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Carmen Einfinger, My head, 2009 - acrilico su tela, cm 96x236

CARMEN EINFINGER – Testi critici Valerio Dehò e Sara Ugolini

Pittura espansa

E’ difficile confinare la pittura dell’artista anglo-americana semplicemente alla stessa tecnica in quanto il suo lavoro consiste al contrario nel dipingere cose e spazi normalmente estranei all’arte. Anzi il suo scopo principale consiste proprio nel portare il colore, con la sua energia e la sua allegria, in luoghi distanti come se si trattasse di una missione di pace. Così sia le uniformi delle studentesse cinesi (“Wild Girls” al NY Arts Beijing Gallery, 2006-2007 ) che i vestiti scuri dei CEO di importanti compagnie ("seeCEOseen", presentata alla galleria Broadway a New York, 2007), invece che essere segni di un essere uniformi e uniformati agli standard imposti, sono stati in diverse performance dell’artista decorati con i sui segni e i suoi colori. Per la Einfinger è importante portare questo messaggio nel mondo, rendere individuale ciò che invece è solo conformismo. La sua pittura quindi va letta in chiave di questo potere che viene attribuito alla pittura di alleviare le coscienze, di creare felicità, di portare il colore e la vita laddove questi vengono negati o messi da parte.Dal punto di vista stilistico la memoria dell’arte va indietro alle esperienze di Matisse e dei fauves, ma con un’aggressività limitata e un segno più marcato. Prevale invece il colore piatto quasi senza volume, ma la stessa artista sembra di poter passare dalla figurazione all’astratto a secondo delle occasioni e dei progetti. In effetti, non è tanto la ricerca di uno stile particolare e sempre riconoscibile a interessarla, quanto a riprendere dalle avanguardie storiche l’idea che

arte e vita sono i due lati della stessa medaglia. Vi è in lei anche un pattern etnico, una ricerca che nell’astrazione rivela un effetto di decorazione ricco e piacevole. Carmen Einfinger cerca poi sempre di riportare le sue azioni, i suoi interventi artistici, alle proprie personali esperienze in giro per il mondo, in un tentativo riuscito di mettere insieme interno ed esterno, forma e contenuto, abilità del dipingere ed espansione di questa pratica agli oggetti meno convenzionali e ai luoghi non deputati all’arte.

Valerio Dehò

Guardare dentro

In My head di Carmen Einfinger una sostanza prende forma sviluppandosi orizzontalmente, consolidandosi in geometrie curve e rette, in superfici frastagliate e profili netti. L’opera ha l’impatto di un arazzo, un manufatto tessile proveniente da qualche cultura extraeuropea.La Einfinger sembra trascrivere un flusso mentale ma allo stesso tempo My head ha qualcosa di una materia organica, distesa, srotolata su una superficie piana. Un’altra opera in mostra supporta questa ipotesi. Il lavoro si intitola Inner machine e nell’insieme ha un aspetto più visibilmente antropomorfo rispetto al precedente. In alto a sinistra una forma tridimensionale tagliata in sezione sagittale prefigura l’operazione di svelamento dell’interno che si materializza al centro. Occupano infatti la scena una testa, due braccia e poi insenature, canali, anfratti, forme lobate, i ventricoli del cuore resi attraverso due contenitori-cisterne, fasci di muscoli del bicipite che prendono la forma di petali che si flettono. Certo sono morfologie schematiche ma di simili anatomie fantastiche, funzionali più all’estro dell’artista che alla leggibilità del dato corporeo, la storia dell’illustrazione anatomica, prima ancora dell’arte, è ricchissima. Questo non significa che l’artista intenda misurarsi, programmaticamente, con un certo immaginario scientifico o artistico collegato al corpo. Non è il De Humani Corporis Fabrica di Vesalio ad ispirarla e nemmeno le anatomie nude e crude di contemporanei come Damien Hirst. Piuttosto, viene da dire, la Einfinger dà forma, attraverso i suoi lavori, ad una percezione profonda e il processo artistico si trasforma in un esercizio meditativo, una pratica di sintonizzazione con i ritmi fisiologici e le fluttuazioni interne.

Ma nel guardare dentro a cui allude un altro lavoro in mostra, è sempre implicito, oltre ad una penetrazione della dimensione fisica, un impegnativo percorso di conoscenza spirituale, che appartiene tanto alle tecniche di ascolto del corpo quanto, meno prevedibilmente, alla pratica settoria. Non è un caso che a siglare le dissezioni nei teatri anatomici e i frontespizi dei trattati medici moderni fosse, significativamente, il motto delfico conosci te stesso, un’esortazione a esplorare il proprio essere, la propria dimensione mentale in virtù, e anche al di là, di ciò che il corpo aperto rivela.È poi vero che se da tutt’altro versante le raffigurazioni astratte della Einfinger ricordano, in particolare, i manufatti a colori vivaci di Australia e Oceania, proprio nell’arte aborigena è frequente incontrare, tanto da costituire un stile autonomo, figure “trasparenti”, che mostrano gli organi interni, come scansionate ai raggi x. E con queste forme artistiche è possibile stabilire un ulteriore punto di contatto, perché se l’artista, nelle sue performances, non esita a trasferire le sue raffigurazioni astratte sugli abiti e sui volti, per complessi motivi religiosi e cerimoniali la pittura aborigena fa del corpo uno dei suoi principali supporti. Tra i dipinti astratti della Einfinger colpisce, in particolare, un’opera del 2008 intitolata The Dream. Sappiamo che l’esperienza onirica ha un ruolo centrale nella psicoanalisi e che i suoi meccanismi si mostrano non troppo dissimili da quelli del processo creativo, ma presso altre culture – e torniamo agli aborigeni australiani – il sogno, o meglio the Dreamtime, è uno stato pregnante, che ha a che fare con la natura del mondo. Con esso si indica infatti l’influenza permanente esercitata sulla realtà da esseri mitici e un potere spirituale, uno stato di connessione con il passato ancestrale che la pratica artistica si assume il compito di descrivere. Come nel caso dell’arte etnica anche la Einfinger, nel corso del suo viaggio interiore, si

imbatte in miti cosmogonici. Sono universi popolati di personaggi e funzioni archetipiche, che condensano organico e psichico, passato e presente, memorie private e modelli universali. In questo senso dobbiamo interpretare le opere in mostra, sia The King che Nurture. Mentre la prima allude ad una figura-chiave in ogni leggenda delle origini, organo depositario di un ordine primordiale, la seconda – traduzione del verbo allevare, crescere, nutrire – ci parla di un’azione indispensabile una volta avviato qualsiasi processo vitale.

Sara Ugolini

Gilberto Giovagnoli, Ferdinand Celine, 2010 - pennarelli e penne colorate su carta, cm 180x110 - dettaglio

GILBERTO GIOVAGNOLI – Testi critici di Valerio Dehò e Sara Ugolini

Chaos e dintorni

Il lavoro di Giovagnoli negli anni sta diventando sempre più definito e l’artista si concede perfino delle serie di ritratti in fondo semi-convenzionali, anche se non certo agiografici. Ma diamo per scontata l’apparenza e in fondo si tratta di testimonianze d’affetto, di ricordi, di appunti che nella poetica del sammarinese significano apprezzamento o in qualche modo un affetto lontano a distanza, come un adozione depurata da effluvi e sudori. I ritratti sono la parte più diretta di una serie di testimonianze che hanno a che fare con il mondo dell’arte. Non solo la cara e amata letteratura di Giovagnoli, su tutti Céline e Artaud, ma anche il mondo dell’arte, sempre variegato e naturalmente internazionale. Invece nelle grandi tecniche miste, sempre biro colorate e nastri adesivi vari, appare quel brulichio che tanto si ama e apprezza in lui, quella congerie di segni che si accavallano quasi a “fottersi” l’uno con l’altro, un posto della scena. La “plastica” ricopre e non cela, amplifica e rivela la condizione della sua arte. L’artista conosce l’eccesso e lo pratica, in fondo il “parlato” di Céline con tutte le sue ridondanze e onomatopee, le sue parolacce, le sue cadute e impennate, ha una forma visiva che è compiuta e aperta. Il gigantesco va di pari passo con il lillipuziano, il frammento con il tutto, la pazienza con la velocità. Giovagnoli è critico e basta, non gli stanno bene tantissime cose come ad altri ma a lui queste cose non vanno bene tutte insieme, non una alla volta.

Scrive e disegna come fossero una cosa sola, scrive e graffia e scava e traccia un universo caotico che solo un autentico outsider sa popolare. Bagatelle per un massacro, un almanacco di mutazioni e bestemmie, di sessi vaganti e d’illogica della ragion pura. Tutto oscilla come un banano al vento dei tropici, ma Giovagnoli nella sua critica alla nostra società ha il punto di vista di chi sta fuori, senza alcuna nostalgia di starsene dentro. O forse no. Dà prova di voler dare il suo contributo al mondo che ci appartiene e a cui appartiene, perché sa che una verità ci deve pur essere da qualche parte e che lo spettacolo dovrà pur terminare per non ricominciare mai più.

Valerio Dehò

Sui palinsesti

Gilberto Giovagnoli lavora sulle superfici. Presenti in mostra sono un disegno in grandi dimensioni e quattro sequenze, ciascuna formata da più immagini racchiuse in un pannello unico: i ritratti di personaggi che potremmo dire “maledetti” per indole, destino, tipo di riflessione intellettuale o produzione creativa; i ritratti di artisti contemporanei, la serie su Franz Kafka e Andy Warhol e quella dedicata allo scrittore Céline.La carta in grandi dimensioni è disseminata di motivi astratti, geometrie colorate, figure scarabocchiate a biro e titoli di scritti di Cesare Lombroso, padre dell’antropologia criminale: Genio e follia, La donna delinquente… Le allusioni esplicite a Lombroso pongono l’opera in una posizione ambigua: da un lato siamo spinti a immaginarla, per associazione di idee, come uno dei tanti “palinsesti del carcere” indagati dallo scienziato torinese. E a tutti gli effetti l’opera ha l’aspetto consunto di un patchwork di vecchi scampoli di tessuto ricamati con minuzia o di un vecchio muro inciso per anni da qualche anonimo recluso. D’altro lato, il lavoro di Giovagnoli, attraverso i rimandi a Lombroso, assume un valore diverso e più aderente al significato originario di “palinsesto”. Non solo perché i titoli lombrosiani riscrivono il supporto, aggiungendosi ad una serie di interventi grafici compiuti in precedenza, ma perché a segni apparentemente più spontanei, immediati e non culturali si sovrappone ora un’iscrizione erudita, come del resto colto e dottrinale era il contenuto dei palinsesti antichi. Sottilmente perturbante è invece la serie di ritratti accompagnati dall’indicazione dei nomi tramite iniziali puntate. Le fisionomie di Adriana Faranda, Robert Mapplethorpe, Michel Foucault si alternano ai visi di Sylvie Lubamba e Unabomber. Scorrendoli, è probabile che

l’osservatore riconosca alcuni dei personaggi. Rimane che il diverso grado di notorietà dei ritrattati, la varietà delle professioni, rende complesso individuare qualche legame tra i soggetti, qualche criterio di identificazione. Giovagnoli rifiuta il principio che muoveva all’allestimento delle gallerie ottocentesche degli uomini illustri, individui immortalati per meriti ufficialmente riconosciuti in ambito politico, sportivo o artistico, per radunare i personaggi in base ad un vissuto o inclinazione coincidente con una certa “irregolarità” nel pensiero o nelle azioni. Viene in mente, di nuovo, la scuola positivista di Cesare Lombroso, intento ad assemblare pile di immagini di criminali e alienati, personaggi accomunati da una vita ai margini. A muovere gli scienziati ottocenteschi nel collezionare repertori di fisionomie umane, fotografie e calchi, l’intento di verificare l’esistenza di un tratto fisico comune e corrispondente alla degenerazione morale. Sappiamo che si tratta di una pratica obsoleta, già ampiamente smentita, ma in fondo è un pregiudizio che adottiamo anche noi di fronte ai ritratti di Giovagnoli, spingendoci ad indagare i volti per scovarne qualche segno dell’interiorità, per rassicurarci che se un individuo è malvagio o al contrario angelico la faccia lo riveli.I ritratti degli artisti, in cui nomi e cognomi compaiono per esteso, agevolando il riconoscimento, sono, prima di tutto, un omaggio di Giovagnoli ai colleghi più amati. Di questa sequenza di ritratti si possono individuare molteplici precedenti iconografici: le incisioni che accompagnavano le raccolte di biografie di artisti, le Vite di Vasari ad esempio, ma anche – se vogliamo unire cultura alta e popolare come piace a Giovagnoli – gli album di figurine degli idoli. E anche un’inferenza lombrosiana, al di là di tutto, non è fuori contesto, perché i ritrattati manifestano nuovamente un vizio condiviso, cioè l’ossessione,

l’invischiamento con le immagini. Mania, questa, che d’altronde è presente anche in Warhol e Kafka. Con la differenza che se nel primo tale impulso è conclamato, nel secondo – mosso da un interesse quasi feticistico per le fotografie e occasionalmente anche disegnatore – espresso con maggior discrezione. Ed è proprio il volto, riprodotto o dal vivo, a porsi, sia in Warhol che in Kafka, come polo d’attrazione privilegiato: entrambi turbati di fronte al proprio viso, entrambi affascinati dal ritratto degli altri.Delle superfici fisiognomiche, si aggiunge, la maggior attrattiva risiede nell’essere il fulcro di un doppio movimento, quello che compiamo noi analizzando l’epidermide alla ricerca della sfera interiore e quello che fa il volto stesso rivolgendosi all’esterno, perchè etimologicamente il viso è collegato alla vista e allo sguardo, dunque è ciò che è visto e ciò che, allo stesso tempo, vede. Così, mentre fissiamo le sottili variazioni dei visi di Warhol, Kafka e degli altri soggetti di Giovagnoli, essi a loro volta ci sbirciano, ci guardano di sottecchi oppure direttamente, senza esitazione. Un moto contrario si instaura poi tra i visi, che abbiamo detto possiedono uno sguardo che interpella l’altro proiettandosi all’esterno, e la ritrattistica in quanto genere artistico tradizionalmente vincolato agli interni, agli spazi privati e alla fruizione ristretta. Questa dialettica tra il dentro e il fuori che investe il ritratto, tocca infine anche il tema della mostra: Guest, cioè l’ospite, e quindi, necessariamente, le dinamiche attivate tra le parti coinvolte nell’ospitalità. Commentando la rilettura di Flaubert della storia di san Giuliano l’Ospitaliere, Shoshana Felman mette in luce un tratto illuminante dell’accoglienza: “la posta in gioco dell’ospitalità non è […] semplicemente di accogliere lo straniero – l’esterno – all’interno, ma di sovvertire radicalmente il limite che li distingue l’uno dall’altro: di scoprire che l’esterno è

già dentro, ma che il dentro è esterno a lui stesso”. Come dire che l’ospitalità non implica solo l’incontro con le caratteristiche che l’altro rivela ma il riconoscimento dei moti centrifughi che attraversano anche la propria identità e creatività individuale.

Sara Ugolini