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Stefano Minola e Marco Ferrero

Paola Stroppiana

Tutti i diritti riservati Stefano Minola, Marco Ferrero e Paola Stroppiana – 2

Stefano Minola e Marco Ferrero dialogano con Paola Stroppiana

Conferenza presso la Sala di consultazione, 18 novembre 2014

SM – Stefano Minola

MF – Marco Ferrero

PS – Paola Stroppiana

MP – Marcella Pralormo

MP – Buonasera a tutti. In questi giorni alla Pinacoteca è in corso la mostra su

Martino Gamper e sul design come modo di vivere;1 questa sera abbiamo pensato di

invitare chi invece il design l’ha ereditato. Marco Ferrero e Stefano Minola non sono

collezionisti dalla nascita, ma vantano la fortuna di avere avuto in casa degli

appassionati di design e di avere ereditato da loro questo interesse. Marco è

architetto e l’amore per il design gli è stato trasmesso dalla sua famiglia; i suoi

genitori hanno due gallerie, fondate dal nonno, dove hanno creato un vero e proprio

archivio dei più famosi mobili di design dagli anni quaranta a oggi. Il nostro ospite ci

racconterà come si convive ai giorni nostri con il design, come lo si conserva e come

lo si reinterpreta. Stefano Minola è invece un pubblicitario, erede anch’egli della

passione di famiglia per il design e l’arredamento. In particolare la nonna di Stefano,

Ada Minola, era a sua volta scultrice e designer e aveva un debole per il lavoro di

Carlo Mollino. Stefano ci racconterà come la sua famiglia ha seguito questa passione

e come la reinterpreta oggi. Modera la conversazione Paola Stroppiana della galleria

GAS – Gagliardi Art System,2 che ha studiato la figura di Ada Minola ed è quindi la

persona più indicata per far dialogare i relatori di questa sera.

1 Martino Gamper, “Design is a state of mind”, mostra presso la Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli, Torino, 22 ottobre 2014-22 febbraio 2015. 2 GAS – Gagliardi Art System è una galleria di arte contemporanea in via Cervino 16 a Torino.

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PS – Stasera l’argomento è veramente interessante. Per una scelta non casuale

voluta da Marcella Pralormo abbiamo la fortuna di ospitare due persone che possono

vantare, all’origine delle rispettive collezioni di famiglia, due figure carismatiche e

molto interessanti. Due figure che, in modi diversi, sono state anticipatrici di nuove

tendenze restando comunque fedeli al loro tempo, vale a dire la seconda metà degli

anni quaranta, due figure affascinate dall’arte e dal bello in maniera

anticonvenzionale. Per Ada Minola, che negli anni quaranta commissionò la

progettazione del proprio appartamento a Carlo Mollino, il design è stata una scelta

di vita, lei stessa è artista, raffinatissima disegnatrice di gioielli, gallerista e direttrice

dell’International Center of Aesthetic Research, fondato e diretto da Michel Tapié

negli anni sessanta. Come Ada, anche Marco Ferrero discende da una famiglia di

professionisti, ha due gallerie di design – una delle quali a Torino, in corso Matteotti

–, aperte nel 1947 e tutt’ora attive, le cui vetrine sono allestite con tale gusto e

raffinatezza che passandoci davanti non sempre si capisce che si tratta di uno spazio

con oggetti anche in vendita. Nel 1947 Eligio Ferrero, nonno di Marco, fondò una

galleria all’avanguardia per il suo tempo, puntando sull’alta ricerca italiana e

iniziando inoltre a viaggiare molto alla ricerca delle nuove realtà del design. Nel 2000

Marco e la sorella Claudia hanno riordinato l’intero archivio di opere che conta più di

duecento pezzi. Eligio, infatti, parallelamente all’attività famigliare, diede il via a

questa straordinaria collezione, scegliendo ciascun pezzo con un metodo preciso,

assolutamente originale e rigoroso che più tardi Marco ci illustrerà. Lascio ora la

parola a Stefano che ci parlerà più approfonditamente della figura di Ada Minola.

SM – Essere qui è un’occasione emozionante per me, ho la possibilità di rendere

omaggio alla figura di mia nonna e allo stesso tempo a quella di Carlo Mollino. Come

ha già detto Paola, mia nonna è stata una donna eccezionale, anticipatrice di idee,

amante dell’arte e di tutto il bello che la circondava. Fu pittrice, scultrice, direttrice di

galleria d’arte. Intorno agli anni quaranta, tramite amicizie comuni tra cui il pittore

Italo Cremona, conobbe Carlo Mollino con cui instaurò da subito una bella amicizia. A

quell’epoca gravitavano attorno a Mollino una serie di artisti, tra cui Carol Rama e

Umberto Mastroianni, che tra l’altro ha vissuto per un certo periodo nel suo studio

sullo stesso pianerottolo di mia nonna; era un periodo di grande fermento. Sin dal

primo incontro lei rimase affascinata dalla figura di Mollino e decise di

commissionargli l’intero arredo della sua casa, un gesto decisamente innovativo per

l’epoca, vincendo tra l’altro i dubbi di mio nonno che propendeva per gusti più

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classici. Anche il fratello di mio nonno, Guglielmo, che abitava al terzo piano, ne fu

influenzato e commissionò a Mollino l’arredo dell’appartamento; fu un’altra delle

case in cui lavorò il grande architetto: casa Guglielmo e Franca Minola. Mia nonna

amava stupire, è questo lo spirito che l’ha accompagnata durante tutta la sua vita, di

conseguenza anche l’arredamento degli ambienti domestici forniva un pretesto per

stupire il prossimo. Lei era solita citare la famosa frase dei poeti decadenti: «Epater

le bourgeois». Nonostante fossimo in piena guerra mia nonna era sempre ottimista,

un tratto del suo carattere che la portò a formulare idee innovative anche in tempi

difficili.

PS – Abbiamo la fortuna di poter vedere questa sera un rarissimo filmato RAI in cui

Ada parla di Carlo Mollino.

SM – Sì, risale alla fine degli anni ottanta. Tra gli arredi più famosi di Carlo c’era

quello per Casa Miller e per Casa Devalle, dove l’architetto aveva sperimentato giochi

di specchi surrealisti. A casa dei miei nonni trattò l’arredo con un’impostazione più

rigorosa realizzando un ambiente polifunzionale. Alla zona pranzo venne assegnata

una doppia funzione, di sala per mangiare e di teatrino per rappresentazioni in

famiglia. Realizzò questo ambiente sopraelevando la zona pranzo e predisponendo

due tende scorrevoli che all’occorrenza facessero da sipario e allestì una serie di

tendaggi anche lungo le pareti laterali, che in quegli anni avevano funzione di

oscuramento durante il coprifuoco, perché ricordiamoci che c’erano i

bombardamenti. Impostò inoltre delle cornici che si elevavano da terra al soffitto per

delimitare porzioni di parete da cui partivano lampade a stelo snodabile e aggiunse

un’altra cornice come boccascena del teatrino. Gli elementi più importanti

dell’appartamento erano i mobili come le comodissime poltrone dormeuse per

assistere alle rappresentazioni. La porta d’ingresso, imbottita con pelle rossa, aveva

una cornice che riproduceva la struttura di una delle porte del Teatro Carignano. Il

design dei mobili, pezzi unici realizzati da abili artigiani, è tutt’oggi modernissimo.

C’erano oggetti curiosi ovunque: un tavolino la cui struttura ricordava lo slancio di un

cavallo in procinto di superare un ostacolo, un mobile-bar a forma di clavicembalo,

un tavolo da pranzo con dettagli che richiamavano gli snodi e i tiranti delle ali degli

aeroplani. Carlo Mollino era appassionato di aeroplani, oltre che di belle donne,

come diceva mia nonna. Di lui si potrebbero raccontare infinite altre cose, era un

uomo straordinario con mille interessi.

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PS – Però ha ragione tua nonna, nell’evocare le ossessioni al femminile di Mollino,

progettò un tavolino per la colazione che presenta gambe di donna, altro che

fusoliere di aerei!

SM – C’è una poltrona su cui si potrebbe raccontare un aneddoto: una sera mia

nonna organizzò una cena con il presidente di un importante istituto di credito per

fargli conoscere l’architetto Mollino. Durante la cena una delle poltroncine a tre

gambe crollò e il presidente cadde rovinosamente a terra. A causa dell’inconveniente

costui decise di non affidare all’architetto il progetto della banca. Quella volta

Mollino fu davvero sfortunato.

Oggi si trovano ovunque citazioni dei progetti di Mollino, Zanotta ha ideato una

poltrona proprio sul disegno di quella dell’appartamento di mia nonna. Lei ha amato

ogni singolo elemento di arredo di casa sua e anche quando ha lasciato

l’appartamento, ha cercato di ricreare la stessa atmosfera nella sua seconda casa;

sono stato molto fortunato a vivere circondato da queste cose, da questi pezzi di

storia.

PS – Vorrei aggiungere che entrambi gli appartamenti erano in via Perrone 4.

L’appartamento di Ada non esiste più arredato com’era al tempo, è rimasta soltanto

la porta imbottita modellata sul disegno del Teatro Carignano. Darei ora la parola a

Marco Ferrero, che ci racconterà un’altra storia di famiglia.

MF – La collezione della mia famiglia è databile al 1947, quando mio nonno paterno

decise di intraprendere una nuova attività legata al mondo del design italiano per

divulgarlo e diffonderlo. Lavorò sin dall’inizio su un doppio binario: da una parte

appunto il design italiano, che era all’inizio del suo boom, e dall’altra la ricerca del

design internazionale. Questa fu a mio avviso la sua intuizione più interessante. In

quegli anni infatti nacquero le prime strutture, destinate a diventare famose in tutto il

mondo, per la formazione di architetti e progettisti; molti di loro sono poi diventati i

maestri della scuola del design italiano, come ad esempio, tra gli altri, Luigi Caccia

Dominioni, Achille Castiglioni, Angelo Mangiarotti, Vico Magistretti... Mio nonno

viaggiò molto seguendo alternativamente le proposte del design italiano e quelle del

design internazionale, in particolare si recava spesso in Belgio. Mi sono chiesto tante

volte perché proprio in Belgio: sicuramente è sempre stato un paese

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geograficamente privilegiato e culturalmente all’avanguardia, grazie alle influenze

francesi dei primi grandi interior designer e arredatori come Jean Michel Frank, Serge

Mouille, Eileen Gray e molti altri. Fondamentale fu anche l’influenza scandinava di

grandi maestri quali Hans Wegner, Verner Panton e Arne Jacobsen. Il criterio alla

base di qualunque scelta era quello di acquisirre oggetti contemporanei, progettati,

costruiti e realizzati nello stesso anno in cui venivano acquistati. Per capire a fondo

un progetto, infatti, è necessario confrontarsi con chi l’ha concepito, disegnato e

realizzato. Mio nonno riteneva fondamentale il contatto con il designer: fare

domande, chiedere spiegazioni, andare a fondo, in sostanza capire perché il

progettista fosse arrivato a disegnare un oggetto in un certo modo. Tutto ciò lo si può

capire solo acquistando oggetti contemporanei.

PS – Tu e tua sorella Claudia avete avuto la fortuna di nascere in mezzo a oggetti di

design e di crescere insieme a loro. So che quando andate a comprare nuovi pezzi

per arricchire la vostra collezione li scegliete tutti insieme, famiglia al completo. Un

designer che vede arrivare la famiglia Ferrero in blocco per selezionare le sue opere

immagino senta una certa tensione. Io pensavo che si riuscisse ad acquistare un solo

pezzo all’anno, mentre di fatto c’è più apertura, si possono scegliere anche due o tre

pezzi, purchè siano stati prodotti in quello stesso periodo. Questa missione vi ha

permesso di collezionare un numero considerevole di articoli ma quello che mi preme

ricordare è che seguendo il vostro rigoroso metodo di scelta avete avuto la fortuna di

incontrare personalmente i designer e acquistare addirittura pezzi che non sono poi

entrati in produzione, quindi rarissimi, disegnati con precise caratteristiche ma che

agli occhi del mercato hanno “perso fascino” per diversi motivi e non sono stati

commercializzati. In un certo senso siete diventati anche i committenti dei designer,

facendo da interfaccia con i clienti, influenzando sia il gusto del fruitore finale che il

designer, e credo che questo aspetto originariamente non l’aveste nemmeno messo

in conto. Marco, illustrarci qualche elemento significativo della collezione.

MF – Certo. La collezione prende avvio nel 1947, i primi pezzi sono datati a cavallo tra

gli anni venti e trenta, quando il Belgio visse la forte influenza dei designer francesi e

nordici fra i quali citerei ad esempio Eileen Gray: una donna designer, rarità nella

nostra collezione, che ha progettato, tra gli altri, splendidi arredi per la sua

abitazione di Roquebrune e nel 1927 ha disegnato la poltrona Transat e lo specchio

Satellite che ottennero immediatamente enorme successo. L’aspetto curioso è che

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questa designer venne quasi completamente dimenticata nei decenni successivi per

tornare alla ribalta solo alla fine degli anni cinquanta grazie a un articolo pubblicato

su Domus. Probabilmente fu lì che mio nonno la scoprì e poté apprezzarla nella sua

completezza. Una nuova ondata di successo l’ha poi travolta in tempi recentissimi:

pochi anni fa, durante un’importante asta a Parigi, fu messa in vendita la collezione

privata dell’appartamento di Yves Saint Laurent e Pierre Bergé in rue de Babylone,

che contemplava fra il resto una poltrona di Eileen Gray, pezzo unico, che raggiunse

una quotazione altissima e, cosa di cui lo stesso Bergé si stupì, ottenne il maggior

successo. Da quel momento l’interesse per Eileen Gray è tornato molto vivo e il

Centre Pompidou le ha dedicato una bella retrospettiva; i suoi lavori sono

attualmente molto ricercati e la sua fondazione e gli aventi diritto hanno

recentemente rieditato i più interessanti.

Tra gli anni cinquanta e sessanta la nostra collezione si è arricchita con i grandi

maestri del design italiano, da Angelo Mangiarotti a Enzo Mari fino a Luigi Caccia

Dominioni, che alla veneranda età di centodue anni lavora ancora, a dimostrazione

del fatto che fare l’architetto fa bene. Nel 1947 disegnò un tavolo chiamato

Cavalletto, dall’eleganza ineguagliabile e sua è anche la rivisitazione della

tradizionale poltrona borghese. Solitamente Caccia Dominioni arredava le case

dell’alta borghesia milanese che, nel dopoguerra, voleva qualcosa di nuovo. Per

soddisfare le richieste usava sempre materiali molto ricercati e preziosi legni come

l’Erable, laccato lucido a specchio e verde. Via via che la collezione si arricchiva, a

mio nonno successe mio padre con il suo occhio più tecnico, da architetto a sua

volta. Mio padre amava e ama soprattutto i designer italiani e stranieri dalla linea

pulita come Enzo Mari, di cui cito Autoproduzione, un tavolo in legno molto noto,

mentre tra gli stranieri prediligeva Jasper Morrison, padre del Minimalismo, artefice

di progetti molto interessanti negli anni ottanta. La sezione della collezione che

riguarda gli anni settanta è invece molto curiosa perché in quel periodo il design

diventa anche manifesto per esprimere una protesta. I pezzi degli anni settanta sono

arrivati a me e mia sorella come eredità di nostro zio materno, il quale possedeva una

grande collezione puntuale e precisa che utilizzava come arredamento a tutti gli

effetti; principalmente erano mobili concepiti e selezionati da Dino Gavina. Tra di essi

si trova la seduta a forma di occhio disegnata da Man Ray; quando fu acquistato era

accompagnato da alcune righe di spiegazione che contenevano un ammonimento:

l’occhio veniva messo nell’appartamento per osservare le persone e controllare se in

casa regnava l’armonia. Se l’occhio infastidiva gli ospiti era possibile rigirarlo e

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trasformarlo in un pratico divanetto in pelle a due posti e subito lo sguardo ossessivo

spariva. Sono numerosi i pezzi di questo genere, la poltrona Magritta di Sebastian

Matta per esempio, e alcuni tavoli di Carlo Scarpa.

PS – Non ci hai ancora detto qual è la tua passione oggi, però.

MF – Si tratta di una passione più “specifica” ma prima di parlarvene vorrei terminare

il breve excursus storico del design. Gli anni ottanta furono dominati da artisti che

intrapresero la carriera di arredatori e interior designer e solo in seguito iniziarono a

progettare arredi specifici, così fu per Andreé Putman, donna geniale e raffinata

designer che nel 1980 disegnò la lampada monumentale per il CAPC, ovvero il Museo

di arte Contemporanea di Bordeaux, pezzo che noi acquistammo in quegli stessi

anni. Un altro esempio è Philippe Starck, forse il più famoso designer vivente, che

incontrammo sul finire degli anni ottanta. Dopo un turbolento esordio Starck fondò

un’azienda assieme all’attore Lino Ventura che lo aveva sovvenzionato per un

progetto di mobili gonfiabili. Non avendo incontrato il successo sperato emigrò in

America a cercare fortuna per tornare in Francia dopo pochi anni, nel 1982, dove salì

alla ribalta sia nazionale che a livello internazionale, disegnando gli appartamenti

privati del presidente François Mitterand all’Eliseo. Due anni dopo, nel 1984,

progettò una serie di locali notturni, tra i quali è il Caffè Cost. Nel 1986 acquistammo

una coppia di sedie chiamate Dick Deck, costituite da una struttura in legno di faggio

che a prima vista può sembrare plastica, rifinita a mano e dipinta, dal gusto un po’

anni cinquanta. È un articolo costosissimo per la tecnica di realizzazione, che venne

prodotto in serie molto limitata e, non riscontrando grande successo commerciale, fu

presto tolto dal mercato. Attualmente è una delle sedie più ricercate dai collezionisti

di design, battuta recentemente all’asta a Parigi da Artcurial a una cifra

considerevole. Si potrebbe andare avanti all’infinito con esempi simili: durante gli

anni ottanta tutti i designer reinventano alcuni arredi tradizionali, come la poltrona

borghese riletta in chiave surreale da Alessandro Mendini nel 1981. In collezione ne

abbiamo un esemplare molto raro, che si chiama Sabrina, spigolosa e quasi

respingente alla vista, con la fodera di velluto rosa, potremmo definirla di gozzaniana

memoria, in realtà molto confortevole e rilassante. Fu chiamata Sabrina in onore del

film con Audrey Hepburn. Molti altri designer seguirono percorsi simili rivisitando

pezzi dell’immaginario collettivo.

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PS – Come Sebastián Matta. La sua poltrona Magritta è molto divertente. È di scuola

brasiliana?

MF – Sì, Matta fu chiamato in Italia da Dino Gavina che voleva radunare un team di

artisti con stili e gusti molto diversi, per la curiosità di vedere cosa avrebbero

prodotto lavorando insieme per una sua collezione. Andando avanti con gli anni mia

sorella ed io abbiamo iniziato ad affiancare i nostri genitori nella costruzione della

collezione, unendo le nostre passioni alle loro. Alle soglie del 2000 ci siamo

interessati in particolare ai designer olandesi, rappresentanti di un paese

all’avanguardia che vanta ottime scuole, come quella di Eindhoven, dove si

diplomano ogni anno talenti eccezionali. L’Olanda inoltre ha un approccio al design

molto rilassato, i progettisti disegnano e realizzano i loro progetti senza preconcetti.

Vado spesso in Olanda o alle fiere internazionali per conoscere nuovi designer;

l’incontro più stimolante degli ultimi anni è stato sicuramente quello con Maarten

Baas, laureato a Eindhoven nel 2002 con una tesi di laurea che proponeva una

tecnica innovativa per bruciare oggetti e arredi mantenendone inalterate le

caratteristiche tecniche e funzionali: mobili che si possono usare, ma esteticamente

bruciati. Noi lo conoscemmo nel 2006, quando si affacciò sul mercato con una piccola

collezione chiamata Play, e anche in questo caso non inventò un oggetto ma un

materiale: un impasto di resina che non ha struttura interna, autoportante. Quando lo

abbiamo conosciuto aveva uno scantinato in affitto a Milano in zona Tortona, era agli

inizi e non aveva grandi mezzi economici; presentò sette-otto pezzi, tra i quali due

scope, due o tre sedie e una panca, che acquistammo. Gli abbiamo più volte

commissionato la progettazione e creazione di piccole collezioni, come quella per

una nostra casa tutta bianca, che lui non voleva realizzare perché considerava il

bianco un colore inadatto. Tuttavia insistendo lo abbiamo convinto: ha progettato per

noi due sedie e un tavolino con cassetto e alla fine era molto soddisfatto del lavoro.

Sempre a Maarten Bass abbiamo commissionato anche la realizzazione di due sedie

molto alte, quasi dei troni, di un colore giallo molto particolare.

PS – C’è tutta la famiglia Ferrero dietro questa collezione.

MF – Sì, mi arrivano e-mail che iniziano con: «Dear family Ferrero», senza un nome

preciso, tanto siamo interscambiabili, se non c’è uno c’è l’altro!

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PS – Ora vorrei capire con Stefano come sono oggi i rapporti all’interno della sua

famiglia. Stefano, tuo padre è stato ed è tuttora un calligrafo di fama, un artista, forse

il più dotato della famiglia. Tu hai ereditato una professionalità che con l’arte ha

molto a che fare, la comunicazione pubblicitaria è espressione. Vorrei capire qual è il

tuo rapporto personale e qual è stato l’approccio della tua famiglia con questa

eredità importante, estetica e di gusto.

SM – Io oggi sono qui a parlare di Carlo Mollino, ma faccio una cosa diversa da quella

che fa Marco, non compro oggetti di design, però ho ereditato da mia nonna la

passione per il collezionismo, mi muovo in campo artistico e mi piace scoprire le

giovani promesse dell’arte. Questo un po’ ci accomuna, il gusto per la scoperta e il

contatto con gli artisti; di alcuni sono anche diventato amico, cosa che mi ha

permesso di vivere la collezione con forte empatia. I miei genitori negli anni passati

hanno saputo fondere gli arredi di Mollino con l’altra anima della collezione di

famiglia, sempre derivante dall’attività di gallerista di mia nonna: la passione per

l’arte contemporanea. Io e mia sorella abbiamo avuto la fortuna di vivere l’arte sin da

piccoli e abbiamo infatti intrapreso entrambi carriere più o meno artistiche (mia

sorella è architetto). Durante l’infanzia li abbiamo vissuti, ci abbiamo giocato, ci è

stato trasmesso l’amore per l’arte in essi racchiuso, valore che abbiamo sempre

portato con noi fino all’età adulta. Nella mia professione ho sempre fatto ricerca

estetica e questo è sicuramente dovuto a mia nonna e indirettamente a Carlo

Mollino. Sono anche appassionato di arredo, non colleziono design ma tutte le volte

che mi è capitato di ristrutturare casa mi sono sempre appassionato.

Mollino era capace di riempire i volumi e dare forma all’ambiente con un senso

artistico ed estetico che l’hanno reso uno dei migliori architetti della storia. Mi viene

in mente un suo mobile eccezionale, lungo sei metri, nero, costituito nella parte di

destra da un’anta unica a ribaltina e a sinistra da uno scorrevole, di questo mobile è

stata scattata una fotografia molto evocativa, con l’ombra del designer che osserva la

sua creazione. Fra il pubblico vedo Fulvio Ferrari, la cui arte è intrisa dell’esperienza

di Carlo Mollino, c’è addirittura chi sostiene che Fulvio sia la reincarnazione di

Mollino, anche se lui non è d’accordo. Lo ringrazio a nome di tutti per il magnifico

lavoro che fa per portare avanti la memoria del grande architetto.

Nonostante per un certo periodo Mollino sia stato “dimenticato”, la sua visione ha

ispirato molti altri designer e oggi infatti sono tantissimi gli artisti e architetti che si

rifanno alle sue opere architettoniche più importanti, come il Teatro Regio di Torino,

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la sede della Società dell’Ippica e la sede della Camera di Commercio, purtroppo

demolita negli anni sessanta. Mia nonna raccontava spesso che girava la voce che

l’avessero rasa al suolo nottetempo per fare un dispetto a Mollino, con motivazioni di

natura politica. Probabilmente la poetica dell’artista non era stata affatto capita

dall’amministrazione cittadina. Altra impresa notevole fu la ristrutturazione della

slittovia del Lago Nero, a Sauze, dove vado spesso a asciare. La struttura stava

andando in pezzi, quando ero bambino molti la volevano acquistare ma il comune

non l’ha mai ceduta. Adesso è stata riqualificata, c’è anche un ristorante con vetrata

e terrazza a sbalzo, andare lì dopo una sciata regala un gran benessere; Mollino

faceva cose molto belle. Per il futuro credo che il modo migliore per onorare mia

nonna e un grande architetto come Carlo Mollino, sia quello di tramandare la

memoria del loro lavoro e del loro impegno, partecipare a iniziative come quella di

stasera e vivere gli arredi di design non in maniera “museale” ma domestica,

usandoli per sedersi, per mangiare e godendo dell’immensa fortuna di averli. Questo

per lo meno è sempre stato il nostro approccio.

PS – Mi intrometto a questo punto perché anche Marco mi raccontava che,

nonostante l’ampiezza della collezione di famiglia – circa duecento pezzi –, molti

oggetti d’arredo vengono utilizzati e vissuti quotidianamente.

MF – Una sedia è una sedia, bisogna potersi sedere sopra, su un tavolo bisogna

appoggiarsi, la lampada deve fare luce, gli oggetti devono essere utilizzati, non sono

sculture o quadri da appendere alle pareti, gli oggetti devono invecchiare. Noi non

sostituiamo mai le parti degli oggetti che si logorano col tempo, se una gamba si

rompe non importa, la lasciamo così, perché sono oggetti quotidiani. L’importante è

avere un atteggiamento rilassato, anche di fronte a mobili da collezione e capire che,

anche se sono rari e di design, vanno usati. Io, come tutta la mia famiglia, ci ho

convissuto fin da bambino: i mobili sono quelli, ci sono stato sopra, sotto, mi sono

appoggiato dove volevo, ed è giusto che sia così.

PS – Cosa suggeriresti oggi a chi volesse iniziare una collezione di design?

MF – L’arma principale è la curiosità, caratteristica fondamentale per tutti coloro che

intraprendono percorsi creativi. Altro aspetto imprescindibile è lo studio: leggere e

informarsi su libri, siti, blog, riviste, e poi scrivere, cercare di stabilire contatti con i

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designer, aprire un dialogo per capire veramente che cosa è interessante e cosa no.

Poi, naturalmente, visitare i festival, le fiere, le mostre, che sono sempre più

numerose, bisognerebbe stare via tutto l’anno per visitarle tutte; molto interessante

è anche partecipare agli open day delle scuole, consuetudine abbastanza recente e

vincente: a fine anno le scuole d’arte e di design aprono al pubblico per esporre i

lavori degli allievi dove si trovano progetti veramente interessanti, molti nomi li

abbiamo scoperti proprio così. Alla scuola di Eindhoven gli open day sono un’usanza

ormai consolidata da anni, ma un po’ tutte le scuole ultimamente hanno preso

quest’abitudine. È un buon modo per conoscere gli studenti più promettenti e i

neolaureati – di fatto già designer a tutti gli effetti – la cui tesi di laurea spesso

costituisce il primo esito interessante della loro produzione. Jasper Morrison ha

disegnato la Thinking man’ s chair, che a mio avviso è il suo pezzo migliore, proprio

per la sua tesi di laurea: si tratta di una poltrona elegantissima, portata agli occhi del

grande pubblico nel film Io ballo da sola. Marteen Baas stesso si è laureato a

Eindhoven e fu proprio la sua tesi di laurea a renderlo famoso, con quotazioni

inavvicinabili. Christien Meindertsma, conosciuta diversi di anni fa, ha presentato

sempre a Eindhoven una tesi su una collezione chiamata Flags, il cui tratto

caratteristico era la ripresa delle cime del porto di Rotterdam dove lei vive: ha

inserito questo elemento nelle luci e nei pouf realizzando una collezione di grande

successo commerciale. Quest’artista ha recentemente progettato delle grandi

scatole che si rifanno alla tradizione contadina dei paesi nordici, in particolare

all’Olanda. Ne ha realizzate due, una rossa e una verde, noi abbiamo in collezione

quella verde, mentre quella rossa è stata presentata qualche anno fa al Salone di

Milano. È questo che mi affascina dei designer olandesi: il recupero delle tradizioni e

la rivisitazione contemporanea che ne danno nel realizzare nuovi mobili. Quelle due

scatole sono pezzi fabbricati da un’antica manifattura che un tempo produceva i

mobili tradizionali olandesi; l’artista le ha poi tinte con colori vegetali: una con il

rosso ricavato dai petali di rosa e l’altra con il verde delle foglie di salvia. Sono

oggetti molto poetici.

PS – Mi sembra ci sia una chiave di lettura interessante questa sera, proprio perché

stiamo trattando due collezioni di famiglia: il fatto che si vada tutti assieme a cercare

i pezzi mi fa pensare che le scelte siano serene, che si evitino discussioni e litigi.

MF – Sì, assolutamente, siamo interscambiabili!

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PS – Anche per quanto riguarda la famiglia di Stefano, le due collezioni sono state

motivo di coesione, crescere in mezzo a tali oggetti permette di condividere una sorta

di lessico famigliare, una seconda lingua comprensibile solo ai membri della

famiglia. Questa è la grande fortuna quando il collezionismo non è solo un capriccio,

ma diventa passione e rispetto per l’estetica nel corso del tempo. Vorrei riprendere

una battuta che fece Michel Tapié, direttore del Center di cui Ada è stata direttrice

per diversi anni, durante un’importantissima mostra al Festival di Osaka nel 1958.

Michel fece esporre insieme per la prima volta artisti giapponesi, statunitensi ed

europei e al momento della presentazione era molto ansioso di conoscere i report

sulla mostra. Giunsero da lui due persone, un ragazzo che gli disse: «Questa mostra

mi è piaciuta moltissimo perché ogni pezzo è isolato e parla da sé. Tutte le opere

risaltano molto bene una per una»; e poi un’amica collezionista che arrivò

dichiarando: «La cosa più straordinaria di questa enorme e complessa mostra è il

fatto che presenta l’ unità di una grande collezione privata»; due giudizi

diametralmente opposti ma entrambi sensati. Michel Tapié disse che andava bene

così, che era proprio questo il significato di una vera collezione, ossia che «non resta

altro che dilettarsi, al di là del vedere, con la grande e duratura avventura dell’Idea».

Io davanti a una collezione privata mi chiedo sempre se c’è una preferenza e cerco di

capire se i pezzi dialogano tra loro. L’aspetto fondamentale tuttavia è cogliere bene

l’idea di fondo, che deve essere molto forte e sentita per apprezzarne appieno il

significato. Questa caratteristica sta alla base di entrambe le collezioni familiari

analizzate questa sera. Per concludere penso quindi che Ada ed Eligio vi abbiano

lasciato in eredità sostanzialmente la forza di un’Idea.

SM – Tra l’altro Paola, noi ci siamo incontrati qualche giorno fa per fare una

chiacchierata e abbiamo scoperto che un desiderio comune per il futuro sarebbe

quello di creare con queste cose di famiglia una fondazione che porti agli altri un po’

di quello che queste figure ci hanno trasmesso. Io poi sono anche padre di due bimbi

piccoli e ho dei nipotini, figli di mia sorella, quindi sento forte il desiderio di costruire

qualcosa che possa far loro conoscere la storia della collezione. Da quella

chiacchierata è emerso il desiderio di non tenere tutto per noi stessi ma condividerlo

con persone che sappiano apprezzare.

PS – Ci auguriamo che ci siano altri sviluppi allora.

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SM – È una cosa un po’ prematura, ma è bello averne parlato.

MF – La fondazione è sicuramente il mezzo più adatto per gestire il futuro di una

collezione di questo genere, gli eredi sicuramente sono importanti, io non ho figli e

mia sorella nemmeno, ma mai dire mai. E anche nel caso ci fossero eredi trovo

comunque che una fondazione sia la struttura migliore per tutelare un patrimonio di

famiglia di questo tipo.

PS – È un’usanza che in Italia è ancora poco frequente per quanto riguarda il design,

mentre in Svizzera o in Germania si è già abbastanza diffusa.

MF – Sì, in Italia è difficile capire come muoversi.

PS – Lo prendiamo come un mezzo impegno.

MP – Concludo dicendo che per me è un sollievo sentire che volete conservare tutto

per i posteri, soprattutto perché sono rimasta sconvolta quando Fulvio Ferrari ci ha

raccontato della miliardaria americana Barbara Jacobson che ha collezionato cose

progettate da Mollino e poi ha venduto tutto comprando una collezione di Frollini con

la scusa che «I always wanted to have a bar».

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Profili Biografici

Marco Ferrero

Si è laureato in Architettura al Politecnico di Torino nel 1994 e nello stesso anno ha aperto uno

studio a Torino occupandosi di design, architettura d’interni e allestimenti di mostre e spazi

museali, alternando così la libera professione di architetto a quella di consulente per la

collezione di famiglia, fondata nel 1947. La raccolta esplora la storia del design del XX e XXI

secolo attraverso esemplari rari, talvolta rarissimi, acquistati dalla famiglia Ferrero dal 1947 a

oggi. Attraverso le gallerie di design aperte dal nonno mantiene rapporti con collezionisti,

musei, case d’asta e fondazioni private e si dedica inoltre alla ricerca e al sostegno di progetti di

nuovi designers. Dal 2000 è responsabile dell’archivio Ferrero che raccoglie la collezione

privata della famiglia, costituita da arredi, lampade e oggetti di design italiano e internazionale.

Nel 2000 l’archivio è stato completamente riordinato, catalogato e fotografato per essere messo

a disposizione e ogni anno si arricchisce di nuovi pezzi.

Stefano Minola

È nato a Torino nel 1971. Dal 1998 è titolare dell’agenzia di pubblicità Giò Minola fondata nel

1968 dal padre, artista e calligrafo, portando avanti la passione per l’arte che da sempre lo

accompagna. La nonna, Ada Minola, scultrice e gallerista (dal 1961 al 1974 fu direttrice

dell’International Center of Aesthetic Research con Michel Tapié) era intima amica di Carlo

Mollino al quale, nel 1941, commissionò l’arredo della propria casa in via Perrone a Torino. Oggi

Stefano, insieme alla famiglia, si occupa della valorizzazione e implementazione della

collezione d’arte ereditata.

Paola Stroppiana

Nata a Torino, classe 1974, è storica dell’arte e organizzatrice di eventi. Si è laureata in Storia

dell’arte medievale alla facoltà di Lettere e Filosofia di Torino con una tesi sull’oreficeria sacra

del XV secolo. Dopo diverse esperienze lavorative a Roma, Firenze e Milano nell’organizzazione

di mostre per le più importanti istituzioni museali tra cui Palazzo Strozzi, Palazzo Barberini e

Palazzo Reale a Milano, gestisce da più di dodici anni una galleria d’arte contemporanea a

Torino. Membro della SPABA, ha al suo attivo numerosi articoli e contributi per pubblicazioni

scientifiche sull’arte medievale, disciplina alla quale non ha mai smesso di dedicare i propri

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studi. Parallelamente si interessa a nuovi percorsi d’indagine come il gioiello d’artista nell’Italia

del dopoguerra e le nuove tendenze del design contemporaneo.

Un progetto Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli e Johan & Levi Editore Per i testi © gli autori.

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Lapo Elkann

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Presidente Onorario / Honorary President

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Presidente / President

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Membri / Members

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Filippo Beraudo di Pralormo

Sergio Marchionne

Segretario / Secretary

Gianluca Ferrero

Collegio Sindacale / Board of Syndics

Mario Pia, Presidente/ President

Luigi Demartini

Pietro Fornier

Direttrice / Director

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Amministrazione / Administration

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Ufficio Stampo / Press office

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