Purgatorio, Canto VI
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7/21/2019 Purgatorio, Canto VI
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Purgatorio, Canto VI
Argomento del Canto
Ancora fra i morti per forza del secondo balzo dell'Antipurgatorio. Incontro con l'anima di Sordello da Goito. Invettiva
contro l'Italia. Apostrofe contro Firenze.
È il pomeriggio di domenica 10 aprile (o 27 marzo) del 1300, alle tre.
I morti per forza si affollano intorno a Dante (1-24)
Dante spiega che quando finisce il gioco della zara, il perdente resta solo e impara a sue spese come comportarsi nella
prossima partita, mentre tutti si affollano intorno al vincitore, attirando la sua attenzione; quello non si ferma, ma si
difende dalla calca dando retta a tutti e porgendo la mano all'uno e all'altro. Lo stesso fa il poeta attorniato dalle anime
dei morti per forza, rivolgendosi ora a questo ora a quello, e si allontana promettendo. Tra le anime c'è quella
dell'Aretino che fu ucciso da Ghino di Tacco e Guccio de' Tarlati che mor ì annegato; ci sono Federico Novello e il
pisano che fece sembrare forte il padre Marzucco; ci sono il conte Orso degli Alberti e l'anima di Pierre de la Brosse,che dice di essere stato ucciso per invidia e non per colpa, per cui Maria di Brabante dovrebbe pentirsi per evitare di
finire tra i dannati.
Virgilio spiega l'efficacia della preghiera (25-57)
Non appena Dante riesce a liberarsi dalle anime che lo pressano, si rivolge a Virgilio e gli ricorda come in alcuni suoi
versi egli nega alla preghiera il potere di piegare un decreto divino. Queste anime si augurano proprio questo, quindi
Dante non sa se la loro speranza è vana, oppure se non ha capito bene ciò che Virgilio ha scritto. Il maestro risponde
che i suoi versi sono chiari e la speranza di tali anime è ben riposta, a patto di giudicare con mente sana: infatti il
giudizio divino non si piega solo perché l'ardore di carità della preghiera compie in un istante ciò che devono scontare
queste anime. Nei versi dell' Eneide in cui Virgilio parlava di questo, inoltre, la colpa non veniva lavata dalla preghiera,
poiché questa era disgiunta da Dio. Virgilio esorta Dante a non tenersi il dubbio, ma di attendere più profonde
spiegazioni da parte di Beatrice, che illuminerà la sua mente e lo attende sorridente sulla cima del monte. A questo
punto Dante invita il maestro ad affrettare il passo, essendo molto meno stanco di prima e osservando che il monte
proietta già la sua ombra (è pomeriggio). Virgilio dice che procederanno sino alla fine del giorno, quanto più potranno,
ma le cose stanno diversamente da come lui pensa. Prima di arrivare in cima, infatti, Dante vedrà il sole tramontare e
poi risorgere.
Incontro con Sordello da Goito (58-75)
Virgilio indica a Dante un'anima che se ne sta in disparte e guarda verso di loro, che potr à indicare la via più rapida per
salire. Raggiungono quell'anima che, come si saprà, è lombarda, e sta con atteggiamento altero e muove gli occhi in
modo assai dignitoso. Lo spirito non dice nulla e lascia che i due poeti si avvicinino, guardandoli come un leone in
attesa. Virgilio si avvicina a lui e lo prega di indicargli il cammino migliore, ma quello non risponde alla domanda e gli
chiede a sua volta chi essi siano e da dove vengano. Virgilio non fa in tempo a dire « Mantova...» che subito l'anima va
ad abbracciarlo e si presenta come Sordello, originario della sua stessa terra.
(Foto: Monumento a Dante, Trento - © Jaqen)
Invettiva contro l'Italia (76-126)
Dante a questo punto prorompe in una violenta invettiva contro l'Italia, definita sede del dolore e nave senza timoniere
in una tempesta, non più signora delle province dell'Impero romano ma bordello: l'anima di Sordello è stata prontissima
a salutare Virgilio solo perché ha saputo che è della sua stessa terra, mentre i cittadini italiani in vita si fanno guerra,
anche quelli che abitano nello stesso Comune. L'Italia dovrebbe guardare bene entro i suoi confini e vedrebbe che non
c'è parte di essa che gode la pace. A che è servito che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c'è nessuno a metterle in
pratica? Gli Italiani dovrebbero permettere all'imperatore di governarli, invece di lasciare che il paese vada in rovina,
affidato a gente incapace. Dante accusa l'imperatore Alberto I d'Asburgo di abbandonare l'Italia, diventata una bestiasfrenata, mentre dovrebbe essere lui a cavalcarla: si augura che il giudizio divino colpisca duramente lui e i discendenti,
perché il successore ne abbia timore. Infatti Alberto e il padre (Rodolfo d'Asburgo) hanno lasciato che il giardino
dell'Impero sia abbandonato: Alberto dovrebbe venire a vedere le lotte tra famiglie rivali, gli abusi sub ìti dai suoi
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feudatari, la rovina della contea di Santa Fiora. Dovrebbe vedere Roma che piange e si lamenta di essere abbandonata
dal suo sovrano, la gente che si odia, e se non gli sta a cuore la sorte del paese dovrebbe almeno vergognarsi della sua
reputazione. Dante si rivolge poi a Giove (Cristo), crocifisso in Terra per noi, e gli chiede se rivolge altrove lo sguardo
oppure se prepara per l'Italia un destino migliore di cui non si sa ancora nulla. Le città d'Italia, infatti, sono piene di
tiranni e ogni contadino che sostenga una parte politica viene esaltato come un Marcello.
Invettiva contro Firenze (127-151)
Dante osserva ironicamente che Firenze può essere lieta del fatto di non essere toccata da questa digressione, visto che i
suoi cittadini contribuiscono alla sua pace. Molti sono giusti e tuttavia sono restii a emettere giudizi, mentre i fiorentini
non hanno alcun timore e si riempiono la bocca di giustizia; molti rifiutano gli uffici pubblici, mentre i fiorentini sono
fin troppo solleciti ad assumersi le cariche politiche. Firenze dev'essere lieta, perché è ricca, pacifica e assennata: Atene
e Sparta, città ricordate per le prime leggi scritte, diedero un piccolo contributo al vivere civile rispetto a Firenze, che
emette deliberazioni cos ì sottili (cioè esili) che quelle di ottobre non arrivano a metà novembre. Quante volte la città, a
memoria d'uomo, ha mutato le sue usanze! E se Firenze bada bene e ha ancora capacità di giudizio, ammetterà di essere
simile a un'ammalata che non trova riposo nel letto e cerca di lenire le sue sofferenze rigirandosi di continuo.
Interpretazione complessiva
Il Canto è di argomento politico ed è dedicato all'Italia, simmetricamente al VI dell' Inferno in cui si parlava di Firenze e
al VI del Paradiso in cui si parlerà dell'Impero (secondo un crescendo che allarga progressivamente il campo, dalla città
di Dante all'Europa cristiana). In realtà il Canto VI del Purgatorio è strettamente legato al VII con cui forma una sorta
di dittico, in quanto nell'episodio successivo Sordello mostrerà ai due poeti i principi negligenti della valletta e
biasimerà i loro successori che rappresentano una degenerazione rispetto a loro e si sono macchiati di gravi colpe
politiche, di cui i sovrani passati in rassegna si rammaricano. La scelta di Sordello quale protagonista dei due Canti non
è casuale, in quanto il trovatore lombardo aveva scritto un famoso Compianto in morte di Ser Blacatz in cui biasimava i
principi suoi contemporanei per la loro codardia e li invitava a cibarsi del cuore del nobile defunto per acquistarne la
virtù, per cui non sorprende che sia lui a passare in rassegna le anime confinate nella valletta e, in questo Canto, a
consentire a Dante di lanciare la sua violenta invettiva all'Italia (del resto anche i suoi versi avevano il tono di una satira
e di un'apostrofe ai potenti del sec. XIII).
Anche l'inizio dell'episodio è in linea con la sua conclusione, in quanto la rassegna dei morti per forza che assillano
Dante perché li ricordi ai congiunti ci porta nel vivo delle lotte politiche che dilaniavano i Comuni dell'Italia del tempo:
tranne Pierre de la Brosse, vittima degli intrighi alla corte di re Filippo III, gli altri sono tutti italiani protagonisti delle
lotte tra Guelfi e Ghibellini o vittime di vendette ed odi familiari, tra i quali figura anche il figlio di uno dei conti di
Mangona già visti coi traditori dei parenti nella Caina ( Inf ., XXXII) e il figlio di Marzucco degli Scornigiani, ucciso dal
conte Ugolino ( Inf ., XXXIII) nell'ambito delle lotte interne al Comune di Pisa. Tra questo esordio e l'incontro con
Sordello si inserisce la parentesi dedicata a chiarire il passo dell' Eneide (VI, 376) in cui la Sibilla diceva a Palinuro che
le sue preghiere non avrebbero piegato i decreti degli dei (egli chiedeva con insistenza di essere traghettato di l à
dell'Acheronte pur essendo insepolto). Dante espone il suo dubbio a Virgilio, in quanto l'insistenza delle anime che si è
lasciato alle spalle sembra contraddire con quanto detto dal poeta latino, il quale spiega che i suffragi dei vivi per i
penitenti non annullano l'espiazione delle loro colpe, ma fanno soltanto in modo che questa avvenga pi ù rapidamente;
nel caso di Palinuro, poi, la preghiera non era rivolta al Dio cristiano e dunque era priva di valore. La chiosa di Virgilioè importante perché sottolinea una volta di più il valore delle preghiere dei vivi per i penitenti, nel che si avverte la
polemica di Dante contro la Chiesa corrotta che lucrava sui suffragi sfruttando il dolore dei congiunti per i loro defunti
in Purgatorio; il maestro rimanda il discepolo alle più dettagliate spiegazioni di Beatrice, che in quanto allegoria della
teologia arriverà là dove la ragione umana non può giungere (e basta che Dante senta il suo nome perché metta fretta
alla sua guida, mentre Virgilio lo avvertirà del fatto che l'ascesa del monte durerà più di quanto pensa).
Segue poi l'incontro con Sordello, mostrato da Dante in tutto il suo aspetto regale e dignitoso mentre osserva in silenzio
e con fare altezzoso i due poeti che si avvicinano, a guisa di leon quando si posa : è stato osservato che ci sono molte
analogie tra la presentazione di Sordello e quella di Farinata Degli Uberti, con la differenza fondamentale che il dannato
non mutava atteggiamento in tutto il colloquio con Dante e si mostrava ancora prigioniero della logica delle lotte
politiche, mentre a Sordello è sufficiente sentire che Virgilio viene da Mantova per perdere ogni alterigia e gettarsi ad
abbracciarlo affettuosamente (nel Canto seguente, dopo averne appreso l'identità, si inchinerà di fronte a lui per
rispetto). E infattiè proprio l'affetto di Sordello verso un suo concittadino di cui non sa ancora il nome a far scattare la
violenta invettiva di Dante contro l'Italia, che parte dal fatto che nell'Italia del suo tempo i cittadini sono in lotta l'uno
contro l'altro e addirittura entro la stessa città, come dimostra l'elenco delle anime all'inizio del Canto e come dichiara lo
stesso esempio di Firenze che tornerà alla fine. Dante riconduce la causa principale di tali lotte all'assenza di un potere
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centrale, che nella sua visione universalistica doveva essere garantito dall'Impero: è l'imperatore che dovrebbe regnare a
Roma e assicurare pace e giustizia agli Italiani, invece il paese è ridotto a una bestia selvaggia che nessuno cavalca né
governa (e a poco serve che Giustiniano le avesse sistemato il freno, cioè avesse emanato il Corpus iuris civilis visto
che nessuno fa rispettare le leggi). L'immagine del paese come un cavallo che dev'essere domato è la stessa usata nella
Monarchia (III, 15) e nel Convivio (IV, 9), dove si dice che il potere temporale ha soprattutto il compito di assicurare il
rispetto delle leggi: la polemica è rivolta contro i Comuni italiani ribelli, che come Firenze non si sottomettono
all'autorità imperiale, ma anche contro il sovrano stesso che rinuncia a esercitare i suoi diritti, come Alberto I d'Asburgoche lascia la sella vòta e preferisce occuparsi delle cose tedesche, seguendo il cattivo esempio del padre Rodolfo I.
Dante augura a lui e alla sua casata un duro castigo divino, in modo da indurre il successore Arrigo VII a comportarsi
diversamente; nella visione anacronistica di Dante l'imperatore detiene un potere che deriva da quello dell'Impero
romano di Cesare e Augusto, quindi il suo compito è quello di ristabilire la sua autorità su tutta Italia stroncando con la
forza ogni resistenza, specie quella dei Comuni guelfi alleati col papa (è quanto Arrigo VII tenterà invano di fare nel
1310-1313 e i toni usati da Dante in questi versi ricordano molto quelli dell'Epistola VII a lui indirizzata: è molto
discusso se, al momento della composizione del Canto, Arrigo fosse già sul trono oppure no).
L'ultima parte dell'invettiva si rivolge a Firenze, che come Dante afferma con amara ironia non è toccata da questa sua
apostrofe, essendo i suoi cittadini impegnati ad assicurarle pace e prosperit à (l'antifrasi è l'artificio usato in questi versi
finali, con un sarcasmo quanto mai tagliente). I fiorentini si riempiono la bocca della parola «giustizia», mentre Dante
stesso è un esempio degli abusi compiuti dai Neri contro i loro nemici; essi sono fin troppo solleciti ad assumersi l'onere
di cariche politiche, al fine di arricchirsi e di colpire i nemici (da notare l'insistenza delle accuse, con l'anafora Molti... aivv. 130, 133 e tu nell'allocuzione al v. 137, come già c'era la quadruplice anafora di Vieni... ai vv. 106-115
nell'allocuzione ad Alberto I). Atene e Sparta fecero ben poco rispetto a Firenze, i cui provvedimenti di legge sono cos ì
sottili (l'aggettivo è ambiguo, potendo significare «elaborati» o «fragili») che durano solo poche settimane, mentre la
città cambia nel breve volgere di tempo tutti i suoi costumi, simile a un'ammalata che si rigira nel letto senza trovare
pace. L'ultima immagine è molto efficace, in quanto riassume la triste condizione di tante città italiane piene... di
tiranni, come è stato detto prima, e in cui anche i cittadini di pi ù umile condizione diventano capi-fazione e sono pronti
a commettere ogni sorta di abuso; è un tema già affrontato varie volte da Dante nel poema e che tornerà soprattutto nei
Canti in cui si affronterà ancora la spinosa questione dell'autorità imperiale (ad es. il XVI del Purg., ma anche il VI e i
XIX-XX del Par ., al centro dei quali sarà il tema della giustizia terrena). Del resto il poema nel suo complesso è un
duro atto di accusa contro il disordine politico e morale dell'Italia del Trecento, che trovava la sua radice prima nella
cupidigia nonché nelle lotte tra città che insanguinavano il giardin de lo 'mperio, unitamente alla corruzione
ecclesiastica che sovvertiva ogni giustizia calcando i buoni e sollevando i pravi (è chiaro che in questa visione Firenze
non poteva che essere l'esempio negativo per eccellenza, quindi non stupisce che l'invettiva all'Italia si chiuda proprio
con la dura apostrofe dedicata alla città che aveva ingiustamente esiliato Dante per il suo ben far ).
Note e passi controversi
La zara (v. 1, dall'arabo zahr , «dado») era un gioco simile alla morra, assai diffuso nell'Oriente bizantino e a cui si
giocava in due gettando tre dadi su un tavolo. Repetendo le volte (v. 3) indica probabilmente che il perdente ritenta le
gettate dei dadi, o forse che ripensa al gioco.
L'espressione correndo in caccia (v. 15) può voler dire «inseguendo» o «essendo inseguito», da cui la dubbia
interpretazione del verso.
I vv. 17-18 alludono forse al fatto che Marzucco, il padre di Gano (o Farinata) qui ricordato, segu ì il funerale del figlio
ucciso senza lacrime.
Inveggia (v. 20, «invidia») deriva dal prov. enveja.
Alcuni mss. al v. 48 leggono ridente e felice, ma è lezione molto dubbia (ridere dipende dal verbo vedrai ed è riferito a
Beatrice).
L'immagine dell'Italia come una nave senza timoniere (v. 77) è usata anche in Conv., IV, 4, dove il nocchiero dev'essere
per Dante proprio l'imperatore.
L'espressione donna di province (v. 78) vuol dire «signora delle province» e rievoca l'antico Impero romano di cui
l'Italia era centro.
Al v. 93 (ciò che Dio ti nota) Dante allude probabilmente a Matth., XXII, 21 ( Reddite ergo, quae sunt Caesaris,
Caesari et, quae sunt Dei, Deo , «Date dunque a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio»), quindi alla
separazione tra potere temporale e spirituale; in tal caso la gente che dovrebbe essere devota è il corpo ecclesiastico.
Il v. 96 indica che gli Italiani (o la Chiesa) non permettono all'imperatore di montare in sella (cioè di governare il paese)
e conducono il cavallo a mano per la predella, la parte della briglia attaccata al morso (dunque l'Italia è mal governata).
Montecchi e Cappelletti (v. 106) erano due famiglie rivali, la prima ghibellina di Verona, la seconda guelfa di Cremona,invece Monaldi e Filippeschi (v. 107) erano casate di Orvieto, una guelfa e l'altra ghibellina: mentre nel primo caso le
famiglie citate erano già in rovina (già tristi), nel secondo esse presagivano la futura decadenza (con sospetti).
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I gentili citati al v. 110 sono i feudatari dell'Impero, che sono vittime o artefici di oppressioni (a seconda del senso di
pressure) e le cui magagne (le colpe commesse o i danni sub ìti) Alberto d'Asbugo dovrebbe curare; la contea di
Santafior era l'esempio di una famiglia feudale caduta in disgrazia.
Il Marcel citato al v. 125 potrebbe essere il pompeiano G. Claudio Marcello, avversario irriducibile di Cesare, o anche
M. Claudio Marcello, espugnatore di Siracusa e salvatore della patria: Dante vorrebbe dire che ogni contadino che si
mette a capo di una fazione si atteggia a ribelle dell'autorit à imperiale, o a salvatore della patria (le due interpretazioni
non si escludono a vicenda).L'espressione se... vedi lume (v. 148) vuol dire «se vedi chiaramente».