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LA VOCE di Limina Organo Semestrale Della Societá Operaia Pubblicazione Semestrale N°1 Dicembre 2010 Editoriale POLITICA Limina tra possibilità di sviluppo e legalità 3 Acqua: Bene Comune La Galleria Degli Errori L’INTERVISTA Maria Correnti CULTURA Portellarossa Dove Parlano Le Parole Il Nostro Natale I Cognomi Liminesi Poeti Liminesi INDICE 2 3 4 6 7 9 11 12 13 14

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LA VOCE di Limina Organo Semestrale Della Societá Operaia

Pubblicazione Semestrale N°1 Dicembre 2010

Editoriale

POLITICA

Limina tra possibilità di sviluppo e legalità 3

Acqua: Bene Comune

La Galleria DegliErrori

L’INTERVISTA

Maria Correnti

CULTURA

Portellarossa

Dove Parlano Le Parole

Il Nostro Natale

I Cognomi Liminesi

Poeti Liminesi

INDICE2

3

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911

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Ventuno anni dopo lo sbarco di Garibaldi in Sicilia da cui mosse i primi passi l’unità d’Italia, nacque a Limina – era il 22 febbraio 1881 – la “Società Operaia di Mutuo Soccor-

so”, un’associazione di contadini e operai che viveva-no delle loro fatiche coltivando la terra o esercitando una professione.Leggendo i vecchi Statuti della Società, colpisce in particolare la chiarezza con cui venivano fissati i diritti e i doveri dei soci e la grande lezione di decoro e di moralità che si voleva inculcare in ognuno di loro per indurli a comportamenti di cittadini onesti e responsabili.In una società democratica, affinché la democrazia possa considerarsi completa, occorrono prima di ogni altra cosa organi di informazione che dispongano i cittadini ad esercitare il proprio diritto ad operare scelte volte a difendere le giuste opinioni e a battersi onestamente per realizzare i propri interessi. Senza mezzi d´informazione, i cittadini pur disponendo del diritto al voto, non potrebbero esercitarlo cosciente-mente perché non sufficientemente informati. Con “La Voce di Limina” intendiamo offrire ai limin-esi una pubblicazione che li raggiunga ovunque essi vivano per questo viene diffuso on line, ma lo sará anche in versione cartacea in modo che possa entrare nei caffè, nei ristoranti, nelle scuole, nelle botteghe, nelle case.Il nostro sarà un mezzo di informazione critico quanto basta, combattivo quanto occorre, severo contro chi ritiene che l’informazione dev’essere volta a gettare fumo negli occhi per impedire a chi legge di vederci chiaro nelle proposte e nei programmi. Per la stampa e la diffusione del nostro periodico non chiediamo nulla a nessuno: essa nasce da una libera iniziativa, non come avviene con “Limina Notizie” che due volte l’anno gli amministratori di Limina ci fanno giungere a casa per mettere in bella mostra quello che hanno fatto e quello che hanno in mente di fare. A chi non ne fosse informato ricordiamo che quella pubblicazione viene stampata e diffusa a cura del Comune: come dire con i soldi della comunità liminese. La “Voce” informerá i liminesi sull’operato degli ultimi 3 periodi di questa Amministrazione che dal primo momento non hanno avuto le idee chiare su ciò che bisogna fare per risolvere i gravissimi prob-lemi del paese. In quindici anni sono state realiz-zate opere in gran parte inutili, superflue, nel senso che esse non hanno avuto come obiettivo quello di migliorare le condizioni e lo sviluppo della comu-nità. C’è da aggiungere che quelle opere non hanno garantito ai nostri compaesani, nemmeno una gior-nata di lavoro in quanto gli amministratori le ditte le hanno fatte venire da lontano. Pare che in qual-che caso gli architetti progettisti non sono venuti a Limina nemmeno una volta. Basta osservare alcuni vicoli o scalinate ricostruite con pietre bianche (da dove li hanno portati?) per capire il caos urbanistico che hanno generato nel paese distruggendo la nostra identità architettonica, dando spazio alle “ manie moderniste” il cui obiettivo è quello di impressionare i cittadini, facendo loro dimenticare che l’esistenza dei paesi simili al nostro si basa in primo luogo sulla

conservazione e sulla ristrutturazione delle architet-ture tradizionali, sulla diffusione dei prodotti della nostra terra e del nostro artigianato, sull’agroturismo e su altre iniziative volte a creare posti di lavoro per i cittadini e ricchezza per il paese.Un altro vezzo che vogliamo combattere è la ma-niera arrogante di fare politica. I liminesi devono conoscere cosa accade nelle riunioni della Giunta Comunale, devono sapere come agiscono i membri della maggioranza. La violenza verbale, la minaccia, l’insulto sono all’ordine del giorno. Per non parlare dell’irresponsabile impiego del pubblico denaro. Per il momento un solo dato: a Limina ogni bambino che nasce s’affaccia al mondo con un debito di 3.500 euro in conseguenza dei mutui contratti a carico del Comune. I processi seguono ai processi, le denunce alle denunce, mentre il Comune è costretto a sborsare ingenti somme per le cause in tribunale che stá per-dendo una dopo l´altra. Il sacco é colmo: stiamo es-agerando in ogni senso. Si metta una buona volta da parte la volontá di potenza e si cerchi in tutti i modi di fermare lo spopolamento del paese che presto o tardi potrebbe perdere anche la propria autonomia amministrativa. Il poco che é rimasto del nostro passato custodiamolo, difendiamolo dalla mire espansionistiche di chi assicura “Qui a tutto penso io”. Si dia ascolto a chi la pensa in modo diverso. Il dialogo deve stare sempre alla base di chi crede vera-mente nella democrazia

La porta di “La Voce di Limina” è aperta a tutti. Fa-teci giungere la vostra voce . Tanti auguri per le feste di Natale e Capodanno.

Eligio Restifo

LA VOCE DI LIMINA

EDITORIALE LA VOCE di Limina

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LA VOCE DI LIMINA

POLITICA

È sotto gli occhi di tutti che a Limina il nuovo millennio è iniziato solo sul calendario. La mentalità inculcata dal

potere è retrograda, sorpassata, vecchia.Oggi noi troviamo un paese molto deteriorato dal punto di vista politico, economico, morale e sociale.In questo paese niente viene deciso per il bene di tutta la collettività, ma sistematicamente per favorire l’interlocutore di turno, che è quasi sempre un parente od affine.Noi abbiamo la determinazione giusta per creare le basi di un

cambiamento, non fine a se stesso, ma che sia motore di crescita e di sviluppo.Tutti i liminesi vogliono vivere dignitosamente in questo paese, lavorare in questo paese, crescere i propri figli in questo paese.In questo paese bisogna che sia realizzata una politica di affiancamento sociale alle famiglie in difficoltà.In questo paese bisogna che sia realizzata una politica di investimenti produttivi per un sostenibile sviluppo agricolo, agroalimentare ed artigianale.In questo paese chi ha investito per realizzare un’attività produttiva ha dovuto fare i conti con un’amministrazione bieca e poco lungimirante ed ha dovuto superare decine di ostacoli e di cavilli creati ad arte, vittime machiavelliche del potere politico-amministrativo.Abbiamo l’onere morale di rendere i diritti immediatamente percepibili e usufruibili a tutti i cittadini e di contro eguali e giusti i doveri dei singoli verso la collettività nell’intento non utopico della creazione di una società evoluta, libera e giusta.Abbiamo l’obbligo civile di riscattare questo nostro amato paese.Abbiano il dovere di fare in modo che certe distorsioni della politica non accadano mai più.

Il potere politico non si può in nessun modo sostituire alla legge, esistono giudici ed esistono sentenze che in quanto tali vanno rispettate ed eseguite, specie quando esse tutelano il sacro diritto della proprietà privata e gli interessi inviolabili dei singoli contro le allucinazioni di questa amministrazione pubblica.

Decine sono le cause che i liminesi hanno dovuto intentare contro il proprio Comune per vedersi riconoscere diritti riconosciuti dalla Legge.Espropri, occupazioni, indennità, risarcimenti, tanti sono stati gli argomenti portati davanti ai giudici ed ai tribunali di tutta la Sicilia.Tutto quello che era giusto riconoscere con l’applicazione del buon senso e della Legge i liminesi l’hanno dovuto ricercare, a costo di grande dispendio economico, con il ricorso alla giustizia amministrativa, civile e penale.Tutti questi procedimenti hanno prodotto un danno economico all’Ente Comune dato dalle parcelle che inevitabilmente il Comune paga al proprio avvocato ed alle spese di giudizio a cui puntualmente viene condannato nei vari gradi di giudizio e quantizzabili in decine, se non centinaia, di migliaia di euro.Risorse, queste, sottratte allo sfruttamento della collettività.In questo nostro amato paese può capitare che parole come prospettiva o speranza si cerchi definitivamente cancellarle dal vocabolario.Ci chiediamo allora cosa sia una comunità senza prospettive e senza speranze?Noi crediamo che esista la possibilità di lavoro e di sviluppo per questo paese, crediamo che i cittadini di questo paese possano avere un tenore di vita superiore all’attuale ma solo a condizione che chi amministra lo faccia con competenza, serietà e programmazione nell’interesse dell’intera comunità e non in nome e per conto di una sola parte politica.

Limina tra Possibilitá di Sviluppo e Legalitá

Sebastiano Musumeci

3LA VOCE di Limina LA VOCE di Limina

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Il diritto all’acqua risulta quale estensione del diritto alla vita affermato dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani.

Esso riflette l’imprescindibilità di questa risorsa relativamente alla vita umana.“È ormai tempo di considerare l’accesso all’acqua potabile e ai servizi sanitari nel novero dei diritti umani, definito come il diritto uguale per tutti, senza discriminazioni, all’accesso ad una sufficiente quantità di acqua potabile per uso personale e domestico - per bere, lavarsi, lavare i vestiti, cucinare e pulire se stessi e la casa - allo scopo di migliorare la qualità della vita e la salute. Gli Stati nazionali dovrebbero dare priorità all’uso personale e domestico dell’acqua al di sopra

di ogni altro uso e dovrebbero fare i passi necessari per assicurare che questa quantità sufficiente di acqua sia di buona qualità, accessibile economicamente a tutti e che ciascuno la possa raccogliere ad una distanza ragionevole dalla propria casa. La Risoluzione ONU del 29 luglio 2010 dichiara per la prima volta nella storia il diritto all’acqua un diritto umano universale e fondamentale.

La Risoluzione sottolinea ripetutamente che l’acqua potabile e per uso igienico, oltre ad essere un diritto di ogni uomo, più degli altri diritti umani, concerne la dignità della persona, è essenziale al pieno godimento della vita, è fondamentale per tutti gli altri diritti umani.

A Limina evidentemente l’Amministrazione è di altro intendimento.

In questi giorni, infatti, l’Amministrazione Comunale di Limina si è attivata “ad libitum”, attraverso l’ufficio ragioneria, a richiedere ai cittadini il pagamento delle bollette acqua per gli anni 89-90-91-92-93-94-95-96-97-98-99-2000-2001-2002-2003-2004-2005-2006, esercitando sugli stessi una grave pressione psicologica riassumibile in un out-out o saldate le bollette arretrate o vi sarà sospesa la fornitura idrica.

Il recupero delle bollette relative ad utenze (gas- acqua, luce, telefono) sono regolate per Legge dall’art. 2948 del Codice Civile.Il suddetto articolo del Codice Civile prevede quale prescrizione 5 anni decorrenti dalla data di scadenza di ogni singola bolletta.Tutti i cittadini, crediamo, necessariamente devono partecipare in eguale misura e secondo i consumi, ai costi di gestione e di miglioramento del servizio idrico, ma viene da pensare come mai si proceda al recupero delle somme dovute con una comunicazione inviata agli utenti liminesi pochi mesi dopo la tornata elettorale Amministrativa e non nei tempi e nei modi previsti dalla Legge, posto che la situazione debitoria dei morosi era già

POLITICA

Acqua: Bene ComuneSebastiano Musumeci

4LA VOCE di LiminaLA VOCE di Limina

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abbondantemente conosciuta?Ci chiediamo è normale per un’Amministrazione responsabile indicare come alternativa per la pubblica fornitura dell’acqua potabile la fontana di via Galilei, sapendo che la stessa alle prime piogge si inquina con una certa facilità, o qualche altra fatta realizzare in tutta fretta e senza la certezza dei requisiti igienico-sanitari lungo le vie del paese?Crede forse l’Amministrazione che la gente di Limina sia disposta a ritornare al primo dopoguerra o è forse questa l’aspirazione del Sindaco e della sua Giunta?Se l’Amministrazione crede di avere le carte in regola per il recupero delle somme dovute dai così detti morosi, proceda con incarico ad un legale ma non avanzi proposte di sospensione, tout-court, delle forniture che sanno proprio di provvedimenti alla sudamericana.

L’Amministrazione che chiede ai cittadini di adempiere con i propri doveri, pagare l’acqua, si preoccupa di garantire servizi adeguati?

Ci risulta che l’Amministrazione,

evidentemente impelagata in tante altre cose, ormai da anni ha perso di vista l’interesse della comunità e l’allegata relazione fotografica rende bene l’idea a che cosa questo gruppo si riferisce.Erbacce, sporcizia, incuria ed omissioni regnano sovrane in contrada Gerasia presso le gallerie di presa dell’acquedotto comunale. Di certo non sarà meglio la situazione di C/da Cardà e di C/da Sverna.

Siamo curiosi di sapere cosa ha da dire il Sindaco su quest’argomento?Forse dirà che in un susseguirsi di sabati, di domeniche, di viaggi e di vacanze non ha avuto il tempo di curarsi della tutela della salute dei liminesi.

O meglio ancora, come sempre, dirà che è tutta colpa delle forze di opposizione, che ad ogni buon conto hanno già provveduto ad informare gli organi di tutela.

POLITICALA VOCE di Limina

5LA VOCE di Limina LA VOCE di Limina

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La Galleria Degli Errori POLITICA6

LA VOCE di LiminaLA VOCE di Limina

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L’ INTERVISTA

Maria Nunziata Correnti é arrivata in Venezuela all`età di 14 anni assieme alla mamma; col tempo

è divenuta una delle più prestigiosi docenti dell`Università Central de Venezuela.

In che anno è arrivato tuo padre in Venezuela?Mio padre, Antonio Correnti, mu-sicista di vocazione, calzolaio di professione, suonava da piccolo il mandolino (tanto è vero che la nonna Carmela per punirlo quan-do si comportava male gli rompeva il mandolino) faceva parte della Banda Musicale di Limina come suonatore di tromba. Participò alla Seconda Guerra Mondiale, ma é dovuto ritornare a Limina perchè si ammalò di malaria. Per migliorare la sua salute si trasferí a Milano dove lavoró per quattro anni. Ar-rivó a Venezuela nel 1951

Quali ragioni lo hanno indotto a lasciare Limina?La ricerca di migliori condizioni economiche, per migliorare la qual-ità di vita..

Perchè ha scelto Venezuela? Sai chi gli ha fatto l`atto di richi-amo? Gli avevano raccontato che il Ven-ezuela era un paese nuovo di molte opportunità, dove la gente era molto amichevole con gli stranieri .Il clima era eccelente . Quando si riferiva al Venezuela lo chiamava “il paese dell`eterna primavera”. L`atto di richiamo come mi dice mia mamma. glie l`ha fatto Filippo “Nuciarazza”.

A che età e in che anno sei ar-rivata tu in Venezuela? Con chi sei venuta?Nell`anno 1965 all`età di 14 anni con mia mamma.

Come è stato il processo di adat-

tamento della tua famiglia alla cultura venezolana?Il processo di adattamento di mio padre é passato per tutti gli incon-venienti di stare solo in un paese estraneo, all´ inizio con molte limi-tazioni. Abitava in una stanza in una pensione, peró incominciò a lavorare subito. Credo che il punto d`incontro con la cultura di questo paese fu la musica. Lui sentiva una grande passione por l`opera, che lo avvicinò a molti eventi che in quel momento si realizzavano nel Teatro Municipale e nel Teatro Nacional , ambiente propizio per svegliare il suo interesse per il folklore, i con-certi di chitarra di Alirio Diaz, del

tenore Alfredo Sadel,ecc.Quando sono arrivata da Limina, mi ha trasmesso tutte queste cono-scenze. Per essere condiscendente con lui, mi sono iscritta alla Scuola di Musica Lino Gallardo per studi-are teoria e solfeggio. Tutto ques-to mi ha aiutata a realizzare una rapida integrazione con la cultura di questo paese. Mia madre ha fa-vorito il mio ingresso nell´ambiente familiare venezolano con il suo lavoro di molti anni in una fabbrica

di vestiti come sarta.Mio fratello Elia è la persona che di più ha influenzato la mia ado-lescenza e il cammino della mia vita.Lui all`età di 21 anni interrompe gli studi di geometra che stava segu-endo a Messina e viene in Venezu-ela dove raggiunge mio padre due anni prima dell´arrivo mio e di mia mamma.Il suo adattamento fù estrema-mente rapido. Dopo un mese es-sere arrivato, incominciò a lavorare in una impresa italiana. L`anno seguente viaggiava per tutte le re-gioni del paese facendosi amici venezuelani in tutte le città. Da lui ho imparato grandi lezioni di vita: “sapersi alzare con forza rinno-vata ed incominciare di nuovo, quando le cose no escono come ci si aspettava; nella vita non esiste l`impossibile; non importa la de-cisione che prendi: quando ne hai bisogno, starò sempre con te”

In casa parlavate limminotu?Nella mia casa non parliamo lim-minotu, ma mia mamma e mia nonna, che hanno vissuto un lungo periodo con me, parlavano in di-aletto alle mie figlie e lo capivono perfettamente.

Come è stato il rapporto della tua famiglia con i liminesi?Il rapporto della mia famiglia con i liminesi si riduceva ad un piccolo gruppo di familiari di mio padre ed amiche di mia mamma.

Come sono stati i tuoi studi? Come è nata la tua passione per la ricerca scientifica?Tre mesi dopo che sono arrivata in Venezuela , mio fratello mi iscrisse al Politecnico Commerciale; per tre anni ho frequentato il corso di Se-gretaria Esecutiva con la speranza di entrare nel mondo del lavoro e contribuire alle spese della famiglia e nello stesso tempo finanziarmi i miei futuri studi.

Maria CorrentiDal libro I Liminesi in Venezuela di Eligio Restifo

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All`età di 18 anni incominciai a lavorare come segretaria con il Dottore Simòn Beker, un eminente gastrointerologo ed epatologo del Centro Medico di Caracas. Così mi sono interessata ai pazienti e alle loro malattie. Il Dott. Beker perce-pisce in me l`inclinazione e la dis-posizione ad acquisire conoscenze nell`area cientifica e mi insegna ad usare il Microscopio; mi spiega le caratteristiche dei diversi tumori. Tutto questo mi motivò a studi-are al Liceo Cientifico notturno, dopo di che incominciai a studiare nell`Università Central de Venezue-la nella Facoltà di Scienze e nel 1983 mi sono laureata in Biologia (men-zione cellulare). Posteriormente con una Borsa di Studio che mi è stata concessa dal Consiglio Nazionale delle Ricerche Scientifiche e Tecno-logiche mi sono laureata in Scienze (nell`area di Biologia Molecolare e Immunologìa); nel 1993 sono stata nominata Capo del Laboratorio di Genetica Molecolare. Nello stesso anno vinco il concorso aperto dalla Facoltà di Odontologia e ottengo il posto di Professore in Immuno-logia Clinica e Genetica Moleco-lare per i diversi corsi di dottorato. Inoltre passo ad essere membro attivo delle Commissioni Acca-demiche di dottorato e di Bioeti-ca della Facoltà di Odontologia.

In che consiste esattamente il tuo lavoro di ricerca? Il mio lavoro di ricerca scientifica lo svolgo principalmente nell`area di Oncologia e Virologia, mediante studi di patologie come il Cancro alla mammella, allo stomaco e al collo uterino. Il laboratorio di ricer-ca d cui sono responsab é formato da una squadra multidiscipli-naria che si occupa di diagnosi del Virus di Papiloma Umano (HPV), del Virus Herpes, del Virus di Im-munodeficienza Humana (HIV) e del Virus della Epatitis B e C.

Tu da più di dieci anni fai parte di questo gruppo privilegiato che ottiene un sostegno econom-ico dal Governo per la ricerca scientifica. In che consiste questo premio e cosa devi fare per sostenerlo?La produzione scientifica (av-valorata da Pubblicazioni e lavori presentati in Convegni Nazionali e Internazionali) mi ha permesso

di ottenere il Premio di Promozi-one del Ricercatore concesso per la Fondazione Programma di Pro-mozione del Ricercatore (FONAC-IT) dal 1995 fino ad oggi, il quale viene rinnovato ogni tre anni. La produzione scientifica include an-che la formazione di risorsi umane. Sono Tutore di 18 Tesi di Dottorato per studenti delle Facoltà di Medic-ina, Scienze e Odoltologia; inoltre ho ottenuto Riconoscenze e Premi per 15 lavori scientifici presentati nei Convegni Nazionali.Sono stata Ricercatore Responsabile di 6 progetti scientifici nell`area di Salute e Co-ricertarore di 5 di più. I finanziamenti per lo sviluppo delle linee di ricerca a mio carico proven-gono principalmente dal Fondo Nazionale di Ricerca Scientifica e Tecnologia (FONACIT) e da Accor-di di Cooperazione Internazionale con laboratori e Istituti di ricerca degli Stati Uniti e con l`Università degli Studi di Milano

Tu scrivi con frequenza articoli per riviste scientifiche nazion-ali e internazionali. Me ne puoi menzionare qualcuna?Sono state circa 40 publicazioni. Le più importanti sono:International Archives of Allergy and Applied Inmmunology 1985 (Svizzera)Acta Tropica l994 (Svizzera)Journal of Chemotherapy. 1995 (Ita-lia)Internationl Proceeding Division Monduzi Editore S.p.a. Mediomon-do 2000 ItaliaOral Pathology and Medicine 2001 e 2002 DanimarcaGynecology Oncology 2002 (USA)Journal of Medicine and Microbiol-ogy 2002 USAMemorias do Instituto Oswaldo Cruz 2003 BrasileOral Diseases 2004 Londra Inghil-terra

Raccontaci sul libro che hai scrit-to l`anno scorso. Di che tratta?Il libro che ho scritto assieme ad altri scientifici si intitola “La Trasformazione Genetica dell`Umanità- Giocare a Dio per raccogliere Potere”Tratta del Progetto Genoma Umano, visto come l`evento più trascendentale dei nostri tempi. Le sue implicazioni significano il ridimensionamento della storia

dell`umanità. Offre una visione integrale delle ripercussioni che in tutti gli ambiti della vita mod-erna avrà la chiamata Rivoluzi-one Genètica. Produce nel lettore le chiavi che gli permetteranno di capire come sarà il mondo grazie al maneggio del Codice Gènetico. Questa scoperta produrrà cambi nella medicina , nella predizione e cura del cancro, nel trapiantamento di organi , nei metodi terapeutici, nella diagnosi di malattie comuni. Inoltre metterà in rilievo i principi di bioètica coinvolte nella manipu-lazione del Genoma Umano.

Come puoi conciliare le tue radi-ci siciliani con la cultura venezo-lana?Penso che non è molto difficile conciliare i due mondi, giacché la cultura italiana (che ha come carat-teristica l´universalità, l´integrità e l´adattabilità) è stata uno dei fon-damenti della cultura occidentale. D`altra parte in Venezuela é esis-tito una profonda influenza italiana che possiamo osservare nella sua storia, nelle sue abitudini e nelle sue idiosincrasie. Per il fatto che é una delle regioni italiane a mag-giore influenza interculturale, i siciliani portiamo dentro alti livelli di tolleranza, adattabilità e senso della famiglia. Tutto questo ha permesso incorcoparci nella soci-età venezolana, che sempre è stata aperta, amabile , tollerante con gli stranieri.

Che influenze si possono ap-prezzare nel tuo lavoro, nelle tue opere che provengono dalla tua origine liminese?Le mie radici siciliane sono parte intrinsiche del mio comportamento e della mia attitudine di fronte alla vita e al prossimo. Sono caratteris-tiche che si acquisiscono nei primi anni della formazione e rimangono stampate come una traccia moleco-lare, anche se completati e model-lati dalla cultura venezuelana ac-quisita a partire dell`adolescenza, periodo essenziale nella formazi-one e nell´adulto futuro. Mi sono considerata sempre cittadina del Mondo, ma con una profonda ri-conoscenza verso le culture sicili-ana e venezuelana che sono state la base dei miei risultati e del mio pensiero umanitario universale.

L’INTERVISTA8LA VOCE di LiminaLA VOCE di Limina

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I tuoni dei bombardamenti arrivavano sordi nella valle di Portellarossa: Messina cadeva, moriva lontano da noi, oltre il

pizzo di Antillo, oltre le montagne di Fantina e di Novara; Sonnino ci indicava con il bastone puntato a sinistra dove, più o meno, moriva, mentre stava disteso sotto il ciliegio, come un lembo di terra incendiata su cui il fuoco non attaccherà più. Nessuna paura, la guerra era lontano, per noi ragazzi era una fiaba. Vicino a noi, a pochi passi, la prozia Maria Iacanedda e il marito Carminu Lapicchiu, ottuagenari, con la loro terra e due caselle, a sera ci raccontavano favole che non finivano mai: i grilli trillavano e rispondeva il lamento della civetta acquattata nel cavo del ciliegio. Le favole...: di quel marito che aveva chiuso in un grande sacco la moglie con il compare e li aveva fatti ruzzolare da un dirupo, per estinguere l’onta subita; dei briganti messi in fuga dal rumore strano causato dal vento che entrava in una grande brocca vuota abbandonata dai contadini. Mia madre il giorno cucinava all’aperto le fave, il frumento, in mancanza del riso: sistemava in un angolo della casella due grosse pietre disposte parallelamente con sopra la pentola di terracotta, priva di un manico, piena d’acqua. Dentro la luce delle grosse pietre appiccava il fuoco alle frasche. Noi osservavamo la madre con occhi afflitti in attesa che si cocesse la minestra di fave. Ma se eravamo petulanti e ci dicevamo brutte parole, lei, munendosi di un virgulto, ci faceva scappare. “Raccogliete un po’ di ginestra, un po’ di legna, lo volete messo in bocca il veleno.” Considerava così il mangiare. Sonnino, sotto il ciliegio, che fischiava “Pronta,

pronta la tradotta”, “Faccetta nera”. Era epico; non componeva canzoni in dialetto, ma ne custodiva tante nella memoria e che, pronunciando, le sentiva come una terapia alle offese subite; citava pure gli autori. Intanto la madre scodellava, porgeva a Sonnino una scodella di minestra, due più grandi le posava

davanti a noi seduti per terra. Lei si accontentava di quanto restava bruciacchiato in fondo alla pentola. Sonnino parlava ora con la moglie, tra un boccone e l’altro, gli occhi di entrambi erano rivolti alla chiusa sopra il greto. “Hanno mietuto bene” proferiva Sonnino. “E che montagna di grano” rispondeva mia madre, con la mano a solecchio. Poi un boccone e di nuovo: “E sì, hanno le mucche lì, le braccia forti, la terra è grassa. Qui da noi c’è stata la scomunica, nemmeno per le galline è buono il nostro” chiudeva Sonnino, posando il cucchiaio di legno nella scodella. Osservava le cose degli altri con buona invidia, le sue erano scarse, poiché non poteva difendersi e pure pagava con il sacchetto uomini e donne perché gli arassero, gli zappassero, gli mondassero.Ricordo Sonnino contento quando, alcuni anni prima della guerra, si mieteva bene e il danaro valeva qualcosa: un cappello di paglia gli copriva la testa ovale, un paio di occhiali scuri, le maniche della camicia a righe rimboccate sino al gomito, le bretelle che si incrociavano sulle larghe spalle e che reggevano un pantalone di vigogna, con una falce in mano e il bastone al braccio, chiamare, cantare. C’erano i fimmini e qualche babbeo che Sonnino ricompensava con alcune palanche e un pane. Noi figli stavamo dietro il tratto della radura mietuta, svelti per raccogliere spighe: mia madre avrebbe messo la saliva al naso a chi ne raccoglieva di meno, invece, a chi ne sapeva raccogliere di più avrebbe fatto una minnuzza con le nocciole sopra. Sonnino, girandosi, mi diceva: “Sai fare il mannello, vieni che te lo insegno.”

PortellarossaSebastiano Saglimbeni

LA LA VOCE DI LIMINA

CULTURALA VOCE di Limina

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“A me, a me”, dicevano le sorelle”. “No, prima a lui” rispondeva il padre, privilegiando il suo erede. Mia madre ora mi chiamava ché le donne reclamavano: “Acqua, acqua!” Provavo sollievo immenso ed era un pretesto per sfuggire alla canicola. Scappavo con il recipiente di terracotta, ‘u bumbulu, per riempirlo alla Acque del Noce o alle Acque di Don Miciu. Nell’indugio volontario di cui inventavo motivi alla madre che mi correva dietro per colpirmi con una ferula, cercavo nidi di tortore o espropriavo nespole tardive: ovunque era mio e nessuno si sarebbe accorto di una saetta che passava: gliela facevo sotto il naso ai padroni, miei parenti vicini e lontani. Che c’erano lì a lavorare. Di qui la mia libertà: non ne volevo sapere di capre e di asine e della terra gibbosa che affrontavamo e ci seppelliva in cambio. Io feci resistenza alla terra per alcuni anni, anche quando Sonnino si era deciso a farmi proseguire gli studi. E fui acquaiolo, guardiano della crapa e dell’asina, mietitore per conto della Ditta Sonnino, che si faceva retribuire dal figlio il mantenimento agli studi con le giornate lavorative a Potellarossa e a Pomarazzo ed ero come gli altri uomini che lavoravano per Sonnino quando si abbattevano le querce e si facevano i pezzi da ardere, rendevo come loro ma senza paga. I miei rifiuti erano inutili. A parte la sensibilità nei confronti di Sonnino con mezza vita, ora perché non si trovava in giro al paese un cane disposto a lavorare nei campi, ero a diciotto anni ubbidiente, dopo che mia madre mentre crescevo mi aveva fatto scendere dal naso l’olio rosso ad ogni rifiuto. “Aiuta tuo padre ché ha mezza vita e non può difendersi” mi replicava, fattasi un pugno di nervi. La sede estiva di Sonnino era a Portellarossa, da dove, di tanto in tanto, si saliva a Mandrazzi per

raccogliere le nocciole, cadute al primo vento agostano; gli alberi li avremmo scossi nella prima decade di settembre per avere tutto il prodotto, ma c’erano i fagioli, le zucchine, i pomodori; questi interessavano a mia madre di più ché faceva la conserva. La ricordo curva sulle piante a togliere il frutto a forma di cuore e sorridente ora per la qualità, ora con il volto buio, perché erano colpiti da un male che lei chiamava “male di cagna” . Non seppi mai come in effetti si chiamasse quel male che colpiva i pomodori. Perché mia madre quando la facevo arrabbiare, mi augurava: “Male di cagna che ti acchiappi, assassino!” Sudava, si disperava, ed io, fattomi paura, fuggivo come un leprotto, li avanzavo sempre. Sonnino adoperava un lessico, invece, moderato, prometteva, manteneva poco, come la sua terra; la sua bontà, a volte, triste, l’impressione di vederci il naso scolare, ci aveva sollevato da ogni timore.Buona parte del tempo della guerra e della Resistenza trascorsero tra Portellarossa e Mandrazzi. I partigiani, un nome che sentimmo per la prima volta, erano mostri. Tali li andavano descrivendo i rottami del ventennio fascista. Non sapevamo nulla, inconsci come eravamo nel paese i ragazzi e pure gli anziani dei nuovi equilibri nel mondo. Chi sapeva qualcosa era Sonnino, ma era pure lui come tanti preso da quel ventennio retorico e dittatoriale. E diceva che le capre ora non si potevano lasciare più fuori legati come quando c’era il Duce che comandava. Le sue lamentele si accentuarono dopo che gli avevano rubato la capra che egli allevava per la famiglia, per il vero latte: ricordo le lacrime e i sospiri di mia madre al focolaio in inverno e le nuove nel paese sui furti di capi di bestiame. Sonnino aveva ragione che dopo la neve si sarebbero visti i buchi e, dopo la guerra, sarebbero aumentati la

fame e i ladri. Il ladro della capra era vicino e lui lo sapeva, ma non poteva dire nulla al comandante dei carabinieri. “Ma ad uomo senza gambe non dovevano toccare la capra, non dovevano approfittare”, si limitava a dire, mentre era divorato da una tosse secca che si era portata dalla trincea sino alla tomba. Poi faceva la sua politica che frammentariamente trattava e qualche volta dava un colpo al Duce, quando pensava all’avvocato Francesco Lo Sardo, che aiutava gli invalidi di guerra, i deboli, ed era morto in carcere, perché si era opposto al regime fascista. Ed andava esclamando a Portellarossa: “Bene ci sta!” E di rimando, mia madre: “Prima gli dovevano sparare!” Non so se il risentimento di lei, analfabeta com’era, fosse inconscio, nutrito da quello che alcuni compaesani clandestinamente diffondevano, o perché a suo modo aveva inteso subendo profondamente la brutta tragedia di quella guerra, i cui segni di un’altra guerra avevano scavato sulla vita offesa del marito Sonnino; confessava di non saper leggere e scrivere ma di capire quanto uno istruito. “Leggere e scrivere non so, ma sono il vostro dio”, una volta aveva risposto ad un notabile paesano che le aveva chiesto di svolgere lavori umili nella sua casa. Sonnino la derideva dicendole: “Che capisci tu di politica, tu che sai leggere nel piatto!” Sonnino, il mio caro padre Sonnino, era simpatico quando derideva la moglie, perché la derideva con certa grazia e ridendo. Ma lei si sentiva fortemente offesa. Quella offesa che Sonnino involontariamente le cagionava fu la mia fortuna, perché ella influì energicamente, combatté Sonnino ostinato perché si decidesse a farmi continuare gli studi, perché con pochi studi sarei rimasto con gli occhi chiusi.

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CULTURA

In tempi non molti lontani da noi la distinzione tra “alta” e “bassa” cultura era piuttosto netta: da una parte le “nobili espressioni del pensiero”, dall’altra parte i prodotti ritenuti

“rozzi” e “barbari” sol perché usciti dalla mente o dalle mani di genti “senza cultura e senza scuola”. A farne le spese erano soprattutto le tradizioni che, non dialettizzandosi col presente, erano considerate di nessun peso nell’esito educativo e, conseguentemente, nella formazione delle giovani generazioni. Una simile visione delle cose ben s’inquadrava nel pensiero idealistico che, ritenendo tutta la storia “storia contemporanea”, non riconosceva al passato nessuna validità, anzi si riteneva che la tradizione una qualche legittimità potesse trarla tutt’al più dal suo “farsi presente”.Da tutto questo nacque da noi l’«ideologia del piccone demolitore” che poi si risolse nella politica degli interventi incontrollati. A farne le spese furono in primo luogo proprio le tradizioni che vennero cancellate perché ingombranti. Eppure le leggi per salvaguardarle esistevano, a cominciare dalla Legge 457 tra le cui finalità c’era al primo posto la crescita della conoscenza del territorio nei suoi aspetti fisici, storici, economici e sociali da realizzare attraverso un’attività promozionale volta alla valorizzazione e alla razionale utilizzazione delle risorse ambientali esistenti.Quelli sono stati per Limina gli anni in cui il paese è venuto perdendo la fisionomia di “piccolo borgo storico”. In quegli anni, invece di trasformare l’esistente in relazione alle necessità emergenti, si è fatto di tutto per cancellare ogni traccia dell’antico tessuto urbano. Le Amministrazioni succedutesi nel paese, invece di ampliare l’orizzonte in relazione ai bisogni dei cittadini, anzi l’hanno ristretto al punto che il tessuto urbano è stato impietosamente

distrutto, cancellando qui una chiesa e più in là una casa, qui un palmento più in là un frantoio, qui una cantunèra [angolo] o una vanedda [vicolo], più in là un tratto di strada lastricato con pietra locale. A chi in quell’ambiente era nato e cresciuto venne improvvisamente a mancare un sistema semiotico fatto di tutti i “valori” che entrano nella costituzione di una cultura con la funzione di suscitare disposizioni valutative e contenuti emotivi di primaria importanza.Oggi quella Limina – la “vecchia Limina” - ce la possiamo guardare solo nelle foto d’epoca. Da ognuna di quelle foto salta fuori una realtà regolata da categorie tipologiche qualitativamente distinte per connotazioni urbanistiche, costruttive, funzionali. La Chiesa di S. Caterina, la Chiesa di S. Domenica, la Chiesa di S. Giovanni, la Chiesa S. Venera, il Convento francescano, il Frantoio del Signore, il Frantoio della Madonna delle Preghiere … Oggi ti guardi intorno e vedi solo case a più piani dai colori smaglianti, per non parlare dei marmi che, portati qui da chissà dove, in certi meriggi d’agosto ti accecano al punto che ti fanno chiudere gli occhi e per qualche attimo non sai se scendere verso Mònucu o salire verso Zòmunu. Dove sono andate a finire le immagini gravide di forza emotiva, modellate da sostanze fisiche come il legno e la pietra? Un passo dopo l’altro quelle immagini sono state sostituite con icone prive di rilevanza emotiva e affettiva. La realtà che le varie Amministrazioni ci hanno regalato non possiede organicità di affetti e di emozioni. Per fortuna ci sono rimaste le parole: armacìa [muro a secco], pàddhulu [ciottolo], cacasupàla [cacasiepe], matarùni [ghiandaia], cacciaventu [gheppio], chinteddècima [plenilunio], rummulìu [borbottio], fantàsimi [fantasmi], ùmmiri [ombre] sdirregnu. Lo sdirregnu, appunto: ossia l’annientamento, lo sfacelo, la strage.

Dove Parlano le ParoleGiuseppe Cavarra

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CULTURA

Le luci multicolori che cominciano a palpitare nelle vetrine dei negozi lungo il viale S. Martino a Messina dicono che il Natale è vicino. Il mio pensiero vola al borgo disteso ai piedi della Montagna Grande e ad un tempo in cui “la festa della Nascita Santa” si caratterizzava come vicenda appartenente più all’essere che alla storia.Il borgo al quale ci riferiamo è Lìmina, dove organizzeranno nella nebbia delle prime brume invernali la sagra (non si sa del biscotto o della mostarda) in cui la fetta di panettone e il bicchiere di spumante saranno chiamati ad unificare una molteplicità dispersa di significati, in modo da costituirli come progetto e interpretazione della realtà. A dominare la scena ci sarà il panettone che scende dal Nord come succedaneo della cuddhura (ciambella) con le mandorle e con le nocciole tostate; non mancherà lo spumante che arriva anch’esso dal Nord, come surrogato del buon vino rosso prodotto un tempo dai vigneti di Margi e di Cannati.La cuddhura e il buon vino rimandano ad un primum cui non è più possibile accedere. Il detto popolare Cannati quantità, Margi qualità rimanda ad un tempo in cui sulla collina il particolare non si era ancora appiattitoe onnilateralmente nel tutto e l’uomo faceva tutto da sé; oggi prima la fetta di panettone e il bicchiere di spumante sono segni che le categorie del pensiero e i ritmi della storia non procedono più di pari passo nemmeno sulla collina peloritana. Anche sulla collina il “tempo festivo” oggi si configura come espressione della lacerazione che impedisce di pensare ad un sistema senza fratture in cui ogni cosa abbia il suo posto e il pensiero si impadronisca dialetticamente delle vicende dando ad ognuna un senso e un nome. Il Natale ne è un esempio. Stiamo sempre più dimenticando che i referenti dell’immaginario vanno sempre meno collegati col vagheggiamento di una condizione in cui i rapporti sociali siano basati sulla pacificazione di tutti gli uomini e sui valori fondamentali della vita riconfermati dalla trasformazione delle forze negative in fattori capaci di garantire un assetto sociale fondato sulla prosperità e sull’inviolabilità della persona umana. In tale prospettiva, la nascita del Salvatore è vista come garanzia di un nuovo ordine, come un evento così grande che genera confusione il solo pensarvi. Se si pensa che il Natale deve ricordare agli uomini di buona volontà l’apparizione nella storia di un uomo destinato a cambiare il corso della storia, la nascita del rifondatore dell’esistenza umana in una mangiatoia è di per sé un fatto rivoluzionario, un esempio di mondo rovesciato. La grandezza appartiene solo a Lui; di conseguenza le gioie che lui può dare può conoscerle solo chi trova in sé la forza di anteporre al soverchio amore di sé l’amore del prossimo. Di tutto questo nel nostro Natale è rimasto ben poco: i “riti” che lo caratterizzano recano piuttosto a tutte

le latitudini i segni delle ferite che la storia continua ad infliggere impietosamente all’essere. Per fortuna c’è la memoria che consente all’uomo di pensare l’essere nella condizione della lontananza. Solo questo può dare un senso anche a ciò che non c’è più.Da questo stato d’animo affiorano i versi che seguono. Essi nascono dalla consapevolezza che il nostro è il tempo in cui la “festa” si caratterizza come istituzione evasionistica, come avvenimento in cui a prevalere sono quasi esclusivamente le leggi socio- economiche dettate dal consumismo. Per fortuna c’è la memoria che supplisce almeno provvisoriamente agli orizzonti assenti. E la poesia è memoria prima di ogni altra cosa.

Il Nostro NataleGiuseppe Cavarra

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CULTURA

I Cognomi Liminesi(A-C)

Dedico questi miei versi ai liminesi sparsi per il mondo, augurando loro un sereno Natale e un altrettanto sereno Anno Nuovo. Il dialetto in cui i versi sono stesi è da considerare come segno di una cultura che può aiutarci a rimanere ancorati ad un primum che dia un qualche valore a ciò che nella vita dell’uomo ha veramente significa veramente qualcosa.

Sira di Natali

U ventu si zittìu e ora ntô sa lettudormi a sonnu chinu.L’anciuleddhu batti ntô tammurue i fantàsimi si svìgghiunu si ìsunusi strìcunu l’occhisi pìgghiunu pâ mani e puru senza musicasi mèntunu a ballari.

Chista era a sira dû Misìa.Jeu llargu i naschi cchiù ca pozzue m’i ìnchiu dî tridici pitanzica i fìmmini dâ famìgghia mintìumu cu mastrìasupra dâ buffetta ntâ casa dû Puntali:piscistoccu a ghiottabrucculeddhi ntô tianupatateddhi novi cacciòfiddhi chini

castagni tturratificasicchi nfurnatipartualli cû pidicuddhu mannarini câ fògghjasorbi mastrazzolanuci mènnuli e nuciddhi.

I pitanzi na vota èrunu chìnnici.Nta storia ca cuntava cummari Catarinac’èrunu puru ddu puma gintili.Chiddhi a Madonnna e u Bamminu cci purtàru a San Bastianu quann’era malatu.

Sera di Natale – Il vento si è zittito e ora nel suo letto / dorme a sonno pieno. / L’angioletto batte sul tamburo. / e i fantasmi si svegliano / si levano in piedi / si stropicciano gli occhi / si prendono per la mano / e anche senza musica / si mettono a danzare. // Questa era la sera del Messia. / Io allargo le narici più che posso / e me le riempio delle tredici pietanze / che le donne della famiglia /ponevamo con maestria / sulla tavola nella casa del Puntale: / stoccafisso a ghiotta, / broccoletti nel tegame, / patatine nuove, / carciofi ripieni, / caldarroste, / fichi secchi passati al forno, / arance col picciolo, / mandarini con la foglia, / sorbe, mostaccioli / noci mandorle e nocciole. // Le pietanze una volta erano quindici. / Nella storia che raccontava comare Caterina / c’erano pure due mele gentili. / Quelle la Madonna e il Bambino / le portarono a S. Sebastiano quand’era malato.

*Alibrandi: dal lat. Alibrandus, derivante a sua volta dal germanico Aliprand.*Ardizzone: dal francese hard “filo ritorto”. È un toponimo.*Barra: dal catalano barra “cinta daziaria”.*Bartolone: accrescitivo di Bartolo che è un toponimo.*Bartolotta: femminile di Bartolotto, diminutivo di Bartolo che è un toponimo.*Brancato: dal tardo latino branca “zampa”. È un toponimo.*Bucolo: dal greco boúkolos “mandriano”. È un toponimo.*Cacciola: diminutivo di caccia “caccia”. È un toponimo.*Calabrò: dal greco kólabros “dileggio”. È un toponimo.*Caminiti: diminutivo del greco káminos “fornace”.*Campagna: dal tardo-latino campania, derivante da campus “campo”. È un toponimo.*Campo: dal latino campus “campo”. È un toponimo.

*Cannavò: dal greco kannabós “che ha il colore della canapa”, “grigio”. È un toponimo.*Carnabuci: dal sic. antico carnabbùci “trifoglio giallo”.*Casablanca: dal catalano casa blanca “casa bianca”. È un toponimo.*Cavarra: dal latino cavària “contrada di cave”. È un toponimo. Porta questo nome una contrada tra Pachino e Pozzallo, in provincia di Ragusa.*Chillemi: dall’arabo kalìm-Allah “interlocutore di Allah”.*Coglitore: dal sic. Cugghituri che indica chi segue i mietitori e raccoglie i mannelli, legandoli per farne covoni.*Correnti: plurale di currenti “che corre”, “corsiero”. È un toponimo.*Costa: dal greco Kónstans “Costante”. È un nome proprio.Cuglituri, v. Coglitore.

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Poeti Liminesi14

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