QL numero 4

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La Fondazione liberal è nata a Roma nel 1995 intorno al mensile liberal per iniziativa di Ferdinando Adornato che propose ad alcuni protagonisti del mondo culturale, economico ed istituzionale, di fondare un think-thank, un laboratorio culturale, con il proposito di favorire lo sviluppo dei valori etici e politici del pensiero liberale laico e cattolico e di far sì che essi, dall’uomo e dalla società, si trasmettano nella famiglia, nelle comunità locali, nel sistema produttivo, nelle istituzioni pubbliche e nelle organizzazioni internazionali.

Transcript of QL numero 4

Z Ricostruire Statoe nazione Ferdinando Adornato • 4

Z Il partitomancanteGiorgio La Malfa • 32

Z Tutti i costidel federalismoEnrico Cisnetto • 38

Z Sulla scia di Einaudi e De GasperiStefano Folli • 45

Z Oltrela retoricaSandro Bondi • 50

Z Ripartiamo dal bisogno di DioFrancesco Paolo Casavola • 54

Z Italianisenza ItaliaGennaro Malgieri• 58

Z Il nodo Nord-SudBiagio de Giovanni • 64

Z Noi,i mediterraneiFrancesco D’Onofrio • 68

Z La soluzione c’è:il modello tedesco Piero Alberto Capotosti • 76

Z L’identità nellaglobalizzazione Francesco Rutelli • 82

Z La mia ItaliaCarlo Azeglio Ciampi • 96

Z Un partitoper la nazione Pier Ferdinando Casini • 88

La RREELLAAZZIIOONNEE

gli IINNTTEERRVVEENNTTII

le CCOONNCCLLUUSSIIOONNII

Le relazioni che pubblichiamo sono state tenute al convegno “Di cosa parliamo quando diciamo Italia” organizzato dalla fondazione liberal

in preparazione del 150o anniversario dell’Unità d’Italia, che si è svolto a Roma, a Palazzo Wedekind, il 30 e il 31 ottobre scorsi.

FERDINANDO ADORNATO

La RELAZIONELa RELAZIONE

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ARTIAMO DA UNA SEMPLICE CONSIDERAZIONE: se a più di un anno dal 2011, centocinquan-tesimo anniversario della nascita dello Stato italiano, è già in corso un’accesa discussionesul significato di tale ricorrenza, vuol dire che intorno alla nostra unità nazionale aleggianoancora grandi nodi irrisolti. Il passato non è ancora serenamente passato. E il presente,incrocio da tutti ritenuto decisivo, chiede di chiarire, con limpidezza, di cosa parliamoquando diciamo Italia.Proponiamoci un paradosso: se non ci fosse più lo Stato italiano, continueremmo ugual-mente a sentirci italiani? Io credo proprio di sì. Perché è la nazione a contenere lo Stato,non viceversa. Del resto, la nostra è stata, per secoli, una nazione senza Stato, unita daquel comune sentire che Giosuè Carducci ha definito «espressione letteraria», che hapermesso alle nostre terre di collegarsi attraverso la lingua (non certo attraverso i dialetti)già molto tempo prima di poter raggiungere l’unione «delle armi e dell’altar».

Nascita di una nazioneE la nostra lingua si chiama Dante e Petrarca. Sono loro i fondatori dell’Italia.L’ontologico bisogno di libertà, l’orizzonte di una giustizia fondata sulla nobiltà e sulla

U Ferdinando Adornato U

Ricostruire Stato e Nazione

COME RITESSERE IL FILOCRISTIANO E LIBERALE DEL PAESE

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dignità della persona, quel «cuore gentile» che solo può fondare le ragionidello stare insieme (dell’amicizia come dell’amore) diventano, attraversole loro «canzoni», i primi tratti distintivi dell’essere italiano. Dante vuolevedere crescere il «desio» di stare insieme a Guido e Lapo. Il loro

«incantamento» è, da allora, per noi, la misura di ogni «vita nuova». Deisingoli come della nazione. L’aspra denuncia dell’assenza di una struttura di comando unitaria ed effi-

ciente («nave sanza nocchiero»), la violenta stigmatizzazione degli odi civili checorrodevano le membra della penisola, la celebrazione della virtù repubblica-

na come base della legittimazione politica, disegnano, attraverso i loroversi, la stella polare che ha preparato la nostra Unità. Trasformando in

profezia i versi del Petrarca che ispirarono la pagina finale delPrincipe di Machiavelli: «Virtù contro a furore/ Prenderà l’arme, e

fia al combatter corto;/ ché l’antico valore/ nell’italici cor non èancor morto». I poeti furono i primi ad alzarsi al di sopra delledivisioni e delle discordie che dilaniavano le terre italiane innome della superiore unità della nazione. Gli italiani si arme-ranno e si libereranno perché i poeti li avranno prima armaticon le parole. Non fu vero, dunque, se non per retorica, il

petrarchesco lamento che «’l parlar sia indarno». Fu vero invece l’intuito diFrancesco De Sanctis secondo il quale «una storia della letteratura italiana nonpoteva che inevitabilmente essere una storia d’Italia».

*****Ma i poeti non soltanto «sentivano». Sapevano. I versi della Commedia, ad esem-pio, corrispondono alle riflessioni politiche della Monarchia, nella quale Danteaffronta uno stereotipo costante della nostra storia: il confronto tra l’Impero e laChiesa. La fine dell’impero romano aveva lasciato sul territorio un vuoto di potestase quindi un «volgo disperso che nome non ha», dominato da incontenibili forzecentrifughe e soggette a policentriche mire espansioniste. La Chiesa invece c’è, macon la sua sovranità, insieme spirituale e temporale, contende il primato alla sovra-nità civile-monarchica. Nella lotta tra questi due «poteri», come ha osservatoBenedetto Croce, c’è già tutta l’ideale storia nazionale italiana. C’è la necessitàsempre invocata e mai attuata o verificatasi, di una «riforma intellettuale e moraledegli italiani». Ciò che oggi noi, con espressione più moderna, chiamiamo «religio-ne civile»: la capacità di un popolo, pur separando rigorosamente Cesare da Dio, dirivendicare il primato dei valori fondamentali della nazione sul potere dello Stato.

[RicostruireStato e nazione]

[FerdinandoAdornato]

O, ancor meglio, la definizione dello Stato come mezzo e della nazione come fine.Ciò che costituisce il cuore dell’ispirazione cristiana e di quella liberale, i due filid’oro che guideranno la nazione italiana al suo Risorgimento

La nazione contiene lo StatoStato e nazione: concetti di controversa attualità. Recentemente Tommaso PadoaSchioppa, in un suo fondo sul Corriere, sosteneva che, celebrando l’unità delloStato, conveniva tener ben distinto e distante qualsiasi riferimento al concetto dinazione. È lo Stato, ricordava, che oggi dobbiamo riformare tutti insieme: ed ècontroproducente tirare in ballo la nazione, argomento sul quale troveremmo piùmotivi di divisione che di unità. Ragionevole. Però parzia-le. Come si può, infatti, discutere dello Stato, dei suoilimiti e di possibili nuovi assetti senza far riferimento aivalori di fondo cui esso deve ispirarsi? La nostraCostituzione, come del resto qualsiasi altra Costituzione,non è una invenzione ingegneristica di procedure, slega-ta, ove mai fosse stato possibile, dalla missione etica, cul-turale, sociale che la nostra comunità intendeva assegnar-si alla fine della seconda guerra mondiale. E se anche sivolesse riformare solo la sua seconda parte, come sipotrebbe mai farlo senza chiamare in causa principi evalori che sempre precedono la definizione di ogni asset-to del potere?

*****Escludere ogni relazione tra nazione e Stato, tra valori epotere, tra principii e regole significa decapitare lo stessoconcetto di bene comune e ridurre la politica a merostrumento dell’interesse di singoli e di gruppi. Prova nesia il fatto che, da quando questa verità si è offuscata,ormai molti decenni orsono, l’interesse del proprio parti-to o quello dello schieramento di appartenenza, l’interes-se dei gruppi economici di riferimento o di singoli attorisociali, l’interesse del proprio territorio o della propriacategoria, hanno preso il sopravvento sull’interesse gene-rale. Ed è proprio in questo confuso quadro di disgrega-zione che il concetto di nazione è andato smarrendosi, i

Come ha osservato Benedetto Croce,

nella lotta tra Stato e Chiesa c’è tutta la storia italiana.

E la necessità di una “riforma intellettuale

e morale degli italiani”. Ciò che noi oggi chiamiamo

“religione civile”

[RicostruireStato e nazione]

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valori condivisi della comunità gradualmente sfarinandosi, fino a che oggi è deltutto impossibile distinguere i confini tra la crisi dello Stato e quella della nazione,sovrapposte come sono in un deficit istituzionale e morale.

*****Un diverso, ma altrettanto sintomatico errore è stato commesso da gran parte dellacultura leghista e da certa cultura della sinistra quando, negli anni scorsi, hannoimposto il «dogma» del tramonto degli Stati-nazione, che risulterebbero travoltidall’incedere della globalizzazione e dall’affermarsi di poteri sovranazionali. Èormai tempo di rivedere questo scenario. Non solo perché è sempre più chiaro cheprotagonisti del XXI secolo, accanto agli Stati Uniti, si avviano a essere grandi Stati-nazione come la Cina e l’India, i quali già stanno mutando il corso del mondo gra-zie alla forza della loro identità e della crescita economica. Ma soprattutto perun’altra ragione a noi più vicina: anche in Europa, laddove i processi di unificazionesovranazionale sono più evidenti, la questione del tramonto degli Stati-nazione nonappare così scontata. Il Vecchio Continente si trova davanti a un radicale aut-aut: oriesce a definire una sua anima storico-culturale, sintesi delle diverse identità nazio-nali (e in questo caso nascerà per tutti una nuova patria europea, con un solo voltopolitico sulla scena mondiale come era nei sogni dei Padri fondatori) oppure èdestinata a restare solo una grande area economica comune, legata da qualche fra-gile e contraddittoria architettura istituzionale.

*****In altri termini: o nella storia vincerà la comune patria europea con l’emergere diun nuovo grande Stato-nazione, gli Stati Uniti d’Europa, oppure sarà comunqueinevitabile (e conveniente) tenere viva la cornice identitaria dei diversi Stati-nazio-ne. Credo si possa ormai riconoscere che quanto più si affermano processi di inter-dipendenza economica e commerciale, tanto più emerge nei popoli l’esigenza ditutelare gli insediamenti religiosi, culturali, linguistici di riferimento. E soprattuttoin alcune aree d’Europa, e forse l’Italia ne è il sintomo più allarmante, l’attacco agliStati nazionali non viene dall’alto, dal sovranazionale, ma dal basso, dalla teoriadelle piccole patrie. L’unificazione europea, difficile quanto si voglia, nasce pergarantire ai nostri popoli la pace, per chiudere con la tragica storia del Novecento.Il suo fallimento, viceversa, riaprirebbe un’era assai oscura. Non credo, infatti, cheil «nazionalismo» delle piccole patrie sia meno insidioso di quello delle grandi che,da Sarajevo 1915 a Sarajevo 1992 ha devastato il XX secolo.

*****Sono questi i motivi che ci convincono oggi della necessità di costruire un movi-

mento culturale, quanto più forte possibile, che rilanci i fondamenti valoriali dellanazione. Ci sentiamo legati all’appello e al monito pronunciato dal presidenteCiampi il 4 novembre del 2002: «Oggi, giorno dell’Unità nazionale, dobbiamoriflettere sulla evoluzione che la nostra comunità sta vivendo. Stiamo ritrovando innoi le ragioni profonde di una memoria condivisa. Gli antichi valori della nostraindipendenza nazionale si stanno ricomponendo come in un mosaico con i valori dioggi, di una collettività democratica e pacifica, orgogliosa dei propri modelli di vita,pronta a difenderli. La storia non divide più noi italiani. L’ho sentito a El Alamein,come l’ho sentito a Cefalonia, a Tambov, a Porta San Paolo. La storia non dividepiù noi europei. L’ho sentito stando a fianco del presidente Rau nel sacrario deimartiri di Marzabotto. Oggi sappiamo che sono più forti le cose che ci uniscono».E poi ancora nel suo ultimo messaggio di capodanno il 31 dicembre del 2005:«Quel che ho cercato di trasmettervi è l’orgoglio di essere italiani. Siamo eredi diun antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra iden-tità nazionale». Un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici. Esattamentequel patrimonio che nel corso dei secoli ha tenuto vivo l’anelito di una terra pro-messa da cercare sulla propria stessa terra. Di uno Stato da conquistare per lanazione italiana. Dobbiamo però oggi chiederci quale sortilegio ha fatto in modo

[FerdinandoAdornato]

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[RicostruireStato e nazione]

che questa storia si concludesse, alla fine dell’Ottocento, con la conquista di unoStato senza nazione.

Il paradosso di Porta PiaIl paradosso di Porta Pia. Simbolo della vittoria ma anche della sua parzialità.Luogo della memoria unitaria, ma anche permanente pretesto di lacerazioni.Barricata dell’anima per un volgo che trovò finalmente il suo nome ma, forse, noncessò di sentirsi disperso. L’eterna lotta tra Chiesa e Stato che faceva soffrireDante, e di cui parlava Croce, si depositò in uno scontro che lasciava aperta sia l’in-compiutezza dello Stato sia quella della nazione (della quale la religione era fonda-mento). Liberalismo e cristianesimo, fonte primigenia della nostra identità, finiro-no per separarsi, come Romolo e Remo, al momento della realizzazione di unsogno che era stato comune.E se oggi ancora ci dividiamo nell’interpretazione del Risorgimento, se da più partisi chiedono riletture e revisioni anche forzate, ciò dipende forse dal fatto che, sia daparte clericale che da parte laicista, si è per troppo tempo rimasti chiusi nella gab-bia mentale di Porta Pia, trascurando e negando come gli ideali del Risorgimentoavessero unito cattolici e liberali. Che esso, dunque, dovesse considerarsi un lorocomune, legittimo figlio. Da parte liberale ha giocato una sorta di «complesso del vincitore» che ha impeditodi riconoscere che, se si era finalmente raggiunta l’unificazione politica, quellanazionale, nell’assenza o peggio nell’ostilità della comunità cattolica, era ancora lon-tana. Soprattutto perché essa si andava a intrecciare con un’altra drammaticaincompiutezza: quella tra Nord e Sud. Da parte clericale è arrivato l’errore oppo-sto. Porta Pia è diventato lo specchio deformante dietro al quale nascondere che,se il potere temporale della Chiesa confliggeva con quello dello Stato, il processorisorgimentale si era viceversa nutrito in modo sostanziale dei valori del pensierocattolico. Cosicché se oggi è giusto ricordare, attraverso la ricostruzione storica, icrimini finora taciuti compiuti contro i cristiani da parte delle truppe «italiane»,bisogna d’altra parte essere consapevoli che la vera «revisione» del Risorgimentoconsiste nell’andare oltre le barricate di Porta Pia per ricostruire la natura unitaria,cattolica e liberale della nazione italiana. È questo il più grande non-detto cheancora oggi pesa sulla nostra vita pubblica e che ci impedisce di raggiungerepienamente gli obiettivi indicati da Ciampi. Nonostante siano passati 150 anni,infatti, siamo ancora tutti prigionieri di queste parziali letture della nostra storia.Entrambi bulimiche di passione nei confronti della forma-Stato e anoressiche di

O nella storiavincerà la

comunepatria

europea conl’emergeredegli Stati

Unitid’Europa,

oppure saràcomunque

inevitabile (econveniente)tenere viva la

cornice identitariadei diversi

Stati-nazione

[FerdinandoAdornato]

attenzione, al contrario, verso la forma-nazione. Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini, Ricasoli: sono soloalcuni nomi, non certo esaustivi, del grande movimento di pensieroe di azione che chiamiamo Risorgimento. Ma sono sufficienti a ren-dere evidente, pure all’interno di una polifonia di analisi e di propo-ste, la convergenza dell’umanesimo cristiano e di quello liberale,repubblicano, democratico nell’intessere, attraverso i fili già intrec-ciati da Dante e da Petrarca, la trama etico-politica della nuovapatria comune. Ma si tratta anche di pensieri a volte travisati e certa-mente dimenticati. Sopratutto, letti nelle nostre scuole più con lelenti del dovere che con gli occhiali dell’attualità.

Manzoni, i promessi italianiAlessandro Manzoni, «cantore operoso della civiltà italiana», pro-feta di quel ceto medio che diventerà nel tempo l’ossatura socialedella nazione, è il nome che più di altri ha resistito alla consunzio-ne dell’oblio. Recenti ricerche sociologiche raccontano che persi-no per i giovani d’oggi il modello letterario prevalente di una sto-ria d’amore restano I Promessi Sposi. Così come è sempre attualel’amara e dolente critica al giustizialismo che urla dalle paginedella Colonna Infame. Eppure non si può dimenticare come ilsuo pensiero politico sia stato liquidato dalla storiografia delNovecento come quello di un «noioso conservatore» se non di un«bolso reazionario». Egli venne d’altra parte sospettato aperta-mente di «eresia» religiosa arrivando un passo da un processocanonico intentatogli dalle punte estreme di un cattolicesimointransigente. Eppure sarà sopratutto attraverso Manzoni che siaffermerà la concreta alfabetizzazione e unificazione linguistica(oltre che di sentimento nazionale) dell’Italia. Di più: la sua operariuscirà nel miracolo di attenuare diversi motivi di conflitto stori-camente ben evidenti al sorgere dell’Unità. Come quello di con-vincere i ceti possidenti e intellettuali, ammalati di retorica laici-sta, ad ammettere la tenace persistenza del vissuto cristiano e anon schedare più i cattolici come «eversori». E, sul versanteopposto, a rimuovere il disprezzo per il «cencio massonico» concui a lungo i padri gesuiti avevano salutato il Tricolore.

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*****Ma, soprattutto ai più giovani, sarebbe opportu-no ricordare alcune delle pagine meno conosciu-te di Manzoni: le sue riflessioni «sulle rivoluzio-ni». Mentre egli giudica «virtuosa e sensata» larivoluzione americana, teme il contagio giacobi-no. E nella sua ultima opera, pubblicata postumae incompiuta: (La rivoluzione francese del 1789 ela rivoluzione italiana del 1859. Osservazionicomparative) Manzoni, che accetta e riconosce ildiritto dei popoli alla rivoluzione, si propone didescrivere la superiore «qualità» delRisorgimento nazionale, contrapposta agli errorie agli orrori seguiti all’Ottantanove francese che,da positivo sentimento di superamento del passa-to regime si trasforma nella pratica del «domi-nio», in una nuova tirannide scaturita dal giocoincrociato di folle agitate e di capi tesi solo alpotere. E il «dispotismo» che ne deriva «non è,come la definiscono molti, l ’eccesso della

libertà:… ma il dispotismo della pessima specie, quello, cioè, dei facinorosisugli uomini onesti e pacifici…». Con il risultato dei «gravi effetti» chesegnano comunque la storia moderna, e cioè l’instabilità dei governi e laloro precaria durata e «l’oppressione del paese sotto il nome dellalibertà…».

*****Sono pagine che gli studenti possono ritenere figlie della penna di autori libe-rali moderni come Hannah Arendt. E sono pagine che se fossero state assuntenel profondo dalla politica italiana ne avrebbero forse modificato l’intimacostituzione. Manca in Manzoni la spiegazione motivata del perché secondolui la rivoluzione italiana andò immune da quei «gravi effetti» francesi. Ma fufermato dalla morte nel 1873. O forse, ancor di più, dal doloroso silenzio nelquale si era rinchiuso dopo la lacerazione di Porta Pia e il conflitto armato conla Chiesa che deludeva le sue speranze unificanti di liberale e di cristiano. Perquesto, lui da tempo senatore del Regno d’Italia, si rifiutò sempre di parteci-pare alle sedute convocate a Roma, nella nuova capitale.

[RicostruireStato e nazione]

[FerdinandoAdornato]

Cattaneo e Gioberti, due letture strumentaliHa scritto Giovanni Spadolini: «Cattaneo fu uno dei pochi pensatori italiani solitaridel Risorgimento. Per l’educazione, la cultura e il gusto, sembrò quasi contraddirel’epoca sua. Alieno da ogni forma di indulgenza o di concessione alle preferenze eagli umori dei contemporanei, il suo messaggio poté essere compreso soltanto dopola sua morte e la sua parola è più attuale oggi di un secolo e mezzo fa». Tuttavia, nonsi può non ricordare come anche l’attualità di Cattaneo sia stata deformata. Si è sot-tolineato il suo spirito lombardo, mentre fu un grande italiano. Si sono riproposte lesue pagine ma in maniera parziale. Alla luce dell’«uso politico» fatto del suo pensie-ro negli ultimi anni, la lettura delle sue pagine è stupefacente perché - lo si può diresenza mezzi termini - è una lettura anti-leghista, nazionale ed europeista. Egli non èil sostenitore di un federalismo divisorio delle piccole patrie, ma semmai l’alfiere diuna visione kantiana della pace perpetua e di una modernizzante profetica aperturaall’Europa: «Non ci sarà pace fino a che non avremo gli Stati Uniti d’Europa».

*****Così come appare ingiusta l’etichetta di neo-guelfo che, spesso in modo dispregiati-vo, è stata riservata a Vincenzo Gioberti. Il fatto è che, nella sua parabola dalPrimato al Rinnovamento, egli preferisce contraddire se stesso pur di non con-traddire lo scopo della sua opera. Contraddicendo se stesso, rifiutando cioè lesperanze e le utopie che aveva coltivato e suscitato fra il 1843 e il 1848, intuendolo spirito dell’epoca e soprattutto alieno da ogni ambizione personale, lui guelfoindicherà infatti la strada dell’indipendenza e dell’unità intorno a un programmaliberale e riformatore. Fu una evoluzione talmente radicale che Gramsci lo chia-merà «giacobino». Era federalista e divenne unitario, era moderato e divennerivoluzionario, era conservatore e divenne democratico: la dialettica di Giobertiacconsentiva a ogni cambiamento pur di raggiungere il fine dell’Italia unita.Ancora una volta lo capì Giovanni Spadolini: «Il paradosso dell’Ottocento italianosi rispecchia perfettamente nello scrittore torinese, che dalla fantasia del Primatoevolse fino al machiavellismo del Rinnovamento, che dall’universalismo teocraticoconcluse al patriottismo democratico, che dallo Stato guelfo gettò le fondamentadello Stato moderno, che, cattolico, tracciò la via del liberalismo. Restando, sem-pre, lo stesso: un «fanciullo sublime».

Il paradigma RosminiIl cattolicesimo liberale che, pur declinato sotto diverse angolazioni (come del restoè capitato anche ai Padri della rivoluzione americana) è la vera colonna sonora del

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Risorgimento italiano, appare nella forma più coerente nel pensiero di AntonioRosmini. I concetti di persona, libertà e proprietà diventano i pilastri portanti dellaconvivenza civile e dello Stato liberale. Leggiamo nella sua Filosofia del diritto: «Lepersone sono principio e fine dello Stato. Sono esse che costituiscono, che assegna-no lo scopo e i limiti, per cui lo Stato e tutti gli organi statali sono dei semplicimezzi per le persone che ne sono realmente il fine». Leggiamo nella Filosofia dellapolitica: «La ragione di tutti gli avvenimenti sociali si trova nell’uomo. Tutto ciò chenasce nelle nazioni sopra una scala più grande e con altre proporzioni, preesiste ingerme nella mente degli individui che la compongono». In nome della persona -della libertà, della dignità e della responsabilità di ogni uomo e ogni donna -Rosmini combatte con forza ogni statalismo: «Calcolandosi gli uomini unicamenteper quello che sono utili allo Stato, e nulla in se stessi, essi vengono abbassati allacondizione di cose e privati del carattere di persone… per noi l’uomo non è solocittadino». Rosmini ha un concetto sacro anche della proprietà e ciò gli consentiràdi non cadere vittima dei sogni, poi diventati incubi, di palingenesi sociale: «La pro-prietà costituisce una sfera intorno alla persona, di cui la persona è il centro: nellaqual sfera niun altro può entrare». Fa piacere infine ricordare la grande modernitàdel pensiero di Rosmini sul tema della libertà d’insegnamento: «I padri di famigliahanno dalla natura e non dalla legge civile il diritto di scegliere per maestri ed edu-catori della loro prole quelle persone nelle quali ripongono maggior confidenza.Questo diritto generale contiene i diritti speciali seguenti: 1) Di far educare i lorofigli in patria o fuori, in scuole ufficiali o non ufficiali, pubbliche o private, come sti-mano meglio al bene della loro prole; 2) Di stipendiare appositamente quelle per-sone nelle quali essi credono di trovare maggiore probità, scienza e idoneità; 3) Diassociarsi ad altri padri di famiglia, istituendo insieme scuole dove mandare i lorofigli». Riflessioni di grande attualità. Ma insisto: non dico quanti liceali, ma quantistudenti di scienze politiche o quanti aspiranti politici, sono stati mai indotti a fre-quentare il pensiero di Antonio Rosmini?

La lettera di Ricasoli a Pio IXAll’interno di questa rapsodica visita ad alcuni siti (purtroppo archeologici) delRisorgimento, mi sembra utile dar conto dell’indirizzo che il successore di Cavour,Bettino Ricasoli, inviò a Pio IX nel settembre del 1861. Perché dimostra come ilrivoluzionario aristocratico fiorentino, influenzato dal cattolicesimo liberale diLambruschini e Capponi, concepisse il compimento della rivoluzione nazionalecome una «riforma religiosa su base civile». Così scriveva al Pontefice: «Reputo

[FerdinandoAdornato]

doveroso sottomettere alla Santità Vostra le considerazioni per le quali la concilia-zione fra la Santa Sede e la Nazione italiana deve essere non pure possibile, ma uti-lissima… Questa conciliazione … sarebbe impossibile… se per ciò fosse d’uopoche la Chiesa rinunziasse ad alcuno di quei principii o di quei diritti che apparten-gono al deposito della fede ed alla istituzione immortale dell’Uomo-Dio… Comela Chiesa non può per suo istituto avversare le oneste civili libertà, così non puònon essere amica dello svolgimento delle nazionalità… Il concetto cristiano delpotere sociale siccome non comporta la oppressione da individuo a individuo, cosìnon la comporta da nazione a nazione… Gli Italiani pertanto, rivendicando i lorodiritti di nazione e costituendosi in regno, non hanno contravvenuto ad alcun prin-cipio religioso e civile… Intanto questo deplorabile conflitto arreca lepiù tristi conseguenze non meno per l’Italia che per la Chiesa… LaChiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemo intera la sualibertà… ma per essere libera è necessario che ella si sciolga dai laccidella politica pei quali finora ella fu strumento contro di noi in manoor dell’uno or dell’altro dei potentati… Se volete essere maggiore deire della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia aloro. L’Italia Vi darà sede sicura, libertà intera, grandezza nuova, Ellavenera il pontefice, ma non potrebbe arrestarsi innanzi al principe:ella vuol rimanere cattolica, ma vuol essere libera ed indipendentenazione».

*****Una lettera splendida, lampante dimostrazione di quanto l’idealedella nazione fosse l’espressione comune del pensiero cristiano e diquello liberale.

La «democrazia religiosa» di MazziniMa una delle letture più forzate del Risorgimento è quella che riguarda il pensierodi Giuseppe Mazzini, il quale è stato oggetto di una vulgata semplificatoria, sia diparte cattolica che di parte laica, che lo ha trasformato in una sorta di laicista ante-litteram. Non c’è qui il tempo di ripercorrerne l’opera ma basterà far riferimentoagli «articoli inglesi» che compongono i suoi Pensieri sulla democrazia in Europa eche sono tra le più limpide sintesi dell’intera sua filosofia politica. Cito: «A fonda-mento di qualunque questione politica il popolo avverte almeno un appello al suospirito, - l’applicazione bene o male concepita di un principio - una garanzia dellasua missione - sulla terra - qualcuno che gli dia la propria consapevolezza, e sollevi

La vera “revisione” del Risorgimento

consiste nell’andare oltre le barricate di Porta

Pia per ricostruirela natura unitaria, cattolica e liberale

della nazione italiana. È questo il più grandenon-detto che ancoraoggi pesa sulla nostra

vita pubblica

[RicostruireStato e nazione]

la sua dignità violata. Il popolo sente nel cuore meglio di tutte le piccole false intel-ligenze dell’oggi, che, purché ottenga un angolo nel territorio dello spirito, tutto ilresto gli sarà dato. Il popolo avvertirà questo sempre più, e finirà per comprendereche ogni grande trasformazione sociale non è stata e non sarà mai se non l’applica-zione di un principio religioso, di uno sviluppo morale, di una forte e attiva fedecomune. Il giorno in cui la Democrazia avrà la forza di un partito religioso, avrà lavittoria: non prima». Un’ennesima testimonianza della grande vicinanza tra diversipensatori del nostro Risorgimento (Manzoni, Cattaneo, Rosmini, Ricasoli,Mazzini) e la filosofia pubblica affermata negli Stati Uniti d’America. Molto minorisono invece le sintonie con il giacobinismo della rivoluzione francese. Aspetto sulquale il Novecento non ha riflettuto con la dovuta attenzione.

Del resto già molto tempo prima Giacomo Leopardi aveva severamente bocciatoParigi: «È veramente compassionevole vedere come quei legislatori francesirepubblicani credevano di conservare, e assicurar la durata, e seguir l’andamento,la natura e lo scopo della rivoluzione, col ridurre tutto alla pura ragione, e preten-dere per la prima volta ab orbe condito, di geometrizzare tutta la vita. Cosa nonsolamente lagrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, maimpossibile a riuscire anche in questi tempi matematici perché contraria alla naturadell’uomo e del mondo».Ecco perché la breccia di Porta Pia è stata insieme la vittoriosa conclusione delRisorgimento ma anche una significativa restrizione del suo impianto etico-politico.Ha permesso che finalmente si facesse l’Italia ma, nello scontro tra Chiesa e Stato,ha finito per smarrire quell’idea di religione civile o di «democrazia religiosa», perstare a Mazzini, che era stata una delle anime unificanti del Risorgimento ritenen-do, appunto, lo Stato solo il mero strumento di un fine più alto: il compimentodella nazione.Ha scritto Federico Chabod: «Quali che fossero le differenze fra Mazzini eCattaneo o tra Mazzini e Cavour, c’era in tutti il senso oltre che dell’individua-lità (la Nazione), dell’universalità (l’umanità, più precisamente ancora l’Europa):di guisa che l’espandersi dell’individualità trovava un suo naturale immediato

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Una delle letture più forzate del Risorgimento riguarda Mazzini, il quale è stato oggetto di unavulgata semplificatoria, sia cattolica che laica, che lo ha trasformato in un laicista ante-litteram

[FerdinandoAdornato]

limite nell’interesse degli altri e in quello generale dell’Europa». Eppure taleindividualità non era riuscita a compiersi del tutto. Una nazione senza Stato siera trasformata in uno Stato senza nazione. L’Italia era stata fatta ma mancava-no ancora gli italiani. C’era dunque una missione ulteriore da intraprendere percompletare la storia. Le menti più avvertite già allora lo avevano compreso. Mase siamo qui a discuterne vuol dire che il lavoro non è stato concluso. La parti-colare dinamica della fondazione dello Stato unitario, come una spada affilata,recise il nodo di Gordio che univa il liberalismo e il cristianesimo italiano. Tuttosarebbe di lì a poco cambiato. Il primo finì progressivamente per tradire i prin-cipii fondativi, Locke e Kant, riducendosi a diventare l’ideologia delle egoisteélite possidenti del Nord e ad assumere, via via, connotazioni anticlericali. Ciòche segnò nella storia una drammatica contraffazione italiana delle idee liberali.Il secondo fu costretto negli angusti confini del non expedit e, nonostante le fol-gorante intuizioni di Sturzo, dovette attraversare il deserto della dittatura, perriannodare i fili di una presenza politica all’altezza della grande storia della cul-tura politica cristiana.

Dal Risorgimento alla ResistenzaCome era inevitabile, ma come non era nel pensiero dei Padri risorgimentali, ilmito dello Stato, da Crispi a Giolitti, assunse l’assoluta primazia nel discorso pubbli-co italiano. Quello della nazione, invece, fu costretto a scorrere, emarginato, nelsottosuolo. Non c’e dunque da stupirsi se proprio esso, dopo la tragedia dellaGrande Guerra, venisse fatto esplodere «contro lo Stato» in nome di nuove mitolo-gie rivoluzionarie e dietro l’apparente verità del «Risorgimento tradito». Sarebbecieco non rilevare che, con il fascismo, molti italiani al Sud come al Nord, sentironoper la prima volta realizzata l’unità della nazione. E non si finirà di ringraziareRenzo De Felice per i suoi studi. In ogni caso ben presto la storia impose agli italia-ni di accorgersi che il mito della «Grande Proletaria», anticapitalista, antiebraica,antiamericana, negava alla radice l’umanesimo che aveva fondato lo spirito nazio-nale italiano, che il «nazionalismo» stava alla «nazione» come il terremoto alla terra,che infine non può esistere «nazione» laddove non esiste «libertà».Anche dopo l’esperienza fascista, la storia italiana apparve segnata dall’eterno ritor-no della mancata integrazione tra Stato e nazione. Non per nulla l’otto settembredivenne la metafora del crollo radicale di ogni regola, valore, senso di appartenenzaa una medesima comunità istituzionale e morale. Non era la prima, non sarebbestata l’ultima volta. Corsi e ricorsi storici raccontano di un Paese nel quale Regole e

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[RicostruireStato e nazione]

Valori difficilmente riescono a trovare piena conciliazione, radicandosi in un com-piuto senso di appartenenza nazionale. E anche ciò che appare conquistato persempre è soggetto a repentini tramonti. Ma arrivò il «decennio dell’eccezione». Prima il tempo della Resistenza, poi quellodella Ricostruzione, segnarono una vera «rottura epistemologica» con l’intera storiaprecedente. Ciò che suggerì a una parte della nostra cultura politica e storiograficadi battezzare la Resistenza come «secondo Risorgimento». Si è molto discusso dellagiustezza di questa definizione. A me pare abbastanza indovinata alla condizione diriconoscerne, esattamente come per il primo Risorgimento, sia le luci che le

ombre. Come alla fine dell’Ottocento gli italiani in armi(anche se in questo caso con il decisivo aiuto ame-

ricano) conquistarono la loro libertà ed edi-ficarono ex-novo il loro Stato. Ma, pro-

prio come alla fine dell’Otto-cento, non riuscirononeanche allora a creare ipresupposti di una nazio-

ne, di una comunità daivalori condivisi. E non fu

senza significato che laResistenza si rivelasse come un

esclusivo fenomeno nordista. Giànel Cnl le divisioni ideologiche, che

avrebbero poi dominato l’era della guer-ra fredda, cominciarono a scandire l’alfa-

beto della loro alterità. Tanto che la nostraCostituzione, com’è da tutti riconosciuto, fu un abilissimo, lucido e geniale com-promesso tra valori e culture politiche alternative. La forza dei Padri costituenti fuquella di condividere un grande senso dello Stato, ciò che permise loro di privile-giare sempre il dialogo allo scontro, la mediazione alla contrapposizione, la capacitàdi cercare soluzioni alla vanità dell’esibizione retorica. Ed è ciò che ancora oggi cipermette di guardare alla Carta come a un grande modello di etica pubblica. Laloro obiettiva debolezza era invece quella di rappresentare forze politiche che, unavolta sottoscritte le comuni regole, si preparavano a dar voce a valori e filosofieopposte, quasi si trattasse di «due nazioni diverse». Ancora una volta si delineava,dunque, lo scenario di uno Stato senza nazione. Con una sola, assai significativa

Negli anniCinquanta

il pensare positivo si diffuse come

un contagio. Ed ebbe la meglio.Lo spirito italiano,

anche quando espresso con candida

furbizia, sentiva che nessun ostacolo

era impossibile da superare

se il nostro genio, la nostra fantasia,

perfino la sregolatezza

della nostra arte di arrangiarsi,

venivano messi al servizio

della solidarietàcomunitaria

e sottratti al corporativismo,

all’egoismo, alla diffidenza

sociale.

[FerdinandoAdornato]

eccezione: il senso dello Stato che i Padri costituenti indicarono con il loro lavoro, eche fu la vera grande forza della Prima Repubblica, costituiva comunque, al di làdelle diversità ideologiche, uno dei valori fondanti di quello spirito della nazioneitaliana che Dante e Petrarca avevano cantato attraverso la ribellione ai particolari-smi e agli odi civili.

Il tempo magico della ricostruzioneCi fu però un tempo nel quale l’integrazione tra Stato e nazione sembrò finalmen-te compiersi: il tempo della Ricostruzione. E, ciò che conforta la nostra tesi difondo, fu il primo momento storico dall’unità d’Italia in poi a essere guidato dallastretta, attiva collaborazione tra due grandi esponenti del pensiero cristiano e diquello liberale: Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. Senza dimenticare la lezione diLuigi Sturzo. Tornò a risuonare il valore del primato della persona, l’etica dellaresponsabilità e le virtù del civismo repubblicano diventarono un dover essere, l’e-conomia sociale di mercato fu la stella polare di un nuovo paradigma politico. Iltutto in una società nuovamente operosa, nella quale migliaia di Renzi e di Luciecostruirono, facendo leva sulla famiglia, quel sistema di piccole e medie imprese,che sarebbe stato il volano del boom degli anni Sessanta. Non che mancassero,ovviamente, disagi, disperazione, criminalità aggressive. Ma negli anni Cinquanta ilpensare positivo si diffuse come un contagio. Ed ebbe la meglio. Lo spirito italiano,anche quando espresso con candida furbizia, sentiva che nessun ostacolo eraimpossibile da superare se il nostro genio, la nostra fantasia, perfino la sregolatezzadella nostra arte di arrangiarsi, venivano messi al servizio della solidarietà comu-nitaria e sottratti al corporativismo, all’egoismo, alla diffidenza sociale.L’immaginario collettivo, ben disegnato anche dal nostro cinema, era fortementeorientato al bene comune. Non ci fu periodo della nostra storia nel quale lo spiri-to italiano somigliò di più a quello americano. La nazione si sentiva Stato. E loStato al servizio della nazione. Ma il tempo della Ricostruzione fu un lampo. Giàalla fine degli anni Cinquanta maturarono avvenimenti che avrebbero cambiatoil clima e il volto del Paese. Nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato siimpegnò in una svolta dirigista, mostrando le stigmate di quella che sarebbe poidiventata la soffocante pervasività della politica rispetto alla società, economica ecivile. D’altro canto le campane della guerra fredda già stavano suonando lamorte dell’unità nazionale. Le «due nazioni», alternative sul piano interno comesu quello internazionale, cominciavano a contendersi, palmo a palmo, le roc-caforti dello Stato-padrone. Mai però, come detto, venne meno da parte dei

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[RicostruireStato e nazione]

duellanti quel comune senso dello Stato che aveva forgiato il compromessorepubblicano. La Costituzione aveva delineato un equilibrio capace di reggereanche gli urti della storia successiva. Il Parlamento era stato infatti pensato, conpreveggenza, come camera di compensazione, luogo sovrano della composizionedei conflitti. Una sorta di permanente Assemblea costituente nella quale ciascu-na forza poteva sentirsi «proprietaria» della cosa pubblica. L’esecutivo era d’altraparte diretta espressione della volontà delle Camere e intorno, a corolla, stavanole diverse magistrature, ivi compresa la Presidenza della Repubblica, a garanziadell’intero impianto sistemico.

Uno Stato, due nazioniSi affermò così, pur nella guerra fredda, una sorta di «patriottismo costituzionale»dove però la parola-chiave era Costituzione. Fuori dalla Carta, infatti, nella culturae nella società, la parola patria e anche la parola nazione vennero lasciate in gestio-ne alla destra (che era però fuori dal cosiddetto «arco costituzionale») preferendo lasinistra coltivare la tragica utopia dell’internazionalismo proletario e astenendosi lacultura cristiana (e i residui di quella liberale) dal rivendicare valori, sia pur a essafamiliari, che potessero però far nascere qualsiasi sospetto su possibili «deviazioni»di destra. Persino il tricolore, manifestazioni istituzionali e ufficiali a parte, erameglio non circolasse, se non nelle piazze di destra. Come se nominare l’Italiacome soggetto storico-morale significasse evocare un’entità atta a turbare il com-promesso costituzionale sul quale si reggeva il sistema.Così, dagli anni Sessanta in poi, l’Italia tornò con tutta evidenza a manifestarsicome uno Stato senza nazione. Anzi, per essere più precisi, uno Stato con «duenazioni». Una democrazia vincolata dal dettato costituzionale, ma sostanzialmenteorfana di un’identità etico-politica condivisa, perché fratturata in due distinte«comunità di valori»; separate non solo dal bipolarismo mondiale tra Usa e Urss maanche da miti, sentimenti, letture, modelli di vita. Ciascuna riteneva di essere laright nation ed era pronta a combattere l’altra come wrong. Con una sola differen-za di grande rilievo tra le due. Non potendo accedere al governo, la «nazionecomunista» riteneva decisivo permeare della propria Weltanshaung cultura, edito-

Nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato s’impegnò in una svolta dirigista, mostrando lestigmate di quella che sarebbe poi diventata la soffocante pervasività della politica sulla società

[FerdinandoAdornato]

ria, informazione, università, scuole. La «nazione democristiana», viceversa, forseallo scopo di apparire a tutti gli effetti un mondo laico, preferì contenere le agenzieculturali cristiane in recinti autoreferenziali, in una sorta di collateralismo silenzio-so, imitando in questo il metodo ecclesiale; ciò che determinò una più facile espan-sione dell’egemonia del gramscismo e del gobettismo e, all’interno dell’area cattoli-ca, del dossettismo. Il cattolicesimo liberale chepure era stato il leitmotiv della ricostruzioneitaliana, cedette presto il timone al cat-tolicesimo sociale che trovava più di

una contiguità con il pensiero marxi-sta. Un fenomeno questo che non man-cherà di aver il suo peso al momento del pas-saggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Ma, comeera già stato ampiamente dimostrato dal «pensiero italiano» che ci aveva condottoal Risorgimento, ogni Stato assume vero senso storico solo come strumento di unanazione. Nessuno Stato, viceversa, anche il migliore, può reggere a lungo senza uncostante riferimento alla sua missione, alla sua constituency come nazione. Così erainevitabile che se in Italia si confrontavano due nazioni, ben presto ci si sarebbetrovati di fronte anche a due Stati.

Dalla teoria del «doppio Stato» a TangentopoliNon il valore dell’antifascismo (sacro in sé) ma l’ideologia che su di esso prima ladoppiezza della sinistra parlamentare e poi l’arroganza di quella post-sessantottinaavevano costruito, cominciò lentamente ma, inesorabilmente, a corrodere anche ilpatto istituzionale siglato dopo la Liberazione. Non senza efficacia la politologia l’haappunto chiamata teoria del «doppio Stato». Accanto, dentro e «sopra» le istituzionidella Repubblica si era formato un «potere parallelo» che, attraverso una strategiadella tensione, vere e proprie stragi, reti segrete di protezione, corruzione, collusio-ni mafiose, insomma un complotto permanente, costituiva il reale governo delPaese. Cresciuta nelle fumose elucubrazioni della sinistra antagonista, questa teoria

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[RicostruireStato e nazione]

ha finito, lentamente, per conquistare sempre più diffusi spazi nella politica e neimedia, fino a favorire una vera e propria «storiografia alternativa» che legge la sto-ria italiana come un unico grande filo rosso che dalla «Residenza tradita» porta finoa Tangentopoli. Non a caso l’inchiesta «Mani Pulite» è diventata per molti il baluar-do di una «nuova resistenza» contro il doppio Stato. Già negli anni Settanta, il pattoistituzionale che teneva comunque unite le «due nazioni» cominciò a perdere lasua forza propulsiva. Aldo Moro lo aveva intuito. Il leader dc fu uno dei pochi poli-tici italiani a capire che i movimenti del’ 68 avevano creato una rottura profondanel rapporto tra potere e popolo e che era arrivato il momento di aprire una nuovafase, forse anche costituzionale, nella storia della Repubblica. Ma aveva così tantaragione che le Br scelsero proprio lui come capro espiatorio del fantomatico «dop-pio Stato». La ricerca di Moro restò poi inevasa. E, ovviamente, stagione dopo stagione la crisidello Stato, degli strumenti della sua rappresentanza e dei suoi meccanismi deci-sionali, si fece sempre più evidente. Eppure ogni tentativo di riformare con razio-nalità l’architettura del rapporto tra potere e popolo è rimasta, negli ultimi trent’an-ni, una pia illusione. Nonostante si siano impegnate le leadership dei principali par-titi e siano state messe in campo tutte le possibili iniziative parlamentari. Infine, l’a-narchia nella quale si consumò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblicatravolse ogni pensiero. E quindi ogni speranza. Paradigmatico fu il modo con il quale la sinistra reagì alle vicende di Tangentopoliche, per calcolo o per errore, finirono per riguardare solo Dc e Psi: si avvertiva piùl’ansia di gettare veleno addosso al «nemico», di allontanare da sé ogni sospetto di

[FerdinandoAdornato]

collusione, semmai di «approfittare» dell’aiuto togato del destino, che la volontà difarsi carico con senso di responsabilità a una grave crisi nazionale e istituzionale.Chiudendo l’era della Prima Repubblica, Tangentopoli portò nella tomba, oltreche qualsiasi simulacro di valori nazionali condivisi, anche quel comune senso delloStato che pure, fino ad allora, aveva caratterizzato anche i momenti più duri discontro. Se il sistema che aveva saputo reagire alle Brigate Rosse e all’assassinio diMoro, crollò di fronte alle inchieste della Procura di Milano, era segno che qualco-sa di profondo si era spezzato. Il rapporto tra potere e popolo, già incrinato dadecenni, era esploso di fronte alla paralisi riformista. Il vecchio equilibrio politicocostituzionale era ormai del tutto saltato. Alla fine fu chiaro a tutti: se non altro perl’estinzione dei suoi storici protagonisti.Crisi dello Stato e crisi della nazione si intrecciarono così in un convulso passaggiod’epoca che spinse l’Italia degli anni Novanta a un passo dal baratro. Sistema dellarappresentanza e meccanismi della decisione totalmente azzerati, leadership politi-che travolte, unità nazionale minacciata, assetto istituzionale sclerotizzato. Tuttoavrebbe consigliato di ritornare sui passi della storia e di formare un nuovo climacostituente. In fondo, se Seconda Repubblica doveva essere, sarebbe stato oppor-tuno convocare una seconda Costituente. Più di uno provò a proporlo. Ma erachiedere troppo a un Paese sostanzialmente caduto nell’anarchia.

L’inganno del bipolarismoBipolarismo. È stata questa la parola magica con la quale noi italiani abbiamo pen-sato di risolvere ogni problema. Come se la costruzione di contenitori sistemicisimili a quelli di tutte le altre democrazie occidentali, avesse potuto sciogliere d’in-canto anche ogni problema di contenuto. È avvenuto il contrario: i nodi si sonoaggrovigliati ancora di più. La crisi dello Stato non si è risolta. Nuove diverse leggielettorali, elezione diretta di sindaci e governatori, spezzoni incompiuti e contrad-dittori di federalismo, mutamenti costituzionali gestiti «a maggioranza» in modoautoreferenziale e ripetutamente bocciati, presidenzialismo virtuale. Finora nientedi più. Il tutto condito da un perenne, irrisolto conflitto con la magistratura e dall’a-pertura di improvvisi squarci di guerra tra «eletti dal popolo» e alte magistraturedello Stato, che avvelena i già complessi e logorati rapporti tra le istituzioni. Intantoil Parlamento si ritrova malinconicamente abbandonato nella sua marcia verso l’ir-rilevanza. Dovevamo cercare un nuovo, più moderno equilibrio tra i poteri chesostituisse il patto del ’47 effettivamente desueto. Abbiamo finito per creare piùacuti squilibri, smarrendo ogni rapporto di funzionalità tra esecutivo e legislativo.

Ha scrittoGiovanniSpadolini:«Cattaneo fu uno dei pochipensatori italianisolitari delRisorgimento. Per l’educazione,la cultura e il gusto, sembròquasi contraddirel’epoca sua. Alienoda ogni forma di indulgenza o di concessionealle preferenze e agli umori dei contemporanei,il suo messaggiopoté essere compreso soltantodopo la sua mortee la sua parola è più attuale oggi di un secolo e mezzo fa».

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[RicostruireStato e nazione]

Dovevamo trovare la strada per rendere più vicino al territorio l’esercizio del pote-re. Abbiamo finito per vivere in un clima di «secessione mentale» tra Nord e Sudche rischia di interrompere l’intero circuito di sussidiarietà del Paese. Dovevamocercare nuove forme di rappresentanza, capaci di ricostruire il consunto rapportotra popolo e partiti. Abbiamo finito per naufragare sempre più esplicitamente nelleoligarchie clientelari, recidendo ogni forma di controllo e di partecipazione popola-re. Dovevamo cercare meccanismi di decisione più snelli e veloci. Abbiamo finitoper dar vita a governi paralizzati da coalizioni multilaterali. Dovevamo cercare par-titi più moderni e aperti. Abbiamo finito per rifugiarci in meri cartelli elettoraliprivi di chiare identità, poveri di valori, preda di guerre per bande e di conflitti per-

sonalistici che accrescono il discredito sulla politica. Dovevamo cercare classi diri-genti più moderne, all’altezza delle sfide del XXI secolo. Abbiamo finito per rotola-re in mezzo a nuove più arroganti incompetenze a volte segnate da incredibilidisordini morali. Ma se lo Stato piange, lo spirito nazionale certo non sorride. Il1989 aveva cancellato lo spartito sul quale le «due nazioni» avevano ispirato lamusica dell’intero dopoguerra. Il comunismo era crollato. Grazie a Reagan, graziea Wojtyla, grazie alla miseria di un’utopia impossibile. Il mondo libero aveva vinto.In Italia questo metteva in discussione anche il ruolo della «nazione vittoriosa» e lasua identità che, per troppo tempo, si era modellata solo «in negativo», comebaluardo verso il Partito comunista. Bisognava modificare schemi di gioco e gioca-tori. Forse poteva essere l’occasione perché, finalmente, esaurita la missione di unoStato diviso in «due nazioni», cominciasse una storia nuova nella quale tornare asentirsi una sola comunità «d’arme, di lingua, d’altar». E proprio questo molti italia-ni speravano potesse essere l’esito del nuovo tornante storico segnato dal «bipolari-smo». Ma, ancora una volta, è avvenuto il contrarioL’era del bipolarismo si è rivela-ta l’era del ritorno dei particolarismi personali, degli odii civili e delle lotte intestinecome da tempo non si vedeva. L’Italia della Seconda Repubblica è tornata a essere,davvero, una «nave sanza nocchiero in gran tempesta». Nonostante la nascita diAlleanza nazionale avesse determinato la piena legittimazione dell’unica frangiapolitica rimasta fuori dal patto costituzionale rendendo quindi totalmente «compiu-

Il periodo della Ricostruzione è stato quello nel quale lo spirito italiano somigliò di più a quello americano. La nazione di sentiva Stato e lo Stato al servizio della nazione. Ma passò come un lampo

[FerdinandoAdornato]

ta» la democrazia italiana; nonostante persino un presidente della Camera di sini-stra come Luciano Violante si fosse reso protagonista di parole di pacificazione neiconfronti dei «ragazzi di Salò»; nonostante tutto questo, i primi quindici anni dellaSeconda Repubblica sono stati segnati dall’incredibile ritorno dell’antinomia fasci-smo-comunismo. Non nelle sedi della ricerca storica: ma nell’arena delle campa-gne elettorali! Gli anni del bipolarismo sono stati anni di «guerra civile virtuale».Economia, media, politica, giustizia: ogni avvenimento è stato triturato dentro unalogica binaria antagonista. Berlusconiani e antiberlusconiani si sono combattuti atutto campo, ciascuno rigettando sull’altro l’infamia della demonizzazione, ciascunorivendicando per sé l’esclusiva della pacificazione. Eserciti scomposti e volgarihanno trasformato l’Italia in una sorta di Beirut dell’anima. Volevamo anticipare ilfuturo. La bipolare macchina del tempo ci ha ricondotto invece al Medioevo.

L’attacco all’unità nazionaleLo spirito nazionale italiano, mentre il mondo intorno chiedeva il coraggio di«nuove visioni» è stato costretto ad avvitarsi in un roll-back, nelle gabbie mentali diun «passato» che non sapeva «passare». Persino l’ostilità verso il tricolore, per altriversi ampiamente superata anche grazie a Ciampi, è riemersa come motivo di con-

Bipolarismo. È stata questa la parola magicacon la quale noi italianiabbiamo pensatodi risolvere ogniproblema. Come se la costruzione di contenitorisistemici simili a quelli di tutte le altre democrazie occidentali, avesse potuto sciogliere d’incanto anche ogni problema di contenuto .

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[RicostruireStato e nazione]

trasto politico. Non più da parte della sinistra in nome dell’internazionalismo, madalla Lega in nome delle piccole patrie. Un tempo per superare le frontiere, oggiper formarne di più ristrette, in ogni caso l’intimidazione contro il simbolo dellapatria torna a delegittimare la nostra unità. Come se non bastasse il derbyBerlusconi sì, Berlusconi no, la Lega tenta di riproporre lo schema delle «duenazioni» anche in chiave geografica: la nazione del Nord contro quella del Sud. Ilmodello politico, culturale, linguistico proposto dal Carroccio muove le contesta-zioni all’«essere meridionale» coinvolgendo antropologia, psicologia, modelli di vita.Esattamente come avveniva ai tempi di Peppone e Don Camillo. Solo che alloraesisteva un patto istituzionale a tenere insieme quei due popoli. Oggi se passasse ladivisione tra nazione del Nord e nazione del Sud, ciò avverrebbe in un quadro didisgregazione istituzionale tale da rendere inevitabile il passaggio dalla «secessionementale» alla «secessione reale». Centocinquanta anni dopo, l’unità d’Italia è arischio. Non solo l’unità. Ma anche l’identità. La Lega inocula infatti, in tutto ildiscorso pubblico, il veleno del corporativismo, dell’egoismo, dell’utilitarismo: sonoquesti i concetti dominanti del suo impianto politico. Quale che sia la fede religiosaprofessata dai leghisti, la loro ideologia si colloca su un versante antagonista all’ispi-razione cristiana e liberale che ha segnato il formarsi dell’Italia come nazione. Sitratta di una sorta di «socialismo della terra e del sangue» che detesta, e spesso irri-de, ogni sorta di umanesimo. I Padri del nostro pensiero risorgimentale, daCattaneo a Mazzini, sognavano un’Italia aperta, generosa, una nazione democraticaeuropea. La Lega sogna piccole patrie autosufficienti e usa il progetto federalistacome grimaldello per rompere ciò che è unito, non per unire ciò che è diviso.L’autarchia localistica contro il cosmopolitismo democratico: ecco la vera sfida lan-ciata all’identità italiana. Si tratta di un’ipoteca sul futuro. Il XXI secolo, infatti, non consente agli italianialcuna chiusura né «interna», né «esterna». L’Italia non può diventare un Paese inguerra contro «tutti i Sud del mondo». Non solo perché i suoi valori nazionali, equelli europei, glielo impediscono, ma anche perché lungo questa strada essaincontrerà solo declino, irrilevanza, povertà. La globalizzazione non si può arresta-re, né si può esorcizzare. La si può solo governare. E per ciò che riguarda i feno-meni migratori non c’è dubbio che l’unica saggia governance è quella di favorireun’immigrazione di qualità che faccia fare un salto in avanti alla intelligenza dellanostra produzione e della nostra ricerca. Non è saggio invece considerarla un reato,con il risultato di impaurire l’immigrazione di qualità e doversela vedere solo con idisperati che non hanno niente da perdere, neanche di fronte alla galera.

[FerdinandoAdornato]

Dovremmo piuttosto prendere atto che il modello americano è l’unico melting potriuscito nel mondo. La forza delle regole di uno Stato giusto, unita ai valori irrinun-ciabili della nazione: questo il cocktail vincente di una «società aperta» che nonmette in alternativa sicurezza e integrazione. Questa dovrebbe essere anche la filo-sofia di una nuova cittadinanza italiana. La Lega, dunque, non minaccia solo ilnostro passato, ma anche il nostro futuro. Finora, come detto, solo la presidenza Ciampi è riuscita nell’impresa di tenereaccesa, contro ogni regressione politica e civile della Seconda Repubblica, la fiacco-la del senso dello Stato e dell’unità nazionale. E conforta vedere che GiorgioNapolitano si stia incamminando, a volte incompreso, lungo la stessa strada. Ma ilQuirinale, anche volendo, nulla può fare contro il cattivo bipolarismo che consentea un partito che vuole rompere l’unità d’Italia e distruggerne l’identità, di stare algoverno persino detenendone il coalition power. Perciò, se non si vuole fare soloesercizi retorici, la più grande vera iniziativa per celebrare l’unità d’Italia sarebbequella di trovare la via per evitare che un partito antistatale e antinazionale conmeno del 10% dei voti, comandi la politica italiana.

Il modello politico, culturale,

linguistico proposto

dal Carrocciomuove

le contestazioniall’«essere

meridionale» coinvolgendoantropologia,

psicologia,modelli di vita.

Esattamentecome avveniva

ai tempi di Peppone

e Don Camillo.Solo che allora

esisteva un patto istituzionale

a tenere insiemequei due popoli .

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Uno Stato e una nazione da ricostruireVorrei sperare che queste analisi risultino viziate da un eccesso di pessimismo.Ma purtroppo non si può negare che quel che abbiamo sotto gli occhi è unPaese nel quale sia Stato che nazione sembrano ormai solo roboanti concetti,non più fattive realtà. Per secoli siamo stati una nazione senza Stato, per lunghidecenni uno Stato senza nazione. Ora sembra che stiamo facendo di tutto per

rinunciare a entrambi. Tutti con-cordiamo sul fatto che gli italianisi trovino davanti alla necessità diun «doppio movimento»: ridise-gnare la loro architettura istitu-zionale e, nel contempo, decifra-re i valori capaci di rilegittimare illoro patto di convivenza. Unagigantesca opera di ricostruzioneistituzionale, politica, culturale,morale. Un’opera da far tremarele vene dei polsi di qualsiasi clas-se dirigente si accinga a compier-la. Ma il punto è: c’è oggi una taleclasse dirigente? Le coordinatelungo le quali muoversi ci sono:le fornisce la nostra stessa storia.

Esse sono rintracciabili nelle nostre biblioteche. Vivono nellamemoria degli archivi come in quella dell’esperienza popolare. Ameno di non essere ormai totalmente soggiogati da talk show,sondaggi e gossip, i nostri padri ci hanno messo in condizione disapere di cosa parliamo quando diciamo Italia. Parliamo di unanazione fondata sul primato della persona. Sulla sua nobiltà (quel«cuore gentile» solo dal quale nascono amicizia e amore) e sullasua insopprimibile libertà e dignità. Parliamo di una comunitàche si è voluta fondare in contrasto con i partigiani della faziositàe dell’odio civile, e di uno Stato che si è voluto costruire controogni particolarismo campanilistico e contro ogni dispotismo per-sonale. Parliamo di un popolo operoso di famiglie, nel quale il

[RicostruireStato e nazione]

L’autarchia localistica contro il cosmopolitismo

democratico: ecco la vera sfida

lanciata all’identità italiana dalla Lega.

Niente di più lontanodalle idee dei Padri

del Risorgimento

cristianesimo si è modellato tanto su Benedetto, creando le condizioni del libe-ro mercato e del capitalismo, quanto su Francesco, generando il carisma dellasolidarietà e del volontariato. Parliamo di una storia che, da Roma alRisorgimento, ha sempre pensato il mondo come suo palcoscenico e l’Europacome sua seconda patria. Parliamo di una cultura che ha informato di sé laciviltà occidentale e mediterranea sempre in modo aperto, generoso, cosmopo-lita. Parliamo però anche di una comunità volubile, fragile, capace di contrad-dire se stessa con grande facilità. Una comunità camaleontica, capace di adat-tare la sua morfologia al paesaggio nel quale si trova a vivere. Abituato, com’èstato costretto dalla storia, a dover sopravvivere sotto gioghi stranieri, lo spiritoitaliano ha mantenuto come sua speciale abilità la mimesi, sorella di una istinti-va diffidenza verso il potere. Perciò in Italia dare l’«esempio» è da sempre rite-nuto assai importante. Perché il nostro popolo si adatta al paesaggio. Perciò inItalia si è sempre dovuto combattere «per l’Italia». Perciò da noi, da Dante aManzoni, da Gramsci a Croce, le riflessioni sulle attitudini delle «classi dirigen-ti» hanno sempre avuto grande rilevanza. Così è ancora oggi, perché purtropponon sembra di intraveder all’orizzonte classi dirigenti capaci di risollevarel’Italia, come Stato e come nazione. Scriveva Giacomo Leopardi: «Il presenteprogresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora in gran partenel recuperare il perduto». Una considerazione che si adatta alla perfezionealla nostra attualità, perché davanti a noi c’è un nuovo risorgimento cui darvita. Ma per realizzarlo occorre innanzitutto recuperare ciò che abbiamo per-duto. Ecco allora il compito della nostra generazione, 150 anni dopo l’unità:creare una classe dirigente che sappia riannodare nelle proprie mani il grandefilo rosso della storia d’Italia. Il filo che, al di là dei punti di partenza, unisceGioberti, Mazzini, De Gasperi, Einaudi, Sturzo, La Malfa, Ciampi intorno auna grande priorità: saper mettere il senso dello Stato e l’amore per l’unitànazionale sopra ogni altra cosa, anche sopra le proprie idee. È il filo dell’uma-nesimo cristiano e liberale, vera colonna sonora della nostra unità. Propriocome accadde nel corso del Risorgimento, l’Italia di oggi avrebbe bisogno chetutte le correnti politiche che si riconoscono in questa storia, a qualsiasi titoloesse siano attive nel cattivo bipolarismo di oggi, si unissero in un grande patto.Lo si chiami come si vuole: alleanza, coalizione, partito. Importante è concor-dare sui due grandi, difficili, obiettivi da raggiungere: la ricostruzione delloStato, la rinascita della nazione.

Scriveva Giacomo Leopardi: «Il presente progresso della civiltà è ancora un risorgimento; consiste ancora in gran parte nel recuperare il perduto».

[FerdinandoAdornato]

Gli INTERVENTIGIORGIO LA MALFAENRICO CISNETTOSTEFANO FOLLISANDRO BONDIFRANCESCO CASAVOLAGENNARO MALGIERIBIAGIO DE GIOVANNIFRANCESCO D’ONOFRIOPIETRO ALBERTO CAPOTOSTIFRANCESCO RUTELLI

32-33 liberal 4•2009

OCCORRERESTITUIRE

ALLE FORZEPOLITICHELA LORO

FUNZIONE

U Giorgio La Malfa U

LA RIFLESSIONE DI FERDINANDO ADORNATO ha il pregio di mettere come premes-sa al nostro dibattito politico di oggi un materiale ricco di riferimenti storici e cul-turali. La tesi di fondo di Adornato è che molte delle difficoltà politiche dell’Italiadi oggi sono conseguenza di una contraddizione di fondo che risale al momentodella formazione dello Stato unitario nel Risorgimento. Dice Adornato che lanazione italiana esisteva da secoli, pur nella molteplicità delle forme politichedella penisola, ma che il Risorgimento nel far nascere lo Stato italiano fece scom-parire l’idea e il sentimento di nazione. È una tesi suggestiva, che coglie un pro-blema effettivo - l’esclusione di una parte del Paese, egli pensa ovviamente aicattolici, dalla costruzione dello Stato - ma essa ha tuttavia un limite. Adornatonella sua relazione non si sofferma sul problema del fascismo, sul ruolo che essoha avuto nella mancata unione italiana di Stato e nazione. Perché, se è vero cheall’atto della creazione dello Stato unitario, una parte del Paese si sentì estranea,nei decenni successivi la frattura si stava sanando. La divisione tra laici e cattolici,considerata tra le prime cause del mancato processo di unione, infatti, si stavarisolvendo: i cattolici che non partecipano alla vita parlamentare prima dell’iniziodel secolo, decidono poi di entrare in Parlamento, così i repubblicani, pur divi-dendosi sulla pregiudiziale monarchica, e anche i socialisti di Bissolati. Le grandiforze estranee al Risorgimento si preparano a partecipare alla vita parlamentareaiutati anche dalla legge elettorale. Che cosa ha fermato questo processo? Il trauma della grande guerra che rove-scia un peso difficile a portarsi sulle spalle del «giovane» Stato unitario e poi ilfascismo che deve essere considerato in larga parte come una conseguenza del

Il partito mancante

Dal nostro tessuto politico manca una componente fondamentale presente nel Parlamento europeo: quellaforza liberale e repubblicana che insieme a socialisti e democristiani ha dato all’Italia 50 anni di sviluppo

trauma della guerra. Grave responsabilità del fascismo è stata rendere impresenta-bile per 50 anni dopo la sua caduta la parola «patriottismo». Nessuno di noi - neppu-re i mazziniani - osavano nel dopoguerra pronunciare la parola patria, io stesso esita-vo a usarla. Se gli inglesi e gli americani sostengono il principio my country right orwrong, ciò vuol dire che, anche se i governi possono sbagliare, il paese viene difeso,il sentimento di nazione c’è, così come il diritto a giudicare - right or wrong. Questoprincipio in Italia non c’è, non l’abbiamo potuto usare perché la parola «Italia» èstata danneggiata da quel ventennio di nazionalismo inutile. Dobbiamo ragionare suquesti aspetti per riconoscere che nel dopoguerra si è cercato di ricostruire, attraver-

so la Costituzione, un sentimento di unità. Detto questo per completare l’analisi storica, vi è da dire che l’osserva-

zione di Adornato sulla scissione fra Stato e nazione nella società ita-liana di oggi coglie nel segno. È uno dei problemi di fondo delpaese. È forse la questione centrale sulla quale riflettere e impe-gnarsi. A questo proposito si pone una domanda precisa: da dove si

deve partire per ricostruire l’unità fra lo Stato e la nazione? Ci sonodue vie: una è la via istituzionale, l’altra è la via politica.

Sono molti anni che si percorre la via istituzionale e le conseguenze leabbiamo sotto i nostri occhi. Abbiamo fatto decine di riforme politi-

che, anche una riforma presidenzialista (fatta attraverso la leggeelettorale), col risultato che viviamo in un regime presidenziale

privo dei contrappesi necessari ai regimi presidenziali,come quello americano. Non abbiamo una Camera e un

Senato autonomi, ma un sistema in cui il presidente delConsiglio ha poteri formidabili, capaci di eliminare il

Parlamento inteso come entità autonoma e dialettica,indispensabile a un regime presidenziale. La via isti-

tuzionale l’abbiamo percorsa integralmente adabundantiam ma il Paese non è più felice e,soprattutto, non è affatto più governato.Altrimenti non avremmo, dal punto di vista eco-

[GiorgioLa Malfa]

34-35 liberal 4•2009

[Il partitomancante]

nomico, i risultati catastrofici che abbiamo da quindici anni a questa parte: sono iquindici anni di questo sistema istituzionale. Allora dobbiamo seguire la via politi-ca. La Prima Repubblica ha visto l’esaurimento dei partiti che la connotarono: lacaduta del Partito comunista nell’89 si è riflessa anche nella crisi della Democraziacristiana e dei partiti laici. Su questo tessuto già indebolito si è rovesciata l’inchiestadi «Mani pulite» che ha inferto il colpo di grazia ai partiti. L’illusione coltivata inmolti ambienti è stata quella di affermare (o di ritenere) che la causa dei difettidella Prima Repubblica fosse l’esistenza dei partiti e del sistema elettorale propor-zionale che lo accompagnava. Sono nate così le leggi maggioritarie, la designazionediretta dei capi dell’esecutivo e così via. Ci si sta accorgendo che tutto questo nonbasta e che le cose funzionano altrettanto male, se non peggio. In realtà la crisi delsistema dei partiti ha creato un vuoto. Bisogna perciò ripartire dalla ricostruzionedel tessuto politico del Paese. In questo senso ho salutato come un fatto positivol’elezione di Pier Luigi Bersani. Egli infatti ha esposto il chiaro proposito di colloca-re il suo partito - che è un partito importante - in una tradizione europea,nell’Internazionale socialista e nel Partito socialista europeo. Questo inizia a essereun punto di riferimento, perché quello che è mancato all’Italia nel corso di questianni è il riferimento all’Europa e ai movimenti politici europei, dove troviamodemocristiani, socialisti, liberali, verdi, insomma tutto quello che non c’è più nellavita politica italiana. Se Bersani colloca il suo partito nell’ambito del Partito sociali-sta europeo, mette un tassello nella ricostruzione politica del nostro Paese. Un altrol’aveva già messo Pier Ferdinando Casini, collocando l’Udc nel Partito popolareeuropeo. In Europa, in Germania, in Spagna, in Olanda, in Belgio ci sono partiti diispirazione cristiana che insieme rappresentano poco meno della metà dell’eletto-rato europeo. L’Italia non può non avere un riferimento analogo. La rischiosa con-seguenza della nostra scelta istituzionale in questi ultimi vent’anni è che siamo par-titi per superare i limiti della vita italiana, ma invece di avvicinarci alla vita europeaabbiamo preso la nave e abbiamo attraversato l’Atlantico.Mio padre diceva talvolta che l’Italia del centrosinistra partiva per fare le riformedella Svezia e finiva per approdare in America latina. Nel caso della riforma presi-denziale è proprio così: l’Italia è partita per gli Stati Uniti ed è finita in AmericaLatina. Il presidenzialismo italiano assomiglia molto più al presidenzialismodell’Uruguay o del Paraguay di quanto non assomigli al presidenzialismo degli StatiUniti, che parte dal principio della limitazione dei poteri del governo. Il costituzio-nalismo americano si fonda sull’idea di limitare la forza dei governi, non di rafforzar-la rispetto alla loro debolezza. Ma in questo panorama italiano manca una compo-

In Europa, in Germania,

in Spagna, in Olanda,

in Belgio ci sonopartiti

di ispirazionecristiana

che insieme rappresentano

poco meno dellametà

dell’elettoratoeuropeo.

L’Italia non può

non avereun riferimento

analogo. La rischiosaconseguenzadella nostra

sceltaistituzionale

in questi ultimivent’anni

è che siamopartiti per

superare i limitidella vita

italiana, mainvece di avvici-

narci alla vitaeuropea abbia-

mo preso la nave e abbiamo

attraversatol’Atlantico.

[GiorgioLa Malfa]

nente minoritaria che in Europa c’è e che è compostadal Partito liberale tedesco, dal Partito liberale inglese,dal Partito liberale olandese, dal Partito repubblicanoitaliano. Forze che combinandosi con i socialisti e con idemocristiani hanno dato al nostro Paese cinquant’annidi sviluppo. Occorre perciò ricostruire anche questaterza parte. E se il nuovo partito di Rutelli va in questadirezione, è un passaggio positivo. La ragione per cuimi sono riappropriato della mia autonomia rispetto allamaggioranza di Berlusconi e mi sono rimesso in cam-mino, è proprio per ricostruire questa terza componen-te che in Europa c’è e non può non esistere anche in Italia.L’articolo 49 della nostra Costituzione riguarda la funzione dei partiti politici. Ungiovane studente di un’università americana - tra quelli che si occupano di politicache sono una minoranza - si identifica con i repubblicani o con i democratici, hachiaro che cosa vuol dire essere repubblicano o essere democratico. Così inInghilterra si sa con certezza cosa vuol dire essere socialista, conservatore o liberale.È solo in questo Paese che ciò si è perso e lo si deve ricostruire. Con un’idea. Si puòobiettare: Berlusconi segna il superamento di tutto questo. Considerando checomunque il suo cammino è alla fine, e finirà con l’esaurirsi di quella che Berlingueruna volta chiamò, riferendosi alla rivoluzione socialista del ’17, la «spinta propulsi-va», bisogna riconoscere che il fallimento di Berlusconi è duplice. Primo: non averdato un assetto istituzionale che abbia un senso al Paese. Dopo molti anni di gover-no manca un assetto istituzionale, assistiamo a una specie di corsa continua nelriscrivere e cancellare le leggi. Secondo: il fallimento della politica economica.Quello che concluderà l’esperimento di Berlusconi si gioca nel rapporto traBerlusconi e Tremonti. Se si va nella direzione di una politica di sviluppo, ha persoTremonti, e l’Europa probabilmente ci condannerà; se invece la direzione è quelladi una politica di severità, ha perso Berlusconi. Nel caso in cui si scegliesse una viadi mezzo, con gli emendamenti della Finanziaria (invece di apportare 40 miliardi ditaglio dell’Irap ci si limita a 4 o 2), diventano ridicoli entrambi, perché in questo casoavrebbe ceduto Tremonti sul principio e Berlusconi sulla quantità. È possibile risanare questa politica? Non più, bisogna ricominciare da capo e affron-tare il problema della riscrittura delle leggi. Ho letto di recente un bellissimo artico-lo dell’economista della Bocconi Roberto Perotti, che spiegava come la Danimarcae la Svezia, alle prese con la spesa pubblica negli anni Ottanta, abbiano ridotto del

La guerra al terrorismo è solo uno dei temi affrontati da questo libro che ripercorre la sto-ria completa degli eventi che hanno portato Pervez Musharraf al potere nel 1999 in Paki-stan. Perché per l’ex presidente pachistano (il libro è uscito in lingua originale nel 2006,

quando Musharraf era ancora al governo del Paese) narrare la pro-pria vita è solo il pretesto per far capire al lettore il complessointreccio di poteri militari, civili e religiosi che per molti annihanno funestamente caratterizzato il vertice dello Stato e allo stes-so tempo offrire “nero su bianco” le sue possibili soluzioni perun’area colma di tensioni e conflitti: dal Kashmir al nucleare, daal Qaeda all’impasse devastante fra Israele e Palestina. Già sup-porter dei talebani e dei muhijaiddin afgani ai tempi della lottacontro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Musharraf difronte al disastro dell’attentato alle Twin Towers dell’11 set-tembre 2001 si trova, da musulmano, in una posizione inequi-vocabile di nemico dell’Islam militante e terrorista. Da allora,è sopravvissuto a due tentativi di assassinio, ha sradicato gliestremisti islamici dal suo governo, ha organizzato e direttoun grande numero di raid militari contro al Qaeda nellecittà e sulle montagne, dove ha fatto inseguire il mullahOmar e Bin Laden con tutti i mezzi a sua disposizione. Nellibro, rivela con sorprendente semplicità i retroscena di ungran numero di eventi che hanno destato l’interesse del

mondo intero. Tra questi, quale sia la vera storia del cosiddetto“golpe” militare contro Sharif, come Pakistan e India siano riusciti a evitare il

confronto nucleare, la lotta contro la corruzione, la simbiosi tra terrorismo e religione dopol’11 settembre, le cause del radicamento di al Qaeda in Pakistan. Tutto questo e di più,compreso il terribile terremoto nelle province del Nord-ovest e del Kashmir, che nel 2005ha fatto 3,5 milioni di senzatetto e oltre 70 mila vittime.

PERVEZ MUSHARRAFCONFINI DI FUOCO

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La trincea del Pakistan tra storia e autobiografia

10 per cento l’incidenza della spesa corrente sul Pil, senza per questofinire alla fame. Hanno avuto una ripresa formidabile dello sviluppo,riorganizzando nello stesso tempo la sanità, la previdenza, la macchinadello Stato. Abbiamo un compito molto importante sul quale bisognacominciare a lavorare e sono convinto che ci siano le condizioni perfare insieme qualcosa di utile per il Paese. C’è un’urgenza, però, e suquesto forse il mio giudizio è diverso da quello di altri amici che si col-locano in questa area. Il problema è che il quadro politico e istituziona-le europeo, che ovviamente da europeisti non possiamo che considera-re come un passo avanti importante, contiene anche un elemento dipericolosità per l’Italia. Esso infatti, specialmente con l’entrata in vigo-re del trattato di Lisbona, nel dar corpo all’idea di un’Europa unita conun ministro degli Esteri europeo, una politica militare europea e cosìvia, consente di considerare fattibile la dissoluzione degli Stati chefanno parte dell’Unione. In un quadro europeo diventa così possibilesostenere che è inutile tenere oggi insieme l’Italia, giustificando così unradicale federalismo tra Nord e Sud in nome del quale ciascuno possagestire come vuole questioni finanziarie, d’immigrazione e tutto il restonascondendoci dietro al fatto che tanto siamo tutti europei, che legrandi decisioni di quadro - di politica economica, di politica interna-zionale - le prende l’Europa. Una consolidata unità europea può quindiessere la cornice per un’Europa fatta di piccoli Stati o di regioni che sidichiarano Stati. Ricordiamoci come si è sfasciata la Cecoslovacchia ecome potrebbe sfasciarsi il Belgio nel sostenere di essere europeo nellegrandi scelte, salvo poi scegliere il vallone nell’insegnamento della lin-gua nelle scuole. Affrontare il problema della Lega, il pericolo costitui-to da questo modo superficiale di risolvere i problemi con l’identitàregionale, locale, è una delle questioni per me più urgenti. È possibileche dentro il centrodestra non ci sia nessun uomo di pensiero?Martino, Urbani, Pera, Pisanu… ce ne sono molti di uomini di pensie-ro. È possibile che essi possano continuare a vivere dentro la retorica,le chiacchiere, senza che i problemi sostanziali del nostro Paese venga-no risolti? La ricostruzione di un’Italia unita come nazione e comeStato all’interno dell’Europa è un problema aperto: o noi sappiamoaffrontarlo con forza tutti insieme oppure i rischi sono davanti a noi enon alle nostre spalle.

Una consolidata unità europea può essere la cornice per un’Europafatta di piccoli Stati o di regioni che si dichiarano Stati

[GiorgioLa Malfa]

38-39 liberal 4•2009

Tutti i costi del federalismo

PERCHÉLA RIFORMA

FEDERALENON HAGIOVATOAL PAESE

U Enrico Cisnetto U

CHI, COME ME, HA RADICI NEL PRI DI LA MALFA non può che avere tra i suoiprincipali obiettivi la tutela della Repubblica e delle sue istituzioni, oltre ovvia-mente alla salvaguardia del senso di appartenenza dei cittadini alla nazioneunita. Partendo da queste convinzioni, è fin troppo facile individuare il nemiconumero uno dell’unità e della coesione nazionale: il federalismo, non il federali-smo teorico, ma quello realizzato che come nel caso del socialismo realizzato èciò che conta rispetto alle teorie. E la questione da cui vorrei partire è propriouna disamina, visto il tempo sufficientemente lungo che è trascorso dal suo«esordio», del federalismo: sono quindici anni che lo pratichiamo, penso siagiunto il momento di giudicare quello che è stato fatto fino a qui e, se si analizzaquello che è stato realizzato, credo che la nostra preoccupazione debba esserenon tanto per quello che potrà avvenire, ma per quello che fin qui (non) è statorealizzato. Perché in questi anni la questione meridionale è rimasta tale, sem-mai si è aggravata, ma nel frattempo è esplosa la questione settentrionale.Quello che abbiamo prodotto è un localismo esasperato, un municipalismosgangherato, che ha moltiplicato i costi anche perché ha duplicato le funzioni,non trasferendole dal centro alla periferia, ma sdoppiandole. In questo modoha creato un elemento di contenzioso enorme e soprattutto ha prodotto queidiritti di veto che si sono sparsi sul territorio e che abbiamo visto agire in questianni. Poi possono essere stati vestiti a sinistra come «no-tav» e a destra cometassisti che rifiutano le liberalizzazioni, ma di fatto si è trattato di diritti di veto atutti gli effetti che hanno bloccato infrastrutture di carattere internazionale.Non a caso un uomo avveduto come Giuseppe Guzzetti, presidente dell’Acri,

L’indecisionismo italiano che ha caratterizzato la politica economicarecente nasce, anche e soprattutto,per effetto delle divisioni

alla giornata del risparmio ha sostenuto che è decisamente sbagliata l’equazioneche è passata in questi anni «territorio = sede di decisione alternativa al centro»,aggiungendo, oltretutto, che il territorio non può sostituirsi al sistema paese comeinvece purtroppo è avvenuto. Ciò si è verificato perché all’inizio degli anniNovanta, con la caduta della Prima Repubblica, è passato nel nostro paese unvento nuovista e si è affermata l’idea che per rendere più efficiente il funzionamen-to della macchina dello Stato fosse utile accentuare le politiche di decentramento.Si è venduta questa idea come il modo per combattere il malaffare, per tagliare leunghie alla casta, per avvicinare i cittadini alla politica dalla quale si erano allonta-nati. Non bastava il regionalismo della Prima Repubblica, che in effetti era rimastoincompiuto perché chi l’aveva voluto a suo tempo aveva chiesto che ci fosse unarisistemazione del decentramento - penso alle proposte di abolizioni delle provinceche accompagnarono la nascita delle regioni e che sono rimaste lettera morta; que-sta idea del decentramento, che quello che sta in periferia sia meglio di quello chesta al centro, che poi non a caso si accompagna in economia al «piccolo è bello» chemolti danni ha fatto (perché ha reso nano e impotente un segmento importante delnostro capitalismo al di là delle retoriche che sento usare ancora oggi), ha finito perpermeare anche molti altri aspetti della stessa società - che già era predisposta, poi-ché il dna dell’Italia è pur sempre quello dei mille campanili e del particolarismo -con la fioritura di mille federalismi: quello universitario, perché ognuno voleva l’u-niversità sotto casa; quello aeroportuale, perché «guai a non avere un aeroporto»;

[EnricoCisnetto]

40-41 liberal 4•2009

[Tutti i costi delfederalismo]

quello ospedaliero, tant’è che oggi il problema è quello di tagliare decine edecine di ospedali in eccesso. Di tutti i servizi possibili e immaginabili si èassistito a una moltiplicazione: persino le stesse province e numero dei comu-ni sono aumentati tant’è che oggi il nostro sistema con questo mostro istitu-zionale conta venti regioni, centonove province, ottomilacento comuni, tre-centotrenta comunità montane - comprese quelle al mare - sessantatre con-sorzi di bacino (credo che siano riferiti anche ai torrenti oltre che ai grandifiumi) e una pletora ulteriore di istituzioni di secondo o terzo grado. Unmostro questo che è stato alimentato dalla scelta drammaticamente sbagliatadella modifica al Titolo Quinto della Costituzione votata dal centrosinistra allafine della legislatura ’96-2001, sbagliata nel merito e nel metodo. Il risultato èstato quindi una moltiplicazione dei centri di spesa che, per esempio, ha por-tato sei regioni su venti a essere in default dal punto di vista della spesa sani-taria, e un’esplosione delle tasse locali, per cui dal ‘95 al 2006, mentre le tassenazionali al netto dell’inflazione sono aumentate del 12 per cento, quellelocali hanno subito un aumento del 111 per cento arrivando a rappresentareil 22 per cento del totale. Basti pensare che oggi più del 50 per cento dellaspesa pubblica è spesa allocata negli enti locali.Una situazione sicuramente non sostenibile che adesso si vorrebbe aggiusta-re, o portare a compimento: io dico, invece, che così facendo si stanno defini-tivamente tagliando le gambe al nostro paese, e questo per colpa del fede-ralismo fiscale. A parte che basterebbe leggere il disegno di legge che loistituisce: in esso si trova una formula che recita che «l’attuazione dellapresente legge deve essere compatibile con gli impegni finanziari euro-pei». Chi ha votato contro - e penso all’amico La Malfa - ha sottolineatoin Parlamento che non si può scrivere una norma dicendo che sarà realiz-zata nella misura del possibile perché questa non è una cosa conciliabilecon le esigenze di uno Stato che deve misurarsi a livello mondiale; è inac-cettabile che ci si debba basare solo sull’impegno assunto dal governo,che sembra quasi dire ai cittadini «state tranquilli che questa normarispetterà i problemi della finanza pubblica». In realtà, se si scava poco aldi sotto degli impegni presi in campagna elettorale, si scopre che lanorma in questione ha previsto un ulteriore stanziamento a favore deglienti locali e in particolare delle province perché l’articolo 1 stabilisce chesi attribuisca patrimonio a comuni, città metropolitane, province e regio-

[EnricoCisnetto]

ni, ma l’articolo 2 dichiara espressamente autonomia finanziaria delleprovince. Secondo un calcolo fatto dall’università della Sapienza, la giàenorme cifra di 17 miliardi e mezzo l’anno che costano le province, di cuil’80 per cento impiegato per l’auto sussistenza, lieviterebbe a 27 miliardi,con un aumento del 65 per cento. Questo nonostante si sia preso l’impe-gno di abolire le province. Insomma, questo è il federalismo realizzato, eio credo che da cittadini, prima ancora che da analisti, abbiamo il doveredi testimoniare la nostra completa insoddisfazione per lo stato attualedelle cose. Il fatto, poi, che qualcuno voglia creare una sorta di dicotomiatra un ipotetico «federalismo buono» che soppianterà l’attuale federali-smo «cattivo» è tanto aleatorio quanto sprovveduto. Se davvero esiste, eho seri dubbi in proposito, un federalismo buono, come mai fino-ra è stata applicata solo la sua versione più deteriore? Senza con-tare che non si riesce proprio a intravedere l’utilità di questo tipodi federalismo, buono o cattivo che sia. Il problema principale di questo paese è il suo declino: la questioneche ci troviamo ad affrontare oggi, pur essendosi aggravata con la crisieconomica e con la recessione finanziaria internazionale, era già pre-sente nel nostro paese. L’Italia viene da quindici anni in cui ha accu-mulato un gap di crescita nei confronti degli altri paesi europei di unpunto percentuale all’anno: quindici punti in quindici anni conEurolandia e trentacinque punti in quindici anni nei confronti degliStati Uniti. La crisi italiana è nata ben prima di quella internazionale efrancamente non si capisce come si possa sostenere che la recessioneglobale avrebbe potuto metterci in condizione di cancellare quel gap e dimetterci addirittura, come ci viene raccontato ormai quotidianamente,nelle condizioni ideali per ripartire una volta terminata la recessione.Come sia possibile che avvenga tutto questo non ci è stato spiegato, einfatti non avverrà. Ma se il tema è quello di recuperare la via dello svilup-po, di recuperare questi gap, sarebbe utile capire se questa idea del fede-ralismo fiscale possa aiutare in questo senso il nostro paese. In Parlamentoil ministro Tremonti ha sostenuto che l’attuazione del federalismo non avreb-be peggiorato la situazione. Sarebbe stato singolare sentire il contrario. Mabisogna focalizzarsi su quali possano essere gli elementi che portano a unmiglioramento dell’attuale status quo. Dando per assodato, infatti, che

Il problema principale di questopaese è il suo declino: la questioneche ci troviamo ad affrontare oggi,pur essendosi aggravata con la crisi economica e con la recessionefinanziaria internazionale, era già presente nel nostro paese.

42-43 liberal 4•2009

[Tutti i costi delfederalismo]

l’Italia, con il sistema attuale, continuerà a perdere terreno nei confronti dei com-petitor mondiali, è necessario soffermarsi sulle soluzioni possibili, uscendo unavolta per tutte dal guado in cui siamo da oltre quindici anni.Nel mondo, dall’inizio degli anni Novanta in poi, sono due i paradigmi che si sonoaffermati. Uno è quello delle grandi dimensioni, poiché la globalizzazione significaprima di tutto quello, e l’altro è la velocità, in particolare nelle decisioni. Il processofederalista ha fatto in modo che l’Italia diventasse l’unico paese ad aver agito al con-trario rispetto agli altri: si è diviso ciò che era unito, non unendo ciò che era divisoattraverso il federalismo. Infatti l’indecisionismo italiano che ha caratterizzato lapolitica economica recente nasce, anche e soprattutto, per effetto del federalismo.E allora, se il mondo va in tutt’altra direzione, se il federalismo non serve ad aggan-ciare le grandi tendenze che sono in atto nel mondo, portandoci invece in direzio-ne di ciò che abbiamo fin qui descritto, è necessario porsi delle domande e sotto-porre l’intero processo a una verifica radicale. Basti pensare, per voler citare unaltro esempio, alla questione dei vaccini contro l’influenza H1N1, che sono stati sìacquistati dallo Stato, ma la cui distribuzione è stata affidata alle regioni: il risultatoè che in alcune realtà il vaccino è stato disponibile da metà ottobre, in altre lo siattende per metà gennaio, quando l’allerta sarà ormai del tutto o quasi rientrata.Allora, in un paese in cui ci sono stati alcuni morti per questo nuovo virus, che ilviceministro Fazio, interrogato sulla motivazione dei rallentamenti nella distribu-zione del vaccino, si trinceri dietro la scusa delle regioni, è francamente eccessivo:la delega su questioni così rilevanti non può essere una scusa per le istituzioni per«lavarsi le mani». È, in ultima analisi, necessario pensare che, nel più breve tempopossibile, si ritorni a un riaccentramento delle competenze sanitarie a livello statale.In questo modo si potrà evitare che si ripetano situazioni di default per il 30 percento delle regioni italiane.Secondo un recente studio della Banca d’Italia, negli ultimi sei mesi sono aumenta-ti del 9,5 per cento gli impegni finanziari in derivati dei comuni italiani: gli ultimisei mesi significa nel pieno della crisi finanziaria. È pleonastico sostenere che averea che fare i derivati, specie in questo momento storico, è estremamente pericoloso.Eppure, nonostante questo, i comuni hanno aumentato la loro esposizione conquesti strumenti finanziari. Fino a ora abbiamo analizzato le criticità più impellenti, ma quali possono essere lerisposte più adeguate? A mio giudizio, sono almeno due: la prima, quella chedipende esclusivamente da noi, è quella di un ripensamento: togliamoci dalla testaquesto riflesso condizionato che parlare male del federalismo è come parlare male

di Garibaldi, ragioniamo su quello che è stato il fede-ralismo fin qua, tiriamo le somme e se la conclusio-ne, come ho cercato di illustrare fino a qui, è negati-va, allora è necessario che ci interroghiamo, nel piùbreve tempo possibile, per capire quali siano gli stru-menti più adeguati per rinnovare il paese e per rima-nere in quel processo di modernizzazione mondialeche in questo momento è in atto. Se il processo fede-ralista non serve, è necessario che le forze politiche eculturali del nostro paese si facciano portatrici di unareale volontà di cambiamento e di discontinuità conquanto fin qui realizzato. E se questo significheràentrare in collisione con un partito che ha fatto delfederalismo una sua scienza, ben venga lo scontro,

dal momento che la politica è fatta anche di assunzione delle proprie responsabilitàe di sottolineatura delle distinzioni. L’altra risposta, necessaria e non più procrastina-bile, è quella delle riforme. Oltre alla sanità, cui ho già fatto riferimento, alla previ-denza e alla semplificazione istituzionale, è necessario anche procedere a una revi-sione dell’organizzazione dello Stato; in questo modo, infatti, sarebbe possibilegenerare delle risorse che ci permetterebbero, da un lato, di ripianare parte dell’e-norme debito pubblico che oggi affligge le casse italiane; dall’altro, consentirebbe direalizzare quelle infrastrutture che non sono più rimandabili. Se accorpassimo alcu-ne regioni più piccole a quelle più grandi, non dico creando agglomerati di dimen-sioni simili ai länder tedeschi, ma comunque procedendo a un drastico taglio delnumero di realtà regionali, se abolissimo le province, se diminuissimo a metà ilnumero dei comuni e se revisionassimo tutte le istituzioni di secondo e terzo grado,cominciando da quelle che più hanno fallito come le comunità montane, potremmo

ricavare più di cento miliardi di euro. Conuna cifra del genere, anche in una crisi comequesta, si potrebbe iniziare a impostare delleriforme strutturali ormai imprescindibili. Eho menzionato solo questa riforma, senzaaggiungere quella della sanità, della previ-denza; senza contare, infine, gli interventiuna tantum sul debito pubblico che pure

[EnricoCisnetto]

Abbiamo bisogno di un federalismo verso l’alto, europeo, perché nel grande scenario mondiale e nella competizione nessun paese europeo da solo ha la forza per affrontare i cambiamenti in atto

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[Tutti i costi delfederalismo]

sono, secondo me, le altre riforme che bisogna affrontare.Come Società Aperta abbiamo lanciato da molto tempo l’idea di una nuovaCostituente. Un’assemblea costituente rappresenterebbe per il paese il segno chesi svolta, il segno che se nasce una Terza Repubblica - e dio solo sa quanto ci siabisogno che nasca al più presto -, priva di quei difetti della Seconda. Io dico sem-pre che la peggiore cosa che ha fatto la Prima Repubblica è stata quella di avercidato la Seconda, non vorrei dire domani che la Seconda ha fatto la cosa peggiorenel darci la terza perché la Terza, a mio giudizio, dev’essere un auspicio. Potrà esse-re una realtà migliore solo se nascerà con ottimi presupposti. Perché solo attraversouna nuova costituente sarebbe possibile ottenere quell’unità necessaria per vararele riforme che, oggi, troppo spesso sono state procrastinate. L’Italia, se vuole davve-ro ripartire, non può più aspettare: deve trovare la forza di uscire dalla palude e diricollocarsi al fianco delle altre potenze mondiali. Infine, non va dimenticato che ilsistema entro cui il nostro paese si muove è, come minimo, quello continentale:non avevamo bisogno di questo federalismo ma abbiamo bisogno del federalismoverso l’alto, del federalismo europeo perché nel grande scenario mondiale, nellacompetizione mondiale, certamente nessun paese europeo da solo ha la dimensio-ne e la forza per affrontare i cambiamenti che sono in atto. Abbiamo fatto la mone-ta ma non siamo stati capaci di fare l’unificazione politico-istituzionale dell’Europa.Oggi abbiamo una classe dirigente che deve prendere definitivamente coscienzadel fatto che questo è uno dei paesi più deboli d’Europa e che ha, rispetto agli altri,ancor più necessità, ragione e interesse ad avviare un processo di integrazioneeuropea: sta a noi quindi lanciare quel tipo di idea federalista e battere quella stra-da che può portare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa. Queste penso chedebbano essere le grandi indicazioni che possono supportare in maniera non reto-rica e banale una rifondazione e una riaffermazione del concetto di unità nazionale.

Come Società Aperta

abbiamo lanciatoda molto tempo

l’idea di una nuovaCostituente.

Un’assemblea costituente

rappresenterebbeper il paese

il segno che si svolta,il segno che se nasce

una Terza Repubblica -

e dio solo sa quanto ci sia bisogno

che nasca al più presto -, priva

di quei difettidella Seconda.

RICOSTRUIRE LO STATO RITROVANDO IL MEGLIODELLA NOSTRA STORIA DEGLI ULTIMI SESSANT’ANNI

problema del rapporto traStato e nazione vuol direquindi cercare una nuovasintesi, con l’ambizione direstituire a nuova vitaentrambi i princìpi, consi-derando che oggi si èdisgregato lo Stato e si èsmarrito il senso dellanazione. È un obiettivoculturale ma anche politi-

Sulla scia di Einaudie De Gasperi

U Stefano Folli U

QUESTA RIFLESSIONE PROPOSTA DA LIBERAL RAPPRESENTA un momento significati-vo per la memoria storica del paese. Il testo di Adornato ne è testimonianza,dominato com’è in ogni sua pagina dall’ambizione di preservare un patrimonioessenziale per capire dove sta andando l’Italia di oggi. In sostanza si tratta ditornare alla cultura politica, alla migliore cultura politica del passato, in unmomento che potremmo definire di desertificazione culturale del paese. C’èun’attenzione spasmodica intorno a temi di questo genere, ossia per occasionidi riflessione che si dimostrano capaci di ricucire insieme i fili di una grandestoria nazionale che si è perduta. Mettiamola così. La storia del dopoguerra èun patrimonio che va recuperato, ma non per un’operazione di nostalgia, evi-dentemente, bensì per comprendere davvero quali sono state le nostre radici,per non dimenticarle e per proporre soluzioni politiche adeguate in unmomento in cui l’attualità politica propone una sorta di eterno presente in cuisvanisce la memoria del passato e neanche il futuro è molto chiaro. Quindi nonè azzardato affermare che in una certa misura una riflessione a più voci comequesta proposta da liberal ricorda quelle proposte nei convegni del Mondo diPannunzio negli anni Cinquanta, convegni che preparavano e accompagnavanosul piano della cultura politica le importanti trasformazioni del paese. Capiscobene che ci sono enormi differenze, però nell’Italia di oggi, nell’Italia appuntodesertificata, si avverte un vuoto, una mancanza totale rispetto a quella stagionepiù vitale della nostra democrazia e della nostra storia non remota. Aver posto il

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[Sulla scia diEinaudi e De Gasperi]

co assolutamente prioritario, perché coincide con la necessità di ricostruirel’Italia. Il secondo motivo per cui ho apprezzato la riflessione di Adornatoriguarda le considerazioni sul Risorgimento sotto una luce particolare: vale adire il ruolo dei cattolici liberali come tassello importante di quella religionecivile che costituì allora il messaggio morale del moto di riscatto nazionale. Eanche questo aspetto è fondamentale proprio per dare una risposta non sconta-ta ai problemi posti dall’imbarbarimento del confronto politico ai nostri giorni. Naturalmente riaprire le pagine del Risorgimento e parlare di cattolicesimoliberale non significa proporre improbabili revisionismi, anzi mi sembra che laposizione di Adornato si distacchi decisamente da quel tanto di revisionismocattolico che pure esiste ancora e di tanto in tanto si riaffaccia con studi tenden-ti a delegittimare in qualche misura il senso stesso del Risorgimento. Qui si vain una direzione diversa, benché io non possa essere d’accordo con tutto quelloche Ferdinando sostiene. Tuttavia è apprezzabile lo sforzo di conciliare anchein questo caso Stato e nazione, di spiegarli all’interno di un contesto che li sap-pia ricomprendere entrambi. Cosa che Adornato fa anche sulla scorta deglistudi essenziali di Giovanni Spadolini. E io trovo molto pertinente la citazionedella lettera di Bettino Ricasoli a Pio IX, una lettera davvero splendida del 1861in cui lo statista toscano così ri rivolge al papa: «La Chiesa ha bisogno di esserelibera e noi le renderemo intera la sua libertà, ma per essere libera ha bisognoche si sciolga dai lacci della politica pei quali finora ella fu strumento contro dinoi in mano ora all’uno ora all’altro dei potentati. Se volete essere il maggiore

[StefanoFolli]

dei re della terra, spogliatevi delle miserie del regno che vi agguaglia a loro».Qui, in questa perorazione contro il potere temporale, c’è l’indicazione implici-ta ma chiarissima di Roma capitale come compimento del Risorgimento. E vanotato che essa viene da un esponente di quel cattolicesimo liberale moderatoche aveva saputo far propria fino in fondo la causa risorgimentale. Non c’è dub-bio che queste posizioni di cattolicesimo liberale, è stato ampiamente provato,avevano in sé alcuni sintomi di eresia, erano fortemente influenzate dal gianse-nismo, la cui influenza arrivava a lambire anche Manzoni, che viene ricordatogiustamente come l’esempio più famoso e autorevole di cattolicesimo liberale.Adornato rammenta che Manzoni non partecipò alle sedute del Parlamentoitaliano convocato a Roma dopo il 1870, però sarebbe il caso di ricordare anchel’ostinazione dello stesso Manzoni nel 1864, quando si recò a votare alParlamento subalpino per la mozione che indicava l’obiettivo di Roma capitalee quindi la provvisorietà della scelta di Firenze. Lo scontro allora fu molto duroe la posizione di Manzoni non coincideva con quella di molti cattolici liberali oconservatori. Come dimostra il profondo dissidio che lo divise in quell’occasio-ne da D’Azeglio. Ed è appena il caso di sottolineare che alla morte di Manzonile voci del cattolicesimo ufficiale stesero intorno a lui una cortina di silenzioinfastidito, a cominciare dalla Civiltà Cattolica.In altre parole, la storia di quegli anni è anche la storia di cattolici che avevanofatto una scelta precisa a favore della causa risorgimentale e che le recavano ilpeso della loro peculiarità culturale, naturalmente, contribuendo così alla ric-chezza del processo nazionale; al tempo stesso altri cattolici, liberali e non, ave-vano fatto la scelta opposta e non ponevano Roma capitale come traguardofinale del Risorgimento. Vedevano, anzi, la possibilità di protrarre in un modo onell’altro il potere temporale.Non è una differenza da poco, anche perché la risposta del papa alla lettera diRicasoli fu il Sillabo, nel 1864, in cui si lanciava un anatema contro il liberali-smo, con ciò creando una frattura notevolissima tra le forze che credevanonella nazione. Quindi la riflessione di Adornato, di cui condivido l’impianto,tende un po’ troppo a unire fra loro cose e fatti che erano abbastanza diversi traloro. La posizione dei cattolici liberali era una bella testimonianza, era anzi unatto di straordinaria adesione alla «religione civile» dell’Italia nascente, però erapur sempre una posizione minoritaria e come tale fu sostanzialmente sconfittadal Sillabo. E se poi si dice che Porta Pia rappresenta una ferita, una forma direstringimento etico-politico che indebolisce il nuovo Stato, discutiamone.

«La Chiesa ha bisogno di essere libera e noi le renderemointera la sua libertà, ma per esserelibera ha bisognoche si sciolga dailacci della politica pei qualifinora ella fustrumento controdi noi in manoora all’uno oraall’altro deipotentati. Se volete essere il maggiore dei re della terra, spogliatevi dellemiserie del regnoche vi agguagliaa loro».

BETTINORICASOLI

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[Sulla scia diEinaudi e De Gasperi]

Perché allora bisogna riconoscere che sei anni prima c’era stato il Sillabo, con laprofonda spaccatura che esso aveva provocato. Qui possiamo accennare allaquestione della religiosità di Mazzini. Giustamente si afferma che egli fuespressione di un autentico spirito religioso, di cui è intriso il suo messaggiopolitico. Però mai tale spirito rende Mazzini assimilabile ai cattolici liberali.Diciamo che Mazzini è assai più vicino alla tesi di Machiavelli, per il quale ilpapato è il grande ostacolo all’unità nazionale, come la storia ha confermato.

Ed è anche vero che il sussulto religioso di Mazzini simuove su di un terreno completamente diverso da quellodella Chiesa, tanto è vero che Mazzini è il teorico della«terza Roma», portatrice di un afflato universalistico e spi-rituale destinato nella sua idea a sostituire la Chiesa catto-lica. Quello che va ricordato è che Mazzini, da un certopunto in poi, viene assimilato e ricompreso nel fiumedella storia d’Italia proprio a partire dal suo messaggiomorale. Trascuro naturalmente in questa sede la valoriz-zazione che ne fece il fascismo. Ma voglio sottolinearecome la componente religiosa del suo pensiero fosseapprezzata da Da Gasperi, che di Mazzini fu un grandeestimatore, al punto che il monumento sull’Aventino

viene inaugurato nel 1949 proprio per impulso decisivo di De Gasperi. E sideve pensare che quel monumento esisteva da anni, realizzato alla finedell’Ottocento, nel clima dell’Italia anti-clericale, dallo stesso scultore cheaveva fatto il monumento a Giordano Bruno in Campo de’ Fiori. Però restainutilizzato e solo nel ’49, nel centenario della Repubblica Romana di cuiMazzini era stato uno dei triumviri, viene collocato su uno dei colli di Roma.In un clima culturale cambiato e con il pieno concorso del cattolico DeGasperi. Il che significa che la conciliazione tra il cattolicesimo liberale, scon-fitto nel Risorgimento, e la cultura liberal-democratica avviene effettivamentee completamente solo nel secondo dopoguerra. I due nomi di De Gasperi edEinaudi sono il simbolo di quel decennio in cui realmente la conciliazioneavviene sul piano del governo e delle istituzioni. Senza dimenticare che sulterreno costituzionale, a partire dalla scrittura della Carta, c’è un più ampio eintenso concorso di forze. Tanto è vero che la componente mazziniana, conUgo La Malfa, è il terzo elemento chiave per comprendere il senso del perio-do «centrista», sviluppandosi poi verso la nuova fase che si profila, quella del

Riscoprire il senso di una politica liberal-democratica con il concorso dei cattolici-liberali da un lato e dei laici riformatori è con ogni evidenza la sfida culturale dei nostri tempi

[StefanoFolli]

centrosinistra. Questa conciliazione avviene ed è il senso di una storia chepossiamo cogliere anche oggi. Io credo che dobbiamo sforzarci di rifletteresulla rinascita di un’etica pubblica. Il senso dei diritti e dei doveri: questa èun’immagine del tutto mazziniana. Ed è un ottimo punto di partenza.Riscorpire il senso dei doveri nella sfera pubblica, interrogarsi sul perché que-sta è diventata la stagione del populismo. La crisi di Tangentopoli è la crisidella rappresentanza politico-istituzionale da cui emerge in seguito la corren-te populistica che ha preso il via in quegli anni, ma si è addirittura ingrossatain seguito. Ne deriva che riscoprire il senso di una politica liberal-democraticacon il concorso dei cattolici liberali, da un lato, e dei laici riformatori, dall’altro,è con ogni evidenza la sfida culturale dei nostri tempi. L’incontro si è già realiz-zato con successo negli anni del dopoguerra, quindi può rinnovarsi oggi. Èchiaro che il bipolarismo, così com’è, non va bene per il paese perché comportaun rischio troppo grave, tra radicalizzazione e populismo. Il pericolo è proprionella messa in crisi degli assetti generali del paese e dunque nell’emergere diforze ancora più radicali, ancora più indotte alla disgregazione progressiva deltessuto nazionale. Questa sarebbe la sconfitta totale delle forze di ispirazione liberale, laiche o cat-toliche che siano. Un ultimo punto. Laici e cattolici, quando si sono ritrovati, lohanno fatto sul terreno di una forte autonomia della politica anche rispetto allaChiesa, autonomia che oggi si avverte solo a tratti. C’è una lettera di DeGasperi scritta a Pio XII dopo il rifiuto all’operazione Sturzo in Campidoglio. Ilpapa fa a De Gasperi lo sfregio di negargli un’udienza in Vaticano, siamo nel’52, e allora lo statista - che è allora presidente del Consiglio e ministro degliEsteri - gli scrive accettando «l’umiliazione come cattolico», ma rivendicando ladignità di capo del governo italiano e chiedendo un chiarimento alla Segreteriadi Stato. Ecco una straordinaria lezione di autonomia della politica e di sensodello Stato. Se davvero vogliamo ricostruire la nazione dobbiamo in primoluogo ricostruire lo Stato. E questo lo si può fare solo ritrovando il meglio dellanostra storia negli ultimi sessant’anni. Se saremo capaci di questo, se sapremocogliere l’ispirazione profondamente liberale di questa vicenda nazionale, allorapoi ci porremo il problema istituzionale, degli schieramenti, della legge eletto-rale e infine di un bipolarismo che non funziona come dovrebbe. Prma peròbisogna individuare quali sono oggi i fili da tessere e da connettere fra loro.Solo così diventa credibile la prospettiva, auspicabile, di un nuovo patto. Cioèdi un nuovo inizio.

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IL TESSUTO CIVILEDEL PAESEÈ SANOE VUOLERINNOVARSI

U Sandro Bondi U

TENERE INSIEME LA RIFLESSIONE CULTURALE E IL CONFRONTO politico che in questo paeserischiano pericolosamente di allontanarsi l’una dall’altro, è un elemento di grande utilità alfine di dare vita a una cultura politica unitaria. Un’esigenza fortemente sentita nella nostravita democratica, tanto più attuale e significativa mentre ci prepariamo alla celebrazione delcentocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia. Credo infatti che questo anniversariooffra un’occasione di unità che presuppone da parte di tutti una disposizione alla riflessioneseria e non - come spesso da noi accade - autodistruttiva. Dobbiamo avere la consapevolez-za che la storia degli italiani non è quella degli ultimi centocinquant’anni. La storia degli ita-liani e l’influenza che essa ha avuto nel mondo intero attengono a periodi assai più antichi edi certo superiori per straordinarietà di quanto non sia la storia dell’ultimo secolo e mezzoche è per molti aspetti problematica, e che richiede ulteriori approfondimenti da parte distorici, studiosi, intellettuali, uomini di cultura. Questa celebrazione sollecita una domanda di fondo che è politica ma si alimenta di unariflessione culturale: qual è oggi la nostra idea dell’Italia? Se noi ci poniamo seriamente que-sta domanda - qual è l’idea che il popolo, le classi dirigenti, i partiti politici di maggioranza ed’opposizione hanno dell’Italia - rifuggiamo innanzitutto dal rischio di una inutile celebra-zione retorica e al tempo stesso evitiamo di trasferire l’acceso dibattito politico, molto spessola rissa politica che contraddistingue la vita politica italiana, sul piano della storia e del passa-to. Due pericoli che dobbiamo assolutamente evitare, per risolvere il problema dell’identitàdel nostro paese e per individuare la chiave, la pietra angolare su cui ricostruire un’unità

Oltre la retorica

nazionale. È indubbio che parliamo dell’unità d’Italia in un contesto caratterizzato ditanti elementi di disunità, sul piano politico, culturale, territoriale. Ma la divisione e ildivario tra il Sud e il Nord d’Italia non sono questioni mentali che nascono dalla posi-zione della Lega Nord, che semmai è il risultato di questa situazione. La disunità ter-ritoriale tra il Sud e il Nord d’Italia è una questione reale che una classe dirigentedeve saper affrontare e risolvere. Dunque il problema di fondo oggi è quale sia lachiave per cercare di ricostruire questa unità e per creare un sentimento nazionale,una memoria condivisa, un paese più unito, capace di affrontare i problemi ancorairrisolti dell’unità italiana. La mia opinione personale è che la nostra vera identitànazionale sia il frutto delle nostre diversità regionali, comunali, municipali: quellalibertà comunale che è all’origine della libertà in Europa. Una diversità che è non unfattore di disgregazione ma di ricchezza per l’unità nazionale. Sono convinto che que-sto tessuto, questa straordinaria storia italiana che consiste nelle sue diversità culturali,sociali, territoriali, nelle sue molteplici tradizioni, spieghi anche la vitalità di questopaese, la sua forza economica e sociale. Non ho una visione pessimistica della societàitaliana. Certo, ne vedo tutti i problemi drammatici. Abbiamo tutti ancora davanti agliocchi le immagini trasmesse dalle televisioni e riprese dai giornali dell’esecuzione delcamorrista Mariano Bacio Terracino avvenuto nel quartiere Sanità a Napoli. Nonpossiamo più vivere in un paese così, ci vuole un moto di reazione a un problemadrammatico del nostro paese. Ma l’Italia non è soltanto questo, l’Italia dimostra forza,vitalità, energie e una volontà di cambiare, di rinnovarsi, di modernizzarsi a cui dob-biamo aggrapparci. Questa vitalità del tessuto economico e sociale spiega in parte

[SandroBondi]

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Economia, politica, culturascienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornaliche ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le ideeper renderlo migliore…

il quotidiano

Tutti i giorni in edicolalo fa solo liberal

…questo

anche la ragione per la quale l’Italia abbia saputo reagire, forse meglio di altri paesiconsiderati economicamente più forti, alla crisi internazionale: non solo per meritodel governo, delle forze politiche, ma soprattutto in ragione del fatto che ha un tessu-to civile, economico, culturale che ancora resiste e che è il frutto più profondo dellasua storia. È a questo che noi dobbiamo ricollegarci.Ecco allora quale può essere oggi la chiave per affrontare i problemi ancora irrisoltidel nostro paese: un federalismo attivo all’interno di una cornice nazionale. Il federa-lismo così inteso potrebbe risolvere i problemi del nostro paese soprattutto nel Sud, acondizione che ci sia una responsabilità nazionale, unitaria. Sono convinto, tanto piùoggi, che il federalismo necessiti di un più forte potere nazionale. Dico di più: unfederalismo che non presupponga un forte potere centrale rischia di determinare nelpaese un processo di anarchia, di disgregazione, di sfaldamento dell’unità nazionale.Certo dovrebbe essere un federalismo che non moltiplichi a piramide ulteriori centriburocratici: il rischio infatti non è rappresentato solo dal potere burocratico centralema anche dai poteri burocratici regionali, provinciali e dagli enti locali. Penso a unfederalismo che si ispiri al principio di sussidiarietà e a quel personalismo comunita-rio di Adriano Olivetti, sul quale ho avuto occasione di tornare in tempi recenti conun mio lavoro a lui dedicato (il libro Il sole in tasca. L’utopia concreta di AdrianoOlivetti e Silvio Berlusconi, Mondadori, ndr). Avvicinandoci alla celebrazione del centocinquantesimo anniversario dell’unità italia-na dovremmo cercare di lavorare sulla base di questi principi e se sapremo discuteree impegnarci potremmo non sprecare questa occasione. Potremmo farla diventareun’occasione propizia per rinsaldare l’unità della nazione e al tempo stesso per crearele condizioni per affrontare i problemi ancora irrisolti di questo paese. Solo così saràpossibile avviarci verso una fase di maggiore democrazia e di maggiore unità.

La vitalità del tessutoeconomico e sociale del Paesespiega la ragioneper cui l’Italia ha saputo reagiremeglio di altri consideratipiù forti, alla crisi globale

[SandroBondi]

P

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U Francesco Paolo Casavola U

Ripartiamodal bisogno di

DIOROVIAMO A MUOVERE DAGLI STATI D’ANIMO DEGLI ITALIANI quando loro si propone l’ap-prossimarsi del compleanno di un secolo e mezzo dell’Unità. I settentrionali vedono imeridionali in balia di mafia, camorra, n’drangheta, sacra corona unita, di amministrazionilocali colluse con i poteri criminali. A loro volta i meridionali guardano al Nord come illuogo di elezione di poteri forti, finanziario, bancario, mediatico e di popolazioni ricche edevolute. Le infrastrutture delle comunicazioni, autostradali, ferroviarie, aeroportuali sotto-lineano le differenze a svantaggio del Sud. Si aggiungono ospedali e scuole per una com-parazione ancora una volta di inferiorità del Sud rispetto al Nord. Basterebbero questegrandi evidenze a giustificare l’esistenza di due Italie, e dunque di italiani non uguali aseconda dei luoghi di nascita e di vita, come se non si trattasse di cittadini di uno stesso eunico Stato unitario. La questione meridionale, spina nel fianco dell’unità italiana, sem-brava potere essere assorbita intitolandola e trattandola quale questione nazionale, quan-do le si è contrapposta la questione settentrionale della reclamata indipendenza padana edella minacciata secessione qualora la forma di Stato non si mutasse da unitaria a federale.Il federalismo fiscale è per ora uno stralcio di un non dismesso disegno di mutamentocostituzionale. Come strategia di autodifesa si propone un partito del Sud. Si mette indiscussione la lingua meridionale con impiego concorrenziale dei dialetti. Regionalismi elocalismi tendono ad alimentarsi della sfiducia nelle istituzioni nazionali. La richiesta difronteggiare l’emergenza sicurezza con le ronde anziché con le forze dell’ordine è un sin-tomo inquietante di progressiva eclisse dello Stato. Italiani divisi e diversi ancora dopocenticinquant’anni di unità? Ma allora, che cosa è veramente stata l’unità d’Italia?

[Francesco PaoloCasavola]

Stringere la più antica nazioned’Europa in un solo Stato invece chein sette, poteva avere ed ebbe duedistinte motivazioni. La prima eraquella di avere più voce nel capitolodelle relazioni tra le potenze europeee meridionali. La seconda di dare unapatria giuridica alla nazione. A secon-da che prevalesse l’una o l’altra ispira-zione diversa divenivano le forme delvissuto istituzionale degli italiani. Leguerre di indipendenza e poi quellecoloniali e le due guerre mondiali uni-vano gli italiani, qualunque fosse laloro origine regionale in una obbe-dienza comune, fino al sacrificio dellavita per quella idea ch’era insieme unsentimento della fraternità nellapatria. Fratelli d’Italia. Non c’è nulla diretorico nelle parole dell’inno di

Mameli: «siamo pronti alla morte». Il suggello dell’amore ai fratelli nella patria èsacrificare la vita. Il trapasso tra la patria e lo Stato sta in una vita che non si perde,ma si spende al servizio dello Stato e, attraverso lo Stato, dei concittadini. Quantemigliaia di maestri elementari, di professori, di ferrovieri, postelegrafonici, di fun-zionari hanno per un secolo e mezzo lavorato per lo Stato avendo di faccia scolari,studenti, viaggiatori, utenti, cittadini destinatari di innumerevoli frustrazioni pub-bliche? Questa moltitudine di soldati e di cittadini non saldavano la nazione e loStato? Perché allora non è bastato a far nascere un popolo italiano, come altroveerano il popolo francese o il popolo tedesco? Popolo è un soggetto politico e costi-tuzionale. In Italia il protagonismo politico-costituzionale è stato della monarchia,del Parlamento, dei partiti, non del popolo. Lo stesso modello liberale dello Statodi diritto ha avuto vita grama. Nella monarchia il governo oscillava tra i voti delParlamento e il gradimento del sovrano, la giustizia era emanazione del re, comeprescriveva lo Statuto di Carlo Alberto, i partiti condizionavano l’amministrazione,come denunciò Marco Minghetti, il suffragio era limitato ai maschi dotati di istru-zione e di censo, in pratica pilotato da ceti borghesi di proprietari, imprenditori,

professionisti. Quando neltornante tra Otto eNovecento divenne acuto ilconflitto sociale gli italiani sisepararono tra lavoratori epadroni. Il turn-over tradestra e sinistra storica nonoppose al socialismo la forzadi uno Stato liberale. Anche per questo la soluzio-ne che il fascismo prospettòper chiudere il conflitto di

classe fu quello Stato autoritario, nulla contro, nulla al di sopra e al di fuori delloStato. Una ideologia politica che si proponeva come una mistica, come una religio-ne. Gli italiani che della libertà non avevano mai fatto effettiva esperienza, dellaperdita della libertà nella dittatura non avvertirono la gravità, se non nelle esiguefrange degli antifascisti. La nazione non mai divenuta pienamente adulta degeneròin nazionalismo. La forma parlamentare dello Stato fu soppressa, sostituita dal cor-porativismo in cui l’individuo valeva solo come monade dell’universo autoritariodello Stato. Con la Repubblica gli italiani avrebbero dovuto essere educati allademocrazia come avvertì e ammonì la Commissione alleata di controllo. Invece ipartiti preferirono tenerli sotto tutela, gestendo una Repubblica dei partiti, non deicittadini. Gli italiani restavano separati in monarchici e repubblicani, liberali edemocristiani, socialisti e comunisti. Il pianeta spaccato, per usare la metafora diSolgenitsin, tra Usa e Urss, si rifletteva in Italia sui due schieramenti dell’atlantismoe del comunismo filosovietico. Lo stesso patriottismo costituzionale restò una for-mula ottativa perché se ne fece un impiego fazioso da una parte contro l’altra. Conl’effetto che la Costituzione ebbeun’attuazione tardiva, ostacolata edistorta, la Corte costituzionale entròin funzione nel 1956 otto anni dopola Carta del 1948, le Regioni comin-ciarono a darsi i loro statuti agli inizidel decennio Settanta. Le crisi delterrorismo, di Tangentopoli, la finedei grandi partiti popolari,

Il tessuto connettivo prodotto dalla morale cristiana che aveva

consentito di superare il conflittoStato-Chiesa, oggi è causa

di contrasti politici e culturali. Ma l’onda lunga della

secolarizzazione va esaurendosi

[Ripartiamo dal bisognodi Dio]

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[Francesco PaoloCasavola]

Democrazia cristiana, Partito socialista e Partito comunista, hanno segnato un iti-nerario che è stato chiamato di transizione da una Prima Repubblica a unaSeconda e ora a una Terza senza che si sia approdato ad altro che a un bipolarismodi due schieramenti che dividono i cittadini in pregiudizi di setta anziché unirli ededucarli a essere giudici sereni delle opere dei governanti e dei programmi di chiaspira a governare. I conflitti tra i poteri dello Stato si acuiscono, specie tra esecuti-vo e legislativo da un canto e giudiziario dall’altro, l’invocato presidenzialismo pre-vede una perdita di ruolo del capo dello Stato e del Parlamento rispetto al primoministro, il popolo come fonte dell’investitura elettorale sembra chiamato a daresuperiorità gerarchica su qualunque altra figura istituzionale non direttamente elet-tiva, la forma di governo diventando così non quella di una democrazia parlamen-tare, quale fu voluta dai Costituenti e di cui sanziona la non riformabilità l’art. 139della Carta, ma quella di un governo personale e autoritario senza i pesi e i con-trappesi propri alle grandi democrazie occidentali.Quanto alla società che movimenta le sue innumerevoli filiere entro il traballantetelaio di uno Stato affidato ormai alla sola moral suasion del presidente dellaRepubblica, essa si trova non solo nella crisi economica congiunturale e nelle tantedifficoltà indotte dai processi di globalizzazione, ma soprattutto e più gravementein una tormentata fase di disorientamento etico. Vita privata tra riservatezza e rile-vanza pubblica, libertà e dignità della persona e interesse collettivo, valori dellacoscienza tra religione e leggi dello Stato laico sono nodi problematici ogni giornopiù complessi. Quel tessuto connettivo prodotto dalla morale cristiana che avevaconsentito di superare il conflitto Stato-Chiesa nel processo unitario e che nellapreparazione della Costituzione repubblicana faceva dire a Togliatti: noi siamo ilpiù importante partito cattolico non democristiano, oggi è causa di ulteriori contra-sti, politici e culturali. Principi del cristianesimo sono confutati in nome di una lai-cità animata da ostilità alla religione, letta come forma arcaica di potere sociale, dachi ignora la portata rivoluzionaria del cristianesimo nella promozione della libertàdella persona, e da chi è estraneo a ogni sentimento di religiosità. Esaurita l’ondalunga dei processi di secolarizzazione, il bisogno di Dio torna a rivivere nella societàcontemporanea. Potrebbe divenire un collante di fraternità in un sistema di forma-zioni sociali troppo incline a moltiplicare le sue frammentazioni fino a restituire lapersona umana alla solitudine. Ecco, a centicinquant’anni dall’unità, questo il qua-dro di un paese in cui le tensioni individualistiche e di gruppi particolaristici sem-brano assai più energiche che non quelle di solidarietà politica, economica e socialeper ripetere il trinomio dell’art. 2 della Costituzione.

58-59 liberal 4•2009

DA DOVE RIPARTIREPER RICOSTRUIRE

IL SENTIRE COMUNENELL’ATTUALE DECADENZA

U Gennaro Malgieri U

SONO STATO PARTICOLARMENTE LIETO DI RITROVARE nella riflessione diFerdinando Adornato una verità per me ovvia da molto tempo ma negata alungo, e cioè che la nazione italiana esisteva quando non c’era lo Stato e hacessato di esserci proprio quando è nato lo Stato. Un paradosso tutto italiano.Anzi, nel panorama europeo la nazione italiana precede, come tutti sanno, lacostruzione dello Stato unitario, a differenza di qualsiasi altra nazione che haavuto bisogno dello Stato per potersi concretizzare. Diceva Gioacchino Volpeche la nazione italiana comincia a esistere a cavallo fra il X e l’XI secolo, con-traddicendo la teoria di Barbagallo che voleva che la nazione italiana traesseorigine direttamente da Roma e contraddicendo anche Benedetto Croce cheasseriva che la nazione italiana coincideva con la nascita dello Stato unitario.In effetti se andiamo a scavare nelle origini della nazione italiana non possia-mo che accettare la teoria di Volpe perché vediamo la nazione italiana dispie-garsi dal crogiuolo di genti, popoli, etnie, culture, storie, tradizioni, usi, che,amalgamandosi, prendono una forma particolare e attraverso la lingua si pre-sentano poi in maniera unitaria. Nasce più o meno così, in questa maniera unpo’ fantasiosa all’apparenza ma molto concreta nei fatti che la determinano, lanazione italiana. Tutta questa ricchezza l’abbiamo smarrita nel corso dell’ulti-mo secolo e mezzo, cioè nei centocinquant’anni dello Stato unitario naziona-le. Al punto che uno dei capisaldi della cultura della nazione italiana, vale adire il principio dell’inclusione culturale, religiosa ed etnica, viene oggi espun-to quasi come se fosse un male dal quale liberarci; le polemiche intorno all’in-clusione o all’esclusione dell’altro da noi, attengono anche alla decadenza del-

Italiani senza Italia

l’idea stessa di nazione così come si è andata configurando nel corsodei secoli. Nel corso del processo unitario, molti sono stati i margi-nalizzati e gli umiliati, ma non bisogna dimenticare - e in questosenso va riconosciuta la validità del lavoro di tanti storici comeAngela Pellicciari impegnati nella revisione di questo periodo sto-rico - che lo Stato unitario si realizza anche per una guerra sangui-nosa che non ci apparteneva - quella di Crimea - e per l’utilizzo dipratiche extra-politiche, come il ruolo giocato dalla contessa diCastiglione nella vicenda amorosa che ebbe con Napoleone III.Anche attraverso questi motivi si realizza lo Stato unitario che daalcuni è stato visto come una forma di colonizzazione di una partedelle terre del nostro paese. Una questione meridionale seriamen-te affrontata avrebbe bisogno di essere inquadrata dal punto divista storico per la maniera in cui si è realizzata (o non realizzata),non sempre così lineare come si è voluto far credere. Tutto questoattiene ai motivi di riflessione, di indagine, di considerazioni varieche possono essere fatti nell’imminenza o nel corso delle celebra-zioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia, e cheoffrono le basi di discussione storica, culturale e politica per for-mulare un giudizio, a cui non s’addice alcuna indulgenza,dell’Italia come paese e come nazione in questa stagione partico-larmente travagliata della sua vita pubblica. Aggirandomi per que-

[GennaroMalgieri]

Per lungo tempo non abbiamo saputocosa vuol dire sentirsi immersi in una storia, in una tradizione e avere radici. Da questa assenza è derivata la patologia dei particolarismiche hanno portatoall’attuale mancanza di unità

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[Italianisenza Italia]

sto paese incontro più che altro macerie. Mi sembra di vivere la storia del pro-tagonista di un recente romanzo americano - La strada di Corman McCarthy -dove ci sono un padre e un figlio che si aggirano in un universo nichilista attra-verso macerie, rottami fumanti tra i quali non c’è nulla di vivo, nulla che indu-ca alla speranza. Sarà anche un’immagine letteraria ma la letteratura - come sisa - precorre i tempi della politica, anzi li esplicita, li fa sentire molto più vivi, lirende più comprensibili. Queste macerie sono la rappresentazione plastica della disunione della nazioneitaliana, della frammentarietà, della assoluta inconsistenza di quello che noivediamo e facciamo. Non c’è un settore della nostra vita pubblica del quale ci sipossa dire più o meno soddisfatti, ma questo non è l’inveterato pessimismo di undeluso, credo che basti sfogliare un giornale. Anzi, per igiene mentale forse nonbisognerebbe sfogliarli i giornali, ma paradossalmente è proprio attraverso i gior-nali (che grazie a Dio esistono) che ci rendiamo conto dello spaesamento nelquale viviamo. Infatti, quando diciamo Italia, non sappiamo più bene che cosadiciamo e a che cosa ci riferiamo. Tutto questo è forse riconducibile alla finedella politica? In buona parte credo di sì. E se c’è una vitalità in questo paese,nelle imprese, nelle aziende, nelle attività professionali, ritengo che risulti inqualche maniera oppressa, che avverta la fatica di rappresentarsi quotidianamen-te in qualche modo. Non condivido perciò l’ottimismo istituzionale espresso dalministro Bondi nella sua riflessione, poiché credo, con Adornato, che il paese siaoppresso dalla crisi dello Stato. Crisi che si concretizza nel conflitto permanentetra le istituzioni e tra i poteri dello Stato, in particolare fra i tre poteri costituzio-nali. Crisi che si evince dalla mancanza di coesione nel sentirci tutti parte di unanazione: in una parola, dalla decadenza dello spirito pubblico.Una volta si diceva che raccontando in questi termini la vita di un paese, di unanazione, si era come immersi in una sorta di gaia apocalisse. Questa frase venneusata per descrivere la vita alla fine dell’impero asburgico. Una metafora condivi-sibile, avviandoci, consapevolmente, verso un naufragio, senza far nulla pertenerci a galla. Non sarà certamente il federalismo a sanare la grande ammalata.Semmai il federalismo mi pare ne acceleri la fine perché esso, non accademica-mente inteso, viene interpretato come trionfo dei particolarismi e dei neoegoi-smi piuttosto che come un punto di partenza per una nuova unione. Dove si èmai visto che per dare maggiore coesione a uno Stato, se ne disfa uno centraleper renderlo federale? Nel passato è accaduto tutto il contrario e si è scelta laforma federale per dare maggiore coesione agli Stati. Così, per esempio, è nato il

Non sappiamo chi siamo

perché siamosmarriti,

e le istituzioniformative

del nostro paesenon ci hanno

aiutato. Non ci haaiutato la scuola,non ci ha aiutato

l’università, non ci aiuta

la televisione, la cultura in genere, i giornali, l’editoria

e quant’altro.

[GennaroMalgieri]

Belgio in Europa, ma si potrebbero fare altri esempi. Dovrebbe essere questol’impegno - una riflessione che riguardi anche il federalismo e la coesione delloStato - per onorare davvero le celebrazioni del centocinquantesimo anniversariodell’unità nazionale. Ciò che chiedeva dalle colonne del Corriere della SeraTommaso Padoa Schioppa, espungendo però dalla sua considerazione che laricostruzione dell’idea di Stato deve essere la prosecuzione o comunque unposterius rispetto alla ricostruzione dell’idea di nazione. Perché è inimmaginabi-le prevedere la costruzione dello Stato o la sua invenzione prima della nazione: èdalla nazione che procede naturalmente lo Stato. L’uno senza l’altra non hannoalcun senso, anzi sono destinati a entrare in rotta di collisione come se unasocietà entrasse in una guerra permanente con le istituzioni giuridiche che sonola sua proiezione, senza la possibilità di poter ricondurre a unità il rapporto.L’identità nazionale, in altri termini, è la grande assente dal dibattito pubblicoperché è stata volontariamente rimossa, perché per lungo tempo non abbiamosaputo cosa significhi essere italiani, cosa vuol dire sentirsi immersi in una storia,in una tradizione, in un senso comune, cosa significhi avere un senso comunita-rio, delle radici. Da questa assenza credo sia derivata la patologia dei particolari-smi che hanno portato alla disunità che oggi lamentiamo. La dicono lunga, inquesto senso, le ultime vicissitudini che hanno riguardato la definizione delDizionario biografico degli italiani di cui si è molto parlato. È la biografia dellanazione: vi sembra normale che in paese, in uno Stato normale, le pagine dialcuni quotidiani si siano riempite della seguente domanda: perché non vieneportata a termine un’impresa che è l’orgoglio della cultura contemporanea delnostro paese? Mi permetto di ricordare - citandomi - che nel 1997 presentai alpresidente del Consiglio dell’epoca e al ministro dei Beni culturali un’interroga-zione sullo stato penoso in cui versava questa opera della quale dovremmo esse-re orgogliosi. Non ebbi risposta. Eravamo fermi alla lettera F, Francesco PaoloCasavola, già presidente anche della Enciclopedia italiana oltre che dellaConsulta, mi conferma che siamo arrivati alla lettera M con il rischio di chiudereda un giorno all’altro se non arriva una sovvenzione, una elemosina da partedello Stato mosso a pietà dopo i recenti appelli di intellettuali e uomini politici.Un piccolo esempio, questo, per far capire come in realtà noi teniamo poco allanostra nazione, all’idea stessa di nazione. Non sappiamo chi siamo perché siamosmarriti, e le istituzioni formative del nostro paese non ci hanno aiutato. Non ciha aiutato la scuola, non ci ha aiutato l’università, non ci aiuta la televisione, lacultura in genere, i giornali, l’editoria e quant’altro.

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[Italianisenza Italia]

Quello che rimane è la frammen-tarietà, la disunità, per cui essereitaliani oggi significa molto poco,proprio nel momento in cui altripaesi con minore tradizione poli-tica, riscoprono un’idea che èstata centrale nella politica delXX secolo: la centralità delloStato-nazione nel tempo dellaglobalizzazione. Ricordo un pre-gevole libretto di Ralph Dahren-

dorf, La democrazia in Europa (Laterza 1992). Diceva lo scomparso eco-nomista che lo Stato-nazione è l’unico antidoto nei confronti di una gover-nance mondiale che non ha volto, nei confronti di decisioni che vengonoprese altrove e che non passano al vaglio di nessun organismo rappresen-tativo delle comunità e delle genti; proprio nel mezzo del trionfo della glo-balizzazione lui riscopriva l’antica idea - da liberale e conservatore qualeera - che è stata lo strumento attraverso il quale la modernità ha potutodispiegarsi nell’Europa tra la fine del XIX secolo e gli inizi del XX secolo.Questo Stato-nazione è oggi presente alle classi politiche italiane di destrao di sinistra? Mi pare proprio di no. Come molti apologeti di destra e disinistra del bipolarismo, anche io mi sono battuto per un bipolarismo serio,che potesse inserirci a pieno titolo nell’area delle grandi democrazie occi-dentali ma quel che ne abbiamo ricavato sono state, nella migliore delleipotesi, delle illusioni. Ebbene in questo bipolarismo è assente quello chedovrebbe caratterizzarlo, cioè un’idea della politica e dunque anche l’ideadi come rimodulare lo Stato-nazione. Questo bipolarismo è stato il prete-sto per enfatizzare non il bipolarismo mite come immaginavamo qualcheanno fa, ma un leaderismo straccione e un populismo locale. Come sapeteleaderismo e populismo sono due temi speculari, sin dai tempi di Bakunine di Kropoptkin che amarono studiarli nella seconda metà del XIX secolo.Come atteggiarsi allora nei confronti di questa decadenza della politica?La risposta che viene in evidenza è semplice: attraverso una grande stagio-ne, un grande processo riformatore. Ma in questa decadenza dello spiritopubblico voi ce li vedete tutti questi soloni mettersi attorno a un tavolo per

Lo Stato-nazioneè l’unico antidoto nei confronti di una governancemondiale che non ha voltoe che prendedecisioni chenon passano al vaglio di nessun organismo rappresentativodelle comunità e delle genti

riformare la Costituzione, per riformulare le parti desuete, li vedete attrezzarsiper quelle leggi di cui il paese ha una necessità straordinaria, mettersi con dispo-sizione d’animo dialogante a cercare le soluzioni migliori nel campo dell’econo-mia, della società, dei diritti? Io francamente non ce li vedo e non credo sia maiaccaduto che un presidente della Camera dei deputati abbia dovuto sospendere ilavori di un ramo del Parlamento per mancanza di oggettivo materiale legislativo.È un’idea che conduce a quell’universo di macerie e di rottamazione che descri-vevo prima, perché questo la dice lunga sulla decadenza di uno Stato, sulla crisidel parlamentarismo, sulla irrilevanza di una classe politica che non riesce agarantire neppure il tipo di lavoro che i parlamentari eletti dal popolo dovrebbe-ro fare. Una cosa che indigna, disattesa da molti giornali che si sono limitati apubblicare la notizia mentre gli articoli di fondo, i commenti, le analisi e i grandititoli riguardavano ben altro. Quando si parla della fine dello spirito pubblico,non occorre rispolverare antichi classici della scienza e della politica - daMontesquieu a Carl Schmitt passando per Hans Kelsen - basta leggere i giornaliper rendersi conto dello stato di decadenza nel quale siamo immersi. Ma noi abbiamo anche un compito come persone responsabili. Una volta sisarebbe detto come minoranze avanzate, o avanguardie rivoluzionarie.Abbiamo il compito di ricostruire il sentire comune anche nell’ambito di que-sto contesto decadente. Per questo c’è bisogno di un nuovo quadro di riferi-mento e dobbiamo prenderne atto con molta lealtà, indipendentemente dalleappartenenze. Personalmente sono stato sempre fedele agli ideali della miagiovinezza - come diceva un poeta francese -, ma è per un senso di giustizia edi lealtà verso se stessi che dobbiamo ricominciare a costruire un sentirecomune in questo momento così difficile. Occorre un quadro di riferimentoche vada oltre questo inconcludente bipolarismo, queste classi dirigenti unpoco abborracciate, oltre le classi parlamentari. Vorrei una democrazia chefosse allo stesso tempo partecipativa, decidente e anche elettiva, non nominata.Vogliamo chiamare tutto questo un nuovo sentimento della nazione? Perchéno. Credo che la nazione si possa ricostruire dalle fondamenta proprio tenendoconto, senza nascondersi nulla, dell’abisso in cui è precipitata. Senza questopresupposto, continueremo a nuotare nella gaia apocalisse, e quando parleremodi Italia inevitabilmente saremo costretti a farlo, nella migliore delle ipotesi,come il vecchio Metternich, riferendoci a un’espressione geografica. O, in altramaniera giornalisticamente più «attraente», ne parleremo come di una malattiamorale o di un incubo politico.

[GennaroMalgieri]

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U Biagio de Giovanni U

AIl nodo Nord-SudFFRONTARE IL TEMA DELL’ANALISI DEL PAESE a centocinquant’anni dall’unità d’Italia,tenendo insieme storia, politica e idee - portando avanti quella che una volta venivadefinita «battaglia delle idee» - è fondamentale per tentare di combattere questasorta di bipolarismo un po’ barbarico nel quale siamo sprofondati. Questo modo diaffrontare le questioni sta scomparendo dalle nostre scene politiche con conseguen-ze drammatiche sul dibattito pubblico e non solo su quello. Così, si rischia, soprat-tutto in fase di accelerati mutamenti del mondo, di capire poco e niente. Vorrei arti-colare la mia riflessione riprendendo alcuni spunti forniti dal testo di FerdinandoAdornato ed esprimendo su alcuni fra essi il mio accordo e il mio dissenso. A propo-sito del ritorno degli Stati-nazione, del ritorno del tema delle identità, credo che lamedesima idea di nazione sia soggetta a mutamenti e a problemi più complicati diquelli che ci ha consegnato la storia del passato. Basti pensare a Stati come l’India ela Cina, che sono Stati multinazionali, l’India soprattutto... questo ci pone di fronte aproblemi che vale la pena richiamare anche se non li affrontiamo in questa sede.Abbiamo ragionato per tanto tempo sul legame problematico fra nazione e Europa,sostenendo che più si indebolivano le nazioni, più si rafforzava l’Europa, come inuna specie di tiro alla corda. Non è così. L’Europa si rafforza se si rafforzano le iden-tità nazionali purché all’interno di questo rafforzamento non prevalgano i nazionali-smi. Questa tesi era sostenuta in un testo famoso e ormai classico, Cosmopolitismo eStato nazionale di Meinecke (La Nuova Italia, 1975 ndr), dove si diceva che non èaffatto detto che l’irrompere delle nazioni fosse la fine dell’Europa: dentro le nazio-ni, dentro la loro stessa dinamica c’è una tendenza ad andare oltre esse.«Cosmopolitismo», appunto, un termine ambiguo, problematico, sui cui ci sarebbe

tanto da dire, che è sinonimo della volontà di uscire dai vecchi confini delle vecchieradici. E qui si affaccia il tema nazione-globalizzazione, il problema di una richiestadi identità che tende anche a regredire nelle piccole patrie: quanti di noi non hannoimmaginato che la globalizzazione avrebbe rappresentato la fine della questioneidentitaria, quando in realtà avviene proprio il contrario, cioè che la resistenza allaglobalizzazione sollecita il tema delle identità? Lo rimette in campo per difendersidall’omologazione richiamandosi alla propria identità: più piccola è, e più sembracapace di difesa. Ma così tutto può regredire e farci tornare indietro di molto. Infineil tema della religiosità, la religione civile, grande tema tocquevilliano che richiamala questione del rapporto tra democrazia e religiosità. I cattolici che hanno parteci-pato in maniera attiva e positiva al Risorgimento italiano erano quasi tutti ai limitidell’eresia; erano rappresentanti di una borghesia liberale, direi quasi di un cristiane-simo cosmopolita. Lo era Manzoni ma anche Rosmini. Per Gioberti il problema sipotrebbe porre in maniera più complessa, ma quando egli passa da una posizioneall’altra lo fa soprattutto per criticare la politica del Pontefice. È stato recentementeripubblicato da Laterza L’Italia laica a cura di Michele Ciliberto dove si trovanoripubblicati i due discorsi fatti da Cavour al Parlamento italiano sulla questioneromana: sono due pezzi straordinari di cultura liberale carica di religione civile, tuttida leggere, da tenere comunque molto presenti. L’impressione che se ne ricava èche il dato rimane: nella storia d’Italia il cattolicesimo istituzionale è stato troppo alungo un elemento di rottura della nazione, di frattura dell’identità nazionale. Inqualche modo ciò ha reso più difficile la formazione di una religione civile. In que-sto senso, da storico delle dottrine politiche aggiungo che la tradizione del grandeliberalismo risorgimentale, da De Sanctis a Silvio Spaventa, qualche elemento diriflessione ce lo potrebbe ancora fornire. Porta Pia è un restringimento della dimensione etico-politica, è l’elemento attraver-so il quale, nel realismo dell’effettiva opposizione del cattolicesimo istituzionale allarottura della nazione, si prova a dare una soluzione a una questione fondamentalequale la questione romana. Quel cattolicesimo attento all’America, - ecco il richiamoa Tocqueville - al modello degli Stati Uniti che già comincia a essere presente in

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[Il nodoNord-Sud]

quei pensatori, attento a interpretare secondo diverse modalità il rap-porto tra religione e democrazia, non era inutile. Ma dove è finito oggi ilcattolicesimo liberale? Si può immaginare un rapporto tra questa Chiesae il mondo moderno? Non voglio dire che la Chiesa appaia semplice-mente antimoderna, ma di certo sta fortemente problematizzando il suorapporto col mondo moderno. Il fatto è che si devono avere ben presen-ti le forze reali, non solo i valori, perché altrimenti i valori finiscono perassomigliare a «caciocavalli appesi» come diceva ai suoi studenti quelprofessore di filosofia che faceva lezione in dialetto (cosa che farebbemolto piacere alla Lega), ricordato da Labriola in una lettera a Croce.Come a dire che sono delle entità che stanno lì sopra, a disposizione dichi li vuole. Se parliamo di cattolicesimo liberale e lo valorizziamo comeuno degli elementi portanti, sia pure enormemente minoritario dellastoria del Risorgimento italiano, dobbiamo porci il problema delle forze,cioè delle relazioni effettive intorno a cui questa tradizione, questi valorie questa cultura possono tornare in campo. E qui secondo me c’è ilnodo dell’istituzione Chiesa, della problematicità del suo rapporto colmondo moderno, in forme diverse da Papa Wojtyla a Benedetto XVI.La riprova indiretta di questo è che nella situazione attuale la Chiesaresta arroccata, rispetto alla dinamica di enorme mutamento dellamodernità, nel suo ruolo di custode dei valori in un mondo che, a suogiudizio, si va dissolvendo nel nichilismo. È questa la visione che prevale,in una realtà comunque permeata di residui di cattolicesimo sociale. Passo ora a tutt’altro tema. Sono stato ipercritico nei confronti della for-mazione del Pd perché ho avuto l’impressione che si trattasse di un revi-val della sinistra cattolica post-comunista da cui non potesse uscire vivo ilsenso di un rinnovamento per il XXI secolo, necessario alla politica delnostro Paese. E che fosse anche portatore di un secolarismo estremo inuna società ipersecolarizzata. Quante punte diverse, quante difficoltà amettere insieme questo quadro! Del resto anche la destra che governal’Italia da un lato sembra attenta alle cose che la Chiesa sostiene su alcu-ni temi di fondo - la bioetica, la difesa della vita - e dall’altro induce unasecolarizzazione strepitosa della società, quasi dissolvendo l’autonomiadella questione cattolica. Sono molto sensibile al tema «cristianesimo eliberalismo» che considero due punti fondamentali per una riflessionepiù complessiva sulle forze che hanno dato vita alla modernità italiana.

[Biagiode Giovanni]

Tangentopoli ha avuto effetti drammatici sull’Italia, l’unica democrazia occidentale ilcui il sistema politico è stato azzerato dall’iniziativa giudiziaria, in cui sono state azze-rate le culture politiche del riformismo italiano che, nel bene e nel male, avevanogovernato il Paese. Questo è un drammatico elemento di anomalia democratica.Con il bipolarismo, che è stato un tentativo messo in atto per rispondere al fatto chela frantumazione partitica era finita, che anzi erano finiti i partiti, irrompeva il cosid-detto populismo. Senza per questo demonizzarlo, il populismo irrompe quando larappresentanza politico-istituzionale è incrinata se non addirittura spezzata. È la finedei partiti che induce l’ingresso nella politica della dimensione «popolo». E su que-sto si deve riflettere. Possiamo lavorare a disarticolare il concetto di popolo, forseuno dei compiti del Pd potrebbe essere fare analisi che permettano di romperequesta mitica unità. Ma il dato resta questo e questo è ciò che ha messo in radicalediscussione le forme di egemonia che si erano consolidate nella Prima Repubblica. Ma, oggi, nella crisi, non credo finale, della Seconda Repubblica non c’è solamentela drammatizzazione prodotta dal populismo, c’è anche la Lega. Ci ragioniamo, disolito, aggettivandola: la Lega è corporativa, è settaria, è faziosa, i suoi devoti sonorozzi, primitivi, la Padania non è mai esistita. Ma la Lega è la questione settentriona-le, una questione storica. Come la rappresenta, come la legge, con quale cultura,con quali occhiali, è un altro problema, ma il suo atto di nascita è questo. Quandoallora ci poniamo il problema della nazione e della sua unità, quello che emerge inmaniera evidente è il nodo Nord-Sud. Che cos’è infatti la nazione se non l’insiemedelle cose che riescono a rimanere unite? Certo, anche i valori. Ma è difficile imma-ginare una nazione che sia poggiata solo sui valori. La nazione è anche un insieme diforze reali, è quel plebiscito sul destino comune, come diceva Renan. Se analizzia-mo più da vicino il problema, ci troviamo di fronte alla scissione reale dell’Italia.Allora chiediamoci, da cosa è indotta? Dalla Lega o la Lega è il prodotto di questascissione? Non basta perciò criticare la Lega per superare la scissione, dobbiamopiuttosto porci il problema di come ricostituire nelle forze reali e nelle politiche -non solamente nei valori astratti - il senso dell’unità del Paese e della nazione.Queste sono secondo me le questioni importanti da affrontare pur sapendo che nes-suno ha risposte definitive, ma il solo interrogarsi su questi temi, rimettendo final-mente insieme storia, idee e politiche e uscendo dalla barbarie di un dibattito nonpiù adeguato alla modernità dell’Italia, è di per sé cosa utile. Non è vero che il paeseè allo sfascio, c’è anche un’Italia moderna, vitale, forte. Certamente esiste un ele-mento di separazione della classe politica dalla società ma per ricostruire l’unitàoccorre ripartire dalle idee e dalla politica.

Che cos’è la nazione

se non l’insieme

delle coseche sono

unite? Un insieme

di forze reali,un plebiscito

sul destinocomune.

Per questooccorre

saper leggereche cosa produce

la scissionecavalcatadalla Lega

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IL RUOLODEL MARE NOSTRUM

NEL PROCESSODI INTEGRAZIONE EUROPEA

CI CHIAMA A UNA PROVADI MODERNITÀ

U Francesco D’Onofrio U

OCCORRE AVER BEN CHIARO CHE QUANDO SI DICE di volere «celebrare icentocinquanta anni» dell’unità d’Italia, si deve costantemente far riferi-mento o all’idea stessa di Italia - che è molto più antica di centocinquan-ta anni - o alla storia dell’Italia - che giunge all’unità dopo una prolifera-zione di Stati e staterelli della nostra penisola e delle due isole maggiori -o alla politica dell’Italia unita che oggi deve confrontarsi con il processodi globalizzazione in atto. Sono queste le ragioni che hanno reso sino aora difficile l’accettazione della formula «partito della nazione»: occorreevitare il rischio di cadere nella formula ottocentesca e infine fascistadella nazione intesa quale portatrice di valori anche bellici e colonialisti-ci; occorre del pari rendere chiaro che un partito della nazione nonmette in discussione il fatto che la nazione sia un bene comune, di tutti,quale che sia il partito di riferimento. Abbiamo comunque voluto iniziareproprio dall’idea di Italia che si ha in mente, perché siamo convinti cheda alcuni anni la politica italiana annaspa proprio sull’idea dell’Italia (sipensi al dibattito sui dialetti); è incerta sul significato stesso della storiaitaliana (europea o mediterranea o entrambe?); siamo di fronte allanecessità di costruire una politica italiana per il tempo presente che èfatto contestualmente di residua sovranità nazionale, di progressiva inte-grazione europea, di incipiente globalizzazione mondiale.Abbiamo dunque bisogno di chiarire a noi stessi innanzitutto cosa signifi-ca oggi Italia, da un punto di vista sia spaziale sia temporale. Idea, storiae politica dell’Italia sono pertanto un tutt’uno ogni volta che si discute

Noi, i MEDITERRANEI

dell’Italia troppo spesso lasciando da parte ora l’una, ora l’altra, ora l’altraancora: dal nostro punto di vista, pertanto, idea, storia e politica sono untutt’uno che deve essere posto a fondamento di una iniziativa politica chetende alla costruzione di una nazione italiana nel tempo presente. Non sor-prende dunque che vi sia stata nel corso di tutta la cosiddetta SecondaRepubblica una grande incertezza sul significato stesso del ruolo del pre-sidente della Repubblica, della Corte costituzionale, della magistratura.Si tratta infatti di istituti tutti tendenti alla limitazione del poterepopolare, soprattutto se questo si è materializzato in unaCostituzione cosiddetta «rigida» come la nostra: nel corsodell’Assemblea costituente, infatti, risuonarono sia da parte comu-nista sia da parte azionista proposte contrarie alla istituzione di unorganismo di controllo della costituzionalità delle leggi, così comevi furono notevoli incertezze sulla definizione dei rapporti tra presi-dente della Repubblica e governo da un lato e tra azione penale elegittimazione parlamentare dall’altro. In ciascuno di questi casi entravainfatti in gioco l’idea di Italia che si aveva in mente: espressione geografica(giunta all’unità ma oggi sulla soglia di una divisione spaziale)? Unità sol-tanto linguistica (dai dialetti all’italiano è solo un fatto di egemonia toscanao anche di identità nazionale)? Unità dei beni culturali (monumenti, chiese,dipinti)? Occorre perciò una vera e propria idea di Italia considerata nel suo insiemedi pensiero, storie e politiche, anche fortemente diverse le une dalle altrema pur tuttavia convergenti verso una comune idea ricostruttiva dell’Italiamedesima. Questa è l’ambizione ed è per questo che noi la riteniamo postaa fondamento della stessa azione politica ricostruttiva di una nuova identitàpolitica e di governo del nostro paese. Vedremo domani se, andando oltrequesta dimensione più strettamente culturale, riusciremo a porre le basi diun’iniziativa politica che abbiamo temporaneamente definito della costru-zione del Partito della nazione. Deve essere infatti molto chiaro che se par-liamo di Costituzione intendiamo riferirci a qualcosa che vale molto di piùdi una semplice tecnica giuridi-ca. La nostra Costituzione harappresentato infatti un pattocostituzionale concernente tuttie tre quelli che da costituziona-

[FrancescoD’Onofrio]

Europa e Africa da un lato, Europa e MedioOriente dall’altro: la nostra posizione geograficaimpone anche territorialmente l’unità nazionaletra Nord e Sud del Paese

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[Noi,i mediterranei]

listi abbiamo chiamato gli elementi costitutivi dello Stato: popolo, territorioe sovranità. La nostra Costituzione si caratterizza infatti quale patto costitu-zionale che riguarda tutti e tre questi elementi nel senso della necessariaderivazione popolare per l’esercizio della funzione parlamentare; nel sensodella unità territoriale complessiva conseguita alle guerre di Indipendenzadel Risorgimento e alla prima guerra mondiale; nel senso dell’appartenenzaal popolo della sovranità, ma non in senso assoluto ed esclusivo.È per questa ragione che temiamo mutamenti radicali per ciascuno di que-sti tre elementi: una sorta di estremismo elettorale farebbe scadere il popo-larismo in populismo; una sostanziale indifferenza rispetto al territorionazionale farebbe rischiare una sorta di neostatalismo territoriale minore;una sorta di acquiescenza supina alla globalizzazione farebbe rischiare lafine di qualunque aspetto residuo della sovranità nazionale. È di tutta evi-denza che ciascuno dei tre elementi essenziali dello Stato italiano, quale èidentificato nella Costituzione vigente (modifiche radicali comprese), deveessere sottoposto a innovazioni significative capaci comunque di dare unarisposta complessiva di nuovo equilibrio e non di sovvertimento dell’equili-brio costituzionale originario. Populismo, neonazionalismo territoriale,annegamento dell’identità nazionale nella globalizzazione sono pertanto irischi che la storia contemporanea pone difronte a noi. È per questo chequando parliamo di Partito della nazione pensiamo al mutamento ma non alsovvertimento della radice popolare della Costituzione; al mutamento manon al sovvertimento dell’assetto territoriale dell’Italia; al mutamento manon alla supina acquiescenza italiana alla globalizzazione.Per queste ragioni non abbiamo una obiezione di principio a formule costi-tuzionali sul modo di formazione di chi guida il governo del paese, masiamo rigorosi assertori della necessità che un’eventuale soluzione presiden-zialistica del sistema di governo sia sempre accompagnata dalla preventivaprevisione di quelli che gli americani chiamano checks and balances. Non sitratta di semplici formule giuridiche ma della sostanza stessa dei modi coiquali un popolo costruisce il proprio modello di democrazia. Abbiamo laconsapevolezza che occorre fare in modo che la decisione elettorale incidasul governo del paese più di quanto non sia possibile con un sistema istitu-zionale-elettorale, costruito più per la rappresentanza che per il governo.Abbiamo del pari la consapevolezza che la cultura sturziana originaria nonpossa limitarsi alla esaltazione della comunità comunale, perché occorre che

Populismo, neonazionalismo

territoriale,annegamento

dell’identitànazionale nellaglobalizzazione

sono pertanto i rischi che

la storia contemporanea

pone difronte a noi. È per

questo che quando parliamo

di Partito della nazione

pensiamo al mutamento

ma non al sovvertimento

della radicepopolare dellaCostituzione;

al mutamentoma non al

sovvertimentodell’assetto territorialedell’Italia;

al mutamentoma non

alla supinaacquiescenza

italiana alla

globalizzazione.

[FrancescoD’Onofrio]

la comunità regionale sia asua volta dotata di strumentiautonomi di governo.Abbiamo, infine, la consape-volezza che il rifiuto di tec-niche diffuse di protezioni-smo non siano soltanto partenecessaria del processo dicostruzione dell’unità euro-pea, ma anche parte signifi-cativa dell’incipiente proces-so di globalizzazione. Nuovo equilibrio costituzionale; non ritorno al vec-chio equilibrio della cosiddetta Prima Repubblica rapidamente degeneratain partitocrazia; non illusione di una rincorsa dell’elettore mitico, perchében consapevoli del fatto che anche il popolo può essere indotto a sceltecontrarie al bene comune: basti pensare a quel che si ricorda a proposito diSocrate e alla scelta che Pilato rimise al popolo tra Barabba e Gesù.Come sostiene Enrico Cisnetto nella sua riflessione, non si può parlare difederalismo o di autonomie locali senza chiederci cosa fanno e quantocostano. La nostra Costituzione è, anche da questo punto di vista, una costi-tuzione sturziana, nel senso che essa parte dal territorio ma non fa del terri-torio un elemento di dissoluzione dello Stato. Essere favorevoli a unademocrazia che parte dal territorio significa necessariamente essere consa-pevoli che una siffatta democrazia costa rispetto ad altri modelli istituzionaliche ignorano il territorio o lo considerano soltanto elemento di decentra-mento di funzioni integralmente statali. Se dunque siamo favorevoli al terri-torio comunale quale primo elemento identitario di comunità locali e sesiamo favorevoli anche - almeno per quanto mi riguarda - al territorio regio-nale, inteso quale base culturale di un federalismo comunitario non dissolu-tore dell’unità nazionale, abbiamo pur sempre il dovere di affrontare il pro-blema del costo dell’uno e dell’altro in termini di compatibilità complessivecon la spesa pubblica generale. È per questa ragione che anche chi comeme è favorevole a una ipotesi federalistica della Repubblica italiana, ha vistocon piacere l’Udc votare contro la delega concernente il federalismo fiscale,perché non si poteva condividere una delega al governo per quel che con-cerne la spesa, senza una previa determinazione delle funzioni degli enti

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[Noi,i mediterranei]

locali, considerati almeno per livello istituzionale: comunale, provin-ciale, metropolitano, regionale.Il rovesciamento del principio di razionalità che comportava - serispettato - la determinazione delle funzioni prima della previsionedelle competenze fiscali, ha fino a ora impedito di affrontare in termi-ni non demagogici la questione stessa del costo degli amministratorilocali: si tratta di persone chiamate a rappresentare le comunità locali,o si tratta prevalentemente di apparato periferico di burocrazia di par-tito? Nel primo caso, il loro numero complessivo e la loro retribuzionedeve tener conto proprio del fatto che si è instaurato un fondamentalerapporto democratico di rappresentanza delle rispettive comunità; nelsecondo caso, si tratta di valutare - anche in termini rigorosi - il costocomplessivo dei partiti nel sistema italiano, considerando insieme entilocali, struttura nazionale e struttura europea dei partiti medesimi. Èin questo contesto che va seriamente ripensata l’esperienza nazionali-stica del fascismo. In qualche misura l’esito guerrafondaio e coloniali-

1948-1958: la proposta odierna dell’Udccerca di fare di quel decennioil punto di fondodel nostro futuro.Un decennioeccezionale perl’affermazione del primato dellalibertà non soloeconomica dell’uomo

stico del fascismo ha comportato quasi la difficoltà - nel periodo immediata-mente successivo alla seconda guerra mondiale - di usare le parole «patria»e «nazione», quali parole ancora capaci di esprimere un aspetto positivo delvivere comune. Il nazionalismo fascista infatti ha rappresentato da questopunto di vista più la conclusione dell’Ottocento fortemente caratterizzato -almeno nell’Europa continentale - dalla coincidenza di unità statuale e iden-tità nazionale, che non l’avvio della nuova stagione culturale europea, che havisto l’identità nazionale salvaguardata come tale anche nel processo dicostruzione di integrazione europea.Ma per noi italiani vi è un ulteriore aspetto fondamentale per comprendereche siamo in presenza di una stagione nuova dell’iniziativa politica che stia-mo proponendo: il Mediterraneo. Il fascismo aveva infatti individuato nelMediterraneo una sorta di mare esclusivo dell’Italia in un contesto di perdu-rante colonialismo al quale anche l’Italia aveva voluto contribuire. Il proces-so di integrazione europea, invece, sta facendo del Mediterraneo unostraordinario punto di equilibrio rispetto all’allargamento a Est dell’Europaall’indomani della caduta del Muro di Berlino. La nuova dimensione delMediterraneo chiama infatti l’Italia a una straordinaria prova di autocriticae, insieme, di modernità, soprattutto alla vigilia della nascita dell’area dilibero scambio del Mediterraneo medesimo. Il problema che abbiamo difronte si pone in termini radicalmente diversi dal passato fascista e anche intermini diversi dalla fase iniziale del processo di integrazione europea. Oggiinfatti il Mediterraneo è visto contemporaneamente quale sostanziale bilan-ciamento europeo dello spostamento a Est del baricentro europeo medesi-mo, e quale ponte ideale tra Europa e Africa da un lato e tra Europa eMedio Oriente dall’altro. La posizione geografica dell’Italia diventa perciòcomplessivamente una posizione capace di concorrere al mantenimentoanche territoriale dell’unità nazionale, a differenza di quanto si poteva con-statare alcuni decenni or sono, allorché sembrava che il Nord Italia fosseattratto dall’Europa centrale e il Sud Italia fosse attratto dall’Africa. Occorredunque una nuova consapevolezza culturale e politica a un tempo del signi-ficato ideale, storico e politico dell’Italia. In questo senso mi è sembrata particolarmente importante la considerazio-ne di Ferdinando Adornato sul «decennio eccezionale nella storia italiana,quello che va dal 1948 al 1958». Eccezionale questo decennio perché nel-l’intero contesto della Prima Repubblica, esso - e soltanto esso - è stato

[FrancescoD’Onofrio]

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[Noi,i mediterranei]

caratterizzato dalla convergenza culturale e politica del cattolicesimo liberaledi De Gasperi e del liberalesimo politico di Luigi Einaudi, con la cultura libe-ral-democratica dei repubblicani che stavano raccogliendo in questo modo laparte non estremista dell’azionismo. Decennio liberal-democristiano, dunque.Se volessimo riassumere con una terminologia allo stesso tempo antica enuova questa straordinaria congiuntura italiana, potremmo dire - con linguag-gio sturziano - che si è trattato di un decennio liberal-popolare: liberale nelsenso dell’affermazione del primato della libertà non solo economica dell’uo-mo; popolare perché fondato sulla legittimazione democratica del popoloquale soggetto identificato per una propria idea, una propria storia, una pro-pria politica. La proposta odierna dell’Udc cerca di fare di quel decennio ilpunto di fondo del futuro caratterizzato quest’anno dall’eccezionale crisi eco-nomica e finanziaria, che sta mettendo in discussione proprio la deriva liberi-sta della libertà einaudiana e la deriva populista del popolarismo sturziano.Non un ritorno a un mitico passato liberale-democraticocristiano dunque, maun futuro che trae dal passato l’alimentazione per andare oltre l’illusione alungo coltivata della divisione del mondo da un lato in sovietici e statunitensi edall’altro in europei e coloniali. È per questa ragione che il nostro progetto èalternativo al Pdl, che si sta sempre più caratterizzando quale polo elettoral-

[FrancescoD’Onofrio]

secessionista molto più che perno di un asserito sistema bipolarista, eal Pd, che sta cercando - finora senza successo - di costruirsi cometentativo di amalgama tra cultura post-sovietica e cultura post-dosset-tiana. L’alternativa di cui parliamo non è caratterizzata da una logicadi centrismo da «doppio forno», ma dal senso profondo dell’identitànazionale, intesa quale garanzia non solo territoriale dell’unità dellaRepubblica. Occorre aver presente il fatto che la nostra Costituzionefu scritta da una Assemblea costituente eletta con il metodo propor-zionale senza premio di maggioranza, e con un modestissimo sbarra-mento di partenza. Allorché si prevede il non ricorso al referendumcostituzionale nell’eventualità in cui la legge costituzionale sia stataapprovata a maggioranza dei due terzi di ciascuna assemblea, ciòsignifica che la Costituzione rappresentava una sorta di patto costitu-zionale essenziale per la convivenza democratica di governo e opposi-zione. Non si era ancora in presenza né del Patto Atlantico (che è del1949) né della guerra fredda in senso stretto, che è contemporanea oimmediatamente successiva al Patto Atlantico medesimo. Si tratta diuna regola costituzionale interna e non imposta dalla situazione inter-nazionale, anche se questa aveva avuto a Yalta un punto fondamentaledi distinzione tra Oriente e Occidente. È per questa ragione chequando si dice che è bene se c’è l’intesa tra maggioranza e opposizio-ne, ma che se l’intesa non c’è, la maggioranza procede anche da sola(come è avvenuto nel 2001 per il radicale Titolo V della II parte dellaCostituzione e nel 2005 per una riforma complessiva di tutta la IIparte), si dice qualcosa che non corrisponde allo spirito originariodella Costituzione medesima. Il problema oggi è capire tra chidovrebbe realizzarsi un’intesa costituzionale, non essendovi più nes-suno dei due partiti maggiori che avevano concorso a scrivere laCostituzione originaria. La nostra proposta parte da un’idea di Italiache va compiutamente descritta e costruita, e giunge alla previsionedi una riforma costituzionale, che è liberal-popolare perché non facoincidere il popolo con gli elettori o il territorio con alcune sue partio l’identità nazionale intesa quale bene transitorio.Si tratta di un compito eccezionale, non solo culturale. È per questoche si è ritenuto necessario ripartire proprio dalla domanda: cos’èl’Italia oggi?

L’alternativa proposta dall’Udcnon è caratterizzata da una logica dicentrismo da«doppio forno»,ma dal sensoprofondo dell’identitànazionale, intesa qualegaranzia non solo territoriale dell’unità della Repubblica.

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U Piero Alberto Capotosti U

La soluzione c’è:il modello tedesco

GLI OBIETTIVI DI FONDO, CHE LA RELAZIONE di Ferdinando Adornato prospetta con un’anali-si di ampio respiro culturale e con un’acuta percezione dell’attuale tormentato contestopossono così sintetizzarsi: la ricostruzione dello Stato e la rinascita della nazione. Obiettivivalidi oggi così come erano validi ieri, intendendo per ieri il periodo dei nostri Padri costi-tuenti su cui intendo soffermarmi perché è da lì che comincia lo Stato repubblicano. È conil patto dei Costituenti fra le tre componenti politico-culturali presenti nell’aula diMontecitorio, che si è attuato quel «compromesso alto e nobile» di cui parla MeuccioRuini (presidente della Commissione per la Costituzione dal 19 luglio 1946 al 31 gennaio1948, ndr) - definendo così la Costituzione. Quel compromesso alto era finalizzato a rico-struire un paese distrutto dalla dittatura, dalla guerra, dalla guerra civile, e a rifondare unoStato. Certo, lo Stato Italia esisteva dal 1861, ma riprendere, dopo eventi così drammatici,il filo di uno Stato rappresentativo di una nazione unita era un impegno molto difficile. Adire il vero, questo à stato un problema sempre molto complesso, se Massimo D’Azeglioviene spesso citato per avere affermato che «fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani», eanche di Giuseppe Mazzini si ricorda, anche se più raramente, l’espressione che «il fiatdella nazione non può essere proferito che da una Costituente e non può incarnarsi che inun patto nazionale». E dunque il problema della ricerca dell’identità nazionale e del suoraccordarsi con l’Assemblea costituente e con il «compromesso» costituzionale. Ma quale fu allora la scelta dei Costituenti? Costantino Mortati, che redige il progetto allaprima sottocommissione, fa una scelta di campo netta. D’altronde un giurista dello spesso-re di Mortati aveva analizzato attentamente pregi e difetti di tutte le varie forme possibili eipotizzabili di governo, ma la scelta definitiva fu quella per un governo parlamentare per-ché, tra molte altre ragioni, era quella più utile a rafforzare l’unità del paese. Mortati soste-neva che il presidenzialismo è un sistema tipico degli Stati federali e quindi non contribui-sce a rafforzare l’unità del paese. Siamo nel ‘46 e la disomogeneità della società civile, sulpiano culturale, economico, sociale rendeva più che mai necessario un sistema di governo

che evitasse le rotture dell’unità e indivisibilità della Repubblica, che temeva Lussu,e che componesse le disomogeneità attraverso «una serie di garanzie reciproche trale varie forze sociali e politiche» (Crisafulli). Si doveva quindi optare per un sistemache, come quello parlamentare, attuasse unacompenetrazione e cooperazione tra i poteri,cioè quella leale collaborazione che oggi, dopola modifica costituzionale del 2001, è espressa-mente sancita nella Costituzione. È vero, nonfu una scelta univoca: c’era la posizione diPiero Calamandrei, tanto per fare un richiamoeminente, a favore del sistema presidenziale,ma la scelta è stata quella, anche se qualcunocome Egidio Tosato sosteneva che il sistemaparlamentare avrebbe dovuto subire una «con-taminazione» con il sistema presidenziale,anche per introdurre, in qualche modo, quei«dispositivi» di stabilizzazione del governo, evo-cati nel famoso o.d.g. Perassi, che appuntoindicava ai Costituenti il modello parlamentare.Ma come funziona il modello che esce dallaCostituente? Bene nella prima fase, quella diDe Gasperi, poi alla fine degli anni Cinquantacomincia a zoppicare, perché le spinte delloStato dei partiti diventano sempre più prevalenti. Ecco allora il succe-dersi di varie fasi - il centrismo, il centrosinistra, i governi di solidarietànazionali, il pentapartito -, una serie di passaggi in cui quel modello viavia degenera in una forma di democrazia «bloccata» per fattori internie internazionali, che favoriscono l’emergere di quella che LeopoldoElia aveva battezzato conventio ad excludendum nei confronti del par-tito comunista. Ma quand’è che si rompe quel patto costituente cheaveva dato una fisionomia al complesso sistema politico-istituzionale ditipo parlamentare classico del nostro Stato? E quand’è che comincia la«lunga transizione» verso la «Grande Riforma» dello Stato? La data-zione può essere variamente interpretata. C’è chi parla del ’68-’69, conla fine del centrosinistra organico, la gestione sempre più difficile dellacoalizione di governo per l’emergere di tentativi di un nuovo rapporto

[Piero AlbertoCapotosti]

In Germania è dal ’48 che funziona,riuscendo a comporreesigenze composte. È un sistema che assicura una forma di premierato regolatoe conferisce stabilità di governo

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tra il Psi e il Pci, anche sotto la spinta deimovimenti del ’68. Altra possibile data è il’76, quando nelle elezioni politicheDemocrazia cristiana e Partito comunistaerano divisi da un punto di percentuale einsieme totalizzavano circa il 75%. AldoMoro diceva che in quelle elezioni nonc’era stato un vincitore, ma due, prefigu-rando così sin dal ’76 conseguenze rilevantisull’assetto dei partiti e sulla forma digoverno. È in quel momento infatti cheGiorgio Galli conia l’espressione «bipartiti-smo imperfetto» e si esalta con i nuovi

Regolamenti la «centralità» del Parlamento, quale vero luogo di incontro e di deci-sione tra le forze politiche di maggioranza e di opposizione.Oppure possiamo riferirci al ’93, data dalla quale di solito si ritiene che prenda lemosse la cosiddetta Seconda Repubblica, proprio per l’emergere della scelta delbipolarismo. Ma fu una scelta obbligata quella a favore del bipolarismo? Non locredo, fu una scelta indotta dal superamento della questione comunista e, per altrimotivi, dalla fine della questione democristiana. A mio avviso, il superamento diqueste due questioni attraverso la scelta bipolare tendeva a favorire l’egemonia dellasinistra non più comunista, utilizzando la strada aperta non già di un mutamentocostituzionale, ma da una semplice riforma elettorale, anzi di un ancor più semplicereferendum abrogativo. Quindi una strada rapida e agevole, su cui doveva muoversila «gioiosa macchina da guerra» di cui parlava Occhetto, alle elezioni del 1994. Ma lacosiddetta Seconda Repubblica per me non esiste e non è mai esistita perché nonc’è stata nessuna rilevante modifica della Costituzione formale, né la riforma eletto-rale ha indotto un mutamento della Costituzione «materiale» di cui oggi si fa ungran parlare. Quella riforma elettorale, che ha introdotto un bipolarismo «forzoso»,non si è mai inverata nelle coscienze dei cittadini e nelle forze politiche tant’è veroche si è cominciato subito dopo a parlare di ulteriori modifiche, tant’è vero che nonsono stati raggiunti quegli obiettivi che si prefiggevano, cioè la semplificazione e latrasparenza del quadro politico, la riduzione delle forze politiche e delle formazionipartitiche. Niente di tutto questo si è verificato. Pensiamo ad esempio alla stabilitàdei governi: ci sono stati dal ’93 a oggi tre scioglimenti anticipati del Parlamento,nessun governo ha compiuto l’intera legislatura. Inoltre ’è stata una proliferazione di

[La soluzioe c’è:il modello tedesco]

[Piero AlbertoCapotosti]

quelli che Mauro Calise ha chiamato i partiti personali, partiti padronali, partiti liqui-di. Tutto fuorché partiti nel senso tradizionale, privi cioè di qualsiasi radicamentosociale, territoriale e soprattutto ideale, tanto che i partiti di quegli anni, e purtroppoanche di quest’epoca, richiamavano assai poco le denominazioni delle grandi fami-glie dei partiti europei. Che cosa abbiamo ottenuto in questa fase? Una grandeinstabilità politica derivante appunto dal formarsi di due grandi «cartelli elettorali»,molto poco coesi al loro interno, e dalla connessa spinta a creare formazioni partiti-che per lucrare rendite di posizione e i vantaggi economici previsti dalla legge sulfinanziamento pubblico dei partiti. Non c’è dubbio che noi italiani abbiamo sempreuna grande inventiva: ma la soglia di sbarramento unitamente al premio di maggio-ranza è qualcosa di assolutamente atipico e anomalo; per di più il premio di maggio-ranza senza un quorum minimo. La cosiddetta «legge truffa» del 1953 impallidisceal confronto, poiché lì, come è noto, il premio di maggioranza era previsto che scat-tasse per lo schieramento che avesse ottenuto almeno il 50% più 1 dei voti. Oggi ilnostro sistema elettorale ha qualcosa di perverso, perché divarica ed estremizza leposizioni politiche. Il bipolarismo è estraneo alla cultura, alle radici, alla storia dellasocietà italiana, per cui in Italia non si è mai realizzato compiutamente, perché, percosì dire, non è stato «metabolizzato» dagli elettori e quindi viene praticato in mododistorto. In proposito si ricordi che nelle democrazie bipolari classiche la battagliaelettorale si vince al centro: il bipolarismo, cioè, è centripeto, il nostro invece è cen-trifugo, tende sempre di più a spostare l’elettorato verso le ali dell’arco politico,mentre il centro resta vuoto. E questa centrifugazione esaspera il rapporto tra i dueschieramenti che tra loro sembrano non avere nessun vero dialogo, nessun idemsentire de re publica, proprio perché sono divaricati verso la ricerca delle frange piùestreme. Anche sotto questo profilo da noi il bipolarismo non funziona, appuntoperché non agevola affatto il processo decisionale e, per di più, dividendo in dueparti contrapposte lo schieramento politico, tende di fatto a vanificare le istituzionidi garanzia. Siamo quindi alla ricerca di qualcosa che possa ridare allo Stato italianouna sua propria fisionomia, liberandoci dalle degenerazioni del quadro politico checi assediano, provocate non soltanto dal sistema bipolare, ma anche dalla verticaliz-zazione del potere. Demonizzare i partiti come contenitori di tutti i vizi possibili eimmaginabili, e con essi l’intera classe politica, alla quale si è voluto contrapporreuna società civile bella e pulita, non ha mai dato buoni risultati. Il leaderismo e la«verticalizzazione» del potere hanno infatti prodotto un sistema tale, da incidere inmodo rilevante sull’attuale funzionamento della forma di governo, che assume cosìandamenti anomali. Si continua infatti a dire che il governo è debole perché così

[La soluzioe c’è:il modello tedesco]

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Si continua a dire che il governo è debole perché così l’hanno configurato i Costituenti.Questo è vero solo in teoria, e in Italia non c’è mai stato un governo forte come oggi

il bipolarismo è estraneo alla cultura e alla storia della nostra società, in Italia non si è mai realizzato perché non è mai stato metabolizzato

l’hanno configurato i Costituenti, ma questo è vero soltanto in teoria. In Italia nonc’è mai stato un governo della Repubblica così forte come oggi: il governo legiferaprevalentemente con decreti legge (anche quando necessità e urgenza sono tutte dadimostrare), o mediante delegazioni legislative amplissime e riservandosi spesso apossibilità di ricorrere anche a decreti correttivi e integrativi. Altra innovazione del-l’attuale sistema di governo è costituita dalla frequente presentazione di maxiemen-damenti direttamente in aula, i quali in questo modo eludono, per così dire, il dove-roso esame delle commissioni. E dulcis in fundo, il ricorso sempre più ripetuto allaquestione di fiducia, essenzialmente per compattare la maggioranza, anche se cosìampia. Tutto ciò comporta un’automatica emarginazione del Parlamento, per cuioggi non si può più dire che il nostro sia ancora un sistema autenticamente parla-mentare: è un sistema che è difficilmente configurabile, non è né parlamentare népresidenziale, ma qualcosa di assolutamente atipico e soprattutto privo di regole.Come uscirne? Innanzi tutto, introducendo nel nostro sistema quei «dispositivi»,che, secondo l’o.d.g. Perassi approvato all’Assemblea Costituente, dovevano contri-buire ad attuare una forma di parlamentarismo «razionalizzato», capace di assicura-re stabilità ed efficienza al governo, prevenendo, allo stesso tempo, le degenerazionidel sistema. In proposito ho in mente il modello tedesco, utile a tante cose. Ilmodello c’è, è dal ’48 che funziona, componendo esigenze opposte, e che quindianche da noi potrebbe mettere d’accordo i sostenitori di tesi diverse. In primo luogoè un sistema che assicura una forma di premierato regolato, che conferisce stabilitàdi governo. Dal ’48 a oggi, infatti, ci sono stati in Germania sette o otto cancellieri,non di più, il che mi sembra un risultato incoraggiante. D’altronde, come appuntoaccade nella prassi tedesca, il premierato si esprime nell’ambito di una coalizione digoverno di tre partiti al massimo, dal momento che le ipotesi di Grosse Koalitionsono straordinarie ed eccezionali (dal ’48 a oggi in Germania ce ne sono state soltan-to due, se ben ricordo). Un altro elemento importante da considerare è la specialeregolamentazione del rapporto di fiducia tra Parlamento e cancelliere; un rapportodi fiducia basato sul notissimo meccanismo del voto di «sfiducia costruttivo», cheappunto conferisce particolare stabilità al governo, e su precise ipotesi di scioglimen-to anticipato rimesse alla valutazione del capo dello Stato. Inoltre, il sistema elettora-le tedesco, con la clausola di sbarramento al 5 per cento, senza premio di maggio-ranza, evita la frammentazione dello schieramento politico, ma, nello stesso tempoprevede un sistema non maggioritario, e invece tendenzialmente proporzionale. Vapure segnalato che l’introduzione del collegio uninominale per la metà dei seggi da

il bipolarismo è estraneo alla cultura e alla storia della nostra società, in Italia non si è mai realizzato perché non è mai stato metabolizzato

assegnare e della lista bloccata per l’altra metà può apparire una soluzione soddisfa-cente, anche per i fautori, in Italia, del voto di preferenza. Infine è da ricordare chein Germania c’è anche il bicameralismo differenziato: noi lo stiamo inventando, maforse potremmo assumere il modello tedesco. Per non parlare poi del loro regionali-smo, con l’esistenza, tra l’altro, di una fondamentale clausola di supremazia degliinteressi del paese che invece noi non abbiamo previsto nel nostro testo costituzio-nale del 2001. Ma l’interrogativo più urgente è come recuperare, insieme con l’effi-cienza dello Stato, l’unità della nazione, attualmente in pericolo per motivi di carat-tere simbolico e sostanziale. Simbolici sono i vessilli, gli inni regionali e l’insegna-mento dei dialetti. Sostanziale è invece il federalismo, un federalismo - attualmentesolo quello fiscale - che sembra aggravare i problemi anziché risolverli, accentuandola divaricazione tra Nord e Sud. Il problema non è il federalismo in sé, anche se vanotato che siamo l’unico paese con una forma di Stato di tipo centralizzato ad avviar-si verso una forma di Stato di tipo federale, quando normalmente avviene il contra-rio; il problema è colmare quella lacuna che da sempre esiste nel nostro ordinamen-to: la mancanza cioè di un tessuto sociale coeso e unito nella condivisione dei valoridi fondo. Proprio questo è ciò che mette in dubbio la nostra unità e la nostra identitànazionale, ed è appunto questo vuoto, anche dovuto ai comportamenti dei singoli,che dobbiamo colmare. Possiamo pensare a forme di autocritica, di autocorrezionedei titolari dei poteri supremi, o degli organi statali più importanti, ma il recuperodell’etica pubblica non può essere impostoRecuperare il senso della nazione è tantopiù importante in tempi di globalizzazione e di rinvigoriti localismi religiosi, cultura-li, etnici, spesso esasperati e contrapporti appunto alla spinta globalizzatrice. In que-sto contesto è molto difficile individuare il ruolo dell’Italia nell’Europa di Lisbona,perché c’è il rischio che l’Europa di Lisbona, per come oggi appare, non sia in realtàche una reminiscenza di quella «Europa delle patrie» che tanto piaceva a de Gualle.L’equilibrio tra Europa e localismi è difficile da raggiungere: il rischio è appuntoquello che ci sia un’Europa di tante patrie, senza però un vero spirito europeo.L’auspicio è che il senso di identità nazionale possa essere recuperato anche attra-verso comportamenti corretti, là dove si abbandonino le prevaricazioni di un poteresull’altro, le invasioni di campo, la politica degli insulti. Ma questo, temo, è il fruttodi una lunga desuetudine a forme di autocorrezione e di autocritica, che però nonpossono essere imposte da nessuno. La speranza è che molto presto l’Italia si incam-mini verso un pieno recupero dell’etica pubblica, al termine del quale sarà davveropossibile intendersi sull’unità e l’identità della nazione.

[Piero AlbertoCapotosti]

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DECLINAREUN DISEGNO POLITICO

GUARDANDOOLTRE I CONFINI

NAZIONALI

U Francesco RutelliU

IL TEMA CHE È AL CENTRO DI QUESTA RIFLESSIONE - l’idea dell’Italia, la sua iden-tità - richiama innanzitutto concetti politici. Definire l’identità dell’Italia era giàun fatto politico per Dante Alighieri o per Alessandro Manzoni. Credo cheancora oggi sia impossibile riflettere sull’idea dell’Italia e sulla sua identità conun approccio prevalentemente culturale, sociologico o economico. Nondovrebbe interessarci soltanto l’analisi del contributo dei patrioti nelRisorgimento, quanto quello dell’Italia da condividere oggi, delle ragioni chehanno segnato l’unità della nazione e che la riguardano ancora oggi. L’ideadell’Italia e la sua identità ci riportano a una esigenza politica: si tratta di prova-re a declinare un disegno politico e civile contemporaneo. Ha ragioneFerdinando Adornato a sottolineare, come ha fatto nel suo intervento, le carat-teristiche del ritorno dello Stato-nazione sulla scena contemporanea. Allo stes-so tempo, l’identità della nazione presente e futura va interpretata in unadimensione geopolitica, oltre i nostri ristretti confini.Non di rado, nel corso della storia, un popolo si è definito anche per contrasto.Non c’è dubbio che l’idea dell’Italia sui cui possano unirsi gli italiani di oggi e inostri figli domani non può che essere connessa strettamente alla lettura di ciòche ci circonda, di ciò che ci attraversa, di ciò che ci minaccia, di ciò che puòcambiare l’eredità delle lunghe vicende della nostra patria. Siamo interpellati dalprocesso di integrazione di un’Europa che abbiamo sempre inteso come secon-da patria. Siamo interpellati dalla difficoltà di questo processo di integrazione,stemperato nell’allargamento. Tuttavia, come ci ricordano i Padri fondatori - cito

L’identità nella globalizzazione

per tutti Monnet: «l’Europa si farà dalle crisi chesaprà superare» - una svolta è possibile proprio neimomenti più delicati, come quello che stiamoattraversando. Siamo interpellati dalla globalizzazione, nella quale dobbiamo defini-re la nostra identità nazionale. Pensiamo al multiculturalismo, un tema troppo spes-so invocato con eccessiva superficialità. Personalmente non condivido l’idea di unmulticulturalismo asettico; credo piuttosto che si debba pensare a un pluralismo cul-turale riferito a una identità forte. Molti osservatori affermano che l’islam approdatoin casa nostra finirà per essere assorbito dalla ricchezza del pluralismo, dalla forzadella democrazia e delle libertà piuttosto che snaturare la nostra società con la suaincapacità di tenere separati l’aspetto religioso e le istituzioni. Tuttavia, un tratto fon-damentale dell’islam è proprio quello della «non-separazione» tra religione e Stato,tra la dimensione religiosa e i compiti pubblici, delle istituzioni. Un’indagine moltointeressante compiuta da un’istituzione americana di ricerca, il Pew ResearchCenter, basata su un censimento delle diverse fedi rapportabili all’islam, mostra unaconcentrazione geopolitica soprattutto nel continente asiatico. Il più popoloso Paeseislamico è l’Indonesia, e ci sono oggi in Russia e in Cina molti più musulmani diquanti ce ne siano in Medio Oriente. Pur in questa diffusa presenza geografica, ildato che emerge è quello della impossibilità di una separazione tra «fatto religioso»e «fatto statuale». Il tema della globalizzazione non pone soltanto questioni di carat-tere economico, non si limita alla competitività delle nostre aziende di fronte all’a-scesa cinese o a un costo del lavoro più contenuto in Asia come in Europa orientale.La globalizzazione investe l’identità, il senso di una nazione; tocca il suo futuro.Come interpretare oggi la circostanza per la quale cittadini inglesi di terza genera-zione e di religione islamica si arruolano nelle fila del jihad per combattere i loro sol-dati e concittadini in una valle dell’Afghanistan? L’idea dell’Italia è stretta tra gli effetti della globalizzazione e la tradizione del suo«particulare», così come declinato da grandi italiani come Guicciardini oMachiavelli. L’idea dell’Italia non può essere né un concetto astratto, né tantomenoun concetto universale. Deve essere piuttosto l’indicazione delle missioni contem-poranee della nazione. Ci si unisce attorno a un’idea di Italia perché si condivide l’a-genda delle priorità per il Paese. È indubbio che alcuni programmi di governo assu-mono ai giorni nostri le caratteristiche di una cultura politica che crea frammenta-zione e divisione. Questo tipo di cultura mina la solidità dell’impianto nazionale.Voglio derivare un’immagine da una vicenda che ho vissuto in prima persona: erosindaco di Roma quando crollò una intera palazzina al quartiere Portuense. Si scoprì

L’idea dell’Italia non può essere un concetto astratto ma l’indicazione delle missioni contemporanee della nazione

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[L’identità nellaglobalizzazione]

che quel crollo fudeterminato damodifiche struttu-rali seguite a uncondono edilizio.Laddove c’eranopilastri che sorreg-gevano l’interopalazzo, si era inse-diata una tipogra-fia. I macchinariusati dalla tipogra-fia avevano pro-g r e s s i v a m e n t elogorato la struttu-ra, causando il crol-

lo. Non sottovalutiamo, quindi, l’effetto di un lento ma pericoloso logoramento delsignificato unitario del nostro Paese. L’obiettivo più importante per una politica chevoglia contrastare l’atomizzazione della società, la frammentazione, la frattura traNord e Sud, che voglia avere come ambizione il benessere, la crescita, la coesione,la competitività del Paese è avere un disegno preciso del proprio presente e, soprat-tutto, di un futuro comune.Quando si è celebrato il cinquantenario dell’unità d’Italia, nel 1911, venne organiz-zata la prima mostra nazionale delle regioni italiane. Cosa singolare e lungimirante.L’evento fu concepito soprattutto in termini etnografici, antropologici e culturali,tanto che buona parte dell’installazione di quella mostra - oggi conservata al museoNazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, all’Eur di Roma - riguardavano il folklore,le tradizioni, i mestieri; ciascuna regione ha avuto modo di esporre esempi e oggettidella propria storia, della cultura, della sua spiritualità. Ma il messaggio più forte tra-smesso cinquant’anni dopo l’unità d’Italia ha riguardato essenzialmente Roma capi-tale. In quell’anno venne inaugurato l’Altare della Patria (anche se le statue arrivaro-no in un secondo momento, inclusa quell’opera di un mio bisnonno...); si costruiro-no due ponti sul Tevere, il Palazzo delle Esposizioni di via Nazionale, la Galleriad’Arte Moderna, il Palazzo di Giustizia. Tante opere che, dopo la risoluzione dellaQuestione romana e il superamento dello Stato pontificio, servirono a dare il sensodi una grande città, in grado di essere competitiva con le altri capitali europee. Nel

[FrancescoRutelli]

1961, il messaggio più forte del centenario fu invece quello dell’«Italia che cresce»:l’Italia del boom economico e dell’industrializzazione. A Torino, città dell’unitànazionale sabauda, ma anche della Fiat, si concentrò la maggior parte delle celebra-zioni. Quale dovrà essere, per il 2011, il messaggio forte per celebrare i 150 anni diunità della nazione? Celebrare degnamente questo passaggio senza concordia istitu-zionale è, a mio avviso, impossibile. La base dell’unità di un Paese è la condivisionedei valori trasmessi dalle istituzioni. In democrazia ci si può dividere, ci si devecontrapporre, ma le istituzioni appartengono a tutti. Istituzioni di assoluta garan-zia, come quella del presidente della Repubblica, vengono troppo spesso trasci-nate nella polemica politica e nell’attacco personale. La base per celebraredegnamente il centocinquantenario dell’unità della nazione deve essere la condi-visione istituzionale. Dovremmo anche occuparci in maniera più seria dellanostra lingua. È un tema che si pone per i nuovi italiani, immigrati integrati pie-namente nella nostra società, e per i nostri concittadini all’estero, cui abbiamoopportunamente riconosciuto il diritto di voto. Galileo Galilei sosteneva:«Parlare oscuramente lo fa ognuno, chiaro pochissimi». L’acquisizione della citta-dinanza per i migranti dovrebbe passare attraverso la conoscenza della lingua ita-liana. Perché non immaginiamo di lanciare, nel 2011, uno speciale «Erasmus»dedicato agli studenti italiani e ed europei, invitandoli a conoscere l’Italia attra-verso le sue istituzioni, i suoi paesaggi, le bellezze artistiche e naturali? Vorreiconcludere il mio intervento con due proposte politiche. La prima: insieme conesponenti politici di ogni orientamento, dovremmo chiedere a un gruppo di per-sonalità della cultura, di intellettuali e storici, di lavorare, da qui al 2011, a unambizioso documento sui 150 anni dell’unità d’Italia da pubblicare all’inizio dellecelebrazioni. Un documento non strettamente politico, ma incentrato sui valorida assumere come base della convivenza civile nazionale. Dal punto di vista poli-tico, si tratterebbe anche di uno sforzo utile a far emergere l’insostenibilità del-l’azione della Lega Nord, la cui posizione di forza negli equilibri di governomette realmente a repentaglio le fondamenta della nostra nazione. La secondaproposta riguarda più direttamente chi, come noi, ha responsabilità politiche:spetta a noi creare le condizioni perché l’Italia esca dalla «guerra dei quindicianni» che si sta purtroppo consumando senza vincitori e con un grande sconfitto:il nostro Paese. L’Italia ha bisogno di un orizzonte condiviso dalle forze democra-tiche liberali e popolari, per il bene comune che dobbiamo lasciare ai nostri figli. Lagratitudine verso i Padri dell’unità nazionale e l’intransigenza costituzionale repub-blicana vanno resi attuali nella concreta battaglia politica.

PIER FERDINANDO CASINI

CARLO AZEGLIO CIAMPI

Le CONCLUSIONILe CONCLUSIONI

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U Pier Ferdinando Casini U

Un partito per la nazione

PER DESCRIVERE, REINTERPRETARE E RIANNODARE i fili della nostra identità di italiani èinevitabile richiamarsi - come ha ben fatto Ferdinando Adornato nella sua riflessione - aicontributi decisivi dati in questo senso con i loro scritti, il loro pensiero e le loro azioni,da pensatori, uomini di cultura e politici degli ultimi secoli: da Dante e Petrarca, aManzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini e Ricasoli in tempi risorgimentali, finoad arrivare a Sturzo e De Gasperi nel secolo scorso. Tanto più è utile farlo in questa fasedi profonda incompiutezza di questa Seconda Repubblica in cui stiamo vivendo, corren-do il rischio di una esiziale regressione verso lo sfaldamento dell’unità nazionale, figlio diun evidente, e purtroppo avanzato, processo di esaltazione dell’individualismo che parenon conoscere ostacoli, rifiutando di confrontarsi con concetti fondamentali per la tenu-ta complessiva di qualsiasi società umana. Concetti come il rispetto delle regole dellaconvivenza civile, la necessità della ricerca e della prevalenza del bene comune rispettoalle pur legittime aspettative degli interessi parziali. Stato e nazione sono due concettistrettamente intrecciati: il primo, che con una semplificazione estrema ma efficacepotremmo individuare come il corpo, non può vivere a lungo senza il secondo; nelsecondo, invece, identifichiamo l’anima, ovvero un insieme di valori che identificano unacomunità nazionale e che, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, non può che partiredal riconoscimento delle radici cristiane della nostra identità. Il compito a cui siamo chia-mati ora e nei mesi a venire, con un tempo a disposizione che non è illimitato, è forse ilpiù faticoso dall’unificazione a oggi: salvare lo Stato dai pericoli di disgregazione che lominacciano, ammodernarlo, renderlo più vicino ai cittadini, restituirgli l’anima dellanazione riscoprendo i valori su cui poggiarne le fondamenta. Vorrei però riflettere sudue elementi in particolare per sviluppare la mia riflessione sul futuro che attende qual-siasi italiano che avverta su di sé l’onore ma anche la responsabilità di appartenere a unacomunità più ampia e di doversi impegnare per preservarla. La mia visione della realtà èpiuttosto ottimistica perché ritengo che su uno degli snodi fondamentali della nostra

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realtà, quella storica e quella attuale, sisiano raggiunti risultati importanti chehanno prodotto e continueranno a pro-durre effetti positivi nel tempo. Mi riferi-sco ai rapporti tra Stato e Chiesa. E collo-co l’avvio del processo, senz’altro tormen-tato ma assolutamente positivo e tutt’orain evoluzione, nel momento della soluzio-ne del conflitto aperto con la breccia diPorta Pia, alla firma dei Patti Lateranensie alla successiva revisione del 1984. IlConcordato del 1929 non solo mise fine auna situazione di stallo che tarpava le ali auno sviluppo armonico di una società giàafflitta da gravissimi problemi economici ecivili che si protraevano da sessant’anni,ma aprì le porte a un impegno dei cattoliciin politica di cui nemmeno il regime fasci-sta fu in grado di valutare fino in fondo leconseguenze. Conseguenze che divenne-ro evidenti e straordinariamente rilevantie feconde subito dopo la caduta del regi-

me, influenzando in modo decisivo i lavori della Costituente e il testo finale dellaCarta fondamentale di tutti gli italiani. Rileggendo le relazioni del tempo di granparte dei Padri costituenti cattolici, da La Pira, a Moro, a Fanfani, a Dossetti, aMortati, a Tupini, si staglia con chiarezza la volontà di annodare e sviluppare untesto costituzionale architettato su basi teoriche solide, ovvero una precisa conce-zione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e con lo Stato, e un’altrettantoprecisa concezione della vita sociale e del suo svolgimento. Illuminanti in tal sensoappaiono le parole di La Pira, per il quale, la Costituzione «in quanto pone alla suabase la persona umana, in quanto concepisce il corpo sociale come articolato inuna pluralità originaria ma coordinata di comunità, in quanto costruisce l’ordina-mento giuridico e politico proporzionalmente a tale base e a tale corpo è cristiana-mente ispirata, perché conforme alla natura umana». Analogamente espliciti negliscritti dello stesso La Pira e di Dossetti sono i richiami alle influenze delle correntidel cattolicesimo francese di Mounier e di Maritain, e in quelli di De Gasperi alle

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[Pier FerdinandoCasini]

esperienze politiche del cattolicesimo tedesco e austriaco. La nostra Costituzione dunque, non rappresenta solo l’atto formale fondativo diun nuovo Stato, né può essere letta come il risultato di un compromesso tra diver-se culture politiche, ma racchiude al suo interno anche un’anima, che è quella diuna civiltà laica ispirata ai valori dell’uomo cristianamente intesi. Per questo, se sulpiano delle relazioni internazionali essa ci ha collocato fin da subito nel solco dellaComunità europea, sul piano interno ha permesso a tutti gli italiani, di qualsiasicredo e convinzione, di riconoscersi sul presupposto dell’inviolabilità dei dirittidell’uomo, dell’eguaglianza di tutti i cittadini e della promozione delle condizioniper il pieno sviluppo della persona umana. Il boom economico degli anniCinquanta, dunque, non è tanto il frutto di un’irripetibile coincidenza fortunata,quanto il risultato concreto dell’avviamento dell’opera di realizzazione dei finiindicati da parte di una Costituzione «progettuale» alla società e alle istituzioni.Un’opera a cui si dedicò gran parte della classe dirigente che aveva scritto quellaCarta, a partire da quella di matrice cattolica guidata da Alcide De Gasperi. Unapersonalità il cui pensiero è racchiuso, a mio avviso, molto bene in questa frase,scritta alla sorella suora in un momento di vacanza in montagna: «Sento bene chedovrei approfittare di questo ritiro per parlare a Dio, ma le voci degli uomini michiamano al loro servizio; e non li servo in nome di Dio?». Quei valori e quellefinalità, contenuti nella prima parte della Costituzione, così solidamente ancorati,mantengono inalterata la loro validità e la loro capacità di indicare le vie da per-correre per garantire uno sviluppo equilibrato della nostra società, in cui gli ultiminon siano lasciati al loro destino e i primi non vedano frustrati i loro meriti e leloro capacità. L’Italia insomma anche oggi può ritrovarsi intorno ai valori dellaCarta costituzionale e le riforme che pure sarebbero necessarie non debbonointaccare quei valori e quei principi. Si può discutere di ridurre il numero dei par-lamentari, di introdurre il Senato delle Regioni, di rafforzare i poteri dell’esecuti-vo e contemporaneamente i contrappesi di garanzia istituzionale. Se si ritiene, sipuò avviare un discorso sul presidenzialismo, ma evitando scivolamenti versoavventure dai confini incerti. Quello che però occorre prima di tutto chiedersi è sel’attuale assetto politico consenta di realizzare le riforme necessarie e se l’attualeclasse dirigente del paese sia all’altezza del compito che le spetterebbe. Molte diqueste riforme infatti non riguardano la Costituzione. Non serve una proceduracostituzionale per riformare il sistema previdenziale, il mercato del lavoro, peraggiornare e ridurre i tempi della giustizia civile e penale o per liberalizzare i ser-vizi pubblici locali. Non servono riforme costituzionali per restituire centralità alla

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La nostra Costituzione racchiude in sé l’anima di una civiltà laica ispirata ai valori dell’uomo cristianamente intesi. Per questo fin da subito ci colloca nel solco della comunità europea

Il boom economico degli anni Cinquanta non è il frutto di una coincidenza fortunata, ma il risultatoconcreto dell’opera realizzata secondo i fini indicati da una Costituzione progettuale

famiglia, il nucleo portante della nostra società, senza la quale appare illusoriaqualsiasi ipotesi di consolidamento della comunità civile, né servono modifichealla Costituzione per riconoscere e promuovere attraverso le leggi ordinarie lacentralità della dignità umana, la cultura della vita. La Costituzione al contrario,fondata sui principi a cui facevo riferimento prima, non solo non ostacola ma alcontrario incoraggia l’opera riformatrice del legislatore, fornendogli gli strumentiper realizzarla. Allora, visto che queste riforme sono attese invano da anni, forse è il caso di chie-dersi se non sia l’assetto politico nel quale viviamo a non funzionare, che non èquello immaginato dai nostri Padri costituenti, al punto che oggi gli stessi suoi fau-tori non perdono occasione per marcare la distanza tra la Costituzione formale equella materiale che avrebbero riscritto con i loro comportamenti. Un assettobipolare in cui risultano vincenti le forze centrifughe, ovvero le ali più estreme, ipopulisti, rese decisive da leggi elettorali viziate dalla previsione dell’assegnazionedel premio di maggioranza. Siamo l’unico paese in cui c’è il premio di maggioran-za e lo sbarramento. Un assetto in cui le regole del gioco si cambiano per interes-se della propria parte e non per le esigenze del paese. In cui si preferiscono ali-mentare e assecondare, per accrescere consensi in cambio della rinuncia a guida-re la nazione, le paure dei cittadini già disorientati. Uno stato, quello in cui vivia-mo oggi, impegnato quotidianamente ad amplificare le tensioni, a iniettare comeuna droga tutto ciò che è pulsione e che in realtà bisognerebbe guidare. Perché ilcompito di una classe dirigente è guidare, superare le tensioni attraverso un ruolodi guida come avviene in tutti i paesi. Dunque è necessario che la classe dirigentesia in grado di riannodare il filo della storia passata con quello della storia futurad’Italia. A partire dai deputati e dai senatori che devono rappresentare il popolo enon i segretari di partito che li hanno inseriti nelle liste. Al paese serve una classedirigente responsabile, pronta a dar conto del proprio operato. Ecco perché riten-go necessaria una riforma della legge elettorale, il passaggio da questo bipolarismosbilanciato sulle estreme a un nuovo assetto in cui siano le forze di buonsenso adalternarsi al governo, la nascita di partiti in grado di raccogliere e rappresentare leistanze sociali mediandole con le prevalenti esigenze del bene comune. E arrivo al secondo punto, il multiculturalismo. Noi viviamo in una società mul-tietnica, multirazziale. Qualcuno nella società politica vorrebbe arrestare un pro-

Il boom economico degli anni Cinquanta non è il frutto di una coincidenza fortunata, ma il risultatoconcreto dell’opera realizzata secondo i fini indicati da una Costituzione progettuale

cesso che non ha alternative. Viviamo in un’epoca globalizzata, in unasocietà che non fa figli, purtroppo anche a causa delle politiche familiari.Molti vagheggiano idee impossibili e improbabili di un’Italia che si chiu-de nei propri confini, che alza immaginifici muri per evitare la contami-nazione delle diversità: non c’è quest’Italia, non c’è questo mondo, nonc’è questa possibilità. Noi non potremo che essere una società multiet-nica e multirazziale, anche multireligiosa, ma stiamo attenti a nonconfondere questa idea di multirazzialità, di multietnia inevitabile, conun’idea confusa di multiculturalismo. Multiculturalismo non deve signi-ficare una società in cui assembliamo culture diverse in un mosaico, inuna specie di puzzle che non riesce a esprimere un’idea identitaria dipaese e di nazione. Proprio perché sappiamo che c’è un contatto continuo con la diversità,noi vogliamo favorire la maturazione di un senso di appartenenza a undestino comune: vogliamo vivere col ragazzo extracomunitario e voglia-mo non solo che tifi per la nostra Nazionale di calcio, che senta comenoi l’orgoglio del tricolore, ma che maturi un senso di appartenenzacondivisa al destino comune che è il destino della nostra patria, delnostro paese. Perché questo sia vero dobbiamo trasmettere a chi viene ilsenso di un’appartenenza a qualcosa che c’è, che ha radici, che ha valo-re. Solo così si può evitare che un generalizzato relativismo continui adiffondersi a scapito del senso di appartenenza e della maturazionedelle identità. Noi cattolici, liberali, repubblicani, persone che hanno maturato il sensodel bene comune siamo in grandi difficoltà politiche. La malattia italianasono le corporazioni e noi soffriamo di questa malattia. Le riforme chesi dovevano fare negli ultimi trent’anni hanno avuto un ostacolo che èsempre stato lo stesso: le resistenze corporative. Le liberalizzazioni nonsi fanno a causa delle resistenze corporative e tutto quello che ne conse-gue - cioè la paralisi politica - è dovuto alle resistenze corporative. Piùuna corporazione è forte, più è in grado di paralizzare il paese.Valutiamo quello che sta capitando nella politica italiana. La presenzadella Lega ha prodotto un effetto emulativo incredibile per cui il territo-

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rio meridionale, siciliano o sardo, che chiede tutela al legislatore nontrova di meglio che scimmiottare, facendo nascere sul territoriopseudo-Leghe: la Lega del Sud, la Lega della Sicilia, la LegaMeridionale. L’idea che per garantirsi, un territorio abbia bisogno dispezzettare la propria rappresentanza politica è la fine dello Stato, èla fine dell’Italia, è la fine della politica. La politica è esattamentel’altra faccia della medaglia, è la capacità di prendere un paese permano e di spiegare che a volte una parte del paese ha ragione adavanzare una richiesta corporativa e un’altra volta ha torto. La classepolitica deve portare unita avanti il paese, non favorendo elementi

che finiscono per certificare l’impotenza della politica, creando e minando l’unitàdella nazione. Ecco perché va restituito il diritto di cittadinanza a concetti cheormai non l’hanno più nella vita italiana: amor di patria, cultura politica, storia,valori, rispetto reciproco. Noi chiediamo un supplemento di coraggio, di orgoglioe di dignità all’Italia e agli italiani, umiliati da questa politica e dai suoi protagoni-sti. Bisogna costruire insieme un progetto di modernizzazione del nostro Stato,recuperare valori condivisi davanti al degrado morale che esiste. Occorre unire unpaese lacerato da risse, da individualismi, da corporativismi territoriali. Di fronte a

È necessaria la riforma della legge elettorale e il passaggio da questo bipolarismo sbilanciato sulle estreme a un nuovoassetto in cui sianole forze di buon senso ad alternarsi al governo

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[Pier FerdinandoCasini]

tutto questo non contano la destra, la sinistra, il centro, sono terminologie che nonhanno più alcun senso. Noi dobbiamo rivolgerci a tutti. Non ci sono più rendite diposizioni e non c’è più la possibilità di delimitare l’iniziativa politica in un ambitoesclusivo della geometria politica internazionale. C’è tanta gente che è orfana ed ècollocata in tutte le parti della vita politica italiana. Noi che abbiamo fatto un tra-gitto diverso con Francesco D’Onofrio, con Ferdinando Adornato e con tanti altriamici, comprendiamo e incoraggiamo Francesco Rutelli nella sua battaglia forte egenerosa di critica all’attuale bipolarismo, e come abbiamo denunciato per primila finzione del Pd, un partito nato da una fusione a freddo, con la stessa convinzio-ne abbiamo evidenziato fin dalla sua nascita tutte le contraddizioni del Pdl, unpartito nato dalla reazione rabbiosa a un momento di difficoltà di una sola personasalita su un predellino. Forze politiche diverse eppure così simili che non a casotenendosi per mano, hanno tentato di introdurre in Italia un bipartitismo imper-niato su un impasto di evocazioni carismatiche da una parte e di assemblaggi con-fusi di culture diverse dall’altra. Ebbene dopo un anno e mezzo di legislaturaentrambe le risposte si sono manifestate perdenti. E chi ha pensato che bastasseavere carisma per creare un partito è stato smentito dal fatto che questo partito,oggi, è vittima delle litigiosità interne perché non c’è un progetto, non c’è un’ideae non ci sono radici. Così come sull’altro fronte assistiamo al ripiegamento su sestesso di un assemblaggio di culture, come se queste sostituissero l’esigenza di unmessaggio unitario e di una sintesi nuova per il paese. Non ci siamo sbagliati, dunque, nel denunciare la finzione del bipartitismo, mapurtroppo abbiamo dovuto constatare che questa inadeguatezza si estende ormaianche al bipolarismo, che da una parte ha consegnato la politica italiana ai ricattidel populismo giustizialista di Di Pietro, che offre le luci della ribalta ai peggioriistinti di un certo modo di fare opposizione politica, e dall’altra ha posto la goldenshare della politica italiana in mano alla Lega che la esercita con la spregiudicatez-za e l’abilità che le vanno riconosciute. Dunque, oggi dobbiamo assumerci lenostre responsabilità. Abbiamo il tempo di farlo in questa legislatura. Evitiamo diragionare in termini di spallate, perché chi cerca spallate è destinato a rompersi leossa. Impegniamo invece bene il tempo che abbiamo davanti, perché dobbiamoarrivare alla fine della legislatura obbligando Berlusconi e chi per lui a rendereconto delle promesse che non avrà mantenuto. Questo è l’elemento decisivo, laquestione cruciale. Abbiamo tempo, ma non perdiamolo: andiamo a lavorare.

Chi ha pensato che bastasse avere carisma per creare un partito è stato smentito dal fatto che questo partito, oggi, è vittima delle litigiosità interne perché non c’è un progetto, non c’è un’idea e non ci sono radici.

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COSA VUOL DIRE ESSERE ITALIANOSECONDO IL PRESIDENTE EMERITO DELLA REPUBBLICA

imprevedibili per la poten-zialità disgregatrice chereca in sé. Appartengo allagenerazione nata alla finedella prima guerra mon-diale; cresciuta nel climaopprimente del fascismo eda questo trascinata, insie-

La mia ItaliaU Carlo Azeglio Ciampi U

DARE CONTO DELLA MIA IDEA DI NAZIONE, CHE PER ME fa tutt’uno con l’orgoglio diessere italiano, con il sentimento di appartenenza a un sistema di valori cheaffonda in primis nella lingua e nella cultura, significa inevitabilmente risalireindietro nel tempo; riandare a quel periodo della vita in cui cominciano a pren-dere forma convinzioni e idee. In breve, si tratta di ripensare quella fase dell’esi-stenza in cui intensa e appassionata è la ricerca di ideali di vita; meglio ancora,degli ideali per la vita. Quale che sia stata l’esperienza di ciascuno, tutti concor-diamo nel considerare fondamentali quegli anni formativi: per lo sviluppo dellapersonalità, per gli indirizzi da seguire nel prosieguo dell’esistenza. Sono gli anniin cui in buona misura si decide con quale atteggiamento si affronteranno e siopereranno le scelte importanti che si sarà chiamati a compiere; quale sarà labussola che fornirà l’orientamento nei passaggi difficili della vita, privata e pub-blica. È questa convinzione, soprattutto, a portarmi a «raccontare» la mia idea dinazione; di come essa abbia preso forma nella ragione e nel cuore. Un raccontoindirizzato idealmente ai giovani. A essi, infatti, ho scelto di dedicare la più granparte del mio tempo. Considero un dovere il dialogo tra generazioni: ai giovanipassiamo il testimone, perché proseguano in quanto di buono abbiamo fatto;perché riprendano quanto abbiamo lasciato di incompiuto; perché corregganogli errori commessi. Noi adulti sentiamo la responsabilità del concorrere al pro-cesso di formazione delle coscienze dei giovani; la avvertiamo con acuta intensitànel tempo presente. Tempo di smarrimento, di incertezza diffusa: incertezzache oscura l’orizzonte economico e con esso le prospettive del futuro; incertezzache investe la gerarchia dei valori, sovente sovvertendola, con il rischio di pro-durre una crisi ben più grave di quella economica, una crisi morale dagli esiti

me con tutto il popolo italiano, in una nuova tragica avventurabellica, con un epilogo più funesto della stessa disfatta militare: la

ferocia di un’occupazione nemica e l’atrocità di una guerra fratrici-da. Anche allora, e in misura incommensurabilmente più drammati-

ca, ci trovammo a vivere una realtà di smarrimento e di confusionemorale. La mancanza di ogni riferimento istituzionale che ci colse all’indo-

mani dell’armistizio dell’8 settembre fu una realtà durissima che «nell’animo diun giovane poteva accelerare il processo di maturazione della coscienza, rinsal-dandone la fibra morale; oppure, al contrario, gettare quell’animo in uno stato diconfusa disperazione e, privo di riferimenti morali, renderlo cinico e spregiudi-cato». Fu nel turbine di quegli eventi che nazione, patria, libertà - valori sui qualiera incardinata la mia formazione, propiziata da un ambiente familiare salda-mente legato agli ideali del Risorgimento e altrettanto ai principi del cattolicesi-mo liberale, più compiutamente maturata negli anni cruciali degli studi alla«Normale» - cessarono di essere astratti, seppur nobili ideali, per divenire con-crete realtà che imponevano, mi imponevano, scelte drammatiche. Vestivo ladivisa di ufficiale dell’esercito italiano l’8 settembre del 1943; per una serie dicircostanze, quel giorno mi colse lontano dal mio reparto. Solo. Nella solitudinedella mia coscienza, pressato dall’urgenza di dare risposta all’interrogativo «chefare», mi trovai a tu per tu con me stesso. Mi trovai a dover «verificare» il signifi-cato che in quel preciso momento della storia e della mia vita assumevanoespressioni come patria e nazione. Certo, quelle ore convulse non potevanolasciarmi il tempo di «ripassare» la lezione di Croce, di De Ruggiero, di Chabod,di Omodeo, di Calogero. Erano stati i Maestri della mia educa-zione civile, nel loro pensiero, nel loro esempio si radicava-no le mie convinzioni più profonde. Il loro insegnamen-to illuminò la mia decisione. La mia decisione, comedel resto quella di moltissimi altri italiani, rispose auna istanza morale. Ritrovare la nostra dignità diuomini, di cittadini; restituire così dignità alla patria.Questa volontà di riscatto accomunò milioni di ita-liani: quelli che salirono in montagna imbracciando ilfucile, come quelli che continuando a vivere una quo-tidianità sempre più difficile dettero aiuto, riparo, assi-

Occorre ritrovare uno spirito autentico di civilis concordia, per consolidare le fondamenta della Casa comune, per darle stabilità e sicurezza per essere accogliente, vivibile per chi la abita.

[La miaItalia]

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stenza a chi per ragioni anagrafiche, di razza, di fede politica era costretto anascondersi; così come i militari che per onorare la divisa che indossavano conti-nuarono a combattere nell’esercito italiano, consapevoli che quella fedeltàavrebbe richiesto loro un tributo altissimo. Nel vivere quei giorni, nel compierequei gesti, nell’assumere quei comportamenti con la naturalezza con cui siaffronta l’ordinario, in un tempo che ordinario non era, nessuno pensava di pre-notare per sé un posto da eroe; né ci si interrogava sul significato di patria e dinazione. La nazione e la patria si «vivevano» in quelle scelte, in quei gesti, inquei comportamenti. Era come se dal profondo del proprio essere ciascunoricevesse una spinta poderosa verso un’unica direzione: ridare all’Italia e agli ita-liani la libertà e l’onore. Erano secoli di storia, di cultura, di civiltà che chiamava-no alla mobilitazione dello spirito, poiché «gli italiani non si rassegnarono ascomparire nell’ora più oscura e funesta della loro storia» perché «un popolonon muore, una nazione non si estingue, una civiltà luminosa non può sprofon-dare nella notte»: una speranza e insieme una certezza che alimentavano, ancor-ché inespresso, un diffuso sentimento popolare. Era una certezza - resa manife-sta in quei termini - per Concetto Marchesi; non dissimile da quella dichiarata,sull’opposto versante ideologico, da De Gasperi quando osservava che... «Curvisotto il peso del loro destino, gli italiani levano la fronte in cui risplende lanobiltà antica». Milioni di uomini e di donne divisi da convinzioni politiche anti-tetiche, portatori di visioni dello Stato e della società profondamente diverse tro-varono un denominatore comune nella volontà di servire quella patria dei cuidestini si sentivano egualmente responsabili: tutti sentivano di appartenervi. Illavoro al quale tutti attendevano era la salvezza della Casa comune; il luogo checustodiva il patrimonio della comunità che l’abitava e di quelle che l’avevanoabitata in passato. Oggi siamo noi ad abitare questa Casa. Conviventi sempre piùrissosi, sordi alla ragioni dell’altro; troppo impegnati in una sorta di contesa per-manente non ci avvediamo delle crepe che alla lunga compromettono la stabilitàdell’edificio. Lo spirito di condivisione quotidianamente invocato e con pari fre-quenza ignorato è come il refrain di una canzone di cui si sono dimenticate lestrofe, cosicché non se ne capisce più il senso. Il senso sta in uno spirito autenti-co, praticato, di civilis concordia, per consolidare le fondamenta della Casa, perdarle quella stabilità e quella sicurezza che la rendano accogliente, vivibile perchi la abita.

[Carlo AzeglioCiampi]

E F I R M EL del numero

SANDRO BONDI: ministro per i Beni e le Attività Culturali.

PIERO ALBERTO CAPOTOSTI: presidente emerito Corte Costituzionale.

FRANCESCO CASAVOLA: presidente emerito Corte Costituzionale.

PIER FERDINANDO CASINI: già presidente della Camera.

CARLO AZEGLIO CIAMPI: presidente emerito della Repubblica.

ENRICO CISNETTO: editorialista, presidente di Società Aperta:

BIAGIO DE GIOVANNI: docente di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Napoli.

FRANCESCO D’ONOFRIO: direttore scientifico Fondazione liberal-popolare.

STEFANO FOLLI: giornalista e storico, editorialista del Sole 24 ore.

GIORGIO LA MALFA: presidente della Fondazione Ugo La Malfa.

GENNARO MALGIERI: giornalista e parlamentare Pdl.

FRANCESCO RUTELLI: presidente di Alleanza per l’Italia.