che Deo? De

òmmo tène l'uócchi, le màne, li piédi… tutte d'òmmo téne...

finànco li dulòri e l'allerìa. Dònca, ce toccarà a ìsso mésmo,

allo fìjo méo, descìdere... che savrà bbène illo cosa è da

fàcere quanno vegnerà lo mumènto sòjo. S'ìllo vurrà piàrsela

'na sposa, pe' mé, a chélla che scernirà, io jé vojerò bbène

come fusse la fijòla méa... o almànco mé ce sforzarò. E ci ho

esperanza assàje che zónga en prèscia 'sto jòrno… che

oremài ha compeùto triénta e tre anni... ed è lu tiémpo che se

fazza 'na famìja. (Cambia tono: accorata) Oh che sgarberàto

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criàre che fanno là nello fónno... E comm'è nìra ‘sta crósce!

(Torna a dialogare) Oh, mé piacerébbe assàje avécce pe'

casa delli piccirìlli sòj... d'ìsso… da fàlli jogàre, addormìre…

ch'io ne canósco assàje nénne de culla e firastòcche... e

c'averèi gusto de dàcce vizi... e contàcce fàvule, ma de chélle

che fornìsse sèmpe bbène e in jocundetà!”

“Sì, va buóno, ma mo' sòrti da li suógni, Maria…

jammucénne che de 'sto passo nu' magnàmmo cchiù manco a

sera.”

“Nun ci ho fame... io... nun ne sàccio la raggióne... ma m'è

‘egnùta dìnta 'na strézza 'e stòmmeco... Besògna pròpio che

ce vada a véde chéllo che va a capetàre là en fóndo.”

“No' arrèstate! Nun ci annàre! So' spittàculi chilli che

t'appuóngono en trestìzzia. T'acchiàppa 'nu strappacòre pe'

ttütto lo juórno... e lo fìjo tòjo no' sarà cuntènto. Pol'essere

che ìnta 'stu mumènto, ìllo se truóva già en la casa che ce stà

aspettànno… e magàre ce ha pure fame!”

“Ma se m'ha mannàto a dire che no' vène!”

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“Beh, lo po' avécce avùto 'nu repensamènto... che tu bén lo

sàbe cómme so' li fìji. Quanno tu l'attèndi alla casa no'

tòrneno e i respóntano quànno tu no' l'attèndi pe' gniénte pe’

cchisto besògna stàcce sempe appreparàte, cu' la zuppa allu

fòco.”

“Sì, tu ci hai raggióne… jammocénne. (Alla Maddalena) Ce

vòi vegnìre pure a té, Maddalena, a pijàrte 'na

scudella?”“Co' piacére... se no' vé dóngo, se non vi do

empìccio.”In chill'estànte sullo fónno passa la Veronica e la

Madonna addimànna: “Còssa pol'èsser capetàto a ch’élla

fémmena, che tène ìntra le mani 'nu panno

tutt'ensanguenàto? (A Veronica) Oh, amica mea, ve sìte

ferùta?”

“No, no’ é am mè ch’è capetato… ma uno de chìlli

cundannàti che hanno mìso de sotto a la crosce.”

“(Col fiato che le manca, come se presagisse la risposta) Lo

quale?”

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“Chìllo che 'cce crìano stròlego... ma che stròlego nun è, ma

santo! E lo se lèzze da chìlli uócchi dósci che tène. Ci ho

asciugàto la fàzza ensanguenàta...”

“Oh, fémmena de pitàde…”

“Vìde, l'hàggio asciuttàto co' ‘sta tovàglia e n'è sortùto 'nu

miràculo! Illo m'ha lassàto l'emprònta de la figùra sója che

pare 'nu retràtto.”

“(Quasi senza voce) Fàmmece dà 'n'uócchio…”

“Sì, té lo fàzzo véde.”

“(Joànna cerca di trattenerla) No Maria, làssa pèrde!”

“Té lo làsso véde, ma ànte, o donna, ségnate cu lü segno de

la crosce!” (Mostra il tovagliolo: Maria cade a terra priva

di sensi)

“Ch'hai fatto! 'Nu vìdi che mo' è desvegnùta!”

“Oh Gesù! Ch'hàggio combenàto! E pacché è desvegnùta? É

parènte a chìllo?”

“La Màtre è. La Matre de lo Segnóre!

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02/10/2012 303

TRADUZIONE

La Madonna andava per la via, e quando giunse vicino al

mercato vecchio, incontrò Amelia e Giovanna amiche sue:

“Salute Giovanna e buona giornata anche a te Amelia…

avete già fatte le spese?”

Quindi si fanno i soliti commenti su i prezzi che montano

(aumentano) senza ragione. All’istante si sentono grida e

vociare con trambusto:

“Che è? - domanda Maria - dove se ne sta andando tutta ‘sta

gente? Cosa succede laggiù in fondo?”

“Ci sarà di sicuro uno sposalizio.” fa Giovanna.

“Sì, hai indovinato, è uno sposalizio... - s’affretta Amelia -

sto venendo giusto da luogo proprio adesso.”

“Andiamo a vedere!” dice la Madonna, e s’avvia.

Giovanna l'arresta: "No, affrettiamoci al mercato."

"Ma no, un attimo solo… fammi vedere, che mi piacciono

tanto i matrimoni! Com’è la sposa… è giovane? E lo sposo,

tu lo conosci?”

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02/10/2012 304

“Credo che debba essere (che sia) un forestiero.

Andiamocene Maria… torniamo a casa, che ancora

dobbiamo mettere l’acqua sul fuoco.”

“Aspetta… ascolta… stanno bestemmiando, quelli!”

“Bestemmieranno per allegria e contentezza...”

“No, mi sembra che lo dicano con rabbia. Stregone… hanno

gridato... sì, ho inteso giusto... ascoltate che lo vanno a

ripetere… Con chi ce l’avranno Amelia?”

“Adesso che mi ricordo, non è per uno sposalizio che

gridano, ma contro uno che hanno scoperto questa notte

mentre ballava con un caprone, che poi era il diavolo.”

“Ah, per questo gli gridano stregone!”

“Sì, sarà per questo... ma andiamo a casa che non sono

spettacoli da vedere quelli… che ti può pigliare il

malocchio.”

La Madonna Maria si volge a mirare il fondo della via e

rimane senza respiro: “Guardate, c’è una croce che spunta

sopra le teste della gente… e là… altre due croci che

seguono!”

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02/10/2012 305

Giovanna le tiene bordone: “Sì, quest’altre sono di due

ladroni...” “Meschina gente... vanno a crocifiggerli tutti e

tre... Chissà le loro madri! E magari lei, povera donna non ne

sa nulla di quello che stanno facendo a suo figlio”

In quel momento giunge correndo la Maddalena. Ella col

fiatone le grida: “Maria! Oh Maria... il figlio vostro…

Jesus...”

Giovanna l’ammutolisce all’istante e la spintona: “Ma sì, ma

sì… lo sa di già per conto suo... (A parte) Stai zitta

disgraziata!”.

E Maria: “Cosa è che so già? Cos’è capitato al figlio mio?”

“Niente... cosa dovrebbe essergli capitato al figlio vostro…

santa donna? C’è solo che... (cambia tono). Ah, ancora non

te lo avevo detto? Oh, senza testa che sono! Tuo figlio mi

aveva fatto premura di avvisarti che lui non sarebbe ritornato

a mezzogiorno… perché si è accattato l’impegno di andare

sulla montagna a raccontare parabole.”

E Maria alla giovane: “Quindi figliola, è questa ambasciata

che mi volevi dare pure tu?”

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“Sì, questa era, Madonna…”

“Il Signore sia benedetto figliola! Tu eri arrivata

all'improvviso correndo ansiosa, che io mi ero presa uno

spavento da “sbatticuore”. Mi ero già figurata non so quale

disgrazia! Come siamo allocche noialtre mamme a volte: un

contrattempo e gridiamo subito alla tragedia!”

E Giovanna ci pone un carico da undici: “Sì, ma anche ‘sta

matta che arriva precipitando alla disperata per venire a darti

l’annuncio di questa coglionata!”

“Buona, Giovanna... non stare a vociare contro ‘sta figliola...

Non dimenticarti che è venuta per farmi il favore di una

ambasciata! (Alla Maddalena) Come ti chiami tu piuttosto…

che mi sembra di conoscerti?”

“(Con imbarazzo) Io sono la Maddalena...”

“Maddalena? Quale?… Quella?”

E Giovanna: “Sì, è quella... la cortigiana. Andiamocene

Maria, andiamo a casa che è più conveniente che non ci

facciamo vedere con certa gente, che non ‘sta bene.”

“Ma io non faccio più il mestiere.”

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“Sarà perché non trovi più zozzoni da accalappiare! Vattene,

svergognata!”

“No, non aggredirla povera creatura. Se Gesù mio la tiene in

tanta fiducia da mandarla a me per recarmi un avviso è

segno che adesso ha messo giudizio… (alla Maddalena) È

vero?”

“Sì, faccio giudizio ora.”

E Giovanna tosta: “Sì, vai a crederle... Il fatto è che tuo

figlio è troppo buono… si lascia molcire di compassione… e

lo fottono tutti quanti! Si tiene sempre attorno un mucchio di

poltroni, sfaticati, senza lavoro né arte… morti di fame…

disgraziati e puttane… uguali a quella!”

“Tu parli da cattiva Giovanna! Lui, il figlio mio, dice sempre

che è per loro, sopra ogni cosa, per loro… sbandati e

perduti… è per quelli, che è venuto a questo mondo: per

recar loro speranza!”

“Va bene… ma non ti capaciti che in questa maniera, non ci

fa una buona figura… si fa mormorare addosso! Con tutta la

gente ben ‘levata che abbiamo in paese: i signori con le

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dame loro, i dottori, i mercanti... che lui con il suo fare

gentile, erudito e sapiente si troverebbe subito nelle loro

maniche, e ne avrebbe onori e aiuti, se ne avesse bisogno. E

invece, no! Sacripante, si va a mischiare con i pidocchiosi,

villani e contro a quei maggiori!”

(Maria accorata) “Fate caso a come gridano e ridono! Ma

non si scorgono più le croci!”

“(Giovanna proseguendo nel suo discorso) A parte che

potrebbe fare pure a meno di sbecerare, sparlar di continuo

contro i preti e i monsignori... quelli non la perdonano a

nessuno!”

“(La Madonna con lo sguardo al di là delle mura) Ah,

vedete di nuovo le tre croci!”

“(Giovanna non s’arresta di discorrere) Quelli, un giorno

gliela faranno pagare! Gli faranno del male!”

“Far del male al figlio mio? E perché? Così dolce che è?

Non dona che bene a tutti… anche a quelli che non glielo

domandano! (Tutta presa da ciò che sta succedendo al di là

delle mura) Sentite... stanno sghignazzando di nuovo! Una

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delle croci è caduta… qualcuno è finito a terra... (Riprende il

dialogo con le donne) Ognuno vuole bene al figlio mio...

non è vero? Dimmi Maddalena…”

“Sì, anch’io gli voglio bene!”

“Oh, lo conosciamo tutti, che ispirato bene gli vuoi tu, al

figlio di Maria!” “Io non ho amore uguale che per un

fratello, per lui… ora!”

“Adesso! Perché, prima quindi?”

“Giovanna, smettila un attimo di dare tormento a ‘sta

creatura... Cosa ti ha fatto? Non vedi che già ‘sta

mortificata? (Cambia tono: molto angosciata) Com’è che

gridano tanto? (Torna a dialogare) E anche se fosse che lei,

‘sta giovane, tenesse un amore per lui, un amore vestito della

passione che lega per sempre femmine e maschi che ci

avreste da dire? Non è uomo forse, il figlio mio… oltre che

Dio? Di uomo tiene (ha) gli occhi, le mani, i piedi... tutto da

uomo tiene… finanche i dolori e l’allegrezza! Dunque, starà

a lui solo, al Figlio mio decidere... quando sentirà giunto il

momento suo. Se vorrà prendersela in sposa, per me, quella

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che sceglierà, io le vorrò bene come se fosse una figlia

mia… o almeno mi ci sforzerò. E speranza assai tengo che

giunga presto ‘sto giorno... che ormai ha passato i trentatré

anni… ed è tempo che si faccia una famiglia. (Cambia tono:

accorata) Oh che sgangherato gridare che fanno là in

fondo... E come è nera, ‘sta croce! (Torna a dialogare) Oh,

mi piacerebbe da non dire averci per casa dei bimbi suoi…

di lui... da far giocare, addormentare... che io ne conosco

tante ninnananne da culla e filastrocche… e avrei gran

piacere dar loro vizi... e raccontar favole, ma di quelle che

finiscono sempre bene e in giocondità!”

“Sì, d’accordo, ma adesso sorti dai sogni, Maria... andiamo

che di ‘sto passo non si cena più manco a sera.”

“Non ho fame… io... non ne so la ragione... ma mi è venuta

dentro una gran stretta allo stomaco... Bisogna proprio che

salga a vedere cos’è che succede lassù!”

“No, arrestati! Non ci andare! Sono spettacoli quelli, che

rovesciano in tristezza. Ti resta addosso uno strappacuore

per tutto il giorno… e il figlio tuo non sarà certo contento.

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Può essere che in ‘sto momento, lui si trovi già in casa che ci

‘sta aspettando... e magari ha pure fame!”

“Ma se mi ha mandato a dire che non viene!”

“Beh, può avere avuto un ripensamento… che ben lo sai

come sono i figli. Quando li attendi a casa non tornano e

spuntano quando non li aspetti più perciò bisogna stare

sempre preparate col la zuppa sul fuoco.”

“Sì, hai ragione... andiamocene. (Alla Maddalena) Vuoi

venire anche tu, Maddalena a farti una scodella di

minestra?”

“Con piacere, se non vi do impiccio.”

In quell’istante sul fondo passa Veronica e la Madonna

domanda: “Cosa può essere capitato a quella donna, che

tiene tra le mani un panno tutto insanguinato? (A Veronica,

alzandola voce) Oh, amica mia, vi siete ferita?”

“No, non io... ma uno di quei condannati che hanno posto

sotto la croce.”

“(Col fiato che le manca, come se presagisse la risposta)

Quale?”

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“Quello al quale gridano stregone... ma che stregone non è,

ma santo! E lo si capisce da quegli occhi dolci che tiene... gli

ho asciugato la faccia insanguinata...”

“Oh, donna pietosa...”

“Vedete, l’ho asciugato con ‘sto tovagliolo e ne è sortito un

miracolo! Mi ha lasciato l’impronta del suo viso che pare

dipinto.”

“(Quasi senza voce) Fammici dare un’occhiata…”

“Sì, te lo mostro.”

“(Giovanna cerca di trattenerla) No Maria, lascia perdere!”

“Te lo faccio vedere, ma prima, o donna, segnati col segno

della croce! (Mostra il tovagliolo; Maria, cade a terra priva

di sensi)

“Ma che hai fatto! Non vedi che è svenuta!”

“Oh Gesù! che ho combinato! E perché s’è accasciata a ‘sto

modo? È parente sua di quello?”

“La madre è! Maria, la madre del Signore!”

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INCONTRO DELLA VERGINE CON LE MARIE (LA

MADONNA INCONTRA LE MARIE)

Versione in volgare padano

Prologo 2000

Il testo più antico è senz’altro quello che ora vi proponiamo

in volgare composito padano.

Ritroverete espressioni provenienti dal dialetto lombardo

usato da Bescapè e Bonvesin de la Riva, così come del

giullare anonimo autore del “Lamento della sposa

padrona”.

Anche questo brano può essere agito con la partecipazione di

attori diversi che interpretano i vari ruoli.

Qui abbiamo preferito seguire la tradizione dei fabulatori

medioevali che da soli riuscivano a interpretare tutti i ruoli.

Franca lo reciterà in una forma dialettale che raccoglie

idiomi arcaici diversi del Medioevo padano.

INCONTRO DELLA VERGINE CON LE MARIE

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Versione in volgare padano

Maria in compagnia di Zoàna e per strada incontra ‘Melia.

‘MELIA Bòn dì Maria.. bòn dì Zoàna.

MARIA Bòn dì ‘Melia, sèt ’dré andar a far spesa?

‘MELIA No, agh l’ho de già fàita ‘sta matìna... av gh’ho de

dive ‘na roba, Zoàna.

ZOANA Disìme… (A Maria) Cunt parmès, Maria...

Si appartano e parlano concitate.

MARIA In dóe la va tüta ‘sta zénte? Cosa l’è ’dré a sücéd là

in funda?

ZOANA Ól sarà quài sponsalìzi de següro...

‘MELIA Sì, a l’è ón sponsalìzi... végni de là impròprio adés.

MARIA Oh ’ndèm a védar, Zoàna, che a mé piàsen tanto i

sponsalìzi, a mi. A l’è zóvina la sposa? E ól sposo chi a l’è?

ZOANA No’ sagh mi... a credi col débia vès un de foera...

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‘MELIA ’Dèm, Maria, no’ stit a pèrd ól tempo co’ i

matrimoni... ’ndémo a ca’ che gh’avèm anc’mò de mèterghe

l’acqua al fògo per la menèstra.

MARIA (con apprensione) Specìt… ’scultì… a i è ’dré a

biastemà!

ZOANA Oh, i biastemerà par ’legrìa e contentèsa!

MARIA No… che mé soméja col fàgan con ràbia…

“‘stregonàso!”, gh’han criàd... sì, gh’ho intendìo bén...

’Scultì co’ i va a repèt… Contra a chi e gh’l’han?

ZOANA Oh, ’dès che mé ’égn in mente... no’ l’è per un

sponsalìzio che i vüsa, ma contra a vün che l’han descovèrto

‘sta nòce che ól balàva con un cavrón… che pö a l’éra ón

diàvulo!

MARIA Ah, par quèl agh dìsen stregonàso?

ZOANA Sì, sarà par quèl... ma no’ fémo tardi Maria...

’ndèm a casa che no’ le son robe da védar quèle… che agh

pòd sücédegh de catàrse ól malògio!

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MARIA (con angoscia appena accennata) A gh’è una cróse

che la spònta de sóra e teste de la zénte!… E altre dòe cróse

che spunta adèso!

ZOANA Sì, ‘st’altre a son de dòe ladroni...

MARIA Pòvra zénte... i vano a ’ncrosàrli tüti e trie...! Chi sa

la mama de lori! E magàra lée, pòra dòna, no’ l sa gnanca

che i è ‘dré a masàrghe ól so’ fiòl de lée.

Sopraggiunge correndo trafelata la Maddalena.

MADDALENA Maria! Oh Maria... ól vostro fiòl Jesus...

ZOANA (bloccandola) Sì, ma sì, ólgh sa de già lée... (A

parte) State cito... ’sgrasiàda!

MARIA (con apprensione) Cos’ l’è che so de già mi?... ’S

l’è capitàt al mé fiòl?

ZOANA Nagòta... cos’agh dovarìa èserghe capitàt, o santa

dòna? A gh’è dumà che... Ah, nòl vl’avéa dit? Ohj, che

‘smentegàda che sont... m’éra ‘gnid via d’la testa de ‘visàrve

che lü, ól vòster fiòl, m’avéa dit che no’ ól vegnarà a casa a

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02/10/2012 317

magnàr a mèzdì… che ól gh’ha de ’ndare sü la montagna a

‘cuntàr paràbule.

MARIA (a Maddalena) A l’è quèst che sèt ‘gnüda a dirme

anc’ti?

MADDALENA Sì, quèst, Madona…

MARIA Ól sia rengraziàd ól Segnóre! Ti eri ‘rivàda tanto de

corsa, cara fiòla... che mi m’évi catàt un stremìzi de quèi!

Mé s’évi già figüràt no’ so miga quale desgràzia!... Come

sémo lòche de’ volte noàltre mame! Agh fémo preoccupàde

par nagòta!

ZOANA Sì, ma anco lée, ‘sta balénga, che la ’riva coréndo

’scalmanàda par ’gnì a darte ól nunzi de ‘ste bagatèle...

MARIA Bòna, Zoàna... no’ stàrghe a criàr adèso... a l’infìne

l’è ‘gniüda par farme un plazér d’una comissión... (A

Maddalena) At rengràzi, fiòla... Come ad ciamàt ti, che am

pare de cognósarte?

MADDALENA (con umiltà e imbarazzo) Mi… sont la

Madalena...

MARIA Madalena? La qual?… (Breve pausa) Quèla...

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ZOANA (aggressiva) Sì, a l’è lée... la cortizàna! ’Ndèm via

Maria, ’ndèm a casa... co l’è mejór, che no’ ghe fémo védar

con zénte compàgn... no’l ‘sta bén!

MADDALENA Ma mi no’ fago plü ól mestér.

ZOANA Ól sarà parchè no’ ti trovi plü smorbiósi de catàr...

Va’, desvergognàda.

MARIA No, no’ descasàrla pòvra fiòla... se ól mé car Jesus

s’la tégne in tanta fiducia de mandàmela a mi a fam la

cumisiün, l’è sègn che adès la fa giüdìzi... vera?

MADDALENA Sì, a fagh giüdìzi adèss Maria.

ZOANA Vagh a créderghe... La questión l’è che ól to’ fiòl

de ti, a l’è tròpo bòno, as lasa catàre d’la compasión e ól

fréghen toeti! Ól gh’ha sempre d’intórna un mügio de

poltrò’... zénte senza laóro nì arte, morti de fam… desgrasiò

e putàne… (indica Maddalena) compàgn a quèla!

MARIA At pàrlet de catìva ti, Zoàna! Lü, ól mé fiòl, ól dise

sempre co l’è par lori, sóvra ’gni còssa par lori, sbandài e

sperdüi, che o l’è ‘gnüdo a ‘sto mundo… a darghe la

speranza.

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ZOANA D’acòrdi, ma at cumpréndi che a ‘sta manéra no’ ól

fa un bel vardà? Ól se fa parlar a dre’! Con tüta la zénte de

bòna levàda co gh’è in çità: cavajéri e sòi dame, dotóri e

siòri... che lü cont’ ol so’ fare zentìle, savénte e ’rudìto as

truarìa de sübet in t’la mànega lori a avérghe onori… farse

aidàre se ól gh’avèse besógn. No, ‘cripànte! Ól va a mèterse

co’ i piogiàt vilàn! E de contra a quèi!

MARIA (attenta ai rumori che provengono dal fondo e con

apprensione) ‘Scoltì come i vüsa e i ride quei!… Ma no’ se

vede plü e cróse!

ZOANA (continua il suo discorso cercando di distrarre

Maria) A parte che ól podrìa farghe a mén de sparlàrghe

sémper a dre’ ai prévet e a i prelàt... che quèi no’ gh’la

perdonano a niùno!

MARIA (con un sussulto) Èco de nòvo e tre cróse!

ZOANA (non raccoglie) Quèi, un dì a gh’la faràn pagare!

Agh faràn d’ol male!

MARIA Fagh d’ol male al mé fiòl?! E parchè, co l’è sì bòn...

no’ ól fa che d’ol bén a tüti, anco a quèi che no’ ghe

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domanda! E tüti i ghe vòl bén! (Cambia tono: accorata)

Sentìt... i son dré’ a sghignasàr de nòvo... un de quèi ól dua

ès borlàd per tèra... no’ se vede plu la tersa cróse… (Torna a

parlare alle donne)Tüti ghe vòl bén al mé fiòl... no’ a l’è

vera?

MADDALENA Sì… (timidamente) anco mi agh vòj tanto

bén!

ZOANA Oh, ól sconosémo tüti che ‘spiràto bén at vòj ti al

so’ fiòl de la Maria!

MADDALENA Mi gh’ho un amore compàgn che par ón

fradèl par lü!… Adèso.

ZOANA Adèso... parchè prima donca...?

MARIA Zoàna, daghe un tàjo infìna de intormentàrla ‘sta

fiòla! Cos’l’ha t’ha fàit?… No’ ti vedi co l’è smortificàda...

(Ascolta le grida che arrivano sino a lei) Com l’è che cria

tanto? (Torna alle amiche) E anco ól füdèse che lée, ‘sta

zóina, la aga a tegnér un amor par lü de quèi che e done de

normale a gh’han par i òmeni che ghe piàse... bòn! No’ a l’è

òmo sfórse ól m’è fiòl, óltra che Deo? De òmo ól gh’ha i

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02/10/2012 321

ògi, le man, i pie... tüto de òmo... finànco i dulóri e

l’alegrèsa! Dónca agh tocherà a lü, al mé fiòl, a decìd... co ól

savrà bén lü se fa quando ‘gnirà ól so’ mumént, se ól vorerà

tòrsela ‘na sposa. Par mi, quèla che lü ól scernerà, mi agh

vurarò bén ’mé füdès la mia fiòla... E agh speri tanto ca

végna prèst quèl dì... che ormai ól gh’ha compìt trentatrì

ani... e l’è ora che ól mèta sü famégia... (Cambia tono) Oh

che brüt crià che fan là in funda... e com l’è nera ‘sta cróze!

(Torna alle donne) Tanto mé plazerìa avérghe per casa di

bambìn so’ de lü… de far ziogàre, ninàr... che mi ne so tante

canzoni de cuna... e darghe i vizi... e contàrghe fàbole… de

quèle bèle fàbole che i finìse sempre bén... e in zocondìa!

ZOANA Sì, ma adèso basta de starte a insognàre, Maria...

andémo che da ‘sta banda, no’ magnémo plü nemànco a

sira...

MARIA (è presa da profonda tristezza) No’ gh’ho fame a

mi... no’ ghe descòvro la resón... ma m’è ‘gnit a dòso un

stréncio de stòmego... Bisogna improprio che vaghi a védar

cos’ l’è ca va a capitàr là in funda.

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02/10/2012 322

ZOANA No, che no’ té vaghi!... Che a sont robe quèle co e

fano intrestìzia e at menaràn un stciopamagón par tüto ól

ziórno e ól to’ fiòl no’ ól sarà contento... Pòle ès che in ‘stu

momento ól sébia già in la casa e che a té spècia... che ól

gh’ha fame.

MARIA Ma se ól m’ha mandà a dire che no’l vegnarà!

ZOANA Ól pò avérghe üt ón repensamént. At sèt com’è fati

i fiòli: quando té i spèci no’ i torna... e i spunta quando no’ i

spèci plù! E bisogna vès sempre a pronta cont ól magnàr al

fògo.

MARIA Sì, ti gh’ha resón... andémo... At vóret ’gnì anco ti

Madalena a magnàre ‘na scudèla?

MADDALENA Bòn voluntéra… se no’v’dagh

infesciamént...

Sul fondo passa la Veronica.

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MARIA Cos’ l’è capitàt a quèla dòna... co la gh’ha un

mantìn tüto insenguinàt? (Alzando la voce) Ohj bòna dòna...

av sèt fada male?

VERONICA No, miga mi... ma ün de quèi cundanàt che

gh’han metüo de sóta a la cróse… lo quèlo co a ghe crìeno

stregonàsso... e che no’ l’è stregón, ma santo!... Santo de

següro, che ól se capìsse da i ögi dólzi ch’ol téne. A gh’ho

sugàd la fàcia insanguagnénta...

MARIA Oh dòna pitósa...

VERONICA ...con ‘sto mantìn e l’è sortìt ón miracolo... ól

m’ha lasàd l’emprùnta d’la sòa figüra, che ól pare ¨n ritràt!.

MARIA (senza respiro, quasi presagisse la tragedia che si

sta consumando) Fam’lo védar…

ZOANA (angosciata, cerca di trattenerla) No’ vès curiosa,

Maria… che n’ol ‘sta bén!

MARIA No’ sont curiosa... a senti ch’ol devi vedèl.

VERONICA D’acòrdi, at lo fago védar… ma in prima

ségnat con t’ol sègn de la cróse... Èco, ‘remìra: a l’è ól fiòl

de Deo!

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MARIA (con un filo di voce) Ól mé fiòl! Ah... a l’è mé fiòl

de mi! (Cade a terra svenuta).

ZOANA Co t’è fàit... benedècta dòna!

VERONICA Ma mi no’ credevi ch’a füs la sua mama de

quèl!

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02/10/2012 325

TRADUZIONE

Maria sta in compagnia di Giovanna e per strada incontra

Amelia.

AMELIA Buon giorno Maria... buon giorno Giovanna...

MARIA Buondì Amelia, state andando a fare la spesa?

AMELIA No, l’ho già fatta questa mattina... devo dirvi una

cosa, Giovanna.

GIOVANNA Ditemi… (A Maria) Con permesso, Maria...

Si appartano e parlano concitate.

MARIA Dove va tutta questa gente? Cosa sta succedendo là

in fondo?

GIOVANNA Sarà qualche sposalizio di sicuro...

AMELIA Sì, è uno sposalizio... vengo di là proprio adesso.

MARIA Oh, andiamo a vedere, Giovanna, che mi piacciono

tanto i matrimoni. È giovane la sposa? E lo sposo chi è?

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GIOVANNA Non lo so... credo che sia uno di fuori.

AMELIA Andiamo Maria, non state a perdere tempo con i

matrimoni... andiamo a casa, che dobbiamo ancora mettere

l’acqua sul fuoco per la minestra.

MARIA (con apprensione) Aspettate… ascoltate… stanno

bestemmiando!

GIOVANNA Oh, bestemmieranno per allegria e contentezza!

MARIA No, che mi sembra che lo facciano con rabbia…

«stregone!», gli hanno gridato... sì, ho inteso bene...

Ascoltate che lo vanno a ripetere. Con chi ce l’hanno?

GIOVANNA Oh, adesso che mi viene in mente… non è per

uno sposalizio che gridano, ma contro uno che hanno

scoperto questa notte che ballava con un caprone… che poi

era il diavolo.

MARIA Ah, per quello lo chiamano stregone?

GIOVANNA Sì, sarà per quello... ma non facciamo tardi

Maria, andiamo a casa che non sono cose da vedere quelle…

che può capitare di prendersi il malocchio!.

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MARIA (con angoscia appena accennata) C’è una croce che

spunta sopra le teste della gente!… E altre due croci che

spuntano adesso!

GIOVANNA Sì, queste altre sono di due ladroni...

MARIA Povera gente... vanno a crocifiggerli tutti e tre...

chissà la loro mamma! E magari lei, povera donna non sa

nemmeno che stanno ammazzandole il figlio.

Sopraggiunge correndo trafelata la Maddalena.

MADDALENA Maria! Oh, Maria... vostro figlio Jesus...

GIOVANNA (bloccandola) Ma sì, ma sì, lo sa di già... (A

parte) Stai zitta… disgraziata!

MARIA (con apprensione) Cosa è che so già io?… Cosa è

capitato a mio figlio?

GIOVANNA Niente... cosa dovrebbe essergli capitato, o

santa donna? C’è solo che... Ah, non ve l’avevo detto? Oh,

che smemorata che sono... mi era uscito dalla testa di

avvisarvi che lui, vostro figlio, mi aveva detto che non verrà

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a casa a mangiare a mezzogiorno… perché deve andare sulla

montagna a raccontare parabole.

MARIA (a Maddalena) È questo che sei venuta a dirmi pure

tu?

MADDALENA Sì, questo, Madonna.

MARIA Che sia ringraziato il Signore! Eri arrivata tanto di

corsa, cara figlia, che io mi ero presa una paura di quelle! Mi

ero già figurata non so mica quale disgrazia!... Come siamo

allocche a volte, noi altre mamme! Ci preoccupiamo per

niente!

GIOVANNA Sì, ma anche lei, questa balenga, che arriva

correndo scalmanata per venire a darti l’annuncio (notizia)

di queste bagattelle.

MARIA Buona, Giovanna... non stare a sgridarla adesso...

infine è venuta per farmi il piacere di una commissione. (A

Maddalena) Ti ringrazio, figliola... Come ti chiami, che mi

sembra di conoscerti?

MADDALENA (con umiltà e imbarazzo) Io… sono la

Maddalena...

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MARIA Maddalena? Quale?… (breve pausa) Quella...

GIOVANNA (aggressiva) Sì, è lei... la cortigiana! Andiamo

via, Maria andiamo a casa… è meglio che non ci facciamo

vedere con gente simile… non sta bene!.

MADDALENA Ma io non faccio più il mestiere.

GIOVANNA Sarà perché non trovi più sporcaccioni da

prendere... Va’ via, svergognata.

MARIA No, non scacciarla povera figliola... se il mio caro

Jesus se la tiene in tanta fiducia da mandarla da me per farmi

la commissioni è segno che adesso ha messo giudizio, vero?

MADDALENA Sì, faccio giudizio adesso Maria.

GIOVANNA Va a crederle... La questione è che tuo figlio è

troppo buono, si lascia prender dalla compassione e lo

fregano tutti!

Ha sempre attorno un mucchio di poltroni… gente senza

lavoro né arte, morti di fame… disgraziati e puttane...

(indica Maddalena) uguali a quella!

MARIA Parli da cattiva Giovanna! Lui, mio figlio, dice

sempre che è per loro, sopra ogni cosa per loro, sbandati e

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sperduti, che è venuto a questo mondo… per dargli la

speranza.

GIOVANNA D’accordo, ma non capisci che in questa

maniera non fa un bel vedere? Si fa parlar dietro! Con tutta

la gente bene allevata che c’è in città: i cavalieri e le loro

dame, dottori e signori... che lui con il suo fare gentile,

sapiente ed erudito si troverebbe subito nella loro manica ad

avere onori… farsi aiutare se ne avesse bisogno. No,

sacripante! Va a mettersi con i pidocchiosi villani! E contro

a quelli!

MARIA (attenta ai rumori che provengono dal fondo e con

apprensione) Ascoltate come gridano e ridono!… Ma non si

vedono più le croci!

GIOVANNA (continua il suo discorso cercando di distrarre

Maria) A parte che potrebbe fare a meno di sparlar sempre

dei preti e dei prelati... quelli non la perdonano a nessuno!

MARIA (con un sussulto) Ecco di nuovo le tre croci!

GIOVANNA (non raccoglie) Quelli, un giorno gliela faranno

pagare! Gli faranno del male!

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MARIA Far del male a mio figlio?! E per quale ragione, che

è così buono... non fa che del bene a tutti, anche a quelli che

non glielo domandano! E tutti gli vogliono bene! (Cambia

tono: accorata) Sentite... stanno sghignazzando di nuovo...

uno di quelli deve essere caduto per terra... non si vede più

la terza croce… (Torna a parlare alle donne) Tutti vogliono

bene a mio figlio... non è vero?

MADDALENA (timidamente) Sì… anch’io gli voglio tanto

bene!

GIOVANNA Oh, lo conosciamo tutti che ispirato bene vuoi

tu, al figlio di Maria!

MADDALENA Io tengo un amore uguale che a (lo amo

come) un fratello, adesso!

GIOVANNA Adesso... perché prima, dunque...?

MARIA Giovanna, dacci un taglio infine di tormentarla ‘sta

figliola! Cosa ti ha fatto?... Non vedi com’è mortificata?

(Ascolta le grida che arrivano sino a lei) Com’è che gridano

tanto? (Torna alle amiche) E anche se fosse che lei, questa

giovane, abbia a tenere per lui un amore di quello che le

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donne normalmente hanno per gli uomini che gli piacciono...

bene! Non è forse uomo mio figlio, oltre Dio? Da uomo ha

gli occhi, le mani, i piedi... tutto da uomo… finanche i dolori

e l’allegrezza! Dunque toccherà a lui, a mio figlio,

decidere... che saprà bene lui cosa fare quando verrà il suo

momento, se vorrà prendersi una sposa. Per me, quella che

lui sceglierà, le vorrò bene come fosse una mia figliola… E

ci spero tanto che venga presto quel giorno... che ormai ha

compiuto trentatré anni… ed è ora che metta su famiglia...

(Cambia tono) Oh che brutto gridare che fanno là in fondo...

e come è nera ‘sta croce! (Torna alle donne) Tanto mi

piacerebbe avere per casa dei bambini suoi... da far

giocare… cullarli... che io ne conosco tante di canzoni da

culla... e dargli vizi... e raccontargli favole… di quelle belle

favole che finiscono sempre bene… e in giocondità!

GIOVANNA Sì, ma adesso basta di stare a sognare, Maria...

andiamo, che di questo passo non mangiamo più nemmeno a

sera.

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MARIA (è presa da profonda tristezza) Non ho fame, io...

non ne scopro la ragione... ma mi è venuta addosso una

stretta di stomaco... Bisogna proprio che vada a vedere cosa

sta succedendo, là in fondo.

GIOVANNA No che non vai!... Sono cose quelle che fanno

tristezza e ti porteranno uno strappacuore per tutto il giorno

e tuo figlio non sarà contento… Può essere che in ‘sto

momento sia già a casa e che ti aspetta... che ha fame.

MARIA Ma se mi ha mandato a dire che non verrà!

GIOVANNA Può avere avuto un ripensamento. Lo sai come

sono i figli: quando li aspetti non tornano... e spuntano

quando non li aspetti più! E bisogna essere sempre pronte

col mangiare sul fuoco.

MARIA Sì, hai ragione... andiamo… Vuoi venire anche tu,

Maddalena a mangiare una scodella?

MADDALENA Ben volentieri, se non vi do disturbo...

Sul fondo passa la Veronica.

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MARIA Cos’è capitato a quella donna… che ha un tovagliolo

tutto insanguinato? (Alzando la voce) Oh buona donna… vi

siete fatta male?

VERONICA No, non io... ma uno di quei condannati che

hanno messo sotto la croce… quello al quale gridano

stregone... e che non è stregone, ma santo!... Santo di sicuro,

che si capisce dagli occhi dolci che tiene... Gli ho asciugato

la faccia insanguinata...

MARIA Oh donna pietosa...

VERONICA ... con questo tovagliolo, e ne è sortito un

miracolo... lui mi ha lasciato l’impronta della sua figura, che

sembra un ritratto.

MARIA (senza respiro, quasi presagisse la tragedia che si

sta consumando) Fammelo vedere…

GIOVANNA (angosciata, cerca di trattenerla) Non essere

curiosa Maria, che non sta bene!

MARIA Non sono curiosa... sento che devo vederlo.

VERONICA D’accordo, te lo faccio vedere, ma prima segnati

col segno della croce... Ecco, guarda: è il figlio di Dio!

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MARIA (con un filo di voce) È mio figlio! Ah… è il mio

figlio! (Cade a terra svenuta).

GIOVANNA Cosa hai fatto... benedetta donna!

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MARIA ALLA CROCE

Prologo 2000

Entriamo nel cuore di "Mistero Buffo", o meglio in un

mistero classico sacro.

Mi sono incappato in questo testo di “Maria sotto la croce”

prima ancora di decidermi a realizzare uno spettacolo sulla

religiosità popolare. Mi sono trovato fra le mani una rivista

che trattava di cultura medievale nella quale erano pubblicati

frammenti di un testo venuti alla luce durante la

ristrutturazione della biblioteca di Montecassino. Lo scritto

appariva sul retro di una pergamena di un codice e riportava

un breve monologo della Madonna con termini che si

rifacevano al dialetto centromeridionale. I ritrovatori

datavano lo scritto intorno al XIII secolo e facevano notare

che evidentemente si trattava di un testo ripreso da una

rappresentazione sacra. Questa Madonna ci appare molto

diversa rispetto a quella tradizionale: in lei non c'è nessuna

accettazione del sacrificio che il figlio va realizzando, anzi,

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si oppone disperatamente a tutti coloro che partecipano alla

sua messa in croce. Più di un commentatore, analizzando

questa passione della Vergine, ha espresso sospetto che si

tratti un testo proveniente da rappresentazioni di comunità

catare o patare, riportato da un monaco in vena di

provocazioni.

Più tardi ho mostrato i frammenti in questione a un amico

prete di Asti che sapevo interessato alla tradizione del teatro

religioso popolare. L’amico prete mi ha procurato un altro

testo completo e analogo, in volgare lombardo del ‘300, ma

che si rifaceva sicuramente a una rappresentazione di

origine più antica. Il nostro prete mi informava in particolare

che in merito alla tragica protesta della Madonna in quei

testi, nel XII secolo nell’ambito monacale era sorto un feroce

contenzioso impostato su questa domanda: la Madonna era a

conoscenza di doversi sacrificare per il peccato mortale

oppure è venuta a scoprirlo brutalmente soltanto nel

momento in cui il figlio si trovava già sulla croce?

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Esiste più di un passo del vangelo in cui Gesù preannuncia

agli Apostoli la sua fine sacrificale. Lo ripete anche ai

seguaci minori in qualche Vangelo apocrifo anche alla

Maddalena, ma di un suo dialogo su questo tema alla madre

non c’è cenno alcuno.

Lo svolgimento tragico, degno dei Misteri greci che

troviamo in questo dramma sale a livelli straordinari quando

la Madonna si rivolge all’angelo Gabriele per accusarlo di

averla tradita, non avendola avvertita al momento

dell’annunciazione del sacrificio inumano che le sarebbe

toccato di sopportare.

Un altro passaggio di grande teatralità è di certo quello in cui

la Madonna sale su una scala per convincere il figlio a

scendere dalla croce. A questo proposito si conosce un

“contrasto” proveniente dalle laudi di Cortona in cui

analogamente la Madonna insiste perché il figlio si decida a

usare le sue facoltà divine per liberarsi da quella tribolazione

mortale. Maria tenta con tutti gli argomenti, ma, vistasi

rifiutare dal figlio ogni ragione logica, spinge davanti a se,

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sotto la croce la Maddalena e le strappa letteralmente le

vesti, lasciandole nudo il petto. Quindi urla a suo figlio: “

Guardale, mira le sue zinne tonde e chiare... le amavi tanto

quando eri coi piedi in terra! Scendi, non perdere questo

dono stupendo che ti offre!”

E' veramente una provocazione oltre le righe, al limite della

bestemmia e, non a caso, la ritroviamo anche in altre laudi

umbre. Questo brano vede la massima tensione drammatica

nel momento in cui le donne seguaci di Gesù scorgono la

Madre che si avvicina disperata al calvario: una delle donne

propone di lanciarle una pietra. Meglio abbatterla d’un botto

piuttosto che vederla “deslanguire” straziata dal dolore per

il figlio in croce; un figlio che nel suo struggente lamento,

nei gesti e nelle suppliche pronunciate con fatica,

ansimando, ci appare non come un Dio “inchiovato”, ma

come il più normale degli uomini che soffre e trema

nient’affatto rassegnato davanti alla morte. È qui che con le

stesse parole del Vangelo di Matteo il Cristo uomo si

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lamenta con il Padre: “Signore, perché mi hai

abbandonato?!”

La chiusura è affidata al contrasto tra l’arcangelo e la

Madonna che, come abbiamo già accennato, lo insulta

accusandolo d’aver giocato una truffa nei suoi riguardi e nel

rispetto allegorico evidente, sentiamo che quell’insulto è

rivolto soprattutto al potere, tanto divino che terreno, di cui

lui è il messo. Entrambi sono autori del rito che vede

indispensabile e inderogabile il sacrifici del figlio.

E’ ovvio che la messa in scena di questo dramma popolare

non si ferma alla sola rappresentazione dell’assassinio del

Dio uomo, ma in tutto il mistero è proiettata la perpetua

condizione degli umili che, da sempre e continuamente,

soffrono delle angherie e della sottomissione. Umiliati e

sottomessi, urlano con la voce della Madonna la loro rivolta

contro ogni supina accettazione, quasi evocando le parole

dell’Apocalisse che promettono l’avvento di un mondo

migliore, giusto e felice da non godersi possibilmente solo

nell’aldilà.

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Il Mistero di “Maria sotto la croce” viene recitato da Franca

in una forma dialettale che raccoglie idiomi diversi del

Medioevo padano; forse qualche passaggio vi potrà sfuggire,

ma è certo che la musicalità dell’affabulazione oltre che i

gesti, vi permetteranno di intendere chiaramente lo

straordinario clima e la provocazione che il dramma si

propone di raggiungere.

MARIA ALLA CROCE

Altro Prologo

Pubblichiamo un’altra presentazione molto più rapida e

stringata che spesso abbiamo proposto durante il primo anno

di rappresentazione.

Il prossimo brano ha per titolo “Maria alla croce” ed è un

dialogo fra la Madonna e il figlio morente. Cristo si trova di

spalle a voi in croce.

Le donne cercano di fermare Maria, di impedirle di vedere il

figlio martoriato sulla croce, qualcuna di loro pensa

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addirittura di colpirla con un sasso per bloccarla. Ma la

Madonna arriva, chiede una scala, vi monta in cima per

parlare col figlio e convincerlo a scendere. Un soldato vede

Maria e vorrebbe addirittura scaraventarla giù dalla scala. La

Madonna cerca di corrompere questo soldato. Importante è

l’arrivo dell’arcangelo Gabriele che cerca di lenire il dolore

immenso della Madonna ma lei lo aggredisce, rifiuta la

logica dell’accettazione del sacrificio, senza che alcuno le

abbia mai dato né notizia né avvertimento.

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MARIA ALLA CROCE

PERSONAGGI

Prima donna-Seconda donna-Terza donna-Quarta donna-

Quinta donna-Sesta donna-Coro donne e uomini-Maria-

Cristo -Soldato-Altri soldati-Arcangelo Gabriele

PRIMA DONNA (entra correndo e si rivolge alle altre

donne che stanno ai piedi della croce) Andì a fermàla... l'è

rént a 'gni la sòa mama de lü, la beata Maria, no' féghel

vardà incrusàt 'mé l'è che ól pare un cavrètto inscortegà, che

cola sàngui a fontanèla partütt cumpàgn 'na muntàgna de

név' in primavéra per via di 'sti gran ciòdi che gh'han picàt

in de la carne dulurùsa dei man e di pie, intramèsa ai òsi

sfurà!

CORO No' féghel vardà!

Entra correndo un’altra donna.

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SECONDA DONNA No' la se vòl fermà... a la végne

coréndo desesperàda in sul sentié’ che in quatro no' la

podémo tegnìr...

TERZA DONNA Se in quatro non la tegnì, prové in

sìnque... in sie... èi no' la pòl vegnì, no' la pòl vardà 'sto fiolì

intorsegà cumpàgn 'na radìs d'oliva magnàda dai furmìghi!

QUARTA DONNA Quercéghe, covrìghe almànco la fàcia

al fiöl de Deo, la sòa mama no' l' posa 'recugnósarlo... agh

dirèm che l'incrusàt l'è un óltar, un forèsto... che no' l'è ól so'

fiöl de lée!

PRIMA DONNA Mi a creo che purànco al querciàssimo

tütto con un linzòl bianco, al fiöl de Deo, la sòa mama ól

recognuserà istèsso... abàsta che ghe spónta de föra un dit

d'un pìe… un rìzzul dei cavèj, imperchè la gh'l'ha fàit lée, la

sòa mama, quèi.

QUINTA DONNA (entra in scena con il fiato in gola) La

végn... la végn… l'è chì lòga la beata Maria... agh farìa mén

dulúr masàla de cultèl… pitòst che lasàgh vèd ól fiöl!

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SESTA DONNA Déme un sass de trasmurtìla d'un bòtt, che

la sé ruèrsa per tèra, che no' la pòssa vardà!

Entra Maria. Il suo sguardo corre immediatamente al figlio

in croce.

Schiantata dal dolore, ammutolita lo guarda in silenzio.

Il gruppo delle donne si scosta al suo passaggio spostandosi

poi sul lato destro del proscenio.

PRIMA DONNA Ste quàcc, fév in là... Oh pòvra dòna che

la ciamìt beata... e cum la pòl ès beata con ‘sta decurasiún de

quatro ciòdi che gh'han picàt in de la carna dolorosa a

rabatúni, cumpàgn che a no' l s'farìa a 'na lusèrta venenúsa o

un scurbàtt!

SECONDA DONNA Sti' quàcc... mantegní ól fiàt che adèss

‘sta dòna la 'scoltarì criàre de toeta vüs, compàgn s'l'avès

squartàda ól dulúr… sgrasiàda… dulúr de sètte cultelàde a

spacàgh ól cör!

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TERZA DONNA La està lí ferma… la dis nagòta. Fèit che

la piàngia almànco un pòch! Féla criàre, ch'el s'àbia de

stciopàr 'sto gran magóne che ghe suféga ól gòz.

QUARTA DONNA 'Ntendíu, 'stu silénsi che gran frecàss ól

mena… e nól vale cuerciàse i urègi. (Avvicinandosi a Maria)

Parla, parla... digh quài còss, Maria... Plangi, Maria... ohi té

pregi... (Quasi urlano per scuoterla, farla uscire dal quel

suo terribile silenzio) Parla, Maria!

MARIA (con un fil di voce) Dèime 'na scala... a vòj

montàrghe a rénta al mé nann... (si avvicina straziata,

lentamente alla croce e parla al figlio) Nan, oh 'l mé bèlo

smòrto fiöl de mi… stàit següro méo bén, che ‘dès la 'riva la

tòa mama... Come i t'han combinàt 'sti assasìt, (alza, via via,

il tono della voce,) purscèl, becàri! (Urla e corre intorno

come cercasse i colpevoli) Còssa ól 'véa fàito, 'sto mé

tarlòch, de ‘véghel inscí a scann de fav tanto canàja con lü!

Ma am burlerí in ti mani: a vün a vun! Oh m'la pagarì…

anch' duarìssi 'gniv a cercàv in capp al mund, 'nimàl, besti,

sgrasió!

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CRISTO Mama… no' stat a criàr… mama…

MARIA Pardúname, ól mé nan, 'sto burdeléri c'ho tràit in

pie… e ‘sti paròli de inrabìt che hu dit… ma l'è stàit 'stu

strènc dulúr de truvàrte chi-lòga… impatacàt de sangu…

stciuncàt… sü 'ste trave, sbiutàt... de bòtt pestà... sbusà in de'

i mé bèj man si delicàt… e i pie... oh i pie!… che góta sangu,

góta a góta... ohi, che dua ès un gran mal!

CRISTO (parla a fatica) No mama… no stàrte a casciàt…

'dès, t'el giüri… no' senti pì mal... no' senti pü nagòta... Va' a

ca', mama, té pregi... va a casa...

MARIA Sì, sì… anderèm a ca' insèma… 'égni sü, a tiràt giò

de 'ste trave... (mima si salire sulla scala appoggiata alla

croce) cavàrte föra i ciòdi piano piàn... (si rivolge alle

persone che le stanno intorno) Dèm una tenàj... (È

disperata) Ajdéme quaidün!

Entra un soldato.

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SOLDATO Ehi dòna, cosa té fàit lì lòga de soravìa a ‘sta

scala? Chi v'l'ha dàito ól permèso?

MARIA A l'è ól mé fiöl de mi ch'avìt incrusàd... al vòj

stciodàl, purtàl a ca' cun mi...

SOLDATO A ca'? Ohj che premüra! No' l'è ancmò fròll asè,

santa dòna… no' l'è ancmò bén stagionàt! Bòj… 'pena che ól

tira i ültem, av fò fistcèto e vegnì a tòl bèlo che impachetà,

ól vòs car zóvin... Cunténta? 'Gni giò 'dès.

MARIA No che no' deséndo! No' lasarò pasà chi lòga la

nòce al mé fiöl suléngo... a murìrme! E vui no' podì miga

fam ‘sta preputénsa… che mi a sòn a sua mama de lü… a

sòn la sua mama, mi!

SOLDATO Bòn! Cara la mia mama de lü, adès mé t'l'hàit

sgionfàde a sufficìt i cojómbari! Agh farèm com quando se

scròda i pómi… vòj védar? Agh darò ‘na bèla scrulàda a ‘sta

scala… e ‘vegnirì giò da la scala, de stónfate ‘mé un bèl

peròt marügo!

MARIA (mima di scendere velocemente) No, no... per

carità... pecì che son già giò... vardì son chì abàs la scala.

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SOLDATO Oh, l’intendìu al tèrmin ‘sta balàda, o dòna

benedèta! E no’ vardì a mi cun sti ögi a brüsatàm, che mi no’

ghe n’ho colpa niùna se ól zóvin ól s’è catàt ‘sta posisión

iscòmuda de stagh coi brasc slargàdi... Ohj che no’ gh’ho

péna de vui? Che no’ cognósi mi, l’isbarluscià di làgreme

sanguagnénti ch’av süda giò di ögi? Sa l’ha èstu ón dulùr de

madri! Ma agh pòdi fagh nagòt... che mi sónt comandàt che

vaga fina a l’órden ‘sta cundàna… sónt condanàt a fav murì

ól fiòll, o bén, de cuntra, lì lòga, mé picheràn sü mi co’ i

stèss só’ ciòdi.

MARIA (si cava orecchini e anello che porta al dito) Oh

bòn suldàt curtés e caro… tegnì… av fò un presénti de

‘st'anèl d’òri e de 'sti uregìti d’argento... tegnì…in cambio de

un plegìr ch’am podìt cuncèd…

SOLDATO Ól sarìa 'stu plagér?

MARIA De lasàm netàgh via ól sangu, al mé fiòl… cont un

pòch d’àqua e un stràsc… e de dàghen un pòch de

‘nbiassegàrse i lavri stcepàd de la sét...

SOLDATO Nagòt de plü de ‘sti cialàdi?

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MARIA Vurarìa ancmò che catì 'stu sciàle e andìt de

suravìa a la scala a mèterghelo intùrna a i spale de sóta a i

brasc, de aidàl un pòch a ‘sta' tacàt a la cruse...

SOLDATO O dòna, agh vursìt mal de cuntra al vòst car

zóvin dònca, s'ól vursìt guarnàl pi' a lònga in vita a fal

sgragnì di 'sti treméndi dulùri. Al pòst vui, farìa col Cristo ól

mœra e sübet!

MARIA (rendendosi conto di quanto il soldato le ha detto,

quasi sussurrando) Murì…?!

Ól duvrà giüsta 'gnì morto 'sto car mé dólze? Morte le

man… morta la bóca... i ögi... morti i cavèj? (Disperata, tra

sé) Ohj, che m'han tradìtta. (Chiama con voce via via più

terribile, volgendo gli occhi al cielo) Gabrièl, Gabrièl...

Gabrièl… zóvin de dulza figüra, pól prim ti, ti!, m'hàit tradìt

de malorgnón! Con la tòa vóse de viola innamorósa té sèt

'gnù a dime che sarìa 'gnüda Rejna mi... e beata mi, e

jucùnda mi... cap de tœti i doni!

Vàrdum, vàrdeme 'mé sont a tòchi e sberlüsciàda… l’ültema

dòna al mundo mé sónt descovèrta! E ti... ti ól savévi in del

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purtàrme ól nünzi deslinguént, de fam fiurì in t'el véntar ól

fiolìn, col sarès 'gnüda a 'sto bèl trono rejna!… Rejna! Rejna,

col fiöl cavajér zentìle… con dòj speróni fàit con dòj gran

ciòdi impiantàt in de la carne dei pie!

Parchè no' té l m’hàit dit avànte ól ségn?

Oh mi, té ‘sta' següro… mi no' gh'avarìa gimài vorsüdo vès

pregnìda… no!… gimài a ‘sta cundisiün... teut-anch füèss

'gniüdo el Deo Patre in t'la persona, e no' el piviùn colombo,

so' spirito beàt, a maridàrme.

CRISTO (parla con maggior difficoltà) Mama… oh che ól

dulùr ól t'hàit trat föra mata che ti biastémi... (Agli astanti)

Menìla a ca' fradèli… ve prégi… menéla a casa prima che la

àbia a rabatàrse là ruèrsa e strepenàda…

UOMO ‘ndém Maria, fèt consulàt ól fiòl de vüj… lasél in

pase.

MARIA No che no' vòj! Perdonéme... laséme istà chì lòga

arénta de lü… che no' dirò pü gnanca 'na parola incóntra de

so' patre... incóntra de njùno. Laséme... oh fèite bòn!

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CRISTO (rantolando ogni volta che prende fiato) Hoi de

murì… mama... e fagh fadìga... Hoi de lasàrme andare

mama… sconsumàre ól fiàt che mé mantégne en vida… ma

con ti… chì lòga a près… ch'at stràzii, no' so’ capàze

mama... e fo' plü grande fadìga.

MARIA (implorante, quasi sottovoce) No' casàrme via

Jesus! No' casàrme via! (È al limite della disperazione) Vòj

murì, Jesus… vòj murì… (Grida disperata agli astanti)

Sufeghéme e sepeléme in üna tomba sola embrassàda al mé

fiòl! (Al Cristo) Vòj murì Jesus! Vòj murì...

SOLDATO Sacra dòna l’è tròpo grando ‘sto dolor de

matre... Fémo inscì: nünch suldàt a farèm mostra de miga

stagh co’ i ögi… caté ‘sta lanza pichéghela a tüt picà de

punta in del custàt e a fund in dól gòzz… e de lì a un

mumént, a vedarìt, ól Crist ól va a murìr. (La Madonna cade

a terra svenuta) Os' ve pasa? O s'lè svegnüda che no' l'ho

gnanch tucàda!?

UOMO La gh’ha i malori!

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PRIMA DONNA Slonghéla lilé… fàite piàn… e ‘ndé via

d’intórna che la gh’abia a respirà.

SECONDA DONNA Pòvra dòna!

MARIA (come in sogno) Chi sèt liló, bèl zóvin, ch'am par

ricugnùset?

TERZA DONNA La gh'ha i visioni!

GABRIELE Gabrièl, l'àngiol de Deo… són mi quèlo,

Vérzen… ól nùnzi d'ól to’ soléngo e delicàt amore.

MARIA (inizia con un fil di voce, prendendo via via tono e

forza) Gabrièl… Gabrièl… torna a slargàt i ali, Gabrièl…

torna indré al to’' bèl ziél zojóso... no' ti gh'ha niénte a che

far chì lòga… in ‘sta sgarósa tèra… in 'stu turménto mundo.

Vaj Gabrièl … che no' té sé sburdéga i ali de plüme culuràde

'e zentìl culüri... no' ti vedi fango e sangu e buàgna, mèsta a

la spüsénta d'partüto?

Vaj… che no' té ne sbréghi i urègi tant delicàt co' 'sto criàr

desasperàto e plàngi e ploràr che crésse in òmnia parte...

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Vaj Gabrièl … che ne té se sconsüma i ögi luminosi a

remeràr piaghe e croste... bugnóni e mosche e vèrmeni!, föra

dai morti squaraciàdi!

Ti no' t'è abitüàt, Gabrièl… che in d'ól Paradiso no' gh'hai ni

rumor, nì plàngi, né guère, nì presón, nì òmeni impicàdi, nì

done violàde!

No' gh’è nì fam, nì carestia, njùno che süda a stracabràsci, nì

fiolìn sénsa surìsi, nì matri smarìde e scuràde dal dulùr…

njùn che pena per pagà ól pecàt! Vaj Gabrièl! Vaj Gabrièl!

(Urlando) Vajjjj Gabrièèèèl!

Su un canto grogoriano scende lentamente la luce.

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TRADUZIONE

PRIMA DONNA (entra correndo e si rivolge alle altre

donne che stanno ai piedi della croce) Andate a fermarla...

‘sta arrivando la sua mamma di lui, la beata Maria, non

fateglielo guardare crocefisso com’è che pare un capretto

scorticato, che cola sangue a fontanella dappertutto come

una montagna di neve in primavera… per via di ‘sti gran

chiodi che gli hanno piantato nella carne dolorosa delle mani

e dei piedi, frammezzo le ossa forate!

CORO Non fateglielo guardare!

Entra correndo un’altra donna.

SECONDA DONNA Non si vuole fermare... viene correndo

disperata sul sentiero che in quattro non la possano tenere

(trattenere)...

TERZA DONNA Se in quattro non la tenete provate in

cinque... in sei... lei non può arrivare sin qui, non può

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guardare ‘sto figlio suo attorcigliato come una radice di

olivo mangiata dalle formiche!

QUARTA DONNA Nascondetegli, copritegli almeno la

faccia al figlio di Dio, che sua madre non possa

riconoscerlo... le diremo che il crocifisso è un altro, un

forestiero... che non è il figlio suo!

PRIMA DONNA Io credo che puranco lo coprissimo tutto

con un lenzuolo bianco, il figlio di Dio, la sua mamma lo

riconoscerà lo stesso... basta che dal lenzuolo gli spunti il

dito d’un piede... un ricciolo dei capelli, perché glieli ha fatti

lei, la sua mamma, quelli.

QUINTA DONNA (entra in scena con il fiato in gola)

Arriva... arriva… è qui la beata Maria... le darebbe meno

dolore ammazzarla di coltello piuttosto che lasciarle vedere

il figlio!

SESTA DONNA Datemi un sasso da tramortirla d’un botto,

così che si rovesci a terra, e non le riesca di guardare!

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Entra Maria. Il suo sguardo corre immediatamente al figlio

in croce. Schiantata dal dolore, ammutolita lo guarda in

silenzio. Il gruppo delle donne si scosta al suo passaggio

spostandosi poi sul lato destro del proscenio.

PRIMA DONNA State quieti, fatevi in là... Oh povera

donna che la chiamate beata... e come può essere beata con

‘sta decorazione di quattro chiodi che gli hanno conficcato

nella carne dolorosa e ribattuti, che così non si farebbe a una

lucertola velenosa o a un pipistrello!

SECONDA DONNA State quieti... trattenete il fiato che

adesso ‘sta donna la sentirete gridare a tutta voce, come se

l’avesse squartata il dolore... ammattita... dolore di sette

coltellate a spaccarle il cuore!

TERZA DONNA Sta lì ferma... non dice niente. Fate che

pianga almeno un poco! Fatela gridare, che possa scoppiare

‘sto gran magone che le strozza la gola.

QUARTA DONNA Ascoltate ‘sto silenzio che gran fracasso

mena (porta)... e non vale coprirsi le orecchie.

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(Avvicinandosi a Maria) Parla, parla... di qualcosa, Maria...

piangi, Maria... ohi ti prego... (Quasi urlano per scuoterla,

farla uscire dal quel suo terribile silenzio) Parla, Maria!

MARIA (con un fil di voce) Datemi una scala... voglio salire

vicino alla mia creatura... (si avvicina straziata, lentamente

alla croce e parla al figlio) Bimbo… oh bello smorto figlio

mio... stai sicuro mio bene, che adesso arriva la tua

mamma… Come ti hanno conciato (alza, via via, il tono

della voce) ‘sti assassini, porci, macellai! (Urla e corre

intorno come cercasse i colpevoli) Cosa vi aveva fatto, ‘sto

mio tontolone, da averlo così in odio, da essere tanto

canaglie con lui! Ma mi cadrete tra le mani: a uno a uno! Oh

me la pagherete... anche se dovessi venire a cercarvi in capo

al mondo, animali, bestie, disgraziati!

CRISTO Mamma… non stare a gridare… mamma.

MARIA Perdonami, mio bene, ‘sto bordello che ho tratto in

piedi... e ‘ste parole da fuori di testa che ho gridato… ma è

stato ‘sto dolore da scanno di trovarti qui imbrattato di

sangue… spezzato… su ‘ste travi… denudato... di botte

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pesto... bucato nelle mie belle mani così delicate... e i piedi...

oh i piedi!... che gocciolano sangue, goccia a goccia... Ohi,

deve essere un gran male!

CRISTO (parla a fatica) No mamma... non ti preoccupare...

adesso, ti giuro... non sento più male... non sento più

niente... Vai a casa, mamma, ti prego... vai a casa...

MARIA Sì, si... andremo a casa insieme... vengo su, a tirarti

giù-a staccarti da ‘ste travi... (mima di salire sulla scala

appoggiata alla croce) a cavarti i chiodi piano piano... (si

rivolge alle persone che le stanno intorno) Datemi una

tenaglia... (È disperata) Che qualcuno mi aiuti!

Entra un soldato.

SOLDATO Ehi donna, cosa fate lì sopra a ‘sta scala? Chi

ve l’ha dato il permesso?

MARIA È il figlio mio che avete inchiodato... voglio

staccarlo di lì, portarlo a casa con me...

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SOLDATO A casa? Ohi che premura! Non è ancora frollato

abbastanza, santa donna... non è ancora ben stagionato!

Bene... facciamo così, appena tira gli ultimi vi faccio un

fischietto e venite a prenderlo bello e impacchettato, il vostro

caro giovane... Contenta? Venite giù adesso.

MARIA No che non discendo! Non lascerò passare qui la

notte a mio figlio solo… a morirmi! E voi non potete farmi

‘sta prepotenza... che io sono la sua mamma di lui... sono la

sua mamma, io!

SOLDATO Bene! Cara la mia mamma di lui, adesso me le

avete gonfiate a abbastanza i coiombari! Faremo come

quando si scrollano le mele… vuoi vedere? Darò una bella

scrollata a questa scala… e verrete giù a tonfo come una

pera matura!

MARIA (mima di scendere velocemente) No, no... per

carità... aspettate che sono già giù... guardate sono qui sotto

la scala…

SOLDATO Oh, l’avete capita alla fine questa ballata, o

donna benedetta! E non guardatemi con questi occhi che

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piangon fuoco, che io non ho colpa alcuna se il giovane si è

presa questa posizione scomoda di stare con le braccia

allargate… Oh che non ho pena di voi? Che non conosco io

il luccicchio di lacrime sanguinanti che vi sudano giù dagli

occhi? Questo è dolore di madre! Ma non ci posso far

niente… che io sono comandato che vada fino all’ordine

questa condanna… sono condannato a farvi morire il figlio,

o altrimenti, lassù, attaccheranno me, con gli stessi chiodi.

MARIA (si cava orecchini e anello) Buon soldato cortese e

caro… tenete… vi faccio un presente di questo anello d’oro

e questi orecchini d’argento… tenete… in cambio di un

piacere che mi potreste concedere…

SOLDATO Sarebbe ‘sto piacere?

MARIA Di lasciarmi lavare il sangue a mio figlio con un

po' d’acqua e uno straccio… e anche di inumidirgli le labbra

spaccate dalla sete…

SOLDATO Niente di più di queste sciocchezze?

PRIMA DONNA Vorrei anche che prendeste ‘sto scialle e

andaste sopra alla scala a metterglielo intorno alle spalle

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sotto alle braccia, per aiutarlo un poco a stare appeso alla

croce...

SOLDATO Oh donna, gli volete male al vostro caro giovine

dunque, se lo volete mantenere più a lungo in vita a fargli

patire ‘sti tremendi dolori. Al posto vostro, farei che il Cristo

muoia e subito!

MARIA (quasi sussurrando tra sé) Morire...?!

Dovrà veramente morire ‘sto caro mio dolce? Morte le

mani... morta la bocca... gli occhi... morti i capelli?

(Disperata) Ohi, che mi hanno tradita! (Chiama con voce via

via più terribile, volgendo gli occhi al cielo) Gabriele,

Gabriele... Gabriele... giovane di dolce figura, per primo tu,

tu!, mi hai tradita! Con la tua voce da viola innamorante sei

venuto a dirmi che sarei divenuta Regina, io... e beata, io, e

gioconda, io... a capo di tutte le donne!

Guardami, guardami come sono a pezzi e sbertucciata...

l’ultima donna al mondo mi sono scoperta! E tu... tu lo

sapevi nel portarmi l’annunzio disciogliente, che mi ha fatto

fiorire nel ventre questa mia creatura, che sarei arrivata a

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‘sto bel trono regina!... Regina! Regina, con figlio cavaliere

gentile... con due speroni fatti con due gran chiodi… piantati

nella carne dei piedi!

Perché non me lo hai detto avanti il segno?

Oh io, stai sicuro... non avrei mai voluto essere ingravidata...

no!... mai a ‘sta condizione! Anche se fosse venuto il Dio

Padre nella sua persona, e non il piccione colombo, spirito

beato, a maritarmi!

CRISTO (parla con maggior difficoltà) Mamma... oh che il

dolore ti ha fatto ammattire che bestemmi... (Agli astanti)

Portatela a casa fratelli... vi prego... portatela a casa prima

che crolli riversa...

UOMO Andiamo Maria, fate consolato (contento) il figliolo

vostro… lasciatelo in pace.

MARIA No che non voglio! Perdonatemi... lasciatemi stare

qui vicino a lui... non dirò più nemmeno una parola contro

suo padre… contro nessuno. Lasciatemi... oh siate buoni!

CRISTO (rantolando ogni volta che prende fiato) Devo

morire... mamma... e faccio fatica... Devo lasciarmi andare

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mamma... consumare il fiato che mi mantiene in vita... ma

con te... qui sotto... che ti strazi, non mi riesce mamma... e

faccio più grande fatica.

MARIA (implorante, quasi sottovoce) Non cacciarmi via

Gesù! Non cacciarmi via! (È al limite della disperazione)

Voglio morire, Gesù... voglio morire... (Grida disperata ai

presenti) Soffocatemi e seppellitemi in una tomba sola

abbracciata a mio figlio! (Al Cristo) Voglio morire Gesù!

Voglio morire...

SOLDATO Sacra donna è troppo grande ‘sto dolore di

madre... Facciamo così: noi soldati faremo finta di non

guardare… prendete ‘sta lancia… picchiategliela a tutta

forza nel costato e a fondo nel gozzo... di lì a un istante,

vedrete, il Cristo va a morire. (La Madonna cade a terra

svenuta) Cosa vi succede? È svenuta che non l’ho neanche

toccata!

UOMO Ha i malori, povera donna!

PRIMA DONNA Allungatela là… fate piano… e andate via

d’attorno che abbia a prendere fiato!

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SECONDA DONNA Povera donna!

MARIA (come in sogno) Chi sei bel giovane che mi pare di

conoscerti?

TERZA DONNA Ha le visioni!

GABRIELE Gabriele, l’angelo di Dio... sono io quello,

Vergine... il nunzio del tuo solitario e delicato amore.

MARIA (inizia con un fil di voce, prendendo via via tono e

forza) Gabriele... Gabriele... torna ad allargare le ali,

Gabriele... torna indietro al tuo bel cielo gioioso… tu non hai

niente a che fare, qui… in questa lercia terra... in questo

tormentato mondo.

Vattene Gabriele... che non ti si sporchino le ali colorate di

gentili colori... non vedi fango e sangue e letame misto a

puzzolente merda dappertutto?

Vattene Gabriele... che non ti si spacchino le orecchie tanto

delicate con ‘sto gridare disperato e pianti e implorare che

cresce da ogni parte...

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Vattene Gabriele... che non ti si consumino gli occhi

luminosi a rimirare piaghe e croste… bubboni e mosche e

vermi!, fuori dai morti squarciati!

Non sei abituato, tu Gabriele... che nel Paradiso non ci sono

né rumori, né pianti, né guerre, né prigioni, né uomini

impiccati, né donne violentate!

Non c’è né fame, né carestia, nessuno che sudi a

stracciabracce, né bambini senza sorrisi, né madri scurite dal

dolore... nessuno che peni per pagare il peccato! Vattene

Gabriele! Vattene Gabriele! (Urlando) Vatteneee

Gabrieeele!

Su un canto gregoriano cala lentamente la luce.

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IL MATTO E LA MORTE

Prologo 2000

Eccoci alla giullarata de “Il matto e la Morte”. Questo testo è

di origine croata, ma l’abbiamo scovato in una trascrizione

dalmata, piuttosto antica. Fool, fou, baléngo, luch, lòco,

ecc... sono termini, espressioni che in vari paesi d’Europa

alludono soprattutto ad una maschera del folle, appunto.

Nel teatro popolare dei primordi il matto indica il

personaggio di contrappunto, il capovolto, fuori-regola, che

non accetta né consuetudini né logica... per non parlare di

tutto ciò che la società presenta come regolamento, legalità,

dogma assoluto. Insomma è il rappresentante allegorico di

tutti gli scombinati che si chiamano fuori. Esiste un testo

famoso di Erasmo da Rotterdam che ha per titolo “La nave

dei folli”. Il testo satirico è ispirato a una autentica

consuetudine medievale. All’inizio della primavera nelle

Repubbliche Anseatiche tutti i pazzi, i diversi, i giullari, gli

squinternati, compresi eretici, liberi pensatori e prostitute

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irregolari, venivano a forza imbarcati su una nave priva di

timone e deriva. Il vascello veniva poi trascinato al largo e

affidato alle correnti ascendenti che lo accompagnavano

immancabilmente al nord nel Baltico fra i ghiacci. Un modo

simpatico per eliminare tutti i rompiscatole, “fuori dal coro”.

Il matto lo troviamo anche in molte storie sacre: è il

personaggio che s’incontra nell’osteria di Emaus, proprio

nella notte della cena famosa: l’ultima. Gesù Cristo e i suoi

Apostoli stanno in una saletta appartata, il matto e gli

avventori abituali sono nello stanzone attiguo alle cucine.

Intorno a un gran tavolo stanno giocando a carte un prete, un

soldato, un mercante. E’ evidente: si tratta di personaggi

allegorici che alludono a professioni di potere. Con loro c’è

anche il matto che naturalmente è destinato a perdere ogni

partita. Il matto, che rappresenta soprattutto il popolo

minuto, insiste a voler giocare con la speranza di guadagnare

almeno qualche mano, ma le regole le fanno i tre che

conducono il gioco, per di più barano smaccatamente e

nascondo le carte in ogni piega dei loro abiti: impossibile

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batterli! Dall’altra stanza, un fuoriscena, giunge ogni tanto

qualche rumore: una sommessa risata, voci sovrapposte, un

dialogo confuso di Santi che si accalorano in animate

discussioni. Scoppia un breve alterco con Giuda che,

risentito, se ne va sbattendo la porta; lo rincorrono alcuni

seguaci, cercano di calmarlo, lo convincono a tornare nella

stanza del banchetto: “Su non fare cossì, non prendertela... lo

sai com’è lui, ogni tanto gli gira storto e va giù pesante, ma

non lo fa per cattiveria. Di sicuro non lo pensava, anzi per

mé... scherzava! Torna indietro, dai... vedrai che ti chiede

pure scusa!”, e Giuda rientra, sospinto da quattro Apostoli.

Notiamo passare i servi con bacinelle colme d’acqua,

“Strana gente - commenta il matto sbirciando nell’altra

stanza - che originali! Si lavano i piedi prima di mangiare.”

La porta si spalanca e si chiude di continuo... il matto

continua a sbirciare al di là dei battenti e, ogni tanto, fa gesti

di saluto verso Gesù, gli strizza l’occhio e commenta: “Che

simpatico quel Cristo!”. Ad un certo punto il salone è

attraversato da una folata di vento gelido, sbattono le tende...

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entra in scena una strana figura... una donna avvolta da un

enorme manto nero, orlato di nappa a straccio con un velo

in testa che fa appena intravedere il viso. Regge una falce: è

la “stribbia”, la morte. Colti da brividi, i giocatori che stanno

intorno al tavolo, chi correndo, chi strisciando lungo le

pareti, fuggono. L’ostessa e i servi si ritirano rinchiudendosi

nella cucina. Nel salone rimane solo il matto: allocchito fissa

la stribbia che gli si avvicina e siede di fronte a lui. Il matto,

se pure in ritardo, l’ha riconosciuta, è convinto sia venuta

per lui, cerca di apparire nient’affatto sgomento, anzi gioca a

fare lo smargiasso: “Non éra proprio il caso che ti

scomodassi per uno sbilenco come mé... capisco darti da fare

per acchiappare un pezzo grosso, un ricco sfondato!”. Quasi

subito il matto si rende conto che le attenzioni della morte

non sono rivolte a lui, la “stribbia” è venuta per prendersi

Gesù Cristo. I due discorrono e il matto riesce a conoscere

dalla velata quale sarà la fine di Gesù. Gli si blocca il

respiro, non sa trattenere le lacrime poi, all’improvviso,

imprevedibile da autentico pazzo, esplode in una risata e

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comincia a cantare saltellando qua e là per la sala... offre da

bere alla stribbia, la corteggia con adulazioni paradossali,

esasperate. La triste velata, incredula, si diverte, brinda col

matto e beve, ma è risaputo, la morte non regge il vino.

Dopo un po' eccola ridere e danzare, quasi sguaiata, tenuta

per la vita dal matto che la fa piroettare intorno come un

fantoccio. Volano veli, stracci e mantelli, appare il viso

pallido della regina tombarola: “Oh, la bella smortina!”

esclama il matto. Spuntano seni tondi e sbianchiti ; il matto

l’accarezza e la stordisce di parole , la stringe a sé, la

solleva, la fa volare. La smortina s’è illanguidita, sta proprio

andando via di testa per ‘sto pazzo e con lui se ne esce

abbracciata, pigolando come una gazza in amore. L’allegoria

è antica, proviene certamente dal protocristianesimo, allude,

è ovvio, al rito che vede il matto come doppio di Cristo, che

conquista la morte, compresa sofferenza è sepoltura, poiché

lui, immortale si sacrifica e muore per liberare gli uomini.

Ora vi presentiamo il frammento della stessa scena

interamente dialogata.

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Il brano normalmente veniva rappresentato da almeno

cinque attori. Io mi proverò a realizzarlo come monologo.

IL MATTO E LA MORTE

PERSONAGGI

Il Matto-I Giocatore-II giocatore-III giocatore-Ostessa-

La Morte

In una locanda alcuni sfaccendati giocano a carte con il

matto.

MATTO Ól cavàl sü l'àsen, la vérzen sóra al viziùs e am

porti a casa tüto! Ah, ah. Avìt sémper üt la cunvinziùn ca mi

fudèssi un polàstro de spenà vu, eh? E mo', com' la metìu?

(Distribuisce le carte).

PRIMO GIOCATORE No’ a l'è finìda ancmò la partìda...

‘pècia un bòt a cantà!

MATTO No, che mi a canto de cóntra... e a balo! Ohi che

bele carte! Bòna sira maiestà, segnór régio, av despiàse

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andarme a catàr la corona de quèl bastardàsc d'ól mé amìgh?

(Sbatte una carta sul tavolo).

SECONDO GIOCATORE Ah ah... at sèt tumburnà col

régio ca mi ghe pichi l'imperadùr!

MATTO Ohi ohi, varda ti còssa ól mé càscia st'imperadùr:

agh pichi là quèst (si volta di schiena appoggiando il sedere

sul tavolo) e peu de giùnta 'st'asasìn che at cópa l'imperadùr

‘mé un porscèl.

PRIMO GIOCATORE E mi at stòpi l’asasìn col capitàni...

MATTO E mi at fagh stciopàr la guèra che ól capitàni ól

dev partìr!

SECONDO GIOCATORE E mi la carestia e ól culéra e la

peste che le guère a fan furnì!

MATTO E ti alóra to’ l'umbrèla che sptiù tempesta, sptiù

tempuraj... sptiú piòva e delügi! (Ha bevuto dalla brocca e

spruzza tutti quanti).

PRIMO GIOCATORE Ohi desgrasiàd d’un Matazón, at si

mat?!

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MATTO Eh sì che a son mato ah... se a mé ciamìt Matazón,

son mato... e a mé vìncio ‘e partìde de taròchi cónt al delügi

che a òmni pestilenza fa fà ól fagòt.

OSTESSA Déighe ón tàj par piazér de fà 'sto burdeléri, che

gh'ho zénte in d'ól stanzón ch'i è a rénta andàr a tàbola.

MATTO Chi a sont?

OSTESSA No’l sagh mi... che no’ i gh’avévi gimài vedúi

chilò a Emmàus quèili, in la méa lucànda. I ghe dise i

apostoli...

Interrompono un attimo il gioco.

SECONDO GIOCATORE Ah, i sont quèi dódes che agh

van intorno al Nazaréno.

MATTO Sì, ól Gesú, che ól serìa quèilo che ól sta in del

mèz, vàrdalo là... ch'ól m'è tant sempàtich a mi. (Chiama a

gran voce) Ohè Gesú Nazarén, at salüdi! Bòn apetit! (Agli

amici) Hàit vist, ól m’ha schisciàd l’ögio... Com'a l’è

sempàtich!

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TERZO GIOCATORE Dódes e vün trèdes... o i's mèt a

tàbola in trèdes, che agh ména’ sì tanto gram!

MATTO Oh, ma se i sont matòchi! ‘Pècia che agh fagh ‘na

scaramànza par scasciàrghe via ól maleugio. (Canta)

Trédes a çena scalògna nol ména

maleugio stà quac

che at tóchi 'sti ciàpp! (Palpa il sedere all'ostessa).

OSTESSA Stàite bòn, Matazón, che am fàit reversàre

l’acqua bujénta!

PRIMO GIOCATORE L'acqua bujénta? Cosa an ne fan

cos'è quèili? (Distribuisce le carte).

OSTESSA A credi che i se vol lavàsse i pìe.

SECONDO GIOCATORE Lavàrse i pìe inànze de magnàr?

Ohi, chi è 'mpròpi mati! Matazón, ti at dobiarèset andàrghe

cont lóri che a quèili a sónt i compagnón fadi a bela pòsta

par ti.

MATTO (nella foga del discorso non si accorge che i

compari velocemente gli sostituiscono le carte) At l'hàit

dit… ti gh'ha rezón: am véncio 'sta partida e cont i palànchi

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che am pagarét… vagh de là in d'ól stanzón a bévarmei tüti

cont lóri... e vui no' vegnì miga, che vui no' podìt star coi

mati e matazóni, che a sit de’ savi fiòl de putàne e de

ladroni!

TERZO GIOCATORE Gieuga, gieuga… che am vòi pròpi

geud 'sta tua vinciüda!

MATTO A spropòsit de ladroni: indùa l'è 'ndàd a furnì ól

Mato che gh'l'avevi in mèz a i mé carti?

SECONDO GIOCATORE Dèighe un spèc che ól se pòda

miràr: at truarèt de sübet la fàcia d'ól tò Mato.

PRIMO GIOCATORE Gieuga e no' stà a pèrd ól témp!

(Inizia la partita) Cavajér col spadón!

SECONDO GIOCATORE Rejna col bastón!

MATTO Stròlega col cavrón!

TERZO GIOCATORE Ól bambìn innozénte!

PRIMO GIOCATORE Ól Deo 'nipoténte!

MATTO La justìzia e la rezón!

SECONDO GIOCATORE Ól furbàso e l'avocàt!

TERZO GIOCATORE Ól bòja e l'impicàt!

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MATTO Ól papa e la papèsa!

PRIMO GIOCATORE Ól préite che fa mèsa!

SECONDO GIOCATORE La vita bela e alegra!

TERZO GIOCATORE La morte bianca e négra!

SECONDO GIOCATORE De carte a ghe n’èt pü: caro ól

mé mat ti gh'ha perdü!

MATTO ‘Pusìbil! Ma come ho fàit a pèrdre?

PRIMO GIOCATORE Com l’ha fàit? No' ti è bòn de

ziogàr, ól mé car Matazón cojón! Paga mo', foera 'ste

palànche!

MATTO M’avìt pelàt al cumplèt, bòja d'un geubo!... E di'

che a pensàg mé pareva d'avérghela mi, de següro, 'sta carta

de la morte... am regòrdi che agh l'avevi chi in d'ól mèz.

Sul fondo appare la Morte avvolta in un gran mantello nero.

Un velo leggero lascia trsparire un viso

“mortalmente”pallido.

SECONDO GIOCATORE Ohi mama... chi a l’è quèla?!

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Il matto volta le spalle alla Morte. È intento a contare le

poche monete che gli sono rimaste.

TERZO GIOCATORE La stria... la Morte!

Fuggono tutti meno il Matto.

MATTO Sì, la Morte, impròpri... gh’l'aveva mi! Ohi che

frio... 'ndua av sit casciàdi tüti? Gh'è ól zélo ch'a'm ‘riva in

d'i òsi. Sarìt quèla porta... (Sbircia appena la Morte) Bòn dì.

(Tra sé) Gh'è tüto seràd... d'in dóe ól végne 'sto

infregiaménto bòja? (Ferma l’attenzione sulla donna velata

e ha un moto di spavento) Bòn dì, bona sira... bona note…

Madama, cont permès. (Si alza per andarsene… ma non sa

come accomiatarsi) Sicóme i mé amìsi a sónt andàtt... (Si

rende conto di aver a dimenticato le monete sulla tavola, si

blocca e torna indietro) Scerché quaidün? La padrona l’è de

là in d’ól stanzùn a servigh in tàola a i apòstul ól baslòt de

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lavàs i pìe: se a vorsì andagh, no’ fit di cumpliménti…

(Trema vistosamente) Ohi che barbèli!

MORTE No, av rengràzio, ma prefèrzo de spectàre quìnve.

MATTO Bòn... se la vòl sentàrse, las tòga 'sta cadréga... l'è

anc’mò calda, che gh'l'ho scaldàda mi! (La donna si siede)

Ca scüsa, madama... ma indès che la vardi plü de rénta am

somégia d'avéghla reconosüda ‘n'altra veulta.

MORTE El sta imposìble, ch’éo mé sónt üna ch’as conóse

‘na volta… mas solamente.

MATTO Ah sì? ‘Na volta mas...? A la gh’ha una parlàda de

forèsta... che la mé par toscània... No’ la è toscània?

Ferarésa? Romana? Trevigiana? De Cicìlia? Nemanco de

Cremona? Ab òmni manéra madama, am permetì de dirve

che av truvi un poch giò de caregiàda, un poch smortìna…

de l'ültema veulta che no’ vé gh'ho cognosüda.

MORTE At dit smòrta?

MATTO Sì, no’ ve ofendìt a spéro?

MORTE No, che eo a sónt in sempitèrna stada smòrta. Che

smòrto e gli è el méo naturale.

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MATTO Smòrto al naturale? (Di colpo si ricorda) Ah, èco

a chi a ghe somégia! (Prende dal mazzo una carta e gliela

mostra) Vu che somegì spuàda a ‘sta figura ch'è pinturàda su

‘sta carta!

MORTE Enfàcti. Eo a sónt la Morte.

MATTO La Morte? (A tratti, balbettabdo) A sit la Morte, a

vu? (Gli trema vistosamente la gamba) Oh ti varda la

combinasiün! A l’è la Morte! Bòn... piazére... mi a sont

Matazón.

MORTE Té fago pagüra, eh?

MATTO Pagüra a mi? (Non riesce a trattenere il continuo

fremito alla gamba) No, che mi a son mato matazóne, e ól

san tüti che anco in d'ól ziògo de i taròchi ól mato no’ ól

gh'ha pagüra de la morte. Anze, de contra la va zercàndo par

far copia maridàda, che inséma i vénze òmnia carta: infin

quèla d'amore!

MORTE Se no' ti g'hai pagüra, come l'è che té trémba 'sta

giàmba?

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MATTO La giàmba? A l'è perchè a no' l'è mia 'sta giàmba

chì! Che la mia vera de mi mé la gh'ho perdüda in d'ól

campo a guerezàre... e alóra ne gh'ho catàda una d'un

càpitani... che lü a l’éra morto e la sòa giàmba la svisigàva

an’cmò viva como la fuèse ‘na côa d'üna luzèrtula cupàda. E

dónca gh'l'hàit taiàda, 'sta giàmba e m'la sónt tacàta a mi con

la spüa... (si muove mimando un ancheggiare da storpio)

che, vardìt, ól se comprénd bén che no' la pò ess la méa... a

l'è plü lónga de òna spana che la mé fa 'ndà sòpo de

stràmbola, a mi! (Si rivolge alla gamba che continua a

tremare) Ohi, güra, che no' as deve trembàr de fifa d'enànze

a una segnóra madòna lustrìsema compàgna... (come

parlasse a un cavallo) ‘dèm… pògia!

MORTE At sèt bòn zentìle a nomàrme lustrìsema e madòna.

MATTO Oh, n'ól fagh per zerimònia, credìme... ca par mi, a

vel ziüri, vu s'èt ‘lustrìsima e infìn induràbil... e mi gh'hàit

plazér che vui sit 'gnüda a trovàrme a mi… ché vui mé

piazìu, tant che av vòj pagàr de bévar, se am permetì!

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MORTE Bén volentéra... (Interessata) Hai dit ch'éo at plazi

a ti?

MATTO (versa del vino nei bicchieri) Següra! Tüto am

piàze de vui: ól parfüm de grizantémi che gh'i' indòso… e ól

palór smòrto de la fàcia, che de noiàltri as dise: "Dòna de

carna fina, d'ól colór d'la biàca, dòna che in d'ól far l'amór

no' l'è mai straca!".

MORTE Oh… che 'm fàit 'gnire svergognósa, mato che no'

sèit àrtro! Niùno mé aveva gimài fata ‘rosìre in 'sta manéra.

MATTO ‘Rusìt imparchè vui sit dòna vérzine et purìsima:

che a l'è véra che parèci òmeni vui avìt imbrasàd, ma par una

veulta sojaménte... ché niùno de quèi ól meritàva de

desténderse rutulàndo in brasa a vui… ché niùno av porta

amór sinzér nì stima.

MORTE A l'è véra, niùno mé stima!

MATTO Imparchè vui sèt trop modesta e no' fèt sonàr

corni, ni bàter tambóri a 'nunziàr la vostra vegniüda, con tüt

che sit Reèjna... (Versa da bere) Rèjna d'ól mundo! (Alza il

bicchiere e brinda) A la vostra sanità, Rèjna!

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MORTE Sanità de la Morte? No' 'ndivìno si ti è plü mato o

plü poeta.

MATTO Tüti li dò: imperochè òmni reàl poeta a l'è mato, e

al roèrso. (Le offre da bere) 'Evìt, smortìna, che ól ve darà un

poch d' colùr 'sto vin. (Bevono).

MORTE (sorseggia il vino) Oh ch l'è bòn!

MATTO E come n'ól podarìa ès bòn... a l’è istèso che l'è

rénta a béf ól Nazaréno, in d'ól stanzùn de là... e quèl as

n'intend e come ad vin... gran cognosidùr l’è quèl!

MORTE Lo qual'è ól Nazareno in fra quèi?

MATTO Ól zóvin sentàd ind'ól mèz, quèl cont i ögi grandi e

ciàri.

MORTE L’è òm de dólza figüra!

MATTO Sì, a l'è un bèl zióvin, ma no' mé vorsarì far 'gnir

gialùso... no' mé vorsarì far ól despèt de lasàrme de par mi

zol, par andàghe in compagnia de lóri... che am vegnarìa de

plànger desesperàt!

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MORTE Ti mé vòl luzingàre oh, furbàso? (Si toglie il velo:

scopre lunghi capelli dorati, il viso pallidissimo e

occhidolcemente ombrati: è bellissima).

MATTO Mi luzingàr? Luzingàr ‘na dama che nemanco de

imperadór, ne manco de papa no’ se lasa menàr in sogezión?

Ohi l’encànto che ti fa co' 'sti cavèi, che mi volentéra a

catarìa tüti i fiór de la tèra per bütàrteli indòso de covrìrte

tüta sóto un gran mücio, e po' am butarìa anc’mi a scercàrte

sòta a quèl mücio e a spoiàrte de i fior… e de tüto !

MORTE At m' fàit créser gran calór con 'ste parole, el méo

mato… e am rincrésse caro… che volentéra avrìa vorsüdo

starte in compagnia e portàrte séco a mi.

MATTO No' ti è ‘gnüda par quèl… par portàrme via con ti?

(Ride felice) Ah ah, no' sèt 'gnüda par mi... ah ah... e mi che

am figuràva... ohj che a l'è gran ridiculàso 'sto facto! Bòn,

am fa majór plazér 'sto rebaltón de stciàmbio, a sónt pròpi

contént! Ah ah!

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MORTE Mo’ a végo bén che ti gh’ha ziogà bosiàrdo... che

ti fazéa móstra de pasión amorosa par embesuìrme e

scantonàr a la Morte... che a sónt mi, quèla.

MATTO No, ti gh'ha catào un scarpüsc, smortìna... mi sto

en grand festa per la rasón che ti no' s'et chi de mi par

servìsi... no' ti gh’ha scernìt la mea compagnia per ól to’

mesté de trame fœra l'ültem fià... ma per la rasón che te se

stralòcheno i ògi e ol coeur per le rigolàde e ó pasèr che te

dago… l'è vera? Av sónt sempàtich mé smortìna? Dime!

(Breve pausa) Se l'è ch'av sücéd… che av góta feura i

làgrem da i ögi? Oh quèsta a l'è propri da strabalénga! La

Mort che la plange! At gh’hai purtàt ofésa mi?

MORTE No, ti ne mé gh'hai ofendüa... ti m'hai molcìdo ól

còr sojaménte... Eo plango par malenconìa de quèl fiòlo

Jésus sì dolze... che illo è lo qual a che doverò tòllere lo

respiro.

MATTO Ah, par lü at sèt 'gnüda... par ól Crist! Bòja, mé

rencrés anca a mi pòr zóvin. E par quale azidént o maladìa ol

lo menerét via?

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MORTE Maladìa de la croze…

MATTO De la croz? Ól fornirà inciudàd? Oh pòver Crist...

che n'oòl podéva ‘vegh 'n'àlter nóm plü sventuràt! Sént,

smortìna: fam un piasér, lasa che mi agh vaga a ‘visàl... c'ól

se prepara a 'sto suplìzi treménd!

MORTE Gli è inütil che t' l'avìsi, imparchè sì 'l conóse… el

sape bén de quand l’è nascìo al mündo che dimàn e dobiarà

slongàrse in cróze.

MATTO Ól sape... ól cognós e, de ‘giùnta, ól resta lì lóga

tranquìl a cuntàrla sü e ghe surìd beàt ai so' compagnón? Oh

che a l'è mat anc lü pejiór de mi, quèl!

MORTE Té l'hàit dito! Vién… no' stémoce a pensarghe

plü... 'egni a versàrme el vino che mé vòjo imbriagàre...

slontanàr de 'sta trestìzia.

MATTO At gh'hàit rezón... ól meiór è avérghe la morte

alégra! Dònca: bevémo a scaciamagón! Bèla smortìna...

vègne che se démo el contento… Slàzate 'sto mantèl che at

vòj védar 'ste braze stagne d'ól colór d'la lüna... (La donna si

toglie il mantello) Ohi che són presióse… Slàzet anc’ ól

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gibòt d'inànz che at vòi lustràrme i ögi con 'sti to’ dòi pómi

d'arzénto che par le stèle Diane...

MORTE No a té prégi mato... che éo a mi sónt donzèla e

garzonèta e mé svergógno tüta... che niùno òmo el m’ha

gimài tocàta snùda!

MATTO Ma mi a sont ól Mato, minga ‘n’òmo... e la Morte

no’ farà pecàt a lasàrse amar da un fòll baléngo, che a songh

mi quèl... No' t'habia pagüra che mi a smorzerò tüti i lümi... e

a un soléngo an lasarò... e andarémo a balar... di bei pasèti

che at vòj 'nsegnàr... at vòj far cantar de sospiri e de laménti

inamorosi. (Canta accennando passi di danza con giravolte

sempre più veloci)

Làssate andar e ziravòlta a róndo

lassa che le mée dida vàgheno zercando

in di piegaménti dée tòe sotàne

làssame andar en danza en le tòe còssie

lasse che le tòe giàmbe le se inforca co’ le mée

lassa che tüti e dòi se vaga in giostra

lassa che vaga revoltàndose el zervèl

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e ol mondo tüto ól vaga a rebaltón!

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TRADUZIONE

In una locanda alcuni sfaccendati giocano a carte con il

matto.

MATTO Il cavallo su l'asino, la vergine sopra al vizioso e

mi porto a casa tutto! Ah, ah. Avete sempre avuto la

convinzione che io fossi un pollastro da spennare, voi eh? E

adesso, come la mettiamo? (Distribuisce le carte)

PRIMO GIOCATORE Non è ancora finita la partita…

spetta un momento a cantare!

MATTO No, che io canto invece... e ballo! (Sbirciando le

proprie carte) Ohi che belle carte! Buona sera maestà, signor

re… vi dispiace ad andarmi a prendere la corona di quel

bastardaccio del mio amico? (Sbatte una carta sul tavolo).

SECONDO GIOCATORE Ah ah... sei cascato in trappola

col re: io adesso ci piazzo l'imperatore!

MATTO Ohi ohi, guarda tu cosa mi combina ‘sto

imperatore: ci picchio là questo (si volta di schiena

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appoggiando il sedere sul tavolo) e poi d’aggiunta ‘sto

assassino che ti ammazza l'imperatore come un porcello.

PRIMO GIOCATORE E io ti stoppo l’assassino col

capitano...

MATTO E io ti faccio scoppiare la guerra così il capitano

deve partire!

SECONDO GIOCATORE E io (ti faccio venire) la carestia

e il colera e la peste che le guerre fanno finire!

MATTO E tu allora prendi l'ombrello che sputo tempesta,

sputo temporali... sputo pioggia e diluvio! (Ha bevuto dalla

brocca e spruzza tutti quanti).

PRIMO GIOCATORE Ohi disgraziato d'un Mattazzone, sei

matto?!

MATTO Eh sì che son matto ah... se mi chiamate

Mattazzone, son matto... e mi vinco le partite dei tarocchi

con il diluvio che a ogni pestilenza fa fare fagotto.

OSTESSA Dateci un taglio per piacere con 'sto bordello,

che ho gente nello stanzone che sta andando a tavola.

MATTO Chi sono?

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OSTESSA Non so io... non li avevo mai visti quelli ad

Emmaus nella mia locanda. Li chiamano gli apostoli...

Interrompono per un attimo il gioco.

SECONDO GIOCATORE Ah, sono quei dodici che vanno

seguendo il Nazareno.

MATTO Sì, Gesù, che sarebbe quello che sta nel mezzo…

guardalo là... che m'è tanto simpatico! (Chiama a gran voce)

Ohe Gesù Nazareno, ti saluto! Buon appetito! (Agli amici)

Avete visto? M'ha schiacciato l’occhio... Com’è simpatico!

TERZO GIOCATORE Dodici e uno tredici... si mettono a

tavola in tredici che porta tanto gramo (sfortuna)!

MATTO Oh, ma se sono matti! Aspetta che gli faccio una

scaramanzia per cacciargli via il malocchio. (Canta)

Tredici a cena scalogna non mena

malocchio sta quieto

che ti tocco il didietro! (Palpa il sedere all'Ostessa).

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OSTESSA Sta buono, Mattazzone, che mi fai rovesciare

l’acqua bollente!

PRIMO GIOCATORE L’acqua bollente? Cosa ne fanno

quelli? (Distribuisce le carte).

OSTESSA Credo si vogliano lavare i piedi.

SECONDO GIOCATORE Lavarsi i piedi prima di

mangiare? Ohi, sono proprio matti! Mattazzone, tu dovresti

andare con loro che quelli sono i compari fatti apposta per

te!

MATTO (nella foga del discorso non si accorge che gli

amici velocemente gli sostituiscono le carte) L’hai detto…

hai ragione: mi vinco ‘sta partita e con le palanche che mi

pagherete vado di là nello stanzone a bermeli con loro... e

voi non ci verrete per via che non siete né matti né

mattazzoni… siete dei savi figli di puttane e di ladroni!

TERZO GIOCATORE Gioca, gioca… che mi voglio

proprio godere ‘sta tua vittoria!

MATTO A proposito di ladroni, dove è andato a finire il

Matto che avevo tra le mie carte?

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SECONDO GIOCATORE Dategli uno specchio che si

possa rimirare: troverai subito la faccia del tuo Matto.

PRIMO GIOCATORE Gioca e non perdere tempo... (Inizia

la partita) Cavaliere con lo spadone.

SECONDO GIOCATORE Regina col bastone.

MATTO Strega col caprone.

TERZO GIOCATORE Il bambino innocente.

PRlMO GIOCATORE Il Dio onnipotente.

MATTO La giustizia e la ragione.

SECONDO GIOCATORE Il furbo e l’avvocato.

TERZO GIOCATORE Il bòja e l’impiccato.

MATTO Il papa e la papessa.

PRIMO GIOCATORE Il prete che fa la messa.

SECONDO GIOCATORE La vita bella e allegra.

TERZO GIOCATORE La morte bianca e nera.

SECONDO GIOCATORE L’ultima carte, ecco ho calato,

caro il mio Matto sei bello e fregato! fottuto

MATTO Possibile! Ma come ho fatto a perdere?

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PRIMO GIOCATORE Come hai fatto? Non sei capace di

giocare, caro il mio Mattazzone coglione. Adesso paga, fuori

questi soldi!

MATTO M'avete pelato completamente, bòja d'un gobbo...

E dire che a pensarci mi sembrava proprio di averla io,

questa carta della morte… mi ricordo che ce l'avevo qui nel

mezzo.

Sul fondo appare la Morte avvolta in un gran mantello nero.

Un velo leggero lascia trasparire un viso

“mortalmente”pallido.

SECONDO GIOCATORE Ohi mamma... chi è quella?

Il matto volta le spalle alla Morte. È intento a contare le

poche monete che gli sono rimaste.

TERZO GIOCATORE La stria… (forma gergale di morte

improvvisa) La morte!

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Fuggono tutti meno il Matto.

MATTO Sí, la Morte! Proprio... ce l'avevo io! Oh che

freddo... Dove vi siete cacciati tutti? Ho il gelo che mi arriva

alle ossa. Chiudete quella porta... (Sbircia appena la Morte)

Buon giorno! (Tra sé) È tutto chiuso… da dove arriva ‘sto

freddo bòja? (Ferma l’attenzione sulla donna velata e ha un

moto di spavento) Buon giorno, buona sera... buona notte…

Madama con permesso. (Si alza per andarsene… ma non sa

come accomiatarsi) Siccome i miei amici sono andati... (Si

rende conto di aver dimenticato le monete sulla tavola, si

blocca e torna indietro) Cercate qualcuno? La padrona è di

là nello stanzone a servire in tavola gli apostoli e la bacinella

per lavarsi i piedi… se volete andarci non fate complimenti.

(Trema vistosamente) Oh che batto i denti!

MORTE No, vi ringrazio, ma io preferisco aspettare qui.

MATTO Bene, se vuol sedersi si prenda questa sedia è

ancora calda, l'ho scaldata io! Mi scusi, signora ma adesso

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che la guardo più da vicino mi sembra d'averla già

conosciuta un'altra volta.

MORTE È impossibile, che io sono una che si conosce una

volta sola.

MATTO Ah sí? Una volta sola? Ha una parlata forestiera,

che mi sembra toscana. (La donna diniega) Non lo è?

Ferrarese? Romana? Trevigiana? Di Sicilia? Nemmeno di

Cremona? Ad ogni modo, signora, mi permetta di dirle che

la trovo un po' giù di corda, un po' pallida… dall'ultima volta

che non l'ho conosciuta.

MORTE Dici che sono pallida?

MATTO Sí, non vi offendete, spero?

MORTE No, io sono eternamente stata pallida. Il pallore è il

mio (colore) naturale.

MATTO Pallida naturale? (Di colpo si ricorda) Ah, ecco a

chi assomigliate! (Prende dal mazzo una carta e la mostra)!

Voi assomigliate sputata a questa figura dipinta su ‘sta carta

MORTE Infatti. Io sono la Morte.

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MATTO La Morte? (A tratti, balbettando) Ah, siete la

Morte, voi? (Gli trema vistosamente la gamba) Oh guarda

che combinazione! È la Morte! Bene... piacere... io sono

Mattazzone.

MORTE Ti faccio paura, eh?

MATTO Paura a mé? (Non riesce a trattenere il continuo

fremito alla gamba) No, io sono matto e lo sanno tutti, anche

nel gioco dei tarocchi, che il matto non ha paura della Morte.

Anzi, al contrario, la va cercando per far coppia maritata,

che insieme vincono ogni carta, persino quella d'amore!

MORTE Se non hai paura, com'è che ti trema questa gamba?

MATTO La gamba? È perché questa gamba non è mia. La

mia vera l'ho persa in un campo a guerreggiare... e allora ne

ho presa una di un capitano che éra morto e la sua gamba si

muoveva ancora viva come fosse stata la coda di una

lucertola ammazzata. E dunque gli ho tagliato questa gamba

e mé la sono attaccata da solo, con lo sputo… (si muove

mimando un ancheggiare da storpio) che, guardate, si

capisce bene che non può essere la mia... e più lunga di una

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spanna e mi fa andare zoppo. (Rivolto alla gamba) Ohi! Sta'

buona (gamba del capitano), che non si deve avere paura

davanti a una signora madonna illustrissima come questa!

(Come parlasse ad un cavallo) Andiamo, appoggia!

MORTE Sei bén gentile a chiamarmi illustrissima e

madonna.

MATTO Oh, non lo faccio per cerimonie, credetemi, è che

per mé, lo giuro, voi siete illustrissima e perfino adorabile.

Mi lusinga che mi siate venuta a trovare… ché voi mi

piacete, tanto che vi voglio pagare da bere, se me lo

permettete!

MORTE Ben volentieri… (Interessata) Hai detto che ti

piaccio?

MATTO (versa del vino nei bicchieri) Certo! Tutto mi piace

di voi: il profumo di crisantemi che avete addosso… il

pallore smorto della faccia… che da noi si dice: «Donna di

carne fina dal colore di biacca, donna che a far l'amore mai

si stracca (stanca)».

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MORTE Oh, mi fai diventare vergognosa, matto che non sei

altro! Nessuno mi aveva mai fatto arrossire in questo modo.

MATTO Arrossite perché voi siete donna illibata e pura: è

vero che parecchi uomini avete abbracciato, ma per una

volta sola... ché nessuno di quelli meritava di stendersi e

rotolare in braccio a voi… ché nessuno vi porta amore

sincero né stima.

MORTE È vero, nessuno mi stima!

MATTO Perché voi siete troppo modesta e non fate suonare

corni, né battere tamburi ad annunciare la vostra venuta, con

tutto che siete Regina... (Versa da bere) Regina del mondo!

(Alza il bicchiere e brinda) Alla vostra salute, Regina!

MORTE Salute della Morte? Non indovino se sei più matto

o più poeta.

MATTO Tutti e due, perché ogni vero poeta è matto, e

viceversa. (Le offre da bere) Bevete, pallidina, che vi darà

un po' di colore questo vino. (Bevono).

MORTE (sorseggia il vino) Oh come è buono!

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MATTO E come non potrebbe essere buono? È lo stesso che

sta bevendo il Nazareno, nello stanzone di là, e quello se ne

intende eccome di vino… Gran conoscitore è!

MORTE Qual è il Nazareno fra quelli?

MATTO Il giovane seduto nel mezzo, quello con gli occhi

grandi e chiari.

MORTE È un uomo di dolce figura!

MATTO Sí, è un bel giovane, ma non vorrete ingelosirmi?

Non mi vorrete fare il dispetto di lasciarmi solo per andare

con loro… ché mi verrebbe da piangere disperato!

MORTE Mi vuoi lusingare, eh, furbacchione?! (Si toglie il

velo: scopre lunghi capelli dorati, il viso pallidissimo e

occhi dolcemente ombrati: è bellissima).

MATTO Io lusingare? Lusingare una dama che non si lascia

mettere in soggezione né da papi, né da imperatori? Oh!

l’incanto che sei con questi capelli, che io volentieri

coglierei tutti i fiori della terra per buttarteli addosso da

coprirti tutta sotto un gran mucchio, e poi mi butterei anch'io

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a cercarti sotto quel mucchio e ti spoglierei dei fiori... e di

tutto!

MORTE Mi fai crescer gran caldo con queste parole, caro il

mio matto… e mi spiace… ché volentieri sarei rimasta in tua

compagnia e ti avrei portato con mé.

MATTO Non sei venuta per quello? Per portarmi via? (Ride

felice) Ah! Non sei venuta per mé... ah, ah... E io che

credevo... Oh, è davvero da farsi gran risate 'sto fatto! Che

pacchia! Mi va proprio al bacio 'sto scambio, a ribaltone!

Sono proprio contento! Ah, ah!

MORTE Ora ben vedo che hai giocato bugiardo… facevi

mostra di passione amorosa per imbesuirmi e scantonare alla

Morte… che quella io son.

MATTO No, hai preso un granchio, sbianchina… io sto in

gran festa pel fatto che tu non sei da me per ufficio… non

hai scelto la mia compagnia per il tuo mestiere di cavarmi

(togliermi) l'ultimo respiro… ma per il fatto che ti si

stralloccano gli occhi e il cuore per le risate e il piacere che

ti do…vero? Ti sono simpatico io sbiancolina? Ditemi!

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(Breve pausa) Cosa ti succede… che ti gocciolano le

lacrime dagli occhi? Oh, questa è proprio da strafollia! La

Morte che piange! Ti ho portato offesa io?

MORTE No, non mi hai offeso, tu… mi hai sciolto di

tenerezza il cuore. Piango per malinconia di quel figlio Gesù

(che è) cosí dolce… che è lui quello al quale dovrò togliere

il respiro.

MATTO Ah, per lui sei venuta… per il Cristo! Bòja, spiace

anche a me povero giovane. E per quale accidente o malattia

te lo porterai con te?

MORTE Malattia della croce...

MATTO Della croce? Finirà inchiodato? Oh povero Cristo,

che non poteva avere un altro nome più sventurato. Senti,

pallidina fammi un piacere, lascia che io vada ad avvisarlo

che si prepari a questo supplizio tremendo.

MORTE È inutile che tu lo avvisi, perché lui lo sa già… lo

sa da quando è nato che domani dovrà allungarsi sulla croce.

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MATTO Lo sa… lo conosce e lo stesso rimane lí tranquillo

a dar corda e sorridere beato ai suoi compari? Oh, che è

matto anche lui peggio di mé!

MORTE L’hai detto… Vieni non stiamoci a pensare più…

vieni a versarmi del vino che mi voglio ubriacare…

allontanare da 'sta tristezza.

MATTO Hai ragione, è meglio avere la morte allegra.

Dunque: beviamo e scacciamo il magone! Bella pallidina…

vieni che ci diamo il contento… Slacciati il mantello che mi

voglio godere queste braccia sode del color della luna... (La

donna si toglie il mantello) Oh se son preziose! Slacciati

anche il giubbetto davanti, che mi voglio lucidare gli occhi

con questi due pomi d'argento che sembrano le stelle

Diane…

MORTE No ti prego matto… che io sono pulzella e

giovinetta e mi vergogno tutta… ché nessun uomo mi ha mai

toccata nuda!

MATTO Ma io sono il Matto, non un uomo… e la Morte

non farà peccato a lasciarsi amare da un folle balengo come

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me. Non aver paura, ché io spegnerò tutti i lumi e ne lascerò

uno solo… e andremo a ballare dei bei passetti che ti voglio

insegnare e ti farò cantate di sospiri e di lamenti amorosi.

(Canta accennando passi di danza con giravolte sempre più

veloci)

Lasciati andare in giravolte a rondo

lascia che le mie dita vadano cercando

nei panneggi delle tue gonne

lasciami andare in danza nelle tue cosce

lascia che le tue gambe s’inforchino con le mie

lascia che tutte e due si vada in giostra

lascia che vada rivoltandosi il cervello

e il mondo tutto vada a ribaltone!

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I CROZADOR (INCHIOVATORI)

Prologo

In Umbria con il termine “inchiovatore” si indica l’uomo che

inchioda Cristo alla croce durante le laudi rappresentate.

Nella piana del Po si usa il termine “inciudatur” o

“crozador”. Nella passione in lingua padana che ora

presentiamo appaiono quattro o più INCHIOVATORI diretti

da un loro capo.

Proprio quest’anno a Pisa verrà allestita una mostra di statue

lignee del XII e XIII secolo, raffiguranti Santi a grandezza

naturale che agiscono intorno alla croce. All’origine queste

statue interamente dipinte venivano usate nelle Passioni: il

Cristo inchiodato presentava braccia, polsi, busto e gambe

articolate cosicché si poteva recitare la discesa dalla croce

dando l’impressione che Gesù fosse reale.

La crocifissione che ora vi rappresentiamo è certamente di

quel periodo. Sorprende la tecnica descritta con precisione

quasi maniacale usata dai quattro INCHIOVATORI nello

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stendere e issare Gesù in croce. Si ha l’impressione che a

quel tempo l’azione di inchiodare poveri cristi fosse ben

conosciuta e ancora in auge! D’altra parte, sappiamo per

certo che quella forma di orrenda esecuzione ha continuato

ad essere praticata fino all’VIII e IX secolo. Ecco la ragione

per cui fino ad allora negli affreschi e nelle miniature in cui

si narra la vita di Cristo il momento della crocifissione è

immancabilmente censurato: non ci si poteva certo

permettere di inginocchiarsi e pregare davanti a un uomo,

seppur divino, condannato alla croce e all’uscita della chiesa

trovarsene uno vero issato su un analogo crocifisso.

GIOCO DEL MATTO SOTTO LA CROCE

PERSONAGGI

Il Cristo-Il Buffone-Il Matto-Capo degli inchiovatori-Primo

inchiovatore-Secondo inchiovatore-Terzo inchiovatore-

Quarto inchiovatore-Alcuni soldati-Alcune donne-Il

cadavere di Giuda

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Quattro uomini, (gli Inchiovatori) che alla cintola tengono

infilate mazze e lunghi chiodi stanno accingendosi a

crocifiggere Cristo. La croce è già distesa sul terreno. Sul

fondo, dietro ad un lenzuolo steso, in controluce, vediamo

Gesù che, costretto dai soldati, si spoglia, mentre alcune

donne appartate in un angolo del proscenio, seguono

l’azione. In piedi su uno sgabellotto c’è il banditore buffo.

BUFFONE Dòne! Ehj dòne inamoróse d'ól Crist, 'gnit a

lustràrve i ögi! 'Gnit a vidèl bèlo snùdo ch'ól se sbiòta, ól

vostro ‘moróso... dòi palanchi par sguardàda, ‘egnìt dòne!

Oh che l'è bèlo de catà! A disìu che a l'éra ól fiòl de Deo: mi

am parès col sébia iguàl a un altér òmo… par tüto

cumpàgn!... Dòi palànchi dòne par sguardàl! Agh n'è niùna

ch'as vöja tòr 'sto sfizi par dòj palànchi? (Nessuna reazione

da parte delle donne) Bòn, l'è dì de festa incóe... am vòj

ruinàrme... (Rivolgendosi ad una donna) Végn chi té, ch'at ól

fagarò vidè a gratis... (La donna non si muove) Ohi che

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smòrbia... vègn scià!, no' pèrd 'st'ocasión... (L’osserva con

più attenzione) No' ti è ti quèla, la Madaléna tanto inamorùsa

de lü che, no' truànd mantìn ni salvièta par sugàrghe i pie, ti

gh'l’ha sügàdi con i tò cavèi? (Non riceve risposta alcuna)

Bòn, pég par vui… che adès, par lége, a duarèm cuarciàl

covèrto in s'ül pecàt... con t'ün scusarìn c'ól somegiarà a 'na

balerìna! (Verso l’esterno) L'è a l'órdin ól cap di còmichi?

Tira sü ól telün che andarèm a incomenzàre ól spectàcol.

(Viene sollevato il drappo dietro il quale si trova il Cristo)

Scena prima: ól fiòl de Deo, gran cavajér cónt la corona ól

mónta a cavàlo... un bèl cavalòt de légn par andà a torneo in

giòstra… e par fà che n'ól bòrla in tèra... a l'inciodarèm süra

la sèla... man e pie!

Cristo viene disteso sulla croce.

CAPO DEGLI INCHIOVATORI Móchela de fà ól pajàso e

'ègn chì a dagh 'na man... Tachéghe 'na corda ai polsi, vün

par part, c'ól se slónga de polìto... ma laséme sgumbràt le

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palme, ch'as pòda ‘filzàrghe i ciòdi. Mi agh picarò in quèsta

de drita, e...

PRIMO INCHIOVATORE E mi in 'st' óltra. Butéme un

ciòdo lóngo, che ól martèl a gh'l'ho del mè. Ohi che ciodàsc!

A scumetì che in sète martelàde ól pichi déntar fino al còlo?

SECONDO INCHIOVATORE E mi ól fagarò in sése, at vòj

scumèt?

CAPO INCHIOVATORI D'acòrdi. Forsa, slarghìve vui dòi

che agh mètum le ale a 'st'angiulòto, ch'al gh'àbia a volàr 'mé

l'Icaro in d'ól ziél.

Trajèm inséma... Insémbia ho dit!... A m'lo stravachì! Pian

c'ól dév restà in d'ól mèz d'la sèla ól cavajér... Un poch pusé

a mi... bòn, agh són al ségn... impròpi in d'ól beugio! (Indica

il foro di abbrivio già approntato nella tavola).

SECONDO INCHIOVATORE Mi no' agh són miga, hàit

fàit i beugi tròp destànti... rüsa ti... forsa! T'è magnà la

furmagèla a 'sto mesdì? Sfòrsa!

PRIMO INCHIOVATORE Sì, sfòrza, va a fornì che agh

s’ciuncarèm i ligadüri de le spale e d'li gùmbet.

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CAPO INCHIOVATORI Ti no' té casciàre, che no' è miga

tòe le ligadüre! Rüsa! Eh eh, sforsa!

Gemito di Gesú sottolineato dal contrappunto lamentoso

delle donne.

PRIMO INCHIOVATORE Ohj, hàit sentìt ól s’cèpp?

SECONDO INCHIOVATORE Sì, no' l'è stàit bèl... a l'è un

s’ciòcch col mé fa sgrignì i òsi... de contra, ól s'è giüsta

slongàd de misüra: adès agh sónt ancmì sóra al beugio.

CAPO INCHIOVATORI Bòn, (rivolgendosi ad altri soldati)

vui tegnìt in tir la corda… e ti valza ól martèl che a partìsum

insèmbia.

SECONDO INCHIOVATORE Stagh aténto a no’ picàrte i

didi!

Sghignazzata generale.

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PRIMO INCHIOVATORE (a Cristo) Slarga 'sto sciampìn

che no' té fagh galìtigo, at següri!… Oh ti varda ‘sta man,

come la gh'ha impruntàt ól rigo de la vita!... A l'è un ségn

tant lóngo che ól parèse che a gh'ha ól destìn de campàr

ancmò sinquant'àni almànco, 'sto cavajér! Vagh a créderghe

a le bàgole de 'e stròlighe, a ti!

SECONDO INCHIOVATORE Stòpa ‘sta léngua e valza ól

martèl!

PRIMO INCHIOVATORE Son prunt a mi!

CAPO INCHIOVATORI Dàighe alóra... (Dà l’ordine

alzando la voce) Dàighee dól prém bòt...

(Tonfo) Ohioa ahh!

Urlo di Cristo.

BUFFONE Ghe ha sbüsà i palmi!

CAPO INCHIOVATORI (a contrappunto dell'urlo di

Cristo) Ohoo, ól trémba da par tüto. Stì calmi! (Impartendo

l’ordine) Dàghee d'ól segùnd bòt!

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Ohaoioaohh! A slargà i osi!

Ohoh… agh spüda ól sangu a gnòchi.

Dàighe ól terzo bòto! Ohahiohoh!

'Sto ciòd t'ha sverzenàt.

Ohoh… che e dòne no' ti gh'ha gìmai sforzàt.

El quarto bòto t'ól regala i soldàt! Ohahiohoh!

Che ti gh'hàit dit de no' masàre! Ohahiohoh!

E i nemìsi 'mé fradèli i dovarìa amare.

Ól quinto t'ól manda i vescovi d'la senagòga!

Ohahiohoh!

Che ti gh'hàit dit che i sónt falzi e malarbèti!

Ohahiohoh!

Che i tòi vescovi i sarà tüti ümili e povarèti.

Ól sesto l'è ól regalo de i segnóri!

Ohahiohoh!

Che ti gh'hàit dit che i no' anderàn in ziélo!

Ohahiohoh!

E ti gh'hàit fàit l'exémplo del camèlo.

Ól sètemo t'ól pica i'mpostóri! Ohahiohoh!,

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che ti gh'hàit dit che n'ól cùnta nagót se i préga!

Oohahiohoh!,

che i è bòni a fregàr mincióni in tèra ma ól Segnór, quèl no'l

sé fréga.

PRIMO INCHIOVATORE Hàit venciüd mè! At duarét

pagàm de bévar, recórdes.

BUFFONE Agh bevarémo a la santità do 'sto cavajér e a la

sòa sfortuna! (Al Cristo) Come av trouvìt, majstà? Av sentìt

bén saldo in d'i mani, ‘sto destrér? Bòn, alóra adèso

andarémo in giòstra, sanza lanza e sanza scudo!

CAPO DEGLI INCHIOVATORI Gh'hàit slazàde le corde

dai pólzi? Bravi i mè baroni... strenzéghe bén saràda ‘sta

corèza (i INCHIOVATORI avvolgono il petto di Cristo

affrancandolo torno-torno alla croce) intórna a e spale, che

nol débia borlàghe adòso in d'ól tirarlo in pie, 'sto campión!

Daspò, 'na volta inciodàd i pìe a gh'la caverém...

SECONDO INCHIOVATORE 'Gnì chi tüti... spuéve in ti

mani che a gh'èm de 'ndrisàr l'àrbor de la cucàgna! Viàltri

'gnì inànze co' e corde e féle pasàr de soravìa a la travèrsa de

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trànzet... Végn scià anca ti, Matazón: mónta in co' a la scala,

prónt a tegnìl.

MATTO Mé dispiàse ma mi no' pòdi aidàrve: che n'ól mé

gh'ha fàit nagòt a mi, quèlo...

SECONDO INCHIOVATORE O baléngo!, ma nemànco a

noàltri ól ne gh'ha fàit nagót: a l'èm giüsta incrusàt par

pasatém! (Ride sgangherato) Ah ah... e gh'han dàit de giùnta

diése palànche a testa par ól destùrbo! Dài, daghe üna man

che après at fèm l'onür de giugàrghe 'na partìda a dadi cun

ti...

MATTO Ah bòn… se a l'è par 'na partìda no' mé tiri minga

indré! Sónt già su la scala, varda... a podì scomenzà!

CAPO INCHIOVATORI Brao! Sèm a l'órden tüti? 'Ndém

alóra, rüzèm insèmbia… mé aricomàndi, un strèp lóngo a la

volta. Av dagh ól témp:

Ohj izarémo ehiee

'sto penón de nave ohoho

par fagh de drapo ohoho

gh'èm tacàd un mato. ohoho

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Ohj izarémo ehiee

'sto palón de festa ohoho

cucàgna gròsa ohoho

Gesú Cristo in còfa ohoho

Ohi che cucàgna! ahaa

che la sbüsa ól ziélo ohoho

agh piove sangu ohoho

Patre nostro ól plange. ohoho

‘Legrìve, ‘legrìve! ehee

ch'èm trovàt chèlo bravo ohoho

c'ól s'è fàit s’ciàvo ohoho

par vestìrghe da nòvo. ohoho

(Alla maniera dei cavallanti) Loeu… a l'è asè! (La croce è

stata issata) Mé par che ól stévia bén franco. Bòn... (al

Matto) alóra, tra' feura i dadi che fèm ‘sta ziogàda.

I giocatori mimano velocemente di giocare varie e concitate

partite ai dadi e ai tarocchi: il Matto vince la tunica di Cristo,

le paghe dei "INCHIOVATORI".

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MATTO Oh, se vorsìt tüti indré i vòst palànchi, mi a ve i

lasi de voluntéra… cumprés la culàna, i uregìt, l'anèlo... e

varda… agh tachi ancmò quèst (aggiunge un braccialetto) !

PRIMO INCHIOVATORE E par tüta 'sta ròba cus té

vorarèset in scàmbi?

MATTO Quèl là... (indica il Cristo).

SECONDO INCHIOVATORE Ól Cristo?!

MATTO Sì, veuri che m'ól lasì stacàl via de la cròse.

CAPO INCHIOVATORI Bòn: pècia c'ól meura e a l'è tò!

MATTO No, mi ól veuri adès che l'è ancmò vivo.

PRIMO INCHIOVATORE Oh mat de tüti i mati... at

vorèste che de contra a gh'àbiüm de sfurnì inciodàt tüti

nünch quàtar al so' rempiàz?

MATTO No, no' avérghe pagüra, che no' av capitarà nagòta

a vui: abastarà che agh pìcum su un'ólter al so' pòst… vün de

la sua tàja, e at vedarèt che no' s'incorgerà niùn d'ól scambi...

che intanto su la cròse a se insomègen tüti.

PRIMO INCHIOVATORE Quèst l'è anco vera... inscurtegàt

in 'sta manéra peu, che ól par un pèss in gratiróla...

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CAPO INCHIOVATORI Ól sarà vera, ma mi no' ghe stago.

E peu, chi ti gh'avarìat in mént de tacàghe d'ól rempiàz?

MATTO Ól Giuda !

CAPO INCHIOVATORI Ól Giuda? Quèl...

MATTO Sì, quèl so' apòstul traditùr che ól s'è impicàt

pendùt per disperaziün al figo de drio a la sces, sinquànta

pas de chi.

CAPO INCHIOVATORI Meuves, de corsa… andém a

sbiutàl che ól gh'avarà ancmò in sacòcia i trenta denari d'ól

servìsi...

MATTO No, no' stit a disturbàv... che quèi i ha bütàd via de

sübet in mèz a un rosc de spin.

CAPO DEGLI INCHIOVATORI ‘Mé fàit a savèl ti?

MATTO Ól sago imparchè i gh'ho catàt mi quei dinari…

vün par vün. Vardì chì che brasi sgurbiàt che am sunt

cunsciàt.

CAPO INCHIOVATORI No' m' interèsa i brazi... faghe

vedè 'sti dinàri… (Matazzone mostra i denari) Ohi, ohi, e tüti

d'arzénti! Va' beli... mé i pésa e i sòna!

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MATTO Bòn, tegnìvei, i è i vòster anca quèli, se 'gnit

d'acòrdi d'ól scambi. Par mi... mi agh sont d'acòrdi.

CAPO INCHIOVATORI Anca nujàrtri.

MATTO Bòn, alóra andìt de prèscia a tòrve ól Giuda

impicàt pendüt, che mi agh pénsi a tirà de baso ól Crist.

PRIMO INCHIOVATORE E se arìva ól zenturión e at cata

in d'ól scrusaménto?

MATTO Agh dirò che a l'è stat una penzàda de mi... che

peu sont un mato… e che vui non gh'avét colpa niùna. Ma

no' stit chì a pèrd ól tempo, andìt!

CAPO DEGLI INCHIOVATORI Sì, sì... andèm… e a

sperèm che no' ghe pòrten rogna, 'sti trenta dinàri. (I soldati

escono di scena).

MATTO Bòn, a l'è fada! Ohi, mé par gnanca vera! Sunt

inscì cunténto! Gesú, tégn dur, che a l'è 'rivàd ól salvamént...

töj e tenàie... ècoe… Ti no’ l'avarèset gimài dit, ah Gesú, che

ól sarèse 'gnüd a salvàrte impròpri un mato... Ah ah... 'pècia

che imprìma at ligarò con 'sta coréza, agh fagarò in un

mumènt... no' èghe pagüra che no’ té fagarò mal… at fagarò

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'gnir giò dolze 'mé ‘na sposa e peu at cargarò in sü le spale,

che a mi a sont fort 'mé un beu... e via de vulàda! At porterò

giò al fiüm, che lì a gh'ho un barchèt, e cont quàter palàdi ól

travèrsum... E prima che végna ciàro as truerèm bèli 'mé ól

sol a ca’ d'un mè amiso stregón c'ól té medegarà e at fagarà

guarì in trì dìe. (Pausa) No' ti veuret?! No' ti veuret ól

stregón? Bòn, andarèm da ól médego onguentàri, co a l'è un

mè amigo fidàt anca quèlo, de mi. Ne manco quèlo? Se té

veuret alóra? (Pausa) Nagót... no' at veuret miga che at

stciòdi? Ho capìt... at gh'hàit la convinziùn che con 'sti beuci

in di mani e in di pìe, tut instcincà 'n di ligadür 'mé t'han

cunsciàt, no' ti serà pì capàz de andà intórna, ni de imbucàt

de par sòl. No' ti vol star al mùndo a dipènd da i olter 'mé un

disgraziàd… Gh'ho indovinàt?… No' l'è nemànco par quèlo?

Oh sacrabiòt!, e par qual razón dònca! (Pausa) P'ól sacrifizi?

Se té dìset cos'è? Ól salvamento… la redenziün... Còssa té

strapàrlet cosa? Oh poveràz... asfìdo mi... at gh'hàit la

féver... sent 'mé té büjet! Bòn, ma adès at tiri giò, at querci

bén con la tònega chì… Perdónam se am permèti, ma at sèt

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un bèl testón! A veuret miga ès sarvàt?! At veuret propri

murìr su 'ste trave? (Pausa) Sì...? Par ól salvamént di

òmeni... Oh, quèsta a l'è de no' crédarghe!... E peu a i dìsen

che ól mato a son mi... ma ti am bati de mila pértighe a

vantàgio, caro ól mè fiòl Jesus! E mi che a sont stàit a

scanàm a ziogàr a e carte tüta la nòte par peu avérghe 'sta

gran bèla satisfasión! Ma sacragnón, ti at sèt ól fiòl de Deo,

no? Mi al cognósci bén… fam la corezión se a sgaro: bén,

dònca, d'ól mumènt che ti è Deo, t'ól savarèt bén ól resultàt

che ól gavarà daspò 'sto to’ sacrifìzi de crepare incrusàt... Mi

no' son deo e nemànco profeta, ma m'l'han cuntàd la

smortìna 'sta nòte, in fra i làgreme, 'mé ól 'gnirà a furnì. In

prima at fagaràno 'gnir tüto induràt, tüto d'oro, dal có fino ai

pìe… daspò 'sti ciòdi de fèro i t'ei fagaràno tüti d'arzénto, i

làgrem egnaràno tochèti sluzénti de diamante… ól sangu che

at góta de partüto ól stciambieràno cont una sfilza de rubini

sbarluscénti, e tüto quèst a ti, che t'hàit sgulàt a parlàgh d'la

povertà. De giunta 'sta tua cróze dulurüsa e la picheràn in

dapartüto: sóra ai scudi, su e bandére de guèra... su e spade a

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copàr zénte 'mé i fudès vidèli... a copàre parfìn in d'ól nome

de ti... ti, che t'hàit criàt che a sémo tüti fradèli, che a no' se

deve masare. Ti gh'hàit üt un Giuda giamò… Bòn, ti n'agarà

tanti 'mé furmìghe de Giuda a traìrte e a duvràrte par

impagnutà i cojóni! Dam a tra'... no’ val la pena... (Pausa)

Eh? No' saràn tüti traiùri? Bòn, fam inquàlche nom:

Franzèsco ól beàt... e peu ól Nicola... san Michel tàja

mantèl... Doménich... Catarina e Clara... e peu... D'acordo…

metémegh anca quèsti: ma i saran sémper quàter gatt in

cunfrùnta al nùmer di malnàt... e anco quei quàter gatt i se

trovaràn ‘n'altra veulta compagn che i t'han fàit a ti, dòpo

che i gh'avaràn schischiàdi de vivi. (Pausa) Ripèt, scusa, che

quèsta no' la gh'ho capìda… anca se an fudèse vün zol... si

anca un òmo dumà in tüta la tèra dégn d'ès salvàd imparchè

ól è un giusto, ól to’ sacrifìzi n'ól sarà stàito fàit par nagòt...

Oh no, no… alóra no’ gh'è pü speranza… at sèt impròpi ól

cap di mat... at sèt un manicòmi intrégo! Oh no, no… alóra

no’ gh'è pü speranza… at sèt impròpi ól cap di mat... at sèt

un manicòmi intrégo! La zóla veulta che ti mè gh'ha

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piazüdo, Jesus, l'è stàit quando a té sèt ‘rivàt in gésa che i

fasévan mercàt e t'è scomenzà a sfruntà tüti… làder, balòs,

impustùr e furbacióni, tüti col bastùn. Ohi che bèl véd! Quèl

l'éra ól to’ mestè... Bastonà e piccare at duvevét! Bàtere e

bastonà!

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TRADUZIONE

Quattro uomini, (gli Inchiovatori) che alla cintola tengono

infilate mazze e lunghi chiodi stanno accingendosi a

crocifiggere Cristo. La croce è già distesa sul terreno. Sul

fondo, dietro ad un lenzuolo steso, in controluce, vediamo

Gesù che, costretto dai soldati, si spoglia, mentre alcune

donne appartate in un angolo del proscenio, seguono

l’azione. In piedi su uno sgabellotto c’è il banditore buffo.

BUFFONE Donne! Ehi, donne innamorate di Cristo, venite

a lustrarvi gli occhi... venite a vederlo bello nudo che si

spoglia, il vostro innamorato... due palanche per occhiata,

venite donne! Oh, che è bello da comprare! Dicevano che

éra il figlio di Dio: a mé sembra che sia uguale a un altro

uomo... ugual dappertutto!... Due palànche donne per

guardarlo! Non c'è nessuna che ha voglia di togliersi ‘sto

sfizio per due palanche? (Nessuna reazione da parte delle

donne) Bene, è giorno di festa oggi... mi voglio rovinare...

(Rivolgendosi ad una donna) Vieni qui tu, che té lo farò

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vedere gratis... (La donna non si muove) Ohi, che

smorfiosa... Vieni qua!, non perdere ‘st’occasione... Non sei

tu quella, la Maddalena tanto innamorata di lui che, non

trovando né tovagliolo né salvietta per asciugargli i piedi,

glieli hai asciugati con i tuoi capelli? (Non riceve risposta

alcuna)

Bene, peggio per voi... che adesso, per legge, dovremo

coprirlo sul peccato... con un grembiulino, che assomiglierà

a una ballerina! (Verso l’esterno) É pronto il capo dei

comici?

Tira su il telone (inteso come un lenzuolo) che andremo ad

incominciare lo spettacolo! (Viene sollevato il drappo dentro

il quale si trova il Cristo)

Scena prima: il figlio di Dio, gran cavaliere con la corona,

monta a cavallo... un bèl cavallone di legno, per andare a

torneare in giostra... e per fare che non cada a terra…

l'inchioderemo sopra la sella... mani e piedi! (Cristo viene

disteso sulla croce)

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CAPO DEGLI INCHIOVATORI Smettila di fare il

pagliaccio e vieni qui a darci una mano... Attaccategli una

corda ai polsi, una per parte, cossì si allunga per bene... ma

lasciatemi sgombere-libere i palmi, che si possa infilzargli i

chiodi. Io picchierò su questa di destra, e...

PRIMO INCHIOVATORE E io in quest'altra. Buttatemi un

chiodo lungo, che il martello ce l'ho di mio. Oh che

chiodaccio! Scommettete che in sette martellate lo picchio

dentro tutto?

SECONDO INCHIOVATORE E io ce la farò in sei, vuoi

scommettere?

CAPO INCHIOVATORI D'accordo. Forza, allargatevi voi

due che gli mettiamo le ali a questo angiolotto (così) che

possa volare come Icaro nel cielo.

Tiriamo insieme... Insieme, ho detto!... Mé lo rovesciate!

Piano che deve restare in mezzo della sella il cavaliere... Un

po' di più verso mé... bene, sono sul segno... proprio nel

buco. (Indica il foro di abbrivio già approntato nella

tavola).

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SECONDO INCHIOVATORE Io non ci sono, hai fatto i

buchi troppo distanti... tira tu... forza! Hai mangiato il

formaggio a mezzogiorno? Forza!

PRIMO INCHIOVATORE Sì, forza! Va a finire che gli

spezzeremo i legamenti delle spalle e dei gomiti.

CAPO INCHIOVATORI Non ti preoccupare, non sono

mica i tuoi legamenti. Tira! Eh eh, forza!

Gemito di Gesù sottolineato dal contrappunto lamentoso

delle donne.

PRIMO INCHIOVATORE Ohi, avete sentito lo schianto?

SECONDO INCHIOVATORE Sì, non è stato bello... è

stato uno schiocco che mi fa scricchiolare le ossa... di

contro, si è giusto allungato di misura: adesso ci sono anch'io

sopra il buco.

CAPO INCHIOVATORI Bene, (rivolgendosi ad altri

soldati) voi tenete in tiro la corda… e tu alza il martello che

partiamo insieme.

SECONDO INCHIOVATORE Stai attento a non picchiarti

le dita!

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Sghignazzata generale.

PRIMO INCHIOVATORE (a Cristo) Allarga questa

zampetta che non ti faccio il solletico, té l'assicuro!... Oh tu

guarda ‘sta mano, come ha segnata- evidenziata la linea della

vita!... É un segno tanto lungo che sembrerebbe abbia il

destino di campare ancora cinquant'anni almeno, ‘sto

cavaliere! Vai a credere alle bagole-storie delle streghe, tu!

SECONDO INCHIOVATORE Stoppa ‘sta lingua e alza il

martello.

PRIMO INCHIOVATORE Sono pronto io!

CAPO INCHIOVATORI Dagli allora... (Dà l’ordine

alzando la voce) Dà il primo botto...

(Tonfo) Ohioa ahh!

Urlo di Cristo.

BUFFONE Gli ha bucato i palmi!

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CAPO DEGLI INCHIOVATORI (a contrappunto dell'urlo

di Cristo) Ohoo, trema dappertutto. State calmi! (Impartendo

l’ordine) Vai col secondo botto!

Ohaoioaohh! Ad allargare le ossa!

Ohoh... sputa il sangue a gnocchi.

Dagli il terzo botto!

Ohahiohoh!

‘Sto chiodo ti ha sverginato.

Ohoh... che le donne non ti hanno mai forzato.

Il quarto botto té lo regalano i soldati!

Ohahiohoh!

Che tu hai detto di non ammazzare!

Ohahiohoh!

E i nemici come fratelli si dovrebbero amare.

Il quinto té lo mandato i vescovi della sinagoga!

Ohahiohoh!

Che tu hai detto che sono falsi e maledetti!

Ohahiohoh!

Che i tuoi vescovi saranno tutti umili e poveretti.

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Il sesto è il regalo dei signori!

Ohahiohoh!

Che tu hai detto che non andranno in cielo!

Ohahiohoh!

E tu hai fatto l’esempio del cammello.

Il settimo té lo picchiano gli impostori!

Ohahiohoh!,

che tu hai detto che non conta (non vale a) niente se

pregano!

Ohahiohoh!,

che sono buoni a fregare i minchioni in terra ma il Signore

quello non si frega.

PRIMO INCHIOVATORE Ho vinto io! Dovrai pagarmi da

bere, ricordatelo.

BUFFONE Berremo alla santità-salute di questo cavaliere e

alla sua sfortuna! (Al Cristo) Come vi trovate, maestà? Ve lo

sentite bén saldo nelle mani, ‘sto destriero? Bene, allora

adesso andremo in giostra, senza lancia e senza scudo!

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CAPO INCHIOVATORI Avete slacciato la corda dai polsi?

Bravi i miei baroni... stringete bén serrata-chiusa questa

cinghia (i INCHIOVATORI avvolgono il petto di Cristo

affrancandolo torno-torno alla croce) attorno alle spalle, che

non debba caderci addosso nel tirarlo in piedi, ‘sto

campione! Appresso, una volta inchiodati i piedi gliela

toglieremo...

SECONDO INCHIOVATORE Venite tutti qui... sputatevi

sulle mani che dobbiamo issare l'albero della cuccagna! Voi

venite avanti con le corde e fatele passare sopra l'asse

trasversale... vieni qui anche tu, Matazone: monta in cima

alla scala, pronto a tenerlo.

MATTO Mi dispiace ma io non posso aiutarvi: non mi ha

fatto niente, quello...

SECONDO INCHIOVATORE O balengo!, ma nemmeno a

noialtri non ha fatto niente: l'abbiamo giusto crocifisso per

passatempo! (Ride sgangherato) Ah ah... e ci hanno dato per

di piú dieci palanche a testa per il disturbo! Dài, dacci una

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mano, che dopo ti faremo l'onore di giocare una partita a

dadi con té...

MATTO A bene, se è per una partita non mi tiro indietro!

Sono già sulla scala, guarda... potete incominciare!

CAPO INCHIOVATORI Bravo! Siamo a posto tutti?

Andiamo allora.... Tiriamo insieme... mi raccomando, uno

strappo lungo alla volta. Vi do il tempo.

Ohi isseremo Ehiee

‘sto pennone di nave ohoho

per far da drappo-bandiera ohoho

gli abbiamo attaccato un matto. ohoho

Ohi isseremo Ehiee

‘sto palo da festa ohoho

cuccagna grossa ohoho

Gesú Cristo in coffa. ohoho

Ohi che cuccagna Ahaaa

che buca il cielo ohoho

ci piove sangue... ohoho

Il Padre nostro piange. ohoho

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Rallegratevi, rallegratevi! Oheee

che abbiamo trovato quello bravo ohoho

che si è fatto schiavo ohoho

per vestirci di nuovo. ohoho

(Alla maniera dei cavallanti) Loeu... è abbastanza! (La croce

è stata issata) Mi pare che sia bén saldo. Bene... (al Matto)

allora, tira fuori i dadi che facciamo ‘sta giocata.

I giocatori mimano velocemente di giocare varie e concitate

partite ai dadi e ai tarocchi: il Matto vince la tunica di Cristo,

le paghe degli “Inchiovatori”.

MATTO Se volete indietro tutti i vostri soldi io ve li lascio

volentieri… compresa la collana, gli orecchini, l’anello... e

guarda, ci aggiungo anche questo! (Aggiunge un

braccialetto).

PRIMO INCHIOVATORE E per tutta questa roba cosa

vorresti in cambio?

MATTO Quello là... (indica il Cristo).

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SECONDO INCHIOVATORE Il Cristo?

MATTO Sì, voglio che me lo lasciate staccare dalla croce.

CAPO DEGLI INCHIOVATORI Bene: aspetta che muoia

ed è tuo!

MATTO No, lo voglio adesso che è ancora vivo.

PRIMO INCHIOVATORE Oh matto di tutti i matti...

vorresti che finissimo noi quattro inchiodati al suo posto?

MATTO No, non aver paura che non capiterà niente a voi:

basterà che attacchiamo un altro al suo posto, uno della sua

tàja misura, e vedrai che non si accorgerà nessuno dello

scambio... che tanto sulla croce si assomigliano tutti.

PRIMO INCHIOVATORE Questo è anche vero... scorticato

in questa maniera poi, che sembra un pesce in graticola...

CAPO INCHIOVATORI Sarà anche vero, ma io non ci sto.

E poi chi avresti in mente di attaccarci al rimpiazzo?

MATTO Giuda!

CAPO INCHIOVATORI Giuda? Quello...

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MATTO Sì, quel suo apostolo traditore che si è impiccato

per disperazione al fico dietro la siepe, cinquanta passi da

qui.

CAPO INCHIOVATORI Muoversi, di corsa… andiamo a

spogliarlo che avrà ancora in saccoccia i trenta denari del

servizio.

MATTO No, non state a disturbarvi... che quelli li ha buttati

via subito in mezzo a un rovo di spine.

CAPO INCHIOVATORI Come fai a saperlo tu?

MATTO Lo so perché li ho presi io quei denari… uno per

uno. Guardate qui che braccia graffiate che mi sono

conciato.

CAPO INCHIOVATORI Non m’interessano le braccia,

facci vedere questi denari. (Matazzone mostra i denari) Ohi,

ohi, e tutti d’argento! Guarda che belli... come pesano e

suonano!

MATTO Bene, teneteveli, sono vostri anche quelli, se ci si

mette d’accordo per lo scambio. Per me… io sono

d’accordo.

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CAPO INCHIOVATORI Anche noialtri.

MATTO Bene, allora andate a prendervi de prèscia

velocemente il Giuda impiccato, che ci penso io a tirar giù il

Cristo.

PRIMO INCHIOVATORE E se arriva il centurione e at cata

in d'ól scrusaménto?

ti trova nel bel mezzo dello scrociamento?

MATTO Gli dirò che è stata una mia pensata… che tanto

sono un matto… e che voi non avete nessuna colpa. Ma non

state qui a perdere tempo, andate!

CAPO INCHIOVATORI Sì, sì... andiamo, e speriamo che

non ci portino sfortuna, questi trenta danari. (I soldati

escono di scena).

MATTO Bene, è fatta. Non mi par neanche vero! Sono così

contento! Gesù, tieni duro, che è arrivata la salvezza...

prendo le tenaglie… eccole… Tu non lo avresti detto, eh

Gesù, che sarebbe venuto a salvarti proprio un matto... Ah,

ah... aspetta che prima ti legherò con questa cinghia, farò in

un momento... non aver paura che non ti farò male… ti farò

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venir giù (scendere) dolce come una sposa e poi ti caricherò

sulle spalle, che io sono forte come un bue... e via di volata!

Ti porterò giù al fiume che lì ho una barchetta e con quattro

palate lo attraversiamo… E prima che faccia chiaro ci

troveremo belli come il sole a casa di un mio amico stregone

che ti medicherà e ti farà guarire in tre giorni. (Pausa) Non

vuoi?! Non vuoi lo stregone? Bene, andremo dal médego

onguentàri medico degli unguenti, che è un mio amico fidato

anche quello. Niente… non vuoi che ti schiodi? Ho capito...

hai la convinzione che con questi buchi nelle mani e nei

piedi, tutto schiantato nelle legature come t’hanno conciato,

tu non sarai più in grado di andare intorno, né di imboccarti

da solo. Non vuoi stare al mondo a dipendere dagli altri

come un disgraziato… Ho indovinato? Non è neanche per

quello? Oh sacrabiòt accidenti!, e per quale ragione?

(Pausa) Per il sacrificio? Cosa dici? Il salvamento… la

redenzione... Straparli? Oh poveraccio... sfido io... hai la

febbre... senti come scotti! Bene, ma adesso ti tiro giù, ti

copro bene con la tunica... Perdonami se permetto, ma sei un

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bel testone! Non vuoi essere salvato?! Vuoi proprio morire

su ‘ste travi? (Pausa) Sì…? Per la salvezza degli uomini...

Oh, questa è da non crederci! E poi dicono che il matto sono

io, ma tu mi batti di mille pertiche di lunghezza pértighe a

vantàgio,, caro il mio figlio Jesus! Ed io che sono stato a

scannarmi giocando alle carte tutta la notte per poi avere

questa gran bella soddisfazione! Ma sacramento, tu sei il

figlio di Dio, no? Io lo so bene, correggimi se sbaglio:

dunque, dal momento che tu sei Dio, tu lo sai bene il

risultato che avrà poi il tuo sacrificio di crepare crocifisso...

Io non sono Dio e neppure profeta, ma me l’ha raccontato la

smortina ‘sta notte, tra le lacrime, come andrà a finire.

Dapprima ti faranno diventare tutto dorato, tutto d’oro, dalla

testa fino ai piedi, poi questi chiodi di ferro te li faranno tutti

d’argento, le lacrime diventeranno pezzetti tochèti lucenti di

diamante… il sangue che ti sgocciola dappertutto lo

scambieranno con una sfilza di rubini sbarluscénti luccicanti

e tutto questo a te, che ti sei sgolato a parlar loro della

povertà.

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Per giunta questa tua croce dolorosa la pianteranno

dappertutto: sopra gli scudi, sulle bandiere da guerra… sulle

spade per accoppare gente come fossero vitelli… uccidere

perfino nel tuo nome… tu che hai gridato che siamo tutti

fratelli, che non si deve ammazzare. Hai già avuto un

Giuda… Bene, ne avrai tanti come formiche di Giuda, a

tradirti, ad adoperarti per incastrare i coglioni! Dammi retta,

non vale la pena... (Pausa) Eh? Non saranno tutti traditori?

Bene, fammi qualche nome: Francesco il beato... e poi il

Nicola... san Michele taglia mantello... Domenico... Caterina

e Chiara... e poi... D’accordo, mettiamoci anche questi: ma

saranno sempre quattro gatti a confronto del numero dei

malnati... e anche quei quattro gatti si troveranno un'altra

volta com’è capitato a te, dopo che li avranno schiacciati da

vivi. (Pausa) Ripeti, scusa, che questa non l’ho capita…

anche se ce ne fosse uno solo... sì, anche un uomo soltanto in

tutta la terra degno di essere salvato perché è un giusto, il tuo

sacrificio non sarà stato inutile... Oh no, no… allora non c’è

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più speranza… sei proprio il capo dei matti... sei un

manicomio intero!

La sola volta che mi sei piaciuto, Gesù, è stato quando sei

arrivato in chiesa mentre facevano mercato e hai cominciato

a picchiare tutti… i ladri, i furbacchioni, gli impostori, i

truffatori… tutti col bastone. Ohi che bel vedere! Quello era

il tuo mestiere... Bastonare e picchiare dovevi! Battere e

bastonare!

ALTRA VERSIONE A MONOLOGO

A seguire abbiamo la stessa giullarata del dramma sotto la

croce condotta dal Matto, che ritorna protagonista assoluto.

In poche parole in questa versione ci ritroviamo di nuovo

con una scrittura che prevede la presenza di un solo giullare,

interprete di tutti i ruoli: dal gruppo dei INCHIOVATORI al

Matto stesso, salvo il ruolo di Cristo che troviamo già sulla

croce.

Come abbiamo già detto, si tratta di una statua lignea

policroma disarticolata, identica a quelle impiegate nei

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misteri toscani ed umbri dal X al XIII secolo e dei quali

esistono ancora splendidi esemplari.

GIOCO DEL MATTO SOTTO LA CROCE

Versione per un solo giullare che interpreta tutti i ruoli

MATTO (il giullare nei panni del Matto sta accovacciato e

mima di battere le carte su una tavola) Rèi, cóppe, bagàtt,

fémena sul cavàl! Gh’ho perdü! (Fa il gesto di raccogliere

altre carte distrubuite da uno dei giocatori) Carètto, dòi

fradèli, sinco de bastón e sèro co’ l’imperadór. Ho perdü

‘n’altra volta. Pago, pago, cata i to’ dané... tégne! No’ gh’ho

vinciù nagóta. (Mima di levarsi in piedi e di spostarsi verso

destro dove sta il crocifisso col Cristo-persona. Rivolto ai

compagni di gioco) Scusé... no, no, ste’ lì... specième...

végni indré sübit! (Leva lo sguardo in alto come parlasse a

Gesù sulla croce) Jesus perdona se végno a sulzegàrte i

cojón... Ól sàbie bén che no’ è bòna creanza de ‘egnìr a

sgrapignàr i beati cojómbari a ün che gh’ha già de sòe rógne

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in sü la cróse… inciudàt per giónta! Ma mi végne a

dimandàrte un plasér che ti mé dovrèssi fare: Jesus mi sont

ün che gh’ha gimài guadagnàt a un ziògo, gh’ho mai vinciüt

‘na fiàta... che in sempitèrna mé són scontrà co’ ‘sti malnati

trufadór che sfolzìna al ziògo ‘mé mercanti de patàche de

piombo doràt. Come se impastrùcca coi carti, t’ol sèt... tòi

védet, tòi védet ti... (lo richiama perché il Cristo guarda da

un’altra parte) Jesus son chi... in dóa té vàrdet? (Il Cristo

volge con fatica il capo verso di lui. È risaputo che tutte le

statue sceniche hanno la possibilità di essere agite per

mezzo di fili che vengono azionati dalle quinte o dal

soppalco. Con tono e gesti di supplica) Jesus, féite bòn, séa

zentìl co’ mi, dame el meravegióso plasér de farme vìnzer

‘na volta almànco. (Batte leggermente sul palo come ad

incitare Cristo) Jesus fa’ un segno! Oh sì, d’acòrdo, co’ le

man inciodàe l’è un po’ difìzil... (Cambia tono) Cu l’ögio…

schìscia l’ögio! A té l’hàit schisciàt? Falo ‘na volta ammó…

(esultante) At l’è schisciàt! Ma belèssa mia! A vegnarìa sü a

‘mabrasàrte, varda! De bòn té mé fèt vìnzer eh... no’ farme

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schèrso, va ca té blasfémi... Testimòni to’ Pare che té mé

l’hai dito! Varda che sarìa pròpri ‘na carugnàda de v’es su la

cróse e farme ün schèrso prima de crepàr... A sarìa ün

schèrso da prèvete! Ah, bòn... a vago a ziogàr Jesus. (Come

parlando agli altri giocatori) Atensiùn... torno al giògo!

Féve in là! (Poi, in gramelot, riprende come all’inizio a

indicare velocissimo il segno di ogni carta che va gettando

sul tavolo) El fante co’ la mata, el cavàlo sü la rejna: l’è mè!

(Fa il gesto di raccogliere la vincita) Ti la lüna, lü la

papèssa, mi el demòni: l’è mè! (Rivolto a Cristo) Orco Jesus

che fòrsa che té sèt! (Riprende il gioco) Recumìncium. Rèj

de bastón, vérzen co cavrón, tremamòto col testón: l’è mè!

(Sempre rivolto a Gesù) Esageràt! Sinque de fila! (Agli altri

giocatori) A giughìt pü? A ghit pü de denàr?... Ve li dò mi i

danàr. A ghe li ho chi de arzénto, tégne, tégne, tégne! (Fa il

gesto di gettare le monete sulla tavola) L’è arzénto! No’ li

gh’ho rubàt. I éra del Ziùda che li gh’ha bütàt in di rovi, son

‘ndait a sgarbelàrme dapartüto per catài. Tegnì, tegnì voiàltri

che tanto el Ziùda l’è là in funda impicào. (Finge l’ascolto)

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De segùra che contro vòj quaicòssa de vui. Fasémo uno

s’ciàmbio. Vui mé darìt quèlo (indica il Cristo), el permèso

de tirarlo ziò e purtàrlo via cunt mi. Sì, Jesus Cristo! Par mi!

No, no’ de mort, al mort ól tégnet ti. Ancora vivo ól vòj!,

come l’è adèss... col respira! Ah! Ah! Té mé lo sàsset? No’

gh’hai pagüra! Ól so bén che se ‘riva ól centurión e ól

descòvre la cróse vòda ól ve impatàca v’ün per v’ün, ün

ciòdo de chi, ün ciòdo de là, un pie sü l’óltro (mima di dare

martellate) pam!, pam! Sàvio, sàvio... ma mi ve fago

propòsta de no’ svoiàrla la crose, de mèterghene un altro in

replàs... ól Giuda par exémpli! Andì a tórlo col è sül figo

impicàt, andì a torlo... ól porté, lo impataché chi lòga coi bei

quatro ciudàssi... che tanto nesciùno ól se ne incòrge de lo

s’ciàmbio, son tüti iguàl sü la cróse, tüti poveri cristi i

divégne. A ghe stit? Ben fàito! Vaj vaj... No, al Cristo ghe

pénsi mi, ól Cristo ól tiri giò mi solo, vàj tranquìl col tégno,

mé cato ‘sta scala (mima di prendere la scala e di

appoggiarla alla croce. Il giullare può anche servirsi di una

scala agibile che andrà ad appoggiare sul braccio della

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croce)… Jesus, tira in là un po’ ól brascìn che no’ vorarìa

schisciàrtelo. Èco cussì, adèso végno (mima di montare per i

piolo, riprendendo felice)... Ah, aha... Jesus... No’ té l’avrìa

gimài pensàt che sarìa stàito un mato a tiràt giò da la cróse, a

salvarte. Ti té végnet a salvare i òmeni e un mato ól salva ti!

Ah, ah, ah! Che schèrso che ghé fémo. Arìvo. No’ aver

pagüra che mo’ té tiro giò come una bèla spusòta dólza e

cara... té càrego su le spale, pö’ at pòrto cont un barchèt co’

gh’ha al fiume fino a l’oltra parte de la riviéra. Quando che

sémp rivàiti dolze ól sarà... chè là, gh’è un stregón amiso de

mi co’ gh’ha un unguénto, üno spagnàsso oleóso che come

té lo spantéga dapartüto ti: gnamm!, té anderà via curéndo

‘mé ‘na légura. Tranquilo Jesus! (Il Cristo ligneo si agita)

Cos’hai co’ ‘sti trémbi? To’ ghè la febre, perchè té fai co’ la

testa de no? No’ ti voi?!… No’ té voi che té distàchi da chi

lòga? Par che rasòn?… Par plasér repèt, no’ hai capìt!… Par

ól sacrifìssio?… (Il brano che segue viene recitato a ritmo

sostenuto) Parchè t’set vegnü par morire su la cróse... par ól

sacrifìzio, par ól salvamento dei òmeni dal pecàt e in

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s’ciàmbio ti dèi crepàr inciudàt?! Oh, oh, oh... E ti diset

ch’el mato son mè? Mato t’set té, bòja! Té e tòta la toa

famègia… a comenzàr del Deo Patre en persona! E l’üselón!

Rasa de mati! Ah bela truvàita quèsta del sacrifìssio devìno!

At sèt còssa faran i prèveti de ‘sto tò martirio santo? Tüto

d’arzénto i té pitürerà a mascaràr la tòa carna che se

marzìsse… i té farà i gòte de sànguo coi rubini… tüto

d’oro… e le tàvule de legno de ‘sta toa cróse le saràn

imprezióse, imparfümàde e la andràn intorno a portar de

manéra che tüti i vilàn e i pizzòc, mortificàt, in genögio i se

büterà, schisciàdi de la devosiòn ai pie de la cróse e dei

prèveti che la mostra in processiòn: “Vardé col s’è sacrificào

par vui! En ginögio sacrifiché anca vui! In ginögio

pelandróni!”.

A ‘stà manéra i combinerà ól gran spetàcolo del to’

patiménto. Bòn salvaménto che té fàit! Slargàt come ‘n üsèl

té impatacheràn anca sóra li scudi e targhe de guèra… e anco

su le bandére ghe sarà pituràt la toa cróse a lustri colùr (Il

brano che segue viene recitato a ritmo sostenuto), e té ól

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sarai su le spade a copàre, a strasàre, in nome de Deo e

sbusegà le done, i òmini e infanti tüti! Sgrosà e scanà in nóm

del to’ segno! Bèla trufaldeìa i combenerà col sacrifìssio

tòo!… Còssa? Repéte: no té importa che faga profìto de la

tua passìon… basta che ghe sébia un òmo solo, ciàro e beato

che racoìsse el tòo ensegnaménto e ne faga santa rasòn?

E qual sarèse ‘sti santi omèni digni? Féme quarche nóm! (Fa

immaginare di ripetere l’elenco detto da Cristo) Franzèsco,

bòn, Benedècto, sì, Nigola… d’acòrdi! E aprèso d’avérghe

sopportà ògni violénsia e morteficasiòn a la cérca de tiràr

fòra de la desperasión i poveràsi schisciàt d’ògni magiór,

draghe conforto… come i són fornìt? De vivi sfotüt e

spudàd… casiàt a pesciàdi.

Jesus ma còssa è ‘gnudo a far té sü la tèra? Se’ dessandùo a

insegnarghe a noàltri che in cróse ghe stémo dal ziórno che

sortìmo al mondo?

A noàltri té végne a insegnàrghe a stare incuidài in sü la

cróse?

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No, de quèlo no’ gh’émo besógn. Scüsa, no té inrabìr, ma de

‘ste lesión no ghe neme de bisogn…

‘N’altra cosa ti dovarèsse insegnàrghe, un exéplio che ‘na

volta sojaménte tò vedùo darghe ai cristiàn... L’è stàito ól

ziórno che ti è entràt ne la eglésia e ti ha descovèrto i

mercanti sióri coi vendevan, i comprava, i brigàva, co’ le

mèrzi, ti hai brancàt un bastón e… picàre!, picàre!

Cristo, quèst te dovévet insergnàrghe: noàltri a picàre!

Picàre! Picàre! Picàre! (Esce, agitando il braccio nel gesto

di bastonare una moltitudine di mercanti mentre lentamente

cala la luce).

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TRADUZIONE

MATTO (il giullare nei panni del Matto sta accovacciato e

mima di battere le carte su una tavola) Re, coppe, bagatto,

femmina sul cavallo! Ho perso! (Fa il gesto di raccogliere

altre carte distribuite da uno dei giocatori) Carretto, due

fratelli, cinque di bastone e chiudo con l’imperatore. Ho

perduto un’altra volta. Pago, pago, prendi i tuoi denari...

tieni! Non ho vinto niente. (Mima di levarsi in piedi e di

spostarsi verso destro dove sta il crocifisso col Cristo-

persona. Rivolto ai compagni di gioco) Scusate... no, no,

state lì... aspettatemi... ritorno subito! (Leva lo sguardo in

alto come parlasse a Gesù sulla croce) Gesù, perdona se

vengo qui a stuzzicarti i coglioni... Lo so bene che non è

buona creanza venire a grattare i beati cojómbari (coglioni) a

uno che ha già delle sue rogne sulla croce… inchiodato per

giunta! Ma vengo a domandarti un piacere che mi dovresti

fare: Jesus io sono uno che non ha mai guadagnato a un

gioco, non ho mai vinto una sverza... che in sempiterno

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(sempre) mi sono scontrato con ‘sti malnati truffatori che

imbrogliano al gioco come mercanti di patacche di piombo

dorato. Come smazzano (barano) con le carte, lo sai... lo

vedi, lo vedi tu... (lo richiama perché il Cristo guarda da

un’altra parte) Jesus sono qua... dove guardi? (Il Cristo

volge con fatica il capo verso di lui. È risaputo che tutte le

statue sceniche hanno la possibilità di essere agite per

mezzo di fili che vengono azionati dalle quinte o dal

soppalco. Si esprime con tono e gesti di supplica) Jesus, sii

buono, sii gentile con me, dammi il meraviglioso piacere di

farmi vincere una volta almeno. (Batte leggermente sul palo

della croce come ad incitare Cristo) Jesus fa un segno! Oh

sì, d’accordo, con le mani inchiodate è un po’ difficile...

(Cambia tono) Con l’occhio, strizza l’occhio! Fallo un’altra

volta… (esultante) L’hai strizzato! L’hai strizzato? Ma

bellezza mia! Verrei su ad abbracciati, guarda! Davvero mi

farai vincere, eh... non farmi scherzi, guarda che ti

blasfemo... Testimonio tuo Padre che mé l’hai detto! Guarda

che sarebbe proprio una carognata di essere sulla croce e

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farmi uno scherzo prima di crepare... Sarebbe uno scherzo

da prete! Ah, bene... vado a giocare Jesus. (Come parlando

agli altri giocatori) Attenzione... torno al gioco! Fatevi in là!

(Poi, quasi in grammelot, riprende come all’inizio a

indicare velocissimo il segno di ogni carta che va gettando

sul tavolo) Il fante con la matta, il cavallo sulla regina: è

mio! (Fa il gesto di raccogliere la vincita) Tu la luna, lui la

papessa, io il demonio: è mio! (Rivolto a Cristo) Orco Jesus

che forza che sei! (Riprende il gioco) Ricominciamo. Re di

bastone, vergine con caprone, terremoto col testone: è mio!

(Sempre rivolto a Gesù) Esagerato! Cinque di fila! (Agli altri

giocatori) Non giocate più? Non avete più denaro? Ve li do

io i denari. Ce li ho qui d’argento, tieni, tieni, tieni! (Fa il

gesto di gettare delle monete sulla tavola) È argento! Non li

ho rubati. Erano di Giuda che li ha buttate nei rovi… sono

andato a graffiarmi dappertutto per raccattarli. Tenete, tenete

voialtri che tanto Giuda è là in fondo impiccato. (Finge

l’ascolto) Di certo in cambio voglio qualcosa da voi.?

Facciamo ‘st’affare. Voi mi darete quello (indica il Cristo),

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il permesso di tirarlo giù e portarlo via con me. Sì, Jesus

Cristo! Per me!… No, non da morto, il morto lo tieni tu.

Ancora viva lo voglio!, come è adesso... che respira! (Ride

felice) Ah! Ah! Mé lo lasci? Non hai paura! Lo so bene che

se arriva il centurione e scopre la croce vuota vi spiaccica

uno per uno, un chiodo di qua, un chiodo di là, piede

sull’altro (mima di dare martellate) PAM!, PAM! Lo so, lo

so... ma io vi faccio la proposta di non svuotarla la croce, di

mettercene un altro al suo posto... Giuda per esempio!

Andate a prenderlo che è sul fico impiccato, andate a

prenderlo... lo portate, lo impataccate qui con quattro bei

chiodo... che tanto nessuno si accorge dello scambio… sono

tutti uguali sulla croce, tutti poveri cristi diventano. Ci siete?

Ben fatto! Vai, vai... No, a Cristo ci penso io, il Cristo lo tiro

giù io da solo, vai tranquillo che ce la faccio, mi prendo ‘sta

scala (mima di prendere la scala e di appoggiarla alla

croce. Il giullare potrà anche servirsi di una scala agibile

che andrà ad appoggiare sul braccio della croce)… Jesus,

tira in là un po’ il braccino che non vorrei schiacciartelo.

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Ecco cossì, adesso vengo (mima di montare per i piolo,

riprendendo felice)... Ah, aha... Jesus... non l’avresti mai

pensato che sarebbe stato un matto a tirarti giù dalla croce, a

salvarti. Tu vieni a salvare gli uomini e un matto salva té!

Ah, ah, ah! Che scherzo che gli facciamo! Arrivo… Non

aver paura che ora ti faccio scendere come una bella sposotta

dolce e cara… ti carico sulle spalle, poi ti porto con una

barca che c’è al fiume fino all’altra parte della riva. Quando

siamo arrivati, dolce sarà… che là c’è uno stregone mio

amico che ha un unguento, un toccasano oleoso che come té

lo sparge dappertutto tu: gnamm!, andrai via correndo come

una lepre. Tranquillo Jesus! (Il Cristo ligneo si agita) Cosa

sono questi tremori? Hai la febbre, perché fai con la testa di

no? Non vuoi?!… Non vuoi che ti distacchi da qui? Per

quale ragione?… Per piacere ripeti, non ho capito?… Per il

sacrificio?… (Il brano che segue viene recitato a ritmo

sostenuto) Perché sei venuto a morire sulla croce… per il

sacrificio, per la salvezza degli uomini dal peccato e in

cambio tu devi crepare inchiodato?! Oh, oh, oh… E tu dici

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che il matto sono io? Matto sei tu, bòja! té e tutta la tua

famiglia… a cominciare da Dio Padre in persona! E

l’uccellone! Razza di matti!

Ah bella trovata questa del sacrificio divino!

Sai cosa ne faranno i preti di ‘sto tuo martirio santo? Tutto

d’argento ti pittureranno a mascherare la tua carne che

marcisce… ti faranno le gocce di sangue coi rubini… tutto

d’oro… e le tavole di legno di questa tua croce saranno

impreziosite, profumate e andranno intorno a portarla in

maniera che tutti i villani e i pizzocchi, mortificati, in

ginocchio si butteranno, schiacciati dalla devozione ai piedi

della croce e i preti che la mostrano (che ne fanno mostra) in

processione: “Guardate che si è sacrificato per voi! In

ginocchio sacrificatevi anche voi! In ginocchio pelandroni!”.

In questo modo combineranno il grande spettacolo del tuo

patimento. Bel salvamento che fai! allargato come un uccello

ti spiaccicheranno anche sopra gli scudi e le targhe di

guerra… e anche sulle bandiere ci sarà pittata la tua croce a

lustri colori. (Il brano che segue viene recitato a ritmo

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sostenuto) E sarai sulle spade ad accoppare, a stracciare, in

nome di Dio e infilzare le donne, gli uomini e i bambini

tutti! Sgrossare e scannare in nome del tuo segno! Bella

truffalderia combineranno col tuo sacrificio!… Cosa? Ripeti:

non ti importa che si approfittino della tua passione… basta

che ci sia un uomo solo chiaro e beato che raccolga il tuo

insegnamento e ne faccia santa ragione? E chi sarebbero

questi santi uomini degni? Fammi qualche nome! (Fa

immaginare di ripetere l’elenco detto da Cristo) Francesco,

bene, Benedetto, sì, Nicola… d’accordo! E dopo avere

sopportato ogni violenza e mortificazione allo scopo di tirare

fuori dalla disperazione i poveracci schiacciati dai maggiori,

dargli conforto… come sono finiti? Da vivi fottuti e

sputati… poi cacciati a pedate, una volta crepati.

Jesus ma cosa sei venuto a fare sulla terra? Sei disceso ad

insegnare a noialtri che in croce ci stiamo dal giorno in cui

siamo nati?

A noialtri vieni ad insegnare come stare inchiodati sulla

croce?

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No, di quello non abbiamo bisogno. Scusa, non ti arrabbiare,

ma di queste lezioni non abbiamo bisogno…

Un altra cosa tu dovresti insegnarci, un esempio che un’altra

volta solamente ti ho visto dare ai cristiani… È stato il

giorno che sei entrato nella chiesa e hai scoperto i mercanti

signori che vendevano, compravano, brigavano, con le

merci, e tu hai accattato un bastone e… picchiare!,

picchiare!

Cristo, questo dovevi insegnare a noialtri:

picchiare!Picchiare! Picchiare! Picchiare! (Esce agitando il

braccio nel gesto di bastonare una moltitudine di mercanti

mentre lentamente cala la luce)

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BONIFACIO VIII

PROLOGO I EDIZIONE EINAUDI

E arriviamo a Bonifacio VIII, il Papa del tempo di Dante.

Dante lo conosceva bene: lo odiava al punto che lo mise

all’inferno prima ancora che fosse morto. Un altro che lo

odiava, ma in maniera un po’ diversa, era il frate

francescano Jacopone da Todi, pauperista evangelico, un

estremista, diremmo oggi. Era legato a tutto il movimento

dei contadini poveri, soprattutto della sua zona, al punto che,

in spregio alle leggi di prevaricazione imposte da Bonifacio

VIII, che era una bella razza di rapinatore, aveva gridato in

un suo canto: “Ah! Bonifax, che come putta hai traìto la

Ecclesia!” Ahi Bonifacio, che hai ridotto la Chiesa come una

puttana! Bonifacio se la legò al dito: quando finalmente

riuscì a mettere le mani su Jacopone, che era fra l’altro uno

straordinario uomo di teatro, lo sbatté in galera, seduto,

costretto a rimanere in questa posizione (indica), mani larghe

e piedi legati, per cinque anni, incatenato sulle proprie feci.

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E si racconta che dopo cinque anni, quando uscì grazie alla

sopravvenuta morte del Papa, questo povero frate, ancora

giovanissimo, non riusciva più a camminare: era costretto a

trascinarsi in giro piegato in due. Quando, un anno e mezzo

dopo, morì, cercarono di stenderlo nella cassa da morto: non

ce la facevano; ogni volta che lo stendevano... gnìììì!,

tornava alla posizione originale. Alla fine si sono stufati e lo

hanno sepolto seduto.

Non era comunque il solo ad avere in odio il Papa: già

Gioacchino da Fiore, vissuto ancor prima di san Francesco,

che può esser considerato un po’ il padre di tutti i movimenti

ereticali, aveva detto più o meno: “Se vogliamo dare dignità

alla Chiesa di Cristo, dobbiamo distruggere la chiesa. La

grande bestia di Roma, la bestia tremenda di Roma. E per

distruggere la chiesa non ci basta far crollare le mura, i tetti,

i campanili: dobbiamo distruggere chi la governa, il Papa, i

vescovi, i cardinali”. Un po’ radicale, come atteggiamento.

Fatto sta che il Papa del tempo gli mandò subito in visita un

centinaio di armati che lo cercarono per le montagne dove

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viveva, individuarono grazie ad una spia la grotta in cui

abitava, ma, loro sfortuna, lo trovarono morto: ancora caldo,

ma morto. Era morto due minuti prima che arrivassero: non

si sa se per lo spavento d’aver visto i soldati che arrivavano,

o perché era un po’ carogna e voleva fargli dispetto. Io credo

che sia così: Gioacchino da Fiore era un maligno, molto

maligno.

Ecco un’immagine di Bonifacio VIII (immagine 15), molto

realistica: lo vediamo usare come sedile il frate Segalello da

Parma. Segalello da Parma era dell’ordine degli insaccati,

così detti perché vestivano di sacco: un altro estremista,

tanto per rimanere all’interno del linguaggio di questi giorni,

che sentiamo così spesso parlare di estremisti di ambo le

parti, di opposti estremismi...

L’estremista che fa da sedile, dunque, era di quelli che

pretendevano che il Papa e la Chiesa fossero poveri,

estremamente poveri, che tutto venisse consegnato nelle

mani della gente più umile: che “la dignità della Chiesa, –

diceva Segalello, – si fondasse sulla dignità dei poveri”.

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Quando tu Chiesa hai al tuo interno un povero disgraziato

che muore di fame, sei una Chiesa che non può gloriarsi di

essere viva. A proposito del soprannome (il popolo lo

chiamava Segarello): Segalello era di quelli che predicavano

la castità assoluta, e gli derivava evidentemente dal fatto che

non lo vedessero mai andare a donne. Ebbene, questo frate

dal soprannome quasi da giullare se ne andava in giro a

provocare i contadini: “Ehi, voi, ma che fate? Giocate? Ah

no! Vangate la terra? Lavorate! E di chi è la terra? Vostra,

immagino! No? Non è vostra? Ma come! Voi lavorate la

terra e... Ma ne avete un profitto?! Che profitto? Ah... una

percentuale così bassa? E come, tutto il resto se lo tiene il

padrone? Il padrone di che cosa! Della terra? Ah ah ah! C’è

un padrone della terra? Voi credete davvero che sulla Bibbia

il tal appezzamento di terra sia assegnato al tal dei tali...

Cretini! Deficienti! La terra è vostra: loro se la sono fregata,

e poi l’han data da lavorare a voi. La terra è di chi la lavora:

chiaro?!”

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Pensate, nel Medioevo andare in giro a dire certe cose: la

terra è di chi la lavora! È da pazzi incoscienti dirlo oggi,

figuratevi nel Medioevo! Infatti l’hanno subito preso e

messo sul rogo, lui e tutta la sua banda di “insaccati”.

Scampò uno solo. Si chiamava fra’ Dolcino, e si ritirò dalle

sue parti, dalle parti di Vercelli: ma invece di starsene a casa

e in silenzio, visto il rischio che aveva corso, nossignori,

andò intorno ancora a provocare i contadini, a fare il

giullare. Andava e cominciava: “Ehi contadino!... la terra è

tua, tientela, cretino deficiente, la terra è di chi la lavora...” E

i contadini del Vercellese, forse per il fatto che lui parlava il

dialetto del luogo e lo capivano bene, lo guardavano e

dicevano: “Eh eh... che pazzo è quel fra’ Dolcino! Però mica

dice delle cose sceme! Sai, io quasi quasi la terra me la

tengo... No, anzi, la terra la lascio al padrone, io mi tengo il

raccolto!” E da quel giorno, ogni volta che arrivano i

“dimandati”, li prendevano a sassate. E cominciarono a

strappare anche il contratto, che si chiamava “angheria”. Sì,

il contratto che nel Medioevo univa i contadini al padrone si

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chiamava “angheria”. Allora aveva il solo significato di

contratto: poi la gente ha cominciato a capire, e si è

arricchito di sfumature: “Ah, un’angheria?...”: cioè, un

contratto tra contadino e padrone. Bene, stracciavano questo

contratto: ma, sapendo di non poter resistere da soli, si

univano, si associavano l’un con l’altro: tutti i contadini

della zona. Non solo, ma comprendendo che bisognava

allargare l’unione, perché avesse più forza, si univano con

gli artigiani minori, con i salariati, che nel Medioevo

cominciavano a esistere in gran numero. Fu così che

giunsero all’organizzazione di una comunità straordinaria.

Fra di loro si chiamavano “comunitardi”.

Sono i primi comunitardi della storia che conosciamo: come

centro di organizzazione, avevano la “credenza”. La

credenza è oggi in tutta Italia, dalla Sicilia al Veneto,

quell’armadio che teniamo in casa per riporvi la roba da

mangiare. Il sostantivo deriva evidentemente dal verbo

credere: credere in qualcosa. Credenza: credere nella

comunità, quindi; e queste forme di comunità avevano

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cominciato a esistere dal vi secolo. La prima “credenza” di

cui abbiamo notizia è la “credenza” nella comunità di

Sant’Ambrogio; un armadio enorme, immenso, tutto fatto a

stive, con tanti sportelli di legno particolari, nei quali si

conservavano i generi alimentari della comunità, il grano

dall’umidità, tutto quanto potesse servire alla comunità nei

periodi di carestia.

Lì a Vercelli, invece, per la divisione dei beni comuni non si

aspettava la carestia: si radunava tutto quanto e lo si

distribuiva a ciascuno secondo il bisogno. Secondo il

bisogno, notate bene, non secondo il lavoro che ciascuno

aveva prodotto.

Questo modo di autogovernarsi aveva dato molto fastidio ai

padroni: soprattutto a quelli che si sentivano “derubati” della

terra. Uno in particolare, il conte di Monferrato, organizzò

una spedizione punitiva, partì con i suoi sbirri, acchiappò un

centinaio di comunitardi e tagliò loro mani e piedi. Era un

vezzo di allora: in Bretagna, duecento anni prima, i signori

avevano fatto lo stesso con i propri contadini. Mani e piedi

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tagliati, furono messi a cavalcioni di asini, e spinti verso la

città di Vercelli: perché i comunitardi si rendessero conto di

quel che capitava ad agire con troppa libertà e

“presunzione”.

Quando i comunitardi videro i propri fratelli ridotti e

malconci in questa maniera non si misero a piangere.

Partirono la notte stessa e arrivarono a Novara

all’improvviso, entrarono in città e fecero un vero e proprio

massacro degli sgherri, dei boia massacratori: non solo,

riuscirono a convincere la popolazione a rendersi libera e a

organizzarsi a sua volta in comunità. Con una rapidità

incredibile Oleggio, Pombia, Castelletto Ticino, Arona, tutta

la parte a nord del Lago Maggiore, Domodossola, la zona

verso il Monte Rosa, tutto il Lago d’Orta, la Valsesia,

Varallo, la Val Mastallone, Ivrea, Biella, Alessandria...

insomma, mezza Lombardia e mezzo Piemonte si

ribellarono. Non sapendo più dove mettere le mani, duchi e

conti mandarono a Roma un messo che arrivò urlando al

Papa: “Aiuto, aiuto... aiutaci tu, per Dio!” Davanti al per

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Dio, che può fare il Papa? “Per la miseria, per Dio, devo

aiutarli...” Per sua fortuna, e per fortuna dei signori del nord,

stava per imbarcarsi a Brindisi la quarta crociata (quella di

cui noi non sappiamo niente, perché ci viene passata del

tutto sotto silenzio, e per “quarta crociata” ci

contrabbandano quella che in realtà fu la quinta). E allora

fece dire ai crociati dal messo: “Fermi tutti, scusate, ho

sbagliato: gli infedeli non stanno dall’altra parte del mare,

stanno lassù, in Lombardia, travestiti da contadini ribelli.

Via subito!” A marce forzate ottomila uomini, quasi tutti

tedeschi, arrivarono in Lombardia, si unirono alle truppe del

duca Visconti, dei Modrone, dei Torriani, dei Borromeo, del

conte del Monferrato – c’erano anche due nuovi personaggi,

i Savoia, che proprio allora cominciavano a farsi strada – e

diedero luogo a un massacro ferocissimo. Riuscirono a

rinchiudere in un monte presso Biella tremila comunitardi,

uomini, donne, bambini: in un colpo solo li massacrarono

tutti, li bruciarono, li scannarono...

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Di questa storia che vi ho così sommariamente raccontato,

sui libri di testo in uso nelle scuole non si fa cenno. Ed è

giusto, d’altra parte: chi organizza la cultura? Chi decide

cosa insegnare? Chi ha l’interesse a non dare certe

informazioni? Il padrone, la borghesia. Fin che glielo

permetteremo, è naturale che continuino a fare quello che

ritengono giusto. Vi immaginate che questi qui, impazziti, si

mettano a raccontare che nel Trecento, in Lombardia e in

Piemonte, ci fu una vera e propria rivoluzione, durante la

quale, nel nome di Cristo si riuscì a costituire una comunità

in cui tutti erano uguali, si volevano bene, non si sfruttavano

l’un l’altro? C’è la possibilità che i ragazzini si esaltino e

gridino: “Viva fra’ Dolcino! Abbasso il Papa!” E non si può,

perdio, non si può!

Esagero, naturalmente, per amore di polemica: perché, per la

verità, in qualche libro di testo un po’ più avanzato, in

qualche scuola di grande tradizione (il Berchet per esempio,

la scuola che frequenta mio figlio), la notizia si trova.

Magari in una nota a piè di pagina, che suona così (la cito a

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memoria): “Fra’ Dolcino, eretico, nel 1306 fu bruciato vivo

insieme alla sua amica”.Capito? Così i ragazzi imparano che

fra’ Dolcino era eretico in quanto aveva un’amica!

Eseguo adesso la giullarata di Bonifacio VIII. Inizia con un

canto extraliturgico antichissimo, catalano, esattamente della

zona dei Pirenei: durante il canto il Papa si veste per una

cerimonia importante.Va ricordato un vezzo che aveva

Bonifacio VIII: quello di far inchiodare per la lingua dei

frati, ai portoni dei nobili di certe città.Poiché questi frati

pauperisti e legati ai “catari”, ad altri movimenti ereticali,

avevano la cattiva abitudine di andare in giro a parlar male

dei signori: allora il Papa li prendeva e zack... (Mima l’atto

di inchiodare per la lingua)Non lui personalmente, che anzi

aveva orrore del sangue: aveva degli uomini apposta per

questo. Non era un accentratore.

Un altro episodio che si ricorda di lui, tanto per dare un’idea

di che tipo fosse, e l’orgia che organizzò il venerdì santo del

1301. Tra le tante precessioni che avevano luogo a Roma

quel giorno ce n’era una di “catari”, che approfittavano dei

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canti liturgici per insultare, con battute sottobanco, proprio il

Papa.Dicevano: “Gesù Cristo era un povero cristo che se ne

andava in giro senza neanche un mantello: c’è invece

qualcuno che il mantello ce l’ha, e pieno di pietre

preziose.C’è qualcuno che se ne sta in cima a un trono tutto

d’oro, mentre Cristo camminava a piedi nudi.Cristo, che era

Dio, Padreterno, per essere uomo era sceso in terra: c’è

qualcuno che non è nemmeno uomo, e fa tanto il padreterno,

per essere dio si fa portare in giro su portantine...”

Per la miseria! Bonifacio, che era piuttosto sveglio, pensò:

“Vuoi vedere che ce l’hanno con me? Ah sì?E io gli faccio

lo sfregio!” Organizzò un’orgia proprio di venerdì santo:

chiamò alcune prostitute, alcune signore di buona famiglia,

che spesso è la stessa cosa, vescovi e cardinali, e pare che

tutti assieme abbiano fatto delle cose proprio turpi e

ignobili.Tanto che tutte le corti d’Europa si scandalizzarono,

anche quella di Enrico III d’Inghilterra che, secondo i

cronisti del tempo, era un re piuttosto grossier.

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Dicono infatti che, per far divertire i suoi baroni durante i

banchetti, spegnesse una candela con un rutto, a tre metri di

distanza!Qualcuno aggiunge addirittura – ma io non ci credo

– che riuscisse a spegnerle addirittura di carambola, cioè

facendo il rutto verso il muro... di sponda... (mima) tack-

tack... È umorismo inglese, di cui non siamo in grado di

cogliere tutte le sottigliezze, naturalmente; dobbiamo

accontentarci, è come il cricket.

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BONIFACIO VIII

PROLOGO 2000

E arriviamo a Bonifacio VIII. Questo Papa fu senz’altro uno

dei più grandi pontefici del medioevo soprattutto dal punto

di vista politico e strutturale dello stato cattolico, apostolico

romano; un po’ meno dal punto di vista mistico e religioso.

Infatti fu il Papa che elesse a regola santa il potere temporale

della Chiesa. Con la sua spregiudicatezza provocò nei fedeli

grandi apprezzamenti con contrappunto di rancori feroci.

Dante Alighieri, suo contemporaneo, di certo non aveva

molta simpatia per lui, tanto che lo scaraventò all’inferno

prima ancora che morisse. Vi ricordate la scena : Dante

chiede a Virgilio “Maestro, cos’è quel buco dal quale

prorompe fuoco? A chi è destinato?” e il Maestro “Lì verrà

infilato Bonifacio VIII con la testa in giù e le zampe che

zompano, sbattendo fuori dal buco!”

Ma, a parte il giudizio negativo e spesso ostile dimostratogli

da molti uomini di pensiero del tempo, bisogna ammettere

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che sul piano della riorganizzazione della Chiesa, l’apporto

di questo Papa fu determinante. Egli diceva più o meno:

“Basta con questa chiesa accattona che per sopravvivere

deve dipendere dalle elargizioni dei potenti, re e imperatori

che poi ti impongono l’elezione di vescovi, loro tirapiedi... ti

ricattano, si servono della chiesa come di uno zerbino per

montare più comodi al trono! Vogliamo la libertà della

chiesa, l’autonomia, ma per far questo dobbiamo riuscire a

creare e gestire il nostro potere... sì, un potere che non può

risolversi coll’occuparsi della sola spiritualità, ma che deve

diventare anche potere temporale, che significa economico,

politico e, scusate se vi sembrerà una bestemmia, giuridico-

militare, senza dimenticare il bancario.

Naturalmente, come dicevamo, un programma tanto

spregiudicato determinò una reazione indignata da parte di

infiniti gruppi religiosi che pretendevano la santa povertà

della chiesa, seguendo la regola del poverello d’Assisi. A

capo del movimento c’erano i più radicali e senz’altro i

cosiddetti spirituali, che oggi potremmo chiamare la sinistra

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accesa della Chiesa: costoro si gettarono con impeto contro

le idee di questo Papa.

Jacopone da Todi, il grande poeta, capo ispiratore degli

zeloti (da zelo) di San Francesco, urlava: “ Ahi Bonifax, che

come putta hai traìto l’eclésia”, “Ahi, Bonifacio che come

una puttana hai ridotto la Chiesa”.

Bonifacio se la legò al dito e riuscì a catturare il frate poeta,

lo gettò in un carcere profondo, costretto a restare legato in

questa posizione, chino (allarga le braccia e si piega sulle

proprie ginocchia ad imitare la costrizione di Jacopone),

incatenato sulle proprie feci. Quando, dopo 5 anni, alla

morte di Bonifacio, lo liberarono éra ridotto ad un catorcio,

talmente anchilosato che non riusciva neanche a muoversi. I

fratelli dell’ordine, si racconta nella tradizione popolare, lo

portavano in giro su una carriola e quando di lì a poco

Jacopone morì lo dovettero seppellire da seduto, giacché i

suoi fratelli non riuscivano ad allungarlo sull’asse della

sepoltura: come lo stendevano... lui, caparbio, NIEHH!

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(Mima il rattrappirsi di nuovo nella posizione di

accasciato).

Un altro ricordo della violenza di questo papa si rifà ancora

alla memoria popolare, a proposito del crimine messo in atto

a Cesena dove agiva un gruppo di cento frati che

contestavano il papa e soprattutto i maggiori della città, che

lo appoggiavano. Bonifacio riuscì a far catturare in massa i

contestatori, ne scelse sette di loro, i caporioni, li fece

inchiodare per la lingua con le mani legate dietro la schiena,

ai rispettivi sette portoni della città.

Per secoli i ragazzini della Romagna hanno cantato la

tiritera:

“Penzola, penzola frate

sbalanza,

come il pendolo fai la danza.

Sbatti fratello per la lingua inchiodato,

come il batocchio che batte a martello

come campana sbatacchia, fratello”.

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Ora grazie anche alla vostra fantasia, aiutandomi con gesti,

canti e sproloqui appropriati, cercherò di mostrarvi

Bonifacio che si appresta ad indossare paramenti a dir poco

fastosi, per recarsi in processione. Il Papa amava molto il rito

dello sfilare tra folle di fedeli acclamanti, preceduto e

seguito da turbe di vescovi e cardinali, soldati in grande

uniforme, bandiere, drappi e fanfare. Sotto un gran

baldacchino procedeva quasi in estasi. Nella nostra giullarata

accade un evento magico. Il Papa si incontra con un'altra

processione nella quale c'è Gesù Cristo che, sotto la croce,

se ne sta andando sul monte Sinai per essere inchiodato.

Quando ho scoperto il frammento che mi ha ispirato la

giullarata di Bonifacio, alla descrizione dell’incontro fra

Cristo e il pontefice sono rimasto un poco perplesso, ma poi

mi sono informato, ho chiesto a storici illustri e mi hanno

spiegato che si tratta solo di un anacronismo, classico

espediente allegorico delle giullarate medievali. Quindi mi

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hanno assicurato Cristo non si é mai incontrato con nessun

Papa. Ho quindi tirato un bel respiro di sollievo!

Dicevamo... nella giullarata il pontefice vorrebbe

approfittare dell’incontro e sfruttarlo a grande effetto così da

provocare stupore e ammirazione nei fedeli astanti.

Bonifacio cerca di sostituirsi al Cireneo infilandosi sotto la

croce e reggerla con Gesù. Bel colpo, da gloria in coro! Ma

Gesù intuisce l’antifona, gli girano tutti i santissimi e,

indignato, sferra una gran pedata al Papa, proprio sul

coccige... che da quel giorno si chiamerà OSSO SACRO in

memoria del santo piede di Cristo.

A ‘sto punto io metto sempre le mani avanti perché so che

gran parte del pubblico tende a ravvisare ad ogni costo un

parallelo fra Bonifacio e il Papa attuale.

E’ incredibile! Sono ormai quasi 30 anni, sottolineo 30 anni,

che rappresento questo testo e da allora si sono succeduti

alla soglia di Pietro bén 3 papi, Wojtyla è il quarto. Ebbene,

indipendentemente dalle diverse personalità dei pontefici, il

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pubblico sempre ha cercato di scoprire allegorie e

concomitanze di questi, con Papa Bonifacio.

Lasciamo perdere i precedenti pontefici, io chiedo come si

può rintracciare una qualsivoglia somiglianza fra Papa

Wojtyla e Bonifacio?

Tanto l’inventore del potere temporale éra dispotico,

violento e vendicativo, cossì questo nostro attuale pontefice

è totalmente portato alla comprensione e al perdono. Basti

pensare come ha reagito nei riguardi del criminale che ha

tentato di ucciderlo; un killer spietato e infame, un turco

fanatico e fascista.

Io ho molti amici turchi, attori, scrittori e intellettuali che più

volte hanno provato la galera per difendere il diritto alla

democrazia, ma questo lo odio!

Eppure Wojtyla l’ha perdonato! Si fa presto a parlare di

carità evangelica, ma voglio vedere io come qualsiasi essere

umano avrebbe reagito davanti a un bastardo criminale che ti

spara nel coccige, proprio nel momento in cui tu stai per

affacciarti dal tuo trabiccolo-mobile per afferrare un bimbo e

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baciarlo. Eppure lui, Wojtyla, ancora zoppicante, s’è

scomodato ad andare di persona a fare visita al suo killer...

per abbracciarlo.

Vi ricordate la scena: lui, Ali Akka, turco assassino, seduto

su una sedia di ferro e accanto Wojtyla, anche lui su una

sedia di ferro che gli pone un braccio sulle spalle, gli

accenna gesti di rimprovero (esegue una breve pantomima

agitando la mano e fingendo di schiaffeggiare benevolmente

il criminale). I due si trovano davanti ad una vetrata

squallida, incorniciata di ferro arrugginito... la regia éra di

Zeffirelli e devo ammettere che in queste messe in scena lui

ci sa proprio fare!

Dunque, dicevamo... Wojtyla si stava affacciando dalla

Pope-mobile per afferrare un bambino dalle braccia della

madre e baciarlo; voi sapete che il nostro Giovanni Paolo ha

una vera passione per i bambini... se non ne bacia almeno

una decina al giorno sta male. E ancor oggi, per quanto non

più sciolto nei movimenti, causa gli acciacchi dell’età,

esegue il sollevamento del bimbo con una velocità a dir poco

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sorprendente, sembra la catena di montaggio (accompagna

la descrizione con gesti a scatto meccanico) : solleva il

bimbo, lo bacia e via: li butta! Che se non ci fosse sempre

intorno a lui quella équipe di pallacanestro dove tutti sono

truccati da preti, autentici giocolieri che come lancia il

bambino (mima la scena con saltelli, scarti veloci seguiti dal

gesto di palleggiare il bimbo al suolo come fosse una palla e

quindi infilarlo nel canestro)... “OP OP... passa.. è tua!!” e

lancia: sarebbe un disastro!

L'altra passione irrefrenabile del pontefice è senz'altro

quella che lo porta ad inchinarsi e baciare la terra,

immancabilmente ad ogni sbarco in un paese nuovo, travolto

dal desiderio di quel bacio. E non c’è verso di dissuaderlo.

Ogni volta che ci hanno provato si è sfiorata la catastrofe.

Ha trascinato con se preti, suore, frati che tentavano di

trattenerlo; e una volta anche una guardia svizzera che nel

cadere ha infilzato con la lancia un prete in estasi. Oggi,

purtroppo per le sopravvenute difficoltà deambulatorie e non

riuscendo a flettersi come un tempo, è costretto ad

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accontentarsi di un capace vaso, dentro il quale è sistemata

una gran zolla di terra, glielo sollevano e lui bacia. Rito

purtroppo ridotto. Pensare che solo 10 anni fa ogni discesa

con bacio alla terra: era uno spettacolo ineguagliabile!

Io mi trovavo a recitare in Spagna proprio alla sua prima

visita e mi sono mosso alle sei del mattino da Madrid per

raggiungere l’aeroporto dove sarebbe atterrato. Nel grande

spazio già allo spuntare dell’alba si erano riuniti almeno un

milione di fedeli che lo attendevano... una cosa esagerata!

Avevano sfondato anche le transenne, dilagando per tutto

l’aeroporto, anche sulla pista. Tutti, con la faccia rivolta in

su a scrutare il cielo, un cielo tessuto di nubi fitte e basse. Ad

un certo punto a bucare le nubi è spuntato il muso dell’aereo

papale... un DC13 che adesso non ci sono più i DC…

(pausa: ironia ) Noi ci siamo illusi che non esistano più i

DC, ma ci sono e ancor più numerosi truccati con sigle di

fantasia CC, CPCC, CCC, CDU... sono fitti come la

nebulosa di Andromeda… Non sono un partito , ma

un’ameba … oggi ce li troviamo di nuovo al governo e

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anche all’opposizione! All’apparizione dell’enorme jet…

sapete, quello con la papalina in testa, giallo e bianco… i

colori del Vaticano... un fedele, anzi un fanatico che stava

vicino a mé ha esclamato:

"Com’è' bello il Papa! Come vola bene!" "No, - gli faccio -

guardi che questo non è il Papa, é l’aereo dentro il quale vola

il Papa." "No, è lui!" e io "Guardi che il Papa mica ha i

finestrini sui fianchi!" Il fanatico mistico con tono sicuro:

"Se vuole lui se li fa!".

Quando si dice la fede!

Intanto l’aereo si è abbassato e, evitando miracolosamente la

folla di fedeli, é atterrato sulla pista. Immediatamente una

scalinata semovente di 100 gradini ha raggiunto la carlinga

dell’aereo. All’istante tutti abbiamo visto scorrere il

portellone e apparire il Papa... Lui per primo. Bellissimo,

con la papalina in testa, gli occhi cerulei, un sorriso radioso,

il collo taurino, i pettorali bén disegnati, come allora poteva

bén mostrare, la fascia stretta in vita, gli addominali tesi, il

nastro che, avvolto al collo, gli tratteneva un mantello rosso

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che gli scendeva fino ai piedi (pausa)... Superman!!! Proprio

lui, che ha cominciato ad oscillare avanti e indietro: uuuno…

dueeee… già la gente gridava "Il Papa volaaa" e tutti i fedeli

lo immaginavano librarsi nell’aria con un fumone bianco e

giallo che gli usciva da sotto il gonnellone a scrivere per il

cielo “Dio è con noii! Perdiooo!!” TUN TUN (fa il gesto di

disegnare nel cielo le lettere della frase).

E invece un arcivescovo ha purtroppo spezzato l’incanto:

‘sto gran prelato distratto, per dialogare con il pilota, gli è

montato sulla coda del mantello e lui, il papa, bloccato

(mima l’impedimento del mantello) ! Se ci fosse stato un

altro pontefice al suo posto sarebbe morto di vergogna, ma

Wojtyla ha dilatato di scatto i muscoli della gola - collo, ha

spezzato il nastro che tratteneva il mantello. La santa cappa è

caduta, scivolando via dalle sue spalle e lui è letteralmente

precipitato per le scale a velocità inaudita!

Io non ho mai visto nessuno al mondo scendere per i gradini

di una scala con quella velocità, naturalmente sto parlando

del papa quando ancora éra una vera e propria forza della

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natura. Non posso dimenticare uno dei suoi primi exploit

mistico-sportivi quando aveva deciso di montare su un picco

del trentino, a 3000 metri di altezza, a dir messa.

Durante il rito esplose una tormenta spaventosa, fuori dalla

piccola chiesa una slavina aveva travolto alcune guide e uno

stuolo di parroci alpinisti... lui, Wojtyla ha salvato tutti e

anche due o tre cani san Bernardo che erano sepolti nella

neve.

Da solo.

Con la fiaschetta qua, al collo, è andato a raspare e a

dissotterrarli. Éra l'unico che riuscisse a muoversi in

quell’inferno, facendo tutto, coperto solo del suo mantello e

con in capo papalina, che per mé gliela avvitano... e quel

pirulino che gli spunta qua è suo personale, è un picciolo

che aveva fin da bambino. Lui è nato così: ...EHI

PIRULINO! Ché infatti Wojtyla in polacco vuol dire

pirulino. WOJTYLA!

Spostiamoci dalle montagne e torniamo all’aeroporto di

Madrid. Dicevamo che il Papa s’é buttato a precipizio giù

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dalla scalinata... non so come ci riuscisse con quei piedini

che zampettavano TATATATATA. Purtroppo nel

discendere é incappato in un guaio: non s’era accorto che la

scala, dopo i primi 50 gradini, presentava un breve

pianerottolo, quindi riprendeva fino in fondo con un normale

ritmo di pedata. Wojtyla non si è reso conto di quel basello e

TAC (fa il gesto di scattare in aria a braccia levate).

Naturalmente nessuno di voi, con tutto che magari eravate di

fronte al televisore, ha potuto godere di quella scena per

intero, per la ragione che non si trattava di una normale

ripresa in diretta, ma di una ripresa in diretta leggermente

differita. No, non è una battuta di spirito: chi ne sa qualcosa

di televisione è al corrente che quando si riprende un

avvenimento importante non lo si manda immediatamente in

onda, si registra il tutto per poi trasmetterlo con qualche

minuto di ritardo, cosicché se accade qualcosa di imprevisto,

non si fa altro che tagliare la sequenza inutilizzabile, si

riduce e via che si prosegue senza che nessuno si sia reso

conto dell’accaduto. Infatti chi ha assistito all’avvenimento

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si ricorderà che appariva una sequenza strana: il papa scende

la scaletta (mima) TATATA, giunge al gradino (fa il gesto di

scattare in aria)... stacco: ed eccolo già in fondo alla scaletta

che si stropiccia il viso, si spazzola la veste (mima

rapidissimo l’accaduto). Ma cosa éra successo nello spazio

censurato? Io ero presente e vi posso testimoniare l’intera

sequenza: lui scende velocissimo, s'intoppa TA PAM

(allarga le braccia e mima d’essere proiettato in aria con un

gran salto), scende a picco verso il prato, lo raggiunge

planando e ara il campo per tre metri e mezzo con i suoi

splendidi incisivi… un solco profondo, e quindi gli sferra un

bacio con tale voluttà alla terra, che questa freme in un

brivido di sessualità inaudita (mima, agitando le braccia

come attraversato da un fremito di mille Volt) AAAH!

Splendido!

Ma torniamo ad Alì Agchà e al tentato assassinio, al punto in

cui il papa solleva il bambino dalle braccia della madre. La

donna ha vicino il marito che la tiene a braccetto. Wojtyla fa

il gesto di voler afferrare il bambino, la donna si schernisce e

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dice: "Santità, non vi offendete, non ve lo do perché voi poi

lo buttate!" Il Papa assicura: "No, io non lo butto!" il marito:

"Sì, lei butta!". Wojtyla non s’arrende: solleva il bambino

con appresso la madre a braccetto del padre… un grappolo

familiare… che lui ci tiene alla famiglia unita... RAMBO

VII. Proprio in quel momento il bastardo killer infame gli ha

sparato! Gli ha sparato apposta alla schiena per umiliarlo. A

‘sto punto c'è stato quel folle speaker della prima rete, che

giustamente hanno cacciato da tutte le televisioni, che si è

messo ad urlare: "Il Papa e ‘stato colpito allo sfintere!!!".

Ma dico si dice che il Papa ha lo sfintere?! IL PAPA HA UN

CONDOTTO SACRO!!! Ma come ha potuto quel killer

sparare indisturbato? A parte che l'hanno fotografato da tutte

le posizioni e durante l’intera azione! Vi siete resi conto di

quante fotografie hanno scattato? Ce n’è una di lui che estrae

la pistola; c’è ne un’altra che lo ritrae mentre, con calma,

punta l’arma ,un'altra ancora dove bagna il mirino sulla

canna con la saliva, il fumo che esce, lui che soffia sulla

bocca della canna per disperdere il fumo, un’ultima dove lo

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si vede infilare l’arma nella fondina: OK! e va via. C’è

addirittura una foto scattata al mattino, 3 ore prima che

arrivasse il Papa, dove si vede Ali Akka che infila

tranquillamente i proiettili, uno ad uno, nel tamburo della

pistola. Nessuno che si scomodi chiedendogli : “Ma che fa,

carica la pistola in piazza San Pietro col Papa che sta per

uscire?” No, tutto normale... Uno per prepararsi

spiritualmente che fa? Snocciola il rosario?... No, è roba da

pizzocchero d’altri tempi... no, lui infila proiettili: è molto

più mistico!

Poi c’è la sequenza delle foto coi bulgari... è risaputo la

piazza era ricolma di bulgari, tutti coi baffi alla bulgaro. Si

sa: loro, hanno organizzato l’attentato: erano lì presenti, per

dare indicazioni al killer idiota. Naturalmente senza dare

nell’occhio. Infatti c’è la sequenza di foto in cui si vedono il

bulgaro col dito nel naso, quello che si gratta la natica;

ancora un altro bulgaro che lecca il gelato, il suo vicino che

ha il gelato ma lecca quello dell'altro e, finalmente in fondo,

il capo dei bulgari, l’organizzatore che da gli ordini al turco

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(da inizio ad una pantomima in cui gesticola per far

intendere l’azione che il killer deve mettere in atto) : “ Ali

Akka… (fa il gesto napoletano che significa qui, in questo

momento), QUELLO!! (indica il Papa che entra nella

piazza, ne descrive la mitria e le mani giunte, fa il gesto di

sparare e descrive il Papa che cade riverso. Fa poi

immaginare l’espressione attonita e un po' beota del killer

che non capisce) ”

“EHH?”.

(Il capo bulgaro ripete velocemente l’azione

dell’esecuzione) : “Quello!! Quello bianco... vestito di

bianco... ma no! Quella è una suora!”

Esiste soprattutto la prova della presenza dei bulgari

documentata dal New York Times, il settimanale che

qualche giorno dopo l’attentato è uscito con una specie di

depliant a soffietto che s’allargava a mostrare una foto di 50

x 40 cm; nella maxi foto appariva tutta piazza S. Pietro

gremita di folla e tanti cerchietti rossi che inquadravano

ognuno un bulgaro: quello del gelato, il palpa-natiche

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eccetera... Cosicché, ancor oggi, quando un bulgaro in

vacanza arriva alla nostra frontiera, subito gli consegnano un

cerchietto rosso che dovrà tenere davanti al viso, anzi

rimanerci affacciato per tutto il soggiorno, così da poterlo

comodamente identificare in ogni evenienza.

Torniamo finalmente a Bonifacio VIII che si prepara per

l’andata in processione. Alcuni chierici collaborano ad

addobbarlo dei sacri arredi: gli porgono la pesante mitria, i

guanti, gli caricano sulle spalle un enorme mantello

tempestato d’oro e pietre preziose e partecipano al coro

intonato dal Papa.

Purtroppo a funestare il rituale c’è un chierico che per la

troppa emozione si inciampa, crea guai e soprattutto nel

cantare stona. Infatti sentirete spesso il papa inveire gridando

“Stünàt” e lo vedrete promettere allo sventurato chierico,

con gesti eloquenti che, se continuerà a combinare guai, lo

inchioderà per la lingua al portone come già aveva fatto con

i frati di Cesena.

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Per tutta la giullarata io canterò in gregoriano, ma non si

tratterà di grammelot, una parodia sfarfugliata a soggetto,

no, il canto che andrò ad eseguire sarà in autentico

gregoriano dell’XI secolo.

Io ho avuto la fortuna, quand'ero ragazzino di far parte di un

coro famoso, quello della cattedrale del mio paese, Domo

Valtravaglia, ero prima voce di contralto, la voce portante di

tutto il coro. L’intera curia éra orgogliosa di mé e quando

arrivava un vescovo in visita pastorale mi presentavano

quasi fossi un dono del Signore. Il vescovo mi poneva la

mano in capo e mi sorrideva.

Io ero la speranza della chiesa! (Pausa) Intendo dire della

chiesa del mio paese.

Poi sono cresciuto, sono arrivato a Milano, ho frequentato

cattive compagnie... marxisti e leninisti, e ho perduto quella

mia preziosa dote; però mi è rimasta la memoria del canto...

sapete, quel che si impara da ragazzi non si dimentica più...

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anche se si perde la grazia. Immaginatemi nei panni di

Bonifacio VIII

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BONIFACIO VIII

Giullarata per un mimo fabulatore solista

Il giullare nella sua azione, fa immaginare di essere

circondato da chierici cantori, che lo addobbano per la

processione che dovrà tenere tra poco. Mima il gesto di

pregare e canta1:.

AL JORN DEL JUDICI

PARRA QUI AVRÀ FET SERVISI

UN REY VINDRÀ PERPETUAL

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL

DEL ZIEL VINDRÀ TOTI SERTAMENT

AL JORN...

(S’interrompe e si rivolge ad uno dei suoi immaginari

chierici)… el capèlo… (riprende a cantare)... AL JORN...

(S’interrompe) El capelón, quèlo grande… (riprende a

cantare)

ANS QUEL JUDICI NO SERÀ

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UN GRAN SENIAL SA MONSTRARÀ...

(Mima di afferrare la mitria dalle mani del chierico e se la

calza in capo. Di scatto se la toglie) Ahia! Bòja desgrasió, a

l'è de fèro! Té mé s’ciùchi la crapa! Dévio andare in batàja a

gueregiàre? (Inserisce sempre i suoi ordini nel canto

gregoriano) Dame quèlo legéro che débio andar a

pasegiàre… (Afferra un altro copricapo) Quèsto ól è bòn...

(Se lo ficca in testa e riprende a cantare)

AL JORN DEL JUDICI...

(S'interrompe: ordina) Ól spègio... (Mima di rimirarsi allo

specchio soddisfatto) Guanto! (Riprende il canto) ANS

QUÈL JUDICI... (Ordina) Guanto!! (Seccato) L'ólter... Un

guanto domà?! No’ gh'ho 'na mano sola... Vòi ch'mé la tàje?

(Mima il braccio monco. Riprende il canto infilandosi il

guanto e timbrando sulle note, conta il numero delle proprie

dita che ad un primo passaggio gli risultano più numerose.

Ripete il conto, sempre solfeggiando e si tranquillizza

scoprendo che ne ha proprio cinque per mano. Soddisfatto

esegue un crescendo festoso. Ordina) 1 testo in lingua catalana del XII secolo così come viene ancora eseguito nei corali do Alghero

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Ól mantèlo!... Il mantelón… quèlo grando, quèlo con le

piére... d’oro, d’arzénti. (Canta)

AL JORN DEL JUDICI

PARRA QUI AVRÀ...

Portémelo chi-lòga! Sèt in sinque chiérici, bòja!… Svalsì 'sto

mantèlo, mé lo sbordeghé tüto a strasicàrmelo par tèra,

andémo! Ehi, avìt magnà l'acquagiàda incóe? (Mima di

afferrare dalle mani dei chierici un largo, pesante mantello)

Ohi se l’è greve quèsto! (Riprende il canto cercando di

caricarsi il mantello sulle spalle senza riuscirci) .

PARRA QUI AVRÀ FET SERVICI... (Ordina) Aidème a

mèterlo in spala! (Canta)

PARRA QUI AVRÀ FET SERVICI...

Dai, monta! Déighe un trusùn! (Lo sforzo lo costringe a

stonare. Si arresta, si rivolge ai chierici abbassando il

mantello) Bòja! A débio far tüto mé?... A sónt un Pàpie o un

bóve? Débio caregàrme el mantèlo, portar el capelón,

cantare! No' ghi vója viàltri de cantare? A gh’è tristìsia?

Sìnque chiérisi sénsa vus? (Si rivolge a uno dei chierici

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immaginari) Ti, prima vus, canta! (Accenna, impostando la

tonalità della prima voce nel coro)

FET SERVICIII…

(Riprende dirigendo col capo) Prima!

(Canta come fosse il chierico) FET SERVICI…

Tégne la nota! SERVICIIII…

(Rivolgendosi ad un altro chierico immaginario) Secùnda!

UN REY VINDRÀ PERPETUAL… Mantién la nota…

PERPETUAAAAL...

(Ad un altro chierico) Terza!

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL… plü alto!

(Ad un altro chierico) Quarta!

DEL CIEL VINDRÀ TOT CERTAMENT…

(Esegue un alleluiatico saltando da una tonalità all’altra e

dirigendo il coro, trasforma il canto in una sequenza di

rimbrotti, risentimenti e minacce, quindi, indica un quinto

corista) e ti repèt sü lo mismo tòn in sustién. (E, come fosse

il chierico, esegue una specie di accommagnamento su sole

tre note, quindi termina sgarrando con la voce in un acuto

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fuori tono. S’interrompe scoraggiato) Stunàt!!! (Alludendo

al mantello) Metémose a spìgnere insèmbia. (Canta salendo

in acuto)

PER FER DEL SETGLE JUGIAMENT… (Si blocca di

scatto)

Stunàt, cito! Ti sit pròpio sborlunàt de vose. No’ ti divegnerà

gimài prèvete che no’ ti pol cantare de mèsa! Sémpre

chiérico t’ serèt! Cito! (Fendendo l’aria con la mano tesa gli

ordina il silenzio assoluto. Ad un altro chierico) Quinta!

PER FER DEL SETGLE JUGIAMENT…

Adèso tüti insèmbia canté e valsé 'sto mantèlo, mé lo careghé

en spala... Ti stuna' no' cantare! (Sempre cantando in

gregoriano, mima di caricarsi, con grande sforzo il matello

sulle spalle e accenna a porsi in cammino)

AL JORN DEL JUDICI

PARRÀ QUI AVRÀ FET SERVICI...

(Si arresta all’istante e fa il gesto di strattonare il manto, si

blocca esausto e furente) Chi l'è che l'è montà coi pìe sul

mantèlo?!... (Si guarda alle spalle imbestialito) Stunàt!

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Desènde! No’ té canti! Ti è stunàt! No' té valsi ól mantèlo, té

monti coi pìe... Aténto a ti!… Che mi té tégno d'ögio!... Té

inciòdo la léngua sul purtùn! Lèngua, ciòdo, portùn,

martèlo... TON TON TON! (Mima velocissimo l’operazione

dell’inchiodamento, quindi prosegue disegnando nell’aria il

chierico inchiodato per la lingua che ciondola a mo’ di

batacchio, mosso dal vento. Emette un gemito che ricorda

quello dei portoni che cigolano sui cardini) GGNAAAA!

AAAAA! GGNAAAA! AAAAA! Aténto a ti!… (Ordina)

Valsé 'sto mantèlo! (Riprende il canto aggiustandosi il

mantello sulle spalle e annodandosi i nastri sul petto:

esausto) Che mesté de bòja fa' ól Pàpie! (Riprende il canto)

UN REY VINDRÀ PERPETUAL…

(Ordina) Cussìno con i anèli! (Canta)

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL...

(Mima di prendere un anello dal cuscino che gli viene

offerto, lo rimira e dopo avere alitato sulla pietra se lo infila

e commenta) Va come sbarlüsciga quèsto! Té dà una

inciucàta che no' tèl pòl vardàre! (Riprende il canto

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infilandosi anelli dall’indice al mignolo e a questo punto

esclama) L'è grando… ah no… a l'è par ól didón! (Sposta

l’anello dal mignolo al pollice) Oh, adèso sì che ól va bén!

(Rivolto agli immaginari chierici) Mo’ stit in campana, che

partìssum tüti insémbia! Cantare! (Riprende con foga gesti e

canto. Si muove. Quasi spintonato, si ritrova proiettato in

avanti. Con gran scatto di reni, evita per poco di finire

lungo disteso con la faccia sbattuta al suolo. Si rizza, si

riassesta negli abiti, mitria e mantello, quindi puntando

feroce l’immaginario chierico imbranato) Stunàt! Còssa ti

va a spìgnere che i altri no’ iè ancamò partì! Té vòi

scarpusciàrme? Té piaserìa vedè ól Pàpie sbragào, con la

fàcia immergiùa in de la mota… el capelón incarcào fin al

bàbie a sufegàre!... Aténto té! (Ripete la pantomima

dell’inchiodamento per la lingua, rimpicciolendo i gesti

come se il chierico si fosse trasformato in un pupazzetto di

pochi centimetri. Indi, perentorio) Slarghé 'sto mantèlo!

Indrio! No' se fa parténsa sübito… se fa balànsa, prima... Se

fa mostra de parténsa, ma no' se parte miga! (Mima i

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02/10/2012 497

movimenti appena descritti e si avvia) Se cata ól respiro… se

torna indrìo… un altro respiro, e pö, al fine se parte! A sunt

un Pàpie, no' un carètto! Aténto té! (Rapidissimo esegue la

pantomima sintetizzata dell’inchiodamento) Andémo!

(Riprende sull’aria del motivo religioso) Se parte… adèso

indrio… (si avvia facendo qualche passo con incedere

maestoso, sempre cantando)

UN REY VINDRÀ PERPETUAL...

(Si blocca di colpo e si guarda intorno come seguisse la

fuga di tutti i chierici) Oh, chiérighi... dua andì tüti?! Mé

piantì chi soléngo in mèso a la strada… da par mi?!… (Con

altro tono ad alcuni chierici che sono tornati sui loro passi)

Còssa gh'è?… Un'altra procesiùn?!... Un altra procesiùn…

de contra a la méa?! Chi gh'è in procesiùn? Jesus?... Chi l’è

'sto Jesus?... Ah, Cristo! (Come ricordando, all’istante si

batte una gran manata sulla fronte) Jesus Cristo! Al gh'ha

do' nómi... ‘tachéi insémbia, che mi a mé sconfùnde!…

(Come osservando Cristo che avanza con la croce sulle

spalle verso di lui) A l'è quèlo sota la cróse... Bòja come

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l'han consciàt! (Sinceramente addolorato) Varda… tüti i

spini gh'han piantàt sü la crapa... ól sànguo che ghe cóla

dapartüto… gh'han spüdà adòso… sgarbelà… strascià...

Adès capìssi parchè ól ciàmano “pòvero Crist”! (Rivolto ai

chierici china il capo come stravolto) Fradèli, portéme via

de chi-lòga, no' poi véder… mé fa impressiùn vardà ‘ste

robe... (fingendo di rispondere ai consigli di un altro

prelato) Eh? Té dise che è mejòr che mi ghe vaga

incontra?… Parchè?... Ah, par la zénte! Ziusta, la ziénte che

ghe vede insèmbia dise: "Oh, se cognósse quèi dòj… i son

de la mèsma eglésia!". Ti gh’ha resón. (Mima di liberarsi del

cappello, mantello e di sfilarsi gli anelli) Tégne, tégne ól

capelón, tégne ól mantèlo, tégne i anèli... L'è un mato quèlo!

No' pòle suffregàr i prèveti co' le robe che sbarlüsega! (Si

china nel gesto di raccogliere una manciata di fango)

Dame, dame la tèra... (In risposta, seccato) Per

sbordegàrme! (Si strofina il fango sul viso e sugli abiti,

quindi indicando Gesù) L'è un mato, l'è un fìsimo sofistico

treméndo! Ghe piàse sojaménte i disgrasió, i malarbèti, i

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vuncióni, le pütane... (Mima di allontanare da sé i chierici)

Vaì, vaì, foera! Foera! No' gh'ho besògn de vèsser

acompagnàt… Vago soléngo!... (Si avvicina a Cristo con un

gran sorriso accattivante) Com valla Jesus?... Eh? Chi a son

mi? (Ai chierici che ci si immagina alle sue spalle) Oh, no'

mé gh'ha recognossùo! (Al Cristo) Son ól Pàpie… Bonifax,

maximun… prénze de la romana eglésia... Pa-pi-e! (Ai

chierici) S'è desmentegàt cosa a l'è ól Pàpie! L'è inciuchìt!

(Al Cristo) Pàpie! Pa-pi-e! (Conciliante) No' té se regòrdi

che té gh'ha dito a Piétro: "Piétro, adèso che gh’avémo

l'eglésia, fasémo el capo de l'eglésia. E ti, té sarét ól prim

cap... che ól se ciamerà Pàpie... Aprèso che té sarét morto ti,

ghe sarà un altro Pàpie, quindi (ritmando) un Pàpie, un

morto, un Pàpie, un morto, un Pàpie… (pausa) 'na papada!...

(Come ascoltando il commento di Gesù, atteggia un moto di

meraviglia, trattenendo a stento la risata) Non té ghe l'aveva

gimài ditto ti, a Pietro? Alóra se l’éra inventàt! (La risata

esplode fragorosa. Si blocca all’istante recitando sorpresa,

ascoltando quanto va dicendogli Cristo) Eh?! Mi?! Mi ho

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masàto dei fra’? No’ è vera! Chi té l'ha dito? (Irato e

minaccioso) Dime el nome de chi té l’ha dito, che ghe

intorcìgo… ghe sbùso la crapa... (Fa il gesto di afferrare lo

spione, di torcergli il collo e quindi di trapanargli il capo

con le dita. Si blocca e mima di rimediare al gesto di

violenza ritappando il foro nel cranio della sua vittima) No

Jesus, ghe vòjo bén mi ai frati… tüte le matìne apéna mé

lévo… (si rivolge ad un chierico) : "Va a tórme un frate…"

(Rivolto a Cristo)… mé baso un frate… tüte le matìne!

(Sollecita il chierico) "Va a tórme 'sto frate!…” (Ascolta la

replica del chierico, quindi spazientito) “Destàcheghe la

léngua dal portón!" (Si interrompe rendendosi conto

dell’orrendo sproposito, indi cambia registro, si inginocchia

davanti a Cristo e parla con disperata umiltà) Jesus té gh'hai

resón… son l'òmo pejór che gh'àit a 'sto mondo… canàja…

ladrón… malarbèto… ma ti è tanto bòn e caro che t'hai fàito

perdonànza a tüti i òmeni de la tèra desgrasiò, asasìni,

pütane... fai perdonànsa anca a mi che son to’ fiöl… Fai de

manéra che tüta la zénte ghe véde… mi e ti sóta la mèsma

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cróse… mi che t'aìdo a portàrla (Mima di infilarsi sotto la

croce e di caricarsela)… Fòra dai cojóni Sirenèo! A son

forte mi… a porto certi mantelóni... (Cerca di fare

resistenza a Cristo che evidentemente lo ‘sta spingendo via

da sotto la croce) No descasàrmeeee!... (Mima di ricevere

una terribile pedata nel sedere. Si ritrova letteralmente

scaraventato dall’altro capo della scena) Cristo! Una

pesciàda a mi?! Al Pàpie?! Ma è 'gnüdo mato?! (Rivolto al

cielo) Se ól savèsse to’' Pare, poaràsso!... (Punta il dito verso

il pubblico) Ah, té fa gran plasér vedàr tüta ‘sta zénte che se

fa de le gran rigolàde cuntra de mi! (Carico di livore)

Ariverà ól ziórno che ti té anderà su la cróse inciodàt… In

quèl ziórno sarò gran contento… andarò a pute, mé vòi

embriagàr da sfrogognàr! (Puntando il dito contro Cristo)

Cap de i àseni! Prènze son mi! Prènze Màximon de la

Romana Eglésia! (Ordina ai chierici) Déme el capelón…

paséme ól mantèlo… déme i anèli… (Al Cristo) Varda come

sbarlüsega! Prènze son mi! E ti cap de i àseni! (Con voce

stentorea) Laude, laude Bonifax Maximun prènze... Gloria!

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Gloria a Bonifax! Cantare! (Se ne va tronfio e impettito

intonando a tutta voce il canto gregoriano)

LAUDE BONIFAX MAXIMO

PRENZE ROMANA EGLESIA

MAGNIFICAT ET EXULTE

(Cala lentamente la luce)

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TRADUZIONE

Giullarata per un mimo fabulatore solista

Il giullare nella sua azione, fa immaginare di essere

circondato da chierici, cantori che lo addobbano per la per la

processione che dovrà tenere tra poco. Mima il gesto di

pregare e canta2 .

AL JORN DEL JUDICI

PARRA QUI AVRÀ FET SERVISI

UN REY VINDRÀ PERPETUAL

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL

DEL ZIEL VINDRA’ TOTI SERTAMENT

AL JORN...

(S’interrompe e si rivolge ad uno dei suoi immaginari

chierici)… il cappello (riprende a cantare)… AL JORN… il

capellone, quello grande...… (riprende a cantare)

ANS QUEL JUDICI NO SERA’

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UN GRAN SENIAL SA MONSTRARÀ...

(Mima di afferrare la mitria dalle mani del chierico e se la

calza in capo. Di scatto se la toglie) Ahia! Bòja disgraziato,

è di ferro! Mi vuoi sfasciare la testa! Devo andare in

battaglia a guerreggiare? (Inserisce sempre i suoi ordini nel

canto gregoriano) Dammi quello leggero che devo andare a

passeggiare... (Afferra un altro copricapo) Questo va bene...

(Se lo ficca in testa e riprende a cantare)

AL JORN DEL JUDICI...

(S’interrompe: ordina) Lo specchio... (Mima di rimirarsi

allo specchio soddisfatto) Guanto! (Riprende il canto) ANS

QUÈL JUDICI... (Ordina) Guanto!! (Seccato) L’altro... Un

guanto solo?! Non ho una mano sola... vuoi che mé la tagli?

(Mima il braccio monco. Riprende il canto infilandosi il

guanto e timbrando sulle note, conta il numero delle proprie

dita che ad un primo passaggio gli risultano più numerose.

Ripete il conto, sempre solfeggiando e si tranquillizza 2 Testo in lingua catalana del XII secolo così come viene ancora eseguito nei corali di Alghero

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scoprendo che ne ha proprio cinque per mano. Soddisfatto

esegue un crescendo festoso. Ordina)

Il mantello!... Il mantellone... quello grande, quello con le

pietre con gli ori e gli argenti. (Canta)

AL JORN DEL JUDICI

PARRA QUI AVRÀ...

Portatemelo qua! Siete in cinque chierici, bòja!... Alzate ‘sto

mantello, mé lo sporcate tutto a strascicarlo per terra,

andiamo! Ehi, avete mangiato il latte cagliato oggi? (Mima

di afferrare dalle mani dei chierici un largo, pesante

mantello) Ohi se è greve questo! (Riprende il canto

cercando di caricarsi il mantello sulle spalle senza

riuscirci).

PARRA QUI AVRÀ FET SERVICI... (Ordina) Aiutatemi a

sistemarla sulle spalle! (Canta)

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PARRA QUI AVRÀ FET SERVICI...

Forza, caricatelo! Dategli uno spintone (Lo sforzo lo

costringe a stonare. Si arresta, si rivolge ai chierici

abbassando il mantello) Bòja! Debbo fare tutto io?… Sono

un Papa o un bue? Debbo caricarmi il mantello, portare il

cappellone, cantare! Non avete voglia voialtri di cantare?

V’è presa la malinconia? Cinque chierici senza voce? (Si

rivolge a uno dei chierici immaginari) Tu, prima voce,

canta! (Accenna, impostando la tonalità della prima voce nel

coro)

FET SERVICIII…

(Riprende dirigendo col capo) Prima! (Canta come fosse il

chierico) FET SERVICI...

Tieni la nota! SERVICIIII...

(Rivolgendosi a un altro chierico immaginario) Seconda!

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UN REY VINDRÀ PERPETUAL… Mantieni la nota...

PERPETUAAAAL...

(Ad un altro chierico) Terza!

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL... Più alto!

(Ad un altro chierico) Quarta!

DEL CIEL VINDRÀ TOT CERTAMENT…

(Esegue un alleluiatico saltando da una tonalità all’altra e

dirigendo il coro, trasforma il canto in una sequenza di

rimbrotti, risentimenti e minacce, quindi, indica un quinto

corista) e tu ripeti sulla stessa tonalità in appoggio. (E, come

fosse il chierico, esegue una specie di accompagnamento su

sole tre note, quindi termina sgarrando con la voce in un

acuto fuori tono. S’interrompe scoraggiato) Stonato!!!

(Alludendo al mantello) Mettiamoci a spingere insieme.

(Canta salendo in acuto)

PER FER DEL SETGLE JUGIAMENT… (Si blocca di

scatto)

Stonato, zitto! Sei proprio fuori tono. Non diventerai

giammai prete ché non puoi cantare messa! Sempre chierico

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resterai! Zitto, non cantare! (Fendendo l’aria con la mano

tesa gli ordina il silenzio assoluto. Ad un altro chierico)

Quinta!

PER FER DEL SETGLE JUGIAMENT…

Adesso tutti insieme cantate e alzate 'sto mantello, mé lo

caricate in spalla... Tu stonato non cantare! (Sempre

cantando in gregoriano, mima di caricarsi con grande

sforzo il mantello sulle spalle e accenna a porsi in cammino)

AL JORN DEL JUDICI

PARRÀ QUI AVRÀ FET SERVICI...

(Si arresta all’istante e fa il gesto di strattonare il manto, si

blocca esausto e furente) Chi è montato coi piedi sul

mantello?!... (Si guarda alle spalle imbestialito) Stonato!

Scendi! Non canti! Sei stonato! Non alzi il mantello, ci

monti sopra con i piedi... Attento a te!… Che io ti tengo

d’occhio!… Ti inchiodo la lingua sul portone! Lingua,

chiodo, portone, martello... TON TON TON! (Mima

velocissimo l’operazione dell’inchiodamento, quindi

prosegue disegnando nell’aria il chierico inchiodato per la

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lingua che ciondola a mo’ di batacchio, mosso dal vento.

Emette un gemito che ricorda quello dei portoni che

cigolano sui cardini) GGNAAAA! AAAAA! GGNAAAA!

AAAAA! Attento a te! (Ordina) Sollevate 'sto mantello!

(Riprende il canto aggiustandosi il mantello sulle spalle e

annodandosi i nastri sul petto: esausto) Che mestiere cane

fare il Papa! (Riprende il canto)

UN REY VINDRÀ PERPETUAL…

(Ordina) Cuscino con gli anelli! (Canta)

VESTIT DE NOSTRA CARN MORTAL...

(Mima di prendere un anello dal cuscino che gli viene

offerto, lo rimira e dopo averci alitato sopra se lo infila e

commenta) Guarda come brilla questo! Ti ammolla una

lampeggiata che ti accieca (Riprende il canto infilandosi

anelli dall’indice al mignolo e a questo punto esclama) E’

grande… ah no… è per il ditone (pollice)! (Sposta l’anello

dal mignolo al pollice) Oh, ora sì che va bene! (Rivolto agli

immaginari chierici) Adesso state in campana (state attenti),

che partiamo tutti insieme! Cantare! (Riprende con foga

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gesti e canto. Si muove. Quasi spintonato, si ritrova

proiettato in avanti. Con gran scatto di reni, evita per poco

di finire lungo disteso con la faccia sbattuta al suolo. Si

rizza, si riassesta negli abiti, mitria e mantello, quindi

puntando feroce l’immaginario chierico imbranato) Stonato!

Cosa vai a spingere avanti che gli altri non sono ancora

partiti! Mi vuoi rovinare a terra! Ti piacerebbe vedere il

Papa sbragato, ruzzolare con la faccia immersa nel fango…

il capellone calcato fino alla barbozza a soffocare!... Attento

a te! (Ripete la pantomima dell’inchiodamento per la lingua,

rimpicciolendo i gesti come se il chierico si fosse

trasformato in un pupazzetto di pochi centimetri. Indi,

perentorio) Allargate 'sto mantello! Indietro! Non si parte

subito… ci si altalena un poco, prima... si finge di partire,

ma non si parte! (Mima i movimenti appena descritti e si

avvia) Si prende il respiro… si torna indietro… un altro

respiro, e poi, alla fine ci si muove! Sono un Papa, non un

carretto! Attento a te! (Rapidissimo esegue la pantomima

sintetizzata dell’inchiodamento) Andiamo! (Riprende

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sull’aria del motivo religioso) Si parte... adesso indietro... (si

avvia facendo qualche passo con incedere maestoso, sempre

cantando)

UN REY VINDRÀ PERPETUAL...

(Si blocca di colpo e si guada intorno come seguisse la fuga

ti tutti i chierici) Oh, chierici... dove andate tutti?!

Mi piantate qui come un mammozzo in mezzo alla strada...

tutto solo?!... (Con altro tono ad alcuni chierici che sono

tornati sui loro passi) Cosa c’è?… Un’altra processione?!…

Un’altra processione… contro la mia?! Chi c’è in

processione? Jesus?... Chi è ‘sto Jesus?… Ah, Cristo! (Come

ricordando, all’istante si batte una gran manata sulla

fronte) Jesus Cristo! Ha due nomi… attaccateli insieme, che

io mi confondo!… (Come osservando Cristo che avanza con

la croce sulle spalle verso di lui) Ah è quello sotto la

croce… Bòja, come l’hanno conciato! (Sinceramente

addolorato) Guarda... tutte le spine gli hanno piantato nella

testa... il sangue che gli cola dappertutto… gli hanno sputato

addosso... graffiato… stracciato… Adesso capisco perché lo

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chiamano “povero Cristo”! (Rivolto ai chierici china il capo

come stravolto) Fratelli, portatemi via di qua, non posso

vedere… mi fa impressione guardare ‘ste cose... (fingendo di

rispondere ai consigli di un altro prelato) Eh? Pensi sia

meglio che gli vada incontro?... Perché?… Ah, per la gente!

Giusto, la gente che ci vede insieme dice: “Oh, si conoscono

quei due… sono della medesima chiesa!” Hai ragione.

(Mima di liberarsi del cappello, mantello e di sfilarsi gli

anelli) Tieni, tieni il capellone, tieni il mantello... tieni gli

anelli... È un matto quello! Non può soffrire i preti con le

cose che brillano! (Si china nel gesto di raccogliere una

manciata di fango) Dammi, dammi qui la terra... (In

risposta, seccato) Per sporcarmi,imbrattarmi! (Si strofina il

fango sul viso e sugli abiti, quindi indicando Gesù) È un

matto, è un fissato sofistico tremendo... gli piacciono

solamente i disgraziati, i maledetti, la gente unta e sporca, le

puttane... (Mima di allontanare da sé i chierici) Lasciatemi,

fatevi in là... In là! Non ho bisogno di essere

accompagnato... Vado solengo!... (Si avvicina a Cristo con

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un gran sorriso accattivante) Come va Jesus?... Eh? Chi

sono io? (Ai chierici che ci si immagina discosti) Oh, non

mi ha riconosciuto! (Al Cristo) Sono il Papa... Bonifax

maximum... principe della Chiesa romana... Pa-pa! (Ai

chierici) S’è dimenticato cosa è il Papa! É stordito! (Al

Cristo) Papa! Pa-pa! (Conciliante) Non ti ricordi che hai

detto a Pietro: "Pietro, adesso che abbiamo la Chiesa,

facciamo il capo della Chiesa, e tu, tu sarai il primo capo...

che si chiamerà Papa... Dopo che tu sarai morto, ci sarà un

altro Papa, quindi (ritmando) un Papa, un morto, un Papa, un

morto, un Papa... (pausa) una papata!... (Come ascoltando il

commento di Gesù, atteggia un moto di meraviglia,

trattenendo a stento la risata) Non l'avevi mai detto tu, a

Pietro?... Allora se l’éra inventato! (La risata esplode

fragorosa. Si blocca all’istante recitando sorpresa,

ascoltando quanto va dicendogli Cristo) Eh?! Io?! Io ho

ammazzato dei frati? Non è vero! Chi te l'ha detto? (Irato e

minaccioso) Dimmi il nome di chi te l’ha detto, che gli buco

il cranio... (Fa il gesto di afferrare lo spione, di torcergli il

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collo e quindi di trapanargli il capo con le dita. Si blocca e

mima di rimediare al gesto di violenza ritappando il foro nel

cranio della sua vittima) No Jesus, voglio bene io ai frati...

tutte le mattine appena mi levo (mi alzo)… (si rivolge ad un

chierico): "Vai a prendermi un frate...” (Rivolto a Cristo)…

io mi bacio un frate… tutte le mattine! (Sollecita il chierico)

“Vai a prendermi 'sto frate!…” (Ascolta la replica del

chierico, quindi spazientito) “Distaccagli la lingua dal

portone!". (Si interrompe rendendosi conto dell’orrendo

sproposito, indi cambia registro, si inginocchia davanti a

Cristo e parla con disperata umiltà) Jesus hai ragione... sono

l'uomo peggiore che ci sia a 'sto mondo… canaglia…

ladrone… maledetto… ma tu sei tanto buono e caro che hai

concesso “perdonanza” (perdono) a tutti gli uomini della

terra disgraziati, assassini, puttane... fai “perdonanza” anche

a mé che son tuo figlio… Fai in modo che tutta la gente ci

veda... io e te, sotto la medesima croce... io che ti aiuto a

reggerla (Mima di infilarsi sotto la croce e di caricarsela)...

Fuori dai coglioni, Cireneo! Sono forte io... porto certi

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mantelloni! (Cerca di fare resistenza a Cristo che

evidentemente lo sta spingendo via da sotto la croce) Non

scacciarmiii!... (Mima di ricevere una terribile pedata nel

sedere. Si ritrova letteralmente scaraventato dall’altro capo

della scena) Cristo! Una pedata a mé?! Al Papa?! Ma sei

divenuto matto?! (Rivolto al cielo) Se lo sapesse tuo Padre,

poveraccio!... (Punta il dito verso il pubblico) Ah, ti dà gran

piacere rimirare tutta ‘sta gente che si fa gran risate alle mie

spalle! (Carico di livore) Arriverà il giorno che tu andrai

sulla croce inchiodato ... In quel giorno sarò gran contento

(avrò grande felicità)... andrò a puttane, mi voglio inciuchire

da schiattare! (Puntando il dito contro Cristo) Capo degli

asini! Principe sono io! Principe Massimo della Romana

Chiesa! (Ordina ai chierici) Datemi il capellone... passatemi

il mantello... datemi gli anelli... (Al Cristo) Guarda come

brillano! Principe! E tu capo degli asini! (Con voce

stentorea) Lode, lode a Bonifacio Massimo Principe...

Gloria! Gloria a Bonifacio! Cantare! (Se ne va tronfio e

impettito intonando a tutta voce il canto gregoriano)

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LAUDE BONIFAX MAXIMO

PRENZE ROMANA EGLESIA

MAGNIFICAT ET EXULTE

(Cala lentamente la luce)

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STORIA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA

PROLOGO

San Benedetto da Norcia, voi sapete, è anche conosciuto

come il santo muratore, che quello pare proprio fosse il suo

mestiere da quand’era ragazzino. È senz’altro il fondatore

del monachesimo organizzato. Siamo nel vi secolo, cioè al

tempo del regno goto di Totila e di Giustiniano, che era a

capo del Sacro Romano Impero d’Oriente.

La comunità dei monaci viveva all’origine in antichi

caseggiati abbandonati che essi stessi avevano alla meglio

restaurato grazie soprattutto all’aiuto dei villani del luogo.

Essi frati erano dediti essenzialmente alla meditazione, alla

preghiera, allo studio e alla contemplazione, ma poi san

Benedetto ci ripensò e impose ai suoi seguaci di munirsi di

attrezzi di lavoro e di faticare nei campi, costruire muri,

erigere forni per cuocere pani, vasi e mattoni. Questa è la

storia del passaggio dal prega, contempla al lavora e

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costruisci da cui l’“Ora et labora”, regola prima dell’ordine

benedettino.

Ma come si è maturato questo cambio, questo aggiustamento

straordinario?

È un tema che è stato svolto e raccontato in chiavi diverse, in

forma di filastrocche, favole, giullarate e moralità a

cominciare dall’alto Medioevo fino all’Ottocento spesso

come pretesto satirico e didattico dentro le conte popolari.

La fabulazione che noi abbiamo ricostruito è certamente fra

quelle di origine più antica.

Abbiamo riscritto la giullarata utilizzando il linguaggio

(volgare) dell’Italia centro-meridionale come ricordando i

pochi frammenti medievali della memoria popolare umbro-

irpina che ci sono pervenuti.

Storia di san Benedetto da Norcia.

Stéveno li benedettini mònechi ’logàti in zu monti dinta a

cavièrne. Oh, quanto ell’erano majestuósi quanno che se

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ponéveno en ginòcchia co’ la fàzza vuòlta a lu cielo e

pregàveno e ce pijàveno visioni sante! L’ànema de chilli se

fazéva accussì lezzéra che lu cuòrpo mismo, libberàto de li

travagli naturali dell’òmmeni e delle fémmene, levitava pe’

l’àire. Cossì capetàva che uno sant’òmo pregando, tutto

priso dentro l’àuri cielèsti, se levàva di quarche spanna dallu

terreno e ce restéva suspéso anco pe’ ’na miezz’ora.

Li mònechi tutti se comenzévano a farze scòla in ’sta

suspensióne meraculósa e intra issi ce nassévano tenzoni a

chi reussìva a slonzàre cchiù alto nell’àire. Issi mònechi

éveno descovèrto che col razziónzere una condezióne

mésteca lo cuòrpo allòro tutto, se desvotàva de ogne

gravàme e peso e accussì, fàzile, levitava. Ci era però

abbàsta che co’ lu penzéro returnàssero a la normale terra et

ècculi che de botto prezipitàveno allu sòlo co’ gran tonfo ché

alcuno se retruovètte forte ammaccato. Intra li mònechi che

annàveno facénno svuolàzzi de qua e de là, capetàva

inspécie alli cchiù jòveni spereculàti de retruovàsse ruotolàti

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co’ lu capo agbàsscio. Dippuòi chilli sbattenno li pèdi,

reussìvano a annà en capovuòlte pe’ lu ziélo.

“Famme turnà abbàsscio!” criàveno alli frati allòro e chilli

co’lle pertiche lónghe li agganzàveno comme fùssero occèlli

e i traìveno allu sòlo. Ma càpeta ’nu juórno che mònuco

Serafino se retruòva en lezzéro svuolàzzo sóvra lu tetto de lu

romìto e ’na ventata lo pìja accussì che ell’è travuòlto

comme ’nu vascello a tutte vele in la tempesta. Sen’ va,

levàndose infìno a li nìvule cchiù alte e dinta a chille se

despàre. La settemàna apprèsscio quattro mònechi

desesperàti pe’ la dipartita de lu cunfràte Serafino, se stanno

a pregà pe’ l’ànema santa de lo desparùto e tanto sòi prisi in

de l’orazione devìna che manco se encòrgono de stan

montanno en vólo comme fuèssero ’no sturmo de pàssere

suspennùti pe’ l’àire.

– Scènni! Scennéte! – ce grìdeno abbàsscio li frati, ma chilli,

embriàchi de beatetüdene, assordìti se stanno comme

scorbàtti. Piccirìlli devéngheno nellu cielo, manu a manu

dessòlti dinta ’o fermamènto. En làcreme desesperàte mo’

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stanno tutti li mònechi, e lu patre santo Benedetto òrdena che

a ogne mòneco sta en òbblego quanno che prega de tegnérse

in la saccòcchia ’na petra tosta e greve.

Ma no’ è abbàsta che li mònechi igualeménte ogne juórno se

pìjano el vólo, manco fùssero pojane o frenguèlli.

Quinni se pruòvano ’sti òmmeni santi a ligàrse ’na fune

entórno a la panza co’ pendùta n’àncora de zavorra.

Quarcunàrtro se liga ’na fune a ’nu truònco d’àrboro. Ma no’

ve c’è verso: l’orméggi devèlti a ogne ventata e li mònechi

allo svuolàzzo intra li nìvuli!

Lo mòneco cusiniére, ditto lo Coco, che se allìga a lu collo

’na fune lónga affrancata depòi a ’nu carro, se sàje en vuólo,

ma no’ se allìbera che la fune annudàta a lu carro lu tratténe.

Salvato ell’è, ma li frati sòj lo retruòveno enpiccàto a

struòzzo.

A ’sto ponto mastro santo Benedetto chiàmma tutti a ’no

radùno e ce dice a li mònechi:

– Accà ce besógna porre remèdio... vùje bén cumprennéte

che se anco lo frate nostro Coco, che ce fa de magnàre se

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invòla föra in lu cielo, ce retuovàmme allu desàstro. Fra lu

poco accà de nùje no’ ce resterà cchiù nissciùno! Ell’è

chiaro che no’ reussìmme ad avécce vantàzzo e sarvaménto

arcùno né co’ i petre, né co’ i àncore e carriàggi appendùti.

L’ùneca àncora veràce che ce pole salvà ell’è codesta! – et lu

santo s’accàtta de cóntra lo muro ’na vanga, la posa intra le

mane de uno mòneco e dice: – Tégne! Abbràncate a ’sto

arnese e cchù no’ te reuìssirà de levàrte en volo!

– Maìstro santo, – ce fa lu mòneco Benefàcio, – no’ l’è

abbàsta greve ’sta vanga che ce faccia de zavorra!

– Ell’è vero, si tu la tène penzulóne! Ma se tu ce pruòvi a

dacce en zocca a la terra e ce spigni co’ lu pede e valze le

zolle e l’arrivòlti, tu te scovrerà tosto quanto pesa e se face

greve! Pruovàtece vùje tutti quante a ’cattàrve ’sta zappa e

’sto reastrèllo e anco vuj artri… ’ste pale e ’sti raspóni.

Dàtece a rebattóne, infreccàte in lu terreno e menàte de

mazza sü le petre. Spignéte le careòle, montate li muri,

rizzate l’arconi de cuntraffòrto. Traìte ’na muràta tonda

entórno a chèlla grotta pe’ farce ’nu forno pe’ lu pane e li

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mattùni. Curàggio!… Issa!… Batti!… Stronca!… Valsa!…

Scarna!… Issa! Ascultàte mo’ lo sudore che ve sorte, goccia

a goccia da la fronte a le brazza, accussì stàteve segùri che

no’ ve reussirà de levàrve de manco n’antìcchia en volo!

De ’sto muménto a tutti nui, mònechi mèi, ce tocca de

guadagnàlce lu pane e lu derìcto de campà a ’sto munno.

V’aggràda ’nu tetto? Li muri de la càmmara pe’ stacce

frischi e pruoteggiùti? Fabbrecàte! V’aggràda lu grano, li

frutti? Zappate e semmenàte!

Nu ce avremmo cchiù lu derìcto de pesàcce sü la groppa

dell’altri, villane e minori co’ lu pretèstu che nui pregàmmo

e cantàmmo el gloria pe’ l’àneme lori e issi s’affatìcheno pe’

la panza nuòstra! Ziogàteve ’sto cambio, e ce restarémo beati

co’ li pèdi encollàti a la terra. Amen!

TRADUZIONE

Stavano i monaci benedettini alloggiati su monti dentro a

caverne. Oh, quant’erano maestosi quando si ponevano in

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ginocchio con la faccia rivolta al cielo e pregavano e

godevano di sante visioni! L’anima di quelli si faceva così

leggera che il corpo stesso, liberato dai travagli naturali degli

uomini e delle femmine, levitava per l’aria. Così capitava

che un sant’uomo in preghiera, sprofondato nell’aura

celeste, si levasse di qualche spanna dal terreno e rimanesse

sospeso anche per una mezz’ora.

I monaci tutti cominciarono a esercitarsi a galleggiare in

questa sospensione miracolosa, tra di loro nascevano

tenzoni, si gareggiava a chi riuscisse a ballonzolare più in

alto. Quei monaci avevano scoperto che col raggiungere una

forte condizione mistica, il loro corpo si svuotava tutto

d’ogni gravame e così levitava facile [facilmente]. Bastava

però che con il pensiero ritornassero alle quotidiane diatribe

del vivere normale ed eccoli che all’istante precipitavano al

suolo con gran tonfo, rovinosa caduta per la quale qualcuno

si ritrovava fortemente ammaccato. Tra i monaci che

facevano svolazzi di qua e di là, capitava specialmente ai più

giovani spericolati di ritrovarsi rivolti con la testa in giù.

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Dippoi quelli sbattendo i piedi, riuscivano a fare capovolte

per il cielo.

“Fammi tornare giù a terra!” imploravano ai loro fratelli e

quelli con pertiche lunghe li agganciavano come fossero

uccelli e li traevano al suolo. Ma un giorno capita che

monaco Serafino si ritrovi in leggero svolazzo sopra il tetto

del romitorio e una ventata lo assale cosicché è travolto

come un vascello a vele spiegate nella tempesta. Se ne va,

levandosi fino alle nuvole più alte e dentro a quelle sparisce.

La settimana appresso quattro monaci disperati per la

dipartita del confratello Serafino, stanno a pregare per

l’anima santa dello scomparso e sono così presi

dall’orazione divina che manco si accorgono di stare

montando in volo quasi tramortiti in uno stormo di rondini

che vanno migrando.

– Scendi! Scendete! – gli gridano sotto i frati, ma quelli,

ubriachi di beatitudine, sono assordati come pipistrelli.

Piccoli divagano nel cielo, via via si perdono nel

firmamento. In lacrime disperate stanno ora tutti i monaci e

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il padre santo Benedetto ordina che ogni monaco sia in

obbligo, quando prega, di tenersi in saccoccia una pietra

tosta e greve.

Ma non è sufficiente, ché i monaci ugualmente ogni giorno

pigliano il volo, manco fossero poiane o fringuelli. Quindi

questi uomini santi provano a legarsi una fune intorno al

ventre costretti a un’ancora di zavorra. Qualcun altro si lega

una fune a un tronco d’albero. Ma non c’è verso: gli ormeggi

divelti a ogni ventata e i monaci che svolazzano tra le

nuvole! Il monaco cuciniere, detto il Cuoco, che si lega al

collo una fune lunga affrancata poi a un carro, se ne sale in

volo, ma non si libera dalla fune che, annodata al carro, lo

trattiene. Salvo è, ma i fratelli suoi lo ritrovano impiccato a

strozzo. A questo punto mastro santo Benedetto chiama tutti

a un raduno e dice ai monaci:

– Qua bisogna porre rimedio… voi ben comprendete che se

pure il nostro fratello Cuoco che ci fa da mangiare se ne vola

fuori nel cielo, ci ritroviamo al disastro. Fra poco qui non

resterà più nessuno! È chiaro che non riusciamo a trarre

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alcun vantaggio e salvamento né con pietre, con ancore, né

affrancati ai carri. L’unica ancora vera che ci può salvare è

codesta! – e il santo prende da contro il muro una vanga, la

posa nelle mani di un monaco e dice: – Tieni! Prenditi

quest’arnese qua e non ti capiterà più di levarti in volo!

– Maestro santo, – gli dice il monaco Bonifacio, – non è

abbastanza greve questa vanga che ci faccia da zavorra!

– È vero, se tu la tieni a penzoloni! Ma se tu provi a dar di

mazza a frangi terra e spingi con il piede e sollevi le zolle e

le rivolti, tu scoprirai tosto quanto pesa e si fa greve!

Provateci tutti quanti a prendervi una zappa e questo

rastrello e anche voi altri, queste pale e questi forconi.

Dateci con forte braccio e schiena, ficcatele nel terreno e

menate di mazza sulle pietre. Spingete carriole, costruite

muri, rizzate gli arconi di contrafforte. Montate una murata

tonda intorno a quella grotta per farci un forno per il pane e i

mattoni. Coraggio!… Issa!… Batti!… Stronca!… Alza!…

Scarna!… Issa!… Ascoltate ora il sudore che vi sorte goccia

a goccia dalla fronte alle braccia e così state sicuri che non

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vi riuscirà di levarvi nemmeno di un palmo in volo! Da ’sto

momento a tutti noi, monaci miei, ci tocca di guadagnarci il

pane e il diritto di campare a ’sto mondo.Vi aggrada un

tetto? I muri della cella vostra per starci freschi e protetti?

Fabbricateveli! Vi aggrada il grano e i frutti? Zappate e

seminate!

Non abbiamo più il diritto di pesare sulle spalle [groppa]

degli altri, villani e minori, con il ricatto furbesco che noi

preghiamo e cantiamo gloria per le loro anime mentre quelli

si affaticano per la pancia nostra! Giocatevi questo

cambio… e resteremo beati con i piedi incollati a terra!

Amen!

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IL PRIMO MIRACOLO DI GESÚ BAMBINO

PROLOGO

Il monologo che segue e ha per titolo “Il primo miracolo di

Gesù bambino” è tratto da un Vangelo apocrifo. È risaputo

che apocrifo ai primordi del cristianesimo non significava

falso, eretico o blasfemo ma solo non inserito nei Vangeli

ufficiali. Alcuni di questi scritti venivano tenuti nascosti in

quanto destinati solo agli iniziati.

Nel iii e iv secolo si contavano decine di Vangeli che oggi

ritroviamo pubblicati in un gran numero di edizioni, tra le

quali di certo la più completa è quella edita da Einaudi.

Ogni comunità cristiana aveva il suo Vangelo, lo sviluppava,

lo rappresentava.

La selezione dei Vangeli accettabili durò per molti secoli,

numerosi episodi sulla vita di Gesù furono cancellati

dall’elenco ufficiale perché raccoglievano situazioni e

moralità che contrastavano eccessivamente con gli scritti dei

quattro evangelisti, Luca, Matteo, Marco, Giovanni.

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Il miracolo di Gesù bambino appartiene proprio alla

moltitudine dei Vangeli ritenuti desueti. Nella raccolta degli

scritti non omologati si ritrovano fabulazioni provenienti dai

miti della Grecia arcaica e classica, dove si incontra Cristo

che, come Orfeo, suona il flauto e affascina con la sua

musica gli animali intorno; altre storie che provengono

dall’Oriente con draghi, palafreni scalpitanti che Cristo

cavalca agile, trasformandosi quasi in centauro. Insomma

narrazioni che evadono dall’immagine canonica, tanto che

una gran quantità di Vangeli ritenuti apocrifi furono

accantonati, ma spesso si decise di distruggerli.

Ancora nel vi e vii secolo, in un famoso Concilio, esplose

una incredibile rissa fra i vari vescovi delle diverse

comunità: ognuno si batteva perché venisse accettata e

riconosciuta solo la propria visione della vita di Cristo e

soprattutto la particolare interpretazione del Verbo espresso

dal Messia. Come già era accaduto al Concilio di Nicea nel

325, i santi delegati si insultarono, si aggredirono,

provocando anche scontri fisici; alla fine sul terreno

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restarono molti testi stracciati, molti contusi e forse anche

qualche morto. Testimonianza di questi terribili scontri, è

l’attuale forma del pastorale, diventato ricurvo in

conseguenza delle mazzate, con relativi contraccolpi, che di

volta in volta ne attorcigliavano la cima. Anche il cappello

che calzano i vescovi, i cardinali: avete in mente quella

fessura nel mezzo? È il segno rimasto ad attestare le

“frappate” che si son vicendevolmente appioppati.

Questo episodio davvero poetico sull’infanzia di Cristo che

qui vi proponiamo, nel vi secolo, nelle chiese dell’Oriente,

veniva normalmente letto e commentato. E ancora oggi

viene recitato e cantato nelle sagre che si svolgono nei

borghi dell’Irpinia e del Salento.

Nel Nuovo Testamento, così detto ufficiale, si narra della

nascita del Redentore col presepe e i Magi, della fuga in

Egitto, della presentazione al tempio e del dialogo di Gesù

giovinetto con i saggi nella sinagoga; quindi, ecco che

all’istante Gesù sparisce e di lui, della sua giovinezza non

sappiamo più nulla. Lo ritroviamo già adulto in riva al

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Giordano nell’istante in cui chiede a Giovanni di essere da

lui battezzato.

Nei Vangeli apocrifi, questo vuoto del racconto è colmato da

un numero notevole di episodi sull’infanzia di Gesù, dei

quali questo primo miracolo, possiamo ben azzardare, sia da

considerarsi un autentico capolavoro di fantastica allegoria.

La sacra famiglia in fuga verso l’Egitto, con l’asinello, va

verso il mare e poi lo costeggia fino a Jaffa. Jaffa è la città

dei pompelmi. A questo punto come nomino questa città

esplode immancabilmente una sonora risata, si tratta di certo

di uno sghignazzo a commento di uno sfondone; parte del

pubblico intuisce, errando, che io alluda al timbro che ancora

oggi ritroviamo sui pompelmi prodotti in quella regione,

parlo della J impressa sui frutti… magari da Jesus.

Per carità... non è questo il miracolo di Gesù bambino. Il suo

primo miracolo è di tutt’altra forza e meraviglia. Il piccolo

arriva a Jaffa con la famiglia, e in quella terra si ritrovano a

essere stranieri, forestieri e poveri. Cercano subito una casa e

trovano una catapecchia “scaruffata”... così malridotta che al

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confronto la capanna di Betlemme era una reggia. Giuseppe,

che è falegname, va in cerca di lavoro, ma non lo trova. È

proprio il caso di dire che non batte chiodo. La Madonna,

per rimediare qualche soldo, è costretta ad andare a lavare i

panni nelle famiglie. Il piccolo Gesù si ritrova sbandato tutto

il giorno per la strada. Vede i bambini che giocano. Assiste

al gioco dei ragazzini del quartiere, vorrebbe riuscire a

inserirsi, farsi accettare, e invece viene cacciato: è un

forestiero, parla un altro dialetto, quasi un’altra lingua.

È risaputo, e lo possiamo verificare ogni giorno nelle nostre

periferie-dormitorio, che là dove esiste il razzismo i bambini

sono più razzisti dei grandi, e quindi Gesù bambino,

mortificato, pur di riuscire a essere accettato nel gruppo,

realizza un suo piccolo miracolo stupefacente, come può

essere il miracolo di un bambino, e ottiene un successo

incredibile: tutti lo abbracciano e lo eleggono capo dei

giochi. Risate, grida di entusiasmo, le madri alle finestre

applaudono. Ma ecco che entra in scena, in groppa a un

piccolo cavallo con finimenti d’oro, il figlio dell’uomo più

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ricco della città, accompagnato da due sbirri. Il ragazzino del

ricco pretende di partecipare al nuovo gioco, ma i piccoli

straccioni non lo accettano. Il rampollo del padrone, rosso di

rabbia, si sente offeso e distrugge tutti i giochi dei bambini.

La reazione del piccolo Gesù è tremenda… si può ben dire

che gli girano tutti i santissimi. Non s’è mai visto un Gesù

tanto adirato, nemmeno da adulto reagirà con tanta violenza.

Neppure quando, nel tempio, si troverà con tutti i mercanti

che fanno scempio d’ogni sacralità.

Il ritmo e la sintesi scenica che ritroviamo in questo

episodio, così come in altri Vangeli apocrifi, è davvero

straordinario, oserei dire di una sorprendente modernità.

Sembra di ritrovarci davanti alla sceneggiatura di un grande

maestro dell’attuale cinema d’avanguardia. E fra poco son

sicuro che, ascoltando l’incalzare stravolgente di questa

giullarata del primo miracolo, me ne dovrete dare atto.

Nel rappresentarvi questa storia, uso un linguaggio che è

l’insieme di parecchi dialetti del Nord, tra i quali prevale il

veneto.

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IL PRIMO MIRACOLO DI GESÚ BAMBINO*

PROLOGO 2000

Ma prima di narrarvi dell’arrivo dei Re Magi, della fuga in

Egitto fino al primo miracolo di Gesù bambino, vi voglio

parlare di “Albino”. Luciani Albino. Della tenerezza che ho

avuto per quest’uomo, candido e quasi sprovveduto. Io sono

rimasto molto colpito dal suo modo disarmante di

presentarsi. No, davvero! Un Papa così, credo, non si sia mai

incontrato in tutta la storia della Chiesa! Forse il solo

Celestino, Papa a Roma alla fine del Duecento, costretto “al

gran rifiuto” da Bonifacio VIII, gli può stare vicino. E,

guarda caso, entrambi hanno regnato per un solo attimo.

Vi ricordate il suo sorriso… il sorriso disarmante che

coinvolgeva la gente come in una magia?

“Ah, ah, finalmente… che Papa simpatico!”

L’effetto era aumentato dal ricordo del suo predecessore

(congiunge le mani e si guarda attorno con aspetto truce)

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Paolino, tutto racchiuso dentro la sua infallibile autorità

come antico padre della Chiesa dentro una nicchia, tutto

rinsecchito… tremendo! Che fatica un suo sorriso!

Nemmeno quando recitava omelie che volevano esprimere

gioia e speranza, e che sinceramente gli sgorgavano dal

cuore… riusciva a comunicare con quella commozione che

di certo egli provava. (Riassume l’atteggiamento di prima.

Quindi attacca con voce leggermente nasale e cantilenata nel

finale, riproducendo gesti e tono di papa Paolo VI)

“Oggiii… finalmente vi posso dire fratelliiii… che è il

giorno in cui la felicità aleggia sopra di noi e dai nostri cuori

erompeee… (Sul finale d’ogni frase assume un

atteggiamento di grande tristezza al limite delle lacrime)

Quella magnifica allegrezza che ci viene dall’evento

miracoloso che è la resurrezione… di Gesù nostro

Salvatore… Exulte in domini. (Atteggia uno sguardo severo

e disperato) Ognuno si lasci trasportare da una giocondità da

bimbiiii... Fate che per il ritorno del Figlio di Dio salga come

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una danza la vostra festosa gioconditàaaa... Alleluia!” (Porta

le mani al viso e singhiozza curvo su se stesso).

Esattamente tutto al contrario di Luciani, che ci

commuoveva e ci faceva letteralmente impazzire con le sue

sconvolgenti parabole, le sue storie al limite della follia. No,

non erano concioni tratte interamente dal Vangelo, spesso

erano favole da lui rimaneggiate. Uno dei suoi personaggi

chiave era “pinocchio”! Vi ricordate? Un Papa che ci faceva

dottrina raccontandoci di Pinocchio e riusciva con gran

disinvoltura a inserirci il valore dell’anima e del

trascendentale. Con la fatina, il grillo, Geppetto, i gatti…

tutto.

E poi la storia del motore! Questa non ve la potete di certo

ricordare. (Sorride coinvolgente e ammiccante alla maniera

di Albino) Ve la rammenterò più avanti io.

Ma ciò che mi preme di farvi rivivere è la sua apparizione

appena eletto Papa.

L’ho visto in televisione, ero lì da quattro ore che aspettavo

davanti al video, ho spalancato le braccia perfino anch’io.

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Mi ricordo il grande balcone, appresso all’imponente parete

bucata da finestroni, la grande trabeazione del

Cinquecento… San Pietro… ’sta folla immensa. Escono ad

affacciarsi Ottaviani e Benelli… il duo aulico!… Orco che

duo, quei due lì! Che coppia! È l’unico caso in cui la coppia

resista.

Benelli: fa cenno con la mano: silenzio! E declama in latino:

“Habemus Papam (pausa) Luciani Albino… Albinus ecc…”

Nella gran piazza i fedeli si guardano stupiti. “Non ho

capito? Ma che nome è? Ma chi è, non l’ho mai sentito

nominare, ma chi è? Ma da dove arriva?”

Esclamo a mia volta: “Da dove spunta?” Nessuno lo aveva

mai notato prima che lo facessero Papa. Tutti guardano in

alto fissando il balcone. Non si vede spuntar nessun Papa.

Eccolo: finalmente arriva! Dal frontale del balcone si vede

spuntare un triangolo bianco, la papalina, poi cresce, cresce,

cresce, tutta la testa dalla quale scende una gran ciocca di

capelli che attraversano in diagonale la fronte, due occhi

rotondi, vivissimi e un sorriso… il suo sorriso! (Sfodera una

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risata a mezzaluna festante e silenziosa, tipo clown. Si volta

verso sinistra, poi come affacciandosi al balcone guarda

verso la folla, trattiene a stento un’altra risata, è stupito nello

scoprire tanta gente di sotto che lo acclama. Ripete la stessa

pantomima volgendosi verso destra. Fa per parlare, non ce la

fa per l’emozione e l’impaccio. Cerca di trattenere un nuovo

impeto di riso, si sforza di darsi un contegno, non ce la fa. Si

volta di spalle per nascondere il fou rire, si ricompone, si

gira di fronte e sospirando come a riprendere fiato).

– Oh, santa! (Si morde le labbra e strabuzza gli occhi: manda

giù la saliva, è sul punto di soffocare. Quasi soffiando si

riprende, torna a sorridere a bocca spalancata, in silenzio,

con cenni della mano sembra dire: “Sapeste che spasso di

follia mi sta capitando!” Poi con la stessa mano cerca di

calmare la folla come per dire: “Aspettate che mi passi lo

scompiscio!” Si sforza di tornare serio ma non ce la fa,

sbraca decisamente nello sghignazzo “a tutta bocca”.

Accenna una benedizione con la mano destra che si

trasforma in un gesto bonario e confidenziale quasi a dire:

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“Ma che ci sto a fare qui?” Finalmente, se pur a fatica, si

ricompone, si lascia scappare qualche risatina a denti stretti,

poi quasi di testa accenna a parlare con accento veneto)

Oggi…(riesplode in una risata e rifà il gesto a significare)

non potete immaginare cos’è successo! (Pausa). Oh, santa!

(Riprende con un sorriso trattenuto quasi sfiatandosi. Pesta

pure i piedi nel tentativo di resistere. Sembra dire: “Non

riesco a fermarmi”) Oggi… (respira con forza) là nel

concistoro… (Ride. Si rivolge con gesti al pubblico di fedeli

quasi a chiedere aiuto. Poi agitando a ventaglio una mano

aggiunge) Che concistoro! (Dice la frase sempre

mantenendo la risata muta) Si votava, si discuteva, si votava,

si pregava, si tornava a votare… (Ride brevemente, poi

aggiunge rapido) Non veniva mai fuori un nome uguale a un

altro! (Sibila come un pallone che si sgonfi, sempre di testa)

Duecentosettanta Papi… (Ride) Che papata! (Risata) Fumata

bianca? No! Nera, nera! (Risata silenziosa) “Buttate qualche

cosa per il fumo nero!” Che c’era lì l’arcivescovo del

Senegal, a momenti lo buttano dentro! (Diminuisce il fou

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rire e parla a singhiozzo) Le risate… che mi… eravamo in

allegria insomma. Ah, ah, ah, ah… (Questa volta ride in

successione rapida, a colpi secchi. Poi con voce sempre di

testa che si spezzetta per la risata trattenuta) E poi si alza

uno… un collega: Poma… il cardinale… che sagoma quel

Poma! E ha detto: “Si fa un po’ tardi qua… io avrei degli

impegni fuori, son già quattro giorni, si fa lunga ah, bisogna

che decidiamo con uno e basta, ecco!” (Scoppia a ridere

sfiatandosi, poi sempre di scatto) Una machia…

[macchietta], un altro cardinale fa… (Ride e si ricompone

per continuare) “E se eleggessimo Albino?”… (Risata con

sbruffo prolungato) prruuufff…

Par tèra tuti [per terra tutti], c’era anche il vescovo cardinale

di Formosa, disteso sul lettino che non stava tanto bene, ci

aveva preso un colpetto… appena sentito eleggiamo Albino

gli è venuto da ridere “Aha! Aha!” tack è rimasto seco

[secco]. Morto, per una risata di spirito… Spirito Santo!!

(Poi con voce bassa e implorante sempre con risata

trattenuta) Non facciamo schersi [scherzi], ho detto io, ah?

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(Con stupore quasi atono) che, se si fa tanto per passare il

tempo… ma atenti [attenti] che decidere per un Papa è una

cosa seria… andémo… un Papa mica si elege [elegge] ogni

morte di vescovo!

Hano fato davero [hanno fatto davvero]! Han cominciato a

tirar fuori i biglietti dall’urna… Albino… Albino…

Albino… Luciani… ancora io! Ero diventato bianco, avevo

paura! Papa io?! (Risata non sonora) E c’era un colega

[collega] vicino a me, un cardinale, mi ha deto [detto]: “Non

si preoccupi Albino (breve risata sfiatata) che Dio dà i pesi

da portare ma anche la forsa [forza] poi di sostenerli…

anche a uno come lei!” (Risata sfiatata poi si ricompone e

con voce rassegnata) E m’hano fato [m’hanno fatto] Papa…

sono il vostro Papa… (Ride sfiatato poi di testa, fortissimo,

quasi urlato) Prendere o lasciare! (Ride pestando i piedi) Oh

santa! E poi è venuto il problema del nome che mica mi

potevano mettere: papa Albino. Siamo seri. (Risata con

sbruffo breve. Quindi, con voce bassa e conciliante) Ho deto

[detto] mi chiamo Giovanni. (Facendo capire che gli

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risponde un altro. Risata). “Ma no, Giovanni non si può…

boffff! E poi era un santo, non si può. Era un maestro

sapiente!…”

Io gli faccio… Giovanni Paolo? Paolo Giovanni? No, dico,

perché a Giovanni ci devo dare riconoscenza. Che

simpatico! (Risata piena di sottintesi, poi di testa) Perché è

lui, Giovanni, che mi ha fatto cardinale, che mi ha fatto…

(Ride sfiatato, poi sempre di testa) È lui che mi ha fatto

patriarca di Venéssia [Venezia]. Che io gli dicevo: “Ma no,

Giovani… è un incarico tropo [troppo] importante… con

tutta la storia che ci ha Venéssia…”

“Non ti preoccupare, – mi ha detto, – che tanto Venéssia va

già a fondo per conto suo…” (Risata sfiatata breve) Che

sagoma [che tipo simpatico]! (Si ricompone e con voce

monocorde) E Paolino anche perché è lui che mi ha mèso

[messo] la mantellina da papa per la prima volta che

eravamo a Venéssia, che io ero sulla gondola… faceva un

fredo [freddo] boia, e a un certo punto mi fa: “Be’, copriti

caro”… Mi calza la papalina in testa e mi dice: “Conserva

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quelo che non hai… cerca di procurartene una così!” E,

miracolo, eccola qua. (Indica la papalina) Ce l’ho davvero!

(Risata sfiatata breve) E un Papa che si rispetti adesso, deve

raccontarvi dele [delle] cose, deve dirvi dele [delle] storie

sante, che dopo voi le contate ai vostri piccoli e loro

capiscono e fanno i buoni. Ma io voglio dire dele [delle]

cose semplici perché mi piace anca [anche] parlare coi

bambini, che alóra [allora] vi dico: Pinocchio!

Era cristiano Pinocchio?

Io dico, domanda: esigo risposta!...

Un cristiano di legno? Il legno ha l’anima? Gli alberi hanno

l’anima? L’ha, l’anima, un tavolo? E un cassetto? Con tutto

che si dice: all’anima del cassetto?... Piace la parabola?

(Sorride furbetto) Sì che ce l’aveva l’anima quel burattino,

perché Pinocchio ci aveva la coscienza del bene e del male.

E perché ci aveva il naso lungo? (Si guarda attorno

compiaciuto) Domanda, esigo risposta! Gnente [niente]

risposta? Perché diceva le bugie! Disubbidiva. Andava con

le cattive compagnie. Disubbidiva. Diceva le bugie al

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Gepeto, alla fatina e ai carabinieri. Che non si dicono le

bugie ai carabinieri! Che dopo loro ci credono! Andava con

la volpe, col gato [gatto]. Andava con Lucignolo... brutta

compagnia… uno che gli insinuava cattivi pensieri! E poi si

metteva sempre nei guai, andava nela [nella] pancia dela

[della] balena. Trovava el Gepeto, veniva fuori da la balena,

diventava un asino... (Poi rapido di testa) Ma perché tute ’ste

disgrassie [disgrazie]? Parchè [perché] non dava reta [retta]

a chi gli dava buoni consigli? E chi glieli dava ’sti buoni

consigli?

Domanda: esigo risposta!

(Si guarda attorno con sorriso furbo. Poi sempre di testa) A

la fatina! Benedetti... fatina! E chi è la fatina? La Chiesa! E

soprattutto a chi non dava ascolto? Ai consigli di chi? Pur

essendo cristiano di legno? (Con voce decisa) Al grillo!

(Rapidissimo di testa) Al grillo parlante che gli dice: “Atento

[attento] fa’ il bravo, fai i compiti! Atento [attento] non

andare sempre a zonzo!” E lui che gli voleva dare anche una

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sciavatata [ciabattata]! Al grillo! Massare [ammazzare] el

grilo [grillo]. E chi è il grillo? (Sorriso furbetto).

Domanda: esigo risposta!

(Poi quasi urlando) sono io il grillo vostro parlante! Piaciuta,

eh?

Seconda parabola: il motore.

Entro in macchina, metto la chiave. (Imita un motore

scoppiettante che alla fine si ingolfa e si spegne) ple, ple,

ple, ple, tata, tata pleretete pim tmcheperepete trrrrrrrrrrtipete

ctumpete, crepete: cos’ha? Che cos’ha ’sto motore? C’è

olio? Verifica: c’è l’olio! Bensina? Bensina [benzina]! C’è

olio-bensina! Va tutto. gut gut, la freccia, c’è tutto! (Di testa

rapido) Come mai che non va? taratatetatetate... perché el [il]

motore è come el [il] corpo dell’uomo! E gh’è deréntro [c’è

dentro] anche l’anema [anima]. Ma la macchina non va

quando nel motore non c’è lo spirito e l’anema s’è ingolfata!

L’anima è lo spinterogeno del nostro corpo-motore!

Piaciuta? Basta! (Si scioglie dal gioco del personaggio e

ritorna a conversare).

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Non ne ho mai persa una di queste sue parabole. E quando lo

sentivo raccontare mi dicevo: se questo va avanti così, io mi

ci faccio una commedia al mese! Invece sul più bello se n’è

andato. E tutto per quella gaffe terribile, quando ha

dichiarato pubblicamente e a gran voce: “E allora vi dico che

Dio è più madre che padre!” Con quello là (guarda verso

l’alto) fallocratico com’è tum pim tum pom (mima il

Padreterno che si fa largo tra le nubi e s’affaccia con piglio

terribile): “Ehi Albino! Ma che dici?!! (Con un gesto secco,

da sergente alla recluta) A rapporto!” (Mima Albino che

svolazzando contrito e attonito segue il Padreterno volando

nel cielo).

Che disgrazia!

E anche per Paolino… il Montini mi è dispiaciuto. Calzava

sempre quella maschera severa... però aveva uno spirito! Vi

ricordate quando è arrivato vestito da indiano? S’era

addobbato con lo spiumano di un capo tribù indiano venuto

a fargli visita. Il capo tribù arriva e Paolino gli dice: “Mi fa

provare le piume?”... Oh, un Papa, con ’ste piume che gli

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andavano giù di dietro fino ai piedi... Wanda Osiris da

giovane! Che poi, appena l’hanno saputo i tirolesi, volevano

andare a Roma con i pantaloncini di fustagno e le bretelle

per farglieli indossare! (Accenna una danza tirolese battendo

le mani sulle cosce e sui polpacci) iuh! uhuh!

E la bicicletta di Mercks? Ah, che bello! Il fatto della

bicicletta non ve lo ricordate? È risaputo che quando Mercks

ha deciso di abbandonare le corse tutti gli chiedevano la

bicicletta. Perfino re Baldovino voleva la sua bicicletta.

Dice: “No, ho già deciso di regalarla al Papa! A Paolo VI”.

È andato a Roma, ha consegnato la sua bicicletta d’oro da

corsa al Papa e ha detto: “Ecco, io mi ritiro e lascio la

bicicletta a voi, Santità”.

Un altro Papa si sarebbe offeso: “E che? Mi metto a pedalare

per il Vaticano con le sottane al vento, io!” E invece Paolino,

spiritosissimo, l’ha sollevata con gioia e ha detto: “Grazie, è

un dono bellissimo, l’ho sempre sognato!”

Ma attenti che c’era una carognata vendicativa dietro a

questo regalo. Perché non bisogna dimenticare che Mercks è

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fiammingo. E i fiamminghi, sin dal Medioevo, hanno avuto

scontri duri con i Papi. Per anni e anni hanno subito

angherie, violenze, roghi dalla Chiesa Romana, nelle lotte di

religione a partire dal Quattrocento con le invasioni degli

spagnoli cattolici fanatici, avanti fino al Settecento. E allora

Mercks ha pensato di tirare il “roccolo”, come si dice. Ha

pensato di vendicarsi proprio con Paolino, sapendolo così

disponibile e d’entusiasmo facile... S’è immaginato: “Io gli

do la bicicletta e quello la monta!” E che tipo di bicicletta gli

aveva regalato? State attenti, una bicicletta per corse su

strada? No, da pista, per il chilometro lanciato! Voi ridete,

ma sono sicuro che non siate al corrente del particolare che

distingue una bicicletta da pista da una normale bicicletta da

strada: la bicicletta da pista non ha freni! Pur di alleggerirla

al massimo, tolgono: cambi, pompa e freni. I freni non ci

sono. Tanto è vero che durante le partenze per le gare in

pista c’è il porteur, per ogni partecipante, che sostiene

corridore e bicicletta. Il porteur sospinge il pistard e lo

lancia. E quando è finita la corsa, la volata, sono loro, i

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porteurs, che si accollano il compito di fermarli proprio

perché, non avendo freni, quelli continuerebbero a girare in

pista per chissà quanto tempo.

Il porteur li branca al volo tutti e due, cioè il ciclista e la

bicicletta. Che se sbaglia e per caso becca soltanto lui, la

bicicletta va via, fa ancora tre giri di pista da sola. E poi

ancora peggio se sbaglia e blocca la bicicletta lasciando da

solo il ciclista sospeso a pedalare nel vuoto. (Mima il pistard

che pedala nel vuoto) E c’è il solito imbecille che dalla

tribuna gli grida:

“Sei senza bicicletta!”

“Eeeeh?” Plack!... cade! Una frana... schianta a terra da

accopparsi!

Dicevo, regalare ’sta bicicletta a Paolino è stata proprio una

mascalzonata. Infatti dove andava in vacanza Paolino?

Sempre a Castelgandolfo. Ci andava per il week-end. Siete

mai stati a Castelgandolfo? C’è un palazzo arroccato su una

collina; dal portale scende una strada bianca, un nastro che

va giù fino in fondo a precipizio, e in fondo c’è un gran

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muro bianco con una curva a gomito... Una volata... che se

anche hai un monopattino vai giù come un treno. E Mercks,

la carogna, già se lo immaginava.

Quello va su a Castelgandolfo con la bicicletta, all’alba, per

non farsi vedere dalle guardie svizzere e dai fraticelli, da

nessuno, viene fuori sul piazzale con la sua bicicletta da

corsa, con le mollette si fa su i risvolti della tonaca (mima

l’azione), guanti mezze-dita, da corsa, la gomma d’oro

(indica una gomma incrociata sul torace come i ciclisti di

una volta), la mitria da corsa (mima di calzarne una, poi, con

le mani unite appoggiando i polsi sulla fronte, le solleva

verso l’alto facendo immaginare la visiera di un berrettino da

ciclista), con la paletta in su, con scritto “fiat”. Dietro

“voluntas tua” tanto per truccare, ma tutti sanno che è

sponsorizzato dalla nota industria di Torino.

E salta sul sellino... un bel respiro... e giù a rompicollo.

“Pistaaaa!” gniaaauuu gniiimmmm viiiimmmmm

vuuummmmm. Il muro! Frena! Frenaaa! Non ci sono i freni!

pfffrrruuummm! Una frittata di duemila uova, bianca e

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gialla: i colori del Papa. Va bene, non c’è più neanche lui. E

al suo posto c’è Woytjla. Anche questo Papa è un fenomeno!

Ma dove li vanno a prendere?! Il Papa che venne dal freddo!

Una volta l’ho visto: baciava i bambini. L’avete osservato

voi quando bacia i bambini? Li solleva come fossero dei

pacchi. Sembra una catena di montaggio. (Esegue

meccanicamente: li bacia e li butta) smack, smack... sciunf…

e li getta! Neanche si preoccupa dove vanno a finire. Che

meno male a prenderli ci sono dei giocatori di rugby truccati

da prete: opla! tum! (Mima prese al volo con tanto di

palleggio e rinvio dei bambini come fossero palle da cesto)

Ecco, diciamo che è un po’ esuberante. Ma andiamo avanti,

anzi torniamo indietro, voglio dire, per riprendere la storia

del “Protovangelo” a cominciare dall’arrivo dei Re Magi.

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IL PRIMO MIRACOLO DI GESÙ BAMBINO.

De bòto in tèl ziélo impiegnìdo de stèle, tüto strapuntà de

lûs, l’è ’rivà deréntro un stelùn tremendo… co’ ’na cuàssa

ch’ol brugàva, ol dava a scuretùn e tüte le stèle, che criàva:

“Bòja chi l’è?!”

L’éra la stèla cometa!

’Rivàva da l’oriente e drio gh’éra i tri Re Magi. Vün l’éra

vègio, tüto ingrugnà, ol tirava ’craménti sü un cavàlo

negro... aténto a l’alegorìa... e intànt che l’andava sü ’sto

cavàlo négro ol molàva dei fropàdi sü la stafa de monta,

tirànd in sü el cül da la stcéna, par via che gh’éra spuntàt de i

bugnün sü le ciàpe… de manéra che a ógne incrugàda del

cül sü la sèla ol biastemàva ’me Dio tradì!

Aprèso a gh’éra un Re Magio biondo, zióvane e ciàro, coi

risolùn duràt… sü un cavàlo biànch... aténto a la ’legorìa…

co’ i ögi slusénti e la bóca che ride… cont sü la stcéna un

gran mantèlo róso e arzénto.

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Ültim veniva óltra, un Magio negro sóra un camèlo griso…

riaténti a la ’legorìa… un negro, cossì negro, con co’ i balèti

scüri incastrà in del biànch de l’ögi, ün biànch cussì biànch,

che quando ol rideva ol pareva cussí negro che ol camèlo

griso de sóta, ol pareva pì biànch e ciàro del cavàlo biànch

ch’ol gh’avéa ol biondo Re Magio.

’Sti re stregón andàveno e ol negro sul camèlo ol cantava:

– Oh che bel che bel che bel

che l’è andare sul camèl

che bel che bel.

Che bel che bel che andémo a Betlèm

a Betlèm gh’è ’na capàna

con deréntro la Madona

ol Bambìn che nina nina

san Giüsèp ch’ol sega sega

i angiulìt che vola vola

oh che bel che bel che bel

che l’è andare sul camèl!

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– Baastaaa! – ol cria el vègio Re Magio. – L’è tre ziórni e tre

nòti che te canti ’sta lagna del camèlo! Émo capìt che l’è

bèlo andare sul camèlo, ma adèso basta!

(A ritmo da filastrocca) – Eh no, che débio cantare sul

camèl…

vispo ol dée stare...

che se mi no’ canto el camèlo s’endorménta

bòrlo de sóto, se spavénta

stramasà a tèra

mè schisciàdo

e no’ arìvo pì a Betlèm.

A Betlèm lim lèm,

dove gh’è ’na capàna

con deréntro la Madona

col Bambìn che nina nina

san Giüsèp col sega sega

i angiulìt che vola vola

oh che bel che bel che bel

che l’è andare sul camèl!

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– Bastaaa! Mi te magno crüdo! Te pélo via tüto ol negro

d’intorno e magno ol biànch deréntro! Basta cantare!

Il Re Magio nero riprende la tiritera:

– Eh no che débio cantare

ritmo ritmo a débio dare

ch’el camèl no’ è come ol cavàl

el cavàl ol va al galòpo

el camèl ol còre al tròto

gamba devànti, gamba de drio

se intorcìga

se no’ do ol ritmo, se intropìga,

se spaventa

frana par tèra

mi schisciàdo

e lim lèm no’ ’rivo pì a Betlèm.

A Betlèm gh’è una capàna

con deréntro la Madona

ol Bambìn che nina nina

san Giüsèp ch’ol sega sega

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i angiulìt che vola vola...

– Te magno!!! (Quasi rivolto al Padreterno) Mi no’ capìsso

parchè gh’han fàito vegnì ’sto negro con tüti i Magi culuràdi

che gh’è intórna! Parchè?... (Come ricordando la profezia)

Ah, dovémo far cosmopòlitos! Che ’sto négher pœ l’è ’na

brava persona, ma no’ se pòl seguitàr a cantare de ’sta

manéra!... Certe volte me fa catàre dei spaventi! Me capita

d’avérghe dei besógn... (indica il sedere) cói bugnón che me

stciòpa chi… sunt un Magio, ma gh’ho dei bisogni!

Desséndi dal cavàlo, vo’ ne lo scüro in de la nòte... me fò

per calare le braghe... e devànti a mi, a l’improvìsa, te vedo

dòi ögi de bèstia... cunt di dénci de bèstia... Bòja, l’è un

león!!...

Me sun cagào sü le braghe!

Invece l’éra lü ch’ol cagàva devànti a mi... e ol ride! Ol caga

e ol ride... e no’ canta!

La prema volta che no’ canta!

No’ podéva cantare: “Oh che bel che bel che bel l’è cagàr

sensa camèl, che bel che bel!”… che mi me ne incorgévo!

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Me fa catàre dei spaventi-stremìzzi de sbutà!… Che fra i

bugnóni che i me stciòpa e lü, gh’ho ’na rabbia adòso che se

’rivo de ’sta manéra a Betlèm stròso ol Bambìn ne la cûna!

In quèl momento in dél ziélo ol stelùn s’è fermào e tüti i se

dise: “Cos’è capitàt?”

E el Magio negro cantando: – S’è fermàt per catàrse un po’

de fiàt!

– Oh che bel che bel che bel che l’è andare a Betlèm...

– Bastaaa! (Mima il Magio nero che salta sul cammello)

Ol Magio vègio salta sul so’ cavàlo négro, dà de spròn: –

Ghe vago da solo a Betlèm, no’ vòj nisciùno! Bastaa!

– Anca mi végno con ti! Oh che bel che bel che bel...

– Bastaaa!

– Oh che bel che bel che bel... (Porta la voce quasi a

spegnersi sempre più flebile in lontananza).

– Bastaaa!

– Che bel…

– Bastaaaaa!

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In quèl precìs mumént in del ziélo impiegnìdo de stèle l’è

vegnü föra l’arcanzèlo cunt ün cerción tremendo impiantà sü

la crapa… e co’ dei aletón plumàde che l’andéva

sbatusciàndo a ventài a picàr gran sgiafóni ai nìvuli, che i

scampànava e in tèl svulàz, l’àire sgionfiàva i sòo vestimént

panegià ’me vele sbatüe in tempesta!

De traversón ’na gran sfèrzula, ciàra e granda, cunt sü scrito:

“anzelo”... per quèi che no’ capìsse!

Ol va a svoltón per ol ziélo criàndo: – Òmeni de bona

voluntàt, vegnìt! Vegnìt! L’è nasciùo ol Redentór! – E ol

pica de volàde de sóto.

bruaammm! (Mima una picchiata dell’angelo che si getta per

poi sfrecciare radente il suolo) Cunt i pastori che ghe i vusa:

– Oh, desgrasió, te ghe fèt andà via ol late a le pégure!

(Mima un’altra picchiata dell’angelo che per poco non li

travolge. A gran voce) L’è nasciùo ol Redentoreee!...

bruammm!

(Accenna una reazione infuriata dei pastori) – Che t’andèsi a

sbàter cóntra la muntàgna!, ch’ol cerción incarcào fino al

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bàbie! Tüte le plüme spantegàe! Galinàsso! (Rivolgendosi

agli altri pastori) A l’è mejór che andémo sübit a portàrghe

quài regalia a ’sto Bambìn Fiól de Deo, che se quèl angiolòn

lì ol va avanti e indrìo tüta la note, ghe ara ol prato!

E tüti i andava con un dono in processión.

Chi ghe porta del formàjio, chi un cavrèto, dei conìli, un

altro de le galìne, del vino, de l’oli, le póme còte e le torte

coi maróni... A gh’è dei disgrasió che i ’riva con de’ paiòl

tremendi impiegnì de pulénta... apòsta da la bergamàsca…

(col gesto di reggere un gran peso) e i vègne avanti cussì da

la montagna... Ma che disgrasió! A un bambìn apéna nasciüo

te vòj darghe la polenta! Ma te lo vòj copàre?!

E davanti a ’sta capàna a gh’è un rebelòt da no’ dire

(descrive con gesti e ritmi quasi di danza): a gh’è de òmeni

che i ségan dei palón – bra bra bra! – Dei àlter che i pica sü

l’encüden de ferée – briu bra briu bra bra! – Aprèso i servént

che i tira l’ànsima che bófa – haha hehe ha! – E a far de

controvóse, i bandetóri del mercàt... (esegue un grammelot

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con voci di ortolani, macellai, panettieri eccetera in un gran

crescendo).

– Bastaaa! Vergogna! ’Sta pòvera dòna de la Madona! Tre

ziórni e tre nòti che no’ la dorme! Vorsìt che la crèpa?!

– Ma noàltri volémo fare ol presépio!

E in la capàna a gh’è i pastori che i vègne deréntro co’ i loro

doni e gh’è sant’Ana che come quèi i vègne óltra: – Andì a

pregàr de föra, déme qua i regali in prèscia! (Mima di

raccogliere i doni e di sistemarli) Pregà dòpo! Oh, quanta

roba! Benedèto Gesù bambìn... te dovarèsse nàsser almànco

quatro volte al més, te fo’ ’na resèrva per tüta l’eternità!

Arìva i Re Magi co’ l’oro, l’incenso e la mira, i se ingenögia.

Gh’è el vègio che el porta el so’ regalo, pœ el giovinèto e pœ

arìva deréntro el negro (cantando):

– Ohi che bel, che bel, che bel!

Ol Bambìn nel cavagnèl!

– Ol negro föra che spavénta el Bambin – el vousa el re

vègio.

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In quèl mentre ’riva deréntro l’ànzelo con la spada de fòco e

ol vusa: – Föra, föra sübit! Föra, föra! Baterìa!

– Come baterìa?!

– Traslòco! Via, scapàre! Fuga in Egitto!

– De già?!

– Gh’è in ziro l’Erode che va stacàndo tüte le teste dei

bambìn!

La sant’Ana a Giüsép: – Va a tór quatro cavàli e dòi carèti

sübit e caréga tüta la mercansìa!

L’ànzelo: – No, no’ gh’è témp, via sübit!

– Ah bravo, arcànzelo fürbàsso, te vòj fregàrte tüta la roba ti,

eh? (A Giuseppe) L’àseno, l’àseno, tira föra l’àseno!

Végne óltra ’sto àseno tüto imbrocugnà, che n’ol sta in pie...

che l’è tre ziórni e quatro nòti ch’ol bófa! (Mima l’ansimare

dell’animale) ahhh! ahhh! A l’è sctiopà! La sant’Ana

coménza a caregàrlo de tüte le regalie, pachi e pachèti e

aprèso de giùnta la Madona ghe va soravìa, e Giüsèp: –

Madona desénde, no’ ghe la fa, ol crepa!

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– Ma mi no’ pòdo deséndere… che se po’ la zénte no’ me

vede sü l’àseno no’ i comprende che stémo a fare la fuga in

Egitto!

E alóra Giüsèp va sóta a l’àseno, se caréga ’sta bèstia, la

Madona, ol Bambìn con tüta la mercansìa e ol va via

camenàndo.

Lóngo el camìno se da ’na scrolàda e se libera de tüte le

regalie. Caminàndo caminàndo va... i zónze a la costa del

mare, pœ ancora zòcule e pie, i arìvan a Jaffa.

Jaffa çittà bianca, granda, con lónghe tóri.

Apéna zónti al portón l’ànzelo segna ziri a tondo e sòna la

tromba. L’àseno: iaaaap!, la panza par tèra... ’na slòfa dal

cül: pluuf! L’anima de l’àseno la va in ziélo!

La Madona la varda e la dise: – Pòra bèstia, l’è morto!

Segno divino. Vòl dire che sémo ’rivàt!

Van deréntro ne la çittà e i zérca un lögu dove podér

infricàrse a dormire. Gh’è ’na stambèrga disgrasiàda, piéna

de bögi, che la capàna a Betlème a l’éra ’na régia.

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Ol Bambìn ol s’é endormìt embrassà a la sòa mama. E ol

povero Giüsèp tüta la nòte a tampunàre i bögi.

La matìna, sübeto, la Madòna la ciàpa ’na cavàgna, ’na cesta

e la va intórna a cercàr in le corti pagni de lavare, parchè

besógna che jüta anche lee la faméja. San Giüsèp, anca lü ol

va intórna col martèl, la sega e ciòdi per truà de fare mestè.

El Fiolìn in mèso a la strada.

La sera la Madòna l’arìva da la rògia, morta roversàda, con

la stcéna spacàda. La se sèta tüta maseràda, straca. E san

Giüsèp vién de föra imbestiàt chè no’ gh’ha truvà lavór, no’

l’ha picà un ciòd.

’Riva dentro ol Gesù bambìn cól möcc giò del naso… fin sü

la bóca, tüto strapenàdo, con le mani vónce, le braghe de

travèrso, sensa gnanca ’na scarpa ai pie.

– Mama, gh’ho fame!

– Ma varda come te sèt cunscià bambìn... ma con tüto ol

travàil che gh’ho, me tóca anca lavar i pani a ti!

– Mama, gh’ho fame!

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– Ma làssame fornìre, che parli a ti! Ma no’ te vergógni de

arivà cunsciàt in ’sta manéra?

– Mama, gh’ho fame!

(Parla precipitando le parole come in un grammelot) –

Sbardòsc resentà a stiàsc sguasciàr e sperónte, te bìrular a

struscià ’me un lifròch, fiól de smarmùsc... – che quando la

Maria Verzén l’éra inrabìta la parlava palestinés stringiüo

che no’ se capiva ’na madòna! (Cambia tono) – Dìghelo ti

Giüsèp che lü l’è dessendüo dal ziélo per insegnàrghe ai

bòni cristiàni avérghe amor e vès zentìl e il primo amor che

deve avérghe l’è ol respécto per la sòa madre… (Al

bambino) E ti invéze no’ te vergogni?!

– Oh, la madòna!

– Giüsèp, te gh’ha sentì còssa gh’ha dito ol to’ fiól? Te

prégi, slónzaghe la bona creànsa!

– Mi?!

– Te sèt so’ pare!

– Mi… so’ pare?! (Occhieggia intorno perplesso).

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A la fin, la famégia la se mèt a tàola, i se sèta tüti intórna a la

mensa. Gh’è ol pane in mèso, ol Bambìn fa per slongàre la

man...

– Eh, sempre con ’sta man sübit! Aspècia! Va’ che mani

svònce! E fate ol segno de la cróse prima!… No, aspèta…

l’è tròpo presto! ’N’altra volta!

Ol Bambìn va a dormire, dorme tüta la famégia.

Al matìno ol Jesus se desvégia, no’ gh’è la madre, ol padre

l’è sortìo, s’enfìla le braghe, cata un tòco de pan, ol va föra

in de la strada: gh’è tanti bambìn che córen avanti e indrìo,

che i salta, i ziòga.

– Me fèt ’gnir deréntro cun vui al vostro ziògo?… Féme

ziogàr… mi a sont bravo!

– Va’ via Palestina!

– Ma parchè no’ me vorsìt? Vardé… mi me mèto a far la

cavalìna... fago anca ol ladro, el ziògo de la sgiàfa...

– Va’ via terùn!

De le làgrime ghe sòrtono dai ögi... ghe vègne ol magùn al

Jesù bambin.

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La madre gh’avéa racumandà: – Atént ti, no’ far miracoli

che pœ i soldàiti i végn a savérlo, i te ziérca, arìva e i te

cópa!

Ma l’éra cossì tanto stréncio e fondo ol dolór de vès casàito

fóra del ziògo che ol dovéa par fòrsa tiràr in pie almànco un

miraculìn pìcolo… per far de manéra che ’sti bambìn

gh’avèsero amistà con lü. L’è andàit dove che gh’éra una

fontana co’ intorno de la tèra creta... quèla per fa’ côpi e

matóni, bèla, grassa, bagnàda. ’N’ha catà un barciòch, l’ha

comenzà a lavorarla co’ ’ste manine sante… e ol vusàva: –

Ehi fiulìt, bambìn, vegnì chi, ve fago védar come se fa i usèl

de tèra!

(Sfottenti) – Ohi, ol Palestina fa i üsèi de tèra!

– Sì, ma pœ mi i fo’ anca volare!

(Gli fanno il verso) – Ehi, ol Palestina l’impasta i usèli co’ la

tèra e po’ i fa volare! Ma che bravo!

I bambìn tüti intórna a vardà sbrefànti… e quèlo coménza

con ’ste manine sante: ol ’bòza ol crapìn, pœ le alète, ol

panscetìn, le plüme segnàndule co’ ün legnèt… ciàpa do’

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stechèt e i infilza sóta la panscetìna del paseròt per farghe i

sciampìt. Ol valza driso sü una man.

– Sénsa trüco ne preparasión, sensa gnanca un’orasión... un,

dòi, tri, bófo! (Soffia con forza sul pupazzetto

dell’uccellino).

Bófa e se vede un trembàr de ’sto üselìn de tèra (unisce le

due mani e le agita, dando l’illusione del passero che prende

il volo) se dèrve le ali che i sbate... piu piu piu piu...

– Vola! Vola! Miracolo! Ol Jesus Palestina bambìn fa volare

i üselìn de tèra!

– Ma no’ dir stronsàde! L’è un trüco vègio ’me la madòna!

Ol furbastro gh’ha ciapàt un üselìn che l’è burlà da un

àlbaro, l’ha incuicicà in de la fanga e l’ha impastrucià come

se ol fuèsse lü a darghe forma, pœ l’ha metüo sü la man,

bofàda fium, brivido in tèl cül, cip cip cip e vola via!

– No, l’éra vera, no’ gh’éra üselìn inciucicà in de la fanga,

no’ gh’éra ol truco! L’ho vedüo mi. Basta discusiùn!

Aténto... ciàpo un baslòch de tèra! (Mima di raccogliere un

malloppo di terra e di spaccarlo in due) Va chi… no’ gh’è

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deréntro negòt, no’ gh’è üselìn deréntro! Adèso Palestina

avanti, impastòca… fa’ un üselìn... e aténto a no’ far

schèrsi… aténto che se te me fe far malafigüra te mòlo un

casotùn!

El Bambìn Jesus con ’ste manine sante fa un sprocugnìn, de

nòvo.

– Sperémo che me riésse anche stavolta!

Ciàpa un lignèt per segnà le plüme… pœ dòi stechetìn per i

giàmbi. (Mima di creare velocemente la nuova statuetta) –

Vün, dò, tri, sensa trüco ne preparasión, sensa gnanca

un’orasión...

In quèl mumènt dal fondo vègne avanti un bambìn co’ i ögi

negri, i cavèli tüto un risulìn: – Fermo!

– Cus’è?

– Controllo!

– Chi te sèt?

– Tomaso!

– Tomaso, te coménze la matìna presto a rompe i cojón!

Tomaso ciàpa un ciòdo, tium tium, ol sbüsa la statüèta.

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– Va bén, no’ gh’è trufalderìa, pòle andare avanti!

– Vün, dò, tri, sensa trüco ne preparasión, sensa gnanca

un’orasión... (Soffia sull’uccellino).

fium! L’üselìno ol se slarga… ol prende vida: piu piu piu!

– Vola! Miracolo! Oh, che fenomeno! Che stregón

meravegióso! Bravo Palestina! Caro, ’me te vòjo bén! (Con

tono da sacra investitura) Da ’sto momento ol Bambìn Jesus

l’è lü ol cap dei ziòghi! Adèso andémo a tra sü manàt de tèra

e fémo ’na gran üselànda de üsèli come ghe pare! Pœ sübit

aprèso, lü ol bófa, i fa volare e noàltri rìdum!

E via, ’sta masa de fiulìt piciugàndo come pulzinèti immatìt

de festa, van a impastà e i tira föra üsèi mai vedùi! A ghe n’è

vün ch’ol ciàpa ün palatòch de creta, ol fa un galinón co’ ’na

gran crapa... con ün pansción... cunt un cuìn de stìtic che no’

se vede niànca... pœ ghe mète ’na stèca per fa ’na jàmba…

’n’altra jàmba... ma ol bórla davanti. ’N’altra jàmba… ol

bórla de drio, sul cül!

– Çìnque jàmbe ghe mèto!

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– Esageràt! Gimài vedüo un üsèl con çìnque jàmbe! – fa

Jesus.

– L’importante è ch’el vola!

Un altro fa ’na bissa a lugànega con dódese alète tüte

intórna, sensa la côa, sensa nemànco le jàmbe. Gh’è ’n altro

fiól che ol fa sü un stronsùn tremendo... no’ se capìsse dove

ol gh’ha la crapa... Un altro fa dóe strunsìt... Pœ un altro fa

’na torta co’ intorna tüte le alète e la testa in mèso. L’ültim

impronta un gato… bèlo... co’ le ali.

– No’ se pòl far volare i gati!

– Se vola quèl stronsùn lì, volerà anca el me gato!

– No, i gati no’ i se pòl far volare... un po’ de regola!

(Levando la voce) – Mama! Jesus Palestina no’ vòl far

volare el me gato!

(S’immagina la madre affacciata a una finestra) – Palestina,

fa sübeto volar el gato del me bambìn se no’ végni giò e te

inciòdo!

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L’attore nei panni del bambino, spalanca le braccia e si

osserva le mani con sgomento.

Ol Bambìn Jesus ol ciàpa ol galinón... ol bófa (mima via via

il volo dei mostruosi uccelli a cui dà vita): pffuuuu quach

quich quoch qua tè pu qua! La lugànega: pici pete te che se

tepe! La torta: pse psu psu! El strunsùn: pce pque pte oci! I

strunsìt: pce pci pque! El gato: pfuuuum! gnaaao…

gniaaaoooo gniaaaamm: magna tüti i osèi del ziélo!

Ohi che bel! Che ridàde a stcepapànza!

– ’N’altra üselàda, avanti tüti insèma!

Tüti che i impasta i osèli, che i ziòga, i fan ridàde, i canta! E

gh’è le madri contente che le ride a le fenèstre: – Va che

bravo bambìn ’sto Jesus, gh’ha trovào un ziògo bèlo che no’

se fan neanca male!

Ma in quèl momento track!: se spalanca el portón de la

piàssa e vègne avanti un fiolìn sü un cavàlo negro tüto

infinimentà de ori e arzénto. Ol bambìn gh’ha i cavèi bén

petenà, le plüme sül capèlo, vestìt de velüto e de seta con un

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coletón de pisso. E gh’è dòi sbirri intorno tüti armà che i

monta dòi cavali biànch.Quèl l’è ol fiól del parón de tüta la

çità.

– Ehi, bambini, a che ziògo ziogàte?

(Sottovoce) – Ol fiól del parón... che rompicojón! (A Gesù)

No’ darghe tra’ Palestina, fa mostra de gnénte!

– Me fate ziogàre anca mi al vostro ziògo?

– No!

– E parchè no?

– Parchè ti, co’ i tòi cavài, no’ te ghe lassi far nemànco un

zirèto. E tüte le volte che vegnémo a ca’ tua che te gh’è dei

gran ziòghi, te ne fàit descassàre dai tòi sbiri! Noàltri adèso

gh’avémo ol sgoderàso jogóndo, el plü bel ziògo del mondo

e ol Palestina l’è ol cap del ziògo. Ti te sèt siòro ma no’ te

gh’è el Palestina! Palestina l’è nòster! Vero Palestina?

Palestina, no’ te andar con quèlo… no’ fare el Giuda!

– Ma se pòl savére che ziògo l’è?

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– Sì... noàltri fasémo üselìn e üselón de tèra… pœ ol

Palestina bófa e i fa volare. Ti vòl ziogàre anca ti? Cala le

braghe, bófa sul to’ üselìn, vedèm se ol vola!

E tüti che i ride.

Ma ol fiól del parón no’ ride miga. Rosso, inrabìto, co’ i ögi

föra de la crapa, cata ’na lanza del soldàt, dà de spròn al so’

cavalìn e al galòpo ’rìva in mèso ai fiolìt criàndo ’me un

mato: – Se no’ ziògo mi, no’ ziogàte gnanca voàltri!

zan zan a spacàre co’ i sòcoli del cavàl tüte le statüète de

creta.

I fiulìt stciòpa in una gran caragnàda... i tirava bale de mòta

cóntra el fiól catìvo, ma i soldàt fazéndo carusèl intorno co’ i

cavàl al galòpo, crìano: – Via! Föra! Andìt föra, via! Che lü,

ol pòl fare quèl che el vòl, parchè l’è ol fiól del parón!

Le mame a le finèstre: – Bastàrdu! Un ziogo sì bèlo... che

no’ costava negòta... i nostri fiól i éran contenti...

E i soldài: – Via madri! Via che ve ’riva le lanze!

pfium pfium!, tüte le finestre seràde.

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Int un mumént la piàsa l’è vóda. Gh’è resta soltanto ol fiolìn

del parón sul so’ cavàlo negro, coi soldati che i sganàsa.

Nesciün s’éra incorgiüo che visìn a la fontana gh’éra ol

Bambìn Jesus, coi ögi grandi, impiegnìdi de lagrime... fisà

invèrso ol ziélo, che ol s’era impiegnìdo de nìvole... e ol

coménza a ciamàr so’

Patre.

In del momento che ciàma ol Padre se ferma tüta la vita, se

ferma ol témp... tüti i resta ’me statue.

– padreee!

Le nìvole se mòveno coréndo a ziràndola... se dèrveno

lasàndo un gran vòdo in del mèso: broommm!

– padreeee!

(Come affacciandosi nel gran vuoto tra le nuvole) – Se gh’è?

– Padre son mi… to’ fiól, Jesus Palestina!

– Te recognósso! Còssa t’è capitàt?

(Trattenendo a fatica le lacrime) – Ehhh, quèl bambìn lì l’è

catìvo, gh’ha stcepà tüti i figürìni de tèra che noàltri

gh’avémo fato per ziogàre...

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– Ma caro bambìn, per ’na stupidàda cussì te vègne a far

catàre un spavento ’sì grando a to’ pare? Che éro de l’altra

parte de l’universo, son ’rivào de corsa, gh’ho sbüsà quasi

dosénto nìvoli, gh’ho tirà sóta çinquànta cherubini, me s’è

sturtà ol triangolo in crapa che ghe vól un’eternità a ripiasàl

a l’órden! No’ te vergogni?!

(Singhiozzando e salendo con falsetti a strappo) – Eh... ma

lü l’è stàit catìvo... gh’ha stcepà tüti i ziòghi... noàltri éremo

contenti... stcepàdo tüto... gh’avéo tanto fatigà! Èco!

– No’ gh’ho capìt nagòta! Parla ciàro. Còssa l’è capitàt?

(A gran velocità, sempre intramezzando le parole con

singhiozzi)

– L’è capitàt che co’ la mama e anca ol Giüsèp sémo ’rivàt a

Jafa... lori i van a lavorar... ehh... e mi resto soléngo... ihhh...

alóra sont andàit... in te la piàssa... a gh’éra i bambìn...

ahhhh... loro i ziogàva e mi: féme ziogàre anca mi al vòster

ziògo... va’ via Palestina terùn! Ma mi... ihhh... no’ éro

capàze de restà sensa ziogàre... ’na tristìzia da morìre...

ahhhh... E alóra gh’ho pensàt... fo’ un miracolo... uno

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pìcolo... quèlo de far volare i osèli che l’è fàzile e me riésse

sémper bén... ahhh... gh’ho fato volare dei üselón tremendi...

anca un strunsìn, un strunsùn e perfìn un gato… dòpo i éran

contenti! Vün diséva: no’ è vera... quèl Tomaso che rompe i

cojón... ahhh e tüti i dise: bòn Palestina, cap dei ziòghi. E

adèso sont de nòvo solo come prima... che tüti i amìsi i sont

scapàti... ehhh.... Gh’ho un dolór Padre... un dolór tremendo!

(Grandi singhiozzi tra terribili sospiri).

– Oh, te gh’ha rasón. A débio admìttere che ol stcepàre

ziòghi zentìl cumpàgn de sogni… spatasciàr ziogarèli

empastàt co’ fantasia o l’è propri ol pejór de tüti i pecàt. Ma

zérca de rasionàr e fàite razón, quèlo l’è pìcolo, no’ capìsse.

– No, no… capìsse, capìsse! Quèlo l’è catìvo del sòo

natürale. L’è grave perìculo lassàrlo divegnìre grando!

– Va bén, démoghe un castigo. Che castigo te vòj che ghe

daga?

(Nell’atteggiamento del bambino soddisfatto che cerca di

formulare una sentenza strepitosa) – Màsalo!

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(Silenzio: s’immagina un Padreterno sconvolto) – Ah...

cominçémo bén! T’ho mandàt giò dal ziélo in tèra per

imparàrghe la pace fra i òmeni… parlàrghe d’amore a zénte

che de normale se dà bòte sénza rasón… così che a prèso i

bòni cristiàn se riconoserà pel facto che se ün ghe mòla ’na

sgiafàda, quèl, ol volta sübeto la fàcia pe’ catàrne ’n’altra... e

cossì se dan sgiafàde da matìna a sira e son contenti ’me dio!

Tüto va a magnìficat e zom! Te ’rìvet ti che al prim tupìch:

màsalo! No’ te vergogni?

– Eh, ma quèlo lì l’è stàit catìvo… m’ha dàit un dolór!...

– Ma parchè te me ciàmet mi per fà castigamént? Te sèt Deo

anca ti... pìcolo, un Deotìn, ma Deo. Parchè te me vòl tirar

de mèso in ’sto giugiamént? Ah… ol sàbie bén mi, la resón!

Te me vòj portar a mi a fa’ senténzia cossì che aprèso la

zénte diga: ol Padre l’è catìvo, ma ol Fiól l’è bòn! No, te la

sbròli ti la tòa questión e no’ vegnìre a ciamàrme per de le

cialàde che mi gh’ho bén altro de fare!

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braaammm! Tüte le nìvole che se sèrano, tüto ol ciél devénta

ciàro, ol bambìn fiól d’ol parón ol ride de nòvo e anche i

sbiri a rìdon tanto che i se pisa adòso.

Ol Fiól de Deo va visìn al padronzìn e ghe dise: – Te rìdet ti,

eh? Parchè te sèt tranquìlo che nisciün te pòl castigare, eh?...

(Cambia tono) E se adèso ’riva vün e te castiga?...

– Chi?

– Mi par ecsémpio!... Son tròpo pìcolo? No’ gh’ho forza

abàsta per farte ’na castigàda? Ah sì? E se mi te fülmino?...

Ah... no’ te ghe crede, eh?

bruammmm! Un lampo de fògo ghe sòrte da i ögi che arìva e

ol ciàpa ol bambìn fiól d’ol parón e lo lanza per aria: vum!

Stciòpa un fògo a gran calór… ol fiolìn devégne un pigotìn

de tèra che còsse deréntro ’na fornàse infiamànte… rós,

giàldo, arànz. Un bambìn de tèra fümante!

I sbirri: – Ahaaaa! Ol fiól del diàol! – Via che i scapa.

Tüte le dòne spalanca le fenèstre: – Ol stregón! Fiól del

diàolo! – E sèran tüti i scüri.

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La Madòna co’ stava a resentà a la fonte, sente criàre: – Ah

stragoneria!...

Va coréndo… zónze in la corte: – Jesus, méo fiolìn caro,

còssa l’è capitàt? Parchè la zénte cria a tüta vóse?

– No’ so mi. Éremo chi che se ziogàva... Varda mama, gh’ho

fàito ol me primo miracolo... l’è ancora caldo!

– Un bambìn de tèra? Te l’hai fàit ti?

– No, no, l’è lü giusto com l’è nasciüo... A l’éra catìvo, m’ha

fàit ofésa grama... Dopo che m’ha stciepà tüti i ziòghi l’ho

fàit de tèra… ’una fropàda de fògo: sbrüsà! Teracòta!

– Còssa?! Ma no’ te vergogni? Deo che cruèl che ti è! Pensa

còssa capiterà a la so’ matre quando ghe porteràn ’sto

bambìn de teracòta sü le ginögia... le lacrime de sànguo che

ghé sorteràn... e ghe diràn: “L’è stàit ol Fiól de Deo, ol

Palestina...” Te coménzi bén! (Perentoria) Resùsitalo!

– No!

– Resùsitalo sübit!

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– Ecco… no’ se pòl far ’na roba, che sübit débio desfàrla!...

E pœ no’ son capàze... mi gh’ho imparàt soltanto a

fulminare... no’ son ancora capàze de resusitàre, mama!

– No’ dir busìe! Falo per mi... per i me’ ögi, par ’sto dolór

che me scána ol còre… (Implorante) Àbie pietàt!

– Mama no’ piàgnere... basta trar làgrime. A lo resùsito... ma

co’ ’na pesciàda! – (Mima di sferrare una terribile pedata al

bambino disteso a terra) pam! Una pesciàda al bambìn fiól

del parón che ol vègne in pie... se sgretola tüta la tèra, ol

sangu retórna a scorìre in di soj sgargorèssi… ol respira, ol

respira, o l’è vivo… i ögi i se dèrva vìsculi… se porta ’na

man sü i ciàpi. – Tranquìl… sèt vivo!

(Attonito nel risveglio) – Cos’è capitàt?!

– Te gh’avevo fulmenàt... e pœ... Rengràssia la Madòna! Te

séntet dolór chi ai ciàpi, eh? Alfìn ti débie tór conosiénsa che

no’ è sémper co’ la prepoténsia che se guadagna in te la

vida... parchè vègne ol ziórno che t’arìva un meschìn

strascénto che te castiga a pesciàde in tèl cül, par tüti i altri!

De bòta l’aria la se fa lémpeda e ciàra.

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Le matri retórnano a spontàr da le fenèstre spalancàt.

Tüti varda là in fonda al vialón de dóe ziùnze un strambo

criàr.

Se scorge, pìcolo, un negro co’ è sü un camèlo griso e de

drio a gh’è un biànch vègio che dà de spròn a un cavàl

negro. Vün ol canta e l’altro ol cria: – Oh che bel che bel che

bel che l’è andare sul camèl che bel che bel!

– Bastaaa!

– Oh che bel che bel che bel...

– Basta!

Il duetto ritmato monta di tono, poi si allontana sino a

sparire.

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TRADUZIONE

All’improvviso nel cielo pieno di stelle, tutto trapuntato di

luci, è arrivato uno stellone tremendo… con una codaccia

scodinzolante che sbatteva scudisciando le stelle intorno, che

gridavano: “Boia chi è?!”

Era la stella cometa!

Arrivava dall’oriente e dappresso la seguivano i tre Re Magi.

Uno era vecchio, tutto imbronciato, che tirava sacripanti

[sacramentava, imprecava] su un cavallo nero... attenti

all’allegoria... e cavalcando ’sto cavallo nero spingeva sulle

staffe sollevando dal dorso le chiappe, per via che gli erano

spuntati bubboni e vesciche proprio lì, sulle natiche… e ad

ogni sobbalzo si trovava a sbattere il culo sulla sella e

urlando, bestemmiava come Dio tradito!

Appresso a lui c’era un Re Magio biondo, giovane pallido,

tutto un ricciolo dorato… che montava un cavallo bianco...

attenti all’allegoria… gli occhi brillanti e la bocca che ride…

sulla schiena un gran mantello rosso e argento.

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Ultimo seguiva un Magio nero su un cammello grigio…

riattenzione all’allegoria… un nero, così nero, con le pupille

scure incastrate nel bianco dell’occhio, un bianco così

bianco, che quando rideva, il cammello grigio di sotto,

pareva più bianco e chiaro del cavallo bianco cavalcato dal

biondo Re Magio.

’Sti re sciamanni andavano e il negro sul cammello cantava:

– Oh che bello che bello che bello

che è andare sul cammello

Che bello che bello.

che bello che bello che andiamo a Betlemme

a Betlemme c’è una capanna

con dentro la Madonna

il Bambino che ninna ninna

san Giuseppe che sega sega

gli angioletti che volano volano

oh che bello che bello che bello

che è andare sul cammello!

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– Baastaaa! – urla il vecchio Re Magio. – Sono tre giorni e

tre notti che canti ’sta tiritera del cammello! Abbiamo capito

che è bello andare sul cammello, ma adesso basta!

(A ritmo cantato da filastrocca) – Eh no, che devo cantare

sul cammello…

che vispo deve stare…

che se io non canto il cammello s’addormenta

cado di sotto, si spaventa

stramazza a terra

e io di sotto spiaccicato

e non arrivo più a Betlemme.

A Betlemme limme lemme,

dove c’è una capanna

con dentro la Madonna

col Bambino che ninna ninna

san Giuseppe che sega sega

gli angioletti che volano volano

oh che bello che bello che bello

che è l’andare sul cammello!

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– Bastaaa! Io ti mangio crudo! Ti pelo via tutto il nero

d’intorno e sbrano il bianco dentro! Basta cantare!

Il Re Magio negro riprende la tiritera:

– Eh no che devo cantare

ritmo ritmo devo dare

che il cammello non è come il cavallo

il cavallo va al galoppo

il cammello corre al trotto

gamba davanti, gamba di dietro

s’annoda a torciglione

se non do il ritmo s’inciampa,

si spaventa,

stramazza a terra

io di sotto spiaccicato

e limme lemme non arrivo più a Betlemme.

A Betlemme c’è una capanna

con dentro la Madonna

il Bambino che ninna ninna

san Giuseppe che sega sega

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gli angioletti che volano volano...

– Ti mangio!!! (Quasi rivolto al Padreterno) Io non capisco

perché hanno fatto venire ’sto nero con tutti i Magi di razze

colorate che ci sono intorno! Perché?… (Come ricordando la

profezia) Ah, dobbiamo “far cosmopòlitos”! Che questo

nero poi è una brava persona, ma non si può continuare a

cantare in questo modo!... Certe volte mi fa prendere degli

spaventi! Mi capita di averci dei bisogni… (indica il sedere)

con i bubboni che mi scoppiano qui... sono un Magio, ma ho

dei bisogni! Scendo da cavallo, vado nel buio della notte...

faccio per calarmi le brache... e davanti a me,

all’improvviso, ti vedo due occhi da bestia… con dei denti

da bestia... Boia, è un leone!!...

Mi sono cacato sulle braghe!

Invece era lui che cacava davanti a me... e ride! Caca e

ride... e non canta!

La prima volta che non canta!

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Non poteva cantare: “Oh che bello che bello che bello è

cagare senza cammello, che bello che bello!”… così io me

ne sarei accorto!

Mi fa prendere degli spaventi da schiattare… Che, fra i

bubboni che mi scoppiano e lui, ho una rabbia addosso che

se arrivo in ’ste condizioni a Betlemme strozzo il Bambino

nella culla!

In quel momento nel cielo la grande stella s’è fermata e tutti

si domandano: “Cos’è successo?”

E il Magio nero cantando: – S’è fermata per prendersi un

po’ di fiato!

Oh che bello che bello che bello che è andare a Betlemme...

– Bastaaa! (Mima il Magio nero che salta sul cammello).

Il Magio vecchio inforca il suo cavallo nero, lo sprona: – Ci

vado da solo a Betlemme, non voglio nessuno! Bastaa!

– Anch’io vengo con te! Oh che bel che bel che bel...

– Bastaaa!

– Oh che bello che bello che bello... (Porta la voce quasi a

spegnersi sempre più flebile in lontananza).

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– Bastaaa!

– Oh che bello…

– Bastaaaaa!

In quell’istante nel cielo stracolmo di stelle è apparso

l’arcangelo con un cerchione tremendo piantato sulla testa…

e con delle alettone piumate che le andava sbattendo a

ventaglio dando schiaffoni alle nuvole e nello svolazzare

l’aria gonfiava i panneggi del suo vestito come vele in

tempesta! Tutto di traverso lo abbracciava una fascia, chiara

e grande, con su scritto: “angelo”... per quelli che non

capiscono!

Va volteggiando per il cielo gridando: – Uomini di buona

volontà, venite! Venite! È nato il Redentore! – E picchia

delle volate di sotto.

bruaammm! (Mima una picchiata dell’angelo che si getta per

poi sfrecciare radente il suolo) Con i pastori che gli urlano: –

Oh, disgraziato, ci fai andar via il latte alle pecore!

(Mima un’altra picchiata dell’angelo che per poco non li

travolge. A gran voce) – È nato il Redentoreee... bruammm!

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(Accenna una reazione infuriata dei pastori) – Che te ne

andassi a sbatter contro alla montagna!, col cerchione

incarcato fino al mento! Tutte le piume spantegate

[disperse]! Gallinaccio! (Rivolgendosi agli altri pastori) È

meglio che andiamo subito a portargli qualche dono a questo

Bambino Figlio di Dio, che se quell’angiolone lì va avanti e

indietro tutta la notte, ci ara il prato!

E tutti che andavano con un dono, in processione.

Chi porta del formaggio, chi un capretto, dei conigli, un altro

delle galline, e chi gli porta del vino, dell’olio, le mele cotte

e le torte coi marroni... E poi ci sono quelli che arrivano

apposta con dei paioli tremendi stracolmi di polenta... (col

gesto di reggere un gran peso) e vengono avanti così dalla

montagna... Ma che disgraziati!... A un bambino appena nato

gli vuoi dare la polenta! Ma lo vuoi ammazzare?!

E davanti a ’sta capanna c’è una caciara da non dire

(descrive con gesti e ritmi quasi di danza): ci sono uomini

che segano tronchi – bra bra bra! – Altri che battono

sull’incudine da fabbro – briu bra briu bra bra! – Appresso i

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serventi che tirano il mantice che soffia – haha hehe ha! – E

a far di controcanto, i banditori del mercato... (esegue un

grammelot con voci di ortolani, macellai, panettieri eccetera,

in gran crescendo).

– Bastaaa! Vergogna! ’Sta povera donna della Madonna! Tre

giorni e tre notti che non dorme! Ma la volete far

schiattare?!

– Ma noialtri vogliamo fare il presepio!

E dentro la capanna ci sono i pastori che sono entrati con i

loro doni e c’è sant’Anna che come li vede: – Andate a

pregare di fuori… datemi i doni qui in fretta! (Mima di

raccogliere e di sistemarli) Pregare, dopo. Oh, quanta roba!

Benedetto Gesù bambino... dovresti nascere almeno quattro

volte al mese, ti faccio una riserva per tutta l’eternità!

E arrivano i tre Magi con l’oro, l’incenso e la mirra e si

inginocchiano. C’è il vecchio Magio che porta il suo regalo,

poi il giovinetto e poi arriva dentro il nero (cantando):

– Ohi che bel, che bel, che bello!

Il Bambino nel cavagnello [cesto]!

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– Il negro fuori, che spaventa il Bambino! – gli grida il re

vecchio.

In quel mentre arriva dentro l’angelo con la spada di fuoco e

grida: – Fuori! Fuori subito! Fuori, fuori sgombero!

– Come sgombero?!

– Trasloco! Via, scappare! Fuga in Egitto!

– Di già?!

– C’è in giro re Erode che va mozzando tutte le teste dei

bambini!

La sant’Anna a Giuseppe: – Va’ a prendere quattro cavalli e

due carretti subito e carica tutta la mercanzia!

L’angelo: – No, non c’è tempo, via subito!

– Ah bravo, arcangelo furbastro, vuoi fregarti tutta la roba

per te, eh? (A Giuseppe) L’asino, l’asino, tira fuori l’asino!

Viene innanzi ’sto asino tutto sderenato, che non sta in

piedi... che sono tre giorni e quattro notti che soffia! (Mima

l’ansimare dell’animale) Ahhh! Ahhh! È scoppiato! La

sant’Anna comincia a caricarlo dei doni, pacchi e pacchetti e

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in aggiunta la Madonna gli monta su in groppa, e Giuseppe:

– Madonna discendi, non ce la fa, crepa!

– Ma io non posso discendere… che se poi la gente non mi

vede sull’asino non capisce che stiamo facendo la fuga in

Egitto!

E allora Giuseppe va sotto all’asino, si carica ’sta bestia, la

Madonna, il Bambino con tutta la mercanzia e parte.

Lungo il cammino dà una scrollata e si libera di tutte le

regalie. Camminando camminando vanno, raggiungono la

costa del mare, poi ancora zoccoli e passi, arrivano a Jaffa.

Jaffa città bianca, grande, con alte torri.

Appena giunti alle porte l’angelo disegna cerchi larghi a

tondo e suona la tromba. L’asino: iaaaap!, la pancia per

terra… una scoreggia: pluuuf! L’anima dell’asino va in

cielo!

La Madonna guarda e dice: – Povera bestia, è morto. Segno

divino. Vuol dire che siamo arrivati!

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Entrano nella città e cercano un luogo al coperto dove

dormire. C’è una stamberga sgangherata, piena di buchi che

[al confronto] la capanna di Betlemme era una reggia.

Il Bambino si addormenta abbracciato a sua madre. E il

povero Giuseppe tutta la notte a tamponare i buchi.

La mattina, come si sveglia, la Madonna prende una cesta e

va intorno a cercar panni da lavare presso la gente perché

bisogna che aiuti anche lei la famiglia. San Giuseppe, anche

lui va intorno con i suoi attrezzi, sega e martello, in cerca di

lavoro.

E il Bambino il mezzo alla strada.

Alla sera dal lavatoio torna la madre con la schiena a pezzi.

Si siede tutta infracicata [fradicia], stanca. E san Giuseppe

rientra imbestialito perché non ha trovato lavoro, non ha

battuto un chiodo.

Arriva il Gesù bambino con il moccio al naso... fin sulla

bocca, tutto strapennato [stracciato], con le mani zozze, le

braghe di traverso, senza neanche una scarpa ai piedi.

– Mamma, ho fame!

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– Ma guarda come ti sei conciato bambino… con tutto il

lavoro che ho, adesso mi tocca pure lavare i tuoi panni!

– Mamma, ho fame!

– Ma lasciami finire, sto parlando a te! Ma non ti vergogni di

arrivare conciato in ’sta maniera?

– Mamma, ho fame!

(Parla precipitando le parole come in un grammelot) –

Sbardòsc resentà a stiàsc sguasciàr e sperónte, te bìrular a

struscià ’me un lifròch, fiól de smarmùsc... – che quando la

Maria Vergine era fuori dai gangheri parlava palestinese

stretto che non si capiva una madonna! (Cambia tono) –

Spiegaglielo tu Giuseppe che lui è disceso dal cielo per

insegnare ai buoni cristiani a dare amore ed essere gentili e il

primo amore che deve offrire è il rispetto per sua madre…

(Al bambino) E tu invece non ti vergogni?!

– Oh, la madonna!

– Giuseppe, hai sentito come risponde tuo figlio? Ti prego,

allungagli [insegnagli] la buona creanza!

– Io?!

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– Certo, tu sei suo padre!

– Io... suo padre?! (Occhieggia intorno perplesso).

Alla fine la famiglia si mette a tavola, si siedono tutti intorno

al desco. C’è il pane nel centro, il Bambino fa per allungare

la mano...

– Eh, sempre con ’sta mano subito! Aspetta! Va che mani

zozze! E fatti il segno della croce prima!… No, aspetta… è

troppo presto! Un’altra volta!

Il Bambino va a dormire, dorme tutta la famiglia.

Al mattino Jesus si sveglia, non c’è la madre, il padre è

sortito, si infila le braghe, prende un tocco [pezzo] di pane, e

va fuori nella strada: ci sono tanti bambini che corrono

avanti e indietro, che saltano, giocano.

– Fate giocare anche me al vostro gioco?… Fatemi

giocare… io sono bravo!

– Va’ via Palestina!

– Ma perché non mi volete? Guardate… io mi metto a far la

cavallina… faccio anche il ladro, il gioco dello schiaffo.

– Va’ via terrone!

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Lacrime a fiotti scendono dagli occhi… gli prende un gran

magone al Gesù bambino.

La madre gli aveva raccomandato: – Attento tu, non far

miracoli che poi i soldati lo vengono a sapere, ti cercano, ti

scoprono e ti accoppano!

Ma era così acuto e fondo il dolore di trovarsi scacciato dal

gioco che doveva per forza inventarsi un piccolo miracolo…

per guadagnarsi un poco la loro amicizia. È andato dove

c’era una fontana con intorno della terra creta… quella per

fare coppi e mattoni, bella, grassa, bagnata. Ne ha preso una

manciata, ha cominciato a lavorarla con ’ste manine sante…

e gridava: – Ehi bambini, ragazzini, venite qui, vi faccio

vedere come si fanno gli uccelli di terra!

(Sfottenti) – Ohi, il Palestina fa gli uccelli di terra!

– Sì, ma poi io li faccio anche volare!

(Gli fanno il verso) – Ehi, il Palestina impasta gli uccelli con

la terra e poi li fa volare! Ma che bravo!

I bambini tutti intorno a guardare sfottenti… e quello

comincia con le manine sante: abbozza il crapino, poi le

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alette, la pancettina, le piume segnandole con un rametto…

prende due stecche di legno e le infila sotto la pancettina del

passero per fargli le zampette. Lo solleva alto su una mano.

– Senza trucco né preparazione, senza nemmeno

un’orazione… un, due, tre, soffio! (Soffia con forza sul

pupazzetto dell’uccellino).

Soffia e l’uccellino di terra ha un brivido, un tremore (unisce

le due mani e le agita, dando l’illusione del passero che

prende il volo) gli si spalancano le ali che sbattono… piu piu

piu piu…

– Vola! Vola! Miracolo! Jesus Palestina bambino fa volare

l’uccellino di terra!

– Ma non dire stronzate! È un trucco vecchio come la

madonna! Il furbastro ha preso un uccellino che è caduto

dall’albero, l’ha intinto nell’acqua poi l’ha impiastricciato di

terra come fosse lui a dargli forma, poi l’ha posato su una

mano, fium soffiata, brivido nel culo, cip cip cip e vola via!

– No, era vero, non c’era uccellino impiastricciato di fango,

non c’era trucco! L’ho visto io. Basta discussioni! Attento…

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prendo un’altra manciata di terra! (Mima di raccogliere un

malloppo di terra e spaccarlo in due) Guarda qua… non c’è

dentro niente, non c’è alcun uccellino! Adesso Palestina

avanti, impasta… fai l’uccellino… attento a non fare

scherzi… attento che se mi fai far mal figura ti mollo un

cazzottone!

Il Bambino Jesus con ’ste manine sante abbozza di nuovo

una statuina.

– Speriamo che mi riesca anche stavolta!

Raccoglie un legnetto per segnare le piume… poi due

stecchini per le zampe. (Mima di creare velocemente la

nuova statuetta) – Uno, due, tre, senza trucco né

preparazione, senza nemmeno un’orazione…

In quel momento dal fondo viene avanti un bambino con gli

occhi neri, i capelli tutto un ricciolo: – Fermo!

– Cos’è?

– Controllo!

– Chi sei?

– Tommaso!

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– Tommaso, cominci la mattina presto a rompere i coglioni!

Tommaso prende un chiodo, tium tium, buca la statuetta.

– Va bene, non c’è imbroglio, puoi andare!

– Uno, due, tre, senza trucco né preparazione, senza

nemmeno un’orazione… (Soffia sull’uccellino).

fium! L’uccellino apre le ali… prende vita: piu piu piu!

– Vola! Miracolo! Oh, che fenomeno! Che stregone

meraviglioso! Bravo Palestina! Caro, come ti voglio bene!

(Con tono da sacra investitura) Da ’sto momento il Bambino

Jesus è lui il capo dei giochi! Adesso andiamo a prendere

malloppi di terra e facciamo una grande uccellata di uccelli

come ci pare! Poi appresso, lui soffia, li fa volare e noialtri

ridiamo!

E via, ’sta massa di bimbi pigolando come pulcini e

ammattiti di festa [impazziti dalla gioia], vanno a impastare e

tirano fuori uccelli mai visti! C’è uno che prende un

malloppo di creta, improvvisa un gallinone con una gran

testa… un pancione… con una codina così stitica che manco

la si vede… poi ci mette una stecca per fare una gamba…

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02/10/2012 601

un’altra gamba… ma cade in avanti. Un’altra gamba… cade

indietro, sul culo!

– Cinque gambe ci metto!

– Esagerato! Mai visto un uccello con cinque gambe! – dice

Jesus.

– L’importante è che voli!

Un altro fa una biscia a salsiccia con dodici alette tutte

intorno, senza coda, senza nemanco le zampe. C’è un altro

bambino che modella uno stronzone tremendo… non si

capisce dove ha la testa… Un altro fa due stronzettini… Poi

un altro fa una torta con intorno tutte le alette e la testa nel

mezzo. L’ultimo impronta un gatto… bello… con le ali.

– Non si può far volare i gatti!

– Se vola quello stronzone lì, volerà anche il mio gatto!

– No, i gatti non si possono far volare… un po’ di regola!

(Levando la voce) – Mamma! Jesus Palestina non vuol far

volare il mio gatto!

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(S’immagina la madre affacciata a una finestra) – Palestina,

fa’ subito volare il gatto del mio bambino sennò vengo giù e

t’inchiodo!

L’attore nei panni del bambino, spalanca le braccia e si

osserva le mani con sgomento.

Il Bambino Jesus solleva il gallinone… soffia (mima via via

il volo dei mostruosi uccelli a cui dà vita): pffuuu quaq quic

quoc qua te pu qua! La salsiccia: pici pete te che si tepe! La

torta: pse psu psu! Lo stronzone: pete te che si tepe! Gli

stonzettini: pce pci pque! Il gatto: pfuuum gniaaaaooo…

gniaamm: si mangia tutti gli uccellini del cielo!

Ohi che bello! Che sghignazzi a crepapelle!

– Un’altra uccellata, avanti tutti insieme!

Tutti che impastano uccelli, che giocano, scoppiano in gran

risate, cantano! E le madri affacciate alle finestre ridono

contente: – Va’ che bravo bambino ’sto Jesus, ha trovato un

gioco che è uno spasso, non si fanno neanche male!

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Ma in quel momento track!: si spalanca il portone della

piazza e viene avanti un ragazzino su un cavallo nero con

finimenti d’oro e argento. Il bambino ha i capelli ben

pettinati, le piume sul cappello, vestito di velluto e di seta

con un collettone di pizzo. Con lui ci sono due sbirri tutti

armati che montano due cavalli bianchi. Quello è il figlio del

padrone di tutta la città.

– Ehi, bambini, a che gioco giocate?

(Sottovoce) – Il figlio del padrone… che rompi coglioni! (A

Gesù) Non dargli retta Palestina, fa’ finta di niente!

– Fate giocare anche me al vostro gioco?

– No!

– E perché no?

– Perché tu coi tuoi cavalli non ci lasci fare nemmeno un

giretto e tutte le volte che veniamo a casa tua che tu hai dei

gran giochi, ci fai sbattere fuori dai tuoi sbirri! Noialtri

adesso abbiamo un gran spasso giocondo, il più bel gioco

del mondo e il Palestina è il capo del gioco. Tu sei ricco, ma

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non hai il Palestina! Palestina è nostro! Vero Palestina?

Palestina non andar con quello… non fare Giuda!

– Ma si può sapere che gioco è?

– Sí… noialtri facciamo uccellini e uccelloni di terra… poi il

Palestina soffia e li fa volare. Vuoi giocare anche tu? Cala le

braghe, soffia sul tuo uccellino, vediamo se vola!

E tutti ridono.

Ma il figlio del padrone non ride. Paonazzo, imbestialito,

con gli occhi fuori dalla testa, strappa una lancia da un

soldato, gridando come un matto, dà di sprone al cavallo,

che piomba in mezzo ai bambini: – Se non gioco io, non

giocate nemmeno voialtri!

zan zan a spaccare con gli zoccoli del cavallo tutte le

statuette di creta.

I bambini scoppiano in un gran pianto… tirano balle di mota

addosso al ragazzino cattivo, ma i soldati, facendo carosello

intorno coi cavalli al galoppo, gridano: – Via! Fuori! Andate

fuori, via! Lui può fare tutto quello che vuole perché è il

figlio del padrone!

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Le mamme alle finestre: – Bastardi! Un gioco così bello…

che non costava niente… i nostri figli erano contenti…

E i soldati: – Via donne! Via che vi arrivano le lance!

pfium pfium!, tutte le finestre si chiudono di colpo.

In un momento la piazza si vuota. Rimane soltanto il figlio

del padrone sul suo cavallo nero con i soldati che

sghignazzano.

Nessuno si era reso conto che vicino alla fontana era rimasto

il Bambino Jesus, con gli occhi grandi, pieni di lacrime…

fissati verso il cielo che si era riempito di nuvole… e

comincia a chiamare suo Padre.

Nell’istante che [in cui] chiama il Padre si ferma tutta la vita,

si ferma il tempo… tutti restano bloccati come statue.

– padreee!

Le nuvole si muovono correndo a girandola… si aprono

lasciando un gran vuoto nel mezzo: broommm!

– padreee!

(Come affacciandosi nel gran vuoto tra le nuvole) – Cosa

c’è?

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– Padre son io… tuo figlio, Jesus Palestina!

– Ti riconosco! Cosa ti è successo?

(Trattenendo a fatica le lacrime) – Ehhh, quel bambino lì è

cattivo, ha spaccato tutte le statuine di terra che noialtri

avevamo fatto per giocare…

– Ma caro bambino, per una stupidaggine del genere devi far

prendere uno spavento così grande a tuo padre? Che mi

trovavo dall’altra parte dell’universo, son arrivato di corsa,

ho bucato quasi duecento nuvole, ho tirato sotto cinquanta

cherubini, mi si è stortato [m’è andato fuori sesto] il

triangolo in capo che si impiega un’eternità a rimetterlo ben

centrato! Non ti vergogni?!

(Singhiozzando e salendo con falsetti a strappo) – Eh... ma

lui è stato cattivo… ci ha spiaccicato tutti i giochi… noialtri

eravamo contenti… rotto tutto… avevo tanto faticato. Ecco!

– Non ho capito niente! Parla chiaro! Cos’è capitato?

(A gran velocità, sempre intramezzando le parole con

singhiozzi)

– È capitato che con la mamma e anche Giuseppe siamo

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arrivati a Jaffa… loro vanno a lavorare… ehh… e io resto

solengo… ihh… allora sono andato… nella piazza…

c’erano dei bambini… ahhhh… loro giocavano e io: fate

giocare anche me al vostro gioco… va’ via Palestina terrone!

Ma io… ihhh… non potevo, non ce la facevo a restare fuori

dal gioco… una tristezza da morire… ahhhh… e allora ho

pensato… faccio un miracolo… uno piccolo… quello di far

volare gli uccelli che è facile e mi riesce sempre bene…

ahhhh… ho fatto volare degli uccelloni tremendi... anche

uno stronzettino, uno stronzone e persino un gatto… dopo

erano contenti! Uno diceva: non è vero… quel Tommaso che

rompe i coglioni… ahhh e tutti dicevano: bravo Palestina,

capo dei giochi. E adesso sono di nuovo solo come prima…

che tutti gli amici son scappati… ehhh... Ho un dolore

Padre… un dolore tremendo! (Grandi singhiozzi tra terribili

sospiri).

– Oh, hai proprio ragione. Devo ammettere che distruggere

giochi gentili come sogni… sfasciare giocarelli impastati

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con fantasia è proprio il peggiore di tutti i peccati. Ma cerca

di capire e fattene una ragione, quello è piccolo, non capisce.

– No, no… capisce, capisce! Quello è cattivo del suo, di

natura. È grave pericolo lasciarlo diventare grande!

– Va bene, diamogli un castigo. Che castigo vuoi gli dia?

(Nell’atteggiamento del bambino soddisfatto che cerca di

formulare una sentenza strepitosa) – Ammazzalo!

(Silenzio: s’immagina un Padreterno sconvolto) – Ah…

cominciamo bene! T’ho mandato giù dal cielo in terra per

insegnare la pace fra gli uomini… parlar d’amore alla gente

che di norma si bastona senza ragione… così che appresso i

buoni cristiani si riconosceranno per il fatto che se uno gli

ammolla un ceffone, quello subito volta la faccia per

accattarsene un altro... e così si danno schiaffoni da mattina

a sera e sono contenti come un dio celeste! Tutto va “a

magnificat” e zom! Arrivi tu e al primo inciampo:

ammazzalo! Non ti vergogni?!

– Eh, ma quello è stato cattivo… m’ha dato un dolore!…

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– Ma perché chiami me per dar castighi? Sei Dio anche tu…

piccolo, un Diottino, ma Dio. Perché mi vuoi tirare di mezzo

in questo giudizio? Ah… l’ho capita bene io la ragione!

Vuoi portare me a far sentenza così che la gente dica: il

Padre è cattivo, ma il Figlio è buono! No, te la sbrogli da te

la tua questione e non venirmi a chiamare più per delle

frescate [fesserie], che ho ben altro da fare!

braaammm! Tutte le nuvole si raccolgono in un gran nembo

[gran nube bassa], tutto il cielo diventa chiaro, il bambino,

figlio del padrone ride di nuovo e anche gli sbirri

sghignazzano da pisciarsi addosso.

Il Figlio di Dio s’avvicina al padroncino e gli dice: – Ridi tu

eh? Perché sei tranquillo che nessuno ti possa castigare,

eh?… (Cambia tono) E se adesso arriva uno e ti castiga?...

– Chi sarebbe quello?

– Io per esempio!… Sono troppo piccolo? Non ho

abbastanza forza per darti una castigata? Ah sì? E se io ti

fulmino?… Ah... non ci credi, eh?

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bruammmm! Dagli occhi gli sorte un lampo di fuoco che

investe il piccolo figlio del padrone e lo scaraventa in aria:

vum! Scoppia un fuoco a gran calore… il bambino si

trasforma in un pupazzetto di terra che cuoce dentro una

fornace rovente... rosso, giallo, arancio. Un bambino di terra

fumante!

Gli sbirri: – Ahaaa! Il figlio del diavolo! – Via che scappano.

Tutte le donne spalancano le finestre: – Lo stregone!, figlio

del diavolo! – E serrano tutti gli scuri.

La Madonna che sta al lavatoio a risciacquare i panni, sente

gridare: – Ah stregoneria!…

Va correndo… giunge alla corte: – Jesus, figliolo caro, cos’è

capitato? Perché la gente grida a tutta voce?

– Non so io. Eravamo qui che si giocava... Guarda mamma,

ho fatto il mio primo miracolo… è ancora caldo!

– Un bambino di terra?! L’hai fatto tu?

– No, no, è lui giusto com’è nato… Era cattivo, m’ha fatto

offesa carogna… Dopo che m’ha sfasciato tutti i giochi l’ho

fatto di terra… una froppata di fuoco: bruciato! Terracotta!

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– Cosa?! Ma non ti vergogni? Dio che crudele che sei! Pensa

cosa capiterà a sua madre quando le porteranno ’sto bambino

di terracotta sulle ginocchia… le lacrime di sangue che le

sortiranno… e le diranno: “È stato il Figlio di Dio, il

Palestina…” Cominci bene! (Perentoria) Resuscitalo!

– No!

– Resuscitalo subito!

– Ecco… non si può fare una roba, che subito devo disfarla!

E poi non sono capace... io ho imparato soltanto a

fulminare... non son ancora capace di resuscitare, mamma!

– Non dir bugie. Fallo per me... per i miei occhi, per ’sto

dolore che mi scanna il cuore… (Implorante) Abbi pietà!

– Mamma non piangere... basta versare lacrime. Lo

resuscito... ma con una pedata! – (Mima di sferrare una

terribile pedata al bambino disteso a terra) pam! Una pedata

al bambino figlio del padrone che si ritrova dritto in piedi...

si sgretola tutta la terra, il sangue ritorna a scorrere nelle sue

vene… respira, respira, è vivo… gli occhi si aprono vispi…

si porta una mano alle chiappe. – Tranquillo… sei vivo!

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(Attonito nel risveglio) – Cos’è capitato?!

– Ti avevo fulminato... e poi... Ringrazia la Madonna! Senti

dolore alle chiappe, eh? Infine devi apprendere che non è

sempre con la prepotenza che si guadagna nella vita... perché

viene il giorno che t’arriva un meschino straccione che ti

castiga a pedate nel culo, per tutti gli altri!

Di botto l’aria si fa limpida e chiara.

Le madri ritornano a spuntare dalle finestre spalancate.

Tutti guardano là in fondo al vialone da dove giunge uno

strambo gridare.

Si scorge, piccolo, un negro che è su un cammello grigio e

dietro c’è un bianco vecchio che dà di sprone a un cavallo

nero. Uno canta e l’altro grida: – Oh che bel che bel che

bello che è andare sul cammello che bel che bello!

– Bastaaa!

– Oh che bel che bel che bel...

– Basta!

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Il duetto ritmato monta di tono, poi si allontana sino a

sparire.

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I GRAMMELOT

GRAMMELOT “LA FAME DELLO ZANNI”

PROLOGO

Prima di proseguire con le giullarate dei misteri medievali,

permettetemi di eseguire un salto in avanti nel tempo e

raggiungere il nostro Rinascimento. Questo allo scopo di

presentarvi il grammelot, cioè il linguaggio del tutto teatrale

inventato dai Comici dell’Arte. All’origine, fino a quasi tutto

il Quattrocento, le compagnie di teatro erano composte da

attori occasionali e dilettanti. Ma a cominciare dalla

compagnia diretta da Angelo Beolco detto Ruzzante – nel

primo quarto del Cinquecento – gli attori cominciarono a

riunirsi in gruppi consociati con tanto di statuto e contratto.

Rapidamente si formarono decine di compagnie regolari e di

teatranti professionisti a Napoli come in Sicilia, a Roma e in

tutto il resto d’Italia. Senz’altro il Veneto con a capo

Venezia vide il formarsi di gruppi teatrali la cui fama

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raggiunse ben presto Parigi, Madrid, Londra fino a Mosca e

San Pietroburgo. Quando poi nella seconda metà del

Cinquecento esplose la Controriforma, l’attacco condotto

dalla Chiesa verso gli intellettuali liberi colpí duramente

anche le compagnie di attori associati, cioè i teatranti della

Commedia dell’Arte che spesso godevano della protezione

politica e finanziaria dei principi nelle città dove aveva sede

d’origine la loro compagnia. Quei commedianti vennero

costretti a una vera e propria diaspora. Furono centinaia le

compagnie che dovettero emigrare in tutti i paesi d’Europa:

Spagna, Germania, Inghilterra. La maggior quantità di quei

teatranti si stabilí nella Francia.

È ovvio che la maggior difficoltà era quella di farsi intendere

dagli abitanti di quei paesi che non conoscevano la nostra

lingua. È vero che i Comici dell’Arte possedevano

insuperabili doti di gestualità ed erano veri maestri della

pantomima, ma dovettero creare qualche cosa che

permettesse loro di esprimere piú profondamente il discorso

del gioco satirico e tragico che andavano proponendo.

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Cominciarono con l’impiegare un linguaggio che potremmo

definire pseudo-maccheronico, cioè composto da sproloqui,

apparentemente senza senso compiuto, infarciti di termini

della lingua locale pronunciati con sonorità e timbri

italianeschi. Via via si perfezionarono fino a impiegare, oltre

a una straordinaria gestualità, suoni onomatopeici che

realizzavano l’immagine delle azioni o stati d’animo a cui si

voleva alludere.

Questo gioco imponeva agli spettatori l’impiego di una certa

dose di fantasia e immaginazione che produceva loro

l’insostituibile piacere dello scoprirsi intelligenti.

In Francia le compagnie dei “Gelosi” e dei “Raccolti” furono

tra le prime a sviluppare questo genere di rappresentazione.

Ma ancor prima della “cacciata” quei comici si erano già

esercitati nel loro paese nel gioco di reinventare “idiomi

foresti”.

Il grammelot piú antico è senz’altro quello dello Zanni. Lo

Zanni è il prototipo di tutte le maschere della Commedia

dell’Arte, padre di Arlecchino, Brighella, Stenterello,

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Sganarello ecc… però, a differenza di quasi tutte le

maschere che hanno nomi e comportamenti inventati, questo

ha un’origine reale.

Zanni era il soprannome che fin dal xv secolo i Veneziani

davano ai contadini provenienti da tutta la Lombardia, il

Piemonte e le province del Garda e dell’Adda. In particolare

i villani di Brescia e Bergamo venivano chiamati “Giani” o

“Joani”. Questi antenati dello Zanni assursero all’attenzione

della cronaca in conseguenza dell’esplosione di un

fenomeno straordinario che si sviluppa in quel periodo: la

nascita del capitalismo moderno. Pochi lo sanno, ma il

capitalismo moderno è nato in Italia. Quando insieme a

Franca si recitava negli Stati Uniti, da Boston a New York

fino a Washington, ogni sera provavo un senso di incredibile

orgoglio nello svelare agli spettatori americani che banche,

carte di credito, cambiali sono tutte nostre invenzioni, cioè

della nostra borghesia mercantile del Cinquecento.

Il nuovo capitalismo viveva soprattutto sul movimento di

denari legati alle guerre di conquista coloniale; i banchieri

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erano cosí importanti che si potevano permettere di donare le

proprie figlie in spose a re di tutta Europa, come successe

alle figlie dei de’ Medici di Firenze. Senza l’apporto

determinante delle banche italiane, in particolare di quelle

fiorentine, l’America non sarebbe stata scoperta o almeno

sarebbe stata scoperta piú tardi.

Il nuovo continente non ha il nome di Colombo suo

scopritore, ma di Amerigo – Amerigo Vespucci – capitano,

figlio di banchieri e banchiere egli stesso. È sintomatico che

“America” abbia origine proprio dal nome di un banchiere.

A cavallo della Controriforma Venezia gode di uno

straordinario sviluppo: le terre conquistate o acquistate

grazie all’apporto delle banche in tutto il Mediterraneo

fruttano ricchezza sia in denaro che in derrate alimentari,

derrate che invadono i mercati della nostra penisola

causando grandi sconquassi. Infatti il prezzo delle merci

offerte era talmente basso che i contadini non riuscivano piú

a vendere i propri prodotti. Cosí questi Zanni disperati

abbandonarono le loro terre e si riversarono nelle città e nei

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porti piú ricchi del Nord, in particolare a Venezia. In

grandissimo numero gli Zanni scesero a Venezia con le loro

donne a cercare lavoro; accettarono i lavori piú bassi dallo

svuotare latrine al facchinaggio al porto, si adattarono al

ruolo di sottoservi, quasi schiavi. Le loro donne, oltre che

ricoprire il ruolo di serve e sguattere, si dedicarono alla

prostituzione. Il numero delle prostitute in quel tempo, a

Venezia, cresceva a vista d’occhio tanto che

l’amministrazione della repubblica cominciò a preoccuparsi

seriamente e indisse un’inchiesta.

È quasi automatico: ancora oggi il governo, quando

esplodono calamità che turbano l’opinione pubblica,

immediatamente indice un’inchiesta… Poi non se ne fa piú

niente, ma l’importante è di aver dimostrato buona volontà.

In seguito a quest’inchiesta, la Repubblica di Venezia scoprí

che la bellezza dell’undici per cento dell’intera popolazione

era dedita alla prostituzione. Detto cosí non fa neanche tanta

impressione, infatti nessuno di loro ha accusato sorpresa o

brivido… anch’io, come ho letto questa notizia su un testo di

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storia, non mi sono impressionato piú di tanto: 11 per cento

è una quantità abbastanza accettabile, ma bisogna saperle

leggere le inchieste analizzate correttamente spesso infatti

riservano sorprese terrificanti. Proviamo infatti a rileggere

insieme questa percentuale. Cosa vuol dire 11 per cento

dell’intera popolazione? Dunque in quel tempo la

popolazione era salita a 160000 abitanti… quindi

cominciamo col dividerla in due parti, ottantamila maschi

mettiamoli da un lato… si prostituivano anche loro, ma in

modo del tutto particolare; poi abbiamo ottantamila

femmine, da cui bisogna togliere le anziane, le donne

vecchie, ma proprio quelle decrepite perché non appena

stavano in piedi: un po’ di rossetto, due cuscini a far da tette

qui… e via che funzionavano che è un piacere! Poi togliamo

le bambine, quelle col moccio ma, come rimanevano in piedi

da sole, andavano bene anche loro. Poi abbiamo le suore, le

religiose… per favore, mettiamole da parte senza far ironia o

sarcasmo, non è proprio il caso! Infine abbiamo le ricche, le

aristocratiche, le nobili che si prostituivano anche loro, ma…

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a prezzi inaccessibili. Ebbene, il restante numero delle

femmine corrisponde proprio all’undici per cento dell’intera

popolazione. Tutte!!

Una delle situazioni tragiche che hanno portato allo

splendore il capitalismo moderno sono sempre state le crisi.

Il fenomeno aumentava le differenziazioni che già

esistevano, gente che navigava nella ricchezza e gente

ridotta alla fame. “La fame dello Zanni” è il titolo di questo

brano e il personaggio che io vi presento è uno Zanni, un

facchino delle valli di Bergamo e Brescia senza lavoro che

da giorni non tocca cibo.

Il comico che per primo s’è cimentato nel rifare il verso allo

Zanni disperato per la fame non era certo in grado di

esprimersi nell’autentico volgare della bergamasca: una vera

e propria scarica di suoni gutturali con aspirate e grugniti.

Né tanto meno lo avrebbe potuto comprendere il pubblico

che assisteva alla sua esibizione.

Perciò il comico doveva inventarsi uno sproloquio che

potesse ricordare il linguaggio dell’alta valle lombarda. Ora

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mi vado a esibire in questo grammelot. Ogni tanto

indovinerete espressioni del dialetto padano con sciabolate

di provenzale, catalano e, tanto per gradire, qualche termine

napoletano. Non preoccupatevi se all’inizio non vi riuscirà

di afferrare tutto il discorso. Vedrete, miracolo!, che dopo un

po’, con meraviglia, riuscirete a intuire tutto… anche quello

che io non pensavo di dovervi dire.

LA FAME DELLO ZANNI.

(Lo Zanni barcolla, si muove come un ubriaco. Le

espressioni in carattere maiuscoletto sono tutte invenzioni

onomatopeiche) greulot, nachí stulò me tengo ’na fame, ’na

sgandúla che pe’ la desperasiún u zervèl me stròpia a sgròll.

Deo che fàme! Gh’ho ’na fame che me magnaría anca un

ögio (mima di cavarsi un occhio) e me lo ciuciaría ’me

’n’òvo. (Succhia l’immaginario uovo) Un’örégia me

strancaría! (Fa il gesto di strapparsi un orecchio) Tüti e dòi

l’öregi (esegue e li mastica con avidità) ol naso cavaría.

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(Esegue) Oh, che fame tégno! Che me enfrocaría ’na man

dinta la bóca, ziò in tòl gargaròz fino al stómego e caò in

pratosciò guiu (mima tutta l’azione) e stroncaría da po’ le

büdèle, tüte le tripe a stroslon fragnao (mima di cavarsi le

budella tirandole fuori attraverso la gola, quindi le arrotola

sul braccio) stropian cordame – srutolon. (Finge di strizzarle

per ripulirle dalle feci. Scuote la mano nel gesto di liberarsi

da tanta zozzeria) Merda! Deo quanta merda de repién!

(Soffia come in un lungo tubo e ne ottiene un pernacchio dai

timbri grevi e profondi con contrappunto di falsetti scurrili)

fruuoooh… sproh… fesciouaaah… trifihiee! (Scuote

l’immaginaria budella, come fosse una canna di gomma,

quindi inizia a masticarla e ingoiarla come fosse una

interminabile salsiccia. Mastica e commenta felice) sgnagui

que brossolo smagnasent lüganegosa… gne, gna gnitraguí.

(Rutto finale emesso con soddisfazione. Si accarezza il

ventre salendo fino alla gola. Deluso e disperato) Ohi, la

fame che tégno! Me magnarèsse i monti, le valàde, le nívule.

(Punta lo sguardo in alto lontano) E bon par ti, Deo, ch’et sit

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lontàn! At magnaría tüto ol treàngolo in sü la crapa, i

cherubèn d’entórno. (Pausa, poi ridendo crudele) At gh’hai

pagüra, ah?! (Si rivolge al pubblico come scorgendolo solo

in quell’istante) Ohi, quanta bèla zénte!… smonluat

specandot… me voraría sciernír i pí tenerín e pœ ciuciàrmei

fin a i òsi.

Deo che fam! straguonante! (Barcolla) Mòro! Sento

strabocàrse le büdèla che sbate come campane en drofegnam

direndon direndooola. (Muove fianchi a sbattere e fa

oscillare il ventre. All’istante si blocca e si guarda intorno

sorpreso) En do son mi? Còssa che m’è capitò? Una

cusína?! Son deréntro a ’na cusína imbostonàda de stuvíe,

padèle, pentolón e marmíte… ohi!, gh’è anca roba da

cusinàre! Presto (quasi dandosi ordini) cata ’sta marmìta-

paiolón, piàsalo sul fœgo strabuscént che svúrgula. Àgua!

(Mima di afferrare un bacile e rovescia acqua nel paiolo sul

fuoco. Agita un gran ventaglio per ravvivare le fiamme)

Fœgo, fœgo… bòja! De tüti i diàvuli, sprugít fiàme

d’enfèrno… büje! blic bloc blic. Sale! ’Na bèla salàda grosa

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(esegue), la canèla. (Mima di afferrare un bastone da polenta

e con quello agita l’acqua) Vaí! Sbordéla, che mó te dago de

grignire. (Fa il gesto di afferrare un sacco e lo solleva)

Pulénta… oh, santa pulénta, mais spulentàt. (Rovescia il

contenuto del sacco nel paiolo. Nello sbattere il sacco,

questo gli cade nella gran pentola) Ohi demòni! Me

tromborlà ol saco in tèl bujón! (Afferra il bastone e con

quello tenta di ripescare il sacco. Non ci riesce) Maladícto

sacón, végne fœra! Sòrte! No’ ti vòl sortír? Bòn, búje

puranco, bestia! Te magno anca ti. (Rapidissimo abbandona

il bastone e afferra un mazzo di rami secchi, li immerge nel

fuoco, li ritira incendiati e li infila in un immaginario camino

alla sua sinistra) Fœgo, fœgo… (Sempre dandosi ordini) ’Na

padèla basa par ol sofrìto su ’sto fiametón incaloràdo…

(Agita la padella e vi rovescia qualcosa) Œli, sóngia, bütíro.

(Mima di aggiungere i sapori) Ali, scigöla, rosmarí… sbati,

salta. (Abbranca la padella e con grande abilità fa saltare il

soffritto, afferra qualcosa da un ipotetico tavolo) Càrna!

Carnàsa santa morbedósa… (afferra un coltellaccio) a tòchi!

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(Mima di calare fendenti rapidi sul pezzo di manzo. Ritrae

veloce la mano che tiene la carne e la osserva preoccupato)

Bòja! Per ’na sfírzola no’ me tajàvo un dido… L’üngia: me

son tajà giòsto l’üngia! (Raccoglie i tocchi di carne e li

scaraventa nella padella. Quindi la solleva facendo volare la

carne per poi riprenderla da gran giocoliere) Diaol inzopà!

Me burlà tüto! (Si china, raccoglie i tocchi di carne da terra e

li ributta nella padella) Vino! (Mima di afferrare una piccola

damigiana e versa il vino nella padella, si ritrae come

aggredito da una fiammata di vapore. Quindi annusa) Che

parfümo! Bòn, bòn che aprèso te magno! (Si ricorda

all’istante della polenta. Afferra il bastone e lo rigira dentro

la marmitta) Zira, sgorlàssa pajón brucugnànt! (Si rigetta

sulla padella e la agita mentre con l’altra mano rigira la

polenta. Sculetta con natiche e ventre per darsi il tempo)

strúja, sbàcchia, smena svalugné scorievò. (Come ispirato,

lascia ogni cosa per spostarsi alla sua destra dove mima di

attizzare un altro fuoco. Ci pone sopra una pentola e

rapidissimo versa strutto e altri ingredienti per prepararsi

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un’altra pietanza gustosa) Gràsa de purzèl, bògna de stüsa,

arborí canèla… (Vi getta velocemente ogni ingrediente come

in un rito religioso. Mima di rincorrere un pollo) Pulàstru

végne chi-ló… che t’ha scüèli. (Allunga il braccio e con

velocità da gatto afferra il pollo e gli torce il collo. Emette

grida disperate da pennuto scannato) caiecooo sgriee

iocchireche… tock! (Si osserva la mano destra dopo uno

scatto repentino) S’è stacà: gh’ho strampà nèto la crapa! (Si

porta l’immaginaria testa del pollo alla bocca e in un sol

boccone la divora) Bòn! (Getta il pollo nella pentola e la

solleva con scatti da maestro cuoco. Uno sguardo rapido

all’altra padella dove sta cuocendo la carne. Allunga un

braccio, afferra il manico della padella e ne fa saltare il

contenuto. Agisce in contrappunto anche con l’altra mano.

Girando netto sul dorso, afferra il bastone e rimesta la

polenta, ma le pentole sono tre e lo Zanni può agire solo con

due mani. Quindi spregiudicato, come fosse prassi normale,

si infila il bastone fra le natiche e agitando le medesime

continua a far saltare padella e pentola eseguendo una danza

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davvero spassosa) stralup pelosoo vuoi, vuoi, balengo

patrafé spigní, vuoi, vuoi! (Con scatti rapidi abbandona

quella danza, afferra la padella del primo fuoco e rovescia il

manzo stracotto dentro il paiolo della polenta, vi infila il

bastone e rimesta con forza, gridando) ah, pulentún, carnàssa

svergula impastò! (Quasi come indemoniato si avventa

sull’altra pentola) Polàstro, a végni… te magni straculò!

(Afferra con le mani il pollo, ma si scotta) Ohi, che

brusatàda! La furzína sgnack. (Infilza il pollo con un

forchettone. Quindi afferra un coltellaccio e mena fendenti

verticali sul pollo) A tòchi te fago polún anca a ti… strac

strazac! Bòja ol dido, me son tajàt ol dido! (Mima di

raccogliere il pezzo di dito che è rotolato a terra. Lo avvicina

al tronco mozzo piagnucolando) Ol me dido, poarèto

destacà! No’ gh’ho pí el dido. (Lo osserva, lo solleva

avvicinandolo al viso quindi, voracissimo, se lo mangia)

Bòn! (Versa anche i pezzi di pollo nella marmitta della

polenta, infila il bastone e lo agita sbattendo il pastone

succulento. Afferra i manici del gran paiolo, pianta bene i

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piedi a terra, lo solleva e inarcando le reni e spingendo il

ventre in avanti, porta alla bocca il marmittone. Emettendo

gemiti di piacere, si ingoia tutto il pastone fumante. Posa a

terra il paiolo svuotato a mezzo, afferra il bastone e lo passa

sui bordi della marmitta per raccogliere il restante

papocchio. Si porta alla bocca il bastone a mo’ di mestolo

una, due, tre volte ripulendolo bene dal cibo; alla fine per

l’ingordigia di mangiarsi sino all’ultima briciola che sta sul

bastone finisce con l’infilarselo tutto in gola. Lo Zanni resta

per un attimo impalato con gli occhi sbarrati. Si agita, dà

botte a scatto col ventre, il petto e le natiche finché

finalmente riesce a fare a pezzi il palo ingoiato, digerendolo

con gran rutto finale. Perplesso si porta le mani alla bocca ed

esclama) Pardon! (Una lieve pausa. Lo Zanni lentamente si

risveglia. Si guarda attorno stralunato, si palpa il ventre).

L’è staíto un insognamento… (Lamentoso, addolorato) Tüto

sojamente un suégno. No’ è vera, no’ gh’ho magnào… (si

guarda la mano) nemanco ol me dido m’e magnò! (Piange)

stuveico smalarbeto vignon! Imparchè m’è faíti ’sti

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schersamenti de bofonería. (Piange ed emette un lamento

quasi infantile) ehiee, ohieee. (Il lamento si trasforma nel

ronzio acuto di un moscone) vuheee vuhiii. (Lo Zanni lo

segue con lo sguardo mentre l’insetto fastidioso gli vola

d’appresso. Il moscone compie evoluzioni beffarde intorno

al suo naso, poi allarga i giri e se ne va. L’insetto sembra

sparito, ma ritorna piú insolente che mai e va a posarsi sul

naso dello Zanni che resta bloccato con gli occhi che si

incrociano sulla sua canappia. Le dita di una sua mano

s’arrampicano lentamente lungo il collo mentre quelle

dell’altra scendono dalla nuca. Cercano di circondare il

moscone, impedendogli ogni via di fuga: veloce la mano che

sta sulla fronte scatta e afferra l’insetto infame. Sprizzando

gioia inaudita lo Zanni urla) L’ho catào! L’ho catào! (Sbircia

fra le dita serrate ed esclama radioso) Bello! (Torna a

sbirciare, quindi al pubblico) Grosso, grasso! (Infila due dita

della mano libera fra quelle dell’altra chiusa a trappola.

Mima di estrarre, stretto fra due dita, il moscone. Lo mostra

al pubblico con gesto trionfante) Va’ che bestia! (Stupefatto)

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Che animàl! (Gli stacca una zampina e la mostra) Un

parsiütto! Va che giambón sbrigulànte! (L’azzanna, mastica

vorace e ingoia goloso mugolando per il piacere. Quindi

afferra l’altra zampetta e la descrive) Ohi questa che

grassonàssa! Straprosiütto d’un gambetón! (Lo sbrana con

sospiri e deglutisce ispirato. Considera la carcassa

dell’insetto ed esclama) Oh, le alíne… béle… quatro alíne!

(Le stacca delicato e le inghiotte rapido. Assapora) Bòne…

dolze! E gh’è dei disgrasió che i büta via! (Osserva ispirato

quel che rimane dell’insetto) Che petorón: questo me lo

magno tüto entrégo! (Mima di afferrare da una saccoccia una

piccola saliera. La scuote come per cospargere il succulento

boccone di sale. Quindi lo porta alla bocca, lo ingoia, lo

mastica lento come per goderne lo straordinario sapore.

Mugola a ogni masticata ed emette un grido quasi a imitare

un orgasmo da infarto. Deglutisce, con un gran sospiro si

batte una gran manata sul petto e trionfante se ne va

esclamando) Che magnàda!

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GRAMMELOT DI SCAPINO

PROLOGO

Si conoscono anche frammenti di imitazioni satiriche di altre

lingue: grammelot in spagnolo, in arabo, in inglese e

naturalmente in francese. Come abbiamo già accennato la

Francia, in particolare Parigi, era diventata la seconda patria

dei comici italiani che avevano ottenuto addirittura il

privilegio di poter @recitare in un teatro della corte reale.

Anche il più grande autore e attore del teatro francese,

Molière, usava il grammelot (vedi Il Medico per forza e Il

Medico volante) e in alcuni casi se ne serve per ‘escamotare’

la censura.

Molière, formatosi sul modello dei comici dell’arte, voi

sapete, è sicuramente il più grande autore della Francia, uno

dei più geniali commedianti di tutti i tempi, e godeva

dell’appoggio straordinario di Luigi XIV, cioè a dire del Re

Sole in persona, che lo sosteneva proteggendolo contro gli

attacchi di vescovi bigotti e cortigiani reazionari, ma appena

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il re si spostava dalla corte di Parigi ed era costretto in certi

casi a uscire dai confini del suo Paese per risolvere questioni

politiche e spesso militari, ecco che Molière si trovava

spiazzato e alla mercé di tutti quei nobili e potenti, che

bloccavano le sue rappresentazioni e minacciavano lui e la

sua Compagnia di mandarli sotto processo o addirittura di

eliminarli fisicamente.

Nel brano che ora vado a presentarvi e che proviene da

canovacci della Commedia dell’Arte si ritrovano due

prototipi che sono all’origine di due famosi fatti teatrali. Sto

parlando del Tartufo e del Don Giovanni.

Sinteticamente, questa è la storia di un giovane ricco, figlio

di banchieri, rimasto orfano all’improvviso del padre, uomo

potente, grande finanziere e politico scaltro e spregiudicato.

La chiave scenica prende avvio dal momento in cui il

giovane rimane solo a dover gestire l’immenso potere che ha

ereditato. Purtroppo si è finora completamente disinteressato

del mondo degli affari e della politica: non ne conosce né il

gioco, né le regole. A questo punto, entra in scena Scapino,

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vecchio servo, il classico primo Zanni della Commedia

dell’Arte, sapiente e scaltro: sarà lui il precettore del giovane

signore.

Inizia così la lezione: Scapino, esprimendosi in grammelot,

detta le prime regole fondamentali del comportamento, a

cominciare dal modo in cui un vero signore debba

addobbarsi, esibire un’appropriata gestualità, camminare,

usare toni vocali ed espressioni corporee.

Descrive le normali parrucche che i nobili sono soliti calzare

in quel tempo (siamo nel Seicento): erano veri e propri

ammassi rotoluti di capelli con ghirigori, annodamenti

riccioluti. Esiste il ritratto di un nobile del tempo esposto al

Louvre: possiamo ammirare la parrucca del signore che

fuoriesce addirittura dalla cornice: infatti ai due lati sono

poste tele di minor dimensione che raccolgono il resto dei

riccioli strabordanti.

Infine Scapino invita il giovane apprendista a gettare la

propria parrucca alle ortiche e ad annodarsi i suoi veri

capelli sulla nuca. Quindi descrive l’enorme mantello che i

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nobili sono usi trascinarsi appesi alle spalle con gran fatica e

avverte il giovane del tragico pericolo che quel mantello

rappresenti in caso di vento, vento che a Parigi, specie in

primavera, soffia con violenza inaudita, gonfiando le cappe

dei ricchi nobili banchieri e politicanti sollevandoli in aria

fra le grida degli astanti. (Lieve pausa). E molti di questi

banchieri politici non son più tornati… li stanno aspettando

ancora. Penso che questa moda del grande mantello

dovrebbe essere assolutamente ripristinata nell’attuale

mondo della politica e degli affari!

Eccovi quindi il testo e l’azione del grammelot francese di

Scapino.

GRAMMELOT DI SCAPINO.

(Come nel precedente brano le parole in carattere

maiuscoletto sono invenzioni onomatopeiche).

greton seu flaran estell brié a sa piserre mitand leo faià

pigné…

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Fate attenzione, non c’è una sola parola che significhi

qualcosa. Questa è appunto la regola dell’autentico

grammelot! Al massimo è concesso di pronunciare termini

che alludano a oggetti o persone, non di più.

Vi voglio ricordare a tal proposito il mio debutto in Francia

con questo monologo: è avvenuto circa venticinque anni fa.

Ero stato invitato a recitare alla Salle Guèmier*, uno dei più

prestigiosi teatri di Parigi. Avevo deciso di aprire la mia

esibizione proprio con il “Grammelot di Scapino”. Mi ero

detto con una certa presunzione: “Se ha funzionato cinque

secoli fa con i Comici dell’Arte, funzionerà anche con me!”

Appena mi son trovato sul palcoscenico, sbirciando in

platea, ho riconosciuto nelle prime file alcuni volti di uomini

e donne famose: c’era Sartre con la Bouvoir, Leger, Pivar,

Hostionsky, Matieux, e il direttore del T.N.P. nonché una

caterva di attori, attrici e registi del Teatre du Soleil e della

Comédie Française. M’è preso un colpo! Anzi, il classico

crack del commediante: all’istante mi è sparita tutta la saliva

dalla bocca, mi son sentito arrivare sangue gelato sul cranio

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e le ginocchia hanno cominciato a franare… colpo di reni

e… “Vai che sei solo!” Ho presentato a gran velocità,

parlando un francese approssimativo, ambiente e situazione

del grammelot in questione e dopo una breve camminata da

Zanni disarticolato, fingendo di rivolgermi al giovin signore,

mio allievo, ho iniziato il monologo. Agitando le braccia e le

mani, descrivevo la parrucca e i boccoli fluttuanti. Per

encelle stillocà o bignar et fliseuax… plignorelle catifur à

bisses criar et plan de sofise pistognar du palaux! Gli

spettatori, quella gran massa di eruditi, eccelsi intellettuali e

geni del colore e del palcoscenico, mi stavano tutti

guardando attoniti con gli occhi sbarrati: non un sospiro, non

un sorriso… completamente pietrificati. All’istante qualcuno

ha esclamato ad alta voce: “Splendido questo francese del

Cinquecento!” È scoppiato un grande applauso con risata.

Ero salvo! Ma proseguiamo col nostro Scapino. (Descrive

mimicamente il turbinio dei riccioli che gli si arrampicano

letteralmente sul viso, graffiandogli il naso e gli occhi fino a

rinchiudersi in una morsa che lo soffoca) pituan, rigeull

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smalifuor, spt trapit pirtap… (Sputa, ansima, smoccola. Si

strappa la parrucca dal capo e dal viso. La getta via urlando)

Pas de parruques, sa suffi avec ce sgruscinar peteaux! Ce

suffi de lie le chevaux sur la nüc… (Mima l’azione di

raccogliersi i capelli e annodarseli dietro il capo. Quindi

accenna un procedere tronfio) Promenade a la spilusce,

grabbié slotent prevoire. (Scivola leggiadro sui piedi e

articola le ginocchia con fremiti e scatti repentini. S’arresta e

si rivolge al pubblico) Questa è la camminata imposta

dall’eccessivo “decore” di gran moda in quel tempo:

merletti, fronzoli e dantelle. Ricorderete senz’altro il

costume del Re Sole: un lungo sbuffo sulle maniche, trine

finemente ricamate sul petto e intorno al collo montanti fino

alle orecchie e dietro la nuca… un prurito da impazzire! Il

che causava il classico scatto di testa del sovrano del tutto

simile alla sbirellata di collo di uno stallone. E ancora trine e

dantelle che fuoriescono da sotto la camicia e riprendono a

metà delle brache per rispuntare fra le calze a fondo gamba.

Insomma, un’invasione di merletti torti e ritorti… la qual

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cosa causa immancabilmente seri drammi ai nobili

soprattutto quando necessitano di evacuare, pardon… fare

pipì. Eccoli rovistare disperati fra le brache alla ricerca del

mezzo conduttore del liquido urico, ma ahimè, riesce a

espellere dal pertugio pantalonico solo trine, nastri e

merletti! Alla fine disperato, si abbandona alla piacevole

sensazione di farsela addosso, quasi godendo estatico

dell’intima sgocciolata… ma sempre con inimitabile dignità!

Quindi eccolo muoversi nella camminata tronfia che

accennavo all’inizio… (Esegue la camminata con scivolata e

fremito ad ogni passo e frulla il piede onde far sgocciolare il

caldo liquido sciacquoso) Oh, le plaisir spetuiant chez ris

pilé svilor! (Cambia repentinamente tono: minaccioso. Mima

di estrarre una spada e di sfidare a duello un rivale) A vous,

mesieu scarisce tuiar, mentenon je scarelle carneux et

priquet! (Esegue un affondo e ritira la lama, la netta con le

dita, quindi se la porta alle labbra e assaggia il sangue del

nemico) Pas mal! (All’istante si sdoppia e torna nel ruolo di

Scapino maestro) No, c’est empossible ce creant bissot. Sa

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souffit! Pas de violence! (Pausa). Direct! Il faut aller

doucemente avec allure gentille… c’est qui sont ces ioe

ouvert urrible e ce crier befard de belve ropignant?

(Riproduce l’espressione di un despota orribile, prepotente e

sanguinario che sgrana gli occhi, gonfia il petto e gesticola

aggressivo) No, no, ce n’est pas possible! Il faut être

humain, civil, delicat! Les iet il faut les ceré petite de

miop… (riproduce lo sguardo di un Pantalone decrepito,

quasi cieco. Curva la schiena e avanza strascicando i piedi)

petit glissant pur tigneur pantouflé. (Fa immaginare

l’incontro con un gruppo di bambini. Li accarezza, li solleva

fra le braccia, li sbaciucchia) Oh petites… les enfants, oh

j’aime les petites enfantes… J’aime les greneulle, les jolies

jambons! (Mima di distribuire del denaro) Prenez-vous

l’argent, l’argent pour chacun de vous! (Poi ci ripensa si

guarda intorno e aggredendo i piccoli si riprende ogni

moneta) C’est a moi l’argent! Pas des cadeux a les pissars!

(Esegue una giravolta su se stesso mimando di sbattere in

aria un enorme mantello alla maniera di un torero) Manteau,

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oh l’enorme manteau! (Con un gran gesto si avvolge nel

mantello e ci si trova prigioniero. Mima di recidere, dal di

dentro, il mantello con un pugnale) Ah, ce orrible paniscu

que me garotte a la gorge! (Si sistema l’immaginario

mantello sulle spalle e cammina con fatica trascinando il

drappo che scende fino ai piedi) Le vent mon Dieu, le vente

qui pusse tempête sgragnant i prufisaaaar betieux! (Imita il

soffiare acuto del vento e allargando le braccia allude al

mantello rigonfio che lo trascina nell’aria) Aideme moi! Je

suis en traint de prend le vole, trivall auheammm… quelq’un

che m’aide, aide moi! (Mima l’allontanarsi del nobile come

appeso a una vela) Il monte pregnille ca la fair specot…

quelq’un qui m’aide!… (Fa immaginare il montare nel cielo

del nobile volante. La sua immagine si rimpicciolisce sempre

più fino a scomparire. L’attore emette un grido che si fa

sempre più acuto e sottile. Punta il dito verso l’alto a

indicare e seguire la caduta del nobile appeso al suo

mantello fino all’istante in cui si schianta al suolo)

aiehhiiii!… pof (Pausa). Fotut!

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GRAMMELOT DELL’AVVOCATO INGLESE

PROLOGO

Forse il più famoso grammelot recitato dai Comici dell’Arte

è quello detto “dell’avvocato inglese”. In questo brano viene

satireggiato il mondo dei tribunali e dei processi. Per evitare

guai con la censura, si spostava tutto al di là della Manica,

come facevano i romani con la trovata di far svolgere ogni

loro commedia satirica in Grecia.

Degli avvocati inglesi si diceva che con la loro arguzia e

dialettica erano in grado di cavare dalla forca gli impiccati

già appesi.

In particolare l’avvocato in questione si trova a difendere

uno stupratore incallito, un maniaco erotomane, con la fissa

della violenza carnale. Infatti non è la prima volta che si

ritrova inguaiato sotto l’accusa di violenza alle femmine, ma

fino ad ora se l’è sempre cavata grazie a una legge detta

della regina, legge di cui noi abbiamo già parlato poco fa a

proposito di “Rosa fresca aulentissima”, la giullarata di

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Ciullo d’Alcamo, dove per la prima volta si nomina la

defènsa o difesa, cioè il salvataggio dello stupratore risolto

con il pagamento di una tassa sborsata a gran velocità

all’atto in cui sopraggiungono i parenti o gli amici della

vittima, pagamento effettuato al grido: “Viva lo imperador,

grazie a deo!”

Anche in questo caso, per la legge istituita dalla regina

Elisabetta d’Inghilterra, non appena lo stupratore, sorpreso

in flagrante, aveva sparso il denaro ai piedi della donna, chi

si fosse permesso di torcergli un capello veniva impiccato al

primo albero sulla sinistra o destra… a scelta.

Non è la prima volta che un processo per stupro viene

rappresentato su un palcoscenico. Già nel Quattrocento Jill

Vinçente, un autore portoghese che ha studiato a Roma e qui

ha imparato la tecnica di realizzare satire e farse, tornato al

suo Paese, mise in scena spettacoli satirici che a quel tempo

si chiamavano “moralità”. Questo nome, Jill Vinçente, è

abbastanza difficile da pronunciare. A parte la J iniziale di

Jill, dove bisogna sgarrare con la gola col rischio di far

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sortire un vero e proprio sputacchio che immancabilmente

colpisce lo spettatore della prima fila, la vera difficoltà sta

nel pronunciare il nome di Vinçente (preme sulla ç e t): qui

il suono è prodotto dalla lingua che si fa sortire quasi ad

affacciarsi fra i denti. Quindi, nell’istante in cui si serrano i

denti uno sull’altro, bisogna rapidamente estrarre la lingua

evitando di troncare la punta della stessa che vedremmo

saltellare vispa sulle tavole del palcoscenico. Forse, questa è

la ragione per cui Jill Vinçente è poco conosciuto come

autore.

Jill Vinçente mette in scena un processo intentato contro un

frate accusato d’aver fatto violenza a una giovane contadina,

esuberante, prosperosa, splendida di fattezze. La contadina

stava raccogliendo nel proprio campo le spighe… spigolava

insomma, ripetendo con armonia questo gesto che è classico

della raccolta. (Esegue, inchinandosi fino a terra e

muovendo un passo innanzi a ogni flessione) Il povero frate

che passava di lì leggendo il breviario e ad ogni brano

volgeva gli occhi al cielo a nulla pensando se non ad

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armonie celesti, a un certo punto viene irretito da quella

specie di danza erotica, con i glutei portati al vento in un

evidente ritmo di offerta sessuale.

Ritmo questo, che fa letteralmente impazzire i frati! Tant’è

che il sant’uomo, preso da quelle flessioni, ha cominciato a

sua volta a oscillare e ripiegarsi in basso... in alto... Poi,

travolto dentro quella diabolica danza, si getta arrampante

addosso alla contadina, violentandola... sempre ritmando

ossessivo!

Dunque, il frate è trascinato in tribunale e processato. Al

termine del dibattito, il giudice, un vescovo, ordina che la

contadina sia frustata nuda in mezzo alla piazza e sentenzia

che essa sola debba essere ritenuta colpevole dell’avvenuto

stupro, poiché, con quella sua gestualità provocatoria nel

raccattare spighe, ha indotto il povero frate a farle violenza.

Una sentenza che oggi ci fa solo ridere: siamo ormai lontani

da quell’assurda logica... Mica tanto! Infatti, ancora ai nostri

giorni, davanti a uno stupro si va ripetendo il vecchio

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tormentone che la femmina aggredita, a ben valutare, è

sempre responsabile della violenza che subisce.

Non so se vi rendete conto ma, proprio in questi giorni,

leggendo fatti di cronaca, notiamo una certa recrudescenza

di crimini a sfondo sessuale. Ma quello che più ci stupisce

sono i commenti di molte persone, perfino donne, a questo

proposito. Io ho ascoltato, gente che si dice democratica,

esprimere concetti a dir poco aberranti. Costoro iniziano

quasi sempre così:

“Vi dirò con la massima schiettezza, personalmente, quando

vengo a sapere di gruppi d’energumeni che in quattro,

cinque, sequestrano una povera ragazza indifesa e la

violentano, io scusate, ma sono per la pena di morte. Poi

però ci ripenso, sono democratico quindi dialettico, non mi

posso certo lasciar trascinare da una soluzione di vendetta

definitiva, truculenta! La ragione entra in me, e allora io dico

e ammetto che, anche se senza rendersene conto, certe

ragazze agiscono in modo provocatorio, tanto da indurre il

maschio a produrre gesti violenti!” E poi continuano: “Ci

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sono delle fanciulle che incoscienti escono di casa in

giornate di gran vento, con lunghi capelli sciolti; vento che

sbarlazza ogni cosa, specie le loro chiome, che raggiungono

quasi il fondo schiena, e che quei refoli turbicanti muovono

come bandiere impazzite... e si sa che il capello sbandierato

è un richiamo irresistibile per il maschio!”

Ancora, ci sono ragazze che fanno lo “sbarlùscio” con gli

occhi, cioè, sbatucchiano le palpebre, le ciglia, producendo

anche piccoli lampeggi a fremito. Non c’è uomo al mondo

che non si senta vibrare e trascinare irretito da una simile

magia.

La ragazza per bene quando incontra lo sguardo di un uomo

ecco come si atteggia: occhio sbarrato... sguardo vitreo,

attonito… Questa è l’espressione della ragazza per bene...

con la bocca leggermente aperta, da imbesuita.

Ma il comportamento più provocatorio e incosciente è quello

espresso da certe ragazze, specie dell’ultima generazione.

Ragazze che espongono alcuni loro attributi devastanti con

assoluto candore, senza rendersi conto della pericolosità di

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quella esibizione. In poche parole, queste giovani donne

hanno il seno!... Lo so che è un attributo del tutto naturale...

ma quelle hanno il seno... e respirano! (Mima il leggero

movimento del petto) Ah! Ah! Il seno fermo, è risaputo, è

del tutto inespressivo, non provoca alcuna sollecitazione

erotica. È l’oscillazione del seno il grande richiamo, e queste

sono così incoscienti da arrivare di corsa ansimando in un

crocchio di ragazzi: “Oh cari, vi ho cercato dappertutto,

dove vi eravate cacciati?” (Recita tutto a gran velocità,

sbrodolando, il discorso nell’ansimare) La ragazza per bene,

nell’istante in cui si ritrova in un gruppo ansima velocissima

a tergo... quindi riprende l’atteggiamento statuario. (Respira

velocemente voltandosi di spalle) Ah, ah... E l’onore è

salvo!

Altre effettuano risate che sono veramente disastranti! Risate

con serpeggiamenti in biscrome altissime da procurare vere e

proprie frustate da vibrazione emotiva da schiattare!

Poveri maschi!

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Ragazzi che sono lì intorno a una moto Kawasaki, Onda, che

la leccano quasi con l’occhio... passa la ragazza incosciente

e velenosa (esegue in falsetto acuto una risata da clarinetto

in la minore) “ihahahahahuhuhuh!!!” Il ragazzo (esegue una

specie di nitrito che si trasforma nel chicchirichì finale del

gallo in calore): “aihiehaii!!!” E succede il disastro.

Ma le più terribili sono senz’altro quelle ragazze che escono

la sera all’imbrunire... cala il sole... e loro, oplà!, evadono,

sciamano per le strade. Questa è la più grossa delle

incoscienze perché la ragazza per bene, se deve sortire

all’imbrunire, esce accompagnata dalla madre, dal padre, da

un fratello e dal cognato armato di mitra e bombe a mano!

(Esegue la pantomima di togliere la sicura a una bomba a

mano e di lanciarla. Quindi ne imita l’esplosione,

sghignazzando soddisfatto) plo pupupupupupum!

E quando è obbligata a uscire da sola se incoccia il crocchio

di ragazzi, ecco come cammina la ragazza per bene...

(Esegue la camminata torcendo il busto e claudicando) Deve

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fare schifo, la ragazza per bene!! Così il ragazzo guarda,

bloop, vomita a lato e la ragazza è salva!

Nella nostra storia abbiamo il giovane signore aristocratico

che nel violentare una giovane donna è incappato in una

terribile disgrazia: la ragazza appartiene a una famiglia di

alto lignaggio, più nobile e più ricca della sua. In questo

caso non esiste più nessuna gabella di “defènsa” che lo possa

salvare. È trascinato in processo e rischia la pena di morte

per impiccagione e squartamento come era di regola allora

per i violentatori di basso rango. Qui salta fuori veramente la

straordinaria forza, l’alta dialettica e la grande maestria di

cui è dotato il nostro avvocato inglese. Come si presenta

questo personaggio? Descrive lo stupratore come dedito

esclusivamente agli studi, traduttore di classici greci, romani

ed ebraici, perennemente immerso nella lettura, sommerso

da libri e come pausa di ricreazione invece di lanciarsi allo

sgavazzo danzando e corteggiando femmine in batteria coi

suoi amici, si inginocchia e ringrazia il Signore. Prega il

Signore con tanto impeto e ardore che il Creatore in persona,

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commosso, scende affacciandosi dalle nuvole… allora in

Inghilterra il Signore scendeva molto in basso!

In contrappunto, vedremo invece la carica erotica di questa

ragazza, una macchina di sensualità al punto che voi stessi

giudicherete come poteva il giovane Lord resistere a tanta

provocazione erotica.

Io eseguirò questa “difesa” in grammelot inglese, ma non

farò il verso all’inglese attuale, bensì mi riferirò al

linguaggio antico, quello cosiddetto classico di Shakespeare

e degli elisabettiani. Personalmente, io credo di essere un

vero e proprio fanatico di quel linguaggio. Anche quando mi

trovavo qualche anno fa a Londra, nelle serate in cui ero

libero dal dover salire sul palcoscenico, entravo nei teatri, e

mi ascoltavo rappresentazioni, naturalmente shakespeariane

ed elisabettiane in genere… non capivo quasi niente, ma ho

appreso alla perfezione la musicalità, i ritmi e le cadenze di

quella lingua antica. Quindi questa sera quelli che

conoscono l’inglese usuale, moderno, non avranno grosse

soddisfazioni, ma coloro che conoscono i classici del

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Rinascimento elisabettiano avranno godimenti eccelsi… non

so come dirvi… orgasmi multipli… intellettivi naturalmente!

GRAMMELOT DELL’AVVOCATO INGLESE

(Esegue un grammelot inglese descrivendo il giovane

sommerso da libri che sfoglia grandi volumi e riscrive, su

altri codici, la traduzione, non smettendo mai di

commentare, nella lingua anglosassone improvvisata, le

orazioni che va compiendo. Con grande velocità, riordina i

volumi e si rivolge al cielo ringraziando il Signore per il

dono di grande intelligenza che gli ha elargito. Mima il

Signore affacciato alle nubi che lo ascolta estasiato.

Terminata l’orazione solleva le braccia al cielo e intona un

canto mistico, imitando il fraseggio canoro di quel periodo,

con acuti e tonalità basse cariche di grande commozione. Nel

finale, alla maniera dei grandi tenori, si inchina al Creatore e

a un immaginario pubblico di santi che lo applaude.

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Quindi, come in un gioco di prestigio, trasforma il

personaggio al femminile e fa immaginare la nobile giovane

intenta a pettinarsi i lunghi capelli, a seguire ne descrive gli

occhi con le ciglia che sbatucchiano in continuazione. Di

seguito disegna l’armonia del suo collo slanciato, scendendo

fino al petto… si arresta a indicare i seni tondi, mossi

dolcemente dal respiro. Quindi, oltre i seni, descrive la vita

sottile della ragazza e l’esplodere dei fianchi e dei glutei.

Accenna a un incedere quasi danzato e il movimento

flessuoso e ritmico dei glutei e delle anche in contrappunto a

quello dei seni che alludono a un’esibizione di erotica danza

orientale.

Ecco che ora fa immaginare la ragazza intenta a bussare alla

porta del giovane aristocratico. Vediamo il ragazzo

rivolgersi, quasi implorando la giovane Lady perché non

insista in quella esibizione di ritmica devastante alla quale

sente di non poter porre più alcuna resistenza. La ragazza

insiste in un crescendo diabolico a esibire i seni rigogliosi, a

eseguire movimenti flessuosi con le anche e sbatucchiando

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inesorabilmente le proprie ciglia. Il giovane Lord chiama la

madre disperato, quindi si rivolge a Dio, ma ecco che il

creatore affacciato alla nube sghignazza eccitato e

soddisfatto applaudendo l’esibizione spudorata della Lady.

Senza mai rallentare lo sproloquio inglese, l’avvocato ora

descrive la danza di seduzione della giovane che cresce in un

vero e proprio strip-tease culminante con una tremenda

sollevata di gonne, trine e sottogonne da can can. Il giovane,

ormai vinto, quasi piangendo, inizia a spogliarsi dei propri

abiti, si cala le brache e si getta ululando fra le braccia della

ragazza che, in un primo tempo, sembra travolta e disperata,

ma ecco che con un grido quasi trionfante, accetta festosa la

violenza: “Oh, yes”).

Buio.

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GRAMMELOT NAPOLETANO DI RAZZULLO PROLOGO

Un altro efficace e spassoso grammelot è senz’altro quello

napoletano. Ve ne propongo un frammento dove un

Razzullo-Pulzenella dichiara di voler far pace con la sua

donna che lo ha sorpreso ad amoreggiare con una rivale. La

“Femmena amorosa” sta alla finestra e lo accoglie con insulti

e lancio di ogni ben di dio. Cerca di colpirlo con vasi,

addirittura con una sedia e per finire gli lancia l’odoroso

contenuto d’un pitale.

Ascùltame burruttélla méa, core che strùllega

enpazzulillo! Tu ce hai raggióne: sóngo uno fetiénte, ma io

vorséve veghé intravièrso la gielusìa tòja quanto me vò’

bbène.

Sì, tu c’hai raggióne! Allùcca, strùffala, ensùltame… quanto

me piàsce! Ye! Tu me sta pallàndo d’ammore. (Scansa al

volo un vaso) E chell’è chisto ‘nu vaso e fiore pe’ mme?!

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Quanto si bella! Bella e còre! (Porta la mano alla nuca

massaggiandosi) E no! ‘Na pétra no, chisto è ‘n’errore!

(Raccoglie qualcosa per terra)… Oh, nu’ l’è ‘na pétra: è ‘na

pigna! Che zentìle ségni me lanzi dello bene tòjo! (Si scansa

di nuovo) e mò che d’è chisto? ‘Na carrega?! Ell’è pe nu’

famme restà ritto en péde? Ammàbbile signora… m’assètto

e té cuntèmplo! (Poi all’istante si rizza in una giravolta

improvvisando una danza e canta) Starrùppia, svilla e

fràcca, lu òcchi tòje s’anzìcca spurra calore e carrùcca

làgreme zuoiose spretùcca. Prille, prille! Carabìllu

scaratìllu de ‘sto tòo rizùllo! Remìra quanto è bello e

cetrùllo scaracàllo… gallo strichìllo ammóre zinno… zinne

d’amore téne! Cumme pomi d’Afrudìte. Cucca! Cuciàcca!

Du paradiso sgnàcca… zinne sciollóse, chiappe pollóse,

vócca de ceràsa, vàsame, che moro accà!

Ehiee (si scansa con uno zompo) e che d’è ‘st’annacquata

che m’ha enfrascicàto la capa, la fazza e cuòrpo sano?!

Chióve all’amprovvìsa? (Raccoglie da terra un oggetto e lo

osserva) Isto è ‘nu pitale, ‘nu càntere (si annusa il braccio,

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si netta la faccia e annusa la mano) Maravéglia

struppettósa… chista è orina frisca! (Si volge con la faccia

all’insù verso la finestra) ‘N’angelo de lu cielo m’ha

mannàto ‘sta roggiàda! È ‘no tòo spisciàcchio, ammóre? Tu

té ce sei mongiùta ‘sto piscio addoràto e udoróso, apposta

pe’ famme presente dellu bbene tòo, ammóre, ammóre che

chióve làcreme de cielo! (Saltella e inizia una danza da

tarantella con canto appassionato)

Basastrélla attraciùcca la tarantella pe’ té mi danze.

Tutta mé pìja ‘stu crillu frezzànte.

L’ànzelo méo ha pisciàto all’estànte!

TRADUZIONE

Ascoltami burratella [burrosa] mia, cuore che si strugge

impazzito! Tu hai ragione: sono un fetente, ma io volevo

vedere attraverso la gelosia tua quanto mi vuoi bene.

Sì, tu hai ragione! Strilla, batuffolo... insultami... quanto mi

piace! Ye! Tu mi stai parlando d’amore. (Scansa al volo un

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vaso) E cos’è questo? Un vaso di fiori per me?! Quanto sei

bella!

Bella di cuore! (Porta la mano alla nuca massaggiandosi) Eh

no! Una pietra no, questo è un errore [hai sbagliato]!

(Raccoglie qualcosa per terra) Oh, non è una pietra: è una

pigna! Che gentili segni mi lanci del bene tuo! (Si scansa di

nuovo) E ora che cos’è questo? Una sedia?! È per non farmi

restare ritto in piedi? Amabile signora... mi siedo e ti

contemplo! (Poi all’istante si rizza in una giravolta

improvvisando una danza e canta in grammelot, intercalato

con parole di senso compiuto) Starrùppia, svilla e fràcca, gli

occhi tuoi s’anzìcca spurra calore e carrùcca lacrime gioiose

spretùcca.

Prille, prille! Carabìllu scaratìllu de ’sto tòo Rizùllo! Rimira

quanto è bello e cetrùllo scaracàllo... gallo strichìllo ammóre

zinno... zinne d’amore tiene! Come pomi d’Afrodite. Cucca!

Cuciàcca! Du paradiso sgnàcca... zinne sciollóse, chiappe

pollose, bocca di ciliegia, baciami che muoio qua!

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Ehiee (si scansa con uno zompo) e che è ’st’annacquata che

mi ha infradiciato la testa, la faccia e il corpo sano?! Piove

all’amprovviso? (Raccoglie da terra un oggetto e lo osserva)

Questo è un pitale, un cantero [vaso]. (Si annusa il braccio,

si netta la faccia e annusa la mano) Meraviglia struppettosa...

questa è orina fresca! (Si volge con la faccia all’insù verso la

finestra) Un angelo del cielo m’ha mandato ’sta rugiada! È

un tuo spisciàcchio, amore? Tu ti sei munta ’sto piscio

adorato e odoroso apposta per regalarmi il bene tuo, amore,

amore che piove lacrime dal cielo! (Saltella e inizia una

danza da tarantella con canto appassionato, in parte in

grammelot)

Basastrélla attracciùccala tarantella per te io danzo.

Tutto mi piglia ’sto grido frizzante

L’angelo mio ha pisciato all’istante!

GRAMMELOT “CADUTA DI POTERE”

PROLOGO

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Esiste un grammelot che sviluppa il tema della “caduta del

potere” a cui fa cenno uno studioso straordinario di teatro

popolare: Vito Pandolfi, autore della preziosa raccolta di

canovacci e testi della Commedia dell’Arte.

Il grammelot lombardo-veneto si propone di raccontare la

sequenza del trapasso con tragica agonia di un uomo di

grande autorità e ricchezza. Il giullare dovrà presentare la

scena, i personaggi dei parenti afflitti, degli amici, dei

postulanti, dei prelati, banchieri, soldati e capitani… tutti

protesi a fingere cordoglio, disperazione e pianto interrotto

da qualche sghignazzo soffocato con fatica. Appaiono donne

che gridano, svengono sorrette a stento da famigli e uomini

illustri. Il tutto contrappuntato da lamenti e laceranti

singhiozzi. Alcuni medici esprimono opinioni e diagnosi via

via sempre più disperate.

Prelati di alto e basso rango transitano dentro e fuori la

camera dell’infermo seguiti da chierici con turiboli

oscillanti. Sembra di assistere alla dipartita di un doge, di un

regnante, di un grande banchiere o un potente uomo politico.

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La grande invenzione scenica sta proprio nel particolare che

il morituro non appare mai: sono i personaggi del coro che

ce lo fanno immaginare nella stanza attigua.

Ognuno, come più gli aggrada, può anche vederci il crollo di

un potente partito politico o addirittura di una intramontabile

egemonia.

Il giullare fabulatore si pone dritto, immobile sulla scena in

un gran silenzio. Con movenze rallentate mima di sbirciare

curioso al di là della porta, si ode un’imprecazione e lui

rapido si ritira facendo immaginare di esservi scacciato.

Ecco che dalla porta esce un servo che fa intendere di

reggere un pitale. Il curioso chiede notizie, il servo gli dà da

annusare il pitale (espressione disgustata), il servo getta il

contenuto del pitale dalla finestra e subito si ritrae: qualcuno

grida dal di sotto bestemmiando. (È ovvio che il gioco

mimico che permette al pubblico di immaginare i due o più

personaggi in azione impone una notevole agilità e un

mestiere quasi stregonesco). Il curioso s’affaccia alla finestra

e zittisce. Entra un medico che vuole a sua volta annusare il

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resto dell’urina. Il servo rientra nella stanza del moribondo,

esce con altri pitali. Pantomima che fa immaginare un

gruppo di sapienti intenti ad analizzare l’urina: assaggiano

intingendo un dito, quindi versano in bicchieri il liquido e

accennano a un brindisi, infine distrattamente bevono.

Sputacchio generale.

Grido fuori scena di una donna: tutti che accorrono a

sorreggerla, la donna cade di schianto trascinandosi il

gruppo al suolo. Giungono i prelati, quindi un chierico col

turibolo: roteando il turibolo percuote un medico che perde

la compostezza e il sussiego. I prelati chiedono informazioni

al capo dei medici e il sapiente descrive la situazione: con

gesti appropriati fa apparire il corpo dell’ammalato su un

tavolo. Descrive i vari organi: il cuore batte tamburellando

tempi altalenanti, stop e aritmie da accompagnamento

musicale per una danza. Il gran medico agita le braccia,

muove i piedi e le anche come in una pavana. Quindi ritorna

a descrivere il corpo del nobile paziente: mima di affondare

mani e braccia dentro il suo ventre. Ne estrae organi vari che

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osserva e butta; quindi cava budella e le va riavvolgendo sul

braccio alla maniera dei marinai con le funi. Come preso da

follia, spoglia con rapidità il corpo di tutti i suoi organi e li

getta per aria riafferrandoli e facendoli roteare intorno come

un giocoliere e in gran fretta lo ricompone, quindi allarga le

braccia e in grammelot sentenzia: “Non c’è più niente da

fare. È fottuto, da buttare!”

I prelati levano le braccia in segno di sgomento e dolore;

accennano un lieve sproloquio che vuole esprimere il

cordoglio per la perdita di un sì grand’uomo. Il prelato

maggiore recita un’omelia nella quale ricorda le

straordinarie gesta del morente: eccolo cavalcare un

destriero in battaglia, sfoderare una spada per tagliare in due

il mantello e lanciarne un brandello a un povero. Eccolo

quindi intento a distribuire denari a disperati con gesti da

seminatore… ripensarci, chinarsi velocissimo, riprendersi il

denaro e scacciare quegli accattoni. Abbracciare una donna,

baciarla, possederla, scacciarla, acchiapparne un’altra dalla

quale viene scacciato a sua volta. Ora lo vediamo piangere

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disperato, scagliarsi come un Moro di Venezia sulla

fedifraga e scannarla. Poi raccoglierla e intonare un solenne

miserere.

Infine la porta si spalanca ancora e in grammelot il giullare

annuncia la morte del Signore. Gran respiro, pausa…

cicaleccio che si trasforma in un riso sempre più sonoro fino

allo sghignazzo che a sua volta si tramuta in una festosa

tarantella.

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Per questa nuova edizione di Mistero Buffo 2000 abbiamo

creduto opportuno inserire nei vari prologhi dello spettacolo

alcuni commenti satirici sugli avvenimenti che si sono

avvicendati nel nostro Paese dal 1969 ad oggi.

LA GUERRA DEL GOLFO*

PROLOGO a Mistero Buffo

Mistero Buffo è nato la bellezza di trent’anni fa. In tutto

questo tempo si sono ripetute migliaia di rappresentazioni

(oltre cinquemila). Come mia abitudine nel prologo

immancabilmente accenno agli avvenimenti e ai fatti di

cronaca. Ricordo che quando, nel ’69 scoppiò la bomba a

Milano alla Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana, ho

improvvisato un intervento in chiave grottesca sul modo

tutt’altro che scientifico con cui si stavano svolgendo le

inchieste di polizia. Indagini nelle quali si indovinava

chiaramente come nell’attimo stesso in cui saltava per aria la

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Banca, gli inquirenti avevano già stabilito che i terroristi non

potevano essere che gli anarchici.

Ne arrestarono alcuni.

Poi abbiamo assistito al suicidio – si fa per dire – di

Giuseppe Pinelli, e di seguito ci siamo sorbiti i caroselli del

trasferimento dei processi come pacchi in varie città del Sud.

Si può dire che ogni settimana mi trovavo costretto ad

aggiornare la cronaca dei fatti. Da quella sequenza di

prologhi è poi nato Morte accidentale di un anarchico.

Una variante del genere mi è anche accaduta abbastanza di

recente durante la guerra del Golfo. Per darvi un’idea chiara

dello stile e del genere di improvvisazione, tra tanti, abbiamo

scelto proprio l’intervento di quel conflitto con massacro

finale annunciato e realizzato. Eccovelo.

Così iniziava lo spettacolo.

Eccomi qua, sono entrato in proscenio addirittura prima che

si aprisse il sipario… Potete prendere posto con comodo,

senza inciampare e senza calpestare piedi altrui.

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Sono veramente distrutto: ieri sera, sul tardi, ho beccato la

notizia della guerra nel Golfo come una mazzata, e sono

rimasto alzato fino alle quattro e mezza per seguire i servizi

delle varie reti, soprattutto straniere. Stamattina mi sono

alzato presto per ascoltare le ultime notizie. Sono stravolto.

Poco fa, in camerino, ho ricevuto un’ulteriore mazzata

ascoltando in diretta il discorso a reti unificate che ha tenuto

l’onorevole Cossiga, nostro presidente della Repubblica.

Discorso che voi avete potuto evitare, dal momento che

eravate già qui in platea. In chiusura il presidente augurava

buon viaggio ai nostri militari che stavano imbarcandosi

sulle ultime navi. In particolare si rivolgeva a quelli partiti in

anticipo che a giorni avrebbero raggiunto le postazioni di

combattimento: “… fatevi onore, – diceva. – Il Parlamento

all’unisono si unisce a me nel saluto. Ricordate che voi

rappresentate l’Italia e le Nazioni Unite in questo conflitto

che si realizza con l’intento di proteggere la democrazia e la

libertà di tutto il Mediterraneo!”

Per non parlare dei pozzi di petrolio, aggiungo io.

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Già avevo accusato notevole sgomento nei giorni massimi

della tensione quando lo stesso presidente in un discorso

appassionato aveva quasi urlato: “… per l’Italia si può

morire!”, che fa proprio il paio straordinario con “… chi

muore per la Patria, vissuto è assai!”… di mussoliniana

memoria; impeto retorico, che certamente i più anziani di voi

ricorderanno pronunciato al ritmo di sventolanti gagliardetti.

Questo rigurgito “patriottardo” dove si esalta la morte come

liberazione verso la gloria, mi strizza lo stomaco. È un

genere di retorica guerrafondaia che costringe uno

leggermente ateo come me a ritrovarsi in perfetta sintonia

ideologica con quanto va dicendo in questi giorni il

Pontefice, cioè sul fatto che ci troviamo di fronte a una

guerra senza ritorno, che non porterà a nessuna risoluzione

definitiva e giusta, che anzi… le cose peggioreranno per

quanto riguarda la situazione già disperata delle popolazioni

del Medioriente e che questa soluzione del distruggere e

punire per educare è una soluzione da tabula rasa che porterà

maggiori lutti di quanti possiamo immaginare. Questo

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discorso del Pontefice che è stato ripetuto due o tre volte dai

telegiornali, certamente non è stato preso in considerazione

da una gran massa di politici che si dichiara profondamente

cristiana e che non manca mai a una messa, si confessa e si

comunica prima e dopo il caffè.

Il campione di questa kermesse di credenti distratti è

senz’altro Giulio Andreotti che tranquillamente tira fuori con

un’ipocrisia degna del miglior Tartufo: “… il nostro esercito

non si sta cimentando in una guerra, ma partecipa a

un’operazione di polizia…” Differenza molto sottile.

Siccome il furbacchione ricurvo sa bene che noi abbiamo

una Costituzione che recita: “L’Italia non può intervenire in

un conflitto a meno che la nostra Nazione non venga

minacciata o aggredita sul proprio suolo o su quello dei

propri alleati”, ecco qui che ti inventa che noi non andiamo a

insozzarci in una trucida guerra, ma partecipiamo a una

semplice operazione di polizia, con qualcosa come diciotto

tonnellate di esplosivo gettate in cinque ore, cioè la stessa

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carica deflagrante che determinò la storica catastrofe di

Hiroshima.

Voglio ricordarvi che i bombardamenti in atto su Baghdad

vengono chiamati in gergo Nato “operazione chirurgica”, ci

si assicura cioè che vengano colpiti gli impianti militari ma

nessun civile, ivi compresi asini, cammelli e animali da

cortile in genere. Ma si sa, però “… incidentalmente,

qualche bomba o qualche razzo può uscire dalla traiettoria…

siamo uomini, seppur militari!” Così un commentatore della

radio svizzera da Baghdad ha dichiarato che per questi

insignificanti errori di lancio e tiro si deve già lamentare la

morte di diecimila civili di ogni età e ceto. Tutti, ben

s’intende, musulmani.

A questo punto interviene uno spettatore: “Basta, per favore,

siamo venuti per vederla e sentirla recitare, non per ascoltare

un comizio”.

Sono mortificato signore per averla irritata: la mia intenzione

era solo di offrire al pubblico alcune osservazioni in forma

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satirica, oltre che manifestarvi la mia indignazione per

questa caterva di infami ipocrisie che ci tocca ingoiare ogni

giorno a garganella. Ripeto, mi spiace che lei signore si sia

risentito, ma evidentemente oso indovinare che lei si ritrovi

qui, in questo teatro, per la prima volta ad assistere a un

nostro spettacolo, altrimenti lei saprebbe bene che da anni

noi mettiamo in scena ogni testo facendolo sempre precedere

da una chiacchierata sulla diretta attualità. Un commento

essenziale per legare la satira della rappresentazione vera e

propria con il grottesco, spesso tragico, della cronaca dei

fatti che stiamo vivendo.

Voglio informarla oltretutto che il nostro non è uno

spettacolo digestivo, dove il pubblico viene, s’allunga

spaparanzato sulla poltrona e ordina a noi attori: “Fammi

ridere!” Mi dispiace deluderla, ma le assicuro che

personalmente sono un cittadino come lei, che oltre a

recitare, ha il diritto di manifestare le proprie idee anche qui

sul palcoscenico, che è il mio spazio naturale. E lei, caro

amico, a sua volta ha il diritto di non condividerle, e magari

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di chiedere la restituzione del biglietto che ha pagato.

Personalmente, ad ogni modo, la ringrazio di questo suo

intervento poiché mi dà il pretesto di sottolineare qual è

l’intento del prologo che ho appena recitato. Ribadisco:

realizzare un aggancio logico con il testo di Mistero Buffo

vero e proprio e farvi intendere che quello che stiamo

vivendo si è già perpetrato, con qualche variante, secoli

addietro nel Rinascimento, come nel Medioevo.

Proprio una strana guerra questa del Golfo! Un’altra

situazione davvero grottesca è quella dei preservativi. C’era

il problema di preservare le canne delle mitragliatrici, dei

fucili, delle pistole... in quanto, se l’interno delle canne si

riempiva di sabbia, c’era il pericolo che l’arma scoppiasse...

spari... è intasato dalla sabbia... blocca il proiettile... che

esplode tempestando di schegge la faccia di un povero

soldato! E allora su ogni mezzo da tiro si è pensato di

infilare un preservativo... ed era una visione oscena! Ho

potuto osservare alcune fotografie che ci hanno mostrato i

giornalisti francesi, di queste armi con le canne ingoiate da

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enormi preservativi, infilati anche su mitragliere da venti

millimetri.

Dove avranno acquistato quei profilattici… allo zoo degli

elefanti? Ma io m’immagino i primi iracheni che si sono

beccati i colpi di proiettile sparati dai marines, ancora avvolti

nel preservativo, che per la fretta gli yankee manco li

avevano sfilati… toh... un proiettile con il condom!

Davanti a una situazione tragica come questa che stiamo

vivendo, d’istinto sono portato ad andare a rileggere

cos’hanno scritto di situazioni analoghe gli antichi. Fra tutti i

commentatori sarcastici sui conflitti scritti al tempo dei

greci, quelli di Aristofane mi sembrano i migliori: fanno

esattamente il canto e controcanto satirico ai fatti e antefatti

di questa guerra: Aristofane aveva scritto e messo in scena la

bellezza di quattro opere sulla guerra, in particolare la Pace.

Magnifica.

E cosa ho ritrovato? Le intuizioni paradossali di cui non

m’ero accorto quando lo avevo studiato da ragazzo.

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I discorsi che blaterano i politici ateniesi, tesi a coinvolgere

la loro città restia a entrare nel conflitto già in corso

scatenato da Sparta contro le polis nemiche. Sono gli stessi

identici discorsi che abbiamo sentito pronunciare dai nostri

uomini di governo: “La pace è una cosa sacra e non

bisognerebbe mai violarla, ma in questo momento noi

dobbiamo rompere ogni indugio e unirci ai nostri alleati

perché altrimenti facciamo la figura dei soliti vigliacchi,

femminucce, e ci scopriamo come un popolo mancante di

dignità”. Tutti i discorsi e anche i luoghi comuni, fotocopia

di quelli riportati da Aristofane. Soltanto che ne la Pace del

grande satirico c’è il personaggio di un capo che a un certo

punto urla: “Mi avete commosso! Siete arruolati tutti!” E

loro, questi politici, uno muore sul colpo, l’altro ha un

coccolone e rimane con la paralisi eterna, l’altro se la fa

addosso, due scappano e tre svengono sul momento.

Pensate come sarebbe stato bello poter fare lo stesso con i

nostri dirigenti politici, cioè alzarsi e poter dire: “Ok. Vi

arruoliamo!”

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Immaginate Spadolini arruolato nei mezzi da sbarco anfibi…

osservatelo con attenzione: è esattamente un gommone della

San Marco… un mezzo da sbarco, sdraiato, i marines sopra

con la pagaia che vanno nel golfo... oppure Giuliano Ferrara

mezzo cingolato... con ’sto pancione bolublublu, con le

bretelle da lancio toccheta per lanciare bombe; oppure

Forlani, già mimetizzato colore neutro paglierino... sabbia...

sempre giallino, tale che nudo nel deserto non lo vedi più.

(Chiamandolo ad alta voce) “Forlani???” Non c’è!

Poi Craxi non c’è bisogno neanche di mettergli un elmetto,

basta fargli una riga (accenna alla fronte) qua e lui è già

corazzato.

Poi, mezzo terroristico di persuasione occulta, Giulio

Andreotti, basta sollevarlo da una duna iiihaaaa, tutti si

arrendono. Fra l’altro, avete saputo che il Giulio ricurvo

stava per partire la sera del bombardamento? Sì, è vero: il

giorno in cui hanno bombardato Baghdad lui, alle sei del

mattino (nessuno era al corrente si stessero accingendo a

quell’operazione di massacro totale), era stato incaricato da

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tutti i ministri degli Esteri europei e naturalmente anche dai

presidenti, di tentare l’ultima chance, cioè di recarsi da

Saddam Hussein e di convincerlo a nome dell’Europa a

ritirarsi dal Kuwait... e l’ha dichiarato lui stesso. Alle sei era

a Ciampino con un aereo speciale che doveva partire

immantinente. “Alt! Fermi tutti, – il capo del controllo ha

bloccato il decollo, – c’è un piccolo guasto, un’inezia: è un

bullone che regola il tubo di riscaldamento che si è svitato e

non troviamo come sostituirlo, ma adesso lo mandiamo a

prendere, tempo due o tre ore ci siamo”.

Infatti, avvitato il bullone del tubo, all’una l’aereo è pronto

per prendere il volo e si avvia verso la pista di decollo… ed

ecco: “Ri-alt! Fermi tutti!”

“Un altro tubo?”

“No, onorevole, non si può partire perché Baghdad è sotto il

bombardamento: ventimila tonnellate di bombe che stanno

buttando gli americani”.

E così, grazie a un ritardo del tubo, Andreotti ha scampato di

ritrovarsi proprio nel bel mezzo del cataclisma. Pensate

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voi… tutto per una vite di tre millimetri. Quando si dice la

fatalità! Ecco che la disgrazia o la salvezza di un popolo può

dipendere da un semplice bullone che ti avvitano nel… tubo!

FINE

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fine alla nascita del giullare

L’allusione sarcastica, di origine patronale, che definisce il

villano privo d’anima e quindi più simile a un animale che a

un essere umano, ci fa venire in mente un altro personaggio

che nasce dalla fantasia popolare e cioè: l’uomo selvatico.

Una specie di troglodita scatenato che ritroviamo spesso fra

le maschere durante il Carnevale, nelle farse medievali

rappresentate, sia in campagna che nelle città, ad opera del

popolo minuto.

Il buffo “omo selvaticus” era ben noto a Tristano Martinelli,

il comico della Commedia dell’Arte che, alla fine del ‘500,

creò in Francia la maschera di Arlecchino.

Infatti, l’Arlecchino primordiale non si esibisce con saltelli e

capriole aggraziate come sul genere dello Zanni goldoniano,

al contrario si muove e agisce con zompi e gutturalità da

scimmia triviale e aggressiva.

In uno dei primi canovacci, Arlecchino defeca nel bel mezzo

del palcoscenico, va palpeggiando, spudorato, ogni donna

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che è in transito, perfino un prete che scambia per una

femmina, per via del sottanone.

Le maschere dei vari dottori, avvocati, gentili dame e

cavalieri della “Compagnia”, mostrano di divertirsi a quei

lazzi e gli dimostrano simpatia e tenerezza, lo coccolano, lo

nutrono, lo esibiscono perfino a Corte. Ma ecco che pian

piano, il “selvatico Zanni” si addomestica, si trasforma in un

essere più umano, quasi civile, dimostra di avere idee

proprie, originali.

A questo punto Arlecchino non interessa più, non diverte...

anzi è fastidioso. Infatti, quando al fine si presenta, educato,

a chiedere cibo... ecco che viene preso a pedate da ognuno e

scaraventato fuori dalla scena.

Un tema che s’addice benissimo a una commedia dei nostri

giorni.

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CARO DARIO, TI INVIO LE VARIE PRESENTAZIONI

CHE HO MESSO INSIEME SCEGLIENDO I BRANI

MIGLIORI DELLA GUERRA NEL GOLFO. LE PARTI

SCRITTE Più piccole sono quelle già viste da te, le

ingrandite sono quelle nuove. ti prego di non scartarle: sono

bellissime. TI MANDO TUTTO DI SEGUITO COSI’

potrai, durante i tuoi lunghi viaggi correggere quello che non

va. Grazie.

Per questa nuova edizione di "MISTERO BUFFO" 2000

abbiamo creduto opportuno inserire nel prologo dello

spettacolo molti degli avvenimenti che si sono avvicendati

nel nostro Paese in oltre 30 anni di reppliche.

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ti salto il brano che già conosci Saddam carri armati ecc.

Versione introduttiva di “Mistero Buffo” eseguita il 29

marzo ‘91.

Qualche giorno dopo, spinto dai nuovi eventi, ho portato

qualche variante al prologo. Eccovela.

PROPRIO UNA STRANA GUERRA! Un'altra situazione

davvero grottesca è quella dei preservativi. C'era il problema

di preservare le canne delle mitragliatrici, dei fucili, delle

pistole... perché se l’interno delle canne si riempiva di

sabbia, c'era il pericolo che l’arma scoppiasse... SPARI... E'

PIENO DI SABBIA... DEFLAGRA... SI SCALDA

VELOCISSIMO... e allora su ogni mezzo da tiro si infilava

un preservativo... ed era strano! Ho visto due o tre fotografie

che ci hanno mostrato i giornalisti francesi di queste armi a

ripetizione o a rinculo col preservativo dietro attaccato anche

su mitragliere da venti millimetri, e alcuni preservativi

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infilati sui cannoni, non so di che misura, marca e

provenienza. Roba gigantesca, da elefanti. Ma io mi

immagino i primi iracheni che si sono beccati i colpi di

proiettili da questi qua, ancora avvolti nel preservativo, che

per la fretta non stavano a sfilarli TO’... UN PROIETTILE

CON IL CONDOM!

E’ inutile, come dicono i francesi, questa é proprio una

“drôle de guerre”, una guerra da crepar dal ridere. Il

coronamento di questo conflitto da clown é la scoperta delle

galline da combattimento. No, non é un lazzo buttato lì tanto

per stupire a scompiscio. Hanno usato davvero le galline in

guerra...è la prima volta che le vedi combattenti, forse le

superstiti di questa guerra riceveranno una croce particolare

di Gladio ; quelle che rimangono vive le vedremo sfilare a

Taranto, noi staremo a salutare tutti ritti sull’attenti e ci

saranno anche i presidenti vari che le baceranno. La storia è

questa, l'avrete letta sui giornali, sul Corriere della Sera, ad

esempio, sulla Repubblica, non vi racconto favole: nelle foto

allegate si scorgono alcuni marines con una gallina bianca in

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mano, fra l'altro solo galline italiane, ecco perché dicevo che

le croci di guerra verranno tutte dall'Italia; hanno svuotato

interamente le nostre aziende gallinifere, le batterie intiere,

anche centomila per volta. Ma veniamo all’utilizzo di questi

gallinacei. In una ripresa televisiva si nota questa gallina in

braccio al marines americano. Il marines calza il suo elmo

regolamentare ben mimetizzato con la rete, calza sulla fronte

due occhiali, uno per vedere con il sole e il vento, l'altro per

vedere di notte con gli infrarossi. Sul frontespizio dell’elmo

spunta una vistosa lampadina che parabola automaticamente

scrutando l'orizzonte. Qui sul petto é appeso un tubo che

contiene una maschera antigas, maschera che fuoriesce e si

spalanca andando a coprire la faccia del marines, il tutto con

un solo scatto. Dai glutei partono due briglie che trascinano

una cassetta munita di ruote che agisce automaticamente

spostandosi da una parte all’altra per meglio spiare al di là

delle dune. A completare l’arredamento abbiamo una

bombola di ossigeno sotto l’ascella, la riserva d’acqua

appoggiata tra le cosce (serve anche da raffreddamento agli

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organi delicati), il metano di dietro, una riserva di petrolio

incollata all’altezza del ginocchio, sull’esterno, e anche una

sigaretta già accesa, infilata nel boccchettone della maschera

antigas, nel caso uno avesse l’impellenza irresistibile di

fumare. Ma ci siamo dimenticati della gallina? No, per

carità! Essa, bipede, sta appollaiata su un pistolone

tremendo, che il nostro marines esibisce facendolo scorrere

in avanti da sotto l’ascella destra. Con quello spara dei

proiettili grossi come uova, che esplodono e fanno raggi. Il

frastuono é tremendo ma la nostra gallina da combattimento

rimane costantemente abbrancata alla cassa del caricatore.

Ora mi chiederete: “Perché il marines si tiene la gallina sul

mitragliatore? Così, per scaramanzia?” Niente affatto. La

gallina assolve a un grosso impegno. Essa possiede uno

straordinario istinto, cioè ha la facoltà di captare da lontano,

lontanissimo anche una bava di gas nervino... se un bastardo

di iracheno tira una bombola di gas, anche a 5km. di

distanza, la gallina WAW WAW WAW, fa un baccano

d'inferno, starnazza, spara uova a grappoli e scagazza,

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scusate il termine ma é gergo tecnologico-militare. Ora, la

cosa fa scattare subito l'intelligenza e la percezione del

marines, il quale fra un passo e l'altro... dice AH! IL GAS!

PIUM, schiaccia un bottone, gli parte subito la maschera già

aperta che gli si incolla sul viso. Naturalmente la gallina

entro dieci secondi muore secca. Andiamo, non possiamo

mica dare la maschera alla gallina! Le galline sono come i

palestinesi... niente maschere. (Rivolto a uno del pubblico)

Sì signora, alludevo proprio al fatto che durante l’ultimo

bombardamento a Tel Aviv, all’arrivo dei razzi iracheni non

si son trovate maschere da distribuire ai palestinesi. E anche

lei, signora, con tutto che ha mormorato appena, l’ho sentita

lo stesso. Io ho un orecchio tremendo, lei ha esclamato

risentita: “A no, cosa c’entrano i palestinesi con le galline!”

Ha ragione, le galline sono molto più utili nel conflitto,

infatti non servono soltanto a dare l’allarme per l’arrivo del

gas nervino, ma servono soprattutto per disinnescare le

bombe. Voi sapete che a Saddam Hussein sono state vendute

mine da quasi tutti i popoli della terra. E quante ne ha

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acquistate lui? Diciotto milioni di unità. C’é questo deserto

nel Kuwait che é tempestato di mine, é incredibile, non si

può andare in giro. Se uno mentre va sull’autostrada, che é

l’unico percorso ripulito, gli vola via un pacchetto, guai se si

permette di andare a recuperarlo. Come mette piede sulla

sabbia PAM! salta per aria. Ora, per disinnescarle l'appalto è

stato dato ai francesi; avrete visto qualche immagine

televisiva: loro hanno una specie di cannone che spara nel

deserto, appunto, una catena lunghissima con un rostro

finale; poi c'è un braccio meccanico che prende dall'altro lato

la catena e comincia a scuoterla dando ribattoni terribili, un

fracasso d’inferno, col fracasso tutte le mine di fabbricazione

inglese, francese, russa, polacca, svizzera ecc... PIM PAM

PIM PAM saltano per aria che sembra proprio Piedigrotta

PIM PIUM PIM PUM, una cosa veramente festosa. Tutte, vi

dico tutte scoppiano... salvo le nostre, le italiane, le Valsella.

Nove milioni gliene abbiamo vendute, nove milioni di mine

VALSELLA: 50% di partecipazione Fiat. Perché? Perché

noi abbiamo bombe intelligenti, e non delle trappole per

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topi. Le nostre Valsella quando si fa baccano sbattendo

catene, non fanno una piega anzi, dalla cupola della bomba,

escono due manine che sbattendo una contro l’altra

eseguono il gesto sfottente alla napoletana. Infatti le nostre

mine saltano per aria soltanto a pressione del piede umano,

sono a misura d'uomo, non per niente noi abbiamo creato

l'umanesimo. Tutti i nostri alleati devono cominciare a

rispettarci come meritiamo, perché, d’accordo che in questa

guerra non abbiamo offerto un apporto determinante

soprattutto in materiale umano, ma abbiamo concorso con il

materiale meccanico in partecipazione straordinaria come

nessun popolo al mondo. Devono piantarla anche di sfottere

e di prendere in giro i nostri ministri quando ci si riunisce al

banco, meglio dire al tavolo, per dividere le situazioni di

vantaggio di questa guerra. Devono piantarla! C'è quel

nostro ministro De Michelis che tutte le volte che arriva...

PAAM una porta in faccia, che ormai ha un faccione così e

ha dovuto dipingersi gli occhiali sulla faccia per quanti

gliene hanno spiccicati. Dobbiamo ammettere che é molto

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brutto con quella testa, con quei capelli impataccati di

catrame schifoso , CHE E' LUI ... IL CORMORANO! E'

LUI! Un cormorano ripieno! Non vi dico di che cosa... Ma

mi sono dimenticato di raccontarvi di come le galline

vengono impiegate: prima di tutto col loro ticchettio

producono lo stesso valore della pressione di un piede. Così,

i tecnici spazza-mine buttano le galline sulla sabbia nel

deserto e appena quelle cercano da mangiare

TICTICTIC...PAM! Scoppiano loro e le bombe intelligenti,

fregate! Ma per invogliarle naturalmente a becchettare

bisogna spandere il becchime. Quindi c'è un elicottero

apposito che versa e distribuisce il becchime. Una scia

straordinaria! Questo avveniva già nei primi tempi quando

dovevano formare delle strade per poter transitare coi carri

armati per il deserto minato e c'erano ancora gli iracheni

nelle loro buche in trincea. I tecnici spazza-mine passavano a

volo radente con queste becchinate tremende, disegnavano

lunghe scie WWAAAAA e lì gli iracheni che stavano nelle

buche hanno cominciato ad andare in crisi: “Ma come! Ci

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buttano il becchime per polli?! Va bene sfotterci ma questo è

un po’ pesante... abbiamo fame ma non esageriamo!”. Poi,

una volta steso il becchime, ecco che arriva la gallineria,

cioè centinaia e centinaia di galline ammassate dentro questi

elicotteri speciali che si chiamano “apache Vallespluga”.

Arrivano e WWAAAOOO e buttano giù galline, si apre la

pancia di questi elicotteri, piovono galline a stormi che

inondano il deserto, sono affamate, da cinque o sei giorni

che non toccano cibo, proprio a livello iracheno e

cominciano TI TO TI TO TO PIIM PAAM PIIM PAAM

PEEM PEEM, con il loro zampettare e col ticchettio del

becco producono lo stesso effetto. Volano dappertutto

arrosti, galline fritte, alla diavolo fragrante! Gli iracheni

possono ) godere finalmente del loro primo pasto caldo.

Buon appetito!

Mi capita spesso che davanti a una tragedia come questa che

stiamo vivendo, di istinto vado a vedere cosa hanno scritto di

situazioni analoghe gli antichi. In questo caso Aristofane mi

é parso il migliore: sembra faccia esattamente il commento

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dei fatti e degli antefatti di questa guerra. Aristofane aveva

scritto la bellezza di quattro opere sulla guerra in particolare

"La Pace", magnifica. L’ho riletta in questi giorni e ho

scoperto i discorsi coi quali si esibivano questi uomini

politici greci con l’intento di coinvolgere Atene nella guerra

che era già in corso ad opera di Sparta. Sono gli stessi,

identici discorsi che abbiamo sentito scodellare a ripetizione

dai nostri politici in questi tempi: “la pace è un dono sacro e

non bisognerebbe mai violarla, ma in questo momento noi

dobbiamo rompere ogni indugio e unirci ai nostri alleati che

altrimenti rischiamo la solita figura di vigliacchi, di

femminucce, scopriamo mancanza di dignità e di virilità”.

Sembra proprio la fotocopia di una delle tante sparate al

parlamento dei nostri politici d’assalto ma ne “La pace”, di

Aristofane c’é una variante: all’improvviso, fra i deputati, si

erge un personaggio di grande autorità: é l’arconte, il gran

capo del parlamento che, dopo aver ascoltato i vari

interventi, prende la parola e urla: “Sì, mi avete convinto e

soprattutto commosso. Questa guerra s’ha da fare. Quindi,

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cari deputati e senatori, siete tutti arruolati. Preparatevi a

partire per il campo di battaglia. Avvertite le vostre vedove,

pardon, mogli.” I politici in massa sbiancano in viso: a uno

gli prende un coccolone e muore sul colpo, un altro resta

fulminato e in paralisi totale, altri, in gran numero, se la

fanno addosso, i rimanenti fuggono buttandosi dalle finestre.

Pensate che splendido sarebbe poter fare altrettanto coi

nostri omino politici; dopo i loro discorsi guerreschi alzarsi e

poterli fulminare con un “ok, vi arruoliamo”... per esempio

Spadolini arruolato nei mezzi da sbarco anfibi, lui proprio un

mezzo da sbarco, sdraiato, i marines sopra con la pagaia che

scivolano nel golfo... oppure Giuliano Ferrara mezzo

cingolato con sta' pancia BOLUBLUBLU, con le bretelle da

lancio TOCCHETA per tirare bombe, oppure Forlani, già

mimetizzato colore neutro, paglierino color sabbia e sempre

talmente giallino che, nudo

nel deserto, non lo vedi più. Poi Craxi non c'è bisogno

neanche di mettergli un elmetto, basta fargli una riga qua

(indica il livello delle sopracciglia), e lui è già corazzato.

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Quindi, mezzo terroristico di persuasione occulta, Giulio

Andreotti: basta sollevarlo da una duna e “O mio Dio!” tutti

gli iracheni si arrendono. Fra l'altro avete saputo che

Andreotti stava per partire la sera del bombardamento? Il

giorno in cui hanno bombardato Bagdad, l’Onorevole Giulio

alle cinque, nessuno era al corrente che gli americani si

stessero accingendo a questa operazione di massacro totale,

lui personalmente era stato incaricato da tutti i ministri degli

esteri europei di tentare l'ultima chance, cioè di recarsi da

Saddam Hussein e di convincerlo a nome dell'Europa ecc...

l'ha dichiarato lui stesso. Alle sei era a Ciampino con un

aereo speciale che doveva partire immantinente soltanto che

il capo del controllo ha bloccato l’ordine: “fermi un attimo

c'è un piccolo guasto, un’inezia , è un bullone con vite

particolare che si é ammollato e non troviamo come

sostituirlo all’istante, ma adesso rimediamo, tempo due o tre

ore e si riparte.” Infatti all’una l’aereo é pronto per prendere

il volo, si avvia verso la pista di decollo ma: “Alt! Fermi

tutti! La TV sta dando la notizia proprio in questo momento

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del bombardamento di Bagdad. 200 caccia bombardieri al

minuto, 5000 tonnellate di esplosivo in mezz’ora.” E così,

causa questo bullone, Andreotti non ci si é trovato in mezzo.

Pensate voi, per un bullone di 3 millimetri, che senza ‘sto

pezzo di ferro a vite, lui, Andreotti, si sarebbe trovato

puntuale sulla pista di

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Bagdad, con ‘sta tempesta di bombe addosso. Cosa ci

avrebbero restituito di Andreotti? Un cofanetto di frammenti

ricordo. Ora, ditemi voi, a cosa é legata la storia di un

popolo, a un bullone. Bisogna ammetterlo, in questi tempi la

fortuna non ci arride!

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Ma veniamo all’utilizzo di questi eroici pennuti. Nella

ripresa televisiva alla quale accennavo, si nota questa gallina

in braccio al marines americano. Il marines calza il suo elmo

regolamentare bén mimetizzato con la rete, tiene sulla fronte

due occhiali uno per vedere con il sole e il vento, l'altro per

vedere di notte con gli infrarossi. Sul frontespizio dell’elmo

spunta una vistosa lampadina che parabola automaticamente

e scruta l'orizzonte. Qui sul petto è appeso un tubo che

contiene una maschera antigas, maschera che fuoriesce e si

spalanca andando a coprire la faccia del marines, il tutto con

un solo scatto. Dai glutei del guerriero partono due briglie

che trascinano una cassetta munita di ruote che agisce

autonomamente spostandosi da una parte all’altra per meglio

spiare al di là delle dune. A completare l’assetto, abbiamo

una bombola di ossigeno qui sotto l’ascella, la riserva

d'acqua appoggiata tra le cosce - serve anche da

raffreddamento agli organi delicati - il metano di dietro, una

riserva di petrolio all’altezza del ginocchio... e anche una

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02/10/2012 696

sigaretta già accesa infilata nel bocchettone della maschera

antigas, nel caso uno avesse l’impellenza irresistibile di

fumare. Ma ci siamo dimenticati delle galline? No, per

carità! Essa, bipide, ‘sta appollaiata su un pistolone

tremendo che il nostro marines esibisce facendolo scorrere in

avanti da sotto l’ascella destra. Con quello spara dei proiettili

grossi come uova, che esplodono e producono raggi. Il

frastuono è tremendo, ma la nostra gallina da combattimento

rimane costantemente abbrancata alla cassa del caricatore.

Ora mi chiederete, perché il marines si tiene la gallina sul

mitragliatore? Cossì, per scaramanzia? Niente affatto! La

gallina assolve a un grosso impegno. Essa possiede un

istinto straordinario, cioè ha la facoltà di captare da lontano,

lontanissimo anche una bava di gas nervino... se un bastardo

d’iracheno tira una bombola di gas anche a centinaia di metri

di distanza, la gallina WAW WAW WAW, fa un baccano

d'inferno, starnazza, spara uova a grappoli e scagazza,

scusate il termine, ma è un gergo tecnologico militare. Ora la

cosa fa scattare subito l'intelligenza e la percezione del

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marines, il quale fra un passo e l'altro... dice AH! IL GAS!

PIUM, schiaccia un bottone, gli parte subito la maschera già

aperta che gli si incolla sul viso. Naturalmente la gallina

entro dieci secondi muore secca. Andiamo, non possiamo

mica dare la maschera anche alle galline! (Fingendo di

rivolgersi a qualcuno del pubblico) Sì, signora… alludevo

proprio al fatto che durante l’ultimo bombardamento a Tel

Aviv all’arrivo dei razzi iracheni che si temeva spargessero

gas letali, si sono distribuite maschere per tutti i cittadini

israeliani ma non se ne sono trovate da destinare ai

palestinesi presenti in città. E anche se lei signora ha

sussurrato appena, l’ho sentita lo stesso. Io ho un orecchio

tremendo, lei ha esclamato risentita: “Ah no! Cosa c'entrano

i palestinesi con le galline!” Ha ragione, le galline sono

molto più utili nel conflitto, infatti non servono soltanto a

dare l’allarme per l’arrivo di gas nervino, ma soprattutto

servono per disinnescare le bombe a trappola ficcate nel

terreno. Voi sapete che a Sadam Hussein sono state vendute

mine da quasi tutti i popoli della terra. E quante ne ha

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acquistate lui? Diciotto milioni di unità... c'è questo deserto

del Kuwait che è tempestato di mine, è incredibile, non si

può andare in giro. Se uno, mentre va sullsulla superstrada,

che è l’unico percorso ripulito, gli vola via un pacchetto…

guai se si permette d’andare a recuperarlo. Come mette piede

sulla sabbia: PAM!, salta in aria! Per disinnescarle l'appalto

è stato dato ai francesi; avrete visto qualche immagine

televisiva: loro hanno una specie di cannone che spara nel

deserto un aggeggio che srotola una catena lunghissima con

un rostro finale… poi c'è un braccio meccanico che afferra

dall'altro lato la catena e comincia a scuoterla dando

ribattoni terribili, un fracasso d’inferno. Col fracasso tutte le

mine di fabbricazione inglese, francese, russa polacca,

svizzera ecc... PIM PAM PIM PAM saltano per aria che

sembra proprio Piedigrotta, una cosa veramente festosa!

Tutte, vi dico tutte le mine eslpodono... salvo le nostre, le

italiane: le Vasella. Nove milioni gliene abbiamo vendute,

nove milioni di mine VALSELLA: 50% di partecipazione

Fiat. Perché sono tanto richieste e preferite? Perché noi

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abbiamo bombe INTELLIGENTI, e non trappole per topi.

Le nostre Valsella quando si fa baccano sbattendo catene

non fanno una piega, anzi, dalla cupola della bomba escono

due manine che sbattendo una conto l’altra (mima due

braccettine con mani annesse che sbattendo una contro

l’altra, altezza gomito, eseguo il classico gesto scurrile

napoletano). Infatti le nostre mine saltano per aria soltanto a

pressione del piede umano, sono proprio a misura d'uomo,

non per niente noi abbiamo creato l'umanesimo. Tutti i nostri

alleati devono cominciare a rispettarci come meritiamo

perché, d’accordo che in questa guerra non abbiamo dato un

apporto determinante, soprattutto in materiale umano, ma

abbiamo concorso con materiale meccanico e gallinaceo in

partecipazione straordinaria come nessun popolo al mondo.

Devono piantarla di sfottere e di prendere in giro soprattutto

i nostri ministri quando ci si riunisce al banco, meglio dire al

tavolo, per dividere le situazioni di vantaggio di questa

guerra. Devono piantarla! C'è quèl nostro ministro De

Michelis (ricHiAMO FONDO PAGINA: MINISTRO

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SOCIALISTA AL TEMPO DEL GOVERNO CRAXI) che

tutte le volte che arriva: PAAM!, una porta in faccia, che

ormani ha un faccione cossì e ha dovuto dipingersi gli

occhiali sul muso per quanti gliene hanno spiaccicati.

Dobbiamo ammettere che non fa un bèl vedere con quella

testa, con quei capelli impataccati di catrame schifoso, CHE

E' LUI ... IL CORMORANO! E' LUI! Un cormorano

ripieno! Non vi dico di che cosa. (Esegue una pantomima

dove imita la camminata del fenicottero ctarso di catrame) A

proposito, quasi mi stavo dimenticando di raccontarvi di

come i nostri polli vengano impiegati nel far brillare i

micidiali ordigni Valsella seminati nel desero. I nostri polli

artificeri

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volano quarti di gallina fritta alla diavola fragrante

dappertutto, ed è la prima volta che gli iracheni godono di

un bel pasto caldo. Mi capita spesso che davanti a una

tragedia come questa che stiamo vivendo, di istinto vado a

vedere cosa hanno scritto di situazioni analoghe gli antichi.

In questo caso Aristofane mi é parso il migliore: sembra

faccia esattamente il commento dei fatti e degli antefatti di

questa guerra. Aristofane aveva scritto la bellezza di quattro

opere sulla guerra in particolare "La Pace", magnifica. L’ho

riletta in questi giorni e ho scoperto i discorsi coi quali si

esibivano questi uomini politici greci con l’intento di

coinvolgere Atene nella guerra che era già in corso ad opera

di Sparta. Sono gli stessi, identici discorsi che abbiamo

sentito scodellare a ripetizione dai nostri politici in questi

tempi: “la pace è un dono sacro e non bisognerebbe mai

violarla, ma in questo momento noi dobbiamo rompere ogni

indugio e unirci ai nostri alleati che altrimenti rischiamo la

solita figura di vigliacchi, di femminucce, scopriamo

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02/10/2012 702

mancanza di dignità e di virilità”. Sembra proprio la

fotocopia di una delle tante sparate al parlamento dei nostri

politici d’assalto ma ne “La pace”, di Aristofane c’é una

variante: all’improvviso, fra i deputati, si erge un

personaggio di grande autorità: é l’arconte, il gran capo del

parlamento che, dopo aver ascoltato i vari interventi, prende

la parola e urla: “Sì, mi avete convinto e soprattutto

commosso. Questa guerra s’ha da fare. Quindi, cari deputati

e senatori, siete tutti arruolati. Preparatevi a partire per il

campo di battaglia. Avvertite le vostre vedove, pardon,

mogli.” I politici in massa sbiancano in viso: a uno gli

prende un coccolone e muore sul colpo, un altro resta

fulminato e in paralisi totale, altri, in gran numero, se la

fanno addosso, i rimanenti fuggono buttandosi dalle finestre.

Pensate che splendido sarebbe poter fare altrettanto coi

nostri omino politici; dopo i loro discorsi guerreschi alzarsi e

poterli fulminare con un “ok, vi arruoliamo”... per esempio

Spadolini arruolato nei mezzi da sbarco anfibi, lui proprio un

mezzo da sbarco, sdraiato, i marines sopra con la pagaia che

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scivolano nel golfo... oppure Giuliano Ferrara mezzo

cingolato con sta' pancia BOLUBLUBLU, con le bretelle da

lancio TOCCHETA per tirare bombe, oppure Forlani, già

mimetizzato colore neutro, paglierino color sabbia e sempre

talmente giallino che, nudo nel deserto, non lo vedi più. Poi

Craxi non c'è bisogno neanche di mettergli un elmetto, basta

fargli una riga qua (indica il livello delle sopracciglia), e lui

è già corazzato. Quindi, mezzo terroristico di persuasione

occulta, Giulio Andreotti: basta sollevarlo da una duna e “O

mio Dio!” tutti gli iracheni si arrendono. Fra l'altro avete

saputo che Andreotti stava per partire la sera del

bombardamento? Il giorno in cui hanno bombardato Bagdad,

l’Onorevole Giulio alle cinque, nessuno era al corrente che

gli americani si stessero accingendo a questa operazione di

massacro totale, lui personalmente era stato incaricato da

tutti i ministri degli esteri europei di tentare l'ultima chance,

cioè di recarsi da Saddam Hussein e di convincerlo a nome

dell'Europa ecc... l'ha dichiarato lui stesso. Alle sei era a

Ciampino con un aereo speciale che doveva partire

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immantinente soltanto che il capo del controllo ha bloccato

l’ordine: “fermi un attimo c'è un piccolo guasto, un’inezia , è

un bullone con vite particolare che si é ammollato e non

troviamo come sostituirlo all’istante, ma adesso rimediamo,

tempo due o tre ore e si riparte.” Infatti all’una l’aereo é

pronto per prendere il volo, si avvia verso la pista di decollo

ma: “Alt! Fermi tutti! La TV sta dando la notizia proprio in

questo momento del bombardamento di Bagdad. 200 caccia

bombardieri al minuto, 5000 tonnellate di esplosivo in

mezz’ora.” E così, causa questo bullone, Andreotti non ci si

é trovato in mezzo. Pensate voi, per un bullone di 3

millimetri, che senza ‘sto pezzo di ferro a vite, lui, Andreotti,

si sarebbe trovato puntuale sulla pista di Bagdad, con ‘sta

tempesta di bombe addosso. Cosa ci avrebbero restituito di

Andreotti? Un cofanetto di frammenti ricordo. Ora, ditemi

voi, a cosa é legata la storia di un popolo, a un bullone.

Bisogna ammetterlo, in questi tempi la fortuna non ci arride!

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PER DARIO FO URGENTE

Caro Dario, ho pensato, dal momento che è bello, di inserire

il pezzo che hai tagliatpo nel Gesù bambino (MI

RIFERISCO AL PEZZO DELLE DONNE CHE

VOGLIONO PORTARE GESù DA ERODE)con questo

cappello. Leggi, correggi e rispediscimi. Baci. Urgente.

Franca

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richiamo fondo pagina o come volete metter lo.

1) “Il primo miracolo di Gesù bambino” fa parte di ‘Storia

della tigre’ (1978), ma dal momento che Dario spesso lo

inserisce in “Mistero buffo”, ho pensato fosse giusto

pubblicarlo in questa nuova edizione aggiornata.

Abbiamo più volte accennato al fatto che in molti monologhi

o commedie lo scritto originale viene via via modificato

durante le rappresentazioni, in conseguenza delle varie

reazioni del pubblico: il testo viene sfoltito, stringato, si

aggiungono battute e ,fatalmente, interi passaggi vengono

eliminati o riscritti onde rispettare “tempi e ritmi teatrali”.

La versione che propongo è già stata elaborata negli anni e

ha perduto un brano che “strabordava” dal contesto

definitivo, ma ho deciso di inserirlo egualmente a parte per

conoscenza e perché mi sembra proprio divertente… e anche

un po’ di più.

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"Fœra negro, via, cito! Spavénta no el fiulìn. Canta de fœra!"

el vousa el re vègio.

E in quèl moménto nè la cità, (mima di battere sul tamburo)

PATATUM PATATUM PATATUM, un banditore: "Ehi

ascoltè mame, ascoltè dòne! Chi è che de voiàltre ha fàit

nàser in 'sti tre ziórni un fiulìn pòle èser conténta, parchè ól

re Erode ól ha desidìo de darghe un premio al pü bèl bambìn

che è nasciüdo. Portélo a la réggia e ol re, al bambìn plü

bèlo, donarà 'na curonzìna co' sü scrito: "Oh come l'è bèl

'sto bambìn! L'è un putèlo quasi plü bèlo d'ol fiòl de Deo!" E

anca la dòna che l'ha purturìto o gh'avarà 'na curóna con

sóvra stampà: "Quèsta l'è la mama che l'ha nascìo 'sto

bambìn, bèl ‘me Dio!"

Sant'Ana che l'ha 'scoltà 'stò bordeléri, l'è andàita sübeto de

la Madona: "A gh'è un premio, 'ndém, porta sübeto ol t'ho

fiolìn al concorso."

"No che no' lo vòjo el premio. Mi no' gh'ho besógno

d'avérghe consolaziùn altri che quèla che gh'ho già avüdo!"

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"No, no, gh'ha importànsa! Besógna che ol sàpia tüto el

mundo. Ol premio donà dall'Erode no’ po' catàrselo 'n'altro

fiól! Andémo, andémo! Ubbedìse a la tòa mama!" E fan per

sortìre cont ol fiolìn ma po' Sant’Ana ghe repénsa e dise:

"Aspèta che andémo a tor dei nastri per farlo plü bèlo ol

nostro bambìn, e ti Giusèp, daghe un ögio al fiulìn e sta

aténto che no' ghe capita quaicòs."

Vano fœra e sübeto San Giusèpe ol pianta lì de segare e dise:

"Chi ghe deve èser 'na trápula, mi sento che gh'è 'na trápula.

Gesù Bambìn, cosa ten dìset ti?"

E Gesù Bambìn che l'éra già inteligénte ol fà: " Sì, sì..." e

schìscia l'ögio.

Alóra San Giusèpe ól tira fœra un biciér dove gh'éra dentro

de la roba negra per pitüràr i cadenàsc. Cunt un penèlo tach,

tach, tach, ol fa dei puntini in tüta la fàcia al fiulìn ch’ol

faséva i grimàsi p'el galìtico.

"Fermo lì Jesulìn!" poe ol se remète a segare.

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Torna Sant'Ana e come la vede Jesus : "Ohaiooh! La

rosolìa!... La rosolia negra! Quel negro che l'è vegnü dénter

l'ha spaventà ol Bambìn!"

La ciàpa un strascio fru, fru, fri, nèta, nèta, e ol bambìn

devénta tüto netàto, pulito.

"Qualchedun gh'ha pitürà dei balìt sül so' facìn de Bambìn!

Chi a l’è stado, Giusèp?” dise minaciósa la Sant’Ana.

San Giusèpe che el segava: "Su no mi, su no mi."

"Ténto ti cun quèla sega, che mi té sego via quaicòss

d'altro!"

Catìva che l'éra Sant'Ana!

Pœ lée e la Madona van fœra de nòvo a tór dei inguénti per

darghe un bòn parfümo al Jesulìn: "Sta 'ténto che 'ndémo

fœra, varda che se capita quaicòsa al fiolìn la colpa l'è tua!"

San Giusèpe apéna che i do’ dòni son sortìde fœra, no' sa

cossa fare... Ol scorge sül müro un bestiolìn... tüto rigàdo,

giàldo e negro, ‘na avìs granda, ma cossì granda, che l'éra

pussè come un vespón. Cata un biciér... TOCH... Col biciér

l'imprisióna contro ol müro... presón! Un’asèta. SOOMM!

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Ghe tòpa sóra l'òrlo! (Al bambìno Gesù)"“Scüsa Jesulìn ma

débio farte dar 'na cagnàda propi sü la ganàsa. TUM!

PLOFF! (Indica un immediato rigonfio sulla guancia del

bambino) Adèss, dal'altra parte: TOCH! PLOFF! TUM!

(Indica un rigonfio che spunta sull'altra guancia) TUM! In

sü la fronte! La trinità dei bugnoni!"

Pœ, come no’ fosse, retürna a segare. ‘Riva deréntro

Sant'Ana: "Aaahhh Dio! Varda lì come l'è cunsciàto ol

nòster Bambìn! Ooeehh cos'è capità? Che mostro! Varda lì

Maria!" (Piange la Madonna, piange Sant’Anna)

"Ma no' sti a piàgner dòne, l'è ròba che va via quasi sübit,

do’ mesi al màsimo!" el dise Giusèpe.

"(Indicando i bernoccoli) Cosa i son Giusèp?”

"L'è el dénte del giudìssio!"

"De tüte e do’ parte?"

"Sì."

"Anca in fronte?"

"Se no' gh'ha in testa lü el giudìssio!"

Piange la Madona, piange Sant'Ana.

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"Che desgràsia proprio adèso che gh'éra un bèl premio de

guadagnà, doveva capitàrghe 'sti tre dénci del giudìssio ! No'

podarémo plü portarlo da l’Erode, tanto che l'è mostruoso."

De lì a un poco fœra per le strade se sént a piànzere... crìa de

dòne desperàde.

“Cossa è capitàt?” I sorte de la capàna... A le dòe dòne se

ferma ol còre: sénsa savér doe andar, corévan de qua e da là,

matri sansa plü cugnisiùn, co’ i fiulìt insanguinàt... sgrosàt...

in tra le brazza e le vusàva: "Aahhaa! A l'éra 'na trápula!

L'Erode, apéna sémo stàe ne la corte, l'ha fàit seràr tüti i

porti... e i soldài sunt ‘rivàt a masàrghe tüti i fiulìt... 'Na

tràpula l'éra! Tüti masàdi!"

Alóra Sant'Ana l'ha capit: l'è andàda par tèra in ginöegio.

Anca la Madona. E tüte e dòi criàva: "Grazie Deo iluminàto

con grande mente de intelighénzia! Ti t'è vorsùo salvàrghe

con quèsta desgràzia finta d'i bognùni 'sto Fiolìn che no'

'rivàse in le sgrinfie de l'Erode. Oho! Che mente! Che

trovàde che te gh'hai üt Deo!"

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E San Giüsèpe l’éra tanto rabiós... ch’ol segàva anca ol

cavalèto, biastemàva: "Cussì... sempre, sempre cussì!

Quando un òmo ol gh'ha 'na pensàda de zervèlo, pœ tüti

ringràsien Deo, che no' gh'ha fàit gnénte!"

TRADUZIONE

E in quel momento nella città, (mima di battere sul tamburo)

PATATUM PATATUM PATATUM, un banditore: “Ehi

ascoltate mamme, ascoltate donne! Chi di voialtre ha fatto

nascere (partorito) in questi tre giorni un figlio, può essere

contenta, perché il re Erode ha deciso di dare un premio al

più bel bambino nato. Portatelo alla reggia e il re, al

bambino più bello donerà una coroncina con su scritto: “Oh

come è bello ‘sto bambino! È un bimbo quasi più bello del

Figlio di Dio!” E anche la donna che l’ha partorito avrà una

corona con sopra stampato: “Questa è la mamma che ha fatto

nascere (partorito) ‘sto bambino, bello come Dio!”

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Sant’Anna che ha ascoltato questo annuncio è andata subito

dalla Madonna: “C’è un premio, andiamo, porta subito il tuo

bambino al concorso.”

“No che non lo voglio il premio. Io non ho bisogno d’avere

altre soddisfazioni all’infuori di quella che ho già avuto!”

“No, no, ha importanza! Bisogna che lo sappia tutto il

mondo. Il premio donato da Erode non può prenderselo un

altro bambino! Andiamo, andiamo! Ubbidisci alla tua

mamma!” E fanno per uscire con il bambino ma poi

Sant’Anna ci ripensa e dice: “Aspetta che andiamo a

prendere dei nastri per farlo più bello il nostro Bambino, e tu

Giuseppe, “dai un occhio” al figliolino e stai attento che non

gli capiti qualcosa.”

Vanno fuori e subito San Giuseppe smette di segare e dice:

“Qui ci deve essere una trappola, sento che c’è una trappola.

Gesù bambino, cosa ne dici tu?”

E Gesù Bambino che era intelligente fa: “Sì, sì...” e schiaccia

l’occhio.

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Allora San Giuseppe prende un bicchiere con dentro della

roba nera per dipingere i catenacci. Con un pennello TAC,

TAC, TAC, fa dei puntini su tutta la faccia del Bambino che

faceva smorfie per il solletico.

Torna Sant’Anna e come vede Gesù: “Ohaiooh! La

rosolia!... La rosolia negra! Quel negro che è venuto dentro

ha spaventato il Bambino!”

Prende uno strofinaccio... FRU, FRU, FRI, pulisce, pulisce,

e il Bambino ritorna lindo, pulito.

“Qualcuno ha dipinto dei pallini sul faccino del Bambino!

Chi è stato Giuseppe?” dice minacciosa Sant’Anna.

San Giuseppe che segava: “Non lo so io, non lo so.”

“Attento te con quella sega, che io ti sego via qualcosa

d’altro!” Cattiva che era Sant’Anna.

Poi lei e la Madonna escono di nuovo a prendere degli

unguenti per profumare Gesù: “Stai attento che andiamo

fuori, guarda che se capita qualcosa al Bambino la colpa è

tua!”

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San Giuseppe appena le due donne sono sortite, non sa cosa

fare... Scorge su un muro una bestiolina... tutta rigata, gialla

e nera, un’ape grande, ma così grande che sembrava un

vespone. Prende un bicchiere... TOCH... Col bicchiere la

imprigiona contro il muro... prigioniera! Un’assetta di legno.

SOOMM! E tappa l’orlo. (Al bambino Gesù)

“Scusa Gesulino, ma devo farti dare una morsicata proprio

sulla guancia. TUM! PLOFF! (Indica un immediato rigonfio

sulla guancia del Bambino) Adesso, dall’altra parte: TOC!

PLOFF! TUM! (Indica un rigonfio che spunta sull’altra

guancia) TUM! Sulla fronte! La trinità dei bugnoni-

bitorzoli!”

Poi, come se niente fosse, ritorna a segare. Arriva dentro

Sant’Anna: “Aaahhh Dio! Guarda lì come è conciato il

nostro bambino!... Ooeehh cos’è capitato? Che mostro!

Guarda lì Maria!”

Piange la Madonna, piange Sant’Anna. “Ma non state a

piangere donne, è roba che va via quasi subito, due mesi al

massimo!” dice Giuseppe.

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“(Indicando i bernoccoli) Cosa sono Giuseppe?”

“Il dente del giudizio!”

“Da tutte e due le parti?”

“Sì.”

“Anche in fronte?”

“Se non l’ha in testa lui il giudizio!”

Piange la Madonna, piange Sant’Anna.

“Che disgrazia proprio adesso che c’era un bel premio da

guadagnare, dovevano capitargli ‘sti tre denti del giudizio!

Non potremo più portarlo da Erode, tanto che è mostruoso!”

Di lì a poco, fuori per le strade si sente piangere... grida di

donne disperate. “Cos’è capitato?” Escono dalla capanna...

Alle due donne si ferma il cuore: senza sapere dove andare

correvano di qua e di là madri senza più cognizione, con

bambini insanguinati... sgozzati tra le braccia e gridavano:

“Grazie Dio illuminato con grande mente d’intelligenza! Hai

voluto salvare, con questa disgrazia finta dei bitorzoli, ‘sto

Bambino affinché non arrivasse nelle sgrinfie (mani) di

Erode. Oho! Che mente! Che trovate che hai Dio!”

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E San Giuseppe era tanto arrabbiato che segava anche il

cavalletto, bestemiava: “Così, sempre, sempre così! Quando

un uomo ha una pensata d’ingegno, poi tutti ringraziano Dio,

che non ha fatto niente!”

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golfo

0È più di un mese che siamo in guerra... come ai tempi degli

scontri fra cristiani e mussulmani. Io speravo veramente che

si realizzasse in breve tempo una pace definitiva, invece in

IRAQ stanno combattendo ancora, si spara, c'è gente che

crepa; i Curdi stanno scendendo dal nord, stanno occupano

una città dietro l'altra, ci sono gli sciiti che salgono invece

dal sud, c'è Saddam Hussein, che ha buttato del napal e un

po’ di gas nervino che gli éra avanzato dall’ultimo conflitto,

addosso ad intiere comunità di mussulmani non allineati.

D'altra parte certi prodotti bèllici cossì preziosi non si

possono gettare via... bisogna pure adoperarli!

C'è qualche morto in più... ma che ci vuoi fare!

Sorvdo sulla tragedia di questa guerra che, secondo gli

esperti avrebbe dovuto risolversi senza neanche un morto...

doveva essere una guerra tranquilla - ci avéano assicurato -

uno scontro quasi dimostrativo e invece gli è scappata di

mano... si parla già di oltre centomila caduti solo fra i

militari iracheni, più altrettanti civili morti a Bagdad. E

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siamo solo al prologo. In compenso, fra le truppe dei

“nostri”, neanche un ferito lieve. Tutti bene, grazie!

La cosa veramente grottesca è il crescere ogni giorno di

notizie che ci fanno scoprire quante frottole ci abbiano

ammannito a proposito di questa guerra, a cominciare dalla

presentazione del personaggio principale, il cattivo per

antonomasia: Saddam Husseim.

Sia chiaro, questo mostro scannaporci l'abbiamo inventato,

costruito noi, diciamo noi occidentali; senza il nostro aiuto

sarebbe rimasto un piccolo delinquente di provincia, un

criminale da strapazzo. Invece, prima di tutto, grazie agli

aiuti militari che gli sono stati forniti dalla coalizione dei

Paesi civili, ecco che è cresciuto come il servo gigante della

lampada di Aladino. Voi sapete che tutti hanno concorso a

vendergli armi, Pentagono in testa, russi, polacchi, perfino la

Repubblica di San Marino.

Fra l'altro siamo venuti a scoprire che, secondo osservatori

militari europei, Saddam Husseim dispone oggi del quarto

esercito, in scala di valori, del mondo... che è proprio una

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notizia da scompisciarsi dal ridere, soprattutto quando si

viene a conoscere il particolare che i carri armati che gli

sono stati venduti dai russi non erano di produzione

sovietica ma erano cinesi di scarto. È risaputo che quando in

Russia un carro armato viene male si dice “c'è uscito un

carro armato cinese!”

Ma ad ogni modo la cosa incredibile, è che lui Saddam

Husseim a sua volta si è convinto di possedere davvero il

quarto esercito del mondo, che lo credessero gli altri éra la

classica bufala, detto da lui è da megalomane con camicia di

forza obbligatoria... ed è per questo che lo hanno sollecitato

a buttarsi, con slancio in questa avventura.

D’altra parte, non è la prima volta che i popoli civili

scatenano massacri a scopo redditiziosentolando la bandiera

della liberà, recitando spudoratamente “l’arrivano i nostri!”,

ma facendo molta attenzione ai dividendi e agli interessi

maturati.

Vi ricordate la guerra contro Komeini? (RICHIAMO

FONDO PAGINA - 1-: SI ALLUDE ALLA GUERRA

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ESPLOSA ,ALLA FINE DELL’8O (?) TRA IRAN

(KOMEINI) E IRAK (Hussein) conflitto apparentemente

causato da motivi religiosi e territoriali, ma in verità la

ragione è da ricercare nella lotta per l’egemonia dei pozzi

petroliferi.) Un milione di morti soltanto. E questa azione a

cui concorsero in primo piano l'America, l'Inghilterra, noi,

ecc... ha fatto si che il grande rais Hussein, poi venisse

logicamente a richiedere il pagamento dell'obolo per il

servizio eseguito. Ma appresso, ‘sto deficiente, si è permesso

anche di occupare il Kuwait come risarcimento dei danni di

guerra subiti dalla sua gente. Giustamente lo abbiamo

mazzolato... pardon, l'hanno mazzolato!

E dire che sono stati proprio i bianchi civili ad allenarlo e a

incitarlo nell’acquisto e nella costruzione degli ordigni

bèllici, a cominciare dall’uso dei gas fulminanti - “oh, chi si

rivedete!” - sono arrivati, come maestri di produzione i

tecnici tedeschi dell’est e dell’ovest, che si sono incontrati

fuori sede per la prima volta a riprendere la loro tradizione di

gasisti... pardon, gasatori. E tutto, guarda caso, pochi mesi

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prima dell’unificazione in una sola grande Germania.

Almeno questa guerra è servita a qualche cosa!

Possiamo immaginare di assistere alla lezione su come si

impiegano i gas: “Stai attento, Hussein... dunque: c'è un

catalizzatore, poi abbiamo un gas inerte, un'altro gas inerte,

solo se uniti col catalizzatore funzionano. Vuoi provarlo?...

Va bene, dimmi su chi li buttiamo. I Curdi? Sì! I Curdi

vanno sempre bene, tanto li ammazzi e nessuno dice niente...

al massimo l'ONU fa un rutto di indignazione, non più di

cossì. Attenzione Saddam… il Curdo è là, lo vedi? Buttiamo

la prima bomba... ecco il gas che esce, non fa niente perché è

inerte. Ne buttiamo una seconda, non fa niente perché è

inerte. STAI ATTENTO SADDAM!" "Ah chi???" "Là!

Adesso ci buttiamo il catalizzatore... PUM!... Guarda, guarda

come fa il Curdo, lo vedi? Non è un ballo regionale, è che è

un pò ubriaco. Adesso attento alla testina... la inclina...

TON! E' morto! Hai visto? IMPARA!!!" E cossì ha

imparato.

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Ma sempre a proposito di frottole straordinarie... la più

criminale si è rivelata quella che ci ha ammannito addirittura

Bush in persona, e io l'ho bevuta, perché non pensavo che

quel Presidente fosse un politico tanto spudorato da venire a

raccontarci una balla di questo genere, balla che certamente

anche voi come mé, l’avrete bevuta. Si tratta, e Busch ci ha

assicurato che éra assolutamente necessario entrare

immediatamente in conflitto, perché se si fosse atteso un

anno a bloccarlo, Saddam Hussein certamente in questo

tempo sarebbe riuscito a realizzare una potentissima bomba

atomica… fatta in casa.

Ebbene, qualche giorno fa, il quotidiano più importante di

New York, il "N.Y. Times", ha realizzato un servizio-

inchiestae ha interrogato Scianagh, l'ultimo padre della

bomba atomica: “Senta professore - gli hanno chiesto - cosa

ne dice del pericolo che Saddam Hussein possa costruirsi la

bomba atomica?” Lo scienziato ha strabuzzato gli occhi, è

scoppiato in una risata con singhiozzo inarrestabile. Hanno

dovuto portarlo d’urgenza al pronto soccorso!

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E quei coglioncioni degli americani invece l'hanno bevuta!

A proposito degli americani e del loro candore, ho da

segnalarvi un fenomeno davvero surreale: prima di questo

discorso sull’atomica mussulmana, Bush poteva raccogliere

un’adesione popolare alla guerra pari al 51% scarso, ma

appena ha tirato fuori, in diretta tv la favola suddetta,

l’adesione alla guerra è salita al 90%. Questo vi dice

l'importanza delle frottole, quando sono giocate bene.

Ma la più criminale di tutte, devo ammettere, si è dimostrata

senz'altro la bufala del cormorano; tutti quanti ci siamo

veramente rattristati e indignati di fronte a quella immagine.

Ve lo ricordate? Quel povero fenicottero "strapenato",

inzozzato, lì sulla spiaggia, con il petrolio sparato fuori dai

pozzi ad insozzare il mare, da questi bastardi di iracheni.

Lui, ficcato nel bagnoasciuga, che zampettava. Arrivava

quest'onda aarburante che lo travolgeva. Il bipede: BLOOB,

BLOOB, rispuntava con un occhio tappato, faceva appena in

tempo a respirare che BLOOOB, un'altra onda nera e oleosa

lo incatramava! A 'sto punto sono sbottato, indignato: "Ma

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che criminali bastardi!", e tutti quanti ci siamo sentiti

rivoltare lo stomaco. Ebbene, adesso vi posso svelare che éra

tutta una balla, una frottola gigantesca! L’intiera categoria

degli scienziati legati all'ornitologia di tutto il mondo, si

sono indignati. I francesi in particolare su "Le Monde"

hanno pubblicato un articolo dove nel titolo si leggeva:

"Questa fandonia del cormorano non l'accettiamo!"

Perché? Perché di cormorani… di baby cormorano come

quello che ci avéa tanto commosso e indignato, sulle coste

del Kuwait, in gennaio, quando è stata effettuata la ripresa,

non ne esisteva nemmeno uno. Quei trampolieri se ne erano

andati via tutti, già in settembre… e normalmente ritoranno

su quelle coste a maggio. Ma col casino ecologico che c'è

stato lì, figurati se fanno ritorno: non li rivedranno mai più!

E allora ‘sto pellegrino di cormorano da dove è saltato fuori?

Vuoi vedere che è un cormorano in ritardo con l'orario di

migrazione? "Scusate, avete visto qualche volatile della mia

specie? Io devo partire, temo di aver perso l’ultimo stormo

migratore.”

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No, raccontata cossì la balla non ‘sta in piedi. La verità è che

tutta la sceneggiata truculenta è stata organizzata in grande

stile dai fotografi e operatori televisivi. Ma andiamo per

ordine: qualche settimana prima, vi ricordate, c’è stata la

insozzata di petrolio in mare: un milione e mezzo di barili

buttati cossì, da affogarci miliardi di pesci. In verità,

l’abbiamo saputo appresso, sempre dal New York Times,

l’insozzata di petrolio s’è rivelata molto inferiore, un numero

di barili che non raggiungeva i centomila ma sempre di una

schifezza da criminali si tratta! A ‘sto punto i fotografi e gli

operatori si sono detti: “Qui c’è da fare un bèl servizio!

Magari con una bèlla famiglia di fenicotteri che zampetta

incatramata sulla spiaggia fetente!”. Ma ahimè, il petrolio è

stato buttato a mare solo lassù, nel nord del Kuwait, a

trecentocinquanta miglia da Riad, dove appunto stavano i

nostri operatori. E che fanno i nostri cacciatori di scoop

guerreschi? Salgono su un gommone e a pagaiate risalgono

il mare per tre giorni per poi farsi impallinare come oche di

transito dagli iracheni incazzati? No, neanche ‘sta balla ‘sta

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in piedi. In verità la trouppe dei cameramen non si è mossa

dalla spiaggia di Riad, sono andati allo zoo e lì hanno

scoperto che i cormorani, che normalmente sguazzavano nel

laghetto artificiale, avéano tagliato la corda già dai primi

botti. L’unico fenicottero che hanno trovato éra un Mabibu,

che non è della classe dei cormorani, no, è un uccello

trampoliere che vive esclusivamente nell'Asia Minore e in

particolare negli acquitrini paludosi di acqua dolce. Come

l’hanno individuato, i cameramen: "Scusi, signor volatile-

trampoliere, le spiace venire in spiaggia al posto del

cormorano?" "Ma no! Ma io che c'entro! Io odio il mare!"

"Venga per favore..." Ma questo animale ha degli strani

pennacchi qui in testa… glieli hanno tagliati all'umberta,

cioè alti un dito. Quindi l'hanno portato sulla spiaggia dove

avéano rovesciato un paio di barili di petrolio, hanno

abbrancato il Mabibu e PLOC PLOC, l’hanno intinto a

sguazzo nel bagnasciuga. “Scusi... chiuda la bocca

PIU'PIU'PIU', sorrida... UNO DUE TRE ... ci basta, grazie,

vada pure BLOBLOBLOBLO". E noi tutti, come tanti

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boccaloni, ci siamo commossi fino alle lacrime a questa

malandrinata di messa in scena.

Ma la "scommozione", come a dire lo sgonfiamento

emotivo, l’abbiamo provata in seguito a quella

dichiarazione, vi ricordate, di Scwarz Scoop, il generale

abbondante, uno dei più grandi generali del mondo, nel

senso di dimensione e peso, due metri e dieci di altezza

senza tacchi, un quintale e dieci chili senza l'osso, ve lo

ricordate? Quello che arrivava immancabilmente ad ogni

conferenza stampa, simpatico… con quella faccia rubizza,

che a mé tutte le volte veniva voglia di chiedergli "mi dia

quattro etti di filetto, un ossobuco e un pò di carne per il

gatto". Simpatico dicevo… ebbene, alla quarta conferenza

stampa, è apparso stranamente abbacchiato e perplesso.

Cos’era successo? Ce l’ha confidato lui di persona: le rampe

dei missimi dai quali gli iracheni sparavano su Riad, dopo

essere state centrate dalle bombe lanciate dai super caccia

americani, riapparivano, come nulla fosse, il giorno dopo.

Ma da dove erano spuntate?!

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Lo stesso succedeva con i carri armati. Carri armati che

uscivano non si sa da dove, i bombardieri li puntavano ne

buttavano all’aria una decina, ma ecco che TRACCHETE!,

altri dieci ne apparivano dal nulla. A un certo punto, i

generali della coalizione hanno avuto il sospetto, lui l'ha

detto, che si trattasse di falsi carri armati. Ed éra proprio

cossì: erano tutte sagome di carri armati in vetro resina. E

chi li ha fabbricati questi sé moventi corazzati? NOI! Noi

Italiani! Guardate che siamo dei geni, dei cervelloni

leonardeschi! L’inventore di queste macchine beffarde è un

artigiano di Torino che ha forgiato qualche migliaio di

sagome similcarrarmato, sagome che si spalancano a scatola

e che visti dall’alto, non c’è dubbio, appaiono autentici Tang

d’assalto e sfondamento. Scoperta l’esistenza di tanto genio,

il Comume di Torino ha deciso di inalzare un monumento

all’inventore, nella piazza principale della città. In

quell'occassione c’erano tutte le televisioni del mondo a

intervistarlo! L’hanno letteralmente aggredito con le

telecamere e i microfoni: “Per favore, ci dica come ha potuto

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fabbricare carri armati cossì leggeri, agili e facili da

trasportare in gran numero?” “Ecco qua, è semplice! - ha

risposto lui e li ha condotti nell’officina - Ecco, vedete,

questi fogli di pressato sono sagomati per stampa e quindi

affiancati l’un l’altro a mo’ di libro. In ogni carico di camion

ci stanno quaranta carri armati, ed è semplicissimo

rimontarli, basta seguire il libretto di istruzioni allegato: A

con A, B con B, questo va a incastro, quest’altro pezzo si

inserisce a chiave, non c’è un bullone né una vite. Tempo di

montaggio 5 minuti. È cossì facile e divertente assemblarli

che gli irachieni lo fanno fare ai bambini delle elementari,

come premio.

Un cronista di Rai 3 ha chiesto: “I piloti, sia inglesi che

americani, giurano che quei carri si muovevano nel deserto.

Come ottenete questo portento?” E il genio risponde: "Basta

una corda molto lunga. Guardi, si lega qua, uno si mette in

una buca e poi tira il carro armato che, leggerissimo, viene

avanti come una slitta." "Sì, ma il calore emanato dal

motore, come lo realizzate?”

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Voi sapete che gli attrezzi di rilevamento di cui sono dotati

gli aerei americani, se non registrano l'esistenza del calore

non danno l’ok perché si spari, anzi, emettono una serie di

pernacchi con contrappunto di sghignazzi e l'aereo se ne va!

"È semplice - risponde il maestro dei carri bidone - noi ci

mettiamo una stufetta a serpentina, loro rilevano il calore e

dicono: ah c'è il motore! E sparano razzi e cannonate come

al carnevale di Rio!" "D’accordo, ma come ve la cavate col

frastuono che produce un carro del genere?” “Sempre più

facile! Ci piazziamo dentro una cassetta con tanto di

registrazione di cingoli e motore Leopard BLUUBLUBLU!"

“Incredibile! - esclama l’inviato di Rai 3 - Nessuno dei nostri

ascoltatori crederà mai che i piloti della Nato si siano

lasciate imbrogliare da mezzi cossì semplici, quasi infantili!”

Non v’è mai capitato di dare un’occhiata dentro la cabina

guida di uno di questi mostri bèllici? Nel cruscotto centrale

di questi super jet, c'è una specie di schermo, appaiono tutti i

disegnini che si muovono come in un videogame e il pilota

non ‘sta neanche a guardare attraverso il parabrezza ma

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segue direttamente l’azione attraverso il cruscotto. C'è una

voce che gli comunica tutti gli elementi, gli dice: "Vai,vai,

stai tranquillo, ecco, ecco, prendi quota, fino a trentacinque

abbassa dodici, ecco rileva, rileva, rileva, la velocità è OK…

va, vai che è una meraviglia, sei splendido, la tua mamma ho

saputo che ‘sta tanto bene, vai vai - e appare la faccia della

mamma che gli manda bacetti - Ti andrebbe una grattatina

sulla nuca? Sì? Procuriamo!" PLOP: una manina spunta dal

cruscotto, viene su leggiadra, gli ammolla degli schiaffeti e

gli torce appena l'orecchio “Oh come mi piace!”

All’istante scatta il segnale d’attenzione e incursione:

TIEIHIE! Ecco, appare l'immagine assonometrica di un

carro armato, anzi due, tre, quattro, e la voce si fa epica:

“Ecco qui il bersaglio è un 113 di 10 tonnellate, cannone 9-

81, c'è, c'è, c'è, eccolo l'ho inquadrato, guarda che c'è! Dai

adesso SCHIACCIA il pulsante rosso! Ci sei! Sei puntato!

SCHIACCIA TI DICO!” Se il pilota è preso da un crac

emotivo, la manina gli afferra il polso e lo costringe a

schiacciare. Parte un razzo tremendo che ha anche una video

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camera in testa: tutto intelligente! L’ordigno avanza

inesorabile. Dall'ogiva la radio emette a livelli frastornanti

un canto sul motivo delle Valchirie: “IRACHENO

SCELLERATO, SEI FOTTUTO, SEI FREGATO!"

Obiettivo centrato! PUMPUMPAK! Frammenti di carro vo

per aria, l'aereo risale a quota 2000 con grande impennata…

mentre esplode una risata registrata "AAAHAHAAAA AHA

AHA IIIH!", che si trasforma nell'inno americano.

Il pilota e i suoi generali sono raggianti e non sanno d’essere

stati fregati. Hanno sparato razzi del valore di miliardi per

trappole che costano come un giocattolo per poveri

trovatelli! È inutile, noi italici come bidonisti, siamo il

massimo!

Eppure, ci sono stati dei fabbricatori di trucchi inglesi, che ci

hanno superato, hanno sorpassato in ingegno anche i

torinesi. Costoro hanno realizzato addirittura un carro

armato di gomma.

Il carro armato gommoso, alla maniera di un preservativo

gigante viene pressato dentro una valigetta di queste

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dimensioni... poco più di una ventiquattr’ore. Viene

consegnato all’iracheno addestrato all’uso, l’iracheno

ammaestrato pone la valigetta a terra, estrae dal coperchio

una pompa del tipo “gonfia-gommoni”, col piede preme su e

giù POT POT POT: spunta il carro armato. Dal principio

informe ma che va prendendo il suo assetto sorprendente in

pochi minuti: coi cingoli, la torretta, i cannoni, ch'è il punto

più delicato, che se non si pompa con forza sufficiente il

cannone rimane moscio cossì... e al pilota di lassù potrebbe

nascere qualche sospetto. Ma quando appare il super caccia

bombardiere, l’iracheno pedala come un disperato sulla

pompa PEMPEMPEM TUNTUNTUN ed ecco la canna ritta

come un fallo orgiastico in fase d’orgasmo multiplo!

L’iracheno ha giusto il tempo di gettarsi dentro la fossa di

protezione che parte il razzo e colpisce il bersaglio. C’è il

commento di un pilota americano che è veramente

divertente, dice: "È strano come si comportino questi nuovi

carri armati iracheni, perché non esplodono, non deflagrano

come gli altri russi, cinesi. Non so di che marca siano, che

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nazione glieli abbia procurati: come li becchi saltellano qua

e là nel deserto TUM PIM TUM PIM, emettono uno strano

sibilo PIHIIIIIIIIII e scompaiono nel nulla.

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Versione introduttiva di “Mistero Buffo” eseguita il 29

marzo ‘91.

TRASCRITTA MA NON CORRETTA

Qualche giorno dopo, spinto dai nuovi eventi, ho portato

qualche variante al prologo. Eccovela.

PROPRIO UNA STRANA GUERRA! Un'altra situazione

davvero grottesca è quella dei preservativi. C'era il problema

di preservare le canne delle mitragliatrici, dei fucili, delle

pistole... perché se l’interno delle canne si riempiva di

sabbia, c'era il pericolo che l’arma scoppiasse... SPARI... E'

PIENO DI SABBIA... DEFLAGRA... SI SCALDA

VELOCISSIMO... e allora su ogni mezzo da tiro si infilava

un preservativo... ed era strano! Ho visto due o tre fotografie

che ci hanno mostrato i giornalisti francesi di queste armi a

ripetizione o a rinculo col preservativo dietro attaccato anche

su mitragliere da venti millimetri, e alcuni preservativi

infilati sui cannoni, non so di che misura, marca e

provenienza. Roba gigantesca, da elefanti. Ma io mi

immagino i primi iracheni che si sono beccati i colpi di

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proiettili da questi qua, ancora avvolti nel preservativo, che

per la fretta non stavano a sfilarli TO’... UN PROIETTILE

CON IL CONDOM!

Come dicono i francesi, e hanno proprio ragione, questa è

proprio una "drolle de guerre", una guerra da crepar dal

ridere. Il coronamento di questo conflitto da clown è la

scoperta delle galline da combattimento. No, non è un lazzo

buttato lì tanto per stupire a scompiscio gli alleati elettro-

supercomputerizzati, hanno davvero adoperato le galline in

guerra. È la prima volta nella storia dell’umanità che

assistiamo alla scesa in campo di pollame guerriero evento

del quale noi tutyti dobbiamo essere molto orgogliosi perché

esse sono razza scelta dei nostri pollai, quindi esultiamo:

(intona l’inno nazionale) Oh polli d’Italia, l’Italia s’è desta!”

Forse le superstiti di questo conflitto riceveranno una croce

particolare di Gladio (richiamo fondo pagina2:

organizzazione clandestina creata, per un probabile colpo di

Stato, con l’apporto dell’ex Capo dello governo, Presidente

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Cossiga); quelle che rimarranno vive le vedremo sfilare a

Taranto (NOTA FONDO PAGINA: BASE DELLA

MARINA MILITARE ITALIANA E LUOGO DI

PARTENZA PER IL MEDIORIENTE DEL NOSTRO

CONTINGENTE MILITARE) con le pime al vento e una

croce di ferro penzolante sul petto. Noi staremo lì a salutarle

orgogliosi e ritti sull’attenti ci saranno anche i presidenti vari

che le baceranno.

Ma cos’è ‘sta storia del pollame guerresco? È presto detto:

l'avrete visto in uno speciale TV e l’avrete pure letto su “Il

Corriere della Sera” e la “La Repubblica”… non vi racconto

storie: nelle foto si scorgono alcuni marines con una gallina

bianca in mano, razza emiliane e padovane. Ecco perché

dicevo che le croci di guerra verranno tutte dall'Italia: hanno

svuotato interamente le nostre aziende gallinifere, batterie

intiere anche centomila per volta.

MISTERO BUFFO

SECONDO DISCHETTO

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BRANI INSERITI

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LE MARIE-NAPOLETANO presentazione- brano dialetto-

traduzione

LE MARIE-LOMBARDO - presentazione- brano dialetto-

traduzione

MARIA SOTTO LA CROCE Present. Brano dialetto-

Traduz

LA NASCITA DEL GIULLARE - CI STO LAVORANDO

- pres.

MATTO E LA MORTE- presentazione-brano dialetto

traduzione

MATTO SOTTO LA CROCE - presentaz. brano dialetto -

traduzione

BONIFACIO VIII - presentazione--brano dialetto -

traduzione

GESÙ BAMBINO presentazione, dialet.- traduzione

Presentazione n° 2: PAPA ALBINO

GRAMMELOT FAME DELLO ZANNI presentazione

GRAMMELOT DI SCAPINO - presentazione

GRAMMELOT SULLA CADUTA DEL POTERE -

presentazione

GRAMMELOT AVVOCATO INGLESE- presentazione

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NASCITA DEL GIULLARE

TRASCRITTA CON PARTI NUOVE

EVIDENZIATE,MA NON CORRETTA

Ahh... gént... vegní chi, che gh'è ‘l giulàr! Giulàr ca son

mi quèl... che fa i salt e ca 'l tràmbula de folìa e che...

(esegue una piroetta buffa) Oh... oh... a ve gh’ho fàit

rìder! Vegnìt… ve fagarò scompisciàr, murìr de ridàde…

quand ve farò descovrir i magiorént… che i van intórna

tronfi e gonfiàt ‘me balóni a far guere e a scanàr… ve i

mosterò desbiòti e cunt el cül al vento… e basta

stapàrli… tràrghe via ól pireo dal cül e... pff!!, se sgiónfia

e i stciòpa ‘mé vesìghe!

Vegní chi, che l’è óra e el lògo che mi faga ól pajàsso per

vui! Tütt intùrna a mi! Vegnìt! V'insegni ‘na manéra

nòva de sta’ a mondo. Vegnì... vegnì! Aténti ‘me

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sgambèto intorno a l’improvìso… ‘na cantadina, e fo’

anca i falsèti a saltabech! Vardé la mia léngua 'mé la

gira! Ah... ah... a l'è un mulinèl, un cultèll... che tàja i

garèti ai bosiàrdi impostór! Ma avànte ve vòjo contàr in

che manera mi a son diventàt bufón. En vertà mi no’ a

l’éra sémpar stàit julàr. L’è quèst ca voi ‘contàr, come

sunt devegnüt bufón che ól fa scompisciàr la zénte da le

rigolade! Che mi non son nasüo d’un fiàt tombàt dal

ziélo, e, op!, son chi: “Bondí, bonasìra!” No! Mi, sensa

vantam a son un miràcol vivént! No’ vursì crédem? Sì, a

l’è vera, mi son nasüt contadìn. Pròpri vilàn sapazòle. A

no’ gh’avéo tanto de sta alégro: no’ gh'avévi tèra. No’

gh’avéa nagòta! L’ünega par podér campare l’éra

mèterme sóta pdrón: stcéna cürva e fadìga da

strasabràsci.

Duvìt créderme… déme confiànsa! No’ l’è nemànco

capitàt par caso che a son saltàt sül bancoa fav fa ridàde

a sganàscio…No, e nemànco l’è sucedüt che mea matre

vardàndome bambìn stravacào in la cüna che a rideva a

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sganàsso l’àbia ‘sclamàt: “Ma che bèla facìna

sempàtega... Alegrèsa té mé fa! Spaiasolìn ridénte!

Varda, de grando té fago far el julàr!”

No! E nemanco l’è capitàt che mé son ‘speciàt, rimiràt

deréntro ól cül de una padèla lüstra che la mé faséva de

spècio, cossì che a vardàrme: “Ohi che ögi sbarluscénti

de ‘legrèssa che spantéga luz felìz d’ògni lógo! Son pròpri

sempàtego, spendìdo! Vago a far el giulàre!” E nemànco

l’è capitàt che ól Deo Padre, ch’ol végne sémper a spia’

föra de le nìvule... ch’ol gh’ha niénte de fare quèl…

‘mirando ól so’ creato, beato ól vùsa: “Oh! Che bèla tèra

ch’ho fao! Oh!, che bèla tèra che gh’ho partorìt! Oh, bei

àlbari gh’ho metüo in pie! (Cambia tono) E chi è quèlo?

L’è un vilàn! Cun quèla fàcia! Sempàtiga! “Ehi,

cuntadìn… zèta la vanga, mòla ‘sta tèra e va a fa’ el

giulàr e no’ rompe’ i cojóni!”.

No, no, no’ l’è stàit lü! L’è sta’ ól so’ fiòl Jesus.

Un meràcolo!

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No vàgo ciarlàndo, v’el ziùro! Un miracolo impròprio de

lü: Jesus Cristo en la persona. L’è lü co’ m’ha fàito

devegnìr giulàr!

No’ mé credét? Ól sàvie bén! Alóra el vo’ a mostràrve!

D’acòrde?

Ogne matìna mé valzàvo co a l’éra ancmò scüro… ól sol

no’ éra ‘mò incresùo e mi andava scurvà co’ sàpa, picón

a spacàre zòle: ól méo sudór a l’éra la préma acqua co’ la

tèra la bivéa.

A la sira stornào a la casa imbriagà... stràco morto, co’ i

ögi sbiancàt de lüz e nemànco la vója de ziogàr coi mé

fiolìt, far ziòghi d’amore co’ la mia puta de mi… mojèr

de mi l’amore… mé slungàvo strafugnà stordìt in sü el

lèto... un paiùn... e m’endormìo. No che no’ mé

indormentìvo! Desvegnìvo! E in la note deréntro al mé

dormìr sòno no’ gh’éra insognaménto. Chicchirichì!

Maledìcto! De nòvo a fatigàre!

Ma un ziórno tornào del campo travèrso la rivéra del rio

en zérca de quarche granco… mé so’ sperdùo camìno e,

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de bòta, mé son truvà devànti a üna montagna négra che

no’ cognosévo.

Tremenda, alta!

E gh’hoi domandato a ün careté ca ól pasàva de lì:

“Compagnón, de chi l’è èsta montagna smargiàsa co la se

risa a l’improvìsa?”

“De nisciün!”

“Ma coma ól po' vès che de nisciün ‘sto monte gigante?!”

“La val negóta! L’è piéra négra rutàda da un vulcàgn.

La ciàmen: la cagàda del diàvulo!”

“Ól ghe sarà vegnüo un gran mal de cül a ól diàvul nel

sbrofà da i ciapp ‘sta cagàda,!”

E mi sunt andài fin su... rampegàndome gatóni sul un dòss e

raspàndo cuj ungi e raspando con le unghie da una zanca

fessata ho cavato una manciata di terra… e ho descovèrto

che gh’éra un fregüj de tèra… lo usmàt: dulza, grasa! Sont

‘ndài coréndo fin a casa da la méa fumna, la fémena de mi.

La gh’ho ciamàda in quartiér, criàndo de ‘legrèssa… l’ha

brancàt sapa, la sègia e la m’è vegnüda après coi fiulìn.

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Zónti sül dosso, sénsa nemànco catàr fiàt, avémo comenzà’ a

sapàr da partüto cavàndo quèl pòch de tèra e po’ sèm

desendüi giò a la riviéra del fiüm a catàr sidèlade de terén.

Sémo andàit anco al simitéro, sémo andàiti a robàr tèra ai

morti! Bèlla la terra de le tombe vègie! Grassa! E se montàva

càrighi de sidèli e se spantegàva ‘sto terén letamóso: ziórno

pe’ ziórno, se improntàveno gradoni… ‘na scalenàda de

gradóni! E portà tèra dentro el grembiàl!

Tüti a lavorar, con anco i fiülì.

Contenti!

E la mujèr de mi, bèla, bianca… la andava co’ ‘sti

paniér pién de tèra in su la testa. Un mòverse a dirìto

‘me ‘na rejna! Ögi luzénti, le zinne tunde e sode… co’

quando avanzàva coréndo, i susultàveno apena ‘me

fructi par ól vento. Oh... se l’è bèla! Dólze amore méo!

Dólze amor de mi!

E la cantava! La cantava tanto bén, che la so’ vóse drita in

tèl zervél t’arivàva!

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Ziórno per ziórno, de lune, de lune, sèm ‘rivàti a montàr

tanti gradón ch’ol paréa la Tore de Babèle!

Ma no’ gh’éra l’acqua… Co’ le piche de fèro se faséva bögi

de sonda ma no’ sortìva “na spüdàda. Ghe tocàva desénder

fino al fiüm, deséndere e rimontàr, tüti, mojèr e fiulìt, con

sègi e sègi, ma sémper sèca la turnàva: bivéva, ‘sta tèra

‘me se de sota ghe fóse un drago asetàt!

Un ziórno sunt ‘ndàit cul picùn in spala insìma a ‘sta

montagna biastemàndo: “Deo maledìcto!” e pién de ràbia ho

picàt ‘na bòta a zancàda con fòrsa in de la piéra: PUM! La

piéra s’è spacada e SVUOOOM! SCCIHUUM! È sortìo ‘na

sbrofàda d’aqua che ól m’ha enondàt STCIUM! El sortìo

una gran sbrofàda d’acqua che m’ha inundà. “Oh Segnór,

gràssia! Besógna blasfemàrte par farte fa i miràculi Deo

santo!”

Fotón d’acqua che sbotàva da partüto... e gorgojàndo

spantegàveno ziò per la scarpàda inondàndo a inquitrinà ogni terén!

!

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La mujèr de mi a l’è stciopàda en lacrime co’ un pianto de

ziòia e i fiülìn empaltàt i sguasàva ‘mé pèssi in frégula…

“Gràsia! Gràsia Deo!”

Un parfüm dólze se spantegàva da par tüto… e l’erba che de

sübito sortiva! Gh’ho piantà una seménte de ségale, n’ho

gh’ho fàito a tempo a vultàrme che TAC!, un bütón de

föietìne spuntava! O l’éra tèra d’oro!

Una sera mé son desmentegàdo la sapa impiatàda en tèl

terén; il ziórno aprèso son tornào, l’éra fiurìda: la sapa

fiurìda!

Da i àrbori sbutàva fructi, üsei co i vegnìva a farse ól nido…

parfüm… ól grano, el froménto… 0h! Che folìa! Gh’avévi ól

terór de desvegiàrme de un sogno.

Son ‘ndàit de contra al ziél rosàdo, col sol che l’éra rénta a

calàre drio i monti e ho dit: “Deo! Ól cognóssi bén ól so da

semper che té sèt deréntro ól sol anca in ‘sto momento e té

rengràsio del dono grando che ti mé ha fàito co’ ‘sto

meràcolo! Té ghe sarò reconosénte… a costo de südàr

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sangu, té la fagarò vegnìre un paradìs terèstre ‘sta tèra.

Amen!”

I pasàva i me cumpàgn contadìn e i diséva: “Che cü che té

ghe aüt! Da ‘na muntàgna sèca, t’hàit tirà föra el giardìn de

ün pascià!” E invidia i gh’avéa.

Sunt lì in tèl campo, svòlto la testa e té scòrzo, sul so’ cavàlo

el padrùn de tüta la vale che ól mé punta. Ól ziràva i ögi

intórna e ól mé vardàva… e pöe ól sbòta a dirme: “Chi che

l’ha tràita in pìe ‘sto miracolamento? Chi è che l’ha fàita

sbotà ‘sta tèra?”.

“Mè, segnór! Mè, a l’ho fàita… zòla sü zòla gh’ho portàt…

gh’ho montàt gradóni… Mè! Anco l’acqua che no’ gh’éra...

mé la gh’ho fata spüdàr föra a sapàte! Mèa è ‘sta muntàgna

che l’éra de nisciün!”

“Roba de nisciün l’è üna manéra de dire che no’ exìste miga.

Chi lòga, se no’ ti sa, par tüta la vale, anco fiüme, tèra, pière,

tüto ól gh’ha ün padrón… e mi son quèl!

Padrón anca de l’aria che té respiri.”

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“Ma gh’ho domandào intorno... ‘sto monte el ciàmeno la

cagàda del diavolo improprio per dir che nisciün l’ha gimài

vorsüda. Nemànco vui patrón.”

“Pòle darse... ün témpo… ma adèso gh’hàit ripensàt: L’è

méa!” Gh’ha dàit de spròn al cavalón e l’è disparüt!

Qualche ziórno aprèso ‘l vedo in fonda el prévete, ch’ol

vègn abijàt tüto in nério, ól südàva e col fasülèt se sgrusàva

ól sudór che ól colava da la fronte ziù fino al còlo… e già de

luntàn mé vosàva: (in grammelot imitando il latino)

“Cuntadìn, vilàn caro, in pax tòa végno a dessólvere tòa

spudénzia et presonzión de penzàr che ti pòda poxedére

pruoprietà de un teretòrio. Nullo ex libero de poxexiònem et

ògne palmo de tèra abe una sòja pruoprietàt che illo Papa

e l’Emperadór han comcèxo a èsto mazzorénte üneco e

ti fiòl méo debbi zéder en santa pax domine!”

Come l’è stàit aprèso, gh’ho dàit ‘na sapàda che per pòch

no’ lo gh’ho inciudà, lü, insémbia al so’ àseno che ól

montava! Mai vedüda ‘na ziravòlta cossì de fulmine,

molàndo zachignàde coi talón su le bale del ciùcio, l’andava

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saltelón blasfemàndo d’una manéra che mé son fàito el

segno de la cróse!

Do’ ziórni che végne a près ‘riva sü ól nodàro co’ ‘na bèla

müla grosa, con un gran cül… lü, ól nodàro con un cülón

anca lü, che quando l’è desendùo dalla sèla no’ se capiva

se l’éra desendùo… ól cül de lü o quèl de la müla!

O l’ha srotolào ‘na pergamena lònga e scura tempestàda

de ségn, sbirolìzzighi svirgulamént e cróse e l’ha dit,

sanza fiàt, spüdàndo paròli ‘mé ‘na letanìa: “Mèo caro

amìgo, sàvio bén e té dago fiéra rasón del facto che per ól

volgo l’éra sconosiüda alcuna possessión de ‘sto monte,

ma dàndoghe ün’ugiàda a ‘ste carte de pergamena

antìga, se descòvre ciàro che ‘sto lògo terén o l’éra

posesión del rèi Boésio prim, che gh’avéa donàt ól

teritòrio metà, al de chi dól fiüm a una sòa enamorósa,

‘na santa monegha e l’ólter fondo a un fiòl bastardo, el

so’ plu amato tra tuti ii bastardi che ól tegniva. Ma l’è

capitàt in quèl temp che ól fiüm par una gran tempesta ól

stravacàss fòra de i argén e ól se redopiàt in dói rivi:

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metà da un canto, metà dall’óltro, lasàndo in mèso

un’isola con soravìa un monte negro. Per ‘sta resón, par

secoli ól monte no’ l’è risultàt de nisciün. Ma adèso

ól nòster segnor e padron l’ha descovèrto ól facto de la

straripàda del fiüme, ól pretende justament de ricatàrse

la posession de ‘sta deabòlega cagàda!”

No’ l’avea nemanco reciapàt fiàt ól notaio che gh’ho molàt

‘na gran bòta, ‘na cagnàda sü i ciàp che l’è scapà via al

galòpo, lü e la sòa müla!

“De ‘ste brase ès ‘sta tèra! No che no’ la mòlo a nisciùno!”

Ma èco che ün dì respùntaa ól padròn coi so’ sbiri.

Nünch èrum in dei campi a trabajàr co’ i fiulìt, la mia

mujéra… e i soldàt de lü m‘han catà, slargà le brase e m’han

tegnüo de fermo. Ól padron ól s’è calàit i braghi, u l’ha

ciapàt la mia mujèr de mi e l’ha sbatüda par tèra: ól gh’ha

strasciàt i sòchi… slargàe le giàmbe, ól gh’è saltàt de sura, u

l’ha fàita come fudèss ‘na mansa. E tüti i suldàt i rideva.

I fiolìt mé vardàva coi ögi sbaràt… sbiadìt.

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I vardàva la madre… i vardàva mi. E mi davo gran

scosón… mé sunt liberàt, ho catàit 'na sapa, hu vusà:

“Disgrassià! Ciàpa!".

“Férmo fiöl! Fermo! - m’ha criàt la mujèr de mi - No’

darghe ul pritèsto de copàrte. No’ i spécia óltro. Ti ziùsto ti

pénsi de crepàr pitòsto de spatasciàr el to’ onór... ma ti no’ ti

gh’ha onór. Onor ghe l’hano sojaménte chi ròba tegne,

denàr, tere! Noiàltri sbiòti de tüto no’ gh’avémo onór!

Nostro onór è la tèra! Salva la tèra, tégna la tèra e spüdaghe

sóra a ‘sto onor!”

E mi de bòto ho franàt de ogne volontà… ho molàt la sapa

par tèra.

I soldàt sghignàva de frecàso: “Bèch, cojón, sénsa dignitàd!

Gh’han muntàt la fémena e lü ól sta lì inciulinàt ‘mé un

lifròch!”.

Ól segnór l’è montàito a cavàl e drio a lü se encaminàva i so’

sbìri. “Adèso té la pòl pur tegnìre la tòa tèra. Té mé la

gh’hàit bén pagàda!” e rigulàva.

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Andando inànz cumpàgn de ün fròk de cavre sbandàt,

sémo tornài a la casa.

La mujér l’andava avanti, no’ vardava nisciün.

I fiöl no’ mé vuardàva.

Mi no’ vardavi.

Nisciün se vardàva.

Quando po’ la mia mujèr le desendüda in paés per fa’ scorta

de maserizie, la gént al so’ pasàg se scansàva. Nusciün che

ghe diséa bòn dì… cumpàgn che no’ la vedèse nusciün.

Pasàda qualche note la mia mojér criàndo l’è fuìta

curéndo in sü par la muntàgna… la montava feséndo

ridàde… sbatéva i man, cantava a perdifiàt co’ paròli de

svergognàda.

Mata éra.

“Ferma! Férmate amor! Torna indrìo col zervèlo… a mi no’

mé empòrta… sémper ól méo amor té sét par mé!”

No mé dava tra. L’è desparüda. No’ la gh’ho plü gimài

vedüa.

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I fiöl no’ diséan parole, no’ ziogàva, no’ i ridéa, no’

piagnéva. Ziórno per ziórno smagrìveno: morti!

V’ün par v’ün, morti son!

Soléngo sont restàit… unégo cristiàn sü ‘sta tèra brusàda…

per la resón che i suldàt gh’avéano dàito fògo a la casa e al

bòsch.

Imbesuìt no’ savéa còssa che fare. ‘Na sira ho catàt un tòco

de corda, l’ho lanzàda su ‘na trave, l’ünega restàda sana tra i

müri fumigàt… hu fàito un grópo, mel son sistemào intorno

al còlo e ho dit: “Deo che anco in de l’oscüro de la note té

varde i omeni ‘traverso i mila sbarlüsci de le stèle… par qual

ziògo malerbèto, Segnor ti mé dàito ‘sto dón de la tera e de

l’aqua carigàndome de sperànsia… per póe, aprèso,

stravacàrme in la merda de desperasiün?! Ti té dovéa mé dir

che o l’éra per segnàrme col fèro ruventàd e darle testamén

ciàro che chi coménsa da vilàn poarèto sémper uguàl dovéa

restàr… no’ farse sperànse né ‘sognménti de presonsión!

Segnor té de digo che a l’è stàito gran sbefezzaménto cruèl

èsto de farme provare chi-lò, in tèra ól paradiso, per despò

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rebutàrme cont ün spernach zó, a l’enfèrno, sinza pità! E

alora té vòjo dir che ‘sta vita de merda co a té mé dàio, mi té

la retórno in drio! Tégnetela ‘sta vita!”

Ól fago per slanzàrme empicàdo, u mé senti pugià ‘na

manàda chi in sü’ la spala, mé volto e gh’è un ziòvin coi

cavèli lónghi… strepenà… la fàcia smorta… i ögi grandi,

dólzi e tristi che ól mé dise: “A podrìa avérghe un poco

d’àqua de bèvar che gh’ho sete?”

“Ma té par el momènto de vegnìr a domandàr da bervàr a ün

che a l’è drio a impicàrse? Ma dua a l’è la creànsa?”

Ghe do ¨n’ugiàda… ul gh’avéa ‘na fàcia de pòver crist anca

lü. Daprèso a quèlo ghe n’è alter dòi desperà: vüno co’ i

cavéli e la gran barba bianca e l’òltro sànsa barba… maghér

e smòrti che i paréa lavàt in de la calcina… co’ la fàcia

patìda.

“A gh’èt altro besógn che de bèvar voiàltri! De magnàre ghe

vòl! (Fa il gesto di togliersi il cappio dal collo) Bòn, ve do

un quaicòs de magnàre e poe mé impìco!”

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Vago… zérco sòta un’arcón restàito in pie: fave sojaménte

gh’ho trovàit e dòe sigóie. Le gh’ho còte bolìte. Gh’ho

impiegnìt tre baslòtti e ghi ho metüt in di man. I magnàva cot

la golosìa de afamàt. Das poe che han magnào, quèlo zióvin

de figüra svèlta e co’ i ögi grandi, soriéndo mé dise: “Gràsie

de’ ‘sta minestra calda! A ti, té végne in mente chi pòsa èser

mi?”

Al vardo bén: “Mé parèse che ti… squàsi… té sièt el Jesus

Cristo!”

“Bòn! Ti gh’hai indovinào! Èsto l’è Paolo e l’óltro l’è

Petro.”

“(China il capo in segno di saluto) Piazére! E còssa che pòdo

far anco’ per vui?”

“L’è basta de quèl che té ghe dàito col magnàre. Mi té

cognósso a ti vilàn, mi sàe còssa té gh’ha capitàt, còssa té

fàit té… a cugnòsi la fadiga che t’è custàda pe’ tiràr in pie

‘sta tèra e far fiorìr ‘sta muntàgna sbrofàda föra da le ciàpe

dol diàvul. Al so del sudór dei to’ fiòl e de la tòa mujèr… e

della violénsia del segnór sü la tòa dòna... Tüto par l’orgòjo

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de no’ molàr ‘sta tèra! Bòn de fòrsa, coràjo… bravo òm ti

gh’ha demostràt de vès! Ma l’è ziùsto che té séa fornìt

cossì… a ‘sta manéra.”

“(Tono risentito del contadino) Par che rasón, Cristo?!

“Parchè té l’è tegnüda tüta sojaménte par ti la tèra e no’ l’hai

spartìda co’ i altri vilàn, strepenàt ‘mé ti!”

“Ma té dìset cus’è?! Spartìr co’i altri un fasolèto de tèra che

nu’ l’éra nemànco a basta par mi e per la méa zént?!”

“Fa no’ el piagnùn… a pudévan vegnì chi a campà tanti

ómter disperàt ‘me ti!

Dime vilàn… ti té sèt andàito intorno per casali… le case de’

paión a ‘contare la tòa storia? Te cercàt de tirài derénter la

tòa vida? No? Bòn, mò at dévet far en manéra che i ólter

se caréghen lor mèsmi de quèl che tè capitat‘… at dévet

dìrghe de ól padròn… de la bastardàda co l’ha fàito co’ la

tòa dona, e avànte del prévete e del nodàro! E po’ ‘scolta

quèl che té conta lori.

E sòvra ògne còssa no’ racontàr de piagnón ma co’ ‘na

rigolàr-sghignasón… aprénde a rigolàr!

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A trasbotà anco el terór in ridàda… Rebaltàr col cül per aria

i furbación che i çérca de incastràrve-ciulàrve co’ i paroli…

co’ le gran ciciaràde! E fa che tüti sbròfa in gran sghegnàs…

che rigolàndo ogni pagüra se desléngua!”

“Ma mi no’ sàbie, no’ sàbie dir parole roversàde… no’ sò

farghe el controcanto de bufón… e nemànco filastròche a

torción sbefàrdo che la léngua mé se intorpéga deréntro i

dénci… col servèlo che tégno inciuchìdo dal sol e da la

fatìga !”

“Té gh’hàit rasòn. Ghe vòl el meràcolo!”

M’ha catàt par la crapa… ul m’ha tiràt visìn a la sòa

fàcia e ól m’ha dit: “Mi Jesus Cristo de ‘sto moménto té

do un baso sü la bóca e ti senterét la tòa léngua frolàr a

tirabusción e poe devegnìre como un coltèlo che pónta e

tàja… smovéndo parole e sfrasegàr ciàri como un

evanzélo.

E poe core in la piàsa! Ziulàre ót sarài! ól padron

sbragherà, soldàit, préveti, nodàri i sbiancheràn

scoprendóse desbiòti ‘me vèrmeni!”

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E cossì ól m’ha catàit la testa, m’ha portàit i labri sòi

dólzi ai mèi et m’ha basàdo. Mé arivàt un gran tremór de

fògo süi lavri… la méa léngua l’ha mé gh’ha comenzàt a

trilurà a torcejón ‘me ‘na bissa. Parole nòve slisigàveno

rotolando in de la méa crapa. Ogne penzér mé se

revoltolàva… ogni idea mé sortéva capovolzüda.

Son corsüt a perdefiàt ziò in borgo, son saltà süi gradón del

batistério e ho gridàt: “Ehi! Zénte! El giulàr son mi! A ve

mostrerò ‘me s’ trasfórmeno i paròli in lame tajénti

che stronca d’un bòto i garèti dei bosiàrdi impostori... e altre

parole che divégne tambüri de per desvegiàre çervèli

dormiénti! Venìt! Venìt zénte!”

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NASCITA DEL GIULLARE

Traduzione

Ahh... gente... venite che c’è i1 giullare! Giullare che

sono io, quello... che fa salti e che straparla folle e che...

(esegue una piroetta buffa) Oh... oh... vi ho fatto ridere!

Venite che vi faccio vedere i maggiorenti spogliati nudi e col culo al vento e scoprire come sono tronfi e

gonfi… palloni che vanno d'intorno a far guerre e a

scannare. Ma basta stapparli, cavargli fuori il tappo dal

culo e... pff!!, si sgonfiano, scoppiano come vesciche! Venite qui: è il tempo e il luogo che io faccia il pagliaccio

per voi! Tutti intorno a mé! Venite! V'insegno un modo

nuovo di stare al mondo. Venite... venite! Attenti che

sgambetti e lazzi v’improvviso… una cantatina, e

faccio pure i falsetti a saltabecco!

Guardate la mia lingua come gira! Ah... ah... Vi mostrerò

come si trasformano le parole in lame taglienti che

mozzano i garretti ai bugiardi impostori! Ma avanti vi

voglio raccontare di come mi sono ritrovato buffone

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che fa scompisciar la gente dalle risate! Che io non sono

nato da un fiato caduto dal cielo, e, op!, sono qui:

“Buondì, buonasera!” No! Io, senza vantarmi sono

miracolo vivente! Non volete credermi? Sì, è vero, io sono

nato contadino. Proprio villano zappazolle. Non avevo

tanto da stare allegro: non avevo terra. Non avevo

niente! L’unica, per poter campare era mettermi sotto padrone: schiena curva e fatica da

spaccabraccia. Dovete credermi… datemi ascolto! Non è nemmeno per

caso che son saltato sul banco a farvi far sghignazzi. No,

e nemmeno è successo che mia madre guardandomi

bambino spaparanzato nella culla che ridevo a

sganascio, abbia esclamato: “Ma che bella faccina

simpatica... Allegria mi fai! Pagliacciolino ridente!

Guarda, da grande ti faccio fare il giullare!”

No! E nemmeno è capitato che mi sia rimirato dentro il

culo di una padella lustra che mi faceva da specchio, così

che a guardarmi: “Ohi, che sventagliata sbaragliante

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d’occhi, mi ritrovo! Sono proprio simpatico,

splendente! Vado a fare il giullare!” E nemmeno è

capitato che Dio Padre, che viene sempre a spiare fuori

dalla nuvole... che non ha niente da fare quello…

rimirando il suo creato, beato grida: “Oh!, che bella

terra che ho partorito! Oh, che begli alberi ho messo in

piedi! (Cambia tono) E chi è quello? È un villano! Con

quella faccia! simpatico! “Ehi, contadino… butta la

vanga, molla ‘sta terra, vai a fare il giullare e non

rompere i coglioni!”

No, no, non è stato lui! È stato suo figlio Gesù.

Un miracolo!

Non vado ciarlando ve lo giuro! Un miracolo proprio di

lui: Jesus Cristo in persona. È lui che mi ha trasformato

in giullare!

Non mi credete? Lo vedo bene! Allora ve lo vado a

mostrare! D’accordo?

Ogni mattina mi alzavo che era ancora scuro… il sole

non ancora salito e io andavo con zappa e piccone a

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spaccar zolle: il mio sudore era la prima acqua che la

terra beveva.

A sera tornavo a casa ubriaco... stanco morto, con gli

occhi sbiancati dalla luce e neanche la voglia di giocare

con i miei bambini, fare giochi d’amore con la ragazza mia, moglie mia… mi allungavo stravolto sul letto, un

pagliericcio... e mi addormentavo. No che non mi

addormentavo! Svenivo! E nella notte nel mio sonno, non c’erano sogni. Chicchirichì! Maledetto! Di nuovo

a faticare! Ma un giorno tornando dal campo attraverso la riva

del fiume in cerca di qualche granchio… ho perso il cammino e, di botto, mi sono trovato davanti a una

montagna nera che non conoscevo.

Tremenda, alta!

E ho domandato a un carrettiere che passa di lì:

“Compare, di chi è questa montagna smargiassante che

si rizza all’improvviso? “Di nessuno!”

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“Ma come può essere di nessuno ‘sto monte gigante?!”

“Non vale niente! È pietra nera ruttata da un, vulcano.

La chiamano: la cagata del diavolo!”

“Gli sarà venuto un gran mal di culo al diavolo

sbroffando dalle chiappe ‘sta cagata!”

E io sono andato fin su... arrampicandomi gattoni, e

raspando con le unghie da una zanca fessata ho cavato

una manciata di terra… l’ho annusata: dolce, grassa!

Sono sceso correndo fino a casa dalla mia femmina.

L’ho chiamata in corte, gridando di allegrezza... ha

brancato zappa, e secchio e mi è venuta appresso con i

bambini. Giunti sul dosso, senza nemanco prendere fiato, abbiamo

cominciato a zappare dappertutto cavando quel poco di terra e poi siamo scesi alla riva del fiume a raccogliere secchiate di terreno. Siamo andati anche

al cimitero, siamo andati a rubare terra ai morti! Bella la

terra delle tombe vecchie! Grassa! E si montava carichi

di secchi e si spargeva ‘sto terreno letamoso: giorno

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dopo giorno, si tiravano su gradoni… una scalinata di

gradoni!

Tutti a lavorare, anche i bambini.

Contenti!

E mia moglie, bella, bianca… andava reggendo panieri di terra in capo. Un muoversi a dritto come da regina!

Occhi lucenti, le zinne tonde e sode… che quando

avanzava correndo, sussultavano appena come frutti per

il vento. Oh... se è bella! Dolce amore mio!

E cantava! Cantava tanto bene che la sua voce, diritta nel cervello ti arrivava! Giorno dopo giorno, luna dopo luna, siamo arrivati a

montare tanti gradoni che pareva la Torre di Babele!

Ma non c’era l’acqua... Con le picche di ferro si facevano

buchi per sondare ma non sortiva uno sputo. Ci toccava

discendere fino al fiume, scendere e rimontare, tutti,

moglie e figli, con secchi e secchi, ma sempre asciutta tornava: beveva, ‘sta terra come sotto ci fosse un drago

assetato!

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Un giorno sono andato col piccone in spalla in cima a ‘sta

montagna bestemmiando: “Dio maledetto!” e pieno di

rabbia ho picchiato una botta a zappata con forza la

nella pietra: PIUM! La pietra si è spaccata e

SVUOOOM! SCCIHUUM! È sortita una gran sbroffata

(un gran getto) d’acqua che mi ha inondato. “Oh

Signore, grazie! Bisogna proprio bestemmiarti perché tu

faccia miracoli, Dio santo!” Getti d’acqua che

sbottavano dappertutto... e gorgogliando scendevano

per la scarpata inondando ogni terreno!

Mia moglie è scoppiata in lacrime con un pianto di gioia

e i bambini infangati sguazzavano come pesci in fregola!

“Grazie! Grazie Dio!”

Un profumo dolce si spargeva dappertutto... e l’erba

che subito sortiva. Ho piantato un seme di segale, non

ho fatto in tempo a voltarmi che TAC!, un butto di foglietti spuntavano! Terra d’oro era!

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Una sera mi sono dimenticato la zappa piantata nel

terreno; il giorno appresso sono tornato, era fiorita: la

zappa fiorita!

Dagli alberi sbottavano frutti… uccelli che venivano a

farsi il nido… profumi… il grano, il frumento... Oh! Che

follia! Avevo il terrore di risvegliarmi da un sogno

Sono andato incontro al cielo rosato, col sole che stava

calando dietro ai monti e ho detto: “Dio! Lo so bene… lo

so da sempre che dentro il sole té ne stai anche in questo

momento e ti ringrazio del dono grande che mi hai fatto

con ‘sto miracolo! Ti sarò riconoscente… a costo di

sudare sangue, té la farò diventare un paradiso terrestre

‘sta terra. Amen!”

Passavano i miei compagni villani e dicevano: “Che culo

hai avuto! Da una montagna secca, hai tirato fuori il

giardino di un pascià!” E invidia avevano.

Sono lì nel campo, volto la testa e ti scorgo, sul suo

cavallo il padrone di tutta la valle che mi punta. Girava

gli occhi intorno e mi guardava… e poi sbotta a dirmi:

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“Chi ha messo in piedi ‘sto miracolo? Chi ha fatto

sbottare in fiore ‘sta terra?

“Io, signore! Io, l’ho fatta… zolla su zolla ho portato… ho montato i gradoni... Io! Anche l’acqua che non

c’era... io l’ho fatta sputare fuori a zappate! Mia è ‘sta

montagna che non era di nessuno!”

“Roba di nessuno è una è un detto che non esiste. Qui,

se non lo sai, per tutta la valle, anche il fiume, terra,

pietre, tutto, ha un padrone… e io, sono quello!

Padrone anche dell’aria che respiri.”

“Ma ho domandato intorno... ‘sto monte lo chiamano la

cagata del diavolo proprio per dire che nessuno l’ha mai

voluto. Nemanco voi padrone.”

“Può darsi... un tempo… ma adesso ci ho ripensato: è

mia!” S’è fatto una risata e via, ha dato di sprone al

cavallo ed è sparito!

Qualche giorno appreso scorgo, là in fondo il prete che sale

la china abbigliato tutto di nero, sudava e col fazzoletto si

tergeva il sudore che colava dalla fronte giù fino al collo…

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e già da lontano mi urlava: (in grammelot imitando il latino)

“Cuntadìn, vilàn caro, in pax tòa végno a dessólvere tòa

spudénzia et presonzión de penzàr che ti pòda poxedére

pruoprietà de un teretòrio. Nullo ex libero de poxexiònem et

ògne palmo de tèra abe una sòja pruoprietàt che illo Papa

e l’Emperadór han comcèxo a èsto mazzorénte üneco e

ti fiòl méo debbi zéder en santa pax domine!”

Come è stato vicino, gli ho dato una zappata che per poco

non l’ho inchiodato, lui, con l’asino che montava! Mai

vista una giravolta tanto repentina, mollando pedate coi talloni sulle palle del ciuccio, andava saltelloni

bestemmiando in una maniera che mi sono fatto il segno

della croce!

Due giorni appresso arriva su il notaio con una bella

mula grossa, con un gran culo... il notaio con un culone

anche lui che quando è disceso dalla sella non si capiva se fosse sceso il culo di lui o quello della mula!

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Ha srotolato una pergamena lunga e scura tempestata di

segni, sghiribizzi, e croci e ha detto, senza prender fiato,

sputando parole come una litania: “Mio caro amico, lo so

bene e ti do fiera ragione del fatto che per il volgo era

sconosciuta alcuna possessione di ‘sto monte, ma dando

un’occhiata a ‘ste carte di pergamena antica, si scopre

chiaramente che questo terreno era possessione del re

Boezio I, il quale aveva donato il territorio metà, al di qui

del fiume a una sua amante, una santa monaca, e l’altro

lato a un figlio bastardo, il più amato tra tutti i bastardi

suoi che teneva. Ma è capitato in quel tempo che il fiume

per un gran tempesta straripasse dagli argini e si

dividesse in due corsi: metà da un canto, metà dall’altro, lasciando in mezzo un’isola con sopra un

monte nero. Per questa ragione, per secoli il monte non risultò di alcuno. Ma oggi il nostro signore padrone ha

scoperto l’accaduto della straripata del fiume, pretende

giustamente di tornare in possesso di questa diabolica

cagata!

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Non aveva manco ripreso fiato il notaio che gli ho

ammollato una gran botta, una azzannata sulle chiappe,

che è partito al galoppo lui e la sua mula!

“Di queste braccia è la terra e non la mollo a nessuno!”

Ma ecco che un giorno riappare il padrone con i suoi

sbirri.

Noi si era nei campi a lavorare, con i bambini, mia

moglie… e i suoi soldati mi hanno afferrato, allargate le

braccia e mi hanno tenuto fermo. Il padrone si è calato le

brache, ha preso mia moglie e la scaraventata a terra: le

ha strappato le sottane... allargate le gambe, gli è saltato

sopra, l’ha montata come fosse una manza. E tutti i

soldati ridevano.

I bambini mi guardavano con occhi sbarrati... sbiaditi. Guardavano la madre... guardavano mé.

E io mi dibattevo, sono riuscito a liberarmi, ho afferrato

una zappa e ho urlato: “Disgraziato! Prendi!”.

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“Fermo figlio! Fermo! - mi ha gridato mia moglie - Non

dargli il pretesto di accopparti. Non aspettano altro. Tu

giustamente pensi di crepare piuttosto che spiaccicare il tuo onore... ma tu non hai onore. Onore l’hanno

solamente quelli che possiedono roba, possiedono

denaro, terre! Noialtri nudi di tutto non abbiamo onore!

Nostro onore è la terra! Salva la terra, tieni la terra e

sputaci sopra a ‘sto onore!”

E io di botto ho franato di ogni volontà… ho mollato la

zappa a terra.

I soldati sghignazzavano con fracasso: “Becco, coglione,

senza dignità! Gli hanno montato la femmina e lui sta lì

imbambolato come un allocco!” Il signore è montato a cavallo e dietro a lui si

incamminavano i suoi sbirri. “Adesso té la puoi pure

tenere la tua terra. Mé l’hai bén pagata!” e rideva.

Muovendoci come un gregge sbandato siamo tornati alla

casa.

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La mia donna andava avanti, in testa a tutti, non

guardava nessuno.

I figli non mi guardavano.

Io non guardavo.

Nessuno si guardava.

Quando poi mia moglie è discesa in paese per fare scorta

di masserizie, la gente al suo passaggio si scansava.

Nessuno che le dicesse buongiorno… come se non la

vedessero.

Dopo qualche notte mia moglie gridando è fuggita

correndo su per la montagna... saliva ridendo... batteva le mani, cantava a perdifiato con parole da svergognata.

Matta era.

“Ferma! Fermati bene mio dolce! Torna indietro col

cervello... a mé non importa... sempre il mio amore sei!”

Non mi dava retta. È sparita. Non l’ho mai più vista.

I bambini non dicevano parole, non giocavano, non

ridevano, non piangevano. Giorno dopo giorno

dimagrivano: morti!

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Uno dopo l’altro, morti sono!

Solo, sono restato... unico cristiano su ‘sta terra

bruciata... giacché i soldati avevano dato fuoco anche alla

casa e al bosco.

Imbesuito non sapevo cosa fare. Una sera ho preso un

pezzo di corda, l’ho lanciata su una trave, l’unica restata

sana tra i muri affumicati... ho fatto un nodo, mé lo sono

sistemato intorno al collo e ho detto: “Dio che anche nel

buio della notte guardi gli uomini attraverso i mille

luccichii delle stelle… per quale gioco maledetto,

Signore, mi hai dato ‘sto dono della terra e dell’acqua

caricandomi di speranza... per poi, appresso,

rovesciarmi nella merda della disperazione?! Tu dovevi

dirmelo che era per segnarmi col ferro arroventato e

dare testamento chiaro che chi inizia la sua vita da

villano-poveretto sempre uguale deve restare, non farsi

né speranze né sogni di presunzione! Signore ti dico che è

stata gran sbeffeggiata crudele questa di farmi provare

qui in terra il paradiso, per poi ributtarmi con uno

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spernacchio giù, all’inferno, senza pietà! E allora ti

voglio dire che ‘sta vita di merda che mi hai dato, io té la

ritorno indietro. Tienteta ‘sta vita!”

Faccio per lanciarmi impiccato, mi sento appoggiare una

mano qui sulla spalla, mi volto e c’è un giovane con i

capelli lunghi... malmesso... la faccia pallida... gli occhi

grandi, dolci e tristi che mi dice: “Potrei avere un po’

d’acqua da bere che ho sete?”

“Ma ti pare il momento di venire a domandare da bere a

uno che sta per impiccarsi? Ma dov’è la creanza ?”

Gli do un’occhiata... aveva una faccia da povero cristo

anche lui. Appresso a quello ci sono altri due disperati:

uno con i capelli e la gran barba bianca e l’altro senza

barba… magri e smorti (pallidi) che parevano lavati

nella calcina... con la faccia patita.

“Avete altro che bisogno di bere voialtri! Da mangiare ci

vuole! (Fa il gesto di togliersi il cappio dal collo) Bene, vi

do un po’ da mangiare e poi mi impicco!”

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Vado... cerco sotto un arcone l’unico non franato: fave

solamente ho trovato e due cipolle. Le ho cotte bollite. Ho

riempito tre ciotole e gliele ho messe in mano.

Mangiavano con golosia da affamati. Di poi che si son

sfamati, quello giovane di figura svelta e con gli occhi

grandi, sorridendo mi dice: “Grazie per ‘sta minestra

calda! A té, viene in menti chi possa essere io?”

Lo guardo bene: “Mi pare che tu... quasi... sia Jesus

Cristo!”

“Bene! Hai indovinato! Questo è Paolo e l’altro è Pietro.”

“(China il capo in segno di saluto) Piacere! E cosa posso

fare ancora per voi?”

“È abbastanza quello che ci hai offerto. Io ti conosco

contadino, io so cosa ti è capitato... quello che hai fatto…

conosco la fatica che t’è costata tirare in piedi ‘sta terra,

far fiorire ‘sta montagna sbroffata fuori dalle chiappe

del diavolo. So del sudore dei tuoi figli e di tua moglie… e

della violenza del signore sulla tua femmina. Tutto per

l’orgoglio di non lasciare ‘sta terra! Grande forza e

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coraggio... hai dimostrato di essere un bravo uomo! Ma è

giusto che tu sia finito così... in ‘sto modo.” “(Tono risentito del contadino) Per quale ragione,

Cristo?!”

“Perché l’hai tenuta tutta solamente per té la terra e non

l’hai spartita con gli altri villani, poveri come té!”

“Ma cosa dici?! Spartire con gli altri un fazzoletto di

terra che non bastava nemmeno per me e per la mia

gente?!”

“No, non fare il piagnone… ci potevano venire a

campare tanti altri disperati come té! Dimmi villano…

sei andato intorno per casali... per le capanne di paglia a raccontare la tua storia? Hai cercato di tirarli dentro la

tua vita? No? Bene, ora da adesso devi fare in modo che gli altri si facciano carico di quello che ti è capitato... devi dirgli del padrone... della sua bastardata

che ha fatto con la tua donna, e prima del prete e del

notaio! E sopra ogni cosa non raccontare piagnucolando

ma con lo sghignazzo… impara a ridere! A tramutare

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anche lo spavento in risata. Ribaltare col culo per aria i

furbacchioni che cercano di incastrarvi con le parole! E

fa che tutti sbottino in gran risate… così che ridendo

ogni paura si sciolga.”

“Ma io non so, non so dire parole rovesciate... non so

fare il controcanto da buffone... e nemanco filastrocche a

torciglione beffardo che la lingua mi si inceppa dentro i

denti… col cervello che tengo ubriacato dal sole e dalla

fatica!”

“Hai ragione. Ci vuole il miracolo!”

Mi ha preso per la testa, mi ha tirato vicino alla sua

faccia e mi ha detto: “Io, Jesus Cristo da ‘sto momento ti

do un bacio sulla bocca e tu sentirai la tua lingua frullare

a cavatappi e poi diventare come un coltello che punta e

taglia... smuovendo parole e frasi, chiare come un

vangelo. E poi corri nella piazza! Giullare sarai! Il

padrone sbragherà, soldati, preti, notai sbiancheranno scoprendosi nudi come vermi!”

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E così mi ha preso la testa, ha portato le labbra sue dolci alle

mie e mi ha baciato. Mi è arrivato un tremore di fuoco sulle

labbra... la lingua ha cominciato a trillare a torciglione come

una biscia. Parole nuove scivolavano rotolando nel mio

cervello. Ogni pensiero mi si rivoltava... ogni idea mi sortiva

capovolta. Sono corso a perdifiato giù nel borgo, sono

saltato sui gradoni del battistero e ho gridato: “Ehi! Gente!

Il giullare son io! Venite qui, fate attenzione, ascoltate! Vi

mostrerò come si trasformano le parole in lame taglienti che

stroncano d’un botto i garretti degli infami impostori... e

altre parole che diventano tamburi per svegliare i

cervelli dormienti (addormentati)! Venite! Venite gente!”

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I GRAMMELOT

LA FAME DELLO ZANNI

Presentazione

Prima di proseguire con le giullarate dei misteri medievali,

permettetemi di eseguire un salto in avanti nel tempo e

raggiungere il nostro Rinascimento. Questo allo scopo di

presentarvi il grammelot, cioè il linguaggio del tutto teatrale

inventato dai Comici dell’Arte. All’origine fino a quasi tutto

il ‘400 le compagnie di teatro erano composte da attori

occasionali e dilettanti. Ma a cominciare dalla compagnia

diretta da Angelo Beolco detto Ruzzante (nel primo quarto

del ‘500) gli attori cominciarono a riunirsi in gruppi

consociati con tanto di statuto e contratto. Rapidamente si

formarono diecine di compagnie regolari e di teatranti

professionisti a Napoli come in Sicilia, a Roma e in tutto il

resto d’Italia. Senz’altro il Veneto con a capo Venezia vide il

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formarsi di gruppi teatrali la cui fama raggiunse ben presto

Parigi, Madrid, Londra fino a Mosca e San Pietroburgo.

Quando poi nella seconda metà del ‘500 esplose la

Controriforma, l’attacco condotto dalla Chiesa verso gli

intellettuali liberi colpì duramente anche le compagnie di

attori associati, cioè i teatranti della Commedia dell’Arte che

spesso godevano della protezione politica e finanziaria dei

principi nelle città dove aveva sede d’origine la loro

compagnia. Quei commedianti vennero costretti ad una vera

e propria diaspora. Furono centinaia le compagnie che

dovettero emigrare in tutti i paesi d’Europa: Spagna,

Germania, Inghilterra. La maggior quantità di quei teatranti

si stabilì nella Francia.

È ovvio che la maggior difficoltà era quella di farsi intendere

dagli abitanti di quei paesi che non conoscevano la nostra

lingua. È vero che i comici dell’arte possedevano

insuperabili doti di gestualità ed erano veri maestri della

pantomima, ma dovettero creare qualche cosa che

permettesse loro di esprimere più profondamente il discorso

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del gioco satirico e tragico che andavano proponendo.

Cominciarono col impiegare un linguaggio che potremmo

definire pseudo-maccheronico, cioè composto da sproloqui,

apparentemente senza senso compiuto, infarciti di termini

della lingua locale pronunciati con sonorità e timbri

italianeschi. Via via si perfezionarono fino ad impiegare,

oltre ad una straordinaria gestualità, suoni onomatopeici che

realizzavano l’immagine delle azioni o stati d’animo a cui si

voleva alludere.

Questo gioco imponeva agli spettatori l’impiego di una certa

dose di fantasia e immaginazione che produceva loro

l’insostituibile piacere dello scoprirsi intelligenti.

In Francia le compagnie dei “Gelosi” e dei “ Raccolti”

furono tra le prime a sviluppare questo genere di

rappresentazione. Ma ancor prima della “cacciata” quei

comici si erano già esercitati nel loro paese nel gioco di

reinventare “idiomi foresti”.

Il grammelot più antico è senz’altro quello dello Zanni. Lo

Zanni è il prototipo di tutte le maschere della Commedia

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dell’Arte, padre di Arlecchino, Brighella, Stenterello,

Sganarello ecc… però a differenza di quasi tutte le maschere

che hanno nomi e comportamenti inventati, questo ha

un’origine reale.

Zanni era il soprannome che fin dal XV secolo i Veneziani

davano ai contadini provenienti da tutta la Lombardia, il

Piemonte e le province del Garda e dell’Adda. In particolare

i villani di Brescia e Bergamo venivano chiamati “Giani” o

“Joani”. Questi antenati dello Zanni assursero all’attenzione

della cronaca in conseguenza dell’esplosione di un

fenomeno straordinario che si sviluppa in quel periodo: la

nascita del capitalismo moderno. Pochi lo sanno, ma il

capitalismo moderno è nato in Italia. Quando insieme a

Franca si recitava negli Stati Uniti, da Boston a New York

fino a Washington, ogni sera provavo un senso di incredibile

orgoglio nello svelare agli spettatori americani che banche,

carte di credito, cambiali sono tutte nostre invenzioni, cioè

della nostra borghesia mercantile del cinquecento.

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Il nuovo capitalismo viveva soprattutto sul movimento di

denari legati alle guerra di conquista coloniale; i banchieri

erano così importanti che si potevano permettere di donare le

proprie figlie in spose a re di tutta Europa, come successe

alle figlie dei de’ Medici di Firenze. Senza l’apporto

determinante delle banche italiane, in particolare di quelle

fiorentine, l’America non sarebbe stata scoperta o almeno

sarebbe stata scoperta più tardi.

Il nuovo continente non ha il nome di Colombo suo

scopritore, ma di Amerigo – Amerigo Vespucci – capitano,

figlio di banchieri e banchiere egli stesso. É sintomatico che

“America” abbia origine proprio dal nome di un banchiere.

A cavallo della Controriforma Venezia gode di uno

straordinario sviluppo, le terre conquistate o acquistate

grazie all’apporto delle banche in tutto il Mediterraneo

fruttano ricchezza sia in denaro che in derrate alimentari,

derrate che invadono i mercati della nostra penisola

causando grandi sconquassi. Infatti il prezzo delle merci

offerte era talmente basso che i contadini non riuscivano più

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a vendere i propri prodotti. Così questi Zanni disperati

abbandonarono le loro terre e si riversarono nelle città e nei

porti più ricchi del Nord, in particolare a Venezia. In

grandissimo numero gli Zanni scesero a Venezia con le loro

donne a cercare lavoro; accettarono i lavori più bassi dallo

svuotare latrine al facchinaggio al porto, si adattarono al

ruolo di sottoservi, quasi schiavi. Le loro donne, oltre che

ricoprire il ruolo di serve e sguattere, si dedicarono alla

prostituzione. Il numero delle prostitute in quel tempo, a

Venezia, cresceva a vista d’occhio tanto che

l’amministrazione della repubblica cominciò a preoccuparsi

seriamente e indisse un’inchiesta.

È quasi automatico, ancora oggi il governo, quando

esplodono calamità che turbano l’opinione pubblica,

immediatamente indice un’inchiesta… Poi non se ne fa più

niente, ma l’importante è di aver dimostrato una buona

volontà.

In seguito a quest’inchiesta, La Repubblica di Venezia

scoprì che la bellezza dell’11% dell’intera popolazione era

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dedita alla prostituzione. Detto così non fa neanche tanta

impressione, infatti nessuno di loro ha accusato sorpresa o

brivido… anch’io comme ho letto questa notizia su un testo

di storia non mi sono impressionato più di tanto: 11% è una

quantità abbastanza accettabile, ma bisogna saperle leggerle

le inchieste, analizzate correttamente spesso infatti riservano

sorprese terrificanti. proviamo infatti a rileggere insieme

questa percentuale. Cosa vuol dire 11% dell’intera

popolazione? Dunque in quel tempo la popolazione era salita

a 160.000 abitanti… quindi cominciamo col dividerla in due

parti, ottantamila maschi mettiamoli da un lato… si

prostituivano anche loro, ma in modo del tutto particolare;

poi abbiamo ottantamila femmine, da cui bisogna togliere le

anziane, le donne vecchie, ma proprio quelle decrepite

perché non appena stavano in piedi: un po’ di rossetto, due

cuscini a far da tette qui… e via che funzionavano che è un

piacere! Poi togliamo le bambine, quelle col moccio, ma

come rimanevano in piedi da sole , andavano bene anche

loro. Poi abbiamo le suore, le religiose… per favore,

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mettiamole da parte senza far ironia o sarcasmo, non è

proprio il caso! Poi abbiamo le ricche, le aristocratiche, le

nobili che si prostituivano anche loro, ma … a prezzi

inaccessibili. Ebbene il restante numero delle femmine

corrisponde proprio all’11% dell’intera popolazione. Tutte!!

Una delle situazioni tragiche che hanno portato allo

splendore il capitalismo moderno sono sempre state le crisi.

Il fenomeno aumentava le differenziazioni che già

esistevano, gente che navigava nella ricchezza e gente

ridotta alla fame. “La fame dello Zanni” è il titolo di questo

brano e il personaggio che io vi presento è uno Zanni, un

facchino delle valli di Bergamo e Brescia senza lavoro che

da giorni non tocca cibo.

Il comico che per primo s’è cimentato nel rifare il verso allo

Zanni disperato per la fame non conosceva certo il dialetto

autentico degli Zanni, né tanto meno lo comprendeva il

pubblico che assisteva alla sua esibizione. Il comico doveva

quindi inventarsi un grammelot bresciano bergamasco

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infarcito di termini veneti truccati da lombardesco delle

montagne.

Eccovi il testo e la descrizione de “La fame dello Zanni”.

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LA FAME DELLO ZANNI

(Lo Zanni barcolla, si muove come un ubriaco) Greulot,

nachì stulò (le espressioni con caratteri diversi sono tutte

invenzioni onomatopeiche)… me tengo ‘na fame, ‘na

sgandùla che pe’ la desperasiùn u zervèl mé stròpia a sgròll.

Deo che fàme! Gh’ho ‘na fame che mé magnarìa anca un

ògio (mima di cavarsi un occhio) e mé lo ciuciarìa ‘me

‘n’òvo (succhia l’immaginario uovo). Un örégia mé

strancarìa! (Fa il gesto di strapparsi un’orecchio) Tüti e dòi

l’öregi (esegue e li mastica con avidità)… Ól naso cavarìa

(esegue). Oh, che fame tégno! Che mé enfrocarìa ‘na man

dinta la bóca, ziò in tòl gargaròz fino al stómego e caò in

pratosciò guiu (mima tutta l’azione) e stroncarìa da po’le

büdèle, tüte le tripe a stroslon fragnao (mima di cavarsi le

budella tirandole fuori attraverso la gola, quindi le arrotola

sul braccio)… stropian cordame – srutolon (finge di

strizzarle per ripulirle dalle feci. Squote la mano nel gesto di

liberarsi da tanta zozzeria). Merda! Deo quanta merda de

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repién! (Soffia come in un lungo tubo e ne ottiene un

pernacchio dai timbri grevi e profondi con contrappunto di

falsetti scurrili) FRUUOOOH… SPROH…

FESCIOUAAAH… TRIFIHIEE! (Scuote l’immaginaria

canna di budella, quindi inizia a masticarla e ingoiarla

come fosse una interminabile salsiccia. Mastica e

commenta) Sgnagui que brossolo smagnasent

lüganegosa… Gne, gna gnitraguì (rutto finale emesso

con soddisfazione. Si accarezza il ventre salendo fino alla

gola. Deluso e disperato)! Ohi, la fame che tégno! Me

magnarèsse i monti, le valàde, le nìvule (punta lo sguardo in

alto lontano) E, bòn par ti, Deo, ch’et sit lontàn! At magnarìa

tüto ol treàngolo in sü la crapa, i cherubèn d’entórno (pausa,

poi ridendo crudele)… at gh’hai pagüra, ah?! (Si rivolge al

pubblico come scorgendolo solo in quell’istante) Ohi,

quanta zénte!… smonluat specandot… me vorarìa sciernìr

i pì tenerìn e pœ ciuciàrmei fin a i ösi.

Deo che fam! Straguonante! (Barcolla)… Mòro! Sento

strabocàrse le büdèla che sbate come campane en

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drofegnam direndon direndooola (muove fianchi a

sbattere e fa oscillare il ventre. All’istante si blocca e si

guarda intorno sopreso) En do son mi? Còssa che m’è

capitò? Una cusìna?! Son deréntro a ‘na cusìna imbostonàda

de stuvìe, padèle, pentolón e marmìte… ohi!, gh’è anca roba

da cusinàre! Presto (quasi dandosi ordini) cata ‘sto pentolón,

piàsalo sul fœgo strabuscént che svùrgula. Àgua! (mima di

afferrare un bacile e rovescia acqua nella marmitta sul

fuoco. Sbatte un gran ventaglio per incitare le fiamme)

Fœgo, fœgo… boja! De tüti i diàvuli, sprugìt fiàme

d’enfèrno… büje! BLIC BLOC BLIC Sale! ‘Na bèla salàda

grosa (esegue), la canèla (mima di afferrare un bastone da

polenta e con quello agita l’acqua) Vaì! Sbordéla, che mó te

dago de grignire (fa il gesto di afferrare un sacco e lo

solleva) Pulénta… oh, Santa pulénta, mais spulentàt

(rovescia il contenuto del sacco nel paiolo. Nello sbattere il

sacco, questo gli cade nella gran pentola) Ohi demòni! Me

tromborlà òl saco in tèl bujón! (Afferra il bastone e con

quello muove dentro la pentola nel tentativo di ripescare il

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sacco ormai vuoto. Non ci riesce) Maladìcto sacón,végne

fœra! Sòrte! No’ ti vòl sortìr? Bòn, bùje puranco, bestia! Te

magno anca ti. (Rapidissimo abbandona il bastone e afferra

un mazzo di rami secchi, lo immerge nel fuoco, lo ritira

incendiato e lo infila in un immaginario camino) Fœgo,

fœgo… (Sempre dandosi ordini) ‘Na marmìta padèla su ‘sto

fiametón incaloràdo… (agita la padella e vi rovescia

qualcosa) Oeli, sóngia, bütìro. (branca la padella e fa saltare

il soffritto. Mima di aggiungere aglio e altri sapori) Ali,

scigóla, rosamrì… sbati, salta. (Abbandona per un attimo la

padella e afferra qualcosa su un ipotetico tavolo) Càrna!

Carnàsa santa morbedósa… (afferra un coltellaccio) a tòchi!

(Mima di calare fendenti rapidi sul pezzo di manzo. Ritrae

veloce l’altra mano e la osserva preoccupato) Bòja! Per ‘na

sfìrzola no’ mée tajàvo un dido… L’üngia: mé son tajà

giòsto l’üngia! (Raccoglie i tocchi di carne e li scaraventa

nella padella. Quindi la solleva facendo volare la carne per

poi riprenderla da gran giocoliere) Diaól inzopà! Me burlà

tüto! (Si china raccogliendo i tocchi di carne da terra e li

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ributta nella padella) Vino (finge di afferrare una piccola

damigiana e versa il vino nella padella, si ritrae come

aggredito da una fiammata di vapore. Quindi annusa) Che

parfümo! Bòn, bòn che aprèso té magno! (Si ricorda

all’istante della polenta. Afferra il bastone e lo remena

dentro il paiolo) Zira, sgorlàssa pajón brucugnànt! (Si rigetta

sulla padella e la agita mentre con l’altra mano mena la

polenta. Sculatta con natiche e ventre per darsi il tempo)

Strùja, sbàcchia, smena svalugné scorievò (come ispirato,

lascia ogni cosa per spostarsi più in là sul palcoscenico.

Mima di attizzare un altro fuoco. Ci pone sopra una pentola

e rapidissimo versa strutto e altri ingredienti per il soffritto)

Gràsa de purzèl, bògna de stüsa, arborì canèla… (vi getta

velocemente ogni ingrediente come in un rito religioso.

Mima di rincorrere un pollo) Pulàstru végne chi-ló… che

t’ha scüèli (allunga il braccio e con velocità da gatto afferra

il pollo e gli torce il collo. Emette grida disperate da pennuto

scannato) CAIECOOO SGRIEE IOCCHIRECHE… TOC!

(Si osserva la mano destra dopo uno scatto repentino) Sé

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stacà: gh’ho strampà nèto la crapa! (Si porta l’immaginaria

testa del pollo alla bocca e la divora in un botto) Bòn!

(Getta il pollo nella pentola e la solleva con scatti da

maestro cuoco. Uno sguardo rapido all’altra padella dove

frigge la carne. Allunga un braccio, con la mano afferra il

manico e fa saltare la padella. Anche l’altra mano agisce in

contrappunto. Girando netto sul dorso, afferra il bastone e

rimesta la polenta, ma le pentole sono tre e lo Zanni può

agire solo con due braccia. Quindi spregiudicato, come

fosse prassi normale, si infila il bastone fra le natiche e

agitando le medesime continua a far saltare padella e

pentola eseguendo una danza davvero spassosa e

funzionale) Stralup pelosoo vuoi, vuoi, balengo patrafé

spignì, vuoi, vuoi! (Con scatti rapidi abbandona quella

danza, afferra la padella del primo fuoco e rovescia il manzo

stracotto dentro la marmitta paiolodella polenta. vi Infila il

bastone nel paiolo e rimesta con forza, gridando) Ah,

pulentùn, carnàssa svergula impastò! (Quasi come

indemoniato si avventa sull’altra pentola) Polàstro, a

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végni… té magni straculò! (Afferra con le mani il pollo, ma

si scotta) Ohi, che brusatàda! La furzìna (forchetta) SGNAC

(Infilza il pollo con un forchettone. Quindi afferra un

coltellaccio e mena fendenti verticali sul pollo) A tòchi té

fago polùn anca a ti… STRAC STRAZAC! Bòja ol dido, me

son tajàt ol dido! (Mima di afferrare il tocco di dito che è

rotolato a terra. Lo raccoglie e lo avvicina al tronco mozzo

piagnucolando) Ól me dido, poarèto destacà! No’ gh’ho pì el

dido (lo osserva, lo solleva avvicinandolo al viso, quindi

voracissimo se lo mangia) Bòn! (Rovescia il pollo fatto a

pezzi dentro la marmitta della polenta, infila il bastone e lo

agita “roversando” e sbattendo il pastone succoloso. Afferra

i manici del gran paiolo, pianta bene i piedi a terra, lo solleva

e, inarcando le reni e spingendo il ventre in avanti, porta

alle labbra il pentolone. Si ingoia tutto il pastone fumante.

Rimette a terra la marmitta a mezzo svuotata, afferra il

bastone ne rimena i bordi per intingerli nel restante

papocchio. Si porta alla bocca il bastone a mò di mestolo

una, due, tre volte finché non finisce per infilarsi in gola

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tutto il bastone. Lo Zanni resta impalato. Si agita, da botte a

scatto col ventre, il petto e le natiche finché fa a pezzi il palo

e lo digerisce con gran rutto finale. Perplesso si porta le

mani alla bocca ed esclama) Pardon! (Una lieve pausa. Lo

Zanni sembra risvegliarsi. Si guarda intorno, si palpa il

ventre. Lamentoso, addolorato) L’è staìto un

insognaménto… tüto sojaménte un suégno. No’ è vera, no’

gh’ho magnào… (si guarda la mano) nemanco ol mé dido

m’e magnò! (Piange) Stuveico smalarbeto vignon!

Imperchè m’è faìti ‘sti schersaménti de bofonerìa (Piange ed

emette un lamento quasi infantile) EHIEE, OHIEEE (Il

lamento si trasforma nel ronzio acuto di un moscone)

VUHEEE VUHIII (Lo Zanni lo segue con lo sguardo mentre

l’insetto fastidioso gli vola intorno. Il moscone compie

evoluzioni beffarde intorno al suo naso, poi allarga i giri, va

via. L’insetto sembra sparito, ma ritorna più insolente che

mai e va a posarsi sul naso dello Zanni che resta bloccato

con gli occhi che si incrociano sulla sua canappia. Le dita di

una sua mano s’arrampicano lentamente lungo il collo

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mentre quelle dell’altra scendono dalla nuca. Cercano di

circondare il moscone: veloce la mano che sta sulla fronte

scatta e afferra l’insetto infame. Sprizzando gioia inaudita lo

Zanni urla) L’ho catào! L’ho catào! (Sbircia fra le dita

serrate e esclama radioso) Bello! (Torna a sbirciare, quindi al

pubblico) Grosso, grasso! (Infila due dita della mano libera

fra quelle dell’altra chiusa a trappola. Mima di estrarre,

stretto fra due dita, il moscone. Lo mostra al pubblico con

gesto trionfante) Va che bestia! (Stupefatto) Che animàl!

(Gli stacca una zampina e la mostra) Un parsiùtto! Va che

giambón sbrigulànte! (L’azzanna, mastica vorace e ingoia

goloso mugolando per il piacere. Quindi afferra l’altra

gambina e la descrive) Ohi questa che grassonàssa!

Straprosiütto d’un gambetón! (Lo sbrana con sospiri e

deglutisce ispirato. Considera la carcassa dell’insetto ed

esclama) Oh, le alìne… béle… quatro alìne! (Le stacca

delicato e le inghiotte rapido. Assapora) Bòne… dólze! E

gh’è dei disgrasió che i büta via! (Osserva ispirato quel che

rimane dell’insetto) Che petorón: questo mé lo magno tüto

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entrégo! (Mima di afferrare da una saccoccia una piccola

saliera. La scuote come per cospargere il succulento boccone

di sale. Quindi porta l’ultimo tocco alla bocca, lo mastica

lento come per goderne lo straordinario sapore. Mugola a

ogni masticata ed emette un grido quasi a imitare un

orgasmo da infarto. Deglutisce, con un gran sospiro si batte

una gran manta sul petto e trionfante se ne va esclamando)

Che magnàda!

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GRAMMELOT NAPOLETANO DI RAZZULLO

Corretto Silvia 1 agosto 2000

Un altro efficace e spassoso grammelot è senz’altro quello

napoletano. Ve ne propongo un frammento dove un

Razzullo-Pulzenella dichiara di voler far pace con la sua

donna che lo ha sorpreso ad amoreggiare con una rivale. La

“Femmena amorosa” sta alla finestra e lo accoglie con insulti

e lancio di ogni ben di dio. Cerca di colpirlo con vasi,

addirittura con una sedia e per finire gli lancia l’odoroso

contenuto d’un pitale.

Ascùltame burruttélla méa, core che strùllega en

pazzulillo! Tu ce hai raggióne: sóngo uno fetiénte, ma io

vorséve veghé intravièrso la gielusìa tòja quanto me vò’

bbène.

Sì, tu c’hai raggióne! Allùcca, strùffala, ensùltame…

quanto me piàsce! Ye! Tu me sta pallàndo d’ammore.

(Scansa al volo un vaso) E chell’è chisto ‘nu vaso e fiore

pe’ mme?! Quanto si bella!

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Bella e còre (porta la mano alla nuca massaggiandosi) e

no! ‘Na pétra no, chisto è ‘n’errore (raccoglie qualcosa

per terra)… oh, nu l’è ‘na pétra: è ‘na pigna! Che zentìle

ségni me lanzi dello bene tòjo! (Si scansa di nuovo) e mò

che d’è chisto? ‘Na carrega?! Ell’è pe nu famme restà

ritto en péde? Ammàbbile signora… m’assètto e té

cuntèmplo! (Poi all’istante si rizza in una giravolta

improvvisando una danza e canta) Starrùppia, svilla e

fràcca, lu òcchi tòje s’anzìcca spurra calore e carrùcca

làgreme zuoiose spretùcca.

Prille, prille! Carabìllu scaratìllu de ‘sto tòo rizùllo!

Remìra quanto è bello e cetrùllo scaracàllo… gallo

strichìllo ammóre zinno… zinne d’amore téne! Cumme

pomi d’Afrudìte. Cucca! Cuciàcca! Du paradiso

sgnàcca… zinne sciollóse, chiappe pollóse, vócca de

ceràsa, vàsame, che moro accà!

Ehiee (si scansa con uno zompo) e che d’è ‘st’annacquata

che m’ha enfrascicàto?! La capa, la fazza e cuòrpo

sano… chióve all’amprovvìsa? (Raccoglie da terra un

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oggetto e lo osserva) Isto è ‘nu pitale, ‘nu càntere (si

annusa il braccio, si netta la faccia e annusa la mano)

Maravéglia struppettósa… chista è orina frisca! (Si volge

con la faccia all’insù verso la finestra) ‘N’angelo de lu

cielo m’ha mannàto ‘sta roggiàda!! È ‘no tòo

spisciàcchio, ammóre? Tu té ce sei mongiùta ‘sto piscio

addoràto e udoróso, apposta pe’ famme presente dellu

bbene tòo, ammóre, ammóre che chióve làcreme de cielo!

(Saltella e inizia una danza da tarantella con canto

appassionato)

Basastrélla attraciùcca la tarantella pe’ té mi danze.

Tutta mé pìja ‘stu crillu frezzànte.

L’ànzelo méo ha pisciàto all’estànte!

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TRADUZIONE

Ascoltami burratella (burrosa) mia, cuore che si strugge

impazzito! Tu hai ragione: sono un fetente, ma io volevo

vedere attraverso la gelosia tua quanto mi vuoi bene.

Sì, tu hai ragione! Strilla, batuffolo, insultami...quanto

mi piace! Ye! Tu mi stai parlando d’amore. (Scansa al

volo un vaso) E cos’è questo? Un vaso di fiori per me?!

Quanto sei bella! Bella di cuore! (Porta la mano alla nuca

massaggiandosi) Eh no! Una pietra no, questo è

un’errore (raccoglie qualcosa per terra)… oh, non è una

pietra: è una pigna! Che gentili segni mi lanci del bene

tuo! (Si scansa di nuovo) E ora che cos’è questo? Una

sedia?! È per non farmi restare ritto in piedi? Amabile

signora... mi siedo e ti contemplo! (Poi all’istante si rizza

in una giravolta improvvisando una danza e canta in

grammelot intercalato con parole di senso compiuto)

Starrùppia, svilla e fràcca, gli occhi tuoi s’anzìcca spurra

calore e carrùcca lacrime gioiose spretùcca.

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Prille, prille! Carabìllu scaratìllu de ‘sto tòo rizùllo!

Rimira quanto è bello e cetrùllo scaracàllo… gallo

strichìllo ammóre zinno… zinne d’amore tiene! Come

pomi d’Afrodite. Cucca! Cuciàcca! Du paradiso

sgnàcca… zinne sciollóse, chiappe pollose, bocca di

cigliegia, baciami che muoio qua!

Ehiee (si scansa con uno zompo) e che è ‘st’annacquata

che mi ha infradiciato?! La testa, la faccia e il corpo

sano… piove all’amprovviso? (Raccoglie da terra un

oggetto e lo osserva) Questo è un pitale, un cantero (vaso)

(si annusa il braccio, si netta la faccia e annusa la mano)

Meraviglia struppettosa… questa è orina fresca! (Si volge

con la faccia all’insù verso la finestra) Un’angelo del cielo

m’ha mandato ‘sta rugiada!! È un tuo spisciàcchio,

amore? Tu ti sei munta ‘sto piscio adorato e odoroso

apposta per regalarmi il bene tuo, amore, amore che

piove lacrime del cielo! (Saltella e inizia una danza da

tarantella con canto appassionato, in parte in grammelot)

Basastrélla attraciùccala tarantella per te io danzo.

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Tutto mi piglia ‘sto grido frizzante

L’angelo mio ha pisciato all’istante!

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STORIA DI SAN BENEDETTO DA NORCIA

San Benedetto da Norcia, voi sapete, è anche conosciuto

come il Santo muratore, che quello pare proprio fosse il suo

mestiere da quandíera ragazzino. È senz’altro il fondatore

del monachesimo organizzato. Siamo nel VI secolo, cioé al

tempo del regno goto di Totila e di Giustiniano, che era a

capo del Sacro Romano Impero d’Oriente.

La comunit‡à dei monaci viveva all’origine in antichi

caseggiati abbandonati che essi stessi avevano alla meglio

restaurato grazie soprattutto all’aiutato dei villani del luogo.

Essi frati erano dediti essenzialmente alla meditazione, alla

preghiera, allo studio e alla contemplazione, ma poi San

Benedetto ci ripensò e impose ai suoi seguaci di munirsi di

attrezzi di lavoro e di faticare nei campi, costruire muri,

erigere forni per cuocere pani, vasi e mattoni. Questa è la

storia del passaggio dal prega, contempla al lavora e

costruisci da cui l’”Ora et labora”, regola prima dell’ordine

benedettino.

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Ma come si è maturato questo cambio, questo aggiustamento

straordinario?

È un tema che è stato svolto e raccontato in chiavi diverse, in

forma di filastrocche, favole, giullarate e moralità a

cominciare dall’alto Medieovo fino all’Ottocento spesso

come pretesto satirico e didattico dentro le conte popolari.

La fabulazione che noi abbiamo ricostruito è certamente fra

quelle di origine più antica.

Abbiamo riscritto la giullarata utilizzando il linguaggio

(volgare) dell’Italia centro-meridionale come ricordando i

pochi frammenti medievali della memoria popolare umbro-

irpina che ci sono pervenuti.

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SAN BENEDETTO

Stéveno li benedettini mònechi logàti in zu monte dinta a

cavièrne. Oh, quanto ell’erano majestuósi quanno che se

ponéveno en ginòcchia co’ la fàzza vuòlta a lu cielo e

pregàveno e ce pijàveno visioni sante! L’ànema de chilli se

fazéva acussì lezzéra, che lu corpo mismo, libberàto de li

travagli naturali dell’òmeni e delle fémmene, levitava pe’

l’àire cossì che capetàva che uno sant’òmo pregando, tutto

priso dentro l’àuri cielèsti, se levàva di quarche spanna dallu

terreno e ce restéva suspéso anco pe’ ‘na miezz’ora.

Li mònachi tutti se comenzévano a farze scòla in ‘sta

suspensióne meraculósa e intra issi ce nassévano tenzoni a

chi reussìva a slonzàre chiù alto nell’àira. Issi mònechi

éveno descovèrto che col razzionzére una condezióne

mésteca lo cuòrpo suòjo tutto, se desvotàva de ogne gravàme

e peso e accussì fàzile levitava. Ci era però abbàsta che co’

lu penzéro returnàssero a la normale terra et ècculi che de

botto prezipitàveno allu sòlo con gran tonfo per lu ché

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alcuno se retruovètte forte ammaccato. Intra li monachi che

annàvenno facéndo svuolàzzi de qua e de là, capetàva

inspécie alli chiù jòveni spereculàti, de retruovàsse ruotolàti

co’ lu capo a bàsscio. Dippuòi chilli sbattendo li piedi,

reussìvano a annà en capuovòlte pe’ lu ziélo. “Famme turnà

abbàsscio!” criàveno alli frati sòi e chilli coí pertiche lònghe

li agganzàveno come fùssero occèlli e traìveno allu sòlo. Ma

càpeta ‘nu jórno che monaco Serafino se retruòva en lezzéro

svuolàzzo sóvra lu tetto de lu romìto e ‘na ventata lo pìja

accussì che ell’è travuòlto comme ‘nu vascello a tutte vele in

la tempesta. Se va, levàndose infino a li nivule chiù alte e

dinta a chille se despàre. La settemàna apprèsscio quattro

monachi desesperàti peí la dipartita de lu cunfràte Serafino

se stanno a pregà pe’ l’ànema santa de lo desparùto e tanto

sòi prisi in de l’orazione devìna che manco se encòrgono de

sta montando en vólo comme fuèssero ‘no sturmo de passere

suspennùti pe’ l’àire. “Scènni! Scennéte!” ce grìdeno

abbàsscio li frati, ma chilli embriàchi de beatetudine,

assordìti se stanno comme scorbàtti. Piccirìlli devéngheno

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nellu cielo, manu a manu dessòlti dinta o fermamènto. En

làcreme desesperàte mò stanno tutti li mònechi e lu patre

santo Bendetto ordena che ogne mòneco sta en òbblego

quanno che prega de tegnérse in la saccocchia ‘na petra tosta

e greve. Ma non è abbàsta che li mònachi igualeménte ogne

jórno se pìjano el vólo, manco fùssero pojane o frenguèlli.

Quinni se pruòvano ‘sti òmmeni santi a ligàrse ‘na fune

entórno a la panza co’ pendùta n’àncora de zavorra.

Quarcunàrtro se liga ‘na fune a ‘nu truòco d’àrboro. Ma no’

ve c’è verso: l’orméggi devèlti a ogne ventata e li mònechi

allo svuolàzzo intra li nìvuli! Lo mòneco cusiniére, ditto lo

Coco, che se allìga a lu collo ‘na fune lónga affrancata depoi

a nu carro, se sàje en vuòlo, ma no’ se allìbera che la fune

annudàta a lu carro lu tratténe. Salvato ell’è, ma li frati sòj lo

retruòveno enpiccàto a struòzzo.

A ‘sto ponto mastro santo Benedetto chiàmma tutti a ‘no

radùno e ce dice a li mònechi: “Accà ce besógna porre

remèdio... vùje ben cummprennéte che se anco lo frate

nostro Coco, che ce fa de magnàre se invola fòra in lu cielo,

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ce retuovàmme allu desàstro. Fra lu poco accà de nùje no’ ce

resterà cchiù nissciùno! Ell’è chiaro che no’ reussìmme ad

avvécce vantàzzo e sarvaménto arcùno né co’ petre, né coí

àncore e carriàggi appendùti. L’ùneca àncora veràce che ce

pole salvà ell’è codesta!” et lu santo s’àccatta de cóntra lo

muro ‘na vanga, la posa intra le mane de uno monaco e dice:

‘Tégne! Abbràncate a ‘sto arnese e cchù no’ te reussirà de

levàrte en volo!”

“Maistro santo” ce fa lu mòneco Benefàcio “No’ l’è abbàsta

greve ‘sta vanga che ce faccia de zavorra!”

“Ell’è vero si tu la tene penzulóne! Ma se tu ce pruòvi a

dacce en zocca a la terra e ce spigni co’ lu pede e valze le

zolle e l’arrivòlti, tu te scovrerà tosto quanto pesa e se face

greve! Pruovàtece vùje tutti quante a cattàrve ‘sta zappa e

‘sto reastrèllo e anco vuj artri… ‘ste pale e ‘sti raspóni.

Dàtece a rebattóne, infreccàte in lu terreno e menate de

mazza su le petre. Spignéte le careòle, montate li muri,

rizzate l’àrconi de cuntraffòrto. Traìte ‘na muràta tonda

entórno a chèlla grotta per farce ‘nu forno pe’ lu pane e li

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mattoni. Curàggio!… Issa!… Batti!… Stronca!… Valsa!…

Scarna!… Issa! Ascultàte mò lo sudore che ve sorte, goccia

a goccia da la fronte a le brazza, accussì stàteve segùri che

no’ ve reussirà de levàrve de manco n’antìcchi en volo!

De ‘sto muménto a tutti nui, mònachi mèi, ce tocca de

guadagnàrce lu pane e lu derìcto de campà a ‘sto munno.

V’aggràda ‘nu tetto? Li muri de la càmmara pe’ stacce

frischi e pruoteggiùti? Fabbrecàte! V’aggràda lu grano, li

frutti? Zappate e semmenàte!

Nu ce avremmo cchiù lu derìcto de pesàcce su la groppa

dell’altri, villane e minori co’ lu pretèstu che nui pregghiàmo

e cantiàmmo el gloria pe’ l’àneme lori e issi s’affatìcheno

pe’ la panza nuòstra! Ziogàteve ‘sto cambio e ce restarémo

beati co’ li pedi encollàti a la terra. Amen!”

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Traduzione

Stavano i monaci benedettini alloggiati su monti dentro a

caverne. Oh quant’erano maestosi quando si ponevano in

ginocchio con la faccia rivolta al cielo e pregavano e

godevano di sante visioni! L’anima di quelli si faceva così

leggera che il corpo stesso, liberato dai travagli naturali degli

uomini e delle femmine, levitava per l’aria. Così capitava

che un sant’uomo in preghiera, sprofondato nell’aura celeste,

si levasse di qualche spanna dal terreno e rimanesse sospeso

anche per una mezz’ora.

I monaci tutti cominciarono a esercitarsi a galleggiare in

questa sospensione miracolosa, tra di loro nascevano

tenzoni, si gareggiava a chi riuscisse a chi riusciva a

ballonzolare più in alto. Quei monaci avevano scoperto che

col raggiungere una forte condizione mistica, il loro corpo si

svuotava tutto d’ogni gravame e così levitava facile

(facilmente). Bastava però che con il pensiero ritornassero

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alle quotidiane diatribe del vivere normale ed eccoli che

all’istante precipitavano al suolo con gran tonfo, rovinosa

caduta per la quale qualcuno si ritrovava fortemente

ammaccato. Tra i monaci che facevano svolazzi di qua e di

la, capitava specialmente ai più giovani spericolati, di

ritrovarsi rivolti con la testa in giù. Dippoi quelli sbattendo i

piedi, riuscivano a fare capovolte per il cielo. “Fammi

tornare giù a terra” imploravano ai loro fratelli e quelli con

pertiche lunghe li agganciavano come fossero uccelli e li

traevano al suolo. Ma un giorno capita che monaco Serafino

si ritrovi in leggero svolazzo sopra il tetto del romitorio e

una ventata lo assale cosicché si ritrova a beccheggiare

rapido con le vele gonfie da scoppiare. Se ne va, levandosi

fino alle nuvole più alte e dentro a quelle sparisce. La

settimana appresso quattro monaci disperati per la dipartita

del confratello Serafino, stanno a pregare per l’anima anta

dello scomparso e sono così presi dall’orazione divina che

manco si accorgono di stare montando in volo quasi

tramortiti in uno stormo di rondini che vanno migrando.

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“Scendi! Scendete!” gli gridano sotto i frati, ma quelli,

ubriachi di beatitudine, sono assordati come pipistrelli. In

lacrime disperate stanno ora tutti i monaci e il padre santo

Benedetto, ordina che ogni monaco sia in obbligo, quando

prega, di tenersi in saccoccia una pietra tosta e greve.

Ma non è sufficiente, ché i monaci ugualmente ogni giorno

pigliano il volo, manco fossero poiane o fringuelli.

Quindi questi uomini santi provano a legarsi una fune

intorno al ventre costretti a un’ancora di zavorra. Qualcun

altro si lega una fune ad un tronco d’albero. Ma non c’è

verso: gli ormeggio divelti a ogni ventata e i monaci che

svolazzano tra le nuvole!

Il monaco cuciniere, detto il Cuoco, che si lega al collo una

fune lunga affrancata poi a un carro, se ne sale in volo, ma

non si libera dalla fune che, annodata al carro, lo trattiene.

Salvo è, ma i fratelli suoi lo ritrovano impiccato a strozzo. A

questo punto mastro santo Benedetto chiama tutti ad un

raduno e dice ai monaci: “Qua bisogna porre rimedio… voi

ben comprendete che se pure il nostro fratello Cuoco che ci

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fa da mangiare se ne vola fuori nel cielo, ci ritroviamo al

disastro. Fra poco qui non resterà più nessuno! È chiaro che

non riusciamo a trarre alcun vantaggio e salvamento né con

pietre, con ancore né affrancati ai carri. L’unica ancora vera

che ci può salvare è codesta” e il santo prende da contro il

muro una vanga, la posa nelle mani di un monaco e dice

“Tieni! Prenditi quest’arnese qua e non ti capiterà più di

levarti in volo.”

“Maestro santo - gli dice il monaco Bonifacio - non è

abbastanza greve questa vanga che ci faccia da zavorra!”

“È vero se tu la tieni a penzoloni! Ma se tu provi a dar di

mazza a frangi terra e spingi con il piede e sollevi le zolle e

le rivolti, tu scoprirai tosto, quanto pesa e si fa greve!

Provateci tutti quanti a prendervi una zappa e questo

rastrello e anche voi altri, queste pale e questi forconi. Dateci

con forte braccio e schiena, ficcatele nel terreno e menate di

mazza sulle pietre. Spingete carriole, costruite muri, rizzate

gli arconi di contrafforte. Montate una murata onda intorno

a quella grotta per farci un forno per il pane e i mattoni.

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Coraggio!… Issa!… Batti!… Stronca!… Alza!… Scarna!…

Issa!… Ascoltate ora il sudore che vi sorte goccia a goccia

dalla fronte alle braccia e così state sicuri che non vi riuscirà

di levarvi nemmeno di un palmo in volo. Da ‘sto momento a

tutti noi, monaci miei, ci tocca di guadagnarci il pane e il

diritto di campare a ‘sto mondo

Vi aggrada un tetto? I muri della cella vostra per starci

freschi e protetti? Fabbricateveli! Vi aggrada il grano e i

frutti? Zappate e seminate!

Non abbiamo più il diritto di pesare sulle spalle, groppa

degli altri, villani e minori, con il ricatto furbesco che noi

preghiamo e cantiamo gloria per le loro anime mentre quelli

si affaticano per la pancia nostra! Giocatevi questo cambio…

e resteremo beati con i piedi incollati a terra! Amen!”

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GRAMMELOT “CADUTA DI POTERE”

CORRETTO SILVIA 1 Agosto 2000

Esiste un Grammelot che sviluppa il tema della “caduta del

potere” di cui fa accenno uno studioso straordinario di teatro

popolare:Vito Pandolfi, autore della preziosa raccolta di

canovacci e testi della Commedia dell’Arte.

Il grammelot lombardo-veneto si propone di raccontare la

sequenza del trapasso con tragica agonia di un uomo di

grande autorità e ricchezza. Il giullare dovrà presentare la

scena, i personaggi dei parenti afflitti, degli amici, dei

postulanti, dei prelati, banchieri, soldati e capitani… tutti

protesi a fingere cordoglio, disperazione e pianto interrotto

da qualche sghignazzo soffocato con fatica. Appaiono donne

che gridano, svengono sorrette a stento da famigli e uomini

illustri. Il tutto contrappuntato da lamenti e laceranti

singhiozzi. Alcuni medici esprimono opinioni e diagnosi via

via, sempre più disperate.

Prelati di alto e basso rango transitano dentro e fuori la

camera dell’infermo seguiti da chierici con turiboli

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oscillanti. Sembra di assistere alla dipartita di un doge, di un

regnante, di un grande banchiere o un potente uomo politico.

La grande invenzione scenica sta proprio nel particolare che

il morituro non appare mai: sono i personaggi del coro che

ce lo fanno immaginare nella stanza attigua.

Ognuno, come più gli aggrada, può anche vederci il crollo di

un potente partito politico o addirittura di una intramontabile

egemonia.

Il giullare fabulatore si pone dritto, immobile sulla scena in

un gran silenzio. Con movenze rallentate mima di sbirciare

curioso al di là della porta, si ode un’imprecazione e lui

rapido si ritira facendo immaginare di esservi scacciato.

Ecco che dalla porta esce un servo che fa intendere di

reggere un pitale. Il curioso chiede notizie, il servo gli dà da

annusare il pitale (espressione disgustata), il servo getta il

contenuto del pitale dalla finestra e subito si ritrae: qualcuno

grida dal di sotto bestemmiando. (È ovvio che il gioco

mimico che permette al pubblico di immaginare i due o più

personaggi in azione impone una notevole agilità e un

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mestiere quasi stregonesco.) Il curioso s’affaccia alla

finestra e zittisce. Entra un medico che vuole a sua volta

annusare il resto dell’urina. Il servo rientra nella stanza del

moribondo, esce con altri pitali. Pantomima che fa

immaginare un gruppo di sapienti intenti ad analizzare

l’urina: assaggiano intingendo un dito, quindi versano in

bicchieri il liquido e accennano ad un brindisi, infine

distrattamente bevono. Sputacchio generale.

Grido fuoriscena di una donna: tutti che accorrono a

sorreggerla, la donna cade di schianto trascinandosi il

gruppo al suolo. Giungono i prelati, quindi un chierico col

turibolo: roteando il turibolo percuote un medico che perde

la compostezza e il sussiego. I prelati chiedono informazioni

al capo dei medici e il sapiente descrive la situazione: con

gesti appropriati fa apparire il corpo dell’ammalato su un

tavolo. Descrive i vari organi: il cuore batte tamburellando

tempi altalenanti, stop e aritmie da accompagnamento

musicale per una danza. Il gran medico agita le braccia,

muove i piedi e le anche come in una pavana. Quindi ritorna

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a descrivere il corpo del nobile paziente: mima di affondare

mani e braccia dentro il suo ventre. Ne estrae organi vari che

osserva e butta; quindi cava budella e le va riavvolgendo sul

braccio alla maniera dei marinai con le funi. Come preso da

follia, spoglia con rapidità il corpo di tutti i suoi organi e li

getta per aria riafferrandoli e facendoli roteare intorno come

un giocoliere e in gran fretta lo ricompone, quindi allarga le

braccia e in grammelot sentenzia: “Non c’è più niente da

fare. È fottuto, da buttare!”.

I prelati levano le braccia in segno di sgomento e dolore;

accennano un lieve sproloquio che vuole esprimere il

cordoglio per la perdita di un sì grand’uomo. Il prelato

maggiore recita un’omelia nella quale ricorda le

straordinarie gesta del morente: eccolo cavalcare un

destriero in battaglia, sfoderare una spada per tagliare in due

il mantello e lanciarne un brandello a un povero. Eccolo

quindi intento a distribuire denari a disperati con gesti da

seminatore… ripensarci, chinarsi velocissimo, riprendersi il

denaro e scacciare quegli accattoni. Abbracciare una donna,

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baciarla, possederla, scacciarla, acchiapparne un’altra dalla

quale viene scacciato a sua volta. Ora lo vediamo piangere

disperato, scagliarsi come un Moro di Venezia sulla

fedigrafa e scannarla. Poi raccoglierla e intonare un solenne

miserere.

Infine la porta si spalanca ancora e in grammelot il giullare

annuncia la morte del Signore. Gran respiro, pausa…

cicaleccio che si trasforma in un riso sempre più sonoro fino

allo sghignazzo che a sua volta si tramuta in una festosa

tarantella.

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GRAMMELOT DI SCAPINO

Presentazione

Si conoscono anche frammenti di imitazioni satiriche di altri

lingue: grammelot in spagnolo, in arabo, in inglese e

naturalmente in francese. Come abbiamo già accennato la

Francia, inparticolare Parigi, era diventata la seconda patria

dei comici italiani che avevano ottenuto addirittura il

privilegio di poter recitare in un teatro della corte reale.

Senz’altro il più famoso grammelot che ci è pervenuto è

quello detto di Molière o di Scapino, maestro del giovine

signore.

Molière, formatosi sul modello dei comici dell’arte, voi

sapete, è sicuramente il più grande autore della Francia, uno

dei più geniali commedianti di tutti i tempi, e godeva

dell’appoggio straordinario di Luigi XIV, cioè a dire del re

Sole in persona, che lo sosteneva proteggendolo contro gli

attacchi di vescovi bigotti e cortigiani reazionari, ma appena

il re si spostava dalla corte di Parigi ed éra costretto in certi

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casi ad uscire dai confini del suo paese per risolvere

questioni politiche e spesso militari, ecco che Molière si

trovava spiazzato e alla mercè di tutti quei nobili e potenti,

che bloccavano le sue rappresentazioni e minacciavano lui e

la sua compagnia di mandarli sotto processo o addirittura di

eliminarli fisicamente.

Nel brano che ora vado a presentarvi Molière mette insieme

due prototipi che sono all’origine di due famosi fatti teatrali.

Sto parlando del “Tartufo” e del “Don Giovanni”.

Sinteticamente, questa è la storia di un giovane ricco, figlio

di banchieri, rimasto orfano all’improvviso del padre, uomo

potente, grande finanziere e politico scaltro e spregiudicato.

La chiave scenica prende avvio dal momento in cui il

giovane rimane solo a dover gestire l’immenso potere che ha

ereditato. Purtroppo si è finora completamente disinteressato

del mondo degli affari e della politica: non ne conosce né il

gioco, né le regole. A questo punto, entra in scena Scapino,

vecchio servo, il classico primo Zanni della Commedia

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dell’Arte, sapiente e scaltro: sarà lui il precettore del giovane

signore.

Inizia cossì la lezione: Scapino, esprimendosi in grammelot,

detta le prime regole fondamentali del comportamento a

cominciare dal modo in cui un vero signore debba

addobbarsi, esibire un’appropriata gestualià, camminare,

usare toni vocali ed espressioni corporee.

Descrive le normali parrucche che i nobili sono soliti calzare

in quel tempo (siamo nel ‘600): erano veri e propri ammassi

rotoluti di capelli con ghirigori, annodamenti riccioluti.

Esiste un ritratto di un nobile del tempo esposto al Louvre:

possiamo ammirare la parrucca del signore che fuoriesce

addirittura dalla cornice, infatti ai due lati sono posti tele di

minor dimensione che raccolgono il resto dei riccioli

strabordanti.

Infine Scapino, invita il giovane apprendista a gettare la

propria parrucca alle ortiche e ad annodarsi i suoi veri

capelli sulla nuca. Quindi descrive l’enorme mantello che i

nobili sono usi trascinarsi appesi alle spalle con gran fatica e

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avverte il giovane del tragico pericolo che quel mantello

rappresenti in caso di vento, vento che a Parigi, specie in

primavera, soffia con violenza inaudita, gonfiando le cappe

dei ricchi nobili banchieri e politicanti sollevandoli in aria

fra le grida degli astanti. (Lieve pausa) E molti di questi

banchieri politici non son più tornati… li stanno aspettando

ancora. Penso che questa moda del grande mantello

dovrebbe essere assolutamente ripristinata nell’attuale

mondo della politica e degli affari!

Eccovi quindi il testo e l’azione del grammelot francese di

Scapino:

“Greton seu flaran estell brié a sa piserre mitand leo faià

pigné…” fate attenzione, non c’è una sola parola che

significhi qualcosa. Questa è appunto la regola dell’autentico

grammelot! Al massimo è concesso di pronunciare termini

che alludano a oggetti o persone, non di più.

Vi voglio ricordare a tal proposito il mio debutto in Francia

con questo monologo: è avvenuto circa 25 anni fa. Ero stato

invitato a recitare alla Salle Guernier, uno dei più prestigiosi

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teatri di Parigi. Avevo deciso di aprire la mia esibizione

proprio con il “Grammelot di Scapino”. Mi ero detto con una

certa presunzione: “Se ha funzionato cinque secoli fa con i

Comici dell’Arte, funzionerà anche con me!”. Appena mi

son trovato sul palcoscenico, sbirciando in platea, ho

riconosciuto nelle prime file alcuni volti di uomini e donne

famose: c’era Sartre con la Bouvoir, Leger, Pivar,

Hostionsky, Matieux, e il direttore del T.N.P. nonché una

caterva di attori, attrici e registi del Teatre du Soleil e della

Commedie Française. M’è preso un colpo! Anzi, il classico

CRAK del commediante: all’istante mi è sparita tutta la

saliva dalla bocca, mi son sentito arrivare sangue gelato sul

cranio e le ginocchia hanno cominciato a franare… colpo di

reni e… “ Vai che sei solo!”. Ho presentato a gran velocità,

parlando un francese approssimativo, ambiente e situazione

del grammelot in questione e dopo una breve camminata da

Zanni disarticolato, fingendo di rivolgermi al giovin signore,

mio allievo, ho iniziato il monologo. Agitando le braccia e le

mani, descrivevo la parrucca e i boccoli fluttuanti: “Per

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encelle stillocà o bignar et fliseuax… plignorelle catifur à

bisses criar et plan de sofise pistognar du palaux!

Gli spettatori, quella gran massa eruditi, eccelsi intellettuali e

geni del colore e del palcoscenico, mi stavano tutti

guardando attoniti con gli occhi sbarrati: non un sospiro, non

un sorriso… completamente pietrificati. All’istante qualcuno

ha esclamato ad alta voce: “Splendido questo francese del

‘500!”. È scoppiato un grande applauso con risata. Ero

salvo! Ma proseguiamo col nostro Scapino.

(Descrive mimicamente il turbinio dei riccioli che gli si

arrampicano letteralmente sul viso, graffiandogli il naso e gli

occhi fino a rinchiudersi in una morsa che lo soffoca) Pituan,

rigeull smalifuor, spt trapit pirtap… (Sputa, ansima,

smoccola. Si strappa la parrucca dal capo e dal viso. La getta

via urlando) Pas de parruques, sa suffi avec ce sgruscinar

peteaux! Ce suffi de lie le chevaux sur la nüc… (Mima

l’azione di raccogliersi i capelli e annodarseli dietro il capo.

Quindi accenna un procedere tronfio) Promenade a la

spilusce, grabbié slotent prevoire. (Scivola leggiadro sui

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piedi e articola le ginocchia con fremiti e scatti repentini.

S’arresta e si rivolge al pubblico) Questa è la camminata

imposta dall’eccessivo “decore” di gran moda in quel tempo:

merletti, fronzoli e dantelle. Ricorderete senz’altro il

costume del re Sole: un lungo sbuffo sulle maniche, trine

finemente ricamate sul petto e intorno al collo montanti fino

alle orecchie e dietro la nuca… un prurito da impazzire! Il

che causava il classico scatto di testa del sovrano del tutto

simile alla sbirellata di collo di uno stallone. E ancora trine e

dantelles che fuoriescono da sotto la camicia e riprendono a

metà delle brache per rispuntare fra le calze a fondo gamba.

Insomma, un’invasione di merletti torti e ritorti… la qual

cosa causa immancabilmente seri drammi ai nobili

soprattutto quando necessitano di evacquare, pardon… fare

pipì. Eccoli rovistare disperati fra le brache alla ricerca del

mezzo conduttore del liquido urico, ma ahimè, riesce ad

espellere dal pertugio pantalonico solo trine, nastri e

merletti! Alla fine disperato, si abbandona alla piacevole

sensazione di farsela addosso, quasi godendo estatico

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dell’intima sgocciolata… ma sempre con inimitabile dignità!

Quindi eccolo muoversi nella camminata tronfia che

accennavo all’inizio… (esegue la camminata con scivolata e

fremito ad ogni passo e frulla il piede onde far sgocciolare il

caldo liquido sciacquoso). Oh, le plaisir spetuiant chez ris

pilé svilor! (Cambia repentinamente tono: minaccioso Mima

di estrarre una spada e di sfidare a duello un rivale) A vous,

mesieu scarisce tuiar, mentenon je scarelle carneux et

priquet! (Esegue un affondo e ritira la lama, la netta con le

dita, quindi se le porta alle labbra e assaggia il sangue del

nemico) Pas mal! (All’istante si sdoppia e torna nel ruolo di

Scapino maestro) No, c’est empossible ce creant bissot. Sa

souffit! Pas de violence! (Pausa) Direct! Il faut aller

doucemente avec allure gentille… c’est qui sont ces ioe

ouvert urrible e ce crier befard de belve ropignant?

(Riproduce l’espressione di un despota orribile, prepotente e

sanguinario che sgrana gli occhi, gonfia il petto e gesticola

aggressivo) No, no ce n’est pas possible! Il faut etre

humaine, civil, delicat! Les iet il faut les ceré petite de

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miop… (riproduce lo sguardo di un Pantalone decrepito,

quasi cieco. Curva la schiena e avanza strascicando i piedi)

petit glissant pur tigneur pantouflé. (Fa immaginare

l’incontro con un gruppo ddi bambini. Li accarezza, li

solleva fra le braccia, li sbaciucchia) Oh petites… les

enfants, oh j’aime les petites enfantes… J’aime les greneulle,

les jolies jambons! (Mima di distribuire del denaro) Prenez-

vous l’argent, l’argent pour chacun de vous! (Poi ci ripensa

si guarda intorno e aggredendo i piccoli si ripende ogni

moneta) C’est a moi l’argent! Pas des cadeux a les pissars!

(Esegue una giravolta su se stesso mimando di sbattere in

aria un enorme mantello alla maniera di un torero) Manteau,

oh l’enorme manteau! (Con un gran gesto si avvolge nel

mantello e ci si trova prigiioniero. Mima di recidere, dal di

dentro, il mantello con un pugnale) Ah, ce orrible paniscu

que me garotte a la gorge! (Si sistema l’immaginario

mantello sulle spalle e cammina con fatica trascinando il

drappo che scende fino ai piedi) Le vent mon Dieu, le vente

qui pusse tempête sgragnant i prufisaaaar betieux! (Imita il

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soffiare acuto del vento e allargando le braccia allude al

mantello rigonfio che lo trascina nell’aria) Aideme moi! Je

suis en traint de prend le vole, trivall AUHEAMMM…

quelqun che m’aide, aide moi! (Mima l’allontanarsi del

nobile come appeso a una vela) Il monte pregnille ca la fair

specot… quelqun qui m’aide!… (Fa immaginare il montare

nel cielo del nobile volante. La sua immagine si

rimpicciolisce sempre più fino a scomparire. L’attore emette

un grido che si fa sempre più acuto e sottile. Punta il dito

verso l’alto ad indicare e seguire la caduta del nobile appeso

al suo mantello fino all’istante in cui si schianta al suolo)

AIEHHIIII!… POF (Pausa) Fotut!

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DA ELIMINARE DOPO TERMINATA CPORREZIONE

I edizione

Nascita del giullare

da scanner (alcune parole non sono state lette)

Ahh... gent... vegnì chì che gh'è '1 giular! Giular ca son mi...

che fa i salt e ca '1 tràmbula e che... oh... oh... a u fai rider,

ca foi coi alt e fai vedar com'a sont groli e grosi i balon che

vai d'intorna a far guere son sfigurat, o trai via el pileo e...

pffs... soi sengobrà. Vegnì chì ca è ora e logu ca'l fa '1

pajasso tutt inturna, mi a v'insegni, vegna... vegna... Ul fa el

saltin, ul fa el cantin, ul fa i giughetti! Va' la lengua 'me la

gira! Ah... ah... a l'è un cultell... boja sta' a recurdàt... Ma mi

no a l'era sempar... quèst ca voi contar, come sunt nasuo.

Che mi non son nasuo giular, non son vegnú d'un fiàt dal

zielo, e, op! e son rivà chi: «Bondì, bonasera~>. No! Mi a

son el frai d'on miracol! Un miracol es fàit su d' me! Vuri'

credem? U l'è fàit! Mi son nasut vilan. Vilan, cuntaden

propi. U s'eri tristo, alegro, no g'avevi tèra, no! U s'eri rivado

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a 'ndà a lavurar, paréi a tüti in de sti vaj, da partutt. E un

zorno u jtat vesen 'na muntagna, ma de piera. U l'era de

nissun, u l'hai saudo. U dimandàt: «No! Nissun veul 'sta

muntagna! » E mi sunt andai fin su... sun 'dàit raspà cuj ung

e hu vist che gh'era un po' de tèra, e hu vist che gh'era un

filolin di aqua co l'andeva da giò de basso, e alóra hu

scuminsà a gratare. Son andai a tacàt al fium, hu sbrancàt

inscì ste brasce, hu te portàt la tèra, u gh'era i me fjulit, la

mia mujer. U l'è dolza la mia mujer, blanca c'u l'è, u l'ha du

zine tunde, e l'andar morbido cu l'hai... cu la par 'na giunca

ca meuvasse. Oh... l'è bela! A'g voj ben mi, e voj parlarne.

La tèra u purtà su coi brasci! e l'erba, che fasevet: pfut... e te

vegneva su tutu. E dài ca l'era belo, l'era tèra d'ora! U

ciapeva la sapa, u te la meteva e... zu... te nasseva un arbero.

Meravegia, u l'era 'sta tèra: u l'era un meracol! U andava

piopi, u andava tüti i arbori, a roveri, andava da pertutu. I

andava a semenar 'n la luna giusta, mi cunusseva! E vegniva

roba de magnar dulza, bela, bona. U gh'era zicurìn, u gh'era

crodi, u gh'era fazoj, rave, u gh'era tüto! Par mi, par num. O

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era cuntentu! O se balava, e po el piueva sempar par di dì e

ol sol el brusava e mi andava, vegniva, e i lune ereno giusti,

ne gh'era gi-mai tropo vento o tropa gruma. U l'era bel! bel!

U l'era tèra nostra! Bela u l'era, stu gradún. E ogni dì, u ne

fazeva uni... la pare~7a la torre de Babele... bela cun sti

gradi, u l'era ol paradis, ol paradis terestre. 01 giuri. E tüti i

pasava i cuntaden e i diseva: Che cu ca ghet... boja, varda!

Da na muntagna u l'ha tirà feura!... Me disgrassià ca nun hai

pensàt!

E invidia i g'aveva e un die l'è pasàt ul padron. Ul padron de

tuta la vale, u la vardà e l'ha dit:

- Du' l'è ca l'è nassuda 'sta torre? De .hi l'è 'sta tèra?

- Me, - a gh'ho dit - a l'ho faja me con sti mani, u l'era de

nissun.

- De nissun? L'è na parola ca nu gh'è, nissun, a l'è la mea.

- No! nun è la tua! A sunt andà anca in dal nutar, varda, nu

gh'era. U dumandà al prevete, u l'era de nissun e mi l'ho

fàita, toco par toco.

- L'è mea, te me l'hai a darme.

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- Non poit dar, padron... mi no poi andà sota i altri a trabajar.

- Mi t'hai paghi! at do denar, dime quanto vo'.

- No! No, non voj denar, no, parché, s' te me dài dena, dopo

a no podo comprar altra tèra col dinar che te me dài e devo

andar a lavorar, a trabajar ancora soto i altri. Non vòi me, no

vòi!

- Damela!

- No!

Alura iu l'ha fàit una rigulada e l'è 'ndai. El dì appresso a l'è

vegnu el prevete a dumandar.

- L'è del padrun... fa' el bravo, mola, nun te stai a farde

caprissi, varda che quelo l'è tremendo, l'è cativu, mola 'sta

tèra! In Deo Domini fa' el bun...

- No! no! - gh'ho di', - no voi, - e gh'ho fà anca un brut

muviment cun la man.

A l'è vegnu el nodaro, u l'è vegnu anca lü, ul sudava, boja,

par vegnì su a truarme:

- Fa' el bravo, gh'è la lege, sta' atento che ti nun ti pode, che

ti no...

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- No! No! - e gh'ho fai anca a lü... u l'è andà via

biastemando. U1 padron non l'ha mia molà, no! U l'ha

cominzà andà a cacia, ul faseva pasà tüti i léguri da la parte

de la mia tèra! El 'ndava a dré con tüti i cavali e i amisi e '1

me schisciava i sciesi. E in un dì sulamente el m'ha brusàt

tut... u l'era estàt... u l'era secàt. E lü l'ha dàit feug a tuta la

muntagna e '1 m'ha brusà tut, anca i besti brusà, la ca'

brusada, ma nun sunt andaj via! Hu aspeciàt... e l'è vegnu a

pieuver de note, e apreso hu scumensà a netar, a polir, a

rimpiantar pal, a remeter roba, repurtar la tèra, a sestemar le

piere, a fà gnir giò l'acqua dapartut, perché de lì, boja, no me

voj movar! E no me son movudo!

Solo che un dì a l'è rivado lü, g'aveva a pres tüti i so suldàt,

ul rideva, num erum nei campi cui fiulit, la mia mujera e mi;

s'erum a~lavurar, a trabajar, lì. U l'è vegnu, l'è descendu da

cavalo, ul s'è cavà le braghe, u l'è vegnu tacàt a la mia mujer,

u l'hai catada, u l'hai sbatuda par tèra, e gh'ha strasciàt i

sochi... Mi a vureva meuves, ma i me tegneva i suldàt, e '1

gh'ha salta' a dos, u l'ha fàita, u l'ha fàita cume fudess una

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vaca. Ca mi e i fiulit cui ogi sbaràt, che i vardava e mi a me

mueva, me sunt liberàt, hu catàit 'na sapa, hu dit:

- Disgrassià!

- Férmat, - m'ha dit me' mujer, - nol fa', no i specian oltre, i

specian propi quelo, che te valset el to baston, parpo coparte.

No te hai capit? I veur coparte e trar via la tèra, no i specia

altri, lü el débia pur difenderse, no valse meterse a sbragar

con loro. Ca ti no t'hàit onore, ti set povero, set contadin,

vilan, non puoi pensar dignitàt, onore, quela è roba par quei

che inn sciuri! ai nobli! Che po vegn a inrabirse se ghe fan la

tosa, se ghe fan la dòna, la mujer.

ma ti no! Lassa far. Valse pi tèra che l'onor de ti, de mi, che

tüti. Manza son mi, manza per amor de ti.

E mi, a splanger. Caragnà in su st'afari, l'hu vardà tut, e i

fiulit che piagneva... E lori peu i son andà rigulando content

feuravia... u l'era un planger tremendo! Num se pudeva

vardarse a presso vün cu l'alter, nun se vardava... s'andava

per i paes, u te ciapaven a buciade, a sasade, a piere.

Vusaven:

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- Oh... beu...! No g'hai la forza de far feura onor che nu te

g'hai, bestia che te set, la tua mujera a l'ha incalcada el

padron e ti te se' stàit tranquilo par un mucc de tèra,

desgrasiò!

E la mia mujer l'andava inturna:

- Puttana, vacca! - le dicevano e scappavano. Neanche in

chiesa la lasciavano entrare. Nessuno!

- Putana, vaca! - u ghe disevan, e i scarpavan. Nanca in giesa

la lassaven pasar. Nissun! E i fiulit no i podeva 'ndare

intorna, tüti eremo lì e no ghe guardava pu nissun. La mia

mujer a l'è scapada! Mi l'hai pu vidua; mi no so indue l'è

'ndada, e i fiulit nu me vardava: maladi son vignit, ne manco

i plangeva. E son morti! E mi son restai sol. Sol cun 'sta tèra!

Nun saveva cossa che fare. Una sera hu ciapai un toc de

corda, hu butà su una trave, me la son metuda inturna al

colo, hu dit:

- Bòn, me lassi andà, adess!

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Fo per lassam andà impicàtt, u me senti pugià una manada, a

me volti, a gh'è vün co 'na facia smorta, cui ogi grosi che '1

me dis:

- Me dàj un po' de bevar?

- Ma te par el mument de vegnì a dumandà de bevar a vün

che fa l'impicàtt? Boja! Ul vardi e '1 g'aveva una facia de

pover crist anca lü e vardi e ghe n'era altri doi, anca lor con

una facia patida.

- Va ben, ve darò da bevar, dopo me impichi.

A vo' a teu par bevar, i vardi ben:

- Pu che bevar, vialtri avì besogn de magnar! Ma mi l'è tanti

dì che nun fai de magnare... U gh'è de farlo, se vurì.

Hu ciapàt un baslot, hu metud in sul feug, a gh'ho fàit

scaldare de le fave, e gh'i ho dai, un baslot per un, e i

magnava! I magnava! Mi no g'aveva voia de magnar...

«Speci che adess i magna e peu me impichi». E intanto ch'el

magnava, quel cui og plu grandi che'l pareva propi un pover

crist ul surideva e ul diseva:

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- Bruta storia l'è ti che te voret impicass! Mi so ben ul perché

t'ol vòi fare. T'è perdu tut, la mujera, i fiulit e te gh'ha

sojament una tèra, bòn, mi savie ben! Se fusse in ti no lo

vorria fare.

E '1 magnava! E '1 magnava! E peu a la fin l'ha metud giò

tut e l'ha dit:

- Ti sai chi son me?

- No! Ma gh'ho avut un dubi che ti te set Jesus Cristo.

- Bòn! T'è induinàt. Quest l'è Pietro, e'l Marco l'è quel là.

- Piazer. E cussa fàit qua?

- Ti te m'hàit dàit de magnar e mi te do de parlare.

- De parlare? Cussa l'è 'sta roba?

- Disgrassià, giusta che t'hai tegnit la tèra, giusta che non te

vòi de padron, giusta che t'hai üt la forsa de no molar,

giusta... At vol ben, aite forte, bòn! ma t' manca un qui cos

che t'ha d'aver: qua e qua! (Fa segno alla fronte e alla bocca).

No star lì atchì in su la tèra, vai d'intorna e a quei che te tira

piere, ti parla e dighe, faig comprender, e fai de manera che

sta vesciga sgiunfiada ca l'è ol to padron, ti sbusa cun la tua

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lengua e fa' andar feura l'acqua e ul sier ca vegn feura a

sbrodar marscio. Ti devi schisciare sti padrun, e i previti e

tüti quei che va inturna, i nodari, i avogador, quei che va

d'intorna. No par ben de ti, par la tua tèra, ma par quei che è

come ti, ca non han tèra e che non han gnente e che han de

soffregare sojamente, e che non han dignità da vantare.

Campar de servelo, e no de pie !

- Ma noi comprende? Mi non son capaze. Mi gh'ho 'na

lengua che non se move de rentra, embiscigo de par tüto e

intopigo a ogni parlar... e no gh'ho de stil e gh'ho el servelo

che u l'è fioco, molo! Come fabia a far le robe che te diset,

andà intorna a parlar co i altri?

- No arpanza, che ol miracol 'gne adess.

Ul m'ha catat per la crapa, ul m'ha catàt visin e peu '1 m'ha

dit:

- Jesus Cristo a soi mi che t' vegna a ti a dat parlar. E 'sta

lengua u la beuciarà e 'ndrà a schisciar 'me 'na lama da

partuto vescighe a far sbrogare, a da' contra i padroni e li far

schisciare parché i altri i capissa, parché i altri imprenda e

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parché i altri i pòdarigolar. Che no è che col rìdare ch'ol

padron ul s' fa sbragare, che se i ride contra i padron, ol

padron, da montagna ca l'è dijen colina e peu niente ca se

move. Tegne! A t' do un baso che at farà parlare.

E'l m'ha basao su la boca, lungo el m'ha basao. E de bòt ho

sentit la lengua ca sbissava da partuto, e un zervel c'al se

mueva, e tüti i jambi che s'andava in dar par lori, e sunt andà

in mess a la piassa del paes a vusà:

- Gnìii! Zente! Vegnì chì! Giulare! Ai fao giugar, giosrare

col padron, vesciga granda o l'è e mi de lengua i vo' sbusare!

E ve raconto de tüto, come '1 vien, come '1 vaga e come el

Deo nu l'è quelo che '1 roba! E '1 rubar che pregne e i legi

sui libri che son lor... parlare, parlare. Ehi gente! 01 padron

se va a schisciare! Schisciare! O l'è de schisciare! . . .

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TRADUZIONE

- Oh gente, venite qui che c'è il giullare! Giullare son io, che

salta e piroetta e che vi fa ridere, che prende in giro i potenti

e vi fa vedere come sono tronfi e gonfi i palloni che vanno in

giro a far guerre dove noi siamo gli scannati, e ve li faccio

sfigurare, gli tolgo il tappo e... pffs... si sgonfiano. Venite

qui che è l'ora e il luogo che io faccia da pagliaccio, che vi

insegni. Faccio il saltino, faccio la cantatina, faccio i

giochetti! Guarda la lingua come gira! Sembra un coltello,

cerca di ricordartelo. Ma io non sono stato sempre... e questo

che vi voglio raccontare, come sono nato. Non che io non

sono nato giullare, non sono venuto con un soffio dal cielo e,

op! sono arrivato qui: «Buongiorno buonasera>~. No! Io

sono il frutto di un miracolo! Un miracolo che è stato fatto

su di me! Volete credermi? t;. così! Io sono nato villano.

Villano, contadino proprio. Ero triste, allegro, non avevo

terra, no! Ero arrivato a lavorare, come tutti in queste valli,

dappertutto. E un giorno sono andato vicino a una montagna

ma di pietra. Non era di nessuno: io l'ho saputo. Ho chiesto:

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«No! Nessuno vuole questa montagna! » Allora io sono

andato fino in cima ho grattato con le unghie e ho visto che

c'era un po' di terra, e ho visto che c'era un filino d'acqua che

scendeva, e allora ho cominciato a grattare. Sono andato in

riva al fiume, ho schiantato queste braccia, ho portato la terra

(alla montagna), c'erano i miei bambini, mia moglie. E dol ce

mia moglie, bianca che è, ha due seni tondi e l'andamento

morbido che ha, che sembra una giovenca quando si muove.

Oh! è bella! Le voglio bene io e voglio parlarne. La terra ho

portato su con le braccia e l'erba (cresceva velocemente)

faceva: pffs... e veniva su di tutto. E dai che era bello, era

terra d'oro! Piantavo la zappa e... pffs... nasceva un albero.

Meraviglia era, quella terra! Era un miracolo! C'erano

pioppi, roveri e alberi dappertutto. Li seminavo con la luna

giusta, io conoscevo (io sapevo), e cresceva roba da

mangiare, dolce, bella, buona. C'era cicorino, cardi, fa-

non ha mollato, no! Ha cominciato ad andare a caccia,

faceva passare tutte le lepri dalla parte della mia terra!

Andava continuamente avanti e indietro con i cavalli e gli

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amici a schiacciarmi le siepi. E un giorno mi ha bruciato

tutto... Era estate... era seccato. Lui ha dato fuoco a tutta la

montagna e mi ha bruciato tutto, anche le bestie bruciate, la

casa bruciata, ma non sono andato via! Ho aspettato... è

cominciato a piovere la notte, e dopo (la pioggia) ho

cominciato a pulire, a ripiantare pali, a sistemare pietre, a

riportare terra, a far scendere acqua dappertutto, perché di lì,

bòja, non mi voglio muovere! E non mi sono mosso! Solo

che un giorno è arrivato lui, aveva appresso tutti i suoi

soldati e rideva, noi eravamo nei campi coi bambini, mia

moglie e io; stavamo lavorando. E venuto, è sceso da

cavallo, si è tolto i calzoni, è venuto vicino a mia moglie,

l'ha presa, l'ha buttata per terra, le ha strappato le gonne... Io

volevo muovermi, ma i soldati mi tenevano, e lui le è saltato

addosso, l'ha fatta come fosse una vacca. Che io e i bambini

con gli occhi sbarrati, che guardavano, e io mi muovevo

(con uno strattone) mi sono liberato, ho preso una zappa e ho

detto:

- Disgraziati!

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- Fermati, - mi ha detto mia moglie, - non lo fare, non

aspettano altro, aspettano proprio questo: che tu alzi il tuo

bastone, per poi ammazzarti. Non hai capito? Vogliono

ammazzarti e portarti via la terra, non aspettano altro, lui

deve pur difendersi, non vale mettersi contro di loro, che tu

non hai onore, tu sei povero, sei contadino, villano, non puoi

pensare a onore e dignità, quella è roba per i signori, i nobili!

Che poi si arrabbiano se gli fanno la figlia, se gli fanno la

donna, la moglie, ma tu no! Lascia fare. Vale più la terra che

l'onore di te, di me, più di tutto. Manza sono io manza per

amore di te. E io a piangere... piangere su questo affare, ho

guardato tutto e i bambini che piangevano. E loro, col

padrone, di colpo sono andati via ridendo contenti,

soddisfatti. Era un piangere tremendo (il nostro)! Non

riuscivamo a guardarci in viso l'un l'altro. S'andava in paese,

ti prendevano a sassate, a pietre. Gridavano:

- Oh bue! che non hai la forza di difendere il tuo onore

perché non ne hai, bestia che sei, tua moglie l'ha montata il

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padrone e tu sei stato tranquillo per un mucchio di terra,

disgraziato!

E mia moglie andava in giro:

I bambini non potevano andare in giro, tutti erano lf, e non ci

guardava piú nessuno. Mia moglie è scappata! Io non l'ho

piú vista; io non so dove è andata. I bambini non mi

guardano: sono venuti ammalati e manco piangevano. Sono

morti! Io sono rimasto solo.

Solo con questa terra! Non sapevo cosa fare. Una sera ho

preso un pezzo di corda l'ho buttato su una trave, me la sono

messa intorno al collo, ho detto:

- Bene, mi lascio andare, adesso!

Faccio per lasciarmi andare, impiccato, quando mi sento

battere una mano sulla spalla, mi volto, c'è uno (e vedo uno)

con una faccia pallida, con gli occhi grandl che mi dlce:

- Mi dài un po' da bere?

- Ma ti sembra il momento di venire a chiedere da bere a uno

che si sta impiccando? Bòja!

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Lo guardo e (vedo che) ci aveva una faccia da povero cristo

anche lui, poi guardo e (vedo che) ce n'erano altri due, anche

loro con una faccia patita.

- Va bene, vi darò da bere e poi mi impicco.

Vado a prendere da bere, li guardo bene:

- Piú che bere voialtri avete bisogno di mangiare! Ma io

sono tanti giorni che non faccio da mangiare... C'è da farlo,

se volete.

Ho preso un tegame e ho messo sul fuoco a scaldare delle

fave e gliel'ho date, una ciotola ciascuno, e mangiavano,

mangiavano! Io non avevo voglia di mangiare... «Aspetto

che mangino e poi mi impicco». E mtanto che mangiava,

quello con gli occhi piú grandi che sembrava proprio un

povero cristo, sorrideva e diceva:

- Brutta storia questa che vuoi impiccartil Io so bene perché

lo vuoi fare. Hai perso tutto, la moglie i bambini e ti è

rimasta solo la terra, bene io so bene! Se fossi in te non lo

vorrei fare (lo farei).

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E mangiava! mangiava! Poi alla fine ha appoggiato tutto e ha

detto:

- Tu sai chi sono io?

- No, ma ho avuto il dubbio che tu sei Gesú Cristo .

- Bene! Hai indovinato. Questo è pietro, e il Marco è quello

là.

- Piacere. E cosa fate qua?

- Tu mi hai dato da mangiare e io ti do da parlare

- Da parlare? Cos'è questa cosa?

- Disgraziato! Giusto che hai tenuto la terra, giusto che non

vuoi padroni, giusto che hai avuto la forza di non mollare,

giusto... Ti voglio bene, sei forte buono! Ma ti manca

qualche cosa che è giusto che tu devi avere (abbia): qua e

qua (fa segno alla fronte e alla bocca). Non rimanere qui

attaccato a questa terra, vai in giro e a quelli che ti tirano le

pietre digli, fagli comprendere, e fai in modo che questa

vescica gonfia che è il padrone tu la buchi (possa bucare)

con la lingua, e fai uscire il siero e l'acqua a sbrodolare

marcio. Tu devi schiacciare questi padroni e i preti e tutti

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quelli che gli stanno intorno: i notai, gli avvocati, eccetera.

Non per il bene tuo, per la tua terra, ma per quelli come te

che non hanno terra, che non hanno niente e che devono

soffrire solamente e che non hanno dignità da vantare.

(Insegna loro a) Campare di cervello e non di piedi!

- Ma non capisci? Io non sono capace, io ho una lingua che

non si muove di dentro (dentro la bocca), mi intoppo ad ogni

parola e non ho stile (dottrina) e ho il cervello fiacco e

molle. Come faccio a fare le cose che tu dici, e andare in

giro a parlare con gli altri?

- Non preoccuparti che il miracolo viene adesso.

Mi ha preso per la testa, mi ha tirato vicino e poi mi ha detto:

- Gesú Cristo sono io, che vengo a te a darti la parola. E

questa lingua bucherà e andrà a schiacciare come una larna

vesciche dappertutto e a dar contro ai padroni, e schiacciarli,

perché gli altri capiscano, perché gli altri apprendano, perché

gli altri possano ridere (riderci sopra, sfotterli). Che non è

che coi ridere che il padrone si fa sbracare, che se si ride

contro i padroni, il padrone da montagna che è diviene

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collina, e poi piú niente. Tieni! Ti do un bacio che ti farà

parlare.

Mi ha baciato sulla bocca, a lungo mi ha baciato. E di colpo

ho sentito la lingua che guizzava dappertutto, e il cervello

che si muoveva e tutte le garnbe che andavano da sole, e

sono andato in mezzo alla piazza del paese a gridare: -

Venite gente! Venite qui! C'è qui il giullare! Vi faccio far

satira, giostrare col padrone, che vescica grande è e io con la

lingua la voglio bucare. E vi racconto di tutto, come viene e

come va, e come Dio non è quello che ruba! i~ il rubare

impunito e le leggi sui libri che sono loro... parlare, parlare.

Ehi gente! Il padrone si va a sc~uacciare! Schiacciare! ~ da

schiacciare! ...

Altra Versione

Il primo miracolo di Gesù bambino

Attenzione!! Bisogna confrontare i due dialetti e

sistemare le didascalie

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Quando in tòl ziélo impiegnìdo de stèle, de bòto, come

fùlmine, l'è 'rivàdo uno stelón meravegióso con 'sto grande

cuùn sbarluscénto de fògo sbarlazàndo tüte le stèle i se

metüe a criàr: "Ohe, 'craménto! Chi l'è?". Al'éra la stella

cometa che vegnìva dall'oriente per dàrghe l'indicasiùn a i

Re Magi.

Gh’éra il primo Re Magio, quello vègio, co' al'éra sü un

caval negro, atènti a l'allegurìa, o' l’éra ingrignàt, un nass a

bèch de catìvo che ól trava sacraménti perchè ól gh'avéa dei

bugnùni sul cül che a ògni selàda: toc!, se ne schisciàvan

quatórdese e biastemava 'mé Dio. A gh’éra il Re Magio

biondo, ciàro, sempàtego ch'ól rideva, col mantelo d'arzento,

muntà sü un cavàl bianco, aténti a l'allegurìa. E appresso a

gh’éra il Re Magio negro che è sü un camèlo griso: un

Magio negro... un negro, ma cussì negro, che contro a 'sto

camèlo griso che montava, pareva più bianco del cavàlo

bianco del Magio biondo. Bèlo de fàcia e tüto ridénte de

quaranta dencióni luzénti e con dòi ögi che sbalusciàva nel

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scüro a luminàre. E sémpre sóvra al camèlo andava

cantando. E ól cantava de contìnua, 'sta tiritéra:

"Oh che bèl, che bèl, che l'è andare sül camèl!

Che bèl, che bèl!

Un saltèl, do' saltèl sü le goebe del camèl!

Oohh che bèl, che bèl el camèl che va a Betlèm,

Sóta el lüm de mila stèl.

La cométa che a cumpàgna

giüsta fin a la capàna

e la Madona che la nina

el Bambìn che piàgne e frìgna

e Giüsèp che sega, sega.

I angiulìt che i vola e i préga.

L'asinèl e ól boe che i bòfa

el camèl che sgamba e ól sgròpa

balzelóni, vah 'm' el tròta!

Oh che bèl, che bèl, che bèl

che l'è andare sül camèl!

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De gran lónga pusé bèl

ch'andar sül cavàl

sul cavàl té scròla i bal

che no' té càpita sul camèl

che bèl, che bèl, che bèl!"

"Baastaa,baastaa! - el vègio Re Magio ól biastemàva - Ma

no' se pòde! O l'è quatro ziórni e quatro nòte col canta che l'è

bèl andare sü 'sto camèl!"

(Il Re Magio negro riprende la tiritera)

"E per fòrsa che mé tóca cantare

in sül camèl per farlo andare

perchè se mi no' ghe canto

el camèlo s'indorménta.

S'indorménta, bürla par tèra

s'impantéga e mi stravàco

col camèl che mé sbraga adòso

e ghe rèsto tüto schiscià!

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Sì che canto sul camèl!

Oh che bèl, che bèl!

Cossì arìvo a la capàna

co' la Madona che la nina

San Giüsèp che ól sega ól sega

ól Bambìn che ól frìgna e piàgna

i angiulìt che i vola e i préga.

El camèl che sgròpa e ól tròta

oh che bèl, che bèl, che bèl!

Sóra el camèl bisogna che canto

anca per dàrghe un po' de ritmo

perchè andare sul camèl no' l'è come in gròpa del cavàl

che ól cavàl va col galòpo

e ól camèl ól sgamba a tròto

sciàmpe ambàde una d'avanti e l'altra de drìo,

che se no' se dà el bòn témpo

se intupìca de 'na gamba

se scarpüscia e ól và de sciàmba

borletóni el va, se stciànta

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e mi, sóta de roèrsa

tüto schisciàto dal camèlo!

Oh che bèl, che bèl, che bèlo!

Dàrghe ól ritmo e farlo balàre

che a Betlèm mi vòj arivàre, col camèl.

Oohhee che bèl!

Oohhee che bèl!"

"Basta! - ól crìa desperàto ól vègio Re Magio - Té magno

vivo! Té pélo via tüto el negro e mé magno el bianco de

déntro! Té lo magno intiéro!

Già, l'idéa de far venir anco un Re Magio négro, parchè

doveva èsserghe tüta l'umanità! Poteva mìga tiràrghe aprèso

uno giàldo, rosso, coi balìt?... No, negro! E poe co' 'sti ögi

bianchi c'ól gh'ha, co' la sfèrsula négra in mèso... che quando

gh'è scüro ghe végn rossa ch'el par 'na bèstia feróce. Che

l'altro ziórno sunt andà in campagna, che gh'avéa dèi mè

bisogni, che anca se sont un Re Magio gh'ho i miei bisogni

de fare! A gh’éra scüro, sont andàito in un pràt, mé sont

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tirato giò le bràghe... perdonéme se ve la cónto... éro a metà

scrusciàdo sü i ginögi, proprio in quèsta posisiòn, de boto

devànti a mi té vedo 'na bestia, dei denci de bestia, dò ögi...

un leon!

Mé sónt cagà sóra le braghe!

E poe l'éra lü, devànti a mi, che ól cagàva e nol cantava!

L'ünica volta che nol cantava.

Mi son cossì inferocìt, desgrasiò, fra i bugnùni che mé

stciòpa, il che bèl, che bèl, che bèl, i spaventi che mé fa

catàre, son cossì nervoso che, se arìvo a Betlème in 'sta

manèra, stròso il bambìn dentro la culla."

In quèl moménto nel ziélo... woom.. ól stelòn grande de la

cométa ól s'è blocàt. "Cus'è capitàt?"

"La s'è fermàda per ciapà un po' el fià!

El voer dì che sèm arivà!

'Rivàti quasi a Betlèm, che bèl, che bèl!"

"Bastaaa! Mi ghe vago da solo a Betlèmme!" Dise desperà ól

Rè Magio vègio, ghe da de spròn al sò cavàlo e ól va via

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come un mato e a drìo, sübito, el Re Magio negro a

seguitàrlo e tüti e dòi i va in fondo nèl scüro e i scompàre... i

scompàre ma se sénte sémpre più baso: "Oh che bèl, che

bèl!" - "Basta!" - "Oh che bèl... " - "Basta!" (Porta la voce

quasi a spegnersi sempre più flebile in lontananza) "Oh che

bèl!" - "Basta!!"

Nel ziélo impiegnìdo de stéle, de bòto l'è spontà l'ànzelo

meravegiòso, co' dei cavèi tüti svarulénti de bòcoli che col

vénto i sbanderàva... Un gran cerchión d'oro tacà, inciudàd,

sü la crapa. Vestìdo de séda che col vénto i sbratacàva come

vele slasàde. E de travèrso, chì sül stòmego, 'na grande

svérzula de séda, ciara, granda, con scrito sopra: "Angelo!"

Per quèi che no' capìse subito.

E 'stu angelo, co' 'ste grande ali tüte coloràde, andava vdo

'mé 'na poiàna treménda nel ziélo. El vegnìva giò a pigna-

morta a raspà la tèra e ól criava:

"Omeni de bòna volontàaauuuaaauvvvv, venì ch'è nato el

redentoreeeeaaaauuuuuuuaaaaaavvv!"

(Mima la picchiata con volo radente dell'angelo)

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Con tüti i pastori che se bütàvano per tèra spaventà!

"Oheee... ma té sé mato! Té vo' schisciàrghe? A t'è spaventà

tüti i péguri... che ghe andà via anca el late!"(Mima un'altra

picchiata dell'angelo che per poco non lo travolge)

"Almànco té capitàsse d'andàr a sbàtere contra la montagna a

scarcagnàrte el çerción fino al còlo, a spantegàrte tüte le

piüme dapartüto. Ga1inàsso!"

E tüti i pastori ghe diséva: "L'è megliór che catémo quarche

ròba da portar al bambìn ch'è nasùo se no questo ól va avanti

e indrìo, tüta la notte, e ghe sega e ghe ara tüto!" E tüti i ghe

andava con un dono, in processiòn. Chi ghe porta del

formàjio, chi che ghe porta un cavrèto, dèi conìli, un altro de

le galìne, e chi ghe porta del vino, de l'oli, chi che ghe porta

le póme còte e le torte coi maróni. E po' ghe ne sónt de quèi

che arìvan co' la pulénta apòsta da la bergamàsca. Cu' la

pulénta fumànta de lontan! Roba che, dàrghe de la pulénta a

un bambìn apéna nascìdo, ghe vòl una bèla testa de cojóni! E

lì, a la capàna, tutt'intórno a gh’éra de la gente che faséva dei

baccàni, a gh’éra di quèli che ségava: Vir, vrom, vir, vrom; e

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poi quèli che batéva il fèro: pim, toc, toc pem; e gh’éra quèli

co l'ànsema che dava ól fià: "buò, fir, fuòm, fim; e poi quei

che vendéva: végne, végne, de ün, de dòi, chi valza la man

par prim.

"Basta! Vergogna! Tutto 'sto baccàn! 'Sta pòvara dòna, de la

Madona, so' tre giorni e tre notti che no' la dorme, se pùò far

fracàss in 'sta manéra? Vergogna!" - "Eh, ma noiàltri

vorsémo far el presepio!" E dentro la capàna gh'è tüti che

entra in ginögio coi regali e Sant'Ana cata tüto: "Andì indrìo,

andé a pregàr de fora, dàme qua i regali. Signor Jesus

bambìn ti dovéa nàssere almanco tre volte a la setimàna, chi

farémo una resérva de roba!" Arìva i Re Magi, i se

ingenögia. Gh'è el vègio che el porta el sò regalo, poe el

giovinèto e poe arìva dentro el negro...

"Ohi che bèl, che bèl, che bèl!

Ól Bambìn nèl cavagnèl!"

"Foera negro, via, cito! Spavénta no el fiulìn. Canta de

foera!" El vousa el re vègio.

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In quel mentre 'riva dentro l'ànzelo, Gabriel, gridando: "Via,

sübeto fuga in Egitto che gh'è ól re Erode che taja le teste ai

bambìn come fuósse funghi." E allora Sant'Anna dise: "Per

piasér gh'ho besògn de tre cavàli e tre carétti per caregàr tüta

'sta roba" - "No, no' gh'è tempo de caregàr, besògna andàr

via sübeto. Via, fuga in Egitto." - "Ah, furbàsso ànzelo, ti

voi catàre tüto ti, eh!" Poi tìren fora l'àseno che no' sta in pìe,

l'è tüto embriàgo, che son tre giorni e tre notti ch'ól bófa per

darghe un po' de calór al bambìn, no' sta drìsso, ól gh'ha la

pànsa quasi par tèra e cominciano a caregàrghe de roba sulla

stciéna, ól va par tèra, slìsséga. La Madonna ól va en gròpa e

San Giüsèppe ghe dise: "Madona dessénde che 'sta bestia ól

crepa!" - "Ma mi no' pòdo desséndere, se la zente no' mé

vede su l'àseno no' capìsse che fémo la fuga in Egitto."

In quèl mentre vién dentro un ànzolo, gridando: "Foera,

foera - dise - baterìa!" - "Come bateria!?"

"Traslòco! Via, scapàre!" - "Dove?" - "Fuga in Egìto!" - "De

già?!" - "Sì, gh'è tüti i soldài de foera che ve çerca." -

"Aspèta, 'ndemo a tór un carèto - dise Sant'Ana - per

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caregàre tüti i regali che gh'han portà." - "Gnente regali, no'

se porta via niénte!"

Dise la Madona: "Eh no, i mè regali li vòjo cara, i mè regali

per ól fiolìn, che quando devénta grande... " - "Tira foera

l'áseno!" - "Ma no, no - dise San Giusèpe - no' se pòl

caregàrlo 'st'áseno, a l'è quatro ziórni e quatro nòti che el

bófa, l'è sfiatà compàgn d'una lugànegha insechìda!"

'Gnìva avante infàti 'sto ásen, inciochì che no'l restava in pìe,

ghe se slargàva i giambi apéna che ól caregàven. Caregàven

tüti i fiaschi, i ótri, caregàven i formàj, pachi e fagòti. E 'sto

ásen: wwumm! Wuwmm! el 'ndava sóto, slargàva i giambi,

la pànscia per tèra. A gh'è la Madona che monta in còpa al

àsen, insentàda col fiolìn in bráscio.

"Madona - ghe diséva San Giusépe - ven giò, nol se po'

mòvere, el mòre!" - "Ma no' pòdo caro, chè tüta la zénte l'è

abituà, durante la fuga in Egito, a vedérme che mi son

sentàda in sü l'áseno in fin da la parténsa!" ***

E alóra San Giusèpe ól se mète sóta a l'áseno, caréga l'áseno

in gròpa e van via tüti insémbia. Dòpo do ziórni, trè ziórni,

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tüta la sacra famégia 'riva davànte a Jaffa. Jaffa bianca co'

tüte le tóri altìsime, maravagióse. E sübito l'ànzelo ól vola in

ziélo, ól fà un gran cerchio vdo. E l'àseno ól tira sü la testa...

Iiiaaaahhhhhhhhh! (Imita il ragliare dell'asino)

Pprrrooofffff! Slarga le giàmbe, pom, la pànscia par tèra.

Una lofa del cül: pluff! L'ànema de l'àseno la va in ziélo.

La Madona de in còpa a la bèstia spiràda, la varda: "Pòvara

bèstia... Segno di Dio, voer di' che sémo 'rivàti!"

Van drénto a la cità, tròveno 'na stambèrga, tüto un büso,

che, del confronto, la capàna de Betlèm a l'éra 'na réggia.

Giusèpe ól tòpa i büsi. La famégia se mète a dormire.

La matìna sübeto, la Madona la ciàpa 'na cavàgna, 'na cesta e

la va intórna a cercar pagni de lavare, perchè besógna che

jüta anche le' la faméja. San Giusèpe andava intórna col

martèl, la sega e ciòdi per truà de fare mestè.

El fiolìn in mèso a la strada.

La sera la Madona l'arìva, morta roversàda, con tüta la stcéna

spacàda, róta.

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La se sèta ancmò bagnàda, straca. E San Giusèpe vién de

foera imbestià chè no' gh'ha truvà lavór d'un soldo. Se punta

lì col martèl sul tàvul: Ptum! Ptum! Ptum! Ptum! El pica sóra

i didi, che quèla l'è l'üniga manéra de sfogàrse che gh'han i

legnamèe. 'Riva dentro ól Gesù Bambìn col mücc giò del

naso, fin sü la bóca, tüto strapenàdo, con le mani vónce, le

braghe de travèrso, sénsa gnanca 'na scarpa ai pìe.

"Mama! A gh'ho fame!"

"Bèla manéra che té gh'è de vegnìr a casa! Invece de

domandàrghe sübet del to’' papà, de la tua mama se i son

cunténti, o fategà. Perchè té déve far ti cossì, eh?"

"Eh, mama, ma mi gh'ho fame!"

E la Madona: "Ma non ti gh'ha vergogna? Proprio ti che té

sèt vegnü apòsta del ziélo, che té sèt nasciü al mondo apòsta

per insegnàrghe ai altri a èser bòni, e avérghe amore e

avérghe bòne parole per tüti... e proprio ai primi dòi cristiani

che té ghe déve dar respècto, ti té arìvi a gnanca

saludàrghe!"

E Gesù Bambìn: "Oheu, la madòna!"

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Sbianca la Madona e Giusèpe anche! Se mète a tavola.

"Fiulìn va' a lavàrte i man, nétate i mòcoli del naso, mètese

un po' i cavèli a polìto. Va' i bócol... cussì! Fate el segno de

la cróse! No, aspèta, l'è un po' tròpo presto!"

Poe el Bambìn ól dorme. Dorme la Madona, dorme Giusèp.

La matìna Gesù se desvégia , el resta da per lü, solo, no' gh'è

nisciüno. Alóra se mète sü le braghe, mangia un tòco de

pane, va intorno dove che gh'è la strada e vede tüti i bambini

che ziòga: cavalìna, sgiàfa a nascundùn, tòpa falsa...

"Ehi, bambìn! Féme ziogàr anca mi ai vostri ziòghi!" - "Nò!"

- "Vo' sóta mi! Fémo la cavalìna. Anca a la sgiàfa" - "No!

Va' via, Palestina!" - "A córere? Viàltri mé corè drio. Fémo

el ladro. Mi fel ladro?" - "No!" - "Ma perchè?" - "Via,

Palestina! Terün!"

El fiolìn piange. Piange ól Bambìn coi ögi grandi che cola'

gotón de làgrime. E pur de avérghe la posibilità de ziogàr, de

far festa, de far ziògo e fantasia coi altri fiolìt, el fa un

miracolo. Che la sòa mama gh'avéa sémpre dito: "No' far

miràculi intorno, che i té scopre, che se i capisse che ti té sèt

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ól fiolìn de Dèo arìva i sbiri de l'Erode e ghe tóca scapàre de

nòvo!"

Lì, in de la piàsa, gh'éra 'na fontana. E tüta intorna la tèra...

de la tèra créta, de quèla che se 'dòpera per fare i matóni.

Jesus Bambìn ól ciàpa sü un pagnòco de tèra e ól comincia

con 'sti didìni a lavuràrla: el fa foera un crapìn d'osèlo poe

tüto el corpascìn con le aletìne, la cóa, poe le piüme, fine,

fine. El cata sü ón bastonsìn per farghe le sciampìne...

"Bambìn, varda che bèl osèlo de mòta che gh'ho fàito! De

tèra l'è!"

"Oh che bravo el Palestina, végne apòsta de lontano per

farghe vedere l'uselìn de mòta... oh bravo!" - "Sì, ma mi sunt

capàze de farlo volare." - "Come?" - "Ghe fo' 'na bufàda." -

"Fà vedé?"

"Èco! (Soffia con forza) Pfffuuuuu!" e l'uselìn ól dervìse

tüte le piüme e le ali, se desténde, sbate, sbate: ciup, ciup,

ciup, ciup, viricip, ciup, viriiii, cip! (Con le sole mani mima

l'uccello che svolazza intorno fino a scomparire nel cielo)

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"Bòja, che drago el Palestina! Che stregonàsso! Ohi, l'ha fàit

volàr l'usèl de mòta co' 'na bufàda. De tèra l'éra!" - "No' l'è

miga véra!" - "Com no? L'ho vidù mi!" - "Ma l'è un trüco

vègio 'mé la Madona: lü l'ha catà un uselìn de quèi inturpicà

che burlà giò da 'n'albero... l'ha catà sü... poe l'ha sguatascià

ne l'àqua... dòpo l'ha sfrugugnà un pochetìn ne la tèra.. poe

l'ha metü sóra la man, gh'ha bufà in tèl cül: brivido... vce,

vce, vce... l'è vulà via!" - "Ma no, l'ho visto mi, l'éra pròpio

de tèra! Dai… Faghe védar, dài Palestina... 'n'altro tòc de

créta, avanti via, möevess... (mima di creare un uccellino)

dai che l'è fato... via co' le alète... Dai, bufa!" - "Spèta!"

"Chi?"

'Riva un fiulòt, un bambìn, co' 'na gran testa tüta risulìt

négher: "Fermo, verificare!"

"Chi sèt?"

"Tomaso!"

"Tomaso? Come no' dito!"(Alza le mani, arreso di fronte alla

consuetudine e al personaggio)

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Tomaso ciàpa un ciòdo... sum sum sum... sbüsa l'oselìn de

tèra: "Regolamentare, vai!"

"Aténti che bóffi!" (Soffia) Ppfffuuuuuuuu... (Mima

nuovamente il volo dell'uccellino) cip, cip, cip,

cipcipcipcip!

"Vola! L'osèlo vola! Bravo Palestina! Caro come té voeri

bén! Toh, un basin! Ma perchè té se stàit luntàn cossì tanto

témpo? Che giògo che fémo! Adèso ognuno ól fà un osèlo...

e ti, poe, Palestina: pffuuuu!, bófa e fa volar i nostri osèli!"

"Dai Palestina! Che bèl Palestina che té sèt!"

E tüti gh'han comincià a far dèi oselón. V'un gh'ha fàit un

panotún tüto tondo co' una côa drissa, con dèe alète quadri,

con un gran crapón che burlàva giò, poe l'ha fàit dò

giambìne, tum... el burla giò... ghe n'ha metü quatro, poe

cinque zampe.

"Ma no' se pòl un osèl de çinque zampe!"

"Se no' stà in pìe... Importante che vola, no?"

Poe 'n'altro, 'na lugànega, una bissa, 'na bissa salàma, con

dodése ali in fila, sénsa la côa, dódese zampe.

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"Lè un cagnòtto..."

Poe 'n'altro l'ha fàit un bugugnùn... paréva 'na torta, co' la

testa drissa in mèzo, sénsa còlo, el bèco su sü... e tüte le ali,

tüte scompagnàde, tüte intorno. E sénsa giàmbe.

"No' so se el vola, vedarèm..."

Poe, 'n'altro, gh'avéa fàit dèi oselìn che pareva de le

cagadìne.

Poe 'n'altro un strunsùn.

E l'ultimo, un gato!

"No' se pòl far volare un gato!"

"Se vola quèl strunsùn là, volerà ancha el mé gato!"

"No, ma i gati no' se pòl far volare. Un po' de régola!"

"Mama! El Palestina no' vol far volar el mè gato! (Mima la

madre che si affaccia al balcone e grida:) Fa' volàr sübeto el

gato d'el mè fiòl, Palestina! Se no, vegni giò e té inciòdo!"

(Mima il bambino Gesù che si osserva preoccupato le palme

delle mani)

"Tüti i oselón, tüti in fila!"

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"Via, che el bófa!" (Mima il volare strampalato dei vari

uccelli)

Pffuuuuu... El pagnutùn: quac, quic, quoc, qua, té, pu, qua,

té.

Pfffeeee... La lugànega: pici, pete, qua, té, ce, che , se, té, pe.

Pfffeeee... La torta: psu, pse, psu.

Pfuuuu... El strunsùn: pce, pque, pte, pci, pce.

El gato! Pfuuu gniaaaaoooo gna gnum gnam! Magna tüti i

osèli del ziélo!

"Ohi! Che bèl, che rìdare a stciepapànza!"

"'N'altra uselàda, avanti tüti inséma!" Tüti che fan i osèli.

Végnen anche dai altri quartiéri, tüti i fiolìt. Tüta la piàssa

piéna de fiolìt che fan pastròchi con la tèra, tüte le statuète...

Osèl de tüte le forme e culóri.

I ziòga, i ride, i canta!

Ma in quèl moménto: trac! Se spalanca el portón de la gran

piàssa. E se vede 'parìre un cavalìn negro, tüto bardà, bèlo,

con sóvra, a montàl, un fiolìn tüto rubisón, con dei öci

sbricón, con i cavèli bén petenà... le piüme sül capèlo, vestìt

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de velùto e de séta, con un coletón de pisso. E gh'éra dòi

soldati d'aprèso: el sovrastòmego de fèro, piüme anca loro

sul capèl, montà sü dòi cavàli bianchi.

Quèl bambìn l'éra ól fiòl del parón de tüta la cità. (Mima il

bambino che, dal cavallo, si rivolge ai ragazzini del

quartiere)

"Ehi fiolìn, che cosa ziogàte?"

"No' far mostra de gnénte, Palestina! Quèlo l'è un

rompicojón. L'è ól fiòl d'ól parón. No' darghe trà. No' darghe

corda, fa' finta de gnénte."

"Mi dite a còssa state a giocare? Pòso giocare co' voiàltri?"

"No!"

"E perchè, de gràssia?"

"Cussì! Perchè tüte le volte che noialtri domandémo de

ziogàr con ti, fiòl del patrón, coi to’' cavàli per far un zirèto,

ti té dise no! Perchè tüte le volte che vegnémo a casa tua, che

té gh'è de gran ziòghi, té ne fàit descassàre da i to’' sbiri!

Noiàltri adèso gh'avemo un bèl ziògo, el più bèl ziògo del

mondo, ma el Palestina, che quèl l'è al cap del ziògo, l'è

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nostro. Ti té se sióro ma no' té gh'e ól Palestina. Palestina l'è

par noiàltri. Vero Palestina? (Mima di baciare Gesù) Pciu,

pciu! No' té ne andar co' quèlo ah? No' fa el Giuda, ah?!"

"Ma se pòl savére che ziògo l'è?"

"Sì, che té lo digo... Noiàltri fasémo i uselón. Poe ól

Palestina, bófa e i fa volare. Ti vol ziogàre anca ti?"

"Oh sì!"

"Bòn, tira fòra el to’' oselìn, bófaghe sóvra, e vedòm se ti è

bòn de farlo volare!" (Gran sghignazzo corale)

Rosso, inrabìto, co l'éra ól fiolìn del padrón, co' i i ögi foera

de la testa. Gh'ha catà 'na lanza del soldàt, gh'ha dàit de

spròn al so' cavàl, l'è 'rivàt in mèso ai fiòl criàndo 'mé un

mato:

"Se no' ziògo mi, no' ziogàte gnànca voiàltri!"

Zan, zan, a spacàre coi zòcoli del cavàl tüte le stàtue, tüte le

figurine de créta. Tüta par tèra, la tèra spacàda. Coi fiulìt che

piagneva... tiràva bale de mòta; i soldàt coréndo a cavàl,

criava:

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"Via! Foera, andìt foera, via! Che el pòl fare quel che el vòl

quèl, parchè l'è ól fiòl del padrón!"

Le mame che vegnìveno foera de le finestre: "Catìvo! Un

ziògo si bèlo co l'éra. No' costava gnénte... i nostri fiòl i l'éra

conténti, e ti..."

E i soldai: "Via matre! Via, che ve 'riva le lanze!"

Pfium, pfium, ptum, ptum! Tüte le finestre seràde. La piàsa

vòta.

Gh’éra restà soltanto ól fiolìn del parón sul so' cavàlo negro,

coi soldati che i rideva. E nesün gh'avéa scorgiùo che gh'éra

restàt ól Bambìn Jesù visìn a la fontàna.. coi ögi grandi,

impegnìdi de làgrime... che ól vardàva verso ól ziélo che el

s'éra impiegnìdo de nìvole.

"Paadreee, paaadreeeee!"

Le nìvole se son dervìde: broomm, proomm, brooommm!

(Mima il padreterno che si affaccia fra le nuvole)

"Se gh'è!" (Rifacendo il tono del bambino, che a fatica

trattiene il pianto)

"Padree, son miii, Jesus..."

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"Cosa t'è capitàt, Bambìn?"

"Eehh... quèl fiulìn lì l'è catìvo, chè gh'ha stcepàt tüti i

figurìn de tèra che noialtri gh'avémo fato per ziogàre. G'ha

scarcagnà tüto col so' cavàl e (Piange farfugliando)

guduhntuchetugudutu"

"Ma caro, per 'na stupidàda cusì, té gh'ha de far ciapàre un

spavénto cusì grando a to’' pare? Che so' 'rivàto de volàta, de

l'altra parte de l'univèrso che éro... gh'ho sbüsà quasi dódes

nìvoli, gh'ho tirà sóta dódese cherubini, e mé son stùrta tüto

ól triangolo, che ghe voer una eternità a rimpiasàl a

1'órden!"

"E, ma lü l'è stàit catìvo! Lü l'è ól fiòl del parón, gh'ha tüto!

Gh'ha tüti i ziòghi, ma l'istèso, quando gh'ha visto che

noialtri éremo conténti, gh'ha... (Singhiozza) ghidi tüte

tuduuhu stcepàdo tüto... ehheeehhhe... e mi gh'avevo tanto

fadigà..."

"Parla ciàro."

"E mi che gh'avevo fàto tanta fatìga de far ól miracolo de far

volar gli oselìni... per avérghe dèi amìsi, per ziogàre

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insémbia... che dòpo i mè ciamàva Palestina caro toh un

basìn!... E adèso son de nòvo solo, come prima. Che tüti i

amisi mìi son scapati... ehhhee... (Piange) Gh'ho gran dolore

mi, gh'ho gran dolore patre eeehhheeee..."

"Oh té gh'hàit rasón. A dévo bén dir che ól spacàre, ól

stcepàre sogni e ziòghi de plagér de fantasia, o l'è pròpi ól

pejiór de tüte i viòl! Ma quèlo l'è un fiolìt, caro... cosa devo

fare eh?"(Gesù, prima si lascia sfuggire un sospiro di pianto,

poi, con tono, il più candido e normale possibile)

"Màsalo! (Sorride guardando accativante verso l'alto per

ottenere il consenso del padre) Eh!"

"Ma caro, t'ho mandàt giò apòsta dal çiélo in tèra per

imparàrghe la pace fra i òmeni... parlàrghe d'amore. La

prima volta che quaicün té fa quaicòsa, té voi masàrlo! Té

cominci bén la professiòn, eh?"

"È tròpo? Bòn, alora stórpialo... sguèrcialo... eh? Sguèrcialo

e stórpialo..."

"No, no' se pòl far 'ste cose, caro. No' se pòl comensàr co' la

violénza cussì, eh?"

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"No' se pòl? No' té pòl ti? Lo maso mi?"

"E bòn, fàit quèl che té pare, che tanto co' ti, no' se pòl

descùtere. Ma non andar intorno a racontàr che so' stado

mi!"

Prrooomm, bbrrraaaamm! I nìvuli sfragùglia da partüto e el

Dèo scompare. No' l'è pasàto ól témpo.

De nòvo a gh'è ól fiolìn del padron col ride, coi soldàt che i

se sganàsa a rigolà, e ól Bambìn Jesù visìn, c'ól ciàma:

"Patron... fiòl del parón!"

"Eh?"

"Eeehhheeeehhhh! (Ride col compiacimento di chi sta per

preparando uno scherzo atroce) Té ridi, ti, eh? T'è fàit tüto

'sto sacrapànte d'intorno... t'è spatascià tüti i statuèti, el

nostro ziògo. E ti sèt conténto, tranquìlo... ti pénsi che

nisciün té faga gnénte, eh? Ti è convènso che no'l può

èserghe nisciün che té castiga al mondo. Gnànca to’' pare,

ah?

E se adèso invece mi té fùlmino?

Té ridi, eh? No' té ghe credi, eh?"

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Ffvvuuuooommmmm! Un fulmine treméndo è sortì dai ögi

del Jesù Bambìn. (Descrive la terribile fiammata) Una

léngua de fògo! 'Mé 'na bisa-serpénte infiamàda, l'intorcìga

tüto 'sto fiolìn, ól scaravénta, ól revòlta, ól sbate per tèra,

divénta tèra còta come in un forno. Poem! Fumante!!

Tüte le done dai balcón se büta a criàre: "Stregonàso! Cosa ti

gh'ha combenà de treméndo!?"

I soldàt sbianchìdi de spavénto che scapa sui cavàli.

La Madona, che gh'ha sentìt criàr de lontàn la 'riva de corsa:

"Cos'è succès? Fiulin cos'hàit fa' ti?"

"Gnénte... ho fa' un miracolo. Mio primo miràculo. Varda, l'è

ancora caldo."

"Ma come... l'è un bambìn?! L'è un fiolìn che t'è trasformà in

tèra cota!!! Ma cos t'è fàit cos? Ma perchè?"

"Eh! Ma lü l'éra catìvo, cara!"

"No' vòj 'scoltàr scüse! Resüsitalo!"

"Noo!"

"Jesus, obidìse! Pénse a la povera mama de 'sto bambìn... lo

strapacòre che gh'averà...! Resüsitalo!"

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"Ma non son capàze madre, mi gh'ho imparà soltanto a

fulminare; no' gh'ho ancora imparàt el resùrgit!"

"No' dir bosìe! Resüsitalo e inprèscia! No' ti capìse che se

'riva i sbiri ghe tóca de scapare de nòvo... mi e to’' patre che

gh'avemo apéna trovà un lavór!"

"Eh, ma però... Èco... no' se pòl fare un miracolo che bisogna

disfarlo sübeto! Bòn, lo resüsito, però co' 'n'a pesciàda..."

Tum! 'N'a pesciàda in tèl cül de tèra. Prum! El bambìn de

carne e òsa torna in pìe. Se tégne i ciàpi in dèi mani... ól

varda intorno spaventàt: "Cuss'è capitàt, cuss'è sucès cos'è?"

E el fiolìn Jesus ghe dise: "Mi sont stàit! Ól miracolo...

fulminà... resüsità! Poe l'è 'rivà la mia mama... Ringrasia la

Madona! Faghe sübit un fiurèt!

Ma ti, té sénte brüsar ól cül per la pesciàda che té ho dada?

Aténto che gh'é un'alegorìa, eh!

Bòn servìsi per quei che son stremìdi... che derénto le

finestre son nascondüdi per gran pagüra. (Indica in alto

tutt'intorno alla piazza)

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Se quèli comìnzeno a penzàre, razonàre, bada bén, che ti, té

deventerà grande a forza di pesciàdi che ti ciàpi! El cülo té

monta, té monta, té monta, té monta: puuummm! E stciòpa!

In eterno senza cülo!

Amen!"

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PER DARIO FO URGENTE

Caro Dario, ho pensato, dal momento che è bello, di inserire

il pezzo che hai tagliatpo nel Gesù bambino con questo

cappello. Leggi, correggi e rispediscimi. Baci. Urgente.

Franca

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"Fœra negro, via, cito! Spavénta no el fiulìn. Canta de fœra!"

el vousa el re vègio.

E in quèl moménto nè la cità, (mima di battere sul tamburo)

PATATUM PATATUM PATATUM un banditore: "Ehi

ascoltè mame, ascoltè dòne! Chi è che de voiàltre ha fàit

nàser in 'sti tre ziórni un fiulìn pòle èser conténta, parchè ól

re Erode ól ha desidìo de darghe un prémio al pü bèl bambìn

che e nasciüdo. Portélo a la réggia e ól re, al bambìn plü

bèlo, donarà 'na curoncìna co' sü scrito: "Oh come l'è bèl

'sto bambìn! L'è un putèlo quasi plü bèlo d'ól fiòl de Déo!" E

anca la dòna che l'ha purturìto o gh'avarà 'na curóna con

sóvra stampà: "Quèsta l'è la mama che l'ha nascìo 'sto

bambìn, bèl mé Dio!"

Sant'Ana che l'ha 'scoltà 'stò bordèléri, l'è andàita sübeto de

la Madona: "A gh'è un prémio, 'ndém, porta sübeto ól t'ho

fiolìn al concorso."

"No che no' lo vòjo el premio. Mi no' gh'ho besógno

d'avérghe consolaziùn altri che quèla che gh'ho già avüdo!"

"No, no, gh'ha importànsa! Besógna che ól sàpia tüto el

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mondo. Ól premio donà dall'Erode non po' catàrselo 'n'altro

fiól! Andémo, andémo! Ubbedìse a la tua mama!"

E fan per sortìre cont ol fiolìn ma po' ghe repénsa e i dise:

"Aspèta che andémo a tor dei nastri per farlo plü bèlo ól

nostro bambìn e ti Giusèp, daghe un ögio al fiulìn e sta

aténto che no' ghe capita quaicòs."

Vano fœra e, sübeto San Giusèpe ól pianta lì de ségare e

dise: "Chì ghe deve èser 'na trápula, mi sénto che gh'è 'na

trápula. Gesù Bambìn, cosa té dìset ti?"

E Gesù Bambìn che l'éra già inteligénte ól fà: " Sì, sì..." e

schìscia l'ögio.

Alóra San Giusèpe ól tira fœra un biciér dove gh'éra dentro

de la ròba négra per pitüràr i cadenàsc. Cunt un penèlo tach,

tach, tach, fa dèi puntini in tüta la fàcia al fiulìn c'ól faséva i

grimàsi p'el galìtico.

"Fermo li!" poe ól se remète a segare.

Torna Sant'Ana e come la vede ól fiolìn : "Ohaiooh! La

rosolìa!... La rosolìa négra! Quel negro che l'è vegnü dénter

l'ha spaventà ól Bambìn!"

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Pœ ciàpa un strascio fru, fru, fri, nèta, nèta, e ól bambìn

devénta tüto netàto, pulito.

"Qualchedùn gh'ha pitürà dèi balìt sül so' facìn del Bambìn!

Chissà chi l'è stado?"

San Giusèpe che el segàva: "Su no mi, su no mi." "Ténto ti,

cun quèla sega, che mi té ségo via quaicòss d'altro!" Catìva

che l'éra Sant'Ana!

Pœ lée e la Madona van foera de nòvo a tór dèi inguénti per

darghe un bòn parfümo al fiolìn: "Sta 'ténto che 'ndémo

fœra, varda che se capita quaicòsa al fiolìn la cólpa l'è tùa!"

San Giusèpe apéna che i dò dòni son sortìde fœra, no' sa

cosa fare... Scorge sü un müro un bestiolìn... tüto rigàdo

giàldo e negro, ‘na avìs, un ape granda, che l'éra pussè come

un vespón. Cata un biciér... Toch... Cól biciér l'imprigiona

contro ól muro... presón! Un asèta. Soomm! Ghe tòpa sóra

l'òrlo! (E l'imprigiona nel bicchiere.Al bambìn Gesù)"Scüsa

ma dévo farte dar 'na cagnàda propi sü la ganàsa. TUM!

PLOFF! (Indica un immediato rigonfio sulla guancia del

bambino) Adèss, dal'altra parte: TOCH! PLOFF! TUM!

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(Indica un rigonfio che spunta sull'altra guancia) TUM! In

sü la fronte! La trinità dei bugnoni!"

Pœ, come non fosse, retürna a far mostra de segare. ‘Riva

deréntro Sant'Ana: "Aaahhh Dio! Varda lì. Come l'è

cunsciàto... Ooeehh cos'è capità? Che mostro! Varda lì,

Maria!"

"Ma no' 'stà a piàgner, l'è ròba che va via quasi sübit, dò

mesi al màsimo!" el dise Giusèpe.

"(Indicando i bernoccoli) Cos'è?" "L'è el dénte del

giudìssio!"

"De tüte e do parte?"

"Sì."

"Anca in fronte?"

"Se no' gh'ha in testa lü el giudìssio!"

Piange la Madona, piange Sant'Ana.

"Che desgràsia proprio adèso, che gh'éra un bèl premio de

guadagnà, doveva capitàrghe 'sti trè dénti del giudìssio ! No'

podarémo più portarlo da l’Erode, tanto che l'è mostruoso."

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De lì a un poco, fœra per le strade, se sént a piànzere. Se

sénte criàre desperàde de le dòne, tüte matri, coi so' fiulìt

insanguinàti, tajàti a tòchi.

"Aahhaa! A l'éra 'na trápula! L'Erode, apéna sémo stàe ne la

córte, l'ha fàit seràr tüti i porti. E i soldài sunt vegnü deréntro

a masàrghe tüti i fiulìt... 'Na tràpula l'éra! Tüti masàdi!"

Alóra Sant'Ana l'ha capito: l'è andàda par tèra in i ginöegio.

Anca la Madona. E tüte e dòi criàva: "Grazie Déo, iluminàto

con grande mente de inteligénzia! Ti t'è vorsùo salvàrghe,

con quèsta desgràzia finta d'i bognùni, 'sto fiolìn che no'

'rivàse in le sgrinfie de l'Erode. Oho! Che ménte! Che

trovàde che té gh'hai Déo!"

E San Giüsèpe cól segàva de ràbia, cól segàva anca ól

cavalèto, biastemàva: "Cussì, sémpre, sémpre cussì! - el

diséva - Quando un òmo ól gh'ha 'na pensàda de zervèlo, poe

tüti, ringràsien Déo, che no' gh'ha fàit gnénte!"

In quèl mentre vién dentro un anzolo, gridando: "Fœra, fœra

- dise - baterìa!" - "Come bateria!?"

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02/10/2012 888

TRADUZIONE

"Traslòco! Via, scapàre!" "Dove?" "Fuga in Egìto!" "De

già?!" "Sì, gh'è tüti i soldài de fœra che ve çerca." "Aspèta,

'ndemo a tór un carèto - dise Sant'Ana - per caregàre tüti i

regali che gh'han portà." "Gnénte regali, no' se porta via

niénte!"

Dise la Madona: "Eh no, i mè regali li vòjo cara, i mè regali

per ól fiolìn, che quando devénta grande... " " (a San

Giüsèppe) Tira fœra l'áseno!" - "Ma no, no - dise San

Giusèpe - no' se pòl caregàrlo 'st'áseno, a l'è quatro ziórni e

quatro nòti che el bófa, l'è sfiatà compàgn d'una lugànegha

insechìda!"

'Gnìva avante infàti 'sto ásen, inciochì che no'l restava in pìe,

ghe se slargàva i giàmbi apéna che ól caregàven. Caregàven

tüti i fiaschi, i ótri, caregàven i formàj, pachi e fagòti. E 'sto

ásen: wwumm! Wuwmm!, el 'ndava sóto, slargàva i giambi,

la pànscia per tèra. A gh'è la Madona che monta in còpa al

àsen, insentàda cól fiolìn in bráscio.

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"Madona - ghe diséva San Giusépe - ven gió, nòl sé po'

mòvere… el mòre!" "Ma no' pòdo caro, chè tüta la zénte l'è

abituà, durante la fuga in Egito a vedérme che mi son

sentàda in sü l'áseno in fin da la parténsa!"

E alóra San Giusèpe ól se mète sóta a l'áseno, caréga l'áseno

in gròpa e van via tüti insémbia. Dòpo do ziórni, trè ziórni,

tüta la sacra famégia 'riva davànte a Jaffa. Jaffa bianca co'

tüte le tóri altìsime, maravegióse. E sübito l'ànzelo ól vola in

ziélo, ól fà un gran cerchio vdo. E l'àseno ól tira sü la testa...

Iiiaaaahhhhhhhhh! (Imita il ragliare dell'asino)

Pprrrooofffff! Slarga le giàmbe, POM, la pànscia par tèra.

Una slòfa del cül: pluff! L'ànema de l'àseno la va in ziélo.

La Madona de in còpa a la bèstia spiràda, la varda: "Pòvara

bèstia a l’è morta!... Segno de Dio, voer di' che sémo 'rivàti!"

Van drénto a la cità, tròveno 'na stambèrga, tüto un büso,

che, del confronto, la capàna de Betlèm a l'éra 'na réggia.

Giusèpe ól tòpa i büsi. La famégia se mète a dormire.

La matìna sübeto, la Madona la ciàpa 'na cavàgna, 'na cesta e

la va intórna a cercar pagni de lavare, perchè besógna che

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jüta anche lée' la faméja. San Giusèpe andava intórna cól

martèl, la sega e ciòdi per truà de fare mestè.

El fiolìn in mèso a la strada.

La séra la Madona l'arìva, morta roversàda, con tüta la stcéna

spacàda, róta.

La se sèta ancmò bagnàda, straca. E San Giusèpe vién de

fœra imbestià chè no' gh'ha truvà lavór d'un sóldo. Se punta

1ì cól martèl sul tàvul: Ptum! Ptum! Ptum! Ptum! El pica

sóra i didi, che quèla l'è l'üniga manéra de sfogàrse che

gh'han i legnamèe. 'Riva dentro ól Gesù Bambìn cól mücc

giò del naso, fin sü la bóca, tüto strapenàdo, con le mani

vónce, le braghe de travèrso, sénsa gnanca 'na scarpa ai pìe.

"Mama! A gh'ho fame!"

"Bèla manéra che té ghé de vegnìr a casa! Invece de

domandàrghe sübet del to’' papà, de la tòa mama se i son

cunténti, o fategà... Perchè té déve far cossì, eh?"

"Eh, mama, ma mi gh'ho fame!"

E la Madona: "Ma non ti gh'ha vergogna? Proprio ti che té

sèt vegnü apòsta del ziélo, che té sèt nasciüo al mondo

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apòsta per insegnàrghe ai altri a èser bòni… avérghe amore

e avérghe bòne paròle per tüti... e proprio ai primi dòi

cristiani che té ghé déve dar respècto, ti té arìvi a gnanca

saludàrghe!"

E Gesù Bambìn: "Oheu, la madòna!"

Sbianca la Madona e Giusèpe anco! Se mète a tavóla.

"Fiulìn va' a lavàrte i man, nétate i mòcoli del naso, mètese

un po' i cavèli a polìto. Va' i bócol... cussì! Fate el segno de

la cróse! No, aspèta, l'è un po' tròpo presto!"

Oh, Giüsèpe, dighe qualcósa al to’ fiòl… l’é al to’ fiòl anca

lü!! O no?

Chi l’é al mé fiòl?

Pœ el Bambìn ól dorme. Dorme la Madona, dorme Giusèp.

La matìna Gesù se desvégia, el resta da per lü, sólo, no' gh'è

nisciüno. Alóra se mète sü le braghe, mangia un tòco de

pane, va intorno dove che gh'è la strada e vede tüti i bambini

che ziòga: cavalìna, sgiàfa a nascundùn, tòpa falsa...

"Ehi, bambìn! Féme ziogàr anca mi ai vostri ziòghi!" "Nò!"

"Vo' sóta mi! Fémo la cavalìna. Anca a la sgiàfa" "No! Va'

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via, Palestina!" "A córere? Viàltri mé corè drio. Fémo el

ladro. Mi fò ladro?" "No!" "Ma perchè?" "Via, Palestina!

Terün!"

El fiolìn piange. Piange ól Bambìn coi ögi grandi che cóla'

gotón de làgrime. E pur de avérghe la posibilità de ziogàr, de

far festa, de far ziògo e fantasia coi altri fiolìt, el fa un

miracólo. Che la sòa mama gh'avéasémpre dito: "No' far

miràculi intorno, che i té scopre, che se i capisse che ti té sèt

ól fiolìn de Dèo arìva i sbiri de l'Erode e ghe tóca scapàre de

nòvo!"

Lì, in de la piàsa, gh'éra 'na fontana. E tüta intorna la tèra...

de la tèra créta, de quèla che se 'dòpera per fare i matóni.

Jesus Bambìn ól ciàpa sü un pagnòco de tèra e ól ‘comincia

con 'sti didìni a lavuràrla: el fa fœra un crapìn d'osèlo poe

tüto el corpascìn con le aletìne, la côa, poe le piüme, fine,

fine. El cata sü ón bastonsìn per farghe le sciampìne...

"Bambìn, varda che bèl osèlo de mòta che gh'ho fàito! De

tèra l'è!"

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"Oh che bravo el Palestina, végne apòsta de lontano per

farghe vedere l'uselìn de mòta... oh bravo!" - "Sì, ma mi sunt

capàze de farlo vólare!" "Come?" "Ghe fo' 'na bufàda..."

"Fà vedé?"

"Èco! (Soffia con forza) Pfffuuuuu!" e l'uselìn ól dervìse

tüte le piüme e le ali se desténde, sbate, sbate: ciup, ciup,

ciup, ciup, viricip, ciup, viriiii, cip! (Con le sole mani mima

l'uccello che svolazza intorno fino a scomparire nel cielo)

"Bòja, che drago el Palestina! Che stregonàsso! Ohi, l'ha fàit

volàr l'usèl de mòta co' 'na bufàda. De tèra l'éra!" "No' l'è

miga véra!" "Com no? L'ho vidùo mi!" "Ma l'è un trüco

vègio 'mé la Madona: lü l'ha catà un uselìn de quèi inturpicà

che l’é burlà giò da 'n'albero... l'ha catà sü... poe l'ha

sguatascià ne l'àqua... dòpo l'ha sfrugugnà un pochetìn ne la

tèra.. poe l'ha metü sóra la man, gh'ha bufà in tèl cül:

brivido... vce, vce, vce... l'è vulà via!" "Ma no, l'ho visto

mi, l'éra pròpio de tèra! Dai… Faghe védar, dài Palestina...

'n'altro tòc de créta, avanti via, mœvess... (mima come fosse

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Gesù bambino di creare un uccellino) dai che l'è fato... via

co' le alète... Dai, bufa!" - "Spèta!"

"Chi?"

'Riva un fiulòt, un bambìn, co' 'na gran testa tüta risulìt

négher: "Fermo, verificare!"

"Chi sèt?"

"Tomaso!"

"Tomaso? (Alza le mani, arreso di fronte alla consuetudine e

al personaggio) Come no' dito!"

Tomaso ciàpa un ciòdo... sum sum sum... sbüsa l'oselìn de

tèra: "Regolamentare, vai!"

"Aténti che bóffi!" (Soffia) Ppfffuuuuuuuu... (Mima

nuovamente il volo dell'uccellino) cip, cip, cip,

cipcipcipcip!

"Vóla! L'osèlo vola! Bravo Palestina! Caro, come té vœri

bén! Toh, un basìn! Ma perchè té se stàit luntàn cossì tanto

témpo? Che giògo che fémo! Adèso ognuno ól fà un osèlo...

e ti, poe, Palestina: pffuuuu!, bófa e fa vólar i nostri osèli!"

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"Dai Palestina! Che bèl Palestina che té sèt!" vusa tüti i

fliolìt

E tüti gh'han ‘cominciàt a far dèi oselón. V'un gh'ha fàit un

panotún tüto tondo co' ‘na côa drissa, con dèe alète quadri,

con un gran crapón che burlàva giò, poe l'ha fàit dò

giambìne, tum... el burla giò... ghe n'ha metü quatro, poe

cinque zampe.

"Ma no' se pòl un osèl de çinque zampe!" ól dise Jesus

"Se no' stà in pìe... Importante che vola, no?"

Pœ 'n'altro, 'na lugànega, una bissa, 'na bissa salàma, con

dodése ali in fila, sénsa la côa, dódese zampe.

"Lè un cagnòtto..."

Pœ 'n'altro l'ha fàit un bugugnùn... paréva 'na torta, co' la

testa drissa in mèzo, sénsa còlo, el bèco su sü... e tüte le ali,

tüte scompagnàde, tüte intorno. E sénsa giàmbe.

"No' so se el vola, vedarèm..."

Pœ, 'n'altro, gh'avéa fàit dèi oselìn che pareva de le cagadìne.

Pœ 'n'altro un strunsùn.

E l'ultimo, un gato!

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"No' se pòl far vólare un gato!"

"Se vola quèl strunsùn là, vólerà ancha el mé gato!"

"No, ma i gati no' se pòl far vólare. Un po' de régóla!"

"Mama! El Palestina no' vól far vólar el mè gato! (Mima la

madre che si affaccia al balcone e grida:) Fa' volàr sübeto el

gato d'el mè fiòl, Palestina! Se no, vegni giò e té inciòdo!"

(Mima il bambino Gesù che si osserva preoccupato le palme

delle mani)

"Tüti i oselón, tüti in fila!"

"Via, che el bófa!" (Esegue una soffiata panoramica e mima

via via il volare strampalato dei vari uccelli)

Pffuuuuu... El pagnutùn: quac, quic, quoc, qua, té, pu, qua,

té.

Pfffeeee... La lugànega: pici, pete, qua, té, ce, che , se, té, pe.

Pfffeeee... La torta: psu, pse, psu. Pfuuuu... El strunsùn: pce,

pque, pte, pci, pce. El gato! Pfuuu gniaaaaoooo gna gnum

gnam! Magna tüti i osèli del ziélo!

"Ohi! Che bèl, che rìdare a stciepapànza!"

"'N'altra uselàda, avanti tüti inséma!" Tüti che fan i osèli.

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Végnen anche dai altri quartiéri, tüti i fiolìt. Tüta la piàssa

piéna de fiolìt che i ziòga, i ride, i canta!... fan pastròchi con

la tèra, tüte le statuète... osèl de tüte le forme e culóri che i

vola.

Ma in quèl moménto: trac! Se spalanca el portón de la gran

piàssa. E se vede 'parìre un cavalìn negro, tüto bardà, bèlo,

con sóvra, a montàl, un fiolìn tüto rubisón, con dei öci

sbricón, con i cavèli bén petenà... le piüme sül capèlo, vestìt

de velùto e de séta, con un coletón de pisso. E gh'éra dòi

sóldati d'aprèso: el sovrastòmego de fèro, piüme anca loro

sul capèl, montà sü dòi cavàli bianchi.

Quèl bambìn l'éra ól fiòl del parón de tüta la cità. (Mima il

bambino che, dal cavallo, si rivolge con arroganza ai

ragazzini del quartiere)

"Ehi fiolìn, che cosa ziogàte?"

"No' far mostra de gnénte, Palestina! Quèlo l'è un

rompicojón. L'è ól fiòl d'ól parón. No' darghe trà. No' darghe

corda, fa' finta de gnénte."

"Mé dit a còssa state a jocàndo? Pòso jocàre co' voiàltri?"

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"No!"

"E perchè, de gràssia?"

"Cussì! Perchè tüte le vólte che noialtri domandémo de

ziogàr con ti, fiòl del patrón, coi to’' cavàli per far un zirèto,

ti té dise no! Perchè tüte le vólte che vegnémo a casa tua, che

té gh'è de gran ziòghi, té ne fàit descassàre da i to’' sbiri!

Noiàltri adèso gh'avémo un bèl ziògo, el più bèl ziògo del

mondo, ma el Palestina, che quèl l'è al cap del ziògo, l'è

nostro. Ti té se sióro ma no' té gh'e ól Palestina. Palestina l'è

par noàltri. Vero Palestina? (Mima di baciare Gesù) Pciu,

pciu! No' té n’andar co' quèlo ah? No' fa el Giuda, ah?!"

"Ma se pòl savére che ziògo l'è?"

"Sì, che té lo digo... Noiàltri fasémo i uselón. Pœ ól

Palestina, bófa e i fa vólare. Ti vól ziogàre anca ti?"

"Oh sì!"

"Bòn, tira fòra el to’' oselìn, bófaghe sóvra, e védom se ti è

bòn de farlo vólare!" (Gran sghignazzo corale)

Rosso, inrabìto, co l'éra ól fiolìn del padrón, co' i i ögi fœra

de la testa. Gh'ha catà 'na lanza del soldàt, gh'ha dàit de

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spròn al so' cavàl, l'è 'rivàt in mèso ai fiòl criàndo 'mé un

mato: "Se no' ziògo mi, no' ziogàte gnànca voàltri!"

Zan, zan, a spacàre coi zòcoli del cavàl tüte le stàtue, tüte le

figürine de créta. Tüta la tèra spacàda. Coi fiulìt che

piagneva... tiràva bale de mòta; i soldàt coréndo a cavàl,

criava: "Via! Fœra, andìt fœra, via! Che el pòl fare quel che

el vòl quèl, parchè l'è ól fiòl del padrón!"

Le mame che faciàda a le finestre: "Catìvo! Un ziògo si bèlo

co l'éra. No' costava gnénte... i nostri fiòl i l'éra conténti, e

ti..."

E i soldài: "Via matre! Via, che ve 'riva ‘na lanzàda!"

Pfium, pfium, ptum, ptum! Tüte le finestre seràde. La piàsa

vòda.

Gh’éra restà sóltanto ól fiolìn del parón sul so' cavàlo negro,

coi sóldati che i rideva. E nisciün gh'avéa scorgiùo che

gh'éra restàt ól Bambìn Jesù visìn a la fontàna.. coi ögi

grandi, impegnìdi de làgrime... che ól vardàva verso ól ziélo

che el s'éra impiegnìdo de nìvole.

(A tutta voce) "Paadreee, paaadreeeee!"

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Le nìvole se son dervìde: broomm, proomm, brooommm!

(Mima il padreterno che si affaccia fra le nuvole)

"Se gh'è!"

(A fatica trattiene il pianto) "Padree, son miii, Jesus..."

(Amorevole e preoccupato) "Cosa t'è capitàt, Bambìn?"

"Eehh... quèl fiulìn lì l'è catìvo, chè gh'ha s’cepàt tüti i

figurìn de tèra che noialtri gh'avémo fato per ziogàre. G'ha

scarcagnà tüto cól so' cavàl e (piange farfugliando)

guduhntuchetugudutu..."

"Ma caro, per 'na stupidàda cusì, té gh'ha de far ciapàre un

spavénto cusì grando a to’' pare che so' 'rivàto de volàta, de

l'altra parte de l'univèrso che éro? Gh'ho sbüsà quasi dódes

nìvoli, gh'ho tirà sóta dódese cherubini, e mé son stùrta tüto

ól triangolo, che ghe vœr una eternità a rimpiasàl a 1'órden!"

"E, ma lü l'è stàit catìvo! Lü l'è ól fiòl del parón, gh'ha tüto!

Gh'ha tüti i ziòghi, ma l'istèso, quando gh'ha visto che

noialtri éremo conténti, gh'ha... (singhiozza) ghidi tüte

tuduuhu s’cepàdo tüto... ehheeehhhe... e mi gh'avéo tanto

fadigà..."

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"Parla ciàro."

"E mi che gh'avevo fàto tanta fatìga de far ól miracólo de far

vólar gli oselìni... per avérghe dèi amìsi, per ziogàre

insémbia... che dòpo i mè ciamàva Palestina caro toh un

basìn!... E adèso són de nòvo sólo, come prima. Che tüti i

amisi mìi son scapadi... ehhhee... (Piange) Gh'ho gran dólore

mi, gh'ho gran dólore patre eeehhheeee..."

"Oh té gh'hàit rasón. A dévo bén dir che ól spacàre, ól

s’cepàre sogni e ziòghi de plagér de fantasia, o l'è pròpi ól

pejiór de tüte i viòl! Ma quèlo l'è un fiolìt, caro... cosa devo

fare eh?"(Gesù, prima si lascia sfuggire un sospiro di pianto,

poi, con tono, il più candido e normale possibile) "Màsalo!

(Sorride guardando accativante verso l'alto per ottenere il

consenso del padre) Eh!"

"Ma caro, t'ho mandàt giò apòsta dal çiélo in tèra per

imparàrghe la pace fra i òmeni... parlàrghe d'amore. La

prima vólta che quaicün té fa quaicòsa, té voi masàrlo! Té

cominci bén la professiòn, eh?"

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"È tròpo? Bòn, alora stórpialo... sguèrcialo... eh? Sguèrcialo

e stórpialo!"

"No, no' se pòl far 'ste robe, caro. No' se pòl comensàr co' la

violénza cussì, eh?"

"No' se pòl? No' té pòl ti? Lo maso mi?"

"E bòn, fàit quèl che té pare, che tanto co' ti, no' se pòl

descùtere. Ma non andar intorno a racontàr che so' stado

mi!"

Prrooomm, bbrrraaaamm! I nìvuli sfragùglia da partüto e el

Dèo scompare. No' l'è pasàto ól témpo.

De nòvo a gh'è ól fiolìn del padron cól ride, coi soldàt che i

se sganàsa a rigolà, e ól Bambìn Jesù visìn a la fontàna, c'ól

ciàma: "Patron... fiòl del parón!"

"Eh?"

(Ride col compiacimento di chi sta preparando uno scherzo

atroce) “Té ridi, ti, eh? T'è fàit tüto 'sto sacrapànte

d'intorno... t'è spatascià tüti i statuèti, té ruinàt el nostro

ziògo. E ti sèt conténto, tranquìlo... ti pénsi che nisciün té

faga gnénte, eh? Ti è convènso che no'l pòle èserghe nisciün

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che té castiga al mondo. Gnànca to’' pare, ah? E se adèso

invece mi té fùlmino?... Té ridi, eh? No' té ghe credi, eh?"

Ffvvuuuooommmmm! Un fulmine treméndo è sortì dai ögi

del Jesù Bambìn. (Descrive la terribile fiammata) Una

léngua de fògo! 'Mé 'na bisa-serpénte infiamàda, l'intorcìga

tüto 'sto fiolìn, ól scaravénta, ól revòlta, ól sbate per tèra,

divénta tèra còta come in un forno. Pœm! Fumante!!

Tüte le done dai balcón se büta a criàre: "Stregonàso! Còssa

ti gh'ha combenà de treméndo!?"

I soldàt sbianchìdi de spavénto che scapa sui cavàli.

La Madona, che gh'ha sentìt criàr de lontàn la 'riva de corsa:

"Cos'è succès? Fiulin cos'hàit fa' ti?"

"Gnénte... ho fa' un miracólo! Mio primo miràculo! Varda,

l'è ancora caldo."

"Ma come... l'è un bambìn?! L'è un fiolìn che t'è trasformà in

tèra còta!!! Ma cos t'è fàit còs? Ma parchè?"

"Eh! Ma lü l'éra catìvo, cara!"

"No' vòj 'scoltàr scüse! Resüsitalo!"

"Noo!"

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"Jesus, obidìse! Pénse a la povéra mama de 'sto bambìn... lo

strapacòre che gh'averà! Resüsitalo!"

"Ma non son capàze mama, mi gh'ho imparà sóltanto a

fulminare; no' gh'ho ancora imparàt el resùrgit!"

"No' dir bosìe! Resüsitalo e inprèscia! No' ti capìse che se

'riva i sbiri ghe tóca de scapàre de nòvo... mi e to’' patre che

gh'avémo apéna trovà un lavór!"

(Lamentandosi) "Eh, ma però... Èco... no' se pòl fare un

miracólo che bisogna disfarlo sübeto...! Bòn, lo resüsito,

però co' 'n'a pesciàda..." (Mima di sferrare una terribile

pedata al bambino disteso a terra)

Tum! 'N'a pesciàda in tèl cül de tèra. Prum! El bambìn de

carne e òsa torna in pìe. Se tégne i ciàpi cont i man... ól

varda intorno spaventàt: "Cuss'è capitàt, cuss'è sucès cos'è?"

El fiolìn Jesus ghe dise: "Mi sont stàito! Ól miracólo...

fulminà... resüsità!

Pœ l'è 'rivà la mia mama... Ringràsia la Madona! Faghe sübit

un fiurèt!

Ma ti... tésénte brüsar ól cül per la pesciàda che t’ ho dàit?

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Aténto che gh'é un'alegorìa, eh! Bòn servìsi per quei che son

stremìdi... che derénto le finestre son nascondüdi per gran

pagüra. (Indica in alto tutt'intorno alla piazza) Se quèli

comìnzeno a penzàre, razonàre, bada bén, che ti, té

deventerà grande a forza di pesciàdi che ti ciàpi! El cülo té

monta, té monta, té monta, té monta: puuummm! E s’ciòpa!

In eterno senza cülo!

Amen!"

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PROLOGHI GRAMMELOT

PROPOSTA PER DARIO NUOVA PRESENTAZIONE

Il GRAMMELOT

LA FAME DELLO ZANNI

Ora, prima di iniziare col Mistero Buffo vero e proprio, mi

permettete di eseguire un salto in avanti nel tempo,

sorpassare il Medioevo vero e proprio e raggiungere il

nostro glorioso Rinascimento. Questo allo scopo di

presentarvi il grammelot.

All’origine e fino a quasi tutto il ‘400, le compagnie di teatro

erano composte da attori dilettanti. Ma nella fine del XV

secolo, cominciàrono a riunirsi in gruppi consociati con

tanto di statuto e contratto. Ebbero subito una certa fortuna,

specie quelle compagnie che godevano della protezione di

nobili e banchieri. Ma ecco che, nella seconda metà del ‘500,

quando esplose la controriforma, l’attacco condotto dalla

Chiesa verso gli intellettuali liberi, colpì duramente anche le

compagnie di attori associati, cioè i teatranti della Commedia

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02/10/2012 907

dell’Arte. Costoro furono costretti a una vera e propria

diaspora. Furono centinaia le compagnie che dovettero

emigrare in tutti i paesi d’Europa: Spagna, Germania,

Inghilterra. La maggior quantità di quei teatranti si stabilì

nella Francia. Altri raggiunsero la Russia e perfino i Paesi

Baltici.

È ovvio che la maggior difficoltà éra quella di farsi intendere

dagli abitanti di quei paesi che non conoscevano la nostra

lingua. È vero che i comici dell’arte possedevano doti

insuperabili di gestualità ed erano veri maestri della

pantomima ma dovettero creare qualche cosa che

permettesse di comunicare più profondamente il discorso del

gioco satirico e tragico. Cossì utilizzarono (o inventarono?)

il grammelot.

Cominciàrono col impiegare un linguaggio che potremmo

chiamare proto-maccheronico, cioè composto da sproloqui,

apparentemente senza senso compiuto, infarciti di termini

della lingua locale pronunciati con sonorità e timbri

italianeschi. Via via, si perfezionarono fino a impiegare,

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02/10/2012 908

oltre una straordinaria gestualità, suoni onomatopeici carichi

di sfondoni lessicali di varie lingue. Questo gioco imponeva

agli spettatori l’impiego di una certa dose di fantasia e

immaginazione che produceva l’insostituibile piacere dello

scoprirsi intelligenti.

In Francia le compagnie dei “Gelosi” e dei “Raccolti” furono

tra le prime a sviluppare questo genere di rappresentazione.

Esibivano maschere dei vari Zanni fra i quali l’Arlecchino

che possiamo bén chiamare il comico, massimo campione

del grammelot.

Cominciàrono col impiegare un linguaggio che potremmo

chiamare proto-maccheronico, cioè composto da sproloqui,

apparentemente senza senso compiuto, infarciti di termini

della lingua locale pronunciati con sonorità e timbri

italianeschi. Via via, si perfezionarono fino a impiegare,

oltre una straordinaria gestualità, suoni onomatopeici carichi

di sfondoni lessicali di varie lingue. Questo gioco imponeva

agli spettatori l’impiego di una certa dose di fantasia e

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02/10/2012 909

immaginazione che produceva l’insostituibile piacere dello

scoprirsi intelligenti.

In Francia le compagnie dei “Gelosi” e dei “Raccolti” furono

tra le prime a sviluppare questo genere di rappresentazione.

Esibivano maschere dei vari Zanni fra i quali l’Arlecchino

che possiamo bén chiamare il comico, massimo campione

del grammelot.

Il grammelot è una forma onomatopeica di discorso che è

nata con la Commedia dell'Arte e che realizza una tecnica di

espressione che è impostata tutta sul suono, sul gesto,

sull'onomatopeica cioè sull'andamento che fa assomigliare a

parole il linguaggio ma in verità non si tratta di termini esatti

ma soltanto fonicamente simili. (Fa un esempio di

grammelot in francese, E un altro di grammelot in

napoletano rappresentando Pulcinella)

Cossì potrei andare avanti ad indicarvi grammelot in tutte le

lingue e darvi l'impressione che davvero le parli.

Ma andiamo per ordine e iniziamo dal grammelot più antico,

quello dello Zanni. Lo Zanni è il prototipo di tutte le

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maschere della Commedia

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02/10/2012 911

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MILANO 20.O1.91

LA GUERRA NEL GOLFO-E’ STAMPATO

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Io sono felicissimo che questo teatro sia cossì saturo,

esaurito di persone, in quanto sentivo proprio oggi in

televisione un'inchiesta sui teatri in Italia durante la quale si

diceva che i teatri in questo periodo hanno avuto un crollo

sul piano della presenza di pubblico perché qualcuno si sente

a disagio,qualcuno teme incidenti... ma il fatto che voi siate

qua mi riempie di soddisfazione anche se nello stesso tempo

sono angosciato come voi per la paura che questa guerra si

stia allargando.Ci sono state persone che si sono risentite per

il prologo che io in questo periodo faccio, legato all'attualità,

anche perché l'attualità è il fondamento principale del nostro

teatro; da sempre il nostro obiettivo è di inserire quello che è

la cronaca nel teatro e meno male che oggi possiamo

parlarne liberamente. C'è stato un tempo che il parlare a

soggetto ci éra impedito, addirittura abbiamo avuto

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02/10/2012 913

denunce... c'éra il questore o il commissario che stava in

quinta per verificare che quello che dicevamo corrispondesse

al testo che avéa l'imprimato di Andreotti allora, che éra

ministro dello spettacolo... e che verificava se eravamo

apposto, se avéamo proprio il timbro. Noi abbiamo avuto

una cosa come 40 denunce per gli svicolamenti e quando

uno éra risentito per quello che si diceva non stava neanche a

rimbeccarti direttamente, telefonava alla questura , arrivava

immediatamente il commissario di turno, o se éra in sala,

saliva sul palcoscenico a verificare col copione.

Ora siamo arrivati ad un clima straordinario però, a

proposito della guerra e se éra proprio necessario entrarci a

piedi giunti, il presidente della repubblica Cossiga è

intervenuto l'altro giorno dicendo che è ora che noi si diventi

adulti... in poche parole nel nostro paese si può polemizzare,

dibattere però una volta che il governo ha deciso di

intervenire SILENZIO, NESSUNO ROMPA PIU' LE

SCATOLE, LASCIATECI LAVORARE! Credo che sia

proprio il contrario di quello che è la democrazia, il parlare

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02/10/2012 914

sempre e il ribadire le proprie opinioni credo sia il

minimo.D'altra parte, e anche Andreotti l'ha detto questa

mattina, "E' ARRIVATO IL MOMENTO DI ... TACERE E

BASTA NON ROMPETECI LE SCATOLE!".E' da un pò

di tempo devo dire che succedono delle cose... per quanto

riguarda il nostro presidente della repubblica, lo sottolineano

tutti i giornali devo dire, anche Montanelli, che addirittura è

arrivato a dire che ha bisogno di uno psichiatra... io non sono

d'accordo, dico che è dovuto al nervosismo come quando ha

incominciato ad insultare i giornalisti i giudici dicendo che

erano dei venduti, dei bottegai, dei giornalisti ha detto delle

cose ignobili, che sono degli infami... Ad ogni modo il fatto

particolare è incominciato quando gli è sfuggito " PER

L'ITALIA SI PUO' ANCHE MORIRE"... che a mé è venuto

subito un brivido lungo la schiena, mi è venuto subito in

mente quando da ragazzino mi insegnavano " CHI PER LA

PATRIA MUOR VISSUTO E' ASSAI" tarappappappete...

D'altra parte è la stessa frase lanciata da Frankestain, voi

sapete chi è Frankestain ... Saddam Hussein è veramente il

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02/10/2012 915

classico Frankestain, che non è nato cossì da solo ma è stato

inventato da noi NOI LO ABBIAMO CREATO! Io mi

ricordo gli applausi quando è partito contro Komeini...

FANATICI!! Invece lui avéa i piedi in terra... quando ha

detto tre giorni e Komeini è fottuto ARMI! Gli abbiamo dato

le armi noi! Lo abbiamo allenato noi, gli abbiamo insegnato

come si fa la guerra... NOVE anni è durato e adesso

dimostra che ci sa fare. Lo diceva oggi quel generale di cui i

storpio sempre il nome, diceva "ma scherziamo, non

abbiamo mica a che fare con un cretino... nove anni che...

l'abbiamo allenato noi, AVRA' IMPARATO QUALCOSA!!

Per forza non ha tirato fuori ancora le armi , perché diceva

ma perché non intervenite, perché non lanciate nel deserto i

vostri marines e la facciamo finita. La borsa avéa avuto una

euforia incredibile, eravamo arrivati a guadagnare quattro

punti, cinque punti... e adesso cosa aspettate, dice, NON

SONO MICA IL GENERALE KUSTER IO, io fin quando

non li ho spianati, ammorbiditi"... non si dice massacrati, si

dice ammorbiditi ... guardate che il lessico di guerra è

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straordinario. A parte che non si dice "andare il guerra" ma

"compiere un'operazione di polizia", ce l'ha insegnato

Andreotti. La mia preoccupazione è questo atteggiamento

che hanno quasi tutti i giornali "chi non è per la guerra è una

femminuccia, un disfattista, in fondo un mammone uno che

fondamentalmente è VILE! Insomma un uomo vero, coi

muscoli , col coraggio è subito per la guerra... interviene per

l'onore, per l'orgoglio di una nazione che non può sempre

rimanere assente davanti ai fatti". Quello che è successo

esattamente a Kabul quando ad un certo punto i russi sono

entrati con le truppe e l'ONU avéa detto alla stessa maniera

BISOGNA INTERVENIRE! NOI ITALIANI SIAMO

INTERVENUTI! E subito Andreotti dice "BISOGNA

PARTIRE" manco una piega!! Cossì ad esempio per il fatto

della Palestina... gli interventi dell'ONU per far rispettare le

leggi internazionali e la libertà e la dignità di un popolo

riguardo la Palestina sono la bèllezza di diciotto! Ma

neanche han fatto UH UH neanche! E quando questo

frankestain ha ammazzato cinquemila persone in

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venticinque minuti, cioè le ha asfissiate col nirvino, donne,

bambini, BRACCHETA! C'è stato l'ONU che ha detto... EH

NO! EH NO! E tutti noi abbiamo detto bisogna partire

bisogna bloccarlo... NIENTE!

Questa è una guerra per il petrolio, lo abbiamo visto nel

gioco del salire delle azioni riguardo a quella situazione...

stiamo combattendo per il problema del prezzo,

dell'interesse, del vantaggio e via dicendo e a dimostrazione

c'è un fatto di cronaca: la televisione ha fatto un inchiesta sul

fatto che la gente non gira più con tanto entusiasmo per le

balere, per i night, per i luoghi di divertimento e veniva

mostrata una balera moderna completamente vuota e il

padrone diceva " la gente non ha voglia, non viene a ballare

e a divertirsi... ce n'erano quattro li ho fatti entrare gratis ma

non avéano voglia" e lei cosa dice "E' UNA GUERRA

SCHIFOSA".

C'è un'altra cosa che mi ha angosciato a proposito del valore

di certe frasi, io a malapene ne parlo perché ci sono di mezzo

due piloti che fra l'altro sono di una compagnia di cui ho

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02/10/2012 918

visto alcune esibizioni e sono tra i più preparati tecnicamente

a livello mondiale, tant'è vero che hanno battuto in sfide

sull'abilità di colpire un bersaglio, volo in quota ecc... anche

gli americani e perfino gli isdraeliani. Il presidente della

repubblica ha detto "buon viaggio, buon lavoro, fatevi

onore" GGGNNNACCC, la sfiga fino in fondo. Scusate,

forse qualcuno di voi dirà che sono cattivo, ma io temo che

QUELLO LI", non bisogna neanche nominarlo...

MENAGRAMO!!! Ha detto siamo adulti ... POMPETA!

Che quello parte ... "il carrello!!! Porco cane!"... e in volo

subito turbolenza atmosferica... ci sono mille e cinquecento

aerei fra inglesi e americani che vo tranquilli NO! c'è una

nube schifosa con scritto PRESIDENT! Le "vacche" si

chiamano, questi aerei che contengono benzina in quantità e

che tranquillamente con una pompa che va a finire nel

serbatoio dell'aereo... l'aereo va, ritorna indietro, gli danno

ancora un pò di benzina... OH! la prima volta nella storia che

si spacca tutto TUM BOOORLOCHE, uno solo che prende e

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poi non torna OHHH! Io non dico più niente, ma non lo

nomino più! E imparate a farlo anche voi!

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PRATO 25. 5 91 SITUAZIONE DI GOVERNO-E’

STAMPATO

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Lo spettacolo è Mistero Buffo un genere di rappresentazione

che viene dal medioevo, "mistero" significa

rappresentazione, sacra in particolare e "buffo" significa

grottesco, è chiaro da sé solo. Prima di entrare in merito al

Mistero Buffo vero e proprio io, come facevano del resto i

giullari che lo rappresentavano, prendo il pretesto per parlare

della situazione che viviamo, anche per introdurlo su un

livello non distaccato nel tempo ma che sia attuale, legato ai

nostri tempi. Una delle osservazioni che devo fare subito è

una delle più bèlle battute che ho sentito nei tempi, credo che

è da eleggere la più importante in questo secolo quasi... a

proposito della situazione del governo. Avete visto che

questo governo è stato una delle più grosse beffe mai viste, e

l'unica situazione di ricambio, invece delle riforme, hanno

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02/10/2012 921

cambiato l'assetto strutturale, cioè i repubblicani sono stati

messi da parte e da chiunque partito è diventato quadrupede

come ha detto qualcuno. Ora questo governo nato con questo

scarto ha determinato una frase veramente straordinaria da

parte del responsabile del partito repubblicano La Malfa, il

quale ha già un padre La Malfa... UGO! Questo La Malfa ha

dimostrato di essere l'uomo più candido che esista in Europa

perchè ad un certo punto ha dichiarato "CREDEVO CHE

ANDREOTTI FOSSE UN UOMO ONESTO!" Uno che

vive da quando è nato vicino a questo governo e che non si

rende conto... insomma è veramente DA FUCILARE!! QUA

AL MURO! "Lei ricorda suo padre che éra già con

Andreotti... anche il nonno éra già con Andreotti... ancora

con il governo di Giolitti c'éra Andreotti che portava la

cartellina... già un pò curvo, cominciava già allora , con le

palette di direzione.

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B O N I F A C I O VIII

M A N C A L A D A T A- E’ STAMPATO.

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Andiamo a Bonifacio VIII. Bonifacio VIII éra un figlio di

buona donna che non finiva più, ne avéa fatte di tutti i

colori, avéa rubato, massacrato, bruciato, raso al suolo città,

organizzato spedizioni punitive, torture, tutto avéa fatto!

Avéa perfino rapito il seggio pontificio, l'avéa fregato ad un

altro... sapete Celestino, anima dolce éra sceso dal convento

"Vieni a fare il papa" "No, grazie" "Ma si, vieni"... e poi

l'avéa terrorizzato, più o meno gli avéa fatto "Cretino

quando... ehm... CLOC" più o meno, un pò in sintesi ma è

cossì. Fece stragi, massacri, distrusse città tipo Tortona e

soprattutto organizzò anche all'estero, éra conosciuto anche

all'estero. Il movimento primo che conosciamo dei tessitori,

dei muratori insieme dei contadini, quelli delle Fiandre,

organizzato per combattere contro lo strapotere dei padroni

del tempo. La nascita di una borghesia mercantile che avéa

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attraverso le proprie corporazioni strozzato ogni possibilità

di azione di tutti quelli che facevano mestieri cossì detti

minuti , un pò come la storia che precede quella dei ciombi,

quella dei senza braghe e quella del bruco, cioè tutte le lotte

italiane dei tessitori, e come vedremo poi, di fra Dolcino.

Questi tessitori si organizzarono con tanta forza e soprattutto

ragione, coscienza, che riuscirono a stangare il più grosso

esercito che fosse stato messo in campo di quel periodo. Si

trattava addirittura dell'esercito de Speron d'Oro. Gli Speron

d'Oro erano tutti cavaglieri nobili, gente nata per far la

guerra, professionisti della guerra, talmente ricci e

importanti che ognuno si éra messo speroni d'oro

massiccio... qualcuno va beh, éra d'argento dorato ma non

stiamo a sottolineare. Gente di guerra, nata per la guerra...

presero una legnata, un esercito completamente distrutto...

da chi?? Dai tessitori operai d'accordo con contadini , gente

che non éra abituata a far la guerra. Ma le trappole ,

l'ingegno, le invenzioni, la scaltrezza, le trovate che ebbero,

sono degne di un film comico. Circa diecimila morti durante

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questa battaglia, quasi tutti di parte padronale. Bonifacio

VIII venne a sapere la notizia nella notti di natale del 1200,

avéa sovvenzionato questo esercito... c'erano i borbunghi

dentro, c'erano i re di Francia, e anche, naturalmente, i nobili

fiamminghi, c'erano gli inglesi, i bretoni ecc.. ecc... Un

esercito colossale! Soldi ce n'erano dentro! Quando lo venne

a sapere ebbe un coccolone. La notte di natale arrivò

velocissimo qualcuno a cavallo. Éra un nobile che si éra

salvato dalla strage, arrivava dalle Fiandre, avéa sfiancato tre

o quattro cavalli, non dormiva da giorni e giorni, arrivò a

Roma, suonarono le trombe, entrò impolverato,

inriconoscibile, grondante di sudore ed anche di sangue si

buttò ai piedi di Bonifacio VIII che si éra appena alzato...

avéa un camicione con un ventre pieno di cibo e di vino...

éra a letto con sua moglie... éra sposato civilmente, tutti lo

sanno... non si poteva sposare in chiesa. Questo cavagliere si

buttò ai piedi di Bonifacio e Bonifacio appena ebbe la

notizia, digrignò i denti, cercò di bestemiare TOC... rimase

bloccato, gli prese un coccolone, come dite voi a Roma, e

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non si mosse più. Una leggera bava gli scese dalla bocca,

strabuzzò gli occhi, lo presero, lo portarono via ingessato.

Tutte le domeniche da quel tempo a cinque anni prima del

giorno della sua morte, lo portavano alla mattina della

domenica e delle feste comandate al balcone perché desse la

benedizione ai fedeli... gli tiravano su il braccio, c'éra un

tecnico venuto dall'estero e via... vita piena di interesse per

cinque anni. Però prima di arrivare a quella condizione avéa

raso al suolo Cortona, cose che non studiamo a scuola. E la

cosa che mi ha meravigliato quando sono andato a leggere

questa storia dell'assedio di Cortona messo in piedi dal

papa... progressista, non dico rivoluzionario, di questa

popolazione che voleva dignità, voleva diritti, voleva gestirsi

in proprio... sugli spalti chi trovo? Jacopone da

Todi....................................................................................

Un'altro grosso ribèlle, addirittura rivoluzionario, anche se

grottesco del nord, éra Ségarello da Parma. Ségalello o

Ségarello, come volete, il suo vero nome di famiglia éra

Ségalello da Parma, ma siccome all'inizio della sua carriera

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di predicatore avéa una verve incredibile, avéa un chiodo

fisso... éra molto giovane, poi cambiò e capì come stavano

veramente le cose, ma un chiodo fisso... nei suoi discorsi

ogni tanto incominciava a dire "Guai a voi cristiani che

pensate al sesso e alla fornicazione e nei vostri pensieri e nei

vostri sogni ci sono sempre gli amplessi, uomini e donne che

siete uno contro l'altro abbracciati, carne nella carne... CHE

E' PECCATO! Voi nell'inferno soffrirete..." Oh la miseria!

Al che il popolo l'ha chiamato SÉGARELLO da Parma. Da

Ségalello... Ségarello. Lui accettò il gioco, éra diventato uno

straordinario giullare, un provocatore, per far prendere

coscienza alla gente andava, per esempio, in mezzo ai

contadini e incominciava "Ehi contadino, è bèlla la vita , il

sole, miracolo, tu sei la mano di Dio, per Dio, senza di té

saremmo tutti morti, affamati, a strascicare, a mangiare

radici, e tu ci dai da mangiare, il sole. A proposito del sole,

stai attento che sta venendo giù in verticale che ti spacca la

testa, vai sotto la pianta e riposati un pò che già hai lavorato,

è dall'alba che lavori, per Dio, guarda che bèllezza, hai arato,

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seminato, concimato, hai potato, c'è da mangiare per té, per

la tua famiglia... e anche per mé, quando ti vengo a trovare,

grazie.... Eh?? Non m'invita, non m'invita? Come? Devi

lavorare ancora??? Perché, per chi?? Altra terra devi arare...

ma... per il padrone??? Questa è bèlla! Padrone di chi...

della terra... ah! c'è un padrone della terra! La terra è di un

padrone, bèlla questa! Non l'avevo mai sentita. Io avevo letto

la bibbia e non ho mai trovato che una volta il padreterno

abbia consegnato un pezzo di terra a Tizio piuttosto che a

Caio... COGLIONE, T'HAN FREGATO!! Il padrone è un

furbastro di sette cotte, è arrivato prima di té lì, ha messo un

paletto qua, un paletto là... da qui a là è mio, anche da qui a

là è mio, anche lassù fino al fiume ed anche dopo il fiume è

mio. DIO MÉ L'HA DATO E GUAI A CHI MÉ LO

TOCCA! Dio si! Guarda qua il contratto, mé lo ha firmato

lui... come no... sai leggere tu? NO??? Allora cosa parli!

COGLIONE LA TERRA E' DI CHI LA LAVORA!!!".

Pensate, nel medioevo andare in giro a dire ai contadini "la

terra è di chi la lavora", è da deficienti... da pazzi andare a

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dirlo ancora oggi ai contadini, pensate nel medioevo. E

l'hanno beccato e l'hanno bruciato vivo e con lui tutta la sua

banda di predicatori detti insaccati. Si vestivano soltanto con

un sacco, gli tagliavano gli angoli... qui per la testa OPLA!

Camiciola e via. Uno solo si salvò della banda... frà Dolcino.

Frà Dolcino non éra per niente dolce e gentile, se non altro

nell'aspetto, éra un gigante, una montagna, un "armadio con

la testa", diceva un cronista di quel tempo, e fu la ragione,

dice un'altro cronista, che si salvò frà Dolcino, perché

nessun sbirro ebbe il coraggio di andare ad arrestarlo, potete

vederlo da voi: "FRA' DOLCINO SEI IN ARRESTO!!"

"EH???" "EHM, LA STRADA PER MODENA SCUSI???".

Frà Dolcino si salvò, andò nel trentino, conobbe Margherita

da Trento che divenne la sua donna, una donna straordinaria,

intelligente, i cronisti di parte avversa dicono addirittura che

fosse la più bèlla donna che si fosse vista in Italia in quel

tempo, e con coraggio, con una testardaggine, soprattutto

una perspicacia nelle situazioni. Incredibile! Insieme

andarono e con altri cossì... sobillatori oggi

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diremo...provocatori, gente un pò sbandata... andarono fino

in Croazia. In Croazia mossero la presa di coscienza di molta

gente poi vennero ancora in Lombardia esattamente a

Romagnano Sesia, vicino a Novara, vicino a Vercelli anche

che éra la patria di frà Dolcino. In quella zona c'éra stato già

qualche fermento. Quando arrivò frà Dolcino ci fu

addirittura una ribèllione, potremo dire una rivoluzione

senza sbagliare in eccesso. Tutti i tessitori, rieccoli i tessitori,

gli operai organizzati insieme ai muratori, agli artigiani, ai

contadini della zona cacciàrono via i grassi borghesi che

attraverso le corporazioni cercavano di soffocare, sfruttare

fino in fondo questa gente che lavorava con le braccia, fatto

stà che organizzarono la prima comunità che si conosce nella

storia. Si chiamavano tutti fra di loro Comunitari. E' la prima

volta che troviamo la credenza per intiero. La credenza è

quell'armadio che abbiamo in cucina tutti quanti, in tutti i

paesi d'Italia, perfino all'estero, in Francia per esempio, in

Spagna si chiama credenza o con altri termini, ma hanno

sempre le stesse radici. La credenza, che viene da credere,

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credere in... credenza nella comunità di S. Ambrogio, ecco

una delle prime organizzazioni comunitarie. Questi

comunitari tenevano come fisso per tutti quanti questo

enorme, ideale armadio nel quale si metteva tutto il

mangiare, tutto il raccolto, tutto quello che si éra prodotto e

tutto veniva distribuito, attenti, questo è il particolare

importante, non secondo di quello che uno avéa dato ma a

secondo di quello che uno avéa bisogno. Se uno avéa dato

per dieci persone e avéa bisogno per se solo, riceveva per se

solo. Ancora una cos a importante è il rapporto fra l'uomo e

la donna nella comunità di frà Dolcino. Le donne e gli

uomini si trovavano per la prima volta alla pari. La donna ha

gli stessi diritti e doveri degli uomini. Badate bene in un

tempo in cui come si pensa ancora adesso, non è ancora stata

cancellata questa forma... sapete bene che i dotti della

chiesa, i santi padri della chiesa avéano decretato che l'anima

nelle femmine entra quasi tre mesi dopo l'entrata dell'anima

nel maschio. Sto dicendo quando è feto nel ventre della

madre, arriva l'anima... è maschio, è maschio PLUF... arriva

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l'anima... dice è femmina, io non ci vado ah no... e determina

che dobbiamo amare le nostre donne con dignità. Amiamole

come uomini! Amiamole come esseri umani, non come

femmine.Ora un simile modo di vivere avéa fatto interessare

moltissimi contadini, servi della gleba, operai e via dicendo,

che arrivarono proprio a fronte di quella zona e i padroni

incominciavano a preoccuparsi, vedevano i contadini e gli

operai sgusciar loro di mano, non potevano più sfruttarli, li

rincorrevano, andavano a prenderli e organizzavano delle

spedizioni punitive. La più grossa fu quella organizzata dal

conte del Monferrato il quale riuscì a beccare un centinaio di

comunitardi vicino a Prato Sesia, li portò a Novara dove

c'éra la Roccaforte appunto del conte e il reggente di questa

roccaforte appunto éra l'arcivescovo di Novara, suo cugino,

che diede ordine di prendere tutti questi comunitardi e far

tagliare loro mani e piedi, mozzarli e poi sconciarci a quella

maniera, ridotti a tronconi furono messi sul dorso di muli,

cavalli e asini e mandati, legati come salami alla volta di

Romagnano Sesia. Quando i fratelli di questi sconciati

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videro questo orrore, non bestemiarono, non insultarono,

partirono in silenzio ma con una rabbia tremenda, dice una

canzone di quel tempo che le montagne, i fiumi, le pietre e

gli alberi si mossero insieme, con tal slancio arrivarono a

Novara, entrarono al primo slancio, beccarono tutti gli sbirri,

li ammazzarono e un cronista del tempo racconta che al

tramonto si vide il vescovo di Novara con il suo grande

mantello, la cappa, il cappello, il pastorale, il grande libro

d'oro, salire pian piano verso il cielo, controluce, lentamente

e qualcuno notò che c'éra una corda che lo aiutava... la

repressione fu tremenda, ci fu un massacro, ma il massacro

fu all'inizio proprio per gli imperiali, per gli uomini del papa

ecc... perché le trappole che organizzarono un'altra volta i

dolciniani furono qualche cosa di sorprendente. Per due anni

ne presero di santa ragione, poi incominciàrono a capire la

lezione, a organizzare e a girare, fatto stà che dopo tre anni

furono beccati proprio sul monte Rubèllo, monte dei ribèlli,

si chiama ancora oggi cossì, e messi in piazza e squartati

vivi, tanto Margherita da Trento che frà Dolcino e tutti gli

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altri. Ora ci riempie il cuore, ci sentiamo fremere e devo dire

che da un pò di tempo siamo bravissimi ad applaudire e

commuoverci davanti alle storie che appartengono al

passato, "i nostri padri si sono sacrificati ma per Dio NE

VALEVA LA PENA!!" Bravi! Bravi! E applaudiamo. Poi

per quanto riguarda noi ci sono dei livelli per cui bisogna

stare attenti. Va mediato. La posizione storica non è

un'attualità concorde con quello che sono i risultati

internazionali. Quello che io vi ho raccontato naturalmente

sui libri di testo di scuola non c'è niente, e io ho raccontato

molto veloce ma è logico, mica son fessi i professori, i

ministri ecc..., andare a raccontare nei libri di testo... Frà

Dolcino éra già un uomo straordinario, il primo

rivoluzionario che lega le lotte di classe alla religione

cristiana primitiva... la prima forma di comunismo ecc...

VIVA FRA' DOLCINO, gridano subito i ragazzini eccitati

ABBASSO IL PAPA! Ed è pericoloso perché è offensivo

per un papa come quello che abbiamo oggi... scherziamo...

no, no, non sto scherzando perché dico, oh, quello éra uno

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zozzone ma il nostro è delicato e soprattutto devo dire

spiritoso... Eh? No??... Il fatto della bicicletta voi non l'avete

seguito? Merk, il corridore fiammingo, dopo tante vittorie è

arrivato... la cosa più cara che avéa...è arrivato su coi

calzoncini... e davanti al papa ha detto "Padre accetti la cosa

più bèlla che ho" e lui non ha detto "no, grazie non pedalo"...

un altro papa... "no, l'accetti" "Non pedalo!"... "GRAZIE,

BÈLLA!", spiritosissimo, però per mé lui è stato ingenuo

perché è un candido, perché Merk è fiammingo... vuoi

vedere che c'è sotto tutta una cosa atavica di odio verso i

pontefici per via che suo nonno, bisnonno éra tessitore anche

lui ... e allora se io gliela... infatti guardate bene la bicicletta,

adesso non è una malignità a vuoto, la bicicletta ... è forse

una bicicletta di strada quella che gli ha regalato? NO! E'

una bicicletta da pista... sono senza freni... la malignità...

quello va a Castel Gandolfo, poi viene su... troppo! Ma

capite ancora prima che ve l'ho scritto! Lasciatemi almeno la

soddisfazione di dire qualchecosa!... E vede tutto il nastro

della strada che va giù "oh che bèllo... io quasi quasi ci

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vado... ", di nascosto perché non vogliono che lui vada fuori

in bicicletta... i preti... "guai se ti vedo eh?" e lui fuori

OPPLA!... La mitria con la visiera... con sotto scritto FIAT...

adesso sappiamo che corre per la Fiat, c'ha un bèl ingaggio

anche... per tutte le lezioni... insomma... e via. Insomma fate

voi a vostra fantasia, io non metto piede, però la cosa

veramente ... e qui non scherziamo... l'altra commovente è

stato il gesto generoso, veramente di grande calore, quando è

sceso tre anni fa dentro la galleria , il tunnel che avéano fatto

per l'autostrada del Sasso, sasso d'Italia , no... Gran Sasso

d'Italia, che hanno bucato... voraggine dentro... che non si sa

dove siano finiti... il ministro dice "adesso vengono,

vengono fuori... son qua TUM TUM... dove siete? Dove

siete?" Chissà dove sono andati a finire... ebbene lui è

sceso... notte di Natale, a dire la messa per i suoi operai, lì in

questo antro... una cosa incredibile! Perché se uno non crede

al diavolo ci va... col suo lanternino... oh, ma quello si è

messo il caschetto da minatore bianco e giallo, due chiavi

qua... perché lui al diavolo ci crede! E pensa il coraggio che

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ha avuto ad andare in casa del diavolo, col diavolo là in

fondo con la coda, coda lunghissima... Ha avuto il coraggio

di andare a dire la messa per i suoi operai... per i suoi

operai... perché l'impresa che ha fatto il tunnel, la galleria, è

del vaticano... non tutta!... L'85% delle azioni! L'85% delle

azioni sono loro... le cosiddette buone azioni da chiesa! La

voglia che ho, non ne avete idea, di vedere, essere spettatore

a mia volta, perché poi quando immancabilmente, ma tutte le

sere, non si sballa, quando comincio a parlare del papa, io

vede... c'è sempre qualcuno che... proprio lì si vede perché

mentre... non è proprio il caso! La trovo anche una questione

di buon gusto... c'è vicino la moglie che sbaga AH AH...

almeno tu... almeno tu. Ecco allora dicevo che non c'è niente

da fare, non si può pretendere che i padroni scrivano la storia

cossì come dovrebbero, con un minimo di civiltà insomma...

un minimo... il 30% di verità toh! Ma neanche per idea...

mica son fessi AH AH! D'altra parte non c'è niente da fare,

lo diceva anche quel Tse Tung di prima, diceva... "il popolo

è lui che fa la storia... da secoli, con la sua invenzione, le

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sofferenze, la rabbia, il problema di sopravvivere", inventa la

storia... ma poi sono i padroni che ce la raccontano! E io lo

immagino sempre un ... un pazzo... un giovane... lo sogno un

giovane, un ragazzo che si mette di notte con un bèl

secchione di vernice a suo piacimento, si metta a scrivere

sulla facciata dell'università DA SEMPRE IL POPOLO FA

LA STORIA MA POI SONO I PADRONI CHE CE LA

RACCONTANO! Grande AH AH! E arriva una mattina il

ministro dell'educazione... Malfatti... nome onomatopeico,

notate bene... uno non può sbagliare... ministro

dell'educazione MALFATTI... AH AH... arriva... la borsa

col portafoglio... e mica la lascia in macchina... con

l'ambiente di ladri in cui vivono! E brutto fare il ministro

della DC... non si può più dire NO! NON SONO UN

LADRO! Quando gli dicono LADRO... embè AH AH AH...

e facciamo i compromessi con quelli lì! Malfatti arriva,

quando vede lì... TUM, e lo portano via... no anzi non va via

da solo, arrivano dei giovani di comunione-liberazione ALE'

OP OP OP... Dovete permettermi una malignità... UNA...

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non ne ho dette... no! sono tutte cose vere quelle che ho

detto, sacrosante!... Questa invece è una malignità... proprio

una cattiveria cossì, ma fra compagni... tanto per

raccontarla... no prego... siccome prima ho salutato dei

compagni del PCI, non se la prendano, è una... cossì anche

per far buon sangue eh! Non té la prendi, no? E' quello che

ha detto basta? E' il più spiritoso di tutti. E' proprio quello

che noi chiamiamo l'aperto... va beh, dicevo... no...

simpatico... poi té la racconto! Vedrai che ti faranno!...

Allora, dicevo che arrivano TUM TUM i giovani comunione

e liberazione e di dietro c'è uno, un altro giovane che non ha

bén inteso le nuove direttive dei superiori... un giovane della

FGC, anch'io!... uno solo eh? In questo gioco la

preoccupazione del tenere in piedi, salvare, andare a lezione

ma non troppo, sbragare ma per carità che la DC non frani

dappertutto perché se no porco cane è un disastro qui come

mettiamo il problema della... una preoccupazione enorme

soprattutto dei dirigenti.

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MISTERO BUFFO ROMA 11-12-89

BONIFACIO VIII-E’ STAMPATO.

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Mi ricordo una delle sue prime apparizioni che avéa stordito

tutti, ché avéa voluto far la messa a tremila e tanti metri...

C'éra una tormenta spaventosa, poi lo hanno pregato di

andar fuori, e ha salvato due o tre cani san Bernardo che si

sono perduti, con la fiaschetta qua, è andato a raspare, éra

l'unico che riusciva a muoversi... Ebbene con questa

papalina, che per mé gliela avvitano... ha una vite qua

TRAC... che se l'avvita da solo, oppure gliela dipingono

fresca tutte le mattine... si mette cossì... e gliela dipingono; e

quel pirulino che gli spunta qua è suo personale, anche da

bambino, lui è nato cossì ...EHI PIRULINO! Ché Wojtyla

infatti in polacco vuol dire pirulino. WOJTYLA! Beh,

lasciamolo lì questo uomo straordinario dicevo, che niente

ha a che vedere invece con Bonifacio VIII.Bonifacio VIII si

prepara alla funzione, i chierici tutti in torno ripassano i

pezzi per la vestizione...Lui molto duro, arrogante, severo...

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ed ecco che va in processione. Io canto, come naturalmente

nella chiave del canto religioso di Bonifacio VIII, un canto

antico gregoriano del X sec., ed è autentico. E' un canto che

è metà latino e metà, cossì di colpo... di Barcellona, ecco

...Catalano,cossì di colpo non mi ricordavo più il termine

"catalano", catalano che proviene da Alghero,voi sapete che

ad Alghero parlano il catalano ancora oggi. Ecco questo

canto è autentico, dicevo, e voglio sottolineare la

straordinaria abilità con cui io riesco ad emettere suoni, ma

non è casuale, non è determinata soltanto da una mia dote,

no, è dovuta allo studio e esercitata da bambino... io da

bambino, è una cosa che vi svelo adesso per la prima volta,

non l'ho mai detto, cantavo in chiesa, ero proprio il

ragazzino del coro. Poi mi hanno dispensato,non perché non

avessi più la voce adatta, ma perché andavo a soggetto

inventandomi delle parole che mi piacevano di più...e al

prete non piaceva. Va bene, comincio senz'altro.

Bonifacio VIII si prepara per la funzione religiosa:

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Canto gregoriano interrotto da: "el capelo", "el capelun,

quelo grande","BÒJA DESGRASIAAA!!! l'è de fero!! deo

andare in guera a gueregiare!! Dame quelo leggero che devo

andare (cantato) a passeggiare" "speciu...speciu,speciu"

"guanto" "GUANTO!" "l'oltro,no gò una mano sola no, vo

m'là taje???

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MILANO 20.01.91

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

DISCORSO DEL GRANDE TECNOCRATE IN

GRAMELO' AMERICANO- E’ STAMPATO.

Io e Franca avéamo pensato di realizzare il solito schema di

"mistero buffo" riguardo il gramelò: "la fame dello Zanni",

poi quello francese legato a scapino e a Molière e poi quello

dell'avvocato inglese che difende lo stupratore. Sono tre

forme diverse ma legate allo stesso spirito, cioè d'ironia e di

satira e soprattutto legate al potere, la spocchia di ogni

potere quando esprime violenza. Ecco si trattava di

realizzare questi due brani di cui il primo, quello francese,

vede Scapino che insegna la tecnica di gestire il potere al

giovane signore che è rimasto orfano ed è un banchiere.

Scapino comincia con la descrizione della parrucca , delle

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vesti, del mantello e dell'incedere, del camminare, con un

passaggio riguardo trine e i merletti che portavano i signori,

cossì ampi e cossì sparsi per tutto il corpo, per cui avéano

trine che uscivano ecc... per cui quando andavano a fare pipì

non riuscivano poi ad usare l'estrazione... del mezzo adatto,

uscivano soltanto merletti, se la facevano addosso ma con

grande dignità... per cui esisteva questa stupenda camminata,

nata proprio allora, dell'aristocratico. Il linguaggio éra il

gramelò francese, di cui esistevano soltanto tre termini:

parucche,manteau, e, dentelle, tutti gli altri erano termini

inventati ed éra molto bèllo vedere che in Francia

pensavano che fosse un particolare linguaggio del

cinquecento che éra sfuggito alla loro memoria e alla loro

conoscenza. Poi c'éra quello in inglese. Ma Franca mi ha

suggerito di riprendere un tema legato a vent'anni fa, cioè

alla guerra del Vietnam e ci fu un importante personaggio di

origine tedesca che avéa studiato i primi razzi a lunga gittata,

i quali poi saranno inseriti in macchinamenti incredibili, che

in un suo discorso all'università avéa dichiarato che lì stata

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l'avvenire anche spirituale degli uomini, che gli uomini

avrebbero cambiato il modo di essere, di esistere, la loro

morale si sarebbe trasformata in conseguenza dell'alta

tecnologia, cioè l'uomo diventava soggetto alla propria

macchina, alla propria invenzione, alla robotica ecc... Questo

stava ad indicare che il Vietnam sarebbe stato schiacciato

inesorabilmente da questi armamenti, che avrebbero

determinato una velocizzazione dei conflitti, cioè la guerra

come partiva éra già finita grazie a questa straordinaria

importanza, cosa che non è stata cossì. Io ho pensato di

riprendere lo stesso tema che è di un'attualità incredibile. C'è

questo grande tecnico, e voi dovete sforzarvi di immaginare

di essere a vostra volta della gente a conoscenza delle

terminologie, immaginate di essere la platea di quella volta

che ascolta questo discorso forbito ricco di questi termini

particolari. Questo simpatico tecnico descrive la tecnologia

della robotica, dei computer, lo svolgimento del cervello

meccanico ecc... poi va a semplificare la nascita dei grandi

macchinamenti di guerra, partendo addirittura dai primordi,

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da quando l'uomo ha cominciato a capire che doveva fare

qualche cosa per volare, gli incidenti, poi arriva il motore a

scoppio degli aerei, lì veramente è il colpo di fulmine, lo

scatto, fino agli aerei con razzi e macchinamenti straordinari,

completamente robotizzati e diretti al di fuori del pilota, il

pilota è soltanto un supporto allo svolgimento di un'azione

con tutto quello che consegue. Io uso il gramelò, cioè fingo

di parlare inglese, meglio un americano colto da tecnocrate,

tecnologico e voi capirete tutto di questo discorso, a meno

che non ci sia qualcuno che conosce molto bene l'inglese,

l'americano e la tecnologia. Questo è pericoloso perché

cercherà di intendere e di seguire parola per parola quello

che vado dicendo e si perderà nel nulla, invece coloro che

non conoscono assolutamente l'inglese, se seguiranno la

propria fantasia, immaginazione e intuito, capiranno tutto e

spiegheranno quello che io dico a quelli che conoscono

l'inglese. Questa sera è il trionfo dell'ignoranza.

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PRESENTAZIONE DEL TECNOCRATE 1976-E’

STAMPATO.

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Come si usa... è stato usato l'antico, si può usare il

grammelot nel teatro legato alla qualità. Anzi parlare delle

cose più vicine a noi anche in senso drammatico... parlare di

guerre, parlare di macchine, parlare di rumori che ci sono

addosso, che ormai abbiamo nella testa, nella memoria e che

sono linguaggio, sono parola anche quello... sono

grammelot. Io mi ricordo... sono stato una volta ad una

lezione di fisica superiore e ho sentito per tutto il pezzo

parlare in grammelot... Ecco il personaggio che mi porta al

grammelot attuale: è un fisico matematico, uno scienziato,

un grande tecnico veramente di classe internazionale di

origine tedesca però vive da molti anni in America e

qualcuno lo chiama Braum. E' un soprannome, non ciarli, è

un altro questo grandissimo tecnico scienziato... tiene una

lezione, un corso per altri scienziati e dimostra come le

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macchine, l'evoluzione dal primordiale che ha intuito, capito,

sviluppato, sono arrivati armai al punto tale da essere il

centro della terra, sono il cervello, la macchina, la vera

potenza, la mano che tiene il mondo. C'éra un certo

Kissinger, un imitazione di Sordi lo sapete benissimo...

Questo Kissinger ha detto una frase abbastanza robuante " i

nostri mezzi, la nostra tecnica... il livello che abbiamo

raggiunto... voi vedrete... domineremo il mondo". La moglie

dice basta... ma lui éra convinto... e l'altro, il pensionato

Nixson e il prossimo pensionato Ford, anche quelli, tutti e

due, erano lì vicini e Nixon ha detto "APPLAUDI!2 e Ford...

(batte le mani). E non so se avete visto l'espressione vera di

Ford, quello che scende dagli aerei... che arriva l'aereo...

subito FERMA FERMA... ché non è quella la scala e lo

tengono indietro e poi quando c'è la scala...c'è la scala... si

può andare TUM TUM TUM BUTUM BUTUM BUTUM

AH AH AH. E qui a Roma quando arrivò, l'interprete dice il

presidente... éra lì ... il presidente... e lui ha dato la mano

all'interprete... "piacere!" "no! E' quello!" e si è nascosto

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dietro la signora Leone... mi perdo sempre... faremo un

pezzo in meno questa sera...no, no, sul biglietto ci sono

tutti... uno cancella ogni pezzo che faccio dice "quello l'ha

fatto??" "va beh! Adesso vediamo, vediamo un pò se li fa

tutti! Perché tutti li voglio stassera, sono qua... contratto"...è

che io non mi ricordo più dove eravamo... Ma si! Eravamo

all'arrivo di Ford, no Kissinger c'éra un'altro, un tale... un

maoista di quelli tremendi, proprio fissati, un certo Tel Tunc,

il quale invece diceva " è vero noi abbiamo meno tecniche,

abbiamo meno mezzi, siamo indietro di anni di ricerche,

abbiamo commesso diversi errori, siamo degli arretrati,

siamo al periodo della pietra rispetto a voi in quanto a

scienza tecnica ecc... ma noi abbiamo un grosso vantaggio

che in ogni nostro lavoro mettiamo sempre L'UOMO AL

PRIMO POSTO!" Ecco ... Oh Dio! Basterebbe l'esempio del

Vietnam, una frase di questo genere Ocimin poteva averla

detta lui tranquillamente ... e l'ha dimostrata soprattutto... e si

sa tutto quello che è successo nel Vietnam con tutta la

grande tecnica, le invenzioni, le infamità, l'aver bruciato

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terre che ancora oggi non danno raccolto e non lo daranno

per anni, qualcuno dice per secoli!! Acque addirittura

svuotate del loro elemento fondamentale... sono acque

morte!! Anche qui per secoli hanno defogliato, hanno

bruciato, hanno inventato macchine incredibili... suoni che

facevano impazzire il gas TUTTO HANNO ADOPERATO!

Poi alla fine la valigia! Non so se avete notato, ma questo

gesto la fanno già anche qua EH EH! Avete visto con

Umberto che dice " Ma dove andate, ma no!Rimanete... state

qua, la Iuventus vince... neanche la Iuventus non vince più,

gli va tutto male...

Allora il grammelot del tecnico americano che spiega come

si arriverà a guadagnare tutto... e alla fine il risvolto... lo

capirete benissimo! Noterete la grande differenza tra

l'inglese del 500 e questo americano.Io so che voi che siete

sottili avrete molto piacere. Ah come capisco!

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PARTE DA INSERIRE NEL BRANO LA NASCITA DEL

VILLANO MA NON SO DOVE. LO COMUNICHERò

L’allusione satirica che definisce il villano privo d’anima,

quindi simile ad un animale che ad un essere umano ci fa

venire in mente un suo simile: l’homo selvatico che, non

bisogna dimenticarlo, è addirittura considerato, insieme allo

zanni, il padre di Arlecchino. Uno dei più antichi fabulatori

di Francia, detto Adam, ragionando sulla spiritualità

dell’uomo insinuava che l’anima fosse per i figli di un Dio

un peso, una pietra al collo che impedisce d’essere liberi

sinceri e leali con se stessi e con il loro creatore. Bonvesin

de la Riva in una disputa fra l’anima e il corpo fa dire a

quest’ultimo: “Ringrazia il cielo che tu non abbia forma

alcuna anima mia, perché se tu possedessi natiche ti ci

prenderei a pesate fino a farti volare in cielo.

Punk è il prototipo del ribelle ad ogni costo, una specie di

Pulcinella che manifesta la propria rabbia verso regole

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assurde, ingiuste e prevaricando dalla società dei potenti

scaraventano poliziotti e giudici...... le droghe e ..... la morte.

Personaggio che trae la sua .... anche dall’homo selvatico e

anche dallo zanni primordiale. Mi ricordo di aver visto in

Francia e anche ad un festival di Cervia spettacoli realizzati

con elementi i più assurdi e inaspettati: cucchiai e forchette

che duellavano con forbici e martelli, ombrelli che recitano

scene d’amore.

La guerra del Golfo

Di seguito portiamo diversi stralci dei vari prologhi effettuati

a distanza di qualche mese l’uno dall’altro, durante la guerra

del Golfo.

Trascrizione dello spettacolo del 24 marzo 1991 - Torino

Mistero Buffo è nato la bellezza di trent’anni fa. In tutto

questo tempo si sono ripetute migliaia di rappresentazioni.

Come mia abitudine nel prologo sempre accenno agli

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avvenimenti e ai fatti di cronaca. Quando, nel 69 scoppiò la

bomba a Milano alla Banca dell’Agricoltura, in Piazza

Fontana, ho improvvisato un intervento in chiave grottesca

sul modo tutt'altro che scentifico su come si stavano

svolgendo le inchieste di polizia. Indagini nella quali si

indovinava chiaramente che all’attimo stesso in cui saltava

per aria la bonca, gli inquirenti avéano già stabilito che i

terroristi non potevano essere che gli anarchici. Ne

arrestarono alcuni. Poi il suicidio - si fa per dire - di

Giüsèppe Pinelli, i processi trasferiti come pacchi per tutto il

sud. Si può dire che ogni settimana ero costretto ad

aggiornare la cronaca. Da quel prologo, è poi nato "Morte

accidentale di un anarchico".

Cosa che m’è accaduta anche abbastanza di recente durante

la guerra del Golfo, sto parlando della prima, quella del ‘91.

Per darvi un’idea chiara dello stile e del genere di

improvvisazione, tra tanti, abbiamo scelto proprio

l’intervento di quèl conflitto con massacro finale annunciato

e realizzato. Eccovelo. Cossì iniziava lo spettacolo:

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GUERRA NEL GOLFO - del 27 /1/1991 al teatro……

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Eccomi qua, sono entrato in proscenio addirittura prima che

si aprisse il sipario… Potete prendere posto con comodo,

senza inciampare e senza calpestare piedi altrui.

Sono veramente distrutto, ho beccato questa notizia della

guerra nel Golfo, come una mazzata e sono rimasto alzato

fino alle quattro e mezza per seguire i servizi delle varie reti.

Ancora stamattina mi sono alzato presto per ascoltare le

ultime notizie; sono stravolto. La cosa che mi ha

maggiormente preoccupato, é il discorso che qualche minuto

fa, a reti unificate, ha tenuto l’Onorevole Cossiga, nostro

Presidente della Repubblica. Discorso che voi avete potuto

evitare, dal momento che eravate già qui in platea. In

chiusura il Presidente augurava buon viaggio ai nostri

militari che stanno partendo con le ultime navi. In particolare

si rivolgeva a quelli che hanno raggiunto le postazioni di

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combattimento : “...fatevi onore” - diceva - “...il Parlamento

all’unisono si unisce a me nel saluto. Ricordate che voi

rappresentate l’Italia e le Nazioni Unite, in questo conflitto

che si realizza con l’intento di

proteggere la democrazia e la libertà di tutto il

Mediterraneo.” Per non parlare dei pozzi di petrolio,

aggiungo io.

Già avevo accusato notevole sgomento nei giorni massimi

della tensione quando lo stesso Presidente in un discorso

appassionato aveva quasi urlato “... per l’Italia si può

morire”, che fa proprio il paio straordinario con “... chi

muore per la patria vissuto ha assai”, impeto retorico che

certamente molti di voi ricorderanno pronunciato al ritmo

degli sventolanti gagliardetti. Questo rigurgito patriottardo

dove si esalta la morte come liberazione verso la gloria, mi

strizza lo stomaco. Questo clima guerresco fa sì che uno

leggermente ateo come me, si ritrovi all’istante d’accordo

con quanto va dicendo in questi giorni il Pontefice: cioè sul

fatto che ci troviamo di fronte a una guerra senza ritorno,

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02/10/2012 955

che non porterà a nessuna risoluzione definitiva e giusta, che

anzi le cose peggioreranno per quanto riguarda lo spazio in

cui si combatte, per la situazione dei popoli che vi abitano,

per la situazione già disperata di questo Terzo Mondo e che

questa risoluzione del distruggere e punire per educare é una

soluzione da tabula rasa che porterà maggiori lutti di quanti

possiamo immaginare.

Questo discorso, che é stato ripetuto due o tre volte dai

telegiornali, non so se l’avete ascoltato ma certamente non è

stato ascoltato dalla folla che si dichiara profondamente

cristiana, come Andreotti, per esempio, che tranquillamente

tira fuori con un’ipocrisia incredibile “...il nostro esercito

non si sta cimentando in una guerra, ma partecipa a una

operazione di polizia...”. Differenza molto sottile. Siccome il

furbacchione ricurvo sa bene che noi abbiamo una

costituzione che recita “L’Italia non può intervenire in un

conflitto a meno che non venga attaccata o aggredita sul

proprio suolo o vengano aggrediti i propri diretti alleati”,

ecco qui che ti inventa che noi non andiamo a insozzarci in

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una trucida guerra, ma partecipiamo a una semplice e

gioconda operazione di polizia. Operazione di polizia con

qualcosa come 18 tonnellate di esplosivo gettate in cinque

ore, cioè la stessa carica di esplosivo deflagrante che

determinò la storica catastrofe di Hiroshima.

Voglio ricordarvi che i bombardamenti in atto su Bagdad

vengono chiamati in gergo NATO “operazione chirurgica”,

si distruggono gli impianti militari ma niente vittime civili.

Ma si sa però, “incidentalmente, qualche bomba e qualche

razzo possono uscire dal contesto, siamo uomini seppur

militari”. Così un commentatore della radio svizzera da

Bagdad ha dichiarato che per questi insignificanti errori di

lancio e tiro si deve già lamentare la morte di diecimila civili

di ogni età e ceto. Tutti, ben s’intende, musulmani.

Intervento di uno spettatore : “Basta, per favore, siamo

venuti per vedervi recitare, non per ascoltare un comizio”.

Mi spiace, signore, di averla irritata, la mia intenzione era

solo di offrire al pubblico alcune osservazioni in forma

satirica, oltre che manifestarvi la mia indignazione per

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questa caterva di infami ipocrisie che ci tocca ingoiare ogni

giorno a garganella. Ripeto, mi spiace che lei signore si sia

risentito, ma evidentemente oso indovinare che lei si ritrovi

qui, in questo teatro, per la prima volta ad assistere a un

nostro spettacolo. Altrimenti lei saprebbe bene che da anni

noi mettiamo in scena ogni testo facendolo precedere da una

chiacchierata sulla diretta attualità. Un commento essenziale

per legare la satira della rappresentazione vera e propria con

il grottesco spesso tragico della cronaca dei fatti che stiamo

vivendo. Voglio informarla oltretutto che il nostro non é uno

spettacolo digestivo, dove il pubblico viene, s’allunga

spaparanzato sulla poltrona, e ordina a noi attori comici

“fammi ridere!”. Mi spiace deluderla ma le assicuro che

personalmente sono un cittadino come lei, che oltre a

recitare, ha il diritto di manifestare le proprie idee anche qui

sul palcoscenico, che é il mio spazio naturale. E lei, a sua

volta, ha il diritto di non condividerle, e magari di richiedere

la restituzione del biglietto che ha pagato. Io, ad ogni modo,

la ringrazio di questo suo intervento perché mi dà il pretesto

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di sottolineare qual é l’intento del prologo che ho appena

recitato. Ripeto, realizzare un aggancio logico con il testo

del Mistero Buffo vero e proprio e farvi intendere che quello

che stiamo vivendo già si viveva nel Medioevo e nel

Rinascimento. Quindi andiamo a incominciare.

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II versione 11 maggio 1998

MISTERO BUFFO DEL 24.O3.91 ROMA

TRASCRITTO MA NON CORRETTO

Così, é più di un mese che siamo in guerra, come ai bei

tempi, tra cristiani e musulmani. Io speravo veramente che si

realizzasse una pace definitiva, invece, in IRAQ stanno

combattendo ancora, si sparano, c'è gente che crepa, i curdi

stanno scendendo dal nord, stanno occupando una città

dietro l'altra, ci sono gli sciiti che salgono invece dal sud, c'è

Saddam Hussein, che ha buttato nel Nepal un po’ di gas

nervino che gli era avanzato. D'altra parte certe cose così

preziose non si possono buttare via... bisogna pure

adoperarle...ed è comprensibile, c'è qualche morto in

più...ma ne val la pena! Poi ci sono anche gli sciamanniti,

che è un gruppo religioso ed anche etnico particolare,

proviene dal centro dell'IRAQ; si riuniscono in bande e

girano per la città issando un palo della luce molto aguzzo, e

vanno gridando "Saddam Hussein ti vogliamo in alto,

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sempre più in alto", e via dicendo. Ora, a parte la tragedia di

questa guerra che doveva essere una guerra asettica, senza

neanche un morto... pare che i morti solo tra i militari

iracheni abbiano superato finora il numero di centomila e ci

siano una cosa come centomila morti solo a Bagdad fra i

civili. Dall'altra parte, invece, fra i militari che combattono

per liberarci dal mostro infedele, di morti ce ne sono stati

due o tre; uno, causa un colpo di sole, un altro colpito da un

commilitone mentre era intento a fare i propri bisogni:

purtroppo gli spuntava la testa da una duna. Il particolare che

più mi ha colpito è il crescere ogni giorno di notizie che ci

fanno scoprire quante frottole ci abbiano raccontato a

proposito di questo conflitto. Per inciso, va ricordato che

questo personaggio di Saddam Hussein, l'abbiamo costruito

noi, diciamo noi occidentali, ma anche gli orientali. Senza il

nostro aiuto sarebbe rimasto un piccolo delinquente di

provincia, un criminale da strapazzo. Invece, grazie prima di

tutto alle armi che gli si sono state fornite, é cresciuto fino a

dilagare. Voi sapete che tutti hanno concorso a vendergli

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armi, compresi i russi, i polacchi, perfino la Repubblica di

San Marino, oltre che la Svizzera e il Liechtenstein. Fra

l'altro siamo venuti a scoprire che, secondo osservatori

militari europei, Saddam Hussein può disporre oggi del

quarto esercito, in scala di valori, del mondo... che è proprio

una notizia da scompisciarsi dal ridere, soprattutto quando si

viene a sapere che, per esempio, i carri armati russi che gli

sono stati venduti, non erano russi, ma erano cinesi di scarto.

Per capire il loro valore, basti ricordare che quando in Russia

un carro armato viene male, si dice "c'è uscito un carro

armato cinese". Ma ad ogni modo la cosa incredibile, è che

lui, Saddam Hussein, si é davvero convinto, deficiente, di

possedere il quarto esercito del mondo, che lo credessero gli

altri era una bufala, detto da lui... ed è per questo che lo

hanno sollecitato a buttarsi con slancio in questa avventura.

D’altra parte, vi ricordate della guerra contro Komeini? Un

milione di morti soltanto ci sono stati di passaggio... e questa

azione a cui concorsero moltissimo l'America, l'Inghilterra,

noi ecc., ha fatto sì che il grande rais Frankestein-Hussein

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poi venisse logicamente a richiedere il pagamento dell'obolo

per il servizio eseguito. Appresso, questo deficiente, si è

permesso anche di occupare il Kuwait come risarcimento dei

danni di guerra subiti... giustamente lo abbiamo mazzolato...

l'hanno mazzolato. E dire che sono stati proprio i bianchi

civili ad allenarlo e ad incitarlo nell’acquisto e nella

costruzione degli ordigni bellici. Per esempio, a partire dai

gas, dove, guarda caso, sono arrivati come maestri di

produzione, i tecnici tedeschi dell'est e dell'ovest, che si sono

incontrati fuori sede per la prima volta a riprendere la loro

tradizione di gasisti. E tutto, guarda caso, pochi mesi prima

della riunificazione in una grande Germania. Almeno questa

guerra è servita a qualche cosa.

Possiamo immaginare di assistere alle lezioni su come si

impiegano i gas: "Stai attento, Ussein, dunque: c'è un

catalizzatore, poi abbiamo un gas inerte, un altro gas inerte.

Solo se uniti col catalizzatore funzionano. Vuoi provarlo?...

Va bene, dimmi su chi li buttiamo. I curdi? Si! I curdi vanno

sempre bene, tanto li ammazzi e nessuno dice niente...al

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massimo l'ONU fa un rutto di indignazione, non più di così.

Attenzione il curdo è là, lo vedi? Buttiamo la prima bomba...

ecco il gas che esce, non fa niente perché è inerte, ne

buttiamo una seconda, non fa niente perché è inerte, STAI

ATTENTO!! A chi??? Là, adesso ci buttiamo il catalizzatore

...PUM!...guarda, guarda come fa il curdo, lo vedi? Non è un

ballo folkloristico regionale, è che è un po’ ubriaco. Adesso

attento alla testina... TON! E' morto! Hai visto?

IMPARA!!!” E così ha imparato.

Ma a proposito di frottole straordinarie... la più criminale si é

rivelata quella che ci ha ammannito addirittura Bush in

persona, e io l'ho bevuta, perché non pensavo che Bush fosse

un elemento così screditato da venire a raccontarci una balla

di questo genere. Si tratta, e l'avrete sentita anche voi, spero,

immagino che anche voi ci siate cascati, come d'altra parte ci

sono cascati la bellezza del 75% degli americani, sul fatto

che bisognava per forza condurre questa guerra, e subito,

non si poteva aspettare un anno, perché entro un anno

certamente questo Saddam Hussein sarebbe riuscito a

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realizzare una potentissima bomba atomica fatta in casa... e

allora sarebbero stati guai terribili. Ebbene, quando qualche

giorno fa, il giornale più importante di New York, il

"Times", ha realizzato un servizio di inchiesta, e ha

interrogato Scanagh, l'ultimo padre della bomba atomica, e

gli hanno chiesto "senta, cosa ne dice di questo fatto, del

pericolo che Saddam Hussein possa farsi la bomba

atomica?" Lo scienziato ha strabuzzato gli occhi ed é

scoppiato in una risata con un singhiozzo inarrestabile. Han

dovuto portarlo d’urgenza al Pronto Soccorso. E questi

coglioncioni degli americani l'hanno bevuta” (risata). A

proposito degli americani e del loro candore ho da segnalarvi

un fenomeno davvero surreale. Prima di questo discorso

sull’atomica musulmana Bush poteva raccogliere

un’adesione popolare alla guerra pari al 51% scarso. Ma,

appena ha tirato fuori, in diretta TV, la frottola suddetta,

l’adesione alla guerra é salita al 90%. Questo vi dice

l'importanza delle frottole, quando sono giocate bene. Ma la

più criminale di tutte, devo ammettere, si é dimostrata

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senz’altro la frottola del cormorano; tutti quanti ci siamo

veramente intristiti e indignati di fronte a quella foto. Ve lo

ricordate? Quel povero uccello, strepennato e muto, lì sulla

spiaggia, con il petrolio buttato fuori da questi bastardi di

iracheni ... lui, ficcato nel bagnasciuga, arrivava quest'onda

questo BLOOB BLOOB, rispuntava con un occhio tappato,

faceva appena a tempo a respirare che BLOOOB, un'altra

onda di un mare schifoso... che io veramente ho detto "Ma

che criminali bastardi!", e tutti quanti ce la siamo presa.

Ebbene, adesso vi posso svelare che era tutta una balla, una

frottola gigantesca! Tutti gli scienziati legati all'ornitologia,

di tutto il mondo, si sono indignati; i francesi in particolare

su "Le Monde" hanno pubblicato un articolo dove nel titolo

si leggeva: "E’ una fandonia che non accettiamo", perché?

Perché di cormorani, di baby cormorani, sulle coste del

Kuwait, in quel periodo, gennaio, quando è stata effettuata la

ripresa, non ne esiste più uno ch'è uno: se ne sono andati già

via tutti in settembre!!! E ritornano in maggio. E figurati col

casino che c'è stato lì, se ritornano, chi li vede più!!! E allora

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‘sto pellegrino di cormorano DOVE L'HANNO PRESOOO!

Vuoi vedere che é un cormorano rimasto fuori di orario di

partenza?? “Scusi avete visto dei cormorani... ché io devo

emigrare, devo andare al nord, e temo di aver perso l’ultimo

stormo migratore.” No, raccontata così la balla non sta in

piedi. La verità é che fotografi e operatori televisivi, quando

c'è stata la sparata fuori di petrolio nel nord del Kuwait, vi

ricordate? non sapevano chi e cosa fotografare. C'è stato lo

scandalo, si parlava addirittura di un milione e mezzo di

barili. Allora, fotografi e operatori hanno detto: “qui c’é da

fare un bel servizio. Magari con dei bei fenicotteri imbrattati

nel petrolio che ha impiastrato tutto il mare.” Ma il petrolio é

sparato fuori dai pozzi, lassù, nel nord, a trecentocinquanta

miglia da Riad, cioè dalla costa più prossima.

TRECENTOCINQUANTA MIGLIA! Vi immaginate questi

qua con le macchine da presa, su un gommone, che remano

per trecentocinquanta miglia, per tre giorni, e quando

finalmente arrivano là... chi ti trovano? Gli iracheni che

saltano di gioia e gridano "finalmente possiamo abbattere un

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mezzo straniero" PUM PUM sul gommone, e loro

"FERMIII! Noi siamo qui solo per riprendere il cormorano

insozzato!!" "Ma non c'è il cormoranoooo!" "Ah, si?

Peccato!". No, neanche questa balla sta in piedi. In verità, la

troop dei cameramen non si é mossa da Riad, sono andati

allo zoo, e lì anche i cormorani che c'erano erano scappati, e

hanno trovato un Mabibu, che non è della classe dei

cormorani, no, è un uccello trampoliere fra l'altro, che vive

esclusivamente nell'Asia Minore, e in particolare negli

acquitrini paludosi di acqua dolce. Come l’hanno

individuato, i cameramen: "scusi, signor volatile-

trampoliere, le spiace venire al posto del cormorano in

spiaggia?" "Ma no! Ma io che c'entro! Io odio il mare",

"Venga per favore..." E siccome questo animale ha degli

strani pennacchi qui in testa, glieli hanno tagliati all'umberta,

cioè alti un dito. Avete notato che quel cormorano aveva i

capelli alla squatters?! E poi l'hanno pucciato dentro

"scusi...chiuda la bocca PIU'PIU'PIU', sorrida... UNO DUE

TRE ... ci basta, grazie, vada pure BLOBLOBLOBLO". E

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noi tutti, come tanti boccaloni, ci siamo commossi fino alle

lacrime a questa malandrinata messa in scena. Ma la

commozione l’abbiamo provata in seguito a quella

dichiarazione, vi ricordate, di Schwarz Scoop, il generale

abbondante, uno dei più grandi generali del mondo, nel

senso di dimensioni, due metri e dieci di altezza senza

tacchi, un quintale e dieci chili senza l'osso, ve lo ricordate?

Quello che veniva sempre, ad ogni conferenza stampa,

simpatico con quella faccia rubizza, che a me tutte le volte

mi veniva voglia di chiedergli "mi dia quattro etti di filetto,

un ossobuco e un po’ di carne per il gatto", simpatico...

A un certo punto ci è mancato, a me manca proprio, è un

vuoto che ho familiare quasi... Ebbene, una volta, alla quarta

conferenza stampa, è arrivato e, invece di essere vivace

come di norma, ci si é mostrato perplesso e abbacchiato. La

ragione l’abbiamo saputa poi, era causata dal fatto che le

rampe dei missili di Hussein che sparavano appunto i famosi

razzi, dopo ogni lancio sparivano nel nulla. Ogni tanto ne

individuavano qualcuna, la distruggevano, ma ecco che dopo

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un attimo ne appariva un’altra e non si capiva da dove fosse

spuntata. Lo stesso succedeva con i carri armati. Carri armati

che uscivano non si sa da dove, i bombardieri li puntavano,

ne buttavano all’aria una decina, poi TRACCHETE, altri

dieci che rispuntavano dal nulla. A un certo punto i generali

della coalizione hanno avuto il sospetto, lui l'ha detto, che si

trattasse di falsi carri armati. Ed era proprio così: erano tutte

sagome di carri armati in vetro resina. E chi li ha fabbricati

questi carri armati?? (risata) NOI! Noi italiani! Guardate

che siamo dei geni, degli extraterrestri!! Il genio in questione

é un artigiano di Torino che ha fabbricato per Hussein

qualche migliaio di sagome. E quando si è saputo a Torino

che il Comune aveva concesso il benestare perché si

innalzasse un monumento al costruttore magico di questi

mezzi cingolati in vetro resina, proprio per ricordarne la

pantagruelica creatività, c'erano tutte le televisioni del

mondo a intervistarlo, è incredibile! L’hanno aggredito con

le telecamere e i microfoni: "Per favore ci sveli come ha

potuto fabbricare carri armati così leggeri, agili e facili da

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trasportare in gran numero.” “Ecco qua, é semplice” ha

risposto lui e li ha portati nell’officina: “Ecco, vedete questi

fogli, sono sagomati per stampo su un disegno diverso per

ogni facciata, e quindi affiancati l’un l’altro a mo’ di libro.

In ogni carico di camion ci stanno quaranta carri armati, ed é

semplicissimo rimontarli, basta seguire il libretto di

istruzioni affiancato: A con A, B con B, questo va a incastro,

quest’altro pezzo si inserisce a chiave, non c’é un bullone né

una vite.” E’ così facile e divertente assemblarli che gli

iracheni lo fanno fare ai bambini, come premio.

Ma ad un certo punto, dice l’artigiano monumentato, le

richieste di carri usa e getta erano cresciute a tal punto che

non ci permettevano di farvi fronte. Così abbiamo spedito le

sagome da calco e se li sono fatti da sé, in quantità

esagerata. Ma il cronista della nostra terza rete chiedeva con

insistenza “Ma come fate a muoverli, sono leggeri sì, ma

come vi riesce di farli camminare nel deserto?” “Basta una

corda molto lunga. Guardi si lega qua, uno si mette in una

buca e poi tira il carro armato che viene avanti come una

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slitta.” “Sì, ma il calore emanato dal motore come lo

realizzate?” “Voi sapete che gli attrezzi di rilevamento di cui

sono dotati gli aerei americani, se non rilevano il calore non

danno l’ok perché si spari, anzi emettono una serie di

pernacchie con contrappunto di sghignazzi e l'aereo se ne

va”. “E’ semplice” risponde il genio dei carri-bidone, “noi ci

mettiamo una stufetta a serpentina, loro rilevano il calore e

dicono - ah ah c'è il motore e sparano razzi e cannonate

come al carnevale di Rio. “Ma dico, e l'altro, il rumore?”

“Cingoli! Una cassetta con registrazione di cingoli. Gli stessi

per il doppiaggio al cinema...

GRUBLUBLUGRUBLUBLU”. Ma come si può pensare

che queste macchine si siano lasciate imbrogliare da mezzi

così semplici... avete visto che razza di rilevatori hanno

dentro: nel cruscotto centrale di questi aerei caccia

bombardieri c'è una specie di schermo, si vedono tutti i

disegnini che si muovono come i videogames e il pilota non

sta neanche a guardare attraverso il parabrezza, ma guarda

direttamente il cruscotto e vede meglio tutto. C'è una voce

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che gli dà tutti gli elementi, gli dice: “vai, vai , stai

tranquillo, ecco, ecco, prendi quota, fino a trentacinque

abbassa dodici, ecco rileva, rileva, rileva, la velocità va bene

così come va, ecco stai bene, la tua mamma ho saputo che

stai tanto bene, vai vai” e appare la faccia della mamma che

gli manda. C’é pure una manina che viene su e gli ammolla

degli schiaffetti e gli torce appena l’orecchio, che gli tanto fa

piacere. Poi una grattatina sulla nuca e “Sei splendido!”

Quindi, come per incanto, appare sullo schermo del

videogames l'immagine assonometrica addirittura di carri

armati, delle costruzioni, di quello da colpire, danno il

peso... ecco qui un carro armato c'è, c'è, c'è, eccolo l'ho

inquadrato, guarda che c'è, dai adesso SCHIACCIA ci sei,

sei puntato SCHIACCIA TI DICO! Se uno è un po’

distratto, la manina gli afferra la mano e lo costringe a

schiacciare... parte un razzo tremendo che ha anche una

video camera in testa, tutto intelligente, riprende quota,

risale ed emette anche una canzoncina “CARO IRAK, ORA

FAI SCIAC, CON ‘STO RAZZO FAI PUM TRALALA’,

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SEI FOTTUTO TU E ALLAH” scoppia, salta tutto per aria,

l'aereo riparte, c'è una risata registrata IIIHAAAA AHA

AHA e suona la valchiria. E’ inutile, noi italici come

bidonisti siamo il massimo. Però ci sono stati dei fabbricatori

di trucchi inglesi, che ci hanno fregato, hanno fregato i

torinesi anche. Infatti hanno realizzato addirittura un carro

armato di gomma. E' una specie di polpettone... in una

valigetta così viene costretto, ben plissettato, tutto c'è il carro

armato... Il tecnico bidonista prende la sua valigetta, inserita

fuori dalla valigetta c'è una pompa di quelle a pedale, si

sistema a terra, si schiaccia su e giù il pedale, viene fuori

POP POP POP il carro armato, cresce e si concretizza coi

cingoli, la torretta, i cannoni, ch'è il punto più delicato, che

se non si pompa con molta forza il cannone rimane moscio

così... e il pilota se ne accorge...Quando arriva l'aereo

PEMPEMPEM TUNTUNTUN dritto come un cannone,

appunto, ed ecco che PRAAAPUUM! Parte il razzo,

colpisce il bersaglio e a ‘sto punto c'è il commento di un

pilota americano che è veramente divertente, dice: “è strano

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come si comportino questi nuovi carri armati iracheni,

perché non esplodono, non deflagrano come gli altri russi

cinesi. Non so di che marca siano, che nazione glieli abbia

procurati, perché come li becchi saltellano qua e là nel

deserto TUM PIM TUM PIM ed emettono uno strano sibilo

PIIIIIIIII. Quindi scompaiono nel nulla.

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9.06 Sala di Cesenatico - 02/10/2012 1