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ARACNE Questa è la mia vita di Jean–Luc Godard Farah Polato

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ARACNE

Questa è la mia vitadi Jean–Luc Godard

Farah Polato

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I edizione: maggio 2005

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INDICE

Introduzione 7

Capitolo I

Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 9

Capitolo II

I Boulevards, Place du Châtelet, i caffè… 55

Capitolo III

Che cos’è questa storia? 75

Capitolo IV

Se il cinema non fosse che l’arte della narrazione… 101

Scheda del film 117

L’edizione italiana 119

Indicazioni bibliografiche 127

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INTRODUZIONE La scansione rigorosa dei dodici quadri, la sontuosità del bianco e

nero, il volto grave di Nana, l’impatto è, innanzi tutto, emotivo. Questa è la mia vita «è un film ambizioso» annota Allegri «perché

ha la pretesa di darsi una struttura chiusa, perfetta in sé, quasi da tra-gedia classica». È, tuttavia, una classicità (con l’eco, le suggestioni ed il rischio insiti nel termine) non conciliante, che esibisce, sin dalla presentazione alla XXIII Mostra Internazionale d’Arte Cinematografi-ca di Venezia del 1962, un carattere provocatorio. Il film, infatti, sol-leva reazioni diverse e contrastanti. Suscitare discussioni, accendere gli animi e le passioni pertiene alle opere importanti: nulla di straordi-nario, allora, afferma Yvonne Baby dalle pagine del quotidiano “Le Monde”, che Questa è la mia vita1 abbia conosciuto a Venezia detrat-tori e sostenitori.

Classicità e provocazione resistono allo scorrere del tempo; oltre quarant’anni più tardi «il rumore del successo» non si è affievolito in un brusio sommesso. Al volto intenso di Anna Karina continuano ad essere dedicati manifesti di festival, copertine di riviste di cinema … Più discreta invece la produzione critica, pur concorde nel riconoscere il tratto esemplare e la bellezza del film: è sufficiente rivedere oggi al-cuni film degli anni Sessanta, scrive Alain Bergala2, per realizzare come Godard sia stato, in quella stagione, un cineasta della frontalità, vale a dire qualcuno che ha osato «guardare in faccia la bellezza». Tra le opere citate da Bergala, il primo titolo a comparire è Questa è la mia vita.

I percorsi sviluppati nel presente lavoro respirano “l’aria del tem-po”, accogliendo le suggestioni evocate dagli articoli e dalle recensio-ni apparsi in occasione dell’uscita del film e dalla prospettiva critica definitasi nel periodo immediatamente successivo. In questa direzione la dimensione testuale si rivela non un meccanismo estraneo, chiuso

1 «C’est le propre des œuvres importantes de susciter les discussions, de rendre plus violents les désaccords et plus vives les passions. Il n’est donc pas surprenant que Vivre sa vie ait eu à Venise ses détracteurs et ses partisans». Y. BABY, Un portrait de femme dans le film de Jean-Luc Godard, in “Le Monde”, 30 agosto 1962; «Vivre sa vie, le film très singulier, très personnel et très original, a suscité de vives discussions, ce qui est toujours la rumeur du succès». J. MARRONCLE, Venise 1962, in «Téléciné», n. 107, ottobre-dicembre 1962. 2 A. BERGALA, Nul mieux que Godard, Cahiers du Cinéma, Parigi, 1999, p. 86.

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nella propria articolazione, ma la superficie su cui si depositano le tracce di una riflessione proveniente dall’esterno: l’interrogazione sul linguaggio cinematografico, l’obiezione al cinema “puro”, i rapporti tra realtà e finzione. Questa è la mia vita appare segnato da queste correnti sotterranee riconoscibili e riconosciute nell’assetto dell’opera.

La prima parte affronta l’organizzazione complessiva a rilevare le componenti strutturali che, incidendo l’intero corpo del film, lo defini-scono: i materiali. Si affianca quindi l’analisi delle modalità con cui tali materiali agiscono ed interagiscono. L’approccio non è certo ori-ginale e va ad inserirsi in un tracciato critico consolidato: Jean-Luc Godard, instancabile manipolatore, incessantemente intento a smonta-re e rimontare il congegno per verificare come funzioni e, soprattutto, se possa funzionare altrimenti. Di qui, l’esibizione del processo for-male nei termini di variazione, esplorazione delle potenzialità del mezzo, interazione e commistione del cinema con altri linguaggi.

Insondabile rimane il mistero dell’emozione rispetto al quale le pa-role valgono ben poco: «La joie physique et la douleur physique que procurent certains moments de A bout de souffle et de Vivre sa vie, je ne chercherai jamais à les communiquer par un texte à ceux qui ne les ressentent pas» (François Truffaut).

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri Questa è la mia vita (Vivre sa vie), quarto lungometraggio di Jean-

Luc Godard, è presentato alla XXIII Mostra Internazionale d’Arte Ci-nematografica di Venezia del 1962, dove riceve il Premio Speciale della Giuria ed il Primo Premio della Critica.

Sinossi Nanà (Anna Karina) è una giovane commessa di un negozio di di-

schi. Trovatasi in ristrettezze economiche, cerca, in diversi modi, di procurarsi del denaro per poter pagare l’affitto della stanza dove al-loggia: chiede un prestito all’ex fidanzato (o marito, non è chiaro), Paolo (André S. Labarthe), ad una collega di lavoro, ad un giornalista, tenta di appropriarsi di 1000 franchi, ma inutilmente. Incontra un’amica, Yvette (Guylaine Schlumberger), che esercita la prostitu-zione e, poco per volta, anche Nanà finisce con il prostituirsi. Innamo-ratasi, vorrebbe cambiar vita, ma Raoul (Sa[d]dy Rebbot), suo protet-tore, ha già stabilito di venderla ad un’altra organizzazione; nel corso della trattativa non si raggiunge un accordo, la situazione precipita e Nanà muore nella sparatoria che ne consegue.

La breve esposizione qui riportata riconduce a continuità, comple-tando le ellissi e formulando i nessi lasciati sospesi, quanto nel film viene dato frammentariamente. Come anticipato nei titoli di testa, in-fatti, il film è diviso in dodici quadri, introdotti da una didascalia su fondo nero con la quale, di volta in volta, vengono presentati i perso-naggi, le situazioni, sono indicati i luoghi; i quadri si chiudono con dissolvenza o stacco al nero. Si danno di seguito i dodici quadri, la corrispondente titolazione, il contenuto sommario di ciascuno; salvo poche eccezioni, ogni quadro assolve un’unità narrativa autonoma e conclusa.

Titoli di testa, sovrimpressi a tre inquadrature in primissimo piano di Anna Karina: profilo sinistro, frontale, profilo destro. Intermittente, pausato da silenzi, è introdotto il motivo musicale che tornerà ad af-facciarsi lungo il corso del film. Sull’ultima inquadratura compare una

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Capitolo I 10

citazione da Montaigne: «Bisogna prestarsi agli altri e darsi a séstessi»1.

— Primo quadro: UN BAR. NANÀ VUOLE LASCIARE PAOLO. / IL FLIPPER.

Nanà e Paolo stanno discutendo in un bar. Parlano del più e del meno: delle aspirazioni di lei di fare del teatro o del cinema, della loro relazione, del figlio che vive con i genitori di lui… Nanà chiede un prestito, Paolo però non ha la somma richiesta. Il quadro si chiude con una partita a flipper e con Paolo che recita una breve composizione di uno degli alunni di suo padre.

— Secondo quadro: IL NEGOZIO DI DISCHI. DUEMILA FRANCHI. / NANÀ VIVE LA SUA VITA.

Nanà al lavoro, commessa in un negozio di dischi: serve un cliente, parla con le colleghe; ancora una volta cerca di ottenere un prestito ma inutilmente. Un’altra commessa legge ad alta voce il racconto pubbli-cato in una rivista; fuori dal negozio si intravedono le strade di Parigi, i passanti sfilare.

— Terzo quadro: LA PORTIERA. PAOLO. LA PASSIONE DI / GIOVAN-NA D’ARCO. UN GIORNALISTA.

Nanà tenta di rientrare di nascosto nel proprio appartamento ma viene bloccata dalla portinaia. Incontra Paolo, guarda le foto del figlio quindi si reca, sola, al cinema dove proiettano la Passione di Giovan-na d’Arco (La passion de Jeanne d’Arc, 1928) di C.T. Dreyer. Uscita dalla sala cinematografica, si libera di un tipo da cui si è fatta pagare il biglietto; si incontra, quindi, con un giornalista (Paul Pavel) che le

1 «Un film en douze tableaux». Di seguito la citazione e le titolazioni in originale; la durata indicata entro parentesi si riferisce all’edizione francese in DVD della G.C.T.H.V. (2004) ed è, pertanto, puramente indicativa: «Il faut se prêter aux au-tres et se donner à soi même». «UN BISTROT - NANA VEUT ABANDONNER PAUL - L’APPAREIL A SOUS» [6'14"]; «LE MAGASIN DE DISQUES - DEUX MILLE FRANCS - NA-NA VIT SA VIE» [3'16"]; «LA CONCIERGE - PAUL - LA PASSION DE JEANNE D’ARC - UN JOURNALISTE» [7'23"]; «LA POLICE - INTERROGATOIRE DE NANA» [2'40"]; «LES BOULEVARDS EXTÉRIEURS - LE PREMIER HOMME - LA CHAMBRE» [4'27"]; «REN-CONTRE AVEC YVETTE - UN CAFÉ DE BANLIEUE – RAOUL - MITRAILLADE DEHORS» [8'11"]; «LA LETTRE - ENCORE RAOUL - LES CHAMPS-ELYSEES» [8'23"]; «LES APRÈS-MIDI - L’ARGENT - LES LAVABOS - LE PLAISIR- LES HÔTELS» [3'45"]; «UN JEUNE HOMME – LUIGI - NANA SE DEMANDE SI ELLE EST HEUREUSE» [6'52"]; «LE TROTTOIR - UN TYPE - LE BONHEUR N’EST PAS GAI» [5'17"]; «PLACE DU CHÂTELET - L’INCONNU - NANA FAIT DE LA PHILOSOPHIE SANS LE SAVOIR» [10'16"]; «ENCORE LE JEUNE HOMME - LE PORTRAIT OVALE - RAOUL REVEND NANA» [8'50"].

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 11

propone di fare delle foto. Nanà chiede nuovamente un prestito, di nuovo le viene rifiutato. Nanà accetta di recarsi a casa del giornalista.

— Quarto quadro: LA POLIZIA. INTERROGATORIO DI NANÀ. Nanà al commissariato di polizia, denunciata per furto. Spiega di

essersi appropriata di mille franchi caduti dalla borsetta di una signo-ra, ma di averli poi restituiti quando la signora si è accorta dell’accaduto. «Vorrei essere un’altra» afferma Nanà a conclusione del quadro.

— Quinto quadro: I VIALI PERIFERICI. IL PRIMO UOMO. / LA CAME-RA.

Nanà passeggia per i viali. Un tipo, scambiatala per una prostituta, l’abborda. Nanà non spiega l’equivoco ed accetta la proposta; si reca-no ad un albergo.

— Sesto quadro: INCONTRO CON YVETTE. UN CAFFÈ DI PERIFERIA. / RAOUL. SPARATORIA DI FUORI.

Passeggiando, Nanà incontra un’amica che non vedeva da molto tempo. Le due donne entrano in un bar; Yvette racconta la propria e-sperienza e come è giunta a prostituirsi, conclude affermando di non esserne responsabile. Nanà ribatte che ciascuno è responsabile delle proprie azioni. Yvette fa conoscere a Nanà il proprio protettore, Ra-oul. Echi di una sparatoria fuori del locale; Nanà abbandona il bar e si allontana fuggendo.

— Settimo quadro: LA LETTERA. ANCORA RAOUL. I CHAMPS-ELYSÉES».

Ancora Nanà, seduta ad un caffè; sta scrivendo una lettera con la quale — il testo è leggibile — si presenta alla tenutaria di una casa chiusa di provincia. Sopraggiunge Raoul che le prospetta di lavorare per lui, a Parigi, con un miglior guadagno. Nanà accetta. Su immagini notturne di Parigi, inizia, in fuori campo, un colloquio. Nanà: «Quando comincio?»; Raoul: «È quando si accendono le luci della città che co-mincia la ronda senza speranza delle donne della strada».

— Ottavo quadro: I POMERIGGI. I SOLDI. I LAVANDINI. / IL PIACE-RE. GLI ALBERGHI.

Rapida successioni di immagini diverse di Nanà al lavoro. La voce di Raoul, in fuori campo, risponde a domande sullo statuto economico e giuridico che regolamenta la prostituzione.

— Nono quadro: UN GIOVANOTTO. LUIGI. NANÀ SI CHIEDE / SE È FELICE.

Raoul, accompagnato da Nanà, si reca ad un appuntamento con un certo Luigi (Eric Schlumberger), presso un caffè. Alla sala da biliardo

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Capitolo I 12

dove si svolge l’incontro Nanà nota un giovane (Peter Kassowitz); Nanà si annoia, allora Luigi, per distrarla, improvvisa un numero di mimo. Il ragazzo procura a Nanà le sigarette da lei richieste a Raoul. Nanà, selezionato un disco al juke-box, si esibisce in una danza.

— Decimo quadro: IL MARCIAPIEDE. UN TALE. LA FELICITÀ NON È ALLEGRA.

Per assecondare la richiesta di un cliente Nanà cerca la collabora-zione di una collega. Il cliente cambia parere e richiede solamente la seconda ragazza; Nanà viene inquadrata alla finestra, sola e assorta.

— Undicesimo quadro: PLACE DU CHÂTELET. LO SCONOSCIUTO. / NANÀ FA DELLA FILOSOFIA SENZA SAPERLO.

In un caffè Nanà intraprende una lunga discussione con uno scono-sciuto (il filosofo Brice Parain); riflessioni sulla possibilità di comuni-care e sull’amore.

— Dodicesimo quadro: ANCORA IL GIOVANOTTO. IL RITRATTO OVALE. / RAOUL RIVENDE NANÀ.

Nanà ed il giovane precedentemente incontrato al caffè. Parlano, si scambiano frasi affettuose; il giovane legge (nell’originale la voce è di Godard) Il ritratto ovale di Edgar A. Poe. Egli chiede a Nanà di anda-re a vivere con lui; Nanà accetta, è decisa a comunicare a Raoul di vo-ler lasciare l’esercizio della prostituzione. Raoul trascina Nanà, che si oppone, verso un’auto dove altri uomini li attendono. Strade di Parigi viste dall’auto in corsa. Raoul vuole vendere Nanà ad un’altra orga-nizzazione ma l’accordo sul prezzo non viene raggiunto. Vi è una spa-ratoria; Nanà, ferita, rimane a terra mentre le auto si allontanano.

La suddivisione in dodici quadri agisce in primo luogo

sull’impianto del racconto: la scomposizione della storia in una serie di singoli blocchi denuncia infatti, a livello di macrostruttura, un pro-cesso di corrosione della componente narrativa. La progressione linea-re e senza soluzione di continuità cede il passo ad uno sviluppo fram-mentato, composto di pieni e di vuoti (titolazione - racconto - chiusura al nero), ad una successione di episodi la cui collocazione spesso sfugge ad una logica ordinatrice.

La “storia”, intesa in un’accezione tradizionale2, si pone, in Questa è la mia vita, come elemento al tempo stesso di continuità e di rottura:

2 «Si è detto, fin dai tempi di Aristotele, che gli eventi delle narrative sono sostan-zialmente correlativi, coimplicantesi. La loro sequenza, dice l’opinione tradiziona-le, non è semplicemente lineare ma causativa. Il rapporto di causa ed effetto può

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 13

ancora presente, essa perde, però, centralità. Si tratta di una vicenda riassumibile in poche righe, dalla trama esile, nella quale si indeboli-sce la correlazione causale e dove trovano ampio spazio momenti ap-parentemente non necessari allo sviluppo del racconto. Alle pause, al-le digressioni3 si affianca l’assenza di enfasi drammatica; persino la sparatoria finale, cui seguirà la morte della protagonista, appare “con-gelata” dal motivo, grottesco e straniante, della dimenticanza delle pallottole e dalla rapidità con cui la situazione viene esaurita.

L’arco temporale non è esattamente deducibile; approssimativa-mente si può ipotizzare un periodo di diversi mesi, forse un anno o poco più. Ad accentuare l’indeterminatezza concorrono l’interruzione del continuum narrativo in singole unità (i quadri) e l’abolizione dei nessi di collegamento, sostituiti da pause (schermo nero alla fine di ogni quadro) che danno luogo ad ellissi talvolta non misurabili. Spes-so il rapporto fra quadro e quadro è semplicemente determinato dall’apparizione sullo schermo. Non essendo determinato da quanto lo precede il quadro che “viene dopo” potrebbe, a volte, “venire prima”, giacché si allenta la disposizione gerarchica degli avvenimenti. Così, il secondo, terzo, quarto quadro potrebbero modificare o invertire la propria collocazione, il secondo potrebbe essere considerato accesso-rio, l’undicesimo addirittura non opportuno. Altre volte il legame è e-sile (la richiesta delle fotografie mette in relazione il primo quadro al terzo), ambiguo (la fine del commento di Raoul nel settimo quadro prosegue in apertura dell’ottavo), o compositivo (la presenza del mo-tivo musicale, il prolungamento del sonoro). Dalla durata complessiva dello svolgimento della storia l’attenzione si sposta piuttosto sui frammenti che la compongono: parametri di luce e oscurità distinguo-no il giorno dalla notte ma nulla viene detto sullo scarto fra i singoli momenti. Tre quadri (il terzo, l’ottavo e il dodicesimo) sviluppano al

essere manifesto, vale a dire esplicito, oppure latente, vale a dire implicito... Nelle narrative classiche gli eventi si presentano in modo distributivo: sono collegati l’uno all’altro con un rapporto di causa ed effetto e gli effetti a loro volta causano altri effetti, fino all’effetto finale». S. CHATMAN, Storia e discorso. La struttura narrativa nel romanzo e nel film (1978), Pratiche, Parma, 1981, pp. 43-44 (n.e. Net, Milano, 2003). «Di fatto, le immagini sullo schermo sono nella loro immensa maggioranza implicitamente conformi alla psicologia del teatro o del romanzo d’analisi classico. Esse suppongono, col senso comune, un rapporto di causalità necessaria e senza ambiguità fra i sentimenti e le loro manifestazioni». A. BAZIN, Che cos’è il cinema? (1958), Garzanti, Milano, 1986, p. 129. 3 Tra queste: la discussione con il filosofo, lo sguardo di Nanà al caffè, la sequen-za al cinema, la partita a flipper…

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Capitolo I 14

proprio interno una certa ampiezza temporale, articolando più di una unità drammatica. Il terzo quadro comprende infatti lo scontro con la portinaia, l’incontro con Paolo, il cinema, l’appuntamento con il gior-nalista al caffè; l’arco di tempo investito è, approssimativamente, cor-rispondente ad una giornata: il tentativo di entrare di soppiatto nell’appartamento avviene di giorno. Paolo invita Nanà a pranzo, la donna rifiuta perché preferisce andare al cinema. C’è ancora luce ma quando raggiunge la sala ormai è buio: l’incontro con Paolo può, per-tanto, essere stabilito nel tardo pomeriggio. L’appuntamento segue la proiezione cinematografica, l’ora è indicata dal giornalista: «Alle un-dici di sera è tardi»; il caffè dove si incontrano è oramai deserto, sta per chiudere… Il succedersi cronologico di ciascun avvenimento trova dunque esplicitazione, ad eccezione del primo (l’episodio della porti-naia) per il quale il rapporto con il seguente (l’incontro con Paolo) è semplicemente inferto. L’ottavo quadro, la cui particolare costruzione sarà oggetto di analisi, condensa un’estensione temporale ampia, e-semplificativa dell’attività di Nanà, già dedita alla prostituzione. Il dodicesimo quadro, infine, presenta due ambienti, un interno (la stan-za), un esterno (le strade) e due situazioni, Nanà e il giovane, Nanà e Raoul. La volontà di Nanà di lasciare Raoul e l’esercizio della prosti-tuzione sembra condurci attraverso i due momenti. E tuttavia la “ven-dita” di Nanà non è necessariamente conseguente, né da un punto di vista temporale né da un punto di vista causale, alla decisione della ragazza; Raoul, infatti, si lamenta solamente del fatto che lei non vo-glia accettare tutti i clienti. I rimanenti quadri si chiudono in una so-stanziale unità di tempo, luogo e azione. L’attenzione sembra volgersi alla parte più che al tutto; oggetto di interesse diviene la specifica a-zione, la situazione a scapito dell’insieme.

Se i rapporti di successione consequenziale e cronologica si inde-boliscono, fattore aggregante delle singole unità risulta la figura di Nanà: solo in quanto tasselli della vita della protagonista essi sembra-no trovare collocazione e disposizione. Questa è la mia vita appare al-lora la rappresentazione di alcuni momenti prelevati dalla vita di Na-nà, il film si svolge non seguendo un principio ordinatore ma model-landosi, per così dire, secondo la cadenza della vita, in cui talvolta le scelte, le azioni ne determinano altre, talvolta gli avvenimenti sempli-cemente accadono. In questa direzione acquistano un peso le pause, i momenti apparentemente insignificanti, i cosiddetti “tempi morti”, che tali non sono, come ha chiaramente formulato Christian Metz in rap-porto al cinema di Michelangelo Antonioni, «poiché un film è un og-

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 15

getto fabbricato; i tempi morti ci sono nella vita. Un tempo non può essere morto se non in rapporto a un interesse specifico (l’attesa)»4. Percezione, annota Metz, resa possibile «soltanto perché gli avveni-menti della vita non possono essere conformi alla mia volontà, e non obbediscono affatto ai miei sforzi di realizzare costantemente l’arabesco affettivo giudicato più soddisfacente». Filmata «l’attesa di un quarto d’ora non sarà un tempo morto, perché essa sarà diventata momentaneamente l’argomento stesso del film — che è sempre co-struito — e perché, in quel momento, sarà tutta la vita del film a pas-sar per quel “tempo morto”». Il film perviene allora a mostrarci «la significanza diffusa di quegli istanti della vita ordinariamente conside-rati insignificanti; integrato nel film, il tempo morto rinasce nel sen-so». Così, «nel reticolo di una drammaturgia più sottile» ci sono resti-tuite «tutte le significazioni perdute di cui sono fatte le nostre giorna-te» impedendo loro «di perdersi completamente senza tuttavia imbri-gliarle, vale a dire senza privarle di quella tremula indecisione del si-gnificato senza la quale esse non sarebbero più significazioni perdute; di averle preservate senza averle ritrovate».

In questo processo di dedrammatizzazione, inteso quale rinuncia ad una disposizione gerarchica degli avvenimenti inseriti all’interno di un insieme unitario, Metz riconosce dunque il delinearsi di nuovi modelli di drammaturgia all’interno dei quali si assiste ad una ridefinizione delle funzioni considerate incongrue in un’altra logica narrativa. Nanà, quale principio ordinatore e fattore aggregante di quanto nel film è da-to a vedere, sembra costituire l’unico personaggio di Questa è la mia vita relegando i rimanenti allo statuto di “comparse” la cui apparizio-ne, qualunque siano le conseguenze, si risolve in un passare che incro-cia, talvolta segnandola profondamente, l’esistenza della donna. Se Paolo appare nel primo quadro e, brevemente, nel terzo, a Yvette spet-ta soltanto il sesto; Raoul figura in quattro quadri: interamente nel set-timo, in parte nel sesto, nono e dodicesimo; il giovane di cui Nanà si innamora fa la sua apparizione nel nono e all’inizio del dodicesimo, le altre presenze si consumano in un unico quadro. La “permanenza” non è tuttavia per se stessa significativa: gli esiti dell’incontro con Paolo si riveleranno infatti ben diversi di quello, fatale, con Yvette.

4 Per la presente e le successive citazioni, cfr. C. METZ, Il cinema “moderno”: al-cuni problemi teorici, in Semiologia del cinema (1968), Garzanti, Milano, 1980, pp. 262-263.

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Capitolo I 16

Variazioni, contaminazioni: per un “cinema impuro”

Oltre che incidere sul piano narrativo, la scansione di Questa è la

mia vita in quadri e l’inserimento di didascalie manifestano una preci-sa strategia compositiva, su cui la critica si è a più riprese soffermata: l’utilizzo da parte di Godard di materiali e approcci differenti che, nel-la reciproca contaminazione, pongono la strutturazione del film sotto il segno della mescolanza e della commistione. Il testo si dispone ad adottare dunque una dimensione “conflittuale”5:

Nel cinema vero e proprio, è stato appunto Jean-Luc Godard a sperimentare con maggiore sistematicità le commistioni di stili e materiali e molti dei suoi film ne hanno tratto fondamentali momenti strutturali. La struttura estrema-mente semplice di Questa è la mia vita (sequenze suddivise da didascalie — cosa che costituisce di per sé un’originale mescolanza di materiali nel cinema parlato) fu animata dalle opposizioni di stile fra le sequenza stesse (interviste vere e false, documentario con commento “off”, falso stile “cinegiornale”, ecc.)6 Ancora una volta, come già rilevato sin da Fino all’ultimo respiro

(A bout de souffle, 1960), Godard si muove con l’agilità del funambo-lo tra procedure e riferimenti interni: è un procedimento abbandonato, proprio di una specifica stagione del cinema — il cinema muto — a trovare spazio, attestando, in Godard, la dialettica con la tradizione quale «componente essenziale nella costituzione del nuovo»7. L’inserimento delle didascalie nel flusso narrativo contamina il ritmo del cinema parlato, imponendovi una pausa non necessaria, arresta momentaneamente l’azione, fa concessione alla parola scritta là dove essa risulta inutile — il cinema parlato “si spiega da solo” — anticipa gli avvenimenti e presenta i personaggi, allentando l’attenzione dello spettatore al dispiegarsi della storia. Le didascalie cadenzano la suc-cessione dei quadri; esse assolvono, dunque, funzione di raccordo fra gli stessi ma, allo stesso tempo, li separano, configurandoli come blocchi distinti di un insieme. Concorre alla sensazione di chiusura la non omogeneità della costruzione dei singoli quadri, taluni dei quali «sono troppo lunghi, altri troppo brevi, altri ancora possono apparire

5 Cfr. l’analisi di Fino all’ultimo respiro in P. BERTETTO, La libertà e il nulla, in L’interpretazione dei film, a cura di P. Bertetto, Marsilio, Venezia, 2003, p. 186. 6 N. BURCH, Prassi del cinema (1969), Il Castoro, Milano, 2000, p. 65. 7 Cfr. P. BERTETTO, cit., pp. 202-203.

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 17

arbitrari o non strutturati»8 unitamente all’assenza — o alla non tra-sparenza — di rapporti di relazione tali da giustificare una successione motivata dal punto di vista dello sviluppo narrativo.

Talvolta la didascalia insidia la compattezza stessa del quadro, in-ducendo una conflittualità interna. Nel terzo, Nanà assiste alla proie-zione di La Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer: i dialoghi fra Giovanna ed il monaco inquisitore si inscrivono in intertitoli (inserto fra le inquadrature) e in sottotitoli (inserimenti all’interno dell’inquadratura). In questo caso la didascalia appare motivata, in quanto appartiene al corpo del film proiettato; al contempo, quest’ultimo rinvia alla provenienza di quel procedimento utilizzato da Godard, la esplicita.

Il montaggio della sequenza, inoltre, conduce ad un’ulteriore con-taminazione: i primi e primissimi piani di Renée Falconetti (Giovanna d’Arco) e di Antonin Artaud (il monaco) si alternano ai primi e pri-missimi piani di Anna Karina (Nanà). La percezione della distinzione fra i due ordini di inquadrature del film di Dreyer e di quello di Godard via via svanisce come tende ad annullarsi la distanza fra oggetto e soggetto dello sguardo: gli spazi collassano, la citazione (la Passione di Giovanna d’Arco) sconfina, in-forma il film di Godard (Questa è la mia vita), l’universo orientato (il sistema dei raccordi) bascula pericolosamente.

Procedimento “a contrasto”: lo sfondo bianco, occlusivo, della Passione si riversa nell’oscurità della sala cinematografica; al volto nudo ed esposto, all’epidermide perlustrata della Falconetti si oppon-gono la superficie liscia e riflettente, quasi di maschera, del volto di Nanà e il nero, profondo e liquido, dei suoi occhi; alla fissità della ri-presa frontale (Nanà), il protendersi (di profilo, di tre quarti) della la-cerata umanità dei volti di Dreyer (Giovanna ed il monaco). Vertigine conflittuale fra sapere diegetico ed impatto percettivo, fra trasparenza espositiva9 e logica compositiva. Citazione, omaggio ad un grande re-

8 «L’esame rapido dei dodici quadri che lo compongono lasciano taluni perplessi: alcuni sono troppo lunghi, altri troppo brevi, altri ancora possono apparire arbitra-ri o non strutturati»; cfr. C. MILLER, Vivre sa vie, in «Téléciné», n. 108, dicembre 1962-gennaio 1963, p. 3. Qualora non diversamente indicato, le traduzioni sono nostre. Nelle traduzioni come nelle citazioni italiane i titoli dei film sono riportati in italiano, con indicazione dell’originale alla prima segnalazione. [N.d.A]. 9 Non c’è possibilità di fraintendimento, anzi si registra qui un “eccesso” di conte-stualizzazione: all’inizio del terzo quadro Nanà dice a Paolo di voler andare al ci-nema, quindi un’inquadratura con funzione introduttiva — una delle poche nel

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Capitolo I 18

gista e ad una stagione del cinema di cui Godard ha più volte esaltato la forza plastica dell’immagine, La Passione di Giovanna d’Arco in Questa è la mia vita è, al contempo, materiale sottoposto a trattamen-to.

Nella prima parte dell’ultima sezione, la dodicesima, è invece il dialogo amoroso, l’unico in tutto il film, ad essere affidato ai sottotito-li, con ulteriore slittamento rispetto al modello precedente. Quotidiana conversazione («Io vorrei andare al Louvre») ed espressioni d’affetto («Ti adoro», «Ti amo») trovano posto l’una accanto alle altre. La tra-scrizione delle parole dei due amanti opera sostanzialmente in due di-rezioni: da un lato distanzia la scena, spogliandola di qualsiasi enfasi patetica, dall’altro, nella sottrazione del parlato, addita prassi recitati-ve e drammatiche che espongono la materialità del gesto sonoro al ri-schio di un progressivo impoverimento.

La sequenza investe il rapporto tra immagine e parola e tra parola e silenzio: nostalgia di una “stagione dell’immagine” la cui incisività l’avvento del cinema sonoro ha concorso talvolta ad erodere nella priorità conferita alla parola e alla sua funzione esplicativa, in cui si teme di smarrire volti e corpi. Nella sequenza indicata l’attenzione sembra posarsi proprio sulla gestualità dei due innamorati, sull’abbraccio replicato, espressivi di un’intimità di per sé evidente; il parlato, pleonastico, tace, gli subentra — quasi per una sorta di pudore o per una forma di corrispondenza — il motivo musicale. L’ordinarietà delle frasi trova bilanciamento nel silenzio che conferi-sce loro nuovo risalto, mentre il dialogo amoroso si intesse essenzial-mente di gesti10. Sono il corpo dell’attore, il suo movimento e la sua postura, a caricarsi di significatività, diventando soggetti espressivi della scena.

Se è alla sequenza del nono quadro, alla vitalità sensuale, alla feli-cità fugace e immotivata sprigionata dalla danza improvvisata da Na-nà che si è soliti attribuire l’affermazione di François Truffaut sull’intensità fisica, di gioia e di dolore, emanata da Questa è la mia

film — mostra l’entrata del cinema e l’insegna, dove si legge il titolo del film; si-tuazione, pertanto, inequivocabile. 10 A proposito dell’uso dei sottotitoli in questa scena, Godard affermò di averli in-seriti in fase di montaggio perché, girata tradizionalmente, la scena, per l’appunto, non «funzionava», non corrispondeva alle sue intenzioni: «Così pensai che biso-gnava “distanziarla” un po’, creando una sorta di effetto cartolina tramite dei sot-totitoli»; cfr. T. MILNE, Jean-Luc Godard and Vivre sa vie, in «Sight and Sound», vol. 32, n. 1, inverno 1962-63.

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Questa è la mia vita: un film in dodici quadri 19

vita, la breve scena del colloquio amoroso potrebbe meritatamente es-serle affiancata.

Didascalie e sottotitoli, dunque, producono nel corpo di Questa è la mia vita un’originale concomitanza di materiali eterogenei, general-mente considerati incongrui: allineandoli, manipolandoli, facendoli confliggere, dichiarandone la provenienza, mettendo a confronto pro-cedure Godard crea, per così dire, una “terza via”.

Della finzione e della realtà.

Un’altra categoria chiamata in causa dalla letteratura è la classifi-

cazione degli stili. Questa è la mia vita, infatti, si propone come film di “finzione”; le immagini delle vie di Parigi, dei passanti e delle pro-stitute, tuttavia, chiamano in causa il versante documentario. Godard non è nuovo a questo utilizzo dei materiali: fra i suoi mediometraggi, Una storia d’acqua (Une histoire d’eau, 1958) si segnala anche per lo sconfinamento fra documentario e finzione. Consideriamo i “dietro le quinte” di tale opera, nella versione fornita da Godard stesso. L’idea originaria è attribuita a Truffaut11, che intendeva realizzare una “sto-ria” (di finzione) riprendendo «alla maniera dei cinegiornali», nello scenario della regione parigina inondata dalle piogge:

Ecco come sono andate le cose. Io ero affascinato dalle inondazioni. Mi pia-ceva vedere di queste cose nei cinegiornali e mi dicevo: peccato che non vi siano degli attori in mezzo. Quando ci sono state delle inondazioni nella re-gione parigina sono andato da Braumberger per dirgli: Prendo Brialy e una ragazza. Datemi un po’ di pellicola, improvviseremo.12 Il progetto viene successivamente abbandonato, non individuando

il regista una linea direttrice per riorganizzare quanto ripreso libera-mente, senza un piano preventivo. A questo punto, se prestiamo fede alla vulgata, subentra Godard, il quale porta a termine il lavoro «mon-tando liberamente il tutto, senza troppo preoccuparsi dell’ordine con cui il film era stato girato». Il risultato è un film di finzione che rac-conta una storia d’amore «alla maniera dei cinegiornali», dove alle scene recitate si alternano (e, talvolta, si inseriscono nelle stesse in-

11 La regia, infatti, è firmata da entrambi, F. Truffaut e J-L Godard. 12 Testimonianza di F. Truffaut in A. FARASSINO, Jean-Luc Godard, Il Castoro Cinema, Milano, 2002 (1974¹), pp. 26-27.

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quadrature) campi totali dall’alto delle pianure allagate, immagini rea-li degli sfollati mentre cercano riparo sui tetti, di uomini impegnati a far fronte ad una situazione d’emergenza… insomma, immagini origi-nariamente concepite a testimoniare, atte più a documentare che a rac-contare e, quindi, legittimamente “classificabili” come tali.

Questa è la mia vita promuove un’analoga commistione. “Brani in stile documentario”, individuabili per la qualità dell’immagine, con-traddistinta da una maggiore impressione di autenticità nel suo darsi in carrellate effettuate — carpite — da un’auto13, si collocano, general-mente, in una posizione ben precisa, in apertura o in chiusura di qua-dro. Anziché confondersi liberamente con le riprese di finzione, come in Une histoire d’eau, sembrano, in Questa è la mia vita, disporsi su un piano a sé stante, quasi a segnare una distanza dalla diegesi (nel quinto quadro una dissolvenza in chiusura e in apertura marca la con-clusione del susseguirsi di carrellate sulle strade). Malgrado tale preci-sa assegnazione di spazi, talvolta si produce una zona ambigua in cui reportage e finzione convergono: accade quando l’esplorazione delle vie di Parigi si conclude con l’inquadratura del negozio di dischi dove lavora Nanà o alla fine della medesima sezione, che vede la macchina da presa letteralmente abbandonare la protagonista — sino a quel momento costantemente inseguita — per uscire e mescolarsi fra la gente nelle strade; ancora, l’undicesimo quadro si apre con una serie di carrellate successive su anonimi passanti. Nell’ultima si scorge, fu-gacemente, confusa fra gli altri, Nanà ripresa di spalle; indifferente, la macchina da presa la supera per posarsi su altre figure; solo un’inversione della direzione del movimento di macchina distingue questa carrellata dalle precedenti. L’integrazione di brani in stile do-cumentario si riscontra nel dodicesimo quadro; Nanà è in auto con Raoul e con altri due uomini: carrellate sulle vie ed i monumenti di Parigi, sulle code che affollano l’entrata dei cinema. Le riprese in que-stione sono inserite fra due dissolvenze in chiusura ed in apertura; sembra rinnovarsi, dunque, il ricorso ad una marca distintiva. Al con-tempo, il punto di ripresa (dall’auto) potrebbe, in questo caso, trovare giustificazione, da un punto di vista diegetico, quale soggettiva dei passeggeri (di chi sta osservando dal finestrino), confermata dai com-

13 Questi sommari indicatori inducono a distinguere, in Questa è la mia vita, i brani in stile documentario dalle riprese “di finzione” in esterni. Si confronti, ad esempio, l’inizio del quinto quadro con l’inizio del decimo.

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L’edizione italiana L’edizione italiana di Vivre sa vie, uscita con il titolo Questa è la

mia vita, presenta alcuni interventi rispetto all’originale. Non esisten-do una sceneggiatura di riferimento, strumento utile per la compara-zione delle due versioni è la sceneggiatura desunta pubblicata in«L’Avant Scène du Cinéma», n. 19, 15 ottobre 1962.

Nell’analisi dell’edizione italiana, le scelte di traduzione e gli in-terventi apportati sono stati confrontati con la traduzione italiana della sceneggiatura desunta francese contenuta in Jean-Luc Godard, Cinque film: Fino all’ultimo respiro, Questa è la mia vita, Una donna sposa-ta, Due o tre cose che so di lei, La Cinese, a cura di Gianni Rondolino, Einaudi, Torino, 1972. Esiste un’altra traduzione, pubblicata nella ri-vista «Film Critica» n. 130, febbraio 1963. In questa edizione, che ri-porta la formulazione «versione integrale del film», si trova la trascri-zione dei dialoghi della copia italiana, completati là dove risultano mutilati. Nessuna indicazione, tuttavia, segnala tali interventi di inte-grazione. Le due traduzioni si differenziano notevolmente.

Questa è la mia vita è distribuita in Italia da DEAR FILM; il dop-piaggio è stato eseguito negli stabilimenti Fono Roma con la parteci-pazione della C.D.C Westrex Recording.

La copia in pellicola visionata è conservata presso la Cineteca Co-munale di Bologna. La coda finale della prima bobina (corrispondente alla fine del terzo quadro) e l’inizio della seconda (quarto quadro) ap-paiono vistosamente danneggiate. Nella copia italiana il terzo quadro si interrompe bruscamente dopo la frase di Nanà «E le mie foto?» là dove il testo francese prosegue ancora con alcune battute

[Nanà] Et mes photos? [Il Giornalista] Vous restez avec moi, alors? [Nanà] Oui. Altrettanto bruscamente inizia il quadro successivo (il quarto) con

perdita della didascalia iniziale («La polizia. Interrogatorio di Nanà»)

Interventi L’uscita del film sugli schermi non é stata certo del tutto esente da

ostacoli. Già alla presentazione alla Mostra Internazionale d’Arte Ci-

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nematografica di Venezia il film viene proiettato, alla serata di gala, mancante di tre inquadrature, considerate “scandalose”. Benché una proiezione della versione integrale fosse stata riservata alla stampa ed alla critica, l’azione censoria sollevò non poche obiezioni nei riguardi dell’organizzazione della Mostra da parte dei corrispondenti francesi.

Bien que la “Mostra” ait séléctionné ce film, Jean-Luc Godard a été contraint par la direction du Festival de couper trois plans jugés choquant pour la pre-sentation en soirée de gala. La presse, dans la journée, a pu néanmoins voir Vivre sa vie dans la version integral. Yvonne Baby, Au festival de Venise: un portrait de femme dans le film de Jean-Luc Godard, Vivre sa Vie, “Le Monde”, 30 agosto 1962. Le film de Godard (qui a d’autre part reçu le Prix Pasinetti de la Critique Ita-lienne), j’avais craint qu’il ne fût pas compris au Lido. Il y fut un peu chahuté le soir de gala par des ignorantins, dont la Mostra avait pourtant ménagé la tartufferie, en coupant (scandaleusement) deux ou trois plans trop “osés”. Georges Sadoul, Venise 1962: Festival decevant, in «Les Lettres Françaises», 13-19 settembre 1962 Dall’intervista a Jean-Luc Godard apparsa in «Film Culture» n.

261 emerge che le immagini incriminate mostravano dei nudi integrali. Da quanto riportato si può ipotizzare che i tagli si riferiscano al deci-mo quadro quando Nanà, alla ricerca di una ragazza libera per un in-contro a tre con un cliente, apre alcune porte delle stanze dell’albergo, rivelando, appunto, dei nudi di donna. Sono questi gli unici nudi inte-grali del film, i quali, peraltro, mantengono, nella copia distribuita in Italia, la striscia censoria. Sorte analoga fu riservata alla copia distri-buita in Gran Bretagna dove fu addirittura eliminata l’intera sequenza.

Nella versione italiana compaiono pochi altri interventi, general-mente non di grande rilevanza:

scompare la dedica iniziale ai film di serie B; nel sesto quadro, il termine “un grog” è sostituito “una birra”, caso

frequente di “italianizzazione”2 (e, tuttavia, l’ambientazione originaria è Parigi…)

1 L. BRIGANTE, Venice - 1962, in «Film Culture» n. 26, inverno 1962. 2 È abbastanza frequente verificare tali sostituzioni: in Fino all’ultimo respiro, si-garette “Luky” divengono “Muratti”, un “direct”, un “Martini dry”. A volte, nelle sostituzioni, ne guadagna “il buon nome italico”: sempre in Fino all’ultimo respi-

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Settimo quadro. Particolare delle mani di Nanà che sta scrivendo una lettera, la m.d.p segue le parole mentre vengono tracciate sul fo-glio bianco. Nel corso della stesura della lettera vi sono due brevi stacchi sulla donna: nel primo scorgiamo Nanà pensosa mordicchiare l’estremità della penna, nel secondo stacco, dopo le parole «je mesu-re», vediamo Nanà, alzatasi, misurarsi l’altezza a spanne; infine, l’inquadratura ritorna sul foglio dove la frase interrotta viene comple-tata con «un mètre 69». Nella sostituzione della sequenza nella ver-sione italiana il secondo stacco viene perduto, la lettera viene termina-ta in continuità.

Nell’ottavo quadro la risposta alla domanda di Nanà «Avrò una camera mia?» è modificata nella prima parte, attenuando una certa crudezza dell’originale.

Les draps le plus souvent ne sont même pas changés, entre deux locations, mais seulement le linge de toilette. Dans certains hôtels, les lits ne comportent pas de couvertures, mais seulement le drap de dessous. La prostituta si avvale in genere di alberghi di terz’ordine che però possono variare a seconda del suo rango. In certi alberghi i letti non hanno coperte ma soltanto lenzuola. Nono quadro. La richiesta del giovanotto alla ragazza del bar:

«Vous avez du bleu? Il y en n’a plus» trova traduzione con «Un pac-chetto di Gauloises», mentre la frase «Non ce n’è più» viene pronun-ciata dalla ragazza del bar. La traduzione della sceneggiatura desunta francese in Cinque film… riporta: «Ha del gesso?...non ce n’è più». L’intervento, sebbene di non grande rilevanza, disturba un poco il pro-seguo della scena: il ragazzo ritorna alla sala superiore dopo aver sa-puto che non ci sono sigarette disponibili. Immediatamente dopo, tut-tavia, Nanà avanza la stessa richiesta, ottenendo dalla ragazza del bar risposta affermativa. Parimenti, seguendo la traduzione, non ci si spie-ga perché il giovane, in seguito, scenda a procurare delle sigarette a Nana (quando, invece, non avrebbero dovuto esserci).

Alterazione considerevole è quella operata nell’undicesimo quadro

che viene drasticamente decurtato, riducendosi alla metà dell’originale. Di opposta traduzione una frase: all’affermazione di Nanà: «Però sarebbe piacevole vivere senza parlare!», Brice Parain

ro, l’amico/complice di Michel Poiccard, “Berruti”, si trasforma in “Bariaga”, ac-quisendo, al posto della prevista nazionalità italiana, nazionalità spagnola.

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risponde: «Sì, sarebbe bello… sarebbe bello, in fondo… è come se non ci si amasse più… Solamente non è possibile. Non ci si è mai ar-rivati» (traduzione in Cinque film…). In Questa è la mia vita la rispo-sta si muta in «Sì, sarebbe bello… sarebbe bello… sarebbe come se ci si amasse di più… Però non è possibile, non ci si è mai riusciti». Il sonoro “sporco” rende difficile stabilire con assoluta certezza quale sia corretta; la sceneggiatura desunta francese avvalora quella del doppiaggio.

Riporto di seguito la versione originale della sequenza eliminata e la corrispondente traduzione italiana riportata in Cinque film…. Due asterischi in apertura e in chiusura (“**” / “**”) segnalano la par-te della sequenza che non compare nella versione italiana doppiata.

Versione originale francese Versione italiana integrata

B. P.: Il y a ça… Mais nous les trahissons aussi. On doit pouvoir arriver à dire ce qu’on a à dire, puisqu’on arrive a bien écrire… ** Enfin, c’est tout de même extraordinaire qu’un… qu’un bonhomme comme Platon, on puisse encore tout de même le com… C’est vrai qu’on le com-prend, on peut le comprendre. Et pourtant, il a écrit, en Grec, il y a deux mille cinq cents ans. Enfin, personne ne sait plus la langue de cette époque-là, c’est pas vrai, on ne sait plus exactement. Pourtant, il en passe quelque chose. Donc, on doit arriver à bien s’exprimer… Et il le faut. N.: Et pourquoi faut-il s’exprimer? Pour se comprendre ? B. P.: Il faut qu’on pense. Pour penser, il faut parler. On ne pense

B. P.: Sì… ma le tradiamo anche noi. Dovremmo dovere riuscire a dire quello che vogliamo dire perché si riesce bene a scrivere… ** Ed è ugualmente straordinario che un… che un uomo semplice come Platone, lo si possa ancora comprende. Eppure, ha scritto, in greco, duemilacinquecento anni fa. E nessuno conosce più la lin-gua di quell’epoca, non è vero, non la si conosce più esattamente, ma pur tuttavia, ce ne è rimasto qualcosa. Dunque, si deve riuscire a esprimersi bene… e bisogna farlo. N.: E perché bisogna esprimersi? Per capirsi? B. P.: Bisogna pensare. Per pen-sare, bisogna parlare. Non si può pensare diversamente. E per co-municare bisogna parlare, è la vi-

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pas autrement. Et pour communi-quer il faut parler, c’est la vie humaine. N.: Oui, mais en même temps, c’est très difficile. Moi, j’trouve que la vie devrait être facile au contraire. Vous voyez votre his-toire des Trois Mousquetaires, c’est peut-être très très beau, mais c’est terrible. B. P.: C’est terrible, oui, mais c’est une indication. Je crois qu’on arrive a bien parler que quand on a renoncé à la vie pen-dant un certain temps. C’est pres-que la… le prix N.: Mais alors, de parler, c’est mortel? B.P.: Oui, mais c’est une… Parler c’est presque une résurrection par rapport à la vie, en ce sense que, quand on parle, c’est une autre vie que quand on ne parle pas… vous comprenez ? Et alors, pour vivre en parlant, il faut avoir pas-sé par la morte de la vie sans par-ler. Vous voyez si, ce… je ne sais pas si je m’ explique bien, mais, euh… Y a une sorte d’ascèse en somme qui fait qu’on ne peut bien parler, que quand on regarde la vie avec détachement. N.: Pourtant, la vie de tous les jours, on ne peut pas la vivre a-vec… euh… j’sais pas moi… avec… B. P.: Avec détachement… Oui, mais alors, on balance justement. C’est pour ça qu’on va du silence

ta umana. N.: Sì, ma nello stesso tempo è molto difficile. Io trovo, al con-trario, che la vita dovrebbe essere facile. Vede, la sua storia dei Tre Moschettieri, può essere molto molto, molto bella, ma è terribile. B. P.: È terribile, sì, ma è un indi-zio. Io credo che si riesca a parla-re bene, quando si è rinunciato alla vita per qualche tempo. È quasi la… il prezzo. N.: Ma allora parlare è mortale? B. P.: Sì, ma è una… Parlare è quasi una resurrezione in rapporto alla vita; nel senso che quando si parla è una vita diversa che quan-do non si parla… capisce? …E allora, per vivere parlando biso-gna essere passati attraverso la morte della vita senza parlare. Vede, se questo…, non so se mi esprimo in modo chiaro, ma ehm,… C’è una specie di ascesa, insomma, per cui non si riesce a parlare bene se non quando si rie-sce a guardare la vita con distac-co. N.: Tuttavia la vita di tutti i giorni non si può viverla con… ehm. Non so… con… B. P.: …Con distacco… Sì, ma allora, si sta in bilico, per l’appunto. È per questo che si passa dal silenzio alla parola. Ci si bilancia tra i due, perché è un… è il movimento della vita che è… essere nella vita di tutti i giorni e poi elevarsi verso una vita…

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à la parole. On balance entre les deux parce que c’est un… c’est le mouvement de la vie qui est que… on est dans la vie quoti-dienne et puis on s’en élève vers une vie… appelons-là supérieure, c’est pas bête de le dire, parce que c’est la vie avec la pensée, quoi. Mais cette vie avec la pensée suppose qu’on a tué la vie trop quotidienne, la vie trop élémen-taire. N.: Oui, mais, est-ce que penser et parler c’est pareil ? B. P.: Je le crois! Je le crois… C’était dit dans Platon. Remar-quez, c’est une vieille idée… Mais je crois qu’on ne peut pas distinguer dans la pensée, ce qui serait la pensée et les mots pour l’exprimer. Analysez la cons-cience, vous n’arrivez pas à saisir autrement que par des mots, un moment de pensée. N.: Parler, alors ? C’est un peut risquer de mentir ? B. P.: Oui, parce que le mensonge c’est un des moyens de la recher-cher, je crois. Y a peut de diffé-rence entre… l’erreur et le men-songe. Naturellement, ne parlons pas du mensonge, cru, ordinaire, qui… qui fait que je vous dis “j’viendrai d’main à 5 heures” puis j’viens pas parce que j’ai pas voulu venir demain à 5 heures, vous comprendrez, ça c’est des… c’est des trucs. Mais le mensonge subtil, c’est souvent très peu dis-

chiamiamola, superiore, non è sciocco dirlo, perché è la vita col pensiero, in fondo. Ma questa vita col pensiero presuppone che si abbia ucciso la vita troppo quoti-diana, la vita troppo elementare. N.: Sì, ma pensare e parlare è la stessa cosa? B. P.: Lo credo! Lo credo… Era detto in Platone. Noti è una vec-chia idea. Ma credo che non si possa distinguere nel pensiero ciò che sarebbe il pensiero e le parole per esprimerlo. Analizzi la co-scienza, lei non riuscirà a cogliere un attimo del pensiero, se non con delle parole. N.: Parlare allora? È un po’ corre-re il rischio di mentire? B. P.: Sì, perché la menzogna è uno dei mezzi della ricerca, cre-do. C’è poca differenza tra… l’errore e la menzogna. Natural-mente non si intende la menzogna cruda, ordinaria, come… come se io le dico “verrò domani alle 5” poi non vengo perché non ho vo-luto venire domani alle 5, lei ca-pisce, questi sono… sono dei pic-coli inganni. Ma la menzogna sot-tile è spesso poco dissimile dall’errore. Qualcosa, si cerca, e poi non si trova la parola giusta. È quello che lei diceva poco fa, è perciò che le succedeva di non sapere più cosa dire. È perché in quel momento aveva paura di non riuscire a trovare la parola giusta. Io credo che sia così…

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tinct d’une erreur. Quelque chose, on cherche, et puis on ne trouve pas le mot juste. Et c’est ce que vous disiez tout à l’heure, c’est pour ça que ça vous arrivait de ne plus savoir quoi dire. C’est parce que à ce moment-là vous aviez peur de ne pas trouver le mot juste. Mois, je crois que c’est ça… N.: Oui, mais comment être sûr d’avoir trouvé le mot juste ? P: Ben, il faut travailler. Ça vient qu’ap… ça vient qu’ à la force, quoi… Dire ce qu’il faut, de fa-çon à ce que ça soit juste, euh… juste c’est-à dire que ça ne blesse pas, que ça dise c’qui faut dire, que ça fasse c’qui faut qu’ça fasse sans blesser, sans meurtrir. N.: Oui, au fond, il faut essayer d’être de bonne foi. Une fois, quelqu’un m’a dit : “La vérité est dans tout, et même dans l’erreur”. B. P.: C’est vrai! C’est vrai, c’est c’qu’on n’a pas vu tout de suite en France, je crois, au XVII siè-cle, quand on a cru que… on pouvait éviter l’erreur, non seu-lement le mensonge mais l’erreur… qu’on pouvait vivre dans la vérité comme ça directe-ment. J’crois que c’est pas possi-ble que… Pourquoi il y a eu Kant, il y a eu Hegel, la philoso-phie allemande, c’est pour nous ramener dans la vie, à savoir nous faire accepter, qu’il faut passer

N.: Sì, ma come si fa a essere si-curi di avere trovato la parola giu-sta? B. P.: Be’, bisogna lavorare. Ac-cade che… accade che a forza di… Dire ciò che che bisogna di-re, di modo che sia giusto, ehm!… giusto, cioè che non feri-sca, che dica quello che si vuol dire, che rappresenti quello che deve rappresentare, senza ferire, senza uccidere. N.: Sì, in fondo, bisogna cercare di essere in buona fede. Una volta qualcuno mi ha detto: “La verità è in tutto, e anche nell’errore”. B. P.: È vero! È vero, è ciò che non si è visto subito in Francia, credo, nel XVII secolo, quando si è creduto che… si potesse evitare l’errore, non solamente la menzo-gna, ma l’errore… che si potesse vivere nella verità così, diretta-mente. Io credo che non sia pos-sibile che… Perché c’è stato Kant, Hegel, la filosofia tede-sca… proprio per riportarci nella vita, per saperci far accettare che bisogna passare attraverso l’errore per arrivare alla verità. ** N.: E che cosa pensa dell’amore ? B. P.: Si è dovuto… si è dovuto ricorrere al corpo, questo è molto chiaro. Leibniz è ricorso al con-tingente…

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par l’erreur pour arriver à la véri-té. ** N.: Et qu’est-ce que vous pensez de l’amour ? B. P.: Il a fallu… il a fallu qu’on introduise le corps, et vous n’avez qu’à voir. Leibniz a introduit le contingent…

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