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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA Corso di laurea in Scienze della Comunicazione L’ÉLOGE DE L’AMOUR DI J-L GODARD: ANALISI E VALUTAZIONE DI UNA SCELTA COMUNICATIVA Tesi di laurea in Analisi della Comunicazione Visiva Relatore Presentata da Chiar.mo Prof. Paolo Leonardi Simona Staniscia Correlatore Chiar.mo Prof. Giacomo Manzoli Sessione III Anno Accademico 2004-2005

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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BOLOGNA

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

Corso di laurea in Scienze della Comunicazione

L’ÉLOGE DE L’AMOUR DI J-L GODARD:ANALISI E VALUTAZIONE DI

UNA SCELTA COMUNICATIVA

Tesi di laurea in

Analisi della Comunicazione Visiva

Relatore Presentata da

Chiar.mo Prof. Paolo Leonardi Simona Staniscia

Correlatore

Chiar.mo Prof. Giacomo Manzoli

Sessione III

Anno Accademico 2004-2005

2

INDICE

INTRODUZIONE p. 5

I. JEAN-LUC GODARD: ÉLOGE DE L’AMOURI.1.JEAN-LUC GODARD 11

I.1.1. Gli inizi 11

I.1.2. La Nouvelle vague 12

I.1.3. Gli «anni Mao» e gli «anni vidéo» 14

I.1.4. Gli «anni tra cielo e terra» 15

I.1.5. Gli anni della memoria 16

I.2. ÉLOGE DE L’AMOUR 21

I.2.1. Tematiche 21

I.2.2. Un film metalinguistico 22

I.2.3. La “storia” 26

I.3. MANIPOLARE LA MATERIA 34

I.3.1. Il video 34

I.3.2. Sperimentazioni di Godard 37

II. ASPETTATIVE DISATTESEII.1. LA SEQUENZA 42

II.2. LA DISSONANZA AUDIOVISIVA 43

II.3. CAMPO-CONTROCAMPO MANCATO 47

II.3.1. Forma e aspettativa 49

II.3.2. L’illusione di realtà 51

II.3.3. La croyance 52

II.3.4. L’illusione diegetica 54

II.3.5. Attrazione e “mostrazione” 58

III. BIANCO & NERO, COLORE: «EFFETTO QUADRO»III.1. LA SEQUENZA 62

III.2. IL “VALICO” 63

III.3. BIANCO & NERO VS COLORE 65

3

III.3.1. Il Bianco & Nero in Éloge de l’amour 68

III.3.2. Il colore al cinema 71

III.3.3. Il colore in Éloge de l’amour 73

III.4. FREEZE-FRAMES 76

III.4.1. Cinema e pittura 81

III.4.2. «Effetto quadro» 82

IV. SOVRAPPOSIZIONI DI IMMAGINIIV.1. DOPPIE ESPOSIZIONI 88

IV.1.1. La doppia esposizione:

tecnica e funzione 88

IV.1.2. Funzioni della doppia esposizione

nella fotografia 91

IV.2. DOPPIE ESPOSIZIONI IN ÉLOGE DE L’AMOUR 94

IV.2.1. Sartre, la Resistenza e gli Stati Uniti 94

IV.2.2. Funzione della doppia esposizione 98

IV.2.3. «Quando penso a qualche cosa» 100

IV.2.4. Sovrimpressione e fotomontaggio 103

IV.2.5. Il punto di vista 105

IV.2.6. Trasparenza, figura e sfondo 106

V. CONCLUSIONI 113

BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO 121

1 Cd in ALLEGATO con sequenze tratte dal film

5

INTRODUZIONE

L’oggetto d’analisi di questa ricerca è Éloge de l’amour, l’ultimo film

di un regista che ha bisogno di presentazioni: Jean-Luc Godard. L’opera

ha concorso al Festival di Cannes nel 2001, anno in cui vinse La stanza del

figlio di Nanni Moretti.

La genesi del film è lunga e travagliata: il primo contratto per i finanziamenti

con Canal plus, risale al 1996; Godard scrisse una prima sceneggiatura nel

1998 e iniziò a girare nel ’99, interrompendo le riprese più volte, fino a

filmare l’ultimo ciak nel 2001. Era stato concepito come l’ultimo film del XX

secolo, e invece diventò il primo del XXI.

In Italia non è mai uscito nelle sale, se non in qualche cinema d’essai,

naturalmente in lingua originale, con i sottotitoli. Non ne è stato distribuito

neppure il DVD fino all’inizio del 2006, ma risulta impossibile trovarlo.

L’interesse nei confronti di questa opera nasce per lo stupore e la sorpresa

destati dalla visione in sala. L’approccio non è dei più semplici, soprattutto

per le difficoltà legate alla lingua1 e alla fruizione schizofrenica che la

versione sottotitolata ingenera. La trama poco comprensibile, anche perché

quasi inesistente, non ha avuto la capacità di attirare l’attenzione di chi

scrive, tanto quanto, invece, lo sono state le immagini incantevoli che si

susseguivano sul grande schermo.

L’incontro con Éloge de l’amour è stato casuale ma anche voluto. Godard è

un regista che ha sempre fatto parlare molto di sé, e studi svolti in passato

hanno indotto la curiosità verso l’ultima opera di un artista tanto geniale

quanto insopportabile.

L’approccio metodologico che ci si propone di adottare si pone a

metà strada tra l’analisi della comunicazione visiva e l’analisi del film, nel

tentativo di integrare diversi approcci, considerate, soprattutto, le ampie

aree di sovrapposizione, al fine di creare un percorso che ponga

l’attenzione e la riflessione sugli aspetti comunicativi del film. Inizialmente

si pensava di concentrare l’attenzione sugli elementi propriamente visivi, e

in effetti essi sono il cuore della ricerca, ma è inevitabile prendere in

1 Le frasi tratte dal film, in francese e in inglese, sono state tradotte da chi scrive.

6

considerazione aspetti che fanno parte della comunicazione dei contenuti e

delle caratteristiche del modo di rappresentazione, nonché del

concatenamento delle immagini tra loro, dal momento che si analizzerà

un’opera d’arte che ha la propensione per il tempo, e non solo per lo

spazio, come Lessing ci insegna2.

L’analisi della comunicazione visiva è una materia nuova che solo negli

ultimi anni sta assumendo dignità accademica. È insegnata in corsi di studi

molto diversi tra loro, da quelli in psicologia a quelli in architettura e design.

Non esiste ancora una letteratura specifica di riferimento, ed è per questo

motivo che si è costretti a ricorrere a studi e ricerche tra loro molto

eterogenei. Faremo riferimento a studi specifici in comunicazione visiva,

quali quelli di Theo van Leewen e Carey Jewitt, Carlo Branzaglia, Ave

Appiano. Prenderemo in prestito nozioni definite e sviluppate nell’ambito

della psicologia della percezione, in particolare dagli studi di Gaetano

Kanizsa, Manfredo Massironi e Rudolf Arnheim. Faremo ricorso a idee

maturate nel campo della grafica, da Edward Tufte a Giovanni Anceschi; in

estetica e storia dell’arte, da Ernst H. Gombrich a Renato Barilli. Gli studi di

visual culture (Mirzhoeff in particolare) verranno considerati in modo molto

marginale.

Per quanto concerne l’analisi del film si prenderanno in esame le

componenti cinematografiche, con un’attenzione particolare nei confronti dei

cosiddetti “codici visivi”3. Facciamo ricorso alle definizioni di codice date da

Francesco Casetti e Federico di Chio. Esso è: a) un sistema di equivalenze

(a ogni segno corrisponde un dato significato); b) una serie determinata di

possibilità, «grazie a cui le singole scelte attivate arrivano a far riferimento

a un canone»4; c) un insieme di comportamenti stabiliti e riconosciuti come

convenzionali e quindi validi per tutti i componenti di una comunità. Il

cinema, ovviamente, non possiede codici forti come quelli delle lingue

naturali. Un’immagine, infatti, può voler comunicare più cose, ed è difficile

stabilire con certezza quale sia il suo significato. Tuttavia, nel cinema ci

sono degli insiemi di possibilità strutturate che diventano vere e proprie

2 C. Branzaglia, Comunicare con le immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p. 72.3 F. Casetti e F. di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, XIV edizione, 2004 (I edizione

1990), p. 62.4 Ibidem.

7

convenzioni (i sottocodici di cui parla Metz5). Vedremo, infatti, come Godard

sia pronto in qualsiasi momento a contravvenire a tali regole.

Il cinema rimane, comunque, un insieme di linguaggi, un medium,

pluricodicale6. Secondo Christian Metz 7 esistono dei codici specifici del

cinema, legati alle immagini in movimento, quali i movimenti di macchina e il

montaggio in continuità o discontinuo. Tra i codici condivisi con le altre

forme d’arte, invece, vi sono quelli narrativi, visivi e sonori.

Si analizzeranno i codici visivi (comuni alle opere d’arte visive statiche),

facendo ricorso agli studi di Francesco Casetti e Federico di Chio, David

Bordwell e Kristin Thompson, Roberto Nepoti, e Antonio Costa. Tra i codici

visivi si distingue tra diversi gruppi: quelli iconici, che regolano l’immagine

visiva in quanto tale. Essi riguardano la plasticità delle immagini, in cui

entrano in gioco i rapporti figura-sfondo; comprendono i codici iconografici,

cioè figure complesse ma convenzionalizzate, che Godard tende a violare. Il

secondo gruppo è quello dei codici della composizione fotografica, che

regolano l’immagine in quanto prodotto di una riproduzione meccanica della

realtà: si analizzano l’inquadratura, i margini del quadro, i modi di ripresa

(campi, piani e angolazione), l’inclinazione (il punto di vista della macchina

da presa), il bianco & nero e il colore. Al gruppo della mobilità appartengono

i codici che regolano l’immagine filmica in quanto immagine fotografica in

movimento.

Oltre ai codici visivi, si tratteranno elementi appartenenti ai codici tecnologici

(approfondiremo il discorso sul supporto di registrazione delle immagini di

Éloge de l’amour), ai codici sonori, ai codici sintattici (la messa in serie o

montaggio delle immagini, dentro e tra le immagini), ai codici grafici (in

modo marginale).

Si terrà conto, naturalmente, dell’analisi dei livelli della rappresentazione,

dalla messa in scena alla messa in quadro, dallo spazio cinematografico al

tempo cinematografico (soprattutto pause, ellissi, flashback e flashforward).

5 Vedi Ch. Metz, Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977 (Langage et cinéma, Paris,

Larousse, 1971), cit. in Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema edell’audiovisivo, Milano, Bompiani, 1999 (New vocabularies in film semiotics. Structuralism,post-structuralism and beyond, trad. It. di Alessandra Raengo), p. 69.

6 R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op.cit. p. 68.

7 Ch. Metz, Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977 (Langage et cinéma, Paris,Larousse, 1971), cit. in . Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema edell’audiovisivo, op. cit. p. 62.

8

Faremo ricorso a concetti della semiotica, agli studi di Charles S.

Peirce, e di semiotica del cinema, da Christian Metz a Roland Barthes; a

nozioni della linguistica, in modo particolare della teoria degli atti e delle

funzioni linguistiche di John H. Austin. Si terrà conto anche dei tratti

prosodici caratteristici del film.

Nel primo capitolo si ripercorrerà velocemente l’opera di J-L

Godard, dagli inizi fino agli ultimi lavori, soffermandoci sui film e i video più

importanti di una carriera molto lunga. Si parlerà più specificatamente di

Éloge de l’amour, delle tematiche in esso sviluppate in concomitanza con

un confronto con gli altri film di carattere “metalinguistico” del regista e con

rimandi alla sua pratica citazionista. Si tratterà, infine, del nuovo supporto

tecnologico, il video digitale, adoperato per la prima volta dal Nostro nel film

oggetto d’analisi.

I capitoli secondo, terzo e quarto sono l’analisi delle sequenze in senso

stretto. Esse sono state selezionate8 in base a criteri rilevanti da un

punto di vista visivo e percettivo, e anche per le caratteristiche ricorrenti in

esse. Sono quelle che ad una prima visione attirano lo sguardo dello

spettatore e lo colpiscono, e si cercherà di capirne il perché; si tenterà

un’interpretazione degli intenti comunicativi del regista. Ciò che salta agli

occhi sono il montaggio poco classico e discontinuo delle immagini; un uso

inconsueto del bianco & nero nella prima parte del film, e l’uso del colore

nella seconda parte; immagini spesso in controluce, e una serie

interminabile di effetti ottici quali il freeze-frame, la doppia esposizione, lo

zooming, i fast e slow motion, immagini sfuocate parzialmente o totalmente.

Le sequenze verranno descritte e analizzate con ordine variabile a seconda

della tipologia degli argomenti che verranno trattati.

Nel secondo capitolo si parlerà della dissonanza audiovisiva, enunciando

dapprima il concetto di diegesi e definendo le caratteristiche del suono. In

seguito si approfondirà il discorso sul concetto di illusione di realtà e quello

di aspettativa che esso presuppone; sulle modalità del découpage

godardiano e l’effetto di straniamento che esso produce.

8 Nel CD allegato vi è la selezione delle sequenze prese in analisi. Alla fine di ciascun

capitolo, fuori testo, è possibile osservare alcuni fotogrammi tratti dalle sequenze stesse.

9

Nel terzo capitolo si parlerà del passaggio dal bianco e nero al colore e

delle caratteristiche delle due modalità; della punteggiatura, del ritmo e delle

pause filmici; della tecnica del freeze-frame e dell’«effetto quadro» che esso

produce, con riferimenti ai legami tra cinema e pittura.

Nel quarto capitolo si tratterà della tecnica e della funzione di un

particolare effetto ottico: la doppia esposizione. Verrà approfondita la sua

funzione all’interno di Éloge de l’amour; si farà ricorso alla dicotomia figura-

sfondo e al concetto di trasparenza. Confronti e riferimenti alla tecnica del

fotomontaggio completeranno l’analisi.

Si giungerà, infine, alle conclusioni.

Buona lettura.

11

I. JEAN-LUC GODARD: ÉLOGE DE L’AMOUR

I.1. JEAN-LUC GODARD

I.1.1. Gli inizi1

Nato a Parigi nel 1930 in un’agiata famiglia ginevrina alto borghese (il

padre, Paul-Jean, era un noto medico e la madre, Odile Monod, era figlia di

Julien, il fondatore della Banca di Parigi e dei Paesi Bassi), Godard visse la

sua infanzia tra la Svizzera e Parigi, in cui si stabilì nel 1948, quando prese

il suo diploma al Lycée Buffon. In seguito si iscrisse alla facoltà di etnologia

alla Sorbonne. In quegli anni si occupava di arte e scrittura e iniziò

un’intensa frequentazione delle sale della Cinémathèque Français e del

Cinéclub del Quartiere Latino. Conobbe François Truffaut, Claude Chabrol,

Jacques Rivette ed Eric Rohmer. Insieme agli ultimi due iniziò ad occuparsi

di critica cinematografica sul mensile «La Gazette du Cinéma». Nel

frattempo aveva anche recitato in un film di Rivette. In quel periodo conobbe

André Bazin e iniziò a collaborare ai «Cahiers du cinéma», ma nel ’52 seguì

il padre in Giamaica. Viaggiò per un anno nei Paesi dell’America del Sud.

Nel frattempo i suoi genitori si erano separati. Egli, a corto di soldi, iniziò a

commettere furti in casa propria, tanto da essere mandato, dal padre

stesso, in una clinica psichiatrica, affinché lo tenessero sotto osservazione.

Nel 1953 la madre gli trovò un lavoro come manovale per la costruzione di

una diga in Svizzera. Fu l’occasione che gli fece fare il suo primo film,

Opération béton2, un documentario molto classico sulla costruzione della

diga, che poi vendette alla società stessa. Iniziò a scrivere anche per Arts.

In quell’anno morì sua madre in un incidente stradale. Si dedicò totalmente

alla critica sui due giornali e nel 1957 fece il suo primo film professionale,

Tous le garçon s’appellent Patrick (Charlotte et Véronique)3.

1 W. Winston Dixon (ed.), The films of Jean-Luc Godard, Albany, New York, State University

of New York Press, 1997, pp.8 e seguenti; A. Farassino, Jean-Luc Godard, Milano, IlCastoro, II ed. aggiornata 2002 (I ed. 1974), p.18 e seguenti.

2 1954, Svizzera.3 Francia.

12

I.1.2. La Nouvelle vague

Ai «Cahiers du cinéma» si raccoglie, sotto la guida di Bazin, un

gruppo di amici: Truffaut, Rivette, Rohmer e Godard. Teorizzano e

promuovono un nuovo modo di fare, vedere e vivere il cinema, definito

Nouvelle vague. Il cinema era considerato una continuazione della realtà e

della vita.[il cinema come] finestra aperta sul mondo, trasparenza del vero. Concezionedichiaratamente idealistica, nel suo identificare vita, realtà e immagine, eppure giàcorretta dalla consapevolezza che il cinema è anche un oggetto estetico, unprodotto industriale e simbolico di cui la continua frequentazione dei cineclub edelle cineteche consente di apprendere le regole e le convenzioni.4

Regole e convenzioni che, come vedremo, verranno puntualmente infrante

da Godard.

La nuova onda rifiuta il cinema come mestiere e si fa promotrice del cinema

come « “creazione”, risultato individuale di una genialità originaria, segno di

un soggetto che “si esprime”»5; insomma cinema come opera d’arte,

cinema come mezzo di espressione personale come se la cinepresa fosse

una penna con cui scrivere6; cinema d’Autore. Si reagiva contro il cinema

commerciale e preconfezionato, proponendo film a basso costo. Si hanno

piccole troupe che operano con attrezzature per lo più “leggere” e in

ambienti naturali. Si mettono in discussione, da un punto di vista formale, la

vocazione realistica del cinema e il modo specifico di raccontare,7

si auspica da un lato uno sguardo cinematografico nel quale realismo e finzione simescolino, e che riesca a rivelare il dato fenomenico (come aveva fatto il miglioreneorealismo italiano) e non a riprodurlo. Dall’altro lato, sul piano della narrazione simira a sottrarsi alla concatenazione obbligata dei fatti, facendo entrare nel raccontol’elemento casuale, attuando digressioni, accettando i tempi morti…dando spazioall’improvvisazione (reale o apparente). L’intento è quello di eludere le regole diuna retorica cinematografica accettata anche se non codificata, in particolare perquanto attiene al montaggio.8

I punti di riferimento, i modelli cui i registi della Nouvelle vague si ispirarono

erano Jean Concteau, Jacques Tati, Robert Bresson, Max Ophüls, Jean

Renoir, Roberto Rossellini. Molto lodati e ammirati erano anche Alfred

Hitchcock, Nicholas Ray e Howard Hawks.

4 A. Farassino, Jean-Luc Godard, op. cit., p.19.5 Ibidem.6 La caméra-stylo di cui Alexandre Astruc parlava nel suo saggio del 1948.7 G. Tinazzi, “La «nouvelle vague»”, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del

cinema, Torino, UTET, 2002, p. 214.8 Ibidem.

13

Godard è il più radicale del gruppo dei «Cahiers du cinéma». Egli tentò, fin

dall’inizio, una rifondazione del linguaggio cinematografico,9 con

l’intento di dare allo spettatore uno sguardo nuovo. Di qui gli innumerevoli

tentativi di stravolgere le regole del montaggio «classico», della continuità e

della consequenzialità; l’indugiare su elementi non necessari al racconto,

l’inserimento di lunghe e non sempre comprensibili digressioni e inserti non

diegetici10;la logica che lega gli elementi narrativi è incrinata o fatta saltare, si ha spessol’impressione del non finito…Permane l’intenzione di dare un quadro di unosbandamento di personaggi tipici…ma il peso è chiaramente spostato sullo stile…ilcinema tende a superare vecchi limiti, può raccontare una storia ma può spingersiverso il saggio: sul rapporto tra arte e vita…sulla politica…o sul cinema e la naturadell’immagine.11

Queste caratteristiche, come si vedrà meglio nei prossimi capitoli, sono

presenti nel cinema di Godard degli ultimi anni, forse, però con spirito e

intenti a volte differenti.

Il suo film-manifesto, e probabilmente quello che ha avuto più successo12

delle sue oltre 90 opere audiovisive13, è À bout de souffle (con Jean-Paul

Belmondo e Jean Seberg)14. È un film «tautologico, provocatorio, coltissimo

e disordinato, approssimativo e geniale»15. La sceneggiatura veniva

stravolta quotidianamente, ed erano ben accette, durante le riprese, tutte le

improvvisazioni. Gli “scavalcamenti di campo” la fanno da padrone insieme

ai raccordi a singhiozzo. «Il mondo di Godard è già e sarà sempre più un

universo disarticolato, fatto di oggetti e immagini autoreferenti»16. È il

periodo del cosiddetto «fuoco d’artificio»17 degli anni sessanta, quando

lavora con Raoul Coutard (notissimo direttore della fotografia), Agnès

Guillemot (al montaggio), Michel Legrand (per le musiche), Anna Karina,

protagonista di quasi tutti i film di questo periodo. Molto noti anche Le petit 9 Ibidem, p. 218.10 Ce ne occuperemo in modo più approfondito nei prossimi capitoli.11 G. Tinazzi, “La «nouvelle vague»”, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del

cinema, op. cit., pp. 219-220. Il corsivo è mio.12 G. Manzoli, Trenta passi nella storia del cinema, Bologna, Cinemalibero, 2001, p. 95.13 Sono compresi i film in pellicola e video, per il cinema e per la televisione.14 Fino all’ultimo respiro, 1959, Francia.15 G. Manzoli, Trenta passi nella storia del cinema, op. cit., ibidem.16 A. Farassino, Jean-Luc Godard, Milano, Il Castoro, 1996, I ed. aggiornata, vol. I, p. 37. Il

corsivo è mio. Cfr. con III.4.2.17 Si riprendono le schematizzazioni dell’opera del Nostro fatte da S. Liandrat-Guigues e J.L.

Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, Le Mani, 1998 (Jean-Luc Godard, Madrid,Cátedra, 1994, traduzione italiana di S. Arecco), pp. 11 e seguenti. Il periodo ai «Cahiers»è stato definito «apprendistato»), e da Godard stesso nei suoi scritti. Vedi Jean-LucGodard par Jean-Luc Godard, Paris, «Cahiers du cinéma», tomes I e II, 1998 (premièreedition 1995), raccolta degli scritti del regista effettuata sotto la direzione di A. Bergala.

14

soldat, Questa è la mia vita, Il disprezzo (con Michel Piccoli, Brigitte Bardot

e Fritz Lang), Due o tre cose che so di lei18. Le tematiche riguardavano per

lo più l’attualità: la guerra, la prostituzione, Parigi e la sua nuova veste

urbanistica, la società industriale; ma anche temi più universali come il

cinema classico vs il cinema moderno, l’amore e il tradimento. Questi anni

sono stati definiti da Godard stesso «anni Karina»: era sua moglie, infatti, e

anche protagonista della maggior parte dei suoi film di quel periodo,

appunto.

I.1.3. Gli «anni Mao» e gli «anni vidéo» (o laboratorio19)Il periodo «Mao» si apre con La cinese (con Anne Wiazemscky e

Jean-Pierre Léaud)20 in cui precorre i tempi, descrivendo le spaccature che

di lì a pochi mesi avrebbero caratterizzato la rivoluzione operaia e giovanile

del maggio ’68. Iniziava la riflessione sui rapporti tra linguaggio e politica,

arte e militanza. In Week-end21, per esempio, compie un’analisi della

società contemporanea. Nel febbraio del ’68 Henri Langlois (che verrà

nominato anche in Éloge), fondatore e direttore della Cinémathèque, viene

dichiarato decaduto dal suo mandato. Si fecero manifestazioni, cortei a

favore del suo ripristino, e tra le prime file c’era anche Godard. In questi

anni inizia a lavorare con partner eterogenei. Ricordiamo One plus one22, il

suo primo film inglese, un «ritratto dal vero»23 dei Rolling Stones , la rock

band londinese filmata in sala registrazione durante le prove di Sympathy

for the devil. È stata anche un’occasione per confrontarsi con la tradizione

della democrazia liberale britannica e per portare sul grande schermo i

movimenti di ribellione, come un gruppo di uomini di colore del Black Power.

Godard inizia a collaborare con Jean-Pierre Gorin, un militante marxista-

leninista, con il quale costituì il Gruppo Dziga Vertov, cui si devono tutti i

suoi film fino al 1972. Fare cinema significa fare politica, e Godard si annullò

come individuo e come autore. Tout va bien24 è firmato da Godard e Gorin,

18 Le petit soldat, 1960, Francia ; Vivre sa vie, 1962, Francia ; Le mépris, 1963, Italia-

Francia ; Deux ou trois choses que je sais d’elle, 1966, Francia.19 S. Liandrat-Guigues, J.L. Leutrat, Godard. Alla ricerca dell’arte perduta, op. cit. p.13.20 La chinoise, (1967, Francia).21 Week-end, un uomo e una donna dal sabato alla domenica , 1967, Francia-Italia.22 One plus one, 1968, Gran Bretagna.23 A. Farassino, Jean-Luc Godard, II ed., op. cit., p.117.24 Crepa padrone, tutto va bene con Yves Montand e Jane Fonda, 1972, Francia-Italia.

15

ma il gruppo era già stato sciolto. Protagonisti sono la classe operaia e i

suoi scioperi contro il padronato.

Il 1975 segna il passaggio agli «anni vidéo». Inizia la collaborazione

con Anne-Marie Miéville. Fonda la società di produzione Sonimage (a

Godard sono sempre piaciuti i giochi di parole: “suonoimmagine” o “la sua

immagine”), con sede a Grénoble. Vuole avvicinarsi al mondo dei media,

della comunicazione e delle nuove tecnologie. Alterna l’uso della pellicola a

quello del video. Nello stesso anno esce Numéro deux (in pellicola)25, in cui

Godard appare con tutta la sua attrezzatura video, con alle spalle dei

televisori; la sua figura svolge la funzione di cornice all’interno del film, in cui

compie delle riflessioni sulla realtà e la quotidianità. Il titolo indica due

coppie diverse: la prima costituita dall’attenzione neo-sociologica ora verso

la politica e la lotta sociale ora verso l’intimità della sessualità e dei rapporti

familiari, che in questo caso sono prevalenti. L’altra coppia è mediologica:

cinema vs video.26

Godard inizia a lavorare per la televisione (ricordiamo Six fois deux, noto

come Sur et sous la communication27). Le opere audio-visive di questi anni

sono le meno conosciute e le più sperimentali, soprattutto da un punto di

vista tecnico-linguistico (non a caso Godard afferma più volte di amare il

video perché non ha regole).

I.1.4. Gli «anni tra cielo e terra» o gli anni OttantaNel 1979 Godard e Miéville, compagni di vita da tempo, si

trasferiscono in Svizzera in una piccola cittadina sul lago di Ginevra. Sauve

qui peut (La vie)28 è il suo primo film “svizzero”, anche se è stato prodotto

dal francese Alain Sarde. Come accade poche volte nei film di Godard,

quella di Sauve qui peut «è davvero una storia, con classici espedienti

narrativi che collegano situazioni e personaggi»29. Tornano argomenti già

trattati: il cinema, il video, la prostituzione, rapporti familiari, violenze e

25 Francia.26 Cfr. con I.3.27 1976, Francia. Sei puntate divise in due parti ciascuna, in cui vengono trattati temi teorici o

politici, e ritratti e testimonianze private.28 Si salvi chi può (la vita), con Isabelle Huppert, Jacques Dutronc, Nathalie Baye, 1980,

Francia-Svizzera.29 A. Farassino, Jean-Luc Godard, II ed,op. cit. p.159.

16

sopraffazioni. L’uso frequente di ralenti30 è teso a scomporre i movimenti

delle corse in bicicletta verso la campagna svizzera di una delle

protagoniste, rivelandone la varietà pittorica e plastica.

In questi anni Godard partecipa a film collettivi e fa ancora video

sperimentali. Tuttavia rimane nella storia del cinema la nota “trilogia del

sublime” costituita da Passion (ancora Isabelle Huppert e Michel Piccoli),

Prénom Carmen e Je vous salue Marie (l’ironica rivisitazione del dogma

dell’immacolata concezione diventa una meditazione su cos’è la nascita e

cos’è l’amore).31 Dei primi due film elencati si parlerà meglio in seguito. Ciò

che accomuna i film di questi anni è la sceneggiatura in video, lo Scénario,che, solitamente, precede di un anno e accompagna ciascuno di essi.

Da sempre incapace di scrivere copioni, convinto che le immagini vengano primadelle parole, va oltre uno “story board”32 audiovisivo e realizza “sceneggiature” chesono opere autonome, versioni saggistiche o diaristiche della storia che ha spessoraccontato, quella di un film in corso di lavorazione. Provini di attori, ricerche eaccostamenti di materiali visivi e sonori, schizzi audiovisivi…diventano film-video digrande originalità e interesse. Certo, essi hanno anche una funzione pratica, sonotrailer o “demo” dei film che vuole produrre, destinati ai possibili finanziatori.33

In questi anni Godard fonda una nuova società, la JLG films. Gira con la

Miéville delle videoconversazioni; fa film su commissione per guadagnare

soldi per poi produrre altri suoi film. Alla trilogia succede un periodo di

incertezze e ripiegamento, con l’amarezza e la nostalgia per un cinema che

sta morendo a causa, secondo le sue dichiarazioni, della televisione, della

pubblicità e della moda. Lavora per la televisione ma con spirito critico, e

rappresentandosi come «un sopravvissuto, un vecchio artigiano o un folle

isolato in sogni e utopie»34.

Del 1987 ricordiamo King Lear (con Peter Sellars e una piccola

partecipazione di Woody Allen)35.

I.1.5. Gli anni della memoriaDi questi anni sono i film Nouvelle Vague (con Alain Delon),

Allemagne année 90 neuf zero, Hélas pour moi (Peggio per me), For Ever 30 O slow motion. Effetto che determina sullo schermo un moto più lento degli oggetti o delle

persone in movimento. Cfr. con III.4.31 Rispettivamente del 1982, Francia-Svizzera; 1983, Francia; 1984, Svizzera-Francia-Gran

Bretagna.32 Sono sceneggiature disegnate che seguono la sceneggiatura scritta e precedono le

riprese.33 A. Farassino, Jean-Luc Godard, II ed., op. cit., pp. 177-178. Il corsivo è mio.34 Ibidem, p. 188.35 Usa.

17

Mozart,36 per citare i più noti. I temi sono la sua autobiografia e la sua

memoria; il trascorrere del tempo e la melanconia; il destino dell’arte e della

cultura europea; le relazioni tra l’identità estetica e quella nazionale; l’etica e

la filosofia; la natura e lo stato dell’essere autori; la letteratura; l’evoluzione

dell’immagine visiva dalla pittura al film e al video; la velocità e la

tecnologia; il montaggio in video come nuova poetica.37

All’elenco si aggiungono le Histoire(s) du cinéma38, iniziate nel 1988 e

terminate dieci anni dopo. Sono quattro doppie puntate di trasmissioni

televisive (in video, quindi) prodotte da Canal plus. Esse non seguono

nessun ordine, né cronologico, né tematico, né narrativo. La cornice degli

episodi e dei personaggi che si avvicendano in libertà è la figura di Godard,

seduto davanti alla sua macchina da scrivere, alla moviola o in piedi a

fianco della sua raccolta di libri. Egli è presente anche come autore e

personaggio. L’intento era quello di raccontare la Storia del cinemasecondo lui, e le innumerevoli storie che la compongono, che

appartengono alla finzione o al mondo al di fuori di essa. Il viaggio avviene

attraverso immagini in successione, giustapposte o sovrapposte (anche in

base a logiche sconosciute e difficilmente comprensibili), perché l’immagine

è il mezzo con cui il cinema si esprime e attraverso cui esiste.Non vera storia dunque ma memoria, libera e personale, che procede peraccostamenti estemporanei di parole e concetti, per analogie e rimandi emotivi,echi e rime visive, raddoppiati dalle frequenti scritte spesso ritoccate e trasformatelettera per lettera. Il linguaggio della memoria è il linguaggio del video, la memoriaattuale del cinema, magari lacunosa e annebbiata ma personale, posseduta incasa, come i libri della biblioteca.39

È una Storia fatta di film, della visione di questi, che è destinata a diventare

film (o video) essa stessa.

Il cinema non è fatto solo delle storie dei film, ma anche delle storie di soldi

e degli industriali. Il cinema è anche storia della bellezza. Racconta il sesso

e la guerra, riproduce la vita e la morte. Il cinema ha anche delle grandi

colpe: la più grande è quella di non aver filmato i campi di sterminio. Le

Histoire(s) sono un tentativo di redimere il cinema da questo suo fallimento, 36 Rispettivamente del 1990, Francia-Svizzera; 1992, Francia; 1993, Francia-Svizzera; 1996,

Francia-Svizzera.37 M. Temple and J. S. Williams, “Introduction to the Mysteries of Cinema, 1985-2000”, in M.

Temple and J. S. Williams (ed. by), The Cinema alone, Essays on the Work of Jean-LucGodard 1985-2000, Amsterdam, Amsterdam University Press, 2000, p. 11.

38 Francia-Svizzera.39 Ibidem, p. 239. Il video è il linguaggio della memoria in Histoire(s) così come in Éloge. Cfr.

con I.3. e III.3.

18

della sua incapacità di diffondere le immagini di quell’atrocità affinché non si

ripeteranno mai più.

Il cinema, secondo Godard, non è un’arte o una tecnica, ma un mistero.Vediamo sullo schermo Hollywood rappresentata dal celeberrimo stemma

della MGM in sovrimpressione con il volto di Irving Thalberg, il noto

produttore; vediamo il potere dell’industria culturale statunitense e del suo

predominio nel cinema mondiale. Sullo schermo appare Lenin in un rimando

all’utopia sovietica; vediamo Hitler declamare; Charlie Chaplin ne Il Grande

dittatore, Brigitte Helm in Metropolis, Edmund Meshke, il bambino di

Germania anno zero. Sono immagini che rinviano alla Seconda Guerra

Mondiale, alla dittatura, all’Olocausto. Godard introduce moltissime volte

l’argomento guerra: nella prima parte della terza puntata, infatti, gli

argomenti sono la guerra civile in Jugoslavia e il cinema di guerra,

Baghdad, la Guerra del Golfo e la CNN, Spielberg e Auschwitz,

l’occupazione nazista, la Resistenza e la Liberazione. Godard sostiene

l’irresponsabilità etica del cinema nel momento critico della storia

contemporanea, contro la diffusione cancrenosa della televisione globale,

che coincide con la morte dei cinema nazionali....when TV and video, assassins of the cinematograph, became the veryinstruments with which to investigate that death, to measure and decide exactlywhat it was that cinema no longer is.40

Ricorda il cinema neorealista, la cultura e la lingua italiane. Non poteva

mancare la Nouvelle Vague, con la quale finisce la storia del cinema.

Godard cita anche se stesso, inserendo spesso scene tratte dai suoi film.

D’altronde, è perfettamente consapevole di far parte della grande Storia del

cinema.

Ricordiamo i tributi a Jean Vigo, con lo splendido primo piano di Dita Parlo

in L’Atalante, ad Alfred Hitchcock, Friedrich W. Murnau, Robert Bresson,

ecc. Tra un immagine e l’altra, forse sarebbe meglio dire tra una

sovrimpressione e l’altra, compaiono quadri di Seurat, Goya, Van Gogh,

Monet, Giotto, Gauguin, Renoir, ecc. Ma molto spesso il quadro diventa

nero, uno schermo di oscurità teso a conferire il ritmo alla successione di

40 M. Witt, “The death(s) of cinema according to Godard”, in Screen, vol. 40, n.3, Autumn

1999, cit. in M. Temple and J. S. Williams, “Introduction to the Mysteries of Cinema, 1985-2000” in M. Temple and J. S. Williams (ed. by), The Cinema Alone, Essays on the Work ofJean-Luc Godard 1985-2000, op. cit. p. 13.

19

immagini. Ciò che accomuna tutte le tipologie di piano sono le scritte

sovrimpresse. Si tratta in genere di commenti alle immagini, giochi di parole.

Cita Malraux, Wittgenstein, Heidegger, ecc.

Il cinema è veicolo di immagini e pensieri, soprattutto quelli di Godard. Il

cinema può pensare il secolo, quello della storia del cinema, quello della

storia nel senso tradizionale del termine.

Il cinema è visto come testimone privilegiato del passato; il video,

invece, è uno spazio fluido nel quale una forma di montaggio «neo-

cinematica»41, può offrire uno sguardo fulmineo e chiarificatore sulla Storia.

Ciò che differenzia il cinema dalla pittura e dalla letteratura, anche esse

testimoni di un’epoca e di vicende umane, è l’arte del montaggio delle

immagini e delle sequenze, nel tempo – attraverso la giustapposizione di

immagini - e nello spazio – attraverso le sovrimpressioni42. Il montaggio è

«the central, volatile, and essentially open-ended metaphor through which

Godard has developed his evolving ideas on the cinema and history».43

Godard riflette sulla visione e sulla capacità del cinema, fin dall’epoca del

muto, di rivelare il mondo, fisicamente e nelle relazioni sociali, degli uomini

con i propri simili, e nelle stesse relazioni “esistenziali” ognuno con il proprio

sé. Il cinema è come la giustizia: è un fascicolo che viene aperto e che

viene valutato.44 I film rappresentano le pressanti preoccupazioni del mondo

contemporaneo.

Godard stesso afferma chela grande histoire, c’est l’histoire du cinéma. C’est l’affaire du XIX siècle qui s’estrésolue au XX. Elle est plus grande que les autres parce qu’elle se projette et queles autres se réduisent. Foucault, quand il écrit l’Histoire de la folie, réduit la folie àça (il montre un livre). Quand Langlois projette Nosferatu, tu vois déjà les ruines deBerlin en 1944, il y a une projection. Donc, bêtement, je dis c’est la grande histoireparce qu’elle peut se projeter. Les autres histories ne peuvent que se réduire.45

La storia del cinema è l’unica storica, perché parla per se stessa; è la più

grande perché può proiettarsi ed essere proiettata. È la sola storia che può

41 M. Witt, “Montage, My Beautiful Care, or Histories of the Cinematograph”, in M. Temple

and J. S. Williams (ed. by), The Cinema Alone, Essays on the Work of Jean-Luc Godard1985-2000, op. cit., p.35. Traduzione mia.

42 Cfr. con il quarto capitolo.43 M. Witt, “Montage, My Beautiful Care, or Histories of the Cinematograph”, in M. Temple

and J. S. Williams (ed. by), The Cinema Alone, Essays on the Work of Jean-Luc Godard1985-2000, op. cit., ibidem, p. 48.

44 Intervista di Godard con Serge Daney, “Godard fait des histoires”, su «Libération», 26 dic.1988, in A. Bergala (ed.), Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Tome 2 1984 -1988,Paris, «Cahiers du cinéma», 1998, pp. 161-173.

45 Ibidem, p. 161.

20

essere raccontata attraverso i propri mezzi d’espressione; il cinema può

raccontarsi e raccontare la propria storia. Le altre storie hanno bisogno,

invece, di parole. La Storia è un racconto illimitato e interminabile, eppure è

stato fatto.

I mezzi scientifici usati per raccontare le Histoire(s) sono la metafora e il

confronto, una dialettica infinita tra le immagini e dentro le immagini. Ogni

immagine è una metafora, e la poetica di Godard si avvicina a quella di

Ejzenstejn. Risulta una serie di equazioni tra il cinema, l’immagine, il

montaggio, la metafora, l’arte. Allo stesso tempo, «se un’immagine guardata

a parte esprime nettamente qualcosa se comporta un’interpretazione non si

trasformerà a contatto con altre immagini, le altre immagini non avranno

alcun potere su di essa ed essa non avrà alcun potere sulle altre immagini

né azione né reazione».46

Il cinema serve come strumento per rappresentare la duplice e dubbia

natura delle relazioni storiche.Godard has attempted to absorb the properties and the devices of the new mediain order to renew the art of cinema. HISTOIRE(S) DU CINÉMA, while mourning thedeath of the medium, refashions montage in the light of televisual, video and digitaltechnology.The mixed use of film and video inspires a great breakthrough in cinematicrepresentation.47

L’innovatività del montaggio non si manifesta, quindi, solo in termini

concettuali, ma anche in quelli formali e di tecnica. Nelle Histoire(s) si arriva

alle estreme conseguenze che la registrazione, la proiezione e la visione

diventano parti di uno stesso processo interattivo e istantaneo.48

Il cinema di Godard è lavisualizzazione di un pensiero in movimento che non procede per giustapposizioniesplicative ma per sovrimpressioni ellittiche di nessi che lo spettatore deveinterpretare, decifrare, tradurre, ritrovare sotto le fibre delle immagini e dei suoni.49

«Le immagini sono un «vertiginoso labirinto visivo e sonoro…un immenso

caleidoscopio».50

46 Histoire(s), capitolo 2B.47 A. Wright, “Elizabeth Taylor at Auschwitz: JLG and the Real Object of Montage”, in M.

Temple and J. S. Williams (ed. by), The Cinema Alone, Essays on the Work of Jean-LucGodard 1985-2000, op. cit., p. 57. Il corsivo è mio.

48 Ibidem p. 59.49 R. Chiesi, Jean-Luc Godard, Roma, Gremese Editore, 2003, p. 9.50 Ibidem, p. 94.

21

I.2. ÉLOGE DE L’AMOUR51

I.2.1. Tematiche

Ci siamo dilungati nella trattazione delle Histoire(s) per diversi motivi.

Esse sono l’opera più importante tra quelle che precedono di pochi anni il

film che si è stabilito di prendere in analisi in alcune delle sue sequenze:

Éloge de l’amour, per l’appunto. Esso è diviso in due parti disuguali: la

prima, della durata di un’ora circa, girata su pellicola 35 mm in bianco &

nero, in cui vengono “narrati” gli avvenimenti del presente della diegesi, e la

seconda, di circa mezz’ora, girata con videocamera digitale a colori e poi

trasferita nel formato della pellicola, in cui vengono mostrati eventi

appartenenti ad un periodo antecedente a quello della narrazione, un lungo

flashback, quindi.52

Oltre che per una questione di vicinanza temporale, si riscontrano delle forti

somiglianze nelle tematiche. Quando si parla di Godard è difficile parlare di

storie, di catena di avvenimenti e relazioni. La frammentarietà è la

caratteristica principale del suo modo di fare cinema. Ecco perché è

preferibile parlare di contenuti, tematiche. Spesso i suoi film, infatti, hanno

un’impronta saggistica. Non raccontano, ma dicono. Rintracciare il profilo

che ricostruisce la sagoma è una prova ardua. In Éloge le frasi e i periodi

sono spezzettati; l’ordine delle immagini è sempre sfalsato rispetto alla

cronologia. C’è una cornice ma il quadro è scomposto in tasselli

difficilmente ricomponibili.

Éloge sembra essere una continuazione, soprattutto nello spirito che lo

anima, delle Histoire(s). Il filo rosso è la memoria, che «non ha obblighi,

ma solo diritti»53, la necessità per i popoli di possederla e la possibilità di

ricorrere ad essa. Anche il bianco & nero della prima parte del film è

memoria, «rivisitazioni di strade e di luoghi dei suoi primi film, di citazioni e

pensieri, di favole e miti»54; non si deve correre il rischio dell’oblio,

dell’invisibilità. Il passato è importante e non va dimenticato perché offre

51 2001, Francia-Svizzera.52 Per approfondimenti sul concetto di diegesi vedi II.2.; per quanto riguarda il flashback cfr.

con III.2. e III.3.3.53 Questa frase è pronunciata da Mr. Rosenthal in Éloge.54 E. Bruno, “Premessa” di Un altro sguardo è possibile. Tavola rotonda su Jean-Luc Godard,

in «Filmcritica» n. 521/522, anno LII, gen./feb. 2002, p. 4.

22

uno «strumento di interrogazione e svelamento del reale e della Storia»55;

«l’immagine, la sola capace di negare il niente e anche lo sguardo del

niente su di noi»56.

Il film si apre e si chiude a metà della storia narrata; finisce e comincia a

metà del film. Questa biforcazione è metafora di quella del XX secolo:

secondo Godard, la Seconda Guerra mondiale e la nascita della televisione

marcano una spaccatura tra un Prima e un Dopo.57

Al discorso sulla memoria se ne aggiungono altri comuni alle due opere

sull’identità di un popolo e le sue origini; sull’occupazione nazista in Francia,

la Resistenza; la Seconda Guerra Mondiale e i campi di sterminio; sui

concetti di storia e Storia; sugli Usa e la polemica contro la loro politica di

imperialismo democratico e culturale; la ragione dello Stato contro le ragioni

dell’amore.

I.2.2. Un film metalinguisticoIl cinema, secondo Godard, è un sistema rappresentativo che

rappresenta prima di tutto se stesso; esso è strutturalmente riflessivo.Il cinema è un sistema di scrittura che usa le immagini. La sua funzione sarà quindiquella di riflettere sul primo tipo di rappresentazione: l’immagine…Il cinema è cinema solo in quanto estrinsecazione palese e sistematica di suoistessi procedimenti, è una scrittura che ha per oggetto se stessa, unmetalinguaggio per definizione.58

In Éloge si compie una riflessione sul cinema. Esso rientra nella serie di film

«metalinguistici»59 di Godard, nel senso che si parla del cinema, come arte,

mezzo, forma, facendo del cinema. La storia è, infatti, quella di un film dafarsi.Edgar (Bruno Putzulu), un giovane autore, poco più che trentenne, ha in

mente di trattare, narrare uno dei quattro momenti chiave della relazione

amorosa: l’incontro, la passione fisica, la separazione, la riconciliazione.

Essi dovrebbero essere rappresentati, messi in scena da tre coppie: una

giovane, una adulta e una anziana. Un film sull’amore, Éloge de l’amour,

55 D. Dottorini, Un altro sguardo è possibile. Tavola rotonda su Jean-Luc Godard, op. cit., p.9.56 Questa frase è pronunciata nelle Histoire(s) e da Berthe in Éloge de l’amour.57 A. Taubin, In the shadow of memory, in «Filmcomment», vol. 38, n.1, gen./feb. 2002, pp. 50-

52.58 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 110.59 Il termine «metalinguaggio» è stato introdotto dalla logica contemporanea. Intende

distinguere tra il linguaggio che usiamo per parlare e quello che usiamo per parlare dellinguaggio.

23

appunto, era il progetto iniziale di Godard stesso, che finì per fare tutt’altro.

Il nostro film inizia con le immagini del casting di Edgar, che si divide tra il

suo studio e le strade di una Parigi di notte, città che Godard riscopre dopo

tanti anni. In uno dei primi quadri, vediamo il protagonista sfogliare un libro

dalle pagine bianche, quello dell’opera che deve ancora essere scritta.

Edgar è un autore che legge, studia, ricerca, ma si perde d’animo

facilmente. È spalleggiato e incoraggiato dal suo produttore, Mr.Rosenthal (Claude Baignères), mercante d’arte, il di cui padre, in società

con il nonno di Edgar, possedeva una galleria d’arte. I nazisti, durante

l’occupazione, si appropriarono delle opere che facevano parte della loro

collezione, e ora Rosenthal sta cercando di recuperarle. A differenza dei

produttori che compaiono in genere nei film di Godard, Rosenthal è una

persona colta, disponibile e aperta. A un certo punto, parlando con Mr

Forlani (Remo Forlani), un funzionario di un ministero non precisato, dice

«l’importante è che il ragazzo faccia qualcosa che vada al di là dei soldi».

Egli è rassicurante: nel suo studio riceve in tarda serata Edgar, il quale tenta

di spiegargli le sue difficoltà nella selezione degli attori, e nel concepimento

della sua opera. Rosenthal cita Picasso, «io non cerco, trovo!», cercando di

dargli fiducia e tranquillità. Hanno un rapporto particolare: Edgar è molto

giovane e Rosenthal, affascinato dalle arti e dalla storia, lo sprona,

assumendo talvolta un atteggiamento paterno. In qualche modo erano legati

dal fatto che Rosenthal, prima della guerra, si innamorò della figlia del socio

in affari del padre, forse la madre di Edgar. Ma ella le preferì un altro.

La difficoltà più grande che Edgar incontra nel suo progetto è trovare attori

che incarnino bene il ruolo degli adulti. Ma non si trovano perché gli adulti

non esistono se non attraverso una storia da raccontare, e correrebbe il

rischio di essere banale come i film di Hollywood con Julia Roberts o i film

porno. Edgar sembra inorridire di fronte all’idea di una storia, come Jerzy in

Passion (lo vedremo meglio tra poche righe); egli vuole raccontare la Storia

d’amore, l’Amore, con la S e la A maiuscole che stanno ad indicare la

grandezza e la validità universale dei concetti.

Ma «la maggior parte delle persone ha il coraggio di vivere la propria vita,

ma non di immaginarla. Come posso farlo io al posto loro?», Edgar

domanda a se stesso.

24

Un’altra difficoltà è legata anche all’attrice che dovrebbe interpretare il ruolo

della donna nella coppia di adulti. Si erano incontrati due anni prima, ed ella

«sapeva dire le cose» (scopriremo dopo molto che il suo nome è Berthe,

interpretata dall’attrice Cécile Camp). Edgar vorrebbe che la sua

protagonista fosse come Simone Weil o Hanna Arendt, del loro stesso

spessore, della loro stessa incisività e profondità. Ma è chiaramente

un’impresa difficile.

Tentando un parallelo con le altre opere metalinguistiche di Godard,

incontriamo autori o registi come Fritz Lang ne Il Disprezzo, il quale incarna

se stesso e il cinema classico. Egli è autorevole, colto, ormai vecchio e

rassegnato all’idea di dover sopportare l’arroganza di un produttore come

Prokosch, che ha l’unico scopo di fare soldi, anche attraverso le scene di

nudo. Il produttore aveva commissionato a Lang una versione

cinematografica dell’Odissea. Per il grande regista significava mettere in

scena il paesaggio mediterraneo, l’armonia dell’uomo con la natura. Ma il

produttore americano (già qui era aperta la polemica con Hollywood e gli

Usa), non condivide questa chiave di lettura, e commissiona a Paul Javal,

uno sceneggiatore di film di basso livello che ambisce a diventare un

grande scrittore per il teatro, l’incarnazione dell’intellettuale-servo, di

riscrivere la sceneggiatura. Egli tenta di rileggere l’opera originaria come

una crisi coniugale tra Penelope e Ulisse, specchio della disgregazione del

suo matrimonio con Camille. Quindi il cinema classico che si scontra con

quello moderno, ed è interessante che Godard faccia pronunciare proprio a

Prokosch, di fronte agli studi di Cinecittà deserta, parole sconfortanti sulla

fine della settima arte.

I rapporti tra regia e produzione sono sempre difficili e problematici. Lang,

tra le sue perle di saggezza, dice: «un produttore può essere amico del

regista, ma Prokosch non è un produttore, è un dittatore».

Anche la storia di Passion è un film da farsi e si divide, come Il disprezzo,

tra vita moderna e classicità.60 Jerzy è un regista polacco che vuole mettere

in scena, ricostruendoli, dei quadri celebri61 mai il suo produttore, come la

60 In comune tra i due film è anche la presenza di Michel Piccoli e l’eterogeneità linguistica.61 La ronda di notte di Rembrandt, La maya nuda, Le fucilazioni del 3 maggio 1808, e La

famiglia di Carlo IV di Goya; L’ingresso dei crociati a Costantinopoli e La lotta di Giacobbecon l’Angelo di Delacroix; La piccola bagnante di Valpinçon di Ingres; L’Assunzione di ElGreco; il Pellegrinaggio all’isola di Citera di Watteau.

25

segretaria, si preoccupano perché egli non ha una vera storia da

rappresentare. Ciò che invece preme di più al regista è trovare la luce

buona, che ha il potere di rendere visibile ciò che non lo è. Egli ricerca

l’armonia e la bellezza suprema dei capolavori; cerca la vita, e non vuole

sottoporsi a regole né a storie, poiché le storie, «prima di inventarle bisogna

viverle; bisogna vederle le cose prima di parlarne!»62. Paul Javal, invece,

prendeva spunto da letture e idee di altri autori, e anche questo era motivo

del disprezzo che sua moglie provava nei suoi confronti. Jerzy vuole

rappresentare dei tableaux vivants; Godard intende far vacillare l’istante

pregnante. Egli utilizza la pittura per evidenziare l’irriducibile alterità del

cinema:Tra il farsi e il disfarsi del tableau vivant, tra la composizione e la scomposizionedell’immagine del quadro passa tutto ciò che il cinema è...Mostra tutti gli scarti e tutte le differenze tra messa in scena (la realizzazione nellatridimensionalità dello spazio profilimico della scena rappresentata dal quadrocelebre, sia esso un Goya, un Ingres o un Rembrandt) e la messa in inquadratura(la parte o il frammento del tableau vivant che diventa inquadratura filmica, chetraduce nella bidimensionalità dello schermo la profondità dello spazio reale).63

Il tema è la convivenza ambigua di superficie e profondità. Come vedremo

nel terzo capitolo, Godard tenterà, però, un riavvicinamento alle arti visive

statiche, attraverso l’uso di effetti ottici particolari, anche se tradizionali.

Non si riescono a trovare finanziatori per il film, finché la MGM decide di

finanziare ma è necessario spostarsi in California, e Jerzy si rifiuta. Tra i

finanziatori, ve n’è uno italiano che si presenta con al seguito una starlet. Il

mondo della messa in scena, ciò che è di fronte alla macchina da presa, e

quello della vita reale inscenata, sono in netta contrapposizione. Nel primo

tutto è immobile, perfetto, sereno: la pittura classica, le musiche solenni. Al

di fuori, nel mondo delle relazioni umane, amorose e di lavoro, vige il caos:

cameriere acrobate, tentati omicidi, mariti malmenati dalle mogli, coltellate,

corse e rincorse, incontri e scontri, lingue diverse, balbuzie, intrecci di storie

e personaggi. La vita si infiltra continuamente nella rappresentazione,

provocando incongruenze infinite; viceversa, la rappresentazione stessa si

infiltra nella vita.64

Il mondo convulso della vita reale, tra sparatorie, rincorse e inseguimenti, è

anche nelle immagini di Prénom Carmen, anche qui la storia è quella di un 62 Parole pronunciate dallo stesso Jerzy.63 A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 319.64 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 117.

26

film da farsi. In Éloge, diversamente dagli ultimi due film citati, vige una

calma malinconica e riflessiva.

In Prénom compare Godard stesso, sotto le spoglie di un regista molto fuori

dalle righe. Così anche in King Lear, egli è un pazzo, scriteriato; una sorta

di guru che indossa sulla testa dei fili elettrici colorati. È un professore

esperto di arti visive, cui l’erede di William Shakespeare si rivolge perché gli

era stato commissionato di ricostruire le opere del suo antenato, distrutte,

insieme a tutta la cultura, dopo Chernobyl. Il professor Pluggy (è questo il

nome che Godard usa nella finzione) spiega che l’immagine è «una pura

creazione dell’anima. Ma ciò che conta non è l’immagine ma l’emozione che

provoca». Nel suo studio-abitazione giunge un altro personaggio, il

professor Quentin, che ha inventato l’immagine e si chiede se la parola

“realtà” non sia più adatta per definirla. Pluggy, invece, aveva inventato il

cinema, «qualcosa che nasce da ciò che distrugge». Cinema significa,

fondamentalmente montaggio. E dice:l’immagine non nasce dallo scontro ma dalla riconciliazione di due realtà cheinsieme dicono più che divise. Più distanti i collegamenti più forti diventano, piùimpressionano il potere. Due realtà che non hanno collegamento, non possonoessere collegate. Due realtà contrarie sono inconciliabili…un’immagine è forteperché l’associazione di idee è distinta e reale. Il risultato che si ottiene trasmetteimmediatamente il significato della creazione. Anzi è il segno principale dellacreazione, insieme ai collegamenti. Il potere e la virtù dell’immagine creatadipendono dalla natura di questi collegamenti. Ciò che è grande è l’emozione chel’immagine crea. L’emozione provocata è vera perché nasce al di fuori d’imitazioni,evocazioni, somiglianze.65

Godard-Pluggy crede nella superiorità dell’immagine rispetto alla parola,

detta o scritta che sia. Per vedere la bellezza di qualcosa non è necessario

dire che questo qualcosa è bello. L’immagine è diretta; la parola èmediazione.

I.2.3. La “storia”

È necessaria una prima precisazione. Nella prima parte della sua

produzione, Godard ha mantenuto lo schema di una storia, anche se

frammentaria, ma che giunge ad una conclusione. Il filo della narrazione si

perde nel periodo “maoista”, per poi esser recuperato da Si salvi chi può (la

vita) in poi, ma nuovamente dissolto in un andamento ellittico ed evocativo66

negli anni ’90. Ciò che più interessava in questo periodo era cogliere la luce 65 Parole pronunciate da Pluggy in King Lear. Il corsivo è mio.66 R. Chiesi, Jean-Luc Godard, op. cit., p. 10.

27

e l’energia degli eventi e riportarli sullo schermo. La frammentarietà e

l’estrema eterogeneità di Histoire(s) possiamo ritrovarla, con modalità

meno estreme, in Éloge.

Il nostro percorso nella “storia” del nostro film si era fermata alle difficoltà di

trovare un’attrice che incarnasse il ruolo dell’amante adulta.

Edgar entra in un cinema: proiettano Matrix e Pickpocket.67 Deve essere

una multisala; ci sono dei negozi e un atrio in cui si sta esibendo un

prestidigitatore. È allora che nell’oscurità Edgar dice «le cose sono là

perché inventarle?» come se l’ispirazione e ciò che deve essere

rappresentato non debbano essere costruiti né manipolati. Si ha già tutto ciò

che serve.

Insieme al suo fidato autista e consigliere, Philippe (Philippe Lyrette), si reca

alla stazione dei treni, dove lavora la donna che «sapeva dire le cose».

Edgar vuole parlarle della sua idea, del suo progetto, vorrebbe che lei

partecipasse, ma ella rifiuta, ancor prima di sapere di cosa si tratta. È una

donna decisa, forte, che non usa mezzi termini. Edgar le parla chiedendole

informazioni circa fatti che conosceremo solo verso la fine del film.

Anticipiamo soltanto che si parla di americani…

Dall’oscurità della notte ritorniamo alle luci opache del giorno. Nello studio di

Edgar la coppia di giovani prescelta fa delle prove. I due innamorati si

chiameranno Eglantine e Perceval. Edgar li segue, leggendo la sua

sceneggiatura. È il momento dell’allontanamento: nella finzione, Perceval

dice di amare talmente tanto Eglantine che è inutile desiderarla ancora,

perché lei sarà sempre lì: perché correre dietro a qualcosa che si ha già?

Perceval la lascia, quindi. È il solito problema dell’essere umano e della sua

perenne insoddisfazione e brama di possedere ciò che non ha. Ma arriverà

il momento in cui i due si incontreranno di nuovo per tornare insieme.

Il casting continua. Ad un altro aspirante attore nel ruolo di adulto Edgar fa

recitare un pezzo di Georges Bataille, da Le Bleu du ciel, in cui afferma che

niente è più contrario all’immagine dell’essere amato che quella dello Stato,

il ruolo del quale si oppone al valore sovrano dell’amore; dopo qualche

scena, Edgar esamina una signora; le fa leggere un brano, una sorta di

testamento morale di un condannato a morte, in cui l’autore scrive che gli

67 Rispettivamente, di Andy e Larry Wachowschi, 1999, Usa; Robert Bresson, 1959, Francia.

28

possono essere sottratti denari, proprietà, libri e immagini, ma né la

tenerezza né il coraggio verranno mai violati né giudicati.

Edgar si reca ad un reading sul tema della guerra in Kosovo. È una delle

sequenze meno comprensibili del film. In una sovrapposizione di parole in

francese e in americano si raccontano le esperienze drammatiche di chi ha

vissuto la guerra, della negligenza dei giornalisti nel non riportare delle

informazioni fondamentali, ecc. Dai racconti si coglie, solo prestando

estrema attenzione, che una bambina di dodici anni chiese di essere

condotta in ospedale, in modo che le fossero portati via i sogni, così come

successe alla madre, poiché ogni notte l’accompagnava verso il sonno, o

l’insonnia, l’immagine di trenta persone, compreso suo padre, uccise e

tagliate a pezzi di fronte ai suoi occhi. La guerra è terribile per tutti e,

banalmente, non ci sono vincitori né vinti, e le parti in conflitto sono capaci

di commettere, entrambe, atti terribili e mostruosi.

I rimandi ai suoi film (in Éloge la maggior parte dei riferimenti è alle

Histoire(s)) e a quelli di altri, le citazioni, sono sempre numerose nelle

opere di Godard. Rosenthal accompagna Forlani all’Hotel Inter-Continental,

lo stesso in cui alloggiano Carmen e la sua banda. Continental era il nome

di una nota casa di produzione cinematografica tedesca nella Francia

occupata.

Nella multisala di cui sopra vediamo le locandine di Matrix e Pickpocket; in

seguito, quando Edgar incontrerà Philippe casualmente, vedremo la

locandina de La mela68. Cita, oltre a Bataille, anche Sartre 69, Bresson,

Chateaubriand, Weil, Péguy, Sant’Agostino70. Vengono nominati Hugo,

Delacroix, Matisse, Bergson. Vediamo le copertine di libri di Étienne de la

Boétie, Christa Wolf.

Come in Passion vediamo dei quadri, che però non vivono che nella loro

cornice. Vediamo paesaggi, ritratti realisti, impressionisti ed espressionisti.

Ogni tanto sventolano delle bandiere a stelle e strisce, come fossero quelle

naziste all’epoca dell’Occupazione.

Parigi è vissuta di notte. Vediamo le sue fontane monumentali, le

strade del centro, i maestosi palazzi, che vivono in un tempo non definito

68 Sib, Iran/Francia, 1998, diretto da Samira Makhmalbaf.69 Cfr. con IV.2.1.70 Berthe pronuncia la massima secondo cui «la misura dell’amore è amare senza misura».

29

perché eterno. Edgar e Berthe si ritrovano su di un ponte sulla Senna, è

notte. I tempi della narrazione sembrano non corrispondere a quellidegli eventi effettivi. Dopo poco, infatti i due compaiono all’Île Seguin, di

giorno. Sta passando una barca e sentiamo in sottofondo la musica de

L’Atalante di Jean Vigo71. Nello stesso momento Berthe racconta che i suoi

genitori si erano suicidati quando ella aveva cinque anni.

Dall’altra parte del corso d’acqua c’è una fabbrica chiusa della Renault, «la

fortezza vuota», così la definisce Edgar. Berthe replica che il vuoto non

esiste, neanche nel silenzio. Non esiste neanche nella morte; quando essa

arriva si raggiunge il senso del proprio sé.72 Edgar pensava al passato

glorioso delle lotte dei lavoratori, dei sindacati. Rivolti verso la fabbrica, i

due rimangono di schiena rispetto alla cinepresa. Finalmente parlano del

progetto, ma subito cambiano discorso, e gli argomenti tornano personali.

Berthe ha un figlio ed è stata lasciata dal suo compagno, e in quel

momento, per lei, «les choses commencent à prendre un peu de sens»:

quando si arriva alla fine di un qualcosa si capisce e si dà un senso a tutto

ciò che è avvenuto precedentemente, come accadrà anche allo spettatore

nel momento in cui arriverà alla fine e, raccogliendo dati e informazioni,

compirà i collegamenti necessari. Almeno si spera che ci riesca. È un

processo implicito nell’analisi degli eventi storici, della Storia. Parlano del

loro primo incontro, due anni prima, in Bretagna. Berthe gli chiede se era

d’accordo con ciò che lei diceva - Godard non ci dà modo di intendere di

cosa si stia parlando. Edgar risponde di sì: anche per lui gli americani non

hanno un reale passato, e Berthe tiene a precisare che si tratta solo degli

americani del Nord, e non dei Messicani, dei Brasiliani, ecc. Gli statunitensi

non hanno memoria, «le loro macchine sì, ma non loro personalmente».

Ecco perché comprano il passato degli altri, soprattutto di coloro che hanno

fatto resistenza alle dittature e alle occupazioni, oppure vendono immagini

che parlano, ma «une image ne dit jamais rien»73. Lo spettatore vive, con

71 1934, Francia.72 Questo parallelo fra la morte e il senso proviene da Sartre e dal suo L’Essere e il Nulla, che

riprese anche P. P. Pasolini. L’idea è che la vita acquisisce un senso solo nel momentodella morte; questa, infatti, compie un «fulmineo montaggio della nostra vita» e «solograzie alla morte la nostra vita ci serve per esprimerci» (P.P. Pasolini, “Osservazioni sulpiano-sequenza”, in Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972, p. 241); in base a questostesso principio, è il montaggio, in quanto morte simbolica, ad attribuire un senso al film.

73 Frase pronunciata da Edgar.

30

molta probabilità, una confusione disarmante. I riferimenti sono a cose che

devono ancora accadere, ma che se sono già accadute.

Nell’inquadratura successiva Edgar, sempre di schiena, pronuncia la frase

che segue:quando penso a qualcosa in realtà io penso a un’altra cosa; non si può pensare aqualcosa se non si pensa a un’altra cosa. Per esempio, vedete un paesaggionuovo per voi, ma è nuovo per voi perché lo comparate, nel pensiero, a un altropaesaggio, antico, che già conoscevate.74

Poco dopo si vede Berthe in una cabina telefonica, mentre Edgar continua a

sfogliare il suo libro bianco. In seguito i due parlano al telefono, perché

Berthe voleva regalargli uno dei suoi libri, ma senza incontrarlo.

Edgar torna al suo casting, ma stavolta in una casa di cura per anziani. Qui

si prova una scena, quella in cui Eglantine e Perceval si riconciliano.

Nella scena successiva, Edgar è nuovamente solo, e passeggia lungo i

binari della ferrovia, mentre sfoglia il libro. Si ferma e guarda dentro

l’obiettivo. Ad uno sguardo in macchina e ad un flash velocissimo, seguono

l’incontro casuale con Philippe. Dal dialogo che i due hanno si evince che

Edgar aveva abbandonato il suo progetto, e si era allontanato da Rosenthal.

Ha ripreso, invece, l’idea, di due anni prima, di scrivere una cantata. Edgar

si stava recando in un caffè dove incontra un uomo, che scopriremo essere,

nella seconda parte del film, il nonno di Berthe, il quale doveva lasciargli il

libro, forse Le voyage d’Edgar di Edward Peisson, per conto di Berthe che

nel frattempo aveva deciso di morire.

A circa un’ora dall’inizio del film, le immagini in bianco & nero

diventano a colori. Sullo schermo le onde del mare di Bretagna diventano

color seppia, quasi arancione, e la spiaggia blu.75 Lo schermo diventa nero

e compare la scritta “DEUX ANS AUPARAVANT”. La storia quindi fa un

passo indietro nel tempo. Edgar, con un borsone in spalla, percorre a piedi

una strada di campagna. Alla sua sinistra c’è un cartello con scritto

“ATTENTION ENFANTS”. Edgar è un bambino che cerca di diventare

adulto (come diceva poco prima Philippe ad una sua amica «la sola

persona che cerca di diventare adulto»), e il suo percorso verso la maturità

e la consapevolezza di sé sembra iniziare proprio in quella situazione.

Un’automobile si ferma: un uomo era stato mandato perché lo

74 Cfr. con IV.2.3.75 Cfr. con III.2.

31

accompagnasse all’hotel in cui risiedeva Jean Lacouture, uno storico (nella

realtà come nella finzione, che mantiene il suo vero nome) a cui Edgar

aveva chiesto un incontro per delle ricerche che stava facendo per una

cantata su Simone Weil. I suoi studi vertevano sulla Resistenza

all’occupazione nazista in Francia durante la Seconda Guerra Mondiale e

sul ruolo dei Cattolici all’interno di essa. Ancora fermi sul ciglio della strada,

vengono interrotti da una ragazza americana che chiede informazioni circa

l’hotel verso cui anche Edgar era diretto. Si ritroveranno tutti lì dopo poco.

Edgar incontra Lacouture e iniziano a confrontarsi. Le immagini di questo

confronto si alternano a quelle dell’incontro con un veterano (anche egli di

nome Jean, interpretato da Jean Davy) della Resistenza, il quale, insieme

alla moglie, aveva venduto la propria memoria a Hollywood, per

guadagnare dei soldi che sarebbero serviti a mantenere in piedi il loro hotel.

Le scene sono, di nuovo, sfalsate rispetto alla cronologia effettiva: vediamo,

infatti, dapprima Edgar parlare con Lacouture e poi la scena dell’arrivo di

Edgar stesso all’hotel in automobile. In quello stesso momento arrivano la

ragazza americana e, in elicottero, un funzionario del dipartimento dello

Stato di Washington, incaricato dalla Spielberg Associates per l’acquisto

dei diritti sulla storia dei due resistenti per fare un film dal titolo Tristano e

Isotta, lo stesso nome della rete costituita da Jean e Françoise (Françoise

Verny) nel ’41. Il rappresentante di Washington dice a Françoise (la moglie

di Jean), Berthe, che scopriamo essere la loro nipote, e Jean Lacouture:

«Washington è il comandante della nave e Hollywood è solo lo steward», e

poi «trade follows films», cioè il cinema è l’avanguardia del commercio,

come già era stato detto nelle Histoire(s).

L’acquisto dei diritti avviene mentre Edgar parla con il veterano Jean, nella

sua stanza dalle pareti azzurre. «La Resistenza ha conosciuto la sua

giovinezza e la sua vecchiaia, ma non l’età adulta». Discorrono sulle età

della vita, sulla sensazione che il tempo passa e che c’è chi lo accetta e chi,

invece, no. Parole e concetti già sentiti nella prima parte del film. Vengono

interrotti da Berthe, vestita di giallo e rosso (le donne nei film di Godard

indossano spesso questi colori, da Camille de Il disprezzo a Carmen di

Prénom Carmen, solo per citare le più note). Jean racconta di essere stata

una spia per gli alleati, e di essere stato comunista. Fuori, in giardino una

32

barca dai colori rosso bianco e blu, è stato il mezzo con cui Jean aveva

attraversato il mare per la Liberazione. Sono i colori della patria e della

libertà. Jean legge anche dei passi da alcuni articoli di Sartre sulla guerra e

sulla libertà.

Nel salotto, intanto, un dipendente della casa di produzione cinematografica

legge le condizioni del contratto firmato per la cessione dei diritti. Berthe

ascolta. La sceneggiatura sarà scritta da un noto scrittore americano. A

questa affermazione, Berthe obietta:B - Lei ha detto “Scrittore americano”, ma a quali “americani” si riferisce?All’America del Sud?A - Agli Stati Uniti, naturalmente.B - Naturalmente…ma anche il Brasile è un’unione di stati; e i cittadini del Brasilesi chiamano brasiliani.A - No, dicevo gli Stati Uniti del Nord America.B - Anche gli Stati Uniti del Messico sono Nord America, e gli abitanti sono imessicani; quelli del Canada, canadesi. Di quali Stati Uniti parla?A - Le ho detto, degli Stati Uniti del Nord.B - E allora, un abitante dei suoi stati uniti come si chiama? Vedete? Non avete unnome.

Non c’è da meravigliarsi, quindi, che un popolo, non avendo neanche un

nome, abbia bisogno delle storie di altri popoli, delle loro leggende. «Anche

voi, come noi, cercate le vostre origini…ma noi le ricerchiamo dentro noi

stessi, voi, invece, altrove: in Vietnam, a Sarajevo». Godard gioca ancora

con le parole: in francese, effettivamente, la parola “statunitense” non

esiste.76

Si torna a parlare di cinema. Seduto con Henri Roger77 al tavolo in un

ristorante, Edgar sostiene che non lo infastidisce il successo o il fallimento

di un film, ma tutto ciò che viene scritto su l’uno o l’altro. Ha più senso

parlare dei contenuti. Non bisogna confondere l’esistenza con la vita. Nella

scena successiva, difficile da collocare temporalmente, Berthe è in salotto

con la nonna e legge delle note di Bresson che Godard, molto

probabilmente, condivide: «colui che mette in scena o regista: non si tratta

di dirigere qualcun’altro, ma di dirigere se stessi»; «essere sicuri di avere

esaurito ciò che può essere comunicato attraverso l’immobilità e il

76 Tale polemica sugli americani e il loro nome ebbe inizio a una Conferenza Stampa del febbraio

del 1999. Vedi A. Bergala (a cura di), Jean-Luc Godard par Jean-Luc Godard, Paris, «Cahiersdu cinéma», tomes I e II, 1998, (première edition 1995). Cfr. con IV.2.

77 Colui che lo aveva condotto da Lacouture.

33

silenzio»;78 «lasciare che siano i sentimenti a condurre gli eventi e non

l’inverso». Sono frasi che si commentano da sole.

Berthe chiede a sua nonna per quale motivo continua ad usare il suo

cognome di battaglia, “Bayard”. Ella non risponde, ma forse è perché il

legame con il passato e la memoria è forte e incancellabile.

Il racconto fa un passo indietro. Vediamo Edgar parlare ancora con

Lacouture. Ciò che egli nota è che ci sono dei forti legami, storici, geografici

e politici tra la Francia e l’Inghilterra, e, di conseguenza, con gli Stati Uniti

d’America. Dopo le invettive alla nazione e al popolo statunitense, privo di

storia e identità, si rintracciano radici comuni.

Ma è ora, per Edgar, di tornare a Parigi. Berthe lo accompagna in

automobile fino alla stazione. Edgar è taciturno perché tra lui e la sua

ragazza era tutto finito, ed è incredibile come le cose prendano senso

quando finiscono. È in quel momento la Storia comincia. Queste parole le

abbiamo già sentite…

Dopo questa sequenza Edgar ricompare in sovrimpressione e ripete la frase

di cui sopra, ma senza rivolgersi a nessuno se non a se stesso, in un

monologo interiore.

Edgar è su un TGV ed è appena arrivato a Parigi. In mano un libro di

Chateaubriand, da cui legge un passo:ecco come tutto svanisce nella mia storia, e non mi resta nulla se non le immaginidi ciò che è passato così velocemente. Scenderò nei Campi Elisi con più ombre diquelle che un uomo, in tutta la sua vita, non abbia portato con sé.

E poi le parole riprendono dall’inizio.

Godard, differentemente dai suoi film degli ultimi venti anni, è

confinato ad un ruolo irrilevante: quello di un signore con il cappello che

legge un libro su di una panchina. Non è l’idiota di dostojevskiana memoria,

né il giullare di corte di Prénom Carmen o di King Lear. Tuttavia Edgar

sembra il suo alter ego, e non solo per l’assonanza del nome.

Éloge, quindi ha una trama molto debole, che si intuisce solo con molti

sforzi e profonda attenzione. Godard non ama raccontare storie; preferisce

accennarle e servirsene per avere la possibilità di esprimere le proprie idee.

Mancano coerenza e linearità interne visibili ed esplicite.

78 Citazione già presente nelle Histoire(s).

34

I.3. MANIPOLARE LA MATERIA

Come si è già detto in precedenza, la seconda parte di Éloge de

l’amour è stata girata con videocamera digitale e poi riportata su pellicola.

La modalità di produzione-registrazione cinematografica e le possibilità di

manipolazione che esso consente sono argomenti di fondamentale

importanza. Abbiamo già visto come Godard abbia fatto sempre ricorso,

dagli anni ’70 del secolo scorso in poi, all’uso del video. Éloge sancisce una

svolta dal momento che è la prima opera in cui Godard usa la modalità

digitale. Tuttavia, l’uso che egli ne fa non è dissimile da quello del

tradizionale video analogico.

I.3.1. Il video

Il cinema è, come sappiamo, un mezzo fotografico. Le immagini

risultano da modificazioni chimiche su uno spezzone di pellicola che

reagisce alla luce; il video digitale, invece, campiona i raggi di luce delle

scena e codifica numericamente i valori del loro voltaggio.79

Un’immagine video può veicolare molte meno informazioni di un’immagine di unfilm in pellicola. Quest’ultima può trasmettere maggiori dettagli di luce, colore egrana grazie a un efficace fattore di contrasto (contrast ratio), termine che definisceil rapporto fra le aree più chiare e più scure dell’immagine. Mentre la videocamera èin grado di produrre un fattore di contrasto al massimo di 30:1, il negativo di un filma colori può arrivare a 120:1.80

La parola “video” deriva, com’è facilmente intuibile, dal verbo latino

videre, cioè vedere, inglobandone tutta l’azione costituiva che esso implica.

Philippe Dubois81 usa la parola composta “ Vidéo-Janus” per definire

l’intrinseca ambivalenza del mezzo. Esso ha una doppia faccia, in quanto

immagine e in quanto processo come puro dispositivo tecnico. L’immagine

video tende alla bidimensionalità82: più che di profondità di campo si

dovrebbe parlare di “spessore” intrinseco, della materia e del tessuto

dell’immagine nella sua nuova consistenza tattile.83

79 D. Bordwell e K. Thompson, Cinema come arte, Milano, Il Castoro, 2003, p. 32.80 Ibidem.81 P. Dubois, “La question vidéo face au cinéma: déplacements esthétiques”, in F. Beau, P.

Dubois, G. Leblanc (sous la direction), Cinéma et dernières technologies, Paris, INA et DeBoeck & Larcier s.a., 1998, p. 192.

82 Cfr. con III.3.3., III.4.2. e IV.2.6.83 E. Poppe, “Vers une digitalisation du visual?” in A. Autelitano, V. Innocenti, V. Rei (a cura

di), I cinque sensi del cinema, XI Convegno Internazionale di Studi sul cinema, Udine, Ed.Forum, 2005, p. 49. Cfr. III.3.3., III.4.2.

35

Nasce, quindi, una nuova estetica, un nuovo linguaggio. Il funzionamento

della videocamera si basa sulla tecnologia elettronica: il digitale si

costituisce come una nuova forma di produzione-registrazione delle

immagini. Tutto iniziò con la “rivoluzione informatica” della fine degli anni ’80

del secolo scorso. Si passò dalla rappresentazione della realtà in analogico

a quella con la codifica binaria. Per analogia si intende la rappresentazione

mediante grandezze fisiche intese come varianti in modo continuo, quindi

attraverso grandezze fisiche come le onde della luce e del suono. Nella

rappresentazione digitale la rappresentazione della realtà avviene

attraverso delle cifre. L’immagine è costituita di pixels, ovvero picture

elements, unità di base di colore programmabile sul display di un computer

o in un’immagine digitale. Secondo Nicholas Mirzoeff84 l’immagine “a pixel”

ha anche degli spazi vuoti oltre che segnali elettronici, e le sue

caratteristiche sono, appunto, l’artificialità e l’assenza. «Essa è qui, e allo

stesso tempo non c’è…La vita nella “pixel zone” è necessariamente

ambivalente, e produce quella che si può chiamare “intervisualità”».85

Quando si tratta di modo digitale, solitamente, ci si riferisce ai film

d’animazione o ai film di fantascienza, in cui esso è utilizzato per creare e

rendere credibili oggetti non esistenti, ricreando le cosiddette realtà virtuali.

Godard, invece ne fa un uso più tradizionale, dal momento che crea degli

effetti speciali presenti già nel cinema pre-digitale, anche se essi venivano

ottenuti in maniera totalmente differente. La pellicola da impressionare (il

film) è, infatti, un supporto che ha una propria fisicità; il digitale, invece,

implica l’esistenza di dati e informazioni memorizzati in bit (binary digit cioè

cifra binaria). Godard compie una trattamento: l’elaboratore non crea

completamente l’immagine, ma analizza e modifica ciò che viene ripreso

dalla videocamera. Egli cristallizza le immagini in freeze-frames,86 le

rallenta, le velocizza, le sovrappone, le colora, le sfoca.

Ciò che caratterizza l’immagine digitale è la sua provvisorietà, la fluiditàpercepibile, come sottolineano gli stessi effetti ottici. Le immagini che

risultano dalle riprese sono quindi solo apparentemente analogiche; in

realtà hanno bisogno del tramite algoritmico, passando dal continuo del

84 N. Mirzoeff, Introduzione alla cultura visuale, Roma, Meltemi, 2002, p. 68.85 Ibidem, p. 69.86 Cfr. con III.4.

36

reale al discontinuo virtuale del pixel.87 Marco Gazzano scrive, citando

Restany, che:[le] caratteristiche dell’immagine video sono la «velocità, la flessibilità, la sintesi, ladurata»: di fatto l’immagine video riesce a contenere gli opposti…certe immaginisono «pulsanti» e altre corpose, quasi solide; alcune eteree e ambigue comel’acqua e altre gelide e luminose come il vetro… gioca sugli errori tecnici, come lagranulosità, la nebulosità, l’iper-colorazione…88

Michelangelo Antonioni sostiene che «in nessun campo come in quello

dell’elettronica, poesia e tecnica camminano tenendosi per mano»,89 per

due motivi: la tecnologia in questione permette uno straordinario livello di

controllo sul proprio lavoro, e poi la formulazione di un progetto compositivo

richiede implicitamente la formulazione di ipotesi concrete sul modo di

lavoro, sul processo di programmazione. Identificando poetica e modo di

produzione-registrazione dell’immagine nel progressivo assorbimento della

tecnica nell’opera, si arriva a pensare il film sotto forma di immagine e

non di testo, come se «il cinema realizzasse pienamente la propria

essenza, cioè il proprio specifico e la propria autonomia linguistica, nel suo

al di là tecnologico»90 cioè l’elettronica digitale.La relazione tra cinema ed elettronica digitale può anche essere descritta come latransizione da un modello processuale sintetico di codici eterogenei, ciò che nelcinema è infatti combinato, montato, nell’elettronica digitale è sintetizzato, mixato.91

Godard sostiene di cercare l’ispirazione con le immagini e non con la

scrittura, e l’uso del video è un modo per accostarsi all’immagine,92

possedendo la capacità di modificarla fino alle estreme conseguenze,

seguendo la propria creatività di autore.

Le grandi possibilità di controllo sull’immagine e di manipolazione che il

digitale consente, ricordano le stesse offerte dalla pittura. Secondo Costa,

l’immagine elettronica ci proietta “oltre il cinema”; l’immagine in movimento

e quella pittorica appaiono, paradossalmente, più vicine e affini. Lo spazio

87 C. Maltese, “Linguaggio analogico e linguaggio digitale”, in G. e T. Aristarco (a cura di), Il

nuovo mondo dell’immagine elettronica, Bari, Edizioni Dedalo, 1985.88 M. Gazzano, “La videoarte alla ricerca di un nuovo linguaggio”, in G. e T. Aristarco (a cura

di), Il nuovo mondo dell’immagine elettronica, op. cit., p. 107.89 A. Balzola, “Per una verginità postuma dell’ordigno audiovisivo”, in G. e T. Aristarco (a cura

di), Il nuovo mondo dell’immagine elettronica, op. cit., p. 125.90 Ibidem.91 Ibidem. Il corsivo è mio.92 J.L. Godard, “Sulla sceneggiatura” in G. e T. Aristarco (a cura di), Il nuovo mondo

dell’immagine elettronica, op. cit. pp. 152-156.

37

pittorico e quello filmico si integrano come la «costitutiva “artificialità” della

pittura e la “naturalità” della riproduzione filmica».93

La manipolazione elettronica sembra consentire questo avvicinamentodell’immagine cinematografica alla dimensione pittorica. Questo accade non tantoperché l’elettronica sia in grado di simulare i procedimenti della pittura (anche se la«coloritura» d’un pixel, cioè dell’unità minima di superficie d’un reticolo elettronico èpiù vicina alla stesura di una campitura di colore di quanto non lo sia la ripresacinematografica d’un paesaggio). Questo accade, piuttosto, perché l’immagineelettronica produce uno spazio strutturalmente analogo a quello della pittura, unospazio strutturalmente progettato e prodotto.94

Come i neo-impressionisti Seurat (spesso Godard cita i suoi quadri,

soprattutto nelle Histoire(s)) e Signac avevano affrontato il problema del

controllo punto per punto, sfruttando la discontinuità delle pennellate, con la

frammentarietà del divisionismo, e la mescolanza ottica di pigmenti puri,

così avviene nell’era digitale. Tuttavia, in quel caso, la posizione delle

pennellate non era determinata da coordinate spaziali numeriche e i valori

cromatici non corrispondevano ad una scala definita.95

I.3.2. Sperimentazioni di GodardDal 1974, Godard ha prodotto, come si diceva prima, più video che

film. Non è stato quindi un momento o un periodo come lui stesso definì gli

anni tra il ’75 e il ’79, ma un «modo di essere in generale, una forma del

vedere e il pensare che è attiva continuamente».96 Non è un semplice

oggetto né una tecnica, ma uno stato della materia; è un modo di

«respirare attraverso le immagini, di essere intimamente congiunti ad esse,

un modo di porre domande e cercare delle risposte…un modo di riflettere e

riflettersi sul cinema, in tutte le sue forme e stadi».97

Philippe Dubois compie una classificazione dei diversi usi che Godard ha

fatto del video, distinguendo tra i video che ritroviamo nei film (per esempio

Numéro Deux), video in televisione (Six fois deux), video prima del film (i

vari scénarios), video dopo il film, video della pellicola (Grandeur et

décadence d’un petit commerci de cinéma), video su film, cinema o

93 A. Costa, Il cinema e le arti visive, op. cit., p.149.94 Ibidem, p.151. Cfr. con III.4.95 Vedi E. Couchot, “La sintesi numerica dell’immagine. Verso un nuovo ordine visuale”, in R.

Albertini e S. Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico,ETS Editrice, Pisa, 1988.

96 P. Dubois, “Video Thinks what cinema creates. Notes on Jean-Luc Godard’s work in videoand television”, in R. Bellour e M.L. Bandy (ed. by), Jean-Luc Godard: son+image, NewYork, Museum of Modern Arts, 1992, p. 169). Traduzione mia.

97 Ibidem.

38

immagini in generale (Histoire(s)). All’elenco va aggiunto l’uso del video (in

questo caso digitale) all’interno del film, anche se la prima modalità viene

poi riportata alla seconda.

Le sperimentazioni più ardite cominciano proprio con l’uso del video. Le

grandi possibilità offerte dal nuovo mezzo implicano il mixing di immagini di

cui si parlava sopra, il collegamento tra di loro, come se le semplici

immagini non esistessero più. Ma non è sempre vero.

La scomposizione e ricomposizione conseguente delle parti offre una nuova

capacità, un nuovo potere del vedere. Non solo immagini su immagini, ma

anche sequenze rallentate o velocizzate, nitide o sfuocate. Il video si rivela

un mezzo per analizzare il cinema, l’immagine del cinema.

Il vantaggio dell’uso di questa modalità non consiste soltanto nelle infinite

possibilità che come strumento offre da un punto di vista stilistico e nella

composizione dei piani, ma anche nel suo essere virtuale (ciò vale per il

video digitale; quello analogico è impresso su nastro), nella possibilità di

tornare indietro e cancellare, e allo stesso tempo nella capacità predittiva,proiettiva, poiché consente di vedere il prodotto finale prima che esso sia

realmente finito.

Dubois dà un’interpretazione interessante della tecnica dello slow motion,

applicabile, a nostro avviso, a tutte le tecniche di manipolazione

dell’immagine:Video slow motion is controlled by the finger and the eye, and the operatordiscovers the effect live, at the very moment he executes the operation, which can,moreover, be altered any time he chooses, all the while watching the result showninstantaneously on the screen. And we’re aware (the spectator is here strictly insynch with Godard98) that with each manoeuvre, with each change in speed 99, wefeel violently the pleasure of a perceptual revolution…100

Si ritorna alla caratteristica tattile dovuta alla coordinazione di funzioni visive

e “manuali”, capacità mentali e motorie. Quest’idea, però, non è condivisa

da Godard:la numérique n’a pas été inventé pour la production, mais pour la diffusion…unepartie de l’image est perdue. Au nom de la diffusion, la qualité e la précision sontmoindres…

98 Su questo punto avremmo dei dubbi.99 O altro, dipende dal tipo di effetto che si intende ottenere.100 P. Dubois, “Video Thinks what cinema creates. Notes on Jean-Luc Godard’s work in video

and television”, in R. Bellour e M.L. Bandy (ed. by), Jean-Luc Godard: son + image, op. cit.,p.177.

39

Tout le monde dit que le numérique permet de faire ceci ou cela, sans jamais direce qui a été effectivement fait. Le numérique permet d’être libre, mais libre pourquoi faire? A quel moment ? En réalité , peu de choses changent.101

Ma l’anno dopo quest’intervista Éloge ha partecipato al Festival di

Cannes…

Nei suoi ultimi film e videothe cinematic image replicates the elemental quality of liquid or luminous waves,seismic tremors and subterranean echoes, “cardiac pulsing”, atomic explosions orgalactic bursts, not because it discovers the wellsprings of a universal knowledgebut because it communicates a sense of the materiality of language both visual andverbal.102

Anche se nelle Histoire(s)103 e anche in Éloge sostiene che «Le cose sono

là, perché manipolare un pensiero che forma una forma che pensa?» .

Più che essere montati, i piani del digitale sono mixati, come si evidenzierà

nella trattazione delle sovrimpressioni nel quarto capitolo. Esse

rappresentano il punto di raccordo formale con le Histoire(s). Il mixaggio

permette la simultaneità dell’immagine che viene “demoltiplicata” e

ricomposta, che segue una linea verticale, e non orizzontale come nel

montaggio sequenziale delle scene.104

Gli strumenti che il mezzo elettronico fornisce sono, per Godard, come i

pennelli di un pittore.105 La scelta dell’uso del digitale in Éloge è

fortemente legata a ragioni “pittoriche” e alla netta contrapposizione che

viene a crearsi tra il bianco & nero della pellicola e il colore acceso del

video. «La manipolazione è la medesima di quella del pittore che può usare

acquerelli, gessetti e colori ad olio, a propria scelta».106 Egli ama, infatti la

“fabbricazione personale”,107 perché, essendo un mezzo nuovo, non haregole. Tuttavia ritiene che il linguaggio numerico non sia stato inventato

per la produzione, quanto per la diffusione dei film. Prova ne è la qualità

101 E. Burdeau e C. Tesson, in Avenir(s) du cinéma, «Cahiers du cinéma», hors-série, aprile

2000, pp. 13-14.102 A. Wright, “Elizabeth Taylor at Auschwitz: JLG and the Real Object of Montage”, in M.

Temple and J. S. Williams (ed. by), The Cinema Alone, Essays on the Work of Jean-LucGodard 1985-2000, op. cit., p. 59.

103 Capitolo 3A.104 P. Dubois, “La question vidéo face au cinéma: déplacements esthétiques”, in F. Beau, P.

Dubois, G. Leblanc (sous la direction), Cinéma et dernières technologies, op. cit., p. 203.105 Vedi intervista a JLG di J-Y Gaillac, T. Morgue e J-P. Guerand, Hope springs eternal, in

«Filmcomment», gen./feb. 2002, vol. 38, n.1, pp. 53-54. Cfr. con III.3. e III.4.2.106 Ibidem.107 Cfr. Intervista a JLG di E. Burdeau e C. Tesson, Avenir(s) du cinéma, in «Cahiers du Cinéma»,

Hors-série, aprile 2000, pp. 8-19.

40

inferiore dell’immagine. Tuttavia l’oggettività della fotografia rimane, e a

essa si aggiunge la soggettività interpretativa della pittura.108

Molte volte, come si all’inizio, il video è stato il mezzo delle sceneggiature.

Attraverso gli scénarios Godard pensa il film. Il video diviene uno strumento

che gli consente di scrivere attraverso le immagini109: vedere è pensare,

e pensare è vedere; un’azione all’interno dell’altra, simultanee. Il videopensa ciò che il cinema crea.

108 Cfr. G. Youngblood, “Cinema elettronico e simulacro digitale. Un’epistemologia dello spazio

virtuale”, in R. Albertini e S. Lischi (a cura di), Metamorfosi della visione. Saggi di pensieroelettronico, ETS Editrice, Pisa, 1988. Cfr. con III.4.

109 P. Dubois, “Video Thinks what cinema creates. Notes on Jean-Luc Godard’s work in videoand television”, in R. Bellour e M.L. Bandy (ed. by), Jean-Luc Godard: son + image, op. cit.,pp. 169-185.

42

II. ASPETTATIVE DISATTESE

II.1. LA SEQUENZA

Il casting di Edgar è appena iniziato e lo pone da subito di fronte a

delle problematiche. Siamo condotti nello studio di Monsieur Rosenthal.

Egli, poco prima, stava discorrendo con Forlani, in presenza del

collaboratore Philippe e della cameriera vietnamita, di arte contemporanea,

di musei, di Edgar e di come si erano conosciuti casualmente. Come

abbiamo visto nel primo capitolo, il padre di Rosenthal e il nonno di Edgar

erano in società e possedevano una galleria d’arte. Rosenthal aveva dieci

anni ed era innamorato della figlia del nonno di Edgar, forse sua madre,

quindi. Ma lei gli preferì qualcun altro.

Godard intervalla questa scena con primi piani o dettagli dei quadri,

probabilmente quelli che si trovano nello studio-abitazione di Rosenthal.

Nelle diverse inquadrature dell’appartamento si riesce a scorgere un

pianoforte la cui tastiera è chiusa. Poco prima della sequenza che si

analizzerà qui di seguito, Edgar viene annunciato da una voce fuori-campo.

Subito dopo vediamo i tasti bianchi e neri del pianoforte “Schimmel”

campeggiare sullo schermo al centro del quadro in senso diagonale (vedi

fig. 1).

È un’inquadratura statica, nonostante la diagonale, la quale in genere

attribuisce un senso di dinamismo alle immagini, fisse o in movimento che

siano. Essa infatti mette «in movimento contemporaneamente sia l’asse

verticale che quello orizzontale, creando uno spostamento in due

direzioni».1 Nel nostro caso, si tratta della diagonale più “naturale” per la

lettura occidentale, poiché segue la direzione alto-basso e sinistra-destra. I

tasti in alto a destra appaiono sempre più fuori fuoco, sfumando

all’orizzonte.

Si sente una melodia suonata da un pianoforte, che continua anche dopo

che il pianoforte esce fuori dal quadro. Dapprima vediamo Rosenthal seduto

sul suo letto e la cameriera alle sue spalle.

1 C. Branzaglia, Comunicare con le immagini, Milano, Bruno Mondadori Editore, 2003, p. 44.

43

Nell’inquadratura successiva, la cinepresa riprende Edgar nello studio di

Rosenthal. Il protagonista espone le proprie perplessità circa l’essere adulti

e la necessità di avere una storia da raccontare con loro protagonisti al fine

di comunicare qualcosa, contestualmente all’opera cinematografica che sta

progettando di realizzare. La cinepresa rimane fissa a lungo sulla figura di

Edgar, dando luogo a un piano-sequenza.

Qualche minuto dopo vediamo una serie di inquadrature delle strade

parigine: prima una fontana con la Torre Eiffel sullo sfondo, poi un’auto, le

strade affollate di gente e infine Edgar seduto in un’automobile che

conversa con Philippe, il quale non viene mai inquadrato.

Sono frequenti quadri totalmente neri, che a volte diventano sfondi per

scritte quali “DE L’AMOUR” e “DE QUELQUE CHOSE” (figg. 2 e 3), inserti

chiaramente extra-diegetici.2

II.2. LA DISSONANZA AUDIOVISIVA

È utile delineare la nozione di diegesi introdotta negli studi di

semiotica del cinema da Christian Metz.3 Egli la prende in prestito (così altri

prima di lui, da Étienne Souriau a Gérard Genette) dalla tradizione greca

classica del commento letterario. Con il termine diegesi Aristotele si riferiva

al modo di rappresentazione che implica il “raccontare” piuttosto che il

“mostrare”. Il termine in questione indica, quindi,gli eventi e i personaggi collocati in un racconto, cioè il significato del contenutonarrativo, i personaggi e le azioni considerati “per se stessi”, senza riferimento allamediazione discorsiva…Nel cinema la parola “diegesi” indica l’istanza rappresentata del film, l’insieme delladenotazione, cioè il racconto stesso più le dimensioni spazio-temporali dellafinzione implicate nel e dal racconto (personaggi, ambienti, eventi, ecc.). Diegesi èanche la storia, quale è ricevuta e percepita dallo spettatore…è una costruzioneimmaginaria: lo spazio e il tempo funzionali in cui il film opera, l’universopresupposto in cui si svolge il racconto.4

Gli eventi diegetici sono quelli che avvengono nel mondo della storia.

2 Cfr. con III.3.1. e fig. 11.3 Metz introduce il concetto di diegesi nella trattazione sulla Grande Sintagmatica. Per

approfondimenti vedi Essais sur la signification au cinéma, Paris, Klincksieck, 1968, eLangage et cinéma, Paris, Larousse, 1971.

4 R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, 1999,Milano, Bompiani, pp. 55-56.

44

Nel film di Godard al mondo della diegesi appartengono, quindi, i

personaggi, da Edgar a Rosenthal, da Philippe a Jean Lacouture;

l’ambientazione, dagli studi e dalle strade di Parigi alla tranquilla costa

bretone; gli eventi che mettono in relazione le storie e i sentimenti dei

personaggi, dal casting di Edgar riuscito solo parzialmente al feeling

instaurato con Berthe, dal reading sul Kosovo all’incontro con Jean e sua

moglie nel momento in cui vendono la loro storia di resistenti e i diritti

economici su di essa a Spielberg.5

Introdurre questa nozione è utile per spiegare la sequenza presa in

considerazione.

Bordwell e Thompson individuano una dicotomia alla base delle

diverse distinzioni: suono diegetico vs suono non diegetico:6 alla prima

tipologia appartengono i suoni la cui fonte è situata nel mondo della storia,

come, ad esempio, i dialoghi e le parole pronunciate dai personaggi, i

rumori e i suoni provenienti da oggetti e strumenti situati nello spazio della

storia; alla seconda tipologia appartengono i suoni provenienti dal di fuori

della storia, come la musica di accompagnamento.

Il suono diegetico può essere onscreen, se la fonte è dentro i limiti

dell’inquadratura, quindi in campo; offscreen, se proviene da una fonte

fuori dai limiti dell’inquadratura, dal fuoricampo. Esso può essere interiore,

se la sorgente è nell’animo dei personaggi (è cioè soggettivo) e gli altri

personaggi non sono consapevoli, esteriore (obiettivo), se invece possiede

una realtà fisica oggettiva, e proviene, quindi, da una fonte materiale

all’interno dello spazio della storia.

Se il suono è di natura non diegetica (musica di atmosfera o voce di un

narratore esterno allo spazio del racconto) o è diegetico ma interiore, si

definisce over.

La differenza tra la categoria dei suoni diegetici e quella dei suoni non

diegetici non dipende dalla vera fonte del suono nel processo di

realizzazione del film, ma dalla nostra comprensione delle convenzioni 5 Cfr. con I.1.5., I.2.1. e I.2.3.6 Per completezza, facciamo cenno alla schematizzazione di Bordwell e Thompson (D. Bordwell

e K. Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, 2003, Milano, Il Castoro, Film Art:an introduction, Reading, Addison Wesley, 1979) che prevede una prima distinzione sulla basedel criterio spaziale della storia rappresentata, tra suono diegetico e suono non diegetico: ilprimo proviene da una fonte presente nello spazio della vicenda rappresentata, il secondoproviene, invece, da una sorgente che non ha nulla a che vedere con lo spazio della storia.

45

implicite nell’atto di guardarlo. Si tratta di convenzioni visive attraverso le

quali siamo consapevoli che certi suoni sono rappresentati come se

provenissero dallo spazio diegetico e altri dal di fuori di questo. Sono le

stesse convenzioni che non ci permettono di aspettarci che durante il

celeberrimo omicidio sotto la doccia di Psycho7, la musica di sottofondo

provenga dalla stanza contigua. Ciò è chiaro a tutti coloro che possiedono

la competenza di comprendere enunciati filmici.

È facile notare come l’immagine del pianoforte sia contraddetta e confutata

da un brano musicale suonato da un pianoforte fuori inquadratura, e

sarebbe da verificare se si trovi in un universo non diegetico. In tal caso si

parlerebbe di suono over, in quanto «la sorgente non ha nulla a che vedere

con lo spazio della storia»8 e non si trova né dentro né fuori dai limiti

dell’inquadratura. È difficile stabilire se sia un suono diegetico oppure no,

ma è probabile che in questo caso non lo sia. Ciò si inferisce proprio dalla

diegesi. Mr. Rosenthal, infatti, non è un insegnante di musica per cui è

improbabile che si trovi in un’accademia della musica o in un conservatorio

dove è possibile trovare in stanze vicine più pianoforti.

Di solito, le fonti dei suoni sono chiaramente diegetiche o non diegetiche,

ma alcuni film confondono tale distinzione, ingannando le aspettative:

Godard le inganna pur non sforzandosi di crearne. Sfida le convenzioni, le

stravolge, le sovverte, perché ci confonde creando ambiguità tra i confini

delle categorie dello spazio diegetico e di quello non diegetico. Ci mostra,

tuttavia, il trucco. Si può dire che Godard giochi a carte scoperte. L’effetto è

di confusione, spaesamento perché siamo di fronte ad un’ambiguità che poi

riusciamo a chiarire e risolvere.

Dovrebbe sussistere una sincronizzazione del suono con l’immagine, ma

questa è disattesa. La musica, infatti, inizia prima che il pianoforte venga

inquadrato. Ci si aspetterebbe, di primo acchito e ad un primo sguardo, che

sia esattamente quel pianoforte ad emettere la melodia, creando appunto

un’attesa. La musica continua anche dopo che l’immagine sullo schermo è

mutata. Il suono ha la funzione di inglobamento unificante, che supera, cioè,

i limiti temporali e spaziali dei piani visivi.

7 1960, Usa, diretto da Alfred Hitchcock.8 F. Casetti-F. Di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, XIV ed., 2004, p. 90.

46

Sembra calzante un discorso circa la fedeltà del suono alla sua fonte. Ciò

implica che se in un film ci viene mostrato un cavallo e sentiamo nitrire, il

suono è fedele all’immagine. Se invece, l’immagine del cavallo è

accompagnata dal miagolio di un gatto, si è di fronte ad una disparità, una

forte dissonanza tra ciò che percepiamo con gli occhi e ciò che invece

percepiamo con le orecchie, oltre ad un effetto comico quasi certo. È

sempre una questione di aspettative.9 Nel nostro caso specifico, si è di

fronte ad un suono non fedele all’immagine, perché il motivo musicale

suonato da un pianoforte non è suonato dal pianoforte che domina lo

schermo di fronte a noi. È un caso di “dissonanza audiovisiva”.10

Nella parte della sequenza in cui Edgar conversa con Philippe in

automobile abbiamo la massima evidenza di come persista una

grandissima discrepanza tra ciò che le immagini ci mostrano e ciò che viene

detto fuori-campo. Questa dissonanza, però, differisce dalla precedente

poiché in questo caso le voci appartengono al mondo diegetico. Allo

spettatore viene richiesta una competenza fuori dall’ordinario per saturare i

vuoti diegetici che continuamente si creano tra un piano e quello

successivo. È molto difficile scorgere il filo di inferenze che lega insieme le

inquadrature.

Nella conversazione di Edgar con Philippe, il primo dice che la maggior

parte delle persone ha il coraggio di vivere la propria vita ma non di

immaginarla e si chiede come può, egli stesso, essere capace di

immaginare per gli altri. Philippe risponde affermativamente, con senso di

rassegnazione, comprensione e remissività. Edgar continua dicendo di

aver incontrato due anni prima una persona, non molto attraente, ma che

aveva «osato parlare alla propria mente».E - Mi chiedo che cosa ne è stato di lei.P - Qual è la definizione che lei dà di un adulto?E - Lei aveva qualcosa da dire sullo Stato e sull’impossibilità che questo possainnamorasi. Ora sto sognando…

Mentre si odono queste parole, in cui domanda e risposta fanno riferimento

a discorsi diversi, sullo schermo vediamo inquadrata una strada in una

Parigi notturna, gremita di persone rese indistinguibili dall’oscurità, e subito

9 Cfr. con i film Le vacanze di Monsieur Hulot di Jacques Tati e Il Milione di René Clair.10 M. Chion, L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Torino, Lindau, 2001 (L’audio-vision.

Son et image au cinéma, 1990, Paris, Editions Nathan, trad. it. di Dario Buzzolan), p. 38.

47

dopo sono inquadrate due panchine contigue su cui sono sedute tre

persone (due ragazzi che parlano tra loro e nell’altra un uomo con un

cappello che legge un libro11, figg. 4 e 5).

Vengono a crearsi due coppie di livelli divergenti: la prima nel discorso

verbale, nel dialogo cioè tra Edgar e Philippe, in cui si sovrappongono

argomenti diversi, e la seconda nelle immagini, quelle che ci vengono

mostrate e quelle che invece avrebbero dovuto essere mostrate come

descrizione di ciò che veniva detto dai parlanti o come immagine dei parlanti

stessi in quanto centro dell’interesse per lo spettatore.

Tutto ciò rientra nel discorso della rottura dell’illusione e in quello delle

aspettative disattese. Ci si aspetterebbe, quanto meno, di vedere Edgar in

quadro, ma ciò avviene soltanto alla fine della conversazione, quando

scopriamo che Edgar è in automobile, con Philippe alla guida,

presumibilmente (fig. 6). Non esistono nessi di causalità che giustifichino gli

accostamenti di tali immagini, e di queste con quei suoni. Ciò che vediamo

non contraddice né conferma ciò che sentiamo. Sembrano essere mondi

paralleli. L’effetto che ne deriva è di straniamento, nozione che prendiamo

in prestito da Brecht12 e che applichiamo al cinema. Ciò che ci viene

mostrato non è ciò che ci aspettiamo, ma qualcosa di diverso dalle

convenzioni cui siamo abituati. Ecco perché siamo spaesati e confusi.

II.3. CAMPO-CONTROCAMPO MANCATO

Continuando con l’analisi, nell’inquadratura successiva a quella del

pianoforte ci troviamo nella stanza di Mr. Rosenthal. Fuori campo sentiamo

lo speaker di un programma televisivo o radiofonico. La cameriera

vietnamita di Rosenthal si rivolge a lui dicendo: «Gli americani sono

dovunque, non è vero?», e ricorda la resistenza vietnamita e di come ormai

sia stata dimenticata. Questo è uno dei tanti punti-spunti polemici di Godard

nei confronti della politica estera statunitense.13 Dopo poco appare sullo

schermo la figura di Edgar. Egli è seduto in poltrona con alla sua destra un 11 L’uomo con il cappello è Godard.12 Cfr. con B. Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 3 volumi, 1975 (Schriften zun theatre,

Frankfurt am Main, Suhrkamp Verlag, 1963).13 Cfr. con I.1.5., I.2.1., I.2.3., IV.2.1.

48

tavolino con due calici e una bottiglia di vino. È al centro del quadro e sta

dialogando con Mr Rosenthal (figg. 7 e 8).

Ci si aspetterebbe il passaggio dall’inquadratura del campo a quella del

controcampo, tipica del montaggio14 di dialoghi tra due persone. Ma la

nostra aspettativa è disattesa. La macchina da presa rimane fissa, in

posizione frontale.

Uno dei primi15 ad osare contro questa convenzione del découpage

classico, di cui parleremo qui di seguito in modo più approfondito, fu

François Truffaut, in I quattrocento colpi16: nella sequenza della reclusione

nel riformatorio, il piccolo Antoine è a colloquio con una psicologa, la quale

non viene mai inquadrata.

La stessa decostruzione della struttura tradizionale del dialogo, in cui sono

rappresentatati alternativamente e in continuità gli interlocutori, è anche in

questa scena a casa di Rosenthal. Questi, infatti, entra in campo da destra,

ma compare di scorcio, senza essere inquadrato interamente. Truffaut

intendeva stabilire «un rapporto affettivo più stretto e diretto tra lo spettatore

e l’adolescente, nel momento della sua confessione».17 Si può affermare

che Godard abbia voluto ottenere lo stesso effetto, quello cioè di

concentrare l’attenzione tutta sul protagonista, sulla sua riflessione, sulla

sua confessione circa le difficoltà e i pensieri che lo preoccupano. È proprio

per questo motivo che l’inquadratura rimane fissa e il suo centro è occupato

da Edgar.

L’aspettativa che abbiamo è dovuta alla consuetudine di assistere a dialoghi

in cui l’attenzione, insieme allo sguardo, si sposta su chi prende la parola di

volta in volta. Questo è ciò che avviene solitamente nel découpage18

classico, che cerca di reinterpretare e ricreare le abitudini di percezione che

fanno parte della quotidianità di ognuno. Il fine è comunicare in modo

adeguato delle informazioni narrative attraverso la trasparenza e la

scorrevolezza o fluidità narrativa, che si ottengono attraverso un insieme di 14 Il montaggio è «l’operazione di giunzione delle diverse inquadrature…è anche un’operazione

concettuale, impostata su principi differenti a seconda delle epoche, degli autori e dellecorrenti», G. Alonge e S. Alovisio, “Glossario”, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storiadel cinema, Torino, UTET, 2002, p. 336.

15 Vedi M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Roma, Carocci,2003, p. 102.

16 Les 400 coups, 1959, Francia.17 Ibidem.18 Termine francese che significa “taglio”. Qui assume il significato di montaggio analitico, cioè la

scomposizione e la successiva integrazione, tipica del cinema hollywoodiano classico.

49

regole, un vero e proprio codice che indica i modi di transizione da

un’inquadratura all’altra. Si cerca di mantenere un equilibrio fotografico, un

rapporto di causa ed effetto tra un’inquadratura e la successiva,

mascherando il cambiamento del punto di vista; si stabiliscono regole di

raccordo tra un’inquadratura e l’altra.

Con la Nouvelle Vague19 questo impianto stilistico viene completamente

scardinato. Nasce, infatti il montaggio moderno, tipicamente discontinuo. Si

rinuncia a dare l’impressione di continuità e fluidità nella costruzione della

narrazione filmica attraverso vari espedienti tra cui il falso raccordo, il jump

cut, inserti non diegetici, ecc. Si rendono, così, visibili le strutture che stanno

dietro i meccanismi della creazione dell’universo finzionale. Sempre Brecht

proponeva per il teatro, oltre alla ricerca dell’effetto di straniamento, una

totale autoriflessività, in base alla quale l’arte deve rivelare i criteri della

propria costruzione, per evitare l’“inganno”; nel caso del cinema, ciò

significa svelare il trucco dell’illusione di realtà. Godard prende alla lettera

tale poetica, e rende percepibile la sua marca autoriale e i processi dicostruzione del testo. Ci soffermeremo in modo più approfondito nei

paragrafi successivi.

II.3.1. Forma e aspettativaLa nostra esperienza delle opere d’arte si fonda su modelli e strutture. La menteumana anela alla forma. Per questo motivo la forma è essenziale in ogni operad’arte, qualunque sia il suo mezzo d’espressione…20

Bordwell e Thompson introducono il discorso sul significato della forma

filmica, che la mente umana esplora e interpreta. «Affrontiamo la creazione

artistica con apparecchi riceventi già sintonizzati. Ci aspettiamo di trovarci di

fronte a un certo sistema di notazione, a una certa situazione segnica, e ci

prepariamo a intonarci ad essa».21

Le opere d’arte, come tutte le forme di espressione e comunicazione, ci

sollecitano a eseguire delle attività, fornendoci appunto diversi stimoli. La

pittura usa i colori, le linee e le ombre per farci immaginare lo spazio che

19 La “nuova onda”, movimento del cinema francese nato attorno alla rivista «Cahiers du

Cinéma», di cui lo stesso Godard fu parte, dapprima come critico cinematografico e poi comeregista. Cfr. con I.1.1. e I.1.2.

20 Bordwell e Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, op. cit., p. 72.21 E. H. Gombrich, Arte e illusione, Torino, Einaudi, 1965, p. 70.

50

viene rappresentato. Sono stimoli organizzati in sistemi,22 in cui i diversi

elementi si influenzano reciprocamente.

Il film ha una forma, in quanto sistema di relazioni. Essa guida l’attività del

pubblico, che tende ad immaginare cosa succederà nell’inquadratura

successiva a quella sullo schermo, scegliendo le più probabili. È in questo

modo che l’opera d’arte ci coinvolge attivamente. La forma ci stimola a

sviluppare aspettative, per soddisfarle o turbarle. Tutto dipende dalle nostre

esperienze pregresse, quale è per esempio l’abitudine ad un certo stile o a

una tradizione. Ernst Gombrich, parlando di aspettative che ognuno di noi

ha di fronte alla realtà e al mondo dell’arte, prende come esempio la

scultura: di fronte a un busto, sappiamo cosa ci aspetta e non ci stupiamo

se non ha la testa, perché quel genere ci è noto dall’infanzia.

E ancora, Bordwell e Thompson scrivono: «Ogni cultura e ogni

comunicazione si fonda sul gioco reciproco di aspettazione e osservazione,

cioè sugli alti e bassi di soddisfazione e frustrazione, giuste supposizioni e

errati movimenti che costituiscono la nostra vita quotidiana».23

L’esperienza dell’arte non si sottrae a questa regola generale. Uno stile, non menodi una cultura o di una mentalità diffusa, determina un certo orizzonte d’attesa, unatteggiamento mentale che registra ogni deviazione e modificazione con più acutasensibilità. Nel rilevare i rapporti la mente registra le tendenze.24

Qualche capitolo più in là, Gombrich sostiene che tutte le rappresentazioni

si fondano su una “proiezione guidata”, la stessa che ci fa interpretare le

macchie di colore degli impressionisti come un paesaggio, che ci fa capire

le parole anche se non le sentiamo pronunciare per intero, ecc. Facoltà che

va, tuttavia, tenuta flessibile, pronta a cambiare rotta quando diventi

necessario.

E arriviamo al dunque: l’aspettativa crea l’illusione. Si crea, cioè, una

catena di attese, un’illusione di situazioni consuete. È il contesto di azione a

crearne le condizioni. Quando l’aspettativa è disattesa, ad esempio il

pianoforte che non suona o il campo-controcampo mancato nel dialogo tra

Edgar e Rosenthal, l’illusione cade.

È la stessa logica del quadro incompleto che stimola la nostra

immaginazione a proiettare ciò che non c’è. Avviene così anche quando si è

22 D. Bordwell e K. Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, op. cit., p. 72.23 Ibidem.24 E. Gombrich, Arte e illusione, op. cit., p. 72.

51

di fronte all’immagine di un film. Godard rompe l’illusione perché laddove ci

aspetteremmo un controcampo, l’inquadratura rimane fissa sul soggetto,

perché ragioniamo e immaginiamo secondo le convenzioni e le

consuetudini che il cinema classico riesce a riprodurre sullo schermo.

Ma qui si tratta di una forma di illusione molto particolare, con caratteri

diversi da quella dell’illusione pittorica cui Gombrich fa riferimento.

II.3.2. L’illusione di realtàL’impressione di realtà creata dal film è la «tendenza, da parte dello

spettatore, a vivere i fatti filmici come reali e ad inserire se stesso nello

spazio della rappresentazione».25 Il mondo che lo spettatore ha di fronte a

sé è completamente diverso da quello reale, ma attraverso percezione e

pensiero esso riesce a instaurarlo nuovamente.

Ciò è possibile, prima di tutto, grazie al coinvolgimento dei sensi. Lo

spettatore, infatti, assiste alla rappresentazione filmica come fosse di fronte

ad eventi reali: sussistono, cioè, analogie, somiglianze percettive molto forti

nei confronti degli oggetti della realtà e nei confronti degli oggetti filmici.

Ovvero, le regole percettive che sottostanno alla percezione del mondo

reale sono le stesse che ci consentono di percepire l’immagine sullo

schermo. Ed è evidente che se le caratteristiche della forma dell’oggetto

rappresentato sono le stesse di quello reale, le risposte percettive saranno

analoghe. È necessario, ovviamente, che si rispettino i rapporti interni allo

spazio rappresentato. Va considerato, allo stesso tempo, che l’impressione

di profondità è forte perché lo spettatore è abituato all’immagine prodotta

dal cinematografo, e accetta i limiti legati alla parzialità dell’illusione di

profondità e della bidimensionalità dell’immagine proiettata sul grande

schermo. Tutto ciò detto, non si vuole intendere che sentire una frenata

brusca di un’automobile o un urlo di una persona implichi che siamo convinti

o crediamo di essere in pericolo. Probabilmente avremo solo un sussulto o,

nel più estremo dei casi, sobbalzeremo sulla poltrona.

Il cinema riproduce, generalmente, la realtà in modo fotografico e oggettivo,

anche se non perfettamente. All’effetto fotografia si aggiunge l’effetto

ottenuto attraverso l’uso di dispositivi di rappresentazione prospettica che

25 R. Nepoti, L’illusione filmica, Torino, UTET, 2004, p. 59.

52

suppliscono alla mancanza di tridimensionalità dell’immagine.26 Per creare

l’impressione di realtà è necessario che i rapporti proporzionali di

dimensione e prospettiva dell’immagine sullo schermo rispettino le

proporzioni degli oggetti. Per esempio, se si effettua una carrellata verso un

oggetto, le sue proporzioni aumentano se l’obiettivo si avvicina,

diminuiscono se esso si allontana.

Anche il movimento contribuisce a creare l’impressione di realtà. Esso è

dato dal susseguirsi dei fotogrammi (immagini fisse rese dinamiche da due

processi psicologici: la frequenza critica di fusione, il cosiddetto critical

flicker fusion, e il moto apparente) e dal movimento interno alle

inquadrature.

Per Christian Metz il movimento reale sullo schermo è fondamentale e

indispensabile al fine di creare l’impressione di realtà. Egli sostiene che «il

movimento contribuisce all’impressione di realtà in maniera indiretta (dando

corpo agli oggetti) ma vi contribuisce anche in maniera diretta, apparendo

esso stesso come un movimento reale».27

II.3.3. La croyanceL’impressione di realtà e i fenomeni di croyance (credenza) che essa

produce sono stati studiati da Jean-Jacques Rinieri.28 Con il termine

croyance si indica uno stato di sospensione tra il “credere” e il “non

credere” di fronte allo spettacolo cinematografico. Ciò implica la

consapevolezza di assistere a uno spettacolo, quindi a una finzione, sia dal

punto di vista filmofanico, cioè degli oggetti rappresentati in movimento o in

26 La cinepresa è, infatti, monoculare e l’immagine che registra viene poi proiettata in una serie di

24 fotogrammi al secondo sempre su uno schermo piatto. Uno dei fattori che riescono aprodurre l’illusione della tridimensionalità è la profondità di campo, cioè “la gamma delledistanze di fronte all’obiettivo in cui gli oggetti possono essere fotografati rimanendo a fuoco”.La profondità è maggiore quanto più è corta la focale e quanto meno è aperto il diaframma.Essa, infatti, ha a che fare con la nitidezza dell’immagine e accresce l’effetto di prospettivapoiché rende possibile la disposizione di oggetti nitidamente visibili su diversi piani prospettici.Per approfondimenti vedi D. Romano, L’esperienza cinematografica. Un’analisi dello stimolocinematografico e dei corrispondenti processi percettivi, Firenze, Barbera, 1965; D. Bordwell, eK. Thompson, Cinema come arte. Teoria e prassi del film, op. cit.; J. Monaco, Leggere un film.Cinema, media, multimedia, 2002, Bologna, Zanichelli (How to read a film, Oxford UniversityPress, Inc., New York, 2000). Un ampio uso di questo dispositivo è stato fatto da OrsonWelles. Celeberrima rimane la scena della tavolata in Quarto Potere (Citizen Kane, 1941,Usa), in cui il direttore della fotografia, Gregg Toland, utilizza obiettivi speciali.

27 Ch. Metz, Semiologia del cinema, Milano, Garzanti, 1972 (Essais sur la signification aucinéma, Parigi, Klincksieck, 1968), p.32, cit. anche in R. Nepoti, L’illusione filmica, op. cit., p.71.

28 Cfr. J.J. Rinieri in AA.VV., L’Univers filmique, Parigi, Flammarion, 1953.

53

quiete sullo schermo, sia dal punto di vista diegetico, aspetti strettamente

legati tra di loro.

L’esperienza della visione cinematografica è peculiare. Si crea uno stato di

credenza grazie al buio della sala in cui si collocano lo schermo e gli

spettatori, l’impossibilità per questi ultimi di muoversi, nonché l’assenza di

stimoli diversi da quelli prodotti dalla visione del film. Proprio in virtù di tali

tratti specifici, si è spesso attribuito all’esperienza cinematografica il

carattere dell’esperienza del sognare.29

C’è chi ha parlato di stato di vigilanza e stato di passività,30

attribuibile alle condizioni materiali dello spettacolo, alla situazione

fisiologica e alle condizioni affettivo-psicologiche. Quando stiamo

guardando un film in sala, la nostra soglia di vigilanza si abbassa.

Lumbelli31 attribuisce la passività alla fiducia che lo spettatore ha nei

confronti del testo filmico e del mezzo, cui consegue una scarsa capacità di

individuare incongruenze del testo stesso. Riteniamo, tuttavia, che in realtà

lo spettatore non “subisce” le immagini, ma contribuisce a dare un senso a

ciò che vede attraverso uno scambio cooperativo con gli intenti dell’autore

manifestati nell’opera che fruisce. È difficile, tuttavia, che lo spettatore rilevi

le incongruenze tra elemento sonoro e l’elemento visivo; nel caso in cui le

cogliesse tenderebbe a giustificarle, attribuendo, ad esempio, la musica al

mondo extra diegetico. Nel film di Godard è probabile che la soglia di

vigilanza sia bassa perché l’impegno per lo spettatore è particolarmente

gravoso, e le incongruenze sono difficili da risolvere.

La destrutturazione temporale del racconto, come il flashback32 che

riconduce a due anni prima, cui si può aggiungere una destrutturazione

della natura delle sequenze, tende, invece, a tenere alta l’attenzione ma a

diminuire la capacità di memorizzazione degli eventi. È probabile che lo

spettatore di Éloge de l’amour non riesca a tenere insieme facilmente tutti

29 È Christian Metz, con il suo saggio Le signifiant imaginaire, Paris, UGE, 1977 (trad. it. Cinema

e psicanalisi, Venezia, Marsilio, 1980) a fondare la teoria psicoanalitica del cinema. Egli ricorrealla riformulazione della teoria freudiana operata dallo psicoanalista francese Jacques Lacan.La teoria psicoanalitica del cinema si fonda sull’equivalenza tra lo spettatore e il sognatore. Ilcinema, cioè, costruisce lo spettatore come un sognatore.

30 Cfr. Henri Agel, “Activité ou passivité du spectateur”, in L’univers filmique, Paris, Flammarion,1953.

31 Cfr. Lucia Lumbelli, La comunicazione filmica: ricerche psicopedagogiche, Firenze, La NuovaItalia, 1974.

32 Cfr. con I.2.3, III.2., III.3.3.

54

gli elementi che di volta in volta gli si propongono sullo schermo, a causa di

questo stile frammentario e sentenzioso.

È pur vero, come sostiene Nepoti cheil film è un’assenza di realtà che si propone ai nostri sensi come una presenza direaltà. Solo la memoria che conserviamo delle cose ci permette di riconoscerle,mediante gli indizi di realtà dell’immagine fotografica: così, ciò che ci sembra realeappare tale in virtù di un’illusione. La realtà concreta arriva sullo schermo sottoforma di ombra e di fantasma, attivando tutta una serie di differenze e mancanzeche lo spettatore è chiamato a colmare…Il film non è altro che una riorganizzazione in schema discorsivo di forme e diconcetti; allorché la percezione spettatoriale vi si adatta…il tempo del film è untempo sintetico, organizzato secondo una particolare ritmica; anche immagine esonoro, integrandosi, danno origine a un ritmo che appartiene esclusivamente al“fatto filmico”…il film, insomma, impone le proprie regole alla percezione.33

Di fronte al film di Godard è necessario compiere uno sforzo per

abbandonarsi al piacere della visione, al rilassamento, se non a scapito

della comprensione dei contenuti. Lo spettatore è continuamente stimolato

dall’avvicendarsi di immagini la cui interconnessione è estremamente ardua

da stabilire e rintracciare.

La croyance è effetto, oltre che dell’impressione di realtà di cui si è

detto sopra, anche dell’illusione diegetica, di cui pure non si è vittima.

II.3.4. L’illusione diegeticaChristian Metz distingue tra l’impressione di realtà creata

dall’universo fittizio della diegesi, quello che definisce il “rappresentato”, e la

“rappresentazione”, cioè la realtà del materiale usato a questo scopo.

L’impressione di realtà non compete, quindi, solo alle caratteristiche

percettive dello spettatore ma anche all’effetto della diegesi filmica,

definibile come effetto di linguaggio.

L’illusione diegetica, particolarmente connessa all’illusione di continuità,

permette di dare un senso unitario ai diversi elementi del film. Restituire la

realtà visivamente e acusticamente non basta. È necessario costruire un

universo, una storia coerente di fronte alla quale sospendere l’incredulità e

concedersi all’identificazione nel mondo finzionale.

Gli elementi che contribuiscono a questa costruzione sono sia narrativi che

linguistici. La coerenza, cioè, tra gli elementi della storia è necessaria sia sul

33 R. Nepoti, L’illusione filmica, op. cit., p. 107.

55

piano contenutistico (la fabula e l’intreccio)34, che su quello formale (il

discorso)35. Nel senso che alla base vi deve essere una logica della

continuità e di causa ed effetto nella successione delle immagini, cioè nel

montaggio delle inquadrature.

L’illusione della continuità ha effetto se lo spettatore diventa invisibile.

L’intento dello stile classico (il cosiddetto découpage classico, di cui si è

detto sopra) del modo di rappresentazione e scrittura, ha il fine di ottenere

un effetto di realtà e trasparenza, per favorire l’identificazione e

l’assorbimento dello spettatore nel mondo diegetico, della storia, quindi.

Già negli anni ’10 del XX secolo si stabilivano le prime regole di continuità, i

primi raccordi convenzionali tra un’inquadratura e l’altra, collegamenti, cioè,

che mascheravano i tagli. I raccordi hanno il compito di mantenere

continuità e coerenza tra le inquadrature.36 È frequente che tra

un’inquadratura e l’altra si interponga un’ellissi sia temporale che spaziale, e

che le capacità associative e intuitive dello spettatore non arrivino sempre a

stabilire connessioni tra le inquadrature che si susseguono, integrarle, cioè,

tra di loro tracciando un percorso logico, come avviene, con molta

probabilità, guardando Éloge de l’amour.

Il tipo di diegesi che fa uso di tali codici di raccordo e altre modalità che

tengono in piedi l’illusione37 è definita non marcata, trasparente. Si ricerca

l’effetto di verosimiglianza del narrato attraverso la resa della continuità e

34 Per fabula si intende «l’insieme delle unità di contenuto disposte secondo l’ordine logico-

cronologico…schema fondamentale del racconto, logica delle azioni e loro corso ordinatotemporalmente»; l’intreccio indica «l’insieme delle unità di contenuto nell’ordine del discorso: lastoria come di fatto viene raccontata, con le sue dislocazioni, digressioni, eccetera». Cfr. R.Nepoti, L’illusione filmica, op. cit., pp. 185-186. La dicotomia di cui ai punti fabula-intreccio èstata formulata dai formalisti russi Viktor Sklovskij e Boris Tomasevskij.

35 Il discorso è lo strato significante, che comprende immagini, tracce grafiche, rumori, dialoghi etutti i codici specifici del linguaggio cinematografico, dai movimenti di macchina allesovrimpressioni. È la «catena degli enunciati come si presentano sullo schermo». Cfr. R.Nepoti, L’illusione filmica, op. cit., pp. 185-186.

36 Ci sono vari tipi di raccordo: quello sull’asse (le due inquadrature hanno lo stesso soggetto,che risulta ripreso dallo stesso punto di vista, ma cambia la distanza tra il soggetto ripreso e lamacchina da presa); raccordo sul movimento (un gesto iniziato da un personaggio nella primainquadratura continua e si conclude in quelle successive); raccordo di posizione (duepersonaggi ripresi uno a destra e l’altro a sinistra di un’inquadratura manterranno la stessaposizione in quella successiva); raccordo di direzione (un personaggio che esce dal campo adestra dovrà rientrare nell’inquadratura successiva da sinistra); raccordo di direzione disguardi (in una scena di dialogo, per dare l’impressione che i due personaggi, quando sonoinquadrati singolarmente, stiano parlando tra loro, bisogna che uno guardi a destra e l’altro asinistra); raccordo sonoro (un elemento sonoro inizia in un’inquadratura e continua nellasuccessiva).

37 Altri elementi che contribuivano a creare l’effetto di continuità erano quelli luministici con l’usodi tre direttrici fondamentali: la key light (principale), il fill light (di riempimento) e il backlighting(controluce).

56

della naturalezza, cui si giunge solo rendendo invisibili i processi di scrittura.

Queste le caratteristiche del découpage classico.

Identificarsi significa sospendere la consapevolezza che la realtà

rappresentata sullo schermo sia fittizia, perdere il senso dello spazio e

quello del tempo. Oltre a queste peculiarità, proprie del dispositivo

cinematografico, è fondamentale il rispetto di determinate regole di scrittura

e rappresentazione.38 Ciò che bisogna occultare è il montaggio e la sua

frammentarietà dovuta alla disgregazione dello spazio-tempo filmico.

Quando esso non viene nascosto si parla di diegesi marcata, di una logica

dell’opacità, tipica del montaggio moderno, del modo di fare cinema dei

registi delle “nuove onde” europee dagli anni ’60 in poi.

André Bazin39, individua le caratteristiche del découpage classico in

motivazione, chiarezza e drammatizzazione, che giustificano gli stacchi.

Questo tipo di montaggio, che egli definisce “invisibile”, tende ad essere

coercitivo nei confronti dello spettatore. Il principio che guida il cinema,

sempre secondo Bazin, è il realismo che ne è alla base. Esso determina

«tanto quelli che sono i suoi tabù quanto quelli che rappresentano i suoi

momenti di massima intensità».40 I tabù sono legati ai trucchi che falsificano

la realtà, che creano situazioni senza riscontri obiettivi.Ecco allora la proibizione, non solo formale, di mettere in due inquadrature diverseciò che per essere significativo deve aver luogo nella medesima scena (è il celebremontaggio proibito: separare con uno stacco la belva minacciosa e l’uomominacciato vuol dire rinunciare all’intima credibilità della situazione). Ma il tabù èanche legato alla rappresentazione di quanto coinvolge una realtà così esclusivada non poter essere replicata.41

All’estremo opposto si trovano i punti di massima intensità, cioè i momenti in

cui la realtà è presentata sullo schermo nella sua ricchezza, come nel caso

delle riprese lunghe e dei piani-sequenza.

Edgar seduto in poltrona è ripreso in piano-sequenza, un’unica inquadratura

in cui, cioè, si svolge una scena intera e compiuta, per quanto sia strano

parlare di compiutezza analizzando un film di Godard. Tale tecnica

sconvolge il principio alla base del découpage classico, dando risalto alla

continuità del reale – non a quella del montaggio - rispetto alla 38 Ad esempio è proibito mostrare la troupe al lavoro e gli strumenti tecnici, o lo sguardo in

macchina degli attori.39 Vedi A. Bazin, Che cosa è il cinema, Milano, Garzanti, 1973 (Qu’est-ce que le cinéma?, Paris,

Editions du Cerf, 1958).40 F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, Milano, Bompiani, 1993, p.36.41 Ibidem.

57

frammentazione. La tecnica del piano-sequenza, secondo Bazin, è

intrinsecamente realista perché rispetta la “durata” della realtà, senza

suddividere tempo e spazio in base alle inquadrature scelte secondo criteri

funzionali all’azione rappresentata. Il piano-sequenza lascia che gli eventi si

dispieghino liberamente, discostandosi dal carattere demiurgico del

montaggio classico, che assembla selezioni di immagini per dare un senso

di continuità del reale frammentandolo.

Il piano-sequenza, tuttavia, pur nella sua verosimiglianza, ci offre una

visione parziale della situazione, in quanto Rosenthal e Philippe sono fuori-

campo e l’unico che vediamo è Edgar. L’attenzione si concentra su di lui,

inevitabilmente.

L’illusione cade perché questo stesso piano ci mostra un quadro la cui

cornice si fa particolarmente pesante. L’inquadratura ha due funzioni: di

limite e di finestra. Con i suoi bordi è limite che regola la composizione, ma

è anche finestra perché «tende a dissolvere illusoriamente i suoi bordi, a far

dimenticare la sua natura di ritaglio spaziale, offrendosi allo spettatore come

un mondo illimitato».42 In Godard l’effetto finestra è molto debole, anche se

in questo caso si rimane centrati sul personaggio. Da un lato, cioè, i bordi

pesano, ma dall’altro il principio della centratura43, cioè quello in base al

quale il centro geometrico-visivo dell’inquadratura viene a coincidere con

quello narrativo, non viene meno. Anzi viene accentuato dalla persistenza

dello sguardo della cinepresa su Edgar, il personaggio principale, per

l’appunto.

L’inquadratura di Godard è spesso fissa. La macchina da presa

rimane immobile, discreta, e ci lascia immaginare un mondo vivo e attivo al

di fuori dell’immagine che registra. In qualche modo ci porta a credere che

la nostra visione è limitata, che è difficile cogliere tutte le sfaccettature

dell’esperienza umana. Sancisce l’esistenza del limite, e l’accettazione

inevitabile di questo.

42 M.Ambrosini, L. Cardone, L.Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Roma, Carocci, 2003,

p. 17.43 Cfr. con IV.2.3.

58

II.3.5. Attrazione e mostrazione44

Godard conserva, nonostante il carattere moderno del suo fare

cinema, tratti del cinema primitivo. La cinepresa, infatti, è tendenzialmente

fissa. Il piano assume una considerevole autonomia, tuttavia non ci si

preoccupa di mostrare l’azione di fronte alla macchina. Godard utilizza un

montaggio discontinuo perché sono rarissimi, forse inesistenti, i raccordi.

È ipotizzabile un parallelo con quello che André Gaudreault e Tom

Gunning45 hanno definito sistema delle “attrazioni mostrative”, l’intento

principale del quale è quello di attrarre mostrando, facendo vedere. Si

poneva l’attenzione, la si indirizzava attraverso i trucchi, gli eventi speciali,

straordinari.46 E, in fondo gli espedienti di Godard non sono molto lontani da

questi, soprattutto le sovrimpressioni di cui si parlerà successivamente.

Viene in mente Georges Méliès e le sue metamorfosi.47 Ciò che mancava a

questi film delle origini (non però a quelli di Méliès) era la componente

narrativa, elemento fondamentale, invece, del cinema dell’ “integrazione

narrativa”.

Alla base del film di Godard c’è un filo narrativo che lega la complessa

serie di inquadrature, ma è infinitamente debole. Egli sembra voler

mostrare, dimostrare, far riflettere ma lasciando allo spettatore la libertàdell’interpretazione. È a suo modo un cinema della mostrazione (termine

che indica l’atto di “far vedere”, “presentare” gli eventi), che ha a che fare

con la meraviglia del mostrare.

Leonardo Gandini sostiene che attraverso il montaggio e il primo piano,

Godard «esibisce l’artificialità del cinema, l’illusorietà e l’impossibilità di ogni

finzione, mettendosi in primo piano come regista-manipolatore, che

organizza…i materiali secondo un preciso percorso intellettuale»48

44 Termine usato da A. Gaudreault per indicare l’atto di “far vedere” e presentare gli eventi nel

tempo presente. Egli ritiene che il film narrativo sia costituito dalla superimposizione di unaforma di diegesi mimetica su una non mimetica, una stratificazione di mostrazione enarrazione. Il film narrativo espone gli eventi in modo mimetico, attraverso la mostrazione, epoi li struttura secondo l’orientamento che detta il narratore (vedi Du littéraire au filmique:système du récit, Paris, Meridiens-Lincksieck et Montéal, Laval, 1988).

45 A. Gaudreault e T. Gunning, “Le cinéma des premiers temps, un défi à l’histoire du cinéma?”,in J. Aumont, A. Gaudreault, M. Marie (a cura di), Histoire du cinéma: nouvelles approches,Paris, Publications de la Sorbonne, 1989, cit. in S. Alovisio, “Il cinema delle origini e la nascitadel racconto cinematografico” in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, op.cit., p. 10.

46 Cfr. con il terzo e il quarto capitolo.47 Cfr. con Le voyage dans la Lune (1902, Francia), il più celebre dei suoi film.48 L. Gandini, La regia cinematografica. Storia e profili critici, Roma, Carocci, 1998, p. 195. Il

grassetto è mio.

59

Vedremo, nel corso della nostra analisi, come tale attività manipolatoria

assumerà forme sempre diverse.49

Secondo Bernardi50, in un parallelo con Pier Paolo Pasolini e il suo “cinema

di poesia”51, Godardcerca di scrivere il cinema come si scrive la poesia, senza cura per la consecutivitàe consequenzialità narrativa, ma preoccupandosi solo di lasciare lo spettatoreincerto tra le immagini e il senso, segnalando sempre ciò che l’immagine ha diprivato, di contingente, non previsto nel progetto del cineasta.52

E ancora, eglilavora sull’incongruenza tra osservatore e osservato, sull’irriducibilità dell’oggetto aldiscorso, sulla presenza costante, necessaria di elementi aleatori, non controllatidal cineasta, elementi perturbatori che il cinema classico cercava di eliminare, eche il cinema moderno invece ha rivalutato, fino a farne un vero e proprio terrenofilosofico.53

Godard non ci dà linee guida, ma ci spiazza usando sequenze di immaginiparatattiche. Le sue sequenze sono simili a sentenze lapidarie, come gli

stessi testi verbali; sono pezzi di un puzzle che hanno i contorni definiti ma

non combacianti tra loro, pur facendo parte della stessa composizione.

Questa è sicuramente una fonte di ambiguità e irrisolutezza.

Potremmo tentare un parallelo con la tradizione artistica dell’arte

dell’Estremo Oriente, quella cinese a cui fa riferimento Gombrich.54 I cinesi

si esprimevano attraverso l’assenza. Un esempio sono le figure di donna

senza occhi che comunque riescono a dare l’impressione di guardare. Con

pochi tratti esprimono l’invisibile. È, a mio avviso, una poetica minimal, nel

senso di minimo indispensabile, di risparmio delle linee, delle tracce e delle

forme, soprattutto quelle rigide e rettilinee; una poetica delle “strutture

primarie”,55 del ritorno all’esperienza originaria del cinema, quando i

Lumière posizionavano la macchina da presa e l’azione si svolgeva davanti

ad essa. Godard accenna, suggerisce, allude, ma lascia interpretare e

associare parole e immagini allo spettatore.

49 Cfr. con I.3. e i capitoli terzo e quarto.50 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 114.51 Per approfondimenti, vedi P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1972; G.

Manzoli, Cinema e letteratura, Roma, Carocci, 2003; R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, op. cit.

52 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, op. cit., p. 114.53 Ibidem, p. 115.54 E. H. Gombrich, Arte e illusione, op. cit.55 G. Battcock, a cura di, Minimal Art, a Critical Anthology, New York, 1968, cit. in R. Barilli, L’arte

contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, IX ed. 2003 (I ed.1984),p. 314.

60

Quella di Godard è una macchina da presa a volte pigra ma sempre

riflessiva, proprio in quanto indugiante. Essa sintetizza (soprattutto se

pensiamo alle sovrimpressioni di cui ci occuperemo nel quarto capitolo) e

frammenta allo stesso tempo. Godard risparmia in numero di inquadrature.

Ci aspetteremmo un controcampo che non c’è, ma riusciamo comunque a

immaginare che dall’altra parte qualcuno ascolta, non fosse altro che

possiamo udire le sue risposte. Verso la fine della sequenza Rosenthal

entra in campo dalla destra del quadro e poi prende il posto in poltrona di

Edgar.

62

III. BIANCO & NERO, COLORE: «EFFETTO QUADRO»

III.1. LA SEQUENZA

Edgar incontra il nonno di Berthe a Parigi. Berthe, prima di suicidarsi,

aveva lasciato in regalo a Edgar uno dei suoi libri. Non scorgiamo mai il

volto di Edgar né quello del vecchio Jean. Vediamo solo una mezza figura,1

quella di Jean-Henri Roger, che rivedremo nuovamente poco dopo, nella

seconda parte del film, quando accompagnerà Edgar dallo storico Jean

Lacouture, noto biografo di Charles De Gaulle.2

Sentiamo solo le voci di Edgar e Jean che parlano di Berthe, di suo figlio,

della tubercolosi che l’ha colpita. Vediamo inquadrate le loro mani che

prendono e toccano gli oggetti personali di Berthe. Tutto in bianco e nero.

Spesso il quadro si fa più scuro fino a diventare nero, annullando la

percezione visiva e amplificando e accentuando quella uditiva delle

parole all’interno della diegesi e dei propri monologhi interiori.3 L’attenzione

viene inevitabilmente concentrata sulle parole, sulle frasi pronunciate.

Dopo il commiato tra Edgar e il vecchio Jean, vediamo il piano in dettaglio di

uno dei libri di Berthe, il cui titolo emblematico è Le voyage d’Edgar4. Esso è

profetico, annunciatore di un viaggio indietro nel tempo. Sentiamo dei flutti

frangersi e subito dopo il mare seppia e la spiaggia azzurra della costa

bretone, a colori invertiti, dunque. Da questo punto, a quasi un’ora dall’inizio

del film, la narrazione riprende con un flashback che riporta Edgar a due

anni prima, nel viaggio verso la Bretagna intrapreso per incontrare

Lacouture. Il protagonista, al tempo, stava scrivendo una cantata dedicata a

Simone Weil5, e aveva la necessità di un parere competente sulla

Resistenza cattolica durante gli anni dell’occupazione nazista in Francia.

Edgar è un ragazzo e deve ancora scoprire di voler diventare un adulto.

1 È utile ricordare che la scala dei campi e dei piani indica quanto spazio viene

rappresentato nell’inquadratura e la distanza degli oggetti ripresi.2 Cfr. con I.2.3.3 Cfr. con II.2. e II.3.4 Di Edward Peisson, romanziere di avventure marittime.5 Filosofa ed eroina cattolica del movimento resistente “Francia Libera”.

63

III.2. IL VALICO

Il passaggio al tempo passato è marcato dalla prima inquadratura a

colori che vediamo nel film (fig. 9). Venti secondi di vista sul mare. È un

campo totale in cui è possibile vedere un tratto di costa bretone dai colori

molto vivi e irrealistici. L’acqua del mare, infatti, ha un colore vicino al

seppia, quasi arancio, il cielo è giallo e la spiaggia è di un azzurro screziato

di verde. Godard sceglie di invertire l’ordine dei colori naturali e tale

capovolgimento ha caratteristiche metaforiche. È il passaggio a un tempo

precedente, passato, la memoria del quale è vivida e colorata. È una scelta

inusuale e diversa, tutt’altro che casuale. Le convenzioni cinematografiche

prevedono, infatti, che sia il bianco & nero a rappresentare e

contraddistinguere i flashbacks o i sogni, e il colore a raccontare le vicende

del presente.6 Scorgiamo nell’immagine un doppio livello di inversione ,

quindi: quello delle convenzioni e quello dei colori. Tutto il film, in realtà, si

fonda sul gioco delle inversioni, come vedremo anche successivamente con

espedienti che interrompono il fluire imperturbabile e inevitabile del tempo.

Si potrebbe considerare questa breve ma estremamente significativa

sequenza, come un punto, un vero e proprio segno di interpunzione che

ferma il ritmo del flusso narrativo e soprattutto di quello figurativo. É come

se un narratore avesse pronunciato le seguenti parole: «bene, questi gli

eventi del presente. Ora facciamo un salto indietro nel tempo, in un altro

luogo». È un punto che segna i confini di una cesura, cui segue un nuovo

capoverso. Da questo momento si riesce a dare un senso, almeno parziale,

alla serie di frammenti di storia, sarebbe meglio dire “quasi-storia”, finora

rappresentati. È un’immagine che sottolinea lo stacco tra due blocchi

narrativi. Cambia la cronologia, andando indietro, e cambiano i luoghi della

narrazione. Dalla strade scure e nere di Parigi di notte, si torna al mare e ai

campi verdi e gialli della Bretagna; dal presente grigio e malinconico,

bagnato dalla pioggia e dall’umidità, andiamo due anni indietro nel tempo,

6 Godard afferma «Si je raconte chronologiquemente, je vais forcément tomber dans l’histoire

au sens anecdotique. Donc inversons les choses: monstrons le présent d’abord, et le passéensuite. Faisons un long retour en arrière, c’est une figure qu’a inventée le cinema, mais ce nesera pas un flashback. Je suis resté un petit garcon contradicteure, sincèrement: tout lemonde ferait le present en couleur et le passé en noir et blanc, faisons le contraire.» Intervistadi J. Rancière e C. Tesson, Une longue histoire, «Cahiers du cinema», n. 557, maggio 2001,p. 33.

64

quando il sole splendeva anche se era autunno e il cielo era terso come a

primavera. L’inquadratura è una pausa che rallenta il susseguirsi delle

immagini. Assume la funzione tipica delle “transizioni iconizzate”,7

particolari procedimenti visivi che fungono da veri e propri segni di

interpunzione. Esempi di questa sorta sono le dissolvenze, le tendine, gli

iris. Sono effetti usati per passare da una sequenza all’altra. Si ha uno

stacco graduale, reso evidente nelle tendine e negli iris.8 Il ricorso alla

dissolvenza nel cinema classico, ad esempio, marcava le digressioni

temporali. Il flashback veniva così delimitato da un elemento iconico di forte

rottura, funzionale alla chiarezza narrativa, che coadiuva lo spettatore

nell’orientamento all’interno della cronologia degli avvenimenti raccontati.Il flashback può potenzialmente turbare il fruitore, poiché immette nel flusso linearee progressivamente orientato del tempo filmico un fattore di discontinuità, facendocompiere alla narrazione un passo indietro. Le dissolvenze incrociate costituisconouna sorta di virgolette visive e consentono allo spettatore di leggere il brano di filmche circoscrivono in termini di avvenimenti accaduti nel passato del racconto.9

Si può allora affermare che l’immagine in questione abbia la stessa funzione

di una dissolvenza incrociata.

Tali elementi di demarcazione sono usati quindi per collegare e separare

allo stesso tempo i segmenti del film. Fanno parte della punteggiatura

filmica, di cui scriveva Metz10, anche se egli rifiutava l’idea secondo cui

questi dispositivi sarebbero analoghi alla punteggiatura della lingua scritta,

in quanto il cinema non è una lingua. Stam, Burgoyne e Flitterman-Lewis11

preferiscono parlare di macro-punteggiatura, perché essa è attiva nel

rapporto tra interi sintagmi. Una caratteristica comune a questi effetti ottici è

quella di non rappresentare direttamente nulla, né un oggetto né un insieme

di oggetti, diversamente dal caso della nostra inquadratura.

7 M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Roma, Carocci,

2003, p. 94.8 Esistono tre tipi di dissolvenza: in apertura (dal fondo nero appare gradualmente l’immagine),

in chiusura (il quadro diviene nero progressivamente), incrociata (sovrapposizione delle dueimmagini, l’ultima della sequenza che si sta chiudendo e la prima di quella successiva che stainiziando). La tendina è un procedimento ottico attraverso il quale la prima inquadratura èsostituita dalla seconda, che sembra “spingerla” lungo una linea di confine che attraversa loschermo. L’iris si ottiene ponendo un mascherino di fronte all’obiettivo che consente di passareda un’inquadratura all’altra restringendo gradualmente l’immagine in una forma circolare. Cfr.“Glossario” G. Alonge e S. Alovisio, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia delcinema, Torino, UTET, 2002, p. 331 e seg. Vedi anche R. Tritapepe, Le parole del cinema,Roma, Gremese Editore, 1991.

9 M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, op. cit., p. 95.10 Cfr. Ch. Metz, Linguaggio e cinema, Milano, Bompiani, 1977 (Langage et cinéma, Paris,

Larousse).11 R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo, 1999,

Milano, Bompiani, pp. 79-80.

65

Un’altra caratteristica dell’immagine che si è presa in analisi è, infatti, la sua

totale autonomia e indipendenza, che produce anche un «effetto

quadro»12, di cui, però, ci si occuperà nei paragrafi che seguono. I

dispositivi di punteggiatura, infatti, non sono portatori di significati intrinseci,

non hanno un senso di per se stessi. La nostra immagine, invece ha un

significato, anzi più di uno, pur avendo una funzione demarcativa ben

evidente. Nella semiotica del visivo di Roland Barthes,13 l’idea chiave è la

stratificazione del significato: il primo livello è quello della denotazione14,

ciò che vediamo rappresentato; il secondo è quello della connotazione15, il

livello, cioè, delle idee e dei valori espressi attraverso quell’immagine e il

modo in cui essa è rappresentata, compresi i colori e le tecniche. Gli stili e

le tecniche fotografiche (Barthes parla, infatti, della fotografia e dei contesti

culturali di riferimento) sono definite “fotogenia”.16 Si può dire che la costa

bretone, considerata per ciò che vediamo, indica il luogo in quanto tale,

diverso quindi, da Parigi dove fino ad allora l’azione si era sviluppata; i colori

e soprattutto l’inversione degli stessi indicano il passo indietro.

Il piano-sequenza di cui ci stiamo occupando è anche il punto di passaggio

tra due diverse modalità di produzione del testo audiovisivo. Godard, infatti,

usa la pellicola standard 35 mm per la prima parte del film in bianco & nero,

e il video digitale per la seconda parte, quella appunto a colori.17

III.3. BIANCO & NERO VS COLORE

Nella storia del cinema le pellicole a colori e in bianco & nero sono

state usate per esprimere significati diversi. Nel cinema americano degli

anni ’30 e ’40 del secolo scorso il colore era in genere riservato ai film di

fantasia, ai film storici o a quelli ambientati in località esotiche. Il bianco &

12 A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 311.13 Cfr. R. Barthes, Mythologies, London, Paladin, 1973, cit. in T. van Leeuwen, “Semiotics and

Iconography”, in T. van Leeuwen and C. Jewitt (edited by), Handbook of visual analysis,London, Sage Publications, 2001, p. 94.

14 Comprende i significanti denotativi e i significati denotativi.15 Comprende elementi “connotatori” e la connotazione nel senso di significato.16 R. Barthes, Image, Music, Text, London, Fontana, 1977, cit. in in T. van Leeuwen, “Semiotics

and Iconography”, in T. van Leeuwen and C. Jewitt (edited by), Handbook of visual analysis,op. cit., p. 116.

17 Cfr. con I.2.1 e I.3.

66

nero era considerato realistico, ma oggi esso è generalmente usato per

suggerire un periodo storico.

Il colore e l’assenza di questo caratterizzano fortemente il film di

Godard. Le due modalità coesistono. Il film inizia mostrando eventi che

appartengono al presente della storia narrata in bianco & nero; nella

seconda parte si mettono in scena, con l’uso e la manipolazione digitale dei

colori, eventi che hanno luogo in un periodo di due anni precedente a quello

del presente narrato. La pratica dell’alternanza dei colori o del colore e del

bianco & nero non è inconsueta nella storia del cinema. Attraverso di essa

si intende, in genere, intensificare la tensione drammatica. Esempi di

questo tipo sono i film Il cielo sopra Berlino18 di Wim Wenders, Europa19 di

Lars von Trier, e Schindler’s List20 di Steven Spielberg , il quale sceglie, ad

esempio, il bianco & nero come strumento sia di realismo che di

stilizzazione.

Godard inverte le convenzioni, le consuetudini che predominano nel modo

di fare cinema della modernità. È in netta controtendenza dal momento che

è abitudine della maggior parte dei cineasti, sia di ieri che di oggi,

rappresentare il tempo passato, il ricordo, il sogno, i flashbacks in bianco &

nero e il presente a colori. È un caso anomalo. In un’intervista21 il regista

sostiene che il colore è più vicino a noi «poiché è il tempo presente della

proiezione»22. Con il colore si vuole riavvicinare il passato, riportando alla

memoria immagini vivide quanto più possibile. Forse questo presente ha

tinte grigie, perché uggioso, triste e nostalgico. Rassegnato. Nella stessa

intervista23 Godard afferma che l’uso del colore nella seconda parte del film

è un modo per sottolineare e intensificare il passato. Il discorso sulla

memoria del passato, infatti, ricorre frequentemente in Godard24. C’è

sempre una sorta di nostalgia e malinconia. Lo sguardo è perennemente 18 Der Rimmel über, 1987, Germania.19 1991, Danimarca-Francia-Germania-Svezia.20 1993, Usa.21 www.netribution.com, intervista di Michèle Halberstadt a Jean-Luc Godard, 3 aprile 2001. Domanda: «Is that what gives the impression that the past sheds light on

The present?»Risposta: «No, I think that colour is closer to us because it's the present tense of filmprojection, emotionally speaking. I've always loved Proust's novel. When he speaks ofAlbertine in the imperfect tense, the reader experiences it in the present. Especially as anadolescent».

22 Ibidem. Traduzione mia.23 Ibidem.24 Cfr. con il primo capitolo.

67

rivolto indietro nel tempo. Al passato appartengono, quindi, immagini nitide

e chiare nella mente di chi ne ha memoria. È una situazione paragonabile a

quella della memoria di una persona anziana, che ha del passato ricordi

particolarmente intensi, mentre tende a dimenticare gli eventi e le situazioni

del presente o del passato più recente perché in genere è per la propria vita

emotivamente meno stimolante. Si tende a ricordare le cose importanti,

quelle che colpiscono, e sicuramente Edgar, l’alter ego di Gordard, come

rende evidente l’assonanza dei due nomi, è stato colpito, come egli stesso

afferma, dall’incontro con Berthe, anche se è stato un incontro breve,

fugace ma intenso, tanto che due anni dopo se ne rammenterà.

Secondo Georges Roque25 il dibattito tra bianco & nero e colore, sia

per il cinema che per la fotografia, non fa che riprendere quello assai più

vecchio tra disegno e colore (noi aggiungiamo forma e colore). Il

problema è complesso in quanto due modalità contrapposte (il bianco &

nero e l’uso del colore, appunto) coesistono in un unico film. Gunning

sostiene chenon c’è bisogno di uno storico o di un critico per cogliere il significato di questaopposizione paradigmatica tra colore e bianco e nero. Essa svolge un ruolo attivonei testi stessi, con il colore che significa sempre qualcosa di più che nonsemplicemente una accurata riproduzione visiva del nostro mondo oggettivo.26

Gunning prende in analisi il passaggio dal bianco e nero al colore nel Mago

di Oz27. La struttura di questo film si basa sull’opposizione paradigmatica tra

colore e bianco & nero. Il colore implica una differenza, un cambiamento, il

trasferimento in un mondo alieno; il colore però non aggiunge realismo, ma

«un’intensità sensoriale, uno spazio artificiale e fantastico»28. Si tratta di

un’opposizione tematica, già presente nel romanzo di Lyman Frank Baum,

da cui il film è stato tratto, sia nelle descrizione interne al testo narrativo, sia

nell’impianto grafico del libro stampato nella sua prima edizione. Baum

aveva fiducia, infatti, nella capacità del colore di sollecitare la fantasia e

attirare l’attenzione, e si confermava essere a conoscenza dei nuovi metodi

25 G. Roque, “Il colore: simultaneo e successivo” (trad. it. di A. Boschi e G. Pescatore) in M.

Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nel Cinema, «Fotogenia», I, n.1, Bologna,CLUEB, 1994.

26 Tom Gunning, “Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini” (trad. it. diSara Pesce e Francesco Pitassio) in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nelCinema, op. cit. p. 27.

27 Wizard of Oz, 1939, Usa, diretto da Victor Fleming.28 Tom Gunning, “Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini” (trad. It. di

Sara Pesce e Francesco Pitassio), in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nelCinema, op. cit, ibidem.

68

della cultura commerciale che proprio in quegli anni irrompeva in Occidente.

Si era alla ricerca dell’intensità sensoriale e il significante del cinema delle

origini aveva insito in sé il carattere metaforico.

L’opposizione in Éloge de l’amour è temporale e spaziale. Il grigio della

città contro il colore della natura. Come nel Mago di Oz, il colore implica un

cambiamento, e viene reso in modo particolarmente espressivo e incisivo.

III.3.1. Il Bianco & Nero in Éloge de l’amourInge Degenhardt29, scrivendo del regista Karl Heinz Martin,

sosteneva che l’assenza del colore, in tempi in cui questo era già in uso,

avesse due funzioni: quella di “guidare” lo spettatore nella scoperta di

determinati aspetti del soggetto e della loro interpretazione, e quella di

creare straniamento30 con un trattamento anti-illusionistico e di liberare gli

stimoli intellettuali. Ed è sicuramente lo stesso effetto che crea guardare il

film di Godard. Ma si può affermare lo stesso anche per l’uso tutto

particolare che viene fatto del colore: stesso straniamento, stesso effetto

anti-illusionistico. Ma di questo si parlerà nel prossimo paragrafo.

La scelta del bianco & nero è sicuramente una preziosità un po’ rétro.31

Nonostante l’uso del colore fosse una consuetudine, fin dagli inizi nel

cinema vigeva un’estetica del bianco & nero, come quella di Fritz Lang o

dell’espressionismo tedesco, poi ripresa dal genere noir americano, in cui la

scelta era legata all’ambientazione della grigia metropoli.32 Tra i primi

studiosi e commentatori, Rudolf Arnheim33 si dichiarò contrario all’uso del

colore, in quanto il cinema non sarebbe un’arte se riproducesse fedelmente

la natura. La sua natura estetica, infatti, gli deriva dagli aspetti non realistici

del proprio materiale. Ma è da ritenersi un’opinione totalmente soggettiva.

Il bianco & nero che Godard sceglie ha tonalità ad alto contrasto.

L’elemento contrasto indica il grado di differenza tra le aree più scure e

quelle più chiare. Nelle sequenze della prima parte c’è una forte differenza

29 Vedi I. Degenhardt, “Assenza e presenza del colore” in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di),

Il Colore nel Cinema, op. cit., pp. 71-88.30 Cfr. con il secondo capitolo.31 Vedi F.Casetti, F. di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, 1990.32 Vedi L. Gandini, “Il nero a colori” in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nel Cinema, op. cit. pp. 125-134.33 R. Arnheim, Film come arte, Milano, Il Saggiatore, 1960 (Film as Art, Berkeley-Los

Angeles, University of California Press,1959).

69

tra le zone di massima luce e quelle di massima oscurità. È probabile che

Godard abbia optato per una pellicola particolarmente sensibile, cioè

impressionabile anche con quantità di luce scarsa, come quella che si può

riscontrare nelle strade notturne della metropoli parigina. Godard aveva già

fatto uso di questo tipo di bilanciamento di bianchi e neri nel film Les

carabiniers34, ma attraverso manipolazioni successive alla ripresa, oltre

all’uso di un tipo di pellicola particolare. L’effetto che voleva ottenere era

quello di evocare le vecchie pellicole di guerra, riversate o girate in cattive

condizioni di illuminazione.35

Il bianco & nero di Éloge è posto in antitesi al colore, in funzione negativa.

Si sceglie cioè questa modalità perché si vuole esaltare la forza, il vigore del

colore, al fine di sottolineare e accentuare la memoria, il passato.

Il bianco è quello delle pagine del libro delle idee e dell’ispirazione che

Edgar sfoglia continuamente alla ricerca di una soluzione ai suoi dilemmi

(fig. 10); il nero è quello della strade notturne di una Parigi che la stessa

monocromia rende eterna, senza tempo. Neri sono anche i piani che

appaiono spessissimo, sia nella prima che nella seconda parte, come

stacchi dalla durata di qualche secondo, e parallelamente le voci continuano

a parlare. È come se Godard volesse far concentrare lo spettatore suldialogo, sulle parole. In Lotte in Italia del 1970, girato con il gruppo Dziga

Vertov36, (commissionato e poi rifiutato dai programmi sperimentali della

Rai) gli spazi neri erano il collante del film ed esprimevano

«l’indeterminatezza fra reale e immaginario, tra realtà e riflesso»37.

Farassino sostiene che in quel caso le inquadrature monocrome (in Lotte in

Italia erano anche rosse) cercassero la purezza teorica ideale; esse

rimandavano allo schermo bianco immaginato da Bresson e ai monocromi

di Klein. Il flusso delle immagini si ferma, ci ricordiamo che siamo di fronte a

qualcosa di artificiale, di fronte ad uno spettacolo. Nella maggior parte dei

casi, i quadri neri38 diventano lavagne su cui Godard scrive a caratteri

bianchi e ben definiti parole come “ARCHIVES” (fig. 11), “DEUX ANS

AUPARAVANT”, “IL Y AVAIT DEUX ANS DÉJÀ” che introducono, 34 1963, Francia.35 Bordwell e Thompson, Cinema come arte, Milano, Il Castoro, 2003, p. 273.36 Cfr. Con I.1.3.37 A. Farassino, Jean-Luc Godard, Milano, Il Castoro, 2002, (II edizione aggiornata; I edizione

del 1974), p. 137.38 Cfr. con II.1. e II.2. e figg. 2 e 3.

70

preannunciano e spiegano le scene che seguono, o che hanno la funzione

di commento, come “IL Y A LONG TEMP” cui segue “SI LONGTEMPS”,

che secondo la teoria degli atti linguistici di Austin39 sarebbero definiti attiespositivi, poiché implicano l’esposizione di vedute, la chiarificazione

dell’uso e del riferimento delle parole (in questo caso delle immagini) o della

conduzione di un’argomentazione. I quadri neri sono paragonabili alla prima

pagina di una nuova parte nella suddivisione dei capitoli di un libro. L’uso di

questi cartelli conferma la frammentarietà della storia, o presunta tale, del

film. Se il racconto fosse fatto secondo le regole del cinema classico, dai

raccordi tra le inquadrature alla coerenza e alla linearità della successione

delle sequenze, non si avrebbe bisogno di spiegazioni, né di annunci (fatta

eccezione, naturalmente, per il cinema muto). Con la semplice fruizione

delle immagini, lo spettatore intuirebbe da solo, senza la necessità di un

aiuto da parte dell’autore, e ancor meno delle scritte che compaiono

soprattutto nella prima parte del film. Esse non sembrano avere

nessun’altra funzione se non quella di ricordare, in un modo ripetitivo e

quasi ossessivo, che Edgar ha un progetto di scrivere o fare qualcos’altro

sull’amore: “DE QUELQUE CHOSE”, “DE L’AMOUR”; diventa un intercalare

che non ha nessuna utilità pratica.40

Nella prima parte del film sono inquadrati vari dipinti d’impostazione

realistica o impressionistica, quasi spettasse loro il compito di conferire il

colore alle immagini. È un’evocazione di tinte luminose che si pone in

contrappunto e si perde nella ridotta scala dei grigi. Nella seconda parte,

con il passaggio al colore, non vediamo più citazioni o rimandi di questo

genere. Il film assume esso stesso le qualità cromatiche di un’opera

pittorica, grazie all’uso di colori vividi e saturi.

39 Si ha a che fare con la “pragmatica” cioè con ciò che riguarda quello che si fa con la

produzione di un enunciato, in un determinato contesto situazionale, e che chiama in causal’intenzionalità del parlante. Gli enunciati prodotti nella normale interazione verbalecostituiscono degli “atti linguistici”. Produrre un enunciato equivale a produrre tre atti: locutivo(formare una frase in una data lingua con la sua struttura fonetica, grammaticale e lessicale),illocutivo (intenzione con la quale e per la quale si produce la frase, azione che si intendecompiere dicendo quell’enunciato), perlocutivo (effetto che si provoca nel destinatario delmessaggio). Vedi J.L. Austin, How to do things with words, Oxford, Clarendon Press, 1962, cit.in E. Fava, Atti di domanda e strutture grammaticali in Italia, Verona, Libreria Universitariaeditrice, 1984.

40 Cfr. II.1. e figg. 2, 3, e 11.

71

III.3.2. Il colore al cinema

Jacques Aumont41 sostiene che il colore riconduce alle radici

figurative del cinema; esso minaccia «di riconquistare la propria autonomia,

di abbandonare l’immagine o di oltrepassarla (di “dis-gregarla”)».42

Il cinema nasce in bianco & nero, ma nel periodo del cinema muto

si tentava già di colorare le immagini. Si trattava di colore aggiunto,

applicato in un secondo momento. Il primo metodo che venne usato è stato

la colorazione dei singoli fotogrammi con un piccolo pennello, a mano,

quindi. Non è difficile immaginare che fosse un lavoro molto lungo e per di

più costoso. Basti pensare che per dieci minuti di proiezione era necessario

colorare dieci mila immagini. In seguito fu inventata la colorazione à

pochoir.43 Poi vennero introdotte le tecniche dell’ imbibizione e del viraggio,

che si basano sul principio della monocromia, in quanto sul fotogramma si

distribuisce un solo colore, nel primo caso in maniera uniforme, nel secondo

solo sulle parti scure, quelle impressionate.

L’esigenza dell’uso del colore nacque dapprima nella pubblicità, quella dei

cartelloni e dei manifesti. L’uso del colore è stato sempre associato alle idee

di lusso e di ricchezza, e doveva assolvere alla funzione di attirare lo

sguardo e l’attenzione di chi guardava, seducendolo.44 Nel cinema, invece,

l’intento era quello di accrescere la credibilità, la verosimiglianza della realtà

fisica (ad esempio l’uso del blu per la notte), e di simboleggiare una

situazione emotiva (ad esempio il rosso per le scene d’amore e di forte

coinvolgimento). Si intendeva dotare l’immagine di significati, al fine di

creare un’atmosfera drammatica. Ovviamente il significato dei colori non era

stabile, determinato, ma dipendeva dal contesto di riferimento.

Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, i perfezionamenti della tecnica e

i primi risultati validi in senso artistico hanno posto in primo piano il

41 J. Aumont, “Colori d’uomo: la carne, il cosmetico, l’immagine” (trad. it. di Alberto Boschi) in M.

Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nel Cinema, op. cit., p. 83.42 Ibidem.43 Per approfondimenti vedi S. Alovisio, “Il cinema delle origini e la nascita del racconto

cinematografico”, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla storia del cinema, op. cit., pp. 3-26. È utile ricordare che la maggior parte dei film che appartengono al periodo precedenteall’introduzione della pellicola a colori, giunge a noi in bianco e nero, proprio per le ragioni dicosto e per la facile deperibilità delle pellicole trattate con queste tecniche.

44 M. Dall’Asta e G. Pescatore, “Ombrecolore”, in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), IlColore nel Cinema, op. cit.

72

problema estetico del colore come mezzo espressivo dell’arte del film.45 Il

colore viene considerato uno dei mezzi a disposizione del regista-narratore,

concorrente nella definizione del linguaggio cinematografico nella sua

totalità espressiva. Sorge, infatti, tutta una teoria e una pratica dei valori

grammaticali e sintattici del colore in rapporto alla caratterizzazione

ambientale, psicologica e soprattutto stilistica del film.

Spesso i colori sono funzionali al racconto e offrono codici supplementari

a quelli della narratività. Ad esempio un colore può essere associato a uno

stato emotivo, a una situazione narrativa (come è appunto per il sogno o il

flashback in bianco & nero). Un esempio è il primo film a colori di Akira

Kurosawa, Dodes’ka-den46. Il regista assegna ai colori un forte valoresimbolico, usando un violento contrasto di rossi, gialli e neri per evocare

l’ebbrezza dovuta all’alcol, e mette in scena una violenza sessuale su di un

tappeto di fiori scarlatti, non casualmente. Un discorso simile vale anche per

Deserto Rosso47, prima pellicola a colori di Michelangelo Antonioni 48,nominato spessissimo per la grande ricerca cromatica che fu dietro alla

creazione. Egli creò un «effetto pitturato»:49 fece dipingere strade, tratti di

paesaggio per controllare totalmente e in senso antinaturalistico gli effetti

cromatici. Era alla ricerca di elementi che creassero corrispondenze tra la

situazione drammatica e la dominante cromatica, che poi chiamò «colore

dei sentimenti».50

Un discorso simile valeva già in pittura e due esempi sono il Cristo giallo e

il Cristo verde51 di Paul Gauguin, in cui i colori determinano l’atmosfera

psicologica di contemplazione e riflessione nel primo, e di insidia e pericolo

delle ore notturne nel secondo. Egli tendeva a fondere la vita dell’uomo a

quella della natura e i suoi misteri, in una logica primitivista.52

45 F. Savio, voce “COLORI” § III, “Questioni estetiche”, in Enciclopedia dello spettacolo, Roma,

Le Maschere, 1956 vol. 3, p. 1138.46 1970, Giappone. Cfr. P. Mereghetti (a cura di), Dizionario dei film, Milano, Baldini Castoldi

Dalai Editore, 2005.47 1964, Italia.48 Cfr. con I.3.49 A. Costa, Il cinema e le arti visive , op. cit., p.310.50 Ibidem.51 Entrambi del 1889.52 Cfr. P. De Vecchi e E. Cerchiari, Arte nel tempo. Dal Postimpressionismo al postmoderno,

Milano, Bompiani, 1991.

73

III.3.3. Il colore in Éloge de l’amour

Il colore venne introdotto nel cinema, come si diceva sopra, per

creare l’atmosfera drammatica. Secondo Tom Gunning53 da un lato il colore

restituisce l’illusione perfetta del mondo esterno, dall’altro può apparire

come «una presenza puramente sensuale, un elemento che può perfino

indicare una divergenza rispetto al reale».54 André Bazin concepiva l’uso

del colore come compimento della missione realistica del cinema, poiché

svolge un ruolo indexicale. Con questo termine si fa riferimento alla

distinzione tra le tipologie di segno introdotta dal semiologo americano

Charles S. Peirce.55 Egli individuò il segno iconico, che rappresenta

l’oggetto per via di similitudine o analogia (un esempio è il ritratto o

l’immagine fotografica); il segno indexicale, che comporta un legame

causale, esistenziale tra segno e interpretante (il fumo indica che un fuoco

sta ardendo); il segno simbolico, che si basa su di un rapporto interamente

convenzionale tra il segno e l’interpretante (ad esempio i segni linguistici).

Per quanto concerne la registrazione delle immagini cinematografiche, si

evidenzia che i fotogrammi sono sia segni iconici, poiché somiglianti agli

oggetti che essi rappresentano, sia indessicali perchè sono il risultato di

modificazioni chimiche su uno spezzone di pellicola che reagisce alla luce

(di qui il legame causale tra l’evento pro-filmico e la sua rappresentazione

fotografica). Il video digitale è un mezzo che produce immagini che sono sia

iconiche, sia indessicali, sia simboliche. Esso, infatti, campiona i raggi di

luce (legame causale) e codifica numericamente i valori del loro voltaggio

(rapporto convenzionale).

Tornando al discorso sui colori, in Éloge de l’amour co-occorrono sia quelli

a carattere iconico, cioè somiglianti alla realtà, come il verde dell’erba dei

campi delle prime inquadrature, anche se si tratta di verde intenso e poco

“naturale”, e colori non iconici, come quelli dell’inquadratura che segna il

passaggio al flashback56, insieme alle manipolazioni che seguono nelle altre

inquadrature, che risultano metaforici, spettacolari e simbolici.

53 T. Gunning, “Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini” (trad. di Sara

Pesce e Francesco Pitassio), in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nel Cinema,op. cit.

54 Ibidem.55 C.S. Peirce, Collected Papers, 8 voll, Ch. Hartshorne, P. Weiss (a cura di), Cambridge,

University Press, 1931.56 Cfr. con I.2.3., III.2.

74

Nel film oggetto d’analisi la funzione del colore varia a seconda delle

circostanze. Si riscontrano assonanze tra diverse sequenze. C’è una

prevalenza di colori e tonalità “calde”57 (dal rosso, al seppia, all’arancione)

nelle scene degli interni della casa dei Bayard, e in modo particolare si

coglie che Berthe viene identificata e connotata da questi colori (ella

indossa, infatti, una maglia rossa e un soprabito giallo. Fig. 12)58. I toni

“freddi” del blu, invece, prevalgono nella stanza dell’albergo in cui Jean

Bayard discorre con Edgar (fig. 13), e nell’immagine in esposizione multipla

di cui ci occuperemo nel quarto capitolo59: il mare e il cielo sono blu

elettrico. Durante il percorso in automobile verso la stazione di Berthe ed

Edgar si alternano immagini a prevalenza di colori caldi e altri di colori

freddi. Il rosso della terra, il blu dell’acqua del mare; l’istinto femminile e la

ragione maschile; la personalità di Berthe, quella di Edgar. I due colori

primari sono rievocati spesse volte dall’inquadratura di una piccola barca,

quella con cui Jean sbarcò nella Francia liberata, striata di rosso, bianco e

blu. I tre colori della bandiera francese ricorrono di frequente, probabilmente

come simbolo di identità e come rimando al concetto di origine di un popolo,

di una nazione, e di una cultura. Godard, ripercorre, metaforicamente, in

Éloge de l’amour, la storia di più di mezzo secolo della Francia,

dall’occupazione nazista, al maggio del ’68, ai giorni nostri.

I colori saturi, brillanti e poco rispondenti a quelli che ritroviamo in natura

che Godard usa impressionano lo spettatore, lo coinvolgono in una realtà

particolare. Sempre nel suo saggio sul cinema delle origini e il colore come

attrazione, Gunning sostiene che la mancanza di naturalismo, la sua

arbitrarietà e la sua intensità superiore al reale, permettevano al colore di

«essere esperito come una forza in sé, come qualcosa di più che una

semplice qualità secondaria degli oggetti»60. Come nelle pellicole colorate a

mano o à pochoir, la discrepanza che viene a crearsi tra i contorni del

colore e quelli degli oggetti rappresentati, «rafforza il senso di autonomia del

colore, che pare quasi staccarsi dalla superficie reale e fremere in una

danza scintillante». Questi colori miravano a stimolare la fantasia e ad 57 I caratteri antinomici di “caldo” e “freddo”, largamente accettati da tutti gli studiosi del colore,

sono contestati da R. Arnheim, il quale sosteneva fossero tratti relativi e non assoluti. VediArte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, 1990 (VII ed.), p. 300.

58 Cfr. con I.2.3.59 Cfr. con IV.2.3. e figg. 21 e 22.60 Ibidem.

75

attirare l’attenzione. Non ricercano «l’armonia di un ordine estetico

predefinito né una visione della natura che corrisponda ai dati

dell’osservazione».61 Per certi versi il discorso vale anche per il film in

analisi. Viene da pensare al superamento dell’arte simbolista da parte

dell’arte fauve-espressionista62: la prima eteronoma in quanto il segno

evocava qualcosa d’altro, la seconda autonoma poiché le icone e le

campiture cromatiche rimandavano solo a se stesse.63 L’espressionismo

pittorico proiettava sui dati esterni una soggettività esasperata, usando luce

e colore a seconda delle esigenze espressive dello stato d’animo o del

messaggio che l’artista intendeva esprimere. Anche Godard usa in senso

espressionistico il colore. Le sue cromie hanno un significato ma allo stesso

tempo hanno senso in se stesse. I contorni sono sfumati, ma questa volta

ciò non dipende dall’uso del pennellino, ma dalla manipolazione digitale64.

Il mezzo elettronico crea una tessitura65 peculiare. Nel caso dell’immagine

elettronica, la tessitura è a grana larga.

Secondo Antonio Costa66, nel suo studio sul rapporto tra il cinema e

le arti visive, l’immagine elettronica, prodotta dalla tecnologia video, stretta

parente della tecnologia digitale che la perfeziona nella resa figurativa,

avvicina il cinema alla pittura:la “coloritura” d’ un pixel, cioè dell’unità minima di superficie d’un reticolo elettronicoè più vicina alla stesura di una campitura di colore di quanto non lo sia la ripresacinematografica d’un paesaggio.67

Le tinte del passato di Éloge de l’amour sono intense e hanno un carattereartificiale come quelle fauve-espressioniste68 di Maurice Vlaminck, con i

suoi gialli e rossi molto caldi, e di André Derain, la cui tavolozza prevede

61 Tom Gunning, “Metafore colorate: l’attrazione del colore nel cinema delle origini” (trad. It. di

Sara Pesce e Francesco Pitassio) in M. Dall’Asta e G. Pescatore (a cura di), Il Colore nelCinema, op. cit., p.27.

62 «La parola “espressionismo” fu usata per la prima volta in una monografia di Paul Fechter del1914, dedicata al gruppo del “Ponte” di Dresda (Die Brücke) e al “Cavaliere Azzurro” diMonaco (Der Blaue Reiter), indicati come movimenti tedeschi di specifica opposizioneall’Impressionismo, paralleli al Cubismo e al Futurismo. Per analogia verrà successivamentedalla critica per il gruppo francese dei “Fauves” (Le Belve), nato a Parigi intorno al 1905 e cheha in Henri Matisse l’esponente più autorevole». Cfr. P. De Vecchi e E. Cerchiari, Arte neltempo, op. cit.

63 R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Milano, Feltrinelli, IX ed.2003 (I ed.1984), p. 83.

64 Cfr. con I.3.65 Con il termine “texture” si intende “grana”, nel senso di granulosità. Vedi B. Munari, Design e

comunicazione visiva, Bari, Laterza, 1993, p. 90.66 A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 149.67 Ibidem, p. 151.68 Cfr. R. Barilli, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, op. cit.

76

una predominanza di colori freddi.69 C’è un’esplosione cromatica inattesa

che ricorda il vivissimo à plat matissiano, che ricrea volutamente

un’immagine bidimensionale, piatta appunto, tutta basata sul contrasto

figura-sfondo70. Contrasto che ricorre in diverse occasioni nel film. 71 Si

stabilisce, dunque, una dicotomia di piani.

Come il colore di Henri Matisse, quello di Godard è solare, puro e timbrico.

James Quandt descrive la natura rappresentata da Godard con la parola

“noxious” e ritiene che i paesaggi della Bretagna siano resi in una

«conflagration of sulphurous oranges, bilious blues, and pestilential yellows,

keyed hot and toxic, their lava-like whorl magnifying the innate swimminess

of the digital image»72. Questi colori esprimono e sottolineano la

soggettività, il carattere tutto personale della memoria.73

In definitiva l’uso del colore in Godard ha tre valori:

1) descrittivo: i colori descrivono la realtà così come essa appare di

fronte ai nostri occhi, pur sottoponendola a manipolazioni, ma

mantenendoli, fatte alcune eccezioni, fedeli alla cromia di base;

2) narrativo, in quanto distingue le fasi narrative del passato e del

presente;

3) espressivo, perché sottintende dei significati da comprendere e

interpretare.

III.4. FREEZE-FRAMES

Ciò che ci accingiamo ad analizzare mette in gioco le coordinate

spazio-temporali della rappresentazione cinematografica, le stravolge.

Quando siamo seduti in una sala cinematografica ci aspettiamo di vedere

delle immagini proiettate sullo schermo che si susseguono l’una all’altra.

Non ci accorgiamo del passaggio da un fotogramma all’altro. Si tratta, come

69 Cfr. W. Hofmann, J. Leymarie, E. Rathke, L’arte moderna. L’ Espressionismo e il Fauvismo,

Milano, Fabbri Editori, vol. III, 1975.70 Cfr. con IV.2.6.71 Cfr. con IV.2.6. e figg. 27, 28, 29, 30.72 J. Quandt, “Here and elsewhere: projecting Godard”, in M. Temple, J. Williams, M. Witt (edited

by), For ever Godard , London, Black Dog Publishing Limited, 2004, p.138.73 Cfr. con D.L. Schachter, Alla ricerca della memoria: il cervello, la mente e il passato,

Torino, Einaudi, 2001.

77

abbiamo visto nel capitolo precedente, dell’illusione di movimento dovuto

sia al meccanismo dello scorrere impercettibile della pellicola sia al

movimento degli oggetti e delle persone che vediamo rappresentati sullo

schermo.74

La macchina da presa agisce come un meccanismo che registra la

continuità dinamica del reale, ma è in grado, allo stesso tempo, di

manipolarne le apparenze, fermandone o mutandone la velocità del flusso.

Si è visto come la natura del piano-sequenza, che Godard ripropone spesso

nel film come tipo di ripresa, secondo Bazin75 riesca a rivelare il significato

profondo delle cose mantenendo la durata reale. Si ottiene, così, la naturale

unità della sequenza che si intende rappresentare. Il piano-sequenza, cioè,

riesce a registrare il “tempo reale” degli eventi. Il Nostro sosteneva che il

cinema, come la fotografia, fosse un processo di registrazione76: entrambi

registrano lo spazio, ma la cinepresa, a differenza della macchina

fotografica, può registrare anche il tempo. Bazin affermava che «il cinema

appare come il compimento nel tempo dell’oggettività fotografica».77

A questo modo di ripresa della realtà e all’effetto di “naturalezza”, continuità

e dinamicità che esso contribuisce a creare, si contrappone un effetto

speciale cinematografico78, un espediente stilistico conosciuto con il nome

di freeze-frame o stop-frame. L’effetto che vediamo sullo schermo è quello

di un’immagine che si blocca durante il flusso degli eventi rappresentati. La

macchina da presa e lo spazio che essa riprende sono entrambi statici e

fissi. Tuttavia il fermo-immagine ha una durata sua propria, che è di

qualche decimo di secondo. Il tempo narrativo rallenta fino a fermarsi,

perché nella storia non accade nessun nuovo evento. È come una pausa,

una sospensione della narrazione che viene resa manifesta ed evidente.

Da un punto di vista strettamente tecnico, l’effetto è ottenuto stampando più

volte il fotogramma di una stessa ripresa in modo da congelare un

frammento di azione (da qui il verbo del nome composto “freeze”, cioè

“congelare”). Esso è un accorgimento che solitamente viene preso per

allungare un’inquadratura troppo corta, raddoppiando i fotogrammi per

74 Cfr. con II.3.2.75 Vedi André Bazin, Che cosa è il cinema?, Milano, Garzanti, 1973.76 D. Bordwell e K. Thompson, Cinema come arte, op. cit., p. 334.77 Ibidem.78 Cfr. con la categorizzazione degli effetti speciali fatta da Metz e Brosnan (IV.1.1.).

78

l’intera sequenza, o per rendere più accettabili alcuni vecchi film muti,

togliendo loro l’effetto esilarante che deriva dall’involontaria accelerazione

conseguente al variare della cadenza.79 Il fermo-immagine è di solito posto

alla fine dei film ed è in genere poco usato nei film narrativi.80

È un’alterazione della durata della narrazione. Questa può essere contratta

con il cosiddetto riassunto, attraverso cui si accelerano le immagini, usando,

ad esempio, un fast motion81 o restituendo un’unità di contenuto narrativo

con un montaggio discontinuo con salti temporali tra un’inquadratura e

l’altra. Il tempo del racconto può essere azzerato come in un’ellissi, o

espanso con l’uso del ralenti82 o soluzioni di montaggio che scompongono

l’azione e la rappresentano nello stesso momento da punti di vista differenti.

Con il freeze-frame la narrazione si ferma, ma, differentemente dall’ellissi,

noi vediamo l’azione o l’evento, quindi il tempo è pari a zero sia nella

narrazione che nel discorso83, sia nello strato dei significati che in quello dei

significanti.

Di solito il fermo-immagine, nella storia del cinema, ha un contenuto

drammatico, come in Ottobre84 di Ejzen_tejn, quando tutti gli orologi del

mondo si arrestano sul minuto della rivoluzione, o in altri casi viene fatto

rientrare nel regime della “descrizione” cinematografica, come nei romanzi,

in cui le descrizioni sono delle pause, anche se nella lettura dello spettatore

il tempo diegetico non si arresta mai.

All’inizio di questo capitolo, si è descritta l’inquadratura “valico”85 come un

punto di svolta e un punto fermo della scrittura filmica. Essa era una pausa,

un arresto della narrazione, la fine di un capitolo. Nel caso di un espediente

ottico come quello del fermo-immagine, l’analogia con il punto si rende più

evidente e concreta. Ma la metafora è nascosta, impossibile da cogliere, se

c’è. I freeze-frames di Godard, infatti, sembrano fotografie di paesaggi

marini, di spiagge, senza rimandi ad alcun substrato simbolico, nel senso di

significato “altro”, diverso dalla denotazione. È un’immagine da fruire in

senso “letterale”, da godere per la sua bellezza estetica; di conseguenza 79 R. Tritapepe, Le parole del cinema, Roma, Gremese editore, 1991, p. 95.80 Vedi F. Casetti, F. di Chio, Analisi del film, op. cit.81 Il moto degli oggetti o delle persone in movimento nello schermo è velocizzato.82 O slow motion. Effetto che determina sullo schermo un moto più lento degli oggetti o delle

persone in movimento. Cfr. con I.1.4.83 Cfr. nota n. 27 del secondo capitolo.84 Oktjabr’, 1927, Urss.85 Vedi fig. 9.

79

non motivata da funzioni narrative. Nella vita dell’uomo il tempo sembra

scorrere velocemente se gli avvenimenti sono piacevoli e forieri di gioia o

felicità; sembra rallentare, invece, fino a diventare interminabile, se accade

qualcosa di angosciante o drammatico. Godard ferma il tempo, così come lo

rallenta e lo velocizza, senza alcun motivo, eccetto quello di conferire una

dignità estetica autonoma alle immagini sullo schermo (come vedremo

meglio tra poco). Il fermo-immagine ha, quindi, un carattere non funzionale

alla narrazione. Le immagini statiche non hanno, infatti, motivo d’essere

tanto quanto le scritte su sfondo nero in un racconto che si rende

comprensibile, o che, quanto meno, esiste. Ma Éloge è un non racconto,

ed esse non sono che espedienti stilistici ed espressivi.Il primo fermo immagine che incontriamo nella visione di Éloge de

l’amour è ad un’ora esatta dall’inizio del film, poco dopo l’inquadratura a

colori invertiti della costa bretone. Scorgiamo Edgar procedere a piedi lungo

la strada ed essere fermato da Henri Roger, il quale aveva il compito di

accompagnarlo nell’hotel in cui soggiornava lo storico Lacouture. Si

presentano l’un l’altro ed Edgar parla del suo progetto di scrivere una

cantata dedicata a Simone Weil.86 Ecco perché si era rivolto ad uno

specialista della materia come Lacouture. Subito dopo ci appare nel quadro,

con una dissolvenza incrociata, un inserto non diegetico: una foto in bianco

e nero di una donna, sicuramente la Weil (fig. 17). In sottofondo, nessuna

parola, solo una melodia malinconica. Segue uno stacco netto e qui il primofreeze-frame (fig. 14). Lo stop coincide con la sospensione momentanea

della musica, in perfetta sincronia. Il quadro ci appare suddiviso in tre fasce:

una strettissima lingua di spiaggia in basso, una striscia di cielo in alto, e nel

centro, a campeggiare con imponenza, il mare agitato, due piccole barche

in lontananza scosse dalle onde e uno scoglio imponente sulla destra. Alla

musica poi si sovrappone il fragore delle onde, dopo il blocco iniziale,

quando l’azione riprende nella sua normalità.

Avviene finalmente l’incontro con lo studioso. Appaiono sullo schermo

diversi inserti non diegetici: fotografie in bianco e nero dei partigiani che

fecero la Resistenza (fig. 18). In voce off87 Lacouture cita un passo di

Péguy, lo scrittore; poi vediamo Edgar in primo piano che espone il suo 86 Cfr. con I.2.3.87 Cfr. con II.2.

80

progetto e le ricerche preliminari. Ma la voce off dello storico riprende e ad

entrambe si somma la voce, sempre fuori campo, di Jean Bayard, in una

sovrapposizione e confusione disarmanti. Subito dopo appaiono altri inserti

non diegetici, in genere dettagli di quelli precedenti, alternativamente a

quadri totalmente neri. Poi di nuovo Edgar e il secondo freeze-frame (fig.

15). Il quadro è suddiviso in due parti: in primo piano le due barche del

primo fermo-immagine ma ad una distanza ravvicinata rispetto a quella

precedente. Sullo sfondo gli scogli si stagliano di fronte al cielo. Sembra che

Godard proceda dal generale al particolare, in una discesa verso il dettaglio.

Lo stesso procedimento vale anche per gli inserti non diegetici. In

sottofondo una musica sempre malinconica ma più serena, diversa da

quella precedente. Ad essa si sovrappongono le voci di Lacouture, che

continua con le sue disquisizioni, e quella di Edgar, riprese, però in momenti

diversi del loro incontro, creando il solito effetto di spaesamento, nello

stravolgimento dell’ordine del classico dialogo tra due parlanti. I colori

dominanti sono il blu, il rosso e il bianco. La Francia, la sua identità e la sua

storia ritornano.88 Dopo qualche minuto, in un’inquadratura vediamo Berthe

di schiena scrivere con un pennello sulla banda rossa di una barca “France

Libre”89, presumibilmente una di quelle che abbiamo incontrato nei fermo-

immagine.

Incontriamo l’ultima immagine “congelata” (fig. 16) che si è scelto di

analizzare pochi minuti dopo. Edgar ha appena visto Lemmy, l’assistente

americana avvicinarsi all’automobile che l’ha condotta all’hotel. È una Lotus.

Edgar, fuori campo, le dice che suo padre aveva conosciuto Colin

Chapman, il quale aveva disegnato quell’auto. Lemmy gli risponde

disinteressata e quasi infastidita con un:

«So what?».

Edgar, in modo garbato e sconcertato replica:

«You don’t like history, miss».

Proprio su queste parole ci appare l’immagine bloccata del mare con al

centro degli scogli imponenti. Il movimento riprende, ma l’inquadratura

rimane fissa come la cinepresa. Essa indugia sui flutti agitati e sulla

schiuma che ricopre le rocce. Nel frattempo riprende la musica, sempre 88 Cfr. con I.1.5., I.2.1., I.2.3.89 Il movimento per la resistenza francese.

81

nostalgica, cui si accompagna la voce off di Berthe, che recita frasi, poco

semplici da capire:…c’est facile, la tragédie, on est tranquilleça roule tout seulla mort, le désespoir, la trahison, sont làtout prèset les éclats, et les orageset les silences, tous les silencesc’est propre, la tragédiec’est reposant c’est sûr…

Subito dopo uno stacco, lo schermo diventa nero e Berthe parla del

melodramma. In esso vivono «i malvagi, i traditori, in cui l’innocenza è

perseguitata e poi vendicata; i bagliori di speranza permangono ma la morte

è orribile come un incidente». È un susseguirsi di stralci di citazioni,

assemblati in modo disordinato, estrapolati da scritti non riconoscibili. Si

continua dicendo che nella tragedia invece, si è tranquilli: tutti sono fratelli,

tutti sono innocenti perché si sa che si è senza speranza, perché si è tutti

imprigionati.

III.4.1. Cinema e pittura

I riferimenti alla pittura sono frequenti nella critica cinematografica,

come negli scritti di teoria e di estetica.90 Giorgio Tinazzi91 individua quattro

livelli possibili ai quali è attiva la relazione tra le due arti: a) relazione di

immagine, che rimanda alle somiglianze tra immagine pittorica e immagine

filmica; b) di costruzione dell’immagine; c) di articolazione di immagine; d) di

autoriflessione dei linguaggi, ovvero la riflessione sulle strutture del

linguaggio e la relazione tra i linguaggi.

La relazione tra cinema e pittura divenne strettissima con l’espressionismo,

in cui il cinema adottò uno stile pittorico.92 Si ricordano le avanguardie

storiche, dal Futurismo al Dada, al Surrealismo. Stile figurativo

cinematografico e una contemporanea corrente o tendenza nelle arti visive

sono stati spesso in relazione, sia per scelta degli stessi registi sia per

attribuzione da parte della critica. Basti pensare alla rivisitazione della Pop 90 A. costa, Il cinema e le arti visive, op. cit., p. 28.91 G. Tinazzi, La caverna di Platone e la luce di Cézanne, in «Cinema & Cinema», 1989, n. 54-

55, pp. 49-57, cit. in A. Costa, Il cinema e le arti visive, op. cit., p. 49.92 Cfr. Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari, 1920, Germania) di Robert

Wiene, in cui emerge la volontà di annullare il realismo fotografico, facendo emergerel’espressività e soggettività della pittura, attraverso l’uso di una scenografia teatrale. Unascelta di questo tipo è stata fatta di recente da Lars Von Trier in Dogville, 2003, Danimarca-Svezia-Francia-Norvegia-Olanda-Finlandia-Germania-Italia.

82

art fatta da Stanley Kubrick in Arancia Meccanica93, ai richiami alla pittura

informale o all’espressionismo astratto in Zabriskie Point94 di Michelangelo

Antonioni. Impossibile non ricordare Godard stesso, che ha sempre avuto il

gusto della citazione pittorica, in Una donna sposata95, Il bandito delle

undici96, La cinese 97, Week-end98, senza dimenticare il periodo dagli anni

Ottanta in poi, di cui si ricordano Passion99 (in esso evidenzia l’irriducibile

alterità del cinema rispetto alla pittura) e Histoire(s) du cinéma100, e la

riflessione metalinguistica sempre più profonda che li caratterizza. In Éloge

de l’amour, come si è detto in precedenza, ci sono citazioni pittoriche e

un’ispirarsi costante alla pittura nell’uso del colore e del mezzo di

registrazione delle immagini.101

III.4.2. «Effetto quadro»

Jacques Aumont102 sostiene che il cinema riesce a liberarsi dalla

necessità dell’istante pregnante, caratteristico della pittura e della

fotografia, che sono costrette a cogliere la salienza del momento, in cui

viene racchiusa la poetica, il pensiero dell’artista. Un’unica immagine deve

essere capace di sintetizzare e comunicare il messaggio artistico, e se

questo non c’è, l’espressione del sé. Il cinema, invece, eleva l’immagine

qualunque a oggetto della rappresentazione. Questo è sicuramente vero

nella maggior parte dei casi, ma il fermo-immagine costituisce un’eccezione

alla regola. Con questo dispositivo sembra che un’immagine debba

racchiudere dei significati e debba trasmetterli bloccando il fluire della

pellicola, creando un momento di disorientamento e sconcerto cui segue

una riflessione sul mezzo e sul discorso. Il freeze-frame è il punto in cui

cinema e le arti visive, pittura e fotografia, si avvicinano tanto da

sovrapporsi.

93 A Clockwork Orange , 1971, Usa.94 1970, Italia-Usa.95 Une femme mariée, 1964, Francia.96 Pierrot le fou, 1965, Francia.97 La Chinoise, 1967, Francia. Cfr. con I.1.3.98 1967, Francia-Italia.99 1982, Francia-Svizzera. Cfr. con I.1.4., I.2.2.100 1988-1998, Francia-Svizzera. Cfr. con I.1.5.101 Cfr. con I.1.5. e I.2.2.102 J. Aumont, L’occhio interminabile, Venezia, Marsilio, 1991.

83

Carlo Ludovico Ragghianti103 ritiene che il tempo viene rappresentato nella

pittura, ma non è riprodotto come nel cinema; esiste, infatti, una

successione temporale data dal tempo della visione, del percorso dello

sguardo dello spettatore. Nel caso del fermo-immagine il tempo della

proiezione si ferma, e diviene il tempo della contemplazione. Anche se la

durata dello stop è di pochi decimi di secondo, la cinepresa indugia e

rimane fissa sullo stesso spazio, rappresentando un dipinto che vive.

Godard arresta lo sguardo della macchina su paesaggi marini, con scogli e

barche. È un rimando ai paesaggi degli impressionisti, soprattutto a quelli di

Claude Monet. Hanno la natura degli interludi, che fungono da sottofondo

alla narrazione e al fluire delle parole off.

L’analogia dell’inquadratura con il quadro è stata sempre fatta. Arnheim

sosteneva che «il cinema dà contemporaneamente l’impressione d’un

avvenimento reale e d’un quadro»,104 ma egli basava la sua teoria sulla

convinzione che l’effetto d’illusione di realtà prodotto dal dispositivo

cinematografico fosse solo parziale, differentemente dalle teorie del cinema

moderno. Secondo i formalisti russi, alcune teorie delle quali furono riprese

dallo stesso Sergej M. Ejzen_tejn, l’arte è un procedimento, una

costruzione, un artificio, le cui leggi compositive sono le stesse per le varie

forme espressive, pur tenendo presente le specificità dei materiali di base di

ogni arte.105 Eric Rohmer riteneva che nel cinema esistono tre nozioni di

spazio, uno dei quali è quello pittorico106 (di cui individua i parametri per

l’analisi nella luce, nel disegno e nelle forme), che consiste nell’immagine

cinematografica proiettata sul rettangolo dello schermo, che viene

«percepita e considerata come la rappresentazione più o meno fedele, più o

meno bella, di questa o quella parte del mondo esterno»107.

Antonio Costa ravvisa diverse interferenze e interazioni tra modello pittorico

e modello filmico. Tra le varie tipologie egli parla della pittura diegetizzata,

in cui un sistema di figurazione statica è presente all’interno del flusso di

una figurazione dinamica. Un esempio è ne La dolce vita108 di Federico

103 C. L. Ragghianti, Arti della visione, vol. I, Torino, Einaudi, 1975.104 R. Arnheim, Il film come arte, op. cit. p.35.105 P. Montani (a cura di), Ejzen_tejn e il formalismo russo, in «Bianco e Nero», 1971, n. 7-8.106 E. Rohmer, L’organizzazione dello spazio nel “Faust” di Murnau, Venezia, Marsilio, 1985, p.19.

Gli altri spazi di cui Rohmer parla sono quello architettonico e quello filmico.107 Ibidem.108 1960, Italia.

84

Fellini, in cui Marcello e Steiner si soffermano in una breve riflessione su di

un quadro di Giorgio Morandi. Nel caso di Éloge de l’amour, il freeze-frame

è diegetizzato, pur non essendo un dipinto. Esso diviene uno schermo al

quadrato, un quadro nel quadro, in cui il primo è il piano dell’inquadratura e

il secondo è l’immagine statica e ciò che essa rappresenta.

Costa parla anche di effetto dipinto, facendo una distinzione tra effetto

pitturato109 ed effetto quadro . Questo implica che l’inquadratura

cinematografica ha l’effetto di un quadro, di un dipinto.L’inquadratura evoca quindi una pittura, o perché la cita esplicitamente, o perchéne riproduce determinati effetti luministici, cromatici o di organizzazione spaziale, operché ne imita la statiticità, la sospensione temporale, la selettività cromatica, operché si inscrive nella logica compositiva o iconografica d’uno stesso genere (peresempio la veduta paesaggistica, o il ritratto o il decorativismo astratto). Effettodipinto, quindi nel senso di effetto quadro.110

Esso produce l’effetto di tempo sospeso e di spazio definito e concluso,

oltre quello di selezione cromatica, differenziandosi dal piano

cinematografico che è un sorta di «calco iconico della durata, della

percorribilità dello spazio e della variabilità cromatica».111 Ma nel caso del

freeze-frame godardiano questa differenza sembra non sussistere, perché

l’immagine è immobile.

L’istanza discorsiva si fa evidente e sale alla ribalta. L’oggetto

dell’immagine è interno alla diegesi, si tratta del mare che bagna la

Bretagna, tuttavia la dimensione «enunciativa»112 emerge prepotentemente.

Il fermo-immagine rompe l’illusione di realtà. Riprendendo la teoria di

François Jost113 sui segni enunciativi, Costa sostiene che l’effetto dipinto

può avere un effetto più o meno enunciativo, o discorsivo,a seconda che i riferimenti pittorici favoriscano o meno l’immersione piena e totalenella «storia», si potrà parlare d’una spinta centripeta o centrifuga. Quanto piùprevarrà una funzione documentaristica del riferimento pittorico, tanto più s’avrà uneffetto di contestualizzazione più o meno estetizzante della storia narrata rispetto aun certo clima figurativo. Quanto più il riferimento pittorico rinvierà alla presenza diuna intenzionalità, d’un procedimento, ecc., tanto più esso si imporrà come effettoquadro che agisce in una direzione centrifuga rispetto alla storia, con conseguentepredominanza dell’ordine del discorso su quello della storia.114

109 Un esempio è Deserto Rosso di Antonioni di cui si è parlato in precedenza.110 A. Costa, Il cinema e le arti visive, op. cit., p.311.111 Ibidem.112 “Enunciazione” è un termine preso in prestito dalla linguistica, che nella teoria del cinema

indica le marche discorsive o le tracce stilistiche che segnalano la presenza di un autore o diun narratore nel film. R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema edell’audiovisivo , op. cit., p.128.

113 F. Jost, Discorso cinematografico, narrazione: due modi di considerare il problemadell’enunciazione, cit in A. Costa, Il cinema e le arti visive, op. cit., p. 314.

114 Ibidem.

85

Costa ritiene che nell’effetto dipinto ci sia una prevalenza della dimensione

discorsiva su quella narrativa; esso è una marca d’enunciazione della

funzione metalinguistica. Nel caso di Éloge de l’amour si ravvisa una ricerca

del difficile equilibrio tra le due tendenze (centripeta e centrifuga): la marca

enunciativa è evidente ma l’immagine è diegetizzata in quanto descrizione

per una contestualizzazione spaziale. Essa, tuttavia, è anche mezzo di

riflessione, non solo sull’istanza discorsiva, ma anche sulle stesse parole e

sulle stesse idee che emergono dalla diegesi.

Christa Blümlinger115 sostiene che il fermo-immagine ha la funzione di

condurre all’idea del momento o all’unità base della striscia filmica in

movimento. Serve, insieme allo slow motion (anche questo presente nel film

che si sta analizzando) a spiegare la genesi, nel senso di generazione, del

film. Tale capacità analitica del film di tornare alle sue parti costitutive è

peculiare in Godard perché, citando Raymond Bellour, è la sua abilità

«metafisica» di creare una «visione della visione»116.

I freeze-frames e l’immagine che segue all’interruzione dello scorrimento (la

pellicola va avanti, ma lo spettatore percepisce un blocco) possono essere

considerate delle pause riflessive per lo spettatore, al quale Godard

lascia il tempo per raccogliere le idee, pensare e meditare su ciò che

frattanto viene detto al di fuori del piano inquadrato. L’immagine fissa

possiede anche una dignità estetica completamente autonoma; potrebbe

essere slegata cioè dal flusso delle immagini. A riprova di questo, Godard117

stesso afferma che le immagini cinematografiche, tutte, sono indipendenti

dalla funzione espressiva che le subordina alla logica della

rappresentazione e alle relazioni causali dell’intreccio che essa sottintende.

In uno dei cartelli che compaiono nel film La cinese118, leggiamo uno dei

giochi di parole più noti di Godard: «ce n’est pas une image juste, c’est juste

une image».All’immagine giusta, opportuna, funzionale del racconto classico, Godard opponel’immagine in quanto tale, dura come un diamante, un’immagine che non si lasciaridurre a un semplice elemento del tessuto narrativo, del racconto, ma che

115 C. Blümlinger, “Procession and Projection: Notes on a figure in the work of Jean Luc Godard”,

in M. Temple, J. Williams, M. Witt (edited by), For ever Godard, London, Black Dog PublishingLimited, p.183.

116 R. Bellour, L’Entre-Images 2: Mots, Images, Paris, POL, 1999, pp. 123-124, cit. ibidem.117 Cfr. J. Rancière “Godard, Hitchcock, and the cinematographic image”, in M. Temple, J.

Williams, M. Witt (edited by), For ever Godard, op. cit., p.216.118 Cfr. con I.1.3.

86

conserva la sua autonomia, la sua natura di frammento astratto, scostante,inconciliabile.119

Il regista intende, cioè, restituire l’immagine a se stessa.

119 S. Bernardi, Introduzione alla retorica del cinema, Firenze, Le Lettere, 1995, p. 29.

88

IV. SOVRAPPOSIZIONI DI IMMAGINI

IV.1. DOPPIE ESPOSIZIONI

IV.1.1. La doppia esposizione: tecnica e funzioneMonaco1 sostiene, giustamente, che la sovrimpressione 2 è uno dei

codici cinematografici più innaturali, ma anche uno dei più significativi.

Viene realizzata filmando due volte lo stesso tratto di pellicola (con

esposizioni3 opportunamente ridotte per evitare il rischio di

sovraesposizione), cioè si filma una prima volta un soggetto, si riavvolge la

pellicola e si filma in seguito un altro soggetto che durante la proiezione si

sovrapporrà in trasparenza alla precedente.4 Si sovrappongono sullo stesso

fotogramma, cioè, più immagini in tempi diversi in modo da combinarle in

un tratto unico, costituendo un’immagine multipla di scene sovrapposte

l’una all’altra in modo da far trasparire il profilo di tutte come attraverso un

filtro. L’esempio più comune è quello della sovrimpressione dei titoli, ma nel

nostro caso si tratta di immagini5. Essa può essere realizzata in macchina o

in laboratorio per trattamenti in truka6 o in stampa. Ma è il caso di ricordare

che le sovrimpressioni presenti in Éloge sono ottenute, invece, con la

tecnologia elettronica digitale7: tutto avviene all’interno della videocamera

o attraverso una manipolazione digitale, per l’appunto, successiva al

momento delle riprese, in fase di post-produzione, quindi, grazie a software

specifici. Si tratta di effetti che si ottengono facilmente con i computer

moderni. Questi mezzi sono in grado di compiere operazioni, anche se

molto complesse, per nostro conto, riducendo al minimo l’apporto personale

(basti pensare che chiunque abbia conoscenze e competenze informatiche

di base, è sicuramente in grado di montare brevi filmati).

1 J. Monaco, Leggere un film, cinema, media e multimedia, Bologna, Zanichelli, 2002, p.

180.2 È il nome che viene utilizzato comunemente per definire la doppia esposizione.3 L’esposizione è il processo di sottoporre una emulsione sensibile all’effetto della luce;

l’immagine del fotogramma è determinata dal rapporto fra tempo di esposizione e intensitàluminosa della sorgente.

4 A. Mazzoleni, L’Abc del linguaggio cinematografico, Roma, Dino Audino Editore, 2002, p.63.

5 Godard sovrimprime spessissimo titoli nei suoi film, a partire dalla fine degli anni ’60.6 Stampatrice ottica. Vedi R. Tritapepe, Le parole del cinema, Roma, Gremese Editore,

1991, p. 239.7 Cfr. con I.3.

89

La doppia esposizione è una forma elementare di trucco cinematografico.8

John Brosnan9 distingue tra effetti fisici e meccanici (per esempio quelli

atmosferici o le esplosioni), e gli effetti speciali ottici, fotografici o digitali.

Di questi ultimi vi sono quelli non specificamente cinematografici, poiché di

natura fotografica, come appunto le sovrimpressioni, il flou10, ed effetti

esclusivamente cinematografici come le dissolvenze e le variazioni di

velocità.11 Il primo teorico a occuparsi diffusamente di effetti speciali 12 è

stato Christian Metz, nel 1972.13 Anche egli propose uno schema 14 che

corrisponde più o meno a quello di Brosnan, individuando due

macrocategorie: i trucchi profilmici (quelli messi in atto prima della ripresa)

e i trucchi cinematografici (che appartengono all’atto del filmare, non del

filmato). Questi ultimi sono prodotti durante la riprese (trucchi di cinepresa,

a cui si aggiungono quelli di videocamera) o in laboratorio, manipolando la

pellicola (trucchi di stampa o di post-produzione attraverso calcolatori

elettronici)15. Tutto ciò per quanto concerne la produzione. Ciò che

interessa è anche la lettura degli effetti. Metz ci fornisce una fenomenologia

di regimi percettivi,16 classificandoli in impercettibili, invisibili ma percettibili,

e visibili. Tra gli effetti visibili, per cui, ritroviamo la sovrimpressione (così

come le variazioni di colore e i fermo-immagine), poiché si presenta come

macchinazione esplicita.La nozione stessa di trucco porta dunque con sé una certa duplicità. Vi è in essoqualcosa che è sempre nascosto (poiché un trucco solo fin tanto che la percezionedello spettatore è presa di sorpresa) e contemporaneamente qualcosa che sipalesa sempre, poiché ciò che importa è che questa sorpresa di senso siaattribuita ai poteri del cinema.17

8 M. Bernardo, G. Blumthaler, I trucchi e gli effetti speciali fotografici ed elettronici, Roma, La

Nuova Italia Scientifica, 1990, p. 23.9 J. Brosnan, Movie Magic, The Story of Special Effects in the Cinema, New York, Plume

Books, 1976, cit. in A. Mazzoleni, L’Abc del linguaggio cinematografico, op. cit., p. 63.10 L’immagine ha i contorni leggermente velati.11 Si può aggiungere all’elenco degli effetti ottici di natura fotografica quelli dell’inversione dei

colori e della loro saturazione, ottenuti con la modalità digitale. Il freeze-frame, invece, è uneffetto specificatamente cinematografico. Cfr. con III.3.3. e III.4.2.

12 È utile precisare come il termine “trucco” rinvii a un’età arcaica del cinema.13 G. Cremonini, “Effetti poco speciali”, in AA.VV., Gli effetti speciali da Coppola a Méliès,

Venezia, la Biennale, 1983, p.12.14 Ch. Metz, La significazione nel cinema, semiotica dell’immagine, semiotica del film, Milano,

Bompiani, II ed. 1995, I ed. 1975 (Essais sur la signification au cinéma, Paris, ÉditionsKlincksieck, 1972), pp. 269-293.

15 Quando Metz scriveva, faceva riferimento ai trucchi tradizionali, in uso in quegli anni. 16 A. Costa, “Appunti sugli usi funzioni e significati degli effetti speciali visivi”, in AA.VV., Gli

effetti speciali da Coppola a Méliès, op. cit., p.17.17 Ch. Metz, La significazione nel cinema, semiotica dell’immagine, semiotica del film, op.cit.

90

Ciò vale, ovviamente anche per le doppie esposizioni di Godard, e si

conferma come l’ennesimo tentativo di rompere la continuità e di impedire

l’assorbimento nella realtà diegetica da parte dello spettatore.

Metz distingue anche tra trucchi e procedimenti sintattici. All’inizio del suo

saggio, egli sostiene che gli effetti ottici ottenuti con manipolazioni

costituiscono materiale visivo, ma non fotografico; sono «procedimenti ottici

particolari e localizzati che non si confondono col normale scorrere dei

fotogrammi».18 Prende come esempio la tendina e la dissolvenza in nero

definendole “fatti visibili” ma non immagini, cioè rappresentazioni di oggetti;

il film, infatti, per un istante, non offre allo sguardo nessuna fotografia, ma

un quadro nero. Metz ricorre alla nozione di tassema filmico, definendolo

come un segmento indivisibile della catena, che per un istante monopolizza

lo schermo. Si considera, quindi, la posizione del significante (l’immagine, il

fotogramma) in rapporto al resto della catena percepibile del film. Secondo

questa logica la dissolvenza in nero occupa da sola un segmento della

colonna visiva; l’effetto ottico è in questo caso, da solo, un tassema filmico.

Trattando dello specifico caso della sovrimpressione o della dissolvenza

incrociata19, lo «scarto in rapporto alla fotograficità», consiste nel fatto che

la sovrapposizione delle due unità di percezione, pur essendo entrambe di

natura fotografica, non è in sé una fotografia. Tuttavia in nessun momento è

possibile vedere l’effetto ottico in quanto tale, ma si vedono sempre e solo

immagini a cui si applica l’effetto speciale, come se esso fosse una specie

di «esponente semiologico», soprasegmentale.20 Il procedimento, quindi,

non è un tassema, ma l’esponente di uno o più tassemi. Riteniamo,

comunque, che seppure sia condivisibile per certi versi un’analisi di questo

tipo, non è possibile negare la natura fotografica, anche se manipolata,

della doppia esposizione. Vediamo, infatti, due immagini che, seppur

sovrapposte, rimangono comunque tali e con due referenti diversi.

Molti di quelli che erano considerati inizialmente come dei trucchi, ad

esempio la dissolvenza incrociata, sono diventati figure del discorso,i cui usi sono stati ben presto codificati e possono variare dalla designazione di unmutamento spazio-temporale, con accentuazioni della funzione metaforica o

18 Ibidem, p. 280.19 Cfr. con III.2.20 Ch. Metz, La significazione nel cinema, semiotica dell’immagine, semiotica del film, op. cit.,

p. 272.

91

metonimica a seconda delle finalità espressive, a quella di un passaggio dalla sferadella realtà al sogno o di una «visione interiore», ecc.21

Ciò significa che tali trucchi sono «grammaticalizzati»22, vengono

interpretati come convenzioni e artifici linguistici dell’enunciazione filmica.

Secondo Metz è difficile distinguere tra i segni di interpunzione e le forme di

transizione dai trucchi, soprattutto perché questi ultimi, nell’ammissione di

enunciazione,manifestano una intrinseca parentela con le marche retoriche e ne rimangonodistinti, in sincronia, solo dalla soglia di una radicalizzazione: dalla macchinazionedichiarata (trucco) si passa alla figura puramente sintattica quando la dichiarazioneperde sufficientemente la propria ambiguità così che la macchinazione non sia piùtale e lo spettatore, di fronte all’effetto ottico, non ne assegni nemmeno la minimaparte alla diegesi…ciò che definisce, nei confronti dei trucchi, il puro segno ditransizione è l’assenza di macchinazione.23

Nel caso della sovrimpressione, essa non può essere confusa con il

normale gioco dei fotogrammi; la macchinazione è evidente e, proprio per

questo, la diegetizzazione non è totale.

IV.1.2. Funzioni della doppia esposizione nel cinema e nellafotografiaBazin “bocciò” la doppia esposizione (insieme al ralenti), e ne

annunciò addirittura la “morte”, in quanto produce effetti non realistici:Il rallentio e la sovrimpressione non hanno mai figurato nei nostri incubi. Lasovrimpressione sullo schermo significa: «Attenzione, mondo irreale, personaggiimmaginari»; non rappresenta in alcuna maniera ciò che sono realmente leallucinazioni o i sogni, ancor meno ciò che sarebbe un fantasma.24

È una posizione condivisibile, tuttavia la sovrimpressione e il ralenti sono

sopravvissuti entrambi.

La sovrimpressione è stata usata fin dagli albori della storia del cinema con

funzioni diverse. All’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, in Francia, gli

autori dell’impressionismo cinematografico,25 mostravano fascinazione

per la bellezza pittorica dell’immagine e interesse per un’approfondita

21 A. Costa, “Appunti sugli usi funzioni e significati degli effetti speciali visivi”, in AA.VV. Gli

effetti speciali da Coppola a Méliès, op. cit., p. 18.22 A. Costa, Il cinema e le arti visive, Torino, Einaudi, 2002, p. 307.23 Ch. Metz, La significazione nel cinema, semiotica dell’immagine, semiotica del film, op. cit.,

ibidem.24 A. Bazin, Che cosa è il cinema, Milano, Garzanti, 1973 (Qu’est-ce que le cinéma?, Paris,

Editions du Cerf, 1958), p. 18.25 Ricordiamo Jean Epstein e Marcel L’Herbier.

92

indagine psicologica.26 Sono celebri gli espedienti visivi usati da Abel

Gance. Egli, infatti, inaugurò la necessità di comunicare in questo modo

impressioni emotive e sensoriali, che poi diventò l’esigenza centrale degli

impressionisti.27 In un esempio citato da Bordwell e Thompson 28, Abel

Gance giustappone una ballerina ai tasti di un pianoforte per suggerire

l’impatto emotivo di un passaggio musicale, creando un effetto totalmente

irrealistico. Lo stile dell’impressionismo era emanazione della convinzione

che il cinema fosse una forma d’arte, ritenendo che qualcosa è arte perché

esprime qualcosa (di solito la visione dell’artista stesso.) Gli impressionisti

volevano creare emozioni transitorie per lo spettatore, suggerendo più che

affermando in modo chiaro (da qui l’aggettivo “impressionista”). Il cinema

era inteso come sintesi di tutte le altre arti. Si attribuiva ad esso «la capacità

di far accedere lo spettatore a una visione della realtà oltre la quotidiana

esperienza, capace di mettere a nudo l’anima delle persone e l’essenza

degli oggetti».29 Louis Delluc parlava di photogénie30, concetto che

indicava qualità proprie dell’immagine filmica che le distinguevano

dall’oggetto ripreso, filmato. L’oggetto trasformato in immagine, infatti,

acquistava una nuova espressività; la cinepresa isolava l’oggetto

ricontestualizzandolo, lo trasformava con gli effetti ottici, attraverso cui si

intendevano mostrare il pensiero e le emozioni dei personaggi. Tali

modificazioni della visione dell’immagine riuscivano ad esaltare la bellezza

dell’inquadratura o la rendevano stupefacente. La sovrimpressione, in

particolare, suggeriva, oltre alle impressioni dei protagonisti, anche il

pensiero o i ricordi. Nel film Il fu Mattia Pascal31 di L’Herbier, vediamo il

protagonista seduto sul treno e, in sovrimpressione sulle immagini dei

binari, ciò cui egli sta pensando: il suo Paese e la sua famiglia. Un ultimo

esempio ci è fornito da Dmitri Kirsanov in Ménilmontant32, in cui ci viene

mostrata la protagonista che medita il suicidio gettandosi da un ponte e, 26 D. Bordwell, K. Thompson, Storia del cinema e dei film, dalle origini al 1945, Milano, Il

Castoro, 1998, vol. I (Film History: An Introduction, McGraw-Hill, Inc., 1994), p. 137.27 Ibidem, p. 140.28 La dixième symphonie (1915, Francia), e Napoléon (1927, Francia-Germania-

Cecoslovacchia-Russia-Svezia-Paesi Bassi), cit. in D. Bordwell, K. Thompson, Storia delcinema e dei film, dalle origini al 1945, op. cit., p.140.

29 Ibidem, p.143.30 Il concetto di fotogenia è sempre stato controverso e molto dibattuto, tanto che

richiederebbe una trattazione più ampia e approfondita, che non è possibile svolgere in talesede.

31 Feu Mathias Pascal, 1925, Francia, cit. ibidem, p. 144.32 Cit. ibidem. Francia, 1925.

93

simultaneamente, in sovrimpressione, il fiume, suggerendone il turbamento.

Una sovrimpressione simile dal punto di vista visivo è in Éloge, anche se le

due immagini simultanee differiscono in modo sostanziale nei contenuti. Ci

si riferisce alla scena in cui Edgar discute con Lacouture, sostenendo la

parentela, dei legami originari tra Francia e Inghilterra (e di conseguenza

con gli Stati Uniti d’America). I legami sono storici, geografici e politici.

«Bretagna, Gran Bretagna, sì, c’è un legame», afferma Lacouture. In

sovrapposizione a queste parole, sullo schermo vediamo due bambine

bussare alla porta e Berthe aprire. Le bambine indossano gli abiti

tradizionali bretoni (ricordano i celebri dipinti di Emile Bernard e Paul

Gauguin)33, che rivendicano la propria identità richiedendo firme per una

petizione affinchè Matrix34 fosse doppiato in bretone. Berthe entra in casa e

lo annuncia ai presenti, tra cui Edgar, il quale era fermo sulla porta (fig. 19).

Qui le immagini si sovrappongono come le voci di Berthe e Lacouture.

Vediamo il protagonista sulla sinistra dello schermo, di profilo, con lo

sguardo rivolto verso l’interno della stanza, che ci dà quasi le spalle. In

contemporanea, dalla destra delle onde marine irrompono nel quadro,

avanzando verso Edgar che nel frattempo indossa la giacca perché deve

partire. Il mare non lo spazza via dallo schermo, ma dalla Bretagna. Le

onde possono rimandare alle idee del mutamento delle situazioni,

dell’avvicendarsi degli eventi, del passare del tempo, della Storia nel suo

farsi. È probabile che questa sovrimpressione abbia solo un significato

metaforico non ben definito, e rimane, per certi versi, un mero esercizio di

stile, non illustrativo, a differenza delle altre sovrimpressioni che

analizzeremo in modo più approfondito nei prossimi paragrafi.

Un uso completamente diverso veniva fatto dai registi sovietici sempre negli

anni ‘20. Per Dziga Vertov35 le sovrimpressioni mostravano la forza del

linguaggio cinematografico. Esse non venivano usate per esprimere la

percezione dei personaggi, ma significati simbolici. Gli effetti speciali

33 Donne bretoni in un prato (1888) per il primo, e La visione dopo la predica (1888) per il

secondo.34 Andy e Larry Wachowski, 1999, Usa.35 L’uomo con la macchina da presa, _elovek s kinoapparatom, 1929, Urss.

94

rendevano la varietà delle percezioni del mondo visibile e mostravano le

potenzialità della messa in scena e della tecno-linguistica del cinema.36

La sovrimpressione è una pratica diffusa anche nella fotografia. Viene

definito come «fotomontaggio senza forbici»37. Ai primordi veniva usata per

costruire immagini truccate o curiose, per attirare l’attenzione del pubblico al

fine di vendere apparecchi fotografici; era funzionale, anche in questo caso,

a mostrare le potenzialità di un nuovo mezzo. In seguito la compenetrazione

delle forme serviva a «visualizzare una fusione di ideali, di affetti»38 difficili

da tradurre in altro modo. Si rappresentavano le realtà psichiche invisibili,

come i pensieri che passano per la mente di qualcuno, il volto di una

persona amata, ecc., o realtà appartenenti alla sfera delle sensazioni, valori

ideali, il sogno, il ricordo. I fini potevano essere anche politici, con una vena

ironica e polemica. Sono celebri, infatti, i fotomontaggi di John Heartfield.

Ricordiamo l’ Uomo-tigre 39, in cui dal viso dell’uomo politico affiora il muso

di una tigre dai denti acuminati. La sovrimpressione rappresenta una

metamorfosi, una rivelazione: il bene che diviene il male.

IV.2. DOPPIE ESPOSIZIONI IN ÉLOGE DE L’AMOUR

IV.2.1. Sartre, la Resistenza e gli Stati UnitiDopo il “valico” di cui si è scritto nel capitolo precedente, Edgar

incontra Lacouture. Essi iniziano a discorrere e confrontarsi sulla Seconda

Guerra Mondiale, sulla Resistenza e sul ruolo che i cattolici hanno avuto in

essa. L’albergo o residence in cui avviene l’incontro con lo storico

appartiene ai nonni di Berthe: Jean e Françoise Bayard40. Dal 1941 al ’44

essi parteciparono attivamente alla Resistenza al Nazismo e fondarono una

rete radiofonica, chiamandola “Tristano e Isotta”.

Edgar si rivolge a Jean per avere informazioni, conoscere il suo passato di

resistente, per la ricerca che aveva intrapreso al fine di comporre una 36 P. Bertetto, “Il cinema europeo degli anni Venti”, in P. Bertetto (a cura di), Introduzione alla

storia del cinema, Torino, UTET, 2002, p. 64.37 G. Patti, L. Sacconi, G. Ziliani, Fotomontaggio. Storia, tecnica ed estetica, Milano, Mazzotta

Editore, 1979, p. 141.38 Ibidem, p. 142.39 1931, ibidem, p. 143.40 In realtà, come si scoprirà verso la fine del film, “Bayard” è il nome di “battaglia” che Jean e

Françoise usavano da resistenti. Il loro vero cognome è Samuel.

95

cantata dedicata a Simone Weil di cui si è già detto in precedenza.

Monsieur Bayard, un anziano dalla barba canuta e dalla voce bassa e

sommessa, racconta di come la Resistenza, fondamentalmente, avesse

conosciuto la giovinezza, la vecchiaia, ma «elle n’a jamais eu l’âge adulte».

Le età dell’esistenza dell’uomo, il concetto di storia e quello di Storia, le idee

del tempo che passa e della memoria sono costanti in Éloge41.

L’occhio della videocamera42 rimane fisso, stabile di fronte alle finestre

luminose dagli infissi bianchi, che rivelano il giardino rigoglioso di una casa

di campagna. Le tende sono chiare, le pareti azzurre come il pavimento. Al

centro, in basso all’inquadratura, campeggia un tavolino di legno, al di sopra

del quale è posto un libro, insieme a due sedie rivestite anch’esse di tessuto

blu. Edgar e Jean si alternano davanti all’obiettivo, muovendosi l’uno verso

sinistra, l’altro verso destra fino a scomparire nella cornice dello schermo.

Parlano del passato e Jean chiede a Edgar a chi, secondo la sua opinione,

spetta il compito di decidere se il passato di ciascuno vive ancora oppure

no. Edgar sostiene che dipende da ciò che ognuno pensa di sé. Ritiene che

chi abbia in programma di andare ancora avanti, chi cioè abbia

progettualità, definisce il suo vecchio sé come un sé che non esiste più; c’è

chi, al contrario, rifiuta lo scorrere del tempo, e rimane fortemente legato al

passato, come le persone anziane: esse rigettano il tempo perché non

vogliono deperire e sono convinti di essere immutabili:43 «Mais dans quelle

mesure la mémoire nous permet-elle de récupérer nos vies?», si chiede

Edgar, rivolgendosi a Jean.

Mentre Edgar espone il proprio punto di vista, cammina da una finestra

all’altra, si avvicina al tavolo e sfoglia velocemente il libro che è poggiato sul

tavolo. In quel momento sullo schermo appare, in doppia esposizione,

l’immagine di Situations, III, lendemain de la guerre44, di Jean-Paul Sartre

(fig. 20). In questa raccolta di saggi il filosofo scrisse sulla guerra,

41 Cfr. con I.2.1. e I.2.3.42 La seconda parte del film, come si diceva in precedenza e come si vedrà in modo più

approfondito in seguito, è stata girata con videocamera digitale e poi trasferita nel formatoclassico della pellicola a 35 mm. Cfr. con I.3.2., III.2., III.3.3.

43 Questo discorso era stato affrontato all’inizio del film, quando Edgar stava facendo ilcasting.

44 Paris, Gallimard, 1949.

96

sull’occupazione nazista, sul secondo dopoguerra e sugli Stati Uniti.45

Com’è noto egli partecipò alla guerra e militò nella Resistenza. Queste

esperienze, insieme alla «scoperta del male storicamente determinato e del

bene intersoggettivamente realizzabile»46 influenzarono fortemente il suo

pensiero, modificando il suo approccio all’esistenza in modo sostanziale.

Non rinnegò i principi de L’Essere e il Nulla47, ma da allora rifiutò ogni

interpretazione in chiave pessimistica e soggettivistica del suo pensiero.L’esistenzialismo è filosofia dell’uomo libero, ma in situazione - a contatto e inrapporto con altri. Di un uomo consapevole della problematicità dell’esistenza,anche del fatto d’essere arbitro delle proprie scelte e dei propri atti. Di un uomonato per l’azione e per la lotta, e deciso ad impegnarsi attivamente nel mondo.Quella dell’esistenzialismo è una «morale dell’azione e dell’impegno». L’impegnoverso se stessi e verso gli altri, un impegno responsabile e totale, diventa ora lanozione principale del pensiero sartriano.48

Sartre, infatti, all’indomani della guerra, partecipò attivamente alla vita

politico-culturale rinata dopo la liberazione. Il fatto più rilevante della sua

presenza nel suo tempo fu la creazione, insieme a Merleau-Ponty e altri,

della rivista «Les Temps Modernes», nel 1945. Gli obiettivi erano la

denuncia dei miti e delle oppressioni che asservivano l’uomo

contemporaneo, con l’intento di difendere l’autonomia e i diritti della persona

umana; a tal fine si facevano inchieste e anche reportages. Venivano

analizzati il mondo americano, quello sovietico; si disquisiva di capitalismo e

socialismo; si portarono avanti le campagne contro le guerre di Corea,

Vietnam, ecc.

Godard introduce frammenti dell’opera di Sartre non solo attraverso l’effetto

ottico di cui parleremo fra poche righe, ma anche attraverso le parole stesse

tratte da articoli pubblicati su «Les Temps Modernes» nel 1945, contenuti in

Situations, III, che Jean Bayard leggerà in qualche scena successiva,

commentando come quei concetti siano validi anche per la situazione

odierna.20 août 45, en ce Parisdesert et affaméla guerre a pris finla paix n’a pas ancore commencé.

45 La raccolta comprende anche i due saggi Matérialisme et Révolution e Orphée Noir, oltre

a scritti sugli artisti Giacometti e Calder. Cfr. S. Moravia, Introduzione a Sartre, Bari,Laterza, VII ed., 1997 (I ed. del 1973), p. 193.

46 Ibidem, p. 85.47 L’Etre et le Néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Paris, Gallimard, 1943.48 Ibidem, p. 86.

97

E ancora:Noi siamo tornatiindietro a mille anni fa,quando ogni mattina èla vigilia della fine dei tempi;la vigilia del giorno in cuila nostra onestà, il nostro coraggio,la nostra buona volontànon avranno più un sensoper le persone,ma la libertà è più pura…Ma noi, che siamo natiin Francia,cosa possiamo dire?Non è molto dire che è la nostra patria.È vago. È la nostra situazione concreta,Il nostro destino, il nostro premio.«Finora ho vissuto nella paura» disse Tristan Bernard quando venne arrestato,«d’ora in poi vivrò nella speranza».

A proposito di libertà, Sartre scrisse anche che:non siamo mai stati tanto liberi come sotto l’occupazione tedesca. Avevamoperduto ogni nostro diritto, innanzi tutto quello di parlare; ci insultavano tutti i giornie dovevamo tacere…dappertutto, sui muri, sui giornali, sullo schermo, ritrovavamoquell’immonda immagine che i nostri oppressori volevano darci di noi stessi: eproprio per questo eravamo liberi, dato che il veleno nazista s’infiltrava fin nelnostro pensiero, ogni pensiero giusto era una conquista; dato che una poliziapotentissima cercava di costringerci al silenzio, ogni parola diventava preziosacome una dichiarazione di principio; dato che eravamo braccati, ogni nostro gestoaveva il peso di un impegno.49

Scrivendo sugli USA:ci sono i grandi miti in particolare quello della felicità, quello della libertà, quellodella maternità trionfante, c’è il realismo, l’ottimismo…C’è il mito della felicità, cisono slogan affascinanti che invitano a essere felici al più presto…i film con il lietofine…c’è questa lingua, carica di espressioni ottimiste e abbandonate: have a goodtime, enjoy, life is fun eccetera. 50

Sartre parlava anche della segregazione razziale e delle guerre portate

avanti dagli USA, e di come questo Paese vivesse una grande

contraddizione. Sono argomenti a cui lo stesso Godard, attraverso i suoi

attori e le sue storie, fa spesso riferimento, rivelando e confermando ancora

una volta la propria posizione contro gli Stati Uniti d’America, contro le

guerre imperialistiche, soprattutto quelle di natura culturale, contro il

ladrocinio che essi compirebbero comprando le storie personali di chi ha

49 Cfr. Situations,III, Paris, Gallimard, 1949, p.11, cit. in A. Cohen-Solal, Sartre, Milano, Il

Saggiatore, 1986, p. 216.50 Cfr. Situations,III, Paris, Gallimard, 1949, p.132, cit. in A. Cohen-Solal, Sartre, op. cit., p.

326.

98

resistito, di chi ha conquistato la libertà lottando, di chi ha un nome e

un’origine, un’identità.

IV.2.2. Funzione della doppia esposizionePer Godard la sovrimpressione è un mescolamento di due immagini

come due suoni si fondono nella musica.51 Abbiamo già visto come egli ne

avesse fatto ampio uso nelle Histoire(s)52. In esse, la catena di immagini si

risolve in una catena di sovrimpressioni dal carattere metaforico-simbolico,

e sono spesso il risultato di libere associazioni.

Nella sovrimpressione di cui sopra53, l’inquadratura riprende a figura intera

Edgar di fianco al tavolino. È fermo, chino verso il libro dalla copertina

chiara. Lo tocca, lo sfoglia. In sovrimpressione vediamo un libro di Sartre,

dalla copertina chiara anch’esso. La sovrimpressione ci mostra due

immagini che si fondono senza perdere ognuna la propria identità,

sincronicamente. Vediamo sia Edgar sia il libro, e nelle immagini rispettive

essi conservano il proprio aspetto, anche se hanno i contorni sfumati e la

tessitura è più sgranata. La sovrimpressione conserva, quindi, un carattere

fotografico. La macchinazione è, come si diceva poco prima, evidente:

siamo perfettamente consapevoli del fatto che nella realtà profilmica non

esista un libro messo in diagonale, o un’immagine di questo, posto di fronte

ad Edgar. Tuttavia rientra nella diegesi poiché ha a che fare con la realtà

della storia che viene raccontata.

Considerato il prosieguo delle vicende di cui si è detto sopra, è possibile

inferire che quel libro che campeggia diagonalmente nel quadro è lo stesso

che Edgar sta sfogliando velocemente. Per questa ragione è ravvisabile un

valore deittico, indicale dell’immagine del libro. È come se Godard, con

questo espediente visivo, ci voglia dire, inserendo un’immagine che dopo

pochi secondi scomparirà, «questo è il libro che Edgar sta sfogliando». Il

termine deissi deriva dal verbo greco deíknymi che significa «mostrare»,

«indicare». È un termine usato in linguistica, con il quale si fa riferimento a

quei termini e a quelle categorie di espressione la cui interpretazione rinvia

necessariamente al contesto situazionale in cui avviene l’enunciazione: “tu”, 51 Cfr. Intervista a JLG di E. Burdeau e C. Tesson, Avenir(s) du cinéma, su «Cahiers du

cinéma», Hors-série, aprile 2000, p.13.52 Cfr. con I.1.5.53 Si analizzeranno in modo approfondito due doppie esposizioni, descritte in IV.2.1 e IV.2.3.

99

“questo”, “quello”, “qui”, sono deittici perché indicano persone diverse a

seconda della situazione.54 Godard avrebbe potuto scegliere di far

susseguire tre inquadrature: nella prima Edgar, magari in campo totale che

sfoglia un libro, nella seconda il libro in dettaglio, e nella terza di nuovo

Edgar e il libro in campo ravvicinato, a figura intera. È probabile che

l’inferenza sarebbe stata la stessa in entrambi i casi. Ancora una volta

Godard fa sentire la sua presenza. Proprio quando sembra voler avvicinarsi

allo spettatore, tendendogli una mano per accompagnarlo all’interno del

percorso drammatico, egli usa un effetto speciale, una macchinazione

visibile, evidente come la marca autoriale.

In questo caso, quindi, la sovrimpressione ha una funzione esplicativa,

non metaforica. Essa illustra la situazione, ciò che sta avvenendo all’interno

della diegesi. Non si vuole esprimere ciò che il protagonista sente, sogna o

immagina. Non è un approfondimento psicologico del personaggio e della

sua interiorità. È una spiegazione, un atto espositivo55 in quanto dichiara e

mostra in modo diretto ed esplicito, come bisogna interpretare la scena e

l’azione del personaggio. È un’ “aggiunzione”, che conferisce un apporto

importante alla comprensione della scena e del suo significato. L’immagine

è doppia come doppio è il significato che il libro incarna: una relazione, o

meglio una somiglianza, tra gli Stati Uniti di oggi e il Nazismo di Hitler, la

contraddizione tra la libertà e democrazia di cui gli USA si fanno (sedicenti)

esportatori nel mondo vs i metodi utilizzati a tale scopo, l’intenzione di

portare a galla la verità rubandola a chi la possiede.

La raccolta di saggi domina sullo schermo, invade la stanza. È chiaro che si

è voluto conferire un’importanza particolare all’opera e ai suoi contenuti, con

l’intento di imprimere l’immagine e il rimando nella memoria dello

spettatore, cui bisognerà fare ricorso qualche scena dopo quando Jean

leggerà i passi tratti da essi. Raramente Godard si preoccupa di agevolare

la fruizione e l’interpretazione delle immagini e delle situazioni. È proprio per

questo che è probabile che abbia voluto amplificare e rendere pregnante

la presenza in quadro di quel libro. È una sorta di annuncio. Si instaura un

circolarità di rimandi a ciò che è stato detto e mostrato prima, che nella

realtà diegetica appartiene, però, a un tempo successivo. 54 Cfr. R. Rossini Favretti, La linguistica applicata, Bologna, Pàtron, 1998, p.72.55 Cfr. con III.3.1.

100

IV.2.3. «Quando penso a qualche cosa»

La stessa funzione illustrativa è rintracciabile verso la fine del film,

in un’altra doppia esposizione (figg. 21 e 22). Un’immagine mostra un

paesaggio marino con un tratto di terra ferma. All’orizzonte il cielo è

presumibilmente crepuscolare ma ha i colori particolarmente accesi. Il mare

è blu elettrico, come gran parte del cielo. Piccole porzioni di quest’ultimo

rivelano striature e chiazze dai colori arancio, giallo e verde. Sulla costa un

faro lampeggia. L’immagine che vi si sovrappone è la testa di Edgar di

spalle, poggiata al poggiatesta di un tipico sedile dei treni francesi ad alta

velocità (lo si riconosce dalle righe chiare ed è possibile inferirlo da una

scena successiva in cui vediamo Edgar in viaggio su di un treno di ritorno

dalla Bretagna). Il capo è posto al centro del quadro. La parte superiore del

capo è di un colore sfumato che si disperde nei colori artificiali del cielo,

mentre la nuca e la parte sottostante ad essa sono di colore nero. La

sovrimpressione inizia con un freeze-frame che, subito dopo essersi

sbloccato, dà vita ad uno zooming56 in allontanamento del paesaggio

costiero. Il capo di Edgar, invece rimane stabile e fisso nella stessa

posizione fino alla fine, quando si dissolve, anche se non totalmente,

diventando una macchia scura e indefinita, posta in basso al quadro. Nella

durata dell’effetto (di circa 42”) la voce di Edgar pronuncia delle frasi già

sentite nella prima parte del film:je pense à quelque chosequand je penseà quelque choseen faitje pense à autre chose(toujours)on ne peut penser à quelque choseque si on pense à autre chose, par exempleje vois un paysagenouveau pour moimais il est nouveau pour moiparce que je le compare en penséeà un autre paysage, anciencelui-làque je connaissais

Queste frasi rimandano inevitabilmente alla scena girata in bianco & nero

(fig. 23). Edgar usa le stesse parole ma si rivolge usando il pronome

56 O zoomata. È la variazione di focale e, quindi, di campo. È una carrellata ottica, cioè un

movimento apparente di avvicinamento o allontanamento ottenuto senza lo spostamentofisico della macchina da presa.

101

personale “voi”, forse rivolgendosi agli spettatori. La composizione

dell’inquadratura è diversa. Non vi è nessun effetto ottico. Vediamo testa e

spalle di Edgar posto di schiena alla sinistra del quadro, come una sagoma

nera che disegna un profilo che squarcia lo sfondo, chiaro, che mostra una

fabbrica chiusa della Renault, in riva alla Senna. La sovrimpressione

ripropone gli stessi contenuti dandone, però, una rappresentazione diretta,

un’illustrazione attraverso l’espediente visivo.

Qualche inquadratura precedente alla doppia esposizione, nel viaggio in

automobile verso la stazione di Edgar e Berthe, ella dice che «l’imparfait

fabrique une image présente», l’immagine che precede crea quellapresente, anche se nella realtà diegetica è quella successiva a precedere

la prima, instaurando la circolarità di rimandi di cui sopra. Il concetto viene

spiegato subito dopo, quindi. Parafrasando le parole di Edgar, quando si

pensa a qualcosa, in realtà si pensa contemporaneamente a qualcos’altro,

sempre. È l’unico modo per pensare qualcosa, e un esempio è quando si

guarda un paesaggio (le onde del mare e la costa con il faro) che risulta

essere nuovo ai nostri occhi e alla nostra memoria, lo è perché

mentalmente lo si compara ad un altro paesaggio, più vecchio, che già si

conosceva. Il pensare, come il guardare avvengono per associazione econfronto. Nel caso in questione il confronto si effettua proprio tra due

scene simili. Ma la seconda non ci appare nuova, perché ci ricorda quella

vista precedentemente, che nella realtà diegetica, però è successiva. È

come se Godard affermasse con le parole e negasse con i fatti. Le due

scene costituiscono un parallelismo che dà luogo ad una comparazione, e

che si sviluppa nel tempo della proiezione. Molti elementi differiscono tra le

due immagini. Nella prima, priva appunto di effetti speciali, vediamo gli

oggetti filmati in bianco & nero; nella seconda, invece sono a colori. Sempre

nella prima, la cinepresa rimane immobile, fissa; nella seconda effettua uno

zooming percettivamente rilevante. Ciò che si ripete visivamente è la

configurazione figura-sfondo e la parte superiore del corpo di Edgar,

sempre ripresa di spalle. C’è da sottolineare il ripetersi quasi invariato delle

frasi pronunciate dal protagonista, anche se con un tono di voce diverso:

nella prima dichiarativo, nella seconda più riflessivo, perché è un discorso

che compie dentro se stesso, una sorta di monologo interiore, e il carattere

102

sfumato, etereo e fluido della sovrimpressione è un modo di evocare

l’impercettibilità e l’evanescenza dei pensieri e delle parole all’interno della

propria mente; del ricordo di un’immagine vista in precedenza e che rimane

poco definita nella memoria. Viene a stabilirsi, in questo modo, anche una

funzione metaforica.

L’immagine in sovrimpressione prende luogo in un tempo diegetico

precedente la prima immagine in scala di grigi, come si diceva sopra.

Edward Tufte, trattando di informazione visiva sostiene cheEmbodying inherent links and connections, parallelism synchronizes multiplechannels of information (visivo e uditivo), draws analogies, enforces contrasts andcomparisons.57

La composizione si ripropone, quindi, modificata, ma mantiene dei tratti

comuni, nella caratteristica doppiezza dell’immagine, nel suo essere

intrinsecamente dicotomica. Questa dicotomia di figura e sfondo, che, in

alcuni casi si evidenzia in modo ambiguo, si manifesta in tutto il film, in vari

modi. Ma di questo si parlerà più approfonditamente in seguito. Per ora

basti dire che il ritmo che la reiterazione di schemi simili produce, vorrebbe

rafforzare l’interesse e l’attenzione.

Ci sono elementi che prevalgono, o meglio, si decide di far prevalere. Nel

nostro spazio percettivo reale agiscono delle leggi58 che valgono anche

nello spazio interno delle opere d’arte visive, e quindi anche delle

inquadrature cinematografiche. Carlo Branzaglia rimanda a un esperimento

citato da Rudolf Arnheim, in cui all’interno di un formato quadrangolare ci

siano degli elementi che prevalgono sugli altri. Lo sguardo degli osservatori

si dirigerebbe spontaneamente all’interno del quadrato, e veniva indicato

prevalentemente il centro, poi l’asse verticale, l’orizzontale e infine le

diagonali.59 Arnheim 60 sosteneva che il centro fosse un punto talmente

importante da rafforzare le figure che si trovano su di esso, e di solito, negli

artefatti visuali, viene usato per evidenziare i soggetti principali. Risulta il

fulcro della composizione. Così avviene nei piani di un film; così avviene

nelle sovrimpressioni di Godard. In modo particolare nella seconda

sovrimpressione, la testa di Edgar è posta al centro del quadro, a differenza

57 E. R. Tufte, Visual Explanations, Cheshire, CO Graphic Press, 1997, p. 103. Il corsivo è

mio.58 C. Branzaglia, Comunicare con le immagini, Milano, Bruno Mondadori, 2003, p.40.59 Ibidem, p. 42. Cfr. con II.3.4.60 Cfr. R. Arnheim, Il potere del centro, Torino, Einaudi, 1994.

103

dell’immagine a cui essa rimandava, in cui, invece, era posta a sinistra,

lasciando lo sfondo chiaro dello stabilimento Renault emergere con più

forza.

IV.2.4. Sovrimpressione e fotomontaggio

Il confronto avviene, oltre che nella successione delle scene, anche,

e soprattutto, all’interno del piano in cui due immagini si incrociano

coesistendo. La configurazione della sovrimpressione di cui sopra rimanda

ad un noto fotomontaggio dell’artista sovietico El Lissitzky, Autoritratto del

costruttore (fig. 24)61, considerato una sorta di “manifesto” del

Costruttivismo. Il fotomontaggio62 è una tecnica molto vicina alla

sovrimpressione.63 Esso è stato definito dall’artista dadaista Raoul

Hausmann come un «cinema statico» o «sintetico»,64 per la stretta

parentela che intercorre tra i due mezzi espressivi nella caratteristica

comune del taglio e del montaggio (delle sequenze per quanto riguarda

ovviamente il cinema). Ci sono, comunque, delle differenze sostanziali, in

quanto il cinema opera nel continuum della realtà ripresa, mentre il

fotomontaggio smembra il continuum di singole immagini che poi

ricompone. Alla base di esso, c’è sempre una decontestualizzazione, cui

segue una ricontestualizzazione nella condensazione delle immagini, e

uno straniamento provocato da questa fusione. È da precisare che, seppur

discendendo dalla pratica del collage cubista, in cui piccoli oggetti

assemblati “interpretano” se stessi, differisce da questo poiché molti degli

oggetti fotografati e ritagliati sono assunti come analoghi del reale, che

vengono ricontestualizzati in una nuova realtà come elementi di un «lessico

essenzialmente simbolico».65 Il significato viene estrapolato associando più

immagini, in alcuni casi più di due. Nel caso della sovrimpressione

godardiana, invece, si riscontra un’economia, una essenzialità di base nel

numero delle immagini che sono in gioco; la decontestualizzazione è

61 1924.62 L’invenzione si attribuisce all’artista tedesco Raoul Hausmann appartenente al gruppo

Dada berlinese, e si diffuse verso gli ultimi anni della Prima Guerra Mondiale.63 Si è già visto come la sovrimpressione sia stata utilizzata in fotografia.64 G. Patti, L. Sacconi, G. Ziliani, Fotomontaggio. Storia, tecnica ed estetica, Milano, op. cit.,

p. 9.65 P. De Vecchi, E. Cerchiari, Arte nel tempo, dal Postimpressionismo al Postmoderno,

Milano, Bompiani, 1997, II tomo, p. 514.

104

relativa, e l’effetto di straniamento è legato alla rottura dell’illusione più che

all’accostamento o sovrapposizione delle immagini.

Il fotomontaggio distrusse il vecchio mondo pittorico ponendo le basi per

una ricostruzione, anche in senso letterale. Con il fotomontaggio e con il

collage, si distrugge la tradizione dell’arte come specchio della realtà66 e si

compie una selezione. È una composizione che sintetizza un pensiero, un

concetto. Hans Richter sostiene che il montaggio sia una sorta di quadro in

movimento che non si muove.67 Da un accostamento di frammenti figurali

dati sorge una gestalt unitaria, che risulta essere più della somma delle

singole parti.68 Si basa sul principio aggregativo, costituendosi come

rappresentazione sommativa, modalità che si contrappone al tipo costitutivo

in cui i singoli elementi danno un risultato assolutamente unitario e

inseparabile. Un esempio sono le pennellate di un dipinto a colori ad olio,

che si amalgamano in un tutto indistinguibile. Nel fotomontaggio gli elementi

di superficie evocano un substrato più profondo. Questo tipo di

manipolazione vuole attirare, indirizzare lo sguardo di chi deve interpretare.

È innegabile che ciò sia valido anche per le sovrimpressioni che si stanno

analizzando. Esse selezionano delle immagini pregnanti e attraverso la loro

sintesi e condensazione si intende veicolare un significato attribuibile alla

somma delle parti nel loro insieme unitario.

Il pregio di molti fotomontaggi è l’efficacia e l’immediatezza della

comprensibilità e della leggibilità, spesso più di quanto non possano

comunicare i testi verbali. Anche Godard diventa particolarmente eloquente

grazie a questo effetto ottico, dimostrandosi eccezionalmente intelligibile.

Tornando alla “confection” di Lissitzky, egli sovrappone immagini peresprimere una molteplicità di collegamenti e metafore: l’occhio della mente, lamano della creazione, il coordinamento di mano e occhio, la mano e lo strumento(un compasso), l’integrazione della persona e del lavoro, la totalità della creazioneartistica e un’aureola che designa la sacralità del costruttore.69

Tufte spiega come Lissitzky, rappresenti questi elementi come passaggi,

momenti, tra l’idea che si forma nella mente dell’artista e la realizzazione

dell’opera stessa, per illustrare tale processo. Questo fotomontaggio

66 V. D. Coke, The painter and the photograph, from Delacroix to Warhol, University of New

Mexico Press, 1964, p.255.67 Cit. in A. Scharf, Art and Photography, Harmondsworth (Middlesex, England), Penguin

Books Ltd, 1968, p. 282.68 G. Anceschi, L’oggetto della raffigurazione, Milano, Etas, 1992, p.57.69 E. R. Tufte, Visual Explanations, op. cit., p. 139. Traduzione e corsivo miei.

105

sembra avere molti livelli, tanti quanti sono gli elementi rappresentati,

differentemente dalla sovrimpressione. Tuttavia la centralità della testa

dell’artista rimanda a quella di Edgar. Entrambe, infatti, intendono

rimandare ad un processo cognitivo, ad un atto creativo, a un discorso

interiore, che lì si svolgono.

Nella sovrimpressione il montaggio è interno all’inquadratura,

all’immagine, e si basa sui principi di associazione per prossimità e

transitività:70 il primo caso si verifica quando gli elementi rappresentati sono

contigui, vicini (Edgar e il libro di Sartre); il secondo caso quando

un’immagine rappresenta un prolungamento o un completamento dell’altra

(Edgar e il paesaggio che i suoi occhi vedono, o hanno visto in passato).

Entrambi evidenziano la continuità insita negli elementi; entrambi

appartengono al modo di scrittura classico, che Godard, solitamente,

contrasta e viola.

IV.2.5. Il punto di vistaLa doppia esposizione implica anche un discorso sul punto di vista,

cui accenneremo solamente per completezza delle descrizioni.

Il punto di vista è la «prospettiva ottica di un personaggio il cui sguardo…

domina una sequenza o…la prospettiva complessiva del narratore sui

personaggi e sugli eventi della storia».71 Il punto di vista è, concretamente,

sia quello della macchina da presa sia quello dello spettatore. Non solo. È

qualcosa di più astratto, “dentro” l’immagine. Oltre ai due ruoli di mostrare

(del regista) e guardare (dello spettatore), c’è il terzo, incarnato dai

personaggi interni al mondo diegetico. La nozione di punto di vista filmico si

stratifica secondo tre accezioni: quella del puro percepire (che rimanda

all’attività del vedere), quella del conoscere (come modalità di trasmissione

di un sapere, quello delle informazioni narrative) e quello del credere-sentire

(come manifestazione di un atteggiamento ideologico-affettivo, che esprime

un sistema di valori).72 L’inquadratura si fa luogo di una visione e di uno

70 F. Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, Milano, Bompiani, XIV ed. 2004 (I ed. 1990), p. 97-

99. La schematizzazione si riferisce al montaggio, alla messa in serie in continuità, delleimmagini.

71 R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologia del cinema e dell’audiovisivo,Milano, Bompiani, 1999 (New vocabularies in film semiotics. Structuralism, post-structuralism and beyond, 1992), p. 113.

72 M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Roma, Carocci,

106

sguardo. Si analizzeranno le sovrimpressioni seguendo la

schematizzazione degli sguardi di Edward Branigan73. Nella prima scena

analizzata abbiamo un duplice punto di vista che si manifesta con due

sguardi oggettivi non condizionati, poiché non sono ancorati a nessun

personaggio e non sono marcati da segni audiovisivi: sia Edgar che sfoglia

il libro sia Situations III sono inquadrati da uno sguardo neutro. Nella

seconda doppia esposizione, invece abbiamo nell’inquadratura una

proiezione del personaggio; in essa «il legame tra personaggio e posizione

spaziale è puramente metaforico e ciò permette al personaggio di vedere se

stesso dall’esterno; ma in più lo spazio rappresentato reca i segni di una

sua particolare proiezione mentale»74. Allo stesso tempo si sottolinea anche

l’atto percettivo dinamico della visione, attraverso lo zooming (figg. 21 e 22),

che rende l’allontanamento fisico e metaforico del protagonista (Edgar sta

viaggiando su un treno che lo riporterà a Parigi).

Quest’ultimo tipo di sguardo è vicino a quello di percezione-di-personaggio

che ritroviamo in un’inquadratura totalmente fuori-fuoco (fig. 26) durante il

viaggio in automobile (fig. 25) di Berthe ed Edgar. Quando l’auto si arresta,

vediamo nello specchietto retrovisore l’immagine di Berthe che indossa un

paio di occhiali. È possibile, quindi, che il fuori-fuoco indicasse la visione

annebbiata di una persona miope. L’espediente ottico si mette al servizio

della rappresentazione dell’atto percettivo del personaggio.

IV.2.6. Trasparenza, figura e sfondoTra i tratti caratteristici della sovrimpressione vi è quello della

trasparenza. Da un punto di vista percettivo, a un unico processo

sensoriale corrispondono due oggetti percettivi.75 Come rileva Wittgenstein,

la percezione della trasparenza è la connessione in un insieme di realtà

oggettuali separate tra loro ma fenomenicamente congruenti e interagenti;76

2003, p. 48-49.

73 E. Branigan, Point of View in the Cinema, New York, Mouton, 1985, cit. in M. Ambrosini, L.Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, Roma, Carocci, 2003, pp. 49 esegg. Ricordiamo che Branigan suddivide un cerchio nei due grandi emisferi dell’oggettivitàe della soggettività. I passaggi degli sguardi riconducibili all’enunciatore e di quelli ancoratiai personaggi, sono graduali e spesso ambigui e sfumati.

74 Ibidem.75 G. Kanizsa, “La percezione”, in G. Kanizsa, P. Legrenzi, M. Sonino, Percezione,

linguaggio, pensiero, Bologna, Il Mulino, 1983, p.200.76 L. Wittgenstein, Osservazioni sui colori, Torino, Einaudi, 1982, cit. in G. Di Napoli, M.

Mirzan, P. Modica, Segno, forma, spazio, colore, Bologna, Zanichelli, 1999, p. 361.

107

le figure sono «in grado di interpenetrarsi senza una reciproca distruzione

ottica»77, integrandosi. Sembra interessante la definizione data da Gyorgy

Kepes poco dopo:La trasparenza…implica qualcosa di più di una caratteristica ottica – cioè un piùampio ordine spaziale. Trasparenza significa percezione simultanea di diversesituazioni spaziali. Lo spazio non solo regredisce, ma fluttua in una realtà continua.La posizione delle figure trasparenti ha un significato equivoco perché vediamoogni figura ora come la più vicina, ora come la più lontana.78

Percepiamo, cioè, due spazi, due luoghi in contemporaneità, che oscillano

all’interno di un unico continuum spaziale, instaurando un’ambiguità tra ciò

che appare più vicino e ciò che appare più lontano.

Nella doppia esposizione si ha una sovrapposizione in cui l’occlusione

reciproca degli oggetti è parziale. Tra gli effetti che si producono nella

percezione vi è la doppia presenza, in cuia un unico processo sensoriale corrispondono nella concreta esperienzapsicologica due distinti ordini di momenti. Si può avere «doppia presenza» senzatrasparenza, e rientrano in questa categoria tutti i fenomeni detti di «figura esfondo». Lo sfondo infatti «continua», «passa sotto» la figura, è «presente» dietrola figura: una stessa zona è dunque presente psicologicamente due volte , e ciònon per le caratteristiche della zona stimolata, ma per condizioni che stanno fuori diessa, o meglio nel rapporto di essa con le zone confinanti. Nel caso dellatrasparenza, la doppia presenza possiede un carattere di maggiore intuibilità, ledue componenti nelle quali si scinde la zona due volte presente sono ambedueveramente «vedute» e cioè l’una dietro l’altra.79

Nella prima doppia esposizione presa in analisi la trasparenza è quasi

totale; nella seconda è parziale.

Bazin aveva rilevato, parlando di un film in cui erano rappresentati dei

fantasmi in sovrimpressione, chela trasparenza reciproca della sovrimpressione non permette di dire se lo spettro èdavanti o dietro l’oggetto al quale si sovrappone né, in fondo, se non sono glioggetti stessi a diventare fantomatici nella loro parte in comune con lo spettro.80

Bazin avrebbe ragione se fossimo di fronte a due trasparenze, in cui non si

distingue tra figura e sfondo. Nelle immagini simultanee che stiamo

analizzando, tuttavia, non si riscontra una doppia trasparenza né le

caratteristiche che questo stato implicherebbe. L’immagine che si posiziona

sopra è, infatti, distinguibile da quella che, invece, rimane sotto. Nella prima

sovrimpressione è l’immagine del libro a trovarsi sopra quella di Edgar; nella

77 G. Kepes, Il linguaggio della visione, Bari, Dedalo Libri, 1971 (Language of vision, Chicago,

Paul Theobald and Co., 1944), p. 81.78 Ibidem.79 G. Kanizsa, “La percezione”, in G. Kanizsa, P. Legrenzi, M. Sonino, Percezione,

linguaggio, pensiero, op. cit., p. 204.80 A. Bazin, Che cosa è il cinema, op. cit., p. 20.

108

seconda doppia esposizione l’immagine della testa del protagonista è sopra

quella del paesaggio marino. Figura è «tutto ciò che emerge segregandosi

dal campo visivo in cui è inserita e si impone a chi la osserva come una

unità strutturata e autonoma».81 Gli psicologi della percezione della scuola

gestaltista furono i primi a porsi il problema dell’articolazione figura-

sfondo:82 in essa una parte del campo osservato si unifica in un’entità

«particolarmente concreta ed evidente», cioè la figura, che si separa dallo

sfondo, che ha «minori caratteristiche di concretezza»83. Sono noti gli

esempi84 di casi in cui la situazione è ambigua: le parti dello stesso colore

possono apparire, dapprima, fenomenicamente sovrapposte a uno sfondo

costituito dalle parti dell’altro colore. Ma dopo un’osservazione prolungata si

ha un’inversione di significato e di disposizione, e le parti che prima erano lo

sfondo appaiono ora davanti, come figura. Tuttavia, l’ambiguità di queste

immagini è diversa da quella che dipende dalla sovrapposizioni di due

immagini in trasparenza, anche perché si tratta di immagini bicromatiche.

Spostando l’attenzione da un’immagine all’altra delle sovrimpressioni, infatti,

la configurazione rimane la stessa, come anche il significato; non ci sono

coppe che diventano profili di volti umani85, né l’inverso. Esse conservano

un’identità precisa e ben distinguibile, senza confusioni. L’ambiguità, infatti,

è nell’attribuzione dell’importanza all’una piuttosto che all’altra immagine; il

significato rimane lo stesso, ed è determinato proprio dalla visione

simultanea delle due immagini.

Le condizioni86 che devono sussistere per considerare una zona piuttosto

che un’altra come figura sono:

1) la grandezza relativa delle parti;

2) i rapporti topologici;

3) il tipo di margini.

81 M. Massironi, Comunicare per immagini, Bologna, Il Mulino, 1989, p. 30.82 Nell’ambito degli studi sull’articolazione del campo visivo in unità discrete, la scuola di

Berlino attribuisce molta importanza all’esperienza diretta e introducono il metodofeonenologico. Per approfondimenti vedi G. Kanizsa, “La percezione” in G. Kanizsa, P.Legrenzi, M. Sonino, Percezione, linguaggio, pensiero, op. cit.

83 Ibidem, p. 120.84 Composizioni di Escher cit. in M. Massironi, Comunicare per immagini, op. cit., p. 124.85 Ci si riferisce a un notissimo esempio proposto da Rubin e citato in M. Massironi,

Comunicare per immagini, op. cit., p. 131.86 G. Kanizsa “La percezione” in G. Kanizsa, P. Legrenzi, M. Sonino, Percezione, linguaggio,

pensiero, op. cit., pp. 60-61.

109

A parità di altre condizioni, emergerà come figura la zona più piccola, una

figura inclusa e non includente, una che è convessa nei margini; tutte

caratteristiche che appartengono anche alla testa di Edgar nella seconda

sovrimpressione che abbiamo analizzato, salvo la sua convessità che

nell’immagine risulta parziale. Tali condizioni non sono ravvisabili nella

prima sovrimpressione, in cui, si riscontra una pari “dignità” delle immagini,

e vige la reversibilità del rapporto figura-sfondo:87 entrambe si possono

considerare figura e sfondo, ma solo una alla volta, ovviamente. La

distinzione si pone anche su un piano funzionale: la figura ha carattere

oggettuale, mentre lo sfondo ha carattere meno pronunciato (esso, infatti,

può anche essere uno spazio vuoto, come il paesaggio marino quasi

monocromo). La figura ha un aspetto più solido e un colore più compatto (il

nero aiuta in questo); la figura risalta maggiormente e attira lo sguardo. Ma

lo sfondo, nel caso della seconda sovrimpressione, sembra voler richiedere

attenzione proprio per il blu elettrico che lo caratterizza, e anche per il

movimento determinato dallo zooming in allontanamento. La figura ha,

solitamente, un contorno ben definito, tuttavia nel nostro caso è sfumato in

alcune zone. Anche se si può dire che il ruolo di figura è incarnato dalla

testa di Edgar, la sovrimpressione conserva dei tratti ambigui.

Altri criteri che contribuiscono alla definizione di ciò che deve essere

considerato figura e ciò che deve essere considerato sfondo, sono la

posizione occupata nel quadro (gli elementi centrali sono privilegiati), la

presenza del moto opposto a una stasi (gli elementi in movimento

assumono più rilievo), e la permanenza sullo schermo. Alla luce di questi

nuovi caratteri, si potrebbe inferire che l’immagine che riveste il ruolo di

figura è quella in cui vediamo delle azioni compiersi; è quella che rimane

sullo schermo per più tempo, a differenza dell’altra che scompare. Nella

prima sovrimpressione, infatti, l’immagine-figura potrebbe essere quella in

cui si vede Edgar sfogliare il libro, sia per il principio in base al quale

l’osservatore concede la sua attenzione ai soggetti umani perché hanno più

importanza in quanto simili a lui, sia perché è l’immagine che ci appare per

prima. Il libro in sovrimpressione è un oggetto inanimato completamente

statico e la sua immagine si dissolve dopo pochi secondi, riportando la

87 Ibidem, p. 62.

110

nostra attenzione alla stanza e ai personaggi che si muovono all’interno di

essa. Tuttavia sia Edgar che il libro sono al centro del quadro e l’oggetto lo

riempie completamente.

Nella seconda sovrimpressione si ha una situazione diversa, e risulta

essere il punto di passaggio verso una configurazione in cui la distinzione

figura-sfondo diventa più netta. L’immagine-figura è il capo di Edgar: anche

in questo caso possiamo ricorrere al concetto antropocentrico di cui sopra,

in base al quale tendiamo a considerare i paesaggi naturali e gli oggetti

come secondari rispetto ai nostri simili. La testa è al centro del quadro ma è

quasi del tutto immobile, a differenza del paesaggio che vediamo in

movimento per lo zooming, ma esso è un movimento apparente, perché in

realtà è l’obiettivo-punto di vista dell’osservatore-Edgar che lo compie.

Tutto ciò ha delle conseguenze sulla plasticità dell’immagine.88 La dicotomia

figura-sfondo è presente molte volte durante il film, in modo particolare nelle

frequentissime immagini in cui i personaggi appaiono in controluce89 (figg.

27, 28, 29, 30). Si vedono, infatti, sagome scurissime che si stagliano su

uno sfondo colorato, articolato. L’effetto che viene a crearsi è quello di

un’immagine bidimensionale90 e quasi bicromatica (gli sfondi hanno

sempre un colore vivace e saturo che domina sugli altri, dall’arancione del

soggiorno di casa Bayard all’azzurro della stanza da letto di Jean) in cui i

personaggi raccolgono le attenzioni dello spettatore percipiente, ma, allo

stesso tempo, lo distolgono e lo confondono perché è difficile distinguere da

dove provengano esattamente le parole. Quest’aspetto viene amplificato

nelle immagini in cui le figure dei protagonisti sono di spalle o di profilo.

«La luce…costituisce un essenziale elemento simbolico, uno strumento

figurativo in grado di stabilire l’atmosfera di un film, fornendo la cartina di

tornasole dei valori e delle contrapposizioni che lo animano»91. È

sicuramente vero per Éloge. Si è già scritto nel capitolo precedente circa le

tonalità in alto contrasto che caratterizzano tutto il film.92 Il fattore

illuminazione ha forti implicazioni circa l’impatto delle immagini sullo

schermo. La luce ha il potere di farci vedere l’azione, e il gioco tra zone

88 Cfr. F. Casetti, F. Di Chio, Analisi del film, op. cit.89 Le luci provengono da dietro il soggetto (retroilluminazione).90 Cfr. con I.3.1.91 M. Ambrosini, L. Cardone, L. Cuccu, Introduzione al linguaggio del film, op. cit., p. 22.92 Cfr. con III.3.

111

chiare e zone scure costruisce l’inquadratura, spostando l’attenzione dello

spettatore da un oggetto a un altro. Come sostiene Rudolf Arnheim,

«l’illuminazione costituisce93 una guida selettiva dell’attenzione, in

conformità al significato desiderato»94, insieme al punto in cui è posta la

macchina da presa.

I colori scuri nascondono i volti, le espressioni, soprattutto quelle di Edgar e

di Berthe (figg. 29 e 30), quasi ci fosse una resistenza a mostrare l’intimità;

quasi in un clima di pudore del proprio sentire. Di solito la luce più chiara

tende ad agire sui protagonisti. Godard sembra, ancora una volta,

contravvenire alle regole.

Anche questo è un modo per guidare l’attenzione e fare in modo che essa

si soffermi sulle parole, sui discorsi. Nella maggior parte dei casi di

controluce, infatti, essi sono rilevanti e sono portavoce del pensiero

dell’autore. Un esempio è quello in cui Berthe, in controluce, legge dei passi

tratti da Notes sur le cinématographe95 (fig. 30) di Robert Bresson, in cui si

afferma che il regista non deve dirigere altri se non se stesso. In un’altra

scena sempre Berthe, in controluce e di schiena, pronuncia un’invettiva

contro gli americani degli Stati Uniti, i quali non hanno origini tanto da non

avere neppure un nome con il quale definirsi.96

93 Sarebbe più corretto dire che “può costituire” una guida selettiva.94 R. Arnheim, Arte e percezione visiva, Milano, Feltrinelli, IX edizione, 1992, p. 265.95 R. Bresson, Notes sur le cinematographe, Paris, Gallimard, 1975.96 Cfr. con I.2.1. e I.2.3.

113

V. CONCLUSIONI

Frequentatore delle sale cinematografiche dalla fine degli anni ‘40,

studioso e critico di cinema, Godard dà vita, insieme al gruppo degli autori

dei «Cahiers du cinéma», al movimento della Nouvelle Vague. Il cinema è

inteso come “creazione” di un soggetto che si esprime; la cinepresa diviene

una penna per scrivere. Già in questi anni Godard tenta di uscire dagli

schemi, dai vincoli, dalle gabbie consuetudinarie del linguaggiocinematografico. Spesso la storia nei suoi film è ridotta all’osso e l’opera

assume le caratteristiche di un saggio. I temi provengono dall’attualità

osservata e indagata attentamente, dalla guerra alla prostituzione, e il

cinema metalinguistico muove i primi passi. Seguono gli anni «Mao», del

cinema militante; poi gli «anni v idéo», intrisi di impulsi verso la

sperimentazione e un’ulteriore innovazione delle tecniche e dei linguaggi.

Negli anni ’80 Godard ritorna alla pellicola, pur continuando a lavorare con il

video: dalle commissioni della televisione agli scénarios dei suoi film. Negli

anni ’90 inizia il periodo dedicato alla memoria che prosegue tuttora, come

dimostra Éloge de l’amour, l’oggetto della nostra analisi. Le tematiche

sviluppate sono la Storia dell’uomo e del cinema, le origini di un popolo e il

senso dell’identità che lo contraddistingue; la guerra e la resistenza; la

polemica contro gli Stati Uniti d’America e Hollywood; il linguaggio del

cinema in quanto arte e forma, e narrazione di una storia o non-storia; la

superiorità dell’immagine rispetto alla parola nella sua capacità di negare il

nulla e di svelare la realtà. Come la maggior parte degli altri film di Godard,

Éloge ha una trama molto debole. Possiede una cornice che rimanda al

cinema metalinguistico dei suoi film precedenti: è anch’essa la storia di un

film da farsi. Si indagano i rapporti tra regista e produttore, in questo caso

stranamente pacifici; si sviscera la figura del regista, un uomo che studia ed

è all’eterna ricerca di qualcosa che non trova; egli si chiede come può

immaginare la vita per conto di altri, dal momento che fare un film significa

anche questo. Il regista deve riuscire a dirigere prima di tutti se stesso, e

deve lasciare che siano i sentimenti a condurre gli eventi narrati e non

l’inverso. Il racconto di Éloge è molto frammentato e si compone di un

flashback molto evidente che crea un’enorme spaccatura, e di una serie

innumerevole e indefinita di altri flashback meno distinguibili e flashforward.

114

Il film in analisi riconferma l’abitudine di Godard alla citazione di poeti e

filosofi, di scrittori, pittori e registi; di libri, quadri e film.

È stato necessario fare ricorso alla nozione di diegesi, introdotta negli

studi di cinema da Metz, per poi passare a parlare dell’utilizzo dei suoni in

relazione a ciò che vediamo rappresentato in Éloge. Godard ci fa ascoltare

dei suoni e, contemporaneamente, ci mostra delle immagini che li

contraddicono o non li confermano: viene a crearsi la cosiddetta

dissonanza audiovisiva. Alla base c’è un’ambiguità nella distinzione dei

confini tra le categorie di spazio diegetico e spazio non diegetico, o

all’interno dello spazio diegetico stesso; l’ambiguità è tale che anche lo

spettatore competente ha difficoltà a capire. L’asincronia e l’infedeltà dei

suoni alla loro fonte producono un effetto di straniamento, nozione presa in

prestito da Brecht, applicata e praticata anche nel cinema. Ciò che ci viene

mostrato non è ciò che ci aspettiamo in base alle convenzioni cui siamo

abituati, ma è qualcosa di diverso. Ecco perché siamo spaesati e confusi.

Godard decostruisce le strutture tradizionali del dialogo per portare

l’attenzione su alcuni personaggi e le loro parole; spezza la continuità delle

immagini, disattendendo le nostre aspettative circa il concatenamento e la

messa in successione tradizionale delle inquadrature, che avvengono,

solitamente, secondo la logica e le regole della percezione che adoperiamo

nella nostra quotidianità. Allo spettatore è richiesto di saturare i vuoti

diegetici determinati dall’accostamento ingiustificato e non causale delle

immagini tra loro, quindi. Mancano i raccordi e lo stile è discontinuo: Godard

allude, accenna, suggerisce, e rende visibile, percettibile la sua marcaautoriale insieme ai processi di costruzione del testo.

Le aspettative creano l’illusione di realtà, che presuppone l’illusione di

continuità e quella diegetica. Essa produce, generalmente, gli effetti di

credenza e di identificazione dello spettatore. È improbabile, se non

impossibile, che questi due effetti si verifichino nello spettatore di Éloge, sia

perché la soglia di vigilanza è bassa in quanto la confusione e le

incongruenze creano disattenzione, sia per le fratture sul piano formale e

sul piano contenutistico. Allo spettatore, infatti, viene richiesta una grande

partecipazione affinché interpreti correttamente, integrandoli, i vuoti

diegetici e le immagini che compaiono sullo schermo in modo disordinato,

115

con salti in avanti e salti indietro. Di fronte al film di Godard è necessario

compiere uno sforzo per abbandonarsi al piacere della visione, al

rilassamento, se non a scapito della comprensione dei contenuti.

Godard conserva, nella sua modernità, dei tratti che appartengono al modo

di fare cinema primitivo. Egli, infatti, manifesta la volontà di attirare

l’attenzione mostrando, come conferma l’uso degli effetti speciali.

Éloge de l’amour è un film innovativo per la commistione dei supporti di

registrazione che Godard ha deciso di impiegare. La prima parte del film è

stata, infatti, girata su pellicola 35 mm in bianco e nero, la seconda con

videocamera digitale a colori saturi. Il video digitale ha una consistenza

tattile e vive l’ambiguità di essere sia immagine che processo. Nasce una

nuova estetica; cambia la tessitura dell’immagine: essa diventa fluida, tattile

e provvisoria. Il video dà grandi possibilità di manipolazione e controllo

sull’immagine, anche perché può essere proiettivo e predittivo, nel senso

che consente di vedere il prodotto finale, cioè il film, prima che finito. Le sue

caratteristiche permettono al regista di avvicinarsi all’immagine e di

sperimentare e agire come solo un pittore può fare con i pennelli e i colori

sulla sua tela.

Il punto di passaggio dalla prima alla seconda parte del film, dal

presente al passato, dalla città alla campagna, dalla pellicola al video

digitale, dal bianco & nero al colore, è segnato, da un’inquadratura di un

tratto di costa bretone le cui tinte sono invertite: il mare è color seppia-

arancio, come il cielo, e la spiaggia è azzurra. L’effetto di straniamento èassicurato, ma stavolta, attraverso l’uso di colori artificiali, simili a quelli

usati dai pittori fauves-espressionisti.

Tutto il film gioca sulle inversioni, dai colori (dentro l’immagine e

nell’interezza del film) alle convenzioni. Il tempo passato possiede colori

vividi, contro ogni convenzione stabilita dalla storia del cinema in cui i

flashback, così come il sogno e il ricordo, sono rappresentati in bianco &

nero. Il presente è qui rappresentato da un monocromatico fortemente

contrastato, un po’ rétro, segnato da una dolce malinconia. Il bianco

appartiene al libro e alle sue pagine vuote che il protagonista sfoglia

continuamente alla ricerca di una soluzione ai suoi dilemmi, delle luci delle

strade parigine; il nero è quello della notte metropolitana e dello schermo

116

vuoto dell’assenza e dell’annullamento del soggetto e della percezione

visiva, che attira l’attenzione sulle parole e sulle riflessioni; è il nero dello

sfondo delle scritte dalla funzione espositiva e chiarificatrice, attraverso le

quali Godard cerca di mettere sulla strada della comprensione lo spettatore,

o delle scritte ossessive perché ripetitive: “DE QUELQUE CHOSE”, “DE

L’AMOUR”…Esse ci ricordano continuamente che siamo di fronte a

qualcosa di artificiale, costruito.

Il colore avvicina il passato al presente. La memoria, dal carattere tutto

soggettivo e personale, è nitida e il ricordo è intenso, come quello delle

persone anziane. Godard manipola l’immagine, la carica, fino a stravolgere

l’ordine naturale delle cose, o meglio, dei loro colori. Utilizza la videocamera

come se avesse in mano dei pennelli: aggiunge, toglie, mischia con un

trattamento anti-illusionistico. Attira l’attenzione, frantuma la verosimiglianza

nel suo inconsueto uso espressivo. In Éloge co-occorrono sia colori a

carattere iconico, sia colori a carattere simbolico e metaforico, dettati

dall’arbitrarietà, come quelli del cinema degli albori, che non accrescono la

credibilità e la verosimiglianza. Sono un mezzo espressivo, di attrazione,

da fruire in sé. Prevalgono tonalità calde e fredde a seconda dei contesti e

delle circostanze. Si sono riscontrate, quindi, tre tipologie di valore:

descrittivo (i colori descrivono la realtà per come appare, fedeli alla cromia

di base); narrativo, poiché distingue il passato dal presente; espressivo,

perché sottintende dei significati da comprendere e interpretare.

Il valico è un punto dalla funzione demarcativa evidente, una pausa

metaforica per lo spettatore, come se Godard gli concedesse del tempo per

raccogliere le idee.

Ma una sospensione reale e manifesta è quella del fermo-immagine. Alla

piccola Babele di parole dalle lingue diverse che si confondono in un

insieme inesplicabile, si contrappongono dei veri e propri interludi

diegetizzati, ma dalla marca enunciativa evidente: si ricerca un equilibrio tra

la tendenza centripeta e quella centrifuga. Godard attenta alle coordinate

spazio-temporali della rappresentazione cinematografica, rallentando,

velocizzando o bloccando lo scorrere delle immagini sullo schermo; passa

con disinvoltura dal piano-sequenza, che rispetta la durata del “tempo reale”

degli eventi, agli slow e fast motions, e al freeze-frame. Con il fermo-

117

immagine il flusso si interrompe e la continuità del tempo reale degli eventi

si arresta per pochi istanti, sospendendo la narrazione. Il tempo è pari a

zero anche nell’enunciazione, e l’istanza discorsiva si fa di nuovo evidente.

In Éloge i freeze-frames sembrano immagini da fruire in senso “letterale”,

per quello che mostrano, senza rimandi a significati diversi da quello della

denotazione, da godere nella loro bellezza estetica. È inevitabile il rimando

alla pittura. Il freeze-frame sembra recuperare l’istante pregnante; diviene

un quadro da contemplare, che lascia del tempo alla riflessione

sull’immagine e sulle parole, che lo spettatore deve mettere in atto. Si può

parlare di un «effetto quadro».

Nella vita dell’uomo il tempo sembra scorrere velocemente se gli

avvenimenti sono piacevoli e forieri di gioia o felicità; sembra rallentare,

invece, fino a diventare interminabile, se accade qualcosa di angosciante o

drammatico. Godard ferma il tempo, così come lo rallenta e lo velocizza,

senza alcun motivo, eccetto quello di conferire una dignità estetica

autonoma alle immagini sullo schermo. Ha, quindi, un carattere non

funzionale alla narrazione. Non hanno motivo d’essere tanto quanto le

scritte su sfondo nero in un racconto che si rende comprensibile, o che,

quanto meno, esiste. Ma Éloge è un non racconto, ed essi non sono che

espedienti stilistici ed espressivi.

Rimaniamo sempre in tema di effetti ottici, ma in questo caso essi

non sono legati alle variazioni di velocità della proiezione. Le doppie

esposizioni sono l’ennesimo tentativo, riuscito, di rompere la continuità e

impedire l’assorbimento nella realtà diegetica. La sovrimpressione non può

essere, infatti, confusa con il normale gioco dei fotogrammi: la

macchinazione è evidente e la diegetizzazione non è totale. La

sovrimpressione è uno dei trucchi più innaturali e meno realistici, nuova

fonte di attrazione per lo sguardo. Ha natura fotografica, e si presenta

come macchinazione esplicita. Di nuovo, l’istanza discorsiva si rende

evidente. L’attenzione dello spettatore viene ridestata dall’ennesimo

stravolgimento dell’effetto di realtà. Le sovrimpressioni analizzate in modo

dettagliato hanno una funzione esplicativa, non metaforica, e i caratteri di

un atto espositivo diretto ed esplicito, che dichiara e mostra come

interpretare la scena e l’azione proiettate sullo schermo. Sono un modo per

118

imprimere l’immagine nella memoria, poiché alcuni contenuti verranno

ripresi in seguito; è una sorta di annuncio. Le sovrimpressioni, infatti,

instaurano una circolarità di rimandi a ciò che è stato detto e mostrato

prima, che nella realtà diegetica appartengono, però, a un tempo

successivo. Forse Godard vuole agevolare la fruizione e l’interpretazione

delle immagini e delle situazioni?1 O forse ha voluto semplicemente

amplificare e sottolineare l’importanza di ciò che veniva mostrato e sentito

con immagini eloquenti e leggibili? La seconda possibilità ci appare la più

attendibile.

In Éloge alcune doppie esposizioni hanno un incerto significato metaforico,

e non sono illustrative; sembrano, anch’esse come il fermo-immagine,

immagini da contemplare. Tratti metaforici si riscontrano in modo chiaro

nella seconda sovrimpressione analizzata, in cui, attraverso elementi formali

visivi si intende evocare l’impercettibilità e l’evanescenza dei pensieri e delle

parole all’interno della mente del protagonista.

Il confronto con la pratica del fotomontaggio viene da sé; tuttavia nelle

doppie esposizioni di Godard la decontestualizzazione dei referenti delle

immagini è relativa, e l’effetto di straniamento è legato alla rottura

dell’illusione più che all’accostamento o alla sovrapposizione delle immagini.

Ciò che accomuna fotomontaggio e doppia esposizione è la sintesi e il

processo manipolativo che ne è alla base. Il montaggio questa volta è

interno all’inquadratura e si basa sui principi di associazione per prossimità

o transitività. Entrambi i principi evidenziano la continuità insita negli

elementi, e appartengono al modo di scrittura classico, quello che Godard,

solitamente, contrasta e viola.

Per l’analisi è sembrato utile introdurre il concetto di trasparenza. Si è

riscontrata un’ambiguità nella lettura delle due immagini simultanee, nel

senso che è difficile stabilire quale delle due immagini risulti essere la figura

e quale, invece, lo sfondo. Tale dicotomia è frequente soprattutto nelle

innumerevoli immagini in controluce. L’attenzione viene così guidata in

modo selettivo, soprattutto nei confronti delle parole e dei discorsi all’interno

della diegesi.

1 Tale questione viene a porsi solo nel caso della prima sovrimpressione analizzata.

119

Godard si riconferma il simbolo del contro-cinema2 ma con modalità

diverse. Egli è sempre alla ricerca di novità, soprattutto per quanto riguarda

il supporto di registrazione e le possibilità che esso offre. Il film oggetto

d’analisi si pone come un punto di svolta nella sua opera, anche se i rinvii,

contenutistici e formali, ai film precedenti sono continui. L’istanza discorsiva

è quasi sempre manifesta perché si vuole rappresentare tutta la realtà. Allo

spettatore non deve essere nascosto nulla. Gli viene, però, richiesta una

partecipazione speciale, uno sforzo interpretativo immane, per raccordare

tutti i frammenti. Il regista vuole guidare l’attenzione talvolta verso ciò che si

vede, altre volte verso ciò che si sente. Non si vuole irretire il fruitore nella

trama di una storia; non si vuole intrattenerlo, ma condurlo alla riflessione e

alla scoperta di alcune verità, attraverso la luce e la sua assenza, il colore e

il non-colore; attraverso le immagini, in successione o in sintesi; attraverso il

tempo che scorre o che si ferma. Lo spettatore deve rimanere vigile e non

può lasciarsi andare nella finzione perché deve capire e scoprire ciò che

viene rivelato confusamente. Tuttavia gli sono concessi dei momenti di

pausa per raccogliere idee e informazioni, e a volte sembra che Godard

tenda la mano per accompagnare lo spettatore verso la comprensione.

Ma forse è solo un’illusione.

2 Mutuiamo il concetto dalla teoria di Peter Wollen, che considera Godard emblema del contro-

cinema per le seguenti caratteristiche: 1) intransitività narrativa, l’interruzione del flussonarrativo, 2) messa in primo piano, cioè il richiamo ai procedimenti di cos t ruz ione de lsignificato, 3) diegesi multipla, 4) apertura narrativa in quanto il racconto non ha unarisoluzione, 5) dis-piacere, nel senso che si oppone ai piaceri della coerenza, della linearitàdella narrazione e la conseguente identificazione 6) realtà, «esposizione critica dellemistificazioni implicate nelle fiction cinematografiche», 7) estraniazione, al posto diidentificazione. È da precisare che nel film oggetto della nostra analisi non si riscontranodiegesi multiple. Cfr. P. Wollen, Signs and Meanings in the Cinema, Bloomington and London,Indiana University Press, 1969, cit. in R. Stam, R. Burgoyne, S. Flitterman-Lewis, Semiologiadel cinema e dell’audiovisivo, 1999, Milano, Bompiani, p. 255.

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