Progetto editoriale - SEI Editrice · I percorsi documentali e storiografici non hanno...

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Progetto editoriale: Giancarlo QuadriRedazione: Studio Kalamos di Claudio Cristiani, MilanoCoordinamento tecnico-grafico: Michele PomponioProgetto e revisione grafica: Gherardo di Lenna, M3P, MilanoImpaginazione: Gherardo di Lenna, M3P, MilanoCopertina: Piergiuseppe Anselmo

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Prima edizione: 2012

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Tutti i diritti sono riservati. È vietata la riproduzione dell’opera o di parti di essa con qualsiasi mezzo, compresa stampa, copia fotostatica, microfilm e memorizzazione elettronica, se non espressamente autorizzata per iscritto.Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.

Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, Milano 20122, email [email protected] e sito web www.aidro.orgL’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare errori di attribuzione o eventuali omissioni sui detentori di diritto di copyright non potuti reperire.

Litho 2000 - Borgo S. Dalmazzo (CN)

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Presentazione

La scelta di proporre questo volume, intitolato Documenti e Storiografia, nasce come risposta all’esigenza e dalla necessità, sempre più avvertita e peraltro ribadita da numerosi documenti ufficiali, di avvicinare gli studenti, e di sostanziare l’insegnamento della storia, con attività volte alla valutazione di vari tipi di fonti, alla lettura dei documenti storici, al confronto di varie tesi interpretative, anche fra loro contrastanti. In tal modo è possibile anche ricostruire il filo del racconto storico nella sua complessità ma anche fecondità di prospettive, nell’intreccio dei punti di vista che ne costituiscono la perenne vitalità.

Si tratta di una raccolta di fonti documentali e di testi storiografici tra i più autorevoli: uno strumento utile sia per l’approfondimento personale dello studio della storia, sia per l’insegnamento, perché integra in modo significativo la dotazione già molto articolata dei corsi presenti nel catalogo SEI.

L’antologia comprende circa 380 brani ed è organizzata in 11 percorsi tematici di carattere generale, ciascuno dei quali attraversa in maniera trasversale tutto l’arco storico previsto dai programmi.

I percorsi consentono un contatto diretto sia con i documenti – “materia prima” fondamentale nello studio e nella conoscenza della storia –, sia con i risultati del lavoro storiografico, necessario per la comprensione degli eventi e delle dinamiche che hanno segnato la storia.

I percorsi documentali e storiografici non hanno l’ambizione di rappresentare l’inesauribile ricchezza della riflessione storica: molti altri temi, documenti, testimonianze storiografiche potrebbero venire suggeriti ed esplorati. In queste pagine, semplicemente, si propongono degli esempi, che, tra l’altro, possono anche offrire spunti concreti e significativi per il saggio breve dell’esame di Stato previsto dagli attuali ordinamenti.

Ciascun testo, quindi, può essere un’occasione per stimolare confronti, per sollecitare l’attenzione dello studente verso aspetti interpretativi originali, suscitare curiosità e favorire la ricerca personale.

L’Editore

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Storia e pensiero politico

DocumentiJ. Bodin, Sovranità e giuramenti 2A. du Plessis de Richelieu, Testamento politico 3N. Machiavelli, Ritratto di un Signore: Cosimo de’ Medici 4C. Porzio, Congiure e crisi morali 4T. Hobbes, La genesi dello Stato e del potere 5J. Locke, I diritti dell’uomo all’interno dello Stato 6C.L. de Montesquieu, La divisione dei poteri 6J.-J. Rousseau, Il patto sociale 7P.H. d’Holbach, Il potere tirannico 7J. de Maistre, L’infallibilità del potere 8K. Marx e F. Engels, Borghesia e proletariato 9M. Bakunin, Contro lo Stato 9D. Grandi, Origini e missione del fascismo 10G. Gentile, Definizione del fascismo 11F. von Papen, L’ascesa del nazismo 11R. Luxemburg, L’esempio dei bolscevichi 12I.V. Stalin, Unità del partito ed epurazione

degli opportunisti 12L. Trotzkij, La rivoluzione permanente 13N. Chruscëv, Rapporto al XX Congresso del PCUS 13Mao Tse-tung, La dittatura democratica popolare 14A. Dubcek, La primavera di Praga 15A. Solzenitzyn, L’Arcipelago Gulag 16M. Gorbacëv, La perestrojka 16

StoriografiaF. Chabod, L’imitazione dell’antica Roma 18A. Gallotta, Conversioni e ordinamenti politici

nell’Impero turco 18I. Mineo, La decadenza degli Stati italiani 19A. Martelli, L’attacco contro l’Inghilterra: gli obiettivi

di Filippo II 20Q. Skinner, La posizione politica di Jean Bodin 22E. Hinrichs, I meccanismi del regime democratico

nell’epoca preindustriale 23M. Bloch, La regalità sacra e taumaturgica 23G. Barraclough, La nascita della democrazia moderna 24

J.J. Chevallier, L’origine dello Stato secondo Hobbes 25J.J. Chevallier, L’origine dello Stato secondo Locke 25I Berlin, Ambiguità del pensiero politico di Rousseau 26P. Pombeni, Assolutismo e costituzionalismo 27G. Cotroneo, Tra Settecento e Ottocento: il liberalismo 28E. Gellner, Cos’è il nazionalismo 29M. Guasco, Il cattolicesimo politico nel primo Ottocento 30A. Zanardo, Marx e il marxismo 31G.L. Mosse, Il darwinismo sociale in Germania 32J. Neubauer, La parabola del movimento giovanile:

dalla trasgressione al nazionalismo 33N. Bobbio, Le posizioni teoriche dei nazionalisti italiani 34N. Werth, Le aspettative del febbraio 1917 34E. Gentile, L’organizzazione delle masse

nel regime fascista 35G.L. Mosse, La liturgia nazista 36M.L. Salvadori, Stalin e la “rivoluzione dall’alto” 37R. Service, L’URSS brezneviana 38G. Boffa, Il programma riformista di Michail Gorbacëv 38G. Miccoli, Lo scontro ideologico tra cattolicesimo

e comunismo 40L. Karpinskij, Le contraddizioni della perestrojka 41O. Sanguigni, Vladimir Putin e la nuova politica estera

della Russia 42

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Storia ed economia

DocumentiJ. Froissart, La jacquerie del 1358 44C. Tarello, Vantaggi della rotazione triennale 45Bernardino da Siena, L’inferno attende l’usuraio 46G. Calvino, A giustificazione del prestito a interesse 46B. Franklin, Ricercare il guadagno 47A. Smith, La divisione del lavoro 48T.R. Malthus, Popolazione e risorse 48N. Palmieri e R.B. Smith, Gli squilibri dell’agricoltura

italiana di metà Ottocento 49K. Marx, La forza lavoro come merce 50H. Ford, Produzione e occupazione nell’impresa 51

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F.W. Taylor, Le basi dell’organizzazione scientifica del lavoro 51

J.M. Keynes, Dal laissez-faire a un “socialismo liberale” 52F.D. Roosevelt, Il New Deal 53J.A. Schumpeter, Il processo capitalistico 53G. Marshall, La ricostruzione dell’Europa 54F. von Hayek, Contro l’idea della “giustizia sociale” 55

StoriografiaR.S. Lopez, L’industria tessile nel tardo Medioevo 56J. Le Goff, Mestieri leciti e illeciti 56C. Vivanti, Gli inizi della rivolta dei ciompi 57V. Rutenberg, L’involuzione del sistema

corporativo 58L. White, Lo sviluppo tecnologico medievale 59J. Le Goff, I limiti della tecnica medievale 60D. Balestracci, I limiti della fioritura economica

nei secoli XV e XVI 60P. Malanima, Le conseguenze dell’arrivo di oro

e argento americani 61R.K. Massie, Modernizzare la Russia: l’opera di Pietro

il Grande 63R.A.C. Parker, Le enclosures nell’Inghilterra

del XVIII secolo 63T.S. Ashton, I vantaggi della rivoluzione

industriale 64E.J. Hobsbawm, Gli svantaggi della rivoluzione

industriale 65J.K. Galbraith, Il pensiero economico di Adam Smith 65F. Furet, Le incoerenze della borghesia 66G. Procacci, Il XVIII secolo e il mutamento

dell’economia in Italia 67P. Ciocca, L’economia del Novecento 67C. Seton-Watson, L’Italia meridionale all’inizio

del Novecento 68W.H. McNeill, La produzione industriale in Francia

e in Germania durante la Grande guerra 69I. Kershaw, Politica ed economia nel Terzo Reich 70H. Dippel, Il New Deal di Roosevelt 71D.H. Aldcroft, Realtà e squilibri nelle economie

socialiste 72L. Maugeri, Economia e petrolio 72M. Sepi, Nord e Sud del mondo, cooperazione e debito 73E. Galeano, Lo sfruttamento economico

dell’America Latina 73F. Gatti, Il modello economico giapponese 74A. Giovagnoli, Globalizzazione e mutamenti 75O. Shenkar, La Cina nell’economia globale 76

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Storia e società

DocumentiU. von Hutten, Le gioie della vita di castello 78G. Boccaccio, I pericoli della quotidianità 79P. Bracciolini, Le terme di Baden 79E. da Rotterdam, Le buone maniere a tavola 80G. della Casa, Il cerimoniale dei rapporti sociali 80Prescrizioni tridentine in materia di matrimoni 81L. de Saint-Simon, I balli a corte 81Editto di reclusione dei mendicanti 82C. Goldoni, Nascite, morti e matrimoni

alla corte francese 83C. Cattaneo, Osservazioni sulla vita contadina 83Esercitare il controllo: la polizia 84A. Fabian, Da un registro scolastico inglese 84Statuto dell’Associazione internazionale degli operai 85T. Sarvia, La vita contadina 86Manifesto del Maggio francese 86F. Bagozzi, Inchiesta sul consumo di droga 87

StoriografiaM. Montanari, Le spezie nella cucina medievale 89J. Le Goff, L’appropriazione del tempo da parte

dei mercanti 90W.H. McNeill, L’impatto delle malattie europee

sulle popolazioni del nuovo mondo 91H. Kamen, Povertà e vagabondaggio nel Cinquecento 91P. Laslett, Giovani e matrimonio in Inghilterra 92N. Elias, Epifanie della forchetta 93G. Poggi, Il re e la nobiltà 94P. Murialdi, Giornalisti e gazzette dall’assolutismo

alla rivoluzione 95D. Julia, L’educazione d’élite nel XVIII secolo 96L. Del Panta, Lo sviluppo demografico in Italia dal 1750

a fine Ottocento 96G. Candeloro, Evitare il controllo: le società segrete 97H. Heaton, Lavoro e quotidianità nelle città

della rivoluzione industriale 98L. Scaraffia, La famiglia borghese nell’Italia

dell’Ottocento 99C. Leccardi, I giovani tra gli anni Quaranta e Cinquanta 99F. Denti e F. Saulini, Teen-ager, drive-in e rock’n’roll 100E. Foner, Le trasformazioni sociali negli anni Sessanta

e Settanta 101P. Ortoleva, I giovani e il Sessantotto 101E.J. Hobsbawm, La protesta studentesca del 1968 102

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U. Galimberti, La rivoluzione del costume alla fine del XX secolo 103

G. Garelli, Giovani e tempo libero 104

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Religione e religioni

DocumentiRodolfo il Glabro, Il primo rogo di eretici: i canonici

di Orléans 106S. Castellione, La tolleranza degli eretici 106J. Sprenger e H. Institoris, Il martello dei malefici 107P. Piperno, Storie di streghe 108M. Lutero, La sola fede 109P. Sarpi, I limiti del concilio tridentino 110J. Locke, Lettera sulla tolleranza 111Morte e peccato in un predica del Seicento 111Chiesa ed ebrei tra chiusure e aperture 112Pio IX, Sillabo 113Pio XI, L’enciclica Mit brennender Sorge [Con viva ansia] 113P. Mazzolari, La Chiesa e il conflitto 114Giovanni Paolo II, Gli ebrei nostri fratelli maggiori 115Testimonianza del rabbino Elio Toaff 115Gli ebrei e il dialogo con i cristiani 116Il Concilio Vaticano II e l’islam 117G. Allen, Quale ecumenismo? 117

StoriografiaN. Pasero, Il triangolo Dio-uomo-natura nel Cantico

di Frate Sole 118H. Zahrnt, La centralità della morte nella religiosità

tardo medievale 119A. Prosperi, Lutero, Erasmo e la traduzione

della Bibbia 120A. Prosperi, Riforma e riforme tra Medioevo

ed Età moderna 120P. Vismara, Riforma e controriforma cattolica 121G.G. Merlo, Sull’orlo dell’eresia 122J. Tedeschi, Inquisizione e fonti 123H.R. Trevor-Roper, Caccia alle streghe in Europa

nel Cinquecento e Seicento 123M. Rosa, Settecento e devozione popolare 125F. Traniello, La Chiesa tra Rivoluzione francese

e Concordato napoleonico 126V. Paglia, Congregazioni religiose e cattolicesimo

sociale 127

A. ’Abd Al-Waliyy Vincenzo, Tra islam ed Europa: dialogo e contrasti nel XIX secolo 128

A. Foa, L’Ottocento e l’emancipazione degli ebrei 129H.J. Pottmeyer, La Chiesa cattolica nel XX secolo 130O. Clement, La Chiesa ortodossa russa nel XX secolo 130E. Collotti, Chiese e nazismo 131G. Miccoli, Pio XII e la Shoah 132F. Malgeri, La Chiesa cattolica durante la guerra 133F. Traniello, Chiesa e democrazia 133G. Verucci, Un bilancio del Concilio Vaticano II 134C. Satha-Anand, Il significato di gihad 135E. Pace e R. Guolo, Che cos’è il fondamentalismo 135A. Riccardi, Il Novecento, secolo del martirio 136

P E R C O R S O 5

Donna e “questione femminile”

DocumentiIstruzioni del ricco borghese alla giovane moglie 138O. de Gouges e M. Wollstonecraft, Prima della questione

femminile 139A. Schopenhauer e A.M. Mozzoni, L’alba della questione

femminile 140C. Pankhurst, La battaglia per il voto 141Lettere di donne a Mussolini 141P. Gatteschi Fondelli, Le ausiliarie 142Lettere di condannate a morte della Resistenza 143S. Weil, Lettere a un’allieva 144

StoriografiaD. Godineau, Donne e rivoluzione 145B.S. Anderson e J.P. Zinsser, Avere o essere a servizio:

donne e gestione della casa 146G. Chianese, Le lavoratrici italiane a inizio secolo 146G. Bock, Le donne russe di fronte al nuovo diritto

di famiglia 147V. De Grazia, Il fascismo e le donne 148P. Di Cori, Identità femminili a Salò

e nella Resistenza 149A. Beevor, Le violenze contro le donne tedesche nel 1945 150R. Vinen, Le donne dei Paesi dell’Europa dell’Est

dopo la caduta del comunismo 151Y. Ergas, Definire il femminismo 152M.V. Ballestrero, La legislazione sul lavoro

femminile 152Il Novecento: secolo delle donne? 153

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P E R C O R S O 6

Contro l’uomo: razzismi e persecuzioni

DocumentiLa soluzione finale 156A. Frank, Diario 156R. Hoss, Comandante ad Auschwitz 157P. Levi, Il viaggio 158H. Verbitsky, I desaparecidos 159

StoriografiaL. Poliakov, Illuminismo e genesi della mentalità

razzista 160F. Douglass, Libertà dei bianchi, schiavitù dei neri 160L. Poliakov, L’antisemitismo come strumento

di dominio in Russia 161G.L. Mosse, Il movimento giovanile e gli ebrei 162M. Revelli, L’origine del razzismo moderno 163N. Malcolm, Le violenze contro i kosovari albanesi

nel 1912 164A. Graziosi, Gli inizi della deportazione

e della “pulizia etnica” 165R. Hilberg, Le fasi del processo di distruzione degli ebrei 165G.L. Mosse, Il lager, suprema espressione del razzismo

nazista 166Z. Bauman, La mediazione dell’azione e l’invisibilità

delle vittime 167M. Berg, Il ghetto di Varsavia 168R. Hilberg, La IG Farben ad Auschwitz 169H. Arendt, Il campo di concentramento 170M. Nyiszli, Il crematorio II 171Y. Ternon, Genocidio degli armeni e Shoah a confronto 172C.S. Capogreco, Il campo di concentramento di Arbe 173R. Pupo e R. Spazzali, La vicenda delle foibe:

un inquietante nodo storiografico 174

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La conquista della libertà

DocumentiL’Habeas Corpus 176Il Bill of Rights 176J. Locke, La legittimità della rivoluzione del 1688 177Boston contro le importazioni inglesi 177R. Price e M.J. De Caritat de Condorcet, La rivoluzione

americana vista dall’Europa 178

E.-J. Sieyes, Che cos’è il Terzo Stato? 178M. Robespierre, Il governo rivoluzionario 179E. Burke, Giudizio contro la rivoluzione 180A. de Tocqueville, Gli scopi della rivoluzione 180J.F. Kennedy, Discorso di Berlino 181M.L. King, Io ho un sogno 182P. Lumumba e L.S. Senghor, Due leader

per l’indipendenza dell’Africa 182O.A. Romero, Dalla parte dei più deboli 183R. Menchú, In difesa dei popoli indigeni 184E. Bianchi, Accogliere lo straniero 185

StoriografiaG. Galasso, I limiti della rivolta napoletana del 1647 186A. Tenenti, L’eredità della gloriosa rivoluzione 186A. Prosperi e P. Viola, Rivoluzione e parlamento:

whigs e tories 187E. Foner, Una rivoluzione per la libertà 188N. Matteucci, Rivoluzione americana e costituzione 189O. Handlin e L. Handlin, La guerra d’indipendenza

americana 189N. Matteucci, La Costituzione come vero sovrano 190L. Hunt, Il dibattito storiografico sulla Rivoluzione

francese 191G. Rudé, Le cause della rivoluzione 192M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria 193A. Soboul, Gli orientamenti politici in seno

alla Convenzione 194F. Furet, “Revisionare” la rivoluzione 194E.J. Hobsbawm, Il 1848 in Europa 195N.V. Rjasanovskij, L’abolizione della servitù della gleba

in Russia 196G. Beyhaut, L’indipendenza del Sud America 197B. Davidson, La decolonizzazione in Africa 198A. Cassese, Il cammino dei diritti umani 199A.J. Kaminski, Il totalitarismo e i diritti dell’uomo 199D. Archibugi e D. Beetham, Democrazia e diritti umani 200

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Scienza, tecnologia e ambiente

DocumentiI. Newton, Le tre leggi della meccanica 202H. Homer e A. Young, Pro e contro la nuova rete viaria

inglese 202F. Harkort, I vantaggi delle ferrovie 203

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F.D. Arago e C. Baudelaire, Due giudizi opposti sulla fotografia 204

A.M. Turing, L’intelligenza artificiale 205R. Amundsen, L’era del volo 205J. Gagarin, Il primo volo spaziale 206A. Einstein e H. Truman, Sul nucleare 207Testimonianze di superstiti della bomba atomica 208G. Medvedev, Chernobyl 209Manifesto dell’acqua 209Protocollo di Kyoto 210

StoriografiaC.M. Cipolla, La rivoluzione scientifica 211D. Roche, Spazio, tempo e mentalità del viaggio 212J. Tulard, Tra Settecento e Ottocento: il tempo

delle campagne 212C. Ottaviano, Nascita e uso del telegrafo 213E.J. Hobsbawm, La ferrovia 214I. Zannier, La nascita della fotografia 215N. Elias, “Apprendere” e “misurare” il tempo 215D. Borrelli, Tra Ottocento e Novecento: il telefono

e le comunicazioni 216F. Monteleone, L’alba della radio 217E. Menduni, La televisione 217G.O. Longo, L’evoluzione del computer 218G. Anders, L’età atomica 219G. Genta, L’era spaziale 220A. Lanza, Il problema dell’ambiente 221G. Viale, Impatto ambientale e rifiuti 221

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Guerra e pace

DocumentiT. Basin, La battaglia di Azincourt 224N. Machiavelli, Le ragioni della potenza francese 225Alessandro VI, La conquista spagnola

del nuovo mondo 225G.A. Menavino, L’esercito multietnico turco 226Federico il Grande e U. Bräker, L’esercito prussiano 227F.-M. Arouet de Voltaire, L’assurdità della guerra 227I. Kant, La pace perpetua 228K. von Clausewitz, Che cos’è la guerra 228Nachman di Breslavia, Metti pace nel tuo popolo 229Napoleone Bonaparte e P.-P. de Ségur, Gloria e disfatta

della grande armata di Napoleone 230

R.E. Lee ed E. Stanton, Testimonianze della guerra di secessione americana 231

G. Papini, Amiamo la guerra 231L. Einaudi, È possibile la società delle nazioni? 232E. Lussu, L’ottusità dei comandi 233M. Rigoni Stern, La ritirata dal fronte russo 234M.K. Gandhi, Lettera a Hitler 235M.K. Gandhi, Il digiuno contro la violenza 236B. Russell, Lettera ai potenti della terra 236J.F. Kennedy, La nuova frontiera 237A. Borovik, I russi in Afghanistan 238R. Cavalieri, Una guerra uguale all’altra 239B. Srbljanovic, Verità e regime 240Dalai Lama, La necessità della pace 24011 settembre 2011: i commenti della stampa 241

StoriografiaJ. Flori, Cavalleria e nobiltà 242B.W. Tuchman, I tentativi di riforma militare

nel Trecento 243F. Cardini, I chiaroscuri del mercenario 243H. Thomas, La conquista di Granada 244G. Ricci, La definitiva crisi dell’idea di crociata 245G.C. Vaillant, Quel che resta degli indios 246F. Braudel, Rivoluzioni e ritardi tecnici 247P. del Negro, L’età degli eserciti permanenti 248G. Parker, Le guerre fuori d’Europa 248G. Spini, Il Settecento e la guerra 249M. Howard, Le guerre della rivoluzione 250J. Keegan, Tra Settecento e Ottocento: l’esercito

di Napoleone 251G. Mann, La guerra “diplomatica” 251J.F.C. Fuller, Le novità della guerra civile americana 252M.A. Jones, La guerra di secessione prima guerra

moderna? 253M. Isnenghi e G. Rochat, La Grande guerra momento

di frattura nella storia europea 253A. Gibelli, Una guerra “totale” 254A. Asor Rosa, Intellettuali e interventismo 255A. Cortellassa, La zona di guerra 256A. Del Boca, Le guerre coloniali 256A.J.P. Taylor, I caratteri della seconda guerra mondiale 257C. Pavone, Definire la Resistenza 258G. Bocca e R. Vivarelli, I caratteri della guerra 1943-1945 259H. Arendt, La violenza nel XX secolo 259R. Diodato, “Deterrenza” e movimenti pacifisti 260Q. Liang e W. Xiangsui, Guerra senza limiti 261M. Valsania, Il dramma nascosto dei feriti di guerra in Iraq 261

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Cultura e arte

DocumentiP. Bracciolini, I classici ritrovati 264L. da Vinci, Scienza ed esperienza 264G. Galilei, I progressi del pensiero 265B. Castiglione, La riscossa delle arti belle 265P. Calderón de la Barca e Molière, Il secolo d’oro

del teatro 266Il filosofo secondo l’Enciclopedia 267C. Beccaria, Mitezza e sicurezza delle pene 268L. Pirandello e E. Ionesco, Il teatro del Novecento 268F. Kafka e J. Joyce, Il romanzo del Novecento 270A. Speer, L’architettura dei cerimoniali 271C. Chaplin, Come nacque Il grande dittatore 271

StoriografiaA. Tenenti, Urbanistica e potere nell’Italia

del Quattrocento 273E. Garin, Il dialogo con i classici 273M. Regoliosi, Gli umanisti e la storia 274L. Febvre e H.-J. Martin, Dallo stampatore umanista

al libraio della controriforma 275G. Duby, Arte e cultura nella Francia

del Re Sole 275B. Borngaesser e R. Toman, La “rappresentazione”

barocca 276G. Pestelli, La geografia musicale di metà

Settecento 277F. Venturi, La cultura dei lumi: l’Enciclopedia 277R. Villari, La cultura nell’età

della Restaurazione 278G.C. Argan, Classicismo e romanticismo

artistico 279U.M. Olivieri, Cultura e periodici di metà

Ottocento 280F. Martini, Il XIX secolo e la musica di Wagner 281H.S. Hughes, Tra Ottocento e Novecento: la rivoluzione

intellettuale 281R. De Felice, Aspetti della politica culturale

del fascismo 282N. Bobbio, È possibile parlare di cultura

fascista? 283E. Jones, Architettura urbana

e grattacieli 283F. Di Giammatteo, L’arte cinematografica 284

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L’Italia e l’Europa

DocumentiG. Mazzini, Manifesto della Giovine Italia 286V. Gioberti, «Perché scrissi il Primato» 286C. Cattaneo, Le ragioni del federalismo 287C. Benso di Cavour, Sulla libertà di culto 287M. Minghetti, La “questione romana” 288S. Jacini, Il governo dell’uno per cento 289L. Franchetti, La mafia siciliana 289E. de Amicis, Cuore e il mito del Risorgimento 290A. De Gasperi, Le idee ricostruttive della Democrazia

Cristiana 291P. Togliatti, La politica di unità nazionale 291A. Moro, Resistenza e democrazia 292E. Berlinguer, La questione morale 293G. Vinciguerra, Gli scopi dell’eversione nera 293Brigate Rosse, Imperialismo e guerra di classe 294G. Falcone, Cose di Cosa Nostra 294A. De Gasperi, Costruire l’Europa 295S. Drakulic, Che cos’è l’Europa? 296

StoriografiaL. Cafagna, Il Risorgimento nel mutare del contesto

europeo 297R. Romeo, Risorgimento e sviluppo dell’economia 297G. Salvemini, Il dibattito sull’ordinamento dell’Italia 298C.T. Altan, Il brigantaggio 299B. Croce, «Dallo straordinario all’ordinario» 299G. Carocci, Dalla Destra alla Sinistra storica 300P. Scoppola, La ricostruzione della democrazia 300E. Scalfari, Il miracolo economico 301S. Colarizi, Dalla prima alla seconda repubblica 302F. Ferraresi, L’estremismo di destra 303P. Ginsborg, L’azione delle Brigate Rosse 303D. Gambetta, Mafia e protezione 304G. Sabbatucci, È possibile parlare di “doppio Stato”? 305F. Chabod, L’Europa della storia 305F. Traniello, La memoria storica europea 306S. Collinson, Le politiche europee dal dopoguerra

agli anni Novanta 306K. Davis, Dall’Europa dei migranti all’Europa

degli immigrati 307G. Mammarella e P. Cacace, L’Europa tra difficoltà

e progressi 308F. Privitera, I nazionalismi dell’Est, problema europeo 309

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P e r c o r s o 1

Storia e pensiero politico

Alcuni vivono per la politica, molti della politica.Max Weber

C’è una sola regola per gli uomini politici di tutto il mondo: quando sei al potere non dire le stesse cose che dici

quando sei all’opposizione. Se ci provi, tutto quello che ci guadagni è di dover fare quello che gli altri hanno trovato impossibile.

John Galsworthy

Se il vostro scopo non è quello di creare virtù eroiche, ma abitudini tranquille; se preferite i vizi ai delitti […]

se, anziché agire in seno a una società brillante, vi basta vivere in mezzo a una società prospera […] allora livellate

le condizioni e costituite il governo della democrazia.Alexis de Tocqueville

Cattivo politico non è solo chi cambia troppo spesso idee; è anche chi non le cambia mai.

Roberto Gervaso

La politica è guerra senza spargimento di sangue mentre la guerra è politica con spargimento di sangue.

Mao Tze Tung

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S t o r i a e p e n s i e r o p o l i t i c o

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D O C U M E N T I

Jean Bodin, Sovranità e giuramentiIn Francia l’evoluzione verso una forma assoluta della monarchia si delineò nel corso degli ultimi secoli del Medioevo. Uno dei primi interpreti della teoria dello Stato moderno fu il francese Jean Bodin, il quale riconosceva il carattere fondamentale della sovranità nel legiferare per i sudditi senza bisogno di un loro consenso.

Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile co-

mandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà. […]Come il papa, secondo i canonisti, non può mai legarsi le mani, così non può legarsele il principe sovrano, neanche se lo voglia. Perciò alla fine degli editti e delle ordinanze vediamo le parole «poiché tale è il nostro piacere», perché sia chiaro che le leggi del principe sovrano, sia pure fondate in motivi validi e concreti, non dipendono che dalla sua pura e libera volontà. Quanto però alle leggi naturali e divine, tutti i principi della terra vi sono soggetti, né è in loro potere trasgredirle, se non vogliono rendersi colpevoli di lesa maestà divina, mettendosi in guerra contro quel Dio alla cui maestà tutti i principi della terra devono sottostare chinando la testa con assoluto timore e piena reve-renza. Insomma, il potere assoluto dei principi e delle signorie sovrane non si estende in alcun modo alle leggi di Dio e della natura. Colui che ha meglio di ogni altro compreso che cosa sia potere assoluto e che ha fatto inchina-re al suo e principi e sovrani, diceva ch’esso consiste nella facoltà di derogare alle leggi ordinarie; non certo però alle leggi divine e naturali.Ma il principe non è soggetto alle leggi del paese che ha giurato di custodire? Qui occorre distinguere. Se il princi-pe giura a se stesso che custodirà la legge, non è legato da questa, non più che dal giuramento fatto a se stesso: poiché anche i sudditi non sono in alcun modo tenuti al giuramento ch’essi hanno fatto sotto convenzioni cui la legge consenta di derogare, per giuste e ragionevoli che siano. […] Il principe non è vincolato dalle leggi sue o dei suoi predecessori: ma dai giusti patti e dalle giuste promesse che ha fatto, sia con giuramento sia senza giuramen-to, così come lo sarebbe un privato. E per le stesse ragioni per cui un privato può essere sciolto da una promessa ingiusta o irragionevole o troppo gravosa, per il fatto di essere stato tratto fuori strada da inganno, frode, errore, violenza, timore motivato o gravissima offesa, il principe può essere esentato da tutto quello che comporta una menomazione della sua maestà, se è principe sovrano. Così si può fissare il principio che il principe non è soggetto alle sue leggi né a quelle dei suoi predecessori, né lo è ai suoi patti giusti e ragionevoli, soprattutto se essi implica-no l’interesse dei sudditi, sia come singoli sia in generale. […]Tuttavia resta pur fermo il principio che il principe sovrano può derogare anche a quelle leggi che abbia promesso e giurato di osservare, se il motivo della promessa venga meno, anche senza il consenso dei sudditi; benché in questo caso la deroga generale non basti e occorra anche una deroga speciale. Se però non vi è giusta ragione di annullare la legge che si è promesso di conservare, il principe non deve e non può contravvenire ad essa. Quanto ai patti e ai giuramenti dei predecessori egli non vi è tenuto, se non è loro erede […]Da tutto ciò risulta che non bisogna mai confondere legge e contratto. La legge dipende da colui che ha la sovra-nità; egli può obbligare tutti i sudditi, e non può obbligare se stesso; mentre il patto è mutuo, tra principi e suddi-ti, e obbliga le due parti reciprocamente, né una delle due parti può venir meno ad esso a danno dell’altra e senza il consenso; in un caso del genere il principe non ha alcuna superiorità sui sudditi, se non che, cessando il giusto motivo della legge che ha giurato di osservare, egli, come già abbiamo detto, non è più vincolato dalla sua promes-sa, mentre invece i sudditi non possono comportarsi ugualmente se non ne sono sciolti dal principe. Perciò i prin-cipi sovrani di mente accorta non giurano mai di mantenere intatte le leggi dei predecessori; e se lo giurassero non sarebbero più sovrani.Tuttavia il principe non può derogare a quelle leggi che riguardano la struttura stessa del regno e il suo assetto fondamentale, in quanto esse sono connesse alla corona e a questa inscindibilmente unite (tale è, per esempio, la legge salica); qualunque cosa un principe faccia in proposito, il successore è in pieno diritto di abolire tutto ciò che sia stato compiuto con pregiudizio di quelle leggi su cui la stessa maestà sovrana poggia e si fonda.Quelli che hanno scritto intorno all’ufficio dei magistrati o altri trattati di simile argomento si sono sbagliati nel sostenere che gli stati del popolo sono superiori al principe. È un’opinione che induce quelli che non sono altro che sudditi a ribellarsi all’obbedienza dovuta ai loro principi sovrani; oltre a essere opinione senza base né fondamento. [...] in questo caso non sarebbe regno né monarchia, ma una schietta aristocrazia di più signori con uguale potere, in cui una minoranza comanda alla maggioranza in generale e a ciascun membro di essa in particolare.

in F. Gaeta-P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1992

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D o c u m e n t i

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Armand du Plessis de Richelieu, Testamento politicoIl cardinale Richelieu, personaggio dominante sulla scena politica francese nella prima metà del XVII secolo, teorizza sia la necessità del regime monarchico, sia l’importanza, per il sovrano, di dotarsi di un primo ministro superiore a tutti gli altri, in grado di garantire il bene pubblico ed esercitare concretamente quel controllo su tutti i funzionari che spetta teoricamente al sovrano.

Dopo aver esaminato e riconosciuto le qualità necessarie a coloro che debbono essere impiegati come ministri dello Stato, non posso fare a meno di sottolineare che, come la pluralità dei medici causa talvolta la morte del

malato invece di favorirne la guarigione, così lo Stato ricaverà piuttosto danni che vantaggi se il numero dei Con-siglieri è alto. Aggiungo che non può con buon frutto averne più di quattro, e abbia l’autorità principale e che questi sia come il primo mobile che muove tutti gli altri luoghi senza essere mosso che dalla sua intelligenza.Ho qualche difficoltà nel decidermi ad avanzare questa proposta perché può sembrare che io voglia parlare nel mio interesse. […]La naturale invidia, che si trova ordinariamente tra potenze uguali, è troppo conosciuta da tutti perché ci sia biso-gno d’un lungo discorso per far vedere la verità dell’affermazione che ho avanzato.Esperienze diverse mi hanno reso così saggio su tale materia che mi riterrei responsabile davanti a Dio se questo testamento non recasse l’esplicita affermazione che non c’è niente di più pericoloso in uno Stato di diverse autori-tà uguali nell’amministrazione degli affari.Ciò che è intrapreso dall’uno è intralciato dall’altro e, se l’uomo più dabbene non è anche il più abile, quand’anche le sue proposte fossero le migliori, sarebbero sempre eluse da colui che ha lo spirito più acuto.Ciascuno avrà i suoi seguaci che formeranno diversi partiti nello Stato e ne divideranno le forze invece di riunirle insieme. […]Se è vero che il governo monarchico imita meglio di qualunque altro quello di Dio, se tutti i politici sacri e profani insegnano che questo genere di regime supera tutti quelli che sono stati messi in pratica da sempre, si può tran-quillamente affermare che, se il sovrano non può o non vuole lui stesso avere continuamente l’occhio sulla carta o sulla bussola, ragion vuole che ne dia incarico particolare a qualcuno al di sopra di tutti.Come diversi piloti non mettono mai mano tutti insieme al timone, così ce ne vuole uno solo che tenga quello dello Stato.Egli può, naturalmente, accettare i pareri degli altri, talvolta deve addirittura farne ricerca. Ma tocca a lui esaminar-ne la bontà e muovere la mano da un lato o dall’altro, a seconda di quel che stima più adatto per evitare la tem-pesta e seguire la sua rotta.Tutto sta nel fare buona scelta in questa occasione e nel non sbagliare. […]Ciascuno si crederà, seguendo il suo giudizio, capace di questa funzione. Ma, nessuno potendo esser giudice nella propria causa, il giudizio in materia così importante deve dipendere da coloro che non hanno nessun interesse che possa bendare loro gli occhi.C’è chi non può esser mosso dalle pratiche e dai doni dei nemici dello Stato e potrà esserlo dai loro artifici.C’è chi è capace di farsi muovere da interessi che di per sé non sarebbero criminali e che, tuttavia, causerebbero gravi pregiudizi allo Stato.Si trova spesso chi morrebbe piuttosto che far fare un passo falso alla sua coscienza e che, tuttavia, non sarebbe utile alla comunità perché incapace di resistere alle insistenze o alle tenerezze che ha per quelli che ama.C’è chi è incapace di essere mosso da qualsivoglia interesse e potrebbe esserlo dal timore, dallo sbigottimento e dal terror panico. […]Il Principe deve conoscere di persona colui che incaricherà di una carica così importante e, sebbene questa persona debba essere eletta solo da lui, la scelta che egli farà deve possibilmente essere accompagnata da una approvazione pubblica; poiché, se ha i consensi di tutti, sarà maggiormente capace di ben fare.È facile dipingere le qualità che deve avere questo primo ministro: ma è difficile trovarle riunite in un soggetto.Tuttavia è vero che la felicità o l’infelicità degli Stati dipende dall’elezione che di tale ministro sarà fatta. Il che obbliga strettamente i sovrani o a prendersi personalmente cura dei loro Stati oppure a scegliere così bene colui sul quale vogliono scaricarla che la loro azione sia approvata dal cielo e dalla terra.

in A. Prosperi, La storia moderna attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna 1974

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S t o r i a e p e n s i e r o p o l i t i c o

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Niccolò Machiavelli, Ritratto di un Signore: Cosimo de’ MediciNel XVI secolo lo Stato fiorentino era proposto quale modello di governo repubblicano, e quindi superiore. In realtà, anche a Firenze dall’oligarchia si era passati rapidamente verso l’instaurazione di una signoria individuale ed ereditaria. Nel ritratto di Cosimo il Vecchio, vero fondatore del predominio dei Medici nello Stato fiorentino, Machiavelli pone in risalto le doti tanto in politica interna, quanto in politica estera, ma allo stesso tempo insiste molto sulle virtù del principe rinascimentale: colto, amante delle arti e committente di opere di pregio.

Fu Cosimo il più reputato e nomato cittadino, di uomo disarmato, che avesse mai non solamente Firenze ma alcuna altra città di che si abbia memoria: perché non solamente superò ogni altro de’ tempi suoi di autorità e di recchezze

ma ancora di liberalità e di prudenza; perché intra tutte le altre qualità che lo feciono principe nella sua patria fu lo es-sere sopra tutti gli altri uomini liberale e magnifico. Apparve la sua liberalità molto più dopo la sua morte, quando Piero suo figliuolo volse le sue sustanze ricognoscere: perché non era cittadino alcuno che avesse nella città alcuna qualità, a chi Cosimo grossa somma di danari non avesse prestata; e molte volte, sanza essere richiesto, quando intendeva la ne-cessità di un uomo nobile lo suvveniva. Apparve la sua magnificenzia nella copia degli edifizi da lui edificati. […]. E perché nella magnificenzia degli edifizi non gli bastava essere cognosciuto in Italia, edificò ancora in Ierusalem un recettaculo per i poveri e infermi peregrini: nelle quali edificazioni uno numero grandissimo di danari consumò. E benché queste abitazioni e tutte le altre opere e azioni sue fussero regie e che solo in Firenze fusse principe, nondimeno tanto fu tem-perato dalla prudenza sua che mai la civile modestia non trapassò: perché nelle conversazioni, ne’ servidori, nel cavalcare, in tutto il modo di vivere, e ne’ parentadi, fu sempre simile a qualunque modesto cittadino; perché sapeva come le cose estraordinarie che a ogni ora si veggono appariscono, recono molto più invidia agli uomini che quelle che sono in fatto e con onestà si ricuoprono. Avendo pertanto a dare moglie a’ suoi figliuoli non cercò i parentadi de’ principi. Degli stati de’ principi e civili governi niuno altro per intelligenza al suo tempo lo raggiunse, di qui nacque che in tanta varietà di fortuna e in sì varia città e volubile cittadinanza tenne uno stato trentuno anno: perché sendo prudentissimo cognosce-va i mali discosto, e perciò era a tempo o a non li lasciare crescere o a prepararsi in modo che cresciuti non lo offendes-sero; donde non solamente vinse la domestica e civile ambizione, ma quella di molti principi superò con tanta felicità e prudenza, che qualunque seco e con la sua patria si collegava rimaneva o pari o superiore al nimico, e quantunque se gli opponeva, o e’ perdeva il tempo e’ denari o lo stato. Di che ne possono rendere buona testimonianza i Viniziani, i quali con quello contro al duca Filippo sempre furono superiori, e disiunti da lui, sempre furono e da Filippo prima e da Fran-cesco poi vinti e battuti; e quando con Alfonso contro la republica di Firenze si collegorono, Cosimo con il credito suo vacuò Napoli e Vinegia di danari in modo che furono costretti a prendere quella pace che fu voluta concedere loro. Del-le difficultà adunque che Cosimo ebbe dentro alla città e fuori fu il fine glorioso per lui e dannoso per gli nimici, e perciò sempre le civili discordie gli accrebbono in Firenze stato, e le guerre di fuora potenza e reputazione; per il che allo impe-rio della sua republica il Borgo a San Sepolcro, Montedoglio, il Casentino e Val di Bagno aggiunse. E così la virtù e for-tuna sua spense tutti i suoi nimici e gli amici esaltò.

N. Machiavelli, Istorie fiorentine, l. VII, cc. 5-6

Camillo Porzio, Congiure e crisi moraliNel 1485 molti baroni meridionali espressero il loro malcontento nei confronti dei sovrani aragonesi dando vita alla cosiddetta “congiura dei baroni”. A questa sollevazione nobiliare dedicò la sua opera più importante Camillo Porzio, epigono della tradizione storiografica fiorentina. La sua interpretazione è nel complesso moralistica e poco attenta a cogliere i parallelismi tra la rivolta antimonarchica napoletana e i coevi sussulti nobiliari che costellarono il XV e il XVI secolo in Europa. Le conseguenze della rivolta e della sua sanguinosa repressione sui precari equilibri interni al regno aprono ulteriormente, invece che chiudere definitivamente, la via dell’alleanza tra i baroni scontenti e la concorrente monarchia francese, erede degli scacciati angioini.

I re di Napoli, mentre non possederono altri stati, in sì basso luogo e sì disprezzabile sederono, che non solo a’ potentati esterni, ma ad ogni lor barone diedero animo di macchinare lor contra, e di scacciargli. Di qui nacuero

le spesse infedeltà de’ soggetti, le assidue guerre, le grandi e varie lor mutazioni: e, quel ch’è più da maravigliare,

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molte fiate essi medesimi, sdegnando la lor miseria e stimolati da cupidità di aver forze uguali al nome, si procac-ciarono co’ loro baroni delle molestie e de’ pericoli; come dalla presente congiura si potrà notare; la qual fu di sì grave e pernicioso mo mento al reame, che lo riempiè d’innumerabili calamità; e gli animi degli abitatori discordò in sì fatta maniera, che non che i vassalli da’ padroni, ma l’un fratello dall’altro, i figliuoli da’ padri, le mogli dai ma-riti dissentirono: le amicizie, le parentele, ed i giuramenti, già santissimi vincoli dell’umana società furono ottimi ministri agl’inganni ed a’ tradimenti: la pace versò più sangue della guerra: l’imbecillità del sesso o dell’età sospin-se gli uomini a crudeltà, non a compassione: e, per recare in uno tutte le miserie di quel tempo, fu sì acerba questa dissensione, che non meno a’ percossi che a’ percussori apportò terrore e spavento; perocché gli uni affliggeva la sofferenza del male, gli altri il timore della vendetta premeva.

C. Porzio, La congiura de’ Baroni, libro I, a cura di F. Torraca, Sansoni, Firenze s.d.

Thomas Hobbes, La genesi dello Stato e del potereIl passaggio dallo “stato di natura”, caratterizzato dalla lotta di tutti contro tutti, allo stato politico è un patto tra individui per permettere il trasferimento di tutti i poteri a un solo uomo, il sovrano, affinché egli «possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune».

La causa finale, il fine o il disegno degli uomini (che per natura amano la libertà e il dominio sugli altri), nell’in-trodurre quella restrizione su se stessi sotto la quale li vediamo vivere negli Stati, è la previdente preoccupazione

della propria conservazione e di una vita perciò più soddisfatta; cioè a dire, di trarsi fuori da quella miserabile con-dizione di guerra che è un effetto necessario […] delle passioni naturali degli uomini, quando non ci sia alcun po-tere visibile che li tenga in soggezione e li vincoli con la paura di punizioni all’adempimento dei loro patti e all’os-servanza delle leggi di natura […]. Le leggi di natura […], in se stesse, senza il terrore di qualche potere a far sì che siano osservate, sono contrarie alle passioni naturali […]. Patti senza la spada non sono che parole, essendo assolu-tamente privi della forza di dar sicurezza agli uomini. Pertanto […], se non c’è alcun potere che sia stato eretto, o [ce n’è uno] non abbastanza grande per [garantirci] la sicurezza, allora ciascuno farà – e potrà legittimamente fare – assegnamento sulla propria forza, sulla propria capacità per premunirsi contro tutti gli altri […].L’unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difenderli dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci […], è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assem-blea di uomini (che, in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’unica volontà). Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l’autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, relativamente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest’ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, a questa condizione, che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama stato, in latino civitas. È questa la generazione di quel grande leviatano, o piuttosto […] di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a que-sta autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell’aiuto reciproco contro i nemici di fuori. In lui risiede l’essenza dello Stato, che, per darne una definizione, è: Una persona unica, dei cui atti [i membri di] una grande moltitudine si sono fatti autori, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune. Chi incarna questa persona si chiama sovrano e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro [si chiama] suo suddito.

T. Hobbes, Leviatano, Laterza, Roma-Bari 1997

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S t o r i a e p e n s i e r o p o l i t i c o

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John Locke, I diritti dell’uomo all’interno dello StatoNel contrarre il patto sociale, cioè nel “passaggio” tra stato di natura e stato civile, l’uomo non conserva soltanto il diritto alla vita, come sostenuto da Hobbes, ma anche «libertà e averi», cioè tutto ciò che può essere definito, «con termine generale, proprietà».

Se l’uomo nello stato di natura è così libero come s’è detto, se egli è signore assoluto della propria persona e dei propri possessi, eguale al maggiore e soggetto a nessuno, perché vuol disfarsi della propria libertà? Perché vuol

rinunciare a questo impero e assoggettarsi al dominio e al controllo di un altro potere? Al che è ovvio rispondere che sebbene allo stato di natura egli abbia tale diritto, tuttavia il godimento di esso è molto incerto e continua-mente esposto alla violazione da parte di altri, perché, essendo tutti re al pari di lui, ed ognuno eguale a lui, e non essendo, i più, stretti osservanti dell’equità e della giustizia, il godimento della proprietà ch’egli ha è in questa condizione molto incerto e malsicuro. Il che lo rende desideroso di abbandonare una condizione che, per quanto libera, è piena di timori e di continui pericoli, e non è senza ragione ch’egli cerca e desidera unirsi in società con altri che già sono riuniti, o hanno intenzione di riunirsi, per la mutua conservazione delle loro vite, libertà e averi, cose ch’io denomino, con termine generale, proprietà. [...]La prima e fondamentale legge positiva di tutte le società politiche consiste nello stabilire il potere legislativo, in quanto la prima e fondamentale legge naturale, che deve governare lo stesso legislativo, consiste nella conservazio-ne della società, e, per quanto si concilia col pubblico bene, di ogni persona che vi si trova. Questo legislativo non soltanto è il potere supremo della società politica, ma rimane sacro e immutabile nelle mani in cui la comunità l’ha collocato […]. Vi è in ogni stato un altro potere, che si può chiamare naturale, in quanto è quello che corrisponde al potere che ognuno ha per natura, prima di entrare in società, perché, sebbene i membri di una società politica siano persone distinte sempre in reciproca relazione, e come tali siano governate dalle leggi della società, tuttavia, in rapporto agli altri uomini, sono un corpo solo, che continua a trovarsi, come prima ogni suo membro si trovava, allo stato di natura rispetto agli altri uomini.

J. Locke, Secondo trattato sul governo, in Due trattati sul governo e altri scritti politici di John Locke, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1983

Charles Louis de Montesquieu, La divisione dei poteriIl principio di divisione dei tre poteri regola la vita dello Stato, senza il quale «non c’è più libertà» o «ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini».

In ogni stato esistono tre tipi di potere: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose dipendenti dal diritto delle genti e il potere esecutivo delle cose dipendenti dal diritto civile.

In forza del primo, il principe o il magistrato fa leggi, aventi una durata limitata o illimitata, e corregge o abroga quelle già fatte. In forza del secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve ambasciate, garantisce la sicurezza, pre-viene le invasioni. In forza del terzo, punisce i delitti o giudica le cause fra privati. Chiameremo quest’ultimo il potere di giudicare, e l’altro semplicemente il potere esecutivo dello stato.La libertà politica in un cittadino è quella tranquillità di spirito che deriva dalla persuasione che ciascuno ha della propria sicurezza; perché si goda di tale libertà, bisogna che il governo sia in condizione di liberare ogni cittadino dal timore degli altri.Quando in una stessa persona, o nello stesso corpo di magistrati, il potere legislativo è unito al potere esecutivo, non c’è più libertà; perché sussiste il legittimo sospetto che lo stesso monarca o lo stesso senato possa fare leggi tiranniche per poi tirannicamente farle eseguire.Così non c’è più libertà se il potere di giudicare non è separato dal potere legislativo e dall’esecutivo. Infatti se fosse unito al potere legislativo, ci sarebbe una potestà arbitraria sulla vita e la libertà dei cittadini, in quanto il giudice sarebbe legislatore. Se poi fosse unito al potere esecutivo, il giudice potrebbe avere la forza d’un oppressore.Tutto sarebbe perduto infine, se lo stesso uomo o lo stesso corpo dei governanti, dei nobili o del popolo, esercitas-se insieme i tre poteri: quello di fare leggi, quello di eseguire le pubbliche risoluzioni e quello di giudicare i delitti o le cause fra privati. Nella maggior parte dei regni europei, il governo è moderato perché il principe, che detiene i due primi poteri, lascia ai suoi sudditi l’esercizio del terzo. Presso i Turchi, dove i tre poteri sono riuniti nelle mani del sultano, il regno è

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uno spaventoso dispotismo. [...] Non sta a me giudicare se gli Inglesi godano attualmente di questa libertà o no. Mi basta affermare ch’essa è sancita dalle loro leggi e non mi curo d’altro.

Ch. L. de Montesquieu, Lo spirito delle leggi, Rizzoli, Milano 1996

Jean-Jacques Rousseau, Il patto socialeL’analisi della differenza tra il potere esercitato direttamente o amministrato per delega è un passaggio fondamentale nella storia del pensiero politico. Nel Contratto sociale (1762) Rousseau analizza i caratteri del patto sociale e descrive i termini dello stato politico che ne consegue.

Supponiamo gli uomini giunti al punto in cui gli ostacoli che si oppongono al loro mantenimento nello stato di na-tura prevalgono, con la loro resistenza, sulle forze che ogni individuo può impiegare per mantenersi in tale stato: in

tal caso lo stato primitivo non può più sussistere e il genere umano perirebbe se non cambiasse il proprio modo di es-sere. Ora, poiché gli uomini non possono generare nuove forze, ma soltanto unire e dirigere quelle esistenti, essi non hanno più altro mezzo, per conservarsi, che quello di formare, per aggregazione, una somma di forze che possa preva-lere sulla resistenza degli ostacoli […]. Questa somma di forze non può nascere che dal concorso di più individui: ma poiché la forza e la libertà di ciascun uomo sono i primi strumenti della sua conservazione, come potrà egli impegnarle senza nuocere a se stesso e senza trascurare le cure che deve a se stesso? Questa difficoltà, riportata alla questione che mi son posto, può enunciarsi nei seguenti termini: «Trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tut-ta la forza comune la persona e i beni di ogni associato, e mediante la quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e resti libero come prima». È questo il problema fondamentale, di cui il contratto sociale dà la soluzione. Le clausole di questo contratto sono talmente determinate dalla natura dell’atto, che una pur minima modi-ficazione le renderebbe vane e prive di qualsiasi effetto; di guisa che, sebbene non siano forse mai state enunciate for-malmente, esse sono ovunque le medesime, ovunque tacitamente ammesse e riconosciute, fino al momento in cui, per esser stato il patto sociale violato, ognuno rientra nei suoi diritti originari e riprende la sua libertà naturale, perdendo la libertà convenzionale per ottener la quale aveva rinunciato alla prima. Queste clausole si riducono tutte, se correttamen-te intese, ad una sola, cioè all’alienazione totale di ogni associato, con tutti i suoi diritti, a tutta la comunità […]. Il patto sociale […] si riduce ai termini seguenti: «Ognuno di noi mette in comune la propria persona e tutto il proprio potere sotto la direzione suprema della volontà generale; e a nostra volta riceviamo nel corpo collettivo ogni membro come parte indivisibile del tutto». Questo atto di associazione dà vita istantaneamente, in luogo della persona particolare di ogni contraente, a un corpo morale e collettivo composto di tanti membri quanti sono i voti dell’assemblea; da questo stesso atto tale corpo riceve la propria unità, il proprio io comune, la propria vita e la propria volontà. Questa persona pubblica, che si forma così mediante l’unione di tutte le altre, prendeva un tempo il nome di Città, oggi prende quelli di Repubblica o di Corpo politico; viene chiamata dai suoi membri Stato quan-do è passiva, Sovrano quando è attiva, Potenza quando è posta in relazione con quelle a lei simili. Per quanto ri-guarda gli associati, essi prendono collettivamente il nome di popolo, e si chiamano in particolare cittadini, in quanto partecipano all’attività sovrana, e sudditi, in quanto soggetti alle leggi dello Stato.

J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, Mondadori, Milano 1997

Paul-Henri d’Holbach, Il potere tirannicoD’Holbach, collaboratore dell’Enciclopedia e sostenitore di un sistema filosofico fondato su ateismo e materialismo radicale, nel Sistema della natura (1770) mostra il carattere essenzialmente tirannico dello stato politico, nel quale regna «uno stato di guerra del sovrano contro tutti e di ciascuno dei membri gli uni contro gli altri».

Lo stato di società è uno stato di guerra del sovrano contro tutti e di ciascuno dei membri gli uni contro gli altri. L’uomo è malvagio non perché è nato malvagio, ma perché lo si rende tale; i grandi, i potenti opprimono impu-

nemente i poveri, gli infelici; e questi, a rischio della loro vita, cercano a loro volta di ricambiare tutto il male che ne hanno ricevuto. Questi attaccano apertamente, o in segreto, una patria matrigna che dà tutto a taluni dei suoi figli e toglie tutto agli altri; la puniscono della sua parzialità e le mostrano che gli incentivi presi in prestito dall’al-

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tra vita sono impotenti contro le passioni ed i furori che un’amministrazione corrotta ha fatto nascere in questa, e che il terrore dei supplizi di questo mondo è, esso stesso, troppo debole contro la necessità, contro abitudini crimi-nali, contro un’organizzazione pericolosa che l’educazione non ha affatto corretto.In ogni paese, la morale dei popoli è totalmente trascurata ed il governo non si è curato di altro che di renderli ti-midi ed infelici. L’uomo è quasi dappertutto schiavo, occorre dunque che sia vile, interessato, falso, senza onore, in una parola, che abbia i vizi del suo Stato. Dappertutto lo si inganna, lo si mantiene nell’ignoranza, gli si impedisce di coltivare la sua ragione; occorre dunque che sia dappertutto stupido, irragionevole e malvagio; dappertutto vede che il crimine ed il vizio sono onorati: conclude che il vizio è un bene e che la virtù non può essere che un sacrifi-cio di se stesso. Dappertutto è infelice, così dappertutto reca danno ai suoi simili per procurarsi pena; invano, per frenarlo, gli si mostra il cielo; i suoi sguardi subito ricadono sulla terra; su questa vuole essere felice ad ogni costo e le leggi, che non hanno provveduto né alla sua istruzione né ai suoi costumi né alla sua felicità, lo minacciano inutilmente e lo puniscono della negligenza ingiusta dei legislatori. Se la politica, più illuminata essa stessa, si oc-cupasse seriamente dell’istruzione e della felicità del popolo, se le leggi fossero più eque, se ogni società, meno parziale, desse a ciascuno dei suoi membri le cure, l’educazione e gli aiuti che è in diritto di esigere, se i governi, meno avidi e più vigili, si proponessero di rendere i loro sudditi più felici, non si vedrebbe affatto un così grande numero di malfattori, di ladri, di assassini, infestare la società, non si sarebbe affatto costretti a togliere loro la vita per punirli di una malvagità che è dovuta, per lo più, unicamente ai difetti delle loro istituzioni, non sarebbe affat-to necessario cercare in un’altra vita chimere sempre costrette ad urtare contro le loro passioni ed i loro bisogni reali. In una parola, se il popolo fosse più istruito e più felice, la politica non si troverebbe affatto nella necessità di ingannarlo [...].

P.H. d’Holbach, Sistema della natura, UTET, Torino 1978

Joseph de Maistre, L’infallibilità del potereJoseph de Maistre, tra i maggiori esponenti del pensiero politico conservatore durante l’età della restaurazione, nel pamphlet Sul papa (1819) riafferma il principio di legittimità abbattuto dalla rivoluzione francese e fa propria l’idea di uno stato teocratico e tradizionale.

Che non si è mai detto dell’infallibilità considerata sotto l’aspetto teologico!Sarebbe difficile aggiunger nuovi argomenti a quelli che i difensori di quest’alta prerogativa hanno accumulato

per appoggiarla sopra autorità incrollabili, e levarle d’attorno i fantasmi di cui l’han cinta i nemici del cristianesimo e dell’unità, nella speranza di renderla, se non altro, per lo meno odiosa.Ma io non so se per questa grande questione, come per tante altre, sia stato abbastanza notato che le verità teo-logiche sono semplicemente delle verità generali, manifestate e divinizzate sul piano religioso, di modo che non si potrebbe assalirne una senza assalire anche una legge mondiale.L’infallibilità nell’ordine spirituale, e la sovranità nell’ordine temporale, sono due parole perfettamente sinonime. L’una e l’altra esprimono quell’alto potere che ad ogni altro impera, da cui ogni altro deriva, che governa e non è governato, giudica e non è giudicato.Quando noi diciamo che la Chiesa è infallibile, non chiediamo per essa – è essenzialissimo osservarlo – nessun pri-vilegio particolare; chiediamo soltanto ch’ella goda del diritto comune a tutte le sovranità possibili, le quali agisco-no tutte necessariamente come infallibili; perché tutti i governi sono assoluti; e non esisterebbero più, quando si potesse loro resistere sotto pretesto d’errore o d’ingiustizia. [...]Lo stesso è per la Chiesa; in un modo o in un altro bisogna che sia governata, come qualunque altra associazione; altrimenti non vi sarebbe più aggregazione, non insieme, non unità. Questo governo è dunque di sua natura infal-libile, ossia assoluto, senza di che non governerebbe più.

J. de Maistre, Sul papa, in Il problema storico-politico nel pensiero contemporaneo, a cura di F. Tonon, D’Anna, Messina-Firenze 1974

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Karl Marx e Friedrich Engels, Borghesia e proletariatoIl passo del Manifesto del partito comunista, pubblicato nel 1848 a Parigi, analizza il meccanismo che muove la storia, la «lotta di classe», ed esamina i due soggetti storici protagonisti della lotta dopo la fine dell’età feudale: la borghesia e il proletariato.

La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continua-

mente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta […] che ogni volta è finita o con una trasforma-zione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta […]. La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scinden-do sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato […]. La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria […]. Ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che le-gavano l’uomo al suo superiore naturale […]. Ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche […]. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epo-ca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti […]. Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato […]. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la so-cietà borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate […]. Le armi che son servite alla borghe-sia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai mo-derni, i proletari […]. Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza […]. Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico […]. I proletari possono conquistarsi le forze produttive della società soltanto abolendo il loro proprio sistema di appropriazione avuto sino a questo momento, e per ciò stesso l’intero sistema di appro-priazione che c’è stato finora. I proletari non hanno da salvaguardare nulla di proprio, hanno da distruggere tutta la sicurezza privata e tutte le assicurazioni private che ci sono state fin qui […]. La lotta del proletariato contro la borghesia è […] guerra civile più o meno latente all’interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbatti-mento della borghesia. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società […]. Essa produce […] i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.

K. Marx - F. Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, Roma 1992

Michail Bakunin, Contro lo StatoIn polemica con Marx, l’anarchico Bakunin in Stato e anarchia (1873) illustra i fondamenti di pensiero di quanti si dichiarano nemici «di ogni governo», «di ogni potere di Stato», «di un’organizzazione di Stato in generale».

Noi, rivoluzionari-anarchici, fautori dell’istruzione generale del popolo, dell’emancipazione e del più vasto svilup-po della vita sociale e di conseguenza nemici dello Stato e di ogni statalizzazione, affermiamo, in opposizione a

tutti i metafisici, ai positivisti e a tutti gli adoratori scienziati o non della scienza deificata, che […] non solo non abbiamo l’intenzione né la minima velleità d’imporre al nostro popolo, o a qualunque altro popolo, un qualsiasi ideale di organizzazione sociale tratto dai libri o inventato da noi stessi ma, persuasi che le masse popolari portano in se stesse, negli istinti più o meno sviluppati dalla loro storia, nelle loro necessità quotidiane e nelle loro aspirazio-ni coscienti o inconsce, tutti gli elementi della loro futura organizzazione naturale, noi cerchiamo questo ideale nel

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popolo stesso; e siccome ogni potere di Stato, ogni governo deve, per la sua medesima essenza e per la sua posizio-ne fuori del popolo o sopra di esso, deve necessariamente mirare a subordinarlo a un’organizzazione e a fini che gli sono estranei noi ci dichiariamo nemici di ogni governo, di ogni potere di Stato, nemici di un’organizzazione di Stato in generale e siamo convinti che il popolo potrà essere felice e libero solo quando, organizzandosi dal basso in alto per mezzo di associazioni indipendenti e assolutamente libere e al di fuori di ogni tutela ufficiale, ma non fuo-ri delle influenze diverse e ugualmente libere di uomini e di partiti, creerà esso stesso la propria vita.Queste sono le convinzioni dei socialisti rivoluzionari e per questo ci chiamano anarchici. Noi non protestiamo contro questa definizione perché siamo realmente nemici di ogni autorità, perché sappiamo che il potere corrompe sia coloro che ne sono investiti che coloro i quali devono soggiacervi. Sotto la sua nefasta influenza gli uni si trasformano in despoti ambiziosi e avidi, in sfruttatori della società in favore della propria persona o casta, gli altri in schiavi.[...] È chiaro allora perché i rivoluzionari dottrinari che si sono assunta la missione di distruggere i poteri e gli ordi-ni esistenti per creare sulle loro rovine la propria dittatura, non sono mai stati e non saranno mai i nemici ma, al contrario sono stati e saranno sempre i difensori più ardenti dello Stato. Sono nemici dei poteri attuali solo perché vogliono impadronirsene; nemici delle istituzioni politiche attuali solo perché escludono la possibilità della loro dittatura; ma sono tuttavia i più ardenti amici del potere di Stato che dev’essere mantenuto, senza di che la rivo-luzione, dopo aver liberato sul serio le masse popolari, toglierebbe a questa minoranza pseudorivoluzionaria ogni speranza di riuscire a riaggiogarle a un nuovo carro e di gratificarle dei suoi provvedimenti governativi.

M. Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, Milano 1979

Dino Grandi, Origini e missione del fascismoDino Grandi fu leader del fascismo bolognese, ministro degli Esteri, ambasciatore a Londra e autore dell’ordine del giorno che avrebbe portato alla caduta di Mussolini il 25 luglio 1943. Nel 1923, in parallelo a riforme che stanno ristrutturando profondamente lo Stato (è l’anno dello scioglimento del ministero del Lavoro, della creazione del Gran consiglio del fascismo, della legge Acerbo), illustra la genesi e le caratteristiche del movimento fascista, ponendo in evidenza gli elementi che hanno contribuito all’ascesa al potere.

Il fascismo altro non è stato, ed altro non è che la continuazione dell’interventismo del 1914-15, così come i Fasci di combattimento sono la ripresa e la filiazione genuina dei Fasci di azione rivoluzionaria del 1915, a cui spetta il me-

rito di avere agitato in mezzo al popolo il problema della guerra, non come una necessità militaresca, bensì come la più alta realizzazione rivoluzionaria, come una mistica palingenesi nazionale ed umana. Contro di noi e contro la furia travolgente della nostra incrollabile fede si schierarono allora tutte le gamme molteplici dei neutralisti, dei rinun-ciatari, dei democratici pacifici, osannanti alla filantropia universale, filibustieri della finanza e […] del socialismo, Santa Alleanza, sulla quale ebbe facilmente ragione l’impeto travolgente della nostra giovinezza. A guerra finita, il popolo dei combattenti è ritornato, ma stanco, ma deluso, scaricato fisiologicamente dal sacrificio immane, ancora abbacinato dalla vampa eroica dell’epopea, e si è trovato di fronte alla realtà cinica, brutale del dopo guerra […].Contro il pericolo del dissolvimento interno è nato il Fascismo […]. I fasci di combattimento sono così stati, ed a noi è piaciuto più volte definirli, una grande rivolta guelfa, ed il segreto della loro vittoria sta semplicemente nell’in-tuito e nell’istinto che ha guidato la parte migliore del nostro popolo, al di sopra di tutti i teoremi politici, e di tutti i sillogismi filosofici, alla necessità di salvare la Nazione. Come durante la guerra tutto ciò che era utile alla vittoria era ben accetto, così il Fascismo nella sua lotta di tutti i giorni e di tutte le ore, si è giovato di tutto. Si è giovato della tradizionale paura della grande maggioranza conservatrice, della scissione dei partiti antinazionali, dell’incertezza ed ambiguità di altri partiti: si è giovato della loro viltà di ceti borghesi che, nell’incubo dei loro sonni, già si vedevano appiccati al palo della Comune rivoluzionaria, ed hanno intraveduto nel fascismo soltanto la guardia dei loro beni materiali. Si è giovato del vecchio stato liberale che, ormai sull’orlo del precipizio e del falli-mento, ha trovato comodo appoggiarsi all’azione dei Fasci per ristabilire un simulacro di autorità, e ridare al mec-canismo delle sue funzioni una vitalità apparente che ne mascherasse tutto l’intimo dissolvimento.Il Fascismo è stata così “una rivoluzione nata dalla rivoluzione”, una grande crociata sentimentale a cui ha preso parte tutta la parte sana, migliore del nostro Popolo, che attraverso l’esperienza della guerra ha riacquistato, rico-struito in sé, fatta realtà vivente e presente e imperante la coscienza della Nazione.

D. Grandi, Le origini e la missione del fascismo, in Il fascismo e i partiti politici italiani. Testimonianze del 1921-1923, a cura di R. De Felice, Cappelli, Bologna 1966

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Giovanni Gentile, Definizione del fascismoNel 1927 Giovanni Gentile, filosofo, senatore, ministro della Pubblica Istruzione autore della riforma scolastica del 1923 e presidente dell’Enciclopedia italiana, riassume le caratteristiche più significative del fascismo in tre punti: il «carattere totalitario», l’antintellettualismo sintetizzato nella formula mazziniana «pensiero e azione», il prioritario interesse politico.

Primo punto […] da fissare nella definizione del Fascismo: carattere totalitario della sua dottrina, la quale non concerne soltanto l’ordinamento e l’indirizzo politico della nazione, ma tutta la sua volontà, il suo pensiero, il

suo sentimento.Secondo punto. La dottrina fascista non è una filosofia nel comune senso della parola, e tanto meno una religione. Non è neppure una spiegata e definitiva dottrina politica, che si articoli in una serie di formule […]. Il significato del Fascismo non si misura nelle tesi speciali che esso a volta a volta assume, teoricamente o praticamente […]. Nel Fascismo si trae al più rigoroso significato la verità mazziniana pensiero e azione, immedesimando così i due ter-mini da farli coincidere perfettamente […]. Per questa sua ripugnanza all’intellettualismo il Fascismo non ama in-dugiarsi nel disegno di astratte teorie; non perché non ammetta teorie, ma perché non spetta ad esso, come forza riformatrice e promotrice della cultura e della vita italiana, costruirne. D’altra parte, quando si dice che esso non è un sistema o una dottrina, non si deve credere che sia una astratta tendenza o una cieca prassi, o un metodo inde-finibile e istintivo […]; dal suo Duce fino a’ suoi più umili gregari, quanti sentono in sé la verità e la vitalità del principio stesso, lavorano tutto dì al suo sviluppo, ora procedendo sicuri per la strada diritta alla meta, ora facendo e disfacendo, procedendo e tornando da capo, poiché il tentativo fatto non s’accorda al principio e rappresenta una deviazione dalla logica dello sviluppo […].Terzo punto. Il sistema fascista non è un sistema, ma ha nella politica e nell’interesse politico il suo centro di gravità. Nato come concezione dello Stato, indirizzato a risolvere i problemi politici esasperati in Italia dallo sfrenarsi delle pas-sioni delle masse inconsapevoli nel dopoguerra, il Fascismo sta in campo come metodo politico. Ma nell’atto di affron-tare e risolvere i problemi politici, esso è portato dalla sua stessa natura, e cioè dal suo stesso metodo, a proporsi pro-blemi di cultura: morali, religiosi, filosofici: a svolgere insomma e dimostrare il carattere totalitario che gli è proprio.

G. Gentile, Origini e dottrina del fascismo, in R. De Felice, Autobiografia del fascismo. Antologia di testi fascisti 1919-1945, Minerva Italica, Bergamo 1978

Franz von Papen, L’ascesa del nazismoFranz von Papen, primo ministro durante la Repubblica di Weimar (1932), ambasciatore in Austria (1934-1938) e Turchia (1939-1944), fu processato e assolto a Norimberga. Nelle sue memorie ricostruisce le cause dell’ascesa al potere del movimento nazionalsocialista («per il normale gioco del procedimento democratico»): parte del mondo industriale e dei militari risulta chiaramente favorevole ad affossare l’esperimento politico democratico.

Quando Hitler divenne Cancelliere, il 30 gennaio 1933, raggiunse il potere per il normale gioco del procedimento democratico […]. Era perfettamente chiaro che un movimento politico seguito da circa il 40 per cento della

popolazione, non poteva più a lungo essere ignorato. Aveva dimostrato di essere perfettamente in grado di scon-figgere, a maggioranza di voti, per scopi tattici, tutti i partiti borghesi, inclusi i Social-Democratici. Ho sempre so-stenuto che esso poteva essere neutralizzato soltanto addossandogli la sua intera parte di responsabilità politica. I nostri tentativi per assorbirlo in una posizione subordinata fallirono e la sua ascesa ad una posizione dominante divenne inevitabile. Il formidabile scoppio di entusiasmo di massa che salutò la nomina di Hitler dimostrò che non sarebbe stato un facile compito di indirizzare questa forza su vie normali […]. Egli ricevette il suo impeto da una massa eterogenea che lo appoggiava, unita nei suoi scopi. Questa massa non aveva un’idea chiara di come avrebbe dovuto raggiungere i suoi scopi, ma soltanto un sentimento istintivo, elementare, che «un cambiamento vi ha da essere, perché non si può andare avanti così». Certi industriali […] avevano posto a disposizione dei Nazisti fondi considerevoli perché vedevano nel movimento un alleato contro la minaccia del Bolscevismo. Ma i circoli industria-li, nel loro insieme, mantennero un atteggiamento freddo […]: allora, come ora, ogni partito, con l’eccezione dei Comunisti, riceveva sussidi dall’industria. Le forze armate erano un altro fattore della situazione […]. Consideravano la Repubblica di Weimar come un qualche cosa di estraneo, una forma provvisoria di organizzazione di stato, alla

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quale non si sentivano unite da profondo legame […]. La concezione militare dell’autorità, per tanto tempo colti-vata nell’Esercito prussiano, necessariamente non si armonizzava con il sistema di governo di Weimar e non vi è da meravigliarsi che i più giovani ufficiali guardassero il movimento nazista con un certo favore.

F. von Papen, Memorie, Cappelli, Bologna 1952

Rosa Luxemburg, L’esempio dei bolscevichiTra speranze e paure, la Rivoluzione di ottobre e l’operato del gruppo dirigente bolscevico avevano suscitato un’eco vastissima in tutto il continente, e un dibattito serrato tra i maggiori leader ed esponenti dei partiti socialisti europei: Karl Kautsky, Filippo Turati, Antonio Gramsci, Rosa Luxemburg. La rivoluzionaria tedesca di origine polacca, membro di spicco della Lega di Spartaco, nel 1918 sottolinea soprattutto la spontaneità del processo rivoluzionario e le capacità del gruppo dirigente bolscevico nel guidare una rivoluzione in condizioni estreme.

È compito storico del proletariato, una volta giunto al potere, creare al posto della democrazia borghese una demo-crazia socialista, non abolire ogni democrazia. Ma la democrazia socialista non comincia soltanto nella terra

promessa, una volta costruite le infrastrutture economiche socialiste, come dono natalizio bell’e fatto per il bravo popolo, che nel frattempo ha fedelmente sostenuto un pugno di dittatori socialisti. La democrazia socialista comincia contemporaneamente alla demolizione del dominio di classe e alla costruzione del socialismo. Essa comincia nel momento della conquista del potere da parte del Partito socialista. Essa non è null’altro che dittatura del proletariato.Certo: dittatura! Ma questa dittatura consiste nel sistema di applicazione della democrazia, non nella sua abolizio-ne. In energici e decisi interventi sui diritti acquisiti e sui rapporti economici della società borghese, senza i quali la trasformazione socialista non è realizzabile. Ma questa dittatura deve essere opera della classe, e non di una picco-la minoranza di dirigenti in nome della classe, vale a dire deve uscire passo passo dall’attiva partecipazione delle masse, stare sotto la loro influenza diretta, sottostare al controllo di una completa pubblicità, emergere dalla cre-scente istruzione politica delle masse popolari. Sicuramente anche i bolscevichi procederebbero esattamente in questi termini, se non soffrissero della spaventosa pressione della guerra mondiale, dell’occupazione tedesca e di tutte le abnormi difficoltà connesse, che non posso-no non sviare qualunque politica socialista pur traboccante delle migliori intenzioni e dei più bei princìpi […].Tutto ciò che avviene in Russia, è comprensibile, non rappresenta che un’inevitabile catena di cause ed effetti […]. Sarebbe pretendere il sovrumano da Lenin e compagni, attendersi ancora da loro in tali circostanze che sappiano creare per incanto la più bella democrazia, la più esemplare delle dittature proletarie e una fiorente economia socia-lista. Col loro deciso atteggiamento rivoluzionario, la loro esemplare energia e la loro scrupolosa fedeltà al socialismo internazionale essi hanno certamente fatto quanto in situazione così diabolicamente difficile era da fare […]. Ciò che conta è distinguere nella politica dei bolscevichi l’essenziale dall’inessenziale, il nocciolo dal fortuito […]: i Lenin e i Trotzkij coi loro amici sono stati i primi a dar l’esempio al proletariato mondiale, e sono tuttora gli unici, che […] possano esclamare: io ho osato! Questo è quanto costituisce l’essenziale e l’imperituro della politica bolscevica.

R. Luxemburg, La rivoluzione russa. Un esame critico, in Scritti scelti, Einaudi, Torino 1975

Iosif V. Stalin, Unità del partito ed epurazione degli “opportunisti”Siamo nel 1924, nel pieno dello scontro politico che contrappone Stalin e Trotzkij. Alla minaccia di involuzione burocratica della rivoluzione denunciata da quest’ultimo, Stalin oppone la necessità dell’unità assoluta all’interno del partito e della conseguente espulsione di tutti gli elementi “opportunisti”, alleati del capitalismo imperialista. Stalin avrebbe poi costantemente usato questa espressione, proprio in alternativa a quella di “trotzkista”, per giustificare l’eliminazione di elementi o di gruppi a lui sgraditi.

Il partito, unità di volontà, incompatibile con l’esistenza di frazioni. Senza un partito forte per la sua coesione e la sua ferrea disciplina non sono possibili la conquista e il mantenimento della dittatura del proletariato. Ma una

ferrea disciplina nel partito non si può concepire senza l’unità di volontà, senza l’unità di azione completa e asso-

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luta di tutti i membri del partito. Questo, evidentemente, non significa che venga esclusa la possibilità di una lotta di opinioni in seno al partito […]. Ma, una volta terminata la lotta di opinioni, una volta esaurita la critica e presa una decisione, l’unità di volontà e l’unità di azione di tutti i membri del partito sono la condizione indispensabile, senza la quale sono inconcepibili un partito unico e una disciplina ferrea […]. Il partito si rafforza epurandosi dagli elementi opportunisti. Gli elementi opportunisti nel partito: ecco la fonte del frazionismo. Il proletariato non è una classe chiusa in sé. Continuamente si vedono affluire verso di esso elementi d’origine contadina, piccolo-borghese, intellettuali proletarizzati dallo sviluppo del capitalismo. Nello stesso tempo si verifica un processo di decomposizione degli strati superiori del proletariato, principalmente tra i dirigenti sinda-cali e parlamentari che la borghesia corrompe per mezzo dei sovrapprofitti coloniali […]. Tutti questi gruppi picco-lo-borghesi penetrano in un modo o nell’altro nel partito, vi portano lo spirito d’esitazione e d’opportunismo, lo spirito di demoralizzazione e d’incertezza […]. Se il nostro partito è riuscito a costituire la sua interna unità e una coesione senza pari nelle sue file, questo deriva soprattutto dal fatto che ha saputo liberarsi a tempo del putridume dell’opportunismo, che ha saputo cacciare dal partito i liquidatori e i menscevichi. La via dello sviluppo e del raf-forzamento dei partiti proletari passa attraverso la loro epurazione dagli opportunisti e dai riformisti, dai socialim-perialisti e dai socialsciovinisti, dai socialpatrioti e dai socialpacifisti.Il partito si rafforza epurandosi dagli elementi opportunisti.

I.V. Stalin, Principi del leninismo e altri scritti, Samonà e Savelli, Roma 1970

Lev Trotzkij, La rivoluzione permanenteNel 1932, dopo la sua espulsione dall’Unione Sovietica, Trotzkij polemizza aspramente con la teoria staliniana del socialismo in un paese solo. Sostenitore, al contrario, della necessità della «rivoluzione internazionale», oppositore anche all’estero e storico di notevole valore, otto anni dopo Trotzkij sarebbe stato assassinato a Città del Messico da un sicario di Stalin.

Lo sviluppo attuale dell’economia sovietica resta un processo contraddittorio. Consolidando lo Stato operaio i successi economici non portano affatto, in modo automatico, alla creazione di una società armoniosa. Al con-

trario, preparano un nuovo acutizzarsi, a un livello più elevato, delle contraddizioni di una costruzione socialista isolata. La Russia rurale continua ad aver bisogno di un piano economico comune con l’Europa industriale. La di-visione mondiale del lavoro si colloca al di sopra della dittatura del proletariato in un paese solo e le prescrive im-periosamente le vie da seguire. La rivoluzione d’ottobre non ha affatto escluso la Russia dall’evoluzione del resto dell’umanità, al contrario, l’ha legata ancor più strettamente a questa evoluzione. La Russia non è più il ghetto della barbarie, ma non è ancora l’arcadia del socialismo. È il paese più transitorio della nostra epoca di transizione. «La rivoluzione russa non è che un anello della catena della rivoluzione internazionale». Le condizioni attuali dell’economia mondiale permettono di dire senza esitazioni: il capitalismo si è avvicinato alla rivoluzione proletaria più di quanto l’Unione Sovietica si sia avvicinata al socialismo. Le sorti del primo Stato operaio sono indissolubil-mente legate a quelle del movimento emancipatore in Occidente e in Oriente.

L. Trotzkij, Socialismo in un paese solo?, in La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino 1967

Nikita Chruscëv, Rapporto al XX Congresso del PCUSIl rapporto che Nikita Chruscëv presentò nel 1956 al XX Congresso del PCUS contiene la prima denuncia dei crimini dello stalinismo a opera di un dirigente sovietico. Estremamente dibattuta e oggetto di controversia, la relazione presentata dal segretario del PCUS rompeva parzialmente con la tradizione stalinista e con il mito di Stalin, ma limitava a lui solo la denuncia dei crimini dello stalinismo, con l’esclusione del gruppo dirigente ancora al potere, di cui anch’egli faceva parte.

Fu precisamente in questo periodo (1935-1937-1938) che ebbe origine il sistema della repressione in massa at-tuata attraverso l’apparato governativo prima contro i nemici del leninismo – i seguaci di Trotsky, di Zinoviev, di

Bukharin, già da tempo sconfitti politicamente dal partito – e successivamente anche contro molti onesti comuni-

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sti, contro quei dirigenti del partito che avevano sopportato il grave onere della guerra civile, i primi e più difficili anni dell’industrializzazione e della collettivizzazione, che com batterono attivamente contro i trotskisti e i devia-zionisti di destra per la linea leninista del partito. Fu Stalin a formulare il concetto di “nemico del popolo”. Questo termine rese automaticamente superfluo che gli errori ideologici di uno o più uomini implicati in una controversia venissero provati. Questo termine rese possibile l’uso della repressione più crudele, in violazione di tutte le norme della legalità rivoluzionaria, contro chiunque in qualsiasi modo fosse in disaccordo con Stalin, contro coloro che fossero appena sospettati di intenzioni ostili, contro coloro che non godessero di buona fama. Il concetto di “ne-mico del popolo” eliminò praticamente la possibilità di qualsiasi forma di battaglia ideologica e la possibilità di render noto il proprio punto di vista su questo o quel problema, anche quelli di carattere pratico. Principalmente, e nella prassi, l’unica prova di colpevolezza usata, contro tutte le norme del diritto, era la “confessione” dell’imputa-to stesso; e, come provarono le successive risultanze, le “confessioni” venivano ottenute mediante pressioni fisiche contro gli accusati. Ciò portò ad evidenti violazioni della legalità rivoluzionaria e al fatto che molte persone inno-centi, che in passato avevano difeso la linea del partito, rimasero vittima delle repressioni. Dobbiamo affermare che, per quanto riguarda coloro che a suo tempo si erano opposti alla linea del partito, spesso non vi erano ragioni sufficientemente serie per la loro liquidazione fisica. La formula “nemico del popolo” fu introdotta specificamente allo scopo di eliminare fisicamente tali individui […].Arresti in massa e deportazione di migliaia di persone, esecuzioni senza processo e senza regolare istruttoria, crea-vano uno stato di incertezza, di paura e anche di disperazione. Tutto ciò, naturalmente, non contribuiva a rinsal-dare l’unità; tra le file del partito e di vari strati del popolo lavoratore, provocando, al contrario, l’eliminazione e l’espulsione dal partito stesso di collaboratori ad esso fedeli, ma invisi a Stalin […]. In quegli anni furono eseguite repressioni su scala massiccia, non fondate su alcuna prova tangibile e che causarono gravi vuoti nei quadri del partito. Fu consentita la criminosa pratica che la nkvd preparasse liste di persone i cui casi rientravano nella com-petenza del Collegium militare e la cui condanna era predisposta a priori […]. Compagni, dobbiamo abolire il culto della personalità decisamente, una volta per tutte.

N. Chruscëv, Rapporto al XX Congresso del PCUS, in Krusciov Ricorda, Sugar, Milano 1970

Mao Tse-tung, La dittatura democratica popolareIl discorso di Mao Tse-tung, leader del Partito comunista cinese, risale ai mesi conclusivi della guerra civile (1946-1949), che oppose il partito di Mao a quello nazionalista guidato da Chiang Kai-shek, e precede di poco la vittoria definitiva dei comunisti e l’instaurazione della Repubblica popolare, proclamata da Mao stesso in piazza Tienanmen, a Pechino, il 1° ottobre 1949.

Noi siamo l’opposto dei partiti politici della borghesia. Essi hanno paura di parlare dell’estinzione delle clas-si, del potere statale e dei partiti politici. Noi, al contrario, dichiariamo apertamente di lottare con energia

proprio per creare le condizioni che consentiranno la fine di tutto ciò […]. La borghesia non accetta di buon grado questa verità perché non vuole essere rovescia ta. È doloroso e insopportabile vedersi sconfitti: lo sanno bene i reazionari del Kuomintang che noi stiamo annientando e lo sanno anche gli imperialisti giapponesi che noi, insieme ad altri popoli, abbiamo sconfitto qualche tempo fa. Per la classe operaia invece, per il popolo lavoratore e per il partito comunista, il problema non è quello di vedersi rovesciare: si tratta di lavorare sodo per creare le condizioni favorevoli alla estinzione delle classi, del potere statale e dei partiti politici […]. Sotto la direzione del partito comunista cinese, il popolo cinese, dopo aver scacciato l’imperialismo giapponese, ha condotto per tre anni la guerra popolare di liberazione e ha praticamente ottenuto la vittoria. In questo modo, agli occhi del popolo cinese, la civiltà borghese occidentale, la democrazia borghese e i progetti per una repub-blica borghese sono falliti. La democrazia borghese ha lasciato il posto alla democrazia popolare sotto la guida della classe operaia, e la repubblica borghese ha lasciato il posto alla repubblica popolare […]. La principale e fondamentale esperienza acquisita sinora dal popolo cinese si può riassumere in due punti: 1. All’interno del paese, risvegliare le masse popolari. Questo significa unire la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia urbana e la borghesia nazionale per formare un fronte unito guidato dalla classe operaia e, su queste basi, costruire uno stato che sia una dittatura democratica popolare diretta dalla classe operaia e fondata sull’allean-za tra operai e contadini. 2. All’esterno del paese, unirsi, in una lotta comune, con quelle nazioni del mondo che ci trattano da pari a pari, e con i popoli di tutti i paesi. Questo significa allearsi con l’Unione Sovietica, con i paesi di democrazia popolare, con il proletariato e con le larghe masse popolari di tutti gli altri paesi per for-mare un fronte unito internazionale […].

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Tutta l’esperienza che il popolo cinese ha accumulato in diversi decenni ci insegna a rafforzare la dittatura demo-cratica popolare, cioè a privare i reazionari del diritto di parola e a riservare questo diritto solo al popolo […]. Il popolo è la classe operaia, i contadini, la piccola borghesia urbana e la borghesia nazionale. Queste classi, sotto la direzione della classe operaia e del partito comunista, si uniscono per costituire il loro stato ed eleggere il loro go-verno; rafforzano la loro dittatura sui lacchè dell’imperialismo […]. La democrazia è praticata in seno al popolo, che ha il diritto alla libertà di parola, di assemblea, di associazione ecc. Il diritto di voto appartiene solo al popolo e non ai reazionari. La dittatura democratica popolare si fonda sulla combinazione di questi due aspetti, democrazia per il popolo e dittatura sui reazionari […]. Il nostro compito attuale è quello di rafforzare l’apparato statale del popo-lo, in primo luogo l’esercito popolare, la polizia popolare e la giustizia popolare, al fine di consolidare la difesa nazionale e proteggere gli interessi del popolo. A queste condizioni, la Cina potrà, sotto la direzione della classe operaia e del partito comunista, svilupparsi gradualmente passando da paese agricolo a paese industriale e dalla società di nuova democrazia alla società socialista e comunista […]. La nostra esperienza può essere sintetizzata in un punto: la dittatura democratica popolare sotto la direzione della classe operaia (attraverso il partito comunista) è basata sull’alleanza tra gli operai e i contadini. Questa dittatura deve unirsi con le forze rivoluzionarie internazio-nali. Questa è la nostra formula, la nostra esperienza principale, il nostro programma fondamentale.

Mao Tse-tung, Discorso per il XXVIII anniversario del Partito comunista cinese, 30 giugno 1949

Aleksander Dubcek, La primavera di PragaIl leader ceco Aleksander Dubcek ricorda l’esperienza della “Primavera di Praga”, la rivolta cecoslovacca del 1968 stroncata dall’intervento dei carri armati e delle truppe sovietici, quando il gruppo dirigente del Paese si fece promotore, come si disse, di un «socialismo dal volto umano». In particolare, rievoca il momento del suo arresto e di quello dei suoi collaboratori, a opera delle truppe sovietiche, la mattina del 20 agosto 1968.

Credevamo che il socialismo – almeno nel nostro paese – non potesse esistere senza democrazia. I sovietici vole-vano che restaurassimo il loro modello di dittatura di un solo partito, ma non pensavo che potessero farci guer-

ra soltanto per questa divergenza di opinione. Dopo tutto, eravamo legati da un trattato di alleanza e da Praga evitavamo qualsiasi cosa potesse suscitare dubbi sulla nostra lealtà. Di più: da anni, Mosca predicava l’idea della coesistenza pacifica e della non ingerenza negli affari interni di un altro Stato. Era razionale attendersi che avreb-bero calpestato quei princìpi e ci aggredissero militarmente? Non lo pensavo, e non penso di essere stato un sogna-tore. Non mi aspettavo che si lanciassero in un’azione che avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche per loro stessi […]. Il mattino del 20 [agosto 1968, n.d.r.] trascorse senza alcun fatto particolare. Era inconcepibile pensare che nel giro di poche ore i carri armati sovietici ci avrebbero assalito […]. I sovietici avevano fatto un passo gigantesco, passan-do dalle polemiche alla guerra, eserciti imponenti, decisi a schiacciare ogni resistenza, ci stavano assalendo da ogni parte. Sapevo che l’opinione pubblica ceca e slovacca sosteneva le nostre riforme e si sarebbe schierata decisamen-te contro l’intervento. Dovevamo esprimere una condanna netta dell’aggressione e insieme fare di tutto per scan-sare un inutile spargimento di sangue. Una resistenza militare era impossibile […]. L’ordine di opporre resistenza sarebbe stato seguito da scontri a livello locale e avrebbe legittimato l’accusa dei sovietici circa l’esistenza di una “controrivoluzione” […]. Alle 4 circa vedemmo […] una colonna di carri e di mezzi blindati […], vedemmo quindi i paracadutisti […]. Con i mitra imbracciati circondarono l’edificio. Subito dopo i telefoni, compresi quelli interni, smisero di funzionare. Cominciava ad albeggiare quando un gruppo di armati […] irruppe nel palazzo. Più tardi – era ormai mattina – sette o otto paracadutisti e uno o due ufficiali inferiori invasero il mio ufficio e bloccarono finestre e porte […]. Non ricordo esattamente chi ci fosse ancora nel mio ufficio […]. A un certo punto […] entraro-no alcuni alti ufficiali del kgb. Tra loro, un colonnello […], da un elenco che aveva in mano spuntò velocemente i nostri nomi e disse che ci prendeva «sotto la sua protezione». E in effetti eravamo “protetti”, ognuno di noi, sedu-to attorno a un tavolo, aveva un mitra puntato alla nuca. L’ufficiale del kgb ci condusse nell’ufficio di Cisar [mem-bro del gruppo dirigente cecoslovacco, n.d.r.]. Lì eravamo attesi da diversi ufficiali sovietici e da persone in abiti civili appartenenti alla nostra sis offertisi “volontari” per operare il nostro arresto formale. Uno di loro recitò con voce meccanica, da attore dilettante: «Vi dichiaro in arresto in nome del governo operaio-contadino».

A. Dubcek, Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario, Editori Riuniti, Roma 1996

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Aleksandr Solzenitzyn, L’Arcipelago GulagArcipelago Gulag è l’opera più famosa dello scrittore e dissidente russo Aleksandr Solzenitzyn, premio Nobel nel 1970. Scritta grazie all’aiuto di amici e internati nel campo di lavoro forzato – l’autore stesso vi fu recluso tra il 1945 e il 1956 – gli costò l’espulsione dall’URSS e in gran parte venne pubblicata all’estero negli anni 1973-1978: offre uno spaccato della realtà e della vita quotidiana del sistema concentrazionario sovietico.

La vita degli indigeni consiste di lavoro, lavoro e ancora lavoro; di freddo, fame e astuzia. Il lavoro, per chi non ha saputo fare lo sgambetto agli altri e sistemarsi sul morbido, è un lavoro comune, quello che dalla terra fa

sorgere il socialismo e nella terra caccia noialtri. Spingere una carriola […]. Portare i mattoni su una specie di barel-la. Scaricare i mattoni (le dita si scorticano rapidamente). Portare i mattoni “a capra”: in una gerla sulla schiena. Estrarre carbone, pietre, argilla e sabbia. Picconare sei metri cubi di materiale aurifero e portarli ai vagli. E, sempli-cemente, scavare la terra, roderla (un terreno siliceo, d’inverno). Estrarre il carbone sottoterra. Altri minerali, il piombo, il rame. Si può anche macinare il minerale di rame (un gusto dolciastro in bocca, il naso cola). Si possono impregnare di creosoto le traversine (e tutto il corpo). Si possono perforare gallerie per le strade. Fare le massiccia-te. Si può cavare la torba dalle paludi, stando alla melma fino alla cintura. Si possono fondere i metalli. Si possono fondere i minerali. Si possono falciare i rialzi erbosi dei prati acquitrinosi (e camminare nell’acqua fino a metà gam-ba). Si può fare lo stalliere, il carrettiere (e mettersi nella gavetta l’avena tolta dal sacco del cavallo, appartiene allo Stato, gli basterà anche l’erba, e se crepa, poco male). Si può anche fare tutto il lavoro d’un contadino in un’azien-da statale (e non esiste lavoro migliore, si rimedia sempre qualche cosa dalla terra) […]. Ma la madre di tutti noi è la nostra foresta russa […]. Il primo di tutti i lavori dell’Arcipelago in ordine di tempo è il taglio della legna. Chiama tutti, ha posto per tutti, non è precluso neppure agli invalidi (mandano i monchi in gruppi di tre per pestare la neve alta mezzo metro). Sei un taglialegna. La neve t’arriva al petto. Cominci col pestarla intorno al tronco. Poi lo ab-batti. Poi, riuscendo a stento a spingerti nella neve, tagli tutti i rami (vanno riuniti nella neve e devi raggiungerli con l’ascia). Sempre trascinandoli in quella neve farinosa, raduni tutti i rami in mucchi e li bruci (fanno fumo, sen-za ardere). Adesso seghi la legna riducendola alla misura voluta e l’accatasti […]. Le braccia non riescono più a sollevare l’ascia, le gambe non si muovono più […].E come erano nutriti per tutto questo? Si versava l’acqua nel calderone, vi si buttavano nel migliore dei casi picco-le patate non sbucciate, oppure cavolo nero, foglie di barbabietola, ogni sorta di scarti, vecce, crusca […]. Dove mancava addirittura l’acqua […] si dava una scodella di sbobba al giorno e in più si distribuivano due tazze di acqua torbida e leggermente salata. Tutti gli alimenti che valevano qualcosa erano immancabilmente e sempre rubati per le autorità […]. Peggiore è il prodotto, e più ne va ai detenuti. Capitava carne di cavalli logorati e morti sul lavoro; e sebbene fosse impossibile masticarla, era un festino […]. È impossibile nutrire con le razioni del gulag un uomo che lavora per tredici, o anche dieci ore al gelo. E diventa del tutto impossibile se parte della razione è rubata […]. Per tutto questo acquoso cibo che non può reintegrare il dispendio di forze, i muscoli bruciano nell’estenuante lavoro, tanto che gli “stachanovisti” e i “lavoratori d’urto” se ne vanno sottoterra prima dei renitenti. I vecchi dete-nuti lo capiscono e dicono: non mi dare polenta in più ma non mi far sgobbare!

A. Solzenitzyn, Arcipelago Gulag 1918-1956. Saggio di inchiesta narrativa, Mondadori, Milano 1974, vol. 2

Michail Gorbacëv, La perestrojkaNell’aprile del 1989 Michail Gorbacëv illustra alcuni tratti e finalità della politica di riforme da lui inaugurata fin dal 1985, la perestrojka. Proprio questo complesso di riforme, involontariamente, avrebbe contribuito in maniera decisiva ad accelerare la caduta del regime.

La comunità mondiale è a un bivio tra due politiche. Una, generalizzando, è la politica di forza. Essa appartiene al passato. L’altra politica si sta appena affermando. È legata all’impetuoso processo di affermazione del carat-

tere d’integrità e di interdipendenza del mondo […]. In Unione Sovietica abbiamo incominciato da noi stessi. Quat-tro anni fa, nell’aprile 1985, abbiamo compiuto una scelta […], abbiamo imboccato la strada della perestrojka con gli occhi aperti. Prevedevamo la complessità e l’originalità di tale processo. Comprendevamo che esso avrebbe scos-so alle fondamenta tutta la società. Per l’essenziale non ci siamo sbagliati, ma la portata dei numerosi problemi interni – politici, economici, sociali, morali – non si è rivelata subito, bensì nel corso del processo. Ciò richiede

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appoggi e soluzioni sempre nuovi, il più intenso lavoro intellettuale e pratico. Per quanto concerne le difficoltà – e ve ne sono – le consideriamo l’espressione naturale delle contraddizioni di un periodo di transizione […]. Esse sot-tolineano semplicemente il carattere di svolta del momento che stiamo attraversando, in cui ancora vive il vecchio e non lo si può eliminare d’un colpo, mentre il nuovo non riesce a imporsi con tutto il suo vigore. Si tratta, infatti, di trasformazioni profondissime in ogni campo: nel modo di vivere, nei rapporti con il lavoro e con l’impegno civi-le. Abbiamo scelto definitivamente e senza possibilità di ritorno di procedere verso nuove forme di vita, la demo-cratizzazione della società in ogni campo. Siamo convinti che essa creerà, e stia già creando, le condizioni per la piena espressione della personalità e la libertà di pensiero, che essa soltanto ci consentirà di far emergere quei va-lori originari del socialismo quali la tutela sociale, la giustizia, il carattere umanitario dei rapporti produttivi e so-ciali. In tale contesto puntiamo ai livelli più elevati della glasnost [trasparenza, n.d.r.] e dell’informazione. Siamo convinti che soltanto attraverso la democratizzazione sia possibile creare un’economia che funzioni efficacemente, sana e dinamica. La radicale riforma economica, coniugando la regolamentazione pianificata con il mercato, ci porterà a un nuovo meccanismo economico, ci consentirà di armonizzare la molteplicità di forme della proprietà socialista e dell’attività economica, aprirà nuovi orizzonti all’iniziativa e all’imprenditorialità dei produttori.La perestrojka è in URSS un processo profondo, fondamentale, che risponde innanzitutto alle esigenze dello svilup-po interno del nostro paese. Ma essa racchiude anche i tratti di cambiamenti tipici di tutto il mondo contemporaneo […]. La nostra riforma economica presuppone un più profondo coinvolgimento dell’URSS nell’economia mondiale e probabilmente può favorire la creazione di un mercato davvero mondiale, di un nuovo ordine economico mon-diale. Negli ultimi anni si è delineata una possibilità reale di chiudere l’ultima pagina del dopoguerra e di avanzare verso un nuovo periodo di pace. Far affidamento sulla forza è una posizione pericolosa che porta in un vicolo cie-co. Le realtà attuali hanno reso evidente l’inconsistenza della filosofia della contrapposizione frontale. Decenni di “guerra fredda” sono costati troppo cari sia all’Oriente che all’Occidente. Proseguire sulla via della contrapposizione totale può portare tutti alla catastrofe […]. La strada maestra che porta alla riduzione della contrapposizione mili-tare, all’abbassamento del livello degli armamenti e all’onere delle spese militari, passa attraverso i negoziati e la ricerca di un compromesso tra i protagonisti della lunga corsa agli armamenti […]. L’Unione Sovietica è pronta ad andare molto avanti nella smilitarizzazione dell’Europa, e in generale nel processo europeo.

M. Gorbacëv, L’impegno per il disarmo scaturisce dalla perestrojka, discorso alla Guidehall di Londra, 7 aprile 1989, in La Casa Comune Europea, Mondadori, Milano 1989

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Il tratto più tipico della cultura rinascimentale fu l’imitazione della civiltà romana. È vero che, nel Medioevo, lo studio dei classici non fu mai tralasciato: essi, però, erano in genere letti in chiave cristiana. Gli intellettuali umanisti, invece, si rivolsero ai Romani perché li consideravano maestri di sapienza e modelli insuperabili di comportamento.

Certamente, l’eco della cultura classica è stata vivissima per tutto il Medioevo: è, questo, un risultato acquisito da decen-

ni di studi, su cui ormai non può cader dubbio. Nella letteratura come nella filosofia, come almeno dal secolo XII in poi, nell’ar-te stessa, sono frequenti, copiosi gli imprestiti che gli uomini dell’età di mezzo chiedono alla cultura antica. [...] Gli è che [tuttavia, n.d.r.] lo spirito medievale con tutti i suoi imprestiti ad autori, poeti e storici e filosofi classici, era rimasto, sempre, dominato sostanzialmente da un’altra preoccupazione e da un altro motivo dominante, ch’era offerto dal problema dei rap-porti fra Dio e uomo, e dal senso, cristiano e agostiniano, del peccato e della grazia; e l’antichità classica era stata, quindi, semplice strumento, mezzo culturale posto a disposizione di una vita spirituale che traeva la sua ragion d’essere da ben al-tra fonte. Serviamoci pure di Virgilio e Ovidio e Lucano e Stazio e Cicerone e Quintiliano; cerchiamo perfino di imitarli, nell’ap-parenza esteriore: ma insomma tutti questi sono ornamenti che devono servire a far bella una vita, morale e spirituale, che ha il suo centro nella concezione religiosa del mondo e si attua nell’organizzazione ecclesiastico-gerarchica della società. L’imitazione dei classici, allora, quando c’è, non può che esser pura esteriorità; tanto è vero che perfino nelle opere più simili alle classiche si avverte un soffio ispiratore profondamente dissimile dallo spirito antico. [...]Se si tiene presente tutto ciò, si scorge quel ch’è il punto cru-ciale della questione: la Roma antica era stata accolta sì dagli uomini del Medioevo, ma solo in quanto si accordasse [nella misura in cui si riusciva a conciliarla, n.d.r.] con la Roma Chri-stiana, anzi «servisse» a questa; la cultura classica aveva con-tinuato ad agire solo come elemento subordinato, in funzione

di una sensibilità, di un modo di vedere le cose, di pensare la vita che aveva tutta una sua propria, organica struttura total-mente indipendente dall’influenza classica. Virgilio è famoso ovunque, nel Medioevo; ma non è il solo Virgilio poeta, sibbene il Virgilio semimago [figura simile ai Magi che, per quanto pa-gani, nel Vangelo di Matteo rendono omaggio a Cristo, n.d.r.] che ha profetizzato l’avvenire [l’imminente venuta, n.d.r.] del Cristianesimo, il Virgilio che ancora Dante – spirito medievale nell’insieme – sceglierà a guida per il suo viaggio nell’oltre-tomba. Travestimento, dunque, di un’anima pagana in veste cristiana: e questo basta a definire la vera natura della «clas-sicità» medievale. Del tutto diverso, di valore e significato, il richiamo all’antichità classica nell’Italia del Rinascimento. [...] L’antichità classica diventa, cioè, l’ideale momento della storia umana in cui si sono realizzate le più alte aspirazioni degli uo-mini, il momento-modello in cui bisogna specchiarsi per avere chiara e sicura guida a più alto operare, nelle lettere come nel-le arti come nella politica e nella milizia [nell’arte della guer-ra, n.d.r.]. Se non lo sostituisce proprio completamente (e in alcuni casi, per esempio col Machiavelli, ciò avviene), per lo meno questo momento-modello si affianca a quello ch’era sta-to l’unico momento modello per la cristianità medievale, il mo-mento della Rivelazione; e comunque, salvi i diritti ultraterreni di quest’ultimo, rimane l’«unico» modello «umano» a cui ispi-rarsi. Che è un sentire assai dissimile da quello degli stessi pseudo-umanisti del secolo XII. Nel Medioevo, l’antichità clas-sica è puro ornamento, fregio decorativo, modello meramente stilistico; ora, diventa un modello di vita: e perciò anche viene finalmente avvicinata con la volontà di penetrarla, di capirla in sé e per sé, nelle sue forme e nei suoi motivi ispiratori, indipen-dentemente dal fatto ch’essa possa fungere da utile ricettario o formulario ad uso di scrittori o predicatori in cerca di esempi e di sentenze sonanti con cui render più solenne il proprio scritto o la propria predica. Che solo col Rinascimento siano sorte una archeologia e una filologia nel senso moderno, questo è già sufficiente prova della diversità del modo di sentire l’antico nelle due epoche.

F. Chabod, Scritti sul Rinascimento, Einaudi, Torino 1981

Gli ordinamenti politici ottomani presentavano molte analogie con la tradizione musulmana, per esempio il prelievo forzato di sudditi cristiani per avviarli alla conversione e al servizio del sultano. In contrasto con alcuni princìpi coranici, questa prassi conosceva precedenti e aveva effetti psicologicamente opposti sulle stesse popolazioni sottomesse.

Lo stato ottomano sin dagli inizi palesò la caratteristica di essere una monarchia assoluta. Era il sovrano che gover-

nava direttamente. Anche quando lo stato si espanse enor-memente e si avvertì l’esigenza di nominare persone che cu-rassero da vicino gli affari, niente era fatto senza la preventi-va autorizzazione del sultano. Se si pensa, poi, che nomine e destituzioni erano completamente rimesse all’arbitrio del sultano e che i mutamenti avvenivano con una certa frequen-

Federico Chabod, L’imitazione dell’antica Roma

Aldo Gallotta, Conversioni e ordinamenti politici dell’Impero turco

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La tradizione storiografi ca risorgimentale ha avuto un peso rilevante nell’esaltare le glorie dell’età comunale a discapito di quelle successive, ma anche nel segnare in maniera drastica le differenze tra la situazione italiana e quella europea, nonché quelle tra un Mezzogiorno irrimediabilmente arretrato e un Settentrione attivo. Molte sono invece le analogie

che la ricerca recente, più libera da condizionamenti, riesce a individuare, ribaltando gli antichi giudizi.

Alla storia italiana, anche a quella delle società tardome-dievali, sono state attribuite immagini di lenta decadenza

riferite innanzitutto agli antichi stati italiani preunitari (tra Cinque e Settecento): immagini di dorato declino di una realtà

Igor Mineo, La decadenza degli Stati italiani

za, in modo da evitare che qualcuno mettesse radici sul po-sto, risulterà chiaro come il potere del sultano si esercitasse nella maniera più assoluta, tanto più che alcuni governatori erano prìncipi di sangue reale e molti altri schiavi del sulta-no. Su quest’ultima categoria occorre soffermarsi in modo particolare.Durante il periodo che va da ’Os

¯man a Maometto II avvenne

una profonda trasformazione nella classe dirigente. L’aristo-crazia guerriera turca che era stata al fianco del fondatore dello stato e che aveva validamente contribuito alle conqui-ste in Europa cede sempre più il campo a nuove categorie: signori cristiani che pur conservando la propria religione si mettono al servizio dei turchi e sono mantenuti nella propria condizione; cristiani ridotti in schiavitù nel corso di scorrerie o battaglie o nell’espugnazione di città e convertiti all’Islam; infine sudditi cristiani prelevati in giovane età a mezzo di una leva detta devsirme «coscrizione» anche essi ridotti alla con-dizione di schiavi e convertiti all’Islam. Mentre la prima cate-goria si esauriva sul posto generalmente nel corso di una generazione con la conversione all’Islam che significava completa assimilazione, le altre due cate gorie presentavano un continuo ricambio. L’impiego di schiavi al servizio dello stato, detti gulam in arabo e persiano e qul in turco, era un fenomeno che aveva dietro di sé un lungo passato [...] La pra-tica di impiegare schiavi come soldati, anche in funzioni di comando, iniziò certamente con ’Os

¯man. [...] Non è escluso

che tra i molti abitanti di Nicea, deportati, ridotti schiavi e convertiti all’Islam al tempo di Orh

˘an, siano stati scelti gio-

vani da impiegare quali soldati. Comunque l’uso sistematico di assumere prigionieri al servizio dello stato dopo averli convertiti forzosamente all’Islam sembra sia avvenuto al tempo di Murad I, con l’istituzione del pengik «il quinto», os-sia il prelevamento di un prigioniero ogni cinque per conto del sultano quale quota a lui spettante sul bottino.Storicamente il devsirme è una evoluzione dell’istituto isla-mico dei gulam, sorto in ambiente arabo al tempo degli Ab-basidi [...]. Il trattamento riservato dapprima ai prigionieri di guerra fu esteso alla popolazione già vinta in un momento in cui la distinzione tra i primi e la seconda non era ancora ben netta. Si trattò, insomma, come è stato ben detto, di una «eternizzazione della conquista» [...]. La pratica, di per sé contraria alle norme della legge sciaraitica che assicura li-bertà personale e religiosa ai sudditi cristiani (z

¯immı) in

cambio del pagamento di un tributo (gizya), aveva all’inizio una parvenza di giustificazione nel diritto della conquista. In

questo ordine di idee è il pensiero, alquanto arbitrario, dello storico ottomano di origine curda, Idris Bitlisı (XVI secolo), secondo il quale nei paesi conquistati con la forza i z¯immı¯ erano schiavi (mamluk) del sultano dei gazı e quindi era le-cito esercitare su di loro una costrizione fisica ed impiegarli nel gihad; egli conclude che il devsirme era una saggia prati-ca conforme alla ragione e alla legge, giovevole a rafforzare la causa dello stato e della religione.Non c’è bisogno di soffermarsi su quanto inumana e crudele fosse la pratica del devsirme che sottraeva alle famiglie i mi-gliori figli, li faceva schiavi e li costringeva a rinnegare la propria fede. [...] Va però considerato che i turchi non aveva-no ragione di compatire la sorte di quei giovani che diveniva-no schiavi, ma schiavi del sultano e che ricevevano il benefi-cio di entrare a far parte della comunità islamica. Ai loro oc-chi sui giovani convertiti si riverberano l’aureola dell’autorità sultaniale e la luce della vera fede.In effetti il devsirme è una espressione della forte coscienza statale propria degli ottomani, secondo la quale tutto dove-va essere posto al servizio dello stato. In fondo questo isti-tuto era l’unico modo possibile per avvalersi delle forze in-digene dei paesi conquistati, attuando una sorta di servizio militare obbligatorio. A prescindere da ogni considerazione moralistica, sociolo-gica o storica, il devsirme era politicamente un capolavoro. [...] La principale funzione del devsirme nel rapporto con quei popoli fu psicologica. Certamente la potente azione assimilatrice dell’Islam trasformava i giovani in sradicati, non però tanto che in loro e nei loro paesi nativi si spegnes-se la coscienza della loro origine. Coloro che salivano ad alte cariche, nella nuova veste di signori musulmani conservavano pur sempre il possesso dell’idioma materno, talora avevano mantenuto contatti con parenti e amici, a volte ritornavano da padroni tra la gente in mezzo alla quale erano nati. Questo fatto, che an-drebbe meglio accertato con apposite ricerche prosopogra-fiche, non poteva mancare di avere i suoi effetti sul modo in cui la popolazione cristiana vedeva i governanti, sentendoli non del tutto estranei. Si creava così, al di sopra della dif-ferenza di fede, un rapporto di solidarietà fra vincitori e vinti che certamente contribuì non poco a conferire saldezza allo stato ottomano.

A. Gallotta, Gli Ottomani, in La Storia. Il Medioevo, vol. 2, a cura di N. Tranfaglia e M. Firpo, UTET, Torino 1986

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politica ed economica dapprima centrale nel contesto medi-terraneo e in quello dell’Occidente cattolico e poi gradual-mente trascinata alla periferia del sistema delle monarchie europee nonché di un’economia-mondo il cui asse già alla fine del Quattrocento si stava spostando verso l’Atlantico e l’Euro-pa centro-settentrionale. I temi storiografici del declino politi-co ed economico dell’Italia si sono affermati in tempi diversi, ma si sono alla fine saldati in un paradigma interpretativo as-sai tenace che ha condizionato tutti i discorsi che avessero ad oggetto la penisola e le sue regioni. Ora, il declino politico – insieme, graduale perdita di peso e di influenza nello scac-chiere internazionale e mancato sviluppo di un’esperienza di stato nazionale cronologicamente parallela ad altri percorsi europei (Francia, Inghilterra e Spagna essenzialmente) – e il declino econo mico – mancato sviluppo capitalistico e stagna-zione plurisecolare – riguardano essenzialmente la storia d’Italia in età moderna: perché questo paradigma ha segnato invece anche la rappresentazione del tardo medioevo?Il raffreddamento del pathos dei discorsi sulla decadenza ita-liana è stato possibile dal momento in cui una certa prospet-tiva teleologica (che guarda cioè ai processi storici come fi-nalizzati a un punto d’arrivo assiomatico, e che può essere collocato tanto nel presente quanto nel passato) ha comin-ciato a vacillare. Non è possibile neppure accennare qui in che modo il paradigma dello stato moderno (e nazionale) sia entrato recentemente in crisi innanzitutto nelle ricerche sulle maggiori formazioni politiche europee; sta di fatto che è ve-nuta gradualmente impallidendo negli ultimi vent’anni la prospettiva che ha visto l’età moderna come graduale dispie-gamento dell’autorità dello «stato moderno», cioè di uno stato sovrano e accentrato, detentore del monopolio della forza politica e costruttore potenziale di un tessuto istituzio-nale omogeneo e disciplinato. All’interno della storiografia italiana, e della medievistica in particolare, questo muta-mento di rotta ha consentito di rompere vecchie incrostazioni. Vediamo rapidamente solo le implicazioni principali di que-sto profondo mutamento di prospettiva.La storia dei comuni è stata sganciata dagli sviluppi successivi per essere reinterpretata come momento fondamentale della sperimentazione politica dei secoli centrali del medioevo.Lo scarto fra esperienza italiana ed esperienza europea nella storia degli stati del tardo medioevo e della prima età moderna si è andata notevolmente riducendo. Nell’una e nell’altra infat-ti la vicenda politico-istituzionale non si restringe al tema dell’emergenza di forti stati accentrati: si allarga invece alla

considerazione di tutti i poteri «non statuali» che nascono e continuano ad agire pur dopo l’affermazione e il consolidamen-to di monarchie e principati, nonché dell’estrema articolazione di soggetti politici, di corpi, di uffici e di altre autorità istituzio-nali racchiuse nella dimensione più propriamente statale.All’interno di una nuova attitudine a comparare esperienze italiane e esperienze europee la parabola delle monarchie meridionali diventa molto più nitida perché letta alla luce delle vicende di altre monarchie d’oltralpe a cui risulta imme-diatamente affine; e perché sottratta, anche grazie ai sugge-rimenti che provengono da alcune recenti ricerche di storia economica, alla dimensione uniformante di arretratezza ge-nerata dalla proiezione sul lontano passato di cui ci occupia-mo delle immagini del Mezzogiorno otto-novecentesco.In una tale prospettiva le differenze tra le diverse Italie si attenuano. La qualità dei processi di concentrazione della sovranità, di territorializzazione di grandi poteri regi e prin-cipeschi, di aggregazione di strutture amministrative (per dire di ciò di cui gli storici si sono prevalentemente occupati fino a poco tempo fa) sembra possedere delle costanti co-muni nelle regioni a tradizione comunale e in quelle a tradi-zione monarchica (queste ultime in precedenza più in sinto-nia con le dinamiche europee). E si attenua anche lo scarto fra la penisola nel suo complesso e l’Europa, che appariva così marcato fino a non molti anni fa. Ma ciò accade perché questa inquadratura, suggerita dalla collocazione dei pro-cessi politici tardo-medievali all’interno delle visioni sulla genesi dello stato moderno, non è più autosufficiente. So-prattutto è infatti la natura composita degli stati europei (la dimensione messa in luce più recentemente dalla ricerca), tanto degli stati regionali italiani quanto delle grandi mo-narchie, a colpire come forte tratto comune. La costruzione della dimensione della sovranità territoriale avviene in Ita-lia, non diversamente che in Europa, non già nel solco di un lineare processo di concentrazione dei poteri ma attraverso una graduale e faticosa integrazione di ceti e di comunità, di signorie e di giurisdizioni, ciascuna con la propria matrice giuridica e con un variabile grado di autonomia, all’interno di un tessuto plurale e discontinuo. Se poi la natura plurale e discontinua di tale tessuto abbia davvero mai cessato di esistere fra tarda modernità e età contemporanea non potrà essere accertato qui.

I. Mineo, Alle origini dell’Italia di antico regime, in Storia medievale, Donzelli, Roma 1998

Filippo II era profondamente religioso, ma anche capace di soppesare tutti i rischi di un’impresa militare. Il suo obiettivo principale, secondo alcuni studiosi, era di infl iggere una dura lezione alla regina Elisabetta I, al fi ne di costringerla a interrompere i contatti politici con i ribelli protestanti dei Paesi Bassi e di obbligarla a togliere ogni appoggio

e sostegno ai corsari inglesi che saccheggiavano le navi spagnole cariche d’argento, nell’Atlantico.

Indipendentemente dai suoi piani di guerra, quali erano gli obiettivi che Filippo II si proponeva di conseguire con il pro-

gettato attacco all’Inghilterra? Per lungo tempo la storiogra-fia inglese ha privilegiato la tesi secondo la quale il re spa-

A. Martelli, L’attacco contro l’Inghilterra: gli obiettivi di Filippo II27

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gnolo non si proponeva nulla di meno della conquista dell’In-ghilterra, del rovesciamento di Elisabetta – magari anche della sua esecuzione – e del ristabilimento del cattolicesimo in Inghilterra, come del resto il piano di Zúñiga [Juan Zúñiga, uno dei più autorevoli consiglieri politici di Filippo II, n.d.r.] indicava a chiare lettere. Coloro che parteciparono alla cam-pagna dell’Armada, da una parte e dall’altra, sembrarono condividere in larga misura questa opinione.Più di recente però l’orientamento degli storici in merito è in parte cambiato. Certo, Filippo detestava il protestantesimo con tutte le sue forze e nulla gli sarebbe stato più gradito che veder-lo schiacciato definitivamente, in Inghilterra come altrove; ma egli era anche abbastanza realista da capire quali fossero gli interessi concreti suoi e del suo regno. Come aveva scritto a Farnese, si rendeva conto del fatto che i cattolici inglesi erano ormai una minoranza perseguitata e ininfluente, e che restaura-re pienamente il cattolicesimo in quel paese era ormai una cau-sa persa. Non gli sfuggiva che, quand’anche gli fosse riuscito di sbarcare in Inghilterra e detronizzare la regina, si sarebbe poi trovato di fronte a una resistenza popolare irriducibile che avrebbe rappresentato un drenaggio insostenibile sulle risorse umane e finanziarie del suo impero. Quanto si era rivelato diffi-cile – e alla lunga sarebbe stato impossibile – domare la rivolta olandese era un esempio più che eloquente di quale sarebbe stata l’enormità di un simile compito in un paese più vasto e popoloso, che per di più era un’isola. E poi quanto a lungo un’occupazione spagnola dell’Inghilterra sarebbe stata tollera-ta dalle altre potenze europee, a cominciare dalla Francia? C’era poi un altro fattore da considerare: se infatti Elisabetta fosse stata, in qualsiasi modo, eliminata, a succederle sul trono sarebbe stata Maria Stuarda, cattolica, sì, ma anche mezza francese, e che era anzi già stata regina consorte di Francia non-ché legatissima alla ultrapotente fazione dei Guisa. Maria gli doveva della gratitudine: ma fino a che punto la gratitudine può prevalere sulle considerazioni politiche? Bel risultato sarebbe stato di abbattere i Tudor e i protestanti per favorire l’eventua-lità che suo padre, Carlo V, gli aveva raccomandato di temere più di ogni altra, una stretta alleanza fra Francia e Inghilterra!Quella di Filippo II era una mente complessa e capace di ana-lisi sottili. Alla sua leadership si può rimproverare di aver vo-luto decidere tutto dal suo piccolo studio all’Escorial senza rendersi conto di persona delle situazioni: non solo egli non parlò mai direttamente ad Alessandro Farnese [principe reg-gente nei Paesi Bassi spagnoli, che avrebbe dovuto unire le proprie forze a quelle dell’Armada, n.d.r.] durante tutto que-sto periodo, ma non visitò mai neppure la sua flotta in allesti-mento a Lisbona. Anche la sua esperienza di guerra era limita-ta e la strategia che aveva alla fine prescelto soffriva senza dubbio una scarsa aderenza alla realtà. Ma non gli si può ne-gare la capacità di aver soppesato attentamente i rischi che correva né di aver saputo valutare con realismo il conto dei benefici e delle perdite che potevano derivare da un’impresa. E questa capacità non gli venne certo meno in questa occasio-ne. L’analisi dei programmi e delle azioni porta a ritenere che Filippo avesse in mente due tipi di obiettivi, anche intercam-biabili, che potevano essere alternativamente privilegiati in funzione degli eventi: gli obiettivi massimi e quelli minimi. Gli obiettivi massimi erano senza dubbio realizzare lo sbarco in

Inghilterra e giungere fino a Londra: ma questo non significava necessariamente l’eliminazione di Elisabetta e del suo regime. In queste condizioni e con la sua bandiera che sventolava sulla Torre di Londra, con ogni probabilità Filippo sarebbe stato di-sposto a una pace a condizioni per lui vantaggiose, ma non del tutto devastanti per la regina. Queste condizioni avrebbero compreso la rinuncia alla guerra di corsa e alla pirateria, il ritiro delle truppe dalle Fiandre e la cessazione del sostegno ai ribelli nonché la libertà di culto per i cattolici in Inghilterra. Probabilmente vi si sarebbe aggiunto il pagamento di una in-dennità di guerra e magari il ritiro delle guarnigioni inglesi dall’Irlanda, oltre alla garanzia del controllo di qualche forti-ficazione nella stessa Inghilterra: ma Elisabetta e il protestan-tesimo inglese sarebbero sopravvissuti «buoni per un altro giorno» e l’esercito spagnolo sarebbe stato ritirato dal paese. Del resto, il protestantesimo era ormai una componente dell’Europa e, al di fuori dei propri territori, Filippo non si era mai proposto concretamente l’obiettivo di sradicarlo del tutto.Naturalmente gli eventi bellici hanno poi una logica loro pro-pria che può portare a far cambiare gli obiettivi iniziali: ma questo è un altro problema. Nel 1586 e anche nel 1588 gli obiettivi massimi del re erano più o meno quelli. I due più importanti erano certamente la cessazione degli attacchi in-glesi al commercio e alle coste spagnole, obiettivo che era anche quello più sentito dalla società spagnola nel suo insie-me, e la cessazione del sostegno inglese ai ribelli olandesi. La libertà di culto per i sudditi cattolici di Elisabetta era cer-tamente un obiettivo importante, ma complementare. Se que-sti erano gli obiettivi massimi, l’obiettivo minimo irrinuncia-bile era senza dubbio farla finita con gli attacchi inglesi per mare. Ma questo si poteva perseguirlo anche per altra via che non fosse lo sbarco in Inghilterra e perfino l’invio dell’Arma-da. Si poteva cioè intimidire gli inglesi a tal punto da indurli a intavolare trattative di pace con la sola minaccia dell’attac-co diretto e dello sbarco. Questo poteva essere ottenuto tanto facendo apparire nella Manica una grande flotta in assetto di guerra, con relativo accompagnamento di trasporti sui quali fosse imbarcato un corpo di spedizione, quanto al limite sen-za necessariamente che questa partisse: bastava che si sa-pesse che essa era in allestimento. Proprio per questo motivo però era indispensabile che i preparativi fossero credibili. […] Non vi era alcun dubbio sul fatto che inviare l’Armada nella Manica avrebbe rappresentato un drenaggio di risorse quasi insopportabile. Non sfuggiva al re che, una volta dato l’an-nuncio della costituzione della flotta per attaccare l’Inghil-terra, egli non poteva desistere dall’impresa senza ottenere almeno il suo obiettivo minimo, e cioè la fine degli attacchi inglesi per mare, pena una gravissima perdita di prestigio all’estero e anche all’interno. Costi vi sarebbero quindi stati comunque: ma sfruttare l’elemento deterrente rappresentato dall’Armada senza dover necessariamente combattere avreb-be almeno consentito di ridurli. Fu per questo che Filippo esi-tò fin quasi alla fine prima di impartire ai suoi capi militari gli ordini definitivi.

A. Martelli, La disfatta dell’Invincibile Armada. La guerra anglo-spagnola e la campagna navale del 1588,

il Mulino, Bologna 2008

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Per Jean Bodin, l’autorità dello Stato dev’essere conservata a qualunque costo, pena il caos e l’anarchia. Da un lato, egli attacca i ribelli calvinisti, che giustifi cano la rivoluzione, ma dall’altro ritiene che la tolleranza religiosa sia indispensabile per il mantenimento dell’ordine politico.

La stabilità dello Stato come obiettivo politico primario

Bodin non pretende affatto di accantonare il grande valore duraturo dell’uniformità religiosa. L’intera questione

delle religioni rivali viene introdotta nel corso della discus-sione e a mo’ d’esempio dei pericoli della «sedizione e del fazionalismo». Egli inizia ammettendo che nulla è più im-portante per «conservare in vita gli Stati nel loro ordina-mento», giacché serve a fornire «il fondamento primo del potere» e della forza dello Stato. Qualunque cosa Bodin fos-se stato disposto ad affermare e scrivere in privato, pubbli-camente, nelle sue dottrine, affermò sempre la necessità di non accettare il diritto naturale alla tolleranza delle mino-ranze religiose. Egli insiste al contrario che siccome «le di-spute in materia religiosa» tendono più di qualsiasi altra cosa «ad apportare l’eversione degli Stati, occorre proibirle per certo con leggi inviolabilissime», cosicché una religione la quale «si regge sul consenso comune», non sia di nuovo «messa in discussione». Questi sentimenti sono tuttavia ac-compagnati da una percezione riluttante eppur assoluta-mente chiara del fatto che, rappresentando le religioni rivali una fonte talmente potente di discordia, laddove non possa-no essere soppresse, esse devono essere tollerate. Bodin cita la situazione del suo tempo, in cui il consenso e l’accor-do della nobiltà e del popolo verso una nuova religione sono divenuti «così potenti che sarebbe impossibile o per lo meno ben difficile distruggerli senza mettere a rischio lo Stato». «In questo caso i principi più saggi hanno preso l’abitudine di fare come quei piloti [timonieri, n.d.r.] prudenti che si ab-bandonano alla tempesta sapendo bene che resistere ad es-sa provocherebbe solo un naufragio generale». Bodin sotto-linea immediatamente quale lezione si deve trarre da questa similitudine: è necessario riconoscere «tutti i collegi, corpi e comunità di qualsiasi tipo» che non possono essere elimina-ti senza porre in pericolo o distruggere lo Stato. La prima ragione per accettare questa conclusione è, secondo Bodin, che, pur avendo il governo il dovere di sostenere l’unità reli-giosa, ciò non può alterare il fatto che «la salute e il benes-sere dello Stato» devono rimanere «la cosa principale ri-spettata dalla legge». Dove si scopre che l’ordine è in con-flitto con l’uniformità religiosa, si deve sempre trattare come suprema priorità il mantenimento dell’ordine.

La polemica contro i monarcomachi calvinisti

Bodin vide chiaramente come suo principale compito ideo-logico quello di attaccare e sconfessare nei Sei libri la

teoria ugonotta della resistenza, che egli era giunto a consi-

derare il maggior pericolo alla possibilità di restaurare una monarchia ben ordinata in Francia. Questo fine fondamentale emerge molto chiaramente nelle prefazioni programmatiche aggiunte alle edizioni successive della sua grande opera. Bo-din esterna il suo estremo orrore perché vede «i sudditi ar-marsi contro i principi», scritti sediziosi [che incitano alla rivolta armata, n.d.r.] «pubblicarsi come fiaccole per l’in-cendio degli Stati» e il popolo «con lo spettro della tirannide ribellarsi al potere di quei re che sono dati alla stirpe umana per divino consiglio». Ripetutamente Bodin indica che è sua intenzione rispondere a questi «uomini pericolosi», i quali con il pretesto della libertà popolare «eccitano i sudditi alla ribellione contro i loro prìncipi naturali, aprendo la porta a quella anarchia ch’è peggio di qualsiasi tirannide del mondo, sia [perfino della, n.d.r.] la più aspra». La risposta di Bodin ai rivoluzionari ugonotti è diretta e inflessibile: nessun atto pubblico di resistenza di un suddito contro il legittimo sovra-no può essere mai giustificato. […]L’attacco di Bodin alla teoria e alla pratica della rivoluzione ugonotta ci porta al cuore delle dottrine positive enunciate nei Sei libri in quanto ci conduce alla discussione della so-vranità, considerata da Bodin «il punto principale e più ne-cessario per la comprensione della natura di uno Stato». Se un governante non è «sovrano in assoluto», «è senza alcun dubbio lecito» da parte dei suoi sudditi resistergli e «proce-dere contro il tiranno per via di giustizia». Ma dovendo es-sere il fine fondamentale del governo quello di assicurare non già la libertà, bensì l’«ordine», qualsiasi atto di resi-stenza di un suddito contro il suo governante va completa-mente bandito nel nome della conservazione della fragile struttura dello Stato. Bodin è quindi tratto dalla logica del proprio impegno ideologico a sostenere che in qualsiasi so-cietà politica vi deve essere un sovrano assoluto, nel senso che egli comanda ma non è mai comandato, e quindi non può essere mai legittimamente contrastato da nessuno dei suoi sudditi. Tale conclusione è enunciata per esteso nel Libro I, Capitolo VIII, intitolato Della sovranità. Bodin inizia definendo la sovranità come «quel potere perpetuo e asso-luto che è proprio dello Stato». Fa poi capire chiaramente che nel caratterizzare il sovrano come «assoluto», egli ha in mente soprattutto una cosa: perfino quando le sue ordi-nanze non sono mai «eque ed oneste», «al suddito non è lecito contravvenire alle leggi del suo principe» o opporsi in altri modi «col pretesto dell’onestà e della giustizia». In breve, il sovrano è per definizione esente dalla resistenza armata, poiché «sovrano è chi non riconosce nulla superio-re a sé all’infuori di Dio». Sono così state già completamen-te gettate le fondamenta per la successiva creazione del «grande Leviatano», visto [dal filosofo inglese Thomas Hobbes, che pubblicò la sua opera principale, Leviathan, nel 1651, n.d.r.] come «Dio mortale», a cui «sotto il Dio immortale dobbiamo la pace e la difesa».

Q. Skinner, Le origini del pensiero politico moderno, II. L’età della Riforma, il Mulino, Bologna 1989

Quentin Skinner, La posizione politica di Jean Bodin28

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Fino al Settecento, la carestia fu in Europa un pericolo costante; essa provocò, infatti, il brusco rialzo del prezzo dei cereali e causò la morte di tante persone, troppo numerose per le scarse risorse disponibili.

Dobbiamo al vecchio maestro della demografia francese Pierre Goubert le analisi ormai classiche della grande

mortalità, da lui chiamata «crisi demografica di vecchio tipo» in quanto strettamente connessa alla «crisi agraria di vecchio tipo»; a provocarla, infatti, erano soprattutto fattori climati-co-economici e, ad essi associate, le epidemie.Il suo meccanismo era oltremodo semplice e brutale. A inter-valli regolari di 10, 15 o 20 anni, in molte zone urbane e rurali d’Europa, a causa, per esempio, del gelo cominciato troppo presto o durato troppo a lungo, delle piogge eccessive cadute in autunno o all’inizio dell’estate, della grandine e così via, il raccolto era catastrofico e i prezzi degli alimenti base, che era-no poi le granaglie, salivano alle stelle. Fino alla fine del seco-lo XVIII non è esistito un alimento che, come le patate, sostituis se i grani a tutti gli effetti; questi erano pertanto l’ele-mento determinante – dittatoriale, direi – della situazione ali-mentare di vasti strati della popolazione. In anni particolar-mente critici – per il Beauvaisis, la regione della Francia set-tentrionale su cui Goubert ha compiuto le sue indagini, il riferi-mento è all’annata 1693-94 – in un breve giro di tempo i prezzi raggiungevano livelli due, tre, quattro e anche cinque volte superiori a quelli normali ai quali peraltro ritornavano

con rapidità sorprendente dopo un buon raccolto. Negli anni di crisi la morte per fame aggrediva le popolazioni in modo mas-siccio; intanto, col favore della penuria e della cattiva alimen-tazione, gli agenti patogeni prosperavano. Ciò avveniva non solo nelle grandi città e nei grossi agglomerati rurali, dove la gente dipendeva dall’acquisto, o dall’acquisto supplementare, dei grani, proprio mentre negli anni di rincaro lo smercio dei prodotti artigianali era difficile o addirittura nullo e i salari ca-lavano; ma anche nelle campagne e nei villaggi, dove il raccol-to era di qualità così cattiva da esser dannoso alla salute, scar-sissimo e talvolta pressoché inesistente.Gli effetti demografici delle annate di carestia non tardavano a manifestarsi. Insieme ai prezzi, saliva l’indice di mortalità, il numero dei matrimoni non di rado rasentava lo zero, quello dei battesimi e soprattutto dei concepimenti regrediva. Il quadro del comportamento generativo di una comunità conta-dina rifletteva dunque in modo impressionante la miseria del-la situazione alimentare, sanitaria e degli approvvigiona-menti in generale durante un’annata di carestia. Porzioni considerevoli di popolazione venivano falciate via, nozze già fissate rimandate o annullate, e mentre molti bambini mori-vano con la madre, nel ventre materno, durante il parto o subito dopo, nuovi concepimenti erano consapevolmente (?) rimandati o resi impossibili dall’«amenorrea per fame» (una forma di sterilità temporanea che si manifestava nelle donne denutrite e malnutrite).

E. Hinrichs, Alle origini dell’età moderna, Laterza, Roma-Bari 1996

Ernst Hinrichs, I meccanismi del regime democratico nell’epoca preindustriale

Alla fi ne del Seicento, in Francia, il sovrano continuava a essere una fi gura sacra, dotata del potere di guarire le scrofole in modo miracoloso, con il semplice tocco delle mani.

Anziché consultare continuamente i grandi primi attori del pensiero, lo storico troverà forse maggior profitto nel fre-

quentare gli autori di secondo ordine, nello sfogliare quei compendi di diritto pubblico monarchico o quegli elogi della monarchia – trattati sulla maestà regia, dissertazioni sull’ori-gine e sull’autorità dei re, panegirici dei fiordalisi [elogi, in forma solenne, delle insegne dei re di Francia, n.d.r.] – che i secoli XVI e XVII produssero con tanta abbondanza in Fran-cia. Non ci si attenda da questa lettura un grande godimento intellettuale: in generale queste opere si tengono ad un livel-lo ideologico abbastanza basso. […] Ma gli scritti di questo tipo, con la loro mediocrità e spesso con la loro grossolanità, presentano il vantaggio di essere più vicini alle concezioni comuni. E se talvolta destano il sospetto d’essere stati com-

posti da libellisti stipendiati, preoccupati di guadagnare bene il loro denaro più che di seguire il filo di un pensiero disinte-ressato, questo è un vantaggio per noi che cerchiamo innanzi tutto di cogliere al vivo il sentimento pubblico: perché gli ar-gomenti, che questi professionisti della propaganda svolgono di preferenza, sono evidentemente quelli che essi si attende-vano di vedere agire sulla massa dei lettori. Le idee esposte di solito dai pubblicisti regalisti dei secoli XVI e XVII sembra-no spesso banali a chi ha sfogliato la letteratura dei periodi precedenti. Esse ci stupiscono soltanto se non vi sentiamo il durevole retaggio [eredità, n.d.r.] medievale; tanto in storia delle dottrine politiche quanto in ogni altro genere di storia, non conviene prendere troppo sul serio la cesura tradizionale che, sulle orme degli umanisti, noi per solito operiamo nel passato dell’Europa intorno al 1500. Il carattere sacro dei re, tante volte affermato dagli scrittori del medioevo, resta anco-ra nei tempi moderni una verità evidente incessantemente messa in luce. E così pure, ma in modo meno unanime, il loro carattere quasi sacerdotale. […]Ma ciò che, meglio di tutte le affermazioni dei pubblicisti e di tutte le leggende, prova la potenza della regalità meraviglio-

Marc Bloch, La regalità sacra e taumaturgica

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sa, fu nella Francia del secolo XVII la popolarità del miracolo regale, e in Inghilterra, nella stessa epoca, il suo ruolo nelle lotte civili. Nella monarchia francese del secolo XVII, il tocco delle scrofole ha definitivamente preso il posto tra le pompe solenni, di cui si circonda lo splendore del sovrano. Luigi XIII e Luigi XIV lo compiono regolarmente nelle grandi feste, Pa-squa, Pentecoste, Natale o Capo d’Anno, talvolta la Candelo-ra, la Trinità, l’Assunta, Ognissanti. Quando la cerimonia si svolge a Parigi, il Gran Prevosto la fa annunciare alcuni gior-ni prima a suon di tromba e con manifesti; ci sono rimasti al-cuni di questi affissi al tempo di Luigi XIV […]. La scena si svolge in luoghi, a seconda delle necessità del momento; a Parigi, solitamente nella grande galleria del Louvre o più ra-ramente in una sala bassa dello stesso palazzo, altrove in saloni o corti di castelli, parchi, chiostri o chiese. Poiché in-terviene molta gente, la cerimonia è faticosa, soprattutto per il caldo e per un re giovinetto, come era Luigi XIII all’inizio del regno; ma il sovrano, a meno che sia seriamente indispo-sto, non potrebbe sottrarsi a questo dovere della sua carica; egli si sacrifica per la salute dei suoi sudditi. Soltanto in tem-po di epidemie non si ammettono i malati, per timore di pro-pagare il contagio, che potrebbe raggiungere il re. Ma gli

ammalati venivano ugualmente: «Essi mi perseguitano mol-to. Dicono che i re non possono morire di peste… pensano che sia un Re di Carte», diceva il piccolo Luigi XIII, incollerito da questa «persecuzione». Il fatto è che il dono taumaturgico non ha perduto nulla della sua antica popolarità; abbiamo alcune cifre per Luigi XIII e, di solito con minor precisione, per Luigi XIV; esse sono uguali alle cifre antiche: diverse centi-naia, qualche volta più di un migliaio per seduta; nel 1611 per tutto l’anno almeno 2210; nel 1620, 3125; il giorno di Pa-squa 1613, in una sola volta, 1070; il 22 maggio 1710, giorno della Trinità, 2400. Quando, per una ragione o per l’altra, la periodicità regolare era stata interrotta, l’affluenza della pri-ma seduta di ripresa aveva un che di spaventoso: nella Pa-squa del 1698, Luigi XIV, colpito da un attacco di gotta, non aveva potuto toccare; alla Pentecoste seguente, si vide pre-sentare circa tremila scrofolosi. Nel 1715, il sabato 8 giugno, vigilia di Pentecoste, «con grandissimo calore» il re, ormai prossimo alla morte, fece per l’ultima volta atto di guaritore; toccò circa 1700 persone.

M. Bloch, I re taumaturghi, Einaudi, Torino 1989

Con la Rivoluzione del 1688-1689, l’Inghilterra vide il trionfo del sistema parlamentare, capace di porre un rigido freno all’assolutismo del re. Tuttavia, la pur liberale Inghilterra non era affatto uno Stato democratico, in quanto il suffragio era ancora determinato dal censo.

La democrazia liberale del XIX secolo [il sistema politico che, rifiutato l’assolutismo, poggiava sui due princìpi

complementari del rispetto dei diritti del cittadino e della se-parazione dei poteri, n.d.r.], in breve, era dappertutto basata su di un diritto di voto ristretto ai più ricchi: come la democra-zia ateniese del mondo antico, essa era in realtà una «oligar-chia egualitaria», in cui una classe dirigente di cittadini si spartiva i diritti e le cariche del controllo politico.La situazione fu trasformata del tutto dall’estensione del di-ritto di voto. Nell’impero tedesco così come nella Terza Re-pubblica francese il suffragio universale maschile divenne fatto compiuto nel 1871; Svizzera, Spagna, Belgio, Olanda, Norvegia seguirono rispettivamente nel 1874, 1890, 1893, 1896 e nel 1898. In Italia, dove nel 1882 era stato accordato un allargamento del diritto di voto limitato, la maggior parte della popolazione maschile ricevette il diritto grazie a una legge del 1912; in Gran Bretagna lo stesso risultato si ottenne con la terza Legge di Riforma del 1884, benché il principio del suffragio universale maschile dovesse attendere il 1918 per essere riconosciuto e non fosse esteso alle donne fino al 1928. Nelle aree di colonizzazione europea d’oltremare, l’estensione del diritto tendeva, cosa non sorprendente, a ve-

rificarsi molto prima. Questo fu il caso della Nuova Zelanda, dell’Australia, del Canada e, naturalmente, degli Stati Uniti, dove il suffragio universale maschile fu introdotto quasi do-vunque tra il 1820 e il 1840 con effetti immediati sull’appa-rato politico. Dopo il 1869, inoltre, fu esteso gradatamente anche alle donne, finché nel 1920 un emendamento alla Co-stituzione diede il diritto di voto alle donne in tutti gli Stati dell’Unione. In Nuova Zelanda, dove il suffragio maschile fu istituito nel 1879, alle donne fu concesso nel 1893. [...]Parlare di difesa della democrazia [la moderna democrazia di massa, basata sul suffragio universale, n.d.r.] come se stes-simo difendendo qualcosa che possedevamo da generazioni, o persino da secoli, è del tutto inesatto. Il tipo di democrazia prevalente oggi in Europa occidentale, quella che noi chia-miamo sommariamente «democrazia di massa», è un nuovo tipo di democrazia, creata per la maggior parte negli ultimi sessanta o settant’anni, e differente dalla democrazia libera-le del XIX secolo in alcuni punti essenziali. È nuova, perché gli elementi politicamente attivi oggi non consistono più in un corpo relativamente piccolo di eguali, tutti economicamente sicuri e facenti parte dello stesso sfondo sociale, ma proven-gono da una vasta società amorfa [priva di caratteri precisi, dal momento che comprende individui e gruppi sociali diver-sissimi tra loro, n.d.r.] che abbraccia tutti i livelli di censo e d’educazione; elementi per lo più occupati a fondo nel lavoro per guadagnarsi quotidianamente da vivere, che possono solo essere mobilitati per l’azione politica da quei meccanismi po-litici altamente integrati che chiamiamo partiti.

G. Barraclough, Guida alla storia contemporanea, Laterza, Bari 1992

Geoffrey Barraclough, La nascita della democrazia moderna31

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Lo scrittore inglese Thomas Hobbes può essere considerato il fondatore di un nuovo tipo di assolutismo; sostanzialmente privo di motivazioni religiose, esso trovava il proprio sostegno principale in una concezione pessimistica dell’uomo che assomiglia a quella di Machiavelli, di Lutero e di Calvino.

Per ogni uomo, un altro uomo è un concorrente, avido come lui di potenza sotto tutte le forme. Ora, a grandi linee, se

si considerano le cose «nel loro insieme », ogni uomo è uguale all’altro. Se si tratta, ad esempio, della forza fisica, «il più debole ne ha abbastanza per uccidere il più forte, sia usando l’astuzia, sia alleandosi ad altri che sono come lui minacciati dal pericolo». Eguaglianza di capacità che dà ad ognuno un’eguale speranza di raggiungere i propri fini, che spinge ognuno a tentare di distruggere o soggiogare l’altro. Concorrenza, sfiducia reciproca, avidità di gloria o di reputa-zione hanno per risultato la guerra perpetua di «ognuno con-tro ognuno», di tutti contro tutti. Guerra, cioè non soltanto «il fatto immediatamente di battersi», ma la volontà accertata di battersi: fintanto che esiste questa volontà, c’è guerra, non pace, e l’uomo è un lupo per l’uomo: homo homini lupus.Una tale guerra impedisce ogni forma di industria, di agricol-tura, di navigazione, ogni conforto, scienza, letteratura, ogni forma di società, e, quello che è peggio, alimenta una conti-nua paura ed un continuo pericolo di morte violenta. La vita è «solitaria, povera, grossolana, bestiale e breve». In una guerra del genere niente è ingiusto, né può esserlo. «Là dove non c’è potere comune, non c’è legge; dove non c’è legge non c’è giustizia. La forza e l’inganno sono, in guerra, le due virtù cardinali». In una guerra del genere non c’è proprietà, non esistono un tuo e mio distinti, «ma semplicemente ognuno è padrone di quello che può prendere e per tutto il tempo per cui lo può tenere». Ecco la miserabile condizione in cui «la semplice natura» – al di fuori di ogni peccato, di ogni perver-sione – pone l’uomo. Ecco lo stato di natura. Per evitare la

distruzione della specie umana, bisogna che l’uomo esca da tale stato: in ciò consiste realmente la sua liberazione, la sua salvezza. […]Per Aristotele l’uomo era naturalmente sociale, naturalmente cittadino (zoon politicon, animale politico); la società politica era un fatto naturale. Sciocchezze, risponde Hobbes: la natura non ha messo nell’uomo l’istinto sociale; l’uomo non ricerca compagni che per interesse, per bisogno; la società politica è il frutto artificiale di un patto volontario, di un calcolo interessa-to. Gli uomini stringeranno infatti tra loro un contratto, in base a cui trasferiranno ad un terzo il diritto naturale assoluto che ognuno possiede su ogni cosa: sarà questo l’artificio che costi-tuirà gli uomini naturali in società politica. La volontà unica di questo terzo (che può essere un uomo o un’assemblea) si so-stituirà alla volontà di tutti e li rappresenterà tutti. Questo ter-zo è, da parte sua, assolutamente estraneo al contratto col quale la moltitudine si è scambievolmente impegnata a suo favore. Nessun obbligo lo lega… «Tale è l’origine di questo grande Leviatano, o, per meglio dire, di questo dio mortale, a cui noi dobbiamo, con l’aiuto del Dio immortale, la nostra pace e la nostra protezione. Perché, forte del diritto di rappresentare ogni membro del Commonwealth (Civitas, Stato), deriva da esso tanta potenza e forza che può, grazie al terrore che ispira, indirizzare la volontà di tutti verso la pace, all’interno, ed il reciproco aiuto contro i nemici, all’esterno». […]Perché regni la pace, bene supremo, ognuno ha devoluto al sovrano il proprio diritto naturale assoluto su ogni cosa. La ri-nuncia ad un diritto assoluto non potrebbe essere che assoluta; la trasmissione non potrebbe essere che totale. Altrimenti lo stato di guerra naturale continuerebbe tra gli uomini nella stessa misura in cui essi avessero conservato una parte, sia pur minima, della loro libertà naturale. […] Bisogna scegliere tra la guerra perpetua di ognuno contro ognuno, frutto dell’assenza del potere assoluto, e la pace, frutto del potere assoluto.

J.J. Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni,

il Mulino, Bologna 1968

Jean Jacques Chevallier, L’origine dello Stato secondo Hobbes

La concezione contrattualistica di Locke si distingue da quella di Hobbes per il fatto che gli uomini non cedono allo Stato tutti i propri diritti, ma solo quelli relativi alla difesa della propria persona e dei propri beni, in modo da vivere in una condizione più sicura di quella che caratterizzava lo stato di natura.

Seguendo la moda intellettuale del tempo, Locke parte dal-lo stato di natura e dal contratto originario che ha segnato

la nascita della società politica, del governo civile. […] Lo

stato di natura è uno stato di perfetta libertà, ed anche di perfetta eguaglianza (anche Hobbes la pensava così). Ma su-bito il dolce Locke ci rassicura: questo stato di libertà non è affatto uno stato di licenza e, né esso, né lo stato di egua-glianza producono quella guerra di tutti contro tutti che Hob-bes ci dipingeva a fosche tinte, perché la ragione naturale «insegna a tutti gli uomini, se la vogliono ascoltare, che, se tutti sono eguali e indipendenti, nessuno deve nuocere ad un altro, in tutto quanto riguarda la vita, la salute, la libertà, ed i beni». E, perché nessuno tenti di ledere i diritti altrui, la natura ha autorizzato ognuno a proteggere e preservare l’in-nocente ed a combattere chi gli fa torto: è il diritto naturale di

Jean Jacques Chevallier, L’origine dello Stato secondo Locke

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punire. Che non è, ben inteso, «assoluto e arbitrario» (come si vede, i due termini per Locke sono sinonimi); che esclude dal suo esercizio tutti i furori di un cuore irritato e vendicativo ed autorizza esclusivamente quelle pene che dettano ed ordi-nano naturalmente una mente serena ed una coscienza pura; pene proporzionate all’errore, che non tendono che a riparare il danno causato, e ad impedire che se ne verifichino altri in avvenire. Come ha potuto Hobbes confondere stato di natura e stato di guerra? […] Ma, se lo stato di natura non è l’inferno di Hobbes, se vi regna tanta gentilezza e benevolenza, non riusciamo a capire perché gli uomini, che godevano di tanti vantaggi, se ne siano volontariamente spogliati. Sì, ci dice in sostanza Locke per rispondere all’obiezione, gli uomini sta-vano bene nello stato di natura, ma si trovavano egualmente esposti a certi inconvenienti, che, soprattutto, rischiavano di aggravarsi; e, se hanno preferito lo stato di società, è per star meglio. Ognuno, nello stato di natura, è giudice della propria causa; ognuno, uguale all’altro, è, in qualche modo, re e può quindi essere tentato di osservare poco scrupolosamente la giustizia, di essere parziale in favore proprio e dei suoi amici, per interesse, amor proprio, debolezza; può essere tentato di punire per passione e per vendetta: queste sono gravi minac-ce al mantenimento della libertà e dell’eguaglianza naturale, al pacifico godimento della proprietà! Insomma, mancano in questo stato di natura a prima vista idilliaco: leggi stabilite, conosciute, accolte ed approvate di comune accordo; giudici riconosciuti, imparziali, istituiti per porre fine ad ogni contro-versia conformemente a tali leggi stabilite; infine, un potere di costrizione capace di assicurare l’esecuzione delle senten-ze emesse. Ora, tutto questo si trova nello stato di società, anzi lo caratterizza. Ed è per usufruire di tali miglioramenti che gli uomini hanno cambiato. […] L’uomo nello stato di na-tura detiene due tipi di potere, di cui, entrando nello stato civile, si spoglia a beneficio della società, che ne diviene l’erede. L’uomo ha il potere di fare tutto ciò che ritiene giusto per la sua propria conservazione e per quella del resto degli uomini; se ne spoglia affinché esso sia regolato e ammini-strato dalle leggi della società, «le quali restringono in più cose la libertà che si ha dalle leggi di natura». In secondo luogo, l’uomo ha il potere di punire i crimini commessi contro le leggi naturali, cioè il potere di impiegare la sua forza natu-

rale per far eseguire queste leggi come gli sembra bene; se ne spoglia per dare maggiore forza al potere esecutivo di una società politica. Così la società, erede degli uomini liberi del-lo stato di natura, possiede, a sua volta, due poteri essenzia-li. L’uno è il legislativo, che regola la maniera in cui debbono essere usate le forze di uno Stato per la conservazione della società e dei suoi membri. L’altro è l’esecutivo, che assicura l’esecuzione delle leggi positive all’interno. […] Il popolo – cioè l’insieme, il gruppo degli individui che hanno consentito ad unirsi in società – accorda la sua fiducia al legislativo co-me all’esecutivo, per la realizzazione del bene pubblico, niente di più, niente di meno. Il potere è un deposito (trust, trusteeship) affidato ai governanti, a vantaggio del popolo. Se i governanti, chiunque essi siano – parlamento o re – agi-scono in modo contrario al fine per cui avevano ricevuto l’au-torità, cioè al bene pubblico, il popolo ritira la sua fiducia, ritira il deposito; riprende la sua sovranità iniziale, per affi-darla a chi giudicherà opportuno. In fondo, benché Locke evi-ti di elaborare qui una costruzione rigorosa, il popolo conser-va sempre, in riserva, una sovranità potenziale; è lui, e non il legislativo, che detiene il vero potere sovrano. Da parte sua c’è deposito, e non contratto di sottomissione. […] Così si giu-stifica che, contro la forza del legislativo come dell’esecuti-vo, divenuta «priva di autorità», il popolo possa impiegare la forza. Siamo arrivati al risultato finale di tutta la teoria di Locke, al coronamento del suo edificio dialettico: la giustifi-cazione del diritto di insurrezione. […] Allorché il peso dell’assolutismo diviene insopportabile, non c’è più teoria dell’obbedienza, per quanto teologicamente insidiosa possa essere, che tenga: «Si innalzino pure i re fin che si vuole, si diano loro tutti i titoli magnifici e pomposi che si è soliti dar loro; si dicano mille cose sulle loro sacre persone; si parli di loro come di esseri divini, discesi dal Cielo e sottoposti sol-tanto a Dio: ma un popolo maltrattato contro ogni diritto si guarda bene dal lasciar passare un’occasione in cui possa li-berarsi dalle sue miserie e scrollare il pesante giogo che gli è stato imposto tanto ingiustamente».

J.J. Chevallier, Le grandi opere del pensiero politico. Da Machiavelli ai nostri giorni,

il Mulino, Bologna 1968

Mentre lo Stato liberale, di fatto, per molto tempo fu lo Stato dei proprietari bianchi, da cui poveri e neri (nelle colonie) erano completamente esclusi, il grande merito storico di Rousseau è stato di proporre un modello politico veramente democratico. Tuttavia, l’ambiguità di alcuni concetti, perfettamente logici in sede teorica, ma ben più diffi cili da calare in un progetto politico effettivo, ha generato una democrazia totalitaria (J. Talmon) ogni volta che un individuo, un gruppo

o un partito si è arrogato la pretesa di essere il vero interprete della volontà generale e ha costretto gli altri ad allinearsi.

Costringere un uomo a essere libero significa costringerlo a comportarsi in una maniera razionale. Un uomo libero

è un uomo che ottiene ciò che vuole; e ciò che realmente vuole è un fine razionale. Se non vuole un fine razionale, non si può dire che voglia davvero; se non vuole un fine ra-zionale, ciò che vuole non è una vera libertà, ma una falsa libertà. Io lo costringo a fare certe cose che lo renderanno

Isaiah Berlin, Ambiguità del pensiero politico di Rousseau34

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felice. E se mai scoprirà in che cosa consiste il suo vero io, me ne sarà grato: sta qui il nocciolo di questa famosa dot-trina, e dopo Rousseau non c’è stato in Occidente un solo dittatore che non abbia utilizzato questo mostruoso para-dosso per giustificare il suo comportamento. I giacobini, Robespierre, Hitler, Mussolini, i comunisti: tutti hanno uti-lizzato il tipo di ragionamento che consiste nel dire che gli uomini non sanno che cosa realmente vogliono, e che quindi volendolo per loro, volendolo per conto loro noi gli diamo ciò che in qualche senso occulto, senza sapere, essi «in real tà» vogliono. Quando giustizio un criminale, quando piego degli esseri umani alla mia volontà, persino quando organizzo i tribunali dell’Inquisizione, quando torturo e uc-cido, non sto semplicemente facendo qualcosa che è bene per loro (il che è già abbastanza dubbio), ma faccio ciò che essi realmente vogliono, benché possano magari negarlo mille volte. Se lo negano, è perché non sanno ciò che sono, ciò che vogliono, com’è fatto il mondo. E dunque io parlo per loro, in loro nome. È questa la dottrina centrale di Rousseau, ed è una dottrina che conduce a una vera e pro-pria servitù; e per questa via dalla divinizzazione della no-zione di libertà assoluta finiamo gradatamente con l’arriva-re alla nozione di un assoluto dispotismo. Non c’è motivo per cui agli esseri umani si debbano offrire delle scelte, del-le alternative, quando l’alternativa giusta è una e una sola. Non c’è dubbio che debbano scegliere, poiché se non scel-gono non sono spontanei, non sono liberi, non sono esseri umani; ma se non scelgono l’alternativa giusta, se scelgono l’alternativa sbagliata, è perché non è attivo il loro vero io. Non sanno che cos’è il loro vero io, mentre io, che sono sag-gio, che sono razionale, che sono il grande benevolo legi-slatore – io lo so. Rousseau, che aveva istinti democratici, propendeva non tanto verso i legislatori individuali, quanto verso le assemblee, le quali però erano nel giusto soltanto nella misura in cui decidevano di fare ciò che la ragione pre-sente in tutti i membri dell’assemblea – il loro vero io – au-tenticamente desiderava.Se Rousseau vive in quanto pensatore politico, è in virtù di questa dottrina. Essa ha avuto effetti buoni ed effetti cattivi. Parlo di effetti buoni nel senso che ha messo in risalto il fatto che senza libertà, senza spontaneità, nessuna società è degna di sopravvivere, che una società quale la concepivano gli utilitaristi settecenteschi, in cui un pugno di esperti orga-nizza la vita in una maniera levigata e senza attriti, sì da procurare al maggior numero di persone la più grande felici-tà possibile, è qualcosa di ripugnante per l’essere umano, il quale preferirà una libertà selvaggia, turbolenta e sponta-

nea, purché sia lui in prima persona ad agire […]. Il male fatto da Rousseau consiste nell’aver inaugurato la mitologia dell’io reale, nel nome del quale io sono autorizzato a coar-tare gli uomini. Non c’è dubbio che tutti gli inquisitori e tutte le grandi istituzioni religiose si siano adoperati a giustificare i loro atti di coercizione, che a posteriori apparivano, se non a tutti a qualcuno, crudeli e ingiusti; ma perlomeno invoca-vano per questi atti sanzioni [ragioni, motivazioni, n.d.r.] soprannaturali. Perlomeno invocavano sanzioni che la ragio-ne non era autorizzata a mettere in questione. Rousseau cre-deva invece che ogni cosa potesse essere scoperta dalla mera ragione libera da pastoie, dalla semplice indisturbata osservazione della natura della concreta natura tridimensio-nale, della natura intesa nell’elementare accezione di og-getti nello spazio – oggetti che sono indifferentemente esse-ri umani, animali e oggetti inanimati. Mancandogli il soste-gno di un’autorità soprannaturale, dovette ricorrere al mo-struoso paradosso in forza del quale la libertà si trasforma in una sorta di schiavitù, e volere qualcosa è in effetti un non volere, a meno che questo volere sia orientato in un certo modo, talché [al punto che, n.d.r.] è lecito dire ad un uomo: «Tu puoi pensare di essere libero, puoi pensare di essere felice, puoi pensare di volere questo o quello, ma io so me-glio di te che cosa sei, che cosa vuoi, che cosa ti libererà», e così via. Secondo questo sinistro paradosso, nel perdere la sua libertà politica, nel perdere la sua libertà economica un uomo viene in effetti liberato in un senso più alto, più pro-fondo, più razionale, più naturale, noto soltanto al dittatore, o soltanto allo Stato, all’assemblea, all’autorità suprema, col risultato che la libertà più compiutamente libera da vin-coli coincide con l’autorità più inflessibile e schiavizzatrice. Di questa grave perversione Rousseau è più responsabile di qualunque altro pensatore che sia mai vissuto. Sulle sue conseguenze nell’Otto e Novecento non occorre insistere – esse sono ancora con noi. In questo senso, non c’è nulla di paradossale nel dire che Rousseau, il quale proclama di aver amato la libertà umana con un ardore e una passione mai visti prima, il quale ha cercato di spezzare ogni catena, i vin-coli derivanti dall’educazione, dai ragionamenti speciosi, dalla cultura, dalle convenzioni, dalla scienza, dall’arte e da qualsivoglia altra fonte, perché in un modo o nell’altro tutte queste cose l’intralciavano, in un modo o nell’altro violava-no la sua naturale libertà di uomo – ebbene, ciò malgrado Rousseau è stato uno dei più sinistri e formidabili nemici del-la libertà nell’intera storia del pensiero moderno.

I. Berlin, La libertà e i suoi traditori, Adelphi, Milano 2005

Il passaggio da un sistema in cui il sovrano era «legibus solutus» (svincolato dalle leggi) a uno nel quale la società civile si riafferma come «fondamento della società politica» è caratterizzato da una nuova concezione del potere e della sua legittimità.

L’assolutismo fu un movimento storico abbastanza diverso da quanto il termine indurrebbe a pensare [...]. Contraria-

mente al senso comune i sovrani non potevano fare tutto quel che volevano a loro piacimento: queste, dicevano i teorici dell’assolutismo come Jean Bodin, son cose che fanno i despo-ti turchi. Il sovrano era legibus solutus (svincolato dalle leggi)

Paolo Pombeni, Assolutismo e costituzionalismo35

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nel senso che non era obbligato a rispettare le leggi tradizio-nali ed era libero di creare un diritto nuovo. Ciò significava che egli era sottratto anche al controllo dei “corpi” (o “ceti”, “sta-ti”, “corporazioni”: i nomi variano a seconda dei casi), custodi delle leggi tradizionali. Ma poiché i corpi sedevano nei parla-menti, cioè in quelle assemblee in cui sovrano e corpi della nazione si parlavano, il sovrano assoluto decise di fare a meno dei parlamenti. [...] Peraltro l’assolutismo fu spesso un fattore modernizzante: libero da vincoli che ponevano le varie incro-stazioni corporative, il sovrano poté promuovere riforme e di-namismo economico. L’assolutismo cosiddetto illuminato (per-ché alcuni sovrani erano personalmente seguaci della cultura e della filosofia dell’illuminismo) non rappresenta affatto una contraddizione in termini. Tuttavia l’assolutismo non costitui-sce un fattore di superamento della stazionarietà sociale: infatti esso da un lato faticò ad avere pienamente ragione del modello “corporativo”, che sospese nel suo funzionamento, senza riuscire però a cancellarlo nella coscienza sociale; dall’altro lato fu costretto a contenere le proteste che ne con-seguirono abolendo di fatto il diritto di critica.Gli studiosi delle origini dello stato moderno fanno risalire que-sta rottura a una famosa formula di Hobbes auctoritas non ve-ritas facit legem, è l’autorità non la verità che produce la leg-ge. [...] Non si tratterà più per il suddito di sapere di fronte a una legge se questa contiene o no una “verità” compatibile con il patrimonio di verità che egli possiede, ma solo di sapere se chi ha emanato quella legge possiede veramente l’“autorità” (la facoltà politico-giuridica) per farlo. Se tale condizione è soddisfatta, il suddito deve soltanto obbedire. Se la legge non è conforme alla “verità”, non solo ciò non è importante, ma il suddito deve anche astenersi dal denunciare la mancanza di verità della legge. L’esercizio della critica è ammesso solo nel foro interiore della coscienza, cioè del tutto in privato.Non è che questo modo di intendere il rapporto con la legge fosse pacificamente accettato. Certo esso era nato nel quadro delle guerre di religione, cioè nel contesto di quella distru-zione della comune identità cristiana dovuta all’affermarsi del movimento della Riforma e del protestantesimo, sicché si rendeva difficile proporre un diverso criterio di valutazione: mentre l’“autorità” era una sorgente giuridica facilmente ve-

rificabile, la “verità” diveniva fonte di diatribe continue e in definitiva di guerra civile. Tuttavia il diritto all’esercizio della “critica”, e della critica in pubblico, fu subito sentito, perlo-meno dall’opinione colta, come essenziale per mantenere aperto il confronto politico.[...] La formazione del sistema costituzionale “moderno” fu qualcosa di molto diverso da una radicale “rottura” rispetto alle tradizioni politiche precedenti: fu assai più [...] un ripen-samento e una ridefinizione dell’organizzazione dello spazio politico, in modo da salvare i grandi meccanismi di governo legittimo. [...] La questione fondamentale di ogni sistema po-litico è quella di farsi accettare dai suoi membri: perché un gruppo di persone [...] deve delegare una quota della propria libertà e della propria autonomia alla istituzione e identifi-carsi con essa? Si possono dare molte risposte diverse a que-sta domanda. [...] Tuttavia non importa più di tanto quale sia la motivazione per cui i membri di una società politica riten-gono accettabile la loro esistenza in quanto comunità/socie-tà: è importante che tale motivazione esista e si ritenga giu-sto che sia così.Quando la cultura di una società pensa questo del suo siste-ma politico e riesce a contenere la sfida di quelli che dissen-tono senza dovere ricorrere all’uso sistematico e generaliz-zato della violenza, il potere che governa quella società è ritenuto legittimo. Esso cioè non solo può affermarsi perché nessuna altra componente ha l’autorità per sfidarlo, ma eser-cita il suo potere perché esso è ritenuto necessario e accetta-bile dalla collettività. [...]L’assolutismo non si era posto il problema della “legittimità” e aveva rifiutato di considerare la società civile come un sog-getto con cui confrontarsi. [...]Il costituzionalismo moderno altro non è che il riaffermarsi della società civile come fondamento della società politica: il membro dello spazio pubblico, il civis secondo la nomencla-tura ripresa attraverso la cultura classica dalla res publica romana, voleva tornare a essere riconosciuto come il perno della comunità politica.

P. Pombeni, Lo Stato e la politica, il Mulino, Bologna 1997

Nel liberalismo storico si distinguono una prima fase, il «liberalismo classico», compresa nell’arco di tempo tra Rivoluzione francese e Restaurazione, e una seconda, «l’età degli incontri», caratteristica della prima metà dell’Ottocento, durante la quale il pensiero liberale entra in contatto con quello democratico e socialista.

L’eccezionalità del liberalismo [...] sta soprattutto, se non soltanto, nel fatto che attraverso di esso la cultura occi-

dentale ha formulato in piena consapevolezza e con razionale

rigore quello straordinario e, fino all’età moderna, impensa-bile principio – l’unico idoneo a garantire la trasformazione dei «sudditi» in «cittadini» – della limitazione dei poteri del-lo Stato [...].Questo concetto ha trovato la sua esplicita formulazione sul finire del sec. XVIII, quando W. von Humboldt scriveva le ce-lebri Idee per un saggio sui limiti dell’attività dello Stato (pubblicato in versione completa soltanto nel 1851). Il filo-sofo tedesco formulava il problema chiedendosi «se lo Stato debba mirare solo alla sicurezza o in generale al benessere fisico e morale della nazione». E poiché era sua profonda convinzione che «il più alto ideale della coesistenza umana sarebbe quello in cui ognuno si sviluppasse esclusivamente

Girolamo Cotroneo, Tra Settecento e Ottocento: il liberalismo36

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Per il sociologo Ernest Gellner non è l’identità nazionale a generare il nazionalismo, né sono suffi cienti a spiegarlo caratteri quali la lingua, il territorio, la cultura: a suo parere «è il nazionalismo che genera le nazioni e non l’inverso».

La volontà o il consenso costituiscono un fattore importante nella formazione della maggioranza dei gruppi, grandi e

piccoli. L’umanità è sempre stata organizzata in gruppi, di forme e dimensioni di tutti i tipi [...]. Ma due agenti o cataliz-

zatori generali della formazione e del mantenimento dei gruppi sono cruciali: la volontà, l’adesione volontaria e l’identificazione, la lealtà, la solidarietà da un lato; e dall’al-tro, la paura, la coercizione, l’obbligo. Queste due possibilità costituiscono i poli estremi di una specie di spettro. Alcune comunità si possono basare esclusivamente, o prevalente-mente, sull’uno o sull’altro, ma in genere sono rare. I gruppi più duraturi si basano su un misto di lealtà e identificazione (su una adesione voluta) e di incentivi estranei, positivi o ne-gativi, su speranze e paure.Se definiamo le nazioni come gruppi che vogliono durare co-me comunità, la rete-definizione che abbiamo gettato in mare ci frutterà una pescata di gran lunga troppo ricca. [...]

da se stesso e per se stesso», traeva da ciò la conseguenza che lo Stato dovrebbe avere a suo unico fine la «sicurezza» della nazione, non il suo «bene morale» né quello «positi-vo»: nelle istituzioni preposte a questi predomina infatti «lo spirito del governo che, per quanto possa essere saggio e salutare, produce sempre, in una nazione, uniformità e com-portamenti estranei», ove invece, «il bene supremo procu-rato dalla società è precisamente la varietà che deriva dall’associazione di molti, e questa varietà va sicuramente perduta, sempre, nella misura in cui lo Stato esercita il pro-prio intervento».Appare qui in maniera abbastanza netta la distinzione tra so-cietà civile e Stato, ove la prima è vista come il luogo della libertà, delle creatività, della spontaneità, del disordine per-sino, e il secondo il luogo dell’autorità (necessaria: il l. non l’ha mai negata, esigendone soltanto la regolamentazione), ma anche del conformismo, della burocrazia, della rigidità istituzionale. In tale contesto decisiva importanza assume il fatto che se il primo ambito nel quale l’ingerenza statale ven-ne considerata illegittima è stato quello della religione (e quindi del «bene morale» dei cittadini), il successivo è stato quello dell’economia [...]. Nel Secondo Trattato infatti, Locke scrive queste famose parole: «La ragione per cui gli uomini entrano in società è la conservazione della loro proprietà, e il fine per cui essi eleggono e conferiscono autorità al legislati-vo, è che si facciano leggi e si stabiliscano norme, come sal-vaguardia e difesa delle proprietà di tutti i membri della so-cietà».La collocazione della sfera dell’economia fuori di quella del-lo Stato [è] un’idea nata come «diritto» alla «proprietà pri-vata» prima ancora che nascesse la «scienza economica» [...] il cui primo prodotto è stato il «liberalismo». [...]Nel periodo che va dalle sue origini alla Rivoluzione francese il pensiero e la prassi liberali (che ancora mancavano persino di un nome: il termine “liberale” è entrato nel linguaggio po-litico nell’età della Restaurazione, ad opera di Madame de Staël e di Sismondi) furono impegnati soprattutto a consoli-dare la libertà di religione (diventata via via libertà di pensie-ro), il diritto alla proprietà e, attraverso le teorie sulla sepa-razione dei poteri, i limiti dell’autorità dello Stato. Un perio-

do che può essere chiamato [...] del «l. classico», segnato soprattutto dalla netta divisione tra società e Stato, del quale si esclude qualsiasi intervento (esclusa la “protezione” della vita e dei beni dei cittadini) nelle attività sociali.Dopo la Rivoluzione francese e il tramonto della società ari-stocratica, dal cui seno il l. era nato, inizia il periodo degli «incontri» tra di esso [...] e quelle che B. Croce ha definito le «fedi religiose opposte», sarebbe a dire la «democrazia» prima e il «socialismo» poi.In un documento importante del rapporto pronunciato nel 1819 da Constant, dal titolo La libertà degli antichi parago-nata a quella dei moderni, [...], in opposizione alla «libertà collettiva» (esercitata cioè in gruppo, sulla piazza) degli an-tichi, veniva esaltata quella «individuale» dei moderni, sot-tratta alla sfera pubblica, allo Stato in una parola. Un discor-so che certo ancora rivelava la difficoltà dei rapporti tra le due ideologie, anche se il principio della «democrazia dele-gata» – con il quale la cultura liberale dell’età della Restau-razione prendeva le distanze dal «democratismo» radicale di J.-J. Rousseau, ma non dalla democrazia intesa come più lar-ga partecipazione “popolare” alla vita pubblica – non era affatto estraneo a Constant.Ma l’incontro «storico» tra democrazia e l. avviene con l’ope-ra di Tocqueville, La democrazia in America (1835 e 1840), dove da una parte si sosteneva la necessità dell’innesto nel pensiero liberale di alcune «conquiste» di quello democrati-co, il cui sviluppo appariva ormai inarrestabile, per cui se il l. non avesse saputo dominarlo e dirigerlo ne sarebbe stato tra-volto; mentre dall’altra si avvertivano i pericoli che l’esten-sione del «metodo» democratico e dello stesso principio di maggioranza – definito da Tocqueville «la teoria dell’ugua-glianza applicata all’intelligenza» – poteva comportare an-che sul piano delle libertà fondamentali, della stessa libertà di pensiero: «La maggioranza – scriveva a proposito della democrazia americana – traccia un cerchio formidabile intor-no al pensiero. Nell’ambito di questi limiti, lo scrittore è libe-ro: ma guai a lui se osa uscirne».

Dizionario delle idee politiche, a cura di E. Berti, G. Campanini, Ave, Roma 1993

Ernest Gellner, Cos’è il nazionalismo37

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Qualsiasi definizione di nazione in termini di cultura comune è un’altra rete che frutta una pescata di gran lunga troppo ricca. [...]Il grande, ma valido paradosso è questo: è l’età del naziona-lismo che definisce le nazioni e non l’inverso, come potrebbe sembrare più logico. Ciò non significa che l’“età del naziona-lismo” sia una mera somma di risveglio e autoaffermazione di questa, quella o di quell’altra nazione. Piuttosto, quando le condizioni sociali generali favoriscono culture [...] omoge-nee, sostenute centralmente, che si estendono a intere popo-lazioni e non soltanto a minoranze, si viene allora a creare una situazione in cui le culture unificate, garantite dai mecca-nismi educativi e ben definite, costituiscono quasi l’unico tipo di unità con cui gli uomini si identificano volentieri, e spesso con entusiasmo. Le culture appaiono ora come le naturali de-positarie della legittimità politica. Soltanto in questo mo-mento diventa chiaro che ogni violenza sui loro confini [...] costituisce uno scandalo.[...] In queste condizioni soltanto, le nazioni possono vera-mente essere definite in termini sia di volontà sia di cultura, e veramente si può parlare di convergenza dell’una e dell’al-tra con le unità politiche. In queste condizioni gli uomini esprimono la volontà di essere politicamente uniti con quelli, e con quelli soltanto, che condividono la loro cultura. Gli Sta-ti esprimono allora la volontà di estendere i propri confini fi-

no ai limiti delle proprie culture, e di proteggere e imporre le proprie culture fin là dove arriva il loro potere. La fusione di volontà, cultura e Stato diventa la norma, e una norma non facilmente o frequentemente trasgredita [...]. Queste condi-zioni non definiscono la situazione umana in quanto tale, ma semplicemente la sua variante industriale.È il nazionalismo che genera le nazioni e non l’inverso. Senza dubbio, il nazionalismo usa le pre-esistenti proliferazioni di culture o di ricchezza culturale, che sono un retaggio storico, anche se le usa in maniera molto selettiva, e il più delle volte le trasforma radicalmente. Le lingue morte possono esser fatte rivivere, le tradizioni si possono inventare, fittizie purezze primigenie ripristinare. Ma questo aspetto culturalmente creativo, fantasioso, deci-samente inventivo dell’entusiasmo nazionalista non do-vrebbe permettere a nessuno di concludere, che il naziona-lismo è un’invenzione ideologica, artificiosa e contingente, che avrebbe potuto non realizzarsi se soltanto quei male-detti ficcanaso di pensatori europei, invece di lasciarlo per-dere, non lo avessero reinventato, non lo avessero iniettato nella circolazione sanguigna di comunità politiche altri-menti vitali.

E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Editori Riuniti, Roma 1985

Tra la Rivoluzione francese e il 1848 si assiste allo «spostamento dell’azione della Chiesa … alla sfera specifi ca della società civile, in vista dell’edifi cazione di una civiltà cattolica … retta da proprie regole e valori, attorno alla chiesa e in atteggiamento di difesa e protezione nei confronti della stessa».

La rivoluzione francese non rappresenta soltanto il tentati-vo di separare la chiesa dallo stato, ma sembra anche ro-

vesciare le posizioni, con ritorni a forme di cesaropapismo. Non si accetta più l’influsso della chiesa sulla società, e si vuole anzi provocare l’influsso della società civile sulla chie-sa, applicandole le regole proprie di ogni società, relativiz-zandone le strutture e modificandole a immagine dei cambia-menti delle strutture sociali.La costituzione civile del clero è un ulteriore sforzo di armo-nizzazione della chiesa alla società, mentre la dichiarazione dei diritti dell’uomo sembra volta anche contro il secolare assolutismo chiesastico [...].Lo stato rivoluzionario si presenta, più che innovatore, erede di premesse già presenti in alcuni stati del ’700; mentre Na-poleone, inaugurando una nuova politica dei concordati, indi-ca quella che sarà presto la strategia dei rapporti tra le chie-se e gli stati, dopo gli sforzi della restaurazione per tornare all’antico regime. Una nuova strategia dove al ritorno al cen-

tralismo romano, a scapito di tendenze gallicane o neo-galli-cane, fa anche riscontro l’abbandono da parte di Roma dell’intransigenza sulle rivendicazioni legittimiste, per ac-cettare l’adeguamento ai nuovi ordini politico-istituzionali, senza cedere ai tentativi di Napoleone [...] di subordinare a sé la chiesa e le sue strutture.Ma le trasformazioni dei rapporti di vertici tra chiese e stati determinano anche un’altra conseguenza, più significativa: da un primo generico associazionismo nasce l’idea del partito cattolico. La chiesa, per mantenere il suo influsso sulla socie-tà e anche per difendersi dall’invadenza del potere civile, chiede ai suoi sudditi di operare nella società in modo da con-tenere il potere statuale, da stimolare la nascita di una nuova mentalità di base, che tolga di fatto il potere dello stato sulle coscienze.Il partito cattolico, che inizialmente si manifesta solo sotto forma di gruppi con scopi culturali e religiosi, trae così la sua origine nella risposta alla laicizzazione della società civile, con caratteri simili nei paesi a maggioranza cattolica, dove il processo di laicizzazione è stato maggiore; nasce di fronte alla temuta insufficienza della restaurazione per garantire la presenza della chiesa e della cristianità nella società. Persa la fiducia nei princìpi, la chiesa sembra quasi cercare nuovi appoggi fra i suoi credenti: i quali sono portati talvolta allo scontro frontale, alla condanna senza appelli, al rifiuto della società moderna.Sulla società modellata dalla rivoluzione e fondata sui grandi princìpi affermati dalla rivoluzione stessa si riversa la con-

Maurilio Guasco, Il cattolicesimo politico nel primo Ottocento38

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Uno dei maggiori punti di forza del pensiero di Marx risiede nella capacità di comprendere e analizzare i profondi mutamenti economici, politici e sociali che investirono la società ottocentesca.

A fare da sfondo al periodo della storia del marxismo rap-presentato dall’opera di Karl Marx (1818-1883) è il tem-

po che vede il dissolversi della società premoderna e proto-moderna e il maturare della società moderna. La rivoluzione industriale si estende e approfondisce; aumenta il volume della produzione; si afferma l’urbanesimo. La ricchezza capi-talistica diventa la forma di ricchezza dominante. L’assoluti-smo politico entra in crisi. La classe operaia tende a poco a poco a uscire da una condizione di eterogeneità e dispersione e ad acquistare consistenza. [...] Si tratta di un insieme di mutamenti profondi, che, nei paesi cui Marx guarda soprattut-to (Inghilterra, Europa centro-settentrionale, Stati Uniti), giungono a maturazione fra l’inizio, o la metà, dell’800 e il decennio 1870-’80.Il marxismo mostra la sua originalità e il suo senso profondo nell’analisi che fa di questa realtà e delle condizioni della sua trasformazione. Da una parte, Marx accetta e vuole il capitali-smo. Riconosce la sua portata civilizzatrice, l’unione che c’è fra la sua affermazione e la costruzione di una civiltà più alta. Si superano la penuria e l’isolamento feudali. Si va tenden-zialmente verso l’utilizzazione universale delle risorse natu-rali e umane. Gli uomini cooperano su scala mondiale; la pro-duzione diventa effettivamente sociale. Si può pensare alla formazione di una società realmente unificata e di una società di uomini liberi e universali, onnilaterali. Da un’altra parte, Marx vede il disordine e la disumanizzazione derivanti da uno

sviluppo e da una socializzazione della produzione che si ac-compagnano a una forma privata, capitalistica, di appropria-zione. Ciò che è da fare è dunque dare luogo a una rottura tale da sopprimere la subordinazione della produzione della civiltà alla produzione del profitto privato, e tale da universalizzare il processo di civilizzazione, da farlo diventare lo sviluppo umano di ogni uomo. Siamo quindi fuori del liberalismo, che salta indiscriminatamente la moderna società dell’industria o imposta il problema della sua emancipazione come quello del superamento delle sopravvivenze feudali e assolutistiche; e lasciamo indietro quell’avversione globale per la moderna so-cietà e quell’idealizzazione della limitata divisione del lavoro e della limitata produzione mercantile, che sono sottese a tan-te correnti del socialismo, dell’egalitarismo democratico, dell’anarchismo. Sulle condizioni della trasformazione della società capitalistica il discorso di Marx non è di minore rilievo. Intanto, questa società è semplicemente un momento dello sviluppo storico, una società particolare: essa tende a trasfor-marsi e può essere trasformata. Poi, la possibilità di una sua trasformazione, e di una trasformazione che non sia la genera-lizzazione della miseria, sta nell’espansione delle forze pro-duttive promosse dal capitalismo. E sta nel fatto che il movi-mento della moderna società mette capo a conflitti inducenti a una trasformazione profonda. [...] Non ci sono solo condizioni oggettive [...]. Ci sono anche condizioni soggettive: la classe proletaria deve diventare classe per sé, soggettivamente, cioè una classe che acquista coscienza sia dell’essere della società moderna, sia del suo proprio essere e delle sue potenzialità, e una classe che si organizza e che lotta.

A. Zanardo, Il marxismo, in Storia delle idee politiche, economiche e sociali, a cura di L. Firpo,

vol. 5, UTET, Torino 1973

danna che aveva coinvolto la Riforma: la rivoluzione anzi non ne sarebbe che un lontano epigono. [...] Nasce lentamente e matura tra il 1815 e il 1848 quello spirito intransigente che darà poi i suoi maggiori frutti dopo la caduta del potere tem-porale; nascono le premesse, e non solo le premesse, di or-ganizzazioni che lottano contro lo stato con i suoi stessi mez-zi, i libri, i giornali, la propaganda capillare, talvolta con spirito settario; si forma una nozione di civiltà cristiana che vuole contrapporsi allo spirito dell’illuminismo e ai guasti della rivoluzione.Non può certo avere successo, in questo clima, la nuova pre-dicazione di Lamennais (1782-1854), giunto [...] alla sco-perta e alla difesa delle libertà moderne, né dei cattolici libe-rali, individui anche di valore, ma senza influsso né possibili-tà di diventare un movimento organizzato e ascoltato, in

quanto mettevano in causa quella unità di intenti nella lotta contro la società moderna, che era indispensabile al nuovo atteggiamento della chiesa verso la società.Si assisteva così a una progressiva perdita del rapporto privi-legiato con lo stato e a un conseguente spostamento dell’azione della chiesa dalla sfera istituzionale e diplomati-ca alla sfera specifica della società civile, in vista dell’edifi-cazione di una civiltà cattolica completamente diversa da quella moderna, retta da proprie regole e valori, attorno alla chiesa e in atteggiamento di difesa e protezione nei confronti della stessa.

M. Guasco, Politica e stato nelle grandi religioni monoteistiche, in Il pensiero politico contemporaneo, a cura di G.M. Bravo,

S. Rota Ghibaudi, Angeli, Milano 1985

Aldo Zanardo, Marx e il marxismo39

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Applicato ai problemi sociali, il darwinismo trovò ampi consensi in Germania e si fuse con il dilagante razzismo. Eppure è importante osservare che, negli anni Venti e Trenta, l’ideologia hitleriana considerò l’uomo ariano come un soggetto perfetto, fi n dalle sue origini più remote, rifi utando l’idea stessa di evoluzione.

Nel 1900, il ricco industriale Alfred Krupp patrocinò un concorso letterario sul tema: Che cosa possiamo ricavare

dai principi del darwinismo, per applicarlo agli sviluppi poli-tici interni e alle leggi dello stato? La maggior parte dei sag-gisti che vi parteciparono sostennero essere della massima importanza il criterio biologico, cornice entro la quale si sa-rebbero dovuti creare, onde assicurare la continuità dello stato, quadri di elementi razzialmente adatti. Il primo pre-mio toccò a Wilhelm Schallmeyer, il quale vedeva i sistemi legali, il progresso tecnico, l’etica e perfino i concetti di be-ne e male in termini di lotta per la sopravvivenza, considera-ta una realtà di fatto cui bisognava armonizzare vita e mora-le. Tutto ciò che contribuisse alla salvaguardia del debole non avrebbe fatto che accelerare la degenerazione della raz-za bianca, fino a ridurla al livello degli aborigeni australiani, e ciò avrebbe comportato degradazioni mentali oltre che fi-siche, dal momento che l’una e l’altra sfera erano razzial-mente determinate. Schallmeyer, medico e studioso, aveva per braccio destro il collega dottor A. Plötz, assertore [con-vinto sostenitore, n.d.r.] della superiorità della razza cauca-sica [gli europei di pelle chiara, n.d.r.] eccezion fatta per gli ebrei. A suo giudizio, era la razza ariana a rappresentare l’apice dello sviluppo razziale; approfittando di una guerra, argomentava Plötz, sarebbe stato opportuno inviare i mem-bri inferiori della razza al fronte, per farne carne da canno-ne. Come ulteriore misura atta ad assicurare la validità fisi-ca, Plötz suggeriva che un gruppo di medici giudicasse della idoneità alla sopravvivenza dei neonati. Un metodo di igiene razziale, questo, cui ineriva una spietatezza frutto dell’esal-tazione della forza, inevitabile del resto finché si sostenesse che la sopravvivenza dell’uomo dipendeva dal rafforzamen-to di un’élite e dallo sterminio dei deboli: atteggiamento pernicioso [capace di provocare danni gravissimi, n.d.r.], soprattutto perché le nazioni erano considerate razzialmen-te esclusive e giudicate col metro della superiorità o inferio-rità biologica.Un altro dei partecipanti al concorso, Ludwig Woltmann, se non riuscì a ottenere un premio, in compenso si garantì la possibilità di esercitare una ben più duratura influenza. [...] Stando a Woltmann, le leggi biologiche di natura, scoperte da Darwin, comandavano l’evoluzione dell’uomo al pari di quel-la delle piante e animali; anzi, le leggi in questione agivano nel senso di equiparare sviluppo razziale e progresso sociale. Servendosi di questa concezione come d’un criterio «scienti-fico», Woltmann approdava all’affermazione che i tedeschi

erano all’avanguardia della specie Homo sapiens. Ma le pro-ve addotte avevano carattere più estetico che scientifico. In-fatti, Woltmann sosteneva che criteri basilari per giudicare della razza dovevano essere ritenuti le proporzioni del corpo umano, i tratti del volto e altre caratteristiche fisiche. In una parola, le qualità estetiche, subordinate a presupposti raz-ziali, venivano invocate a sostegno di teorie che si proclama-vano basate sulle scienze naturali. Era quindi l’ideale nordi-co, ariano, di bellezza a convalidare le pretese di Woltmann alla supremazia dei tedeschi. Il tronco e la testa ben propor-zionati dell’uomo nordico, l’interiore spiritualità che, Wol-tmann affermava, gli splendeva in volto conferendogli il suo aspetto caratteristico, tali le prove della qualità della razza. Scendendo ai particolari, Woltmann giunse ad affermare che il rapporto tra gambe e natiche dell’uomo nordico corrispon-deva alle «assolute proporzioni della bellezza architettoni-ca». Mediante la selezione, la natura aveva, con l’uomo nor-dico, prodotto una struttura armonica che non soltanto era il risultato di un’interiore spiritualità e di una esteriore grazia, ma rifletteva anche le leggi dell’assoluto estetico. [...]Il fatto che il nazionalsocialismo non abbia mai accettato completamente le idee di Woltmann, si spiega in vari modi: in primo luogo, nei suoi scritti e nelle sue idee mancava la com-ponente dell’antisemitismo, ed è interessante notare come tale carenza fosse dovuta all’opinione di Woltmann, che gli aspetti positivi del progresso razziale si sarebbero manife-stati anche in assenza di un avversario interno. In altre paro-le, la razza germanica secondo Woltmann recava in sé il se-me di eventuali successi o fallimenti. Un altro fattore che ostacolò l’accettazione incondizionata, delle sue idee da par-te dei nazisti, fu la loro rigida derivazione dal darwinismo, mentre erano molti i teorici nazional-patriottici e nazisti che rifiutavano le idee dello scienziato britannico, da essi definite la «malattia inglese». [...] Gli articoli pubblicati sui giornali nazionalsocialisti a commento dell’opera di Woltmann, rive-lano chiaramente l’atteggiamento dei nazisti nei confronti del darwinismo: vi si legge che quella di evoluzione è un’idea da respingere, essendo suo postulato una fase iniziale, primitiva ed elementare, per tutte le razze senza eccezione; inoltre, il concetto di evoluzione è in potenza negatore di ogni inerente virtù razziale o di un’implicita superiorità. I nazisti asserivano infatti che, quanto più solide erano le radici razziali, tanto minore effetto aveva su di esse la selezione naturale. Nazio-nalsocialismo e movimento nazional-patriottico [l’insieme delle concezioni nazionaliste e razziste che precedettero il nazionalsocialismo vero e proprio, n.d.r.] proclamavano che la razza germanica era la perfezione incarnata, che immutata ne era la grandezza: andava quindi respinta l’idea di evolu-zione e progresso razziali. «La razza, ora come mille anni fa», diceva la didascalia sotto l’immagine di un busto romano accostato al volto di un moderno tedesco, apparsa su un fo-glio nazionalsocialista.

G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968

George L. Mosse, Il darwinismo sociale in Germania40

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Ai suoi inizi, il movimento giovanile tedesco aveva idee e obiettivi molto confusi. Prevalevano la voglia di fuga dal mondo degli adulti (padri e insegnanti, innanzi tutto) e il desiderio di stare insieme. Ben presto, si inserirono elementi nazionalistici, che avrebbero spinto la maggioranza dei giovani ad arruolarsi volontari, nel 1914.

L’enorme popolarità di Der Wanderer zwischen beiden Welten [Il vagabondo tra due mondi, n.d.r.] (1917) di

Walter Flex può servire da epilogo e da riassunto simbolico della storia dell’adolescenza dell’anteguerra. Il libro vendet-te milioni di copie e divenne, insieme a In Stahlgewittern [Nelle tempeste d’acciaio, n.d.r.] di Ernst Jünger e a Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque, uno dei più famosi romanzi tedeschi della prima guerra mondiale, ma Flex venne ucciso nel 1917 e non visse abbastanza per vedere il successo della sua storia. Der Wanderer [il vagabondo di cui parla il titolo, n.d.r.] è Ernst Wurche, il quale credeva «che tutta la gloria e il benessere della futura Germania venissero dallo spirito del Wandervögel». Flex, riesaminando la sua amicizia con Wurche, ucciso in guerra, aggiunge: «E quando penso a lui, che incarnava questo spirito puro e brillante, credo che avesse ragione ». La «vera storia» che l’autore narra da qui in poi offre un esempio angosciante del potere della finzione e della creazione di miti.Ciò che Flex intendeva come un monumento al Wandervögel, oggi può essere letto come la sua storia simbolica. Sia il mo-vimento che la storia di Flex si possono dividere in due parti: un cameratismo idilliaco in un’isola naturale apparentemen-te sicura nel caos e un’espulsione successiva nelle turpi real-tà della guerra, della morte e del lutto. Per un lettore moder-no, sembra tragicamente ironico che né l’autore-narratore né il suo editore (il fratello sopravvissuto Martin Flex) avessero compreso il nesso tra le due situazioni contrastanti. Rimasero prigionieri entrambi del nazionalismo prebellico, insensibili ai canoni che ne sgonfiavano la retorica.Wurche, studente di teologia, si porta nello zaino un volume di Goethe, Così parlò Zarathustra di Nietzsche e il Nuovo Testa-mento. Quando gli viene chiesto come faccia a conciliarli, ri-dendo risponde: «In trincea tutti i tipi di mentalità diverse sono state costrette a divenire compagne. I libri non sono diversi dalla gente. A prescindere da qualsiasi diversità, non hanno

bisogno che di essere forti, onesti e capaci di farsi valere – cosa che produce il cameratismo migliore». La risposta è un esem-pio dell’ammirazione che si aveva per il potere prima della guerra, che subordinava il significato e le implicazioni di un’idea al modo in cui veniva presentata. L’amicizia tollerante di Gesù e Zarathustra è possibile solo se non ci si sofferma su ciò che rappresentano. Accettando tutti i capi potenti, senza badare a ciò che rappresentano, Wurche evita di dover sceglie-re. La sua ammirazione per la potenza a costo di responsabilità morale e intellettuale è tipica di un atteggiamento estetico molto pericoloso in quella che fu la crociata prebellica contro l’individualismo in Germania e nel resto d’Europa. [...]Prima di morire, Wurche dovrà passare attraverso l’inferno della guerra fredda, umida, malsana e disumana della trin-cea. Eppure la miseria tutt’altro che eroica che ne deriva e la perdita del suo amico così ammirato non servono a scorag-giare seriamente la glorificazione che Flex fa dell’eroe e del-la guerra. Egli riemerge vittorioso dopo l’angosciosa crisi del lutto, riaffermando il mito dell’eroe, della nazione e della guerra. Alla fine lo vediamo marciare attraverso i villaggi russi in fiamme cantando l’ardore di chi è pronto a morire per la patria. Il mito continua a vivere a dispetto dell’esperienza della guerra.Mi sembra doveroso aggiungere che il mito però non incita allo sciovinismo [nazionalismo esasperato, n.d.r.] o alla su-periorità razziale. Né Wurche né Flex si illudono che la Ger-mania vinca la guerra, poiché si rendono conto della ciclicità della storia e dell’inevitabile declino della Germania. Ma concludono che ognuno deve vivere il proprio destino al me-glio delle proprie capacità, e non che la guerra era insensata e avrebbe potuto essere evitata. L’ultima lettera di Flex a suo fratello, che viene presentata nell’epilogo, riassume il suo punto di vista: «Oggi sono pronto ad arruolarmi volontario per la guerra, così come lo ero il primo giorno. Il fatto che lo fossi allora quanto oggi non dipende da un fanatismo nazio-nalista, come pensano molti, ma bensì da un fanatismo mora-le... Ciò che ho scritto sulla etermità della nazione tedesca e sulla missione di redenzione del mondo dei tedeschi non ha nulla a che vedere con l’egotismo nazionale, ma è una fede morale che può essere realizzata persino nella sconfitta o, come avrebbe detto Ernst Wurche, nella morte eroica di una nazione».

J. Neubauer, Adolescenza fin-de-siècle, il Mulino, Bologna 1997

John Neubauer, La parabola del movimento giovanile: dalla trasgressione al nazionalismo

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Guidati da Enrico Corradini, all’inizio del Novecento i nazionalisti italiani elaborarono gran parte dei princìpi e degli orientamenti ideologici che sarebbero poi stati adottati, dopo la prima guerra mondiale, dal fascismo.

Corradini scrisse un numero enorme di pagine sempre intorno alla stessa idea fissa: la viltà della presente era [epoca,

n.d.r.] nazionale non poter [non poteva, n.d.r.] essere riscatta-ta che da una politica espansionistica. Egli stesso dichiarò infi-nite volte che la sua «idea nazionale» era nata dal bruciante dolore della sconfitta di Adua. I termini del problema erano molto netti: da un lato, una borghesia che diventava sempre più imbelle [priva di spirito combattivo, n.d.r.], dall’altra una ple-be che si faceva sempre più temeraria e arrogante. Per evitare la lotta interna che avrebbe condotto inevitabilmente al trionfo della parte meno eletta della nazione, non c’era altra soluzione che l’unione sacra al di sopra delle classi contrapposte per l’espansione del genio e del lavoro italiano nel mondo. Per un paese povero com’è l’Italia questa espansione doveva essere militare, non soltanto commerciale. Sinora l’Italia era uscita dai propri confini con miserrimi [poverissimi, n.d.r.] emigranti che erano stati assorbiti e colonizzati dalle nazioni più ricche; ora avrebbe dovuto uscirne con l’esercito e diventare essa stes-sa colonizzatrice. [...] Partendo da una concezione collettivisti-ca, insistentemente antindividualistica della società (la realtà storica è fatta di nazioni e non di individui), trae la conseguenza che la «moralità della inviolabilità della vita umana è una vera e propria immoralità, perché mira a dar prezzo a ciò che non ne ha». «I romani mietitori di vite sono sacri. Napoleone è sacro. In realtà la guerra non è se non una necessità per le nazioni che sono o tendono a diventare imperialiste, quando non tendono a perire. [...] Le guerre sono necessarie come le rivoluzioni, l’im-perialismo esterno e interno dei popoli, i quali due imperialismi costituiscono, da che mondo è mondo, tutta quanta la storia del genere umano. [...] Bisogna rammentare che il disprezzo della morte è il massimo fattore di vita. E oggi, in mezzo a questi branchi di pecore e di omiciattoli abili che compongono in Italia le cosiddette classi dirigenti, datemi cento uomini disposti a

morire, e l’Italia è rinnovata. » [...] Nel 1909 Corradini, sotto l’influsso del sorelismo [le teorie del francese Georges Sorel, n.d.r.] approdò alla concezione della «nazione proletaria», di cui si sarebbe fatto tenace banditore quando l’anno dopo il nazionalismo sarebbe diventato un mo-vimento politico (con il Congresso di Firenze del 1910). Il sin-dacalismo [la concezione di Sorel, n.d.r.] considerava la vio-lenza come uno strumento della lotta del proletariato contro la borghesia. Ma in una concezione unitaria della nazione non c’era posto per l’antagonismo interno che avrebbe finito per dilaniarla. Per chi considerava non la classe ma la nazione co-me soggetto universale della storia, la differenza tra sfruttato-ri e sfruttati non passava più attraverso le classi ma attraverso le nazioni. Di conseguenza, la violenza storica giusta è quella che permette alle nazioni povere di sottrarsi alla dipendenza delle nazioni ricche: la vera lotta per la liberazione dell’umani-tà è quella che mette le une di fronte alle altre non le classi ma le nazioni. «Il nazionalismo vuole essere per tutta la nazione ciò che il socialismo fu per il proletariato. Che cosa per il pro-letariato fu il socialismo? Un tentativo di redenzione: in parte, e nei limiti del possibile, riuscito. E che cosa vuol essere il na-zionalismo? Un tentativo di redenzione, e Dio voglia che riesca a pieno.» In uno dei suoi discorsi più impegnativi l’antitesi tra socialismo e nazionalismo viene posta in questi termini: «Due grandiosi fatti nel mondo moderno volgarmente ritenuti fra loro contrarii, sono invece molto simili e provengono dalla stessa causa. S’avversano anzi l’un con l’altro, ma sono molto simili e provengono dalla stessa causa. Questi due grandiosi fatti sono il socialismo moderno e l’imperialismo moderno. Sono tanto simili, anzi sono tanto della stessa natura, che il nome dell’uno può bastare a denominare anche l’altro, poiché lo stesso socia-lismo è una forma di imperialismo; è un imperialismo di classe, mentre l’altro, quello propriamente detto, è oggi ciò che sem-pre fu, è l’imperialismo delle nazioni». Così concepito, il na-zionalismo diventava la dottrina della «rivoluzione italiana», che avrebbe espulso dal nostro paese le sopravvivenze «di due rivoluzioni straniere, della rivoluzione borghese gallica [fran-cese, n.d.r.] e della rivoluzione socialista tedesca».

N. Bobbio, Profilo ideologico del Novecento italiano, Einaudi, Torino 1986

La rivoluzione del febbraio 1917, con la dissoluzione dell’impero zarista e l’insediamento della Duma guidata dal principe L´vov suscitò enormi aspettative in tutte le classi sociali, e soprattutto la speranza di riforme immediate. Qui vengono illustrati alcuni aspetti relativi in particolare alle richieste di contadini, operai e soldati, sottolineando soprattutto l’iniziale marginalità delle parole

d’ordine che in seguito avrebbero costituito le chiavi di volta del successo del gruppo bolscevico.

Come la rivoluzione del 1905, quella del febbraio 1917 su-scitò un’autentica liberazione della parola. Operai, solda-

ti, contadini, intellettuali ebrei, donne musulmane, maestri armeni, mediante “loro” organizzazioni – comitati di fabbri-ca, comitati di soldati, assemblee di villaggio o di volost´ –,

Norberto Bobbio, Le posizioni teoriche dei nazionalisti italiani

Nicolas Werth, Le aspettative del febbraio 1917

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Obiettivo del fascismo fu il controllo completo e totale delle masse, di cui esso voleva trasformare la mentalità e il comportamento, producendo così l’adesione attiva al regime. L’uomo nuovo fascista doveva rinunciare ai propri interessi di classe e persino alla propria individualità, per dedicare tutte le proprie energie allo Stato e alla grandezza della nazione.

Il fascismo è stato un movimento-regime con una propria lo-gica, che non può essere interamente identificata e risolta

nella logica degli interessi di classe e della politica di Musso-lini, anche se con questa è intrecciata. Il punto di vista adotta-to in questa relazione si basa appunto su questa premessa: il fascismo fu un fenomeno nuovo scaturito, come altri movi-menti politici della storia contemporanea, dai conflitti ineren-ti alla moderna società di massa, che si travaglia nella ricerca di soluzioni al problema delle masse e dello Stato in un’epoca di rapidi cambiamenti; il sistema politico fascista fu un tenta-

tivo inedito di soluzione, elaborato e sperimentato entro le strutture della società borghese, ma concepito e attuato se-condo una logica eminentemente politica e, in senso proprio, totalitaria. Nella elaborazione e nella attuazione del sistema politico fascista, mito ed organizzazione ebbero un ruolo fon-damentale, quanto gli interessi di classe e i giochi di potere, ma più di questi furono decisivi nel determinare i caratteri pro-pri del fascismo e la logica del suo svolgimento. [...]Il problema delle masse era per il fascismo il banco di prova per la sua capacità rivoluzionaria nel costruire una «nuova civiltà politica», che doveva essere civiltà di masse organiz-zate e integrate nello Stato. Il fascismo, scriveva su «Critica fascista», il 15 agosto 1933, Agostino Nasti, «è l’organizza-zione politica delle grandi masse moderne». La sua afferma-zione esprimeva uno scopo e un ideale piuttosto che una real-tà, ma essa riassumeva l’intenzione più intima della politica e della mitologia fasciste. L’educazione delle masse, aveva affermato il «Popolo d’Italia» il 15 dicembre 1929, come educazione «integrale e totalitaria», è «il problema centra-le, è tutt’uno col problema politico del Fascismo». Organiz-zare le masse divenne il principale obiettivo della politica

inviarono ai soviet, e più raramente ai partiti, ai giornali, e persino a Kerenskij, membro del governo che sembrava allo-ra il più vicino al campo “democratico”, migliaia di mozioni, petizioni, esposti, messaggi […]. Tali testi, che esprimevano tutta la miseria del popolo e l’immensa speranza suscitata dalla rivoluzione, imponevano alle nuove autorità di prende-re misure urgenti e radicali.Gli operai chiedevano, essenzialmente, l’applicazione imme-diata dei provvedimenti che corrispondevano al programma minimo della socialdemocrazia: innanzitutto la giornata la-vorativa di otto ore, poi la sicurezza dell’impiego, le assicu-razioni sociali, il diritto di formare un comitato di fabbrica, il controllo delle assunzioni e dei licenziamenti […]. Soltanto una piccola minoranza di lavoratori osò prendere posizione sul problema della guerra. Alcune grandi fabbriche di Pietro-grado si dichiararono ostili alla continuazione della guerra, ma ferrovieri e operai delle piccole imprese sostennero una posizione “patriottica”. Dal mese di aprile, tuttavia, la guerra passò in primo piano tra le preoccupazioni, e gli operai diven-nero i più ardenti propugnatori di una «pace senza annessioni né indennità». Quanto al “socialismo”, gli operai non vi fece-ro, in marzo-aprile, alcuna allusione; evocarono tutt’al più, attraverso il loro comitato di fabbrica, il problema del con-trollo e della gestione operaia.I contadini esprimevano un’esigenza fondamentale: che la terra appartenesse a coloro che la lavoravano, che fossero immediatamente distribuite le terre non coltivate che i grandi proprietari o lo stato lasciavano in abbandono. Il ruolo della comune del villaggio nella gestione collettiva del materiale, nello sfruttamento delle foreste, nella suddivisione equa del-le terre veniva spesso sottolineato, soprattutto dai più poveri;

quanto ai kulaki, temendo di trovarsi inclusi nel gruppo dei futuri espropriati, rifiutavano in anticipo la competenza delle assemblee di villaggio o dei “comitati” locali, per attendere il verdetto della Costituente. La riprovazione dei contadini nei confronti dell’amministrazione e dei proprietari era partico-larmente viva. Un fatto degno di nota era che, mentre esiste-va un innegabile adeguamento tra il programma dei partiti socialisti, la loro interpretazione della guerra o della rivolu-zione, e le mozioni operaie, nessuna delle parole d’ordine dei diversi partiti compariva nelle mozioni contadi ne: né “equa suddivisione”, né “municipalizzazione”, né “nazionalizzazio-ne”, né “abolizione della proprietà privata”. Irriducibili ai programmi e agli schemi politici elaborati dai cittadini, i con-tadini si avviavano a seguire il proprio cammino rivoluziona-rio, che sarebbe stato, nondimeno, radicale […].Quanto ai soldati, come la maggior parte dei combattenti di tutti i paesi in guerra, desideravano innanzitutto la fine del conflitto. Tuttavia, non prevedendo un prossimo ritorno a ca-sa, non osavano proclamare la loro aspirazione alla pace, finché lo stesso Soviet lanciò un appello. Essi espressero apertamente propositi pacifisti solo dal momento in cui so-spettarono che i loro superiori, ostili alla pace, utilizzassero il patriottismo per secondi fini: il ripristino della disciplina e, in seguito, l’impiego dell’esercito per scopi controrivoluzio-nari […]. Essi reclamavano un alleggerimento della discipli-na, la soppressione degli abusi e dei cattivi trattamenti, la liberalizzazione e la democratizzazione dell’istituto militare.

N. Werth, Storia dell’Unione Sovietica. Dall’impero russo alla Comunità degli Stati Indipendenti 1900-1991,

il Mulino, Bologna 1993

Emilio Gentile, L’organizzazione delle masse nel regime fascista44

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fascista, perseguito con voracità maniacale, che portò il fa-scismo ad appropriarsi delle organizzazioni sociali esistenti, a crearne delle nuove, a moltiplicare in estensione e in inten-sità le strutture entro le quali far confluire fin dall’infanzia il maggior numero di uomini e donne. [...] Il fascismo «totalita-rio» riteneva che l’organizzazione e il controllo delle masse fossero la condizione per trasformare il loro carattere, la loro mentalità, il loro comportamento, producendo così l’adesio-ne attiva al fascismo. I fascisti consideravano la natura delle masse un materiale duttile, plasmabile sotto l’azione di una volontà di potenza, per farne una nuova collettività organiz-zata e animata da una unica fede. La concezione fascista del-le masse escludeva pregiudizialmente la possibilità che le masse potessero giungere a governarsi da sé e conquistare una consapevolezza autocosciente e autonoma, ma tuttavia riteneva possibile modificare la loro mentalità, per educarle a vivere nello Stato, attraverso l’azione costante e quotidiana del mito e dell’organizzazione. [...]Con linguaggio più dimesso, il testo di preparazione politica dei giovani fascisti sentenziava che lo Stato fascista seguiva i cittadini «in tutto il loro sviluppo, e prima ancora del loro venire alla luce e formarsi, non abbandonandoli mai, dando a tutti una coscienza e una volontà... unitarie e profondamente accentrate», e asseriva che sin dai più teneri anni l’idea dello Stato operava nelle giovani anime «con la suggestione del mito». Il fascismo, in questo modo, voleva formare una col-lettività di cittadini aderenti e partecipanti alla vita dello Sta-to fascista non come individui autonomi, bensì come soldati disciplinati ed obbedienti, pronti a far sacrificio della vita per la potenza dello Stato. L’uomo nuovo del fascismo non era un individuo divenuto consapevole di sé e padrone del proprio destino, ma il «cittadino soldato» che svuotava la propria

individualità per lasciarsi interamente assorbire nella «co-munità totalitaria». [...]Il PNF assumeva così la funzione, preminente ed eminente nel sistema totalitario fascista, del «Grande Pedagogo », che doveva formare la coscienza delle masse fasciste, e prepara-re i soldati, i confessori e i martiri della «religione fascista». Anche il culto politico fascista acquista una sua razionale funzionalità nell’universo mitico e organizzativo del fasci-smo, come rappresentazione e celebrazione drammatica dell’integrazione comunitaria, e processo mistico di fusione della massa col duce. Lo Stato fascista doveva, per la sua natura totalitaria, assumere naturalmente il carattere di un’istituzione laico-religiosa, inglobante interamente l’uo-mo, anima e corpo, nelle sue strutture. Solo attraverso miti, riti e simboli era possibile coinvolgere il singolo e la colletti-vità nel «corpo politico» della comunità, e dare la percezione immediata della continua realizzazione del mito dello Stato totalitario, nella coscienza collettiva. Il fascismo, aveva scritto nel 1930 Bottai, era «una religione politica e civile... la religione d’Italia». Su questo campo, la coerenza fascista si mostrò più rigorosa nel guidare i comportamenti pratici, al punto, per esempio, che il fascismo non esitò a rimettere in discussione il compromesso con la Chiesa per rivendicare ed ottenere il monopolio dell’educazione, politica e guerriera, delle nuove generazioni, confinando la presenza del cattoli-cesimo ad elemento integrativo morale della «religione fa-scista».

E. Gentile, Partito, Stato e Duce nella mitologia e nella organizzazione del fascismo, in Fascismo

e nazionalsocialismo, a cura di K.D. Bracher e L. Valiani, il Mulino, Bologna 1986

In un suo studio fondamentale, La nazionalizzazione delle masse (1975), George L. Mosse focalizza in particolare l’attenzione sulla «liturgia nazista», sulla natura del rapporto di identifi cazione tra il Führer e le masse, teorizzato da Hitler stesso nel Mein Kampf.

Adolf Hitler aveva compreso bene l’aspetto sia pragmatico che ideologico della liturgia, e, come sempre, nella sua

mente seppe accordare concrete considerazioni politiche con la sua fede istintiva […]. L’integrazione della funzione del capo con l’intero cerimoniale può essere rilevata anche nel ritmo stesso e nella struttura dei discorsi di Hitler. Questi in-sistette sempre sulla “chiarezza” e manifestò la sua soddi-sfazione per essere riuscito a condensare la sua visione del mondo in sole 25 tesi. Ma chiarezza voleva dire anche una concisione di forma che non lasciasse luogo ad ambiguità. Il suo assioma politico che «il popolo non comprende le strette di mano» fu applicato ai suoi discorsi […]. I discorsi di Hitler

erano in realtà fatti, per le parole da lui usate, le domande retoriche, le affermazioni categoriche. In più avevano un rit-mo costante nel quale il popolo poteva inserirsi con acclama-zioni. Questi ritmi erano bellicosi, aggressivi e in particolare comportavano un timbro di voce di grande effetto. Lo stesso Hitler aveva scritto che i discorsi aprono il cuore del Volk [po-polo, n.d.r.] come colpi di maglio. Spesso questi discorsi ave-vano una costruzione logica. Ma la logica interna era masche-rata dal ritmo e dal crescendo della voce. Il pubblico recepiva in tal modo la logica del discorso emotivamente, avvertiva solo la combattività e la fede, senza afferrare il contenuto concreto, o senza soffermarsi a riflettere sul suo significato. La folla era attratta dalla forma del discorso, “viveva” il di-scorso più che analizzarne il contenuto […]. Lui stesso era un simbolo vivente che poteva essere in comu-nione con gli altri simboli, così come avveniva quando, in soli-taria imponenza, egli avanzava verso la sacra fiamma nei radu-ni di Norimberga. Ma come simbolo Hitler faceva parte di una totalità e non si poneva, nella sua solitaria imponenza, fuori di essa […]. I movimenti accuratamente predisposti della folla, la fiamma, gli effetti della luce e i discorsi di Hitler finivano per

George L. Mosse, La liturgia nazista45

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Le caratteristiche storiche e politiche della “rivoluzione dall’alto” staliniana, in particolare per ciò che concerne gli aspetti relativi alla costruzione del consenso e alla distruzione di qualsiasi tipo di opposizione, vengono spiegate alla luce della necessità di modernizzare lo Stato e di potenziare il partito in tempi ristretti e con tutti i mezzi a propria disposizione.

Stalin imboccò la via della industrializzazione accelerata e della collettivizzazione forzata con l’obiettivo di procedere

a una rapida modernizzazione economica del paese. Questo progetto di modernizzazione venne posto sotto l’insegna da un lato dell’eliminazione degli elementi capitalistici, in primo luogo nelle campagne, il che volle dire anzitutto dei kulaki, e dall’altro della liquidazione dei nemici interni (oppositori, spie, sabotatori e così via). Per procedere a questa moderniz-zazione in tempi rapidi e con mezzi scarsissimi, Stalin e i suoi seguaci – ecco un punto cruciale – possedevano tre strumen ti principali: la mobilitazione attiva di quella parte che seguiva con entusiasmo il progetto staliniano, trascinata dallo stato di esaltazione per l’obiettivo del grande balzo; il controllo auto-ritario su quanti dovevano essere trascinati o costretti; l’emar-ginazione e lo schiacciamento di tutti gli oppositori. Ma questi strumenti potevano essere messi in opera solo potenziando in modo straordinario gli apparati di controllo e la capacità di coercizione dello Stato e del partito unico.L’equazione fra “collettivizzazione integrale della campagna” e “liquidazione dei kulaki come classe” venne stabilita da Stalin come un assioma della sua politica. I kulaki ebbero nel-la politica di potenza staliniana un valore simbolico centrale. Ad essi venne attribuito nel campo dei rapporti economico-sociali un significato analogo a quello attribuito ai trockisti nel campo politico-ideologico […]. Bisogna tenere presente che la violenza contro i kulaki non fu che un aspetto della vio-lenza contro tutti gli elementi giudicati dal potere di volta in volta, nelle campagne come nelle città, elementi ostili […].

Una volta lanciata la politica della modernizzazione accele-rata e guidata dall’alto […], Stalin la pose sotto il segno di quella che potremmo definire una vera e propria ideologia del trionfalismo. L’enfatizzazione dei successi, pur grandiosi e reali, spinta fino alla falsificazione più iperbolica divenne un tratto costitutivo dello stalinismo […]. Si coglie qui il signifi-cato politicamente concreto del trionfalismo staliniano. Esso era un modo per proclamare in modo inappellabile la giustez-za della strategia politica staliniana e la deprecabilità delle linee degli oppositori, e di sollevare al tempo stesso l’orgo-glio del partito e della nazione […]. Il trionfalismo – in quan-to strumento politico – serviva […] anche a dare un fonda-mento alla repressione terroristica contro le opposizioni di ogni tipo. Tanto è che il periodo in cui il capo osannato dell’URSS celebrava i più grandi successi è quello stesso in cui vennero messi in atto l’eliminazione fisica di quasi tutti i maggiori oppositori bolscevichi e la repressione di massa, con la conseguente dilatazione del mondo concentrazionario. È il periodo delle grandi purghe del 1936-1938. Ora Stalin intese dare una base teorica, “scientifica”, alla repressione […]. Elaborò la teoria che erano proprio i successi a spingere gli oppositori a tentare il tutto per tutto contro il regime in un vortice di disperazione e di abiezione. È a questo punto da sottolineare che Stalin aveva già da tempo spiegato al partito che gli oppositori ex bolscevichi tanto di sinistra quanto di destra avevano ormai del tutto cessato di essere correnti in-terne al movimento operaio e erano diventati strumenti diret-ti sia dal nemico di classe interno sia dal capitalismo interna-zionale, e segnatamente dal fascismo e dalle peggiori forze reazionarie del mondo […]. Così Stalin esprimeva una delle leggi fondamentali del suo sistema: l’opposizione politica diventa necessariamente un crimine e un atto di degenerazio-ne morale e politica; essa spinge inevitabilmente a mettersi al servizio dello straniero e della restaurazione capitalistica. L’epurazione politica sotto forma di eliminazione fisica aveva quindi trovato la sua compiuta giustificazione teorica.

M.L. Salvadori, L’utopia caduta. Storia del pensiero comunista da Lenin a Gorbaciov, Laterza, Roma-Bari 1992

costituire una totalità drammatica. E infatti Hitler organizzò la sua vita pubblica, e persino quella privata, intorno a se stesso come a un simbolo vivente. Persino l’uniforme da lui indossata, inconfondibile e semplice, caratterizzava la semplicità e l’evi-denza che ogni simbolo deve avere anche quando si incarna in un essere umano; e gli emblemi da lui stesso esibiti avevano pure un significato diretto: la camicia bruna, la svastica, e il mazzetto di fronde di quercia, che adottò quando si autonominò comandante in capo dell’esercito […].La liturgia nascosta si basava sull’organizzazione totale della vita. Ogni tedesco era obbligato ad appartenere a uno degli innumerevoli gruppi controllati dal partito, i quali co-stituivano l’ossatura necessaria per dirigere ogni attività, non esclusa la vita sociale. Naturalmente le Weihestunden

(le ore della venerazione) rientravano nei programmi di questi gruppi, specie di quelli che si occupavano della gio-ventù. Ma erano altri tipi di attività quelli che dominavano. Quando Hitler parlava della realizzazione della sua visione del mondo, intendeva riferirsi non solo al cerimoniale o alle riunioni, ma anche all’organizzazione dell’“uomo totale”, sotto la guida del partito. Questo completamento fu possibi-le solo quando i nazisti andarono al potere, ma già negli anni della lotta per il potere era stata realizzata nei confron-ti degli iscritti al partito.

G.L. Mosse, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933),

il Mulino, Bologna 1975

Massimo L. Salvadori, Stalin e la “rivoluzione dall’alto”46

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Negli anni della segreteria di Leonid Breznev la classe dirigente e lo Stato, per la sua stessa struttura centralizzata e nonostante il crescente ampliamento del suo potenziale militare e tecnologico, si rivelano incapaci di procedere con rapidità a innovazioni in grado di portare l’economia sovietica a competere, a livello internazionale, con le economie di mercato. Tale immobilità determinerà, a lungo andare, una crisi senza precedenti.

Il sistema sovietico, quale era venuto configurandosi attra-verso i successivi mutamenti seguiti alla seconda guerra

mondiale, mostrava solo una limitata capacità di radicale in-novazione. Bresnev e i dirigenti a lui vicini erano coscienti di ciò e se ne rallegravano. Ma i problemi del sistema persiste-vano. Frustrazione politica e risentimento serpeggiavano in tutta l’URSS, come pure all’interno del partito, del governo e di altre istituzioni pubbliche. Si registravano periodi di reces-sione economica. Si diffondevano alienazione sociale e rigur-giti nazionali, religiosi e culturali […]. Nonostante i suoi cre-scenti problemi, l’Unione Sovietica era ancora un’entità sta-bile ed era trattata dal resto del mondo quale salda compo-nente del panorama internazionale. Uomini di stato, studiosi e commentatori davano per scontato che la forza militare e politico-ideologica sovietica fosse troppo grande per essere ignorata. L’URSS aveva quasi raggiunto la parità militare con gli Stati Uniti, e l’economia sovietica vantava il secondo po-sto nel mondo quanto a capacità industriale: produceva più acciaio, petrolio, ghisa, cemento e persino trattori di qualun-que altro paese […]. In ogni caso pochi in Occidente nutrivano simpatie per l’URSS. La brutalità e l’immobilismo del comu-nismo sovietico erano troppo noti perché potesse apparire un faro di libertà politica e giustizia sociale. Persino i partiti co-munisti italiano e spagnolo abbandonarono la loro fedeltà ideologica a Mosca e formularono dottrine contrarie alla dit-tatura. Specie dopo l’invasione della Cecoslovacchia capeg-giata dall’URSS nel 1968 il numero degli ammiratori di Lenin nei paesi non soggetti a regimi comunisti si assottigliò […]. Nonostante tutto alcuni ottimisti sostenevano che il sistema politico sovietico potesse essere “ammorbidito” […], tesi in-

sostenibile secondo altri, i quali ritenevano ogni riforma strutturale incompatibile con il mantenimento dell’ordine co-munista, e ovviamente nessun leader del Politburo avrebbe messo mano a una simi le riforma. Certamente Bresnev non aveva intenzione di indebolire il partito di cui era segretario generale, e per molti anni gli sviluppi dei rapporti tra URSS e USA sembrarono giustificare la sua convinzione […].Il partito, sotto la guida del Politburo, doveva formulare le politiche e fungere da guida. Il primo dovere della società era di fornire una disciplinata obbedienza. Bisognava portare a termine una “rivoluzione tecnico-scientifica”, e in tal modo la programmazione statale centralizzata avreb be dimostrato la propria superiore razionalità. Gli ideologi ufficiali affermava-no che l’URSS già superava il capitalismo nel migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini […]: il “socialismo svilup-pato” doveva essere condotto alla sua trionfante maturità. In realtà, non fu prevista alcuna novità strutturale nei provvedi-menti concernenti industria e agricoltura. Le opzioni erano limitate dallo stanziamento di ingenti risorse statali da parte del Politburo per investimenti nell’industria alimentare e nel-la corsa agli armamenti nucleari […]. L’URSS era un grande esportatore di petrolio, benzina e gas. La verità era che il paese, lungi dallo stare al passo con l’Occidente capitalisti-co, dipendeva dalle vendite all’estero delle sue risorse natu-rali esattamente come era stato prima del 1917 e, a differen-za del periodo zarista, non era più in grado di produrre un surplus di grano da vendere al resto d’Europa. Non è possibi-le dare un rendiconto esatto delle percentuali di crescita in-dustriale conseguite. Gli scettici suggeriscono che non vi sia stata alcuna crescita. Comunque sia, nessuno nega che alla fine degli anni settanta si andava delineando un declino or-mai cronico […]. Non vi era traccia di aria nuova né nel setto-re bancario, né in quelli dei trasporti, delle assicurazioni, dei servizi personali, delle costruzioni o del commercio estero […]. La pretesa secondo la quale, evitando l’utopismo chru-sceviano, l’URSS poteva entrare in una fase di costante espansione economica era stata oggetto di sperimentazione ed era risultata priva di riscontro. Bresnev e i suoi collabora-tori non si rendevano conto che l’immobilismo era la ricetta per un disastro politico.

R. Service, Storia della Russia nel XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1999

Robert Service, L’URSS brezneviana

Gorbacëv voleva coniugare socialismo e libertà, ponendo fi ne al principio leninista secondo cui ogni critica al partito era da considerare un grave pericolo per la rivoluzione. Secondo Gorbacëv, la glasnost (trasparenza, ovvero libertà di critica) doveva essere il presupposto della perestrojka (ristrutturazione economica).

Con Gorbacev si affacciarono al potere coloro che si defini-vano «figli del XX congresso», perché da giovani erano

stati influenzati per sempre dal famoso congresso krusciovia-no e anti-staliniano del 1956. Lo stesso Gorbacev poteva an-noverarsi nelle loro file: la sua era la «generazione » dei comunisti riformisti. Venivano chiamati, anche in politica, i sestidesjatniki, gli uomini degli «anni Sessanta», che ormai

Giuseppe Boffa, Il programma riformista di Michail Gorbacëv

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si avvicinavano ai sessant’anni pure per l’età. Furono i primi e più convinti sostenitori di Gorbacev con l’ambizione di for-nire «quadri» e consiglieri per la sua politica. [...] Per forma-zione e inclinazione (Gorbacev) era un riformista, non un eversore. Voleva innovare la società da cui usciva, non certo capovolgerla. Credeva nei valori e nelle idee del socialismo: intendeva farlo funzionare. Non disprezzava la storia sovieti-ca del proprio paese, pur conoscendone le tragedie. Al pre-mier [primo ministro, n.d.r.] inglese, signora Thatcher, disse un giorno: «Non si può partire dall’idea che la Rivoluzione d’ottobre sia stata un “equivoco” e il socialismo, la Russia sovietica, un “errore” della storia». «Non possiamo rinnega-re – affermava spesso – ciò che hanno costruito i nostri padri e i nostri nonni». Venne, non a torto, paragonato al cecoslo-vacco Dubcek: come lui, voleva un «socialismo dal volto umano», non una diversa società, magari «disumana» a sua volta. [...] Il pubblico manifesto dei suoi propositi riformatori fu reso pubblico da Gorbacev nel rapporto al XXVII congresso del PCUS, aperto il 25 febbraio 1986. Era passato meno di un anno dalla sua ascesa al potere. La data dell’evento era pre-determinata. Il nuovo segretario colse l’occasione per espor-re le sue intenzioni. Quadro congressuale e impianto del di-scorso erano ancora tradizionali. Per contrasto risultava tan-to più palese la profonda novità delle tesi esposte. Il rapporto si aprì e si concluse con l’indicazione della necessità di un cambiamento: la stessa parola scelta dall’oratore, perelom, ha un significato di «rottura» (col passato) prima ancora che di semplice «svolta». Il quadro della situazione interna era sobrio, ma severo: con gli anni, sul cammino del paese si era-no accumulati più problemi di quanti non se ne fossero risolti. La causa non stava nei «fattori esterni», che c’erano stati, ma non erano stati decisivi: stava nei difetti di direzione. Fu a proposito dell’economia e del suo «meccanismo» di funzio-namento che Gorbacev utilizzò per la prima volta il termine programmatico di perestrojka, che significa «ricostruzione» o «ristrutturazione». Specificò che doveva trattarsi di una «riforma radicale». [...]Perché fosse chiaro che questa volta non poteva trattarsi di mezze misure, Gorbacev evocò anche un «ricorso originale» alle concezioni fondamentali della NEP, la politica economi-ca che negli anni Venti aveva lasciato spazio all’autonomia delle imprese, al libero commercio, ai meccanismi di merca-to e aveva provocato il primo sviluppo dell’economia sovie-tica; quella stessa NEP che era stata brutalmente accanto-nata da Stalin all’inizio degli anni Trenta. La sostanza della riforma consisteva proprio nel ridurre il ruolo della direzione centrale dell’economia, che doveva concentrarsi sulla scelta dei grandi indirizzi di sviluppo e sulla determinazione degli equilibri fondamentali (macro economici) per lasciare mag-giore spazio all’iniziativa delle singole unità produttive. Ciò non significava rinunciare al governo dell’economia, il quale andava però esercitato non con disposizioni amministrative, ma mediante «leve economiche» (norme, leggi, crediti, in-centivi). Anche ai prezzi occorreva lasciare un più ampio margine di libertà.Mediante un ricorso ai termini più classici del linguaggio mar-xista, Gorbacev precisava che doveva trattarsi ormai di un

cambiamento nei «rapporti di produzione», quindi nella struttura stessa della società sovietica: rapporti che la dottri-na ufficiale, considerandoli già socialisti, aveva ritenuto sino a quel momento intoccabili. Gorbacev non intendeva peraltro rinunciare al socialismo: cercava semmai un socialismo mi-gliore. Dava però una diversa lettura di questi concetti, pole-mizzando con chi riteneva che già vi fosse in URSS un «socia-lismo sviluppato» e che quindi qualsiasi correzione equiva-lesse a un «abbandono del socialismo». Arrivava a ipotizzare anche un’evoluzione degli assetti di proprietà o, per lo meno, dell’uso e del controllo della stessa proprietà statale, cal-deggiando un ampio ricorso ad autentiche aziende cooperati-ve e anche a forme di attività privata o di conduzione familia-re, specie nell’agricoltura e nella sfera dei servizi. Delineava così un progetto di economia mista al posto di quell’econo-mia interamente «statalizzata», che Stalin aveva voluto e aveva chiamato «socialismo».A differenza di tutti i suoi predecessori, Gorbacev non consi-derava la riforma dell’economia come qualcosa che potesse essere avulso [slegato, privo di collegamenti, n.d.r.] dal re-sto. Secondo una linea di pensiero, che continuerà a svilup-pare negli anni successivi, avvertiva che non vi sarebbero stati cambiamenti reali nella vita economica, se tutta la so-cietà nel suo complesso non vi fosse stata coinvolta. La crisi per lui non riguardava soltanto l’economia. Per la prima volta dagli anni Trenta un dirigente sovietico ammoniva che la «giustizia sociale» non era un traguardo già raggiunto, ma un obiettivo da perseguire con una politica più attenta che per il passato, quando alle sue esigenze si era finito col destinare solo «ciò che restava» dopo aver soddisfatto le priorità della grande industria. Avvertiva inoltre la necessità di un rinnova-mento morale, chiamando tutti, in primo luogo i comunisti, a ripristinare gli ideali originari: stava qui la nota più insistente delle parole da lui rivolte al partito, dove ricorreva un appas-sionato appello all’onestà.Soprattutto Gorbacev riteneva indispensabile – qui era l’altra novità rilevante del discorso – una vasta «democratizzazio-ne» del paese: «la democrazia – diceva – è quell’aria sana e pura dove solo può fiorire l’organismo della società sociali-sta». Senza di essa, uno sviluppo dell’URSS sarebbe stato «impensabile e impossibile». Dichiarava arrivato il momento di correggere la «prassi elet-torale» vigente. Puntava su un’estensione della «democra-zia diretta» anche nella sfera economica. Non riteneva più possibile trascurare i diritti umani e civili, indispensabile complemento dei doveri del cittadino. Infine lanciava l’altra parola destinata a diventare simbolo del suo governo: gla-snost, la trasparenza delle decisioni e delle informazioni elevata a «sistema». Anche questo punto riguardava in pri-mo luogo il partito, invitato a sbarazzarsi del «complesso di infallibilità» e ammonito a non contare su un «ruolo di avan-guardia» garantito una volta per tutte. Neppure all’epoca di Krusciov si era mai ascoltato in un congresso sovietico qual-cosa di paragonabile a ciò che Gorbacev andava dicendo su questi temi.

G. Boffa, Dall’URSS alla Russia. Storia di una crisi non finita (1964-1994), Laterza, Roma-Bari 1995

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Nel dopoguerra, la Chiesa cattolica si impegnò attivamente nel campo politico, soprattutto in occasione delle elezioni del 1948. Il papato, in primo luogo, voleva impedire una vittoria comunista; nello stesso tempo, tuttavia, la Chiesa continuava a sperare nella rinascita di uno Stato integralmente cristiano.

L’alternativa prospettata da Pio XII nell’imminenza delle elezioni per la Costituente (contemporaneamente anche

in Francia avevano luogo le elezioni politiche) è assoluta-mente chiara e radicale: «Domani stesso i cittadini di due grandi nazioni accorreranno in folla compatta alle urne elet-torali. Di che cosa in fondo si tratta? Si tratta di sapere se l’una e l’altra di queste due nazioni, di queste due sorelle latine, di ultramillenaria civiltà cristiana, continueranno ad appoggiarsi sulla salda rocca del cristianesimo, sul ricono-scimento di un Dio personale, sulla credenza nella dignità personale e nell’eterno destino dell’uomo, o se invece vor-ranno rimettere le sorti del loro avvenire all’impassibile [fredda, indifferente nei confronti dell’individuo, n.d.r.] onni-potenza di uno Stato materialista, senza ideale ultraterreno, senza religione e senza Dio. Di questi due casi si avvererà l’uno o l’altro, secondo che dalle urne usciranno vittoriosi i nomi dei campioni ovvero dei distruttori della civiltà cristia-na». [Discorso al Sacro Collegio del 1° giugno 1946, n.d.r.].Alla luce di tali orientamenti e di tali preoccupazioni va inteso anche l’imponente sforzo organizzativo promosso dalla S. Se-de, dai vescovi e dal clero che, accanto a un potenziamento dell’Azione Cattolica, mirava a dar vita a una costellazione di associazioni in grado di affiancare il partito cattolico sul terre-no sociale, con un’opera che voleva essere di collaborazione ma era insieme di indirizzo e di controllo. Vi è insomma tra il ’45 e il ’47 una divaricazione di fatto tra la linea politica prospettata dalle gerarchie ecclesiastiche e quel-la attuata dalla Democrazia Cristiana: violentemente antico-munista, di rottura e di scontro frontale la prima, di collabora-zione prudente, ancora ispirata alle esigenze interne e interna-zionali degli ultimi anni di guerra, la seconda. [...] Già per le elezioni alla Costituente furono numerose le diocesi che videro sorgere comitati di organizzazione e di collegamento fra le di-verse associazioni del laicato cattolico per coordinare e rende-re più efficace la propaganda elettorale: prodromi [segnali di inizio, n.d.r.] significativi di quelli che saranno, per le elezioni politiche del 18 aprile [1948, n.d.r.], i Comitati Civici, promos-si dall’ACI [Azione Cattolica Italiana, n.d.r.] e in particolare da Luigi Gedda [...]. L’atmosfera è fervida e entusiasta: l’idea è di essere protagoni-sti di uno scontro supremo. «Si tratta, per il cattolicesimo, di “essere o non essere” nell’avvenire della Patria», avevano scritto Luigi Gedda e mons. Sargolini, allora rispettivamente presidente e assistente centrale della GIAC [Gioventù Azione Cattolica, n.d.r.], in una circolare preelettorale del 10 aprile 1946, e tale drammatizzazione si ripropose ancor più accen-

tuata nello scontro di due anni dopo. Nei grandi raduni romani i giovani dell’ACI cantavano canzoni di fedeltà al papa intrise [imbevute, n.d.r.] di umori guerrieri:

Bianco Padre che da Romaci sei meta, luce e guida,in ciascun di noi confida,su noi tutti puoi contar.Siamo arditi della fede,siamo araldi della Croce,a un tuo cenno, alla tua voce,un esercito ha l’altar.

Immagini da tempo elaborate dalla cultura intransigente as-sumevano una bruciante carica di attualità in una situazione che si delineava di contrapposizioni frontali, prive di spazi e di margini di incontro e di dialogo. [...] La razionalità dell’analisi e dell’argomentazione politica occupò un posto assolutamente secondario o divenne del tutto apparente, perché frutto di un nucleo di presupposti che rispondevano ad opposte scelte di fede.Giuseppe Dossetti, all’indomani della caduta del tripartito [dopo l’esclusione dal governo di comunisti e socialisti, nel maggio 1947, n.d.r.] teorizzò l’obbligo per la Democrazia Cristiana di realizzare essa quel programma riformatore e di rinnovamento dello Stato che avrebbe dovuto scaturire dall’alleanza dei grandi partiti popolari. Si trattava di un’aspirazione impossibile. E non solo perché era del tutto astratta l’idea che senza il sostegno e l’impe-gno diretto delle forze e dei gruppi sociali che si esprimeva-no nei grandi partiti della sinistra fosse possibile attuare quel mutamento nei rapporti di potere e di classe che di ogni riforma era componente imprescindibile, ma anche per ché tale aspirazione urtava persuasioni e orientamenti ormai largamente diffusi, per non dire dominanti, nel mon-do cattolico. Puntare ugualmente alla realizzazione di quel programma riformatore avrebbe significato infatti far propri progetti e proposte che non avrebbero potuto non costituire un’ogget-tiva apertura in direzione dei propri antichi alleati, con cui invece ogni rapporto doveva essere interrotto, e rispetto ai quali ogni concessione e ogni cedimento erano considerati una inammissibile debolezza. Un duplice processo si aprì così all’interno del partito e del mondo cattolico: da una parte si verificò il progressivo accan-tonamento reale di ogni tematica riformatrice, con la conse-guente mortificazione dei gruppi che ne erano i portatori, mentre dall’altra il frutto di tale contrapposizione frontale fu di convogliare sotto le insegne della Democrazia Cristiana tutte le forze avverse ad ogni istanza riformatrice come ad ogni alterazione dei rapporti sociali e di classe.

G. Miccoli, La Chiesa di Pio XII, in Storia dell’Italia repubblicana. Vol. I. La costruzione della democrazia. Dalla caduta del fascismo

agli anni Cinquanta, Einaudi, Torino 1994

Giovanni Miccoli, Lo scontro ideologico tra cattolicesimo e comunismo49

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Len Karpinskij, già redattore della “Pravda”, espulso negli anni Settanta dal PCUS e poi riammesso nel 1988, analizza i limiti strutturali del processo di riforme inaugurato da Gorbacëv. Tutti i punti sono motivati dalla necessità fondamentale di riformare in profondità la struttura stessa dello Stato: uno Stato in realtà non riformabile, secondo l’autore.

Non si può rinnovare senza cambiare nulla. Ciò è stato di-chiarato da M. S. Gorbacev fin dai primi passi del suo esor-

dio storico. Quattro anni dopo si è scoperto con assoluta chia-rezza che non si può neppure mutare qualcosa sostanzialmen-te, cambiandolo solo per metà o per un quarto. Soprattutto quando il fine è smontare il sistema staliniano, che permea di sé tutto lo spazio sociale e si distingue per l’eccezionale coe-sione interna di tutti i suoi anelli. Radicare il nuovo è qui im-pensabile senza sradicare decisamente il vecchio […].1. Non si può costruire una libera economia democratica in una “capsula” burocratica, accontentando contemporaneamente la domanda dei consumatori e le ambizioni dei privilegiati. O la remunerazione del lavoro si baserà sul valore della sua produ-zione […] o continuerà il dominio delle tariffe statali “secondo la gravosità del lavoro” […] e ci strangolerà l’inflazione.2. È impossibile l’autonomia dei diversi soggetti economici se si conserva l’onnipotenza decisionale della gerarchia ammi-nistrativa, impiegata in una guerra quotidiana contro questa autonomia allo scopo di annientarla.3. Non si può unire il socialismo con il mercato e porre il mec-canismo mercantile al servizio della società, continuando a considerare il mercato come un diabolico prodotto del capita-lismo, che va sradicato con ogni mezzo con l’aiuto della pia-nificazione dall’alto […].13. È irrealizzabile un sufficiente grado di democrazia senza un grado qualitativamente superiore di glasnost, e quest’ul-tima senza una radicale trasformazione dei mezzi d’informa-zione di massa da “docili” apparati di partito a istituzione

sociale autonoma, di significato diverso rispetto alle istitu-zioni del potere […].14. Non è produttivo riconoscere il principio del pluralismo, cancellandone subito il senso con l’aggettivo “socialista” – come se a un tale censore fosse già ben noto che cosa ciò si-gnifichi: abbiamo rifiutato decisamente il vecchio concetto di socialismo (di fatto sotto forma di stalinismo), e un concetto nuovo si sta soltanto formando, proprio sulla base del plura-lismo teorico e pratico ed esclusivamente grazie alla sua adozione incontrastata.15. Va considerato come un tentativo fatto con mezzi inadeguati il progetto di creare uno Stato di diritto senza liberarsi dall’onni-potenza del partito unico come forza leader “data da Dio” (scol-pita nel bronzo della costituzione) della società: la sua stessa posizione, in tal caso, annulla il ruolo supremo del diritto […].19. Non si può caldeggiare la perestrojka “in generale”, rap-presentandola come una specie di grandezza a sé stante, con-trapposta ai suoi anelli concreti, alle sue parti integranti che sono, per esempio, i movimenti nazional-democratici (esclu-dendo le frange estremistiche) nei paesi baltici e in altre regio-ni del paese; considerare appartenente alla perestrojka solo ciò che proviene dal centro ed è approvato dal centro, e invece contrario alla perestrojka tutto ciò che accade indipendente-mente e prima dell’iniziativa del centro significa mantenere uno schema staliniano dei rapporti nazional-democratici, che rispondano ai princìpi della perestrojka e alle aspirazioni dei popoli […]. Nella storia della rivoluzione, è forse la prima volta che si concepisce un rivolgimento sociale radicale realizzato per via pacifica. Esso si presenta non nella forma dell’annien-tamento delle vecchie classi e gruppi sociali, ma di una sostitu-zione dei vecchi rapporti sociali con rapporti nuovi, che portino alla fin fine un vantaggio ai gruppi fondamentali della società. Di conseguenza, tale rivoluzione è destinata a interessare ai suoi risultati tutti gli strati sociali.

L. Karpinskij, La fase attuale della perestrojka, in Il mito dell’URSS. La cultura occidentale e l’Unione Sovietica,

Franco Angeli, Milano 1990

Len Karpinskij, Le contraddizioni della perestrojka50

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Nei primi anni del XXI secolo, la Russia è stata guidata da Vladimir Putin, che si è prefi ssato di rilanciare il ruolo e il prestigio dell’immenso Paese, a livello internazionale. Tuttavia, gli ambiziosi progetti di Putin (che a volte usa perfi no espressioni forti, simili a quelle del tempo della guerra fredda) devono costantemente fare i conti con le diffi coltà dell’economia e delle forze armate russe.

Vladimir Putin ha determinato una profonda svolta nella politica estera del suo paese: l’affermazione di una totale

autonomia, in primo luogo rispetto agli USA. In Occidente la svolta è stata accolta con sorpresa, irritazione e anche con un certo timore; essa non riguarda solo i contenuti e i metodi della politica estera, ma anche il linguaggio di cui Putin si serve: poco diplomatico, poco politicamente corretto, schiet-to fino alla brutalità e al sarcasmo nei confronti dei propri interlocutori. Un linguaggio che per certi versi richiama quel-lo di Nikita Khrusciov [Chruscëv, n.d.r.] [...] rivolto agli USA, «noi vi seppelliremo». Anzi, nei suoi discorsi Putin dipinge i paesi occidentali come lupi famelici, che si arricchiscono a scapito della pecorella russa: «Il compagno Lupo – cioè l’Oc-cidente – mangia, mangia e non ascolta nessuno». Con toni che possono ricordare quelli di Mussolini, Putin – dimentican-do che anche la Russia dispone di enormi ricchezze naturali, a cominciare dal gas e dal petrolio – attacca le nazioni pluto-cratiche che si spartiscono la maggior quota di potere e ric-chezza a livello mondiale. […]In ogni caso, l’ipotesi che la Russia possa accettare la sfida americana e tornare al periodo della guerra fredda non ap-pare realistica, alla luce dei rapporti di forza non solo econo-mici ma anche militari. Lo stato attuale delle forze armate non è certo entusiasmante. È vero che sembra superato lo stato di povertà e di abbandono in cui esse versavano fino ad alcuni anni fa, quando capitava spesso di incontrare per le strade di Mosca soldati che girovagavano chiedendo quasi l’elemosina di sigarette e di cibo. Tuttavia i dati disponibili testimoniano una notevole arretratezza delle forze armate: nel 2005, dei circa 20 000 carri armati in dotazione all’eser-cito russo 9000 erano del tutto inutilizzabili, 4500 avevano bisogno di riparazioni per poter partecipare ad azioni di guerra, su 1800 aerei da guerra, circa 1200 non sono più in grado di volare senza una revisione generale preventiva. Più della metà di questi aerei sono fermi da più di 10 anni e, quindi, non ha senso ripararli. […] Tutto sommato, la politica estera di Putin appare moderata nei contenuti, sebbene tal-volta aggressiva e preoccupante nella forma e nel linguag-gio. Da cosa deriva questo nostro giudizio? Innanzitutto,

dalla constatazione dell’enorme divario tra le potenzialità militari ed economiche russe e quelle americane. I rapporti di forza sono nettamente a favore degli USA. Nel 2006 le spe-se militari americane (compresi i costi della guerra in Iraq) ammontavano a 670 miliardi di dollari; quelle russe a soli 23 miliardi di dollari (si veda Komsomolskaja gazeta del 5 novembre 2006). Nel 2007, secondo fonti riportate dal set-timanale Moskovskie Novosti (n. 23 di febbraio 2007), le spese militari sono cresciute del 23%, attestandosi intorno all’1% del PIL [prodotto interno lordo, n.d.r.]. si tratta di una quota assai bassa rispetto al 6,4% degli USA. Anche se, pro-babilmente, le spese militari effettive sono superiori a quelle dichiarate, non sono nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’URSS che, nel maggio 1988, secondo una dichia-razione dell’allora ministro Eduard Shevardnadze, ammon-tavano al 19% del PIL. […] Ma per esprimere un giudizio sul-le capacità militari reali della Russia occorre esaminare an-che il suo potenziale economico. Le statistiche ufficiali met-tono in evidenza una ripresa che forse però è sovrastimata rispetto alla realtà. Ad esempio, l’Istituto di statistica ha an-nunciato che nel luglio 2007, l’industria russa aveva regi-strato un incremento produttivo del 10,9% rispetto allo stes-so mese del 2006. Secondo il Ministero dell’Industria e dell’Energia e secondo i maggiori economisti russi l’incre-mento produttivo reale sarebbe stato invece di appena il 6%! I vizi ereditati dalle statistiche sovietiche tardano a morire nella Russia cosiddetta democratica.Sono ancora assai grandi le distanze che separano la Russia dai paesi più avanzati, come mostrano i dati dell’annuario statistico del 2005 (Statistichesckij ezhegodnik) circa l’an-damento di alcuni indicatori economici fondamentali. Da essi risulta che la cura imposta da Eltsin al paese è stata forte-mente dimagrante e sfibrante e l’ha indebolito nel confronto con altri paesi del mondo. Nel 2002 il PIL complessivo della Russia era inferiore del 33% a quello della Gran Bretagna, del 47% a quello della Germania, del 24% a quello italiano. Nel 2005, era oltre 15 volte inferiore a quello degli USA. Appare evidente da questo raffronto che la Russia non può essere annoverata tra le grandi potenze economiche e che resterà indietro ancora per molto tempo. Si potrebbe obietta-re che, ciò nonostante, la Russia occupa nel mondo un posto di primo rango per estensione territoriale e, soprattutto, per-ché è una superpotenza nucleare. In realtà, però, il suo po-tenziale economico non le permette di mantenere in modo adeguato i suoi armamenti nucleari e di svilupparli al pari di quelli americani. Anzi, molti di questi armamenti sono ormai obsoleti e possono essere rimpiazzati solo in parte.

O. Sanguigni, Putin il neozar, Manifestolibri, Roma 2008

Osvaldo Sanguigni, Vladimir Putin e la nuova politica estera della Russia51

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Storia ed economia

Il vizio inerente al capitalismo è la divisione ineguale dei beni; la virtù inerente al socialismo è l’eguale condivisione della miseria.

Winston Churchill

Nel nostro tempo la sventura consiste nell’analfabetismo economico, così come l’incapacità di leggere la semplice stampa era la sventura dei secoli precedenti.

Ezra Pound

Il problema dell’economia di mercato libera è che richiede così tante guardie per farla funzionare.

Neal Ascherson

Il settore privato è quella parte dell’economia che il governo controlla, mentre il settore pubblico

è quella parte che non controlla nessuno.Sir James Goldsmith

La libertà economica è la condizione necessaria della libertà politica.

Luigi Einaudi

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D O C U M E N T I

Jean Froissart, La jacquerie del 1358Il XIV secolo fu, più di altri, caratterizzato dal ripetersi di rivolte tanto nelle città quanto nelle campagne. Il cronista francese Jean Froissart, al servizio dell’aristocrazia francese, fece una descrizione del grande movimento di ribellione che percorse le campagne francesi nel 1358 e che dal nome del fantomatico capo (Jacques Bonhommes) prende il nome di Jacquerie. È evidente lo schieramento del cronista con la piccola nobiltà vittima delle violenze delle bande di rivoltosi, prive nella loro azione di qualsiasi finalità che non fosse quella della violenza per la violenza; di converso, vengono giustificate le altrettanto efferate repressioni ben presto poste in atto.

Poco dopo la liberazione del re di Navarra ci fu una incredibile e grande sciagura in diverse parti del regno di Francia, come il Beauvaisis, la Brie, le rive della Marna, il Laonnais, il Valois, la terra di Coucy e intorno a Sois-

sons. Infatti alcuni contadini, senza capi, si riunirono nella zona di Beauvais. All’inizio non erano neanche in cento uomini, e dicevano che tutti i nobili del regno di Francia, cavalieri e scudieri, tradivano il regno, e che sarebbe sta-to un gran bene il distruggerli tutti. Ognuno di essi disse: «Questa è la verità: vergogna a chi non è per la distru-zione di tutti i nobili». Allora si misero insieme e se ne andarono, senza altro consiglio e senza armi, che mazze ferrate e coltelli, nella casa di un cavaliere che abitava là vicino; entrarono a forza nella casa e uccisero il cavaliere, la moglie e i figli, grandi e piccoli, e bruciarono la casa. Poi andarono in un altro castello e fecero assai peggio, poiché presero il cavaliere e lo legarono ben stretto ad una trave, e in parecchi violentarono la moglie e la figlia sotto i suoi occhi; poi uccisero la moglie, che era incinta, sua figlia e tutti i bambini, e poi il cavaliere tra grandi sofferenze, e bruciarono e demoli-rono il castello.Così fecero in parecchi castelli e case patrizie, e crebbero tanto di numero che furono ben presto in seimila. Dap-pertutto dove andavano il loro numero cresceva, perché tutti quelli che erano come loro li seguivano: sicché ogni cavaliere, dama, scudiero, le loro mogli e i loro bambini li fuggivano. Le dame e le damigelle conducevano i loro figli dieci o venti leghe lontano, dove potevano stare al sicuro, e lasciavano le case incustodite con i loro averi den-tro. E quei miserabili, riuniti in bande, senza capi e senza insegne, rubavano e bruciavano tutto, uccidevano tutti i no-bili che trovavano, e violentavano tutte le dame e le pulzelle, senza pietà e senza scampo, come cani arrabbiati. Certo, mai ci fu tra i cristiani né tra i Saraceni una furia pari a quella di questi disgraziati, perché chi più faceva del male o delle azioni vili, azioni che creatura umana non dovrebbe osar di pensare, immaginare o guardare, quello era il più apprezzato tra essi ed il più prestigioso […]. E avevano fatto tra di loro un re, che chiamavano Jacques Bon-homme, che era, come si diceva per l’appunto di Clermont nel Beauvaisis.Quei miserabili bruciarono e demolirono intorno a Beauvais, Corbie, Amiens e Montdidier, più di sessanta case pa-trizie e castelli. Se Dio non vi avesse posto rimedio per la sua grazia, i misfatti si sarebbero tanto accresciuti che tutte le comunità avrebbero visto lo sterminio dei nobili, e poi della santa Chiesa, e di tutti i ricchi, in ogni luogo; infatti gentaglia simile faceva lo stesso nella Brie e nel Partois. Tutte le dame e le damigelle del paese, i cavalieri e gli scudieri che poterono sfuggire alla strage dovettero rifugiarsi a Meaux nella Brie, l’un dopo l’altro, in camicia, come potevano, anche la duchessa di Normandia e la duchessa di Orléans e tante grandi dame, come le altre, se volevano evitare di essere violentate e quindi uccise […].Quando i gentiluomini delle zone di Beauvais e di Corbie, del Vermandois, del Valois, e delle terre dove questi mal-fattori confluivano e facevano le loro scelleratezze, videro le loro case così distrutte ed i loro amici uccisi, chiesero soccorso ai loro amici di Fiandra, Hainauld, Brabante, Hesbaye; e ne vennero subito da molte parti. Allora gli stra-nieri ed i gentiluomini del luogo che li conducevano si misero insieme. Cominciarono anche loro a uccidere e fare a pezzi quei miserabili, senza pietà e senza scampo, e li impiccavano in massa agli alberi, dove li trovavano. Anche il re di Navarra ne sterminò in un giorno più di tremila, molto vicino a Clermont nel Beauvaisis. Ma si erano già tanto moltiplicati che se fossero stati tutti insieme sarebbero stati centomila. Quando si domandava loro perché facessero questo, rispondevano che non sapevano, ma che lo vedevano fare dagli altri, e così lo facevano anch’essi; e pensavano di dovere in tal modo distruggere tutti i gentiluomini ed i nobili del mondo, in modo che non ce ne potesse essere più nessuno.

in R. Romeo, G. Talamo, La storia medievale attraverso i documenti, Zanichelli, Bologna 1974

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Camillo Tarello, Vantaggi della rotazione triennaleÈ proprio opera di un italiano, Camillo Tarello, nel 1556, la prima elaborazione teorica di un sistema di rotazione triennale. Il modello triennale, con l’introduzione delle piante foraggere, troverà poi diffusione soprattutto nel Nord Europa e in Inghilterra, sia per maggiori attitudini climatiche, sia per maggiore intraprendenza dei proprietari.

Riverentemente ricordo adunque io, Camillo Tarello da Lonato, a Vostra Serenità […] che le fatiche che fanno nella terra per seminarla di biave arando gli agricoltori – dirò così per esempio – in due campi, arandoli quattro fiate per

campo (che sariano otto arature) le facciano in un campo solo arandolo otto fiate con quella del seminarlo: che tanto è a dire quanto che tutta la terra arativa […] sia divisa in quattro parti equali più che si può e se ne semini una sola parte ogn’anno, arandola tante fiate quante se arariano due parti di quella se si volesse seminarla di biave. Voglio inferire che chi era solito seminare ogn’anno – dirò così per dar un essempio – diece campi di terra, per l’avvenire ne semini se non cinque e faccia così di tutti alla porzione, e dia tuttavia quelle tante arature (non essendo magrissima la terra) e letame ai cinque campi che si dariano ai diece: che sarà ararli otto fiate per campo, ut supra. S’incominci ad arare d’ottobre, o di novembre, diece mesi vel circa innanzi che si semini, o quanto più tosto si potrà, arando sempre essendo asciutta la terra, letamando come io dirò, seminando la biava del proprio paese in luna crescente, e seminando per campo se non due terzi incirca della semenza della biava solita seminarvisi; ché da questo modo di procedere ch’io ho detto, e dirò appresso per tavola alfabetica, gli agricoltori ne conseguiranno perpetuamente questi infrascritti dodici rilevati beneficii:il primo sarà che diminuirà fatica agli agricoltori […], essendo più facil cosa arare un campo otto fiate che non è arare due campi quattro fiate per campo; perché dalle tre o quattro arature in suso se ne arerà facilmente un campo e mezo al dì e più, dove s’ha fatica ararne uno del modo presente. E, incominciandosi a fare quelle tali arature d’ottobre o di novembre, allora che la terra si trova agevola da maneggiare, e continuando come si dovrà, si faranno quando gli agri-coltori non hanno molto che fare, e saranno quattro d’esse arature per tutto il mese di maggio, vel circa. Laonde per fare l’altre quattro non vi bisogneranno aratri di ferro per arare la state, quando è dura la terra (come s’è introdutto di fare per non rompere gli aratri, ammazando i buoi con ruina de’ poveri lavoratori), perciò che ella sarà facilissima ad arare.Il secondo sarà che per queste tante arature moriranno i semi delle erbe inutili, e per consequente esse erbe, che tolgono il nutrimento alle biave.Il terzo sarà che per le dette otto arature e altro ch’io dirò s’averanno assai più vicini, minuti, legumi e sorghi o migli, del solito.Il quarto sarà che si caveranno assai più biade d’un sol campo coltivato, lavorato, letamato e riposato secondo questo mio ricordo con più capi che non si cavano ora di due campi, come io ho provato più volte, che sarà più assai che raddoppiare l’entrate.Il quinto sarà che, oltre all’aver molto più del doppio biade, si avanzeranno due terzi vel circa della semenza della biada che si usa seminar ora. […]Il sesto sarà che s’averanno delle paglie assai di tutte le sorti dei grani prenominati, onde si potranno fare dei leta-mi assai: dei quali si faccia come si dirà.Il settimo sarà che si averanno dei feni assai, potendosi seminare o seminandosi del seme del trifoglio (come ricordo che si semini) dove esso nascerà bene, nei due quarti di tutta la terra arativa che sempre – pur cambiandosi or questi due ed or quelli altri due quarti – per due anni andranno viti e staranno in riposo; perché, procedendo nel modo ch’io ho divi-sato, un quarto della terra arativa andrà seminato, un altro quarto subito seminato s’incomincerà ad arare d’ottobre o di novembre, e gli altri due staranno sodi, voti e in riposo. E, perché la terra, che ha da Dio avuto in sorte d’esser perpetua-mente fruttifera, non potrà stare ociosa, ma affaticandosi, se non in vano, almeno con poca nostra utilità produrria erbe inutili dal pascerle in fuora, però sarà bene seminarvi del seme del trifoglio o del papulo o d’altre erbe da segarsi. Il che, oltre al feno che farà detto trifoglio, gioverà anco alla terra, essendo letame alle biave le sue o d’altr’erba radici marce. […]L’ottavo beneficio sarà che, per esser riposata due anni la terra […] e coltivata eccellentemente, arata benissimo, letamata ottimamente e il doppio più del solito e in stagioni molto convenienti e per esser seminata a tempo debi-to con biada del proprio paese, in luna crescente, con solo due terzi della solita semenza, per esser ingrassata con le radici del trifoglio o d’altre erbe, abbruciate le stoppie nei campi, o per esser zappata o rizappata la biada (come, facendo secondo questi miei ricordi, con minor fatica e spesa del solito ella farà) noi raccoglieremo due volte tanta biava e altri frutti quanta sogliamo raccogliere ogn’anno. […]Il nono sarà che, per esservi molto feno, si potranno tenere dei buoi da lavoro e da carne, delle vacche, dei cavalli e cavalle, delle pecore e altri simili animali per lavorare, cavalcare, per mangiare le carni in Venezia e i latticini, e per avere dei corami [cuoio, n.d.r.] e delle lane.

C. Tarello, Ricordo d’agricoltura, Ruffinello, Mantova 1577

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Bernardino da Siena, L’inferno attende l’usuraioIl prestito a interesse era uno dei punti più controversi, che aveva peraltro indotto le comunità ebraiche a specializzarsi in un’attività comunque richiesta, quella del prestito su pegno, che i cristiani erano scoraggiati dallo svolgere. Nella predica quattrocentesca di Bernardino da Siena al prestatore/usuraio è attribuita una serie di visioni e sogni che, inequivocabilmente, dovevano tradurre agli occhi dei fedeli il destino di dannazione che attendeva chiunque praticasse prestiti.

«Un altro usuraio anco una notte sognava che ’l diavolo nel portava in carne e in ossa. Unde la mattina, lui si svegliò con questa visione, e vestito di panni stracciati, andò a uno ministero di monaci, e agguattossi in uno

canto della chiesa; e parenti lo rimenaro a casa sua, e pareva che fusse fuore di sé. Infine, nel tornare a casa sua, ebbe a passare uno grande ponte, sopra un’acqua. Quando l’usuraio fu sopra a questo ponte, e diavoli dissero all’usuraio. “Viene giù”. Elli si gettò nella barca, e diavoli nel portar via.Un altro usuraio s’era posto in cuore d’empire una cassetta di fiorini. Essendo presso che piena, el diavolo, una notte, lo cominciò a strozzare. Costui gridava e non poteva fugire. Unde egli, sentendosi forte stregnare la gola, infine misse uno strido e disse: “El diavolo me ne porta”. E così striso, el diavolo lo strozzò afatto, e portò l’anima sua all’onferno. […]Un altro usuraio, venendo a morte, fece venire a sé tutti i figliuoli, e la donna sua, e denari suoi, e ogni ornamento, e uno bellissimo cavallo. E avendo ogni cosa dinanzi a sé, cominciò a lagnarsi dicendo: “Oime! Oime, donna mia! Oime denari miei! Oime figliuoli miei! Oime cavallo mio! Oime ch’io mi parto da voi”! E così dicendo, morso una tazza, e così stregnendo, gli uscì l’anima di corpo, e ’l diavolo portò l’anima a l’onferno».

Bernardino da Siena, Predica n. XXX. Questa è la predica dell’usura, in F. Panarelli, Il corpo e l’anima, SEI, Torino 1996

Giovanni Calvino, A giustificazione del prestito a interesseUna vera svolta nelle riflessioni su commercio e usura si realizzò con l’opera di Giovanni Calvino. Con chiarezza e senza indecisioni, Calvino contraddice finalmente le interpretazioni sino ad allora dominanti di quei passi biblici che condannavano il prestito a interesse. L’aver criticato le condanne espresse dai teologi precedenti non significa che Calvino intendesse passare alla lode del prestito e del profitto: questi sarebbero stati gli esiti della riflessione e della prassi successiva.

Prima di tutto nelle Scritture non vi è alcun passo che dimostri che ogni genere di usura sia assolutamente con-dannata. La sentenza di Cristo prestate [senza sperare nulla in cambio] (Luca, VI, 35), considerata generalmente

molto esplicita, è stata erroneamente interpretata in tal senso: infatti, come altrove, biasimando i banchetti sontuo-si e i ricevimenti ambiziosi dei ricchi, egli comanda di invitare piuttosto i ciechi, gli zoppi e altri poveri delle strade che non possono restituire l’invito, così in questo passo, volendo correggere il costume vizioso del mondo di pre-stare soldi, ci comanda di prestare principalmente a coloro dai quali non c’è speranza di recuperare. Ora, noi abbia-mo l’abitudine di guardare specialmente là dove il denaro può trovare una collocazione sicura; mentre invece biso-gnerebbe aiutare i poveri presso i quali il denaro è in pericolo. Non si vede dunque ancora che ogni usura sia proibita. […] Certo sarebbe desiderabile che le usure fossero cacciate da tutto il mondo e che lo stesso nome fosse sconosciuto: ma poiché ciò è impossibile, bisogna accondiscendere all’utilità comune […]La ragione di Sant’Ambrogio, sostenuta anche da Crisostomo, è a mio giudizio troppo frivola: cioè che il denaro non genera denaro. E il mare? E la terra? Io percepisco una rendita dalla locazione di immobili. Deriva forse dal fatto che vi cresce il denaro? Le rendite derivano piuttosto dai campi per mezzo dei quali il denaro si produce. Anche la comodità delle case si può compensare pecuniariamente. E che? Non è forse più fruttuoso il denaro inve-stito nel commercio di ogni altro possesso che si possa dire? Sarà dunque permesso affittare un’area in cambio di una rendita, e sarà illecito esigere qualche interesse dal denaro? Se il denaro non genera denaro, chi comprerebbe un campo? Come fanno i commercianti ad aumentare i loro beni? Debbono far uso d’industria, direte voi. Certo, io ammetto ciò che anche un bambino vede, che se si chiude il denaro nello scrigno sarà sterile. Ma anche che nessu-no di noi è in condizioni tali da poter rinunziare al denaro lasciandolo inattivo e senza porlo a profitto. Perché i frutti del denaro non derivano dal denaro, ma derivano dalla sua rendita.

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Bisogna dunque concludere che argomenti sottili come quello esaminato a prima vista convincono; ma se li si consi-dera più da vicino svaniscono da soli, perché non hanno nulla di solido dentro. Ora io concludo che bisogna giudica-re delle usure non secondo qualche sentenza certa e specifica di Dio, ma soltanto secondo la regola dell’equità. […]Ora vengo alle eccezioni […] Io non approvo che qualcuno si proponga come mestiere di guadagnare con l’usura. Inoltre non concedo nulla se non a patto di osservare certe eccezioni. La prima è che non si prenda usura dal po-vero, e che non venga obbligato nessuno che si trovi in assoluta ristrettezza per indigenza o afflitto da calamità. La seconda eccezione è che colui che presta non sia talmente rivolto al guadagno da tralasciare gli obblighi necessari, e che volendo mettere il suo denaro al sicuro non disprezzi i suoi fratelli poveri. La terza eccezione è che non ven-ga fatto nulla che non si accordi con l’equità naturale, e che non sia trovato perfettamente confacente quando sia esaminato secondo la regola di Cristo ciò che volete che gli uomini vi facciano ecc. La quarta eccezione è che colui che prende a prestito faccia un guadagno pari o maggiore del denaro preso a prestito. In quinto luogo, non dob-biamo valutare che cosa sia lecito secondo il costume volgare e corrente, né misurare ciò che è retto e equo per mezzo dell’iniquità del mondo, ma dobbiamo trarre la nostra regola dalla parola di Dio. In sesto luogo, non consi-deriamo soltanto i vantaggi privati di colui con cui abbiamo a che fare, ma anche ciò che conviene per il pubblico: giacché è evidente che l’usura che il mercante paga è un tributo pubblico. Bisogna dunque ben guardare che il contratto sia anche utile alla comunità piuttosto che nocivo. In settimo luogo, non si ecceda la misura che le leggi pubbliche della regione e del luogo concedono, per quanto ciò non sia sempre sufficiente, perché spesso le leggi permettono ciò che non potrebbero correggere o reprimere con un divieto. Bisogna dunque preferire l’equità che sopprime ciò che è di troppo.

G. Calvino, Quaestiones iuridicae, in G. Gliozzi, Le teorie della proprietà da Lutero a Babeuf, Loescher, Torino 1979

Benjamin Franklin, Ricercare il guadagnoLo scienziato e uomo politico americano Benjamin Franklin propone una serie di istruzioni sulla necessità e la possibilità di reinvestire e far fruttare il proprio denaro. Si tratta della testimonianza diretta di una mentalità nella quale il lavoro, il guadagno, il successo e il prestigio sociale che ne derivano costituiscono i principali valori di riferimento.

Ricordati che il tempo è denaro. Chi potrebbe guadagnare col suo lavoro 10 scellini a giorno, e va a passeggio mezza giornata, o fa il poltrone nella sua stanza, se anche spende solo 6 pence per i suoi piaceri, non deve

contare solo questi; oltre a questi egli ha speso, anzi buttato via, anche 5 scellini.Ricordati che il credito è denaro. Se uno lascia presso di me il suo denaro esigibile, mi regala gli interessi, o quanto io in questo tempo posso prenderne. Ciò ammonta ad una somma considerevole se un uomo ha molto e buon credito, e ne fa buon uso.Ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo. Il denaro può produrre denaro, ed i frutti possono ancora produrne e così via. Cinque scellini impiegati divengano sei, e di nuovo impiegati 7 scellini e 3 pence e così via finché diventano 100 lire sterline. Quanto più denaro è disponibile, tanto più se ne produce nell’impiego, così che l’utile sale sempre più alto. Chi uccide una scrofa, uccide tutta la sua discendenza fino al millesimo maialino.Chi getta via un pezzo di 5 scellini, uccide tutto quel che si sarebbe potuto produrre con esso: intere colonne di lire sterline.Ricordati che – come dice il proverbio – chi paga puntualmente è il padrone della borsa di ciascuno. Colui di cui si sa che paga puntualmente alla data promessa, può in ogni tempo prendere a prestito tutto il denaro, di cui i suoi amici non hanno bisogno. [...]Niente aiuta un giovane a farsi la sua strada nel mondo, quanto la puntualità e l’esattezza in tutti i suoi affari. Perciò non tener mai il denaro preso a prestito un’ora di più di quel che tu hai promesso, acciocché il risentimento del tuo amico per il ritardo, non ti chiuda per sempre la sua borsa. [...] Il colpo del tuo martello, che il tuo credito-re sente alle cinque del mattino od alle otto di sera, lo rende tranquillo per sei mesi; se ti vede al bigliardo o ode la tua voce all’osteria, quando dovresti essere al lavoro, la mattina seguente ti cita per il pagamento ed esige il suo denaro prima che tu l’abbia disponibile.

in M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Sansoni, Firenze 1965

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Adam Smith, La divisione del lavoroNe La ricchezza delle nazioni (1776) del grande economista scozzese Adam Smith la divisione del lavoro, dalla quale dipende la produttività di una nazione, è illustrata attraverso l’esempio della produzione di spilli. Smith spiega le cause e i vantaggi di un metodo produttivo che la rivoluzione industriale avrebbe applicato su scala sempre maggiore.

La causa principale del progresso nelle capacità produttive del lavoro, nonché della maggior parte dell’arte, de-strezza e intelligenza con cui il lavoro viene svolto e diretto, sembra sia stata la divisione del lavoro […]. Pren-

diamo […] come esempio […] il mestiere dello spillettaio […]. Dato il modo in cui viene svolto oggi questo compito, non solo tale lavoro nel suo complesso è divenuto un mestiere particolare, ma è diviso in un certo numero di spe-cialità, la maggior parte delle quali sono anch’esse mestieri particolari. Un uomo trafila il metallo, un altro raddriz-za il filo, un terzo lo taglia, un quarto gli fa la punta, un quinto lo schiaccia all’estremità dove deve inserirsi la capocchia; fare la capocchia richiede due o tre operazioni distinte; inserirla è un’attività distinta, pulire gli spilli è un’altra, e persino il metterli nella carta è un’altra occupazione a sé stante, sicché l’importante attività di fabbrica-re uno spillo viene divisa, in tal modo, in circa diciotto distinte operazioni che, in alcune manifatture, sono tutte compiute da mani diverse, sebbene si diano casi in cui la stessa persona ne compie due o tre. Io ho visto una pic-cola manifattura di questo tipo dov’erano impiegati soltanto dieci uomini e dove alcuni di loro, di conseguenza, compivano due o tre operazioni distinte […]. Quelle dieci persone […] riuscivano a fabbricare, fra tutti, più di qua-rantottomila spilli al giorno […]. Se invece avessero lavorato tutti in modo separato e indipendente e senza che al-cuno di loro fosse stato previamente addestrato a questo compito particolare, non avrebbero certamente potuto fabbricare neanche venti spilli al giorno per ciascuno, forse neanche un solo spillo al giorno […]. La divisione del lavoro […], nella misura in cui può essere introdotta, determina in ogni mestiere un aumento pro-porzionale delle capacità produttive del lavoro. Sembra che la separazione di diversi mestieri e occupazioni sia nata proprio in conseguenza di questo vantaggio e in genere essa è più spinta nei paesi più industriosi che godono di un più alto livello di civiltà, ciò che è opera di un sol uomo in uno stadio primitivo della società diviene infatti opera di parecchi in una società progredita […]. Il grande aumento della quantità di lavoro che, a seguito della di-visione del lavoro, lo stesso numero di persone riesce a svolgere, è dovuto a tre diverse circostanze: primo, all’au-mento di destrezza di ogni singolo operaio; secondo, al risparmio del tempo che di solito si perde per passare da una specie di lavoro a un’altra; e infine all’invenzione di un gran numero di macchine che facilitano e abbreviano il lavoro e permettono ad un solo uomo di fare il lavoro di molti. La maggior destrezza dell’operaio, in primo luogo, non può che accrescere la quantità di lavoro che è in grado di svolgere; e la divisione del lavoro, riducendo l’attivi-tà di ogni uomo a una sola semplice operazione e facendo di quest’operazione l’unica occupazione della sua vita, non può che accrescere di molto la destrezza dell’operaio […]. In secondo luogo, il vantaggio che si ottiene rispar-miando il tempo che si perde di solito nel passare da un tipo di lavoro a un altro è molto maggiore di quanto non si riesca a immaginare a prima vista. È impossibile passare molto velocemente da un tipo di lavoro a un altro, che venga svolto in un luogo diverso e con arnesi completamente diversi […]. In terzo luogo, infine, ognuno può ren-dersi conto di quanto il lavoro sia facilitato e abbreviato dall’uso di apposite macchine […]. L’invenzione di tutte le macchine che tanto facilitano e abbreviano il lavoro sembra si debba in origine alla divisione del lavoro. Quando tutta l’attenzione delle menti è indirizzata verso un unico scopo, è molto più probabile che si scoprano metodi più semplici e rapidi per raggiungerlo, che non quando l’attenzione è dispersa fra una grande varietà di cose.

A. Smith, Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle nazioni, UTET, Torino 1958

Thomas R. Malthus, Popolazione e risorseNel Saggio sul principio della popolazione (1798) l’economista Thomas R. Malthus enuncia la teoria secondo cui all’aumento “esponenziale” e inarrestabile della popolazione umana corrisponde una crescita “aritmetica”, e dunque di fatto limitata, delle risorse.

In una indagine sui futuri progressi della società, il modo naturale di condursi sarebbe quello […] di esaminare gli effetti di una sola gran causa […]: la costante tendenza, che hanno tutti gli esseri viventi a moltiplicarsi più di

quanto permettano i mezzi di sussistenza di cui possano disporre [...]. Nel regno animale e vegetale […] sono tutti portati da un poderoso istinto a moltiplicare la loro specie; istinto che non viene frenato da alcun ragionamento o

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dubbio sul modo di provvedere all’esistenza delle loro generazioni […]. Tutto il sovrappiù viene eliminato in un secondo momento per mancanza di spazio e di viveri […]. Nell’uomo, gli effetti di questa legge sono molto più complicati. Mosso dal medesimo istinto di procreazione, la ragione lo arresta, e gli propone il quesito se gli sia le-cito far sorgere esseri nuovi nel mondo, per i quali egli non possa provvedere sufficienti mezzi di sussistenza […]. Siccome, per quella legge della nostra natura che fa dipendere la vita dal cibo, la popolazione non può moltiplicar-si più di quanto permetta il più limitato nutrimento capace di sostenerla, così s’incontra sempre un forte ostacolo al suo incremento nella difficoltà di nutrirsi; difficoltà che di tanto in tanto deve necessariamente apparire, e deve risentirsi nella maggior parte del genere umano, sotto l’una o l’altra fra le varie forme della miseria, o della paura della miseria [...]. Si può con tutta franchezza asserire che la popolazione, quando non è arrestata da alcun ostacolo, si raddoppia ad ogni periodo di 25 anni, crescendo così in progressione geometrica. La ragione secondo cui si possa credere che aumentino le produzioni della terra non è altrettanto agevole a determinarsi. D’una cosa, tuttavia, siamo ben certi, che questa ragione dev’essere affatto diversa da quella secondo cui procede l’aumento della popolazione [...] Se supponiamo che, con il miglior governo e i migliori incoraggiamenti all’agricoltura, il prodotto medio dell’isola [l’Inghilterra, n.d.r.] si raddoppi nei primi 25 anni, faremo la più generosa ipotesi che si possa. Nel periodo seguen-te, è impossibile immaginare che il prodotto si troverà quadruplicato […]. Il miglioramento delle terre sterili è opera che richiede tempo e lavoro; ed è evidente […] che, quanto più la coltivazione si estende, tanto più diminuisce l’aumento possibile del prodotto […].Se si ammettesse che la sussistenza agli uomini fornita dalla terra si potesse aumentare ad ogni 25 anni di tanto quanto se ne produce oggi, ciò sarebbe un supporre una progressione molto superiore a quanto sia dato sperare da qualsiasi sforzo dell’industria umana. Perciò possiamo dire che, considerando lo stato presente della terra, i mezzi di sussistenza, nelle circostanze più favorevoli all’industria umana, non potrebbero crescere che in proporzione aritmetica. La conseguenza inevitabile di codeste differenti progressioni è palpabile [...] Posto che la popolazione attuale ascenda a 1000 milioni, la razza umana crescerebbe secondo i numeri 1, 2, 4, 8, 16, 32, 64, 128, 256, e i viveri secondo i numeri 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9. In due secoli la popolazione si troverebbe, rispetto ai viveri, come 256 a 9; in tre secoli, come 4096 a 13; in duemila anni la differenza sarebbe quasi impossibile a calcolarsi.

in Il problema storico-politico nel pensiero contemporaneo, a cura di F. Tonon, D’Anna, Messina-Firenze 1974

Niccolò Palmieri e Richard B. Smith, Gli squilibri dell’agricoltura italianadi metà Ottocento

A metà Ottocento l’Italia era un paese toccato in modo ancora marginale dalla rivoluzione industriale, essenzialmente agricolo anche se con profonde differenze interne nell’economia delle varie regioni. A testimonianza di questa realtà contrastante, nel primo brano, del 1828, l’economista Niccolò Palmieri descrive le pessime condizioni produttive del latifondo siciliano; nel secondo, del 1843, l’economista inglese Richard B. Smith descrive la realtà più progredita, benché non priva di problemi, delle campagne lombarde e piemontesi.

Il latifondo siciliano

Io non saprei se la pessima cultura di que’ campi debba accagionarsi ad ignavia od impotenza de’ proprietari, o ad altra causa fisica o morale [...].

Anzi che industria regna qui un’apatia ed infingardaggine generale [...]. I proprietari ignorano da quale banda siano i fondi loro [...]. I contadini escon dalla città per andare al lavoro due ore dopo levato il sole, come se andassero al passeggio, e prima del suo cadere li vedi già di ritorno; onde l’opera loro si riduce a poche ore di pessimo lavorio. [...] In somma è qui una continua lotta tra la natura, che generosamente vuol dare, e l’uomo che ostinatamente non vuole avere [...].Un suolo argilloso e sterile; una superficie spaventosamente ineguale; ertissime salite, precepitevoli discese, val-li profondissime, nelle quali cerchi invano alcun vestigio dell’opera dell’uomo; sterpi, bronchi, scope, cespiti, roghi, adornan solo quella triste scena; qualche ulivo che a caso lì si para innanzi, emerge da un gruppo di pol-loni selvatici e di roghi che vengon su dal pedale. Tale è il paese girgentino a settentrione. La bellissima pianura che a mezzogiorno giace tra la città ed il mare, è naturalmente vaghissima; ma quella stessa vaghezza aggrava l’animo per altre ragioni. I pochi vigneti con tanta incuria coltivati che fin si giunge a seminar frumento tra le

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viti; gli alberi che non sentiron mai la zappa e la scure; le maestose anticaglie sepolte fra le opunzie, e divenute petraie di comun dritto; gli avanzi delle antiche arti e dell’opulenza antica, che il contadino ad ogni passo dis-sotterra, fa in pezzi o disperde [...].Il pessimo stato dell’agricoltura in molte parti di Sicilia, i miglioramenti che potrebbero farsi da pertutto, gli osta-coli che incontra oggi la moltiplicazione della ricchezza, mi convincono che i campi siciliani potrebbero bene pro-durre sei volte più, e la nazione essere sei volte più ricca, ed in conseguenza sei volte più numerosa.

N. Palmieri, in «Giornale di scienze, lettere e arti per la Sicilia», Palermo 1828, vol. 23

Le campagne di Piemonte e Lombardia

Dopo aver visitato le enormi stalle piene di mucche svizzere e gli stabilimenti di fabbricazione del formaggio, del burro ecc., in cui risiede tanta parte della ricchezza agricola delle regioni piemontesi fornite di sistema di irri-

gazione [...] girovagammo per i prati, verdi come in primavera, anche se intorno a noi non c’era neanche una foglia. Questi campi erano le “marcite”, o prati invernali dell’Italia settentrionale – un genere di coltivazione limitato, cre-do, alle pianure del Piemonte e della Lombardia [...]. Dalle marcite alle risaie il passaggio era naturale. Le trovai organizzate esattamente nella stessa maniera delle risaie dell’India: erano infatti circondate ognuna da bassi muret-ti di fango di circa quindici o diciotto pollici di altezza, provvisti di aperture di entrata e di uscita per l’irrigazione. Quando le visitai stavano arando, e ad ogni modo la terra ha quel carattere compatto, pesante, argilloso che è pre-ferito nell’est per la stessa coltivazione. Di fronte alle risaie era impossibile non passare spontaneamente a chieder-si quale fosse la loro influenza sulla salute della popolazione lavoratrice. Trovai che l’impressione della loro insalu-brità era, posso dir senza tema, universale [...]. I grandi canali si possono considerare come le principali arterie del sistema di irrigazione della Lombardia [...]. L’intera superficie del paese ne è coperta come da una fitta rete. Me-diante l’ausilio di varie opere ingegnose, essi passano a tutte le altezze l’uno sopra o sotto o attraverso l’altro. Il risultato, al suo aspetto esterno, è un sistema di mirabile complessità.

R.B. Smith, Italian Irrigation, Blackwood, Edimburgo 1855

Karl Marx, La forza lavoro come merceNel Capitale (1867) Karl Marx descrive uno dei meccanismi di funzionamento della società capitalistica, quello per il quale l’uomo è «costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente».

Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nel-la corporeità, ossia nella personalità vivente d’un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce

valori d’uso di qualsiasi genere.Tuttavia, affinché il possessore di denaro incontri sul mercato la forza-lavoro come merce debbono essere soddi-sfatte diverse condizioni. In sé e per sé, lo scambio delle merci non include altri rapporti di dipendenza fuori di quelli derivanti dalla sua propria natura. Se si parte da questo presupposto, la forza-lavoro come merce può appa-rire sul mercato soltanto in quanto e perché viene offerta o venduta come merce dal proprio possessore, dalla persona della quale essa è la forza lavoro. Affinché il possessore della forza-lavoro la venda come merce, egli deve poterne disporre, quindi essere libero proprietario della propria capacità di lavoro, della propria persona. Egli si in-contra sul mercato con il possessore di denaro e i due entrano in rapporto reciproco come possessori di merci, di pari diritti, distinti solo per essere l’uno compratore, l’altro venditore, persone dunque giuridicamente eguali. La continuazione di questo rapporto esige che il proprietario della forza-lavoro la venda sempre e soltanto per un tempo determinato; poiché se la vende in blocco, una volta per tutte, vende se stesso, si trasforma da libero in schiavo, da possessore di merce in merce. Il proprietario di forza-lavoro, quale persona, deve riferirsi costantemente alla propria forza-lavoro come a sua proprietà, quindi come a sua propria merce; e può farlo solo in quanto la mette a disposizione del compratore ossia gliela lascia per il consumo, sempre e soltanto, transitoriamente, per un periodo determinato di tempo, e dunque, mediante l’alienazione di essa, non rinuncia alla sua proprietà su di essa.La seconda condizione essenziale, affinché il possessore del denaro trovi la forza-lavoro sul mercato come merce, è che il possessore di questa non abbia la possibilità di vendere merci nelle quali si sia oggettivato il suo lavoro, ma anzi, sia costretto a mettere in vendita, come merce, la sua stessa forza-lavoro, che esiste soltanto nella sua corporeità vivente.

K. Marx, Il Capitale, Editori Riuniti, Roma 1964, vol. 1

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Henry Ford, Produzione e occupazione dell’impresaHenry Ford, fondatore nel 1903 dell’omonima casa automobilistica e dominatore incontrastato di tale mercato, specialmente negli anni Venti, fu il primo, a partire dal 1913, ad applicare nei propri stabilimenti i princìpi enunciati da Taylor. Ford propone una visione della produzione e dell’occupazione all’interno del mondo imprenditoriale improntata all’ottimismo riguardo al futuro.

Se ogni cosa necessaria per vivere fosse prodotta nel modo più economico e nelle massime quantità possibili, il mondo non verrebbe a essere invaso da una quantità eccessiva di merci? Non verrà un momento in cui, indipen-

dentemente dal prezzo, la gente non desidererà più niente oltre a ciò che già possiede? E se nel processo di produ-zione industriale vengono adoperati sempre meno uomini, che cosa succederà di questi uomini, come troveranno lavoro e mezzi di sostentamento?Si consideri in primo luogo il secondo problema […]. La domanda è assolutamente ragionevole, ma è un po’ strano che debba essere posta. Infatti, quando è realmente accaduto che gli uomini siano stati privati del lavoro a causa del miglioramento dei processi di produzione […]? Ogni volta che si riesce ad organizzare la produzione in modo che un solo uomo svolga il lavoro di due, si dà un contributo alla ricchezza del paese che produrrà per l’uomo a cui è stato sottratto il posto di lavoro una mansione nuova e migliore. Se interi settori produttivi mutassero dal giorno alla notte e se l’eccedenza di uomini così creatasi venisse lasciata per la strada, naturalmente insorgerebbe un pro-blema. Ma questi mutamenti non avvengono così rapidamente. Avvengono gradualmente. Nella nostra esperienza, non appena nuovi procedimenti produttivi hanno soppiantato una vecchia mansione, si sono sempre creati nuovi posti di lavoro. E quello che accade nelle mie officine, accade in qualsiasi industria […]. È sempre stato così e sarà sempre così […].Voglio dire due parole sul problema della saturazione. Ci sentiamo continuamente rivolgere questa domanda: «Ar-riverete al punto della sovrapproduzione? Quando accadrà che il numero delle vetture sarà superiore al numero delle presone destinate ad adoperarle?» noi crediamo che un giorno si raggiungerà un punto in cui sia possibile produrre i beni a costi così bassi e in quantità tali che la sovrapproduzione sarà una realtà. Ma per quanto ci riguar-da, noi non consideriamo questa prospettiva con apprensione, ma anzi la contempliamo con grande soddisfazione. Nulla potrebbe essere più stupendo di un mondo nel quale ognuno ha tutto ciò che desidera. La nostra paura è che questa condizione venga rinviata ad un tempo ancora troppo lontano […]. Se vogliamo fare degli affari, dobbiamo abbassare i prezzi senza alterare la qualità. In tal modo la riduzione dei prezzi ci impone di imparare metodi di produzione migliori e meno dispendiosi. Una parte essenziale di ciò che è “normale” nell’industria dipende da un genio manageriale che scopra modi migliori di fare le cose […]. Non è buo-na conduzione degli affari prelevare i profitti dai lavoratori o dagli acquirenti. Bisogna fare sì che sia la stessa conduzione degli affari a produrre i profitti. Non bisogna rendere più economico il prodotto; non bisogna abbas-sare i salari; non bisogna gravare sul pubblico dei consumatori. Bisogna mettere cervello nel metodo, cervello e cervello ancora; fare le cose meglio di quanto siano mai state fatte in precedenza; e con questo mezzo tutte le parti che sono interessate alla vita dell’impresa ricevono un servizio e un beneficio.

H. Ford, Autobiografia, Rizzoli, Milano 1982

Frederick W. Taylor, Le basi dell’organizzazione scientifica del lavoroL’ingegnere americano Frederick W. Taylor, padre del “taylorismo di fabbrica”, cioè della razionalizzazione del ciclo produttivo, illustra «lo scopo principale dell’organizzazione industriale: quello di assicurare un massimo di benessere all’imprenditore ed anche un massimo di benessere ad ogni prestatore d’opera», secondo una ripartizione precisa dei compiti tra imprenditori e salariati, sulla base delle competenze specifiche.

Lo scopo principale dell’organizzazione industriale deve essere quello di assicurare un massimo di benessere all’imprenditore ed anche un massimo di benessere ad ogni prestatore d’opera […]. La grande maggioranza è

convinta che gli interessi fondamentali dei prestatori d’opera e dei datori di lavoro sono necessariamente antago-nistici. Il principio basilare dell’organizzazione scientifica, al contrario, sostiene che il vero interesse dei due gruppi è il medesimo per entrambi; che il benessere dell’imprenditore non può durare a lungo se non è accompagnato dal benessere per il lavoratore e viceversa; e che è possibile dare a chi lavora ciò di cui ha bisogno – alto salario – e

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all’imprenditore ciò che egli richiede per i suoi prodotti – basso costo di fabbricazione […]. Nessuno può negare che per un singolo individuo il massimo di benessere sarà realizzabile soltanto quando avrà raggiunto il suo più alto grado di rendimento, cioè quando egli fornirà una produzione più elevata […]: il massimo benessere può essere raggiunto soltanto come conseguenza del massimo rendimento […]. Questa stretta, intima, personale collaborazio-ne fra direzione e mano d’opera costituisce l’essenza del moderno sistema organizzativo […].Adottando il metodo scientifico […] i dirigenti si assumono nuovi compiti, oneri nuovi, e responsabilità mai sogna-te nel passato […]: Primo. Chi dirige deve eseguire, per ogni operazione di qualsiasi lavoro manuale, uno studio scientifico, che sostituisca il vecchio procedimento empirico. Secondo. Deve selezionare la mano d’opera con me-todi scientifici, e poi prepararla, istruirla e perfezionarla, mentre nel passato ogni individuo sceglieva per proprio conto il lavoro e vi si specializzava da sé come meglio poteva. Terzo. Deve cordialmente collaborare con i dipenden-ti, in modo da garantire che tutto il lavoro venga eseguito in osservanza ai princìpi stabiliti. Quarto. Il lavoro e la relativa responsabilità sono ripartiti in misura quasi uguale fra la direzione e la mano d’opera: chi ha mansioni di-rettive si assume quei compiti per i quali è più adatto dei lavoratori, mentre in passato quasi tutto il lavoro e la maggior parte delle responsabilità venivano fatti pesare sulla mano d’opera. È questa concomitanza della iniziativa della mano d’opera coi nuovi compiti assolti dalla direzione, che rende l’organizzazione scientifica tanto più effi-ciente del sistema tradizionale […].Fra i singoli elementi del moderno sistema a base scientifica, quello preminente è forse il principio di assegnare al lavoratore un compito ben definito. Il lavoro di ogni prestatore d’opera viene stabilito dalla direzione in tutti i suoi dettagli almeno il giorno prima, e nella maggior parte dei casi ogni esecutore riceve complete istruzioni scritte […]. Il lavoro, anticipatamente stabilito in questa forma, costituisce un incarico che deve essere portato a termine […] non dal solo esecutore materiale, ma dagli sforzi congiunti della direzione e della mano d’opera. Queste prescrizioni spe-cificano non solo quello che si dovrà fare, ma anche come dovrà essere fatto, e stabiliscono esattamente il tempo assegnato per l’esecuzione. Ogni volta che il prestatore d’opera riesce a compiere il lavoro nella forma prescritta e nei limiti di tempo stabiliti, riceve un supplemento di retribuzione, variante dal 30 al 100 per cento del salario normale.

F.W. Taylor, L’organizzazione scientifica del lavoro, ETAS Kompass, Milano 1967

John Maynard Keynes, Dal laissez-faire a un “socialismo liberale”Il “padre” del Welfare State, nonché uno tra i maggiori economisti del secolo, critica la dottrina del liberismo integrale, a favore di un deciso intervento dello Stato in campo economico e di «un sistema in cui possiamo agire come comunità organizzata verso propositi comuni, per promuovere la giustizia sociale ed economica, pur rispettando e proteggendo l’individuo nella sua libertà di scelta, nella sua fede, nella sua mentalità, nelle sue espressioni, nel suo spirito di iniziativa, e nella sua proprietà» .

La bellezza e la semplicità di questa teoria [il laissez-faire, n.d.r.] sono tali che è facile dimenticare che essa trova conforto non nella realtà dei fatti ma in ipotesi incomplete, introdotte per amore della semplicità. A parte altre

obiezioni [...] la conclusione secondo cui individui che agiscono indipendentemente l’un l’altro, ciascuno alla ricerca del proprio tornaconto, generano nel loro insieme la massima ricchezza per la società dipende da un insieme di assun-zioni irrealistiche [...]. Inoltre, molti di coloro che riconoscono che le ipotesi semplificate non corrispondono accurata-mente ai fatti, concludono cionondimeno che esse rappresentano ciò che è “naturale” e come tale ideale. Essi guar-dano alle ipotesi semplificate come allo stato di salute, e alle ulteriori complicazioni come alla malattia [...]. Cominciamo con il togliere di mezzo i princìpi metafisici o generali su cui di volta in volta si è voluto fondare il laissez-faire. Non è vero che, nel loro agire economico, gli individui dispongano per diritto di una “libertà naturale”. Non esiste contratto naturale che conferisca diritti perpetui a quelli che “hanno” o a quelli che “acquisiscono”. Il mondo non è governato dall’alto in modo tale da far sempre coincidere l’interesse privato con quello sociale; e non è ammi-nistrato quaggiù in modo che i due interessi coincidano nella pratica. Non è corretto dedurre dai princìpi dell’economia che un illuminato interesse personale operi sempre anche nell’interesse pubblico. E non è nemmeno vero che l’interes-se personale sia generalmente illuminato; molto spesso gli individui che agiscono in proprio per perseguire fini perso-nali sono troppo ignoranti o troppo deboli perfino per realizzare questi fini. L’esperienza non dimostra che gli individui, allorché costituiscono un’unità sociale, abbiano sempre una visione meno chiara di quando operano singolarmente.

Ritengo che il capitalismo, sapientemente diretto, possa probabilmente diventare il sistema più efficiente fra tutti quelli oggi in vista per il conseguimento di fini economici, ma che intrinsecamente, e per molti versi, sia estrema-mente criticabile. Il nostro problema consiste nell’elaborare l’organizzazione sociale più efficiente possibile senza

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offendere il nostro concetto di una vita soddisfacente […]. L’evoluzione naturale dovrebbe essere indirizzata al rag-giungimento di un decente livello di consumo per ciascuno: e quando questo è abbastanza elevato, alla occupa-zione delle nostre energie nei campi della nostra vita non attinenti alla sfera economica. Così abbiamo bisogno di ricostruire lentamente il nostro sistema sociale tenendo ben in mente tali finalità […]. La domanda che si pone è se siamo preparati a uscire dallo stato del laissez-faire del XIX secolo per entrare in un’epoca di socialismo liberale, per il quale io intendo un sistema in cui possiamo agire come comunità organizzata verso propositi comuni, per pro-muovere la giustizia sociale ed economica, pur rispettando e proteggendo l’individuo nella sua libertà di scelta, nella sua fede, nella sua mentalità, nelle sue espressioni, nel suo spirito di iniziativa, e nella sua proprietà.

in Novecento filosofico e scientifico: protagonisti, a cura di A. Negri, Marzorati, Milano 1991, vol. 4

Franklin Delano Roosevelt, Il New DealCon il discorso “del New Deal” il 2 luglio 1932 Franklin Delano Roosevelt accettò la nomina da parte del partito democratico alla candidatura della presidenza americana, annunciando la propria linea di programmazione economica.

Qualche parola per i progetti dei prossimi quattro mesi. Venendo qua, invece di aspettare la nomi na ufficiale, ho chiarito che ritengo che dovrem mo eliminare cerimoniali costosi e che dovremmo mettere in moto subito, sta-

sera, amici miei, l’apparato necessario per una presentazione adeguata dei nostri programmi all’elettorato della nazione. Io stesso ho compiti importanti come governatore di un grande Stato, compiti che in questo tempo sono più duri e più gravi che in ogni periodo precedente. Tuttavia ritengo che riuscirò a fare un numero di brevi viaggi in molte parti della nazione. Questi miei viaggi avranno come obiettivo principale lo studio di prima mano, dalle labbra di uomini e donne di tutti i partiti e di tutti i mestieri, delle condizioni attuali e dei bisogni di ogni parte di un paese interdipendente. Ancora una parola: l’umanità esce da ogni crisi, da ogni tribolazione, da ogni catastrofe, con un’accresciuta dose di consapevolezza e di rispetto, con obiettivi più elevati. Oggi usciamo da un periodo di scarso rigore intellettuale, di poca moralità, da un’era di egoismo […]. In tutta la nazione, uomini e donne, dimen-ticati dalla filosofia politica del governo degli ultimi anni guardano a noi in cerca di una guida e di una possibilità più equa di partecipare alla distribuzione della ricchezza nazionale.Nelle campagne, nelle grandi aree metropolitane, nelle città e nei paesi, milioni di cittadini gioiscono alla speranza che la loro vecchia maniera di vivere e di pensare non sia sparita per sempre. Questi milioni non possono e non debbono sperare invano. Io impegno voi tutti, impegno me stesso, a un nuovo patto (New Deal) per il popolo ame-ricano. Proclamiamoci, tutti qui riuniti, profeti di un nuovo ordine di competenza e di coraggio. Questa è più di una campagna politica; è una chiamata alle armi. Datemi il vostro aiuto, non solo per conquistare voti, ma per vincere questa crociata il cui scopo è restituire l’America al suo popolo.

F.D. Roosevelt, Il discorso del New Deal, Manifestolibri, Roma 1995

Joseph Alois Schumpeter, Il processo capitalisticoIn un testo del 1942 l’economista austriaco Joseph Schumpeter spiega il procedimento per cui il sistema capitalistico tende a eliminare progressivamente le piccole e medie aziende, causando pericolosi squilibri all’interno del quadro democratico di ogni paese.

La struttura politica di un paese è profondamente modificata dall’eliminazione di un nugolo di aziende piccole e medie, i cui titolari, insieme coi dipendenti, servi e familiari, contano quantitativamente alle elezioni ed eserci-

tano su quella che potremmo chiamare la classe degli uomini di punta un’influenza che la grande impresa non potrà mai vantare; le basi stesse della proprietà privata e della libera contrattazione crollano, in un paese in cui i loro modelli più vitali, concreti e significativi spariscono dall’orizzonte morale del popolo.D’altro lato, il processo capitalistico mina la propria intelaiatura istituzionale […] anche all’interno delle grandi unità produttive. Prescindendo dai casi, anche se notevoli, in cui l’impresa è praticamente proprietà di un singolo o di una famiglia, la figura del proprietario e, con essa, l’interesse specifico alla proprietà sono scomparsi. Ci sono gli

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amministratori, i dirigenti e i sottodirigenti: ci sono i grandi e i piccoli azionisti. Il primo gruppo tende ad assume-re l’atteggiamento tipico dei funzionari e anche nel caso più favorevole – quello in cui s’identifica con gli interessi dell’azienda in quanto tale – raramente (o mai) s’identifica con gli interessi degli azionisti. Il secondo, anche se considera permanente il proprio rapporto con l’azienda e, in pratica, agisce come la teoria finanziaria vuole che agiscano i titolari, non ne ha né la funzione né il comportamento specifico. Quanto al terzo gruppo, i piccoli azio-nisti spesso non si curano di quella che per quasi tutti rappresenta una fonte secondaria di reddito e, se ne curino o meno, raramente l’hanno a cuore […]. Il processo capitalistico, sostituendo i pacchetti di azioni ai muri e alle macchine dello stabilimento, svuota il concetto di proprietà, ne indebolisce la presa un tempo così forte – la presa nel senso del diritto legale e della capacità reale di trasformare ciò che si ha in ciò che si vuole, sia nel senso che il possessore del titolo è deciso a combattere, economicamente, fisicamente e politicamente per la “propria” azienda e per il suo controllo e a morire, se necessario, sui suoi gradini. L’evaporazione di quella che possiamo chiamare la sostanza materiale della proprietà – e la sua realtà visibile e tangibile – incide non solo sull’atteggiamento degli azionisti, ma anche su quello degli operai e del pubblico in genere. La proprietà smaterializzata, sfunzionalizzata e assenteista non esercita più il fascino tipico della forma ancora vitale della proprietà. Un giorno non ci sarà più nessuno al quale veramente prema di difenderla – nessuno all’interno, e nessuno all’esterno dei confini dell’azien-da-gigante.

J.A. Schumpeter, Capitalismo, socialismo, democrazia, ETAS, Milano 1977

George Marshall, La ricostruzione dell’EuropaNel discorso pronunciato all’Università di Harvard il 5 giugno 1947 il segretario di Stato americano annuncia il lancio di un programma di aiuti economici destinati alla ricostruzione dell’Europa, in seguito noto come “piano Marshall”.

La situazione mondiale è molto seria […]. Nel considerare le esigenze della ricostruzione europea, le perdite di vite umane, la distruzione di città, fabbriche, miniere e ferrovie, sono state esattamente valutate, ma […] ci si è resi

conto che la distruzione visibile era probabilmente meno seria dello sconvolgimento dell’intero sistema dell’econo-mia europea. Negli ultimi dieci anni le condizioni sono state assolutamente anormali. La febbrile preparazione della guerra e l’ancor più febbrile mantenimento dello sforzo bellico ha sconvolto tutti gli aspetti dell’economia nazionale […]. Il crollo della struttura economica dell’Europa durante la guerra è stato completo […]. Le esigenze europee di generi alimentari esteri e di altri prodotti indispensabili per i prossimi tre o quattro anni – soprattutto dall’America – sono tanto più grandi della attuale possibilità dell’Europa di pagare, da aver bisogno di un sostan-ziale aiuto straordinario, senza di che sarebbe costretta ad affrontare una crisi economica, sociale e politica, gravis-sima. Il rimedio consiste nel rompere il circolo vizioso e nel ristabilire la fiducia degli Europei nelle possibilità economiche future del loro singolo paese e dell’Europa nel suo complesso […]. È logico che gli Stati Uniti debbono fare il pos-sibile per contribuire al ritorno della normalità economica nel mondo, senza la quale non vi può essere alcuna stabilità politica né promessa di pace. La nostra politica non è rivolta contro un paese o una dottrina, ma contro la fame, la povertà, la disperazione e il caos. Suo obiettivo deve essere la rinascita di una economia attiva nel mondo, così da permettere il sorgere di condizioni politiche, sociali ed economiche nelle quali le libere istituzioni possano vivere. Tale assistenza […] non deve esser fatta volta per volta, a mano a mano che le varie crisi si sviluppano. Ogni assistenza che il nostro governo potrà dare in avvenire dovrebbe costituire una cura e non un semplice palliativo. Ogni governo desideroso di contribuire all’opera di ricostruzione troverà […] piena collaborazione da parte del go-verno degli Stati Uniti. Ma un governo che cercherà di bloccare la ricostruzione di altri paesi non potrà attendersi aiuto da parte nostra. Inoltre, i governi, i partiti politici o i gruppi che cercano di perpetuare la miseria umana per profittarne politicamente o in altro modo, incontreranno l’opposizione degli Stati Uniti.È evidente che prima che il governo degli Stati Uniti possa procedere ulteriormente nel suo sforzo inteso ad alle-viare la situazione e a contribuire ad avviare la ricostruzione europea, vi deve essere un certo accordo fra i paesi d’Europa su quanto la situazione richiede e sul ruolo che ciascuno di essi deve assumere per l’attuazione di ogni iniziativa che potrebbe essere presa da questo governo. Non sarebbe né opportuno né efficace per questo governo tracciare unilateralmente un programma inteso a porre l’Europa economicamente in piedi. Questo è un affare che riguarda gli Europei. La parte che spetta al nostro paese potrebbe consistere in un’amichevole collaborazione con l’Europa nel tracciare il programma e, più tardi, nel sostenerlo fino al punto in cui possa essere pratico per noi farlo. Il programma dovrebbe essere concertato in comune, con l’accordo di un certo numero di nazioni europee,

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se non di tutte. Punto essenziale di ogni azione positiva degli Stati Uniti è la comprensione da parte del popolo americano del carattere del problema e dei rimedi che devono essere applicati. Le passioni politiche e i pregiudizi non vi devono avere parte. Con la preveggenza e la volontà da parte del nostro popolo di far fronte alle grandi responsabilità che la storia ha chiaramente imposte al nostro paese le difficoltà che ho delineato possono essere e saranno superate.

G. Marshall, Discorso all’Università di Harvard, in M.L. Salvadori, La Comunità Atlantica, Opere nuove, Roma 1957

Friedrich von Hayek, Contro l’idea della “giustizia sociale”Friedrich von Hayek, esponente della scuola economica di Vienna, oppositore delle teorie di Keynes e premio Nobel nel 1974, fu estremamente critico verso l’uso in economia del concetto di “giustizia sociale”, da lui considerata «la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera».

L’appello alla “giustizia sociale” è […] diventato al giorno d’oggi il più usato, e l’argomentazione più efficace nelle discussioni politiche. Pressoché ogni richiesta di “azione governativa” a favore di determinati gruppi è

avanzata in suo nome, e se si riesce a far risultare che una certa misura è richiesta dalla “giustizia sociale” l’oppo-sizione ad essa si indebolisce rapidamente […]. Si mette raramente in dubbio che questo sia lo standard che dovreb-be guidare qualsiasi azione politica, e che l’espressione abbia un significato preciso. Di conseguenza, oggi non vi sono probabilmente movimenti o personalità politiche che non facciano prontamente appello alla “giustizia socia-le” per sostenere misure particolari da loro patrocinate. Non si può inoltre negare che la richiesta di “giustizia so-ciale” abbia già trasformato in maniera notevole l’ordine sociale e stia continuando a farlo in una direzione che neppure coloro che la avanzarono avrebbero mai immaginato. Benché questa locuzione abbia indubbiamente aiu-tato occasionalmente a rendere la legge più equa per tutti, resta però dubbio se la richiesta di giustizia, per quanto concerne la ripartizione dei benefici, abbia reso la società più giusta o ridotto il malcontento […]. In particolare essa sembra essere stata adottata da gran parte del clero di tutte le chiese cristiane, il quale, perdendo sempre più la propria fede nella rivelazione divina, sembra aver cercato rifugio e consolazione in una nuova religione “sociale” che sostituisce una promessa di giustizia temporale a una divina […]. I diversi governi autoritari e dittatoriali dei nostri giorni hanno ovviamente proclamato anche loro la “giustizia sociale” quale loro scopo principale […].Sebbene a volte la gente possa restare perplessa nel dire quali delle rivendicazioni conflittuali avanzate in suo nome siano valide, pressoché nessuno dubita che quest’espressione abbia un significato ben preciso, descriva un alto ideale, e indichi i difetti dell’ordine sociale esistente, che necessita urgentemente di correzioni […]. Tuttavia l’accet-tazione quasi universale di un credo non prova che questo sia valido e neppure che abbia significato, non più di quanto la comune credenza nei fantasmi e nelle streghe provava la validità di queste idee. Ciò con cui si ha a che fare nel caso della “giustizia sociale” è semplicemente una superstizione quasi religiosa che si dovrebbe lasciar per-dere finché essa serve unicamente a rendere contento chi la detiene, ma che si deve combattere nel momento in cui diventa un pretesto per costringere gli altri. La fede diffusa nella “giustizia sociale” è probabilmente al giorno d’og-gi la minaccia più grande nei confronti della maggior parte degli altri valori di una civiltà libera […]. Ci si può proteggere contro questo pericolo soltanto sottoponendo i nostri sogni di un mondo migliore ad un’analisi razio-nale spietata […]. Credo che alla fine la “giustizia sociale” verrà riconosciuta essere un fuoco fatuo che ha portato gli uomini ad abbandonare molti dei valori che in passato hanno promosso lo sviluppo della civiltà, un tentativo di soddisfare un desiderio ereditato dalle tradizioni del piccolo gruppo ma che non ha senso nella Grande società di uomini liberi. Sfortunatamente, questo vago desiderio, che è diventato uno dei vincoli più forti che incita la gente di buona volontà all’azione, non sarà soltanto deluso. Questo sarebbe già abbastanza triste. Come la maggior par-te dei tentativi per raggiungere un traguardo inaccessibile, lo sforzo in favore della “giustizia sociale” produrrà inevitabilmente anche conseguenze altamente indesiderate e soprattutto porterà alla distruzione di quell’ambiente che è indispensabile allo sviluppo dei valori morali tradizionali, vale a dire della libertà personale.

F. von Hayek, Legge, legislazione e libertà: una nuova enunciazione dei princìpi liberali della giustizia e della economia politica, Il Saggiatore, Milano 1994

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Quella tessile fu l’unica vera attività che, nel Medioevo, assomigliasse alla moderna produzione industriale. La principale materia prima utilizzata era la lana, trasformata in pregiati tessuti che, insieme alle spezie, costituivano la voce più signifi cativa del commercio di lusso su lunghe distanze.

Non abbiamo cifre precise sul grado di occupazione, ma è probabile che più della metà dei cinquantamila abitanti

che, secondo certe stime, formavano la popolazione di Gand e facevano di essa la più grande città dell’Europa nordocci-dentale traesse il suo sostentamento, direttamente o indiret-tamente, dall’industria della lana. La percentuale era, forse, ancora più alta a Ypres, una città di dimensioni un po’ più ri-dotte che, nel 1313, esportava non meno di 40000 pezze di panno, secondo i calcoli più recenti. Lovanio e Malines ne producevano 25000 ciascuna. (Per fare un confronto, si può ricordare che Troyes, uno dei maggiori centri di produzione della Champagne, raggiunse appena – nello stesso periodo – le duemila pezze all’anno, mentre l’intera Inghilterra, che attraversava allora un periodo di depressione, esportò in do-dici mesi, nel 1347-48, non più di 4422 pezze). Le propor-zioni erano ancora largamente inferiori a quelle della rivolu-zione industriale, ma avevano ormai superato in modo defini-tivo i limiti della tradizionale produzione di mestiere del Me-dioevo. [...]Anche il saggio [tasso, n.d.r.] di meccanizzazione raggiunse un valore intermedio fra quello delle comuni imprese artigia-ne e quello del primo stadio della rivoluzione industriale. Nel secolo XII, come nel XVIII, la prima grossa trasformazione si ebbe nei processi di filatura e tessitura, così strettamente in-trecciati fra loro che una qualsiasi accelerazione introdotta nell’uno esigeva un’eguale accelerazione nell’altro. Mentre nel corso della rivoluzione industriale furono introdotte, una

dopo l’altra, tutta una serie di innovazioni meccaniche, nel corso degli anni della crescita preindustriale il progresso si limitò a due dispositivi semplici e poco costosi, che consenti-rono un notevole risparmio di lavoro: il telaio a pedale al posto del telaio a mano, la ruota a filare al posto della rocca e del fuso. Si sarebbe potuto facilmente fare un altro passo avanti impiegando il mulino ad acqua per azionare ruote a filare e telai a pedale; la forza motrice dell’acqua venne in-fatti impiegata a questo scopo agli inizi della rivoluzione in-dustriale del Settecento. E già intorno alla metà del secolo XIII il principio del mulino ad acqua fu applicato in Italia al torcitoio che preparava il delicato filo destinato all’industria della seta. Non venne invece impiegato per il filo di lana – più rozzo e meno costoso – probabilmente perché non conveniva investire denaro in un dispositivo complicato quando si pote-va far filare la lana a domicilio da filatrici miseramente paga-te. [...]Nel Medioevo come nel Settecento (anche se in minor misura) alla meccanizzazione si accompagnò una crescente divisione del lavoro e l’integrazione industriale conferì una direzione unificata alle sparse operazioni della produzione artigiana. Non vi fu, tuttavia, alcuna fusione dei laboratori e delle bot-teghe artigiane in imprese industriali di grandi dimensioni, simili alla fabbrica moderna. Intorno alla metà del secolo XIII le fonti testimoniano l’esistenza di più di trenta fasi successi-ve nella produzione dei tessuti e di quasi altrettante corpora-zioni o gruppi non organizzati di lavoratori ai quali era affida-ta la lavorazione di ciascuna fase. [...] Gli attrezzi, in genere, non erano così pesanti e i processi di lavorazione così inter-dipendenti da rendere necessaria la concentrazione di tutti i lavori sotto lo stesso tetto; l’imprenditore si limitava a fornire successivamente la materia prima a ciascuno degli artigiani a cui era affidata una determinata fase della lavorazione.

R.S. Lopez, La rivoluzione commerciale del Medioevo, Einaudi, Torino 1975

A partire dall’XI secolo si realizza un cambiamento di atteggiamento mentale nei confronti delle diverse tipologie di mestieri. La maggiore duttilità intellettuale della fi losofi a scolastica permette allora di distinguere tra mestieri intrinsecamente illeciti e mestieri che solo per certe circostanze possono diventare illeciti. Il mondo economico si articola in maniera sempre più complessa, partendo dal mondo rurale.

La società occidentale, in quest’epoca essenzialmente ru-rale [l’Alto Medioevo, n.d.r.], comprende in un disprezzo

quasi generale la maggior parte delle attività che non sono legate direttamente alla terra. [...]Questo contesto, tra il secolo XI e il XIII, cambia. Nell’Occi-dente cristiano avviene una rivoluzione economica e sociale, di cui lo sviluppo urbano è il sintomo più lampante, e la divi-sione del lavoro l’aspetto più importante. Nuovi mestieri na-scono o si sviluppano, nuove categorie professionali appaio-no o prendono corpo, gruppi socio-professionali nuovi, forti del loro numero, del loro ruolo, reclamano e conquistano una stima, ossia un prestigio adeguati alla loro forza. Essi voglio-no essere considerati e ci riescono. Il tempo del disprezzo è finito. S’opera una revisione negli atteggiamenti riguardo ai mestieri. Il numero delle professioni proibite o screditate de-

Roberto S. Lopez, L’industria tessile nel tardo Medioevo

Jacques Le Goff, Mestieri leciti e illeciti

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Le più importanti rivolte del XIV secolo esplosero dopo il tracollo della peste nera. Una delle più celebri è quella fi orentina dei ciompi, del 1378. Sin dai primi passi emerge il suo carattere composito, con intrecci di politica estera e soprattutto la compresenza dei diversi strati sociali nelle opposte fazioni in lotta durante la sommossa.

Il meccanismo del tumulto dei Ciompi è ben noto. La spacca-tura del gruppo dirigente in seguito alla guerra degli Otto

santi, fra il cosiddetto partito degli Otto santi, che aveva di-retto la politica del Comune contro il papa, sfidandone anche l’interdetto, e la Parte guelfa, che in ogni modo aveva cercato di opporsi e di porre fino al conflitto, spinge il proposto dei Priori – ossia il capo del governo comunale – Salvestro de’ Medici a ricercare nel giugno 1378 l’appoggio popolare per battere il gruppo dei grandi. Viene così presentata una peti-zione, «in nome dei popolani, mercanti ed artefici della città di Firenze, e dei poveri e deboli del contado e dei distretti, ed in nome dei cittadini amanti di vivere in pace delle proprie sostanze e del proprio lavoro», per ripristinare in tutta la loro severità gli Ordinamenti di giustizia contro tutti coloro che erano stati detti grandi, e che se erano stati perciò esclusi dalle cariche comunali, avevano trovato nella Parte guelfa un

centro di potere straordinariamente efficace […]. La petizione rischia naturalmente di essere bloccata da fautori della Parte guelfa presenti nei collegi che avrebbero dovuto accettarla; Salvestro, quindi, ricorre alla pressione popolare, senza dub-bio preventivamente organizzata. Ma se l’approvazione della petizione placa momentaneamente il tumulto, la situazione precipita nuovamente nei giorni successivi, da un lato per il tentativo di vero e proprio colpo di Stato progettato dalla Parte guelfa, dall’altro per l’attività degli artigiani e dei sa-lariati. Nella notte del 18 luglio i popolani di vari quartieri si riuniscono segretamente fuori la Porta di San Piero a Gattoli-no ed elaborano un programma comune di rivendicazioni: in-nanzitutto una serie di richieste nei confronti dell’Arte della Lana, che devono essere sostenute attraverso il riconosci-mento dell’organizzazione corporativa autonoma dei lavora-tori, poi l’allargamento dei collegi, per «avere parte nel reg-gimento della città». Quando il 20 luglio si sparge la notizia che tre capi dei Ciompi in seguito a delazione, sono stati ar-restati e sottoposti a tortura, il popolo minuto si leva in armi e accorre al palazzo della Signoria sotto i suoi gonfaloni (in testa quello dell’Angelo, che ai tempi del duca d’Atene era stato riconosciuto come bandiera delle Arti minute istituite dal duca e sciolte dopo la sua cacciata). A gran voce viene imposta la liberazione dei tre prigionieri, poi i tumultuanti si impadroniscono del gonfalone della Giustizia, simbolo del Comune, e danno fuoco alle case dei personaggi più detesta-

Corrado Vivanti, Gli inizi della rivolta dei ciompi

cresce, mentre si moltiplicano le giustificazioni all’esercizio di questo o quel mestiere, fino ad allora condannato.Il grande strumento intellettuale di questa revisione è la sco-lastica. Metodo di distinzione, essa sconvolge la classifica-zione grossolana, manichea, oscura, della mentalità presco-lastica. Casistica, e questo nei secoli XII e XIII è il suo grande merito prima di diventare il suo grande difetto, separa le oc-cupazioni illecite in sé, per natura, «ex natura» da quelle che sono condannabili secondo i casi, per caso, «ex occasione».Il fenomeno capitale è che la lista dei mestieri condannati senza remissione, «ex natura», si riduce all’estremo, si as-sottiglia senza posa. […] Presto solo giullari e prostitute sa-ranno banditi dalla società cristiana. […]Così la cattiva intenzione è motivo di condanna dei soli mer-canti che agiscono per cupidigia – «ex cupiditate» –, per amo-re del guadagno – «lucri causa» –. Ciò significa lasciare ampio spazio alle «buone» intenzioni, cioè a tutti i camuffamenti. […]V’è anzitutto – tradizionale, ma estesa a casi più numerosi – la «necessità», che scagiona tanto il chierico indigente co-stretto a esercitare un mestiere, ad esclusione di alcuni, quanto il contadino che, una domenica, mette al riparo il suo raccolto di fronte alla minaccia della pioggia.C’è la buona intenzione, «recta intentio», che può giustifica-re tanto il fabbricante di armi che pensa soltanto a equipag-giare i combattenti per una giusta causa – «ad usum lici-tum» – quanto i fabbricanti e mercanti di giochi concepiti per il solo svago, come rimedio contro la tristezza e i pensieri

malinconici. […] Due giustificazioni ancora più solide s’im-pongo a partire dalla fine del secolo XII.La prima è la preoccupazione dell’utilità comune – nozione che spicca in primo piano con la crescita dell’amministrazio-ne pubblica, comunale o del principe e che riceve la sua con-sacrazione dalla filosofia aristotelica. […]La seconda è la fatica, il lavoro. Lungi dal rimanere motivo di disprezzo, segno d’inferiorità, il lavoro diventa merito. […]Il caso del mercante è il più celebre, il più gravido di conse-guenze. Per questo mestiere così lungamente screditato, i motivi di scusa, poi di giustificazione, infine di stima, si moltiplicano. Alcune cause di scusa, divenute classiche nelle enunciazioni scolastiche, sono ben note: sono quelle che scaturiscono dai rischi corsi dai mercanti: danni effettivamente subiti – «dam-num emergens», immobilizzazione del denaro in lunghe im-prese – «lucrum cessans», pericoli dovuti agli imprevisti – «periculum sortis». Così le incertezze dell’attività commerciale – «ratio incerti-tudinis» – giustificano i guadagni del mercante, o meglio ancora, l’interesse che egli ricava sul denaro investito in cer-te operazioni: dunque, in misura sempre più larga, l’«usura», l’usura maledetta. Ma soprattutto, ciò che giustifica il mer-cante è il suo lavoro e l’utilità comune.

J. Le Goff, Tempo della chiesa e tempo del mercante, Einaudi, Torino 1977

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ti e al palazzo dell’Arte della Lana. La sera, in piazza della Signoria, si svolge una strana cerimonia, «e fu il più nuovo gioco che si vedesse mai, e durò questo trastullo fino a sera»: il popolo minuto, in un’atmosfera di eccitazione e di truculen-to trionfo, procede all’investitura di una sessantina di «cava-lieri del popolo». Non si tratta solo di compensare i capi e i fautori della sua vittoria: al minaccioso grido di «fuoco e car-ne», sono creati «cavalieri di popolo», oltre a Salvestro de’ Medici e ad alcuni coraggiosi popolani, anche esponenti delle grandi famiglie, gli Alberti e i Peruzzi, ma anche gli Albizzi, i Rucellai e i Salviati, ecc. Lo stesso Luigi Guicciardini, il gon-faloniere deposto, che aveva avuto poche ore prima incendia-

ta la casa, viene investito del titolo. Sembra quasi che con questa cerimonia il popolo trionfante voglia non solo mostra-re la propria sovranità ma quasi sancire una nuova alleanza di cittadini, attraverso questa specie di assimilazione onora-ria di elementi estranei o addirittura ostili.L’indomani la vittoria popolare è assicurata con l’occupazio-ne del palazzo del Podestà, su cui vengono innalzate le inse-gne di tutte le Arti, ad eccezione di quella della Lana, e suc-cessivamente del palazzo della Signoria.

C. Vivanti, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia Einaudi, vol. 2, I, Einaudi, Torino 1974

Il periodo tra XV e XVI secolo è segnato da numerosi confl itti, ma soprattutto dall’espansione europea sull’Atlantico; la maggiore concorrenzialità delle altre nazioni europee determinò in Italia una crisi del sistema basato sulle corporazioni, con la sostituzione delle manifatture. In alcuni casi la corporazione mantenne una sua funzionalità nei nuovi sistemi statali per il controllo politico dei membri delle corporazioni stesse; ma, contemporaneamente, l’appartenenza a essa divenne un fattore che escludeva dall’accesso alle più alte cariche pubbliche, in ragione della bassa estrazione sociale che ormai si attribuiva ai componenti delle arti.

Mentre i fattori esterni, che determinarono la graduale de-cadenza della manifattura precapitalistica, furono il pas-

saggio delle relazioni economiche fra i vari paesi europei dalle dimensioni mediterranee a quelle mondiali e il rafforza-mento politico ed economico degli Stati centralizzati assolu-tistici, i fattori interni furono soprattutto la relativa ristrettez-za territoriale delle città-Stato italiane, il predominio, in molte parti d’Italia, di gruppi feudali e la reazione politico-ecclesiastica del secolo XVI. Non è priva di fondamento la tesi secondo cui la manifattura, formatasi con il regime delle corporazioni, avrebbe anche potuto rafforzarsi e trasformarsi in fabbrica capitalistica, qualora le vicende belliche della fi-ne del Quattrocento e della prima metà del Cinquecento non avessero minato l’instabile terreno del sistema politico for-matosi nella penisola.Questi avvenimenti politici esercitarono anche un influsso sfavorevole su tutta l’economia italiana, e le corporazioni entrarono da quel momento in una fase di disgregazione e di progressiva decadenza fino alla totale scomparsa. La trasfor-mazione delle corporazioni in manifatture costituisce un aspetto concreto del loro processo disgregativo; in Italia, tut-tavia, numerose tra esse non raggiunsero mai il livello della manifattura. […] Già nel Cinquecento la posizione delle cor-porazioni d’arte si veniva modificando anche a Firenze; i

membri delle ventuno corporazioni, i quali pagavano le im-poste dirette ed erano iscritti nel registro comunale, veniva-no considerati come cittadini; ma solo coloro il cui padre, nonno e bisnonno avevano ricoperto una carica nello Stato, erano considerati cittadini con pieni diritti («benefiziati»). Verso la fine del secolo XV le corporazioni cominciarono a trasformarsi da cellule politiche della repubblica in appen-dici produttive della tarda repubblica, e, in seguito, in offi-cine industriali dell’assolutismo regionale toscano; la fun-zione politica delle corporazioni subì un indebolimento pa-rallelamente all’indebolimento della prima borghesia e al rafforzamento del patriziato. Se nel secolo XVI lo Stato ri-sultava uno strumento delle corporazioni, nel secolo XVI la situazione si invertì e le corporazioni assunsero il ruolo di strumenti dello Stato. Un processo analogo si manifestò an-che in altri paesi europei dove gli Stati assolutistici appog-giarono la nascente forma capitalistica, respingendo le vecchie forme di produzione industriale di tipo corporativi-stico. In Italia questa politica fu sostenuta da piccoli Stati assoluti come il ducato di Milano o il granducato di Tosca-na, e da repubbliche oligarchiche come Venezia. I privilegi corporativi ostacolavano l’iniziativa privata che, al contra-rio, era sostenuta e rafforzata dai capi delle signorie. In queste nuove condizioni le corporazioni d’arte assunsero la struttura di associazioni basate sulle consuetudini, che ten-devano a soffocare le iniziative industriali e commerciali in sviluppo, e i membri delle corporazioni formarono una casta chiusa che, per paura della concorrenza, limitò sempre più i propri effettivi: in dieci o venti anni «l’edificio corporativo da fortezza si è fatto prigione». […] A Milano gli artigiani potevano darsi un’organizzazione solamente con il permes-so del signore e per di più la loro attività poteva svolgersi unicamente sotto il severo controllo del «vicario e dei dodi-ci di provisione»: fin dal 1385 fu proibita qualunque riunio-ne delle corporazioni senza la sanzione di quell’autorità signorile. Così lo Stato ridusse le corporazioni a semplici organismi economici, togliendo ad esse tutti i diritti politici e lasciando solamente una certa autonomia professionale necessaria alla loro esistenza. Molti studiosi credono di rin-tracciare sintomi del disgregarsi delle corporazioni già nel secolo XV, quando non venivano quasi più osservati i rego-

Victor Rutenberg, L’involuzione del sistema corporativo20

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lamenti corporativi e si proclamava la libertà dell’attività industriale. Tutto ciò, però, non esclude che il potere signo-rile si interessasse dell’attività delle corporazioni e giun-gesse a dare ad esse un certo appoggio per l’indispensabi-lità della loro attività economica: in effetti la produzione mercantile delle corporazioni non poteva essere ancora completamente sostituita dalla produzione delle imprese di nuovo tipo.La decadenza delle corporazioni avvenne in forme ancor più inesorabili nel Veneto e nelle città soggette alla Serenissi-ma, molto probabilmente proprio a causa del rafforzarsi degli ordinamenti oligarchici tradizionali in seguito al costi-tuirsi di un «ceto dirigente chiuso», che è stato anche defi-nito «patriziato degli uffici». La situazione degli artigiani e delle corporazioni può essere illuminata dalla legge (già esistente in pratica a Brescia nel secolo XV, anche se venne ufficialmente ratificata soltanto nel secolo XVI) che pre-scriveva che a far parte del consiglio cittadino potevano essere nominati solamente coloro il cui padre e il cui nonno non fossero stati membri di corporazioni d’arte (arti mecca-niche), in quanto questa attività era considerata «vile». A Vicenza, secondo una legge del 1567, potevano diventare

membri del Consiglio dei Cento solo quei cittadini i cui an-tenati godevano di pieni diritti da non meno di cento anni e non erano stati membri di corporazioni. È vero che nel Sei-cento questi diritti potevano essere acquistati (250 ducati nel 1625, 500 ducati nel 1695), ma queste somme risulta-vano inaccessibili per un medio artigiano. A Verona vennero esclusi dalla cittadinanza con pieni diritti non soltanto colo-ro che lavoravano «cum mano propria», ma anche i medici. A Bergamo, nel 1618, erano per legge esclusi dal consiglio non solo gli artigiani, ma anche i loro figli. Già nel Cinque-cento in tutte queste città perfino per entrare in un collegio di giuristi e di notai bisognava dimostrare che due o tre ge-nerazioni di antenati non si erano «macchiate» con l’appar-tenenza a una corporazione d’arte. I nobili, che nei secoli XIII e XIV erano stati privati dai popolani dei diritti politici, presero la loro rivincita nei secoli XVI e XVII, togliendo i diritti politici ai membri delle corporazioni e alle corpora-zioni stesse.

V.I. Rutenberg, Disgregazione e scomparsa delle corporazioni, in Storia d’Italia, vol. V, I documenti,

Einaudi, Torino 1973

Gli europei nel corso del Medioevo pongono le premesse per un grande balzo qualitativo e quantitativo nello sfruttamento delle tecniche per la produzione. Un atteggiamento pragmatico e un’insuffi cienza di risorse disponibili inducono l’uomo medievale a riutilizzare e perfezionare strumenti e accorgimenti già noti, sino a garantirne una capillare diffusione.

Intorno al 1500 il dinamismo tecnologico del Medioevo ga-rantiva all’Europa un’offerta costante di derrate alimentari,

larghe conoscenze nel settore dell’industria e della meccani-ca, un vantaggio negli armamenti, e nuove tecniche nautiche che consentirono agli Occidentali di fondere la storia dei sin-goli popoli, fino allora separati, in un’unica esperienza uni-versale. Si trattava di un fatto memorabile che poteva acca-dere una volta soltanto.Molto di quanto fecero i tecnici medievali restò nell’ombra per secoli: le implicazioni di quella fioritura tecnologica non emersero che molto più tardi.La creatività tecnologica era in armonia con lo spirito della cultura medievale dell’Occidente. I monaci, che rappresenta-rono per secoli il gruppo più colto delle società, si applicava-no al lavoro come forma di preghiera. Nel XII secolo, un bio-grafo contemporaneo di San Bernardo descrive con orgoglio le ruote idrauliche dell’Abbazia di Chiaravalle impiegate in diversi processi produttivi. Nel 1248, consegnando ad un gruppo di canonici premonstratensi un monastero in deca-denza, l’arcivescovo di Magonza celebrò le loro qualità quali

ingegneri: «Ho trovato le persone che cercavo […] Non solo esse testimoniano fede fervente e santità di vita, ma sono an-che molto attivi ed abili nella costruzione di strade, di acque-dotti, nel drenaggio di paludi – che hanno estremamente in-debolito il monastero –, e nelle arti meccaniche in genere». Un secolo prima, per la prima volta nella tradizione occiden-tale il canonico Ugo di San Vittore aveva dato alle arti mec-caniche una precisa collocazione intellettuale nell’ambito dell’attività umana. Alla metà del XV secolo, mentre stava crescendo la prima generazione di conquistatori europei, gli artisti – improvvisa-mente e con scarsa congruenza – addobbarono la rappresen-tazione allegorica della Temperanza, allora considerata la maggiore delle sette Virtù, con tutti gli attributi della nuova tecnologia: sul capo portava quel trionfo del disegno rappre-sentato dall’orologio meccanico; nella mano destra teneva un paio di occhiali, il nuovo dono per gli uomini di cultura attempati; era collocata in cima alla torre di un mulino a ven-to, la più moderna forma (apparve fra il 1390 ed il 1400) della più recente macchina per fornire energia. Il tardo Me-dioevo considerò la sua tecnologia in sviluppo come profon-damente virtuosa, come una manifestazione di obbedienza del comando divino di governare la terra. Nonostante i crescenti dubbi e la secolarizzazione di at-teggiamento un tempo religiosi, le benefiche virtù della tecnologia rimangono nell’Occidente una convinzione in-crollabile.

L. White, Lo sviluppo tecnologico (500-1500), in Storia economica d’Europa, a cura di C.M. Cipolla,

UTET, Torino 1979

Lynn White, Lo sviluppo tecnologico medievale21

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Non tutti gli storici sono concordi con una visione ottimista della tecnologia medievale. Jacques Le Goff segnala i risvolti negativi di molti aspetti della tecnologia medievale; in particolare, egli stigmatizza gli atteggiamenti passivi, tendenti a limitare drasticamente le possibilità di nuove acquisizioni e nuove applicazioni.

L’Occidente medievale è un mondo scarsamente attrezza-to. Si è tentati di dire arretrato. Ma, ripetiamolo, parlare

a questo proposito di arretratezza, a fortiori di sottosviluppo, non potrebbe essere ammesso. Poiché se il mondo bizantino, il mondo musulmano, la Cina lo superano allora con lo splen-dore dell’economia monetaria, della civiltà urbana, della pro-duzione di oggetti di lusso, il livello delle tecniche anche qui è piuttosto mediocre. Senza dubbio l’Alto Medioevo conosce perfino un certo regresso in questo campo in confronto all’Im-pero romano. Viceversa, progressi tecnologici importanti ap-paiono e si sviluppano dall’XI secolo in poi, ma in sostanza fra il V secolo e il XIV l’inventiva è debole. Ciononostante il pro-gresso, che sostanzialmente è più quantitativo che qualitati-vo, non è trascurabile: diffusione di utensili, di macchine, di tecniche conosciute dall’antichità, ma considerate, più che in-novazioni, rarità o curiosità, tale è l’aspetto positivo dell’evo-luzione tecnica nell’Occidente medievale.Qualunque sia l’importanza della diffusione di questi pro-gressi tecnologici, quello che caratterizza malgrado tutto l’universo tecnico dell’Occidente medievale, più della man-canza di genio inventivo, è il carattere rudimentale. Un insie-me di insufficienze, di ostacoli, di strozzature tecniche man-tiene l’Occidente medievale in uno stato primitivo.Le strutture sociali e le mentalità sono evidentemente re-sponsabili di questa povertà, di questo ristagno tecnico.Soltanto una minoranza dominante di signori laici ed eccle-siastici prova e può soddisfare esigenze di lusso, alle quali provvede con l’importazione di prodotti stranieri, venuti da Bisanzio o dal mondo musulmano (stoffe preziose, spezie) o che si procura senza preparazione artigianale o industriale (prodotti della caccia per il nutrimento, selvaggina, o per il

vestiario, pellicce) o ancora chiede in piccole quantità ad ar-tigiani specializzati (orefici, fabbri). La massa, senza fornire ai signori una manodopera così a buon mercato e sfruttabile come quella degli schiavi antichi, è ancora abbastanza nume-rosa e sottoposta a esigenze economiche per far vivere le classi superiori e vivere lei stessa più o meno miseramente utilizzando un’attrezzatura rudimentale. Ciò non significa che il dominio dell’aristocrazia laica e clericale abbia avuto solo aspetti negativi, inibitori nel campo tecnico. In alcuni settori i suoi bisogni e i suoi gusti hanno favorito un certo progresso. L’obbligo per il clero, e soprattutto per i monaci, di aver meno rapporti possibili, compresi quelli economici con l’esterno, e particolarmente il desiderio di essere liberati dai bisogni ma-teriali per dedicarsi all’opus Dei, alle occupazioni propria-mente spirituali (uffizi, orazioni), la vocazione caritativa, che li obbligava a provvedere alle necessità economiche non solo della loro numerosa comunità, ma dei poveri e dei mendican-ti stranieri con distribuzioni di viveri, li hanno incoraggiati a sviluppare una certa attrezzatura tecnica. Che si tratti dei pri-mi mulini, ad acqua o vento, o del progresso delle tecniche rurali, gli ordini religiosi sono spesso all’avanguardia.Eppure la mentalità delle classi dominanti è antitecnica. Du-rante la maggior parte del Medioevo, fino al XIII secolo, e anche oltre in misura minore, l’utensile, lo strumento, il lavo-ro nei suoi aspetti tecnici appaiono nella letteratura o nell’ar-te solo come simboli.Indubbiamente non vi è settore della vita medievale dove un’altra caratteristica di quella mentalità, l’orrore della no-vità, abbia agito con maggior forza antiprogressiva che nel campo tecnico. Innovare significava là più che altrove una mostruosità, un peccato. Metteva in pericolo l’equilibrio eco-nomico, sociale e mentale. E le novità, come si vedrà, essen-do a beneficio del signore, cozzavano contro la resistenza, violenta o passiva, delle masse.Per lungo tempo il Medioevo occidentale non ha avuto nessun trattato tecnico, poiché tali cose non erano degne di scrittura, oppure dipendevano da un segreto che non doveva essere tra-smesso.

J. Le Goff, La civiltà dell’Occidente medievale, Einaudi, Torino 1980

Jacques Le Goff, I limiti della tecnica medievale22

Il ceto della “borghesia” alla fi ne del Medioevo oscilla tra scelte capitalistiche e aspirazioni aristocratiche e non fa decollare quelle attività che sembravano ormai avviate nei secoli precedenti. Le premesse della crisi del Seicento, a ben vedere, sono già ampiamente presenti nell’apparente opulenza del Cinquecento. Il XVI secolo porta dunque in sé i segni del declino.

Con l’avanzare del Quattrocento un nuovo ceto «aristocra-tico», formato dall’antica nobiltà e da quella parte della

borghesia che ha saputo costruirsi fortune notevoli, dà pro-gressivamente vita a quello che è stato definito il «ritorno alla terra»; definizione impropria, peraltro, per più di una ragione. Prima di tutto perché un «ritorno» totale – se c’è e quando c’è e dove c’è – c’è solo a partire dal tardo Cinque-cento. E, seconda ragione, perché anche all’epoca dell’«epo-pea dei mercanti» l’interesse per la mercatura e il credito non

Duccio Balestracci, I limiti della fioritura economica nei secoli XV e XVI23

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hanno mai fatto dimenticare la terra agli uomini d’affari. È comunque vero che la nuova borghesia «feudalizzata» ades-so si rivolge alla terra con slancio del tutto nuovo; ricerca possessi fondiari e vi impiega una parte notevole di quei ca-pitali che la mutata congiuntura economica generale convin-ce – o costringe – a distogliere da altri settori. Quando gli Aragonesi procedono alla vendita dei feudi nel Mezzogiorno, sono anche certe casate principesche «forestiere» (come i Medici di Firenze), ma soprattutto la nuova nobiltà di toga cittadina, a vedere il feudo sotto la nuova luce di vero e pro-prio bene da investimento. Si può senz’altro concordare con Volante quando sostiene che questo ceto, proveniente in buo-na parte dalle file della borghesia, non porta nelle campagne lo «spirito pre-capitalistico» acquisito in città; ma è anche vero che sarebbe sbagliato liquidare la sua presenza nell’eco-nomia agraria come sempre assenteista. L’attenzione che, in modo crescente, la nuova classe di proprietari dedica all’al-levamento a scapito dell’agricoltura; il fatto che certe regioni – spopolate dalle epidemie e dalle altre calamità che dal Trecento non sembrano risparmiare quasi alcuna parte d’Ita-lia – utilizzino i campi incolti per le pecore anziché per il gra-no; tutto questo non può far dimenticare che in più di un caso l’acquisizione di poteri economici ed extraeconomici sulle campagne è anche accompagnata, come si è accennato, dalla rimessa a coltura di parte delle terre precedentemente per-dute, e dalla razionalizzazione delle colture stesse.È certo, questo sì, che tutto il processo – anche per essersi nel frattempo ricolmati i vuoti demografici che, del resto, in campagna erano stati assai meno disastrosi che in città – è scandito da un progressivo peggioramento delle condizioni delle classi contadine. I mezzadri toscani, fra Quattro e Cin-quecento, devono mettere la maggior parte di seme, usare attrezzi propri e non più forniti dal proprietario, attuare a tut-te loro spese le opere di miglioria del fondo e degli edifici, corrispondere al proprietario le «onoranze» (polli, uova …). I contratti mezzadrili dell’Italia padana, a loro volta, vedono ora gravare sul contadino la prevalenza delle scorte e lo ve-dono impegnato in colture industriali (quali la canapa) di cui è però il proprietario, e non lui, a godere i frutti. Il tutto unito all’irrobustirsi dei poteri giurisdizionali sui contadini da parte di signori vecchi e nuovi. La commistione, insomma, di ele-menti di acerbo capitalismo con quelli, invece, ancora e di nuovo robustamente feudali rovescia sulla classe dei lavora-tori più deboli la costruzione della moderna Italia agricola.

Se il contadino piange, comunque, l’artigiano non ride. Fra Quattro e Cinquecento la produzione italiana comincia a fare le spese della sua mancanza di rinnovamento: i mercati del Nord, ormai, si aprono sostanzialmente per chi ha saputo cambiare il proprio modo di produrre; per paesi come la Fiandra, ad esem-pio, che rinunciando alla «qualità» hanno investito tutto il loro potenziale nella «quantità» rivolta a un pubblico più largo e non solo di élite. E per farlo hanno reimpostato tutti i loro schemi produttivi: hanno allargato il lavoro ai salariati liberi delle campagne e hanno risolto in maniera irreversibile le vec-chie pastoie corporative che ancora intralciavano il lavoro ar-tigiano. In Italia sono pochi a seguire questo esempio: fra que-sti pochi c’è il Piemonte, che riconverte il suo tessile su model-li simili a quelli appena descritti. Ma produzione per un pubbli-co più «popolare» di per sé non basta a far fare il salto di qualità: la Sicilia, ad esempio, fin dal Trecento indirizza la sua produzione tessile prevalentemente verso consumi «popola-ri», ma non per una meditata scelta di politica economica. Tut-to al contrario, si direbbe che tale indirizzo sia invece indotto dalla scarsa qualità della produzione locale incapace di ade-guarsi agli standard di quella «straniera» che, per parte sua, continua invece a monopolizzare il mercato di lusso isolano.Le stesse corporazioni in età signorile ormai non esprimono assolutamente nulla di dinamico: i loro compiti non vanno al di là della sfera economica; da istituzioni che avevano talvolta controllato lo Stato o che si erano poste, rispetto ad esso, su un piano di parità, adesso divengono organismi «dello» Stato, controllati dal principe tramite suoi funzionari, in attesa di di-ventare organizzazioni sostanzialmente confraternali. Nella Milano viscontea e sforzesca il ridimensionamento del potere della corporazione dei mercanti procede con fasi alterne ma finisce con la sostanziale vittoria del signore. In certe città del Piemonte (come Biella) già alla fine del Trecento le corpora-zioni vivono sotto la diretta tutela dei Savoia. Il lavoro libero, a sua volta, è vittima della trasformazione non meno che quel-lo inquadrato nelle strutture corporative. Alla perdita di mer-cato si reagisce comprimendo i salari: un lavoratore comasco nel Cinquecento, quando si è comprato di che mangiare, si è già visto sparire il 40 per cento del salario; il suo collega fio-rentino, nella stessa epoca, corteggia ogni giorno la miseria.

D. Balestracci, I fattori della produzione (secoli V-XVI), in Storia dell’economia italiana, vol. I, Il Medioevo: dal crollo al trionfo,

Einaudi, Torino 1990

Con l’arrivo dei metalli preziosi dall’America, nel XVI secolo l’economia cominciò a muoversi veramente su uno scenario mondiale.

[Il XVI secolo] è l’epoca del predominio spagnolo e portoghe-se (gli spagnoli soprattutto nelle Americhe, i portoghesi so-

prattutto in Asia). L’America e l’Asia sono quasi soltanto aree d’esportazione; l’importazione dall’Europa è quasi del tutto

inesistente. Le merci più significative che raggiungono l’Europa sono i metalli preziosi dall’America e le spezie dall’estremo oriente asiatico. In valore i metalli preziosi sono più importanti delle spezie. In un osservatorio centrale come Siviglia, nell’ul-timo decennio del Cinquecento i metalli preziosi erano pari a 309,4 tonnellate d’argento all’anno (l’oro è convertito in ar-gento); le spezie asiatiche erano pari in valore a 136,8 tonnel-late d’argento. Da considerare, tuttavia, che il porto di Siviglia deteneva una sorta di monopolio sull’arrivo di metalli preziosi,

Paolo Malanima, Le conseguenze dell’arrivo di oro e argento americani24

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mentre non altrettanto accadeva per le spezie. L’arrivo in Eu-ropa di metalli preziosi esercitò sull’economia del continente un’influenza assai profonda. L’oro americano cominciò a rag-giungere l’Europa già alla fine del Quattrocento. Si trattava dell’oro tesaurizzato dalle civiltà dell’America e che i con-quistatori spedivano in Spagna. Il flusso di metalli preziosi rimase tuttavia esiguo sino al 1540, l’anno in cui furono sco-perte miniere d’argento a Potosí, in Perú. Da allora la quan-tità d’argento che raggiungeva la Spagna si venne accrescen-do di continuo.Per apprezzare il rilievo reale di queste cifre si consideri che all’inizio del XVI secolo la circolazione di specie metalliche in Europa era pari a 5000 tonnellate d’oro e a 60 000 d’argen-to. Gli arrivi d’oro a Siviglia tra 1550 e 1600 di 95 tonnellate e quelli d’argento di 7100: rispettivamente il 2 e il 12 per cen-to della massa monetaria preesistente e il 25 e il 40 per cento della produzione mondiale coeva di metalli preziosi.Dal momento che la Spagna aveva una bilancia commerciale deficitaria verso altri paesi dell’Europa e che i governi spa-gnoli erano indebitati con banchieri stranieri, soprattutto ge-novesi, il flusso d’argento si riversò dalla Spagna al di fuori e raggiunse tutti gli altri stati. In casi come questi se la doman-da di beni, se la velocità di circolazione, se la produzione di beni rimangono le stesse, i prezzi dovranno subire un aumen-to: si produce come prima, ma si ha a disposizione più denaro di prima, che di conseguenza perde di valore rispetto alle mer-ci; quindi bisogna sborsare più moneta per acquistare gli stes-si beni. Si verifica così un’inflazione. Ora, in Europa – come sappiamo – la popolazione durante il Cinquecento aumenta-va, mentre la produzione di beni soprattutto agricoli, seguiva con difficoltà l’incremento della domanda. Già esisteva, per-ciò, una tendenza inflazionistica, come sempre accade quando non si riesce a produrre quanto si domanda. L’argento che si riversò nei mercati europei dopo il 1540 non fece che accele-rare e approfondire questa tendenza. I prezzi aumentarono ovunque ancora più rapidamente di quanto già non stessero facendo. Tra l’inizio e la fine del Cinquecento quelli dei cere-ali crebbero del 38 per cento; grosso modo quattro volte.In passato gli storici, di fronte a questa lunga inflazione, han-no parlato di “rivoluzione dei prezzi”, a sottolineare l’influen-za che questi ebbero nell’economia e nella società europee del tempo. Come sempre accade in casi d’inflazione, allora i salari non riuscirono a stare al passo con i prezzi e persero potere d’acquisto; anche le rendite fondiarie ebbero talora, ma non sempre, tendenza a flettere rispetto ai prezzi. Ne ap-profittarono mercanti e imprenditori che vedevano diminuire i costi che dovevano sostenere per salari e affitti mentre au-mentavano i prezzi di vendita. L’influenza complessiva eserci-tata sull’economia dai metalli preziosi fu però assai inferiore a quanto spesso si è ritenuto. Essi valsero probabilmente solo ad amplificare una tendenza già in atto. Del resto, poi, questa “rivoluzione dei prezzi” fu assai poco rivoluzionaria, se si pen-sa solo che durante il secolo il tasso annuo d’inflazione fu del

2 per cento. L’economia dei nostri giorni ci ha abituati a ben altri tassi d’inflazione. Contrariamente a quanto si riteneva un tempo, inoltre oggi sappiamo che l’afflusso d’argento in Euro-pa non diminuì nel Seicento. Allora, però, il movimento dell’economia fu ben diverso da quello dell’epoca precedente, dei decenni della “rivoluzione dei prezzi”. La conclusione può essere dunque che l’influenza della quantità di metalli prezio-si e conseguentemente, di moneta sul movimento dell’econo-mia non fu così decisiva come talora si è supposto.Mentre i metalli preziosi affluivano a Siviglia, a Lisbona il numero delle navi in partenza per l’Asia estrema stava au-mentando, anche se le congiunture dei commerci verso l’ovest e verso l’est sono diverse. Si passò da una ventina di navi all’inizio del Cinquecento a 114 all’anno nell’ultimo de-cennio del secolo: la media fu di 50-70 navi. Da Siviglia le navi per le Americhe erano 45 all’anno tra 1506 e 1510; 186 all’anno tra 1591 e 1600. Dopo il 1608 si avrebbe un declino. In peso le merci trasportate erano infinitamente minori dei grani trafficati nel Baltico. In valore, però, erano assai supe-riori: le spezie asiatiche una volta e mezzo, almeno a Siviglia alla fine del Cinquecento; i metalli preziosi americani più di tre volte.Questi due flussi commerciali verso l’America e verso l’Asia, per quanto procedessero con logiche e con tempi diversi, non erano però completamente indipendenti. Si formava allora un’economia mondiale, con una congiuntura mondiale. I com-merci europei con l’Asia estrema erano stati sempre in defi-cit: si acquistava molto, si vendeva pochissimo. Si dovevano, perciò, pagare gli acquisti con denaro anziché con prodotti; oppure li si pagavano con servizi commerciali prestati in quei mari dai quali s’importava. Nel Cinquecento i tesori americani cominciarono a prendere la strada dell’Asia in cambio delle spezie che arrivavano in Europa. Si parlava, nel 1621, di una «fontana che sgorgava nelle Indie occidentali», che arrivava in Spagna, si disperdeva in Europa, e raggiungeva, infine, le regioni asiatiche. La rivoluzione dei prezzi non fu solo feno-meno europeo. La ritroviamo anche in India, con qualche an-no di differenza. Nel Seicento si ebbe in India un continuo, per quanto moderato, processo inflazionistico collegato all’in-cremento della moneta in circolazione. È stato calcolato che tra il 1570 e il 1800 la metà dell’argento americano sia an-dato a finire in estremo oriente. Si disegnava, come si vede, un circuito mondiale, sorretto dai traffici oceanici, che si al-largava dall’estremo occidente all’estremo oriente. In esten-sione i commerci abbracciavano il mondo intero. Anche se – va aggiunto subito – in intensità lo scambio mercantile rima-neva ancora una patina superficiale su una realtà economica più profonda, soprattutto quella del mondo rurale, che nel Cinquecento manteneva limitati contatti con lo scambio mo-netario.

P. Malanima, Economia preindustriale, Bruno Mondadori, Milano 19982

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La politica di riforme dello zar Pietro il Grande ebbe un’ispirazione “occidentale”: prese infatti a modello il mercantilismo di Colbert. Ma per le peculiarità storiche dell’impero russo un’industria e un commercio moderni dovettero essere creati dal nulla.

In Russia, prima dei tempi di Pietro, non c’era niente che potesse essere definito industria. Sparse per le città, c’era-

no piccole manifatture e botteghe artigiane per utensili do-mestici e da lavoro che facevano fronte alle esigenze dello zar, dei boiari e dei mercanti. Nei villaggi i contadini facevano tutto da soli. Quando ritornò dall’occidente, nel 1698, Pietro decise di cambiare tutto questo e per il resto della sua vita si sforzò di rendere la Russia più ricca, e la sua economia più efficiente e produttiva. All’inizio lo sforzo di Pietro si rivolse a soddisfare le necessità portate dalla guerra. Sviluppò le fonderie per i cannoni, le officine per la polvere da sparo e i moschetti, le pelletterie per selle e redini, e le manifatture tessili di Mosca e di Voronez di proprietà dello stato funziona-vano così bene che Pietro scrisse [...]: «La lavorazione dei tessuti, grazie a Dio, dà ottimi risultati». Dopo Poltava [la vittoria sugli svedesi del 1709, n.d.r.] l’oggetto del suo inte-resse cambiò. Diminuendo le necessità portate dalla guerra, Pietro si interessò di altri tipi di manifatture, quelle che avrebbero portato il livello della vita russa alla pari con quel-lo dell’occidente e che avrebbero reso la Russia meno dipen-dente dalle importazioni estere. Avendo constatato che gran-di somme venivano spese per le importazioni di seta, velluto, di articoli di porcellana e cristallo, fondò molte manifatture per produrre questi beni in Russia. Per proteggere le attività manifatturiere appena sorte mise sulle sete e sui tessuti stra-nieri una tassa di importazione che ne raddoppiava il prezzo per i compratori russi. Sostanzialmente la sua politica era simile a quella di altri stati europei del tempo. Essa può es-sere definita mercantilismo: aumentare le esportazioni per guadagnare valuta corrente estera e diminuire le importazio-ni per arginare lo sperpero di denaro russo all’estero […].A colmare il contrasto tra lo zar moderno e innovatore e la nazione ignorante e mal disposta c’erano gli stranieri. Senza

gli esperti e gli artigiani stranieri che si riversarono in Russia nel periodo che va dal 1698 al 1725, anno della morte di Pietro, non sarebbe stato possibile alcuno sviluppo dell’eco-nomia nazionale. Lo zar assunse più di un migliaio di stranie-ri durante la sua prima visita ad Amsterdam e a Londra, e in seguito inviati e agenti russi furono incaricati di selezionare tecnici stranieri e persuaderli a entrare al servizio della Rus-sia. Artigiani, idee, macchine e materiali stranieri furono im-piegati in ogni sfera dell’attività industriale, commerciale e agricola. Alcune vigne portate dalla Francia e piantate ad Astrakhan produssero un vino che un viaggiatore olandese giudicò «abbastanza rosso e gradevole». Venti pastori pro-venienti dalla Slesia furono mandati a Kazan a insegnare ai russi del luogo a lavorare la lana in modo che non sarebbe stato più necessario comprare lana inglese per vestire l’eser-cito. Avendo visto ottimi cavalli in Prussia e in Slesia, lo zar ordinò al senato di organizza re allevamenti di cavalli e im-portare stalloni e giumente. Vide dei contadini occidentali mietere il grano con una falce dal manico lungo invece del falcetto usato dai contadini russi, e ordinò che anche il suo popolo usasse la falce fienaia. Vicino San Pietroburgo c’era una fabbrica che lavorava il lino così finemente da uguagliare quello olandese: l’officina veniva diretta da una vecchia don-na olandese che insegnava a ottanta donne russe a usare gli arcolai, ancora poco conosciuti in Russia. Non lontano c’era una cartiera condotta da uno specialista tedesco. Gli stranie-ri insegnavano ai russi a costruire e rendere operanti fabbri-che per il vetro, fornaci per mattoni, polveriere, ferriere e cartiere […].Pietro aveva capito che se voleva reclutare stranieri in numero sufficiente, doveva permettere di mantenere le loro tradizioni religiose. Questo punto di vista fu riconfermato nel 1697, in occasione della sua prima visita ad Amsterdam, dove la gente di tutte le nazioni poteva praticare ogni forma di religione pur-ché non arrecasse danno alla chiesa locale o alle chiese di altri stranieri. Questa tolleranza, come Pietro annotò più tar-di, «contribuiva moltissimo all’affluenza di stranieri e conse-guentemente aumentava le entrate pubbliche». E aggiungeva: «Intendo imitare Amsterdam per la mia città».

R.K. Massie, Pietro il Grande, Rizzoli, Milano 2001

Richard K. Massie, Modernizzare la Russia: l’opera di Pietro il Grande25

L’autore rifl ette in particolare sulle motivazioni dell’introduzione delle recinzioni ai campi (enclosures) nell’Inghilterra del XVIII secolo, sui suoi protagonisti e sulle sue conseguenze.

Perché nel Settecento ebbe inizio l’enclosure? [recinzione dei campi, n.d.r.] Chi prese l’iniziativa? Come fu effettua-

ta? Quali furono le conseguenze sociali ed economiche? Ecco i problemi fondamentali della storia della enclosure.Perché si recintarono i campi? Prima di cercare di rispondere, bisogna spiegare la parola enclosure. L’enclosure comprese – grosso modo – due processi: il primo fu la razionalizzazione del sistema dei campi aperti con i suoi diritti di pascolo talvol-ta complicati, il secondo fu la messa a coltura o l’intensifica-zione della coltura di terre fino allora incolte o poco coltivate.Nel XVIII secolo si realizzarono le enclosures al fine di sfruttare

Robert Alexander Clarke Parker, Le enclosures nell’Inghilterra del XVIII secolo26

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I maggiori “vantaggi” legati alla rivoluzione industriale, specie per ciò che riguarda le condizioni di vita dei lavoratori, furono l’aumento dei generi di prima necessità, il miglioramento della dieta quotidiana del lavoratore, la diminuzione della povertà, le leggi a tutela del lavoro.

Si è scritto molto circa le conseguenze che la rivoluzione industriale ebbe per i lavoratori. Alcuni, impressionati

dalla sorte di coloro che rimasero soccombenti nella lotta contro la macchina, hanno affermato che la trasformazione tecnologica non portò altro che sofferenza e miseria [...].Ma [...] sarebbe stato davvero strano se la rivoluzione industria-le avesse semplicemente arricchito i già ricchi e impoveriti an-cora di più i poveri. Infatti i prodotti che essa creò non erano in generale articoli di lusso ma generi di prima necessità e beni strumentali. [...] Alcuni prodotti delle fabbriche e delle ferriere venivano mandati all’estero, ma i carichi di ritorno non consiste-vano, in genere, in vini e sete, ma in zucchero, cereali, caffè e tè destinati alla gente comune. [...] La dieta dei lavoratori quasi

certamente migliorò: la farina di grano sostituì la segale e l’avena, mentre la carne, che prima era una rarità, insieme con le patate diventò il piatto principale sulla mensa dell’operaio qualificato. Non tutto il carbone che usciva dalle miniere andava ad alimentare le fornaci e le macchine a vapore: e il trovare una casa tiepida e un piatto caldo ebbe conseguenze di non poco momento per l’uomo che rientrava fradicio dai campi [...].C’erano, è vero, molti vagabondi e mendicanti, ma già prima che entrasse in vigore la nuova legge sui poveri le schiere dei “miseri e indigenti” si erano probabilmente assottigliate. L’orario di lavoro era lungo, i giorni di riposo pochi e, com’è attestato da una massa di testimonianze, il lavoro in fabbrica era dannoso per la salute fisica e morale dei giovani. [...] Ma di contro a tutto questo bisogna mettere la diminuita fatica di quelli che svolgevano lavori pesanti. [...] Il minore sfrutta-mento di donne e fanciulli, l’aumento degli introiti familiari, la maggiore regolarità delle paghe e il guadagno in benesse-re che si ottenne quando il lavoro industriale non si svolse più sotto il tetto familiare.

in G. Solfaroli Camillocci, La rivoluzione industriale, SEI, Torino 1973

Thomas S. Ashton, I vantaggi della rivoluzione industriale27

più produttivamente la terra, in particolare di rendere arabili terre tenute tutt’al più a pascolo. È vero certamente che nel cor-so del XVIII secolo si compirono notevoli progressi nella tecnica dell’allevamento, e talvolta l’enclosure fu effettuata proprio per migliorarla. [...] Ma la rivoluzione agraria del XVIII secolo fu realizzata prima di tutto per aumentare le terre arative, e le en-closures furono condotte precisamente a questo fine [...]. Il si-stema del campo aperto rendeva necessario il mantenimento di tipi di rotazione (per esempio due raccolti di grano e un anno di riposo) che erano diventati molto improduttivi, paragonati ai migliori livelli di produzione del XVIII secolo. [...] L’altro aspetto dell’enclosure fu la diminuzione delle terre comunali, dei terreni incolti o fino allora poco coltivati o lasciati a pascolo. Ciò fu fa-cilitato dai nuovi raccolti e dai nuovi metodi: grazie alle rotazio-ni che comprendevano foraggi (per mantenere le scorte per la concimazione) e frumento, si poterono coltivare terreni di quali-tà inferiore. [...] Nella seconda metà del XVIII secolo si fece sen-tire un altro motivo: l’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli. Diventò conveniente affrontare l’alto costo della procedura par-lamentare di enclosure anche per terreni la cui produttività non sarebbe stata molto aumentata dai nuovi tipi di coltivazione. [...] Chi prese l’iniziativa? Non ci può essere dubbio che furono gli agricoltori più ricchi a imporre le enclosures. I ricchi coltiva-tori e i capitalisti cercavano aziende di estensione e disposizione

appropriata, che potessero essere sfruttate senza restrizioni an-tiquate. [...] I proprietari che vivevano sulle loro terre tendevano generalmente a consolidare le loro proprietà in unità che si po-tessero condurre più facilmente. Gli uomini di bassa condizione si aspettavano minori vantaggi dall’enclosure. Come si realizza-rono? Il modo più semplice di effettuarle era di darne l’ordine: se un privato si trovata in possesso di tutta la terra e di tutti i diritti comuni, poteva fare come gli piaceva e recintarla come voleva. [...] Dove esistevano diversi proprietari, si poteva talvol-ta scambiare la terra contro i diritti comuni, per procedere poi ad enclosures «di accordo» [...]. L’aumentato sviluppo delle en-closures portò a ricorrere più di frequente all’autorità dello Sta-to per venire a capo della resistenza dei proprietari che non vo-levano scambiare le loro terre con delle altre, o i loro diritti co-muni con nuove assegnazioni. [...] Effetti delle «enclosures». Sull’argomento si è molto discusso. Su un punto però si è d’ac-cordo: le enclosures fecero aumentare la produttività. [...] Non c’è dubbio che l’enclosure ha portato ulteriori vantaggi ai ricchi; non è altrettanto pacifico che abbia impoverito i poveri, anche a breve scadenza; su un lungo periodo di tempo l’aumento della produzione agricola produsse vantaggi per tutti.

R.A.C. Parker, La chiusura dei campi nel XVII secolo, in «Critica Storica», 1963

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Gli “svantaggi” più evidenti legati alla rivoluzione industriale furono l’aumento dell’indigenza sociale, il peggioramento delle condizioni di vita di lavoratori qualifi cati, le diffi cili condizioni del lavoro di fabbrica.

La trasformazione dell’economia spostava da un punto all’altro grandi strati di lavoratori, talvolta a loro van-

taggio, ma più spesso a loro danno. Grandi masse di popo-lazione non ancora assorbite dalle nuove industrie o dalle nuove città rimanevano così a costituire un substrato per-manente formato dai più indigenti e dai più deboli; grandi masse venivano anche periodicamente gettate sul lastrico da crisi il cui carattere temporaneo e ricorrente non era an-cora riconosciuto [...].In aggiunta a questi sconvolgimenti di carattere generale, altre catastrofi particolari si abbatterono sul capo di talune particolari categorie di lavoratori nullatenenti [...].Tra il 1820 e il 1840, l’incalzare pesante e impersonale della macchina e della concorrenza cominciò a travolgerli. [...] Esso trasformò gli uomini indipendenti in lavoratori subordinati, le persone in “braccia”. In tutti gli altri casi [...] esso diede vita a quelle moltitudini di diseredati, di miserabili, di affamati [...] le cui condizioni facevano gela-re il sangue persino agli economisti più incalliti. E non si

trattava di un’accozzaglia di gente inesperta e ignorante [...]. Erano quelli che erano stati i più abili, i più istruiti, i più esperti, il fior fiore dei lavoratori. Essi non riuscivano a capacitarsi di quello che stava loro accadendo: era quindi naturale che cercassero di scoprirlo, e ancor più naturale che protestassero.Dal punto di vista materiale, il nuovo proletariato delle fabbriche stava probabilmente meglio. Ma non era libero: sotto il rigido controllo e l’ancor più rigida disciplina impo-sta dal padrone o dai suoi sorveglianti, di fronte ai quali non avevano praticamente alcuna rivalsa giuridica e gode-vano solo di un primo rudimento di protezione pubblica, gli operai erano costretti a compiere le ore e i turni di lavoro stabiliti dal padrone, ad accettare le sue punizioni e le multe con le quali egli imponeva le sue regole o aumentava i suoi profitti [...].Per l’uomo libero entrare a lavorare in una fabbrica come “uno dei tanti” significava sottomettersi a qualcosa che poco diffe-riva dalla schiavitù; chiunque non vi fosse costretto dalla fame cercava perciò di evitarlo, o, se vi entrava, cercare di resistere a quella disciplina draconiana con più costanza di quanto non facessero le donne e i ragazzi, verso i quali, di conseguenza, i padroni tendevano ad orientare le loro preferenze.

E.J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi (1789-1848), Il Saggiatore, Milano 1971

Al centro della rifl essione di Smith si trova la concezione tipicamente illuminista secondo cui l’umanità vive in un cosmo retto da leggi comprensibili, fondamentalmente orientate al benessere dell’uomo. Ogni individuo, pur inseguendo solo il proprio guadagno, in realtà contribuisce a far sì che tutti possano soddisfare le loro necessità, come se esistesse una sorta di mano invisibile che permette all’egoismo dei singoli di trasformarsi in strumento di felicità del prossimo.

Esiste, a proposito di Smith, un problema di tempi. La sua grande opera – An Inquiry into the Nature of the

Wealth of Nations – fu pubblicata [...] nel 1776. A quella data le officine e le miniere dell’età industriale erano già chiaramente visibili nella campagna inglese e nei Lowlan-ds scozzesi. [...] Ma, in realtà, di quella che finì con l’es-sere definita Rivoluzione industriale Smith vide ben poco: non le fabbriche realmente grandi, non le città industriali, non i battaglioni di operai all’inizio e alla fine dell’orario

di lavoro, non il ceto politicamente e socialmente emer-gente degli industriali. La parte di gran lunga maggiore di questo sviluppo venne quando il suo libro era già stato scritto. Smith descrive il lavoro di una fabbrica di spilli, ma si tratta di una fabbrica che non presenta affatto le caratteristiche degli stabilimenti industriali dei decenni successivi. [...]L’attenzione di Smith fu catturata non dal macchinario che caratterizzava la Rivoluzione industriale, ma dalla maniera in cui il lavoro veniva diviso, in modo tale che ciascun operaio diveniva un esperto della sua minuscola porzione del proces-so produttivo. «Un uomo svolge il filo metallico, un altro lo drizza, un terzo lo taglia, un quarto lo appuntisce, un quinto lo arrota nella parte destinata alla capocchia; per fare la ca-pocchia occorrono due o tre distinte operazioni; il montarla è un lavoro particolare e il lucidare gli spilli un altro, mentre mestiere a sé è persino quello di incartarli». Da questa spe-cializzazione, e cioè dalla divisione del lavoro, proveniva la grande efficienza dell’impresa contemporanea; congiunta-mente alla naturale «propensione (dell’uomo) a trafficare, barattare e scambiare una cosa con un’altra», essa stava alla base di ogni commercio. [...]Per Smith, la motivazione economica è incentrata sul ruolo dell’interesse personale. Il perseguimento privato, concor-

Eric J. Hobsbawm, Gli svantaggi della rivoluzione industriale

John Kenneth Galbraith, Il pensiero economico di Adam Smith

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Uscita vincitrice dalla Rivoluzione francese, la borghesia si segnalò ben presto per le proprie incoerenze; dopo aver lanciato, contro i privilegi nobiliari, la parola d’ordine dell’eguaglianza di tutti gli uomini, i borghesi si posero subito a difesa delle proprie ricchezze, negando ogni legittimità a qualsiasi tentativo di estendere l’eguaglianza stessa alla sfera dell’economia.

La borghesia è l’altro nome della società moderna. Indica una classe di persone che attraverso la libera attività hanno

progressivamente distrutto l’antica società aristocratica, fon-data sulle gerarchie di nascita. [...] È una classe senza statuto, senza tradizioni, senza contorni definiti e non dispone che d’un fragile titolo al dominio, la ricchezza. Fragile, perché può ap-partenere a chiunque: chi è ricco avrebbe potuto non esserlo, chi non lo è, avrebbe potuto esserlo. Pur essendo una catego-ria sociale definita dall’economico, la borghesia sbandiera valori universali. Il lavoro definisce non più gli schiavi, come nell’antichità, o i non nobili, come nelle aristocrazie, ma l’in-tera umanità: costituisce ciò che di più elementare possiede l’uomo come individuo nella sua primitiva nudità di fronte alla natura. Presuppone la libertà fondamentale del singolo, liber-tà eguale per tutti di darsi un’esistenza migliore aumentando i propri beni e le ricchezze. Il borghese dunque si pensa libero dalla tradizione politica o religiosa e indeterminato, come può esserlo un uomo libero e eguale in diritto a tutti gli altri. Rego-la la propria condotta rispetto al futuro, poiché deve inventar-si da sé, assieme alla comunità alla quale appartiene.

Ma l’esistenza sociale di questo personaggio nuovo nella sto-ria è alquanto problematica. Egli porta alla ribalta del mondo la libertà, l’uguaglianza, i diritti dell’uomo, insomma l’auto-nomia dell’individuo contro le società fondate sulla dipen-denza, che erano apparse prima di lui. Ma quale nuova asso-ciazione propone? Una società che metta in comune solo po-che cose della sua vita, visto che ha come dovere principale di garantire ai propri membri il libero esercizio delle loro at-tività private e il godimento assicurato di ciò che hanno ac-quisito. Quanto al resto, è affar loro: i membri della società borghese possono scegliersi una religione, l’idea del bene e del male, sono liberi di perseguire i propri gusti e i fini parti-colari che assegnano all’esistenza, purché rispettino i termini del contratto minimo che li lega agli altri concittadini. La so-cietà borghese dunque s’allontana per definizione dall’idea di bene comune. Il borghese è un individuo separato dai suoi simili, chiuso nei propri interessi e nei propri beni. [...]La società moderna è percorsa da un’agitazione corpuscolare che spinge gli individui a superarsi continuamente e in questo modo approfondisce le contraddizioni insite nell’esistenza stessa della società. Non basta che sia formata da membri poco inclini a prendersi cura dell’interesse pubblico. È neces-sario pure che l’idea dell’eguaglianza e dell’universalità de-gli uomini, sbandierata come suo fondamento e novità, venga costantemente negata dall’ineguaglianza delle proprietà e delle ricchezze, prodotta dalla competizione tra gli individui. Il movimento, il dinamismo della società ne contraddicono il principio, la legittimità. Mentre proclama l’eguaglianza come diritto imprescrittibile dell’uomo, la società moderna produce di continuo ineguaglianza, soprattutto materiale, più di qual-siasi altra società conosciuta.

François Furet, Le incoerenze della borghesia30

renziale dell’interesse personale è la fonte del massimo bene pubblico: «Non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio e del fornaio», recita il brano più celebre di Smith, «che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità ma al loro egoismo...». Egli aggiunge più avanti che l’individuo «in questo caso, co-me in molti altri casi, [...] è condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni. [...] Non ho mai visto che sia stato raggiunto molto (nel promuo-vere il bene della società) da coloro che pretendono di traffi-care per il bene pubblico. [...]La mano invisibile, la più celebre metafora della scienza eco-nomica, è appunto e solo questo: una metafora. Uomo dell’Il-luminismo, Smith non aveva l’abitudine di ricorrere ad avalli [appoggi, sostegni, n.d.r.] soprannaturali per le sue argo-mentazioni. [...] E tuttavia, da un punto di vista puramente mondano, Smith compiva qui un passo di enorme portata. Fi-no a quel momento l’individuo preoccupato di arricchirsi era stato oggetto di dubbio, sospetto e diffidenza; sentimenti che risalivano, attraverso il Medioevo, ai tempi biblici e alla stes-sa Sacra Scrittura. Ora costui, proprio in grazia del suo egoi-

smo, diventava un pubblico benefattore. Davvero un gran ri-scatto e una grande trasformazione! [...]In materia di politica pubblica, la sua raccomandazione più energica riguarda la libertà del commercio interno e interna-zionale. In misura considerevole – probabilmente eccessiva – il ragionamento di Smith deriva dal fascino esercitato su di lui dalla divisione del lavoro (della fabbrica di spilli). Soltanto se c’è libertà di baratto e di commercio alcuni operai possono specializzarsi in spilli, mentre altri si dedicheranno ad altri articoli e tutti s’incontreranno nello scambio, in modo tale che i diversi bisogni dell’individuo saranno soddisfatti. Se non esiste libero scambio, ciascun operaio si dovrà preoccupa-re di fabbricare i suoi spilli (a un basso livello di competenza); e le economie legate alla specializzazione andranno perdute. Da ciò Smith conclude che quanto più ampia è l’area dello scambio, tanto maggiori saranno le opportunità di specializ-zazione (tanto maggiore sarà cioè la divisione del lavoro), e tanto maggiore, pari passu [di pari passo, n.d.r.], l’efficienza – ovvero, come oggi si direbbe, la produttività – del lavoro.

J.K. Galbraith, Storia della economia, Rizzoli, Milano 1990

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S t o r i o g r a f i a

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Il Settecento fu un periodo di intenso sviluppo dell’economia italiana, dovuto in particolare al fatto che la dominazione spagnola fu sostituita da dinastie più intraprendenti, in grado di guidare l’economia della penisola verso un progressivo reinserimento e una maggiore integrazione con quella europea.

Il risultato più importante dei rivolgimenti cui l’Italia era stata soggetto nella prima metà del secolo XVIII consistette [...] an-

che e soprattutto nel fatto che era stato posto fine all’isolamen-to e al provincialismo in cui due secoli di dominazione spagnola avevano mantenuto il paese. Le nuove dinastie che si insediaro-no sui troni di Firenze, di Napoli e di Parma erano sì straniere ai paesi loro assegnati, ma proprio per questo assai più europee e meno provinciali delle vecchie [...]. Quanto ai funzionari au-striaci in Lombardia, essi erano [...] più capaci e dotati di una mentalità moderna dei precedenti governatori e viceré spagnoli. E non è un caso che gli Stati italiani, che presentano nel corso del secolo un quadro di maggiore animazione e vitalità furono proprio quelli, oltre alla [...] Lombardia austriaca, governati dalle nuove dinastie straniere. Gli altri, quelli che conservarono i precedenti reggitori e ordinamenti – Venezia, Genova, lo stes-so Piemonte, per non parlare dello Stato pontificio – continue-ranno, quali in maggiore, quali in minore misura, a percorrere la strada della decadenza e dell’isolamento provinciale. Ma non si trattava soltanto per l’Italia settecentesca di un maggior in-serimento politico nell’Europa dell’età dell’equilibrio e dei

patti di famiglia, ma anche di un’integrazione economica in un mercato percorso dalle grandi correnti del commercio dell’epoca. [...]Il fatto è che questo reinserimento nell’economia europea coincide con una delle fasi di più dispendiosa espansione del-la medesima. [...]Il settore dell’economia e della società italiane che si trovò più direttamente investito dalle conseguenze dell’inserimen-to dell’Italia nel mercato europeo fu senza dubbio quello dell’agricoltura. [...] Ciò che l’Europa del secolo XVIII chie-deva all’Italia erano prodotti agricoli necessari per nutrire la sua popolazione sempre crescente e le materie prime neces-sarie per alimentare le proprie manifatture.L’Italia fornì gli uni e le altre. La seta greggia innanzitutto: buona parte della materia prima impiegata nelle fiorenti tes-siture di Lione proveniva dal Piemonte e dalla Lombardia. Esportatrici di cospicui quantitativi di seta erano anche le re-gioni del Mezzogiorno e in particolare la Calabria. [...] Un notevolissimo incremento, sempre nel Mezzogiorno, conobbe invece l’esportazione dell’olio, che, oltre che per l’alimenta-zione, era richiesto in quantità sempre maggiori dalle prospe-re manifatture di sapone marsigliesi […]. Oltre alla seta del Piemonte e della Lombardia e agli oli del Mezzogiorno, altre voci del commercio di esportazione degli Stati italiani erano, negli anni in cui il raccolto era stato abbondante, il grano e il vino. La fortuna di taluni vini tipici italiani ha inizio proprio nel secolo XVIII.

G. Procacci, Storia degli italiani, vol. 2, Laterza, Bari 1968

Nelle società del passato, l’ineguaglianza aveva uno statuto legittimo, dettato dalla natura, dalla tradizione e dalla prov-videnza. Nella società borghese, l’ineguaglianza è un’idea che circola di contrabbando, un’idea contraddittoria rispetto al modo in cui gli individui immaginano se stessi. Eppure la si trova dovunque, nelle situazioni che essi vivono e nelle pas-

sioni che nutrono. La borghesia non inventa la divisione della società in classi, ma ne fa un dramma ammantandola di un’ideologia che la rende illegittima.

F. Furet, Il passato di un’illusione. L’idea comunista nel XX secolo, Mondadori, Milano 1997

Giuliano Procacci, Il XVIII secolo e il mutamento dell’economia in Italia31

Il XX secolo viene defi nito attraverso nove caratteristiche economiche che ne fanno, rispettivamente: un’età di consumo, di crescita, di trasformazione, di sfi da tra economie, del succedersi di diverse egemonie economiche, della programmazione economica, della stabilità, dello squilibrio, delle disuguaglianze.

1. È stato il secolo in cui il progresso economico […] rag-giunge i massimi ritmi. È tumultuoso, stupefacente, sia

nel confronto con l’Ottocento delle rivoluzioni industriali, sia […] nell’epoca d’oro 1950-1970 […]. 2. È stato il secolo della più radicale trasformazione delle fonti e degli usi del-le risorse economiche […]. L’agricoltura ha perso veloce-mente peso, prima rispetto all’industria […] poi rispetto al cosiddetto terziario […]. L’autoconsumo […] è divenuto con-sumo di massa […]. La scienza si è trasformata in tecnologia sistematicamente rivolta e applicata alle attività economi-che. 3. È stato il secolo della crescita più sostenuta e della trasformazione più profonda, ma anche di una instabilità alta […]. Ha vissuto due crisi economiche fra le più gravi sperimentate dalle economie di mercato: quella degli anni

Pierluigi Ciocca, L’economia del Novecento32

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S t o r i a e d e c o n o m i a

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All’inizio del Novecento, il Sud Italia versava in condizioni drammatiche. Dopo che il protezionismo aveva rovinato l’agricoltura, l’emigrazione verso l’America fu, per milioni di poveri contadini, l’unica alternativa alla miseria e alla fame.

La relativa [confrontata con la situazione del Nord, n.d.r.] povertà del Mezzogiorno era facilmente dimostrabile: il

reddito pro capite era, nel 1900, meno della metà di quello dell’Italia settentrionale; nel Mezzogiorno viveva il 40 per cento della popolazione totale, ma nel 1911 il consumo di energia elettrica per usi industriali nel Sud raggiungeva ap-pena quello del solo Piemonte. Il Mezzogiorno era arretrato anche in molti settori dell’agricoltura: la resa di 3-5 quintali di grano per ettaro costituiva la norma, e anche negli anni più favorevoli la resa media nazionale di 10,5 quintali venne ra-ramente raggiunta. Un quadro analogo offrono i dati sul tasso di mortalità e sulle condizioni di abitazione: nel 1910-14 il tasso nazionale di mortalità era del 19,2 per mille abitanti, ma nel Mezzogiorno il tasso più basso era del 19,7 per mille in Calabria, e quello più elevato del 22,6 in Basilicata. Mentre nel 1911 meno dell’un per cento della popolazione di Genova, Firenze e Li-vorno viveva in una sola stanza, a Bari la percentuale era del 42 per cento (con una media di 4,7 persone per stanza) e a Foggia del 70,5 (6 persone per stanza).Il tasso di analfabetismo aumentava costantemente a mano a mano che si scendeva verso sud: nel 1911 era dell’11 per cen-to nel Piemonte, del 37 in Toscana, del 54 in Campania, del 65 in Basilicata e del 70 in Calabria; in Sicilia la situazione era leggermente migliore con il 58. (La media nazionale era del 37,6 per cento). I comuni più isolati del Sud potevano toccare punte di analfabetismo che arrivavano fino al 90 per cento. La deficienza di scuole era scandalosa: nel 1907-1908 il Pie-monte, con 3,4 milioni di abitanti, aveva 9000 scuole, men-

tre la Sicilia, con 3,6 milioni, ne aveva 5000. [...] I meridio-nalisti sostenevano che la politica seguita dallo stato dopo l’unità aveva contribuito ad approfondire il divario. Dopo il 1887 il sistema tariffario [il protezionismo sui manufatti in-dustriali, n.d.r.] aveva costretto il Sud a comprare a prezzi elevati i prodotti industriali e a vendere a basso prezzo i suoi prodotti agricoli. [...]Se, nonostante tutto, tra il 1900 e il 1914 le condizioni del Mezzogiorno rurale migliorarono, ciò fu dovuto non tanto all’azione governativa, quanto all’emigrazione, un fenomeno di cui il governo non poteva certo menar vanto. Il numero de-gli emigranti crebbe ogni anno (se si eccettuano i periodi di stasi temporanea della crisi economica del 1907-1908 e del-la guerra libica del 1911), e raggiunse nel 1913 la punta mas-sima di 873000 unità: nessun altro paese, tranne l’Irlanda, poteva vantare un esodo così imponente. Il contributo del Mezzogiorno alla corrente migratoria andò sempre aumen-tando e passò da un quarto del totale negli anni ’80 fino a quasi la metà tra il 1905 e il 1913. Questo spostamento dell’equilibrio mutò anche la natura del fenomeno: l’emigra-zione dall’Italia settentrionale e centrale era generalmente di carattere temporaneo, spesso solo stagionale, ed era orientata soprattutto verso i paesi dell’Europa settentrionale, mentre l’emigrazione dal Mezzogiorno aveva un carattere più duraturo, spesso permanente, ed era orientata verso le due Americhe. Dopo il 1898 gli Stati Uniti presero il posto del Brasile e dell’Argentina come destinazione preferita degli emigranti, e più di tre degli otto milioni di italiani che lascia-rono il paese tra il 1901 e il 1913 si recarono negli Stati Uniti. Anche nel caso degli emigranti oltreoceano, tuttavia, la per-centuale di quelli che non tornavano più andò diminuendo: su ogni 100 emigranti, ne tornarono 40 nel periodo 1897-1901 e 68 nel periodo 1911-1913. È stato calcolato che tra il 1862 e il 1913 abbandonarono definitivamente l’Italia quattro mi-lioni e mezzo di persone.L’esodo dal Sud era cominciato in Basilicata, Calabria e Campania negli anni ’80, e il movimento si era esteso subi-to dopo all’Abruzzo: alla svolta del secolo, il ruscello di-

Cristopher Seton-Watson, L’Italia meridionale all’inizio del Novecento33

Trenta e quella degli anni Settanta […]. 4. È stato il secolo della sfida sovvertitrice […] da parte di un modo di produ-zione diverso dall’economia di mercato e a questa avversa. La sfida è stata teorica e pratica, esterna e interna, pacifica e armata […]. È fallita nella forma del comunismo sovietico. È fallita nella concreta pratica economica […]. 5. È stato il secolo che ha visto succedersi tre diversi assetti nel potere economico mondiale: dalla pax britannica […], al dominio pieno ancorché contrastato degli USA, al ruolo […] da ulti-mo assunto dalla Germania e dal Giappone […]. 6. È stato il secolo di Keynes, quindi della politica economica […]. Pie-no impiego, stabilità dei prezzi, equilibrio esterno, concor-renza, trasparente funzionalità dei mercati – in una parola crescita dell’efficienza e delle regole – sono diventati obiettivi dello stato […]. 7. Nonostante le politiche volte a

vincere il sottosviluppo, fra le grandi aree economiche del globo vi è stata sostanziale invarianza delle po sizioni rela-tive, con America La tina, Asia e Africa agli ultimi posti […]. 8. A distanza di decenni dalla fine dell’imperialismo colo-niale […], la relazione Nord-Sud resta dubbia […]. È divisa fra almeno tre concezioni radicalmente diverse. La prima: il Nord […] sfrutta, sottosviluppa il Sud […]. La seconda: il Nord è occasione di progresso, che non sempre il Sud riesce a cogliere. La terza: il Sud minaccia l’economia del Nord […]. 9. L’economia di mercato, se erode le barriere alla mo-bilità sociale, stenta a ridurre le disuguaglianze interne non meno di quelle internazionali.

P. Ciocca, L’economia mondiale nel Novecento. Una sintesi, un dibattito, il Mulino, Bologna 1998

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venne una fiumana. La Sicilia contribuì al movimento mi-gratorio solo in un secondo tempo, ma dopo il 1904 diede ad esso il maggiore contributo. La Puglia fu la sola regione del Sud in cui il tasso di emigrazione fosse inferiore a quel-lo medio nazionale. L’emigrazione meridionale fu un feno-meno esclusivamente proletario, uno spontaneo gesto di protesta contro condizioni di vita insopportabili: cominciò nelle pianure e nelle zone costiere, dove i contatti con il mondo esterno erano più facili, e quindi si diffuse all’inter-no, raggiungendo le punte più alte nelle zone montane più isolate, dove la povertà era maggiore. Le città più grandi non diedero un grande contributo all’emi-grazione: alcuni emigranti erano artigiani, ma la stragrande

maggioranza erano contadini e braccianti. Coloro che pos-sedevano terra, o godevano di condizioni di maggiore stabi-lità sul fondo [sul podere che coltivavano, n.d.r.], erano i più riluttanti a partire. Quattro quinti degli emigranti erano maschi, soprattutto tra i 20 e i 50 anni, sicché nelle zone più isolate era possibile trovare villaggi abitati quasi esclu-sivamente da vecchi e da bambini: fu proprio questo dre-naggio di giovani energie verso terre straniere che colmò di indignazione i nazionalisti ed ispirò loro l’immagine di un’Italia proletaria.

C. Seton-Watson, L’Italia dal liberalismo al fascismo 1870-1925, Laterza, Bari 1973

La guerra pose a tutti gli Stati dei gravi problemi economici; la Germania, per esempio, dovette risolvere il problema della produzione in laboratorio dei materiali che non poteva più importare dall’estero. In Francia, invece, vennero elaborati nuovi sistemi per la produzione in serie di armamenti.

Fra i principali belligeranti, la Francia si trovò coinvolta in modo particolarmente drastico nelle prime settimane di

guerra. Le perdite iniziali furono molto pesanti e l’economia si avvicinò al collasso. La crisi della Francia venne resa più grave dal fatto che, con la stabilizzazione del fronte, la par-te del Paese che rimaneva al di là delle linee tedesche era particolarmente importante come fonte di ferro e carbone: il nerbo della costruzione di armi. Anche nelle fabbriche di ar-mamenti che erano rimaste ben al di qua delle linee francesi, la manodopera scarseggiava, dal momento che gli operai validi erano stati richiamati al pari degli altri [come tutti gli altri cittadini abili al servizio militare, n.d.r.]. Di conseguen-za, quando divenne chiaro che l’artiglieria avrebbe dovuto sparare una granata dopo l’altra attraverso la linea delle trincee in quantità fino a quel momento inimmaginabili, il ministro francese della Guerra concluse, già il 20 settembre del 1914, che sarebbe stato necessario congedare uomini dall’esercito per produrre le munizioni necessarie. In un pri-mo momento, regnò la confusione. Gli industriali vennero autorizzati a setacciare le stazioni ferroviarie e altri luoghi del genere in cerca di personale opportunamente qualifica-to. [...] Ma nel corso della guerra [...] la produzione francese di granate da 75 mm riuscì a soddisfare la domanda nel 1915, e raggiunse un livello di oltre 200000 unità al giorno: venti volte la produzione iniziale. In seguito, la conversione su nuovi tipi di armi (grandi pezzi da artiglieria da 155 mm e novità come aeroplani e carri armati) divenne più importante del semplice numero di granate. Anche in questo campo i francesi eguagliarono o superarono le possibilità delle altre

potenze, al punto che, quando la Forza di Spedizione Ameri-cana cominciò ad arrivare in Francia, un accordo sancì che la maggior parte dell’equipaggiamento pesante fosse fornito da officine e da arsenali francesi. Più della Gran Bretagna e molto più dell’America, la Francia divenne così l’arsenale della democrazia nella prima guerra mondiale. I tedeschi avevano un problema differente. [...] Dal momento dello scoppio della guerra, la Royal Navy [la marina da guerra inglese, n.d.r.] dichiarò il blocco delle coste tedesche e rese sempre più difficile l’accesso ai fornitori d’oltremare. [...] I tedeschi però riuscirono a reperire sostituti per molti prodot-ti. Per esempio, il rame fu rimpiazzato da altri metalli negli involucri delle granate; e, per quegli usi per i quali era inso-stituibile, il ricorso alle leghe e al trattamento elettrolitico consentì di utilizzare al massimo le quantità disponibili. Mi-gliaia di altri adattamenti nei procedimenti industriali pre-servarono le materie prime scarse, evitando crolli significa-tivi della produzione. Ma nulla poteva rimpiazzare i nitrati nella fabbricazione della polvere da sparo. I chimici sapeva-no già come trasformare l’azoto atmosferico in nitrati, ma il processo non era mai stato sperimentato su scala industria-le, dati gli alti costi che comportava. Dopo che nell’ottobre del 1914 lo stock iniziale di polvere da sparo della Germania si esaurì, la prosecuzione dei combattimenti dipese dalla produzione di nitrati da parte di impianti industriali creati completamente ex novo. In mancanza di questo, la guerra sarebbe velocemente giunta a termine, dal momento che era praticamente impossibile contrabbandare i nitrati del Cile attraverso il blocco britannico. Di conseguenza, per i primi due anni di guerra il ministro della Guerra accordò la piani-ficazione e regolò le dimensioni dello sforzo bellico naziona-le sulla base della quantità di polvere da sparo disponibile di mese in mese. Nel 1914, 1000 tonnellate al mese era il massimo che fu possibile produrre, mentre all’esercito ne occorrevano 7000 tonnellate per poter sparare liberamen-te. Nell’autunno del 1914 il ministero della Guerra fissò dap-prima un obiettivo di 3500 tonnellate al mese, per elevarlo a 4500 nel dicembre del 1914, quando svanirono definitiva-

William Hardy McNeill, La produzione industriale in Francia e in Germania durante la Grande guerra

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Il nazionalsocialismo trovò validi alleati nell’esercito e nella grande industria tedesca. Tuttavia, i rapporti di forza tra nazismo e complesso militar-industriale non furono sempre del medesimo tipo. Nei primi anni dopo la conquista del potere, borghesia e militari si trovavano in posizione di superiorità (tant’è vero che riuscirono a ottenere l’eliminazione delle SA); dal 1937, invece, l’orientamento complessivo della politica tedesca venne deciso solo da Hitler: fu lui, e non il complesso militar-industriale, a individuare i tempi e gli obiettivi della guerra mondiale.

Indiscutibilmente, l’alleanza tra la leadership nazista e il complesso militar-industriale, cementata dal riarmo e dal

programma espansionistico, rimase in piedi fino all’ultima fase del Terzo Reich, perché entrambi i partners si trovarono vincolati sempre più strettamente alla logica del corso di eventi che avevano messo in moto. Sembra nondimeno lecito sostenere che l’equilibrio dei rapporti di forza in seno a quest’alleanza andò spostandosi, gradatamente ma inesora-bilmente, in favore della leadership nazista, col risultato che nei momenti cruciali dello sviluppo del Terzo Reich le esigen-ze politiche e ideologiche dei capi nazisti svolsero un ruolo via più decisivo nel determinare le decisioni politiche. [...] Per comprendere questo processo [...] molto illuminante co-me concetto interpretativo è la nozione, formulata per primo da Franz Neumann, [...] del regime nazista come «alleanza» o «patto» non scritto tra blocchi diversi ma interdipendenti in seno a un «cartello del potere ». Questo cartello [insieme di forze, n.d.r.] era inizialmente una triade costituita dal blocco nazista (che includeva le varie componenti del movimento nazista), dalla «grande impresa» (inclusi i grandi proprietari terrieri) e dall’esercito. Quindi, a partire più o meno dal 1936, può dirsi che acquisisse un quar-to raggruppamento, perché il blocco nazista si scisse in due sezioni principali che avevano al centro rispettivamente l’or-ganizzazione del partito e il sempre più potente complesso SS-polizia-SD [SD era il Servizio di Sicurezza che, in origine, dipendeva dal partito, n.d.r.]. Quantunque i blocchi all’interno del «cartello del potere» mantenessero la loro fisionomia (e rimanessero interdipen-denti) fino alla fine del Terzo Reich, i loro rapporti reciproci e il peso specifico di ciascuno in seno al «cartello» mutarono

nel corso della dittatura. A grandi linee, il cambiamento av-venne nel senso di un aumento del potere del blocco nazista (e in particolare del complesso SS-polizia-SD), e di un corri-spondente indebolimento (che non raggiunse però mai il li-vello dell’irrilevanza o della completa sottomissione) delle posizioni relative della «grande impresa» e della leadership delle forze armate. [...] Un riarmo di dimensioni imponenti fu il principale catalizza-tore che assicurò la fusione dinamica degli interessi dell’eser-cito, dell’industria e della leadership nazista. Inizialmente, il mondo della «grande impresa» tedesca, diviso al suo inter-no, e che si proponeva obiettivi economici parzialmente con-traddittori, era lungi dall’essere uniformemente, o completa-mente, entusiasta riguardo all’idea di accordare una priorità assoluta al riarmo. Ma la liquidazione della sinistra [dei co-munisti, dei socialisti e dei sindacati, n.d.r.], la libertà d’azione concessa all’industria, la ristrutturazione delle rela-zioni industriali, e più in generale il nuovo clima politico, costituirono la base di un rapporto positivo tra il governo na-zista e la «grande impresa»: un rapporto poi cementato dallo stimolo che venne all’economia dal programma di creazione di posti di lavoro, e quindi, in misura crescente, dagli impo-nenti profitti generati dal boom degli armamenti. Quantunque fosse l’elemento più dinamico in seno al «cartel-lo di potere», nei primi anni della dittatura il blocco nazista, che non aveva il controllo diretto né della produzione econo-mica né della potenza militare, si trovò in una posizione rela-tivamente debole. La forza dei partners del nazismo si manifestò nelle pressioni che nel giugno 1934 condussero all’eliminazione della mi-naccia che le SA facevano gravare sull’ordine costituito. Inol-tre, le serie difficoltà economiche che il regime si trovò ad affrontare a metà del 1934, aggravate dalle ripercussioni all’estero delle misure antiebraiche, e in combinazione con una posizione diplomatica tuttora precaria, fecero sì che in questo periodo lo spazio di manovra del regime fosse pesan-temente limitato da fattori economici oltre che da fattori pro-priamente politici. [...] Il varo del Piano quadriennale, annunciato al congresso del partito nel settembre 1936 [...] accelerò la politica di riarmo e di autarchia [autosufficienza economica del paese, n.d.r.] in vista della guerra. Si trattò di una decisione in cui erano inestricabilmente mescolati la politica e l’economia, l’ideo-logia e l’interesse materiale. [...] La leadership nazista raf-forzò la sua posizione all’interno del «cartello di potere», e questo fece sì che le considerazioni ideologiche godessero di

Ian Kershaw, Politica ed economia nel Terzo Reich35

mente le prospettive di una sollecita vittoria. Nel febbraio del 1915 l’obiettivo fu portato a 6000 tonnellate al mese. La produzione di polvere da sparo rimase al di sotto di questi obiettivi, ma non di molto, dal momento che nel luglio del 1915 ne vennero effettivamente prodotte 6000 tonnellate. Il ministero della Guerra e l’industria tedesca potevano ben

andare fieri del risultato, anche se 6000 tonnellate di pol-vere da sparo al mese non erano ancora sufficienti a soddi-sfare una domanda sempre crescente.

W.H. McNeill, Caccia al potere. Tecnologia, armi, realtà sociale dall’anno Mille, Feltrinelli, Milano 1984

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una maggiore attenzione e di uno spazio più ampio nella for-mazione delle decisioni politiche. [...] «L’interesse dell’ideologia, quello della strategia e quello dell’economia continuavano a procedere di pari passo. Ma l’impeto andava progressivamente spostandosi verso una po-litica ad alto rischio, in cui era l’intrinseca e inarrestabile di-

namica della corsa agli armamenti (asservita all’espansioni-smo ideologico della leadership nazista) a delimitare lo spa-zio entro il quale l’interesse dell’economia poteva agire».

I. Kershaw, Che cos’è il nazismo? Problemi interpretativi e prospettive di ricerca, Bollati Boringhieri, Torino 1995

La politica del New Deal caratterizzò l’età di Franklin Delano Roosevelt (presidente negli anni 1932-1945), in particolare i suoi primi due mandati. I provvedimenti e le scelte del presidente americano ebbero successi, insuccessi e critiche, ma l’avvento del New Deal è considerato come il principio di una «nuova epoca».

Quando Franklin D. Roosevelt accettò la candidatura [alle elezioni presidenziali del 1932, n.d.r.] con le parole «una

nuova distribuzione delle carte per il popolo americano» (a new deal for the american people), la competizione elettorale ebbe il suo motto. Roosevelt vinse […]; assieme a lui, l’America urbana […] aveva vinto contro l’America rurale. I primi “cento giorni” furono caratterizzati da una quantità fino ad allora sco-nosciuta […] di provvedimenti legislativi […]. Essi includevano rigorosi controlli alle banche, progetti per la tutela del patri-monio naturale, per la realizzazione di parchi naturali e per la costruzione di dighe e ponti, nuovi incarichi amministrativi, cre-diti per l’acquisto della propria casa o della fattoria, misure di sostegno e di soccorso a livello locale così come piani di poten-ziamento della produzione energetica e di miglioramento della struttura economica nelle aree svantaggiate […]. I “cento gior-ni” non misero in luce nessun progetto organico e in qualche caso le misure adottate si rivelarono controproducenti. Eppure diffusero una nuova atmosfera e dimostrarono che si andava avanti e che si poteva tornare padroni del destino e del futuro se solo si teneva duro e si guardava in avanti […].Nel complesso, si trattava di una politica favorevole alle impre-se; sarebbero stati corretti soltanto i peggiori eccessi del siste-ma economico, ma il sistema in se stesso non sarebbe stato messo in discussione o riorganizzato da cima a fondo. In effetti al termine dei “cento giorni”, nell’estate del 1933, fu registrata una ripresa economica che tuttavia si rivelò un fuoco di paglia. Anche l’anno successivo gli indicatori economici risultarono per-lopiù sfavorevoli e il New Deal fu sottoposto a un fuoco incrocia-to di critiche […]. Il New Deal risultò più efficace in alcuni settori dell’agricoltura, infatti tra il 1933 e il 1937 le entrate dei far-

mers crebbero del 50 per cento. Tuttavia, coloro che non posse-devano terra, i lavoratori migranti e i fittavoli […] si trasferirono nelle città o nel West, diventando il simbolo della miseria della popolazione rurale americana negli anni Trenta. Ciò nonostante, il New Deal e Roosevelt continuarono ad avere il consenso di larga parte della popolazione […]. Peraltro, alle aspre critiche provenienti dall’area compresa tra i conservatori e i neofascisti [la traduzione del termine è impropria, poiché di neofascismo si può parlare solo dopo la fine del fascismo; “filofascisti”è qui il termine corretto, n.d.r.] […], ma anche dagli ambienti di sinistra […], Roosevelt […] rispose […] con un insieme di provvedimenti che sarebbero stati designati come il secondo New Deal. Già nel gennaio del 1935 egli annunciò riforme sociali su larga scala. Con l’aiuto di diversi provvedimenti, tra i quali la popolarissima Work Progress Administration, a milioni di americani giunsero aiuti statali diretti e ovunque nel paese fu incoraggiata la realiz-zazione di opere pubbliche per miliardi di dollari che, in confor-mità alle teorie di John Maynard Keynes, venne finanziata con il vistoso aumento del debito pubblico. Anche i piccoli farmers e i fittavoli furono aiutati e […] furono notevolmente ampliati i dirit-ti dei lavoratori e dei sindacati […]. Roosevelt si presentò con questo pacchetto di riforme sociali alle elezioni del 1936. Fu la più grande vittoria conseguita da un presidente americano dal 1820: a Roosevelt andò il 61 per cento dei voti […].A uno sguardo retrospettivo, l’entrata in carica di Roosevelt il 4 marzo 1933 corrisponde all’inizio di una nuova epoca. Tre le ragioni di questa cesura: 1. Franklin D. Roosevelt fu il primo presiden te americano a esercitare la carica con una nuova visione e nuovi obiettivi. Il ruolo predominante di capo dell’esecutivo previsto dalla Costituzione, al quale pochi suoi predecessori avevano adempiuto, fu da lui esercitato siste-maticamente […]. 2. Roosevelt seppe trasformare permanen-temente le strutture politiche del suo paese, dando al Partito democratico una nuova base elettorale, composta da operai, intellettuali e minoranze etniche […]. 3. Tra gli effetti della sua politica ci furono la ridefinizione del rapporto fra econo-mia e società e la fondazione dello stato sociale americano.

H. Dippel, Storia degli Stati Uniti, Carocci, Roma 2002

Horst Dippel, Il New Deal di Roosevelt36

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Leonardo Maugeri ricostruisce gli snodi fondamentali di quella che può essere defi nita la “storia del petrolio” tra la fi ne della seconda guerra mondiale e la metà degli anni Ottanta. Il periodo tra gli anni Cinquanta e Settanta, in cui la domanda mondiale di greggio quintuplicò, è caratterizzato dall’affermazione delle grandi compagnie e multinazionali del petrolio (le cosiddette “sette sorelle”), dall’ascesa, dal successo e dalla successiva crisi dei paesi dell’OPEC.

Il punto di svolta da cui prese avvio l’importanza globale del petrolio fu rappresentato dalla ricostruzione europea all’in-

domani del 1945 e dallo scoppio della guerra fredda […]. È in questo contesto che il petrolio assunse, nel volgere di pochi anni, un’importanza che mai nessun’altra materia prima ave-va avuto negli orientamenti strategici e di politica estera di un paese. Le scelte collegate al Piano Marshall costrinsero infatti gli Stati Uniti a individuare una fonte suppletiva di ap-provvigionamen to petrolifero per l’Europa che garantisse ri-fornimenti stabili alla regione.

Per dotazione di risorse il Medio Oriente apparve l’unica area in grado di svolgere quel ruolo […]. L’importanza strategica assun-ta dal petrolio […] dettava i princìpi di un interventismo politico-militare che avrebbe trovato applicazioni anche in altre regioni cruciali, in termini economici, per gli approvvigionamenti occi-dentali. Ma soprattutto, essa finiva per assegnare una missione di rilievo alle grandi multinazionali private del petrolio […]. La leggenda delle “Sette Sorelle” [le maggiori compagnie petrolifere del mondo, n.d.r.] nacque in seguito a una famosa indagine lanciata dal Dipartimento di Giustizia statunitense contro le principali compagnie petrolifere […] per sospetti di comportamenti oligopolistici […]. Le compagnie in questione erano (tra parentesi, il nome assunto nel corso della loro evoluzione): Standard Oil New Jersey (Exxon) – USA; Shell Group (Shell) – Gran Bretagna-Olanda; Anglo-Iranian Oil Company (British Petroleum - BP) – Gran Bretagna; Gulf Oil (Gulf) – USA; Texas Oil Company (Texaco) – USA; Standard Oil of California-Socal (Chevron) – USA; Socony Vacuum (Mobil) – USA […]. Libere da vincoli […] queste sette compa-gnie arrivarono a controllare – all’apogeo del loro dominio, nel ventennio compreso tra il 1950 e il 1970 – quasi l’80% delle riserve, della produzione e della capacità di raffinazio-ne esistente nel mondo al di fuori degli Stati Uniti, del Cana-

Leonardo Maugeri, Economia e petrolio38

Sulla base di alcuni dati quantitativi relativi ai diversi paesi in questione, emerge un quadro delle economie socialiste della seconda parte del XX secolo sospeso tra successi e fallimenti, in un costante paragone con le economie occidentali.

Sebbene la crescita della produzione nel periodo postbelli-co sia stata rapida nell’Europa orientale (e nel complesso

leggermente migliore di quella dell’Occidente), a prima vista non sembra che la pianificazione centralizzata abbia compor-tato grandi differenze per l’andamento dei paesi socialisti in confronto ai loro omologhi a libero mercato dell’Occidente. In parte, ciò può essere dovuto al fatto che […] la loro crescita è stata conseguente a un’eccessiva attenzione accordata ad alcuni settori come l’industria pesante e a una relativa tra-scuratezza di altri settori dell’economia, senza soffermarsi troppo sui miglioramenti di efficienza nell’impiego delle ri-sorse. Inoltre, dato lo stato di arretratezza di questi paesi e la più lenta ripresa dalla guerra in confronto ai paesi occidenta-li, negli anni successivi ci si sarebbe potuti attendere un an-damento molto sostenuto. Nel 1950 la maggior parte delle economie occidentali aveva già superato i livelli prebellici, mentre l’Europa orientale nel suo complesso era a malapena riuscita a recuperare le proprie posizioni dell’anteguerra. In altre parole, le differenze nei livelli di reddito tra Oriente e

Occidente erano nel 1950 anche maggiori di quanto non fos-sero nel 1938, cosicché i paesi socialisti avevano di fronte un durissimo compito, se volevano avvicinarsi ai livelli di vita dei loro vicini capitalisti […].Com’era prevedibile, dato l’impegno ideologico di questi pae-si, si sono avuti consistenti squilibri settoriali nei tassi di espansione. La priorità fu accordata all’industria e special-mente al settore pesante comprendente la produzione di beni durevoli, cosicché i tassi di crescita dei diversi settori dell’eco-nomia hanno presentato disparità più marcate che non in Oc-cidente. La produzione industriale dell’Europa orientale nel suo complesso crebbe dunque nel periodo 1950-1970 di poco più del 10% l’anno; Bulgaria, Romania e Unione Sovietica hanno fatto segnare incrementi superiori a questa media. L’agricoltura invece, in basso nella scala di priorità, ha avuto un’espansione di appena il 3% l’anno e la Cecoslovacchia ha di fatto registrato una leggera diminuzione della produzione di questo settore. Il settore agricolo si è anzi dimostrato in gene-rale una persistente zona d’ombra […]. Occorse un decennio o più perché la produzione agricola dell’Oriente superasse i li-velli prebellici, contro un incremento del 50% in Occidente, mentre all’inizio degli anni Sessanta i paesi più sviluppati co-me la Germania Orientale e la Cecoslovacchia erano ancora al di sotto dei livelli prebellici.

D.H. Aldcroft, L’economia europea dal 1914 a oggi, Laterza, Roma-Bari 1990, pp. 253-257

Derek H. Aldcroft, Realtà e squilibri nelle economie socialiste37

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da e dei paesi a economia pianificata […]. Furono queste compagnie, in sostanza, a determinare i prezzi internazionali del petrolio fino ai primi anni Settanta […]. Tra il 1950 e il 1970, sotto l’egida delle “Sette Sorelle”, si compì […] la più spettacolare fase di penetrazione del petrolio nell’economia mondiale: in appena vent’anni, la domanda globale di petro-lio quasi quintuplicò […]. Nei primi anni Settanta, iniziò a emergere con chiarezza che l’espansione postbellica del pe-trolio, basata su prezzi bassi e una continua crescita dell’of-ferta, riposava ormai in modo sempre più stringente sul Medio Oriente […]. L’OPEC [associazione di paesi produttori, n.d.r.] cominciò ad assumere la forza contrattuale che aveva vana-

mente cercato negli anni precedenti […]. I paesi del Medio Oriente avviarono una competizione – spesso alimentata da rivalità reciproche – per dettare alle compagnie nuove condi-zioni contrattuali e una revisione del sistema dei prezzi. L’era dell’oligopolio dell’OPEC fu più breve e più drammatica di quella che aveva visto per protagoniste le “Sette Sorelle”. All’acme della loro influenza, i paesi produttori dell’Organiz-zazione arrivarono a controllare circa il 55% della produzio-ne mondiale di greggio (1973-1974), mantenendosi stabil-mente sopra il 50% per tutti gli anni Settanta.

L. Maugeri, Petrolio, Sperling & Kupfer, Milano 2001

La contrapposizione tra Nord e Sud del mondo determina una realtà di grandi squilibri destinati ad acuirsi, a fronte della quale, tuttavia, i paesi ricchi tendono «ad atteggiamenti di ripiegamento difensivo; a chiudersi, in breve, in una fortezza del benessere, pur sapendo che per la loro dimensione i problemi non potranno trovare soluzioni al suo interno».

Pesa sullo sviluppo mondiale ed è quindi […] causa di re-cessione l’aprirsi, ormai inevitabile dopo la caduta dei

regimi comunisti, di un contenzioso Nord-Sud le cui forme […] potrebbero sfociare in scontri cruenti nelle aree più in-stabili del globo. Inoltre le pesanti politiche di aggiustamen-to imposte dal FMI e dalla Banca mondiale innescano o raf-forzano quei “fondamentalismi” ed “integrismi” che sono considerati come la principale minaccia alla sicurezza mon-diale […]. Lo scenario politico in cui si colloca il problema del debito e quindi gli strumenti politici per una sua soluzio-ne sembrano molto remoti e poco credibili, malgrado esso sia oggi al centro del più grave squilibrio della scena mon-diale negli ultimi decenni. Il Nord del mondo […] sembra […] scarsamente impegnato nello sforzo di cooperazione almeno con l’ordine di priorità politica che merita […]. Ma se il Nord

non è pronto ad affrontare con la necessaria determinazione questo aspetto essenziale dello scenario mondiale, anche le élites dirigenti del Sud sembrano lontane dall’esercitare quel ruolo di elaborazione e di rivendicazione politica ed economica che sarebbe necessario […]. C’è infine da affron-tare il nodo […] delle burocrazie internazionali […]. Al cre-scere dell’importanza della dimensione internazionale dei problemi economici, sociali e politici non ha corrisposto una crescita altrettanto celere di istituzioni internazionali demo-cratiche e non è cresciuta una cultura al loro interno che portasse le dirigenze ad assumersi […] la responsabilità del-la loro funzione internazionale […].Si delinea perciò uno scenario inquietante […]. Tutti conven-gono che la vera frontiera calda a livello mondiale passa fra paesi ricchi e paesi poveri, ma la situazione di stallo che si è determinata, la mancanza di qualunque ipotesi credibile, an-che a lungo termine, di attenuazione del contenzioso, anzi la certezza del suo aggravarsi per ragioni economiche […], so-ciali […] e politiche […], por ta ad atteggiamenti di ripiega-mento difensivo; a chiudersi, in breve, in una fortezza del benessere, pur sapendo che per la loro dimensione i problemi non potranno trovare soluzioni al suo interno.

M. Sepi, Prefazione, in S. George, Il boomerang del debito, Edizioni Lavoro, Roma 1992

Mario Sepi, Nord e Sud del mondo, cooperazione e debito39

A partire dal momento della conquista spagnola, l’America Latina svolse sempre il ruolo di periferia delle regioni capitalistiche di volta in volta più avanzate. Nel Novecento, dopo la prima guerra mondiale, al controllo inglese si è sostituito quello statunitense.

Paesi specializzati nel guadagnare e paesi specializzati nel rimetterci: ecco il significato della divisione internaziona-

le del lavoro. La nostra regione del mondo, quella che chia-miamo America Latina, è stata precoce: si è specializzata nel rimetterci fin dai lontani tempi in cui gli europei del Rinasci-mento si sono lanciati attraverso i mari per azzannarle la gola. Sono passati i secoli e l’America Latina ha perfezionato il suo ruolo. Questo non è ormai più il paese delle meraviglie in cui la realtà sconfiggeva la favola e la fantasia veniva umi-liata dai trofei della conquista, dai giacimenti d’oro e dalle montagne d’argento. Ma la regione continua a fare da serva. Continua a vivere al servizio delle necessità altrui, come fon-te e riserva di petrolio e di ferro, di rame e di carne, di frutta

Eduardo Galeano, Lo sfruttamento economico dell’America Latina40

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Lo sviluppo economico dello Stato del Sol Levante tra il dopoguerra e gli anni Settanta è caratterizzato da diverse fasi, scandite dai piani di programmazione: «dal 1965 il successo economico fu pressoché inarrestabile, appena incrinato dalla crisi petrolifera del 1973», e si protrasse perlomeno fi no agli anni Novanta.

Nel trentennio che si snoda tra la fine della guerra e il 1975, anno della seconda crisi petrolifera, l’economia giapponese

ebbe varie fasi di sviluppo […]. La ripresa fu assai lenta e proble-matica fino al 1949-1950, per trarre poi giovamento dall’appli-cazione del “piano Dodge” e dalle forniture per la guerra di Co-rea. Sostanzialmente, verso la metà degli anni Cinquanta, il Giappone ritornò ai livelli economici prebellici. Nel decennio suc-cessivo si registrarono ancora difficoltà, ma dal 1965 il successo economico fu pressoché inarrestabile, appena incrinato dalla

crisi petrolifera del 1973 e protrattosi fino agli anni Novanta, quando scoppiò la “bolla economica” (baburu economi dall’in-glese bubble economy). L’azione dei governi conservatori e, so-prattutto, l’efficienza della burocrazia giapponese, il cui potere nel processo di decisione politica rimase assai rilevante, permi-sero interventi razionali e decisivi da parte dello Stato. Nella ri-costruzione e nella successiva scalata ai vertici dell’economia mondiale, fu determinante il ruolo svolto soprattutto dai funzio-nari dei ministeri dell’Industria e del commercio estero (miti), delle Finanze, delle Costruzioni e dell’Agenzia per la Program-mazione Economica. Il governo giapponese, dal 1955, iniziò la prassi di approvare i programmi economici elaborati dall’ammi-nistrazione centrale in accordo con le potenti associazioni im-prenditoriali […]. Ogni programma ha durata quinquennale, ma in molti casi venne superato dagli eventi e, quindi, sostituito da un nuovo programma. Nel periodo 1955-75, furono elaborati dalla burocrazia e approvati dai governi giapponesi sette Pro-grammi, con i seguenti obiettivi economici: 1955 Indipendenza economica, pieno impiego. 1957 Crescita massima; migliora-

Francesco Gatti, Il modello economico giapponese41

e caffè: materie prime e alimentari destinate ai paesi ricchi che guadagnano, consumandole, molto di più di quanto l’America Latina guadagni producendole. [...] L’America La-tina è la regione dalle vene aperte. Dalla scoperta ai giorni nostri, tutto si è trasformato sempre in capitale europeo o, più tardi, nordamericano. E, come tale, si è accumulato e si accumula in lontani centri di potere. Tutto: la terra, i suoi frutti e le sue viscere ricche di minerali, gli uomini e le loro capacità di lavoro e di consumo, le risorse naturali e le risor-se umane. Il modo di produzione e la struttura delle classi di ogni nostra regione sono state via via determinate dall’ester-no, in base al loro inserimento nell’ingranaggio universale del capitalismo. Si è assegnato a ognuno una funzione, sem-pre a vantaggio dello sviluppo della metropoli straniera di turno; e si è resa infinita la catena di dipendenze successive, catena che ha molto più di due anelli e che comprende anche – all’interno dell’America Latina – l’oppressione esercitata sui piccoli paesi dai loro vicini più grandi e – frontiere all’in-terno di ciascun paese – lo sfruttamento esercitato dalle grandi città e dai porti sulle loro fonti interne di viveri e di manodopera (Quattro secoli fa erano già sorte diciassette delle venti città latinoamericane oggi più popolate).Per quanti concepiscono la storia come una competizione, l’arretratezza e la miseria dell’America Latina sono soltanto il risultato di un fallimento. Abbiamo perso: altri hanno vinto. Ma sta di fatto che chi ha vinto, ha vinto perché noi abbiamo perso: la storia del sottosviluppo dell’America Latina è parte integrante, come abbiamo già detto, della storia dello svilup-po del capitalismo mondiale. La nostra sconfitta è stata sem-pre implicita nella vittoria degli altri; la nostra ricchezza ha sempre generato la nostra povertà per accrescere la prospe-rità degli altri: gli imperi e i loro caporali locali. [...] La piog-gia che irriga i centri del potere imperialistico affoga le vaste periferie del sistema. Nello stesso modo, e parallelamente, il

benessere delle nostre classi dominanti – dominanti all’in-terno e dominate dall’estero – è la maledizione delle nostre masse condannate a vivere come bestie da soma. [...]La forza del sistema imperialistico nel suo complesso si basa sulla necessaria disuguaglianza delle parti che lo formano, e questa disuguaglianza assume una dimensione sempre più drammatica. I paesi oppressori si fanno sempre più ricchi in termini assoluti; ma anche, e ancor di più, in termini relativi, in virtù della dinamica della disuguaglianza crescente. Il ca-pitalismo centrale può concedersi il lusso di costruire propri miti di opulenza, e di crederci: ma i miti non si mangiano, come sanno fin troppo bene i paesi poveri che costituiscono il vasto capitalismo periferico. Il reddito medio di un cittadino nordamericano è [l’autore scrive nel 1970, n.d.r.] sette volte maggiore di quello di un cittadino latinoamericano, e aumen-ta a un ritmo dieci volte più intenso. E le medie ingannano, per gli inesplorati abissi che si spalancano, al sud del Rio Bravo [il fiume che segna il confine fra gli USA e il Messico; è chiamato anche Rio Grande, n.d.r.] tra i moltissimi poveri e i pochi ricchi della regione. Infatti, sei milioni di latinoameri-cani alla sommità della piramide sociale accaparrano – se-condo le Nazioni Unite – lo stesso reddito di centoquaranta milioni di persone che ne sono alla base. [...]La popolazione dell’America Latina aumenta più di ogni altra: in mezzo secolo è abbondantemente triplicata. Ogni minuto muore un bambino di malaria o di fame; ma nel 2000 ci saran-no 650 milioni di latinoamericani, la metà dei quali avrà meno di quindici anni: una bomba a orologeria. [...] Ostinatamente i bambini latinoamericani continuano a nascere, rivendicando il loro diritto naturale a un posto al sole in queste terre splendide che potrebbero offrire a tutti ciò che negano quasi a tutti.

E. Galeano, Il saccheggio dell’America Latina ieri e oggi, Einaudi, Torino 1976

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Il cosiddetto processo di “globalizzazione” presenta un intreccio contraddittorio di molteplici elementi economici, culturali, geografi ci, storici, sociali: la convinzione è che sia «cominciato a emergere un mondo nuovo che non si lascia più interpretare dalle categorie del passato».

I cambiamenti emersi negli ultimi anni del XX secolo hanno […] rilevanti conseguenze sociali, culturali e politiche che rendono

società e Stati sempre più collegati e interdipendenti, senza però che si producano necessariamente nuove forme di leadership a livello mondiale. La globalizzazione si presenta non solo come un processo diverso dall’internazionalizzazione ma talvolta an-che in contrasto con questo: si tratta infatti di una tendenza qua-litativamente diversa di integrazione asimmetrica, parziale e selettiva tra aree differenti del mondo. C’è accordo […] nel rico-noscere una serie di conseguenze della globalizzazione, come la spinta a organizzare le attività economiche su scala mondiale, la crescente importanza della contiguità temporale rispetto alla prossimità spaziale, cui si accompagna l’indebolimento e la ride-finizione dei confini. Sono note le questioni che la globalizzazio-ne pone agli Stati, come condizionamenti delle imprese multina-zionali o transnazionali sui Governi, difficoltà di intervenire sui flussi migratori legati a nuove dinamiche del mercato del lavoro, problemi per i regimi autoritari nel controllare la circolazione delle informazioni, difficoltà di convivenza fra persone di culture diverse: la moltiplicazione delle relazioni economiche ha coinci-so con la frammentazione delle istituzioni politiche e lo sconvol-gimento delle omogeneità culturali […]. È persino possibile par-lare di distanze (non geografiche ma sociali) che aumentano in-vece di diminuire […]: chi compra le azioni di una società può ri-siedere in un punto qualunque del mondo, nella sua ottica le di-

stanze sono effettivamente annullate. Al contrario, per chi lavora in modo subordinato […] le distanze dai centri decisionali conta-no invece moltissimo e diventano praticamente insuperabili […]. Caduta l’opposizione tradizionale tra centro e periferia se n’è creata un’altra tra aree privilegiate e aree emarginate, in cui l’orizzonte fisico della località coincide con una condizione so-ciale di predominio o di dipendenza: in un mondo globalizzato, restare totalmente interni a un orizzonte locale implica una radi-cale subordinazione a chi è “padrone” degli spazi […]. È para-dossalmente aumentato il senso di una frammentazione dell’umanità in tante identità diverse, spesso in conflitto tra loro e mentre hanno perso vigore tradizionali strumenti di mediazione come la politica […]. Nella globalizzazione, gli ostacoli rappre-sentati dalla lontananza nello spazio sono diventati meno decisi-vi per lo sviluppo di relazioni economiche, ma la condivisione di uno stesso territorio ha perso la sua tradizionale capacità di fa-vorire la coesione sociale. Mass media e internet hanno reso più prossime realtà lontane, introducendo però anche inedite distan-ze tra chi è più vicino. L’espansione di un mercato unico interna-zionale ha paradossalmente esasperato la sensibilità verso le differenze, la crescita dei legami di interdipendenza a livello mondiale ha accentuato le spinte verso la località, nuovi feno-meni economici hanno innestato dinamiche conflittuali tra le di-verse identità culturali, il declino degli Stati nazionali ha alimen-tato la crescita di tensioni etniche. Intanto, la modernizzazione è entrata in conflitto con l’idea di progresso, la diffusione di mo-delli di benessere generalizzato ha sorprendentemente suscitato rimpianto delle tradizioni, l’estensione a molti paesi di istituzioni democratiche è coincisa con una minor fiducia nella democrazia. È, insomma, cominciato a emergere un mondo nuovo che non si lascia più interpretare dalle categorie del passato.

A. Giovagnoli, Storia e globalizzazione, Laterza, Roma-Bari 2003

mento dello standard di vita, pieno impiego. 1960 Massima sta-bilità dello sviluppo per il pieno impiego e un migliore standard di vita. 1965 Correzione delle distorsioni. 1966 Sviluppo per un’economia e una società equilibrate. 1970 Costruire un Giap-pone vivibile attraverso uno sviluppo economico equilibrato. 1973 Immediata realizzazione di un migliore benessere naziona-le e promozione della cooperazione internazionale […].La dinamicità del commercio internazionale ricevette un grande impulso dall’adesione del Giappone al General Agreement on Tariffes and Trade (GATT, Accordo generale sulle tariffe e il commercio) nel 1955. Inoltre, gli scambi del Giappone con i mer-cati di tutto il mondo furono favoriti dall’attività delle sogo sho-sha, società commerciali internazionali. Le sogo shosha si avval-sero della loro provata esperienza […] e della profonda cono-scenza della domanda internazionale per svolgere un ruolo es-senziale di penetrazione dei prodotti giapponesi sui mercati e di transazione per gli acquisti. Le loro competenze riguardano, an-cora oggi, il reperimento di materie prime a prezzi concorrenzia-li, il trasporto dei prodotti, il finanziamento delle attività com-

merciali, la distribuzione e la pubblicità dei prodotti di importa-zione per invogliare i consumatori all’interno del Paese […]. Dal punto di vista strettamente economico, inoltre, la “invasione” dei prodotti giapponesi sui mercati internazionali fu favorita dal-la sottostima del tasso di cambio dello yen con il dollaro […]. Fino al 1965, la popolazione fu sottoposta a gravi sacrifici. In-nanzitutto i livelli salariali degli operai e degli impiegati furono mantenuti bassi. Inoltre […] gli addetti alle piccole e medie im-prese, che costituiscono la maggioranza dei lavoratori industria-li, fruirono di redditi notevolmente inferiori. Pertanto, sino alla metà degli anni Sessanta, i consumi interni furono molto conte-nuti. Nel 1957, soltanto l’otto per cento delle famiglie possedeva il televisore in bianco e nero, il 2 per cento il frigorifero, il 20 per cento la lavatrice. I consumi interni crebbero con rapidità dal 1965, periodo in cui i salari (contrariamente a quanto si è ritenu-to a lungo in Occidente) iniziarono ad aumentare.

F. Gatti, La fabbrica dei samurai. Il Giappone nel Novecento, Paravia, Torino 2000

Agostino Giovagnoli, Globalizzazione e mutamenti42

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Secondo il giudizio concorde degli economisti, lo sviluppo della Cina non è un fenomeno passeggero. Inoltre, siamo di fronte all’emergere di una potenza di dimensioni e forza eccezionali.

Economisti ed editorialisti spesso descrivono la crescita della Cina come un ulteriore caso di economia emergente

in fase di decollo, che è stata preceduta dal Giappone e dalle tigri asiatiche (Corea del Sud, Singapore, Taiwan e Hong Kong) e che sarà seguita tra breve dall’India. Invece, tutto sipuò dire, tranne questo, perché l’ascesa della Cina ha molte più cose in comune con quella degli Stati Uniti di un secolo fa che non con il progresso dei suoi predecessori e successori contemporanei. Ciò a cui stiamo assistendo è la crescita pro-lungata e impressionante di una futura potenza mondiale, con un’ampiezza di risorse senza pari, grandi ambizioni, forti posizioni negoziali e i mezzi tecnologici e finanziari di una diaspora [l’insieme dei cinesi sparsi in tutto il mondo, n.d.r.] dotata di solide posizioni e abilità negli affari. L’influenza di una Cina in ascesa sui paesi di tutto il mondo – quelli svilup-pati come quelli in via di sviluppo – sarà enorme, come enor-me sarà la necessità di elaborare strategie e risposte adatte per affrontarne la sfida. […]Il disordine causato dall’avanzata della Cina non è né ciclico né temporaneo, ma rappresenta una ricostruzione dalle fon-damenta del sistema economico globale e un riposizionamen-to delle sue componenti chiave. Presto dovremo fare i conti con la comparsa di un nuovo contesto per gli affari, con nuove regole di base per la competizione, nuove condizioni di lavoro e modelli innovativi di consumo: un nuovo clima che ridisegne-rà i fronti di lotta in ambito politico, economico e sociale, un nuovo ambiente che porterà sfide inedite fin sull’uscio delle nazioni, delle imprese, degli individui. Se si calcolano i dati in base ai differenziali di potere d’acquisto, la Cina è già la se-conda economia mondiale. Con un tasso di crescita più elevato di quello di qualsiasi altro grande paese, è su una rotta che le consentirà di sorpassare gli Stati Uniti come prima economia mondiale nel giro di due decenni. Alcuni economisti non danno credito ai dati sulla crescita della Cina, perché li ritengono esagerati, ma anche se si abbassasse di un punto, come sug-geriscono, il tasso di crescita del prodotto interno lordo (dall’8 al 7%), si accrediterebbe comunque la Cina del tasso di crescita più rapido (e sostenibile) sia tra i paesi sviluppati sia tra quelli in via di sviluppo. Altri osservatori, basandosi su indizi come il consumo di energia, suggeriscono invece che il tasso di crescita della Cina sia in effetti più elevato di quello

suggerito dalle statistiche ufficiali. È vero che l’economia ci-nese si trova di fronte ad alcuni seri ostacoli, come un sistema bancario che si sta sgretolando, un terziario inefficiente e una componente significativa della popolazione priva di diritti, ma questi ostacoli sembrano al massimo in grado di frenare, non di arrestare la marcia economica cinese.In molti settori, specialmente quelli labour intensive [quelli nei quali il costo del lavoro, cioè il salario degli operai, rap-presenta una porzione significativa dei costi totali, n.d.r.], la Cina è sin d’ora la protagonista globale. Dagli impianti indu-striali situati in Cina esce il 70% dell’intera produzione mon-diale di giocattoli, il 60% di quella di biciclette, la metà di quella di scarpe e un terzo di quella di valigeria. In queste categorie commerciali sugli scaffali dei negozi spesso è im-possibile trovare qualcosa che non sia stato prodotto in Cina. In alcune altre categorie commerciali, come il tessile e il ve-stiario, la quota di mercato cinese è stata limitata da mura-glie di quote e tariffe la cui eliminazione è stata programma-ta dopo l’ingresso del paese nell’Organizzazione mondiale del commercio (la WTO) e l’eliminazione delle limitazioni al commercio internazionale. La Cina, tuttavia, non è soddisfat-ta di restare confinata nel ruolo di produttore low-tech [di basso livello tecnologico, n.d.r.] e labour intensive. È già at-tiva in aree nelle quali la tecnologia svolge un ruolo impor-tante e il lavoro non costituisce il fattore di costo dominante: il paese costruisce metà dei forni a microonde mondiali, un terzo delle televisioni e dei condizionatori d’aria, un quarto delle lavatrici e un quinto dei frigoriferi, e questi prodotti rap-presentano il segmento a crescita più elevata delle sue esportazioni. Inoltre la competitività dei produttori di altre nazioni dipende in modo crescente dalla componentistica o da assemblatori cinesi. A differenza del Giappone o della Corea, la Cina non lascerà perdere il settore labour intensive mentre si eleva nella scala delle nazioni. Al contrario, farà leva sul proprio predominio nei settori labour intensive e a medie tecnologie per finanzia-re un balzo significativo nelle aree knowledge intensive [quei settori nei quali la ricerca scientifica rappresenta la porzione più significativa dei costi totali, n.d.r.] che in futuro guide-ranno l’economia mondiale. È questa spinta combinata che catapulterà la Cina nella schiera delle principali potenze economiche, ed è questa combinazione che porrà sfide senza precedenti ai suoi con-correnti globali.

O. Shenkar, Il secolo della Cina. L’impatto della crescita cinese sull’economia globale, gli equilibri planetari, il lavoro,

«Il Sole 24ore», Milano 2005

Oded Shenkar, La Cina nell’economia globale43

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Storia e società

La società ha inizio a partire da due individui, quando il rapporto tra questi individui modifica il loro comportamento.

Jean Piaget

L’antropologo rispetta la storia, pur non assegnandole il valore che le spetta. Infatti la ritiene uno studio complementare a se stesso: da una parte spiega il susseguirsi delle società umane nel tempo, dall’altra nello spazio.

Claude Lévi Strauss

La mia definizione di una società libera è che essa è una società dove si è al sicuro anche se si è impopolari.

Adlai Ewing Stevenson

L’ordine non è una pressione imposta alla società dal di fuori, ma un equilibrio instaurato dal di dentro.

José Ortega Y Gasset

Una definizione generale della civiltà: una società civile si adorna delle cinque qualità di verità,

bellezza, avventura, arte, pace.Alfred North Whitehead

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D O C U M E N T I

Ulrich von Hutten, Le gioie della vita di castelloLe rivolte non furono esclusive dei ceti più umili; un caso particolare è quello della cosiddetta rivolta dei Cavalieri, capeggiata da Sickingen e Von Hutten. In una lettera del 1518 inviata a un patrizio di Norimberga, Von Hutten descrive la vita di un piccolo nobile tedesco di campagna, con tutte le frustrazioni economiche, sociali, ma anche culturali che questa comportava, e che ben introducono a una comprensione delle ragioni della rivolta della stessa piccola nobiltà.

Si passa la vita sui campi, nei boschi e nei castelli di montagna che si conoscono. A darci nutrimento sono dei contadini miserabili a cui abbiamo affittato campi, vigne, prati e boschi. Il guadagno ricavato è insignificante

rispetto alle energie investite; ci si preoccupa e ci si tormenta per diventare grandi e potenti, anche perché, una volta divenuti padri di famiglia, dovremo imparare a essere molto cauti.Di conseguenza dobbiamo metterci al servizio di un qualche principe dal quale ci attendiamo protezione. Se non lo facessi chiunque potrebbe credersi in diritto di farmi ogni tipo d’affronto. Se però lo faccio mi lego in nome di questa speranza ogni giorno al pericolo e alla paura. Se infatti esco di casa devo aver timore di imbattermi in qual-cuno contro cui il principe, per quanto potente possa essere, ha iniziato guerre o faide e che a causa sua potrebbe-ro aggredirmi e sequestrarmi. Se allora ho sfortuna posso anche perdere la metà del mio patrimonio nel pagamen-to del riscatto così che proprio là dove mi aspettavo protezione subisco invece un’attentato. Per questo dunque ci muniamo di armi e cavalli e ci circondiamo di un folto seguito, sostenendo quindi delle spese cospicue e gravose. Inoltre non possiamo rischiare d’allontanarci neanche per mezzo miglio senza un’arma addosso, né tantomeno possiamo visitare disarmati un villaggio o andare a caccia e a pesca senza i nostri ferri. Spesso accade poi che na-scano discordie fra i fattori degli altri e quelli nostri; non passa giorno senza che ci si venga a riferire di qualche litigio che poi dobbiamo cercare di appianare nel modo migliore. E infatti se volessi insistere a dire la mia o a voler punire ad ogni costo un’ingiustizia, sarebbe subito guerra. Se d’altronde mi dovessi mostrare troppo accondiscen-dente, fin forse a sacrificare qualcosa di mio, mi metterei subito alla mercé degli altri e di ogni violazione, visto che ognuno pretenderebbe la stessa ricompensa per lo stesso sopruso commesso. E sai chi sono poi le persone fra cui succede tutto questo? Non si tratta di estranei, amico mio, no, ma di vicini, parenti, congiunti e persino fratelli. Queste sono le nostre gioie agresti, questi i nostri ozi e questa la nostra pace!Il castello stesso, sia che si trovi in montagna che in pianura, non è costruito per essere una piacevole dimora ben-sì una vera fortezza. È circondato da mura e fossati, all’interno è angusto e stretto fra le stalle per i cavalli e per il bestiame, accanto alle quali si aprono bui depositi ricolmi di cannoni, pece, zolfo e ogni genere di accessorio per armi e strumenti di guerra; e dappertutto puzzo di polvere da sparo, a cui si aggiungono anche i cani ed i loro escrementi, veramente – bisogna pur dirlo – un profumo delizioso! Cavalieri vanno e vengono e tra loro ladroni, briganti e banditi. Quasi tutti infatti trovano aperte le nostre porte, anche perché è difficile sapere chi è la gente che entra, e forse neanche ce ne curiamo abbastanza. Si sentono le pecore belare, le mucche muggire, i cani che abbaia-no, i lavoratori che si chiamano l’un l’altro nei campi, i carri che scricchiolano e corrono via rumorosamente; addi-rittura l’ululato dei lupi si può sentire dalla nostra casa, tanto è vicina ai boschi.A cominciare dal mattino ogni giorno non porta altro che preoccupazioni e grattacapi, continua agitazione ed una attività senza soste. I campi si devono arare e vangare, le vigne coltivare, gli alberi piantare, i prati innaffiare; biso-gna erpicare, seminare, concimare, mietere e trebbiare; ora c’è da raccogliere il grano ora l’uva. Se poi viene un’an-nata cattiva per le colture, ed accade di frequente in queste zone magre, siamo subito alla povertà e alla fame nera; e allora non c’è più un momento di pace, tra intrighi e preoccupazioni logoranti. E proprio a questa vita mi richia-mi tu dalla disonorevole vita di corte, come se fosse adatta allo studio!».

in A. Borst, Forme di vita nel Medioevo, Guida, Napoli 1988

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Giovanni Boccaccio, I pericoli della quotidianitàIn una novella del Decameron (Andreuccio da Perugia, II, 5) Giovanni Boccaccio descrive le disavventure di Andreuccio a Napoli. La storia prende le mosse da una sfortunata uscita notturna per soddisfare i bisogni corporali: Boccaccio si trova a descrivere in maniera dettagliata uno dei sistemi più diffusi nelle città italiane per smaltire liquami d’ogni sorta e per dare sfogo alle latrine. Il quadro che ne risulta è quello di vicoli maleodoranti, dove, specie d’estate, insetti e animali proliferavano, allestendo comodi vivai per ogni sorta di infezione. Il mantenimento di un minimo di controllo sull’igiene pubblica fu uno degli obiettivi più ambiti dalle autorità cittadine; tra velleità e fallimenti si apriva comunque la via verso una politica di gestione e tutela dell’ambiente.

Era il caldo grande; per la qual cosa Andreuccio, veggendosi solo rimaso, subitamente si spogliò in farsetto e trassesi i panni di gamba, e al capo del letto gli si pose; e richiedendo il natural uso di dover diporre il superfuo

peso del ventre, dove ciò si facesse domandò quel fanciullo, il quale nell’uno de’ canti della camera gli mostrò un uscio, e disse: «Andate là entro». Andreuccio dentro sicuramente passato, gli venne per ventura posto il piè sopra una tavola, la quale dalla contrapposta parte sconfitta dal travicello sopra il quale era, per la qual cosa capolevando questa tavola, con lui insieme se n’andò quindi giuso: e di tanto l’amò Iddio, che niuno male si fece nella caduta, quantunque alquanto cadesse da alto; ma tutto della bruttura, della quale il luogo era pieno, s’imbrattò. Il qual luogo, acciò che meglio intendiate e quello che è detto e ciò che segue, come stesse vi mosterrò. Egli era in un chiassetto stretto, come spesso tra due case veggiamo, sopra due travicelli, tra l’una casa e l’altra posti, alcune ta-vole confitte e il luogo da seder posto; delle quali tavole quella che con lui cadde era l’una.

G. Boccaccio, Decameron, II, 5

Poggio Bracciolini, Le terme di BadenIl Medioevo non ignora la tradizione del bagno pubblico, anche se non nella monumentale dimensione che essa assumeva nel mondo romano. Nel 1414, durante la sua permanenza a Costanza in occasione del Concilio, Poggio Bracciolini descrive le terme di Baden, cittadina tedesca dove il segretario fiorentino ritrova qualche elemento di classicità; allo stesso tempo, egli sa cogliere gli aspetti di divisione dei ceti e di commistione dei sessi, che nella frequentazione dei bagni aveva luogo. La stessa promiscuità, caratteristica della mutata concezione medievale dei confini tra pubblico e privato, incomincia a essere osservata con distacco e ironia dall’umanista.

Si trova poi la città di Baden, che in tedesco vuol dire bagno, abbastanza prospera, situata in una valle circonda-ta di monti, su un grosso fiume di rapidissima corrente che a sei miglia della città si getta nel Reno. A circa

mezzo miglio da Baden è la bellissima città balneare, costruita sul fiume. Nel mezzo v’è un’area molto vasta e in-torno magnifici alberghi capaci di ospitare gran numero di persone. Le singole case hanno all’interno bagni privati, dove si tuffano solo quelli che vi alloggiano. I bagni pubblici e privati sono circa in numero di trenta; ci sono tut-tavia ai due lati della piazza due bagni pubblici scoperti per il basso popolo, e ci vanno a lavarsi uomini e donne, ragazzi e ragazze, e in genere tutti gli elementi più volgari. Qui un basso steccato, messo su alla buona, divide gli uomini dalle donne. È ridicolo vedere le vecchiette decrepite e al tempo stesso le ragazzine entrar in acque nude, davanti agli uomini, mostrando ogni parte del corpo; più di una volta ho riso perché questo eccezionale spettacolo mi faceva pensare ai ludi floreali, e dentro di me ammiravo la semplicità di questa gente, che non bada a queste cose e non vi porta nulla di equivoco o di malizioso. I bagni delle case private poi sono pulitissimi e anch’essi co-muni a uomini e donne; una divisione separa queste ultime, ma con molte basse finestrine attraverso le quali pos-sono bere insieme, parlarsi, vedersi e darsi la mano, come è loro uso frequente. In alto questi bagni sono recinti da una ringhiera in cui gli uomini sostano a osservare e parlare. A chiunque è permesso andare e fermarsi nei bagni altrui, per far visita, conversare, divertirsi, svagarsi, mentre le donne si fanno vedere a entrare e uscir dall’acqua col corpo quasi completamente nudo. Tuttavia non ci son né custodi, né porte, né sospetti di male; in molti luoghi l’ingresso al bagno è comune per uomini e donne, sì che spessissimo accade a un uomo di imbattersi in una donna seminuda e a una donna in un uomo nudo. I maschi si servono solo di un cinto, le donne portano delle corte vesti di tela fino alle gambe, aperte ai lati in modo da non coprire né il collo, né il petto, né le braccia, né le spalle.

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Spesso nell’acqua mangiano a comuni spese, su una mensa galleggiante a cui son soliti partecipare gli uomini. [...]Oltre a tutti questi svaghi c’è un’altra non piccola attrazione; dietro la villa, accanto al fiume, c’è un gran prato protetto da molti alberi; là convengono tutti dopo cena e vi si fanno giuochi diversi. C’è chi si diverte a ballare, alcuni cantano; moltissimi giocano a palla, ma non secondo il nostro sistema; uomini e donne si lanciano a vicen-da una palla piena di sonaglini, gettandola alla persona che preferiscono; allora si corre da ogni parte per afferrare la palla; chi la prende è il vincitore; questi, a sua volta, la getta a chi preferisce e, mentre molti le reclamano tenen-do le mani, fa finta di buttarla ora a questo ora a quella.

in Prose, a cura di A. Di Benedetto, UTET, Torino 1970

Erasmo da Rotterdam, Le buone maniere a tavolaIn un suo libretto di grande successo dedicato all’“educazione” dei fanciulli, Erasmo da Rotterdam insisteva sulla necessità di irreggimentare i costumi esteriori dei giovani, ponendosi con rinnovata autorità e completezza nel solco di una tradizione già preesistente di manualistica delle buone maniere; il lettore odierno coglie quante di quelle indicazioni siano poi divenute la norma nei nostri modelli di comportamento.

Se ti vien dato un tovagliolo, devi appoggiarlo sull’omero o sul braccio sinistro.Se siedi a tavola con gente di rango più elevato, togliti il copricapo, ma bada di essere ben pettinato.

A destra siano posti il bicchiere e il coltello ben pulito, a sinistra il pane.Alcuni, non appena seduti, allungano immediatamente le mani verso i piatti. Ma così fanno i lupi [...].Non essere il primo a prendere il cibo dal vassoio appena portato, non soltanto perché appariresti avido ma anche perché questo può comportare un pericolo: infatti chi maldestramente si mette in bocca qualcosa di bollente, deve o sputarlo o ustionarsi la gola, se lo inghiotte. In ogni caso, è un uso ridicolo o biasimevole.È bene aspettare per un po’, affinché il fanciullo si abitui a dominare i propri istinti.È da contadini immergere le dita nelle salse; bisogna tirar su quello che si desidera usando coltello e forchetta, né frugare per tutto il piatto come sogliono fare i ghiottoni, ma la parte che ti sta proprio davanti.Quello che non si riesce a prendere con le dita si prenda con la quadra.Se qualcuno col cucchiaio ti offre un po’ di pasticcio o di pasta, sporgi verso di lui il tuo piatto oppure prendi il cucchiaio che ti è offerto, versa il contenuto sul tuo piatto e poi restituisci il cucchiaio.Se ti offrono vivande liquide, assaggiale e restituisci il cucchiaio, dopo averlo però ripulito con il tovagliolo.Leccarsi le dita unte o ripulirsele sulla veste è incivile. È meglio servirsi della tovaglia o del tovagliolo.

in N. Elias, Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna 1988

Giovanni Della Casa, Il cerimoniale dei rapporti socialiLa stretta connessione tra buone maniere, cerimonie e mantenimento delle gerarchie sociali è evidente nel più celebre dei trattati sul comportamento, il Galateo di monsignor Giovanni Della Casa, il quale fu in prima linea anche nella repressione della riforma protestante e nella stesura dell’Indice dei libri proibiti. Nel passo qui riportato Della Casa conferisce sistematicità alle differenze di cerimonia che si manifestano nei rapporti tra membri di ceti sociali differenti.

Restami a dire di quelle [cerimonie] che si fanno per debito e di quelle che si fanno per vanità. Le prime non istà bene in alcun modo lasciare che non si facciano, perciocché chi le lascia, non solo spiace, ma egli fa ingiuria e

molte volte è occorso che egli si è venuto a trar fuori le spade solo per questo: che l’un cittadino non ha così ono-rato l’altro per via, come si doveva onorare; perciocché le forze della usanza sono grandissime, come io dissi, e voglionsi avere per legge in simili affari. Per la qual cosa chi dice «Voi» ad un solo, purché colui non sia d’infima condizione, di niente gli è cortese del suo: anzi, se gli dicesse «Tu», gli torrebbe di quello di lui e farebbegli oltrag-gio e ingiuria, nominandolo con quella parola con la quale è usanza di nominare i poltroni e i contadini. E, se bene altre nazioni e altri secoli ebbero in ciò altri costumi, noi abbiamo pur questi e non ci ha luogo il disputare quale

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delle due usanze sia migliore, ma convienci ubbidire non alla buona ma alla moderna usanza, sì come noi siamo ubbidienti alle leggi eziandio meno che le buone per fino che il Comune o chi ha podestà di farlo non le abbia mutate. Laonde bisogna che noi raccogliamo diligentemente gli atti e le parole con le quai l’uso e il costume mo-derno suole e ricevere e salutare e nominare nella terra ove noi dimoriamo ciascuna maniera d’uomini, e quel le in comunicando con le persone osserviamo.Né gli artefici e le persone di bassa condizione si deono curare di usar molto solenni cirimonie verso i grandi uomi-ni e signori, che le hanno da loro a schifo anzi che noi; perciocché da loro pare che essi ricerchino e aspettino più tosto ubbidienza che onore. E per questo erra il servidore, che proferisce il suo servigio al padrone, perciocché egli se lo reca ad onta e pargli che il servidore voglia metter dubbio nella sua signoria, quasi a lui non istia l’imporre e il comandare.

G. Della Casa, Il Galateo, in Prose, a cura di A. Di Benedetto, UTET, Torino 1970

Prescrizioni tridentine in materia di matrimoniGli spazi di autonoma manovra da parte dei promessi sposi vengono notevolmente ridotti dalle prescrizioni tridentine, volte a imporre la centralità del rito celebrato dal sacerdote, nonché la pubblicità della cerimonia stessa affinché essa acquisisca pieno valore.

Il concilio comanda quanto segue: in futuro, prima che si contragga il matrimonio il parroco dei contraenti per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi annunzierà pubblicamente in chiesa, durante la messa solenne le generalità

di coloro che stanno per contrarre il matrimonio. Fatte queste pubblicazioni, se non si oppone alcun legittimo impedimento, si procederà alla celebrazione del matrimonio davanti alla chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna e inteso il loro mutuo consenso, dirà: Io vi unisco in matrimonio nel nome del Padre del Figlio e dello Spirito santo, o userà un’altra formula, secondo il rito in uso in ciascuna provincia. Se poi in qualche caso vi fosse il fondato sospetto che, facendolo precedere da tali pubblicazioni, il matrimonio possa essere maliziosamente im-pedito, allora si faccia solo una pubblicazione, o il matrimonio venga celebrato almeno alla presenza del parroco e di due o tre testimoni. In seguito, prima della consumazione, si facciano le pubblicazioni in chiesa, in modo che, se vi fosse qualche impedimento sia facilmente scoperto, a meno che l’ordinario stesso non abbia giudicato opportu-no omettere tali pubblicazioni, cosa che il santo sinodo rimette alla sua prudenza e al suo giudizio... Il parroco deve tenere un registro, in cui annotare i nomi dei coniugi e dei testimoni, il giorno e il luogo della celebrazione, e lo deve diligentemente custodire presso di sé.

in F. Panarelli, Il corpo e l’anima, SEI, Torino 1996

Louis de Saint-Simon, I balli a corteNelle sue memorie il duca Louis de Saint-Simon offre un affresco della monarchia francese e degli intrighi di corte nei primi decenni del Settecento. Con la sua testimonianza “dall’interno”, restituisce alcuni aspetti della società nobiliare, tra cui la complessa etichetta che ne regolava la quotidianità in occasione di feste e divertimenti.

Da prima della Candelora [2 febbraio, n.d.r.] fino a quaresima, non vi furono che balli e divertimenti a corte […]. Il re ne diede a Versailles e a Marly, mascherate ingegnose, ricevimenti; genere di feste che lo divertivano mol-

to. Vi fu musica e commedia privata nell’appartamento della signora di Maintenon [la favorita del re, n.d.r.]. I personaggi più importanti ne vollero dare anche loro. Il Signor Principe [il principe di Condé, n.d.r.], nel suo appar-tamento composto di poche e piccole stanze, seppe sorprendere la corte con la festa più galante, meglio ordinata e ideata del mondo: un ballo figurato, maschere, danze, bazar di tutti i paesi, una cena leggera in un grazioso apparato e senza che nessuno della corte fosse trascurato, senza calca né disturbo […].In questi balli a Marly, di gran gala o mascherati, v’era sempre come a Versailles un lungo rettangolo con la poltro-na del re, o tre poltrone, quando v’erano il re e la regina d’Inghilterra, e vi erano spesso; a capo e sui lati sulla medesima linea, la famiglia reale, cioè sino al grado di nipote di Francia incluso. Qualche volta, nella confusione, durante il ballo, la Signora Duchessa o la signora principessa di Conti si avvicinavano col pretesto di parlare a qual-

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cuno vicino o dietro e si mettevano negli ultimi posti. Le dame, prima quelle titolate e di chiara nobiltà, poi le altre, occupavano i lati più lunghi a destra e a sinistra; e di fronte al re, i ballerini principi del sangue e di altri e i princi-pi del sangue che non ballavano stavano coi cortigiani dietro le dame; e sebbene in maschera, tutti, da principio, stavano a viso scoperto, con la maschera in mano. Dopo che il ballo era cominciato, se vi erano intermezzi o cam-biamento di vestiti, quelli o quelle che vi avevano parte in gruppi diversi con un principe o una principessa usciva-no e ritornando mascherati non si sapeva in particolare chi fossero […].Non passava sera che non vi fosse ballo. La signora cancelliera ne diede uno alla Cancelleria, e fu la più galante e magnifica delle feste […].Stanze diverse furono adibite al ballo di gran gala, alle maschere, alla cena superba, ai bazar di paesi diversi, cinesi, giapponesi ecc., che offrivano infinite cose ricercatissime per la loro bellezza e rarità, ma che non si pagavano: erano regali offerti alla signora duchessa di Borgogna e alle dame. Vi fu musica in suo onore, una commedia, alcu-ni intermezzi: e tutto ben ordinato, superbo e perfettamente ideato. La cancelliera diresse ogni cosa con una cor-tesia, una galanteria, una scioltezza come se per lei non esistessero difficoltà. Ci si divertì molto, e si venne via soltanto alle otto della mattina.

L. de Saint-Simon, Scandali, Curcio, Milano 1977

Editto di reclusione dei mendicantiNell’editto promulgato il 27 aprile 1657 con decreto regio si ordinava l’apertura di un Ospedale generale a Parigi. L’editto divenne effettivo dieci giorni dopo, condannando alla reclusione poveri, mendicanti e vagabondi.

Luigi, per grazia di Dio re di Francia e di Novara, a tutti nel presente e nel futuro, salute. I re nostri predecessori nel corso dell’ultimo secolo hanno emesso numerose ordinanze di Polizia relative ai Poveri nella nostra buona

città di Parigi e operato, sia col loro zelo sia con la loro autorità, per impedire la mendicità e l’ozio, sorgente di tutti i disordini. E per quanto i nostri sovrani organismi abbiano appoggiato con le loro cure l’esecuzione di quelle ordinanze, queste tuttavia si sono col tempo rivelate infruttuose e senza effetto, sia per la mancanza dei fondi necessari al sostegno di una così grande impresa, sia per l’allontanamento da una direzione ben stabilita e confor-me alla qualità dell’opera. […] Dimodoché il libertinaggio dei mendicanti è giunto all’eccesso a causa di uno scia-gurato abbandono a tutti quei tipi di crimini che attirano la maledizione di Dio sugli Stati quando restano impuni-ti. Infatti l’esperienza ha fatto conoscere alle persone le quali si sono occupate di questa attività caritatevole che molti di costoro dell’uno e dell’altro sesso, e molti dei loro fanciulli, sono senza Battesimo e vivono quasi tutti nell’ignoranza della religione, nel disprezzo dei Sacramenti e nell’abitudine continua a ogni sorta di vizio […].Vogliamo e ordiniamo che i poveri mendicanti, validi e invalidi, dell’uno e dell’altro sesso, siano messi in un ospizio per essere impiegati nelle opere, manifatture e altri lavori, secondo le loro capacità […]. Facciamo chiarissimo divie-to e proibizione a tutte le persone di ogni sesso, luogo ed età, di qualunque origine e nascita, e in qualsiasi stato possano essere, validi o invalidi, malati o convalescenti, curabili o incurabili, di mendicare nelle città e nei sobborghi di Parigi, sia nelle chiese sia alle loro porte, come pure alle porte delle case e per le strade, né in nessun altro luogo pubblicamente o in segreto, di giorno o di notte, senza alcuna eccezione di feste solenni, patronali, giubilei, né di riunioni, fiere o mercati, né per qualunque altra causa o pretesto, sotto pena della fustigazione per coloro che con-travvengono la prima volta e di condanna ai remi per i recidivi, uomini e ragazze, e di bando per le donne e le fanciulle.Facciamo divieto e proibizione a tutte le persone di qualunque posizione o qualità siano di dare l’elemosina di propria mano ai mendicanti per le strade e i luoghi sopra menzionati, quale che sia il motivo di compassione, strin-gente necessità o qualunque altro pretesto, sotto pena di quattro parizi [monete coniate nella zecca di Parigi, n.d.r.] di ammenda da devolversi a profitto dell’Hôpital [Ospedale, n.d.r.].

in M. Foucault, Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano 1990

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Carlo Goldoni, Nascite, morti e matrimoni alla corte franceseNegli anni di poco precedenti all’avvio della Rivoluzione francese, il commediografo veneziano Carlo Goldoni, ricordando eventi pubblici quali funerali, matrimoni e nascite, ricostruisce alcuni momenti significativi della vita della monarchia francese compresa tra la morte di Luigi XV e la nascita dell’erede al trono di Luigi XVI.

Al giubilo che i matrimoni di tre principi avevano diffuso nel regno, fece seguito la più cupa tristezza. Luigi XV cadde malato. Non tardò a dichiararsi il vaiolo; ed era dei più insidiosi e dei più complicati. Questo Re vigoro-

sissimo, di buona costituzione, soccombette alla violenza di questo flagello dell’umanità […].Ma asciugate le vostre lacrime, o Francesi! La provvidenza gli ha dato un successore che con le sue virtù farà la vostra felicità. Più volte avete qualificato i vostri Re con titoli e appellativi che sono passati ai posteri; quale sarà l’epiteto d’onore che sceglierete per Luigi XVI? […]Il suo matrimonio fu celebrato per procura verso la fine dell’agosto del 1775 nella cappella di Versailles. Vi furono splendide feste, manifestazioni magnifiche di gioia. La principessa partì, fatta segno ad adorazione e a rimpianto. Tutti coloro che l’avevano servita, che l’aveva avvicinata, ebbero dei segni della sua bontà […].Nel […] 1778 […] quale non fu la gioia dei Francesi, quando fu annunciata la gravidanza della regina! In dicembre ella diede alla luce una principessa che fu subito chiamata Maria Teresa Carlotta di Francia, col titolo di Madame, figlia del Re.Questo primo frutto del matrimonio del Re fu considerato come il precursore del delfino, ch’era atteso con impa-zienza, e che in capo a tre anni venne a esaudire i voti dei Francesi. […]Tutti partecipavano alla pubblica gioia; le feste furono adeguate alla solennità della circostanza. Fu stupendamen-te decorato l’Hôtel-de-Ville di Parigi per ricevervi il Re e la regina. Fu apprestato un fuoco d’artificio il cui congegno era meraviglioso. Il fuoco però non ebbe buona riuscita.Nell’occasione si segnalarono soprattutto le guardie del corpo del Re.Diedero un ballo nel teatro di Versailles. In ognuna delle quattro compagnie furono scelti tre ballerini per la danza; e uno di essi aperse il ballo con la regina. La sala era riccamente addobbata, perfettamente illuminata. C’erano rinfreschi a profusione, e un ordine di mirabile esattezza.Condividevo il giubilo pubblico; per inclinazione, per abitudine, per riconoscenza, mi sentivo francese anch’io.

C. Goldoni, Memorie, Einaudi, Torino 1967

Carlo Cattaneo, Osservazioni sulla vita contadinaLo storico ed economista milanese Carlo Cattaneo descrive i caratteri della vita contadina in Lombardia nella prima metà dell’Ottocento, tra «miserie e privazioni», «stenti e disagi materiali», tra i quali «vivono più di tre quarti degli abitanti della Bassa Lombardia».

È assai malagevole porgere una succinta idea della nostra agricoltura nelle diverse provincie per la strana sua va-rietà […]. Quel che abbiam detto delle condizioni economiche dei contadini della Bassa Lombardia può forse

andar soggetto di qualche variazione da luogo a luogo ma nel complesso risponde alla più stretta realtà del fatto. A persuadersi della miseria e delle privazioni a cui sono condannati, basterebbe accompagnare la vita del contadino in una giornata di lavoro: basterebbe visitare la sua abitazione cupa, disagiata, senza luce, spesso sotto il fetore delle cloache nella quale sono ammucchiati in una stanza sola genitori, figli e talvolta figli dei figli, chi su povero letto, chi su immondo strame gettato sul terreno. Eppure non tutti riescono a ripararsi in questo squallido abituro giacché la gran parte dei contadini passa tutto l’anno la notte sulle cascine, sotto i portici, nelle stalle, sotto quell’aria umida e pesante a grave scapito della salute. Scarseggiano le vesti, le biancherie di rado si mutano, pro-vocando col sudiciume quelle malattie cutanee così frequenti nella Bassa […]. L’estate è più terribile nelle risaie, dove la vita degli uomini si miete abbondante quasi come il riso raccolto […]. Fra questi stenti e disagi materiali vivono più di tre quarti degli abitanti della Bassa Lombardia.

C. Cattaneo, Scritti su Milano e la Lombardia, Rizzoli, Milano 1990

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Esercitare il controllo: la poliziaNel dispaccio di istruzioni segrete fornite dalla Direzione generale alla polizia austriaca operante in Italia nell’età risorgimentale emergono indicazioni per un’efficace opera di controllo e di difesa dello Stato attraverso l’impiego dei più svariati mezzi.

Come oggetto degli attributi e delle più speciali incombenze del Dirett[ore] gen[erale] di polizia, relative alla po-lizia alta, segreta e di Stato, apparisce tutto ciò che potesse immediatamente risguardare il sovrano interesse di

S. M. I. R. [il sovrano, n.d.r.], e del trono, e dell’amministrazione dello Stato, e dell’integrità dello stesso. A ciò si riferisce quindi:1. Il rintracciamento e lo scoprimento di cospirazioni, complotti, progetti, tentativi ed intraprese tendenti contro la salvezza della sacra persona di S. M. [Sua Maestà, n.d.r.], contro l’augusta casa imperante, contro la costituzione dello Stato […]. 2. Lo scoprimento di unioni, associazioni, corporazioni, società e sette segrete, siano esse di politica religiosa od altra tendenza […].3. L’osservazione e direzione dello spirito pubblico di tutte le classi degli abitanti, e della loro opinione circa gli avvenimenti politici, la sorveglianza di chi esercitasse maggior influenza sullo spirito pubblico […].4. L’osservazione dell’influenza che sullo spirito pubblico producessero le gazzette, i giornali, fogli volanti, libri od immagini di qualunque sorta, specialmente quando fossero di natura politica […].5. La più scrupolosa controlleria nel senso il più esteso sopra tutti i rami della pubblica amministrazione, e la vigi-lanza sulla condotta ufficiosa e domestica dei rispettivi impiegati, inservienti e guardie in genere […], la sorveglian-za della condotta, dottrina ed eventuali irregolari relazioni del clero all’estero; l’osservazione del contegno e dello spirito delle truppe militari di ogni arma, e dei differenti corpi delle guardie di sicurezza […].7. La sorveglianza e controlleria dei consoli esteri, delle persone diplomatiche, o di altri agenti di potenze estere accreditati, o segreti, degli emissari, avventurieri, esploratori […].8. Il raccogliere e procurarsi delle notizie sull’andamento degli affari pubblici e sullo spirito pubblico nei limitrofi Stati esteri […].9. Le missioni di esploratori e confidenti, in caso di avvenimenti più importanti pegli Stati esteri, specialmente in caso di aspetti guerreschi, od in tempo di attuale guerra, e generalmente tutte le disposizioni necessarie per forma-re e mantenere dei segreti spionaggi all’estero […].10. La direzione del servizio strettamente segreto col mezzo di confidenti stipendiati o gratuiti, nonché la sorve-glianza della corrispondenza epistolare.

D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Laterza, Bari 1968

Alfred Fabian, Da un registro scolastico ingleseAlcune pagine di un registro di una scuola elementare di Northam, un distretto operaio di Southampton, in Inghilterra, compilato dal direttore Alfred Fabian e relativo agli anni 1872-1873, consentono di cogliere il gran numero di problemi educativi, disciplinari, di frequenza, con i quali gli insegnanti erano costretti a confrontarsi.

18728 gennaio – Primo giorno come direttore in questa scuola. 63 presenti all’inizio della mattinata.10 gennaio – Il numero di presenti finora è arrivato a una media di 62. I ragazzi mi sembrano molto indietro sulla maggior parte delle cose. Scrivere è una delle poche cose che sanno fare […].31 gennaio – W. Clayton ha marinato la scuola di nuovo – devo punirlo una volta per tutte quando torna, così da tacitare le lamentele degli insegnanti, o almeno contenerne il crescendo.2 febbraio – W. Clayton è stato riportato a scuola oggi. Promemoria – comprare una nuova bacchetta.8 marzo – Ieri si è svolto l’esame di disegno […]. Le cose sono andate tutt’altro che bene.12 marzo – Bisogna giungere ad un accordo con il Signor Haydon [il reverendo della scuola, n.d.r.] riguardo alle punizioni corporali, perché non sono disposto ad andare avanti se non si pone fine a questa brutta abitudine […]10 luglio – William e Fred Jennings hanno marinato ancora la scuola. Il secondo ha anche speso la retta settima-nale destinata alla scuola […].

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187320 gennaio – Presenterò lamentela agli amministratori dato che le piccole assistenti della sezione femminile scher-zano e giocano continuamente con gli insegnanti dei ragazzi […]. Rientrando a scuola dopo essere uscito ho trova-to tutto il gruppo degli insegnanti che giocava a inseguirsi tra i banchi e li ho minacciati di fare rapporto qualora succedesse di nuovo […].3 marzo – I ragazzi sono chiassosi. Jennings è stato espulso per indisciplina. Ha gettato sassi contro le finestre rompendo tre vetri […].6 marzo Annotazione del Vicario – Frederick Charles Jennings oggi è stato condotto dinnanzi al Consiglio d’Am-ministrazione per aver rotto alcuni vetri della scuola lanciando intenzionalmente un sasso. Essendo inconfutabili le prove contro di lui e non avendo l’accusato nulla da dire in sua difesa, il signor W. H. Swayne, legale della scuola, ha stabilito, a nome degli amministratori, che essi avrebbero soprasseduto circa un’immediata punizione e si sareb-bero riservati, una volta liberato l’imputato, di procedere alla punizione se in futuro fossero giunte lamentele sul suo conto […].12 marzo – È il mio ultimo giorno come direttore di questa scuola.

in Storia dell’infanzia, II. Dal Settecento a oggi, Laterza, Roma-Bari 1996

Statuto dell’associazione internazionale degli operaiAlcuni articoli dello Statuto dell’Associazione internazionale degli operai, fondata a Londra nel novembre del 1864, forniscono una testimonianza importante, legata al fenomeno della crescita e del progressivo coordinamento dei diversi movimenti operai e sindacali europei.

1. La presente associazione è fondata per costituire un centro di collegamento e di cooperazione tra le società ope-raie esistenti nei diversi paesi, che aspirino al medesimo scopo, e cioè: il mutuo soccorso, il progresso e l’affranca-mento completo della classe operaia.2. La denominazione della società è: Associazione internazionale degli operai.3. Nel 1865 avrà luogo in Belgio un Congresso operaio generale. Esso sarà formato dai delegati di tutte le società operaie, che nel frattempo avranno aderito all’Associazione internazionale degli operai. Il Congresso proclamerà di fronte all’Europa le aspirazioni comuni della classe operaia; stabilirà gli statuti definitivi dell’Associazione interna-zionale, esaminerà i mezzi necessari per la sua opera coronata da successo e nominerà il Consiglio centrale dell’as-sociazione. Il Congresso generale dovrà riunirsi una volta all’anno.4. Il Consiglio centrale ha la sua sede a Londra e sarà composto da operai appartenenti ai diversi paesi rappresen-tati nell’Associazione internazionale […].6. Il Consiglio centrale opera come agenzia internazionale tra le diverse società concorrenti, in modo tale che gli operai di un paese siano continuamente informati sui movimenti della loro classe in tutti gli altri paesi; che con-temporaneamente e sotto una comune direzione venga compiuta un’inchiesta sulla condizione sociale dei diversi paesi dell’Europa; che le questioni di interesse generale, proposte da una società, vengano accolte da tutte le altre e che in caso di necessità di interventi pratici immediati, come per esempio in caso di dissensi internazionali, le società collegate possano agire simultaneamente e in modo uniforme […].7. […] I membri dell’Associazione internazionale dovranno usare tutte le loro forze per riunire le società operaie disperse dei loro rispettivi paesi, in corpi nazionali, rappresentati da organi nazionali […].9. Cambiando di abitazione da un paese all’altro, ciascun membro dell’Associazione internazionale riceverà l’appog-gio fraterno degli operai aderenti.

in K. Marx - F. Engels, Il partito e l’internazionale, Rinascita, Roma 1948

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Teresa Sarvia, La vita contadinaNella testimonianza raccolta dallo scrittore Nuto Revelli, che fa parte del volume di inchieste e interviste L’anello forte (1985), il racconto di Teresa Sarvia offre un quadro generale della vita quotidiana contadina nella prima parte del XX secolo.

Se sono contadina? Quando mi chiedono che mestiere ho fatto io, rispondo: «Ho sempre solo lavorato in campa-gna». Noi eravamo undici, sette sorelle e quattro fratelli, e ci siamo allevati tutti, io ero la quarta. Ringraziando

il Signore eravamo tutti san e dispost [sani e gagliardi] […]. Avevamo venticinque giornate di terra nostra, in sette pezzi, e quattordici vacche nella stalla. Nella zona eravamo quelli che vivevano meglio, gli altri erano tutti miseri. Noi mangiavamo già la zuppa di caffelatte al mattino, gli altri facevano la minestra di rape zucche cipolle a cola-zione, ne davano una tazzina ai bambini. Il pane lo cocevamo noi, un pane buono così non ci sarà mai più, face-vamo il pane tutte le settimane, trenta quaranta chili. I nostri vicini per colazione prendevano la latta del petrolio, la lavavano, poi facevano il minestrone lì dentro, non avevano nemmeno un paiolo. Erano mezzadri […], poi sun spatarase tuti [poi si sono dispersi tutti] […]. Ah mia mamma non si lamentava di avere tanti figli, era felice. Mai che si lamentasse. Mio povero papà ha mai dato uno schiaffo ad uno di noi. C’era una gran serietà, bastava solo uno sguardo di nostro padre e noi avevamo già paura. A tavola ci sedevamo tutti lì, e mica uno che si muovesse eh. Papà tagliava un pezzo di pane a ciascuno, nessuno che si servisse per proprio conto. Allora eravamo tranquilli, eravamo contenti così, proprio. Noi eravamo contenti di essere in tanti, ed avevamo nei confronti della mamma tutti i riguardi. Ah, mia mamma era altroché energica. Comandava piuttosto papà ma anche la mamma. Chila cu-diva [lei accudiva], lei di notte non dormiva, pensava ai problemi di noi bambini. Mia mamma era malata di spa-gnola quando nel 1920 ha avuto la bambina che è morta. Le avevano dato l’olio santo a mia mamma. Eh, moriva tanta di quella gente per la spagnola. Il nostro dottore di famiglia […] veniva due volte al giorno da noi. Eravamo tutti coricati. Solo papà non aveva preso la spagnola e girava giorno e notte a curare noi […].Tutte le sere, nella stalla, ’nla veia [nel corso della veglia], prima cosa dicevamo il rosario. Lo conduceva mio padre, tutti inginocchiati, guai se uno parlava, una serietà. Pregavamo bene. Poi, dopo il rosario, eravamo tutti nella stal-la sul paiun [saccone pieno di paglia o di foglie secche], le donne che filavano, noi bambini ci sedevamo vicino a papà che ci raccontava le storie, oh giache. Mio papà leggeva tanti libri, lui incominciava un libro alla sera e lo leggeva magari fino al mattino, fino a quando l’aveva finito. Ah, contava tanto delle masche [streghe, protagoniste dei racconti popolari, n.d.r.]. Contava sempre, e diceva che era proprio vero […].Quando mi sono sposata avevo ventiquattro anni […]. I nostri padri si conoscevano. Neiti l’uma pa fait tanta rablà ma ca fan ades a mariese [Noi non l’abbiamo mica fatta tanto lunga come fanno adesso a sposarsi]. Ci siamo co-nosciuti alla fiera di Sant’Antonio il 18 di gennaio, al 18 di febbraio ci siamo già sposati, ma è proprio il destino neh. Mio marito mi ha portata in una cascina di ottanta giornate […] dove suo zio era mezzadro. L’abbiamo poi comprata nel 1956 con i debiti questa cascina, metà è nostra e metà è di mio fratello. Abbiamo fatto delle grandi economie per pagare i debiti. Ah, del lavoro ne abbiamo fatto. Ho avuto cinque figli. Sì, ho coabitato con i suoceri, e ci volevamo tanto bene, andavamo d’accordo. Noi eravamo contenti di poco, non sapevamo che si poteva stare meglio, eravamo già contenti così. Noi ormai siamo vecchi, ma riusciamo a capire i giovani. Siamo ben contenti che i giovani non debbano più fare le vite che abbiamo fatto noi.

Testimonianza di Teresa Sarvia, in N. Revelli, L’anello forte. La donna: storie di vita contadina, Einaudi, Torino 1985

Manifesto del maggio franceseLa Tesi della commissione “Siamo in Marcia”, redatta nel maggio del 1968, costituisce uno dei testi di riferimento degli studenti francesi su temi quali la gestione del potere, il diritto al lavoro, il mondo universitario. Qui riportiamo la parte dedicata all’insegnamento.

P remessa. Dopo le barricate non ci sono più studenti né professori e presto non vi saranno più proletari. Nell’unio-ne spontanea abbiamo superato tutti i limiti. Siamo tutti uniti. Si tratta di non separarci di nuovo e di prendere

coscienza del nuovo statuto dei lavoratori che ci siamo dati tutti senza saperlo esplicitamente.Articolo 1. Dichiarazione dei diritti dei lavoratori (ex studenti, ex professori, ex operai). Ogni detentore di un sape-re – saper fare, cultura – è tenuto a “rendere” in quanto individuo ciò che ha ricevuto a titolo di “privilegio” dalla

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società, perché questo sapere non sia più a partire da oggi un nuovo privilegio di classe dirigente, che malgrado tutta la buona volontà e il messianismo individuale non può che alienare e sfruttare l’insieme dei lavoratori. Articolo 2. Si stabilisce che a partire da quel giorno l’educazione sia permanente – gratuita – obbligatoria a ogni età.Articolo 3. Ogni studente (o allievo) è precettato perché restituisca l’equivalente dei suoi vantaggi attuali. Ogni studente che ha ricevuto un insegnamento deve diventare un insegnante pur continuando a ricevere un insegna-mento.Articolo 4. Ogni ex professore è mantenuto nelle sue funzioni a cui si aggiungono quelle di inquadrare i suoi “nuo-vi colleghi”.Articolo 5. Ogni lavoratore privato fino a ora di “sapere” è chiamato, quali che siano la sua istruzione attuale, la sua età, a diventare un allievo e presto un insegnante per scegliere il proprio destino […].Articolo 7. Ogni unità educativa locale (officina-scuola ex secondaria ex superiore) sarà gestita dall’insieme dei la-voratori-insegnanti-allievi […].Articolo 9. Ogni lavoratore-allievo-insegnante sarà retribuito in base alla sua età e ai suoi “bisogni” familiari. […]Articolo 11. Non sono più necessari esami formali, il controllo delle conoscenze sarà permanente grazie a un inqua-dramento di massa che si sostituirà a un insegnamento didattico e centrato sul maestro. Sarà sostituito dalla pro-mozione diretta decisa dietro semplice domanda del “richiedente” dai suoi pari lavoratori-insegnanti-allievi. Non sono più necessari responsabili e ispettori di alcun tipo, poiché il controllo è permanente a ogni livello e al di fuori di ogni gerarchia tradizionale sostituita a sua volta dalla “gerarchia” delle responsabilità […].Articolo 16. Questa utopia è perfettamente realizzabile e sarà molto più “economica” dell’apparato selettivo attua-le e del mantenimento da parte della società, per tre anni come minimo, di 600000 studenti improduttivi. Se non la si può imporre pacificamente discutendone le modalità e contestandone le parziali, inevitabili incoerenze, essa richiederà “pieni poteri” alla strada.L’università non si può riformare da sola e diventare un isolotto libero “socializzante” in una società di selezione economica, sociale e culturale.L’insegnamento nel suo insieme deve essere ripensato e sostituito da una trasmissione dei saperi di natura comple-tamente diversa.La trasformazione dell’università non si può fare senza la trasformazione radicale di ogni tipo di rapporti privilegia-ti classe-sottoclasse. Siamo radicali e se il dialogo verrà rifiutato siamo rivoluzionari, cioè imponiamo il dialogo con altri mezzi.

Le radici del ’68. I testi fondamentali che prepararono la rivolta di una generazione, Baldini e Castoldi, Milano 1998

Fabrizia Bagozzi, Inchiesta sul consumo di drogaL’articolo, pubblicato sul periodico «Narcomafie» nel 1995, riporta i risultati di un’inchiesta condotta su uno dei problemi maggiormente sentiti e dibattuti in campo giovanile: il rapporto tra luoghi di divertimento, discoteche e consumo di droghe.

«Calano allo stadio, quando vanno a tifare per la propria squadra, calano a scuola, calano prima di andare in discoteca. L’ecstasy è una moda ormai per i ragazzi tra i diciotto e i ventitré anni, una moda che fa trasgres-

sione, che fa tendenza». È Gianni Parrini che parla, biondo dj trentasettenne, molto famoso tra i giovanissimi […]. Sulla stessa lunghezza d’onda Stefano Noferini, ideatore, fra le altre cose, di Crazy Dance, striscia quotidiana del circuito di Odeon Tv, su giovani e dintorni: «L’ecstasy è un fenomeno di costume. A volte in discoteca si fa a gara a chi ne prende di più» […].Luogo di perdizione per eccellenza, nelle immagini della stampa, la discoteca. «Demonizzarla è assurdo – sostiene Parrini. – È un luogo di aggregazione, di divertimento. I ragazzi s’impasticcano anche altrove, perché ormai è un fenomeno di costume, che semplicemente trova un terreno particolarmente fertile nelle discoteche, dove si spaccia con più facilità ogni tipo di droga». D’accordo con Parrini anche Miki […], trentadue anni, dj professionale da dieci […] noto in tutta Europa: «Se si punta il dito sulle discoteche non si riuscirà mai a entrare nel cuore della questione, che è ben altro. Per produrre ingenti quantitativi di pasticche ci vogliono soldi e professionalità, perché questo è un gioco che non si improvvisa». Il problema, secondo Miki, è individuare chi fiuta il business e dispone dei capitali necessari per farlo fruttare. «Le discoteche – dice – sono un bene comune, perché per i ragazzi non ci sono grandi alternative e la musica è la maggior fonte di comunione che esista» […].

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Così forte nell’immagine, così vicino a un certo mondo giovanile, cosa può, allora, il dj contro l’uso di ecstasy? Può gettare sul tavolo delle notti drogate, per farle meno drogate, la carta della sua fama? «Può può – risponde Parri-ni. – Io l’ho fatto e qualche risultato l’ho avuto, anche se da soli è sempre più difficile. Se fossimo stati in tanti, se fossimo in tanti a intervenire, sarebbe ben diverso». La sua esperienza la dice lunga: «Fino a quando non ho parla-to, non mi sono schierato, per i ragazzi ero la personificazione stessa della trasgressione. Pensavano che calassi, io, che non ho mai fatto uso di droghe in tutta la mia vita. Poi una sera ho preso il microfono in mano e ho detto quello che pensavo […]. Ho perso la metà del mio pubblico. In un anno il 50% delle persone che mi seguivano in serata se ne è andato altrove, a seguire altri […]. È servito, comunque, e ne sono contento». E insiste sull’esigenza di una seria campagna informativa: «Lo Stato dovrebbe intervenire facendo informazione, senza retorica. Dire che cos’è l’ecstasy, quali sono i suoi effetti, come affrontare il problema, e magari servirsi di testimonial, di personaggi che hanno molto seguito tra i giovanissimi» […].Ma allora la musica c’entra? «Per niente» […] Noferini si schiera […] contro chi dipinge la Techno a tinte troppo fosche: «Chi afferma che per reggere un certo tipo di ritmo si deve calare, sbaglia. Si possono ascoltare anche 200 battiti al minuto e quando si è stufi si può smettere, basta volerlo, deciderlo, dipende da noi». E ancora, non senza una punta di polemica: «Esiste una fetta consistente di questi giovani che fa cultura con questa musica e viene in discoteca per ascoltarla. Con questo, non prendono pastiglie. Amano la Techno, ma non si fanno».

F. Bagozzi, Istruzioni dalla consolle, in «Narcomafie», anno III, n. 7, luglio-agosto 1995

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Le spezie potevano essere acquistate e consumate solo dai nobili e dai ricchi: il loro uso in cucina era un segno di prestigio e un modo di avvicinarsi al favoloso Oriente. Le spezie, infatti, non venivano utilizzate per cercare di insaporire cibi di qualità scadente o carni che, senza gli attuali sistemi di conservazione, acquistavano in fretta cattivi sapori.

L’uso abbondante delle spezie era una pratica diffusa da tempo nella cucina europea (quella ricca, s’intende): già

nei secoli IX-X è attestato un considerevole flusso di spezie sui mercati occidentali d’Italia e Francia, e i documenti rivelano un interesse crescente per prodotti come lo zenzero, la can-nella, la galanga, i chiodi di garofano, dei quali la cucina ro-mana aveva fatto poco o nessun uso, limitando la propria at-tenzione quasi esclusivamente al pepe. [...] Quando, alla fine dell’XI secolo, le spedizioni e gli insediamenti dei crociati por-tano gli occidentali a un più ravvicinato contatto con l’Oriente, l’afflusso di spezie diventa più massiccio e trova fertile terreno di diffusione in un’Europa già orientata verso quei profumi e quei sapori. Sarà la fortuna dei mercanti veneziani, rimasti a lungo i principali protagonisti di questo commercio.I libri di cucina del XIII-XIV secolo rappresentano la prima codificazione scritta di questa come di altre scelte gastrono-miche. A che cosa possiamo imputarla? Intanto bisogna sgombrare il campo da una falsa opinione che è tuttora am-piamente accreditata, nonostante gli studiosi più avveduti ne abbiano dimostrato la totale inconsistenza. L’opinione, cioè, che il largo uso di spezie (anzi l’abuso, come si suol dire con sbrigativa arroganza) fosse determinato dalle necessità di coprire, mascherare, «camuffare» il gusto di vivande (so-prattutto le carni, a cui le spezie di preferenza si associava-no) troppo spesso mal conservate se non, addirittura, avaria-te. Ancora si sostiene che le spezie sarebbero servite a con-servare la carne: ma entrambe le convinzioni sono palese-mente infondate. In primo luogo, i ricchi (è di loro e soltanto di loro che si tratta, quando parliamo di prodotti esotici e co-stosissimi come le spezie) consumavano carne freschissima: selvaggina di giornata, se possibile (ricordiamo Carlo Magno, che ogni giorno si faceva preparare sullo spiedo un arrosto di cacciagione); o carni acquistate sul mercato, anche queste freschissime, poiché era abitudine macellarle quotidiana-mente a richiesta dei clienti: gli animali arrivavano vivi nelle botteghe. Lo stesso valeva per il pesce, sia che lo si prendes-

se direttamente nei corsi d’acqua, sia che lo si acquistasse sul mercato: certe specie, come l’anguilla o la lampreda (non per nulla le più ricercate), si trasportavano vive dal luogo di cattura al luogo di vendita. Del resto i libri di cucina sono piuttosto espliciti nel suggerire ai cuochi di aggiungere le spezie dopo la cottura, «il più tardi possibile», come leggia-mo nel trecentesco Ménagier de Paris. Cade così anche la spiegazione «conservativa»: altri erano i sistemi per assicu-rare vita più lunga alle carni e ai pesci. A ciò servivano le tecniche della salagione (soprattutto), dell’essiccazione, dell’affumicatura. In ogni caso le spezie non c’entravano, an-che perché il consumo di carni salate era tipico piuttosto dell’alimentazione «povera», ossia di un ambito sociale che praticamente ignorava l’uso di spezie. Il ricorso a carni con-servate non era certo sconosciuto ai ricchi: ma, nell’insieme, dobbiamo ammettere che la fascia sociale dei consumatori di spezie coincide largamente con quella dei consumatori di carne fresca (e di migliore qualità). [...]Difficilmente potremo comprendere questi consumi sul piano della progettualità razionale: sono consumi dettati dal desi-derio e dall’immaginario. Il bisogno, anzitutto, di lusso e di ostentazione: il prezzo delle spezie, inarrivabile ai più, è già un buon motivo per farne un oggetto di desiderio. [...] Stru-mento di ostentazione e segno di distinzione sociale, esse concentrano su di sé anche valori di sogno – gli stessi valori di cui è carico l’Oriente, terra misteriosa e lontana, «orizzon-te onirico» (J. Le Goff) in cui gli occidentali proiettano ogni sorta di desideri e di utopie. Nelle raffigurazioni cartografiche del tempo l’Oriente è contiguo al Paradiso terrestre, e si im-magina che ne sia profondamente influenzato: sono i mondi dell’abbondanza e della felicità, e soprattutto dell’eternità. Uomini più volte centenari, alberi sempreverdi e l’ineffabile fenice popolano queste terre; là nascono le spezie. Queste anzi provengono direttamente dal Paradiso: Joinville descri-ve i pescatori del Nilo che traggono le loro reti «cariche dei beni che questa terra produce, cioè zenzero, rabarbaro, legno di sandalo e cannella; e si dice che queste cose vengano dal Paradiso terrestre»: scosse dal vento, le preziose sostanze cadrebbero nel fiume dagli alberi dell’Eden. Si dice: impossi-bile sapere fino a che punto il nostro autore, e i suoi lettori, prestino credibilità alla leggenda. «Comunque sia, per i con-temporanei di Taillevent le spezie avevano senza dubbio un gusto – e un profumo – di eternità» (B. Laurioux).

M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1993

Massimo Montanari, Le spezie nella cucina medievaleS T O R I O G R A F I A

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A fi anco del tempo della Chiesa, alla fi ne del Duecento fece la sua comparsa il tempo del mercante, fi nalizzato a rendere più rigido l’orario di lavoro degli operai dell’industria tessile. Scandito, in una prima fase, da un’apposita campana, il tempo del mercante trovò infi ne il proprio simbolo nell’orologio meccanico.

L’unità del tempo di lavoro nell’Occidente medievale è la giornata: agli inizi, giornata del lavoro rurale [...] e, a

sua immagine, giornata del lavoro urbano, definita mediante il riferimento mutevole al tempo naturale, dal sorgere al tra-monto del sole, e sottolineata approssimativamente dal tem-po religioso, quello delle horae canonicae [i momenti di pre-ghiera dei monaci, n.d.r.], derivato dall’antichità romana. [...] All’ingrosso il tempo del lavoro è quello di un’economia ancora dominata dai ritmi agrari, esenti dalla fretta, senza scrupolo di esattezza, senza preoccupazioni di produttività e di una società a sua immagine, «sobria e pudica», senza grandi appetiti, poco esigente, poco capace di sforzi quanti-tativi. [...] Ora, a partire dalla fine del secolo XIII, questo tempo del lavoro è messo in discussione, entra in crisi. Offen-siva del lavoro notturno, asprezza soprattutto nella definizio-ne, nella misura, nella pratica della giornata di lavoro, con-flitti sociali, infine, intorno alla durata del lavoro: così si manifesta in questo campo la crisi generale del XIV secolo, un progresso d’insieme attraverso gravi difficoltà di adatta-mento. [...] I padroni infatti, di fronte alla crisi, cercano dal canto loro di regolamentare quanto meglio possono la gior-nata di lavoro, lottando contro gli imbrogli degli operai in questo campo. Allora si moltiplicano le campane di lavoro (Werkglocken), di cui ricordiamo alcuni esempi. [...]A Amiens, il 24 aprile 1335, Filippo VI accoglie favorevol-mente la richiesta del sindaco e degli scabini [funzionari del governo cittadino, preposti alla giustizia, n.d.r.], che gli han-no chiesto «che essi possano fare un’ordinanza su quando gli operai nella detta città e suo distretto (banlieue) andranno ogni giorno di lavoro alla loro opera il mattino, su quando dovranno andare a mangiare e su quando dovranno tornare all’opera dopo mangiato; come pure la sera, su quando do-vranno lasciare l’opera per la giornata; e che per la detta ordinanza che faranno, possano suonare una campana, che hanno fatto appendere alla torre della detta città, che è diffe-rente dalle altre campane». [...] A Aire-sur-la-Lys, il 15 ago-sto 1355, Giovanni di Picquigny, governatore della contea di Artois, accorda [...] di costruire una torre campanaria con una

campana speciale a causa «del mestiere di drapperia e altri mestieri dove convengono parecchi operai a giornata, che vanno e vengono all’opera in certe ore».La nostra ricerca non è certo esauriente, ma essa è sufficien-te a indicare che il problema della durata della giornata di lavoro è soprattutto acuto nel settore tessile, dove la crisi è più sensibile e dove la parte dei salari nel prezzo di costo e nei guadagni dei padroni è considerevole. Così la vulnerabili-tà alla crisi in questo settore di punta nell’economia medie-vale ne fa il campo di elezione di un progresso nell’organiz-zazione del lavoro. Lo dice bene il testo concernente Aire, che spiega la necessità della nuova campana «perché la det-ta città è governata dal mestiere di drapperia». Conferma a contrario: dove la drapperia non ha una posizione dominante, non si vedono apparire Werkglocken. Fagniez l’aveva giusta-mente notato già per Parigi.Così, almeno nelle città produttrici di panni, un tempo nuovo incombe sulla città: il tempo dei drappieri [i grandi mercanti-imprenditori, che forniscono la materia prima agli artigiani ed esportano il prodotto finito, n.d.r.]; perché questo tempo è quello della dominazione di una categoria sociale. È il tempo dei nuovi padroni. [...] Alla fine del secolo [XIV, n.d.r.] e all’inizio del secolo successivo vediamo bene che la durata della giornata di lavoro – non il salario direttamente – è la posta delle lotte operaie. [...]Resta il fatto che la campana del lavoro, spinta certamente da corde, cioè a mano, non presenta alcuna innovazione tecnica. Ma il progresso decisivo verso le «ore certe» è evidentemente l’invenzione e la diffusione dell’orologio meccanico, del siste-ma a scappamento, che promuove infine l’ora in senso mate-matico, come la ventiquattresima parte della giornata. Senza dubbio, proprio il secolo XIV supera questa tappa essenziale. Il principio dell’invenzione è acquisito alla fine del secolo XIII, il secondo quarto del secolo successivo ne vede l’applicazione in quegli orologi urbani, la cui area geografica è appunto quella delle grandi zone urbane: Italia del Nord, Catalogna, Francia settentrionale, Inghilterra meridionale, Fiandre, Ger-mania. Una ricerca più approfondita permetterebbe forse d’intravedere che, più o meno, le regioni dell’industria tessile in crisi ricoprono l’area di diffusione degli orologi meccanici. Dalla Normandia alla Lombardia s’installa l’ora di sessanta minuti che, all’alba dell’età preindustriale, sostituisce la giornata come unità del tempo di lavoro.

J. Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante e altri saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo,

Einaudi, Torino 1977

Jacques Le Goff, L’appropriazione del tempo da parte dei mercanti18

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L’arrivo degli spagnoli provocò il trasferimento di un gran numero di malattie, tipiche del Vecchio Mondo, alle popolazioni indigene che vivevano in America. Poiché esse non possedevano alcuna forma di difesa immunitaria contro i nuovi morbi, il risultato dell’incontro tra europei e amerindi fu una gigantesca catastrofe demografi ca.

Considerando quanto accadde dopo che gli Spagnoli avvia-rono il libero scambio di infezioni fra il Vecchio e il Nuovo

Mondo, appare certo che gli incontri degli Amerindi con le ma-lattie in epoca precolombiana fossero stati irrilevanti dal pun-to di vista epidemiologico. Gli abitanti del Nuovo Mondo non erano portatori di alcun nuovo grave morbo trasmissibile alle popolazioni europee e africane che si erano introdotte nel loro territorio – a meno che, come alcuni continuano a ritenere, la sifilide avesse origini amerindie – mentre l’improvviso con-fronto con la vasta gamma di infezioni che le popolazioni eu-ropee ed africane avevano incontrato un po’ per volta nell’ar-co di quattromila anni di evoluzione civile provocò un impo-nente disastro demografico fra gli Amerindi. [...]L’ampiezza del disastro [...] riflette il fatto che il Messico centrale e le zone interne dell’impero incaico erano densa-mente popolate all’epoca in cui gli Europei scoprirono l’Ame-rica. Le due più importanti piante alimentari degli Amerindi, il mais e la patata, fornivano un numero di calorie per acro che superava di gran lunga ogni altra coltura del Vecchio Mondo, a eccezione del riso. La densità della popolazione per miglio quadrato di terreno coltivato nelle Americhe era quin-di superiore a quella raggiungibile in qualunque luogo del Vecchio Mondo, eccettuata la zona di coltivazione del riso nell’Asia orientale. [...] Prima della seconda guerra mondiale gli studiosi sottovalutavano sistematicamente la consistenza

delle popolazioni amerindie, facendole ammontare comples-sivamente a una cifra variabile fra gli otto e i quattordici mi-lioni di individui all’epoca in cui Colombo sbarcò a Hispaniola [Haiti, n.d.r.]. Ma le valutazioni recenti, basate su una cam-pionatura tratta dalle liste dei contribuenti, sulle cronache dei missionari e su complesse argomentazioni statistiche, hanno moltiplicato per dieci volte e più le valutazioni iniziali, facendo ammontare le popolazioni amerindie all’inizio della conquista a circa cento milioni di individui, dei quali venticin-que-trenta milioni vengono attribuiti al Messico e un numero approssimativamente uguale alle civiltà andine. È evidente che anche nelle zone intermedie dell’America centrale esi-steva una popolazione relativamente densa.Partendo da livelli di questo genere, il crollo demografico fu catastrofico. Col 1568, meno di cinquant’anni dopo che Cor-tés aveva dato l’avvio allo scambio epidemiologico, oltre che d’altra natura, fra le popolazioni amerindie ed europee, la popolazione del Messico centrale si era ridotta a tre milioni circa di individui, vale a dire a quasi un decimo della sua con-sistenza all’epoca dello sbarco. Lo sfacelo continuò, sebbene con percentuali inferiori, per altri cinquant’anni, raggiungen-do il punto più basso nel 1620 con un milione e seicentomila individui circa. La ripresa non divenne costante che dopo un’altra trentina d’anni circa, e rimase molto lenta fino al XVIII secolo. [...] La violenza e il disprezzo umani, per quanto brutali, non furono il fattore principale della scomparsa delle popolazioni amerindie. Dopo tutto, non era interesse degli Spagnoli e degli altri Europei permettere che i potenziali con-tribuenti e la forza di lavoro costituita dagli Indiani diminuis-sero. Il ruolo più distruttivo fu certamente quello delle malat-tie epidemiche.

W.H. McNeill, La peste nella storia. Epidemie, morbi e contagio dall’antichità all’età contemporanea,

Einaudi, Torino 1981

William Hardy McNeill, L’impatto delle malattie europee sulle popolazioni del nuovo mondo

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Nella seconda metà del Cinquecento si ebbe un notevole aumento del pauperismo e della mendicità. Per fronteggiare questo problema sociale, i principali Stati d’Europa decisero di non affi dare più ai privati il compito di assistere i bisognosi, ma di assumersi tale incarico direttamente, nel tentativo di distinguere i veri poveri dagli imbroglioni.

Nessun altro secolo è stato tanto consapevole del problema della povertà come il Cinquecento, in cui tutti gli osservato-

ri concordavano nell’affermare che il numero dei poveri e le

difficoltà da essi create non erano mai stati così grandi. Nel 1587 Sisto V deplorava in una bolla il comportamento dei va-gabondi («Riempiono di lamenti e di grida non solo i luoghi pubblici e le case private, ma perfino le chiese; fanno nascere timori e incidenti; vanno in giro come animali selvatici, senz’al-tra cura che la ricerca di cibo»); Juan Luis Vives biasimava i mendicanti che invadevano le chiese mentre i fedeli erano in preghiera («Si fanno largo tra la gente riunita, sfigurati dalle piaghe, emanando un lezzo insopportabile»); secondo il croni-sta Pierre de l’Estoile, nel 1596 a Parigi «la folla dei poveri nelle strade era così fitta da impedire il passaggio».In molte città dell’Europa occidentale almeno un quinto della popolazione era formato da indigenti. Nel 1551 il 17 per cento

Henry Kamen, Povertà e vagabondaggio nel Cinquecento20

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della popolazione di Troyes era inclusa nella categoria dei mendicanti e vagabondi, che però non comprendeva i biso-gnosi domiciliati stabilmente nella città; negli stessi anni a Lovanio i poveri erano il 21,7 per cento, a Leida circa il 40 per cento e a Bruxelles il 21 per cento. A Segovia nel 1561 era classificato così un sesto della popolazione, senza contare i vagabondi; a Bergamo nel 1575 su 20000 abitanti i poveri erano il 35 per cento, ma in questa categoria erano compresi solo «i vecchi, i malati e i minori di 15 anni»; a Exeter e a Leicester al tempo di Elisabetta metà della popolazione vive-va al di sotto della «linea della povertà». La miseria era dun-que una caratteristica innegabile delle città, dove i disoccu-pati abbondavano; ma sarebbe errato considerarla come un fenomeno esclusivamente urbano, e molti poveri erano origi-nari delle campagne. [...]I poveri senza fissa dimora furono sempre guardati con so-spetto e apprensione, anche quando non erano così numerosi come a Troyes nel 1551. Essi affluivano nelle città in cerca soprattutto di lavoro, di ricovero e di assistenza: in un docu-mento del 1569 si affermava che la beneficenza aveva attira-to a Londra «un gran numero di vagabondi, furfanti, sbandati e oziosi, oltre che di poveri, storpi e malati». Ben presto si cominciò a pensare che non fosse opportuno prestare a tutti i bisognosi un aiuto indiscriminato. I vagabondi erano malvisti sia perché oziosi, sia perché rappresentavano una minaccia per l’ordine sociale: erano gente senza radici e senza occupa-zione, estranei alla comunità che li ospitava, in una parola erano «diversi». Nel 1582 un magistrato del Kent, William Lambard, si scagliava contro «i vagabondi e i mendicanti

senza fissa dimora che infettano e corrompono il mondo coi loro furti, l’ubriachezza, la prostituzione, la procreazione di [figli, n.d.r.] illegittimi, gli omicidi e infiniti altri misfatti».Naturalmente molti di questi vagabondi cercavano solo di procurarsi da vivere. L’emigrazione di mera sussistenza, in aumento nel XVI secolo, era strettamente connessa col ciclo agrario: testimonianze relative all’Inghilterra degli anni dopo il 1570 mostrano che la mobilità era massima al termine del-la mietitura (agosto-settembre) e al tempo della semina (marzo-aprile). A differenza dei tradizionali migranti stagio-nali, che si trasferivano d’estate nelle zone di mietitura, ma tornavano in autunno ai loro villaggi, i nuovi migranti erano spesso degli sradicati, come quel Nicholas Lawrence, nativo dell’isola di Thanet, che dichiarò di essere «un povero brac-ciante, che oggi vive in un luogo e domani in un altro ». [...]Le leggi, in base al presupposto che i disoccupati fossero tali per volontà propria, li trattavano duramente, come si può vede-re da un decreto emanato nel 1544 nei Paesi Bassi, in cui si ordinava che fossero mandati alle galere «tutti i briganti e i vagabondi che non fanno altro che angariare la povera gente, andando di villaggio in villaggio e da una fattoria all’altra a chiedere l’elemosina, spesso con minacce, e passando la notte in taverne, fienili e luoghi simili; la loro miseria non deriva dai mali della guerra o da altre cause legittime, ma soltanto dal loro carattere riottoso e dalla loro indolenza, nel senso che non hanno nessuna voglia di guadagnarsi la vita lavorando».

H. Kamen, L’Europa dal 1500 al 1700, Laterza, Roma-Bari 1991

Peter Laslett ha coniato la fortunata espressione «il mondo che abbiamo perduto» per descrivere la realtà contadina preindustriale. A suo giudizio, si trattava di un mondo dotato di un proprio equilibrio, che riusciva a garantire un accettabile livello di vita. Tra i fattori di garanzia del sistema, un posto importantissimo aveva il controllo sociale sul matrimonio, che spesso era spostato in età relativamente alta.

«La mia bambina è ancora estranea al mondo. Non ha com-piuto quattordici anni. Lasciamo altre due estati soc-

combere al peso del loro rigoglio, prima di considerarla matura per le nozze». Così parla Capuleti nella seconda scena di Giu-lietta e Romeo. Ma, al di là delle sue parole e dei suoi senti-menti, sua figlia Giulietta sposa Romeo attorno ai quattordici anni. La madre di Giulietta non le nasconde in alcun modo il proprio punto di vista: «Bene, e allora pensiamo a queste noz-ze. Ragazze, qui a Verona, più giovani di te, degne persone, sono già spose e madri: salvo errore io ero già tua madre alla tua età e tu sei nubile ancora…». La madre di Giulietta si era

quindi sposata a dodici o a tredici anni, analogamente a tutte le altre nobili dame di Verona. Nella Tempesta, Miranda si sposa a quindici anni. Tutto appare piuttosto chiaro e plausibile. Nei drammi di Shakespeare, le donne, e quindi, presumibilmente anche le inglesi del suo tempo, potevano sposarsi poco dopo i dieci anni o anche prima e spessissimo lo facevano. Ciò tuttavia è falso. Abbiamo esaminato tutti i documenti che ci è stato pos-sibile reperire, per venirne a capo: tutti testimoniano che, nell’Inghilterra di Elisabetta e di Giacomo, il matrimonio in età tanto precoce era raro e, anche prima dei vent’anni, meno fre-quente rispetto al giorno d’oggi. A dodici anni il matrimonio, così come noi lo intendiamo, era praticamente inesistente. […]A quei tempi, in Inghilterra, come ancora accade attualmente con la Chiesa anglicana, ci si poteva sposare con una licenza o a seguito di pubblicazioni. Gli sposi dovevano fare richiesta della licenza al vescovo della diocesi in cui vivevano e spesso erano tenuti a indicare la loro età; motivo di ciò era che nes-sun giovane minore dei ventun anni poteva contrarre matri-monio religioso senza il consenso dei genitori, e anche al di sopra di tale età sposarsi senza il loro permesso era conside-rato grave peccato, in assenza di buone motivazioni. Abbia-mo esaminato circa mille licenze di matrimonio, rilasciate tra il 1619 e il 1660 dalla diocesi di Canterbury a persone che si sposavano per la prima volta: da queste risulta l’età dei ri-

Peter Laslett, Giovani e matrimonio in Inghilterra21

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chiedenti. C’è una donna che risulta di 13 anni, quattro di 15, dodici di 16: tutte le altre ne avevano 17 o più e 966, cioè quasi l’85% si sposavano per la prima volta dopo i 19 anni. L’età più frequente per le donne al primo matrimonio che ri-entrano in questo studio era di 22 anni […]. I maschi che si sposavano avevano in gran parte circa 3 anni più delle mogli, anche se ci sono alcuni matrimoni tra quelli registrati in cui la differenza d’età è notevole. Solo dieci uomini erano al di sot-to dei 20 anni, due ne avevano 18, mentre l’età più frequente era di 24 anni […]. In termini più correnti, l’età media di que-ste spose del periodo elisabettiano e giacomiano era di circa 24 anni e quella degli sposi di circa 28. Queste cifre dovreb-bero di certo bastare a sfatare la credenza che i nostri ante-nati si sposassero in età molto più giovane di noi. […]L’affermazione della madre di Giulietta appare piuttosto un po’ fuori dall’ordinario sotto un altro aspetto. Gli esperti ri-tengono infatti che nei paesi occidentali, durante le ultime due o tre generazioni, l’età della maturità sessuale femminile sia calata in modo sorprendente e che attualmente stia dimi-nuendo in misura anche più accentuata. In Svezia, nel 1905, le ragazze avevano le prime mestruazioni a 15,7 anni, età che nel 1949 era calata a 14,1. Negli Stati Uniti l’età del cosid-detto menarca era già di 14,1 anni nel 1904, ma nel 1951 era di 12,9. Per la Norvegia, dove questi rilievi statistici risalgono più addietro che altrove, era di 17,1 anni nel 1850 e di 13,5 nel 1951, più o meno la stessa età che si aveva in Inghilterra negli anni successivi. Se madama Capuleti e sua figlia erano sessualmente mature, quattrocento anni fa, e in grado di ave-re figli a un’età inferiore a quella delle donne della maggior parte del mondo d’oggi, dovevano veramente possedere delle doti eccezionali. E se quanto si sa riguardo al menarca nella Norvegia del 1850 può dare qualche indicazione anche in ri-ferimento all’Inghilterra elisabettiana, è impossibile che qui l’età normale per il matrimonio fosse dell’ordine dei dodici o tredici anni. Lo negano i fatti elementari della vita. […]La cifra di 17,1 relativa a un campione di ragazze norvegesi del 1850 non significa che mai queste raggiungessero la ma-

turità sessuale a 15, 14 o anche a 13 o 12 anni. Significa sem-plicemente che ciò si verificava altrettante volte prima dei 17 anni quanto dopo tale età. Giulietta quindi avrebbe potuto avere dei figli, anche se l’età media del menarca delle ragaz-ze di quell’epoca era quattro o cinque anni superiore all’età che ella aveva quando incontrò Romeo. Ma questo significa anche, naturalmente, che una percentuale notevole di donne sue contemporanee, e in specie le ragazze provenienti da fa-miglie dei ceti più umili, avrebbe dovuto attendere fino ai 18, 19 o anche ai 20 anni prima di giungere alla maturità. […] Un tempo solo pochi privilegiati potevano nutrirsi altrettanto be-ne, o vivevano altrettanto comodamente, di quanto noi tutti facciamo al giorno d’oggi, anche se allora la salute dei più abbienti era estremamente precaria. Sta diventando chiaro, quindi, che solo gente come la signora Capuleti e sua figlia potevano di norma ritenere di essere sessualmente mature per sposarsi, o comunque per avere figli, a tredici o quattor-dici anni. Ora, se questo fosse vero per tutti gli appartenenti alle classi privilegiate del mondo che abbiamo perduto, per ognuno dei membri di quella che abbiamo definito fascia dirigente e non altrettanto accadesse riguardo al resto della popolazione, se fosse vero nel caso della gentry [la nobiltà di campagna, n.d.r.] intesa come classe sociale in relazione a coloro che stavano su un gradino inferiore della società, saremmo di fronte allora a un contrasto antagonistico tra le due sezioni della popolazione. I membri delle classi privilegiate erano senza dubbio più alti, di maggior peso e meglio sviluppati degli altri, né più, né meno che in epoca vittoriana. Durante l’età elisabettiana, però, e, più in generale, nell’epoca prein-dustriale, ai nobili cresceva forse la barba e mutava la voce prima che al resto della popolazione: allo stesso modo, forse, le fanciulle nobili diventavano donne sessualmente mature in età più precoce.

P. Laslett, Il mondo che abbiamo perduto. L’Inghilterra prima dell’era industriale, Jaka Book, Milano 1997

Uno studio sul comportamento divenuto ormai fondamentale, anche se a distanza di decenni dalla sua prima pubblicazione, è quello che Norbert Elias dedicò al “processo di civilizzazione”, alle variazioni che i comportamenti, gli affetti e il modo di manifestarli, hanno subito tra Medioevo ed età moderna. L’esempio della forchetta evidenzia l’importanza degli atteggiamenti mentali complessivi affi nché determinate innovazioni e comportamenti possano realmente imporsi nella società.

Talvolta, qualche piccola notizia rende chiara la solidità di quelle usanze e mette in evidenza come esse possano

essere intese non soltanto come qualcosa di «negativo»,

come una «mancanza di civiltà» o anche di «conoscenza», come facilmente può apparire a noi, bensì come qualcosa che corrispondeva alle esigenze di quegli uomini, e che ap-pariva ad essi fornito di senso e necessario appunto sotto quella forma.Nell’XI secolo, un doge veneziano sposò una principessa gre-ca nella cui cerchia – bizantina – le forchette erano evidente-mente già in uso. Infatti, apprendiamo che essa portava il ci-bo alla bocca «au moyen de petites fourches en or et à deux dents» (mediante piccole forchette d’oro a due rebbi). A Ve-nezia ciò suscitò un tremendo scandalo: «Tale novità parve un segno di raffinatezza talmente eccessivo che la dogaressa fu severamente disapprovata dai preti, i quali invocarono su di lei la collera divina. Poco tempo dopo fu colta da una ma-lattia innominabile, e San Bonaventura non esitò a dichiarare che era stata un castigo di Dio.»

Norbert Elias, Epifanie della forchetta22

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Ci vollero ancora cinque secoli prima che la struttura dei rap-porti umani mutasse al punto da far sentire l’uso della for-chetta come un’esigenza generale. A partire dal XVI secolo, dall’Italia la forchetta fu introdotta dapprima in Francia, e quindi anche in Inghilterra e in Germania, perlomeno negli strati superiori, come utensile per mangiare, quando in pre-cedenza era stata usata soltanto per prendere il cibo solido dal vassoio comune. Fu Enrico III a importarla in Francia, pre-sumibilmente da Venezia. I suoi cortigiani furono canzonati non poco per questo modo «affettato» di mangiare, e del re-sto in un primo tempo essi non acquisirono una piena familia-rità con essa. Perlomeno, si racconta che una metà del cibo ricadeva sul tavolo nel tragitto che la forchetta compiva dal vassoio alla bocca. Un’usanza che per noi è del tutto naturale perché fin da piccoli veniamo allevati e condizionati secondo questo standard della società nel suo insieme. Ciò vale non soltanto per oggetti piccoli e apparentemente insignificanti come la forchetta, ma altresì per certe forme di comporta-mento che per noi oggi sono importanti e fondamentali.Ancora nel XVII secolo, la forchetta rimaneva sostanzialmen-te un oggetto di lusso per gli strati superiori, e per lo più era d’oro o d’argento.L’atteggiamento sopra descritto nei confronti di questa «in-novazione» rivela con grande chiarezza una cosa: le persone che mangiano, secondo il costume del Medioevo, la carne

prendendola con le mani dallo stesso piatto, bevono il vino dallo stesso bicchiere, sorbiscono la minestra dalla stessa scodella o dallo stesso piatto e insomma seguono tutti quegli usi particolari che abbiamo illustrato con esempi (e altri an-cora ne daremo), avevano tra di loro un rapporto differente dal nostro, e non soltanto a livello della loro chiara e fondata consapevolezza: evidentemente la loro vita emotiva aveva una struttura ed un carattere differenti. L’economia dei loro affetti era condizionata da forme di rapporto e di comporta-mento che, rispetto ai condizionamenti che riceviamo dalla nostra epoca, ci appaiono oggi sgradevoli e perlomeno assai poco attraenti. Ciò che mancava in questo mondo cortese, o che almeno non si era affermato con la stessa intensità, era quell’invisibile muro di affetti che oggi sembra levarsi tra i corpi degli uomini, separandoli e respingendoli, quel muro che oggi si avverte già soltanto avvicinandosi a qualcosa che è entrato in contatto con la bocca o con le mani di qualcun altro, e che si manifesta come un sentimento di disgusto alla mera vista di molte funzioni fisiche altrui, o spesso anche alla loro semplice menzione, oppure come un senso di vergogna quando le nostre funzioni fisiche sono esposte alla vista al-trui, e non soltanto allora.

N. Elias, Il processo di civilizzazione, il Mulino, Bologna 1982

Nell’analisi delle modalità del comportamento pubblico del monarca francese nel corso del Seicento, il riferimento va alla fi gura di Luigi XIV: un personaggio «pubblico da capo a piedi… che personifi ca non più soltanto la propria dinastia ma un’entità più vasta, più durevole, più astratta - lo Stato francese».

Il Regno di Francia nella sua età aurea – il Seicento – […] mette in risalto la centralità e la supremazia dell’istituzione

monarchica ed esalta la natura peculiare e esclusiva dei pote-ri del monarca […]. Luigi XIII (assistito e guidato invero prima da Richelieu e poi da Mazarino) si dedicò precipuamente a neutralizzare la resistenza e quando necessario a reprimere l’aperta ribellione dell’alta nobiltà e di altri poteri cetuali […]. Il compito di Luigi XIV […] non fu solo quello di prosegui-re le politiche del suo predecessore; egli ne integrò il succes-so […] facendo del monarca stesso, dei suoi consigli, della sua corte, il fulcro e il vertice incontestato dell’ordine politico. L’elaborazione di un corpo complesso e sottile di regole rela-tive alla vita di corte, e di pari passo la costruzione di Versail-les, costituirono in un certo senso il capolavoro del regno di Luigi XIV, perché servirono a scopi molteplici. Vista dal paese nel suo insieme la corte appare come un palcoscenico splen-didamente illuminato sul quale vengono rappresentati spetta-coli mirabili, come una elevata piattaforma dalla quale il Re Sole irraggia la luce della propria maestà. Alla nobiltà fran-

cese, la vita a corte offre un insieme di ricompense economi-che e di status che la compensano in parte per le prerogative politiche che è venuta perdendo. Al contempo, vivendo a corte i nobili si distanziano sia dalle loro basi sociali originarie, le signorie fondiarie sparse in tutto il paese, sia dalla capitale (data la distanza tra Parigi e Versailles). Infine, la vita a cor-te mette in competizione i singoli personaggi nobiliari; e le rivalità che ne risultano non costituiscono una minaccia per la posizione del monarca, perché concernono precipuamente i suoi favori, e fatalmente si esprimono in modi che continua-mente riaffermano la sua supremazia; inoltre permettono ai contendenti di costituire tutt’al più delle claques [gruppi, n.d.r.] e delle cabale su piccola scala, di breve durata e di composizione sempre mutevole. Al vertice dell’intero contesto si erge la figura del re, che personifica non più soltanto la propria dinastia ma un’entità più vasta, più durevole, più astratta – lo stato francese. È questa l’interpretazione più plausibile della frase (probabil-mente apocrifa) L’etat c’est moi [Lo Stato sono io, n.d.r.] come tentativo di confondere totalmente lo stato francese con l’identità privata dell’individuo fisico Louis Bourbon [Lu-igi di Borbone, n.d.r.]. Invero […] il Re di Francia era da capo a piedi, integralmente, un personaggio “pubblico”. Sua ma-dre lo partoriva in pubblico, e a partire da quell’istante la sua intera esistenza, fin nei suoi momenti più triviali, era tutta giocata alla presenza di astanti che a loro volta occupavano dignitose cariche pubbliche. Mangiava in pubblico, andava a letto in pubblico, si svegliava e si rivestiva e faceva la sua

Gianfranco Poggi, Il re e la nobiltà23

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toeletta in pubblico, orinava e defecava in pubblico. Non fa-ceva l’amore in pubblico; ma poco ci mancava, se si considera in che circostanza si attendeva che deflorasse la propria au-gusta sposa. Non faceva spesso il bagno in pubblico; ma tant’è, non lo faceva spesso neanche in privato. Appena mo-riva (in pubblico), il suo cadavere veniva prontamente e di-

sgustosamente dissezionato in pubblico, e le varie parti di esso venivano cerimoniosamente affidate a questo o a quello tra i vari personaggi d’alto rango che si erano affaccendati intorno a lui nel corso della sua esistenza mortale.

G. Poggi, Lo Stato, il Mulino, Bologna 1992

Lo sviluppo europeo di momenti, fi gure ed esperienze signifi cative nella storia dell’attività giornalistica dagli ultimi anni del Seicento alla fi ne del Settecento viene analizzato in particolare su fogli e gazzette nati all’interno dell’esperienza culturale dell’Illuminismo italiano.

Stabilire durata e diffusione di quei primi giornali è pratica-mente impossibile. Quasi tutti durano poco; e, in base ai

pochi dati disponibili, si può ritenere che la tiratura vada dal-le duecento copie alle mille nelle situazioni e nelle occasioni più favorevoli.Di libertà, il compilatore e lo stampatore ne hanno molto poca o non ne hanno affatto. In tutta l’Europa l’esercizio della stam-pa e l’attività giornalistica sono sottoposti al regime di esclusi-va […]. Del resto, il compilatore è talvolta un funzionario o, comunque, un fiduciario della Corte o del governo. Tuttavia, se lo status è comune, non poche differenze corrono fra la stampa dei paesi più avanzati d’Europa e quella che sta crescendo in Italia per le diverse condizioni politiche e religiose […].Alle regole dell’assolutismo fanno in parte eccezione i Paesi Bassi e l’Inghilterra. Amsterdam è già all’avanguardia per attività di stam pa e come mercato delle informazioni com-merciali. Sfruttando le esigenze e il potere del ceto mercanti-le, alcuni stampatori e giornalisti danno vita a gazzette non imbalsamate dall’ufficialità. In Inghilterra sono le tumultuo-se vicende della guerra civile ad alimentare le rivendicazioni della libertà di espressione (la celebre Areopagitica di John Milton è del 1664) e le richieste di abolire il privilegio e la censura preventiva. Questo obiettivo viene raggiunto nel 1695, quando il Parlamento abolisce il Licensing Act […]. La stampa inglese è la prima che può affrontare abbastanza li-beramente temi politici in una contrapposizione già netta tra conservatori e liberali. Nel 1787 il liberale Edmund Burke può proclamare che la stampa è il «quarto potere» […].Nella penisola […] il mestiere è pieno di rischi […]. Nel 1719, Clemente XI manda a morte l’abate Gaetano Volpini ritenen-dosi calunniato da un suo scritto. Numerose sono le bolle papali emanate contro i gazzettieri. Un bando del 1691 li ac-comuna a «giocatori, biscazzieri, meretrici e donne disoneste che vanno in carrozza».L’allargarsi del pubblico che cerca i giornali e i progressi che consentono di stamparli e di diffonderli meglio preoccupano i detentori del potere in tutta Europa. Alla fine del Seicento e nella prima parte del Settecento si stringono i lacci della cen-

sura o si inventano altri interventi – come il diritto di bollo che l’editore deve pagare su ogni copia stampata – per ren-dere difficile la vita dei giornali o per scoraggiare i propositi di farne dei nuovi.Salgono alla ribalta i giornali letterari e quelli specializzati: per un po’ di tempo la politica passerà attraverso i dibattiti culturali. […] La città dove questo genere di giornalismo tro-va le condizioni per una grande fioritura è Venezia […].Il primato letterario del giornalismo Venezia lo consolida do-po la metà del secolo [XVIII, n.d.r.], quando Goldoni furoreg-gia e tra i ceti colti delle città italiane meno oppresse dall’as-solutismo cominciano a penetrare l’influenza dell’illumini-smo, quella della massoneria e la lezione di quel giornalismo culturale di tono morale creato a Londra da Richard Steele e Joseph Addison con il «Tatler» e lo «Spectator» […].Oltre alla lezione giornalistico-culturale di Addison, ne co-mincia a circolare in Italia un’altra ben più importante; anzi, rivoluzionaria. È la lezione illuministica dell’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert […].A raccoglierla e a tradurla in un giornale, «Il Caffè», che re-sterà il miglior prodotto italiano dell’illuminismo, sono Pietro Verri, suo fratello Alessandro, Cesare Beccaria, che nel 1764 pubblica Dei delitti e delle pene, e altri amici. «Il Caffè» esce prima a Brescia e poi a Milano dal 1764 al 1766, quando «la piccola società decide di sciogliersi» […].Nei centri maggiori alcuni fogli superano le 1500 copie. In questi casi il mestiere dello stampatore si rivela particolar-mente redditizio […]. Ben diversa è la condizione dei giorna-listi i quali, generalmente, non possono campare con i pro-venti del mestiere […].Nell’età delle riforme e dei primi sconvolgimenti politici e sociali che segnano la crisi dell’ancien régime, sono le noti-zie stesse a produrre marcati cambiamenti nell’informazione. Infatti, le notizie delle lotte per l’indipendenza e la libertà e dei conflitti che in vari paesi contrappongono la società civile e i governanti non si possono più nascondere.I fatti nuovi che avvengono in varie parti d’Europa – soprat-tutto in Francia, e nel Nord America, dominano le prime pagi-ne delle gazzette. La guerra d’indipendenza dei coloni del Nord America e il delinearsi del crollo dell’ancien régime in Francia e in altri Paesi hanno ripercussioni enormi in Italia. «Grazie alle gazzette – scrive Matteo Galdi, un giornalista di quel tempo, – nei giornali si incominciò a parlare di politica e a discutere delle verità pericolose per i tiranni».

P. Murialdi, Storia del giornalismo italiano, il Mulino, Bologna 1996

Paolo Murialdi, Giornalisti e gazzette dall’assolutismo alla rivoluzione24

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Lo studio dell’educazione dei bambini è stato spesso trascurato dalla storiografi a. In questo brano si analizzano le diverse modalità con le quali, tra la fi ne del XVII e il XVIII secolo inoltrato, bambini e bambine appartenenti a famiglie privilegiate compivano il proprio itinerario di studi.

Dopo i cinque-sette anni, il destino di bambini e bambine […] si divide. Per i primi, le soluzioni adottate abbraccia-

no un gran numero di possibilità. In primo luogo, l’educazione può proseguire in casa sotto l’autorità di un precettore […]. Il precettore deve occuparsi dell’iniziazione al latino e alle al-tre scienze (storia, geografia, matematica). A motivo del suo stato […], anche l’istruzione religiosa e la preparazione ai sacramenti (confessione e comunione) rientrano nelle sue funzioni insieme alla sorveglianza sui costumi. In questi suoi doveri egli è più o meno rigorosamente controllato dal padre […].Fino alla fine del XVIII secolo la forma scolastica più frequen-te, a questo livello di studi, resta ancora, perlopiù, il colle-gio, e, volendo considerare che la rete principale di questi ultimi si è andata configurando fin dagli anni Settanta del XVII secolo, si assiste dunque fino alla Rivoluzione francese alla fioritura di edifici […] modesti (solo due o tre professori) in piccole e medie città desiderose di dotarsi di strutture cul-turali adeguate alle ambizioni della loro oligarchia municipa-le. È possibile individuare, comunque, più d’una trasforma-zione. La prima riguarda la modalità di socializzazione dei bambini […]. Non possiamo non essere colpiti dallo sviluppo concomitante delle nuove grandi public schools e delle acca-demie private in Inghilterra, dei collegi per nobili nell’Italia settentrionale e centrale e dei grandi pensionati aristocratici in Francia alla fine del XVII secolo e all’inizio del XVIII. Oltre all’allontanamento forzato (che fa parte, non dimentichiamo-lo, del tradizionale bagaglio di esperienze del giovane nobi-

le) questa nuova formula risponde alle attese delle famiglie almeno su tre piani. In terra cattolica, il fatto che questi gran-di pensionati siano retti da congregazioni religiose rinomate (Benedettini, Oratoriali, Gesuiti, Scolopi), garantisce la soli-dità della formazione religiosa e il controllo rigoroso dei co-stumi […].In secondo luogo, la selezione degli ammessi operata dal co-sto della retta permette di supporre che i propri figli saranno allevati con compagni della loro età, che appartengono alle stesse élites, sia di nascita che per condizione economica […]. Infine, il convitto aristocratico o l’accademia privata so-no innovativi rispetto al collegio […]. Alle lingue antiche in-segnate nelle classi vanno ad aggiungersi […] matematica, storia, geografia, araldica. Agli studi si aggiungono le lezioni dei maestri di quelle arti destinate allo svago: calligrafia, di-segno, armi, musica vocale e strumentale, danza e a volte perfino lingue straniere […].Nel presentare queste categorie privilegiate abbiamo forse lasciato troppo spazio ai maschi? Ma l’educazione delle loro sorelle, poiché è meno formalizzata, lascia sempre meno tracce. Una cosa è sicura: durante il XVIII secolo si delinea un movimento che sposta l’asse fondamentale dell’educazione dal convento alla famiglia, contrariamente a ciò che frequen-temente accadeva nel XVII secolo […]. L’analisi dei registri contabili dei convitti femminili di Parigi conferma la testimo-nianza di Madame Campan, la quale scrive che a partire dagli anni Sessanta del Settecento «quasi tutte le ragazze non tra-scorrevano più di un anno nei monasteri e questo anno era quello che si destinava allo studio approfondito del catechi-smo, del ritiro e della prima comunione. Da tempo era stato abbandonato l’uso di lasciare le ragazze fino all’età dei di-ciotto anni dietro le grate, dalle quali uscivano senza saper scrivere due parole in francese».

D. Julia, L’infanzia tra assolutismo ed epoca dei lumi, in Storia dell’infanzia, II. Dal Settecento a oggi,

Laterza, Roma-Bari 1996

Dominique Julia, L’educazione d’élite nel XVIII secolo25

Lo sviluppo della popolazione italiana tra la metà del XVIII secolo e la fi ne dell’Ottocento, pur se inserito nel contesto di un aumento generalizzato della popolazione europea, è delineato nelle sue particolarità e differenze interne.

A partire dal primo cinquantennio del Settecento, la cresci-ta della popolazione europea si è sviluppata, per almeno

due secoli, a saggi crescenti. In questo lungo processo, che ha interessato in misura assai differenziata i singoli paesi, l’Italia è stata coinvolta con un certo ritardo, almeno rispetto

a quei paesi che più hanno contribuito al risultato complessi-vo. Mentre la seconda metà del XVIII secolo ha fatto registra-re l’impetuoso sviluppo della popolazione inglese […], la popolazione complessiva dell’Italia ha mantenuto, lungo il corso del Settecento, un ritmo di crescita più o meno costante e relativamente modesto, comunque più lento della media europea. Non bisogna però dimenticare, in un confronto della tendenza generale della popolazione italiana con quella di altri paesi europei, che il territorio italiano, già alla fine del Seicento (soprattutto in relazione alla sua orografia e alle sue caratteristiche geografiche) era uno dei più densamente popolati del continente. Si può dunque ritenere che già allora […] non vi fossero margini molto ampi, anche in termini di

Lorenzo Del Panta, Lo sviluppo demografico in Italia dal 1750 a fine Ottocento26

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rapporto tra popolazione e territorio, per una crescita gene-ralizzata della popolazione. La frammentazione politica dell’Italia […] non consente in realtà di conoscere con esattezza l’ammontare della popola-zione complessiva dell’Italia, in confini omogenei prima degli ultimi decenni del Settecento. Una stima di larga massima porta a valutare che il tasso medio annuo di crescita sia stato, complessivamente, di poco inferiore al 4 per mille nei primi settant’anni del secolo. I dati più affidabili dei quali possiamo disporre per il periodo successivo (a partire cioè dal 1770) permettono di evidenziare una prima fase di crescita relativa-mente vivace nel decennio 1771-81 […]. A questo decennio fa però seguito un periodo più lungo di crescita assai contenuta, in conseguenza, soprattutto, degli anni difficili della dominazione francese e della grande crisi di sussistenza del biennio 1816-17. Il decennio 1821-31 ve-de invece un incremento demografico particolarmente ac-centuato, spiegabile in parte con una forte ripresa congiun-turale dei matrimoni e delle nascite, che rappresenta la ri-sposta alla crisi sociale ed economica degli anni precedenti. In seguito, l’incremento demografico si assesta, in Italia, su un tasso medio annuo prossimo al 6-7 per mille, sensibil-mente superiore rispetto ai valori che avevano caratterizza-to il secolo XVIII […].

L’evoluzione demografica dell’Italia non può però essere ri-guardata, nel lungo periodo, come un processo unitario. Va intanto sottolineato il fatto che, lungo tutto l’arco del XVIII se-colo e ancora, in buona misura, fino alla metà di quello succes-sivo, la popolazione aumenta soprattutto nelle campagne, mentre lo sviluppo demografico delle città appare, nel com-plesso, assai poco dinamico […]. I rari casi di sviluppo urbano accelerato (le città portuali di Livorno e Catania per il XVIII secolo, cui si aggiunge Torino nell’Ottocento preunitario) sono riconducibili a cause specifiche e non generalizzabili […].Nel corso del Settecento, l’espansione demografica maggiore risulta quella dell’Italia meridionale e insulare, mentre i ter-ritori settentrionali e quelli centrali della penisola hanno an-damenti tra loro opposti: la crescita rallenta nel Nord nel secondo cinquantennio, e subisce invece un’accelerazione nelle regioni dell’Italia centrale. Nella prima metà del secolo successivo, il Mezzogiorno continentale risulta ancora l’area a più rapido sviluppo demografico (con un tasso medio annuo superiore al 6 per mille), ma le differenze tra le diverse ri-partizioni sono abbastanza attenuate.

L. Del Panta, Dalla metà del Settecento ai giorni nostri, in AA.VV., La popolazione italiana dal Medioevo a oggi,

Laterza, Roma-Bari 1996

Tra Settecento e Ottocento nasce un gran numero di “società segrete” che spesso vogliono evitare il controllo esercitato dalla polizia in difesa dello Stato. Delle società segrete vengono qui delineate le principali caratteristiche e l’evoluzione, con particolare riferimento al movimento della Carboneria.

Il complesso movimento settario dell’età napoleonica, che continuerà, estendendosi ulteriormente, nell’età della Re-

staurazione, comprendeva, accanto alla Massoneria ufficiale […], numerose sette variamente orientate dal punto di vista ideologico, ma tutte raggruppabili in due correnti: una rea-zionaria ed una che si può genericamente definire liberale. Alcune di queste sette hanno dei legami con talune correnti della Massoneria settecentesca, e quasi tutte traggono dalla Massoneria, o per diretta derivazione o per imitazione, il si-stema dell’organizzazione per gradi e l’uso di riti e di formule simboliche. Ma tutte hanno un carattere attivistico e cospira-torio, che non esisteva nella Massoneria settecentesca […]. Le società segrete o semisegrete di carattere cattolico tradi-zionalistico ebbero una diffusione abbastanza notevole. Esse si ricollegano in qualche caso all’estrema ala destra cattoli-cizzante della Massoneria settecentesca o ad organizzazioni fondate da gesuiti dopo lo scioglimento della Compagnia […] e furono favorite dal clima di ritorno alla fede caratteristico dei primi anni dopo il 1800 e di tutta l’età romantica […].La base prima delle società segrete patriottiche e liberali fu

data probabilmente dalla rete di gruppi clandestini già ade-renti alla Società dei Raggi, i quali quasi certamente soprav-vissero allo scioglimento di questa nel 1802 […].Tra queste in un primo tempo la principale fu quella dei Fila-delfi, formatasi probabilmente nei primi anni dopo il 1800, per opera di ex giacobini e di militari, soprattutto ufficiali su-balterni, rimasti fedeli all’idea repubblicana. I Filadelfi si diffusero in tutto l’esercito napoleonico […], riconoscendosi tra loro con segni e parole convenzionali […].Da logge massoniche di rito scozzese, esistenti nel Mezzo-giorno d’Italia, secondo alcuni studiosi sarebbe derivata la Carboneria. Secondo altri invece essa […] sarebbe stata in-trodotta nell’Italia meridionale dai francesi dopo il 1806. Questa seconda ipotesi sembra più probabile: essa è confer-mata da alcune testimonianze degne di fede e più ancora dall’identità di gran parte del rituale e del simbolismo della Carboneria con quello dei Charbonniers. Questi ultimi, che, come i Carbonari italiani, si chiamavano tra loro Buoni Cugi-ni, erano un vecchio compagnonnage di carbonai, boscaioli, cacciatori, contrabbandieri, diffusosi dalla Franca Contea e dalla regione del Giura ad altre zone di confine tra la Francia, la Svizzera e l’Italia […].Fino dai primi anni la Carboneria fu organizzata in sezioni, dette vendite, raggruppate territorialmente sotto la guida di vendite madri, a loro volta dipendenti da alcune alte vendite. Le cerimonie di iniziazione erano, come in tutte le società se-grete di quell’epoca, assai complicate, solenni e piuttosto lu-gubri. Anche i Carbonari usavano segni convenzionali, parole sacre, parole di passo e parole di riconoscimento. Tutti dove-

Giorgio Candeloro, Evitare il controllo: le società segrete27

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vano essere armati di pugnale e versare mensilmente alla vendita una somma di denaro. I gradi di iniziazione sembra che fossero dapprima soltanto due, Apprendista e Maestro, ai quali sarebbe stato aggiunto dopo qualche tempo quello di Gran Maestro; più tardi, forse dopo il 1815, questo grado fu sostituito da altri sette gradi di tipo massonico. Ogni grado aveva il suo catechismo, che conteneva (come in altre società segrete) i princìpi dottrinali, rituali, organizzativi e disciplina-ri che gli iniziati al grado stesso dovevano seguire. Di questi catechismi esistono varie redazioni; da essi risulta che agli iniziati dei primi due gradi veniva proposto un programma ge-nericamente umanitario, costituzionale e indipendentista.

Sembra invece che il terzo grado implicasse l’adesione ad idee egualitarie molto radicali e che proprio per questo quando la società raggiunse una grande diffusione, questo grado fu abo-lito o fu tenuto segretissimo e fu sostituito con i sette gradi di tipo massonico caratterizzati da un simbolismo molto superfi-ciale: ai dirigenti della società sembrò forse pericolosa e poli-ticamente inopportuna la diffusione tra un gran numero di aderenti di idee democratiche radicali, che giungevano fino a propugnare l’adozione della “legge agraria”.

G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. 1, Feltrinelli, Milano 1986

Dalle condizioni di vita dei lavoratori nelle città investite dal processo di rivoluzione industriale, specie per quanto riguarda il problema delle abitazioni e dell’orario di lavoro, emerge un quadro generale segnato da progressi molto lenti e circoscritti.

Il benessere materiale del lavoratore dipendente, dovunque egli svolgesse la propria attività, era legato alle condizioni

ambientali in cui viveva e in cui lavorava e all’entità, alla regolarità e al potere d’acquisto del suo salario […]. In nes-sun paese i pubblici poteri considerarono loro compito prov-vedere alla costruzione delle case necessarie, e pochi furono i datori di lavoro che sentirono l’obbligo di dare un alloggio ai loro dipendenti. Il compito era lasciato ai costruttori privati, che dovevano tener d’occhio da un lato ciò che l’inquilino avrebbe potuto pagare e dall’altro i costi di manutenzione, le tasse, i tassi di interesse e la rendita fondiaria […]. Le file di case addossate le une alle altre, abitazioni-tugurio e grandi casamenti erano il meglio che potesse offrire un’industria priva delle risorse economiche proprie della produzione su vasta scala, di credito a buon mercato e di sovvenzioni pub-bliche […]. Il più ampio problema delle strade, delle fognatu-re, degli acquedotti e dell’igiene pubblica era […] difficile da risolvere […]. Nelle grandi città […] il fumo era più denso e più acre, fiumi e sorgenti erano più inquinati, pozzi neri e gabinetti più nume-rosi, più difficile la raccolta e l’eliminazione delle acque di scarico. Le continue epidemie estive di tifo, dissenteria e al-tre malattie imponevano un tributo più grave che per il passa-to […]. La salute pubblica dovette farsi strada fra molti altri problemi per attirare l’attenzione dei legislatori, e l’attirò solo saltuariamente. [In Gran Bretagna, nel 1870] l’indice di mortalità era circa lo stesso che nel 1840 […]. La situazione

non era migliore negli altri paesi e i progressi giunsero lenta-mente. […].Le condizioni di lavoro, il secondo fattore da cui dipendeva il benessere del lavoratore dipendente, divennero argomento di violente controversie nel 1830, quando le lettere di Richard Oastler al «Leeds Mercury», denunciando l’impiego di bam-bini per molte ore al giorno, diedero l’avvio alle agitazioni per la giornata lavorativa di dieci ore. Questa rivendicazione affrettò il passo successivo, che andò oltre le rudimentali leggi sulle fabbriche del 1802, del 1819 e del 1825. La legge del 1833 si applicava a quasi tutte le fabbriche tessili, vieta-va l’impiego di bambini sotto i nove anni, limitava la settima-na lavorativa dei ragazzi fra i nove e i tredici anni e richiedeva una certa frequenza scolastica. Inoltre fissava un massimo di sessantanove ore alla settimana per i ragazzi fra i tredici e i diciotto anni con esclusione del lavoro notturno, comprende-va alcune disposizioni precauzionali per la salute e la sicu-rezza e nominava quattro ispettori di fabbrica a tempo pieno. In seguito il complesso dei provvedimenti venne migliorato e ampliato ogni dieci anni. Intorno al 1870 sussistevano pochi stabilimenti industriali in cui gli ispettori non facessero ri-spettare le disposizioni riguardanti l’età minima, l’orario massimo per i ragazzi sotto i diciotto anni e per tutte le don-ne, l’igiene e la sicurezza. Gli uomini adulti, sebbene non fossero tutelati dalla legge, ne avvertivano sia pure indiretta-mente la presenza là dove il loro lavoro dipendeva dalla col-laborazione di donne e di ragazzi, nonché per effetto della crescente insistenza sulle misure di sicurezza. I commessi di negozio, i braccianti, i lavoranti a domicilio, i domestici e gli impiegati rimasero esclusi da ogni protezione legale fino a molto tempo dopo il 1870.

H. Heaton, Lo sviluppo dell’economia, in Storia del mondo moderno, vol. 10, Il culmine della potenza europea (1830-1870),

Milano, Garzanti 1970

Herbert Heaton, Lavoro e quotidianità nelle città della rivoluzione industriale

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La condizione dei giovani italiani ha subito diversi mutamenti tra “l’invisibilità” degli anni del dopoguerra e la progressiva consapevolezza generazionale degli anni Cinquanta. Si è andato delineando un panorama distinto per ciascuna area di età propria del mondo giovanile, con successive trasformazioni nel “paesaggio sociale” italiano fi no agli anni del boom.

Nei quasi tre lustri che separano il termine della seconda guerra mondiale dal boom economico di fine anni cin-

quanta, l’Italia modifica radicalmente il proprio paesaggio sociale […]. Protagonisti indiscussi e simboli di questo acce-lerato processo di modernizzazione sono i giovani […]. È […] opportuno distinguere […] tra due distinti universi giovanili che in questo periodo storico convivono: l’universo di coloro che entrano nell’Italia repubblicana avendo vissuto in prima

persona, seppur bambini, l’esperienza della guerra – i nati nel decennio degli anni trenta – e quello di coloro che, venu-ti al mondo negli anni quaranta, crescono in un mondo socia-le la cui identità si costruisce principalmente intorno al nuovo benessere post-bellico e al processo di modernizzazione che al suo interno si esprime […]. Rintracciare le voci dei giovani del dopoguerra non è impresa semplice. Ragazzi e ragazze non hanno ancora identità in quanto giovani e le loro riflessioni o i loro interrogativi non acquistano rilievo pubblico, scivolano via coperti dal suono […] dei giudizi che gli adulti esprimono su di loro […]. La con-dizione “afasica” dei giovani del dopoguerra nasce da una contraddizione per ora senza sbocco: da un lato un eccesso – di esperienze: traumi, separazioni, violenze, ma anche di aspirazioni, di desideri e sogni –, dall’altra un’assenza di am-biti in cui esprimere questa ondata di sentimenti e di ragioni, in cui farsi ascoltare dal mondo adulto […]. Ragazzi e ragazze non hanno tribune a disposizione dalle quali far udire la pro-

Carmen Leccardi, I giovani tra gli anni Quaranta e Cinquanta30

I modelli di comportamento maschili e femminili all’interno della “famiglia borghese” tradizionale nell’Italia del XIX secolo subiscono l’infl uenza della società circostante e sono a loro volta capaci di infl uenzarla.

La coppia borghese si va imponendo nel corso dell’Ottocen-to come modello e non si limita a influenzare in maniera

radicale i modi di vita e le aspirazioni delle classi sociali in-feriori, ma il suo fascino penetra anche nelle sfere più alte, nell’aristocrazia e nella stessa famiglia reale […].Melodramma, romanzi, rappresentazioni teatrali furono uno dei mezzi più importanti per la diffusione della nascente cul-tura borghese, nell’ambito della quale il problema della ride-finizione delle relazioni familiari acquistava un rilievo parti-colare […].L’identità femminile dipendeva solamente da quella dell’uo-mo a cui essa faceva riferimento e che uno squilibrio econo-mico a favore della sposa, a differenza di quello che accadeva nella società contadina dove avrebbe potuto produrre un ro-vesciamento dei rapporti di potere all’interno della coppia, non cambiava nulla e costituiva invece solo un motivo di ver-gogna per la donna che non aveva saputo/potuto trovare un marito alla sua altezza.Tutti abbiamo impresse nella memoria le immagini tipo della coppia borghese tradizionale, fotografata o dipinta, quasi sempre in un interno che ne rende più espliciti i connotati di status sociale: il marito è in piedi, vestito di scuro, spesso con baffi e barba, con un’aria seria, importante e solida; la moglie, spesso seduta, è vestita di colori pastello che contrastano,

insieme con i pizzi e i nastri che adornano il vestito, con l’au-sterità del vestito maschile, e ha un’espressione dolce, mode-sta, quasi sempre melanconica. Vediamo che ad una società che si sta definendo come ideologicamente «neutra» si propo-ne una divisione dei ruoli maschili e femminili molto rigida.L’identità maschile è formata dalla capacità professionale, dal gruppo social/professionale di appartenenza, dall’ideo-logia politica, dal laicismo: una rete di rapporti pubblici, che, per essere mantenuti, richiedono qualità razionali, serietà, coraggio, diplomazia. Mentre il marito, vestito di scuro, senza sentimentalismi e debolezze, si afferma in un mondo in rapi-da trasformazione, dove si schiudono crescenti possibilità di carriera e di ascesa sociale, la moglie attende chiusa nel suo universo domestico, dove coltiva la sensibilità, l’innocenza, la dolcezza. Queste donne che non hanno alcuna aspirazione di inserimento diretto nel sociale, ma si rassegnano a vedere il mondo esterno con gli occhi del padre/marito, attraverso i quali è definito il loro posto nella società, si vedono ricono-sciuta una sola possibilità di identità positiva, quella di ma-dre, ed è in base a questo ruolo che vengono giudicate […].In questi stessi anni, lo sviluppo economico si accompagna ad una crescente importanza del denaro, che diventa sempre più strumento di potere, di autonomia e di status e sono gli uomi-ni, che lo guadagnano, gli unici che posseggono un’immagine sociale e godono di possibilità di autodeterminazione: il con-to dei fornitori, infatti, viene di solito inviato al marito, che quindi opera un controllo diretto sulla quantità e la qualità dei consumi.

L. Scaraffia, Essere uomo, essere donna, in La famiglia italiana dall’Ottocento a oggi, a cura di P. Melograni,

Laterza, Roma-Bari 1988

Lucetta Scaraffia, La famiglia borghese nell’Italia dell’Ottocento29

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Durante gli anni Cinquanta, alla luce dei cambiamenti verifi catisi nella società americana, in un contesto sociale di generalizzato benessere l’universo giovanile statunitense vede fi orire la “cultura” del drive-in e del rock’n’roll.

Il concetto di teen-ager nasce negli anni Cinquanta: prima di allora i teen-ager non esistevano, almeno come categoria.

Dai pantaloni corti si passava direttamente agli abiti “seri” de-gli adulti senza alcuna fase intermedia e i bambini diventavano a un tratto uomini, pronti a lavorare, a costruire una famiglia e all’occorrenza a fare la guerra. Fino agli anni Cinquanta gli adolescenti non rappresentavano una realtà a sé stante, e nes-sun mercato, moda o genere musicale era mai stato creato espressamente per loro […]. Mai in passato una generazione aveva goduto di tanto tempo libero. La vertiginosa crescita dell’economia americana a partire dalla seconda metà degli anni Quaranta aveva portato il Paese alle soglie della piena occupazione. Le famiglie ora si trovavano in tasca denaro da spendere, e avevano recuperato un certo senso di tranquillità. Sollevati da ogni responsabilità e dal bisogno, i ragazzi poteva-no permettersi di imperversare per le strade, i locali e gli shop-ping malls, e si godevano i frutti del rifiorente consumismo […]. A cavalcare l’onda erano soprattutto i teen-ager, che in questo mondo nuovo fatto di strade, macchine, autoradio e tempo libe-ro trovavano l’occasione per recidere i legami con la routine familiare. Il drive-in era la meta favorita e in un certo senso naturale per gli adolescenti freschi di licenza di guida e alla ri-cerca di sensazioni forti da consumarsi al di fuori delle pareti domestiche. Era nel drive-in che, a partire dagli anni Cinquanta,

confluivano i generi tipici del cinema “minore”, la cosiddetta exploitation: horror, western, fantascienza a basso costo e i primi esempi di quei prodotti che portavano sullo schermo le tematiche prettamente giovanili […]. Il drive-in rappresentava […] la roccaforte di una cultura “profana” contrapposta al foco-lare domestico di cui la televisione era la nuova custode. Era il luogo in cui i teen-ager ingurgitavano bibite gassate, hot-dog e confezioni giant-size di popcorn godendosi un’intimità altri-menti negata con le loro girl-friends o condividendo collettiva-mente le vibrazioni viscerali irradiate dallo schermo […].Il mercato del pop era nelle mani delle major discografiche (Dec-ca, London, Capitol, Columbia, RCA) che, forti del loro potere contrattuale, erano in grado di vincolare i cantanti di maggior talento e carisma coprendo l’ampia fetta della domanda costitui-ta dal pubblico bianco. Ma il pop non esauriva lo spettro delle espressioni musicali popolari che si ascoltavano negli Stati Uniti. Nelle aree agricole del Sud andava per la maggiore il country & western […] il rhythm’n’blues, la musica da ballo in voga fra i giovani dei ghetti neri, completava la triade dei generi di largo consumo […]. Nel 1954 il non più giovanissimo musicista bianco Bill Haley […] e la sua nuova band – i Comets – […] decisero di reinterpretare un brano […], Rock Around the Clock […]. Inclusa nella colonna sonora de Il seme della violenza (the Blackboard Jungle di Richard Brooks, 1955), la canzone sfruttò l’effetto-traino della clamorosa ondata di entusiasmo suscitata dal film […]. Il seme della violenza dava così inizio a quelle incontrolla-bili manifestazioni di delirio adolescenziale che avrebbero se-gnato da allora in poi il rapporto fra i teen-ager e il mondo dello spettacolo: Rock Around The Clock ne era il canto di guerra.

F. Denti - F. Saulini, Teen idols, Castelvecchi, Bologna 1999

pria voce, esporre dubbi o problemi; non dispongono di spazi legittimati né hanno consapevolezza generazionale. Essi vi-vono prevalentemente come apprendisti tra gli adulti, in una condizione di oggettiva minorità sociale […]. L’aprirsi del nuovo decennio si incarica di dare forza e orien-tamenti culturali non più omogenei a quelli adulti, contri-buendo a costruire forme diffuse di autoconsapevolezza gio-vanile. Protagonista di questi processi sarà la coorte dei nati negli anni quaranta […] letteralmente sospinta al centro del-la scena sociale dal vento del “miracolo economico”. Il nuovo mondo dei consumi, insieme all’industria del tempo libero che in quegli anni si consolida, concorrono infatti a ritagliare intorno alla figura dei giovani il ruolo di protagonisti sociali. I giovani usano gli strumenti materiali e simbolici che lo svi-luppo economico e l’industria del loisir rendono disponibili – mezzi di trasporto, musica, abbigliamento, figure di riferi-mento come quelle dei divi ecc. – per mettere a punto la propria fisionomia generazionale, per costruire per la prima volta un’identità collettiva […]. Il nuovo stile di vita giovani-le, a cui i consumi si incaricano di dare espressione, appare a sua volta funzionale all’espansione di questi ultimi. Chi me-

glio dei giovani, infatti, potrebbe incarnare in questa fase il dinamismo dei bisogni, la mobilità, la ricerca del nuovo e l’apertura all’imprevisto – tutti elementi che favoriscono, sotto il profilo culturale, l’espansione del mercato? In sinte-si, negli anni del boom entrano in positiva congiunzione fre-sche disponibilità di reddito delle famiglie e nuove istanze culturali. Ne risulta un intreccio tra diffusione di inediti mo-delli di consumo, attrezzature simboliche veicolate dal mon-do delle merci e domande di identità giovanile. Una congiun-tura particolarmente favorevole per lo sviluppo di orienta-menti culturali autonomi da parte dei giovani […]. Mai come in questo periodo l’universo giovanile può considerarsi unifi-cato da spinte comuni verso una costruzione biografica sgan-ciata dai percorsi dell’“etica del sacrificio” propri della so-cietà tradizionale, oltre che da una maggiore richiesta e pra-tica di autonomia personale.

A. Cavalli - C. Leccardi, Le culture giovanili, in Storia dell’Italia repubblicana, a cura di F. Barbagallo, vol. 3, tomo II,

L’Italia nella crisi mondiale. L’ultimo ventennio, Einaudi, Torino 1997

Francesco Denti e Fabrizio Saulini, Teen-ager, drive-in e rock’n’roll31

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I cambiamenti ideali prodott i negli Stati Uniti nel corso degli anni Sessanta vengono messi a confronto con la loro ricezione nel decennio successivo. A partire dalle rivendicazioni dei diritti dei neri, gli Stati Uniti si trovarono al centro di una «rivoluzione dei diritti» che «completò la trasformazione della libertà americana da un corpo fi nito di diritti goduti principalmente da uomini bianchi in una rivendicazione illimitata all’uguaglianza, al riconoscimento dei diritti e all’autodeterminazione» da parte di ogni singolo e di ogni gruppo sociale.

Non sorprende che la rivoluzione per i diritti civili […] ispi-rasse molti altri americani a esprimere le proprie rimo-

stranze e reclamare i propri diritti. Alla fine degli anni ses-santa movimenti per i diritti […] mutuarono le tattiche del confronto dal movimento dei neri e dalla nuova sinistra, adot-tando il loro linguaggio di “potere” e “liberazione” e il loro atteggiamento di sfida nei confronti delle organizzazioni tra-dizionali e dei metodi di approccio legalitari […]. La “rivolu-zione dei diritti” completò la trasformazione della libertà americana da un corpo finito di diritti goduti principalmente da uomini bianchi in una rivendicazione illimitata all’ugua-glianza, al riconoscimento dei diritti e all’autodeterminazio-ne. Alla fine degli anni sessanta, e per molto tempo dopo, il governo e il sistema giuridico furono sommersi da rivendica-zioni di diritti da parte di ogni genere di gruppi che si ritene-vano danneggiati – neri, donne, gay, beneficiari dello stato sociale, gruppi etnici, anziani e handicappati. Venivano avan-zate richieste anche per i diritti di chi non poteva esprimersi […]. Il Congresso e la Corte Suprema avrebbero speso molti anni a definire i diritti dei vari gruppi di americani e il ruolo del governo nel sostenerne o limitarne il godimento […].Gli anni sessanta si estesero oltre i loro limiti cronologici. La Great Society raggiunse un’imprevedibile impennata durante l’amministrazione Nixon […], il movimento studentesco toccò l’apice nel 1970 […] il movimento contro la guerra [in Vie-tnam, n.d.r.] andò avanti fino all’Accordo di Pace di Parigi del 1973 […]. Di tutti i successi degli anni sessanta, nessuno fu più durevole di quello relativo alla trasformazione degli

atteggiamenti popolari nei confronti del ruolo e dei diritti del-le donne, della sessualità e della famiglia. Gli anni settanta furono un decennio in cui la rivoluzione sessuale passò dalla controcultura alla società nel suo complesso, producendo un rapido aumento nel numero dei divorzi, un incremento del numero delle donne nel mondo del lavoro retribuito (negli anni ottanta più della metà delle donne sposate) […]. I valori e gli stili di vita degli anni sessanta […] divennero parte dell’America degli anni settanta […]. Anche l’intreccio del personale con il politico, che ampliava l’esperienza della li-bertà individuale per tanti americani, contribuì a un crescente allontanamento dalla politica formale e, in verità, da qualun-que nozione di vita civile comune. Sotto alcuni aspetti […] la crescente domanda di liberazione e di realizzazione persona-le rifletteva il linguaggio e le aspirazioni della cultura consu-mistica del dopoguerra. C’era più continuità di quanto potes-se apparire a prima vista tra la richiesta dei contestatori che gli individui fossero autorizzati a “scegliere” il proprio stile di vita nella ricerca di realizzazione personale, e il “decennio dell’ego” ripiegato su se stesso che seguì.Proprio come la Guerra civile aveva fissato l’impalcatura, per diverse generazioni, della politica americana, e le campagne politiche avevano ruotato attorno al New Deal per molti anni dopo la morte di Roosevelt, così, sembrava, gli americani erano condannati a combattere ancora le battaglie degli anni sessanta molto tempo dopo la fine di quel decennio. I rappor-ti razziali, il femminismo, il ruolo del governo nella battaglia contro i mali della società e il ruolo che competeva alla na-zione negli affari internazionali – erano questioni che non erano emerse negli anni sessanta, ma gli eventi di quegli an-ni le rendevano più pregnanti e più dirompenti. Con il ritorno del paese al conservatorismo, gli anni sessanta divennero agli occhi della società americana responsabili di ogni male, reale o immaginario: dal crimine, all’abuso di droghe, alla gravidanza delle minorenni fino al declino del rispetto per le autorità (come se attraverso il Vietnam, il Watergate e i de-cenni di complicità con il razzismo, le autorità non si fossero già screditate da sole). In realtà, proprio grazie agli anni ses-santa gli Stati Uniti sono diventati un paese più aperto, più tollerante: in una parola, un paese più libero.

E. Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma 2000

Eric Foner, Le trasformazioni sociali negli anni Sessanta e Settanta32

Il movimento del 1968 «aveva nella generazione giovane, nei membri della fascia tra i sedici e i trent’anni, l’intera base sociale». Nonostante le contraddizioni, la sua peculiarità principale risiede nella volontà di rottura con il contesto sociale esistente.

Uno dei tratti che più immediatamente colpirono gli studiosi e gli osservatori, ma anche i membri del movimento stes-

so, fu il suo carattere generazionale: per la prima volta, un fenomeno di quelle dimensioni e di quella portata politica ave-va nella generazione giovane, nei membri della fascia tra i sedici e i trent’anni, non […] un settore particolarmente attivo, ma l’intera base sociale […]. Se vogliamo comprendere in che

Peppino Ortoleva, I giovani e il Sessantotto33

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Nel dopoguerra, in Europa e negli Stati Uniti il numero degli studenti universitari crebbe enormemente, trovando le università impreparate a sostenere un affl usso così massiccio. A partire dalle prime forme di protesta, la contestazione giunse a mettere in discussione ogni forma tradizionale di autorità.

Se mai ci fu un solo momento negli anni d’oro dopo il 1945 corrispondente al sogno dell’insurrezione mondiale simul-

tanea coltivato dai rivoluzionari dopo il 1917, quello fu certa-mente il 1968, quando gli studenti si ribellarono dagli Stati Uniti e dal Messico a Occidente fino alla Polonia, alla Ceco-slovacchia e alla Jugoslavia nei paesi dell’Est, stimolati per lo più dalla straordinaria esplosione del maggio parigino del 1968, epicentro di una sollevazione studentesca diffusa in tutto il Continente. [...] La ragione per cui il 1968 (con il suo prolungamento nel 1969 e nel 1970) non fu una rivoluzione e non ne ebbe mai né poteva averne le caratteristiche fu che gli studenti, per quanto numerosi e pronti alla mobilitazione, non potevano fare la rivoluzione da soli. La loro efficacia politica consisteva nel fungere da detonatori e da segnali per strati sociali più ampi, ma meno facilmente infiammabili. Dagli anni ’60 in poi gli studenti assolsero talvolta questa funzione con successo. Essi innescarono enormi ondate di scioperi operai in Francia e in Italia nel 1968, ma, dopo vent’anni di migliora-

mento senza precedenti delle paghe salariali in economie di piena occupazione, la rivoluzione era l’ultimo pensiero che avevano in mente le masse proletarie. [...]Nei paesi sviluppati un livello così alto di radicalizzazione a sinistra era un fatto nuovo, mentre non lo era nei paesi arre-trati e dipendenti. Prima della seconda guerra mondiale, la grande maggioranza degli studenti nell’Europa centrale e oc-cidentale e nel Nordamerica era apolitica o di destra. La cre-scita smisurata del numero degli studenti suggerisce una possibile risposta. Alla fine della seconda guerra mondiale, gli studenti in Francia erano meno di centomila. Nel 1960 erano più di duecentomila e nei dieci anni successivi triplica-rono, diventando 651000. (Durante questi dieci anni il nu-mero degli studenti nelle facoltà umanistiche si moltiplicò di quasi tre volte e mezzo; il numero di studenti nelle facoltà di scienze sociali di quattro volte.) La conseguenza più diretta e immediata fu il sorgere di una tensione inevitabile fra queste masse studentesche (per lo più studenti di prima generazio-ne) che si riversavano nell’università, e le istituzioni che non erano pronte a ricevere una tale affluenza né materialmente, né organizzativamente né intellettualmente. Inoltre, poiché una crescente porzione di giovani aveva la possibilità di stu-diare – in Francia il 4% nel 1950, il 15% nel 1970 –, andare all’università cessò di essere un privilegio eccezionale tale da ripagare da sé solo lo studente, e pertanto vennero avver-titi molto di più i sacrifici che la condizione studentesca impo-neva a giovani adulti in genere con pochi soldi. Il rancore

modo la sua caratterizzazione di età e di generazione contribuì a definire la ribellione giovanile degli anni ’60, la sua identità, le sue strategie, i suoi progetti, probabilmente il modo miglio-re è evidenziare l’intrecciarsi al suo interno di diversi modelli (anche fortemente contraddittori fra loro) di relazione con il mondo adulto, e con l’autorità che gli era conferita […].a. La ribellione morale. Oltre […] che in un rifiuto per l’auto-rità come oppressione, la rivolta giovanile ha le sue premes-se, e lo dimostrano molto bene i primi documenti, soprattutto americani, in una ribellione morale, nel sentimento di avere a che fare con autorità potenti ma prive di ogni legittimità che non fosse il semplice esercizio del dominio […]. Il movimento studentesco dava voce in occidente a una crisi, quella che veniva definita allora «crisi di credibilità», che coinvolgeva i rapporti fra istituzioni e cittadinanza in quasi tutte le demo-crazie; mentre in Europa orientale prendeva apertamente di mira la totale separazione fra potere e società […].b. La separazione. La tendenza a “ritirarsi”, a separarsi dalla società dominante, la ricerca di un proprio spazio, di un luogo (in senso fisico, non solamente simbolico) in cui vivere in pie-na autonomia e libertà, circondati da una comunità di pari, e soprattutto sulla pratica di un sistema di valori distinto e pra-ticato in piena autenticità: sono spinte che attraversano tutti i movimenti giovanili degli anni ’60 […].c. La continuità e la minaccia dell’integrazione. D’altra parte, l’enfasi sulla separazione e sulla creazione, anche fisica, di

propri spazi, è logicamente l’altra faccia di una consapevolezza diffusa: fra la comunità giovanile e l’età adulta vi erano forme di continuità, di circolazione, che mettevano continuamente in forse la radicalità della ribellione, evidenziavano la possibilità di un suo recupero, di quella “integrazione” che era, in tutto il mondo, il massimo timore dei militanti del movimento […].d. Darsi un passato. Se gli aspetti di continuità con il mondo adulto venivano spesso vissuti dal movimento con irritazione e preoccupazione, a un altro livello però la ribellione giovanile manifestava un’ansia di radici, l’esigenza di darsi comunque un passato, di rompere l’isolamento generazionale. Molti dei suoi maggiori critici e osservatori hanno messo in evidenza l’esigen-za che il movimento manifestò di tradurre nel linguaggio, e nei gesti, del passato un conflitto che era in effetti radicalmente nuovo. Agendo così il movimento del ’68 non faceva che ripe-tere, più o meno inconsapevolmente, quello che era avvenuto già nelle rivoluzioni precedenti: se i giacobini si erano rivestiti di panni romani, e i comunardi delle brache dei sanculotti, non è stupefacente che gli insorti di maggio abbiano adottato lo stile, le tattiche di strada, la terminologia stessa, dei comunar-di. Una scelta rassicurante, un modo di esorcizzare la paura che il movimento ammetteva, nei suoi documenti più lucidi, di sentire, per il suo muoversi su terreni inesplorati.

P. Ortoleva, I movimenti del ’68 in Europa e in America, Editori Riuniti, Roma 1998

Eric J. Hobsbawm, La protesta studentesca nel 196834

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verso un particolare tipo di autorità, quella universitaria, si allargò facilmente nel rifiuto di ogni altra autorità, e perciò (nell’Occidente) spinse gli studenti verso sinistra. [...]I giovani estremisti erano guidati – nella misura in cui accet-tavano dei capi – da loro coetanei. Questo era vero per i movi-menti studenteschi che si diffusero in tutto il mondo, ma dove quei movimenti innescarono proteste operaie, come in Francia e in Italia nel 1968-69, l’iniziativa venne presa anche da gio-vani operai. Nessuno che avesse un’esperienza sia pur minima dei limiti della vita reale, ossia nessuno che fosse autentica-mente un adulto, avrebbe potuto escogitare slogan fiduciosi ma palesemente assurdi come quelli scanditi nel maggio pari-gino del 1968 o nell’autunno caldo italiano del 1969: «Tutto e subito». [...] Il carattere essenzialmente antinomiano [av-verso a ogni tipo di regola, soprattutto in merito alla condotta personale, n.d.r.] della nuova cultura giovanile si manifestò con maggior chiarezza quando trovò espressione intellettuale, come accadde nei manifesti del maggio parigino del 1968, che divennero subito famosi: si pensi allo slogan «È vietato vieta-re» [...]. Contrariamente all’apparenza, queste non erano af-fermazioni politiche nel senso tradizionale, neppure nel senso

più ristretto di espressioni miranti ad abolire leggi repressive. Non era questo il loro obiettivo. Erano invece pubbliche pro-clamazioni di desideri e sentimenti privati. Come diceva uno slogan del maggio 1968: «Prendo i miei desideri per la realtà, perché credo nella realtà dei miei desideri». Anche quando i desideri dei singoli si espressero congiuntamente in manife-stazioni, in gruppi e in movimenti di carattere pubblico; anche in ciò che sembrò una ribellione di massa e talvolta ne ebbe gli effetti, la soggettività restò il nucleo essenziale. [...] Per i giovani contestatori parigini la cosa importante non era certo ciò che i rivoluzionari speravano di ottenere con la propria azione, ma ciò che facevano e come si sentivano mentre lo facevano. Fare l’amore e fare la rivoluzione non potevano es-sere disgiunti con chiarezza. La liberazione personale e la li-berazione sociale procedettero così di pari passo; infatti il modo più ovvio per infrangere i legami imposti dal potere, dal-la legge e dalle convenzioni dello stato, dei genitori e dell’am-biente sociale erano il sesso e le droghe.

E.J. Hobsbawm, Il secolo breve, Rizzoli, Milano 1995

La scoperta della pillola anticoncezionale, che ha permesso a milioni di donne di controllare la propria fertilità, può essere considerata una delle cause principali della rivoluzione sessuale che ha caratterizzato i decenni conclusivi del XX secolo.

Se vogliamo capire qualcosa delle trasformazioni antropo-logiche, cioè del diverso modo di essere uomini di epoca in

epoca, [...] oggi dobbiamo rivolgerci alla biochimica. Dobbia-mo rivolgerci a quei laboratori scientifici di ricerca dove si pongono le premesse per un cambiamento, nel modo di esse-re uomini, così profondo, che nessuna religione, nessuna filo-sofia, nessuna guerra, nessuna pace, nessun afflusso o de-flusso di ricchezza, lento o repentino, avevano mai così radi-calmente determinato. [...] Basta pensare alla pillola anti-concezionale che, sciogliendo l’atavico nesso che lega il piacere sessuale alla riproduzione, è stata l’unico vero fon-damento della liberazione femminile. Solo dopo giunse il femminismo come istanza ideologica a promuovere l’emanci-pazione della coscienza femminile che la biochimica aveva già emancipato nel solido e irreversibile registro della mate-ria. Le donne sono uscite dalle mura di casa, dove erano corpi di servizio e corpi di riproduzione, per camminare lungo le vie della città di giorno e di notte come corpo di seduzione e cor-pi di bellezza.Lo schema della relazione maschio-femmina si trasformò ra-dicalmente. Il maschio, che conosceva solo il proprio corpo come corpo libero dalla catena della riproduzione, si trovò di fronte un altro corpo liberato (biochimicamente liberato), e il suo schema di vita subì un contraccolpo che lo obbligò ad una

trasformazione e a una rivisualizzazione di sé a cui nessuna idea, nessuna guerra, nessuna rivoluzione, nessuna trasfor-mazione culturale o epocale l’aveva costretto in termini così radicali. L’ingresso nella storia della pillola anticonceziona-le, almeno in Occidente, liberò le donne dalla vita domestica, creò l’esercito delle baby sitter e quello delle domestiche ex-traeuropee, riempì i posti di lavoro di fascino femminile, pro-crastinò il desiderio di un figlio ai limiti estremi dell’età fisio-logica costringendo a scelte ansiogene, drammatiche e preci-pitate, liberò la sessualità rendendola meno poetica e più pratica, spostò i limiti del comune senso del pudore, costrinse le morali a fare delle contorsioni su se stesse per rendere tollerabile quello che un tempo era deprecabile [...].Con la pillola anticoncezionale, un evento biochimico modifi-cò il modo di essere uomini e donne e diede un volto nuovo alla società. L’apparire del corpo femminile, liberato dalla catena della riproduzione, esasperò la bellezza nelle forme del narcisismo più sfrenato, su cui il sistema della moda si gettò come un leone sulla sua preda. E al seguito del sistema della moda, quello dell’alimentazione, dal supermercato di città all’ultimo ortolano di paese, per non parlare delle far-macie, vere e proprie drogherie dove si smerciano illusioni di bellezza e di psichico benessere. Questi nuovi valori da ven-dere contaminarono anche la tribù maschile che prese a imi-tare il narcisismo femminile ingentilendosi fino al limite dell’imprecisione sessuale. Scopo unico dell’esistenza diven-ne la bellezza e il protrarsi della giovinezza in quella messa in scena dell’apparire che ogni giorno di più erodeva il terre-no alla scena dell’essere.

U. Galimberti, Il mondo cambiato dalle pillole, in «la Repubblica», 17 maggio 1998

Umberto Galimberti, La rivoluzione del costume alla fine del XX secolo35

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S t o r i a e s o c i e t à

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Negli anni Novanta il mondo giovanile è particolarmente concentrato sulle varie modalità di impiego del tempo libero, sul consumo di musica e sulle trasformazioni della moda.

Negli ultimi decenni la musica si è trasformata da risorsa da fruire privatamente o in un piccolo gruppo omogeneo a

occasione di incontro pubblico. Da vario tempo la fruizione della musica significa happening, meeting di massa, festa giovanile, occasione per stare insieme e partecipare a eventi collettivi. I concerti di massa costituiscono soltanto la punta dell’iceberg di un fenomeno la cui attrattiva è anche rappre-sentata dalla grande varietà di generi musicali, da un conti-nuo mutamento degli stili, dalla proposta di nuovi contenuti e linguaggi, dalla presenza di stars musicali in grado di perso-nificare i vari stili e messaggi. Collegata alla musica vi è l’esperienza del ballo e della discoteca, che da alcuni anni a questa parte si presenta sempre più come il luogo indispen-sabile per il divertimento nel tempo libero. Dovunque nel nostro Paese il popolo della notte è in crescita, alla ricerca di nuove sensazioni ed emozioni in spazi in cui è possibile libe-rarsi dai condizionamenti della vita quotidiana. Il sovraffolla-mento, la frenesia del ballo, i ritmi musicali intensi, l’esibi-zione del corpo, l’autocompiacimento, il desiderio di conqui-sta sessuale, un look appropriato, le possibilità trasgressive, l’adesione a determinate tendenze culturali, sono tutti ele-menti che attestano quanto sia complesso e articolato il mo-do in cui vaste quote di giovani cercano di rispondere all’im-perativo dell’evasione e del divertimento nelle discoteche.Un’altra sfera di spettacolo è riscontrabile nel consumo da parte di larghe quote di giovani di oggetti e beni di varia na-

tura (capi di abbigliamento, auto-moto, bibite, dischi, giorna-li-riviste ecc.), la cui assunzione permette ai soggetti di esi-bire un “look” che rappresenta a un tempo sia un tratto di-stintivo della personalità, sia un adeguamento alle tendenze culturali emergenti. Sullo sfondo di queste dinamiche cultu-rali (ma si potrebbero richiamarne molte altre) emerge un giovane assai propenso al divertimento e all’evasione; che tende a liberare nel tempo libero quelle possibilità espressi-ve che paiono soffocate nella routine quotidiana o negli spazi istituzionali; che risulta sensibile alla cultura dell’edo nismo e del narcisismo e alle istanze di riappropriazione del corpo; che ritrova un’identità e una distinzione generazionale nella condivisione con i propri pari di particolari ambienti, avveni-menti, stili di vita, beni di consumo, linguaggi; caratterizzato dal bisogno di socialità, dal piacere di stare insieme, dal pri-mato delle relazioni interpersonali; particolarmente attento a utilizzare strumenti e simboli che rispondano all’esigenza dell’esibizionismo e di un’autorappresentazione sociale gra-tificante […].Le nuove forme di aggregazione giovanile possono certamen-te esprimere tendenze creative in vari campi e favorire l’af-fermarsi di nuove solidarietà e di nuovi valori; ma a fianco di elementi di autenticità (o mescolati a essi) si danno vari fe-nomeni di aggregazione, in cui prevale un’imitazione recipro-ca o un’adesione superficiale e passiva a uno stile, a una moda, a un gusto […]. È indubbio che molte proposte e hap-pening musicali che in questi ultimi decenni hanno alimentato l’immaginario collettivo giovanile siano un prodotto dell’in-dustria culturale, particolarmente abile a interpretare le istanze emergenti per ottenere un incremento del mercato.

F. Garelli - M. Offi, Giovani. Una vecchia storia?, SEI, Torino 1997

Franco Garelli, Giovani e tempo libero36

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P e r c o r s o 4

Religione e religioni

È più facile morire per una religione che viverla assolutamente. Jorge Luis Borges

Non fa certo parte della religione imporre la religione.Tertulliano

La scienza senza la religione è zoppa, la religione senza la scienza è cieca.

Albert Einstein

È proprio la religione vera quella che non occorre professare ad alta voce per averne il conforto, di cui, qualche volta,

non si può fare a meno.Italo Svevo

Date agli uomini la cultura senza la religione e ne farete soltanto dei demoni intelligenti.

Arthur Wellesley, duca di Wellington

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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D O C U M E N T I

Rodolfo il Glabro, Il primo rogo di eretici: i canonici di OrléansLa presenza di eretici incomincia a divenire massiccia nelle fonti a partire dagli inizi dell’XI secolo, anche se, allora come nei secoli successivi, abbiamo quasi esclusivamente documenti prodotti dai persecutori degli eretici e non dagli accusati stessi: resoconti in cronache scritte da vescovi e monaci, qualche atto processuale, provvedimenti di carattere normativo. Una delle prime testimonianze è relativa al gruppo di eretici scoperto e condannato a Orléans tra 1017 e 1022. È significativa l’attribuzione dell’origine della dottrina all’Italia; aver indicato quale tramite della sua diffusione una misera donna serviva invece a sminuire il significato complessivo della dottrina eretica.

L’anno diciassettesimo dopo il mille, nella città di Orléans venne smascherata un’eresia quanto mai rozza e tra-cotante, che, dopo aver allignato per lungo tempo nascosta, venne alla luce provocando la perdizione di molta

gente trascinata nella trappola della propria cecità. Pare che questa folle eresia sia stata portata nelle Gallie, in origine, da una donna che veniva dall’Italia; posseduta com’era dal demonio, costei seduceva tutti quelli che pote-va, non solo gli inesperti o gli ingenui, ma anche moltissimi di condizione clericale, in apparenza assai istruiti. Ar-rivata dunque nella città di Orléans, vi si trattenne per un certo periodo contaminando parecchia gente col veleno della sua perversione; e coloro che ne avevano accolto il seme funesto si sforzavano in ogni modo di diffonderlo tra i più. Tale nefasta dottrina ebbe due eresiarchi, uomini che, per disgrazia, avevano una posizione eminente nel clero cittadino per famiglia e cultura: l’uno si chiamava Eriberto, l’altri Lisoio. Finché l’affare rimase nascosto, co-storo mantennero rapporti di grande familiarità sia col re sia coi dignitari del palazzo; ecco perché ebbero tanta facilità nel traviare quelle menti che erano meno legate all’amore per la fede cattolica. Tentarono poi di propagare la mala dottrina non solo in questa città, ma anche in quelle vicine, finché, nell’intento di associare alla propria follia un savio prete della città di Rouen, gli inviarono dei messaggeri per istruirlo e spiegargli ogni mistero di quel-la dottrina insensata, annunziando che in braccio ad essa sarebbe tra breve finita l’intera popolazione. Udito ciò, il prete si affrettò a recarsi presso il cristianissimo Riccardo, conte di quella città, riferendogli l’intera vicenda così come l’aveva appresa. Con prontezza e rapidità il conte inviò un messaggio al re, svelandogli l’esistenza di quel male nascosto che appestava nel suo regno le pecorelle di Dio. A quella notizia il re Roberto, da uomo assai istruito e perfetto cristiano, fu preso da grave tristezza e dolore, perché temeva che ne seguisse la rovina certa per la patria e la perdizione per tante anime. Recatosi quindi con la massima sollecitudine a Orléans dopo avervi convocato un gran numero di vescovi e abati, oltreché di laici devoti alla religione, condusse accuratissime indagini su chi fossero i promotori di quella assurda dottrina e su chi si fosse lasciato ingannare e fosse già entrato nelle loro file. Nel corso dell’inchiesta fatta tra i chierici – su quel che ciascuno intuiva o credeva in merito a quan to la fede cattolica immutabilmente tramanda e insegna attraverso la dottrina degli apostoli –, i due di cui si diceva, Lisoio e Eriberto, rivelarono subito le proprie tendenze, rimaste a lungo segrete, ammettendo di pensarla ùmdiversamente. Parecchi altri dichiararono poi di aderire allo stesso partito, aggiungendo che non intendevano per alcun motivo rompere l’unione con loro.

Rodolfo il Glabro, Cronache dell’anno mille, III, 26, a cura di G. Cavallo - G. Orlandi, Fondazione Valla/Mondadori, Milano 1989

Sebastiano Castellione, La tolleranza degli ereticiL’autore esprime in questo brano delle più articolate e autorevoli prese di posizione contro la condanna di eretici e dissenzienti, che trae spunto dalle esperienze di repressione a Ginevra.

Ci sono dunque due generi di eretici, ossia di pertinaci. Gli uni sono pertinaci nei costumi, come gli avari, gli scioperati, i lussuriosi, gli ubbriaconi, i persecutori e gli altri che, ammoniti, non si correggono. […] Altri sono

pertinaci nelle cose spirituali e nella dottrina: e ad essi propriamente si adatta il nome di eretico. Eresia è infatti parola greca, che significa setta o opinione: perciò sono detti eretici coloro che troppo tenacemente aderiscono ad una setta o ad un’opinione viziata. […]Ma giudicare della dottrina non è altrettanto facile come dei costumi. Quanto ai costumi, infatti, se interroghi un giudeo, un turco, un cristiano intorno a un ladrone o a un traditore, risponderanno tutti d’accordo che i ladroni

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sono degli scellerati e vanno uccisi. Perché tutti sono così d’accordo? Perché è cosa notissima. […] Questa nozione è iscritta nell’animo di tutti gli uomini, fin dal principio del mondo. E proprio questo dice Paolo, che le genti han-no la legge scritta nei loro cuori. Così anche gli empi possono giudicare di queste cose. Ma se veniamo alla religio-ne vediamo che essa non è altrettanto nota. Ci fu, un tempo, quasi in tutte le genti, l’opinione che ci siano molti dèi. Con la sua venuta Cristo tolse di mezzo questo errore, di modo che né i Turchi né altre nazioni dubitano più che ci sia un Dio solo, e tutti si accordano in ciò coi Cristiani. Se qualcuno nega Dio, costui è un empio ed ateo, e a giudizio di tutti merita di essere abbominato. Anche i Turchi pensano così, poiché credono nel Dio del quale scrisse Mosè, e in ciò senza controversia convengono con Giudei e Cristiani. Fino a questo punto la fede di queste tre nazioni è comune. Quanto a Cristo, ne fanno molto conto pure i Turchi, e in ciò superano i Giudei, ed hanno ciò in comune coi Cristiani. Ma i Cristiani vanno oltre a tutti gli altri in quanto credono che Gesù Cristo sia figlio di Dio, e Signore e giudice del mondo: e questo è comune a tutti i Cristiani. Ma come a proposito di Cristo, insomma, i Turchi dissentono dai Cristiani, e i Giudei da questi e da quelli, ed a vicenda si condannano e si considerano ere-tici; così intorno alla dottrina di Cristo in molti luoghi i Cristiani discordano dai Cristiani, e si condannano a vicen-da e si considerano eretici. Sono aspre, infatti, le controversie intorno al battesimo, alla cena del Signore, all’invo-cazione dei santi, alla giustificazione, al libero arbitrio ed a molte altre oscure questioni: di modo che i Cattolici, i Luterani, gli Zwingliani, gli Anabattisti, i Monaci e gli altri si condannano e perseguitano a vicenda anche più di quanto facciano i Turchi nei confronti dei Cristiani. Tali dissidi certo non derivano che dall’ignoranza della verità. Se queste cose fossero note quanto è noto che c’è un Dio solo, tutti i Cristiani sarebbero d’accordo su di esse come tutte le nazioni riconoscono che c’è un solo Dio. Che dunque resta da fare in mezzo a così gravi dissidi? Che acca-da ciò che insegna Paolo: «Chi non mangia non disprezzi chi mangia, poiché l’uno e l’altro sta o cade per il suo Signore». I Giudei o i Turchi non condannino i Cristiani, e a loro volta i Cristiani non disprezzino i Turchi o i Giudei, ma insegnino piuttosto e conquistino con la pietà. E inoltre, tra Cristiani, non condanniamoci a vicenda; ma, se siamo più dotti, cerchiamo di essere anche migliori e più misericordiosi. Poiché è certo che quanto meglio uno conosce la verità, tanto meno è incline a condannare gli altri, come appare chiaro in Cristo e negli apostoli. Invero, colui che facilmente condanna gli altri, con il suo stesso condannare mostra che non sa nulla, poiché non sa agire con clemenza, ignora la clemenza: a quel modo che non saper avere pudore è ignorare il pudore. Se ci comporte-remo così potremo vivere in tranquillità tra noi: se saremo discordi nelle altre cose, almeno saremo d’accordo nel mutuo amore (che è il vincolo della pace) finché verremo all’unità della fede. Ora, mentre gareggiamo negli odii e nelle persecuzioni, di giorno in giorno diventiamo peggiori e non ricordiamo il nostro dovere (occupati come siamo a condannare gli altri), e l’Evangelo ha cattiva fama tra i gentili per colpa nostra. Quando vedono infatti che tra di noi ci facciamo violenza come belve, e che sempre i più deboli sono oppressi dai più forti, detestano l’Evangelo, quasi fosse esso a generare gente simile; e detestano Cristo stesso, quasi egli avesse comandato che accadessero tali cose: onde è più facile per noi degenerare in Turchi o in Giudei che non far diventare Cristiani quelli. Chi vorrebbe infatti diventare Cristiano, vedendo che coloro che confessano il nome di Cristo, senza alcuna misericordia sono uccisi dagli stessi Cristiani, col fuoco, coll’acqua e col ferro, e trattati più severamente che alcun ladrone o grassa-tore? Chi non crederà che Cristo sia un qualche Moloch, o un dio di quella specie, se vuole che gli siano immolati e bruciati degli uomini vivi? […] Immagina che Cristo stesso sia presente quale giudice, che pronunci la sentenza e dia fuoco al rogo: chi non considererà Cristo come Satana?

S. Castellione, Fede, dubbio e tolleranza, La Nuova Italia, Firenze 1960

Jakob Sprenger e Heinrich Institoris, Il martello dei maleficiIl Malleus Maleficarum (Martello delle Streghe, 1486), fu uno dei libri più letti e venduti del XV secolo, scritto con la precisa intenzione di dimostrare definitivamente la realtà di tutte le pratiche che venivano imputate alle streghe, e, conseguentemente, la terribile urgenza per la cristianità di estirpare al più presto la setta diabolica. I due inquisitori tedeschi godettero dell’appoggio dell’imperatore Massimiliano e riuscirono anche a fare in modo che le tesi sostenute nel libro risultassero approvate dalla Facoltà teologica di Colonia. Nel passo si cerca di dimostrare (e così sarà per l’opinione pubblica) la capacità di volare e recarsi al sabba delle streghe.

Adesso bisogna affrontare le cerimonie delle streghe e il modo in cui compiono le loro opere, e in primo luogo quello che fanno di se stesse e della loro persona. Il trasferimento da un luogo all’altro è una delle loro azioni

più salienti, come il fatto di abbandonarsi alle sporcizie carnali con i diavoli incubi; tratteremo ciascuno di questi punti, cominciando dal trasporto del corpo.

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A questo proposito alcuni predicatori citano in pubblico il caso di san Germano e di un altro che allo stesso modo osservò la figlia: costoro dicono che tutte queste cose sono assolutamente impossibili. E quest’affermazione viene applicata indistintamente alle streghe e alle loro opere, come se le loro azioni, che insidiano gli uomini, gli anima-li, i frutti della terra non dovessero essere attribuite a loro; con la scusa che, essendo i loro trasporti puramente fantastici, sarebbero illusori anche i danni che infliggono alle creature.Nella prima questione della prima parte questa opinione è stata confutata come eretica; essa è infatti contraria a quanto Dio permette alla potenza del diavolo, che infatti può arrivare a cose anche più notevoli. È contraria anche allo spirito della Scrittura e causa un danno intollerabile alla Santa Chiesa, in cui molte streghe, a causa di questa credenza rovinosa, che amputa al braccio secolare del potere la capacità di punirle, sono state lasciate indisturbate. Ed esse sono aumentate così smisuratamente che ormai non è più possibile sradicarle. Ecco perché il lettore diligente considererà quanto gli viene proposto qui per demolire tale credenza; e in particolare adesso verrà a sapere come fanno le streghe a trasferirsi, in che modo questo sia possibile e conoscerà le risposte agli esempi che vengono tratti da queste cose nella parte centrale dell’esposizione.C’è anche un altro prete a Oberdorf, una città vicino a Landshut, che era a quel tempo suo amico e aveva visto con i suoi occhi quel trasporto. Racontava come quello fosse stato trasportato in alto con le braccia tese e gridasse senza lamentarsi. Il motivo per cui lo raccontò era questo: un giorno numerosi studenti si erano riuniti per bere birra e avevano deciso che chi servica la birra non avrebbe dovuto pagarla. Ora uno di questi, uscendo per andare a prendere la birra, aprì la porta e vide una densa nebbia davanti all’entrata. Atterrito, tornò indietro e spiegò agli altri perché non voleva andare a prendere da bere. Allora un altro, che c’era già andato, disse indignato: «Anche se ci fosse il diavolo, porterò da bere». E uscì, ma sotto lo sguardo di tutti fu sollevato per aria.Ecco una storia di un trasporto visibile, avvenuto di giorno. Nella città di Waldshut sul Reno, nella diocesi di Co-stanza, c’era una strega, così odiata dalla gente della città che non era stata invitata a un matrimonio. Tuttavia, poiché quasi tutti gli abitanti sarebbero stati presenti, indignata, giurò di vendicarsi. Invocò il diavolo, gli espresse la causa della sua tristezza e gli domandò di suscitare una grandinata per disperdere tutti coloro che danzavano. Il diavolo acconsentì, la sollevò da terra e la trasportò per aria su una collina vicino alla città, sotto gli occhi di alcu-ni pastori. Là, come essa disse in seguito, non aveva l’acqua da versare in una fossa (si vedrà che questo è il metodo di cui si servono per suscitare le grandinate); allora scavò una piccola fossa in cui al posto dell’acqua versò l’urina, poi, se-condo la consuetudine, la mescolò con un dito al cospetto del diavolo e subito il diavolo, lanciando in alto il liqui-do, scatenò una violenta grandinata che cadde solamente sui danzatori e sui cittadini. Quando tutti si furono di-spersi e discutevano fra loro della causa di quella tempesta, poco dopo videro la strega entrare in città. Questo aggravò molto i loro sospetti, ma quando i pastori raccontarono quello che avevano visto, i sospetti che erano già forti divennero violenti. Si arrestò la strega ed essa confessò che l’aveva fatto perché non era stata invitata. Per questo e per le altre numerose stregonerie da lei perpetrate fu bruciata.

in M. Romanello, La stregoneria in Europa, il Mulino, Bologna 1975

Pietro Piperno, Storie di stregheLe pratiche di stregoneria erano diffuse anche nel Mezzogiorno: qui avevano comunque connessioni con la tradizione dei riti arborei praticati dai longobardi. Il libretto di denuncia da cui è tratto il brano cadde praticamente nel nulla: per un verso la religiosità meridionale aveva mantenuto un atteggiamento molto più aperto nei confronti delle sopravvivenze di riti e pratiche magiche o paganeggianti, per l’altro la società, non solo meridionale, stava ormai ridefinendo il suo atteggiamento nei confronti della stregoneria.

Racconta Paolo Brillando come intorno agli anni di Cristo 1527 in un castello della Sabina vicino Roma vi era un contadino la di cui moglie era strega, del che sospettando il marito per alcuni segni veduti più volte gliene fece

domanda, però sempre lei asseverantemente negava, e crescendo il sospetto, volle il marito per più notti osservare quello che la maledetta donna faceva, e fingendo di dormire si accorse che ella si volle assicurare molto bene che esso dormisse e maggiormente mostrando esso di stare in profondissimo sonno, vidde che la moglie prese un va-setto di unguento, che secretamente tenea, e, spogliandosi nuda, scaldò detto unguento, se ne ontò e lo ripose nel luogo suo, e dopo aver fatto questo, la vidde con gran velocità uscire dalla casa, come se volasse; il che fatto, si alzò il marito ed osservò che la porta e finestre erano ben serrate, come appunto esso le avea lasciate la sera, e andando nel luogo ove essa aveva reposto l’unguento, lo prese e seguitò a dormire; la mattina, essendo tornata la

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moglie, gli dimandò dove era andata in quella notte, e negando essa di essere andata in luogo alcuno, il marito prese un legno, la cominciò a bastonare, mostrandole il vaso dell’unguento col quale l’avea veduta ungere, onde essa, sentendosi confusa, gli raccontò l’error suo e come era strega, il che intendendo il marito le promise di perdo-narla purché lo portasse seco a quell’essercizio, il che essa accettò volentieri e promise farlo; dopo gli raccontò tutti i maledetti riti di quella setta e li sozzi gusti che si prendono, e, ottenuta la licenza dal demonio di poter por-tarcelo, lo fe’ ungere e lo avisò che né per strada né dopo che eran gionti al luogo destinato si facesse in alcun modo il segno della Croce o la nominasse, e neanche quello di Dio o Giesù Cristo; e fatto questo si pose ciasche-duno di essi sopra una capra e, gionti al luogo destinato, la moglie, presa licenza dal marito, andò a dare obedien-za al maledetto Satanasso che stava quisi assiso nel suo orrido trono, e dopo ritornata gli disse il marito che si stupiva della gran moltitudine d’uomini e donne che in quel luogo per siffatto essercizio erano radunati; finito di esser data da tutti obbedienza, si cominciò a ballare e danzare con suavissimo suono d’instromenti di ogni sorta, però il tutto e con confusione e contro gli ordini che in ciò soglion tenersi. Finiti i balli si preparò una lautissima mensa dove, essendo introdotto il marito dalla moglie, ottenutana prima dal maledetto Satanasso licenza, mentre mangiava osservò che le vivande erano insipide onde più volte chiese del sale e tardando a venire, con maggior ardenza seguitò a chiederlo e, essendo finalmente venuto, disse queste formate parole: «or lodato sia Dio, pure venne questo sale!», e avendo ciò detto, ad un tratto sparì il tutto, né vi restò niuno di quella gran turba che prima vi si vedea e, estinguendosi i molti lumi che prima vi si vedevano, quel povero uomo si ritrovò solo all’oscuro e nudo sotto un arbore di noce nel territorio beneventano in luogo freddissimo; infatti questo luogo superstizioso è in una pianura vicino il fiume Sabbato, dopo per l’umidità del fiume e per le vicine colline che la detta pianura dappertut-to circondano, vi è molto freddo. La matina seguente domandò ad alcun pastori di quelle contrade che paesi eran quelli e intendendo che era distretto di Benevento, distante dalla sua patria più di cento miglia, cominciò a chiede-re limosina, e, essendosi con uno straccio coverto al miglior modo che poté, accattando quello porta per porta, si condusse con molto disagio e pericolo nel suo paese con il viaggio di otto giornate, assai consumato e mal ridotto, dove gionto diede querela contro la moglie e altre persone di quel castello che in detto consesso aveva conosciute, le quali furon prese e carcerate, e dopo esatta informazione presane, constando esser vero quanto si è detto, furon giustamente bruggiate.

P. Piperno, Della superstiziosa Noce di Benevento (1635), in P. Portone, Il Noce di Benevento, Xenia, Milano 1990

Martin Lutero, La sola fedeIn uno dei suoi scritti più importanti, Della libertà del cristiano, Lutero alla polemica contro l’esteriorità della Chiesa romana aggiunge la fondamentale precisazione che attraverso la sola fede passa il percorso verso la salvezza.

Ancora non giova per nulla all’anima se il corpo indossa abiti consacrati, come fanno i preti e la gente di Chiesa, e neppure se esso sta in chiesa o in luoghi pii, se si occupa di cose sacre, o se materialmente prega, digiuna, si

reca in pellegrinaggio e compie tutte quelle opere buone, che si possono sempre fare per mezzo del corpo e nel corpo. Dev’essere una cosa ben diversa quella che apporta e dona all’anima libertà e pietà. Infatti tutte le cose dette fin qui, siano esse opere o riti, può compierle anche un uomo malvagio, un ipocrita ed un baciapile. Anzi compiendo tali pratiche gli uomini non possono diventare altro che dei perfetti ipocriti. Viceversa non accade pro-prio niente di male all’anima se il corpo si riveste di abiti profani, se abita in luoghi mondani, se mangia, beve e non va in pellegrinaggio né prega a gran voce, e in genere tralascia tutte le opere che sono proprie degli ipocriti già ricordati.Ma come può avvenire che la sola fede renda giusti e, senza bisogno di tutte le opere, ci doni una sovrabbondanza di grazia, mentre tanti comandamenti, leggi, opere, riti e cerimonie ci sono prescritti nella S. Scrittura? È necessario qui notare con cura e ricordare bene che è la sola fede, senza le opere, che conferisce la giustizia, la libertà e la gioia, come apprenderemo meglio più avanti. Ed è da sapere che tutta la S. Scrittura può venire divisa in due inse-gnamenti che sono i comandamenti o la legge di Dio, e la promessa o l’impegno. I comandamenti ci insegnano e ci prescrivono ogni sorta di buone opere, ma non per questo esse si realizzano. Essi forniscono precise indicazioni, ma non forniscono nessun aiuto, insegnano ciò che si deve fare, ma non donano nessuna forza per realizzarlo. Per la qual cosa essi hanno per scopo di guidare l’uomo a riconoscere la propria incapacità a fare il bene e di insegnar-gli a disperare di se stesso.Quando l’uomo, per mezzo dei comandamenti, ha acquisito la nozione e il sentimento della propria impotenza, è angosciato pensando come soddisfare ad essi; essi infatti debbono venir adempiuti, altrimenti egli sarà condannato,

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egli allora è completamente umiliato ed è ridotto a un niente ai propri occhi, perché non trova in sé niente che lo giustifichi. È allora che interviene l’altra parola, la promessa e l’impegno divino, e dice: «Se vuoi osservare i coman-damenti e liberarti dai desideri malvagi e dal peccato, come impongono formalmente i comandamenti, credi in Cristo, nel quale io ti prometto ogni grazia, giustizia, pace e libertà; e se credi tu le otterrai, e se non credi non le otterrai. Ciò che è impossibile con tutte l’opere della legge, che sono numerose e tuttavia a nulla ti giovano, l’ot-terrai facilmente e subito con la fede. Infatti io ho riposto tutto nella fede, cosicché chi la possiede, otterrà tutto e sarà beato, ma chi non la possiede non avrà niente». Dunque la promessa divina dà tutto ciò che i comandamenti esigono, adempie a ciò che essi prescrivono, perché ambedue sono da Dio, e comandamento e adempimento ed Egli solo comanda, ed Egli solo può adempire. Per questo la promessa di Dio è la Parola del Nuovo Testamento ed essa appartiene al Nuovo Testamento.

M. Lutero, Della libertà del cristiano, 1520, in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1992

Paolo Sarpi, I limiti del concilio tridentinoL’agognata riforma della Chiesa romana avvenne solo dopo la metà del XVI secolo, con il controverso concilio di Trento. Il giudizio storico sugli esiti di questo travagliato momento di riflessione della cattolicità è stato decisamente influenzato dalla Istoria che ne compose il frate servita Paolo Sarpi. Sin dalle prime righe si ricorda in primo luogo il fallimento dell’obiettivo per il quale era stato convocato il Concilio: la ricomposizione della frattura con le Chiese riformate. Ma anche sotto il profilo della riorganizzazione interna il giudizio è negativo: il risultato più importante appare quello dell’ulteriore accentramento dei poteri nella persona del pontefice.

Il proponimento mio è di scrivere l’istoria del concilio tridentino. […]Io immediate che ebbi gusto delle cose umane, fui preso da gran curiosità di saperne l’intiero; ed oltre l’aver let-

to con diligenzia quello che trovai scritto, e li pubblici documenti usciti in stampa o divulgati a penna, mi diedi a ricercare nelle reliquie de’ scritti delli prelati ed altri in concilio intervenuti, le memorie da loro lasciate, e li voti cioè pareri detti in pubblico, conservati dalli autori propri o da altri, e le lettere d’avvisi da quella città scritte, non tra-lasciando fatica o diligenzia; onde ho avuto grazia di veder sino qualche registri intieri di note e lettere di persone che ebbero gran parte in quei maneggi. Ora avendo tante cose raccolte, che mi possono somministrar assai abbon-dante materia per narrazione del progresso, vengo in resoluzione di ordinarla.Raccontarò le cause e li maneggi d’una convocazione ecclesiastica, nel corso di ventidue anni, per diversi fini e con vari mezzi da chi procacciata e sollecitata, da chi impedita e differita, e per altri anni diciotto ora adunata, ora di-sciolta, sempre celebrata con vari fini, e che ha sortito forma e compimento tutto contrario al disegno di chi l’ha procurata e al timore di chi con ogni studio l’ha disturbata: chiaro documento per rassignare li pensieri in Dio e non fidarsi della prudenza umana.Imperocché questo concilio, desiderato e procurato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che principiava a dividersi, per contrario ha così stabilito lo scisma ed ostinate le parti, che ha fatto le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior disformazione che sia mai stata dopo che il nome cristiano si ode; e dalli vescovi adoperato per riacquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte del solo pontefice romano, gliel’ha fatta perder tutta intieramente ed interessati loro stessi nella propria servitù: ma temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come efficace mezzo per moderare l’esorbitante potenza da piccioli principi perve-nuta con vari progressi ad un eccesso illimitato, glil’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatagli soggetta, che mai fu tanta né così ben radicata.Sì che non sarà inconveniente chiamarlo la Iliade del secol nostro: nella esplicazione della quale seguirò drittamen-te la verità, non essendo posseduto da passione che mi possi far deviare. E chi mi osserverà in alcuni tempi abbon-dare, in altri andar ristretto, si raccordi che non tutti li campi sono di ugual fertilità, né tutti li grani meritano d’essere conservati; e di quelli che il mietitore vorrebbe tenir conto, qualche spica ancor sfugge la presa della mano o il filo della falce, così comportando la condizione d’ogni mietitura, che resti anco parte per rispigolare.

P. Sarpi, Istoria del Concilio Tridentino, a cura di R. Pecchioli, Sansoni, Firenze 1966, vol. 1

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John Locke, Lettera sulla tolleranzaNella Lettera sulla tolleranza (1659) John Locke, contro ogni sorta di violenza per motivi religiosi o inerenti la fede, scrive: «Nessuno può dirsi Cristiano se manca di carità e di quella fede che opera non con la forza, ma con l’amore».

Stimatissimo Signore,poiché vi siete compiaciuto di chiedere la mia opinione circa la reciproca tolleranza dei Cristiani che professano

differenti Religioni, vi risponderò francamente che la tolleranza è, a mio parere, il maggior segno distintivo della Chiesa. Per quanto, infatti, alcuni si vantino dell’autorità dei luoghi e dei nomi o della pompa delle cerimonie del loro culto ed altri della riforma della loro disciplina e tutti della loro ortodossia (giacché ognuno è per se stesso ortodosso), tutte queste cose, ed altre di questo genere sono molto più tipiche di uomini che si contendono il po-tere e il dominio su gli altri che non della Chiesa di Cristo.Che, chi vuole rivendichi pure a sé tutte queste cose, ma se manca di carità, di mansuetudine e benevolenza verso tutti gli uomini, indistintamente, anche verso coloro che non sono Cristiani, costui è certamente ben lontano dall’essere un vero Cristiano. «I Re dei gentili regnano su di loro, disse il nostro Salvatore, non sarà così per voi» (Luca, XXII, 25). Altra è l’essenza della vera religione; questa non è stata fondata per fare sfoggio di pompa este-riore, né per istituire un potere Ecclesiastico e nemmeno per esercitare una forza coercitiva, bensì per disciplinare la vita umana secondo i precetti della virtù e della pietà. Chiunque voglia militare sotto la bandiera di Cristo deve prima e soprattutto combattere i propri vizi e le proprie passioni. Perché invano pretende il nome di Cristiano chi non pratica santità di vita, castigatezza di costumi, benignità e mansuetudine di animo [...]. Se si deve credere ai Vangeli degli Apostoli, nessuno può dirsi Cristiano se manca di carità e di quella fede che opera non con la forza, ma con l’amore. Ora, io mi appello alla coscienza di coloro che col pretesto della religione perseguitano, straziano e uccidono altri uomini e mi chiedo se veramente agiscono verso di essi per spirito di amicizia e con benevolenza: e solo allora sarò disposto a crederlo, quand’abbia visto quei fanatici riprendere allo stesso modo i loro amici ed intrinseci per i peccati che apertamente commettono contro i precetti evangelici.

J. Locke, Lettera sulla tolleranza, La Nuova Italia, Firenze 1980

Morte e peccato in una predica del SeicentoIn questo sermone di fine Seicento, detto “funzione del teschio” poiché articolato in un dialogo tra il predicatore e un teschio, è possibile cogliere gli elementi di una religiosità in cui la paura della morte è elemento predominante.

PREDICATORE Parla, parla ai tuoi concittadini che sono qui presenti: che cosa succede all’altro mondo?TESCHIO Oh, amici miei: davanti al tribunale di Dio, le cose si mettono male! Pazzo chi non ama Dio. Pazzo chi

non si fa santo!PREDICATORE Che hai tu fatto di quegli occhi coi quali forse ti sei dato piacere nel guardare tanti oggetti di tuo gusto, con tante occhiate peccaminose, che ne hai fatto?TESCHIO I topi li hanno mangiati. I vermi li hanno mangiati. Pazzo chi non ama Dio! Pazzo chi non si fa santo!PREDICATORE E di questa lingua con cui forse cantavi tante canzoni amorose, con cui dicevi tante bestemmie e tan-te (vane) parole, che ne hai fatto?TESCHIO L’hanno mangiata i vermi…! Pazzo chi non si fa santo.PREDICATORE E di questo volto che volevi grazioso e per il quale restavi tanto tempo davanti allo specchio, che ne hai fatto?TESCHIO L’hanno mangiato i vermi; i vermi l’hanno consumato. Pazzo chi non si fa santo.PREDICATORE E quelle chiome che forse curavi con tanti profumi e olezzi deliziosi per farti bello agli occhi altrui e diventare una rete dell’inferno per tante povere anime, che ne hai fatto?TESCHIO Si sono decomposte; sono diventate polvere. Pazzo chi non si fa santo. Ah!, Cari concittadini, anch’io ho abitato in questo paese; ho girato come voi per le strade, per le piazze di… Come voi sono stato nella vostra chiesa…PREDICATORE E adesso?TESCHIO Adesso per me è finito tutto! Ben presto il mondo sarà finito anche per voi. Beato è solo chi ama Dio. Beato chi salva l’anima.

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PREDICATORE Ma dov’è ora la tua anima? In paradiso o all’inferno? Non so. Se la tua anima è in paradiso, prega Dio per me e per i tuoi concittadini sì che questa sera il tuo cuore si commuova ed essi si convertano a Gesù Cristo. Ma se la tua anima è all’inferno, vattene, non voglio più vederti. [E dicendo queste parole fa scomparire il teschio, af-ferra il crocifisso e lo mostra alla gente dicendo in tono esclamativo: «Levate la voce e dite: “Signore, mi pento”»].

in J. Delumeau, Il peccato e la paura. L’idea di colpa in Occidente dal XIII al XVIII secolo, il Mulino, Bologna 1987

Chiesa ed ebrei tra chiusure e apertureDue brani esemplificativi del complesso rapporto tra Chiesa ed ebraismo: il primo è un editto dell’Inquisizione del 1843, contenente una serie di restrizioni riguardanti gli israeliti; il secondo è un articolo del 1848 che commenta favorevolmente l’editto di apertura del ghetto di Roma, in seguito però revocato.

Proibizioni agli israeliti

Nessun israelita dimorante in Ancona e Sinigaglia potrà più né dare alloggio né mangiare ai cristiani, né ricevere cristiani al proprio servizio, sotto pena d’esser puniti a seconda dei pontefici decreti.

Tutti gl’israeliti dello Stato dovranno vendere entro il termine di tre mesi i loro beni mobili ed immobili, altrimenti saranno venduti all’incanto.Nessun israelita potrà dimorare in qualsiasi città senza l’autorizzazione del governo; in caso di contravvenzione i colpevoli saranno ricondotti nei loro ghetti respettivi.Nessun israelita potrà passare la notte fuori dal ghetto.Nessun israelita potrà avere amichevoli relazioni coi cristiani.Gl’israeliti non potranno far commercio di ornamenti sacri né di libri di qualunque specie, sotto pena di cento scu-di di multa e sette anni di carcere.Gl’israeliti nel seppellire i loro morti non dovranno fare alcuna cerimonia. Non potranno servirsi di lumi sotto pena di confisca.Quelli che violeranno le suaccennate disposizioni incorreranno i castighi della Santa Inquisizione.La presente misura sarà comunicata ai ghetti e pubblicata nelle sinagoghe.

Editto della Santa Inquisizione, 1843

Divelte le porte del ghetto

La barriera che stringeva e divideva la famiglia israelitica dal rimanente della città, è tolta per sovrano volere: ieri alle ore due di notte furono sconnesse da’ loro cardini tutte le porte del ghetto, le quali davano a quella misura contrada

tutto l’aspetto di un serraglio ottomano. Era indicibile la gioia e la consolazione di quella industriosissima famiglia nel momento che al chiarore delle [fiaccole, n.d.r.] si atterravano gli antichi serrami: ella cominciava a sentire le prime dol-cezze di una ventura emancipazione e, veggendosi partecipe della sociale fratellanza, si credette anch’ella compresa nell’universale rigenerazione. Israeliti e cristiani abbracciavansi, e persone di alti natali e di non comuni meriti intervenne-ro nella loro letizia. Fu da taluni osservato che in quel giorno stesso il popolo d’Israele fu riscattato dalla schiavitù egizia-na: combinazione prodigiosa che, saputasi, vieppiù accrebbe ed animò l’allegrezza dei cuori già esilarati. Vergogna, vitu-pero a chi non sapesse gioire di così consolante avvenimento! Disonore eterno a chi potesse insidiare quelle buone genti, le quali per tanti secoli parteciperanno a tutti i pesi della società, senza fruirne i privilegi. Chiunque pertanto si attentas-se disapprovare questo atto di giustizia e di civiltà, o sperasse insultare alla pace ed alla tranquillità degl’israeliti, sappia che oltre il meritarsi la taccia di barbaro e soperchiatore, mostrerebbe di essere contrario a quella libertà individuale per cui tutta Europa è giustamente sconvolta. Passò stagione in cui sotto velame di farisaico zelo si opprimeva e calpestava una mano di genti, che pure avean diritto a stare fra gli uomini. Oggi la superstizione e il pregiudizio deggiun sottostare alla potenza della ragione e della giustizia, e la violenza delle passioni e del capriccio alle leggi santissime ed universali della umanità, sotto il cui nome dileguasi ogni colore di caste. Ma i romani son giusti: essi conoscono i diritti di tutti gli uomini, e sanno rispettarli e farli rispettare: nati nel seno della vera religione, portano essi scolpito nei cuori la massima santissima: «Non fare altrui quel che non vuoi si faccia a te». Tolta questa massima, che sarebbe degli uomini?

Roma, 17 aprile 1848

in D. Mack Smith, Il Risorgimento italiano, Laterza, Bari 1968

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Pio IX, SillaboPromulgato da Pio IX nel 1864, il Sillabo contiene la condanna dei maggiori “errori” del mondo moderno in ambito religioso, politico, sociale, civile e scientifico.

I. Non esiste niun Essere divino […]. II. È da negare qualsiasi azione di Dio sopra gli uomini e il mondo. III. La ragione umana è l’unico arbitro del vero e del falso, del bene e del male […]. V. La rivelazione divina è imperfet-

ta, e perciò soggetta a processo continuo e indefinito, corrispondente al progresso della ragione umana.III – Indifferentismo, latitudinarismo […]. XV. È libero ciascun uomo di abbracciare e professare quella religione che, sulla scorta del lume della ragione, avrà reputato essere vera. XVI. Gli uomini nell’esercizio di qualsivoglia religione possono trovare la via della eterna salvezza, e conseguire l’eterna salvezza […].V – Errori sulla Chiesa e suoi diritti. XIX. La Chiesa non è una vera e perfetta società pienamente libera, né è forni-ta di suoi propri e costanti diritti, conferitile dal suo divino Fondatore, ma tocca alla potestà civile definire quali siano i diritti della Chiesa e i limiti entro i quali possa esercitare detti diritti […].VI – Errori che riguardano la società civile, considerata in sé come nelle sue relazioni con la Chiesa […]. XL. La dottrina della Chiesa cattolica è contraria al bene ed agl’interessi della umana società […]. XLIV. L’autorità civile può interessarsi delle cose che riguardano la religione, i costumi ed il governo spirituale […]. LV. È da separarsi la Chiesa dallo Stato, e lo Stato dalla Chiesa.VII – Errori circa la morale naturale e cristiana. LVI. Le leggi dei costumi non abbisognano della sanzione divina, né è necessario che le leggi umane siano conformi al diritto di natura, o ricevano da Dio la forza di obbligare. LVII. La scienza delle cose filosofiche e dei costumi, ed anche le leggi civili possono e debbono prescindere dall’autorità divina ed ecclesiastica […]. LX. L’autorità non è altro che la somma del numero e delle forze materiali […].IX – Errori intorno al civile principato del Romano Pontefice […]. LXXVI. L’abolizione del civile impero posseduto dalla Sede apostolica gioverebbe moltissimo alla libertà ed alla prosperità della Chiesa.X – Errori che si riferiscono all’odierno liberalismo LXXVII. In questa nostra età non conviene più che la religione cattolica si ritenga come l’unica religione dello Stato […]. LXXIX. È assolutamente falso che la libertà civile di qual-sivoglia culto […] conduca a corrompere più facilmente i costumi e gli animi dei popoli, e a diffondere la peste dell’indifferentismo. LXXX. Il Romano Pontefice può e deve riconciliarsi e venire a composizione col progresso, col liberalismo e con la moderna civiltà.

in A. Desideri, Storia e storiografia, D’Anna, Messina-Firenze 1993 vol. 2

Pio XI, L’enciclica Mit brennender Sorge [Con viva ansia]L’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva ansia) fu promulgata da papa Pio XI nel 1937. Il giudizio storico sul pontificato di Pio XI (1922-1939) è particolarmente complesso, specie per ciò che riguarda i rapporti con i regimi fascista e nazista. Dopo un’iniziale posizione di neutralità o attesa, i contrasti tra Santa Sede e Terzo Reich si fecero via via più marcati e sfociarono nel duro giudizio che proponiamo.

Con viva ansia e con stupore sempre crescente veniamo osservando da lungo tempo la via dolorosa della Chiesa e il progressivo acuirsi dell’oppressione dei fedeli ad essa rimasti devoti nello spirito e nell’opera […]. Quando Noi

[…] nell’estate del 1933, a richiesta del governo del Reich, accettammo di riprendere le trattative per un Concorda-to […], fummo mossi dalla doverosa sollecitudine di tutelare la libertà della missione salvatrice della Chiesa in Ger-mania e di assicurare la salute delle anime ad essa affidate, e in pari tempo dal sincero desiderio di rendere un servizio d’interesse capitale al pacifico sviluppo e al benessere del popolo tedesco. Nonostante molte e gravi preoc-cupazioni, pervenimmo, allora, non senza sforzo, alla determinazione di non negare il Nostro consenso. Volevamo risparmiare ai Nostri fedeli, ai Nostri figli e alle Nostre figlie della Germania, secondo le umane possibilità, le ten-sioni e le tribolazioni che in caso contrario si sarebbero dovute con certezza aspettare […]. L’esperienza degli anni trascorsi mette in luce le responsabilità e svela macchinazioni, che già dal principio non si proposero altro se non una lotta fino all’annientamento […], una lotta che si alimentò a mille fonti diverse e si servì di tutti i mezzi […]. Noi non Ci siamo stancati di far presente ai reggitori, responsabili delle sorti della vostra Nazione, le conseguenze che sarebbero necessariamente derivate dalla tolleranza, o peggio ancora dal favoreggiamento di quelle correnti […], non Ci stancheremo anche nel futuro di difendere il diritto leso presso i reggitori del vostro popolo, incuranti del successo o dell’insuccesso del momento, ubbidienti solo alla Nostra coscienza e al Nostro Ministero pastorale […].

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Non si può considerare come credente in Dio colui che usa il nome di Dio retoricamente […] chi, con indetermina-tezza panteistica, identifica Dio con l’universo, […] chi pone in luogo del Dio personale il fato tetro e impersonale […]. Un simile uomo non può pretendere di essere annoverato fra i veri credenti. Se la razza o il popolo, se lo Stato o una sua determinata forma, se i rappresentanti del potere statale o altri elementi fondamentali della società uma-na hanno nell’ordine naturale un posto essenziale e degno di rispetto; chi peraltro li distacca da questa scala di valori terreni, elevandoli a suprema norma di tutto, anche dei valori religiosi, e divinizzandoli con culto idolatrico perverte e falsifica l’ordine da Dio creato e imposto, è lontano dalla vera fede in Dio e da una concezione della vita ad essa conforme […]. Questo Dio ha dato i Suoi comandamenti in maniera sovrana: comandamenti indipendenti da tempo e spazio, da regione e razza. Solamente spiriti superficiali possono cadere nell’errore di parlare di un Dio nazionale, di una religione nazionale, e intraprendere il folle tentativo di imprigionare nei limiti di un solo popolo, nella ristrettezza etnica di una sola razza, Dio […]. Se persone […] vi adescano e vi lusingano con il fantasma di una “chiesa tedesca nazionale”, sappiate ciò non essere altro se non un rinnegamento dell’unica Chiesa di Cristo, un’apostasia manifesta dal mandato di Cristo […].Noi indirizziamo una parola particolarmente paterna alla gioventù. Da mille bocche viene oggi ripetuto al vostro orecchio un evangelo che non è stato rivelato dal Padre Celeste, migliaia di penne scrivono a servizio di una larva di cristianesimo, che non è il Cristianesimo di Cristo. Tipografia e radio vi inondano giornalmente con produzioni di contenuto avverso alla Fede e alla Chiesa e, senza alcun riguardo e rispetto, assaltano ciò che per voi deve esse-re sacro e santo […]: essi non possono dare allo Stato ciò che viene loro richiesto in nome dello Stato, senza toglie-re a Dio ciò che appartiene a Dio […]. Non volevamo con silenzio inopportuno essere colpevoli di non aver chiarita la situazione.

Pio XI, Lettera Enciclica Mit brennender Sorge, in Le encicliche sociali dei Papi, da Pio IX a Pio XII (1864-1956), a cura di I. Giordani, Studium, Roma 1956

Primo Mazzolari, La Chiesa e il conflittoDon Primo Mazzolari, parroco dei paesi lombardi di Cicognara e Bozzolo, amico di Giovanni XXIII e del futuro Paolo VI, tratta il delicato problema riguardante il ruolo, a suo parere sempre pastorale, che la Chiesa può rivestire in caso di conflitto.

10 maggio 1941

Oggi la Chiesa incoraggia singolarmente i suoi figli a fare il loro dovere […], quindi a muovere gli uni contro gli altri, mentre collettivamente essa non manca di ammonire, senza tuttavia nettamente imporsi con un giudizio

[…]. La Chiesa, tante volte così sollecita per i suoi interessi sia temporali, sia strettamente collegati agli astratti Princìpi della sua Morale, mantiene verso un fenomeno concreto di così formidabili proporzioni ed effetti, un at-teggiamento di assoluto agnosticismo e rinunzia alla sua funzione di guida.

Parlare di «potenza neutra o di un atteggiamento imparziale» del Pontefice, di fronte all’attuale conflitto, sarebbe un calpestare il ruolo della Chiesa, la sua missione di guida, per avvilirla in una difesa di interessi temporali, che pur avendo il loro peso, non debbono neanche essere richiamati quando sono in gioco gli interessi eterni. Il Papa non può essere neanche al di sopra della mischia, come un filosofo o un contemplatore astratto […]. Con le parole stes-se dell’«Osservatore Romano» […]: «Il Papa è nella lotta. E non come un travolto, un rassegnato alla deriva, ma come un combattente che non può cedere, non può perdere ma mantenere l’iniziativa» […]. Senza volerlo, lo spirito d’ar-rendevolezza e di conformismo, giustificato da motivi contingenti tutt’altro che trascurabili, sta indebolendo la resistenza di non pochi cristiani e di qualche pastore, lasciando supporre quello che non è e non può essere, che la Chiesa abbia rinunciato alla sua funzione di madre e guida. Qualcuno, spaventato dalla tremenda responsabilità che tale funzione implica, vorrebbe limitare, almeno fino a quando non sarà tornata la ragione sulla terra, la presenza della Chiesa alla materna partecipazione al dolore e allo strazio comune […]. Può bastare una presenza di pietà per chi ha la missione di guida oltre che di conforto dell’uomo, salvezza terrena oltre che celeste del mondo? La pietà […] si mette in piedi e non si dà pace finché non vede debellato il male […]: un vae vobis [guai a voi, n.d.r.] grida-to senza piccoli timori anche contro tutto il mondo, se necessario; un argine e una nuova trincea di libertà dopo aver demolito a colpi di piccone o di braccia, in un impeto di divina rivolta, argini e trincee di servitù e d’obbrobrio.

P. Mazzolari, Risposta ad un aviatore, in Id., La Chiesa, il fascismo e la guerra, Vallecchi, Firenze 1966

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Giovanni Paolo II, Gli ebrei nostri fratelli maggioriNel discorso pronunciato alla Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986 Giovanni Paolo II opera un’inversione definitiva tra la definizione di «perfidi giudei», come ancora negli anni Cinquanta gli ebrei erano definiti in un passo del messale cattolico, e quella di «nostri fratelli maggiori».

Una parola di esecrazione vorrei una volta ancora esprimere per il genocidio decretato durante l’ultima guerra contro il popolo ebreo e che ha portato all’olocausto di milioni di vittime innocenti. Visitando il 7 giugno 1979

il lager di Auschwitz e raccogliendomi in preghiera per le tante vittime di diverse nazioni, mi sono soffermato in particolare davanti alla lapide con l’iscrizione in lingua ebraica, manifestando così i sentimenti del mio animo: «Questa iscrizione suscita il ricordo del Popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo Popo-lo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede, come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo Popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento “non uccidere”, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa l’uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno di passare oltre con indifferenza» […]. A nessuno sfugge che la divergenza fondamentale fin dalle origini è l’adesione di noi Cristiani alla persona e all’inse-gnamento di Gesù di Nazareth, figlio del vostro popolo, dal quale sono nati anche Maria Vergine, gli Apostoli, “fondamento e colonne della Chiesa”, e la maggioranza dei membri della prima comunità cristiana. Ma questa adesione si pone nell’ordine della fede, cioè nell’assenso libero dell’intelligenza e del cuore guidati dallo Spirito, e non può mai essere oggetto di una pressione esteriore […]. La Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’Ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potreb-be dire i nostri fratelli maggiori […]. Agli Ebrei, come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettiva, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli Ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso […]. Gli Ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”.

Giovanni Paolo II, Discorso alla Sinagoga di Roma, 13 aprile 1986

Testimonianza del rabbino Elio ToaffElio Toaff, per oltre cinquant’anni rabbino capo della comunità di Roma (1951-2002), riconosce l’importanza dell’incontro del 1986, ricordando le differenze rispetto agli anni Trenta e Quaranta, ma anche rispetto agli anni Sessanta.

Maestro, cosa prova, quali sentimenti vivono nel suo animo quando pensa, a dieci anni di distanza, a quella prima visita di un Papa alla Sinagoga di Roma?

Ancora oggi mi chiedo perché sia capitata proprio a me una cosa del genere. Pensi, era dai tempi di san Pietro che il capo della comunità cristiana non entrava ufficialmente in una Sinagoga. Ci sono voluti quasi duemila anni, ma alla fine anche quest’incontro c’è stato. Un avvenimento impensabile solo pochi anni fa. Le racconto questo episo-dio. Mio padre, quando era rabbino a Livorno era grande amico del vescovo della città. Quando nel 1964 morì, il vescovo ci fece visita, ma si fermò davanti alla porta della Sinagoga. Vedendolo lì, lo invitai ad entrare, ma lui gar-batamente mi rispose che non poteva perché non gli era permesso. Però durante il corteo funebre ordinò a tutte le chiese di suonare le campane.Con papa Wojtyla invece è caduto un muro... Con Giovanni Paolo II per la prima volta un Papa è entrato in una Sinagoga. Non può immaginare quanta impres-sione, quanta emozione provai quando quel pomeriggio del 13 aprile 1986, alle ore diciassette in punto, entrammo insieme nel Tempio Maggiore, il Papa seguito da cardinali, vescovi, monsignori e io accompagnato da rabbini ed altri rappresentanti della comunità ebraica. Abbiamo camminato insieme, uno accanto all’altro, in mezzo a due ali di folla. Poi ci siamo seduti e l’emozione è stata enorme, ha colpito tutti. Mi ricordo con commozione che in quel momento ero felice, ma non riuscii a non pensare alle sofferenze dei tempi del Ghetto, quando gli ebrei erano te-nuti rinchiusi come bestie. Con quella visita del Papa quanta strada era stata fatta!Durante l’incontro c’è stato un momento che potrà essere ricordato nei libri di storia come l’apertura di una nuova era per i rapporti tra ebrei e cristiani?

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Intanto la visita in sé, un evento storico. Poi, e lo ricordo con commozione, quando Giovanni Paolo II ci definì «nostri fratelli maggiori». Ebbene, fu proprio in quel momento che si aprì una nuova pagina tra ebrei e cristiani. Il Papa con quella frase ha chiuso definitivamente duemila anni di incomprensioni, di incomunicabilità, secoli di sof-ferenze, ed ha aperto una storia tutta nuova.

O. La Rocca, Ecumenismo. Dieci anni da quell’incontro, in «la Repubblica», 13 aprile 1996

Gli ebrei e il dialogo con i cristianiNell’appello firmato da 172 rappresentanti dell’ebraismo residenti negli USA, in Canada, Gran Bretagna e Israele si invita alla riflessione sui punti di contatto tra l’ebraismo e il cristianesimo. Il titolo, Dabru Emet (Direte la verità) è tratto da un versetto contenuto nella Bibbia (Zac 8,16).

In tempi recenti, si è verificato un cambiamento drammatico e senza precedenti nei rapporti tra ebrei e cristiani. Nel corso dei quasi duemila anni di esilio degli ebrei, i cristiani hanno tendenzialmente considerato l’ebraismo una

religione fallita o […] una religione che ha preparato la strada al cristianesimo, che in esso trova compimento. Nei decenni successivi all’Olocausto, tuttavia, la cristianità è radicalmente cambiata. Un numero sempre crescente di membri ufficiali della Chiesa, sia cattolica sia protestante, ha espresso pubblicamente il suo rimorso per il maltrat-tamento degli ebrei e dell’ebraismo da parte dei cristiani. In queste affermazioni si dichiara inoltre che l’insegna-mento e la preghiera cristiani possono e devono essere riformati in modo da valorizzare l’alleanza eterna di Dio con il popolo di Israele e da celebrare il contributo dell’ebraismo alla civilizzazione del mondo e alla stessa fede cristia-na. Riteniamo che questi cambiamenti meritino una risposta ponderata da parte degli ebrei […]. Crediamo sia tem-po che gli ebrei riflettano su ciò che ora il giudaismo può dire a proposito del cristianesimo […].Ebrei e cristiani adorano lo stesso Dio […]. Ebrei e cristiani riconoscono l’autorità dello stesso libro – la Bibbia (che gli ebrei chiamano “tanakh” e i cristiani “antico testamento”). Rivolgendoci a essa come guida religiosa per l’arricchimento dello spirito e l’educazione comunitaria, ne traiamo insegnamenti simili […]. Ebrei e cristiani accettano i princìpi morali della Torah. Il centro dei princìpi morali della Torah è l’inalienabile santità e dignità di ogni essere umano. Tutti siamo stati creati a immagine di Dio. La condivisione di questa sottolineatura morale può essere la base di un miglioramento nei rapporti tra le nostre comunità. Essa può anche costituire una potente testimonianza per tutta l’umanità, che miglio-ri la vita dei nostri fratelli e si levi contro l’immoralità e le idolatrie che ci minacciano e ci degradano […]. Il nazismo non fu un fenomeno cristiano […]. Troppi cristiani parteciparono, o approvarono, le atrocità naziste contro gli ebrei. Altri non protestarono a sufficienza contro simili orrori. Ma il nazismo in quanto tale non fu una conseguenza inevitabile del cristianesimo […]. Siamo grati a quei cristiani che hanno rischiato o sacrificato le loro vite per salvare gli ebrei durante il regime nazista […]. Incoraggiamo i […] cristiani a continuare a rifiutare senza equivoco il disprezzo del giudaismo e del popolo ebraico […] e non li condanniamo per le colpe dei loro antenati. Troppe differenze inconciliabili tra ebrei e cri-stiani non saranno risolte fino a che Dio non salverà il mondo intero, come promesso nella scrittura. I cristiani conosco-no e servono Dio attraverso Gesù Cristo e la tradizione cristiana. Gli ebrei conoscono e servono Dio attraverso la Torah e la tradizione ebraica […]. Gli ebrei possono rispettare la fedeltà dei cristiani alla loro rivelazione allo stesso modo in cui noi ci aspettiamo che i cristiani rispettino la nostra fedeltà alla nostra rivelazione […]. Ebrei e cristiani devono collabora-re agli ideali della giustizia e della pace […]. Sebbene la giustizia e la pace appartengano ultimamente solo a Dio, i nostri sforzi congiunti, insieme a quelli di altre comunità religiose, possono aiutare la realizzazione del Regno di Dio che atten-diamo con speranza. Separatamente e assieme, dobbiamo lavorare per portare la giustizia e la pace al nostro mondo.

Dabru Emet, in «The New York Times», 10 settembre 2000

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Il Concilio Vaticano II e l’islamIl documento elaborato dal Concilio Vaticano II, la costituzione Lumen Gentium, è relativo ai rapporti con i credenti di religione musulmana.

Quanto a quelli che non hanno ancora ricevuto il Vangelo, anch’essi in vari modi sono ordinati al popolo di Dio. In primo luogo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale Cristo è nato secondo la

carne, popolo molto amato in ragione della elezione, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili. Ma il disegno di salvezza abbraccia anche coloro che riconoscono il Creatore, e tra questi in particolare i musulmani, i quali, professando di avere la fede di Abramo, adorano con noi un Dio unico, misericordioso che giudicherà gli uomini nel giorno finale.

Lumen Gentium, n. 16

Geoffrey Allen, Quale ecumenismo?Il pastore protestante Geoffrey Allen offre il punto di vista delle chiese riformate sul tema, invitando a distinguere che cosa “è” e che cosa “non è” l’ecumenismo.

Parlare di ecumenismo almeno in certi ambienti cristiani, significa invitare a confusione e malintesi […]. È urgen-te, dunque, fare chiarezza e cercare di definire a quale ecumenismo ci riferiamo quando facciamo uso di una

parola così controversa […]. Sarà utile definire alcune cose che l’ecumenismo non è. 1. Non è da confondersi con il dialogo interreligioso […]. È importante fare una netta distinzione […] fra questo tipo di dialogo e quello ecumeni-co, che […] invece […] ha luogo tra cristiani di diverse confessioni o tra rappresentanti di diverse chiese cristiane […]. 2. Non mira all’obiettivo dell’unità istituzionale […]. 3. Non è un esercizio nel compromesso […]. Un ecumenismo che va a scapito della verità, che cerca l’unità sulla base di un “minimo denominatore comune”, oppure in cui ognuno sacrifica delle convinzioni che comunque rimangono tali, non ha senso dalla prospettiva biblica […]. 4. Non significa dire: «La dottrina non ha nessuna importanza, vogliamoci bene e non parliamo delle differenze» […]. Piut-tosto, un ecumenismo serio richiede che ognuno sia pronto a mettersi in discussione, ad ascoltare l’altro e soprat-tutto la Parola di Dio, per imparare e per riformare tutto ciò che si rivela deviato o deteriorato rispetto al modello più autentico di cristianesimo. Esistono tante forme e livelli di attività ecumenica. 1. Dialogo teologico. Da anni sono in corso […] discussioni approfondite tra teologi e specialisti di varie chiese sui più diversi aspetti della dottri-na e della pratica religiosa […]. 2. La ricerca dell’unità istituzionale […]. Se la Chiesa dovrà in futuro tornare ad es-sere una sola, avrà pure bisogno di qualche forma organizzativa. Ma l’unità va ricercata da una posizione di forza e non di debolezza, sulla base dell’unità di cuore e non meramente formale. 3. Il cosiddetto “ecumenismo dello Spirito” o “ecumenismo di base” […]. Vivificati dallo Spirito, viviamo una nuova consapevolezza della nostra natura di figli di Dio, e di riflesso ci riconosciamo fratelli, anche di quelli che hanno dottrine o tradizioni diverse dalle nostre […]. A Dio non interessa un’unità meramente formale, ossia che apparteniamo tutti alla stessa organizzazio-ne. Vuole che viviamo riconciliati, prima con Lui, e poi con i nostri fratelli […]. In conclusione, voglio elencare al-cune ragioni perché è importante la ricerca dell’unità tra i cristiani. 1. Perché piace a Dio. Prima di andare alla croce, Gesù ci ha dato un “nuovo comandamento”: «Che vi amiate gli uni gli altri. Come io vi ho amati, anche voi amatevi gli uni gli altri» (Gv, 13,34). 2. Perché è la testimonianza più efficace della verità del cristianesimo. Nel brano appena citato, Gesù prosegue dicendo: «Da questo conosceranno tutti che siete miei discepoli, se avete amo-re gli uni per gli altri». E nella “preghiera sacerdotale” della stessa serata, Egli chiede al Padre «che siano tutti uno… affinché il mondo creda che tu mi hai mandato… siano perfetti nell’unità, affinché il mondo conosca che tu mi hai mandato» (Gv, 13,35, 17,21-23) […]. 3. Perché abbiamo bisogno gli uni degli altri. Il Signore ci ha costituiti membra di un unico Corpo – a questo scopo siamo stati battezzati nello stesso Spirito – sicché «L’occhio non può dire alla mano: “Non ho bisogno di te”; né il capo può dire ai piedi: “Non ho bisogno di voi”» (1 Cor 12, 21).

G. Allen, Quale ecumenismo?, in «Tempi di restaurazione», n. 2, dicembre 1996

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Il Cantico delle creature è organizzato intorno al triangolo Dio-uomo-natura. Il tema era stato toccato sia dalla Bibbia (nel Libro di Daniele le creature lodano Dio) sia nella Visione di Paolo, un libro apocalittico nel quale Dio difende l’uomo dall’ostilità delle creature. Nel testo di Francesco, invece, Dio è lodato non dalle creature, ma a causa delle creature, che si mostrano sempre e solo benevole verso l’uomo e sono il segno del Suo amore per l’umanità. Scritte nel contesto del XIII secolo, queste parole sono una garbata, ma fermissima, polemica contro i catari e gli altri eretici che negavano la bontà del creato e sostenevano l’origine satanica della materia.

Un apocrifo apocalittico, non a caso quello che ha goduto della maggior diffusione in epoca medievale, è la Visio

Sancti Pauli, opera assai studiata sotto il profilo della storia letteraria, in ragione delle sue connessioni con quella lettera-tura dell’aldilà di cui la Commedia dantesca rappresenta l’esemplare più perspicuo. Di questa narrazione del viaggio ultraterreno compiuto dal «vas d’elezïon» (Inf. II, 28) è stato spesso sottolineato il vivo realismo descrittivo: […] un ricco repertorio di materiale sulle pene dei dannati, le caratteristi-che dell’inferno e così via. Nella nostra ottica, invece, assume rilevanza un passaggio posto all’inizio della cosiddetta versio-ne latina lunga, il quale tematizza la seguente situazione: Paolo, rapito toto corpore [anima e corpo, n.d.r.] al terzo cie-lo, riceve tramite un angelo un ammonimento destinato al po-polo cristiano, comprendente una serie di accuse che il creato, appellandosi a Dio, rivolge all’umanità. Contro l’uomo, che «ha potere su tutto il creato, e pecca più di tutta la natura», si scagliano successivamente il sole, la luna e le stelle, il mare, le acque, la terra: tutti vorrebbero annientare l’umanità, ma la misericordia divina si oppone ogni volta. […] La Visio Pauli tematizza con sufficiente chiarezza un’idea dei rapporti fra Dio, l’uomo e il creato, contrastante con l’ottimismo espresso dal Cantico, che si organizza anch’esso secondo coordinate a triangolo, ma con segni spostati (qui Dio dispone il creato amico per l’uomo, là protegge l’uomo dal creato nemico). […]Le considerazioni finora avanzate sul rapporto fra il testo di Francesco e la produzione apocalittica potrebbero essere ri-formulate come risposte a una domanda apparentemente pa-radossale, soprattutto trattandosi di un personaggio come Francesco, la cui immagine vulgata è tutta bontà e mitezza. La domanda suona: contro chi è composto il Cantico delle creature? Il suo autore opera in una situazione ideologica altamente dinamica, in cui diverse concezioni dell’essere cri-stiano si intrecciano in modo particolarmente complesso. Co-me ha di recente ricordato con l’usuale finezza Giovanni Mic-coli, discutendo un episodio della Vita secunda [una biogra-fia di san Francesco, n.d.r.] di Tommaso da Celano, la pecu-

liare posizione dell’Assisiate – che prende le distanze tanto da un cristianesimo conformista, quanto dalle radicalità ere-ticali – va letta in tale contesto: «Non credo sia necessario insistere sul carattere profondamente alternativo di tale at-teggiamento, configurato in termini tutti positivi, senza con-testazioni o polemiche, rispetto alla concezione e alla prassi della christianitas; un atteggiamento che, tra l’altro, si ripro-poneva sostanzialmente negli stessi termini anche rispetto ai movimenti e alle Chiese ereticali, in una puntuale e decisa affermazione della propria ortodossia e della propria obbe-dienza romana, ma ancora una volta senza le controversie, le accuse, gli attacchi che animavano e orientavano sempre più decisamente la lotta antiereticale promossa da Roma».Ma il rifiuto dell’acredine polemica non dev’essere scambiata per accomodamento o resa nei confronti della drammatica rea ltà dell’epoca: è sempre il Miccoli a ricordarci, ad altro pro-posito, come Francesco fosse sì «uomo di carità e di pace, ma non certo quell’invertebrato e rugiadoso personaggio di tante ricostruzioni posteriori». Quella a cui ci troviamo di fronte è insomma una posizione dialettica, le cui conseguenze sono presenti in ogni punto dell’attività del santo: dunque, anche nel Cantico, al cui fondamentale ottimismo si intrecciano ac-centi che, seppure in modo implicito e pacato, rappresentano altrettanto ferme condanne delle deviazioni dalla retta fede.È questo il caso del tema centrale del testo, il rapporto fra Dio, l’uomo e la natura, che Francesco risolve insistendo sul-la bonitas [bontà, n.d.r.] della natura, che Dio ha creato per l’uomo; e ciò in netto contrasto con una possibile percezione di essa come complesso di entità tanto ostili, secondo l’espe-rienza quotidiana, quanto sterminatrici, nella proiezione escatologica. Ma simile atteggiamento contrasta anche con un’altra Weltanschauung [concezione del mondo, n.d.r.] dif-fusa all’epoca, incentrata sull’idea di consegnare la parte malvagia del creato a un principio ordinatore diverso da quello divino: in altre parole, con le eresie dualistiche e con la loro presenza a vari livelli della società. […] Sta qui dun-que un’ulteriore motivazione ideologica dell’insistere di Francesco sulla positività del creato, ricondotto in toto all’at-to di creazione da parte d’un unico Dio, tanto «onnipotente » quanto «buono». Come ha ribadito un eresiologo [studioso del fenomeno delle eresie, n.d.r.] del calibro di Raoul Man-selli, «per quanto riguarda la situazione storico-religiosa, nella quale va collocato il Cantico di Frate Sole, non vi è pos-sibilità di equivoco: senza mai entrare esplicitamente in pole-mica, esso è, però, senza dubbio anche una risposta al cata-rismo… L’esaltazione, la lode per Dio creatore e per quel che egli ha creato colpisce al cuore una delle posizioni di base del catarismo, quella per cui creatore del mondo fisico, o, alme-no, il suo ordinatore è Satana, secondo i molti e vari miti dell’eresia ». […] È del tutto naturale che, là dove il creato è ritenuto opera del demonio, non possa esservi alcuna cele-brazione delle sue componenti; viceversa, elevare un inno alle creature varrà a riaffermare l’onnipotenza di un unico

Nicolò Pasero, Il triangolo Dio-uomo-natura nel Cantico di Frate Sole

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Signore del cielo e della terra, respingendo ogni tentativo di assegnare i due regni a distinte entità sovrane.Si osserverà, per inciso, come una simile lettura del messag-gio ideologico del Cantico interessi direttamente anche l’an-nosa discussione della critica sul senso della formula laudato si’… per che scandisce il testo, interpretata di volta in volta come espressione causale (per = propter: Dio va lodato per aver creato il mondo), o come espressione agenziale [come complemento di agente, n.d.r.], sul modello, volto dall’attivo

al passivo, del Libro di Daniele (Dio va lodato da parte delle creature: ma come rientra in questo ragionare la sorella Mor-te?). All’intenzione anticatara del Cantico si attaglia meglio la prima lettura, perché il senso che ne risulta si trova ad essere più direttamente contrapponibile alle tesi ereticali, nonché al pessimismo apocalittico di cui si è già detto.

N. Pasero, Laudes creaturarum. Il cantico di Francesco d’Assisi, Pratiche, Parma 1992

La Morte occupa il centro dell’immaginario religioso dei secoli compresi fra la peste nera del 1347-1350 e la Riforma protestante. Ma pensare alla Morte signifi cava soprattutto, per l’uomo del Quattrocento, rifl ettere sul giudizio che, dopo la fi ne della vita, ogni individuo avrebbe dovuto sostenere davanti a Dio.

Sembrava che la morte dominasse l’intera esistenza; essa era per gli uomini quasi come il pane quotidiano. Media

vita in morte sumus: nella vita siamo circondati dalla morte. La morte era l’oggetto dell’esperienza umana del XV secolo. Ed è significativo che le prime volgarizzazioni tedesche di quell’antica antifona [ritornello cantato durante una liturgia di preghiera monastica, n.d.r.] abbiano luogo proprio in que-sto periodo. Il tetro sentimento della morte intravista fa sì che il pensiero dell’uomo del tardo medioevo si volga inces-santemente alla morte. A partire dal XIV secolo e sino alla Riforma, osserviamo un ampliarsi crescente delle espressioni e delle testimonianze intorno alla morte. In nessuna epoca come questa il pensiero di ciascuno fu incessantemente fisso sulla morte: memento mori, pensa che devi morire. Fra tutte le forme e figure intorno alle quali si volgono il pensiero e la devozione, la fiducia e l’angoscia, l’amore e il timore degli uomini, una è più vivida e rilevata, quella della morte, anzi, del «Sire Morte».Le «danze macabre» riproducono quello che l’esperienza dell’epoca ha connesso con la morte. Dappertutto, ben pre-sto, si trova una copiosa [abbondante, n.d.r.] diffusione della sua immagine, ora oggetto di rappresentazione drammatica, ora di pittura, ora di incisione su legno. Raffigurazioni delle danze macabre ricoprono le pareti delle cappelle cimiteriali, degli ossari, dei conventi, dei chiostri, e sembra quasi che da quei luoghi vogliano presentarsi come una predica rivolta a tutti; oppure sotto una forma di foglio miniato o di libretto popolare, pervengono sino al singolo individuo, raggiungen-do il borghese nel suo salotto, come il monaco nella sua cel-la. Nata originariamente come una ridda [ballo, n.d.r.] del morto col vivente, la danza macabra si trasforma in danza della morte con l’uomo, che essa sorprende da solo, in coppia o in folla. Artisti, piccoli e grandi, raffigurano, in variazioni sempre nuove, la predominante potenza della morte, la sua minacciosa vicinanza e la sua forza livellatrice.

Ora la morte sta sui rami di un albero, sotto cui amoreggiano il garzone e la sguattera, ora afferra il contadino tra i buoi nell’at-to di arare, ora abbraccia il corpo di una donna che si guarda allo specchio, ora si pone in agguato della coppia d’amanti che passeggiano spensierati, ora sbalza il cavaliere dalla sella, e non risparmia neppure il bambino. La morte prende tutto, da-vanti ad essa tutti gli uomini sono eguali, tutte le classi sociali vengono passate al suo vaglio: papa, imperatore, cavalieri, contadini, signori, servi, mendicanti, «tutto quello che è nato ha in sorte di dover soffrire l’amara morte». Così, alle danze ma-cabre viene a collegarsi una tendenza democratica; esse fini-scono, infatti, con il rivestire il carattere di una satira sociale, nel contesto dei fermenti e dei rivolgimenti del tempo. [...]La morte non viene avvertita [tanto, n.d.r.] come un predato-re della vita, quanto piuttosto come un predatore della salute [salvezza, n.d.r.] dell’anima. E perciò l’intensa esperienza della morte, sul finire del medioevo, non conduce ad un arric-chimento e ad un approfondimento della vita, ma, al contra-rio, trascina i pensieri degli uomini proprio in direzione dell’aldilà e stimola in loro, ancora più profondamente, la preoccupazione della vita eterna. Un aspetto condiziona l’al-tro, ed è come un circolo vizioso: quanto più intensamente gli uomini temono la morte, tanto più appassionatamente, per ciò stesso, si preoccupano della salvezza della loro anima e, di converso, quanto più appassionatamente si preoccupano della salute della loro anima, tanto più temono la morte. Ne scaturisce l’espressione del giudizio così terribilmente pa-ventoso [spaventoso, n.d.r.] e della temuta penitenza, che risuona sino a noi attraverso le note del canto dei flagellanti:

«Or sollevate le maniché Dio conduce la grandemorte. Or levate il braccio eche Dio abbia di noi pietà. Gesùcon il tuo rosso sanguepreservaci dalla nera morte».

È questa l’impressione che l’esperienza vissuta e generaliz-zata della morte produce allora nella maggior parte degli uomini: il castigo di Dio incombe; il suo sdegno deve essere placato.

H. Zahrnt, Il tempo dell’attesa, Coines, Roma 1973

Heinz Zahrnt, La centralità della morte nella religiosità tardo medievale19

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Erasmo e Lutero ebbero differenti comportamenti riguardo al problema della traduzione della Bibbia; la diffusione dell’accesso diretto al testo biblico ebbe conseguenze importanti nel delinearsi delle diverse anime della Riforma.

Nella quiete della Wartburg, Lutero dette avvio a un’opera poderosa: la traduzione in tedesco della Bibbia. Era la

realizzazione di un progetto che stava nel cuore dell’umane-simo cristiano del Cinquecento. Nel Libellus di Querini e Giu-stiniani si sosteneva che era necessario tradurre la Scrittura sacra nelle lingue volgari: bisognava seguire l’esempio dei primi cristiani che avevano «tradotto» la Bibbia in latino per metterla a disposizione di tutti. Ma quella proposta era rima-sta lettera morta. Erasmo da Rotterdam aveva pubblicato nel 1516 la Paracelsis o introduzione alla versione latina del Nuovo Testamento. Era il manifesto programmatico della sua fede umanistica nella conoscenza attraverso la lettura diretta delle Sacre Scritture. Erasmo aveva scritto parole ispirate sul modello della società cristiana che sognava: quello di un mondo dove il contadino impugnando l’aratro, la casalinga mettendo mano alla canocchia e al fuso, cantassero non più canti d’amore o storie di cavalleria ma le parole stesse della Scrittura sacra, lette direttamente in traduzione volgare. Tut-tavia, Erasmo era un umanista e aveva realizzato solo lo sta-dio superiore di quel progetto: la sua traduzione in latino aveva messo a disposizione dei dotti un testo filologicamente solido, da cui partire per una traduzione in volgare. Fu dun-que Lutero a realizzare un sogno del suo tempo, per il suo popolo. E lo realizzò con la ricchezza e la potenza del suo

stile. Il suo genio di scrittore si vide anche nella versione dei Salmi, che fu messa in musica e divenne davvero un canto collettivo dei tedeschi di fede riformata. Com’è stato osserva-to da un grande linguista, «quella miracolosa versione della Bibbia ruppe l’unità della fede e creò l’unità della nazione» (G. I. Ascoli). Il popolo tedesco, che non aveva nessuna unità politica, trovò in quel libro lo strumento per fondare l’unità culturale e linguistica.Intanto, però, cominciava la divisione all’interno del movi-mento riformatore e del mondo tedesco. Una frangia rivolu-zionaria intese in maniera radicale la riforma e soppresse immediatamente ogni distinzione tra laici e chierici; abolì an-che la Messa, considerata invenzione papista. Un vento rivo-luzionario spazzava via i simboli più venerati della tradizio-ne: i monaci gettavano la tonaca alle ortiche, i preti si sposa-vano apertamente e si vestivano da cavalieri. Una sete di autenticità evangelica, di eliminazione di ogni aggiunta uma-na portava a reinventare i riti cristiani: non più il prete che con paramenti solenni e arcaici recitava testi latini, ma uomi-ni come gli altri che col coltello tagliavano pezzi di pane e versavano bicchieri di vino nel rito dell’eucarestia. Le tavole policrome che nelle chiese ornavano gli altari e offrivano im-magini di santi e di madonne all’adorazione dei fedeli furono eliminate. Si delineavano così le due tendenze figlie della Riforma luterana: da un lato, il razionalismo di chi ragionava a partire dalla parola di Dio studiata nel suo significato lette-rale; dall’altro, il misticismo degli entusiasti (Schwärmer) che ricavavano il significato del messaggio evangelico da un’illuminazione interiore.

A. Prosperi, Storia moderna e contemporanea, I, Dalla Peste nera alla guerra dei Trent’anni, Einaudi, Torino 2000

Adriano Prosperi, Lutero, Erasmo e la traduzione della Bibbia20

Nelle pagine di Adriano Prosperi vengono sintetizzati gli aspetti di fondo del signifi cato del concetto di “riforma” tra Medioevo e prima Età moderna.

La religione cristiana doveva essere riformata? E che cosa significava «riformare»? Si trattava di cambiare il modo di

vivere – la morale, il comportamento concreto – o il modo di pensare, le idee, le nozioni astratte, le dottrine? E, per cambia-mento, si intendeva l’introduzione di novità o il ritorno a forme antiche che erano state abbandonate o alterate nel corso del tempo? Per più di due secoli – dal 1417 al 1648 – il mondo europeo fu percorso da discussioni, polemiche vere e proprie guerre che ebbero la loro causa nella questione della «rifor-ma» della religione. Il cristianesimo è una religione storica, con un fondatore e una Chiesa originaria o «primitiva» che, per essere stata governata dagli apostoli e per le condizioni di po-vertà e di esemplarità dei suoi membri, ha costituito un model-

lo costante per le epoche successive: per questo, si può dire che la «riforma» in quanto desiderio o progetto di tornare alla «forma» originaria considerata come perfetta è una costante della sua storia. Ma c’è un’epoca specifica in cui la forza di quel modello e i modi in cui fu interpretato trasformarono pro-fondamente la struttura del cristianesimo europeo, tanto che l’epoca intera va sotto il nome della Riforma. Quest’epoca co-mincia con l’evento «grande scisma», che vede un papato divi-so fra più pretendenti in un’Europa che rimane unita dal punto di vista ecclesiastico e religioso, e termina con un’Europa divi-sa tra più chiese e sette cristiane, mentre il papato conferma e rafforza la sua autorità sulla Chiesa che gli è rimasta obbedien-te. Dunque, all’inizio di questo processo l’Europa è unita e al termine è profondamente divisa.Per oltre un secolo, la cultura e la vita religiosa europea sono percorse dall’appello della «rifor ma». Una crisi di fiducia attraverso il rapporto fra la società e il corpo ecclesiastico nel suo insieme. La crescita economica e demografica,

Adriano Prosperi, Riforma e riforme tra Medioevo ed Età moderna21

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l’espansione urbana, le nuove dimensioni della ricchezza e del piacere di vivere dell’affluente società cittadina scatena-no movimenti pauperistici, di smarrimento e di critica. Dopo che una serie di movimenti pauperistici e di penitenza aveva-no già reso familiari gli annunci di prossime, terribili punizio-ni divine al mondo immerso nei piaceri della vita e dimentico dei «novissimi» – la morte, il giudizio di Dio, l’inferno –, ecco che, terrificante e improvvisa, si scatenò la spaventosa peste nera del 1348. […] Ondate successive di epidemia e di care-stia fecero regredire le città, aumentarono la turbolenza del-le campagne, l’insicurezza dei traffici, i toni aspri della vita. Ma per chi viveva il sogno beato di una bella vita terrena e di un progresso senza limiti nelle bellissime città medievali, la scossa fu terribile. La meditazione angosciosa della presenza della morte come limite delle opere umane si avverte anche nell’ansia rinnovata con cui si pose il problema di un ritorno alla purezza perduta del cristianesimo primitivo. Questo fu il senso generalmente condiviso dell’idea stessa della «rifor-ma»: nella concezione cristiana della storia, il momento ini-

ziale, apostolico, della Chiesa appariva come quello perfetto: su quell’inizio, il tempo e la malizia umana avevano poi insi-nuato deviazioni dalla «forma» originaria delle deformazio-ni. Sul tronco di una pianta nata dal sacrificio di Gesù, erano cresciuti polloni devianti, che bisognava tagliar via: questo era il «riformatore», un tornare alla forma originaria. Con lo sguardo rivolto al passato, la società cristiana medievale si muoveva verso il futuro. Le immagini della vita vegetale, col suo ciclo stagionale di morte e di vita, suggerivano intanto un termine analogo per connotare un fenomeno culturale com-plesso: il «Rinascimento», cioè il ritorno in vita dei modelli dell’arte classica. Si deve tener conto di questo nuovo fattore di complicazione dell’universo culturale e religioso dell’età della Riforma: la rinascita del paganesimo antico, la rinnova-ta circolazione di modelli di vita e di pensiero che prescinde-vano dalla tradizione cristiana.

A. Prosperi, Dalla Peste Nera alla guerra dei Trent’anni, Einaudi, Torino 2000

L’etichetta di “Controriforma” assegnata alla svolta di riforma della Chiesa cattolica ha un signifi cato equivoco: il dibattito a questo riguardo ha avuto interessanti sviluppi.

Dalla pur sommaria esposizione dei problemi si può evince-re la problematicità dell’uso di termini storiografici quali

riforma cattolica e controriforma, ai quali sono stati assegna-ti spesso contenuti assai diversificati. Non si tratta di sempli-ci etichette: in realtà, la diversità di significati attribuita alle definizioni rimanda a questioni interpretative di notevole por-tata. Lo storico tedesco Hubert Jedin negli anni Quaranta aveva posto le basi per una riconsiderazione di precedenti schematizzazioni, portato dalle controversie confessionali; egli ha messo in luce gli aspetti di rinnovamento interno della chiesa («riforma cattolica») che precedono la riforma prote-stante e in qualche misura ad essa danno origine: la volontà di riformare la chiesa si sviluppa secondo linee diverse nell’ambito cattolico e in quello protestante, a partire da una radice comune. In tal modo si superava anche una certa chiu-sura della storiografia cattolica, che a lungo aveva sottovalu-tato gli aspetti innovativi del Tridentino, preferendo al termi-ne di riforma quello di restaurazione. Si deve peraltro ag-giungere che il termine di riforma cattolica è inadeguato ad esprimere compiutamente i fermenti post-tridentini, com-prensibili solo all’interno di una cristianità ormai lacerata e divisa nel cuore stesso dell’Europa. Il termine «controrifor-ma» può designare quegli aspetti dell’azione della chiesa

che più direttamente si muovono in contrapposizione alle nuove confessioni cristiane riformate. Ma ad esso oggi gli sto-rici preferiscono il termine di confessionalizzazione cattolica (in corrispondenza alla confessionalizzazione protestante), che meglio consente di cogliere i fenomeni nella loro com-plessa articolazione e nelle loro interrelazioni.In realtà, l’insufficienza delle schematizzazioni acquisite al fine di cogliere i processi di lunga durata entro i quali si arti-cola il divenire delle strutture ecclesiastiche nel loro com-plesso organico ha indotto gli storici a ricondurre la termino-logia riforma cattolica/controriforma entro più ampie catego-rie interpretative, quali quelle di cristianizzazione, moderniz-zazione, disciplinamento sociale.È stato ampiamente messo in evidenza come sia da conside-rarsi del tutto superata l’idea tradizionale che identificava la Riforma protestante con le istanze di modernizzazione bor-ghese e, al contrario, la Controriforma con l’emergere di una reazionaria resistenza al nuovo (W. Reinhard).Ciò che segna in modo forte le vicende del cattolicesimo nel primo Cinquecento è l’estrema mobilità delle tensioni religio-se, delle energie volte al mutamento o alla riforma, in un in-treccio sovente inestricabile tra la fedeltà a Roma e la tensione al rinnovamento, secondo linee tutt’altro che univoche: ciò, più che una mancanza di chiarezza segnala piuttosto l’esistenza di una non breve fase caratterizzata da una grande fluidità.

P. Vismara, Il cattolicesimo dalla Riforma cattolica all’assolutismo illuminato, in Storia del cristianesimo,

a cura di G. Filoramo - D. Menozzi, vol. 3, L’età moderna, Laterza, Roma-Bari 2001

Paolo Vismara, Riforma e controriforma cattolica22

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Nel particolare episodio di Guglielma di Boemia, alla fi ne del XIII secolo, si coglie quanto potessero essere labili i confi ni tra eresia, ortodossia e anche santità e quale fosse il ruolo che in queste situazioni di frontiera erano in grado di svolgere le donne.

L’insieme della vicenda si svolge in Milano e dintorni all’in-circa tra il 1260 e il 1300. Al centro vi è la figura enigma-

tica di una donna di nome Guglielma, ritenuta di stirpe illustre, addirittura figlia di un re di Boemia. Vero o no, ella si trova nella città lombarda verso gli anni sessanta del Duecento. En-tra in stretto contatto con i monaci di Chiaravalle e con gli ambienti laicali che ruotano attorno all’ente cistercense. Prende via via corpo un gruppo di individui, per lo più apparte-nenti a strati medio-alti della società milanese, che si legano a Guglielma e soprattutto all’alone di santità che la circonda. Sui modi e sui contenuti della testimonianza religiosa della donna le informazioni sono ridottissime: dagli atti dei processi a cui furono sottoposti nel 1300 i suoi seguaci essa appare nello splendore della santità, piuttosto che nella dimensione quotidiana. Le rare volte in cui traspaiono sue parole e suoi gesti, lo scarto tra coscienza di sé e immagine attribuitale da-gli altri è evidente. Quando le riferiscono che qualcuno la ri-tiene l’incarnazione dello Spirito Santo, la sua risposta è dura e umile: «Guglielma disse che essa non accettava ciò, ma che era una donna di poco conto e un vile verme»; «Voi siete fatui perché dite e credete di me ciò che non è vero, io sono nata da un uomo e da una donna»; «Guglielma molto adirata, come ben si vedeva, disse loro che ella era di carne e ossa, e anche aveva condotto il figlio nella città di Milano, e che ella non era ciò che essi credevano, e se non avessero fatto penitenza di quelle parole che avevano datto di lei, sarebbero andati all’in-ferno». La sua testimonianza è sicuramente incentrata sull’amore cristiano e sulla moralità evangelica: a un seguace che di mestiere faceva il mercante consigliava di astenersi da-gli spergiuri, dalle frodi e dalle usure; ai discepoli riunitisi attorno a lei nell’approssimarsi della morte rivolgeva l’invito a un reciproco rispetto e amore.Intorno alla sua esistenza evangelicamente santa, essendo Guglielma ancora in vita, si era creata una interpretazione «spirituale»: ella era ritenuta l’incarnazione al femminile della terza persona della Trinità che dopo morte avrebbe do-vuto risorgere per ascendere al cielo, da cui sarebbe discesa sui propri apostoli per redimere tutta l’umanità ancora nel peccato, compresi Giudei e Saraceni. Responsabilità di tale visione furono ritenuti Andrea Saramita e Manfreda da Piro-vano. Il primo era legato al monastero di Chiaravalle, per il

quale lo vediamo compiere operazioni di natura patrimoniale; la seconda era una umiliata della casa di Biassono. […]Nel 1300 Manfreda da Pirovano e Andrea Saramita testimo-niarono con la morte sul rogo i loro «sogni spirituali», prima che questi potessero acquisire valore teorico e porsi come problema da risolvere intellettualmente nel confronto col pensiero altrui: essi rimasero invece a livello di atteggiamen-to di attesa nel chiuso di un piccolo gruppo di «iniziati», di «illuminati». «Sogni» che in ultima analisi erano allora in-nocui: già nel 1284 un inquisitore aveva agito contro i gu-glielmiti e si era accontentato della loro abiura. Nel 1300 i domenicani Guido da Cocconato e Ranieri da Pirovano aveva-no riaperto le ostilità non tanto per la pericolosità della «set-ta», quanto all’interno di un disegno rivolto a riaffermare l’autorità e l’autonomia giurisdizionale del tribunale dell’in-quisizione, messe in discussione durante un precedente pro-cedimento contro un «frate gaudente» membro di un’impor-tante famiglia milanese. I guglielmiti erano un adeguato obiettivo: un obiettivo per colpire pure i monaci cistercensi di Chiaravalle che avevano favorito il culto di Gugliema, sul cui sepolcro compivano cerimonie liturgiche e predicavano muo-vendo dalla «santità» della loro antica devota.Guglielma aveva creato uno spazio di devozione e di religio-sità variamente interpretato da chi a lei si era avvicinato. Tutti credevano di aver incontrato un personaggio d’eccezio-ne, che dopo la morte non poteva né doveva essere dimenti-cato. I monaci di Chiaravalle ne perpetuarono la memoria, alimentando il culto attorno al suo sepolcro. I seguaci, pur partendo da un comune desiderio di celebrazione, si divisero: soltanto Manfreda, Andrea e pochi altri elaborarono una stra-tegia autonoma della continuità, facendo dipingere immagini di Guglielma, compilando litanie, ritmi e lodi a lei dedicati, costruendo un’ideologia guglielmita. […] Un’ideologia gu-glielmita fondata sull’attesa della «nuova età» dello Spirito incarnato al femminile, dalle potenzialità innovative assai difficilmente traducibili al di fuori di uno stretto e ristretto ambito religioso. La morte violenta degli «ideologi», la di-struzione non meno violenta dei riferimenti materiali della santità della Boemia e, forse, la mancata attuazione delle profezie riguardanti il «ritorno» di Guglielma posero fine ra-pidamente non solo a un culto, ma ai «sogni spirituali» di chi in essa aveva visto il preannuncio di tempi nuovi. Analogo destino ebbero altri gruppi di «spirituali» qua e là per l’Euro-pa. Non si spense invece nella religiosità tardomedievale la speranza nello Spirito attraverso variegate esperienze di mi-sticismo divinizzante.

G.G. Merlo, Eretici ed eresie medievali, il Mulino, Bologna 1989

Giovanni Grado Merlo, Sull’orlo dell’eresia23

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Le più importanti tipologie di fonti relative all’Inquisizione, pur presentando dei limiti, possono offrire agli studiosi interessanti possibilità di interpretazione.

Quando mancano [le fonti sui] processi [dell’Inquisizione, n.d.r.], e sappiamo che migliaia furono distrutti in vari

momenti, denunce e sentenze possono colmare il vuoto. Nel corso del Cinquecento divenne sempre più corrente la pratica della Congregazione di tenersi minutamente informata su quanto avveniva nei tribunali periferici, e poi di pronunciare le proprie decisioni sull’esito del caso preso in considerazio-ne. Questo progressivo spostamento della responsabilità fu un aspetto della tendenza generale a concentrare i poteri nella Curia. Ma credo che in questo programma ci fosse anche il riconoscimento, da parte dei funzionari romani, di un siste-ma giudiziario esteso oltre i limiti e applicato nei tribunali periferici, e specialmente nei vicariati, da personale cui man-cava un’adeguata preparazione. […]Uno degli strumenti principali a nostra disposizione per deci-frare la normativa inquisitoriale è il manuale, guida pratica per il giudice. Per questa categoria di documenti, non è il ca-so di pensare ad ambiziose strategie di catalogazione. Si de-vono piuttosto affrontare alcune questioni connesse con la loro produzione e uso. Temo che troppo spesso si prenda in mano uno qualunque di questi testi, convinti di possedere la chiave giusta per la comprensione della legge e della pratica inquisitoriale. Invece l’autorità e attualità di ogni opera, in effetti di ogni edizione, vanno verificate di volta in volta. […]Nessun manuale ebbe il privilegio di essere riconosciuto dal-la suprema Congregazione come ufficiale e autorevole com-pendio della normativa inquisitoriale. Così gli inquisitori lo-cali godevano di una certa libertà nella scelta dei testi. Viste le discordanti opinioni che questi scritti avevano su molti punti, ne poteva facilmente risultare una comprensione poco chiara del diritto.Con un altro tipo di fonte entriamo in pieno nel campo della procedura corrente. Le lettere scambiate dalla Congregazione con i tribunali periferici, e da questi ultimi con i loro vicari, ci aiutano ad andare oltre i trattati teorici e quasi a seguire l’an-damento giornaliero di questi tribunali. I dati sulla pratica

quotidiana ottenibili da documenti di questo tipo ci sfuggireb-bero se le nostre ricerche fossero limitate ai materiali giuridici in senso più stretto. I manuali dedicano lunghe pagine ad ar-gomenti come l’interrogatorio sotto tortura, l’avvocato difen-sore, e l’abiura. Ma è da pochi brevi brani epistolari che si deducono dati come i seguenti: nella consuetudine romana, per motivi di segretezza, la sala della tortura veniva sgombra-ta anche dagli sbirri addetti alle funi dopo che la vittima era stata alzata; per la parte difensiva del processo«il solito del tribunal è che gli rei nominino tre avvocati almeno, et uno di essi sia poi eletto dall’inquisitore»; il numero di ascoltatori che distingueva un’abiura pubblica da una privata.La Congregazione teneva copia di tutta la corrispondenza e ne raccoglieva note riguardo una grande varietà di questioni legali su cui erano sorti dubbi e incertezze, o riguardo punti che erano stati oggetto di abusi e fraintendimenti. I passi ve-nivano poi riuniti e servivano come precedenti legali in caso di bisogno. Spesso erano elencati alfabeticamente in forma di dizionario per facilitarne la consultazione. Queste liste illu-strano chiaramente i dubbi e le incertezze che perdurarono mezzo secolo ed oltre dopo la bolla Licet ab initio.I manuali insistono rigidamente sull’impeccabilità dell’inqui-sitore nel suo ufficio. Una visione mol to lusinghiera appare dalla corrispondenza. Rimproveri per una indifferente esecu-zione dei doveri riempiono le istruzioni romane per gli ufficia-li di provincia. Con una ironia appena velata, Antonio Balduz-zi, commissario della Congregazione, in una lettera del 3 ot-tobre 1573 esprime la sua ironica comprensione nei riguardi dell’inquisitore bolognese che si era scusato della sua len-tezza epistolare lamentando un impedimento fisico. Scrive il Balduzzi: «Mi dispiace del suo male del deto, che l’ha impe-dito del poter scrivere, massimamente se fosse stato el male del scalda letto, come credo, pure pacienza». Una serie di lettere incoraggiano il presunto infermo a dimostrare «un po-co di fatica e diligenza», lo rimproverano di aver abbandona-to il suo posto senza permesso, di aver assegnato la carica di procuratore ad un indiziato, e gli ordinano di scrivere in avve-nire le lettere di proprio pugno e di non delegare il compito ad altri.

J. Tedeschi, La varietà delle fonti inquisitoriali, in L’inquisizione romana in Italia nell’età moderna, Ministero per i beni

culturali e ambientali, Roma 1991

John Tedeschi, Inquisizione e fonti24

Nel classico studio di Hugh Trevor-Roper sono segnalate le cause sociali che cospirarono a fare della caccia alle streghe un’ossessione; nella stregoneria la società europea in crescita, ma percorsa da confl itti e inquietudini, individuò uno dei possibili “nemici” da combattere, e lo fece con terribile consequenzialità.

La genesi dell’ossessione cinquecentesca della stregoneria può essere quindi vista in due fasi. Prima di tutto, vi è una

tensione sociale. Come l’antisemitismo sistematico nasce dal ghetto, dall’aljama, e non dal singolo ebreo, così la mitolo-gia sistematica della stregoneria nasce non da singole vec-chie donne che facevano fatture in villaggi isolati – questo era sempre stato tollerato – ma da gruppi sociali non assimi-

Hugh R. Trevor-Roper, Caccia alle streghe in Europa nel Cinquecento e Seicento25

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labili che, come gli ebrei e i moriscos in Spagna, potevano essere costretti dalle persecuzioni ad adottare una forma di ortodossia esteriore, ma non a integrarsi socialmente, e che quindi, a differenza di altri, suscitarono nella società forme di paura. Fu facendo leva su questa tensione che gli evangeliz-zatori delusi cominciarono a costruire la nuova mitologia del regno di Satana. In questa sede, non ci interessa che quella mitologia fosse frutto esclusivo della fantasia. Possiamo li-mitarci ad osservare che, da questo punto di vista, non era un fenomeno unico. Alcune delle idee e delle pratiche attribuite agli albigesi, e prima di loro alle sette esoteriche, erano non meno fantastiche, e l’assurdità della demonologia dell’Inqui-sizione dovrebbe essere un monito salutare a tutti noi, consi-gliandoci di non credere mai a ciò che una società persecutri-ce racconta in merito a qualsiasi eresia esoterica contro la quale si batte. Ma una volta creato, il mito acquistò di fatto una propria realtà autonoma. L’ideologia è indivisibile, e co-loro i quali credevano che tra le montagne esistessero società adoratrici del diavolo, scopersero ben presto che nelle pianu-re vi erano individui i quali adoravano anch’essi Satana. Così la seconda fase dell’ossessione della stregoneria scaturì dal-la prima. La nuova mitologia fornì nuovi strumenti per inter-pretare deviazioni trascurate in passato, rivelò un retroscena in grado di spiegare un non conformismo apparentemente in-nocuo: essa poteva spiegare perfettamente tutto ciò che sem-brava misterioso e pericoloso (come la potenza di Giovanna d’Arco) o anche misterioso e soltanto strano. Gli stessi non conformisti, alla ricerca di un’ideologia alla quale richiamar-si, si impadronirono deliberatamente delle dottrine appena scoperte; sadici come Gilles de Rais conferirono dignità alle proprie efferatezze attribuendole a un impulso satanico; vit-time indifese della società cercarono affannosamente un aiu-to in quelle dottrine, e soggetti psicopatici cristallizzarono le proprie allucinazioni intorno al loro nucleo fondamentale […]Ho affermato che l’ossessione della stregoneria del Cinque e Seicento deve essere studiata, se se ne vuole comprendere la forza e la durata, nel suo contesto sociale e culturale. Non è possibile considerarla, come hanno avuto la tendenza a fare gli storici liberali dell’Ottocento, come il frutto d’un semplice «inganno», isolato o isolabile dalla struttura sociale e cultu-rale dell’epoca. Se così veramente fosse stato, se non si fosse trattato d’altro che d’una artificiale costruzione intellettuale degli inquisitori medievali, risulterebbe dalla sua formulazio-ne definitiva, come tale formulazione sia rimasta immutata, come le critiche siano state limitate e nessuna di essa sia riu-scita a demolirla davvero, come i grandi pensatori dell’epoca si siano astenuti dall’attaccarla apertamente e come infine alcuni di loro, per esempio Bodin, abbiano persino contribuito a tenerla in piedi. A conclusione di questo saggio, tenterò di riassumere l’interpretazione da me proposta.In primo luogo, la persecuzione della stregoneria fu il frutto di una particolare situazione sociale. In un periodo di espan-sione, nel XIII secolo, la società «feudale» dell’Europa cri-stiana entrò in conflitto con gruppi sociali che essa non era in grado di assimilare, e la cui difesa della propria identità essa considerò inizialmente «un’eresia». […]La prima fase, infatti, si concluse rapidamente. La società «feudale» ortodossa distrusse l’eresia «albigese» e vibrò un

duro colpo a quella «valdese». I frati evangelizzarono le val-late alpine e pirenaiche. Nonostante ciò, il conflitto sociale non fu eliminato e quindi apparve necessario dare di esso una nuova razionalizzazione. In quelle regioni montane, dove so-pravvivevano costumi pagani e il clima era responsabile di malattie mentali, i missionari scoprirono ben presto supersti-zioni e allucinazioni con le quali era possibile inventare un secondo gruppo di eresie: eresie meno intellettuali, e anche meno edificanti, di quelle che avevano distrutte, ma nondi-meno simili ad esse. La nuova «eresia» della stregoneria, scoperta nei vecchi rifugi dei catari e dei valdesi, si fondava sull’identico dualismo tra dio e diavolo; le si attribuivano gli stessi convegni segreti, le stesse orge sessuali e spesso veni-va definita con gli stessi vecchi nomi.Questa nuova «eresia» che gli inquisitori scoprirono sotto le macerie dell’antica, non fu concepita come qualcosa di isola-to. Gli albigesi, come i loro predecessori manichei, avevano avuto una concezione dualistica di bene e di male, dio e dia-volo, e i domenicani, «martelli» degli albigesi, come sant’Agostino, «martello» dei manichei, avevano parzial-mente assimilato il dualismo contro il quale avevano combat-tuto. Si consideravano adoratori di Dio, e consideravano ado-ratori del diavolo i loro nemici, e poiché il diavolo è simia Dei, «scimmia di Dio», concepirono il loro sistema diabolico come necessaria controparte del loro sistema divino. La nuova co-smologia aristotelica costituiva la solida base di entrambi, e l’autorità di san Tommaso d’Aquino, garante dell’uno, era anche garante dell’altro. I due sistemi erano interdipendenti, e non solo dipendevano l’uno dall’altro, ma anche da tutta una concezione filosofica del mondo.L’elaborazione della nuova eresia, come della nuova orto-dossia, fu opera della Chiesa cattolica medievale e, in parti-colare, dei suoi membri più attivi, i frati domenicani. Nessuna argomentazione può sfuggire a questa realtà o aggirarla. Gli elementi costitutivi della credenza nella stregoneria possono essere non cristiani, persino precristiani; la pratica delle fat-ture, gli incantesimi per suscitare le tempeste, l’uso della magia simpatica, possono essere stati universali; i concetti del patto col diavolo, delle cavalcate notturne al sabba, degli incubi e dei succubi possono essere derivati dal folclore pa-gano, dei popoli germanici: ma l’integrazione di tutti questi diversi elementi in un’unica demonologia sistematica, in gra-do di creare un cliché sociale da perseguitare, fu opera esclu-siva non del cristianesimo ma della Chiesa cattolica. […]Questa, dunque, fu l’origine del sistema. Esso fu messo a punto nel corso di una lotta locale e, inizialmente, ebbe sol-tanto applicazione locale. Ma la costruzione intellettuale, una volta completata, era di per sé universale. Poteva essere applicata ovunque. E nel Trecento, un secolo di introversione e intolleranza crescenti, tra le sofferenze della morte nera e della guerra dei cent’anni in Francia, la sua applicazione di-venne generale. Il primo dei papi di Avignone (essi stessi vescovi della dis-senziente Linguadoca) diede nuovo impulso alla persecuzio-ne. L’arma forgiata per essere impiegata contro le società non conformiste venne impugnata per distruggere individui non conformisti; mentre gli inquisitori nelle regioni alpine e pirenaiche continuavano a moltiplicare le prove, le fazioni

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antagoniste della Francia e della Borgogna le sfruttarono per distruggere i loro nemici. Ogni episodio spettacolare accreb-be la potenza del mito. Come l’ebreo, la strega divenne il prototipo del non conformismo incurabile, e nel basso Medioe vo i due cliché vennero fusi e sfruttati come capri espiatori dei mali della società. L’istituzione dell’Inquisitoria spagnola, che diede ai «re cattolici» il potere di distruggere

il «giudaismo» in Spagna, e la promulgazione della bolla pontificia contro le streghe, che invitava città e principi a di-struggere le streghe in Germania, possono essere considerate come due fasi di una stessa crociata.

in M. Romanello, La stregoneria in Europa, il Mulino, Bologna 1975

Nell’Europa del Settecento, in una situazione di crisi della Chiesa dovuta a molteplici fattori, si sviluppa un insieme di aspetti di culto con cui «si mirerà ad inserire nuovi soggetti nell’ordine della fede e della società e a ricompattare in un nuovo sistema le coscienze dei fedeli».

Alla fine del Settecento [...] nell’ambito del cattolicesimo il sistema che in molti punti si era disarticolato per effet-

to delle riforme, ma anche in conseguenza di più estesi muta-menti culturali, tende a ricomporsi in un nuovo ordine o siste-ma attraverso la convergenza di un duplice apporto. Dall’al-to, per gli interventi della gerarchia e del magistero ecclesia-stico romano sul piano dottrinale contro il riformismo religio-so e il giansenismo, e sul piano politico contro le iniziative del dispositivo illuminato; dal basso con la elaborazione di espressioni e di pratiche devozionali nonché da orientamenti collettivi, che prendono a maturare lentamente in un efficace interscambio di proposte da parte del clero e di sollecitazioni e “domande” a livello popolare.Nella crisi all’interno della Chiesa, e tra questa e la società, già nei primi decenni del secolo la proposta di Muratori per una «regolata devozione», col suo appello alla riforma inte-riore, e insieme alla evangelizzazione delle masse, si era in-dirizzata verso la religione popolare, che ai suoi occhi appari-va oscura e insondabile. Ma contro la “superstizione” e gli “eccessi” frequenti della pratica religiosa nel culto della Ver-gine e ai santi, la “regolata devozione” aveva potuto segnare solo qualche parziale successo né era stata in grado di conte-nere, col suo richiamo cristocentrico, gli erompenti sviluppi della mariologia e della devozione mariana – esemplata, questa, dalla consacrazione, nel Settecento, del mese di mag-gio, ritenuto nefasto nel mondo rurale, alla Vergine – o di attenuare il sedimentato senso della morte, che nonostante qualche flessione percorre ancora il secolo, con il persistente, enorme accumulo delle messe di suffragio per i defunti, delle devozioni per le anime del Purgatorio, delle orazioni per un felice transito nell’Aldilà. [...] Si farà [...] strada [...] in vario modo il “buon uso” della pietà, propagandato con intenti pra-tici e pastorali; e il nuovo senso della devozione popolare si collegherà al diverso significato che si andrà gradualmente attribuendo alla dignità e alla missione del sacerdote, in par-ticolare del parroco, recuperato da una lunga subordinazione controriformistica al clero regolare. La nuova coscienza pa-

storale del clero secolare, che matura lungo tutto il Settecen-to, sia essa incentivata dal giansenismo sia essa stimolata più largamente dalla letteratura sul “buon parroco”, è un fatto centrale nel cattolicesimo settecentesco e avrà consistenti riflessi nei modi collettivi della pratica religiosa, finendo ine-vitabilmente con l’influenzare anche i modelli da proporre ai fedeli. In un generale orientamento ostile alla mistica [...], il cattolicesimo nel secolo dei lumi sarà in effetti percorso dall’idea di un metodo razionale, “pratico”, dell’ascesi cri-stiana [...], mentre la predicazione tenderà a perdere l’enfasi barocca e a volgersi o all’omiletica parrocchiale o all’oratoria effusiva e affettuosa, teorizzata e praticata nella maniera più efficace da sant’Alfonso Maria de Liguori. Devozioni “regola-te” dunque [...] che colpiscono espressioni devote fuori misu-ra o devianti, con un empito che avrà toni illuministici e più fortemente intellettualistici più tardi, nel quadro della “pietà illuminata”, con la sua lotta contro immagini inutili o reliquie di sospetta autenticità; ma anche, e soprattutto, devozioni “tenere”, come quella del Natale – per la quale lo stesso sant’Alfonso elaborerà una specifica novena e scriverà il più popolare canto religioso italiano Tu scendi dalle stelle – o quella del Sacro Cuore, che si diffonderà, con folgorante suc-cesso nell’Europa cattolica del secondo Settecento, in quanto rispondente più di ogni altra a un qualità nuova, semplice, emotiva e popolare, della pratica devota.Sarà, questo, il versante reale su cui si misurerà l’intero cat-tolicesimo lungo tutto il secolo, allargando le basi del con-senso verso le campagne e gli emarginati, insieme con un faticoso processo di alfabetizzazione e di acculturazione, con segno diverso però rispetto al controllo e alle conquiste della Controriforma. Proprio perché attraverso la pratica devota sempre più organizzata e incanalata nelle parrocchie e so-prattutto per mezzo delle missioni – che si intensificano a fi-ne secolo anche con l’apporto dei missionari redentoristi al-fonsiani – si mirerà a inserire nuovi soggetti nell’ordine della fede e della società e a ricompattare in un nuovo sistema le coscienze dei fedeli. Veniva così a delinearsi e ad assumere forme e contenuti un “nuovo” cattolicesimo, i cui modelli, in Italia come in Europa, non erano da rintracciare tanto nella realtà urbana quanto in quella rurale, e comunque a livello medio e popolare. [...] Il culto cattolico verrà assumendo ora da un lato aspetti ripetitivi (tridui, novene ecc.), come mezzi didattici più efficaci per agire sulla mentalità popolare, e dall’altro forme di religiosità-spettacolo, che si imprimono negli occhi e nella sensibilità con lo sfarzo delle cerimonie, e che, contro gli orientamenti severi della “pietà illuminata”,

Mario Rosa, Settecento e devozione popolare26

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intendono riadattare l’esteriorità, l’emotività, il grandioso della pietà barocca, il patrimonio simbolico tradizionale, alle esigenze del momento.È attraverso questa strada più duttile e coinvolgente [...] che la pratica religiosa tardosettecentesca si apre verso il grande alveo del devozionismo ottocentesco. Ma sarà soprattutto, questo, il canale attraverso il quale la Chiesa romana e il cattolicesimo, divenuto ormai popolare e di massa, potranno giocare un ruolo determinante nella crisi delle riforme come

nelle reazioni popolari alla Rivoluzione, sarà, questa, la ba-se, che consentirà al cattolicesimo, nel mito ottocentesco di un’Europa cristiana, contrapposta agli erramenti e alla tragi-ca conclusione del secolo precedente, di costruire nuove pro-poste religiose e politiche e nuove forme organizzative, in una nuova, diversa presenza nella società.

M. Rosa, Settecento religioso: politica della ragione e religione del cuore, Marsilio, Venezia 1999

Muovendo dall’analisi della Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 e analizzando in particolare i termini e le conseguenze del Concordato del 1801, si propone una rifl essione sul «dissolvimento della Chiesa d’ancien régime» e sul «mutamento strutturale» dei suoi rapporti con il potere statale.

Possiamo collocare nell’età rivoluzionaria l’epoca in cui, almeno nell’Europa continentale e segnatamente nell’Eu-

ropa cattolica, si posero le condizioni e le premesse della crisi irreversibile di un secolare sistema di relazioni tra Chie-sa e Stato [...]. Apertosi con la Dichiarazione dei diritti, che sanciva la liber-tà religiosa come diritto individuale [...], il corso della Rivo-luzione aveva investito in maniera sempre più diretta e radi-cale l’assetto della Chiesa francese. Dapprima aveva sman-tellato la Chiesa d’ancien régime, come corpo dotato di una propria autonomia patrimoniale e di una propria rappresen-tanza politica come “ordine”. Poi, mediante la Costituzione civile del clero, ne aveva tentato l’assimilazione ai sistemi elettivi e alla fisionomia istituzionale e amministrativa dello Stato rivoluzionario, secondo una linea di gallicanesimo de-mocratico sviluppato in prevalenza dalle correnti giansenisti-che, con la conseguente frattura tra le due chiese, costituzio-nale e refrattaria. La successiva politica di scristianizzazione durante la fase del Terrore aveva a sua volta rappresentato il tentativo di d’imporre una nuova religione repubblicana sostitutiva del Cristianesimo e l’apertura di un conflitto sociale-religioso che ricordava da vicino le guerre di religione del XVI secolo. Infine la legislazione del Direttorio sulla libertà dei culti, per quanto applicata in maniera non uniforme, aveva realizzato per la prima volta un sistema di tipo separatistico in fatto di rapporti tra Stato e Chiesa.Questi continui e repentini cambiamenti avvenuti nello sta-tuto giuridico e politico della religione, oltre che nella situa-zione della Chiesa francese, avevano trovato un decisivo punto di arresto nella politica ecclesiastica di Napoleone. Sotto l’apparenza di un ritorno al passato, e di una restaura-zione religiosa, il Concordato del 1801 e gli Articoli organici

avevano realizzato un equilibrio politico-ecclesiastico di nuovo tipo.Da una parte, il ricorso all’intervento e agli accordi con la Santa Sede, al fine di superare lo stato di lacerazione della Chiesa francese, aveva impresso un indiscutibile impulso all’ultramontanesimo. Dall’altra parte, il Concordato aveva operato un trasferimento del potere di nomina di vescovi, in precedenza riservato ad un sovrano cattolico, anzi “cristia-nissimo”, come il Re di Francia, ad un capo politico come il Primo console, la cui fonte di legittimazione risultava intera-mente secolarizzata, e addirittura di origine rivoluzionaria. In secondo luogo, il Concordato, adottando la formula del catto-licesimo come religione «della grande maggioranza dei citta-dini francesi», adombrava un criterio che faceva appello all’appartenenza religiosa di una parte, pur designata come largamente maggioritaria, della società francese, e ricono-sceva pertanto, in maniera implicita, l’avvenuta distinzione tra la società dei fedeli e la società dei cittadini. Infine, il Concordato napoleonico offriva una sanzione formale, e con-sensuale, al dissolvimento della Chiesa d’ancien régime, e del clero come “ordine” dello Stato. [...] Il Concordato napo-leonico, rifletteva in misura non marginale un mutamento strutturale, oltre che ideologico, avvenuto nelle relazioni tra Stato e Chiesa. Del resto gli stessi Articoli organici, e ancor più le loro ap-plicazioni, avevano rappresentato una frattura nei riguardi del modello gallicano, cui pure si richiamavano: l’avvenuto smantellamento della Chiesa d’ancien régime, da un lato, e l’abolizione della Costituzione civile del clero, dall’altro, avevano aperto la via ad un processo, relativamente nuovo anch’esso, di “burocratizzazione” della Chiesa sia nel sen-so di un’applicazione al suo interno di criteri e di funzioni di tipo burocratico sia nel senso di una sua tendenziale assi-milazione alla struttura burocratica dello Stato napoleoni-co. [...] Il Concordato napoleonico rappresentava la conclu-sione provvisoria dell’epoca storica aperta dalla Dichiara-zione dei diritti. La vicenda rivoluzionaria aveva mutato la fisionomia dei pro-tagonisti. Si era sostanzialmente conclusa la parabola della Chiesa gallicana, sia nella sua versione assolutistica sia in quella democratica e giansenisteggiante della Costituzione civile del clero. La Chiesa di Francia era sopravvissuta grazie

Francesco Traniello, La Chiesa tra Rivoluzione francese e Concordato napoleonico

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alla resistenza opposta dalla sua base popolare e tradiziona-listica alla spinta giacobina, nonostante lo sfacelo della sua struttura gerarchica. La Rivoluzione aveva involontariamente esaltato il ruolo del “popolo cattolico” in contrapposizione al “popolo rivoluzio-nario”: la società francese ne era uscita dilacerata. L’asse istituzionale della Chiesa si era decisamente spostato verso Roma. Viceversa il potere carismatico di Napoleone guardava ora alla Chiesa e al Papato come ad un puro fattore di con-

senso al nuovo sistema imperiale, che, sotto le parvenze di una proclamata rinascita carolingia, presentava i tratti evi-denti di un imperialismo laicizzato, burocratico e neogiurisdi-zionalista.

F. Traniello, Idee e modelli di relazione tra Chiesa, Stato e società avanti il 1848, in Chiesa e prospettive educative in Italia tra Restaurazione e Unificazione, a cura di L. Pazzaglia,

La Scuola, Brescia 1994

Nascono nuove congregazioni religiose e si afferma progressivamente un nuovo tipo di “cattolicesimo sociale” in un momento nel quale «la carità cristiana si accorse delle sfi de della società di fi ne Ottocento». In questo contesto acquistano luce particolare l’operato di don Orione, don Bosco e del vescovo Giovanni Battista Scalabrini.

Non pochi ambienti cattolici sentivano sempre più inade-guato il richiamo alla provvidenzialità dell’ordine sociale

esistente: la stessa «Civiltà Cattolica» – nuovo periodico della Compagnia di Gesù – che pure si scagliava contro il so-cialismo e il comunismo, muoveva dure critiche al pensiero liberale, accusato di incrementare il pauperismo con la sua difesa del profitto […]. Non mancarono l’appuntamento con i poveri le congregazioni religiose: un gran numero di opere di assistenza fiorirono per opera loro. Alla fine del secolo si conteranno più di 400 istituti di suore fondati negli ultimi cento anni. Claude Langlois calcola che, dal 1800 al 1880, almeno 200000 donne [in Europa, n.d.r.] sono entrate negli ordini religiosi femminili e si sono impegnate negli ospedali, in ospizi, in altre istituzioni per i malati di mente, orfani, de-linquenti, prostitute, senza considerare le istituzioni per l’al-fabetizzazione delle ragazze. A queste vanno poi aggiunte tutte le congregazioni maschili con le relative opere sociali. Il rapporto diretto con i poveri portava a una preziosa cono-scenza delle varie situazioni e grazie a essa la carità cristiana si accorse delle sfide della società di fine Ottocento; con par-ticolare attenzione si guardò alle giovani generazioni e alla loro preparazione a un ingresso professionalmente preparato nel mondo del lavoro. Si comprendono in questa prospettiva le grandi opere realizzate alla fine del secolo, per avviare e sostenere giovani nei mestieri e nelle fabbriche, per soccor-rere gli esclusi e gli abbandonati dalla società lavorativa e progredita […]. «Andare verso i più necessitosi» ripetevano Don Mazza e Don Comboni, all’inizio della seconda metà dell’Ottocento, per giustificare la scelta delle missioni in Africa centrale; privilegiare «i più sbandati e abbandonati», insistevano Don Bosco e il Murialdo, riferendosi ai «monelli»

e ai «birichini»; e Don Orione, più di una volta, affermava di voler accogliere nella Piccola casa della Divina Provvidenza «coloro che nessuno vuole e tutti rifiutano, Chiesa compre-sa». E […] scriveva ad un suo confratello: «Se la preghiera non ti porta ad esaminare attentamente […] i problemi che si affacciano nel tuo aiuto ai poveri, dubita di essa» […].Due uomini si possono ricordare, tra quelli che operarono alla fine dell’Ottocento: Don Bosco e Scalabrini. Del primo è nota l’opera verso i ragazzi della sua Torino e poi di […] altre città, italiane e straniere. Da sottolineare è la novità che Don Bosco portò all’interno della Chiesa attraverso la sua opera […]. Fortemente legato alla Chiesa ottocentesca […], fu proprio l’impulso religioso segnato dai caratteri ultramontani e devo-zionistici ad alimentare la sua sensibilità verso i problemi più acuti della società moderna, verso l’ideazione e la realizza-zione di opere e di istituzioni volte alla promozione delle per-sone e delle classi sociali. Si potrebbe parlare per l’opera donboschiana (ma non solo di essa) di «modernizzazione cattolica», intendendo una trasformazione profonda di meto-di, di strumenti e di istituti operativi, in un contesto di riferi-mento che restava tuttavia radicalmente ostile alle manife-stazioni ideologiche del “moderno”, in quanto considerate inconciliabili e avverse alla religione cattolica. Nella misura in cui Don Bosco lavorava nella prospettiva della costruzione di una realtà diversa, operava, anche senza avvedersene, ad una trasformazione della stessa mentalità religiosa […]. Sca-labrini, invece, è legato al fenomeno della emigrazione ita-liana che, nella seconda metà dell’Ottocento, assunse di-mensioni […] notevoli. La storia dei poveri in Italia, tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale, è in gran parte […] la storia dell’emigrazione. Questo fenomeno fu una sfida per Scalabrini. Tra le numerose iniziative sociali da lui avvia-te in favore degli emigrati, sono da ricordare le due congre-gazioni religiose, una di uomini e l’altra di donne (con Madre Cabrini), fondate per accompagnare e sostenere i milioni di italiani che lasciavano la loro terra. Per loro influsso si svi-luppò un movimento che […] fece maturare non poche propo-ste legislative di matrice cattolica.

V. Paglia, Storia dei poveri in Occidente, Rizzoli, Milano 1994

Vincenzo Paglia, Congregazioni religiose e cattolicesimo sociale28

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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I rapporti intercorsi nel XIX secolo tra cristianesimo e islam furono contrastati. L’autore, un giurista, ne ripercorre le tappe principali tra la spedizione di Napoleone in Egitto (1798) e gli anni Sessanta del XIX secolo, quando l’opposizione anti-islamica determinò «una volta per tutte in senso negativo l’atteggiamento dell’Occidente verso l’Islam».

A partire dal XIX secolo i paesi europei si concentravano sulla conquista del mondo islamico, fino ad allora toccato

solo in parte dal colonialismo. Napoleone, sbarcando con la sua armata in Egitto nel luglio del 1798, non dava soltanto inizio a un’operazione militare, ma metteva anche in pratica una grande operazione di studio e catalogazione, accurata-mente preparata dai 151 membri della commissione scientifi-ca che si assiepavano sulla nave ammiraglia, l’Orient. Uno dei risultati sarebbe stata la Description de l’Égipte, maesto-sa nelle stesse dimensioni tipografiche – ogni pagina un me-tro quadro – in ventitré volumi. L’Oriente e l’Islam venivano così catturati come nello spazio di un immenso museo, de-contestualizzati, letti attraverso la lente del pensiero occi-dentale, rimasticati per il lavoro delle future generazioni. L’orientalismo, prima che come “scienza”, nasceva come macchina da guerra culturale in grado di far esclamare ai francesi: «Noi siamo i veri musulmani».Proprio il campione della resistenza algerina alla conquista coloniale francese, l’Emiro ‘Abd al-Qadir [...] ha avuto una funzione importante nel tentativo di riavvicinare il mondo islamico e l’Occidente. Costretto alla resa nel 1847 e depor-tato in Francia, egli ha avuto modo di conoscere [...] l’impe-ratore Napoleone III in persona, che gli restituirà la libertà nel 1852, consentendogli di installarsi nell’Impero Ottoma-no. Nel frattempo le voci sulle pericolose tensioni che si era-no create tra coloni e indigeni in Algeria arrivavano anche all’orecchio di Napoleone III, che si recava in Africa nel 1860. Consigliato [...] dallo stesso ‘Abd al-Qadir, l’Imperatore prendeva la decisione di [...]dichiarare le tribù algerine pro-prietarie del suolo che occupavano, fermando così le espro-priazioni da parte dei coloni e nel 1865 agli algerini veniva riconosciuta la qualità di cittadini “francesi”. All’emiro ’Abd al-Qadir, inoltre, veniva conferita la Gran Croce della Legio-ne d’Onore per il suo provvidenziale intervento che salvava la vita di migliaia di cristiani durante i violenti scontri tra drusi e maroniti, che avevano devastato il Libano nel luglio 1860.

L’episodio avrebbe avuto anche grande effetto sull’opinione pubblica francese, poiché dimostrava che gli esponenti più rappresentativi dell’Islam non intendevano porsi come “ne-mici” del Cristianesimo, ma, al contrario, l’Islam riconosceva concretamente le tradizioni precedenti, ebrei e cristiani in particolare.L’opposizione anti-islamica si faceva più decisa mirando a determinare una volta per tutte in senso negativo l’atteggia-mento dell’Occidente verso l’Islam. Lo strumento “tecnico” per questa azione di colonialismo culturale diventava il na-scente orientalismo. Il discorso di Ernest Renan pronunciato il 21 febbraio 1862 in occasione dell’apertura dei corsi di lin-gua ebraica, caldaica e siriaca del Collége de France diveniva così il programma dell’orientalismo militante. Secondo Re-nan, che applicava le categorie positiviste ai rapporti tra Oriente e Occidente, la percezione del mondo doveva essere rigorosamente filtrata in base a una precisa discriminazione razziale e culturale. Vi erano, quindi, popoli “vicini” e amici, vale a dire gli indoeuropei, compresi gli indù, e popoli “lon-tani” e “nemici”, vale a dire i semiti. Gli arabi, poi, erano la quintessenza del popolo semita. La nozione razziale aveva la prevalenza su quella religiosa. I semiti e gli arabi erano anti-filosofici e anti-scientifici, così come non sarebbero mai esi-stite né un’arte né una letteratura islamiche equiparabili a quelle degli occidentali: «Tutto ciò che è sfumatura, tutto ciò che è delicato, tutto ciò che è profondo è opera nostra». La civiltà islamica era solo ideologia svuotata di contenuto: «Dura, angusta, egoista». Secondo Renan non vi era alcun elemento comune tra l’Ebraismo e l’Islam, da una parte, e il Cristianesimo dall’altra, anzi, «la vittoria del Cristianesimo fu assicurata solo quando esso ruppe completamente il suo involucro giudaico, quando ridivenne ciò che era stato nella elevata coscienza del suo fondatore, una creazione liberata dagli stretti vincoli dello spirito semita». La conclusione era che l’Occidente cristianizzato, o meglio ancora, il Cristianesi-mo occidentalizzato, aveva come missione principale quella di combattere l’influenza nefasta dei semiti nel mondo, mis-sione che coincideva con un progetto dichiarato di distruzione dell’Islam: «A tutt’oggi la condizione essenziale perché la civilizzazione europea si diffonda è la distruzione della realtà semitica per eccellenza, la distruzione del potere teocratico dell’islamismo, conseguentemente la distruzione dell’isla-mismo».

Ahmad ’Abd al-Waliyy Vincenzo, Islam: l’altra civiltà, Mondadori, Milano 2001

Ahmad ’Abd Al-Waliyy Vincenzo, Tra islam ed Europa: dialogo e contrasti nel XIX secolo

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S t o r i o g r a f i a

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Le principali tappe del cammino di emancipazione percorso dagli ebrei tra l’età napoleonica e la conclusione del processo di formazione degli Stati nazionali europei vengono esaminate con una luce particolare sul caso italiano. Vengono anche analizzati i diversi signifi cati e le conseguenze racchiuse nel concetto stesso di “emancipazione”.

Nel corso delle guerre rivoluzionarie e napoleoniche, le ar-mate francesi imposero l’uguaglianza degli ebrei [la pa-

rità dei diritti, n.d.r.] in molte parti d’Europa: in Belgio, in gran parte degli Stati tedeschi, in Olanda, negli Stati italiani. Anche in Prussia, dopo la sconfitta subita nella guerra contro Napoleone, la crescita di un vasto movimento riformatore portò nel 1812 alla concessione agli ebrei di una quasi totale emancipazione, con la sola limitazione della possibilità di ottenere cariche statali. Dopo il crollo dell’Impero napoleoni-co, mentre anche sotto i restaurati Borbone, l’emancipazione restava in Francia un diritto definitivamente acquisito, molte limitazioni furono reintrodotte in Austria, in Prussia e negli Stati tedeschi. In Inghilterra, dove gli ebrei avevano il diritto di cittadinanza ma non l’uguaglianza civile e politica [...] l’emancipazione fu l’esito di un graduale processo di elimina-zione delle barriere che impedivano il pieno accesso degli ebrei a cariche pubbliche e istituzioni e, specificamente, della clausola che prevedeva che chiunque ricoprisse cariche pub-bliche dovesse pronunciare il giuramento di fedeltà secondo la formula anglicana, ideata nel passato per escludere dalle cariche pubbliche tutti i non conformisti, in particolare i cat-tolici. Questa norma fu abolita pienamente solo nel 1866, dopo che, ancora nel 1847, aveva impedito al barone Lionel di Rothschild [israelita, n.d.r.], eletto alla Camera dei Comu-ni, di entrare in possesso della sua carica. Tanto in Germania quanto in Austria le rivoluzioni liberali del 1848 tentarono, senza riuscirvi, di accordare la piena uguaglianza agli ebrei. La si raggiungerà nel 1867 nell’Impero austro-ungarico, in Prussia e nella maggior parte degli Stati tedeschi nel 1869, cioè alla vigilia dell’unificazione del Reich.In Italia, la fine dell’esperienza napoleonica aveva reintrodot-to le antiche discriminazioni: nel Regno di Sardegna gli ebrei erano stati confinati nuovamente in ghetto, e lo stesso era ac-caduto a Modena e nello Stato pontificio. Solo le regioni sotto l’Austria, o ad influenza austriaca, come la Toscana, avevano

attuato progetti riformistici nello spirito del secolo preceden-te. In questa situazione, l’emancipazione degli ebrei era desti-nata inevitabilmente a seguire le sorti del processo risorgi-mentale. Il movimento costituzionale e poi quello rivoluziona-rio del 1848 portarono nuovamente all’uguaglianza di tutti i cittadini, e quindi anche degli ebrei. Dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848, l’emancipazione fu nuovamente abroga-ta a Modena, in Toscana e a Roma. Solo in Piemonte Vittorio Emanuele II lasciò intatto l’edito che nel 1848 aveva concesso l’uguaglianza agli ebrei. A Roma, dove i cancelli del ghetto erano stati abbattuti una prima volta nel 1799 e una seconda volta nel 1848, gli ebrei restarono nel ghetto fino al 20 set-tembre 1870, e finalmente ottennero, pochi giorni dopo la caduta del potere temporale dei papi, la parità con gli altri cittadini. In Europa orientale – in Polonia come in Russia – la situazione degli ebrei, che nel Settecento costituivano ormai la maggioranza degli ebrei europei, restava però immutata.Ma quali erano i contenuti di questa uguaglianza, e che cosa volle dire concretamente per gli ebrei il raggiungimento dell’emancipazione? In primo luogo, significò libertà di movi-mento, cioè la libertà di scegliere senza limitazioni il proprio luogo di residenza. Gli ebrei non sarebbero più stati obbligati a pagare una tassa per ottenere il diritto di spostarsi, avreb-bero potuto vivere liberamente in città come Parigi, Strasbur-go, Vienna, Berlino che fino a quel momento avevano negato loro il diritto di abitazione e lo avevano sottoposto a numero-se limitazioni. Avrebbero potuto vivere liberamente fuori dai ghetti, o dei quartieri loro riservati. Non sarebbero più stati sottoposti alle restrizioni che in alcuni luoghi, come in Ger-mania e in Austria, ponevano un limite al numero dei matri-moni, al fine di limitare il loro sviluppo demografico. Emanci-pazione significò inoltre l’abolizione delle secolari proibizio-ni che impedivano loro l’accesso alla maggior parte dei me-stieri e delle professioni, nonché delle clausole che impedi-vano o limitavano il loro diritto ad acquistare terre e proprie-tà immobiliari. Nei progetti dei riformatori, come nelle spe-ranze della parte più illuminata degli ebrei, l’abolizione di queste interdizioni – consentendo agli ebrei di scegliere libe-ramente la propria attività – li avrebbe allontanati dal com-mercio e soprattutto dal prestito, da tutti giudicato social-mente nocivo, e li avrebbe rapidamente inseriti nello svilup-po della società civile.

A. Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione, Laterza, Roma-Bari 1992

Anna Foa, L’Ottocento e l’emancipazione degli ebrei30

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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Il teologo ortodosso Olivier Clement fa riferimento a una realtà soltanto parzialmente conosciuta: la situazione della Chiesa ortodossa russa, la cosiddetta “Chiesa del silenzio”. Esamina le principali tappe del suo cammino durante gli anni del regime comunista, in particolare sotto Stalin, Chruscëv e Andropov.

Fin dall’inizio della rivoluzione tutta la violenza dell’atei-smo e del materialismo contemporanei si è scaricata sulla

chiesa russa. Dal 1918 al 1941 essa ha subito una delle per-secuzioni più terribili che il mondo cristiano abbia conosciuto e che ha dato decine di migliaia di martiri e confessori della fede: violenze anarchiche, estreme, ma sporadiche, durante la guerra civile; processi ed esecuzioni sistematiche nel 1922-1923, all’epoca della grande carestia; distruzione del cristianesimo rurale e deportazione di preti […] negli anni dal 1928 al 1934 nel contesto della collettivizzazione delle ter-re; grandi purghe staliniane orientate, tra gli altri, contro gli intellettuali nel 1937-1938 […]. La seconda guerra mondiale permise una sorta di resurrezione della chiesa e per molti,

soprattutto giovani, una riscoperta della fede […]. Grazie al patriottismo dei cristiani e all’“unione morale” del popolo russo che il regime dovette incoraggiare, il periodo dal 1941 al 1958 fu un periodo di relativa calma. Si riaprono alcuni seminari e un numero abbastanza elevato di parrocchie […]. È possibile elegger un patriarca […]. Tuttavia, con l’ultima re-crudescenza staliniana, molti credenti restano nei campi e si verificano arresti sporadici. Solzenycin ha evocato la “marcia fiduciosa” dei cristiani attraverso l’Arcipelago […].Chruscëv, come sappiamo, liquidò il sistema concentraziona-rio. Si passò da quindici milioni di zek [nomignolo dei detenu-ti, n.d.r.] a uno o due milioni. Eppure […], durante la seconda metà del suo governo, egli sferrò contro i cristiani una perse-cuzione incruenta ma asfissiante. Il numero delle chiese aperte fu allora ridotto da ventiduemila a ottomila circa, quello dei seminari da otto a tre, una cinquantina di monaste-ri furono chiusi […]. Molti preti persero allora la loro “regi-strazione”, il che permise sovente di condannarli da uno a tre anni di campo per “parassitismo sociale” […]. I cristiani vive-vano in un’autentica situazione di apartheid. Fu soprattutto Andropov a sviluppare la tesi che l’imperialismo occidentale utilizzasse la religione come arma psicologica per scalzare il

Olivier Clement, La Chiesa ortodossa russa nel XX secolo32

Lo storico e teologo Hermann J. Pottmeyer fornisce un quadro generale dei principali mutamenti ai quali la Chiesa ha dovuto far fronte nel XX secolo, sottolineando in particolare la centralità del Concilio Vaticano II, defi nito «autentica rivoluzione copernicana», e la progressiva apertura di una Chiesa che da “eurocentrica” si è lentamente fatta “mondiale”.

Mai, come in questo secolo, la Chiesa si è occupata così in-tensamente di se stessa, dal punto di vista teologico. L’ec-

clesiologia, la dottrina teologica sulla Chiesa, ha conosciuto un ampio sviluppo. Essa intendeva risvegliare nei credenti una profonda consapevolezza della loro appartenenza alla Chiesa. A ciò doveva servire anche una riforma delle strutture istitu-zionali della Chiesa stessa […]. Un frutto di questa riflessione è stato il Concilio Vaticano II. Suoi temi centrali sono stati la comprensione che la Chiesa ha di se stessa, la riforma al suo interno e il suo posto nel mondo contemporaneo.In diversa misura, cause diverse hanno portato la Chiesa alla tematizzazione di se stessa. Tra di esse quel processo che viene solitamente chiamato secolarizzazione: finché la Chie-sa era inserita in una società chiusa, le autorità ecclesiasti-che e civili comunicavano tranquillamente tra loro. La desa-cralizzazione delle realtà terrene, il venir meno dell’inciden-za della fede e una sempre maggiore indipendenza e autono-mia dei poteri e degli ambiti civili hanno fatto diventare la

Chiesa una parte del sistema sociale accanto ad altre come lo Stato, la scienza, l’economia […]. Tutto ciò obbliga la Chiesa a rimodellare il proprio profilo e a riflettere sulla sua nuova posizione nella società. Nello stesso tempo, i credenti si ve-dono costretti a vivere con più coscienza e maggiore chiarez-za la loro appartenenza alla Chiesa […]. Da parte ecclesiasti-ca, si è lamentata la perdita di un monopolio religioso, spiri-tuale, etico e culturale della Chiesa in una società cattolica chiusa. […]. Il Vaticano II significa una rivoluzione copernica-na nella misura in cui questo concilio ha voluto instaurare un dialogo con la società di oggi […]. Fra le cause […] va anno-verata anche la fine del predominio europeo e la crisi della cultura europea, affrettate dalle due guerre mondiali. Le Chiese locali d’America, Africa e Asia […] prendono coscien-za dei propri condizionamenti culturali e sociali della tra-smissione della fede ed esigono la fine dell’eurocentrismo della Chiesa. Se fino a questo momento l’unità della Chiesa è stata sostenuta dall’unità culturale, adesso […] si pone la questione di come salvaguardare l’unità della fede nella mol-teplicità delle sue espressioni. La Chiesa si vede, dunque, costretta a ripensare le condizioni indispensabili dell’unità della Chiesa. Soltanto ora essa comincia a scoprirsi come Chiesa del mondo.

H.J. Pottmeyer, Lo sviluppo della teologia dell’ufficio papale nel contesto ecclesiologico, sociale ed ecumenico nel XX secolo,

in Chiesa e papato nel mondo contemporaneo, a cura di G. Alberigo - A. Riccardi, Laterza, Roma-Bari 1990

Hermann J. Pottmeyer, La Chiesa cattolica nel XX secolo31

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S t o r i o g r a f i a

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regime. Ogni attività di testimonianza appariva così come un crimine di alto tradimento. Per contro, l’ateismo viene diffuso in modo massiccio, ossessionante, nell’insegnamento, nei movimen ti della gioventù, nelle imprese, nell’opinione, con volantini stampati in centinaia di migliaia di esemplari e con nugoli di propagandisti antireligiosi. Molti giovani cristiani, se si dichiarano tali per fuggire a una sorta di schizofrenia, si vedono interdire l’insegnamento superiore. I convertiti che tentano di approfondire insieme la loro fede, rischiano di per-dere la loro posizione se insegnano, scrivono oppure occupa-no un posto di responsabilità (scienziati e tecnici, indispen-sabili, sono più risparmiati) […]. La repressione comincia con alcune manovre intimidatorie: pedinamenti, perquisizioni

[…], interrogatori, minacce relative al lavoro e via dicendo. Se questi procedimenti restano privi d’effetto, c’è l’arresto, poi il processo […]. Le pene, per quanto pesanti, lo sono tut-tavia meno rispetto a quelle d’epoca staliniana: da tre a sei anni di campo a regime severo, seguiti da un tempo più o me-no analogo in un qualche sperduto villaggio della Siberia o dell’Asia centrale […]. Parallelamente, un cristiano, ritenuto per l’appunto schizofrenico, rischiava l’internamento in un ospedale psichiatrico speciale.

O. Clement, Martiri e confessori della fede, in La notte della Chiesa russa, a cura di A. Mainardi,

Qiquajon, Magnano 2000

Il rapporto della Chiesa cattolica e di quella evangelica con il potere fu spesso controverso: un caso particolarmente delicato in questo ambito fu il problema dell’opposizione al nazismo. Tenuta presente una gamma considerevole di elementi, la conclusione dell’analisi è che «mancarono alla Chiesa cattolica come alla Chiesa evangelica motivazioni suffi cienti per differenziarsi e successivamente per opporsi al regime nazista».

Il proposito della Chiesa di salvaguardare il suo patrimonio non solo ideale ma anche associativo, di stampa, di beni

immobili ed artistici, di istituzioni educative e culturali, attra-verso un’intesa bilaterale con il regime nazista, isolandosi dal contesto della società e delle istituzioni, si risolse in un bilancio fallimentare. La constatazione che nelle condizioni dello stato totalitario la Chiesa non poteva agire in modo di-verso da come agì, che è l’argomento principe di ogni giusti-ficazionismo, non si può considerare rappresentativo della più avvertita letteratura critica. Il sacrificio del cattolicesimo politico non fu compensato dalla sopravvivenza della Chiesa, che divenne, a onta delle promesse di Hitler e del patto con-cordatario, sempre più bersaglio di misure discriminatorie e persecutorie in un clima di scristianizzazione e sotto lo stilli-cidio di una tattica ricattatoria che faceva tra l’altro leva sul-la lealtà patriottica del credo e dei fedeli, di cui si ebbe la riprova, prima ancora della congiuntura bellica, in occasione dell’Anschluss austriaco. Mancarono alla Chiesa cattolica come alla Chiesa evangelica, allora ancora confessione della maggioranza della popolazione tedesca, motivazioni suffi-cienti per differenziarsi e successivamente per opporsi al re-gime nazista. Entrambe le confessioni, chiudendo gli occhi dinanzi a troppe espressioni del programma e degli esponenti nazisti che face-vano presagire il peggio anche per le Chiese, preferirono sot-tolineare ciò che le accomunava piuttosto che ciò che le divi-deva dal nazionalsocialismo. Entrambe scontavano la fred-

dezza con la quale non si erano identificate con la repubblica democratica. Per la Chiesa cattolica la prospettiva di un regi-me autoritario, come il fascismo in Italia, non era motivo né di preoccupazione né di divergenza, tanto più che l’anti-bolsce-vismo come ideologia rappresentava un altro elemento di saldatura con la NSDAP. E ciò, nonostante la Chiesa non si nascondesse i pericoli di una ideologia totalitaria e totaliz-zante soprattutto per quanto riguardava l’educazione e il controllo della gioventù. Per la Chiesa evangelica la tradizio-ne patriottica già collaudata dalla prima guerra mondiale e l’identificazione nella repubblica di Weimar dell’elettorato protestante nella sua maggioranza con la destra tedesco-nazionale rappresentarono una premessa ideologico-struttu-rale al consenso con il regime nazista, sebbene la pretesa di questo di dare vita a una Chiesa nazionale filonazista portas-se di fatto alla scissione dei Deutsche Christen [cristiano-te-deschi, n.d.r.] con grave danno per l’unità della Chiesa e per l’integrità del patrimonio teologico. Nell’una e nell’altra con-fessione non erano mancate precoci posizioni di critica e di ostilità al nazionalsocialismo soprattutto prima della sua ascesa al potere. Il trionfo nazista ebbe tra le sue prime con-seguenze la revoca delle riserve anche organizzative espres-se nei suoi confronti. Prevalse soprattutto nella Chiesa catto-lica un atteggiamento difensivo, di tutela delle istituzioni ecclesiastiche; la critica dello Stato rimase circoscritta in questo ambito. In essa il Concordato con la S. Sede fu tra i fattori che di fatto impedirono l’aggregazione di comporta-menti d’opposizione. Nella Chiesa evangelica la formazione della Bekennende Kirche (Chiesa confessante) dopo il sinodo di Barnem del maggio del 1934, in opposizione al Deutsche Christen come Chiesa ufficiale filonazista, rappresentò il punto di riferimento di una tensione permanente, che fu incal-zata da vicino dalla sorveglianza repressiva del regime […]. Tuttavia, il silenzio delle Chiese nel 1935, all’epoca delle leggi di Norimberga, e nel novembre del 1938, allorché i pri-mi pogrom segnalarono l’avvio di una nuova tappa nella per-secuzione degli ebrei, sottolineò l’ambivalenza delle riserve che le due confessioni avevano manifestato contro il neopa-ganesimo nazista: avevano difeso le loro prerogative dottri-nali, non si erano esposte contro il razzismo come tale né

Enzo Collotti, Chiese e nazismo33

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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Problema controverso e discusso quello che riguarda la Chiesa di Pio XII e la Shoah. È importante delineare soprattutto l’evoluzione storica del dibattito e mettere in luce le diverse posizioni, spesso polemiche, che l’hanno riguardato, nella convinzione che, esaminata la realtà dei fatti, «la questione non sta nel chiedersi ciò che Pio XII avrebbe dovuto fare, nel rivendicare che ha fatto ciò che doveva o nel sostenere l’opposto, ma nel cercare di illustrare e capire ciò che lui e i suoi collaboratori hanno fatto, come hanno operato, e soprattutto perché hanno fatto e operato così».

Il problema dell’atteggiamento della Santa Sede e di Pio XII verso i metodi di guerra e di occupazione dei nazisti, i loro

crimini, e la persecuzione e lo sterminio degli ebrei […] risale al momento stesso in cui quell’atteggiamento – di relativo silenzio, di “riserbo”, di deplorazione cautelosa e generica – ebbe modo di manifestarsi, suscitando già allora perplessità, dubbi e proteste […]. Perplessità, desideri che le cose si fos-sero svolte diversamente, serpeggiano e si manifestano nel dopoguerra, si riaffacciano alla morte di Pio XII, ma in modo sporadico, incerto […]. Il problema scoppia in pieno nel gen-naio 1963 attorno a un’opera di teatro […]. Il Vicario di Ho-chhut è stata solo la causa occasionale […] per una discussio-ne ormai matura […]. La questione preliminare […] non sta nel chiedersi o nell’argomentare ciò che Pio XII avrebbe do-vuto fare, nel rivendicare che ha fatto ciò che doveva o nel sostenere l’opposto, ma nel cercare di illustrare e capire ciò che lui e i suoi collaboratori hanno fatto, come hanno opera-to, e soprattutto perché hanno fatto e operato così […].Rispetto a che cosa, precisamente, la Santa Sede mantenne un atteggiamento di riserbo e di relativo silenzio? Che cosa cioè si sapeva esattamente in Vaticano dei crimini nazisti […],

della “soluzione finale del problema ebraico”? È su quest’ul-timo aspetto […] che vertono la discussione e il dissenso […]. Non vi è dubbio che il Vaticano fu ben presto consapevole del salto di qualità che la persecuzione antiebraica aveva com-piuto con lo scoppio della guerra. A Roma certamente si era a conoscenza della progressiva chiusura degli ebrei nei gran-di ghetti polacchi […], come delle deportazioni che […] colpi-rono sistematicamente a partire dall’ottobre 1941 gli ebrei tedeschi e via via tutte le comunità ebraiche dell’Europa con-trollata dai nazisti: erano fatti pubblici, che avvenivano sotto gli occhi di tutti. E sulle condizioni dei ghetti l’episcopato tedesco disponeva di propri canali d’informazione, in grado di fornire rapporti estremamente precisi, che non mancarono di essere inoltrati anche a Roma. Il dubbio può riguardare dunque solo la “solu-zione finale della questione ebraica”, avviata nei mesi suc-cessivi all’attacco alla Russia […]. Ma anche a questo riguar-do numerose sono le attestazioni che la Santa Sede ne fu via via largamente informata con sufficiente precisione […]. Fon-te di notizie […] era rappresentata dai nunzi – dove ancora c’erano – dallo stesso episcopato tedesco e dagli episcopati e dal clero dei paesi invasi […]. Ciò che […] nel corso del 1942 è ancora testimonianza inequivocabile ma circoscritta di iniziative e vicende atroci, cui si accompagnano voci, ipote-si, timori e supposizioni segnalati da varie parti, si articola e si precisa tra la fine del 1942 ed il 1943 in informazioni sem-pre più insistenti, dettagliate e puntuali, dove la sostanza dei fatti c’è ormai tutta […]. Si può ritenere che mancassero dati e notizie precisi sulla realtà dei campi […] ma non si può de-durre […] che la Santa Sede non avesse acquisito e non stesse acquisendo tutta una serie di informazioni sul fatto che uno sterminio degli ebrei, con iniziative, metodi e strumenti diver-si, fosse in corso su larga scala.

G. Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII. Vaticano, seconda guerra mondiale e Shoah, Rizzoli, Milano 2000

contro l’antisemitismo. Questo limite fondamentale nell’azio-ne delle Chiese […] connotò il loro comportamento durante tutto il regime nazista. Tuttavia, né le forme di persecuzione più plateali contro la Chiesa cattolica […] né gli scontri dot-trinali (messi in evidenza nel 1937 anche dalla diffusione dell’enciclica di Pio XI Mit brennender Sorge) valsero a forza-re la rottura del patto concordatario […]. A differenza di quanto poté avvenire per i religiosi deportati dai paesi occu-pati, la più parte dei preti e dei pastori tedeschi e austriaci deportati non faceva parte di alcuna organizzazione resisten-ziale, non aveva cercato contatto in una simile direzione, si

era semplicemente resa infida al regime tramite un compor-tamento che rispondeva a obblighi di coscienza, di lealtà cri-stiana o semplicemente a impulsi umanitari. Nonostante tut-to, essi furono un’eccezione, non la regola dei comportamen-ti ecclesiali; la loro influenza sul pubblico dei fedeli rimase circoscritta.

E. Collotti, Il ruolo di Dachau nel sistema concentrazionario nazista e l’atteggiamento delle Chiese verso il nazismo,

in Religiosi nei Lager. Dachau e l’esperienza italiana, a cura di F. Cereja, Franco Angeli, Milano 1999

Giovanni Miccoli, Pio XII e la Shoah34

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S t o r i o g r a f i a

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L’opera pastorale e assistenziale della Chiesa di Pio XII negli anni della seconda guerra mondiale, specie in Italia, si pose come punto di riferimento fondamentale per la popolazione civile.

La Chiesa che Pio XII eredita, nel marzo 1939, se per un verso appare ben salda nelle sue istituzioni e nella sua

organizzazione, appare altresì venata da una sorta di pessi-mistica visione del mondo moderno, al quale contrappone il suo modello di vita cristiana […]. La visione pessimistica del mondo moderno trovò proprio nello scoppio della seconda guerra mondiale una sorta di conferma agli occhi del mondo cattolico, dei vescovi e del clero. Invano il papa, fin dai primi messaggi aveva richiamato i potenti della terra a evitare una nuova “inutile strage”, invano aveva richiamato alla tolle-ranza, alla ricerca di vie pacifiche e diplomatiche, al rispetto del diritto, a non trascinare i popoli nei lutti e nelle rovine. La crisi spirituale dell’Europa […] non poteva non trovare nella guerra il suo epilogo […]. Non troviamo che in minima parte, e in pochi casi isolati […] il tentativo di cogliere le ragioni storiche, le responsabilità morali e politiche di quella guerra […], interpretata non solo come la conseguenza dell’abban-dono delle leggi morali, ma anche come manifestazione dell’ira divina […]. La guerra diventava il momento dell’espia-zione e della catarsi. Se da un lato questo atteggiamento sembra interpretare la guerra […] come un’inderogabile solu-zione del male e del peccato che aveva travolto l’umanità, non può non cogliersi anche il rifiuto di qualsiasi giustifica-zione che gli stati totalitari davano alla loro politica aggres-siva […]. I grandi uomini non sono più giudicati in grado di risolvere i problemi e i drammi dell’umanità; il destino dell’uomo viene rimesso unicamente nelle mani di Dio, nella

sua clemenza. Solo la preghiera, l’abbandono pieno e convin-to nella benevolenza divina poteva salvare gli uomini […].L’atteggiamento contrario alla guerra del clero italiano fu più sussurrato che apertamente manifestato, ma sostanzialmen-te rifletteva lo stato d’animo del paese e dei cattolici italiani. La Chiesa appare, durante questi anni, la più fedele interpre-te del processo di distacco dal fascismo di larghi strati della popolazione italiana. Non è certamente alla testa dell’antifa-scismo militante, ma non si limita neanche a seguire passiva-mente l’onda della crisi del consenso […]. Il mondo che ruo-tava attorno alle parrocchie, nei piccoli centri rurali come nelle grandi aree metropolitane prende coscienza e compie le sue scelte non solo alla luce dei drammi, dei lutti e delle ro-vine della guerra, ma anche delle omelie dei parroci, dei loro richiami ai valori della pace, della fratellanza umana […]. La Chiesa, insomma, è una guida morale […]. Accanto a questo ruolo la Chiesa italiana ne ha esercitato un altro: la sua azio-ne di assistenza e di conforto alle famiglie dei soldati al fron-te, di protezione ai perseguitati la colloca sotto una luce nuova e diversa. La sua immagine muta di fronte agli occhi di molti italiani, anche non credenti, diviene il punto di riferi-mento più sicuro, l’unica istituzione attendibile e della quale ci si poteva fidare, nella crisi che stava travolgendo il potere politico e la credibilità del regime. Si pensi alla Roma nei mesi dell’occupazione nazista, ma si pensi anche alle tante parrocchie dei piccoli centri, ove il parroco, divenuta spesso l’unica autorità e l’unica fonte di informazione, poteva consi-gliare e aiutare, soprattutto in quelle aree rurali dove la guerra aveva sempre significato lutti e sacrifici e dove il clero aveva spesso condiviso e denunziato le ansie e i drammi del mondo contadino.

F. Malgeri, La chiesa di Pio XII fra guerra e dopoguerra, in Pio XII, a cura di A. Riccardi, Laterza, Roma-Bari 1984

Francesco Malgeri, La Chiesa cattolica durante la guerra35

I rapporti tra Chiesa e politica all’indomani della seconda guerra mondiale, specialmente le relazioni con i paesi democratici, costituiscono una realtà particolarmente complessa: il progetto di un ordine politico “integralmente cattolico” e l’apertura ai princìpi della democrazia, alla luce del contesto della guerra fredda, mediata dalla presenza di formazioni politiche di area cattolica.

Produsse profonde ripercussioni sugli atteggiamenti della Chiesa la prova data dagli Stati a struttura democratica

nel contrastare efficacemente i regimi totalitari, prima il na-zismo e il fascismo, poi, all’indomani della guerra, il comuni-smo. Il fatto che alla testa della coalizione di forze che ave-

vano sconfitto il nazismo e il fascismo ci fosse una democra-zia come quella americana, nel cui contesto la Chiesa catto-lica aveva conosciuto una rilevante fioritura, ebbe un peso non trascurabile nel favorire una più ampia, ancorché non univoca, revisione di prospettive. Già nel corso della seconda guerra mondiale, il magistero di Pio XII si era incentrato sulla contrapposizione inconciliabile tra i sistemi totalitari e stato-latrici e l’idea di una “civiltà cristiana” connotata dal riferi-mento a princìpi universali di giustizia, antecedenti al diritto positivo degli Stati in quanto radicati nella persona umana, sviluppati dal cristianesimo e tutelati dalla Chiesa. In seguito agli esiti apocalittici dei totalitarismi moderni, il criterio di giudizio della Chiesa nei confronti dei regimi politici tendeva così a modificarsi: non valeva più tanto, o soltanto, la loro maggiore o minore disponibilità a porsi al servizio dell’in-staurazione di un ordine integralmente cattolico dettato dalla

Francesco Traniello, Chiesa e democrazia36

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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Chiesa e presidiato preferibilmente da uno “Stato cattolico” (a struttura confessionale), bensì l’apertura maggiore o mi-nore degli ordinamenti politici e giuridici al riconoscimento, alla garanzia e alla promozione dei valori della persona come fine supremo e componente essenziale del bene comune. A questo proposito si è parlato di un’acquisizione da parte della Chiesa, di aspetti fondamentali della tradizione cattolico-li-berale.È vero che la Chiesa, nel momento stesso in cui si proclamava custode di quell’ordine sovraordinato di giustizia, riafferma-va un proprio ruolo irrinunciabile nel definire i confini e le ragioni morali dell’ordine politico (un ruolo che taluni hanno definito “direttivo”); ma è anche vero che le prospettive aperte dall’esito del conflitto rendevano inattuabile e ana-cronistico un “ordine integralmente cattolico” costruito me-diante la coercizione e il controllo esercitato dai pubblici poteri e dalle leggi, e aprivano il campo al pluralismo e alla competizione politica, nella cornice di nuovi ordinamenti co-stituzionali che ne fissassero le regole, i limiti e gli obiettivi generali. In un mondo, poi, che si stava facendo bipolare, stretto nell’alternativa tra sistemi democratici e sistemi co-

munisti, non c’era più posto per modelli politici e sociali a struttura monolitica di tipo confessionale. Si trattò di un pas-saggio nevralgico, nel quale ebbero parte di rilievo lo svilup-po dei movimenti laicali, il profilarsi di nuove istanze teologi-che, la presa di coscienza della dignità e della indispensabile autonomia dell’agire politico in servizio del bene comune, e via discorrendo.A orientare molte comunità cattoliche europee verso un’ade-sione più diffusa e consapevole ai metodi e alle istituzioni de-mocratiche era infine intervenuto un altro fenomeno di notevo-le rilievo: il fatto che dalle macerie degli Stati totalitari e auto-ritari di destra, erano riemersi, ora con il prevalente sostegno della Chiesa, i partiti politici a larga base cattolica, i cui quadri dirigenti si erano per lo più formati al di fuori o in opposizione alle organizzazioni di regime. Tali partiti costitui rono un deci-sivo canale d’integrazione – molto più efficace che nel primo dopoguerra – dei mondi cattolici nazionali (come pure di più vaste aree sociali) nei sistemi democratici.

F. Traniello, Chiesa e democrazia, in «Archivio Teologico Torinese», n. 1, 2002

Viene esaminato il contesto nel quale il Concilio trovò attuazione e le sue motivazioni profonde, come uno tra gli eventi maggiori vissuti dalla Chiesa cattolica nel corso del XX secolo. Voluto e inaugurato da Giovanni XXIII e proseguito e concluso da Paolo VI, esso si confi gura come un autentico «passaggio nella storia della Chiesa».

Il Concilio Vaticano II […] ha segnato il manifestarsi, e in una certa misura anche l’affermarsi, di idee e tendenze presenti

da tempo nel sottosuolo, o anche alla superficie, di certe zone del cattolicesimo; è stato la sede in cui sono sfociati «gli svi-luppi dell’ecclesiologia che aveva riscoperto le dimensioni re-ligiose e soprannaturali della Chiesa, le elaborazioni del movi-mento liturgico, gli apporti degli studi biblici e patristici, i tentativi di costruzione di un’antropologia teologica integrale, i ripensamenti diffusi della funzione del clero nella civiltà ur-bana e industriale […] e le prese di coscienza della scristianiz-zazione moderna delle masse popolari e di una parte della borghesia», nonché un nuovo senso della storia e aspirazioni antintegriste: cioè, allo stesso tempo, una tendenza a ritornare e a rivitalizzare le fonti originarie del cristianesimo […]. Se

dunque si può ritenere che gli esiti del concilio non siano stati il frutto di un “miracolo” o di una “improvvisazione” […] sareb-be anche probabilmente sbagliato ritenere necessario e fatale l’erompere delle tendenze innovatrici. Solo le particolari circo-stanze in cui il concilio si è svolto, il momento storico dei primi anni Sessanta caratterizzato da aperture e slanci culturali e politici, anche sulla base di un grande sviluppo dell’economia mondiale, l’accelerata maturazione di cui i padri e gli esperti conciliari sono stati protagonisti, la grande spinta impressa da papa Giovanni XXIII, innestate sulla sensazione […] di una gra-ve crisi della Chiesa e della presenza cristiana nel mondo, han-no reso possibile il prevalere di un indirizzo di rinnovamento, considerato indispensabile per arrestare la crisi della Chiesa e porre le premesse di una sua nuova espansione […]. Il concilio ha rappresentato un passaggio nella storia della Chiesa: ha per diversi aspetti innovato, ha in parte adeguato, ha aperto delle brecce, si è sforzato di far attraversare alla Chiesa il largo fiu-me che la separa dal mondo moderno degli uomini, dai loro problemi, dai loro modi di essere e di pensare, dai loro bisogni, dal loro linguaggio. Molti, se non proprio tutti, i documenti da esso usciti […] stanno a dimostrarlo.

G. Verucci, La Chiesa nella società contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1988

Guido Verucci, Un bilancio del Concilio Vaticano II37

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S t o r i o g r a f i a

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Uno dei problemi maggiormente sentiti e meno conosciuti nel mondo contemporaneo e nella percezione dell’islam è quello del gihad. Il tailandese Chaiwat Satha-Anand, personaggio di spicco nell’ambito del movimento pacifi sta internazionale, prende in analisi una pratica che a suo parere «implica uno sforzo, una tensione verso la giustizia e la verità, che non necessariamente implica violenza». Smentendo il concetto comunemente usato di “guerra santa”, esso sarebbe da intendersi anzitutto come “buona battaglia interiore”, sforzo del credente di migliorarsi e purifi carsi.

Tradotto generalmente come “guerra santa”, il termine gihad richiama, per i non musulmani, gli atti disperati di

masse guidate da irrazionale fanatismo che vogliono impor-re agli altri la loro visione del mondo. Tale idea di imposi-zione è virtualmente insostenibile, secondo le parole del Corano: «Non vi sia alcuna coercizione in fatto di religione» […]. Qual è allora il significato del termine gihad […]? Gihad significa fronteggiare l’oppressione, il dispotismo, l’ingiustizia (in qualunque momento sia stata commessa)

nel nome degli oppressi (chiunque essi siano). Nella sua accezione più ampia, gihad implica uno sforzo, una tensione verso la giustizia e la verità, che non necessariamente im-plica violenza […]. Il gihad del cuore, combattuto contro la nostra debolezza e il male che è dentro di noi, è spesso de-scritto come il “gihad maggiore”, mentre il “gihad minore” è la lotta contro i nemici esterni […]. Il gihad si distingue in base all’orientamento (verso l’interiorità o verso l’esterno) e al metodo (violento o nonviolento). Il gihad interiore in senso stretto è combattuto nell’interiorità dell’individuo. In ambito più ampio, il gihad esteriore può essere inteso come la lotta per eliminare il male all’interno dell’Umma (comu-nità islamica). Allargando ulteriormente il concetto, gihad può essere pensato anche come la lotta condotta da quella parte dell’umanità che si riconosce in una certa forma di tradizione spirituale allo scopo di purificare se stessa. In breve, gihad è il comando di Allah Onnipotente e gli inse-gnamenti del Profeta Muhammad, i quali impongono al cre-dente una continua verifica della propria idoneità a combat-tere la tirannia e l’oppressione – il continuo adeguamento dei mezzi all’obiettivo di realizzare la pace e inculcare la responsabilità etica.

C. Satha-Anand, Islam e nonviolenza, Gruppo Abele, Torino 1997

Le religioni possono scadere nel fondamentalismo o diventare ideologie e come tali essere strumentalizzate: nei gruppi religiosi più diversi sono presenti caratteri comuni all’“immaginario fondamentalista”.

“Fondamentalismo” è un termine con il quale corrente-mente si designano movimenti e gruppi di diversa ma-

trice religiosa. Lo si usa senza far distinzione in riferimento all’islam, all’ebraismo, al protestantesimo e al cattolicesimo e a volte anche nel caso del sikhismo e dell’induismo, finendo per diventare un’etichetta apposta non sempre in modo ap-propriato su realtà differenti e in diversi contesti. Quasi sem-pre esso è sinonimo di fanatismo religioso o di violenza sacra. A volte lo si fraintende come il tentativo di un impossibile ri-torno al passato, alle mitiche origini di un credo religioso non certo compatibile con il mondo moderno.Arcaico e intollerante, il fondamentalismo può essere allora facilmente rintracciato in molte grandi religioni mondiali, nelle chiese così come nelle sette […]. Esistono diversi fonda-mentalismi, a seconda dei diversi contesti culturali e religiosi nei quali movimenti, gruppi e organizzazioni di lotta armata

sono nati e agiscono […]. Dietro questa astratta ma potente-mente evocativa categoria, si celano persone e idee che in vario modo si rifanno o a una dottrina religiosa o a una tradi-zione sacra. Essi la reinterpretano o, in alcuni casi, la rein-ventano […].I movimenti fondamentalisti sovente interpretano un bisogno sociale emergente: quello di non perdere le proprie radici, di non smarrire l’identità collettiva minacciata da una società sempre più individualista e ad agiata sul permissivismo e re-lativismo morali. Nel fondamentalismo si tende a imputare la responsabilità di questa deriva a un soggetto preciso, che a seconda dei casi assume volti diversi: il pluralismo democra-tico, il secolarismo, il comunismo, l’Occidente capitalistico, lo Stato moderno eticamente neutrale e così via. Tutte queste figure del Nemico – interno o esterno che sia – […] servono a sottolineare nell’immaginario collettivo dei militanti fonda-mentalisti l’idea che qualcuno manovri per strappare le radici dell’identità di un gruppo o di un intero popolo, tenti di ta-gliare i fili della memoria che legano gruppi umani e popoli a un’antica e superiore origine: il patto di alleanza particolare con una parola divina rivelata o con una legge sacra.

E. Pace - R. Guolo, I fondamentalismi, Laterza, Roma-Bari 1998

Chaiwat Satha-Anand, Il significato di gihad

Enzo Pace e Renzo Guolo, Che cos’è il fondamentalismo

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R e l i g i o n e e r e l i g i o n i

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Lo storico Andrea Riccardi si inoltra in un campo di studi che soltanto negli ultimi anni ha cominciato a essere esplorato. Facendo riferimento alle realtà più diverse nelle quali i cristiani si sono trovati a vivere, individua nel martirio – cioè nella testimonianza per fede – uno tra i caratteri fondamentali del XX secolo.

Tanti fedeli, dall’inizio del secolo sino a oggi, sono stati ucci-si perché cristiani. Ciò […] non si potrà mai quantificare esat-tamente. È difficile dire quanti siano i cristiani morti per la loro fede nel Novecento. Non sono solo cattolici, ma cristiani di tutte le confessioni. Forse tre milioni? Quali i luoghi in cui i cristiani hanno sofferto di più? Se si pensa che in Russia sono stati uccisi almeno cinquecentomila, ma probabilmente uno o due milioni di cristiani, forse si può accettare questa ipotesi. Se si pensa, inoltre, ai cristiani uccisi nell’impero ot-tomano durante la prima guerra mondiale, ai missionari, ai caduti nei conflitti etnici. Il Novecento è in genere un secolo difficile per i cristiani in condizioni di minoranza in paesi do-minati da un’altra religione maggioritaria […]. Ma non si tratta solo di cristiani in condizione di minoranza. Anche paesi di secolare tradizione cattolica conoscono l’as-sassinio in massa dei cristiani. Il capitolo dei martiri spagnoli durante la guerra civile è stato abbastanza studiato e lo si è potuto approfondire. Emerge un quadro di una violenza re-pentina e massiccia che si è scatenata nel 1936 soprattutto contro quelli che erano considerati i rappresentanti della Chiesa cattolica, dai vescovi ai semplici religiosi. Ma anche il

Messico degli anni Venti conosce il martirio di molti cristiani in una sanguinosa guerra civile. Dietro molte persecuzioni c’erano ideologie atee, anticlericali, forme di idolatria dello stato. Ma non sempre. Molte volte la violenza si è indirizzata contro i cristiani in maniera brutale solo per motivi materiali e contingenti […]. Spesso i semplici cattolici o i preti o i reli-giosi sono apparsi un argine all’ingiustizia e li si è eliminati per la resistenza che opponevano e per il coraggio che dava-no alla gente: molte di queste storie si sono svolte in Africa o in America Latina […]. Perché centinaia di migliaia di cristia-ni sono stati perseguitati? Le motivazioni sono le più diffe-renti e dipendono da paese a paese, dalle diverse ragioni storiche. Una delle cause è la persecuzione dello stato, come nei paesi comunisti (sino al tragico caso dell’Albania dove, dal 1967, ogni pratica religiosa è interdetta e i credenti sono spesso puniti con la morte). Ma si pensi anche al nazismo, alla Spa-gna o al Messico. In Asia e Oceania i giapponesi, durante la seconda guerra mondiale, eliminano molti cristiani. Politiche e strategie si uniscono a spinte anticlericali o antireligiose o a semplici manifestazioni di violenza e banditismo, alla vo-lontà di piegare coscienze libere e forti. Spesso la guerra e le lotte etniche sono il terreno in cui i cristiani vengono colpiti, anche perché con la loro presenza ricordano un’altra logica rispetto a quella del conflitto […]. In alcuni casi, i cristiani sono stati uccisi da altri cristiani. Le storie dei caduti sono tante, le più diverse.

A. Riccardi, Il secolo del martirio. I cristiani nel Novecento, Mondadori, Milano 2000

Andrea Riccardi, Il Novecento, secolo del martirio40

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P e r c o r s o 5

Donna e “questione femminile”

Quando si scrive delle donne, bisogna intingere la penna nell’arcobaleno e asciugare la pagina con la polvere delle ali delle farfalle.

Denis Diderot

Una donna non dovrebbe mai mettere il suo più bel paio di pantaloni quando va a combattere per la libertà e la verità.

Enrik Ibsen

Ho imparato la lezione della non violenza da mia moglie quando ho cercato di piegarla alla mia volontà.

Gandhi

Esser donna è così affascinante. È un’avventura che richiede un tale coraggio, una sfida che non finisce mai.

Oriana Fallaci

Potremo dire di avere raggiunto la parità tra i sessi quando donne mediocri occuperanno posizioni di responsabilità.

François Giroud

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D o n n a e “ q u e s t i o n e f e m m i n i l e ”

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D O C U M E N T I

Istruzioni del ricco borghese alla giovane moglieSul finire del Medioevo, nella vita coniugale, si colgono elementi di continuità e innovazione; nei ceti più agiati l’unione matrimoniale aveva sempre mantenuto la sua finalità di accrescimento del patrimonio e di garanzia di eredità per la discendenza legittima, ma, nelle indicazioni che un anziano e ricco borghese parigino redige per la sua giovane sposa intorno al 1393 si coglie anche il desiderio di un calore domestico che, a sua volta, non si confonde con la passione amorosa, quanto piuttosto con un reciproco rispetto e accudimento (si badi all’appellativo di “sorellina” attribuito alla sposa). L’uomo lavora e rischia fuori di casa per garantire il benessere della sposa e dell’eventuale prole: alla donna spetta la sfera privata e domestica, in un’ottica già borghese in cui la donna non ha funzione pubblica e non deve mai far parlare di sé.

«Mia cara sorellina, se dopo di me avrete un altro marito farete bene ad aver riguardo per le sue comodità. Difatti a una donna che ha perduto il primo marito di solito riesce difficile trovarne un secondo del suo

stesso rango, così ella resta per molto tempo sola e senza consolazione alcuna, e ancor di più se perde anche il secondo. Per cui abbiate cura premurosa del vostro marito e per favore tenetegli pulita la biancheria, che questo è il compito vostro. E poiché la cura delle faccende fuori di casa è cosa da uomini, il marito se ne dovrà occupare, dovrà andare e venire e viaggiar in lungo e in largo, con pioggia, un altro riarso dal sole, un altro ancora intriso di sudore e poi di nuovo gelato, mal nutrito, mal alloggiato, mal riscaldato e mal riposato. Ma niente di tutto ciò gli può pesare perché lo consola la speranza delle premure della moglie che lo attendono al suo ritorno e dell’intimità, delle gioie e dei piaceri che ella gli ha preparato o fa preparare sotto la sua guida: gli verranno tolte le scarpe davanti a un fuoco caldo, gli verranno lavati i piedi e calzate calze e scarpe pulite, gli verranno portati buon cibo e buone bevande, sarà servito ed assistito, sistemato in un comodo letto tra candide lenzuola, con un bianco berretto da notte, coperto quanto si conviene di morbide pellicce, viziato da altri pia-ceri e da svaghi, confidenze, servigi amorosi e intimità di cui non dico. Ed il giorno seguente camicie e vestiti nuovi.E davvero, mia bella sorellina, queste cure conservano vivo l’amore di un uomo e lo fanno ritornare volentieri la casa; rivedere volentieri la casa, rivedere volentieri la moglie e lo tengono lontano dalle altre donne. E perciò io vi consiglio, circondate il vostro futuro marito d’affetti sereni ogni volta che egli viene e va, e rimanetegli sempre vi-cina, e siate anche remissiva con lui e pensate a quel proverbio contadino secondo il quale ci sono tre cose che fanno scappar via un uomo di casa, e cioè un tetto malconcio, un camino che non tira ed una moglie litigiosa. Per questo vi prego, cara sorellina, se vorrete vivere con vostro marito in amore e armonia, siate tenera, mite e premu-rosa con lui. Incantatelo, così come sostengono le nostre brave campagnole abbiano fatto quelle donne di cui, lontano da casa, si innamorano i loro figli e da cui esse non possono staccarli. È chiaro: se, morti padre e madre, patrigno e matrigna litigano con i figliastri, li rimproverano e li respingono e trascurino di dar loro buon giaciglio, cibo e bevande, calze, camicie e ogni altro loro bisogno o desiderio, così che questi giovani trovano sicuro rifugio e buon consiglio altrove, presso un’altra donna che li prende con sé e si dà cura di riscaldarli pur con una semplice paglia d’avena, di dar loro un letto e di tenerli in ordine rammendandogli calze, calzoni, camicie ed altri abiti – allora questi giovani s’affezionano alla loro donna e desiderano rimanere con lei e dormire al calore del suo seno e si allontanano per sempre dal padre e dalla madre, i quali in precedenza non si erano preoccupati di loro e che dopo, però, vorrebbero riaverli e tenerli tutti per sé. E però non è più possibile giacché ormai questi loro figli si sentono più a loro agio in compagnia di estranei che li accudiscano piuttosto che di parenti che li trascurino. Allora i genitori soffrono e piangono e accusano queste don-ne di aver stregato i loro figli, di averli legati a sé per mezzo di un malefizio dal quale essi non possono sciogliersi e che solo con loro li fa sentire felici. Si dica quel che si vuole, ma questa non è per niente stregoneria, bensì amo-re, frutto di premure, affetto, gioie e piaceri di tutti i generi che queste donne offrono loro con tutta l’anima; non c’è altro prodigio se non questo...

in A. Borst, Forme di vita nel Medioevo, Guida, Napoli 1988

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D o c u m e n t i

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Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft, Prima della questione femminileI due documenti che seguono anticipano il processo di emancipazione femminile dei secoli XIX e XX. Nel primo, tratto da I diritti della donna e della cittadina (1791), la rivoluzionaria francese Olympe de Gouges rivendica pari diritti politici e civili tra i due sessi. Nel secondo, tratto dal saggio A vindication of the rights of woman (I diritti delle donne, 1792), la scrittrice inglese Mary Wollstonecraft critica il sistema di educazione cui la donna è soggetta, auspicandosi una trasformazione nella quale essa «abbia potere su se stessa».

Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina

Il sesso superiore in bellezza e in coraggio, nelle sofferenze materne riconosce e dichiara in presenza e con gli auspici dell’Essere supremo, i Diritti seguenti della Donna e della Cittadina: Art. 1. La Donna nasce libera e ha gli

stessi diritti dell’uomo. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’interesse comune. Art. 2. Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali e imprescrittibili della Donna e dell’Uomo: questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e soprattutto la resistenza alla oppressione. Art. 3. Il principio di ogni sovranità risiede essenzialmente nella Nazione, che non è altro che l’unione della Donna e dell’Uomo […]. Art. 4. La libertà e la giustizia consistono nel restituire tutto ciò che appartiene ad altri; così l’unico limite all’esercizio dei diritti naturali della donna, la perpetua tirannia dell’uomo cioè, va riformato dalle leggi della natura e della ragione […]. Art. 6. La legge deve essere l’espressione della volontà generale; tutte le Cittadine e i Cittadini devono concor-rere personalmente o con i loro rappresentanti alla sua formazione; essa deve essere uguale per tutti. Tutte le cit-tadine e tutti i cittadini essendo uguali ai suoi occhi, devono essere ugualmente ammessi a tutte le dignità posti e impieghi pubblici, secondo le loro capacità e senza altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti.

G. Giliberti, Diritti umani, Un percorso storico, Thema, Torino 1993

L’educazione delle donne

Credo di aver avuto occasione di osservare l’infanzia delle ragazze meglio di Jean-Jacques Rousseau: sono in grado di rievocare i miei stessi sentimenti, e poi mi sono sempre guardata intorno. Tuttavia, lungi dall’essere

d’accordo con lui per quanto riguarda il primo manifestarsi del carattere femminile, oserò affermare che una ragaz-za il cui carattere non sia stato spento dall’inerzia, e la cui innocenza non sia stata compromessa da un falso senso di pudore, sarà sempre una monella, e la bambola non attrarrà mai la sua attenzione, salvo che l’isolamento non le lasci altre alternative. Voglio dire che ragazze e ragazzi giocherebbero insieme senza alcun rischio, se la distinzione dei sessi non venisse inculcata in loro molto prima che la natura produca alcuna differenza. Mi spingerò oltre so-stenendo – ed è un fatto indiscutibile – che, nell’ambito della mia esperienza, la maggior parte delle donne che si sono comportate come esseri razionali o hanno dato prova di possedere qualche forza intellettuale, raramente si sono permesse di perdere il controllo di sé, come invece insinuano certi fini educatori del bel sesso.Le conseguenze perniciose che derivano dalla mancanza di attenzione alla salute negli anni dell’infanzia e dell’ado-lescenza sono più gravi di quanto comunemente si pensi: la dipendenza fisica produce naturalmente dipendenza mentale; e come può essere una buona moglie o una buona madre una donna che passa la maggior parte del suo tempo a evitare o a sopportare delle malattie? [...]Se la paura delle ragazze invece di essere assecondata o forse costruita, venisse trattata come la codardia nei maschi, vedremmo presto donne con un atteggiamento più dignitoso. È vero che allora non sarebbe più appropriato defi-nirle dolci fiori che sorridono sul cammino dell’uomo; ma sarebbero più rispettabili membri della società e adempi-rebbero agli obblighi importanti della vita alla luce della propria ragione. «Educare le donne come gli uomini, – dice Rousseau – e quanto più rassomiglieranno al nostro sesso, tanto minore sarà il potere che avranno su di noi». Pro-prio questo è il punto che mi sta a cuore. Io non desidero che le donne abbiano potere sugli uomini, ma su se stesse.

in La libertà delle donne: voci della tradizione politica suffragista, a cura di A. Rossi-Doria, Rosenberg & Sellier, Torino 1993

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Arthur Schopenhauer e Anna Maria Mozzoni, L’alba della questione femminileQuesti due documenti testimoniano, nell’Ottocento, la nascita della “questione femminile”. Tra i molti esempi possibili di un pensiero conservatore, se non marcatamente “antifemminista” e misogino, il filosofo tedesco Arthur Schopenhauer riflette sulle motivazioni che spingono l’uomo a sposarsi. Nel secondo brano, tratto dal saggio La donna e i suoi rapporti sociali (1864) la scrittrice e sostenitrice del movimento per l’emancipazione Anna Maria Mozzoni riporta invece le più importanti proposte di legge avanzate in vista del varo di un codice di riforme sulla condizione femminile.

Le armi delle donne

La natura ha destinato le giovanette a quello che, in termini teatrali, si chiama “colpo di scena”: infatti per pochi anni la natura ha donato loro rigogliosa bellezza, fascino e pienezza di forme, a spese di tutto il resto della loro

vita, affinché, cioè, siano capaci di impadronirsi durante quegli anni della fantasia di un uomo in misura tale che egli si lasci indurre a prendersi onestamente una di loro per tutta la vita, in una forma qualsiasi, passo al quale la mera riflessione razionale non sembrerebbe aver dato nessuna garanzia di invogliare l’uomo […]. Il sesso femminile, di statura bassa, di spalle strette, di fianchi larghi e di gambe corte, poteva essere stato chiamato il bel sesso sol-tanto dall’intelletto maschile obnubilato dall’istinto sessuale.

in P. Orvieto, Misoginie. L’inferiorità della donna nel pensiero moderno. Con antologia dei testi, Salerno Editrice, Roma 2002

Lo stato schiaccia le donne

Lo Stato nega alla donna l’istruzione, mentre la fa contribuente. Il codice le nega la capacità in faccia al diritto, mentre ne afferma la responsabilità in faccia alla contravvenzione ed alla pena. Lo Stato respinge la donna dal-

la vita politica, mentre ve la fa concorrere coi sacrificii. La legge subalternizza la donna nel matrimonio e le nega la maternità legittima, mentre la chiama a parte dei pesi domestici e le abbandona tutte le conseguenze della mater-nità illegale. Più, chiude ogni via alla sua intelligenza e le sbarra la strada ad ogni professione, disconoscendo così in lei il diritto di lavoro e d’attività. La donna deve dunque protestare contro la sua attuale condizione, invocare una riforma, e chiedere: I. Che le sia impartita un’istruzione nazionale con larghi programmi. II. Che sia parificata agli altri cittadini nella maggiorità. III. Che le sia concesso il diritto elettorale, e sia almeno elettorale, se non eleggibile. IV. Che l’equilibrio sia ristabilito fra i coniugi. V. Che la separazione dei beni del matrimonio sia diritto comune. VI. Che l’adulterio ed il concubinato soggiacciano alle stesse prove legali ed alle stesse conseguenze. VII. Che il marito non possa rappresentare la moglie in nessun atto legale, senza suo esplicito mandato. VIII. Che siano soppressi i rapporti d’obbedienza e di protezione, siccome ingiusta l’una, illusoria l’altra. IX. Che nel caso che la moglie non voglia seguire il marito, ella possa sottoporre le sue ragioni ad un consiglio di famiglia composto d’ambo i sessi. X. Che il marito non possa alienare le proprie sostanze sia a titolo oneroso, sia gratuito, né obbligarle in nessun modo, senza consenso della moglie, e reciprocamente – Dacché il coniuge sciupatore dev’essere mantenuto dall’altro, e ben giusto che la controlleria sia reciproca. XI. Che la madre sia contutrice, secondo lo vuole diritto naturale. XII. Che il padre morendo elegga egli stesso un contutore, e la madre a sua volta elegga una contutrice ai suoi figli. XIII. Che si faccia più severa la legge sulla seduzione, e protegga la donna fino ai venticinque anni. XIV. Che sia la don-na ammessa alla tutela ed al consiglio di famiglia. XV. Che abbia la tutrice gli stessi diritti del tutore; e, dove v’ab-bia discordia, giudichi in prima istanza il consiglio di famiglia, quindi il tribunale pupillare. XVI. Che siano aperte alla donna le professioni e gl’impieghi. XVII. Che possa la donna acquistare diritti di cittadinanza altrimenti che con il matrimonio […]. Se le nazioni vogliono camminare alla libertà, è d’uopo che non si trattengano in seno, terribile ingombro e potente avversario, un elemento impersuaso e malcontento così numeroso, qual è il femminile.

A.M. Mozzoni, La donna e i suoi rapporti sociali, 1864 in La liberazione della donna, Mazzotta, Milano 1977

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Christabel Pankhurst, La battaglia per il votoChristabel Pankhurst, esponente del movimento per la concessione del suffragio femminile, ricorda un episodio della battaglia per il voto di cui furono protagoniste le donne inglesi nei primi due decenni del secolo: nel 1905, al termine di un’assemblea, lei stessa fu arrestata dalla polizia.

Ci procurammo dei buoni posti per l’assemblea nella Free Trade Hall […]. Sul nostro striscione c’era questa sempli-ce scritta: «Darete il voto alle donne?» […]. Annie Kenney e io andammo dritte alla vittoria, nell’eventualità di una

risposta liberale positiva oppure della prigione. Sapevamo fin troppo bene che la risposta che desideravamo sarebbe stata negativa. «Dormiremo in prigione stanotte» dissi a mia madre […]. La Free Trade Hall era affollata […]. Calme, ma con il cuore che batteva, Annie e io prendemmo posto e guardammo la folla esultante che presto avremmo fatto infuriare con la nostra sfida. Le acclamazioni all’entrata degli oratori ci fecero capire l’intensità della loro eccitazione. I discorsi si susseguivano […]. Dovevamo prima di tutto dare a questi leaders e oratori liberali la possibilità di spiega-re se il loro programma includeva il diritto di voto politico alle donne. Annie […] si alzò per prima e chiese: «Il gover-no liberale darà il voto alle donne? » Non ci fu nessuna risposta. Unii la mia voce alla sua e aprimmo lo striscione, che chiariva la nostra domanda. L’effetto fu esplosivo. L’assemblea si incendiò. Seguirono delle consultazioni fra il presidente e gli oratori e quindi il capo della polizia di Manchester, sir Robert Peacock, cordiale e paterno nei modi, si diresse verso di noi e, a nome degli oratori, ci promise una risposta dopo il discorso di ringraziamento […]. Il di-scorso di ringraziamento finì. Sir Edward Grey fece il suo intervento di replica senza una parola sulla nostra doman-da! Di conseguenza […] noi eravamo libere di riproporre la nostra semplice domanda: «Il governo liberale darà il voto alle donne?» A quel punto giunse la risposta, non a parole ma a fatti. Gli uscieri si scagliarono contro di noi, aiutati da volontari e accompagnati da alte grida: «Buttatele fuori!» fummo trascinate via dai nostri posti e lungo il corri-doio centrale, resistendo con quanta forza avevamo e ancora chiedendo: «Il governo liberale darà il voto alle donne?»La violenza rispose alla nostra domanda di giustizia. Meglio comunque la violenza delle beffe, degli scherni o del silenzioso disprezzo. Quella sera l’uguaglianza era nostra, lo sentivamo, perché la forza usata contro di noi provava che la nostra domanda era un attacco che aveva toccato il futuro governo in un punto vitale. L’assemblea era in subbuglio. Ci stavano trascinando verso la tribuna, che dovevamo oltrepassare prima che i nostri catturatori potes-sero portarci dietro le quinte. Con una forza più grande di quella che avevo, opponendomi alla loro, riuscii a fer-marmi un momento sotto la tribuna. Fissai in volto sir Edward Grey, dritto negli occhi, e gli chiesi di nuovo: «Il governo liberale darà il voto alle donne?» […]. Fui portata via per una porta laterale, che attutiva l’assordante tram-busto della sala. Quando scomparimmo dalla sua vista, il pubblico cambiò atteggiamento. Ci furono grida di «ver-gogna!» e di solidarietà verso le donne che avevano posto la domanda. Adeguandosi, sir Edward Grey disse che […] si trattava di una questione su cui non poteva intervenire quella sera, perché non era, e non pensava che potesse essere, una questione di partito. Le sue parole significavano fin troppo chiaramente che a suo parere le donne non avrebbero mai ottenuto il voto! Fuori dall’auditorium e dietro le quinte, eravamo tenute dai poliziotti e circondate dagli uscieri. La faccenda, lo sapevo, non doveva finire così. Ciò che avevamo fatto doveva diventare un’azione decisiva di significato duraturo. Dovevamo riuscire a portare la questione in tribunale, in prigione. Per avere sempli-cemente disturbato l’assemblea non sarei stata incarcerata […]. Dovevo “attaccare la polizia”. Ma come dovevo farlo […]? Anche con tutti gli arti bloccati, ero in grado di compiere tecnicamente un’aggressione e così mi trovai in arresto con l’accusa di aver «sputato a un poliziotto».

C. Pankhurst, Meglio la violenza delle beffe, in La libertà delle donne. Voci della tradizione politica suffragista, a cura di A. Rossi-Doria, Rosenberg & Sellier, Torino 1990

Lettere di donne a MussoliniScritte per chiedere un sostentamento per sé e per i loro bambini o per riottenere la salma di un figlio scomparso in guerra, queste lettere costituiscono una valida testimonianza dei sentimenti e delle aspettative di chi nella storia non ha voce.

28 novembre 1941

Ecelenza,Io sottoscritta P. Dina. Contadina Podere Valona. In questo momento di guerra e di dolore non volevo distrur-

barvi: Ma è il bisogno mi vince scusatemi: mi trovo con sei bambini tutti piccoli inferiori ai 13 anni. È per il Santo Natale debbo partorire per il settimo figlio neho 4 che vanno alla scuola e sono sprovisti di indumenti: e molte

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volte non posso mandarli perché non ha diche cosa vestirli senza scarpe. senza vestiti dogni sorta senza soldi abia-te pietà. So che il vostro cuore e sempre pronto ad aiutare i poveri, Posso di vero cuore ringraziare la vostra amatis-sima sposa Donna Rachele che in avanti mi aiutò a vestire un po’ i miei bambini. Viringrazio di vero cuore, Since-rità di madre augurandovi una salute ferrea a voi e a tutta la distintissima famiglia vostra.Ringraziandovi una seconda volta.

Vostra Dina P. Contadina Valona. figlia di M. Giovanna.

Duce,col cuore spezzato dal più acuto dei dolori vengo a chiederVi una grazia, che sono sicura non mi negherete.

Sono una povera madre addolorata: l’unico figlio chiamato dal dovere serviva con orgoglio la patria, combattendo in Russia contro i nemici di Dio e della civiltà. Alla vigilia del suo rientro in patria, nel campo di aviazione di Stali-no, bombe micidiali sganciate dai Rossi, infransero la sua giovinezza […]. Vorrei almeno il conforto di avere vicino la salma amata. Se non vivo, almeno morto, per coprirne ogni giorno la tomba di fiori. Che se per ora non sono consentite le traslazioni, so che per ogni regola esiste la eccezione. Si tratta di rendere meno crudele il martirio di una povera madre con questo conforto. Fidente che il Vostro cuore di padre si commuoverà a questa mia supplica, sicura di essere esaudita nella mia domanda che ho scritto versando lagrime in un irrefrenabile pianto, mi dico dev.ma madre del soldato R. Giovanni di Carmelo caduto per la Patria a Stalino in Russia il 1 aprile 1942.

C. Canal, Gent. Condottiero. Lettere di donne a Mussolini in tempo di guerra, in Deferenza, rivendicazione, supplica. Le lettere ai potenti, a cura di C. Zadra - G. Fait, Pagus, Paese 1991

Piera Gatteschi Fondelli, Le ausiliarieL’unico generale donna della Repubblica sociale italiana, la contessa Piera Gatteschi Fondelli, già giovane partecipante alla marcia su Roma, descrive il suo incontro con il duce e l’organizzazione interna del corpo al proprio comando, quello delle ausiliarie di guerra.

Verso la fine del dicembre 1943, scrissi una lettera a Mussolini per manifestargli la mia volontà di continuare a servire l’Italia e per mettermi a sua disposizione. Pochi giorni dopo, ebbi un telegramma dal suo segretario, il

prefetto Dolfin. Il duce mi convocava […]. Lo rivedevo per la prima volta dopo la sua prigionia e la liberazione. Era profondamente cambiato. Magro, il volto segnato, il collo più sottile dentro una camicia che sembrava diventata enorme, mi venne incontro fissandomi con i suoi grandi occhi che non avevano perso nulla del loro magnetismo […]. «Gatteschi, – mi disse, – il popolo non ha tradito» […]. «Le ragazze che a centinaia chiedono di arruolarsi, – dissi – sentono, più degli uomini, la vergogna per la fuga dei nostri soldati di fronte al nemico in Sicilia. Esse ama-no la patria e non vogliono che il mondo rida di noi» […]. Mussolini mi chiese se fossi disponibile ad accettare un incarico ufficiale nella RSI […].In divisa sì, armate no […]. In Italia, purtroppo, c’era la guerra civile, che è la peggiore delle guerre e il più triste malanno che possa capitare a un popolo. Soldatesse armate avrebbero finito per essere impegnate in operazioni antiguerriglia, cioè in una guerra di odio, fonte di inimmaginabili atrocità, di cui proprio esse sarebbero state le principali vittime […]. Ma chi erano queste ragazze? Per lo più erano studentesse universitarie, motivate da un in-sopprimibile amor di patria. I sentimenti fascisti erano un elemento assolutamente secondario. In qualche caso, pochi per la verità, si erano arruolate spinte dal desiderio di prendere il posto dei propri cari caduti […]. Speranze di vincere la guerra ce n’erano poche, di cavarsela onorevolmente tante. Nessuna pensava a una conclusione tragica della propria vicenda, proprio perché ognuna si considerava, ed era, un soldato […].Avevo una grande responsabilità, per queste ragazze che mi erano state affidate. La mia divisa e il mio grado non poterono mai impedirmi di capire e condividere l’ansia di tante mamme […]. Ero severa e non me ne sono mai pentita. Sapevo che gli avversari avrebbero avuto fin troppo facili occasioni di critica. Perciò le critiche che pioveva-no numerose sul mio capo, mi lasciavano indifferente. E oggi ne sono contenta. È facile immaginare che cosa si sarebbe scritto, negli anni che vennero, sulle ausiliarie, se il loro comportamento non fosse stato esemplare. Perciò non permettevo che le ragazze fumassero, né che si dessero il rossetto o indossassero i pantaloni, né che mostras-sero riccioli sbarazzini fuori dal basco. Hanno gettato fango e menzogne sulle ausiliarie. Hanno odiato in esse l’espressione del coraggio e della decisione in ogni momento di pericolo. Non le conoscevano. Non sapevano la forza di volontà, l’entusiasmo e anche il pizzico di follia che le spinsero a sfidare il destino. Soprattutto non vole-

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vano credere che avessero scelto in piena libertà e senza fanatismo la strada più ingrata: quella di dichiarare aper-tamente, in divisa, la propria fede, in un tempo in cui pareva vantaggioso solo nascondersi. Era un mondo femmi-nile fiero e straordinario […] arroventato dal riflesso delle passioni che avevano diviso la nostra patria. Esse erano intransigenti, come la giovinezza; incapaci di comprendere i compromessi di cui la vita è intessuta. Ognuna porta-va un bagaglio di idee e di illusioni, ognuna credeva nei miracoli e disprezzava il buon senso come indice di debo-lezza, la razionalità come fonte di ignavia.

L. Garibaldi, Le soldatesse di Mussolini. Con il memoriale inedito di Piera Gatteschi Fondelli, generale delle Ausiliarie della RSI, Mursia, Milano 1995

Lettere di condannate a morte della ResistenzaDue lettere di donne italiane, una terza proveniente dall’Austria e una quarta da l Belgio sono testimonianza della diversità e della comunanza dei percorsi femminili all’interno della Resistenza europea.

Sono lieta che Dio conceda ch’io percorra sola il mio Golgota e non danneggi nessuno. Non consideratemi diver-samente da un soldato che va sul campo di battaglia. Sento il volere di Dio e con letizia voglio che esso si com-

pia. Saluto tutti coloro che mi pensano. Vi voglio bene e vi ringrazio di tutto. Ho fiducia in Dio che mi fa meravi-gliosamente forte. (Alma Johanna Koenig, 1887-1942).

Cara amica, vi ho eletto fra tutte per raccogliere le mie ultime volontà. So in effetti che voi mi amate abbastanza per farle

rispettare da tutti. Vi si dirà che sono morta inutilmente, stupidamente, da esaltata. Sarà la verità storica. Ve ne sarà un’altra. Sono morta per attestare che si può amare follemente la vita e insieme accettare una morte necessaria. A voi incomberà il dovere di addolcire il dolore di mia madre. Ditele che sono caduta perché il cielo del Belgio sia più puro, perché quelli che verranno dopo di me possano vivere più liberi come l’ho tanto voluto io stessa: che non rimpiango nulla, malgrado tutto […]. È a esseri come voi ch’essa è interamente dedicata, a esseri che potranno ri-nascere e riedificare. E penso ai vostri bambini che domani saranno liberi. Addio. (Margherite Bervoets, 1914-1944).

in Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, a cura di P. Malvezzi - G. Pirelli, Einaudi, Torino 1995

Cuneo, 14 novembre 1944

Come già sarete a conoscenza, sono stata prelevata dalla Brigata Nera: mi trovo a Cuneo nelle scuole, sto bene e sono tranquilla. Prego solo non fare tante chiacchiere sul mio conto, e di allontanare da voi certe donne alle

quali io debbo la carcerazione. Solo questa sicurezza mi può far contenta, e sopra tutto rassegnata alla mia sorte. Anche voi non preoccupatevi, io so essere forte.Vi penso sempre e vi sono vicino. Tante affettuosità. Maria Luisa

Mimma cara,la tua mamma se ne va pensandoti e amandoti, mia creatura adorata, sii buona, studia e ubbidisci sempre agli

zii che t’allevano, amali come fossi io. Io sono tranquilla. Tu devi dire a tutti i nostri cari parenti, nonna e gli altri, che mi perdonino il dolore che do loro. Non devi piangere né vergognarti per me. Quando sarai grande capirai me-glio. Ti chiedo solo una cosa: studia, io ti proteggerò dal cielo. Abbraccio con il pensiero te e tutti, ricordandovi. La tua infelice mamma.

in Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. 8 settembre 1943 - 25 aprile 1945, a cura di P. Malvezzi - G. Pirelli, Einaudi, Torino 1994

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Simone Weil, Lettere a un’allievaLe due lettere tratte dalla corrispondenza tra l’intellettuale francese Simone Weil (1909-1943) e l’allieva Huguette Baur costituiscono una testimonianza di vita e di alta statura morale di una giovane studiosa nei confronti di una ancor più giovane studentessa.

Piccola cara […], se in qualche modo ho sempre mantenuto le distanze con lei, è perché penso che l’intimità tra una insegnante e una studentessa non è cosa buona […]. Ma ora non sono più la sua professoressa […]. Vorrei

tanto che mitigasse la sua sensibilità. Se le lascia libero corso, fa un uso vano di forze preziose che potrebbero es-sere spese in modo efficace […]. Quanto a odiare la vita, bisogna essere singolarmente ingrati per abbandonarsi a tale sentimento […]. La vita è crudele, è vero; ma anche le sue autentiche crudeltà lei non le conosce ancora e probabilmente non le conoscerà mai. Nell’attesa, dimentica di gustare le gioie pure che essa offre a tutti, persino ai più sventurati […]. Quando le parlo con tono severo, mi intenda, non è un segno di disprezzo; al contrario, è un segno di interesse nei suoi riguardi […]. Si metta in testa una volta per tutte che penso spesso a lei e con affetto. Almeno riguardo a questo, smetta di tormentarsi. I tormenti sono tipici dell’adolescenza, ma io non voglio essere occasione o pretesto di tormento per nessuno. I sentimenti affettuosi esistono per aiutare a vivere, non per far soffrire.

Mia cara bambina, non le ho scritto in tutti questi anni per due ragioni. La prima era la forza stessa dei senti-menti da lei espressi nelle sue lettere. Quando un adulto ne ispira di simili in un ragazzo, vi è una sorta di

abuso di fiducia che li autorizza; ne può conseguire una influenza tale da distruggere la personalità e intralciare lo sviluppo. A causa di questo genere di ammirazione cieca, gli adolescenti corrono dei rischi riguardo all’integrità del loro essere morale; occorre che ne vengano salvaguardati con la freddezza e il silenzio. Oggi lei ha vent’anni, simi-li scrupoli non sono più necessari.

Lettere a Huguette Baur, estate 1934 e luglio 1940, in S. Weil, Piccola cara. Lettere alle allieve, Marietti, Genova 1998

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Dalle modalità dei comportamenti femminili nella Rivoluzione francese emerge un quadro vivo e vario di attività, dalla partecipazione alle assemblee pubbliche alla fondazione o alla partecipazione alla vita dei club parigini.

La partecipazione delle donne alle rivoluzioni della fine del secolo XVIII varia secondo le tradizioni e la situazione del-

le nazioni. Il caso francese è sicuramente […] quello in cui le donne, che formavano la sans-culotterie femminile, hanno invaso lo spazio politico pubblico e dato alla loro attività un significato nazionale. La loro pratica militante è in larga mi-sura condizionata dall’ambiguo status di cittadine prive di cittadinanza. Alcuni comportamenti femminili tendono diret-tamente a compensare l’esclusione dal corpo politico legale affermandosi come membri del Popolo Sovrano. Non potendo prendere parte alle deliberazioni delle assemblee politiche, le donne affollano le tribune aperte al pubblico. I contempo-ranei, colpiti dalla loro prevalenza numerica, ne stigmatizza-no «la frenesia di accorrere alle assemblee». E non ci anda-vano certo per restare zitte. Grida, baccani, applausi del pubblico disturbano spesso lo svolgersi dei dibattiti. Nasce così l’appellativo di tricoteuses: le donne, come si dice quan-do viene coniata l’espressione (1795), che «piazzate nelle tribune, con le loro voci rauche influenzano i legislatori riuni-ti in assemblea». La presenza nelle tribune è il mezzo per intromettersi nella sfera politica, concretamente e simbolica-mente. Nella mentalità popolare infatti, le tribune assumono una funzione politica essenziale: il controllo degli eletti. Prendendo posto in una tribuna pubblica, si dimostra di far parte del Popolo Sovrano, si esercita parte della sovranità, anche se non se ne posseggono gli attributi.Ciò nonostante, malgrado l’esistenza di società popolari aperte ai due sessi, le donne non sono membri a pieno diritto delle organizzazioni rivoluzionarie. In almeno una trentina di città, alcune si riuniscono allora in club. Le affiliate, spesso imparentate con notabili rivoluzionari, tengono regolari se-dute in cui si dà lettura delle leggi e dei giornali, si discutono i problemi politici locali o nazionali, ci si occupa di opere fi-lantropiche, si prendono le difese del clero costituzionale davanti alle concittadine […].In tempo di rivoluzione, la pratica militante è spesso erede della pratica sociale. Nel XVIII secolo, il panorama dei quar-

tieri popolari era contraddistinto da una forte società femmi-nile: le donne si incontravano per chiacchierare, parlare dei fatti del giorno (ma anche venire alle mani!) tracciando in tal modo i confini di un mondo di donne, relativamente autonomo da quello maschile. Durante la rivoluzione, questi incontri assumono una colorazione politica: le lavandaie che, dopo una giornata di lavoro si ritrovano alla bettola, cercano as-sieme di decifrare i discorsi degli oratori rivoluzionari. Vicine di casa, sedute fuori dell’uscio per godersi il fresco di una serata estiva, vengono alle mani perché una difende i Giron-dini e l’altra i Montagnardi […].L’attivismo femminile che occupa il teatro della vita urbana è essenzialmente popolare e parigino. Se si esce dalla capitale rivoluzionaria, continuamente pulsante di entusiasmi o furori, per imboccare i polverosi viottoli di campagna, non incontre-remo più capanelli di donne che discutono di politica, né le si scorgerà più all’interno di bettole piene di fumo. Le donne di campagna per manifestare la loro adesione al credo rivoluzio-nario scelgono metodi meno spettacolari: invio di doni, acqui-sto di un fucile per la Guardia nazionale, il giuramento presta-to assieme agli uomini. A meno che non si coalizzino in gruppi […] per proteggere il proprio parroco, opporsi allo smantella-mento delle campane o chiedere la riapertura delle chiese.L’azione delle donne delle classi elevate si svolge invece al-trove, al confine fra pubblico e privato: il salotto. Spazio pri-vato in quanto fa parte della casa, e non tutti vi possono aver accesso; ma spazio pubblico in quanto diventa luogo di incon-tro fra uomini pubblici. Allo stesso modo in cui si ritrovano al club dei Giacobini, i deputati si incontrano nei salotti e, in maniera informale, preparano le sedute dell’assemblea. Il salotto, orchestrato da una donna (Madame Roland, Madame de Condorcet, per citare solo alcuni nomi) costituisce anche un luogo di scambi politici fra i sessi. Uomini politici di oppo-ste tendenze possono qui discutere in un clima di distensione. Prima che il contrasto fra Girondini e Montagnardi diventasse inconciliabile, Robespierre frequentava, ad esempio, il salot-to di Manon Roland, «la ninfa Egeria dei Girondini». Il suo essere a metà tra pubblico e privato può far sì che il salotto svolga una funzione strategica: durante la fase iniziale della rivoluzione belga del 1789, nel salotto della famosa contes-sa di Yves si ebbero dei contatti fra le Gilde e la nobiltà, i democratici e i tradizionalisti.

D. Godineau, Sulle due sponde dell’Atlantico, in Storia delle donne, III. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1991

Dominique Godineau, Donne e rivoluzione

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Il fenomeno del lavoro domestico e i mutamenti introdotti nella vita quotidiana delle classi medie dall’impiego di personale di servizio comporta per le donne una modalità di ascesa sociale: «La possibilità di permettersi anche una sola domestica migliorava la posizione sociale della padrona di casa, e la faceva passare di rango, promuovendola alla classe media».

Fino alla fine del XIX secolo, tutto il lavoro fisico per il mantenimento di una casa doveva ancora venire eseguito

a mano. Per avere cibo caldo o cucinato, bisognava tirare su dalla cantina o trasportare dentro la casa da un cortile esterno la legna o il carbone, bisognava pulire e rifornire regolarmente di combustibile stufe e camini; togliere la ce-nere e spolverare la fuliggine dai mobili, dalle stanze e dal-le finestre […]. Molte donne continuavano a cucinare e a cu-cirsi gli abiti da sole […]. Nel diciottesimo secolo, nei quar-tieri alti delle città europee venne portata l’acqua corrente, ma lo scarico della toilette non fu d’uso comune, neanche nelle città più grandi, fino al 1880 circa […]. L’onere di svuotare e di pulire i vasi da notte […] ricadde sulle donne di casa. L’illuminazione, quando ancora non esistevano il gas e l’elettricità, significava lavoro: erano le donne a fare le can-dele con il grasso appositamente conservato; anche la pre-parazione delle nuove lampade al cherosene, all’inizio del diciannovesimo secolo, richiedeva abilità ed esperienza […]. Il bucato veniva fatto in casa, e ciò significava raccogliere grandi quantità d’acqua che doveva essere bollita, rimestare gli indumenti dopo averli messi a bagno, sfregarli sul lava-toio, togliere completamente l’acqua, o strizzandoli o pas-sandoli sotto un rullo, e poi stenderli, oppure stirarli fino a che non erano asciutti. La stiratura veniva fatta scaldando pesanti ferri da stiro e pressando gli abiti bagnati fino ad asciugarli. La maggiore diffusione degli abiti di cotone […]

moltiplicò la quantità di bucati da fare in casa […]. Per tutto il diciannovesimo secolo, le donne continuarono a orlare e a ricamare lenzuola e asciugamani, a fare sottovesti, camicie da notte e biancheria personale per sé e per la famiglia, a sferruzzare e a cucire abiti di cotone e di lana […]. Anche con un tenore di vita semplice, i doveri quotidiani della prepara-zione dei pasti, della pulizia della casa e della cura degli abiti e degli oggetti occupavano la maggior parte del tempo della donna […].Le donne [delle classi medie, n.d.r.] spesero la nuova ric-chezza della famiglia prima di tutto prendendo a servizio una domestica perché le aiutasse nelle faccende più difficili e sgradevoli, necessarie a mantenere un livello di vita decoro-so […]. Nel diciannovesimo secolo, il numero delle persone di servizio aumentò enormemente, e la più richiesta fu la dome-stica comune, la «donna tutto fare». In Inghilterra, nel 1870, una guida spiegava che «la moglie, man mano che aumenta-no i mezzi di cui dispone, trasferisce in altre mani tutti i dove-ri domestici che richiedono fatica. Non appena è in grado di permetterselo, prende prima una lavandaia una volta ogni tanto, poi una domestica a ore, poi una cuoca e una domesti-ca, una bambinaia o due, una governante, una cameriera per-sonale, e a ognuno di questi miglioramenti non viene ascritto alcun biasimo, a meno che la spesa non sia al di là dei suoi mezzi». Le famiglie che potevano mantenere molte persone di servizio non erano numerose. Ma la possibilità di permet-tersi anche una sola domestica […] migliorava la posizione sociale della padrona di casa, e […] la faceva passare di ran-go, promuovendola alla classe media. Per gli uomini, la linea di demarcazione tra classe media e classe operaia si misura-va in genere in termini di guadagno; per le donne, invece, stava nella differenza tra il lavorare come persona di servizio o il potersene permettere una.

B.S. Anderson - J.P. Zinsser, Le donne in Europa, III, Nelle corti e nei salotti, Laterza, Roma-Bari 1993

Bonnie S. Anderson e Judith P. Zinsser, Avere o essere a servizio: donne e gestione della casa

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Il Novecento è stato defi nito da una parte della storiografi a il “secolo dell’emancipazione femminile”. Altri studiosi lo hanno descritto come il “secolo delle donne”. In ogni caso, le donne vi hanno avuto un ruolo determinante. Il quadro tracciato nel brano di Gloria Chianese riportato qui di seguito si basa su dati quantitativi e pone in evidenza la rilevante percentuale di donne impiegate nel mondo del lavoro all’interno di settori specifi ci: uno snodo decisivo è costituito dalla prima guerra mondiale.

In Italia […] le statistiche sulla manodopera occupata rela-tive agli anni 1900-1903, indicano che la presenza delle

lavoratrici nel settore tessile permaneva cospicua. In parti-colare, nell’industria della seta, le operaie erano 134 328, pari al 70% degli occupati, nell’industria del cotone 81 932, pari al 60,6%, nell’industria della lana 17 070, pari al 45% ed infine nell’industria del lino e della canapa 13 065 pari al 57,6%. Tale numerosa presenza era destinata a contrarsi se si considera che durante il periodo giolittiano ebbero un po-deroso sviluppo l’industria metallurgica e meccanica, in cui la presenza delle operaie era irrisoria, non andando oltre il 2,5% del totale della manodopera impiegata […]. Le condi-zioni di lavoro permanevano assai gravose, mentre le retri-

Gloria Chianese, Le lavoratrici italiane a inizio secolo11

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buzioni femminili registravano elevati scarti rispetto a quel-le maschili e le prime misure legislative di protezione del lavoro, approvate nel 1902, erano in realtà del tutto ignora-te dagli imprenditori. Le lavoratrici parteciparono al ciclo di lotte operaie che si ebbe nel paese nell’età giolittiana. In particolare, furono protagoniste di intense agitazioni le ope-raie tabacchine e le braccianti. Le 18000 operaie delle Ma-nifatture Tabacchi indissero nel 1914 uno sciopero contro i licenziamenti e le cattive condizioni di lavoro, che ebbe am-pio appoggio dalla Federazione Nazionale dei lavoratori del-lo Stato. Le mondine condussero prolungate e durissime agitazioni per la riduzione dell’orario di lavoro, che ebbero come epicentro l’Emilia e si conclusero nel 1912 con la con-quista delle 8 ore lavorative. In sintesi, nel periodo che precedette la prima guerra mon-diale, si delinearono due tendenze di contrastante indirizzo. In primo luogo, la contrazione dell’occupazione femminile che avrebbe favorito la dispersione di un ampio patrimonio di solidarietà e consapevolezza che le donne avevano acqui-stato con l’esperienza del lavoro di fabbrica. In secondo luo-go, l’affermarsi di combattivi comparti tra le fasce femminili, non espulse dall’attività produttiva, che sussistevano sia in fabbrica sia, forse in misura più significativa, nelle campa-gne. Con l’inizio del conflitto anche in Italia si ebbe un verti-ginoso incremento delle donne occupate negli stabilimenti bellici. Esse aumentarono da 23 000 nel 1915, a […] 200 000 nel 1918 e costituivano alla fine della guerra il

22% degli occupati. Il numero delle operaie era destinato a calare bruscamente nel dopoguerra, e contro la drastica contrazione dei livelli occupazionali le lavoratrici partecipa-rono attivamente al ciclo di lotte operaie postbellico […]. I risultati conseguiti investirono la condizione salariale piut-tosto che il piano dell’occupazione. Le operaie, infatti, si avvantaggiarono di cospicui aumenti salariali, che si estese-ro anche ai settori industriali, come il tessile e l’alimentare, in cui le paghe femminili erano tradizionalmente assai bas-se. In ogni caso, però, i salari rimasero sempre segnatamen-te inferiori a quelli maschili.Nel periodo giolittiano era cresciuta in maniera notevole l’oc-cupazione femminile nel terziario, in particolare, aveva avuto ulteriore sviluppo la tendenza alla “femminilizzazione” del personale insegnante. Nel 1910 le maestre e le professoresse di scuola media erano 62 643 contro 32 346 insegnanti. La guerra diede un ulteriore impulso alla presenza delle donne nelle attività terziarie, favorendo la formazione di un cospi-cuo numero di infermiere, ausiliarie, crocerossine ecc. che prestavano servizio negli ospedali […]. L’occupazione femmi-nile nel terziario decrebbe nel dopoguerra, ma in maniera inferiore che nell’industria, anche perché in tale settore la presenza delle donne avrebbe costituito una linea di tenden-za di lunga durata.

G. Chianese, Storia sociale della donna in Italia (1800-1980), Guida, Napoli 1980

Non molte furono le donne russe che accolsero con entusiasmo le idee sul libero amore e la nuova libertà introdotte nel diritto di famiglia con leggi molto elastiche, a proposito della possibilità di divorzio. Da più parti fu recriminato che la nuova situazione danneggiava le donne, il segmento più debole della società, oggetto di sistematica sopraffazione da parte del sesso maschile.

I principali esponenti rivoluzionari (ma certamente non gli uomini della base) erano d’accordo sul fatto che la donna

andasse liberata dalla schiavitù domestica; secondo Lenin i lavori di casa erano un’attività «improduttiva, meschina, snervante, rimbecillente e deprimente». Naturalmente ciò valeva solo per il lavoro domestico individuale, non per quel-lo collettivizzato che doveva venir svolto da cuoche e da don-ne delle pulizie professioniste; l’avversione di Lenin nei con-fronti di cucine, pentole e padelle private era letteralmente ossessiva e alla Kollontaj la separazione fra matrimonio e cucina sembrava altrettanto urgente di quella fra Stato e Chiesa. Ma gli asili infantili, le cucine e le mense collettive, nonché il loro personale femminile, erano attrezzati malissi-mo e, anche in seguito, le cose non migliorarono. Una carat-teristica degli anni Venti, assai più vistosa degli asili infanti-

li, erano le bande di bambini abbandonati e senza fissa dimo-ra (besprizorniki) che invadevano il paese e si procuravano da vivere chiedendo l’elemosina, rubando, uccidendo e pro-stituendosi; nel 1921 erano sette milioni, fra i quali anche migliaia di ex trovatelli. […]Nel 1917 venne istituito il divorzio, che nella Russia zarista era stato praticamente impossibile: era gratuito, lo si ottene-va o per accordo di entrambi i coniugi o anche solo per desi-derio di uno dei due; dopo la riforma matrimoniale del 1926 era sufficiente che uno dei coniugi esprimesse per posta tale desiderio (divorzio a mezzo cartolina). Nel 1927 a Mosca ve-niva pronunciata una sentenza di divorzio ogni due matrimo-ni. La convivenza di una coppia non coniugata (matrimonio di fatto) era riconosciuta dal 1918 e nel 1926 fu legittimata per legge, per stabilizzarla e per costringere i padri a ottempera-re ai loro doveri. Tuttavia gli alimenti per le donne che veni-vano abbandonate dal padre dei loro figli spesso esistevano solo in teoria; in pratica era difficile determinare la paternità (uno degli argomenti prediletti della letteratura) e altrettan-to difficile era garantire il versamento degli alimenti: i padri scomparivano o erano troppo poveri o avevano troppi figli. Del matrimonio di fatto abusavano soprattutto gli uomini – in particolare gli operai – a spese delle donne. Le città erano popolate da madri abbandonate e ridotte in miseria; il 70% dei divorzi in questi matrimoni di fatto veniva richiesto dagli uomini. I giovani mariti si lamentavano sostenendo che quan-

Gisela Bock, Le donne russe di fronte al nuovo diritto di famiglia12

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do nasceva un bambino era finita la libertà. Nelle città erano tutt’altro che rari matrimoni della durata di un giorno, di una settimana o di un mese; l’età dei primi rapporti sessuali dimi-nuì drammaticamente e il risultato, come si espresse un gior-nalista straniero, fu uguaglianza, libertà, maternità. […]In questo contesto – riforme libertarie accompagnate da sra-dicamenti e sovvertimenti – non fa meraviglia che verso la fine degli anni Venti si infittissero le critiche. L’opinione pub-blica era d’accordo nel ritenere che le bande di bambini ab-bandonati fossero il risultato dell’instabilità dei matrimoni. Furono soprattutto le donne a lamentarsi delle innovazioni. Un’esponente del partito protestò contro il fatto che ogni stu-dentessa o ogni donna del konsomol [l’organizzazione giova-nile comunista, n.d.r.] che non aveva voglia di fare l’amore con un uomo venisse considerata piccolo borghese; un’altra giovane donna asserì che avrebbe preferito lavorare per sedi-ci ore al giorno piuttosto che tornare nel dormitorio comune del konsomol. L’assoluta e individualistica libertà di divorzio, finché perdurò, venne criticata da contadine e contadini in quanto sconvolgeva la situazione della proprietà e dell’ere-dità collettiva; molte operaie e contadine le si rivoltavano

contro: «Non è perdonabile che un uomo viva per venticinque anni con una donna, le faccia mettere al mondo cinque figli e poi decida che non gli piace più». Quando nel 1926, durante la sua ultima campagna, Alexandra Kollontaj propose di im-porre una tassa di due rubli all’anno per finanziare i brefotro-fi [strutture di accoglienza per i bambini abbandonati alla nascita, n.d.r.] e soccorrere le madri sole e disoccupate, altre donne le opposero la loro concezione del rapporto fra il pub-blico e il privato: «Se venisse introdotta una tale tassa, gli uomini perderebbero del tutto il pudore [ogni senso di re-sponsabilità verso la loro famiglia, n.d.r.] e la conseguenza sarebbe la totale dissipazione»; oppure: «Anche la madre deve pagare! Le serva da insegnamento!» e anche: «Cosa c’entrano tutti gli uomini, se al concepimento di un bambino collabora solo un uomo? Se sei padre, sei tu che devi paga-re!». A queste donne non importava tanto la propria libertà sessuale, quanto la limitazione della libertà sessuale degli uomini.

G. Bock, Le donne nella storia europea, Laterza, Roma-Bari 2003

La condizione femminile durante il fascismo è segnata da palesi contraddizioni: «Da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile. Dall’altro, nel tentativo di accrescere la forza economica della nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile, inclusa la capacità riproduttiva delle donne, i fascisti fi nivano inevitabilmente per promuovere quegli stessi cambiamenti che cercavano di evitare».

Il fascismo intendeva riportare le donne al focolare domesti-co, confinarle al loro destino di madri e restaurare l’autorità

patriarcale. Certo, l’imposizione di questi vincoli non assu-meva i toni violenti che caratterizzavano l’azione del regime in altri campi: dalla soppressione delle libertà politiche alla soppressione dei sindacati operai, per non parlare delle per-secuzioni antiebraiche inaugurate dalle leggi razziali del no-vembre 1938. Ma fu proprio l’apparente normalità delle limi-tazioni alle libertà femminili a renderle particolarmente mi-stificanti, insidiose e avvilenti. Per contro, il fascismo cele-brava la “Nuova italiana”, favoriva il cameratismo nelle or-ganizzazioni di massa volontarie e sosteneva i diritti e i dove-ri delle donne nella costruzione di un forte Stato nazionale. La dittatura, inoltre, veniva identificata con la libertà fisica e i comportamenti emancipati propri delle occasioni e degli spazi creati dalle moderne forme di organizzazione del tempo libero […].Mussolini, al pari di Hitler, intendeva promuovere lo sviluppo economico come mezzo per elevare la forza della nazione;

ma al contempo temeva, condannava e cercava di limitare i cambiamenti sociali connessi alla rapida trasformazione eco-nomica iniziata alla fine dell’Ottocento. Quella contraddizio-ne era particolarmente visibile nell’atteggiamento del regi-me verso le donne. Da un lato i fascisti condannavano tutte le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile, dal voto, al lavoro extradomestico, al controllo delle nascite, cercando per di più di estirpare quegli atteggiamenti volti all’affermazione dei propri interessi individuali che sottosta-vano alle richieste di autonomia ed eguaglianza da parte del-le donne. Dall’altro, nel tentativo di accrescere la forza eco-nomica della nazione e di mobilitare ogni risorsa disponibile – inclusa la capacità riproduttiva delle donne – i fascisti fini-vano inevitabilmente per promuovere quegli stessi cambia-menti che cercavano di evitare. La mobilitazione di massa, la modernizzazione dei servizi sociali e infine il militarismo de-gli anni trenta, ebbero l’effetto imprevisto e indesiderato di intaccare la concezione tradizionale della donna e della fa-miglia. Le istituzioni fasciste, infatti, nel momento in cui re-stauravano nozioni antiquate di maternità e paternità, femmi-nilità e virilità, richiedevano nuove forme di coinvolgimento sociale: come in altri ambiti della vita sociale, il regime affer-mava l’intenzione di ripristinare il vecchio mentre suo mal-grado promuoveva qualcosa di nuovo.Le posizioni sulle donne assunte dal regime non erano un’in-venzione esclusiva del fascismo italiano, né erano, in ultima analisi, troppo distanti dagli atteggiamenti, le politiche, i pro-grammi, le tendenze prevalenti negli stati non autoritari […]. La politica sessuale di Mussolini esprimeva in forma accentua-ta una resistenza a introdurre nella condizione femminile quei cambiamenti che si erano resi necessari […]. I governi occi-dentali si dovevano occupare di quel complesso insieme di

Victoria De Grazia, Il fascismo e le donne13

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questioni che i politici usavano indicare come “crisi demogra-fica” o “problema della popolazione”: il declino della fertili-tà, le disfunzioni nel regime familiare, la competizione tra uomo e donna sul mercato del lavoro, l’imprevedibilità dei comportamenti dei consumatori. Un insieme di questioni, in-somma, tutte in egual misura connesse alla molteplicità dei ruoli, a volte tra loro incompatibili, che la donna veniva assu-mendo nella società contemporanea: non solo più madre e

sposa, ma anche cittadina, lavoratrice, consumatrice e utente dei servizi dello Stato sociale. Le soluzioni di volta in volta proposte mettevano inevitabilmente i politici di fronte a un rebus, indicato dalla sociologa riformista svedese Alva Myrdal con l’incisiva frase: «Uno dei sessi è un problema sociale».

V. De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993

Signifi cativi i mutamenti della condizione femminile intervenuti durante la seconda guerra mondiale, in particolare nelle volontarie di Salò e nelle donne che partecipano alla Resistenza. Quello compreso tra il 1943 e il 1945 fu un momento essenziale nella storia delle donne, poiché «si scavalcarono antichi divieti, e intanto si moltiplicarono i compiti che una donna poteva svolgere senza mettere in pericolo le sue qualità “autenticamente” femminili».

Alla vigilia dello scoppio del conflitto mondiale […] si pro-duce una accelerazione nel processo di partecipazione

delle donne a prestar servizio in divisa all’interno di reparti paramilitari, e durante il quale si verifica una trasformazione dei termini utilizzati per definire la femminilità. Alla grande adunata a Roma del maggio 1939, bardate con casco e mo-schetto, sfilano quindicimila donne arruolate nei reparti fem-minili coloniali; durante la guerra e soprattutto dopo la cadu-ta del regime, rispondono in seimila al richiamo di mobilita-zione dentro il SAF, il Servizio ausiliario femminile della Re-pubblica Sociale. Data la gravità del momento, in un volger di tempo molto breve si scavalcarono antichi divieti, e intanto si moltiplicarono i compiti che una donna poteva svolgere senza mettere in pericolo le sue qualità “autenticamente” femmini-li […]. Le repubblichine si attenevano tuttavia rigorosamente alle direttive del regime, «votate, in dedizione assoluta, alla Patria e a voi Duce», scrive la comandante generale delle ausiliarie Piera Gatteschi Fondelli in una lettera a Mussolini. Rifiutarono sempre ogni ideale emancipazionista di america-ne e inglesi, desiderando contrapporsi alle borghesi inattive, alle «rincitrullite donne eleganti», che girano in pelliccia le labbra «scarlatte e, secondo l’ultimo gemito della moda, vio-la cadavere». Le giovani ausiliarie che si mobilitano per la causa mussoliniana […] si mostrano contrarie a essere assi-

milate alle nemiche anglosassoni, la cui partecipazione in servizio attivo durante la guerra è legata alla richiesta di di-ritti civili e politici […].Le testimonianze relative a partigiane e componenti di bande armate mostrano quanto sia complessa la dinamica che ac-compagna in queste donne il mutato comportamento tra il periodo precedente alla caduta del fascismo e all’armistizio, e quello successivo di adesione ai movimenti clandestini. Ol-tre a usare le armi, a indossare pantaloni e giacche mascoli-ne, adottare nomi di battaglia, si trovano a essere responsa-bilizzate in prima persona nell’esecuzione di compiti specifici e inserite in poco tempo all’interno di gruppi formati da gente estranea alla loro famiglia, casa e luogo di lavoro; sono in molte a raccontare con entusiasmo e orgoglio i rischi e i peri-coli corsi durante quello che considerano il periodo più bello della loro vita. Un motivo ricorrente nelle narrazioni in prima persona, forse l’elemento chiave per interpretare le esperien-ze di tante militanti, è costituito dal ricordo di una metamor-fosi continua di sé […]. Nell’aderire a un tipo di vita in cui il camuffamento, oltre che obbligo politico, è anche una regola di sopravvivenza; in cui l’eccezionalità del momento consente di rivelare insospettate possibilità di essere; e anche quando la percezione di sé da parte degli altri appare ormai radical-mente mutata, le donne che partecipano alla Resistenza cer-cano, in modo alquanto esplicito, di soddisfare una domanda relativa alla propria identità e indirettamente ripropongono con il loro comportame nto il problema più generale dell’es-senza della femminilità. Nel corso di molti mesi, le definizioni con cui erano state fino ad allora qualificate perdono il loro carattere di fissità, e per la prima volta […] mettono a dura prova la validità delle definizioni consolidate relative alla “vera” donna.

P. Di Cori, Partigiane, repubblichine, terroriste. Le donne armate come problema storiografico, in Guerre fratricide.

Le guerre civili in età contemporanea, a cura di G. Ranzato, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Paola Di Cori, Identità femminili a Salò e nella Resistenza14

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L’occupazione russa di Berlino fu accompagnata da un numero elevatissimo di stupri. È possibile che almeno 100 000 donne berlinesi siano state violentate dai soldati russi nella primavera del 1945.

A Berlino, dopo la fine della guerra le donne impararono presto a sparire, di sera, durante «le ore di caccia ». Le

figlie giovani furono tenute nascoste nelle soffitte per giorni e giorni. Le madri uscivano per strada a prendere acqua sol-tanto nelle prime ore del mattino, quando i soldati smaltiva-no la sbornia della notte. Qualche volta il pericolo maggiore veniva da qualche madre che indicava il nascondiglio di altre ragazze nel disperato tentativo di salvare le proprie figlie.I berlinesi ricordano che siccome tutte le finestre erano state distrutte dagli spostamenti d’aria delle esplosioni, ogni notte si potevano sentire le urla delle vittime. Valutazioni fatte dai due principali ospedali della capitale parlano di un numero di stupri che varia fra le 95 000 e le 130 000 vittime. Un me-dico calcolò che su circa 100 000 donne violentate a Berlino, almeno 10 000 siano morte, quasi tutte suicide. Si ritiene che la percentuale delle morti sia stata molto superiore fra il 1 400 000 donne violentate in Prussia Orientale, Pomerania e Slesia. Si ritiene che nel complesso almeno 2 000 000 di donne tedesche siano state violentate e che una notevole mi-noranza, se non addirittura la maggioranza, siano state stu-prate in gruppo. Un’amica di Ursula von Kardorff, la spia so-vietica Schulze-Boysen, venne violentata da «23 soldati uno dopo l’altro» e all’ospedale dovettero in seguito metterle dei punti di sutura.La reazione delle donne tedesche all’esperienza dello stupro fu diversificata. Per molte vittime, soprattutto le giovani di buona famiglia che non si rendevano conto di quello che sta-vano subendo, l’effetto psicologico fu devastante. I rapporti con gli uomini diventarono quanto mai difficili, spesso per il resto della loro vita. Le madri si preoccupavano molto di più per le loro figlie e questo le aiutò a superare ciò che dovette-ro subire a loro volta. Altre donne, giovani e adulte, tentaro-no semplicemente di rimuovere quella loro esperienza. «In un certo senso, per continuare a vivere, devo cancellare un sacco di cose», ammise una donna, rifiutandosi di parlare dell’argomento. Quelle che non opposero resistenza e che riuscirono a restare distaccate da quello che stava loro acca-dendo sembra abbiano sofferto molto meno. Alcune ne hanno parlato come di esperienze «extracorporee ». «Quella sen-sazione», ha scritto una di esse, «ha impedito a quell’espe-rienza di dominare il resto della mia vita» [...]

La violenza carnale era diventata – rileva la donna del dia-rio – un’esperienza collettiva e di conseguenza avrebbe do-vuto essere superata parlandone fra donne. Tuttavia gli uo-mini, al loro ritorno, tentarono di vietare qualsiasi accenno all’argomento, anche quando non erano presenti. Le donne scoprirono che mentre dovevano accettare quanto era loro accaduto, i loro uomini rendevano spesso molto peggiore la situazione. Quelli che erano stati presenti, in quelle circo-stanze, si vergognavano di non essere stati in grado di impe-dirlo. Hanna Gerlitz cedette a due ufficiali sovietici ubriachi allo scopo di salvare sia lei sia suo marito. «In seguito», scrisse, «ho dovuto consolare mio marito e aiutarlo a ripren-dere coraggio: piangeva come un bambino.»Gli uomini che tornarono a casa evitando di farsi catturare oppure perché erano stati rilasciati in anticipo dai campi di prigionia, sembra siano rimasti bloccati dal lato emotivo nell’apprendere che le mogli o le fidanzate erano state vio-lentate durante la loro assenza. [...] E trovarono molto duro da accettare il fatto che le loro donne fossero state violenta-te. Ursula von Kardoff apprese che un giovane aristocratico aveva rotto subito il fidanzamento non appena seppe che la sua fidanzata era stata violentata da cinque soldati russi. La diarista anonima raccontò al suo ex innamorato, che era tor-nato prima del previsto, le esperienze subite dagli abitanti del casamento. «Siete diventate tutte cagne svergognate», reagì lui. «Non posso sopportare che raccontiate queste sto-rie. Avete perso tutte i vostri principi morali, tutte quante!» Lei gli diede allora da leggere il suo diario e quando scoprì che aveva scritto di essere stata violentata, la fissò come se fosse impazzita. Se ne andò un paio di giorni dopo, dicendo che usciva a cercare qualcosa da mangiare. E non lo rivide più. [...]Numerose donne scoprirono presto che dovevano fare la coda anche ai dispensari medici. Scoprire che erano in tante nelle stesse condizioni era poco consolante. Una dottoressa istituì una clinica per malattie veneree in un rifugio antiaereo, con il cartello «tifoide» in caratteri cirillici per tenere lontani i sol-dati russi. Come raccontato nel film Il terzo uomo, la penicil-lina divenne ben presto l’articolo più richiesto sul mercato nero. Aumentò anche il numero degli aborti. È stato calcolato che il 90 per cento delle vittime rimaste incinte ottenne di poter abortire, anche se questo dato sembra molto elevato. Molte partorienti abbandonarono il neonato in ospedale, di solito perché sapevano che il marito o il fidanzato non ne avrebbero mai accettato la presenza in casa.

A. Beevor, Berlino 1945, Rizzoli, Milano 2002

Antony Beevor, Le violenze contro le donne tedesche nel 194515

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S t o r i o g r a f i a

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Nei Paesi dell’Europa dell’Est, la fi ne del comunismo ebbe conseguenze negative soprattutto per le donne, che in percentuale superiore rispetto agli uomini furono escluse dal mercato del lavoro, nella delicata fase di passaggio all’economia di mercato.

La liberazione della donna nei paesi comunisti era sempre stata più apparente che reale e le cosiddette libertà perse

dalle donne dopo il 1989 equivalevano spesso a obblighi che erano stati loro imposti dalla miseria degli stati comunisti. Si trattava, infatti, di mansioni e doveri che erano stati ricoperti con una patina di retorica femminista da uno Stato quasi com-pletamente controllato da uomini. Parlando in termini più generali, la condizione delle donne dopo la caduta del comu-nismo mutò in due modi fondamentali. Il primo cambiamento riguarda l’occupazione. Nella Repubblica Ceca, in seguito all’aumento dell’occupazione durante gli anni Novanta, a Praga il tasso di disoccupazione era talmente basso che par-lare di differenze tra i sessi sarebbe stato futile. In Ungheria, e forse in Bulgaria, sembra che le donne siano riuscite a con-servare l’occupazione in misura superiore rispetto agli uomi-ni. In tutte le altre regioni dell’Europa ex comunista, la disoc-cupazione aumentò non appena le aziende, che non erano più tenute a rispettare i doveri sociali imposti dal regime o limi-tate dalle esigenze di rispettare i programmi governativi, cer-carono di aumentare la produttività. Le donne dovettero sop-portare in misura sproporzionata le conseguenze di quell’au-mento; in Polonia, durante gli anni Novanta, più di metà dei disoccupati era composta da donne. Le donne che riuscirono a conservare il lavoro tendevano, però, a perdere una certa quota di condizione sociale. In Russia, era più probabile che fossero gli uomini ad abbandonare volontariamente il lavoro, un fatto che mostrava che gli uomini speravano di evitare quelle aziende le cui capacità di retribuire i dipendenti stava-no calando, mentre le donne conservavano il proprio posto, temendo di non riuscire a trovare un’altra occupazione. Le donne russe in possesso di una qualificazione che perdevano il lavoro erano spesso costrette ad accettare nuovi posti che non richiedevano la presenza di personale qualificato. In Po-lonia, la percentuale dei manager di sesso femminile che ri-coprivano posizioni importanti nelle aziende private create dopo il comunismo era perfino ancora più modesta che nelle imprese statali durante il regime comunista. Un alto livello di istruzione rappresentava per le donne una minore protezione dalla disoccupazione di quanto non rappresentasse, invece, per gli uomini.Non è facile spiegare questo fenomeno in termini di teoria economica. Il libero mercato avrebbe dovuto far sì che gli im-prenditori avessero un interesse ad assumere il personale migliore, indipendentemente dal sesso. Inoltre, […] i settori a predominanza maschile, come l’industria pesante e l’inge-gneria, furono quelli che si comportarono peggio [ebbero i

maggiori problemi di competitività, e quindi furono i più esposti al rischio di fallimento, n.d.r.] nell’economia del libe-ro mercato, mentre le donne tendevano invece a possedere una formazione nelle lingue straniere e nel commercio, setto-ri tenuti in grande considerazione nella nuova economia post-comunista. In pratica, però, le qualificazioni in termini di formazione raramente si traducevano in un accesso alle posi-zioni più elevate. In Ungheria, oltre la metà dei contabili e dei dirigenti finanziari in possesso di una qualificazione era co-stituita da donne, ma la percentuale calava a meno di un quinto per le posizioni di direttore generale. […]Il cambiamento nella condizione lavorativa della donna fu accompagnata dai mutamenti verificatisi nel campo del con-trollo delle nascite. A partire dagli anni Cinquanta, la mag-gioranza degli Stati comunisti aveva consentito un accesso relativamente libero all’aborto. In Polonia, il numero degli aborti riportato nelle statistiche ufficiali era di circa 120 000 l’anno, ma comunemente si riteneva che il totale degli aborti praticati ogni anno fosse molto più elevato. La caduta del co-munismo pose termine a tutto ciò: in Polonia l’aborto fu di-chiarato pressoché illegale e nella Germania Est diventò più difficile, non appena la legislazione, prima in vigore soltanto nella Germania Ovest, fu estesa all’intero territorio naziona-le. Le femministe occidentali, per le quali il diritto all’aborto rappresentava un’esigenza fondamentale, interpretarono i cambiamenti avvenuti nell’Est come un segnale preoccupan-te di perdita di libertà da parte delle done di quei paesi, ma si tratta di una lettura quanto meno discutibile. L’accesso all’aborto negli stati comunisti era sempre stato più dovuto a fattori economici e all’intervento dello Stato, che alla difesa degli interessi delle donne. Raramente il comunismo veniva associato al rispetto per la libertà sessuale; di norma, i suoi valori morali avevano un carattere puritano e conservatore, inoltre gli stati comunisti non esitarono mai a proibire l’aborto quando faceva loro comodo. Tutti i paesi comunisti avevano seguito la guida di Mosca, che nel 1936 aveva dichiarato illegale l’aborto, e nessuno era tornato a legalizzarne la pratica prima che l’Unione Sovietica non si decidesse a reintrodurla nel corso degli anni Cinquanta. Nella maggior parte dei paesi comunisti, l’aborto era stato praticato in condizioni primitive che spesso mettevano a re-pentaglio la salute delle donne; per di più, si trattava di un intervento comune soprattutto perché non erano disponibili altre forme di controllo delle nascite.La situazione in Romania rispecchiava la complessità delle attitudini verso l’aborto e delle reazioni che in questo campo seguirono alla caduta del comunismo. A partire dal 1966, l’aborto era stato represso con energia in Romania, un paese in cui gli interventi praticati illegalmente erano molto più pe-ricolosi rispetto a quelli degli altri paesi del blocco comunista (nel 1984 morirono 471 donne rumene in seguito alla pratica di aborti). Gli anticomunisti rumeni vedevano nella legalizza-zione dell’aborto un simbolo importante. Quando la città di

Richard Vinen, Le donne dei Paesi dell’Europa dell’Est dopo la caduta del comunismo

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D o n n a e “ q u e s t i o n e f e m m i n i l e ”

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Timisoara proclamò la libertà all’inizio della rivoluzione ru-mena del 1989, l’aborto fu immediatamente dichiarato libero e legale; una settimana dopo, la sua pratica era libera in tut-to il paese. Nel 1990 si stimò che un milione di donne rumene fece ricorso all’aborto.Nei paesi in cui, dopo il 1989, l’aborto subì una restrizione, l’impatto di queste limitazioni variava a seconda della condi-zione sociale delle persone coinvolte. Perfino in Polonia, le donne benestanti delle grandi città potevano cavarsela me-

glio, perché ora avevano accesso ai contraccettivi occidenta-li, il cui uso tra i ceti urbani poveri era limitato dai costi e, nelle zone rurali, dalla pressione che i gruppi cattolici eserci-tavano sui farmacisti locali. I meno privilegiati, così, persero le libertà garantite dal comunismo senza nemmeno poter usufruire delle libertà offerte dal capitalismo.

R. Vinen, L’Europa nel Novecento. Una storia sociale, Carocci, Roma 2004

La defi nizione di femminismo alla luce dei movimenti emancipazionisti degli anni Sessanta e Settanta comporta la consapevolezza che «non sembra esservi una defi nizione universale capace di guidarci attraverso il complesso terreno delle politiche femministe contemporanee». Piuttosto, si può sostenere «che il termine femminismo indichi insiemi di teorie e pratiche storicamente variabili, incentrate sulla costituzione e sull’ampliamento della sfera di poteri in capo a soggetti femminili».

A dispetto del dizionario, che considera il femminismo in maniera univoca come «la teoria dell’eguaglianza politi-

ca, economica e sociale tra i sessi», oppure, dal punto di vi-sta organizzativo, come la corrispondente mobilitazione vol-ta ad «eliminare le restrizioni discriminatorie nei confronti delle donne», non sembra esservi una definizione universale capace di guidarci attraverso il complesso terreno delle poli-tiche femministe contemporanee. In effetti il femminismo non è un termine aprioristicamente definibile le cui caratteristi-che possano essere stabilite in modo autorevole; si potrebbe dire, piuttosto, che il termine femminismo indichi insiemi di teorie e pratiche storicamente variabili, incentrate sulla co-stituzione e sull’ampliamento della sfera di poteri in capo a soggetti femminili. In questa prospettiva, cosa il femminismo sia o sia stato è una questione storica, piuttosto che un pro-blema di definizione […].Al centro dei femminismi occidentali contemporanei si trova, secondo le parole di un’analista, una tensione costante, che

si esprime nel «comune spartiacque che continua a formarsi nel pensiero come nell’azione delle femministe, tra il bisogno di costruire l’identità “donna”, nonché di dargli un solido si-gnificato politico, e quello di distruggere nella sua essenza la categoria “donna” e la sua storia fin trop po consolidata». In questa prospettiva, gli attuali femminismi hanno contempo-raneamente affermato, da una parte, la differenza sessuale come fondamentale principio esistenziale – e quindi politi-co – e negato, dall’altra, la legittimità della dif ferenza ses-suale come principio organizzatore della struttura sociale. Questo movimento oscil latorio è stato codificato nei termini del dibattito tra chi asseriva l’“eguaglianza” e chi sosteneva, invece, la “differenza”. Si sostiene spesso che i movimenti femministi occidentali contemporanei siano sorti in risposta al potere assunto dal “genere” come categoria organizzatrice di esperienza socia-le. Secondo questo punto di vista, le giovani donne degli anni ’60 e ’70, nutrite di idee liberali ed egualitarie, e messe di fronte alle ineguaglianze implicite nelle società in cui l’ap-partenenza ad un sesso o all’altro determina in modo signifi-cativo le opportunità di farsi strada nella vita, hanno dato origine alle recenti rinascite femministe. Sfidando le nozioni comunemente accettate che relegano le donne nel loro “giu-sto posto”, tali rinascite hanno tentato di liberare le donne dalle costrizioni del genere. Questa sarebbe, dunque, la ri-vendicazione degli attuali femminismi: l’affermazione della parità dei diritti; e questo il loro obiettivo specifico: la realiz-zazione di un mondo indifferente al genere.

Y. Ergas, La costituzione del soggetto femminile: il femminismo negli anni ’60/’70, in Storia delle donne in Occidente.

Il Novecento, a cura di G. Duby - M. Pierrot, Laterza, Roma-Bari 1992

Una sintesi effi cace delle principali tappe della legislazione italiana riguardante il lavoro femminile tra il secondo dopoguerra e oggi, in particolare per quanto concerne la parità tra sessi, spesso formale e non sempre davvero raggiunta.

La fine della guerra segna le grandi svolte della legislazio-ne sul lavoro femminile. La grande guerra aveva loro dato

l’accesso ai pubblici impieghi e alle professioni liberali; la seconda guerra mondiale diede loro, finalmente, l’eguaglian-za. Nella disposizione costituzionale che specificamente con-cerne il lavoro femminile (art. 37, comma 1), le donne videro

Yasmine Ergas, Definire il femminismo

Maria Vittoria Ballestrero, La legislazione sul lavoro femminile

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S t o r i o g r a f i a

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infatti solennemente sancita quella uguaglianza nel lavoro che, da sempre, nelle leggi e nei fatti, era stata loro negata. Consapevoli del debito che il nuovo Stato doveva pagare a tutte le donne, che direttamente o indirettamente avevano contribuito alla liberazione della patria, i costituenti (ma sa-rebbe meglio dire le costituenti) vollero sancire espressa-mente il diritto delle lavoratrici alla parità di trattamento. Era chiaro tuttavia che la sanzione dell’eguaglianza non avrebbe eliminato i problemi che, dall’inizio del secolo in poi, aveva-no indotto il Parlamento a intervenire con norme di speciale tutela del lavoro femminile. Ma combinare insieme egua-glianza di diritti e speciale protezione, senza mortificare l’una o sacrificare l’altra, doveva risultare un compito arduo anche per i costituenti.Il dibattito in seno all’assemblea costituente registrò profon-de difformità di giudizio, ma anche una finale ricomposizione sul ruolo da assegnare alle donne nel nuovo ordinamento della Repubblica. Dopo lunga discussione, l’assemblea deci-se per il testo che può leggersi nell’art. 37, comma 1 («La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e a parità di lavoro le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essen-ziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale, adeguata protezione») […]. Com’è noto, la strada dell’attuazione dell’art. 37 si è rivelata lunga e diffi-cile; interpretazioni riduttive della parità di trattamento da esso sancita hanno fatto per molti anni da copertura formale alla sostanziale disapplicazione anche di questa disposizione costituzionale.L’attuazione ha proceduto per gradi, in primo luogo rafforzan-do la tutela delle lavoratrici madri, alla quale si è più di recen-te accompagnata […] una parziale estensione dei diritti della madre al padre, nella direzione della redistribuzione secondo

eguaglianza, del ruolo familiare dei genitori […]. Sono andate invece scomparendo le vecchie forme di tutela del lavoro fem-minile, pressoché integralmente cancellate dalla legge n. 903/1977 (nota come “legge di parità”), che ha armonizzato l’ordinamento italiano alle direttive comunitarie in materia di parità salariale tra lavoratori e lavoratrici […]. Che la legisla-zione protettiva del lavoro femminile possa giocare un ambi-guo ruolo deterrente, rivelandosi così fattore di discriminazio-ne proprio della forza-lavoro tutelata, è cosa detta e ripetuta più volte e da molti. Negli ultimi venti anni, la vecchia legisla-zione protettiva è stata smantellata in tutta Europa in nome della parità di trattamento tra uomini e donne […]. L’era della protezione sembra oggi definitivamente tramontata; per le donne, per tutte le donne si è aperta l’era dei diritti che le fanno eguali. Ma ancora una volta il linguaggio dell’egua-glianza si intreccia con un altro linguaggio, che non è più quello della vecchia protezione, ma che ancora si riallaccia all’idea della legislazione specifica, riservata alle donne. Par-lano il linguaggio dell’eguaglianza le donne che, forti della loro “professionalità”, chiedono al mon do del lavoro di consi-derarle “persone” eguali e senza sesso. Parlano il linguaggio della “nuo va” protezione quelle donne che, dopo lunghe e tor-mentate riflessioni, hanno imboccato la strada della afferma-zione della loro “differenza”, e rivendicano il diritto “disegua-le”. Quel diritto ha trovato nella legge italiana n. 125/1991 sulle azioni positive in favore delle donne una sua prima, im-portante affermazione: ma, come se la storia si ripetesse, il bilancio dell’applicazione della legge è sconfortante.

M.V. Ballestrero, La protezione concessa e l’eguaglianza negata: il lavoro femminile nella legislazione italiana,

in Il lavoro delle donne, a cura di A. Groppi, Laterza, Roma-Bari 1996

Il Novecento è stato defi nito da molti “il secolo delle donne”. Ma è vero? Gli autori dei due testi che seguono (in particolare quelli del secondo) si pongono questa domanda. In ogni caso, sono innegabili gli spazi di emancipazione conquistati dalla donna nel corso del XX secolo e l’importante ruolo sociale assunto soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.

Fra soggettività, vincoli, causalità, il femminile novecente-sco […] è spesso colto, generalmente sperimentatore, per

la quasi totalità occidentale. Perché è soprattutto per le don-ne europee e americane che il Novecento è stato fin dagli inizi un secolo di novità straordinarie, dalla diffusione del controllo delle nascite al progressivo accesso a tutti i settori degli studi e delle professioni, e a quella sfera politica che i femminismi si sono sforzati di ridefinire. Il secolo in cui sem-pre più donne hanno cercato se stesse inventandosi una nuo-va identità o reinterpretando i ruoli tradizionali, alcune inva-

dendo con successo terreni a lungo proibiti, come la scienza o la teologia. Il che non cancella il fatto che il Novecento ha visto anche, in tutto il mondo, il massimo livello della coerci-zione e della violenza contro le donne. Secolo femminile – si è detto – nel bene e nel male. Sicuramente un’epoca segnata dalle donne: la maggior attenzione per i valori umanitari con-tro il predominio delle logiche belligeranti è legata al femmi-nile, così come i nuovi mestieri nascono da altre caratteristi-che tradizionalmente associate alle donne come l’intuizione, l’elasticità mentale, la curiosità e anche la chiacchiera. Se sia la maggiore partecipazione femminile alla vita pubblica ad aver favorito questi cambiamenti, o viceversa, è ancora pre-sto per dire.

A. Bravo - L. Scaraffia, Donne del ’900, Liberal, Firenze 1999

Bambine troppo magre e troppo piccole che già lavoravano con le donne, donne con la faccia cotta dal sole e dal ven-

to, vecchie a trent’anni […]. E le nonne a casa, a guardia

Il Novecento: secolo delle donne?19

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D o n n a e “ q u e s t i o n e f e m m i n i l e ”

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dell’ultimo nato in una culla di legno […]. Ecco poi le perife-rie dell’inurbamento selvaggio degli anni Sessanta, quando due milioni di contadini lasciarono la campagna per la città. E, seguitando […], donne operaie, commesse, impiegate degli anni Settanta: antropomorficamente diverse, graziose, spes-so sorridenti, consapevoli del proprio valore come persona. E poco dopo la prima donna vigile urbano, la prima magistrata, la prima poliziotta, la prima presidente di una grande azienda […] fino alla prima presidente della Camera dei Deputati. Erano la prova lampante del cammino percorso, la tentazione di compiacersi dei risultati ottenuti, di ricordare solo le batta-glie vinte nella seconda metà del secolo: quella per la parità salariale, per l’istituzione degli asili nido, per i consultori, per la riforma del diritto di famiglia, per la libera contracce-zione e per l’aborto, per l’abolizione del delitto d’onore e del matrimonio riparatore, per le azioni a favore dell’imprendito-ria femminile, per l’estensione agli uomini dei congedi paren-tali, per una legge contro la violenza sessuale […]. Bisogna dunque intendersi sull’espressione “secolo delle donne”. Il

Novecento non lo è stato nel senso di avere realizzato la pie-na parità tra i sessi. Lo è stato invece se si pensa che nel XX secolo le donne han-no acquistato visibilità come soggetto sociale e perché hanno maturato una diversa concezione di sé […]. Sono state più felici le donne italiane di fine secolo rispetto alle loro ave del primo Novecento? Il quesito […] è mal posto, perché se l’in-giustizia sociale può essere fonte di grande malessere, un equilibrato assetto della società non garantisce automatica-mente la felicità, che in tanta parte dipende dalla sfera indi-viduale. I cambiamenti avvenuti nel corso del XX secolo han-no dato alle donne, questo sì, la possibilità di scegliere la loro vita: nel lavoro, nel matrimonio e, per la prima volta nel-la storia, nella maternità. Scegliere comporta un’assunzione di responsabilità, ciò che per molte è un peso gravoso. Ma è, appunto, la libertà.

E. Doni - M. Fugenzi, Il secolo delle donne. L’Italia del Novecento al femminile, Laterza, Roma-Bari 2001

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P e r c o r s o 6

Contro l’uomo: razzismi e persecuzioni

Vedo il mondo mutarsi lentamente in un deserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ci ucciderà,

partecipo al dolore di migliaia di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente

al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno la pace e la serenità.

Anna Frank

Non esistono le razze, il cervello degli uomini è lo stesso. Esistono i razzisti. Bisogna vincerli con le armi della sapienza.

Rita Levi-Montalcini

L’uomo è nato libero, e dappertutto è in catene.Jean Jacques Rousseau

Nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo. Johann Wolfgang Goethe

Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore

è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. William Faulkner

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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D O C U M E N T I

La soluzione finaleIl «Protocollo di Wannsee» è il verbale di una riunione tenuta in una villa di Berlino il 20 gennaio 1942. Alla presenza di numerosi gerarchi e del responsabile “logistico” del sistema concentrazionario, Adolf Eichmann, a cui si deve il verbale, si stabilirono i caratteri della «soluzione finale del problema ebraico» secondo il criterio dell’annientamento totale.

Nel quadro della soluzione finale della questione ebraica e sotto la necessaria guida, gli ebrei devono essere uti-lizzati all’Est nei compiti lavorativi giudicati più opportuni. Inquadrati in grandi colonne e separati per sesso,

gli ebrei abili al lavoro saranno condotti in quei territori a costruire strade, operazione durante la quale senza dub-bio una gran parte di loro soccomberà per riduzione naturale […]. Il nucleo che alla fine sopravviverà a tutto questo, e si tratterà della parte dotata della maggiore resistenza, dovrà essere trattato in maniera adeguata, poiché rappre-sentando il frutto di una selezione naturale, qualora fosse lasciato andare libero, dovrebbe essere considerato la cellula germinale di una nuova rinascita ebraica (si veda l’esperienza storica). Nel quadro dell’attuazione pratica della soluzione finale, l’Europa verrà setacciata da ovest a est. II territorio del Reich, incluso il Protettorato di Boemia e Moravia, dovrà essere ripulito per primo, non foss’altro che per ragioni di carattere abitativo e altre necessità socio-politiche. Gli ebrei evacuati verranno dapprima portati, senza esitare, in cosiddetti ghetti di transito e di lì trasportati più a Est […].L’inizio delle singole grandi operazioni di evacuazione dipenderà in ampia misura dagli sviluppi militari. Riguardo al trattamento della soluzione finale nei territori europei da noi occupati o sotto nostra influenza, è stato proposto che gli addetti alla questione del ministero degli Affari esteri si consultino con il funzionario incaricato della Dire-zione generale per la sicurezza del Reich. In Slovacchia e in Croazia la faccenda non presenta più grandi difficoltà, dal momento che le principali questioni di fondo sono già state avviate a una soluzione. Anche in Romania il go-verno ha, nel frattempo, attivato un responsabile della questione ebraica. Per risolvere la questione in Ungheria, è necessario imporre entro breve al governo ungherese un consulente di questioni ebraiche. Per quanto riguarda l’av-vio dei preparativi per risolvere il problema in Italia, l’Obergruppenführer [grado equivalente al generale di corpo d’armata, n.d.r.] della SS Heydrich ritiene opportuno mettersi in contatto, a questo proposito, con il capo della Polizia. Nella Francia occupata e non occupata la schedatura degli ebrei destinati alla deportazione procederà mol-to probabilmente senza grossi problemi. Il sottosegretario di Stato Luther ha comunicato, a questo proposito, che in alcuni paesi, per esempio negli stati nordici, sorgeranno difficoltà quando si tratterà di affrontare il problema in termini più radicali, ragion per cui è consigliabile tralasciare per il momento quei paesi. Tenuto conto dello scarso numero di ebrei in tali paesi, ciò non rappresenta comunque una grave limitazione. In compenso il ministero degli Affari esteri non vede grandi difficoltà per quanto riguarda l’Europa sudorientale e occidentale.

Verbale della conferenza del Wannsee del gennaio 1942, in Documenten van de Jodenvervolging in Nederland 1940-1945, a cura del Joods Historisch Museum, Amsterdam 1979

Anna Frank, DiarioAnna Frank (1929-1945), giovanissima ebrea olandese rimasta nascosta con la propria famiglia per due anni in un alloggio segreto di Amsterdam per sfuggire alla polizia nazista, annotò quotidianamente i suoi pensieri in un diario, di cui viene proposta l’ultima pagina. Considerato il valore della testimonianza e ritenendo riduttivo ogni possibile commento, si consiglia la lettura integrale del libro.

Cara Kitty,«un fastello di contraddizioni» è l’ultima frase della mia lettera precedente e la prima di quella di oggi. «Un fastel-

lo di contraddizioni», mi puoi spiegare con precisione cos’è? Che cosa significa contraddizione? Come tante altre pa-role ha due significati, contraddizione esteriore e contraddizione interiore. Il primo significato corrisponde al solito «non adattarsi all’opinione altrui, saperla più lunga degli altri, aver sempre l’ultima parola», insomma, a tutte quelle sgradevoli qualità per le quali io sono ben nota. Il secondo… per questo, no, non sono nota, è il mio segreto.Ti ho già più volte spiegato che la mia anima è, per così dire, divisa in due. Una delle due metà accoglie la mia esuberante allegria, la mia gioia di vivere, la mia tendenza a scherzare su tutto e a prendere tutto alla leggera […].

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D o c u m e n t i

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Questa metà è quasi sempre in agguato e scaccia l’altra, che è più bella, più pura e più profonda. La parte migliore di Anna non è conosciuta da nessuno, – vero? – e perciò sono così pochi quelli che mi possono sopportare. Certo, sono un pagliaccio abbastanza divertente per un pomeriggio, poi ognuno ne ha abbastanza di me per un mese […]. È brutto per me dovermi dir questo, ma perché non dovrei dirlo, quando so che è la verità? La mia parte leggera e superficiale si libererà sempre troppo presto della parte più profonda, e quindi prevarrà sempre. Non ti puoi imma-ginare quanto spesso ho cercato di spingere via quest’Anna, che è soltanto la metà dell’Anna completa, di prender-la a pugni, di nasconderla; non ci riesco, e so anche perché non ci riesco. Ho molta paura che tutti coloro che mi conoscono come sono sempre, debbano scoprire che ho anche un altro lato, un lato più bello e migliore. Ho paura che mi beffino, che mi trovino ridicola e sentimentale, che non mi prendano sul serio. Sono abituata a non essere presa sul serio, ma soltanto l’Anna “leggera” v’è abituata e lo può sopportare, l’Anna “più grave” è troppo debole e non ci resisterebbe. Quando riesco a mettere alla ribalta per un quarto d’ora Anna la buona, essa, non appena ha da parlare, si ritrae come una mimosa, lascia la parola all’Anna n. 1 e, prima che io me ne accorga, sparisce.La cara Anna non è dunque ancor mai comparsa in società, nemmeno una volta, ma in solitudine ha quasi sempre il primato. Io so precisamente come vorrei essere, come sono di dentro, ma ahimè, lo sono soltanto per me. E que-sta è forse, anzi, sicuramente la ragione per cui io chiamo me stessa un felice temperamento interiore e gli altri mi giudicano un felice temperamento esteriore. Di dentro la pura Anna mi indica la via, di fuori non sono che una capretta staccatasi dal gregge per troppa esuberanza. Come ho già detto, sento ogni cosa diversamente da come la esprimo […]. L’Anna allegra […] fa come se non le importasse di nulla, ma ahimè, l’Anna quieta reagisce in maniera esattamente contraria. Se ho da essere sincera, debbo confessarti che ciò mi spiace molto, che faccio sforzi enormi per diventare diversa, ma che ogni volta mi trovo a combattere contro un nemico più forte di me. Una voce sin-ghiozza entro di me: «Vedi a che sei ridotta: cattive opinioni, visi beffardi e costernati, gente che ti trova antipatica, e tutto perché non hai dato ascolto ai consigli della tua buona metà». Ahimè vorrei ben ascoltarla, ma non va; se sto tranquilla e seria, tutti pensano che è una nuova commedia, e allora bisogna pur che mi salvi con uno scherzet-to; per tacere della mia famiglia che subito pensa che io sia ammalata […]. Non lo sopporto; quando si occupano di me in questo modo, divento prima impertinente, poi triste e infine rovescio un’altra volta il mio cuore, volgendo in fuori il lato cattivo, in dentro il buono, e cerco un mezzo per diventare come vorrei essere e come potrei essere se… se non ci fossero altri uomini al mondo.

A. Frank, Diario, Mondadori, Milano 1963

Rudolf Hoss, Comandante ad AuschwitzIl brano è tratto dall’autobiografia di Rudolf Hoss, per due anni comandante del campo di Auschwitz. L’autore rientra a pieno titolo in quella schiera di “grigi” funzionari a cui può essere applicato il giudizio formulato da Hannah Arendt sulla «banalità del male». Secondo il giudizio di Primo Levi, infatti, il testo è «di una ottusità burocratica che sconvolge»: descrive in maniera quantitativa e priva di emozioni il meccanismo di funzionamento interno al lager.

Passammo a discutere le modalità per attuare il piano di sterminio. Il mezzo non poteva essere che il gas, perché sarebbe stato senz’altro impossibile eliminare le masse di individui in arrivo con le fucilazioni; e, oltre tutto,

sarebbe stata una fatica troppo pesante per i militi delle SS incaricati di eseguirle, data anche la presenza di donne e bambini. Eichmann mi parlò dell’uccisione con gas da scappamento su autocarri, che era il metodo usato fino allora in Orien-te. Ma era un metodo da scartare ad Auschwitz, dati i trasporti di massa previsti. L’uccisione mediante gas di ossido di carbonio filtrati attraverso le docce delle stanze da bagno (cioè il metodo con cui si sterminavano i malati di mente in alcuni istituti del Reich), richiedeva un numero eccessivo di edifici; inoltre, era assai problematica la pos-sibilità di procurarsi il gas in quantità sufficienti per masse così ingenti. Su questo punto, quindi, non fu possibile arrivare a una decisione. Eichmann promise che si sarebbe informato sull’esistenza di qualche gas di facile produ-zione e che non richiedesse installazioni particolari, e che mi avrebbe poi riferito in proposito.Andammo a ispezionare il terreno per stabilire il posto più indicato, e stabilimmo che era senz’altro la fattoria situa-ta nell’angolo nordoccidentale del futuro terzo settore di edifici, Birkenau. Era una località fuori mano, protetta contro sguardi indiscreti da boschi e siepi, e non troppo lontana dalla ferrovia. I cadaveri avrebbero potuto essere interrati in lunghe e profonde fosse nel prato contiguo. In quel momento non avevamo ancora pensato alla crema-zione. Calcolammo che negli stanzoni già esistenti, dopo averli resi a prova di gas, avremmo potuto uccidere contem-poraneamente 800 individui, servendoci di un gas appropriato. Queste cifre furono poi confermate dalla pratica […].

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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Non saprei dire in quale epoca cominciò lo sterminio degli ebrei; probabilmente già nel settembre del 1941, ma forse anche solo nel gennaio del 1942 […]. Sulla banchina, la polizia consegnava i prigionieri a un distaccamento del campo; divisi in due gruppi venivano quindi condotti dal comandante del campo fino al bunker, come era chia-mato l’edificio dello sterminio. I bagagli erano lasciati sulla banchina, e in seguito trasportati al reparto selezione […]. Giunti presso il bunker gli ebrei erano costretti a spogliarsi, essendo stato loro detto che dovevano entrare nelle stanze per la disinfestazione. Tutte le camere – cinque in tutto – venivano completamente riempite, le porte a prova di gas sbarrate e il contenuto dei recipienti di gas immesso nelle camere attraverso appositi fori.Dopo una mezz’ora le porte venivano riaperte – ogni stanza ne aveva due –, i morti estratti e, mediante vagoncini che correvano su rotaie, portati alle fosse. Gli autocarri provvedevano a trasportare i capi di vestiario al reparto se-lezione. L’intera serie di operazioni, cioè aiutare durante la vestizione, far riempire i bunker, svuotarli, trasportare i cadaveri, scavare e riempire di cadaveri le grandi fosse comuni, veniva compiuta da un reparto speciale di ebrei, alloggiati separatamente, e che, secondo una disposizione di Eichmann, dopo ognuna delle azioni più in grande dovevano essere sterminati a loro volta […].In occasione di una sua visita, nell’estate 1942, Himmler assistette all’intera operazione di sterminio, dal momento in cui gli ebrei venivano scaricati dal treno fino allo sgombero dei bunker […]. Non trovò critiche da muoverci ma non mostrò neppure di voler discutere.

R. Hoss, Comandante ad Auschwitz, Einaudi, Torino 1997

Primo Levi, Il viaggioPrimo Levi, come è noto, subì in prima persona l’esperienza del lager: le pagine introduttive di Se questo è un uomo (1945-1947) sono dedicate al viaggio dei prigionieri nel vagone piombato verso il campo.

Gli sportelli erano stati chiusi subito, ma il treno non si mosse che a sera. Avevamo appreso con sollievo la nostra destinazione. Auschwitz: un nome privo di significato, allora e per noi; ma doveva pur corrispondere a un luo-

go di questa terra. Il treno viaggiava lentamente, con lunghe soste snervanti. Dalla feritoia, vedemmo sfilare le alte rupi pallide della val d’Adige, gli ultimi nomi di città italiane. Passammo il Brennero alle dodici del secondo giorno, e tutti si alzarono in piedi, ma nessuno disse parola. Mi stava nel cuore il pensiero del ritorno, e crudelmente mi rappresentavo quale avrebbe potuto essere la inumana gioia di quell’altro passaggio, a portiere aperte, che nessuno avrebbe desiderato fuggire, e i primi nomi italiani... e mi guardai intorno e pensai quanti, fra quella povera polvere umana, sarebbero stati toccati dal destino. Fra le quarantacinque persone del mio vagone, quattro soltanto hanno rivisto le loro case; e fu di gran lunga il vagone più fortunato.Soffrivamo per la sete e il freddo: a tutte le fermate chiedevamo acqua a gran voce, o almeno un pugno di neve, ma raramente fummo uditi; i soldati della scorta allontanavano chi tentava di avvicinarsi al convoglio. Due giovani madri, col figlio ancora al seno, gemevano notte e giorno implorando acqua. Meno tormentose per tutti erano la fame, la fatica e l’insonnia, rese meno penose dalla tensione dei nervi: ma le notti erano incubi senza fine […].Dalla feritoia, nomi noti e ignoti di città austriache, Salisburgo, Vienna; poi ceche, infine polacche. Alla sera del quarto giorno, il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile. La neve era alta. Doveva essere una linea secondaria, le stazioni erano piccole e quasi deserte. Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai “dall’altra parte”. Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in una pianura buia e silenziosa.Si vedevano, da entrambi i lati del binario, file di lumi bianchi e rossi, a perdita d’occhio; ma nulla di quel rumorio confuso che denunzia di lontano i luoghi abitati. Alla luce misera dell’ultima candela, spento il ritmo delle rotaie, spento ogni suono umano, attendemmo che qualcosa avvenisse […]. Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare que-sti lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce.Una decina di SS stavano in disparte, l’aria indifferente, piantati a gambe larghe. A un certo momento, penetrarono fra di noi, e, con voce sommessa, con visi di pietra, presero a interrogarci rapidamente, uno per uno, in cattivo italiano. Non interrogavano tutti, solo qualcuno. «Quanti anni? Sano o malato?» e in base alla risposta ci indicava-

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no due diverse direzioni. Tutto era silenzioso come in un acquario. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero: «bagagli dopo»; qualche altro non voleva lasciare la moglie: dissero «dopo di nuovo insieme»; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero: «bene, bene, stare con figlio» […].In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire né allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Buna-Monowitz e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avverti-menti, né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri […]. Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.

P. Levi, Se questo è un uomo, Euroclub, Torino 1979

Horacio Verbitsky, I desaparecidosUn ex capitano della marina militare argentina rilascia una testimonianza al giornalista Horacio Verbitsky a proposito della fine dei desaparecidos argentini durante la dittatura militare dei generali.

Lei mi ha chiesto che succedeva sugli aerei. Una volta che l’aereo si allontanava da terra, il medico somministrava loro [ai prigionieri, n.d.r.] un calmante molto potente. Si addormentavano completamente […]. Una volta che

avevano perso i sensi venivano spogliati e, quando il comandante, a seconda di dove si trovava l’aereo, dava l’ordi-ne, si apriva lo sportello e venivano gettati di sotto nudi, a uno a uno. Questa è la storia. Macabra ma reale e che nessuno può smentire. Non riesco a dimenticare […]Come portavate le persone addormentate fino allo sportello?In due.Li trascinavate?Venivano sollevati fino alla porta […]Quante persone calcola furono assassinate in questo modo?Da quindici a venti ogni mercoledì.Per quanto tempo? Due anni.

H. Verbitsky, Il volo: le rivelazioni di un militare pentito sulla fine dei desaparecidos, Feltrinelli, Milano 1996

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La fi gura di Voltaire è caratterizzata da una singolare ambiguità: pur essendo il sostenitore della tolleranza e dell’universale fratellanza umana, il fi losofo francese manifesta in tutte le sue opere più famose un completo disprezzo per gli ebrei e per i neri, considerati senza ombra di dubbio inferiori ai bianchi.

Per lo storico, il paradosso o l’enigma che si incontrano in Voltaire sono costituiti dal fatto che egli resta nel ricordo

degli uomini il principale apostolo della tolleranza, a dispetto di uno spietato esclusivismo a cui non si saprebbe dare altra qualifica che quella di razzista, e di cui i suoi scritti sono una testimonianza altrettanto valida della sua vita. Per quanto con-cerne gli uomini di colore, egli stesso rivelava, fin dal suo primo attacco, una delle chiavi della sua passione. Checché ne dica «un uomo vestito di un lungo e nero abito talare [un prete = la tradizione religiosa cristiana, n.d.r.], scriveva nel suo Traité de métaphysique (1734), i bianchi con la barba, i negri dai capel-li crespi, gli asiatici dal codino, e gli uomini senza barba, non discendono dallo stesso uomo». L’antico discepolo dei gesuiti [Voltaire, n.d.r.] si rivoltava dunque contro gli insegnamenti ricevuti; ma si adeguava alle opinioni comuni situando i Negri nel gradino più basso della scala: i Bianchi erano «superiori a questi negri, come i Negri alle scimmie, e le scimmie alle ostri-che», scriveva un po’ più avanti. Vent’anni più tardi, Voltaire sviluppava la sua visione antropologica nel celebre Essai sur le moeurs et l’esprit des nations [Saggio sui costumi e sullo spiri-to delle nazioni, n.d.r.]. Dopo aver stabilito che «è permesso soltanto a un cieco di dubitare che i Bianchi, i Negri e gli Albini [termine usato nel Settecento per indicare i popoli africani di pelle chiara, n.d.r.] sono razze completamente diverse », bol-lava con l’epiteto di animali soprattutto i Negri; poi, riferendosi agli antichi autori, parlava delle «specie mostruose che sono

potute nascere da questi abominevoli amori», intendendo con questo gli accoppiamenti tra scimmie e donne negre. Più avan-ti, l’esistenza del Nuovo Mondo gli forniva altre argomentazioni a favore del poligenismo, ed il poligenismo a sua volta gli per-metteva di avanzare delle giustificazioni «naturali» allo schia-vismo. […] Se nessun uomo ha portato un contributo valido co-me quello di Voltaire per demolire gli idoli e i pregiudizi del passato, nessuno come lui ha però tanto diffuso e ampliato le aberrazioni della nuova età della scienza. […]David Hume pubblicava nel 1742 un saggio sui «caratteri na-zionali», in cui affermava, en passant [senza soffermarsi sul tema, n.d.r.], che «tutti i popoli che vivono al di là del circolo polare o fra i tropici sono inferiori al resto della specie». Nel 1754, in occasione dell’undicesima edizione, Hume aggiunge-va una nota in cui parlava specificamente dei Negri: «Sono portato a sospettare che i Negri, e in generale tutte le altre specie umane (perché ve ne sono quattro o cinque diversi ge-neri) sono per natura inferiori ai Bianchi. Non è mai esistita una nazione civilizzata, con una costituzione, che non fosse bianca, né vi è mai stato anche un solo individuo ragguardevole nel campo dell’azione o della speculazione. Né le industrie, né le arti, né le scienze si sono mai sviluppate presso i Negri. D’altra parte, i Bianchi più rozzi e barbari, come gli antichi Germani o gli attuali Tartari, presentano ancora qualche lato considere-vole per valore, per forma di governo, o per qualche altra par-ticolarità. Una differenziazione così costante ed uniforme, dira-mandosi su tanti paesi e su tanti secoli, non sarebbe potuta esistere, se la natura non avesse operato una distinzione, in origine, fra queste razze umane. Senza parlare delle nostre colonie, esistono degli schiavi negri dispersi attraverso tutta l’Europa, e mai si sono scoperti in loro dei sintomi di ingegno-sità; mentre persone di bassa estrazione sociale e prive di edu-cazione arrivano ad emergere da noi in tutte le professioni.

L. Poliakov, Il mito ariano, Rizzoli, Milano 1976

Lion Poliakov, Illuminismo e genesi della mentalità razzista

S T O R I O G R A F I A

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L’intellettuale nero Frederick Douglass fu invitato, il 4 luglio 1853, a commemorare l’anniversario della Dichiarazione di indipendenza. Dapprima, Douglass rifi utò sdegnosamente. Poi, il 5 luglio, pronunciò un lungo discorso sul tema della schiavitù, la cui presenza in America rendeva fasulle tutte le solenni affermazioni del testo del 1776.

Concittadini, scusatemi, permettetemi di chiedere: perché sono chiamato a parlare qui oggi [il giorno dell’anniver-

sario della Dichiarazione d’indipendenza, n.d.r.]? Che cosa

ho a che fare io, o coloro che io rappresento, con la vostra indipendenza nazionale? Quei grandi princìpi di libertà poli-tica e di giustizia naturale, incarnati in quella Dichiarazione d’Indipendenza, sono forse estesi anche a noi? E sono io, per-tanto, chiamato a portare la nostra umile offerta all’altare nazionale, e a dichiararne i benefici e ad esprimere sincera gratitudine per la benedizione che noi otteniamo dalla vostra indipendenza? Volesse Dio, sia per il vostro bene che per il nostro, che a queste domande potesse essere data in tutta sincerità una risposta affermativa! Allora il mio compito sa-rebbe facile, e il mio fardello leggero e gradevole. […] Ma non è così che stanno le cose. Lo dico con un triste senso di disparità fra noi. Io non sono incluso nel confine di questo

Frederick Douglass, Libertà dei bianchi, schiavitù dei neri7

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S t o r i o g r a f i a

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Alla fi ne dell’Ottocento, in Russia, le autorità e la polizia segreta cercarono di sfruttare il tradizionale sentimento di ostilità anti-giudaica: indirizzando l’aggressività verso gli ebrei, si voleva impedire che la rabbia e il rancore generati dall’assolutismo e dalla miseria assumessero come bersagli lo zar e l’aristocrazia.

Durante la Settimana Santa del 1881, una settimana tradi-zionalmente propizia agli eccessi antiebraici, scoppiava a

Elizavetgrad (oggi Kirovgrad) un pogrom [massacro di ebrei,

n.d.r.], seguito da altri, più gravi, a Kiev e Odessa e in decine di piccole o medie località. Così descriveva il loro svolgimen-to piuttosto stereotipo [ripetitivo, n.d.r.] Anatole Leroy-Beau lieu, il maggior esperto francese di cose russe: «I moti antisemitici avevano luogo in un giorno fisso, quasi dovunque con la stessa procedura, per non dire secondo lo stesso pro-gramma. Cominciavano con l’arrivo di bande di agitatori tra-sportati per ferrovia. Spesso, dalla vigilia, erano stati affissi manifesti che accusavano gli Ebrei di essere i responsabili del nihilismo [movimento terroristico attivo in Russia alla fine dell’Ottocento, n.d.r.] e gli assassini dello zar Alessandro II [ucciso con una bomba da un russo, non da un ebreo, il 1° mar-zo 1881, n.d.r.]. Per sollevare le masse i sobillatori leggevano

Lion Poliakov, L’antisemitismo come strumento di dominio in Russia8

glorioso anniversario! La vostra alta indipendenza rivela solo l’incommensurabile distanza fra di noi. Le benedizioni di cui voi oggi gioite non sono godute da tutti. La ricca eredità di giustizia, libertà, prosperità e indipendenza, trasmessa dai vostri padri, è condivisa da voi, non da me. La luce del sole che a voi ha portato vita e guarigione, a me ha portato frusta-te e morte. Questo quattro di luglio è vostro, non mio. Voi potete gioire, io devo portare il lutto. […]Concittadini, al di sopra della vostra tumultuosa gioia nazio-nale, io sento il gemito luttuoso di milioni di uomini! Le cui catene, pesanti e gravose ieri, sono oggi rese ancor più intol-lerabili dalle grida giubilanti che li raggiungono. Se io dimen-tico, se oggi non ricordo con lealtà quei sanguinanti figli del dolore, «mi si paralizzi la mano destra, e mi si attacchi la lingua al palato!» [citazione di Sal. 137, n.d.r.]. Dimenticar-mi di loro, sorvolare allegramente sui torti che patiscono e unirmi al coro sarebbe un tradimento scandaloso e sconvol-gente, e mi renderebbe biasimevole di fronte a Dio e al mon-do. Pertanto il mio argomento, concittadini, è la schiavitù americana. Tratterò di questo giorno, e delle sue caratteristi-che, dal punto di vista dello schiavo. Da questa posizione, identificato con lo schiavo americano, prendendo su di me i torti da lui subiti, non esito a dichiarare, con tutta l’anima, che il carattere e la condotta di questa nazione non mi è mai parsa tanto nera come in questo quattro di luglio. […]Americani! La vostra politica repubblicana, non meno della vo-stra religione repubblicana, sono scandalosamente incoerenti. Vi vantate del vostro amore per la libertà, della vostra civiltà superiore, e del vostro cristianesimo puro, mentre l’intera forza politica della nazione (così come incarnata nei due grandi par-titi politici) è solennemente impegnata ad appoggiare e perpe-tuare la schiavizzazione di tre milioni di vostri compatrioti. Lanciate i vostri anatemi [condanne, n.d.r.] contro le teste co-ronate dei tiranni di Russia e Austria, e vi gloriate delle vostre istituzioni democratiche, mentre voi stessi acconsentite ad es-sere strumenti e guardie del corpo dei tiranni della Virginia e della Carolina. Invitate nel vostro paese chi è fuggito dall’op-pressione all’estero, li onorate con banchetti, li salutate con ovazioni, li applaudite, brindate in loro onore, li omaggiate, li proteggete e versate loro il vostro denaro come acqua; ma i

fuggiaschi della vostra terra [gli schiavi fuggiti dai loro padro-ni, n.d.r.] li denunciate pubblicamente, a loro date la caccia, li arrestate, sparate e li uccidete. Vi gloriate della vostra raffina-tezza e della vostra cultura universale; eppure mantenete un sistema così barbaro e spaventoso come mai ha macchiato il carattere di una nazione – un sistema cominciato nell’avidità, cresciuto nell’orgoglio e perpetuato nella crudeltà. […]Dichiarate di fronte al mondo [nella Dichiarazione d’indipen-denza del 4 luglio 1776, n.d.r.], e al mondo risulta che di-chiarate, che «le seguenti verità sono di per sé evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali; che essi sono stati dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili; e che, fra questi, sono la vita, la libertà e la ricerca della felicità»; tut-tavia, mantenete la settima parte degli abitanti del vostro paese stretta in una servitù che, secondo le parole del vostro stesso Thomas Jefferson, «è peggio di secoli di quella contro cui i vostri padri si ribellarono». Concittadini! Non mi dilun-gherò oltre sulle vostre incoerenze nazionali. L’esistenza della schiavitù in questo paese taccia il vostro repubblicane-simo di frode, la vostra umanità di vile apparenza, e il vostro cristianesimo di menzogna. Distrugge la vostra forza morale all’estero; corrompe i vostri politici in patria. Mina le fonda-menta della religione; rende il vostro nome uno zimbello su tutte le bocche in un mondo beffardo. È la forza contraria nel vostro governo, l’unica cosa che disturba seriamente e mette in pericolo la vostra Unione. Incatena il vostro progresso; è il nemico del miglioramento, l’avversario mortale della cultu-ra; alleva l’orgoglio; genera l’arroganza; promuove il vizio; protegge il crimine; è una maledizione per la terra che la mantiene; eppure, restate ad essa aggrappati, come se fosse l’ancora estrema di tutte le vostre speranze.Oh! State attenti! State attenti! Un rettile orrendo è attorci-gliato nel petto della vostra nazione e la velenosa creatura si nutre al tenero seno della vostra giovane repubblica; per l’amore di Dio, strappatela via, scagliate lontano da voi quel mostro odioso, finché il peso di venti milioni di esseri umani lo schianti e lo distrugga per sempre!

F. Douglass, L’indipendenza e la schiavitù, Manifestolibri, Roma 1995

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per le vie o nei locali pubblici giornali antisemiti, presentando-ne gli articoli come degli ukase [decreti emanati dallo zar, n.d.r.] che davano l’ordine di picchiare e saccheggiare gli Ebrei. Si preoccupavano di aggiungere che se gli ukase non erano sta-ti resi pubblici la colpa era delle autorità, che erano state com-prate da Israele... E infatti si sparse dovunque la voce che un ordine dello zar dava tre giorni di tempo per saccheggiare gli Ebrei. In molte località l’incuria della polizia e l’indifferenza dell’amministrazione, talvolta anche la passività delle truppe che, armi in braccio, contemplavano il sacco del quartiere isra-elita, confermavano questa leggenda. Più di una volta gli Ebrei che tentarono di difendersi vennero arrestati e disarmati: quel-li che osarono montar la guardia davanti alla porta di casa, pi-stola alla mano, furono processati».Questa descrizione non dà sufficiente rilievo all’assoluta buo-na fede della maggior parte dei pogromisti [gli autori di un pogrom, n.d.r.], che, sicuri e felici, credevano di adempiere un dovere: «lo vuole lo zar». [...] Ma chi erano i misteriosi «agita-tori» o «sobillatori» venuti dalle grandi città, chi li aveva istrui ti, come mai le autorità militari e civili lasciavano fare? [...] Per Alessandro III e per i suoi nuovi ministri, superati gli iniziali timori, gli Ebrei divennero un comodo capro espiatorio legittimato proprio dall’infierire della popolazione cristiana. Queste condizioni consentirono all’antisemitismo, per la prima volta nella storia moderna, di diventare a partire dal 1881 uno strumento di governo. [...] Nel 1903 Kisinev, capoluogo della Bessarabia e città composta nel 45% da Ebrei, sembrava vi-vesse ancora lontana dai disordini politici, ma il proprietario dell’unico quotidiano locale, Paul Krusevan, continuava, attra-verso le pagine del suo giornale e di quello che pubblicava a Pietroburgo, a stimolare i sentimenti antisemitici. [...] Con l’av-vicinarsi della Pasqua furono distribuiti nelle cantine [osterie, n.d.r.] di Kisinev appelli alla vendetta firmati da un «Partito dei veri lavoratori cristiani». Vi si accusavano gli Ebrei, assassini del Signore, di succhiare il sangue cristiano e di sobillare la popolazione contro «nostro padre lo zar, che ben conosce l’ignobile, malvagia e avida razza dei Jid [Giudei, in senso di-spregiativo, n.d.r.] e si rifiuta di affrancarli»:«Così, fratelli, nel nome del nostro Salvatore che ha versato il suo sangue per noi, e nel nome del nostro amatissimo zar pieno di attenzioni per il suo popolo, gridiamo, nel giorno della nostra festa più importante: “Abbasso i Jid!”, addosso

a questi aborti infami, a queste sanguisughe avide di sangue rosso! Ricordiamoci del pogrom di Odessa, dove le truppe aiutarono il popolo; lo faranno ancora, poiché il nostro eser-cito, profondamente cristiano, non è ancora ebraizzato. Veni-te in nostro aiuto, lanciatevi sugli sporchi Jid, siamo già nu-merosi. Fate leggere questo appello ai vostri clienti o altri-menti distruggeremo la vostra taverna. Verremo a saperlo, i nostri frequentano il vostro locale».Alla vigilia della festa, in città, si sapeva con certezza che qualcosa di grosso stava per accadere, ma le autorità civili e militari ostentavano una passività evidentemente concorda-ta. Quando la domenica di Pasqua (6 aprile) ebbe inizio il pogrom, le feste e le visite di protocollo seguirono il loro cor-so, il governatore rimase a casa sua, il capo della polizia tra-scorse il pomeriggio dal vescovo, l’orchestra militare conti-nuò a suonare in piazza, mentre tutt’intorno la folla assaliva gli Ebrei e cominciava ad incendiare le loro case. [...]Sembra che le autorità di Kisinev non avessero previsto le di-mensioni assunte in poche ore dal pogrom. Il primo giorno si ebbero due morti, ma il secondo giorno, quando l’atteggiamen-to passivo assunto dalle autorità ebbe convinto la popolazione che tale era «il volere dello zar» ve ne furono quarantasette (fra cui due cristiani). La commissione giudiziaria incaricata di fare un bilancio del pogrom constatava: «Ovunque nelle strade sono sparsi frantumi di mobili, di vetri, di samovar e di lampa-dari contorti, resti di biancheria, di abiti, di materassi e di piu-mini sventrati; le strade, così come gli alberi, appaiono come coperte di neve, tutte ricoperte della lanuggine » (14 aprile).Ma ancor meno le autorità russe avevano previsto la vastità dello scandalo. La stampa rispettabile dell’Europa e dell’Ame-rica espresse la sua indignazione e condannò la barbarie russa; certamente ad impegnarsi più di tutti furono i giornalisti ebrei o filo-ebrei, ma non furono certo i soli a gridare al massacro. [...] I giornali di tutto il mondo si impegnarono in una violenta protesta contro «i crimini commessi da alcuni uomini russi», firmata da 317 scrittori e artisti, fra cui Lev Tolstoj. Le cose dunque si mettevano male per la reputazione della Russia, mentre il termine pogrom si diffondeva in tutte le lingue.

L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo. IV. L’ Europa suicida, 1870-1933,

La Nuova Italia, Firenze 1990

I gruppi del movimento giovanile assunsero posizioni diverse, uno dall’altro, su due questioni importanti. La prima riguardò l’ammissione delle ragazze, la seconda la partecipazione di soggetti ebrei. I gruppi più conservatori scelsero di restare comunità esclusivamente maschili, formate da elementi razzialmente omogenei. È chiaro che, in questi casi, il passaggio e l’adesione al nazismo diventeranno praticamente automatici.

Nel 1913, avvenne che a una ragazza israelita fosse negata l’iscrizione all’organizzazione femminile dei Wandervö-

gel, e ciò portò alla ribalta il problema ebraico, anche se l’incidente non era il primo del genere. Semplicemente, esso servì da catalizzatore: coronando una lunga serie di episodi similari, fu la goccia che fece traboccare il vaso, rendendo improrogabile la discussione del problema. Ormai, le orga-nizzazioni dei Wandervögel si trovavano nella necessità di definire il proprio atteggiamento nei confronti degli ebrei. E, nel corso dei dibattiti, a livello locale e nazionale, che ebbero luogo negli anni successivi, quattro furono le posizioni fonda-

George L. Mosse, Il movimento giovanile e gli ebrei9

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mentali che emersero: v’era chi si mostrava favorevole ad accogliere in seno al Movimento gli israeliti assimilati; un’al-tra fazione, assai chiassosa e sempre più popolare dopo il 1918, che aveva l’appoggio dei Wandervögel austriaci, soste-neva l’inferiorità razziale degli ebrei, che quindi andavano trattati alla stregua di paria; un terzo punto di vista, fatto proprio da molti leaders del movimento era quello dei pro-pensi a scorgere, negli ebrei, un Volk [popolo, n.d.r.] autono-mo e separato, ma non meno meritevole di quello tedesco; una quarta tendenza infine, che raccoglieva un numero note-volmente minore di adesioni, era quello di chi voleva conce-dere agli ebrei gli stessi diritti nelle file del Movimento. Ma, indipendentemente dalla decisione conclusiva, il dibattito sul problema ebraico ebbe a tutti i livelli il merito di rafforzare il senso di appartenenza al Volk dei Wandervögel.Quelli di loro che erano disposti ad accogliere tra le proprie file l’ebreo assimilato, vedevano comunque negli israeliti un gruppo etnico culturalmente e razzialmente diverso dai tede-schi, pur ammettendo che, in casi eccezionali, qualcuno dei membri di tale ethos potesse mutare le proprie caratteristi-che. Lo scrittore Walter Gron era di questo parere e affermava che quegli ebrei la cui famiglia risiedesse da molte genera-zioni in Germania, potevano essere senz’altro accolti tra i Wandervögel a patto, beninteso, che nel loro aspetto fisico e nel loro animo non vi fosse più traccia alcuna di giudaismo. L’importanza data all’aspetto fisico rivela quanto peso aves-sero i criteri di valutazione antico-germanici, e dimostra quanto lontani si fosse dall’idea liberale di una simbiosi te-desco-ebraica. Da questo punto di vista può ben dirsi che an-che il Movimento giovanile si adeguasse a quel processo di isolamento dell’ebreo come tale, che aveva luogo in tutta la

Germania: restava aperto soltanto un minuscolo pertugio, passando per il quale gli ebrei che si fossero acclimatati e trasformati, che avessero capito il carattere della Germania e della sua natura, che ne avessero assimilato le tradizioni e il paesaggio, potevano entrare nelle fila dei Wandervögel e partecipare alla rivolta della gioventù tedesca.Tuttavia, questa concessione fatta all’ebreo germanizzato era di notevole momento [importanza, n.d.r.], in quanto di-mostrava come l’ideologia nazional-patriottica potesse sus-sistere senza quella componente razzista che automatica-mente sbarrava agli ebrei l’accesso alla organizzazione gio-vanile nazionale. Insieme a parecchie sezioni e raggruppa-menti di Wandervögel, i Neue Pfadfinder (Nuovi Esploratori), associazione giovanile nazional-patriottica istituita nel 1920, optarono per l’ammissione degli ebrei tra le proprie file, e le sezioni della Germania meridionale procedettero senz’altro in conformità.Le cose, però, non erano così semplici: come osservava un periodico ebraico, favorevole all’assimilazione, l’accettazio-ne degli israeliti in base al loro grado di germanizzazione, riguardava «soltanto quegli ebrei... che sono più nordici de-gli ariani nordici, e di cui però ci si continua a far beffe dietro le spalle». E, poiché anche i Neue Pfadfinder avevano fatto proprio il culto della bellezza nordica, era difficile che ebrei, i quali avessero un aspetto ebraico, fossero accolti nell’orga-nizzazione, ciò che dimostra come l’ideologia ponesse precisi limiti alla tolleranza anche in seno a quei raggruppamenti che rifiutavano la totale esclusione degli ebrei.

G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, Il Saggiatore, Milano 1968

Prendendo in considerazione i punti principali del Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane (1853) di Arthur de Gobineau, la genesi del pensiero razziale viene individuata nella presa di coscienza «della fi ne irreversibile delle società tradizionali».

Possiamo individuare come data di origine del razzismo mo-derno il 1853: l’anno in cui il conte Arthur de Gobineau

dava alle stampe il suo Saggio sull’ineguaglianza delle razze umane. In esso, il tema centrale era l’interrogazione sulle ra-gioni della decadenza dei popoli [...] che [...] veniva attribuita alla perdita della «purezza della razza», identificata con una condizione originaria, primordiale, di perfezione. Secondo Go-bineau, infatti l’umanità sarebbe stata ripartita, ex origine, in tre ceppi razziali fondamentali – il tipo nero, il tipo giallo e il tipo bianco e “ario” – dotati ognuno di caratteri identificanti particolari, e distribuiti lungo una gerarchia di valori. Al livel-lo più basso la razza nera, la più vicina alla naturalità selvag-gia, incapace di esercitare un qualche controllo intellettuale sulle potenti energie che alimentano un desiderio incontenibi-

le. In posizione intermedia la razza gialla, caratterizzata da desideri deboli, tendenza alla mediocrità e al conformismo, amore per l’utile e rispetto spinto all’estremo delle regole. Al vertice, infine, la razza bianca [...] caratterizzata dal dominio dell’intelligenza sulle passioni, dal gusto della lotta e della conquista, dal sentimento della propria libertà e dal culto dell’“onore”. «La razza bianca possedeva originariamente il monopolio della bellezza, dell’intelligenza e della forza, – scrive, – mentre dalla sua unione con altre varietà sorsero dei meticci belli senza essere forti, forti senza essere intelligenti e altresì né intelligenti né forti». È appunto questo il nodo cruciale del razzismo di Gobineau: l’orrore del meticciato. L’ossessione della commistione del sangue, della rottura dei confini tra unità razziali diverse, che finisce per scombinare l’ordine spontaneo nascente dalla differenziazione, per an-nientare i valori della purezza, e per determinare la decaden-za dei popoli e delle civiltà. Si decade perché si mescolano le razze. Quello che si afferma qui non è tanto – o comunque non è solo – l’inferiorità naturale di alcune razze rispetto alle al-tre; ma è l’imperativo della separazione razziale. È il tabù della mescolanza dei tipi puri, che funziona, per certi versi, come metafora bio-morfica di quel processo di eguagliamento

Marco Revelli, L’origine del razzismo moderno10

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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sociale, di mescolanza dei ceti e della caste, che la rivoluzio-ne francese aveva messo in moto [...].Il razzismo nasce nel momento in cui si prende coscienza del-la fine irreversibile delle società tradizionali. In cui il para-digma della modernità assume forma storico-sociale.È significativo che questo mito della purezza del sangue na-sca nel momento in cui i popoli incominciano a “muoversi”; in cui la società tradizionale si scongela, e la rivoluzione indu-striale sfida le antiche stabilità territoriali; sradica gli uomini

dalla terra d’origine, rende fluida la società estendendo oltre i confini della sopravvivenza comunitaria gli ambiti del mer-cato, trasformandolo in un immenso spazio astratto all’inter-no del quale gli uomini, come le merci, si muovono in modo indifferenziato, mentre si fanno incerti i vecchi confini natura-li, e si disgregano le consolidate identità.

M. Revelli, Il razzismo lato oscuro dell’identità moderna, intervento al convegno di Mondovì (CN), 25 aprile 1993

Quando la Serbia, nell’autunno del 1912, riuscì a impadronirsi del Kosovo, i kosovari albanesi furono considerati come degli intrusi e dei ladri, degli usurpatori che si erano impadroniti della terra altrui, grazie al sostegno di una potenza straniera non cristiana. Ne nacque una feroce pulizia etnica, anticipatrice dei numerosi stermini che avrebbero segnato il Novecento.

Un giornalista che seguì la guerra, il corrispondente da Vienna del giornale ucraino “Kievskaia Mysl”, Lev Bron-

shtein (più noto nella storia con il nome di Lev Trotzkij), rimase impressionato dalle prove di atrocità da parte delle forze serbe e bulgare. Un ufficiale serbo gli disse che le peggiori furono commesse non dall’esercito regolare ma dai cetnici [guerri-glieri, partigiani, n.d.r.] paramilitari: «Tra di loro vi erano in-tellettuali, uomini di pensiero, fanatici nazionalisti, ma si trat-tava di individui isolati. Per il resto erano solo delinquenti, la-dri, che si erano uniti all’esercito per far bottino». Ma altre prove persuasero Trotzkij che l’uccisione degli albanesi e la distruzione dei loro villaggi fosse il risultato di qualcosa di più dell’iniziativa di qualcuno: concluse che «i serbi della Vecchia Serbia», nel loro sforzo nazionale di correggere i dati delle statistiche etnografiche a loro nonmolto favorevoli, sono impe-gnati molto semplicemente nello sterminio sistematico della popolazione musulmana [i kosovari albanesi, n.d.r. ]. [...]A gran parte dei giornalisti stranieri fu proibito di entrare in Kosovo, ma alcune notizie filtrarono: un giornalista danese a Skopje riferì che 5000 albanesi erano stati uccisi a Pristina dopo la cattura della città, e scrisse che la campagna serba aveva «assunto il carattere di un orrendo massacro della po-polazione albanese». Alcune informazioni raggiunsero il mondo esterno attraverso la Chiesa cattolica: fu da un prete cattolico locale che il “Daily Telegraph” apprese di un massa-cro a Ferizaj, dove il comandante serbo aveva invitato gli al-banesi a ritornare alle loro case in pace: quelli che lo fecero (300- 400) furono poi portati fuori e fucilati. Il resoconto più complesso e agghiacciante fu quello di Lazer Mjeda, arcive-scovo cattolico di Skopie, in una relazione a Roma del 24 gen-naio 1913. Scrisse che a Ferizaj solo tre albanesi musulmani di età superiore ai 15 anni erano stati lasciati in vita; la popola-zione albanese di Gjilan era stata anch’essa massacrata, no-

nostante la città si fosse arresa senza combattere e Giacova era stata completamente saccheggiata. Ma il caso peggiore fu Prizren, che, come Gjilan, si era arresa pacificamente:«La città sembra il regno della morte. Picchiano alle porte delle case albanesi, portano via gli uomini e sparano loro im-mediatamente. In pochi giorni il numero degli uomini uccisi ha raggiunto 400. Per quanto riguarda le devastazioni, i sac-cheggi e gli stupri, non occorre parlarne; d’ora innanzi l’ordi-ne del giorno è: qualunque cosa è permessa contro gli alba-nesi – non solo permessa, ma voluta e ordinata. E nonostante tutti questi orrori, il comandante militare, Bozo Jankovic, ha obbligato i notabili della città, con la pistola in pugno, a spe-dire un telegramma di ringraziamento al re Pietro!»Nel complesso, l’arcivescovo calcolò che il numero totale di albanesi uccisi in Kosovo a questo punto fosse già di 25 000. Questo dato concordava con altri rapporti apparsi sulla stam-pa europea, che avevano fornito una stima di 20 000 ai primi di dicembre. Nel 1914, una commissione internazionale d’in-chiesta istituita dal Carnegie Endowment [organizzazione mondiale per la promozione della pace, n.d.r.] pubblicò i propri risultati. Non azzardò una valutazione per quanto ri-guardava il numero totale di albanesi uccisi, ma concluse che era stato attuato qualcosa di simile a una politica sistemati-ca: «Case e interi villaggi ridotti in cenere, popolazioni disar-mate e innocenti massacrate... questi furono i mezzi che ven-nero e sono tuttora utilizzati dai soldati serbo-montenegrini, con l’intenzione di trasformare del tutto il carattere etnico delle regioni abitate esclusivamente da albanesi».Una speciale caratteristica della politica serba e montenegri-na fu la conversione forzata dei musulmani e cattolici all’orto-dossia. Essa fu applicata con particolare vigore dai montene-grini, che controllavano la regione di Pec; nel maggio 1913, il console austriaco a Prizren riferì che 2000 famiglie musulma-ne nella città di Pec erano state convertite e che quelli che ri-fiutavano venivano torturati o uccisi. [...] Il motivo immediato di tutte queste misure era, come lo si rico-nobbe chiaramente in alcuni resoconti citati prima, quello di cambiare le statistiche della popolazione e quindi di rafforza-re la posizione diplomatica dei governi serbo e montenegrino per vedersi riconosciuto il diritto di incorporare queste terre conquistate.

N. Malcolm, Storia del Kosovo. Dalle origini ai giorni nostri, Bompiani, Milano 1999

Noel Malcolm, Le violenze contro i kosovari albanesi nel 191211

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S t o r i o g r a f i a

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Le pratiche ordinarie di espulsione forzata subite alla vigilia della prima guerra mondiale dalle popolazioni russe a ridosso del confi ne con gli imperi centrali e, soprattutto, la deportazione di massa subita dal popolo armeno a opera dei turchi costituiscono una vera e propria anticipazione degli stermini di massa caratteristici degli anni Quaranta.

La realtà della guerra favoriva […] il prevalere di politiche autoritarie e repressive […] nel campo della gestione della

popolazione, e soprattutto delle minoranze. La loro esecuzio-ne in un clima di crescente violenza e brutalizzazione portò anzi presto […] ad un salto di qualità di pratiche che, come sappiamo, non erano sconosciute all’Europa del XIX secolo e non solo ad essa. Le prime avvisaglie di quel che poteva ac-cadere si ebbero nell’impero russo, che allo scoppio della guerra varò politiche di discriminazione e trasferimento for-zato di popolazioni tese a ripulire le regioni a ridosso del fronte dagli elementi infidi, definiti tali soprattutto, anche se non esclusivamente, in base a criteri etnici, da cui erano de-rivati la fedeltà di questa o quella nazionalità o il pericolo da essa rappresentato. Tali pratiche, che colpirono prima centi-naia di migliaia di cittadini tedeschi ed ebrei dell’impero […] non erano però esclusive dell’impero russo: si trattava anzi in realtà di misure standard. Già prima del conflitto era stato infatti normale per gli stati maggiori degli eserciti imperiali […] compilare classifiche di attendibilità delle reclute e delle popolazioni loro soggette, che venivano poi sottoposte ad un trattamento in accordo con la loro posizione in questa classi-fica. Allo scoppio della guerra, misure “profilattiche” deriva-te dagli stessi criteri vennero applicate con maggiore o mino-re brutalità, ordine o ferocia, a seconda del grado di civiltà e umanità degli uomini e dei governi che ne emanavano le di-sposizioni, e delle autorità e dei reparti chiamati ad applicar-

le ed eseguirle, nonché della situazione e delle condizioni prevalenti in questa o quella regione […].Nell’impero ottomano […], tali consigli si innestavano su una lunga catena di umiliazioni e su tradizioni pogromistiche di grande ferocia, ed erano ascoltati da un gruppo di nazionali-sti decisi a risolvere, «una volta per tutte», un’espressione poi tipica del XX secolo europeo, il problema delle minoranze cristiane, e in particolare quella armena. Dopo la sconfitta di Sakiramis, nel gennaio 1915, i vertici del comitato segreto dei Giovani turchi presero così la decisione di trasferire l’intera popolazione armena nelle retrovie, e specialmente quella dell’Anatolia, nel deserto siriano. La deportazione, avviata in primavera e proseguita nell’anno successivo, provocò centi-naia di migliaia di vittime, morte di stenti o cadute per mano delle bande curde o dei contingenti speciali di criminali cui gli armeni venivano dati in pasto (ma anche le truppe regola-ri furono coinvolte nel massacro). Le fonti turche, negando ogni intento genocida […], fissano il numero delle vittime a 200 000. Quelle armene parlano invece di più di un milione di morti, e sottolineano la volontà genocida del governo turco ed il coinvolgimento di almeno alcuni alti ufficiali tedeschi nell’operazione […]. Studi recenti stimano le vittime in 600 000-800 000 e prestano fede al ruolo cruciale giocato da alcuni dei più alti dirigenti dei Giovani turchi […], che vo-levano “risolvere” la questione orientale attraverso lo ster-minio degli armeni e usarono la loro deportazione come co-pertura per portare avanti l’operazione.Simili livelli di brutalità e di violenza, così come quelli della guerra civile nell’ex impero zarista, ma anche i massacri gior-nalieri “regolari” sui vari fronti […] e le operazioni dei “ripu-litori di trincee” […], fecero davvero della prima guerra mon-diale l’anticamera, o meglio il principio degli errori della se-conda.

A. Graziosi, Guerra e rivoluzione in Europa 1905-1956, il Mulino, Bologna 2001

A. Graziosi, Gli inizi della deportazione e della “pulizia etnica”12

Lo sterminio degli ebrei fu attuato da uno Stato moderno, che pose tutte le proprie risorse al servizio del processo di distruzione di un intero popolo. Nell’insieme, l’operazione si rivelò controproducente, dal punto di vista economico, anche se, a ogni stadio, si cercò di trarre vantaggi dalle violenze che si compivano a danno del gruppo perseguitato.

Un processo di distruzione possiede una struttura intrinse-ca. Un gruppo da solo non può essere distrutto che in un

solo modo. L’operazione comporta tre fasi organiche:

Definizione

Concentrazione (o arresto)

Annientamento

Tale è la struttura invariabile del processo di base, nessun gruppo poteva essere ucciso senza che le vittime fossero con-centrate o arrestate, e nessuna vittima avrebbe potuto essere oggetto di una segregazione se l’agente del processo non aves-se saputo prima che apparteneva al gruppo. Esistono delle tappe supplementari in un’azione moderna di distruzione. Que-ste misure sono necessarie non per l’annientamento della vitti-ma, ma per preservare l’economia. Fondamentalmente, sono

Raul Hilberg, Le fasi del processo di distruzione degli ebrei13

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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tutte espropriazioni. Nella distruzione degli Ebrei, i decreti di espropriazione furono promulgati dopo ogni fase organica. I licenziamenti e le arianizzazioni venivano dopo la definizione (del termine Ebreo); le misure di sfruttamento e di restrizioni alimentari seguivano la concentrazione; infine, la confisca dei beni personali era corollario dell’operazione di distruzione. Nella sua forma completa, un processo di distruzione, in una società moderna, presenterà dunque la seguente struttura:

Definizione

Licenziamento dei lavoratori ed espropriazione delleimprese commerciali

Sfruttamento della manodopera e provvedimenti di negazio-ne

del cibo

Annientamento

Confisca degli effetti personali

La sequenza delle tappe del processo di distruzione si trova così definita. Se si cerca di infliggere il massimo delle soffe-renze a un gruppo di individui, è dunque inevitabile che una burocrazia – anche se il suo meccanismo è decentralizzato o le sue attività non sono pianificate – deve far passare le sue vittime attraverso queste differenti tappe. [...]La distruzione degli Ebrei non risultò un’operazione economi-camente vantaggiosa. Mise a dura prova la macchina ammini-strativa e i suoi ingranaggi. In senso più generale, divenne un fardello che pesò su tutta la Germania. [...] Man mano che il processo di distruzione progrediva, i guadagni diminuivano, e le spese tendevano ad aumentare. [...] Nella fase preliminare i guadagni economici, pubblici o privati, compensavano lar-gamente le spese, ma, nel momento dello sterminio, le entra-te non equilibravano più le uscite. Esaminiamo un po’ più da vicino il costo della fase dello sterminio. Le confische tedesche durante la seconda metà del processo, erano limitate, per la maggior parte, ai beni personali. Nella

stessa Germania, gran parte delle proprietà erano già state sequestrate in partenza; nei territori russi e polacchi occupati, le vittime non possedevano grandi cose, mentre, nei paesi sa-telliti, i regimi collaborazionisti rivendicavano i beni ebraici abbandonati. D’altra parte, i costi erano più alti. Soltanto le spese visibili (costi, uscite), specialmente quelle relative alle deportazioni e allo sterminio, erano relativamente ridotte. Per il trasporto, si utilizzavano vagoni merci. Nelle unità mobili di massacro, così come nei centri di sterminio, si impiegava ben poco personale tedesco. I campi, nel loro insieme, erano co-struiti e mantenuti in economia, anche se Speer rimproverava Himmler di fare spreco di materiale da costruzione già raro. Le baracche erano costruite da manodopera di detenuti, e i pri-gionieri erano alloggiati in grandi baracche sprovviste di elet-tricità e di impianti igienici moderni. Le somme assegnate per la costruzione delle camere a gas e dei forni erano modeste. Tutta questa economia era possibile perché non avrebbe com-promesso né l’ampiezza né il ritmo del processo.Tuttavia, queste preoccupazioni materiali non costituivano l’elemento decisivo. L’obiettivo supremo era il raggiungi-mento, nel senso più completo del termine, del processo di distruzione. [...] Himmler non cercò mai di dissimulare che, per lui, la distruzione degli Ebrei aveva la priorità persino sugli armamenti. Quando i responsabili degli approvvigiona-menti mossero delle obiezioni contro il ritiro dei lavoratori ebrei, Himmler si limitò a rispondere: «È semplice: non rico-nosco l’argomentazione della produzione bellica, che costi-tuisce oggi, in Germania, la ragione regolarmente invocata per opporsi a tutto». Nel gergo accuratamente dosato del Mi-nistero dei Territori occupati dell’Est, la priorità del processo di distruzione si annunciava in questo modo: «Le questioni economiche non devono essere prese in considerazione nella soluzione della questione ebraica». [...] Di fronte alla sem-pre maggiore penuria di manodopera, un’enorme riserva di forza-lavoro ebraica fu sacrificata nella «soluzione finale». Tra tutti i costi generati dal processo di distruzione, l’abban-dono di queste riserve sempre più difficilmente rimpiazzabili, costituì la spesa maggiore, senza confronti.

R. Hilberg, La distruzione degli Ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1995

Nei campi di concentramento, per sopravvivere era essenziale trasformare il proprio codice morale. Di fatto, molti ebrei si trovarono costretti ad assumere quei tratti negativi che l’ideologia nazista attribuiva loro. Il razzismo nazista, insomma, divenne una profezia autorealizzantesi.

Nei campi si fecero dei tentativi di tradurre in realtà i miti sullo stereotipo ebraico. Proprio come Hitler che prima

aveva aperto le ostilità e poi aveva detto «guarda cosa gli

ebrei hanno fatto per distruggerci», così anche nei campi pri-ma le condizioni della vita furono portate al livello della me-ra sopravvivenza e poi i nazisti poterono esclamare: «guar-date gli ebrei; avevamo ragione noi a dire che sono privi di ogni moralità umana». Gli studi sulle condizioni nei vari campi hanno dimostrato che le SS incoraggiavano la corruzione con il favoritismo, la di-screzionalità nella distribuzione delle scarse razioni alimen-tari e un costante sistema di terrore. Uomini e donne furono trasformati in individui costretti a fare qualsiasi cosa pur di sopravvivere. Le SS divennero maestri nel mettere gli inter-nati gli uni contro gli altri. Si pretendeva che quei prigionieri

George L. Mosse, Il lager, suprema espressione del razzismo nazista14

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cui erano state affidate funzioni di comando eseguissero una certa quantità di lavoro quotidiano ordinata loro dalle guar-die e costringessero gli altri a lavorare duramente per rag-giungere questo scopo. Al «kapo», come era chiamato il prigioniero che aveva tali funzioni, era permesso di picchiare a volontà i suoi compagni internati. I campi, isolati dal mondo esterno, divennero piccoli regni governati dal terrore, dalla corruzione e dalle divisioni, e così fu facile sorvegliarli con pochi uomini. Ma si fece uso anche del fattore psicologico. Gli ebrei erano apparentemente spogliati della loro umanità e agli occhi delle SS divennero gente disposta a frodare, ruba-re, cercare di cattivarsi [ottenere, n.d.r.] i favori e tradire gli altri. Questa trasformazione del mito in realtà non ha miglio-re testimone del comandante di Auschwitz, Rudolf Höss.Höss [nelle sue memorie, scritte dopo la guerra, in prigione, n.d.r.] ha paragonato il proprio comportamento morale quan-do agli inizi degli anni ’20 era stato in carcere per un assas-sinio della «Fehme» (cioè un omicidio per vendetta politica), con quello degli ebrei posti sotto la sua autorità. Egli li accu-sava di agire in modo «tipicamente ebraico», evitando il la-voro ogni volta fosse possibile, corrompendo gli altri perché

lavorassero al loro posto, e azzuffandosi tra loro in una sel-vaggia gara per quei privilegi e beni che avrebbero permesso di condurre una vita comoda e da parassiti. Ancora una volta gli ebrei erano accusati di improduttività, di aborrire il lavoro onesto e di corrompere la società. Persino al cospetto della forca già preparata per lui allorché in Polonia dopo la guerra scriveva le sue memorie, Höss non seppe decidersi di ammet-tere la propria responsabilità nel comportamento delle sue vittime e di confessare che le condizioni deliberatamente crea te nei campi miravano a trasformare lo stereotipo in una profezia autorealizzantesi. [...] Per uomini che come lui parteciparono alla soluzione finale, il mito sugli ebrei divenne veramente realtà grazie al potere di cui i tedeschi seppero fare buon uso. Höss non volle am-mettere – e forse lo ignorava – che decine di migliaia di ebrei resistettero attivamente al sistema creato dalle SS e che cen-tinaia di migliaia conservarono la loro dignità nelle più inau-dite circostanze.

G.L. Mosse, Il razzismo in Europa dalle origini all’olocausto, Laterza, Bari 1985

Il sociologo Zygmunt Bauman ha messo l’accento soprattutto sulla modernità del processo di sterminio attivato dai nazisti. In effetti, esso fu condotto in larga misura da una burocrazia moderna e in modo tale che l’azione necessitasse della cooperazione di moltissimi soggetti, ognuno dei quali interveniva solo su una fase della vicenda. In tal modo, fi no all’ultimo, si riusciva a scaricare la responsabilità morale su qualcun altro.

Alcuni anni fa John Lachs individuò nella mediazione dell’azione (il fenomeno per cui l’azione di un individuo

viene svolta in sua vece da qualcun altro, da un intermediario che «si colloca tra me e la mia azione, rendendomi impossi-bile esperirla direttamente») uno degli aspetti più significa-tivi e tipici della società moderna. Esiste una grande distanza tra intenzioni e risultati pratici, distanza che viene colmata da tutta una serie di microazioni e di attori irrilevanti. Nel caso dell’uomo medio gli esiti dell’azione vengono espulsi dal campo visivo dell’attore. «Ne deriva che vi sono molte azioni di cui nessuno è consapevolmente responsabile. Per la perso-na a nome della quale esse vengono eseguite, tali azioni esi-stono solo a livello verbale o immaginario; questa persona non le riconoscerà come proprie, non avendole mai compiute direttamente. L’individuo che di fatto le ha eseguite, d’altra parte, le vedrà sempre come appartenenti a qualcun altro e considererà se stesso come un semplice strumento innocente di una volontà estranea… Senza un rapporto diretto con le proprie azioni, anche il migliore degli esseri umani si muove in un vuoto morale: il riconoscimento astratto del male non costituisce né una guida affidabile, né una motivazione ade-

guata […]. È difficile accettare il fatto che spesso non esiste una persona o un gruppo che abbia pianificato o determinato un certo esito. Ed è ancora più difficile vedere come le nostre azioni, attraverso i loro effetti remoti, abbiano contribuito a causare la sofferenza».L’aumento della distanza fisica e/o psichica tra l’azione e le sue conseguenze produce qualcosa di più che la sospensione dell’inibizione morale: esso annulla il significato morale dell’azione e con ciò previene ogni conflitto tra lo standard personale dell’accettabilità morale e l’immoralità delle con-seguenze sociali dell’azione. Quando la maggior parte delle azioni sociologicamente significative viene mediata da una lunga catena di complessi rapporti di dipendenza causale e funzionale, i dilemmi morali scompaiono dalla vista e le oc-casioni di scrutinio e di scelta morale consapevole diventano sempre più rare.Un effetto analogo (su scala ancora più impressionante) si ottiene rendendo le vittime stesse psicologicamente invisibi-li. Questo è stato certamente uno dei fattori più rilevanti re-sponsabili dell’escalation dei costi umani nella guerra mo-derna. Come ha osservato Philip Caputo, l’ethos della guerra «sembra essere una questione di distanza e di tecnologia. Non si può avere torto uccidendo la gente da lontano con armi sofisticate». Nell’uccisione «a distanza» il legame tra una carneficina e un’azione del tutto innocente – come premere un grilletto, o girare un interruttore della corrente elettrica o battere un tasto sulla tastiera di un computer – è destinato a rimanere una nozione puramente teorica (questa tendenza viene poi enormemente favorita dalla discrepanza di scala tra l’esito e la sua causa immediata, un’incommensurabilità che impedisce facilmente la comprensione basata sull’esperienza del senso comune).

Zygmunt Bauman, La mediazione dell’azione e l’invisibilità delle vittime15

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Mary Berg visse l’invasione tedesca dapprima a Lodz, poi a Varsavia. Stese il suo diario tra il 1939 (allora aveva 15 anni) e il 1944. Nel gennaio 1943, tuttavia, la giovane riuscì a uscire dal ghetto, grazie al fatto che sua madre era cittadina americana. Insieme con la sua famiglia fu trasferita in Francia, per essere scambiata con alcuni uffi ciali tedeschi catturati dagli Alleati.

2 novembre 1940

Circola insistentemente la voce che il quartiere ebraico sa-rà presto chiuso. Alcuni dicono che sarà meglio per noi,

perché i tedeschi non oseranno più commettere tanto sfaccia-tamente i loro delitti e perché saremo protetti dalle aggres-sioni dei fanatici polacchi. Ma altri, specie gli evasi dal ghetto di Lodz, sono atterriti: hanno già provato la vita in un quartie-re chiuso, sotto la dominazione tedesca.

15 novembre 1940Oggi è stato ufficialmente istituito il ghetto. È vietato agli ebrei uscire dai confini formati da certe strade. C’è molta agi-tazione in giro. I nostri circolano nervosamente per le strade sussurrandosi notizie, le une più fantastiche delle altre. Sono già cominciati i lavori del muro, che sarà alto tre metri circa. Muratori ebrei, sorvegliati da soldati nazisti, posano un mat-tone sull’altro. Quelli che non lavorano con sollecitudine vengono frustati dai sorveglianti. Penso alla descrizione bi-blica della nostra schiavitù in Egitto. Ma dov’è il Mosè che ci libererà dai nostri nuovi ceppi? Nelle vie dove il traffico non è stato bloccato completamente, stazionano sentinelle tede-sche. Tedeschi e polacchi hanno il diritto di entrare nel quar-tiere chiuso, ma senza potervi introdurre alcun pacco. Lo spettro della fame opprime tutti.

20 novembre 1940Le strade sono vuote. Riunioni straordinarie si svolgono in tutte le case. La tensione è spaventosa. Alcuni, i giovani so-

Mary Berg, Il ghetto di Varsavia16

È pertanto possibile essere un pilota che sgancia bombe su Hiroshima o su Dresda, eccellere nei compiti svolti in una ba-se di missili teleguidati, o progettare modelli di armi nucleari sempre più devastanti, senza per questo perdere nulla della propria integrità morale e arrivare a una qualche crisi etica (l’invisibilità delle vittime fu, presumibilmente, un importan-te fattore anche nei tristemente noti esperimenti di Milgram).Avendo presente l’effetto dell’invisibilità delle vittime, è for-se più facile comprendere i perfezionamenti successivi appor-tati alla tecnologia dell’Olocausto. Nella fase delle Einsatz-gruppen le vittime rastrellate venivano condotte di fronte alle mitragliatrici e uccise con il tiro diretto. Sebbene ci si sfor-zasse di tenere le armi il più lontano possibile dalle fosse in cui gli assassinati dovevano cadere, era troppo difficile per coloro che facevano fuoco ignorare il legame tra lo sparare e l’uccidere. Per tale ragione gli amministratori del genocidio trovavano questo metodo primitivo e inefficiente, oltre che pericoloso per la coscienza morale degli esecutori. Vennero perciò cercate altre tecniche di assassinio, tali da nascondere le vittime alla vista degli uccisori. La ricerca ebbe successo e portò all’invenzione delle camere a gas, dapprima mobili e poi fisse; queste ultime – le più perfette che i nazisti ebbero il tempo di inventare – riducevamo il ruolo dell’uccisore a quello di un ufficiale sanitario, al quale si chiedeva di intro-durre una certa quantità di disinfettanti chimici attraverso un’apertura nel tetto di un edificio il cui interno egli non era tenuto a visitare.Il successo tecnico-amministrativo dell’Olocausto fu dovuto in parte alla sapiente utilizzazione dei tranquillanti morali mes-si a disposizione dalla tecnologia e dalla burocrazie moderne. Tra essi i più importanti furono la naturale invisibilità delle connessioni causali interne a un sistema di interazione com-plesso, e la collocazione a distanza degli esiti sgradevoli e moralmente ripugnanti dell’azione, fino al punto di renderli

invisibili all’attore. I nazisti, tuttavia, si mostrarono partico-larmente abili nell’utilizzazione di un terzo metodo, neanche questo di loro invenzione ma da essi portato a un grado di perfezionamento senza precedenti. Tale metodo consisteva nel rendere invisibile la stessa umanità delle vittime. Il con-cetto di universo degli obblighi sviluppato da Helen Fein («la cerchia di persone legate tra loro da obblighi di reciproca pro-tezione, i cui vincoli derivano dal comune rapporto con una divinità o una fonte consacrata di autorità») contribuisce in misura significativa a illuminare i fattori socio-psicologici che sono alla base della terrificante efficacia di questo metodo. L’universo degli obblighi designa i confini esterni del territorio sociale all’interno del quale possono essere poste questioni morali dotate di senso. Al di là di tali confini i precetti morali non sono vincolanti e i giudizi morali risultano privi di senso. Per rendere invisibile l’umanità delle vittime è sufficiente espellere queste ultime dall’universo degli obblighi. […]Dopo che l’obiettivo di una Germania judenfrei [priva di ebrei, n.d.r.] si era trasformato in quello di un’Europa judenfrei, l’espulsione degli ebrei dalla nazione tedesca doveva essere sostituita dalla loro totale disumanizzazione. Di qui l’asso-ciazione, prediletta da Frank [Hans Frank, governatore gene-rale della Polonia occupata, n.d.r.], tra «ebrei e pidocchi», il cambiamento di registro retorico espresso dallo spostamento della questione ebraica dal contesto dell’autodifesa razziale all’universo linguistico della pulizia personale e dell’igiene politica, i manifesti contro il tifo attaccati sui muri dei ghetti e, infine, l’ordinazione dei prodotti chimici [il gas Zyclon B, n.d.r.] necessari per l’atto finale alla Gesellschaft fü r Schädlingsbekämpung, la Società tedesca per la lotta contro i parassiti.

Z. Bauman, Modernità e Olocausto, il Mulino, Bologna 1992

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Ad Auschwitz, il colosso chimico tedesco IG Farben impiantò una gigantesca struttura fi nalizzata alla produzione di benzina, ricavandola dal carbone, e di gomma sintetica. Tutto il lavoro fu svolto da detenuti, che vivevano nel campo denominato Auschwitz III.

Prima della guerra, la IG Farben costruì due fabbriche Buna: Buna I a Schkopau nel 1936, e Buna II a Hüls nel 1938. Il 2

novembre 1940, i rappresentanti della IG Farben incontrarono l’Unterstaatssekretär von Hanneken, del ministero dell’Econo-mia, e decisero di intensificare la produzione di caucciù sinte-tico. Per questa ragione si decise la costruzione di Buna III a Ludwigshafen. Questa fabbrica si rivelò insufficiente per por-

tare la produzione al livello richiesto, e i pianificatori, allora, studiarono due possibilità: ampliare le installazioni di Hüls per far passare la produzione da 40 000 tonnellate a 60 000, oppure costruire un’altra fabbrica, con una capacità produttiva di 25 000 tonnellate. Questa nuova fabbrica avrebbe potuto essere situata in Norvegia o ad Auschwitz.Dall’inizio, il ministero dell’Economia optò per Auschwitz. All’epoca ci si preoccupava molto di integrare nella Germania i territori incorporati, non solamente sul piano amministrativo, ma anche su quello economico e demografico. L’11 dicembre 1940, un certo tipo di sollecitazione scaturì da un decreto che offriva esenzioni fiscali alle società che avessero costruito fabbriche nei territori incorporati. Il 6 febbraio 1941 venne presa una decisione. […] Il vicedirettore della fabbrica princi-pale di Ludwigshafen, il dottor Otto Ambros, […] fece notare

Raul Hilberg, La IG Farben ad Auschwitz17

prattutto, chiedono che venga organizzata una protesta. Ma gli anziani considerano pericolosa l’idea. Siamo tagliati fuori dal mondo: non abbiamo più radio, telefoni e giornali. Solo gli ospedali e i posti di polizia polacchi situati entro il ghetto possono comunicare telefonicamente con l’esterno. Gli ebrei che vivevano nel lato ariano della città hanno avuto l’ordine di trasferirsi nel ghetto entro il 12 novembre. Molti hanno at-teso l’ultimo momento perché speravano di poter indurre i tedeschi, con la corruzione o con le proteste, ad abrogare il decreto del ghetto. Ma non essendosi verificato ciò, molti dei nostri sono stati costretti ad abbandonare su due piedi i loro appartamenti lussuosi e sono giunti nel ghetto portandosi soltanto alcuni fagotti. Le ditte cristiane entro i confini del quartiere ebraico isolato sono autorizzate a rimanere tempo-raneamente, se possono dimostrare di avervi la loro sede da almeno venticinque anni. Molte fabbriche polacche e tede-sche sono situate entro il ghetto e grazie ai loro operai e im-piegati, abbiamo qualche contatto con il mondo esterno. […]

12 giugno 1941Il ghetto va affollandosi sempre più; abbiamo in questo mo-mento un afflusso costante di nuovi rifugiati. Si tratta di ebrei della provincia che sono stati spogliati di tutte le loro pro-prietà. La scena che si svolge al loro arrivo è sempre uguale: la guardia al cancello controlla l’identità del rifugiato e se scopre che è un ebreo gli dà uno spintone col calcio del fucile: segno che è autorizzato a entrare nel nostro Paradiso… Que-sti disgraziati sono laceri e scalzi, con gli occhi tragici di chi muore di fame. Sono in gran parte donne e bambini. Affidati alla carità pubblica, vengono inviati nei cosiddetti asili, dove presto o tardi morranno. Mi sono recata a visitare uno di que-sti rifugi. Una casa squallida, che stringe il cuore. Le pareti delle stanze sono state abbattute per formare grandi sale: non ci sono bagni, né gabinetti, le condutture sono distrutte. Lungo le pareti sono allineate delle brande fatte di tavole coperte di stracci. Si vede qua e là qualche sudicio piumino. Ho visto coricati sul pavimento bambini sporchi, seminudi, scossi da un pianto convulso. In un angolo era seduta, in la-

crime, una deliziosa bambina di quattro o cinque anni. Non ho potuto impedirmi di accarezzarle i capelli biondi spettinati, La bambina mi ha guardato con i suoi grandi occhi azzurri e mi ha detto: «Ho fame». Ho provato un sentimento di profonda vergogna.Quel giorno io avevo mangiato, ma non avevo con me un pezzo di pane da darle. Mi sono allontanata senza più osare guardar-la in faccia. Durante la giornata, il gruppo degli adulti esce a cercare lavoro. I bambini, gli ammalati e i vecchi rimangono stesi sui loro giacigli. C’è in questi asili gente di Lublino, Ra-dom, Lodz e Piotrkow: di tutte le province insomma. Hanno tutti da raccontare terribili storie di violenze e di esecuzioni in massa. È impossibile capire perché i tedeschi permettano a tutta questa gente di stabilirsi nel ghetto di Varsavia che con-tiene già quattrocentomila ebrei. La mortalità è in continuo aumento. Solo l’inedia uccide da quaranta a cinquanta perso-ne al giorno. Ma centinaia di nuovi rifugiati ne prendono di nuovo il posto. La comunità non ha mezzi per intervenire. Tut-ti gli alberghi sono gremiti e le condizioni igieniche trascura-tissime. Il sapone è introvabile; ciò che si distribuisce col no-me di sapone è una massa viscida che si disgrega appena en-tra in contatto l’acqua, che sporca invece di pulire.Una delle piaghe del ghetto sono i mendicanti, che continua-no a moltiplicarsi. Alcuni rifugiati non hanno più amici né parenti e non riescono nemmeno a trovare posto negli spa-ventosi asili fondati dalla Comunità. Costoro dedicano i primi giorni dopo l’arrivo alla ricerca di un lavoro. La notte dormo-no sulle soglie delle porte, cioè nella strada. Quando le loro forze si esauriscono e i loro piedi gonfi rifiutano di sostenerli, siedono sull’orlo dei marciapiedi o si appoggiano a un muro e chiedono la carità con gli occhi aperti. Quando il morso della fame si fa più crudele, cominciano a piangere… e così prendo-no vita i cosiddetti mendicanti rabbiosi… Alcuni buttano loro venti groszy o perfino mezzo zloty,ma con somme così picco-le non si può acquistare niente.

M. Berg, Il ghetto di Varsavia. Diario (1939-1944), Einaudi, Torino 1991

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che ad Auschwitz si poteva trovare acqua, carbone e calce in quantità interessanti. Inoltre il luogo era di facile accesso. D’altro canto, quella sede mancava di manodopera qualificata e gli operai mostravano qualche resistenza ad andarci a vive-re. Queste ultime difficoltà furono presto appianate. Krauch [Carl Krauch, plenipotenziario del regime per l’industria chi-mica, n.d.r.] suggerì a Göring di chiedere un aiuto a Himmler; il 26 febbraio 1941, Himmler ordinò che la città di Auschwitz fosse completamente svuotata della sua popolazione civile per lasciare il posto agli operai della IG Farben. I polacchi po-tevano restare se la compagnia trovava del lavoro per loro. Inoltre, tutta la manodopera disponibile del campo di Au-schwitz era messa a disposizione della nuova impresa. […]Al fine di garantire che la IG Auschwitz disponesse di tutti i ma-teriali di costruzione necessari, Krauch acconsentì a che Buna avesse la priorità assoluta (Dringlichkeitsstufe I) fino alla fine dei lavori. La IG Auschwitz non si limitò a questo: acquisì la sua base di produzione di carbone, la Fü rstengrube e la Janinagru-be. Le due miniere furono riempite di detenuti ebrei. Fin dall’ini-zio la cooperazione tra la IG Farben e le SS fu totale. Le due organizzazioni erano complementari. Quando la IG Farben co-struì le baracche, le SS fornirono il mobilio (le tavole di legno). Le SS fornirono pure le guardie alle quali la IG Farben aggiunse il suo corpo di guardia Werkschutz (polizia di fabbrica).

La IG Farben richiedeva punizioni per i detenuti che contrav-venivano alle regole, le SS si incaricavano di infliggerle. Le SS mettevano i detenuti al regime alimentare di Auschwitz, la IG Farben provvedeva ad aggiungere un po’ di zuppa Buna per assicurare la produzione. Le relazioni sociali erano, anche quelle, amichevoli. È così che si vedrà Höss invitare, ogni tanto, il dottor Durrfeld e signora, o il dottor Eisfeld e signo-ra, a casa sua, non lontano dal campo. Ma la IG Farben non si limitò a una cooperazione e a buoni rapporti sociali. La com-pagnia fece suoi, nella fabbrica, sia i metodi sia la mentalità delle SS. Lontani dall’essere protetti perché lavoravano per la Buna [la fabbrica di gomma sintetica della IG Farben, n.d.r.], i detenuti morivano per il lavoro. Persino durante la fase di costruzione, i capomastri della IG Farben adottarono il ritmo di lavoro delle SS – per esempio trasportare i carichi di cemento di corsa. […] Circa 35 000 detenuti passarono da Buna; 25 000 morirono. La speranza di vita di un detenuto alla IG Auschwitz andava dai tre ai quattro mesi, circa, ed era di un mese circa nelle miniere di carbone intorno ad Au-schwitz. Come per le SS, anche la IG Farben, non ci sapeva fare a mantenere in vita i suoi detenuti.

R. Hilberg, La distruzione degli ebrei d’Europa, Einaudi, Torino 1999

Nel brano tratto da Le origini del totalitarismo (1951) la storica e fi losofa Hannah Arendt giunge a considerare il campo di concentramento uno strumento di dominio totale sull’uomo, cioè l’espressione più caratteristica del totalitarismo.

I campi di concentramento e di sterminio servono al regime totalitario come laboratori per la verifica della sua pretesa

di dominio assoluto sull’uomo […]. Il dominio totale, che mira a organizzare gli uomini nella loro infinita pluralità e diversi-tà come se tutti insieme costituissero un unico individuo, è possibile soltanto se ogni persona viene ridotta a un’immuta-bile identità di reazioni, in modo che ciascuno di questi fasci di reazioni possa essere scambiato con qualsiasi altro. Si tratta di fabbricare qualcosa che non esiste, cioè un tipo uma-no simile agli animali, la cui unica “libertà” consisterebbe nel “preservare la specie” […]. I Lager servono, oltre che a sterminare e a degradare gli indi-vidui, a compiere l’orrendo esperimento di eliminare, in con-dizioni scientificamente controllate, la spontaneità stessa come espressione del comportamento uma no e di trasformare l’uomo in un oggetto, in un qualcosa che neppure gli animali sono […]. In circostanze normali ciò non può essere ottenuto, perché la spontaneità non può mai essere interamente soffo-cata, connessa com’è non solo alla libertà umana, ma alla vita stessa in quanto semplice rimaner vivo. Solo nei campi di concentramento un esperimento del genere diventa possibi-

le; e perciò essi sono […] l’ideale sociale che guida il potere totalitario. Come la stabilità del regime dipende dall’isola-mento del suo mondo fittizio dall’esterno, così l’esperimento di dominio totale dei campi richiede che questi siano ermeti-camente chiusi agli sguardi del mondo di tutti gli altri, del mondo dei vivi in genere. Tale isolamento spiega la peculiare irrealtà e incredulità che caratterizza tutti i resoconti su di essi e costituisce una delle principali difficoltà che si frap-pongono all’esatta comprensione del dominio totalitario, le cui sorti sono legate all’esistenza dei campi di concentra-mento e di sterminio; perché questi, per quanto inverosimile possa sembrare, sono la vera istituzione centrale del potere totalitario […].Il vero orrore dei campi di concentramento e di sterminio sta nel fatto che gli internati, anche se per caso riescono a ri-manere in vita, sono tagliati fuori dal mondo dei vivi più efficacemente che se fossero morti, perché il terrore impone l’oblio. Qui l’omicidio è impersonale quanto lo schiacciamento di una zanzara. Può darsi che uno muoia perché soccombe alle torture sistematiche o alla fame o perché il campo è sovraf-follato e richiede l’eliminazione del materiale umano in ec-cesso […]: è come se ci fosse la possibilità di rendere per-manente lo stesso morire e di ottenere con la forza una condizione in cui vengano impedite con altrettanta efficacia sia la morte sia la vita.

H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano 1989

Hannah Arendt, Il campo di concentramento18

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Il dottor Miklós Nyiszli (1901-1956) era un affermato medico legale ungherese. Deportato ad Auschwitz in quanto ebreo, nel 1944 fu scelto da Mengele per effettuare dettagliate analisi sui cadaveri dei soggetti che venivano uccisi. La sala per le autopsie si trovava all’interno del Crematorio II. Nyiszli, quindi, è stato più volte testimone dell’intera procedura di uccisione degli ebrei e di distruzione dei loro corpi, da parte del Sonderkommando (reparto speciale).

Prima della discesa, una grande tabella informa in tedesco, francese, greco e ungherese che laggiù si trovano le docce

e la disinfezione. Ciò contribuisce a tranquillizzare tanto quelli che paventano le prospettive più nere, quanto coloro che non hanno grandi sospetti. E vanno giù per le scale, qua-si felici.La folla si viene a trovare in un ampio salone, bene illumina-to e imbiancato, lungo una cinquantina di metri. Al centro del locale si susseguono colonne. Intorno alle colonne e vicino alle pareti vi sono delle panchine. Al di sopra delle panchine una lunga fila di attaccapanni numerati. Delle scritte in diver-se lingue, fittamente distribuite, informano che i vestiti e le calzature occorre legarle e appenderle agli attaccapanni, te-nendole bene a mente il numero, per evitare al ritorno inutile confusione. «Autentico senso germanico dell’ordine!», dico-no quelli che ammirano questa caratteristica dei tedeschi. E hanno ragione! Effettivamente si svolge tutto in nome dell’or-dine, allo scopo di non far mischiare migliaia di paia di scar-pe, attese con ansia nel Terzo Reich. E lo stesso vale per i vestiti: è molto importante che questi vengano distribuiti in buono stato alla popolazione tedesca colpita dai bombarda-menti. Nel salone si trovano centinaia di persone. Uomini, donne, bambini. Entrano dei militi SS. Echeggia subito un or-dine: spogliarsi! Si precisa il tempo a disposizione: dieci mi-nuti! Anziani, bambini, mogli e mariti restano come paraliz-zati Le donne e le ragazze, in preda alla vergogna, si guarda-no imbarazzate, senza sapere che fare. Forse non hanno ben capito le parole tedesche? Ma l’ordine viene adesso ripetuto. La voce denota impazienza e minaccia.La gente ha dei presentimenti molto cupi. Per istinto cercano di difendersi. Ma rinunciano subito dopo. Si sono ormai abi-tuati all’idea, che li si può costringere a qualunque cosa. Co-minciano piano a svestirsi. Gli anziani, gli storpi e i malati psichici vengono aiutati dal personale del Sonderkommando. Nel volgere di dieci minuti sono già tutti denudati. Agli attac-capanni sono appesi i vestiti, mentre le scarpe legate coi lac-ci stanno una accanto all’altra. Ciascuno ha bene impresso in mente il numero del proprio attaccapanni…Le SS si fanno strada tra la folla verso il grande portone di quercia, a due battenti, in fondo al salone. Appena lo aprono, la gente nuda si riversa in un’altra sala, ugualmente illumi-nata. Il locale è circa la metà del precedente. Non vi sono né

attaccapanni né panchine. Al centro vi sono dei grandi pila-stri quadrati. Non sono pilastri che reggono il soffitto, ma enormi grondaie di latta con i lati traforati, come un setaccio.Ormai sono tutti dentro. Risuona forte un altro ordine: SS e Sonderkommando lasciare le docce! Escono fuori, verificando scrupolosamente che nessuno di loro resti dentro. Si chiude, sbattendo, il portone. Nella sala si spegne la luce.Nel frattempo si sente nel cortile il rombo di un motore. È arrivata una lussuosa ambulanza della Croce Rossa, da cui scendono un ufficiale SS e un SDG (Sanitätsdienstgehilfe), cioè un SS del servizio sanitario ausiliario. Quest’ultimo ha in mano quattro barattoli di latta colorati di verde.Attraversano il prato, quindi passano sulla copertura del sot-terraneo, da cui sporgono bassi camini di cemento. Si acco-stano al primo e, dopo avere indossato le maschere antigas, ne tolgono il coperchio, pesante, anch’esso di cemento. Tol-gono il sigillo di fabbricazione di un barattolo e, attraverso il foro del camino, versano dentro il contenuto: grani della grandezza di fagioli, di colore verdastro. Questi cadono giù nelle grondaie di latta del locale sotterraneo, non escono fuori, ma restano nei tubi. È lo Zyclon B, che, immediatamen-te al contatto con l’aria, sviluppa gas. Questo si libera attra-verso i fori e nel giro di pochi secondi riempie l’intero salone, gremito di persone. Nel giro di cinque minuti viene liquidato l’intero convoglio.L’ambulanza con il simbolo della Croce Rossa si presenta all’arrivo di ciascun trasporto. Porta il gas prelevato da qual-che parte, esterna al campo. Nel crematorio non si trovano mai scatole piene. Si tratta di una precauzione ingegnosa, ma non è forse una vigliaccheria ancora più ingegnosa quella che il veicolo usato per il trasporto del gas, abbia il simbolo in-ternazionale della Croce Rossa?I due assassini, che hanno portato il gas, attendono ancora cinque minuti, per assicurarsi di aver eseguito alla perfezione il proprio lavoro. Si accendono una sigaretta ed entrano in macchina. Hanno appena finito di ammazzare tremila perso-ne! [dettaglio inesatto: la capacità media del Crematorio II era di circa 1500 persone, n.d.r.].Venti minuti dopo entrano in funzione i ventilatori elettrici per disperdere il gas. Si aprono le porte. Sopraggiungono dei camion. Una squadra del Sonderkommando vi carica separa-tamente le scarpe e i vestiti, che portano alla disinfezione; a quella vera, in questo caso. Di là, poi, nei vagoni quel bottino viene distribuito in diversi centri della Germania.Moderni ventilatori disperdono il gas, ma questo rimane an-cora in piccole quantità negli angoli, nelle fessure, tra i cada-veri. L’immissione nei polmoni anche di una sola boccata procura una tosse soffocante, anche dopo ore. Per questo, il gruppo di detenuti del Sonderkommando che entra in quel locale con getti d’acqua, è dotato di maschere antigas. Il sa-lone di nuovo viene potentemente illuminato. Una scena orri-bile si presenta davanti agli uomini del Sonderkommando.I corpi non giacciono sparsi sul pavimento della sala, ma sono arrampicati in una catasta mostruosa, alta e intrecciata. I cri-stalli che diffondono il gas avvelenano inizialmente gli strati

Miklós Nyiszli, Il crematorio II19

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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Yves Ternon è uno dei primi intellettuali francesi che si è dedicato allo studio comparato dei genocidi del XX secolo, nella convinzione che proprio l’individuazione delle specifi cità dei vari fenomeni storici aiuta la comprensione della realtà e impedisce facili strumentalizzazioni ideologiche del passato.

Un equivoco ha spesso diviso ebrei e armeni. I primi so-spettano gli armeni di contestare l’unicità del genocidio

ebreo, i secondi si sentono relegati al rango di vittime di se-conda categoria. È opportuno sgombrare il campo da tale equivoco. Paragonare non significa ridurre, ma definire somi-glianze e differenze tra due eventi per inquadrare ciascuno di loro. I due eventi presentano caratteristiche simili, alcune delle quali sono esattamente le condizioni necessarie all’in-criminazione per genocidio. In entrambi i casi, uno Stato con-trollato da un partito unico, che dispone di tutti i poteri civili e militari, pianifica ed esegue col favore di una guerra mon-diale, con i mezzi amministrativi e tecnologici di cui dispone, la distruzione di un gruppo umano, di una minoranza indifesa, che egli immagina complottare contro di lui e che considera come una minaccia vitale. In entrambi i casi, la causa imme-diata dello sterminio è un complesso di certezze incrollabili, un credo dottrinale che identifica un gruppo nazionale i cui membri, imprigionati da una catena di obblighi, devono com-piere una missione. Per riuscirvi, si arrogano privilegi e tra-volgono le barriere morali che ostacolo il loro ideale messia-nico. […] Al di fuori del genocidio degli zingari che si svolge nella stessa sfera, il genocidio degli armeni è, in questo seco-lo, il crimine più vicino al genocidio degli ebrei, quindi il più paragonabile a questo. Eppure, questi due avvenimenti sono più differenti che simili. I due Stati criminali non avevano né la stessa eredità culturale, né lo stesso livello di sviluppo economico, né le stesse ragioni per uccidere. Le differenze poggiano sul movente, la premeditazione, la visione che l’omicida ha della vittima, lo scopo del crimine e il comporta-mento dello Stato successore. […]Il movente è diverso. Nel caso armeno la tesi della provoca-zione non può essere presa in considerazione. Non c’è alcuna

misura comune tra uno Stato potente e una comunità tanto più incapace di resistere in quanto gli uomini adulti sono ar-ruolati nell’esercito. Ma il genocidio armeno si inscrive in una continuità politica. Esiste tra armeni e turchi un contenzioso antico, un dossier che si è gonfiato nel giro di un cinquanten-nio. Gli armeni sono maggioranza all’interno di numerose province ottomane. Si tratta di un popolo turbolento, che co-mincia a darsi un’organizzazione politica e che è installato a cavallo di una frontiera sensibile. Anche se la minaccia è so-pravvalutata, anche se il crimine ha una componente ideolo-gica, il movente è chiaro: la distruzione degli armeni – la loro desolazione, nel senso di estirpazione dal suolo dato da Han-na Arendt – regola una vecchia controversia fino ad allora insolubile. I Giovani Turchi uccidono per profitto; questi as-sassini sono anche dei ladri. Al contrario, gli ebrei non hanno mai rappresentato un ostacolo reale per i tedeschi. Essi non possiedono né un territorio né un partito politico; si sono in-tegrati nello Stato tedesco pur conservando la propria identi-tà culturale e religiosa. Alcuni si sono perfino completamente assimilati e non hanno neppure coscienza di essere ebrei. Mentre gli armeni esistono in quanto comunità distinta – per volontà dello Stato – e sono ovunque identificabili, gli ebrei sono dispersi per la nazione tedesca. Per ucciderli, bisogna in primo luogo riconoscerli come tali. Il movente del loro omici-dio è incoerente: non c’è alcun profitto o, se c’è, è misero. Si tratta di un crimine assurdo. […]Se gli armeni vengono braccati per tutto il paese, ci sono però delle eccezioni. Alcuni sono persino oggetto di trattative di-plomatiche. Qui e là, piccoli gruppi indispensabili all’econo-mia locale o risparmiati da funzionari compassionevoli non vengono deportati. Alcune donne vengono portate via e col-locate in famiglie musulmane; alcuni bambini vengono cre-sciuti come musulmani negli orfanotrofi turchi. Qualche ar-meno influente o convertito all’islamismo continua a vivere normalmente. Per i nazisti simili eccezioni non sono concepi-bili. Il mito ariano conferisce al genocidio degli ebrei una di-mensione, un carattere assoluto che il mito uraloaltaico [la celebrazione della superiorità del popolo turco, n.d.r.] non presenta: è una concezione del mondo che rifiuta gli ebrei in quanto origine del Male. L’odio nazista è totale, razziale, bio-logico; risale fino alla terza generazione e si estende su ogni

bassi dell’aria, appena sopra il pavimento, e solo in seguito s’innalza gradatamente la potenza venefica. Per questo quei miseri si calpestano a vicenda, camminando gli uni sugli altri. Chi si trova più in alto non è raggiunto subito dal gas. In quel luogo, quale lotta tremenda si svolge per la vita! Anzi, per uno o due minuti di vita! Se potessero riuscire a ragionare, capirebbero che invano stanno calpestando i propri genitori, le proprie mogli, i propri figli; ma loro non sono più in condizioni di pensare, sono solo in balia dell’istinto di conservazione. Osservo che alla base di quella catasta giacciono i lattanti, poi i bambini, quindi le

donne e gli anziani e in cima gli uomini più forti. Corpi intrec-ciati nella morsa della morte, con il naso e la bocca insangui-nati, graffiati a sangue nella lotta. Volti tumefatti, lividi, irri-conoscibili.Eppure, gli uomini del Sonderkommando spesso riconoscono tra i cadaveri persone loro care… Anch’io sono terrorizzato da una simile eventualità.

M. Nyiszli, Sono stato l’assistente del dottor Mengele. Memorie di un medico internato ad Auschwitz,

Frap-Books, Oswiecim 2000

Yves Ternon, Genocidio degli armeni e Shoah a confronto20

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S t o r i o g r a f i a

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Alcuni tra gli episodi più gravi della violenza compiuta dagli italiani in Iugoslavia si svolsero in Slovenia. Allorché Mussolini decise di trasformare Lubiana in una provincia italiana a tutti gli effetti, migliaia di sloveni furono condotti nell’isola di Arbe e internati in un campo di concentramento.

All’inizio dell’estate 1942, tra gli alti comandi militari ita-liani era ormai diffusa l’idea che fosse necessario com-

piere il «salto qualitativo» che avrebbe dovuto trasformare le deportazioni parziali in «sgombero totalitario » della po-polazione della «Provincia di Lubiana». Anche per questo sull’isola di Rab (per gli italiani Arbe), da poco tempo annes-sa all’Italia, si stava predisponendo un enorme lager che avrebbe dovuto accogliere 16 000 internati. L’occasione per la presentazione al duce dell’imponente programma di de-portazione fu data dal summit politico-militare tenutosi il 31 luglio 1942 a Gorizia. In quella occasione, parlando alla folla dal palazzo del Comando militare, Mussolini dichiarò aperta-mente guerra alla popolazione slovena, minacciandola di deportazione e di sterminio. Poco dopo il generale Robotti riferiva agli ufficiali che il progetto era stato superiormente approvato e che, quindi, si sarebbe dovuto «allargare il più possibile la macchia d’olio del dominio italiano », avviando «tutti gli uomini validi» nel campo di concentramento di Ar-be. [...]La realizzazione del campo di Arbe era stata intrapresa alla fine di giugno del 1942 con l’allestimento, su un terreno pa-ludoso in località Kampor, di una tendopoli capace di «allog-giare» 6000 internati. Altri settori (complessivamente ne erano previsti quattro, oltre al cimitero), costituiti da barac-che e capaci di accogliere altre 10 000 persone, dovevano essere realizzati prima del sopraggiungere della stagione in-vernale. I civili deportati ad Arbe non furono sottoposti al lavoro obbligatorio; tuttavia la fame, le pessime condizioni igienicosanitarie, il dormire sotto piccole tende a contatto col nudo terreno e la mancanza di qualsiasi tutela internaziona-le, resero la loro prigionia estremamente penosa. Secondo i dati forniti dal Supersloda, dall’apertura del campo sino alla metà di dicembre del 1942, erano già morti 502 deportati.Il nunzio papale presso il governo italiano, Monsignor Fran-cesco Borgognini Duca, che pure visitò quasi tutti i campi di

internamento della penisola, per i rischi connessi ad un even-tuale lungo viaggio da Roma al golfo del Quarnaro, non si recò dagli internati di Arbe. Lo fece, invece, monsignor Giu-seppe Srebrnic, vescovo della vicina isola di Veglia (Krk), che rimase estremamente impressionato da quanto visto. «Ad Arbe, nel territorio della mia diocesi, ove all’inizio del mese di luglio 1942 si aprì un campo di concentramento nelle condizioni più miserabili che si possono immaginare – scrive-va il prelato il 5 agosto 1943 – morirono fino al mese di apri-le dell’anno corrente, in base agli esistenti verbali, più di 1200 internati; però testimoni vivi ed oculari, che cooperava-no alle seplture dei morti, affermano decisamente che il nu-mero dei morti per il detto periodo ammonta almeno a 3500, più verosimilmente a 4500 e più».La storiografia jugoslava ha definito «di sterminio» il campo fascista di Arbe; quella italiana, invece, avendolo quasi com-pletamente ignorato, non si è posta alcun problema di defini-zione. Di fatto, i deportati vi cominciarono a morire numerosi già nell’ottobre 1942, e il tasso di mortalità andò aumentan-do sino al gennaio dell’anno successivo. Il fatto che, sin dall’inizio, vi fosse stato predisposto un ampio terreno per le sepolture (gli internati del campo lo definirono «quinto set-tore»), dimostra, ad ogni modo, che un’alta mortalità tra i prigionieri rientrava tra le previsioni dell’Esercito italiano.Da regolamento, il vitto avrebbe dovuto garantire ad ogni de-portato 1000 calorie al giorno; di fatto, però, esso ne offriva meno della metà. Particolarmente grave fu la condizione del-le partorienti, che molto frequentemente diedero alla luce bambini già morti. All’inizio di novembre 130 internati aveva-no un’età inferiore ai dieci anni, e nel volgere di un mese il numero dei minorenni aumentò ad alcune centinaia. La notte del 29 ottobre 1942, nel corso di un violento nubifragio, un vicino torrente inondò il campo e spazzò via moltissime tende. Negli ultimi mesi dell’anno, tra i deportati di Arbe la mancan-za di cibo era così grave e diffusa che anche i giovani in pieno vigore fisico subivano in poco tempo il dimezzamento del pro-prio peso corporeo: centinaia di figure scheletriche, sfinite dalla fame si trascinavano quotidianamente per il campo nell’improbabile ricerca di qualcosa da poter mangiare.

C.S. Capogreco, Internamento e deportazione dei civili jugoslavi (1941-’43), in I campi di concentramento in Italia.

Dall’internamento alla deportazione (1940-1945), a cura di C. Di Sante, Franco Angeli, Milano 2001

discendenza, dappertutto nel mondo, dove nessun ebreo è più autorizzato a vivere. I Giovani Turchi sono pragmatici: risol-vono freddamente un problema, senza odio, da padroni che puniscono un servo ribelle. La frenesia nazista non ha limiti: il loro rigore nell’esecuzione esprime una determinazione nu-trita di una passione delirante. Per i nazisti tutti gli ebrei, vi-venti e non ancora nati, sono condannati a morte. Non si trat-

ta soltanto di un genocidio domestico totale, ma di un geno-cidio mondiale totale. In sostanza, la componente strutturale è, nel genocidio armeno, più determinante di quella ideologi-ca. Il contrario avviene per il genocidio degli ebrei.

Y. Ternon, Lo Stato criminale. I genocidi del XX secolo, Corbaccio, Milano 1997

Carlo Spartaco Capogreco, Il campo di concentramento di Arbe21

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C o n t r o l ’ u o m o : r a z z i s m i e p e r s e c u z i o n i

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Per molti anni, i crimini compiuti dai partigiani iugoslavi in Istria e in Venezia Giulia sono stati ignorati o minimizzati dalle sinistre italiane. Scorretto è anche stato l’utilizzo strumentale di questo episodio da parte dei neofascisti, che si servirono delle atrocità comuniste per far dimenticare le violenze commesse dagli squadristi e dall’esercito italiano a Trieste, in Istria e in Slovenia. Quella delle foibe è una vicenda complessa: un microcosmo che riassume tutte le tragiche contraddizioni del Novecento.

Nulla sarebbe più sbagliato del credere che delle foibe si sia cominciato a parlare solo di recente. Al contrario,

l’argomento è stato frequentissimo, non solo nella pubblici-stica [sui giornali e, più in generale, sulla stampa destinata a un vasto pubblico, n.d.r.], che nel corso di un cinquantennio ha dedicato al problema un vero diluvio di interventi, ma an-che nella storiografia, seppur in misura nettamente minore. Piuttosto, c’è da chiedersi come mai i contributi sul tema del-le foibe abbiano trovato un’enorme difficoltà a uscire da am-biti molto circoscritti: essenzialmente quello locale giuliano e quello, del tutto speciale, degli esuli giuliano-dalmati.Per tentare una risposta, conviene partire dalla constatazio-ne che scarso interesse a livello nazionale non è stato susci-tato solo dal dramma delle foibe ma, più in generale, da qua-si tutte le vicende legate alla storia della frontiera orientale italiana dopo la prima guerra mondiale. [...]Dietro tali rimozioni incrociate sta probabilmente il fatto che la storia del confine orientale per un verso ha potentemente favorito la nascita di veri e propri miti politici e storiografici, per l’altro, se rigorosamente investigata, offre pure tutti gli elementi per mettere in crisi quei medesimi miti, oramai con-solidatisi nelle diverse culture politiche del nostro paese. Ciò vale, per esempio, per il mito del buon italiano, che può usci-re alquanto ridimensionato dalla conoscenza critica delle esperienze di occupazione italiane nei territori ex jugoslavi,

oppure per quello dell’innocenza della classe dirigente ita-liana della Venezia Giulia e soprattutto di Trieste nei con-fronti del potere germanico nel biennio 1943-1945, se si tiene conto della rete di silenzi e complicità di cui i nazisti poterono avvalersi per portare a compimento il loro disegno di morte. Ma ombre tutt’altro che lievi non possono che ad-densarsi anche sul mito del Movimento di liberazione jugo-slavo, a lungo considerato un esempio per tutti i movimenti resistenziali europei, di fronte all’osservazione delle violen-ze di massa – come, appunto, quella delle foibe – attraverso le quali esso raggiunse i suoi obiettivi, e cioè l’indipendenza del paese, l’annessione di territori rivendicati ai confini e la costruzione del comunismo: passaggi tutti di un progetto ri-voluzionario che avrebbe condotto alla formazione di un regi-me stalinista, anche se destinato a scontrarsi con Stalin, al quale fra l’altro va addebitata l’espulsione degli italiani dall’Istria. [...]Nella primavera del 1945, a venire presi di mira non furono tanto gli elementi di etnia italiana – che potevano venire con-siderati buoni e onesti italiani se aderivano all’annessione alla Jugoslavia – quanto tutti coloro che, a prescindere dalle loro origini etniche, si sentivano politicamente italiani, vale a dire desideravano il mantenimento della sovranità italiana sulla regione. Secondo la medesima logica vennero persegui-ti pure gli sloveni e i croati contrari al comunismo. Anche la formula rituale pertanto, secondo la quale molte delle vitti-me delle foibe furono uccise soltanto perché italiane, risulta sostanzialmente ambigua: poco fondata, specie per quanto riguarda il 1945, se riferita all’origine etnica, appare invece molto più significativa se declinata sul piano politico, con l’avvertenza aggiuntiva che per italiani vanno intesi non solo e non tanto quanti riconoscevano come italiana la loro iden-tità nazionale (lo facevano anche i comunisti che si battevano per la Jugoslavia socialista) quanto piuttosto coloro che vo-levano l’Italia, con una scelta politica in cui preminente era la dimensione statuale.

R. Pupo - R. Spazzali, Foibe, Bruno Mondadori, Milano 2003

Raoul Pupo e Roberto Spazzali, La vicenda delle foibe: un inquietante nodo storiografico

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P e r c o r s o 7

La conquista della libertà

Liberarsi non è molto difficile. È più difficile rimanere liberi.André Gide

Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza.

Benjamin Franklin

Siamo schiavi delle leggi per poter essere liberi.Marco Tullio Cicerone

Ogni rivoluzione evapora, lasciando dietro solo la melma di una nuova burocrazia.

Franz Kafka

Non vale la pena avere la libertà se questo non implica avere la libertà di sbagliare.

Gandhi

La libertà al singolare esiste soltanto nelle libertà al plurale.Benedetto Croce

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L a c o n q u i s t a d e l l a l i b e r t à

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D O C U M E N T I

L’Habeas CorpusL’Habeas Corpus è un importante atto che nel 1679 stabilì delle garanzie per i cittadini sotto processo. Con il Bill of Rights (Carta dei diritti) e la Magna charta costituisce il fondamento costituzionale inglese.

Poiché da parte di sceriffi, carcerieri e altri funzionari alla cui custodia sono affidati sudditi del Re per fatti cri-minosi o supposti tali, vengono praticati grandi ritardi nell’eseguire rescritti di Habeas Corpus ad essi diretti [...],

per impedire ciò [...] sia sancito per legge [...] che ogni qualvolta una o più persone porteranno un Habeas Corpus indirizzato a uno sceriffo, carceriere, agente o chiunque altro, nell’interesse di una persona in loro custodia, il det-to funzionario, o funzionari, e i suoi o i loro dipendenti o sostituti, entro tre giorni dalla consegna del rescritto nel modo indicato deve dare esecuzione a tale rescritto, e portare o far portare il corpo della parte così incarcerata o detenuta davanti al Lord Cancelliere o al Lord Guardasigilli d’Inghilterra allora in carica, oppure davanti ai giudici o baroni del tribunale che avrà emanato il detto rescritto [...]; e allora (il funzionario) deve ugualmente specificare le ragioni della detenzione o carcerazione [...]. E sia inoltre sancito per legge [...] che se qualche funzionario o suo dipendente o vicecustode o sostituto trascurerà di eseguire gli adempimenti predetti [...], tutti e ciascuno, il coman-dante, i carcerieri o i custodi di tale prigione [...] dovranno versare al prigioniero o alla parte danneggiata la somma di 100 sterline; e per questo fatto saranno e sono resi incapaci di coprire ed esercitare il predetto ufficio.

in A. Desideri, Storia e Storiografia, vol. 1, D’Anna, Messina-Firenze 1987

Il Bill of rightsI lord e i rappresentanti dei comuni, «legalmente, pienamente e liberamente rappresentanti tutti i ceti del popolo di questo reame», riconoscendo Guglielmo e Maria d’Orange come monarchi, pongono le basi per un esercizio congiunto del potere da parte del re e del parlamento.

I Lords Spirituali e Temporali e i Comuni […] dichiarano:Che il preteso potere di sospendere le leggi, o l’esecuzione delle leggi, per autorità regia, senza il consenso del

Parlamento, è illegale.Che il preteso potere di dispensare dalle leggi, o dall’esecuzione delle leggi, per autorità regia, come è stato affer-mato ed esercitato recentemente, è illegale.Che l’ordine di costituzione delle recente Corte di Delegati per le Cause ecclesiastiche, e tutti gli altri ordini e corti di siffatta natura, sono illegali e perniciosi.Che imporre tributi in favore o ad uso della Corone, per pretese prerogative, senza l’approvazione del Parlamento, per un periodo più lungo o in altra maniera che lo stesso Parlamento non ha e non avrà concesso, è illegale.Che i sudditi hanno il diritto di petizione al Re ed ogni incriminazione o persecuzione per tali petizioni sono illegali.Che riunire e mantenere nel Regno in tempo di pace un esercito stabile, se non vi è il consenso del Parlamento, è contro la legge.Che i sudditi Protestanti possono tenere armi per la loro difesa adeguate alla loro condizione e permesse dalla legge.Che l’elezione dei membri del Parlamento deve essere libera.Che la libertà di parola e di discussione o di stampa in Parlamento non deve essere impedita o contestata in nessu-na corte o luogo fuori del Parlamento.Che non devono essere richieste eccessive cauzioni, né ammende eccessive, né inflitte pene crudeli e inusitate.Che i giurati devono essere debitamente iscritti nelle liste e debitamente nominati, e che i giurati dei processi di alto tradimento devono essere liberi proprietari (freeholders).Che ogni consenso o promessa di pagamento di pene pecuniarie prima che il reo sia convinto è illegale e nulla.E che, per far giustizia di ogni gravezza e per emendare, rafforzare e preservare le leggi, le riunioni del Parlamento devono essere tenute frequentemente. […]I detti Lords Spirituali e temporali e i Comuni riuniti a Westminster stabiliscono che Guglielmo e Maria, Principe e Principessa di Orange, sono e sono dichiarati Re e Regina di Inghilterra Francia e Irlanda e dei domini a essa appar-tenenti.

in A. Desideri, Storia e Storiografia, vol. 1, D’Anna, Messina-Firenze 1987

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D o c u m e n t i

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John Locke, La legittimità della rivoluzione del 1688Nel Saggio sul governo civile (1690) Locke sostiene la legittimità della rivoluzione verificatasi nel 1688 e soprattutto quella dell’ordinamento costituzionale da essa originato.

[Le] rivoluzioni non accadono ad ogni minima mancanza nell’amministrazione dei pubblici affari. Gravi errori nei governanti, molte leggi ingiuste e inopportune e tutti i falli della fragilità umana, saranno sopportati dal po-

polo senza rivolta o mormorazione. Ma se una lunga serie di abusi, prevaricazioni e inganni, tutti tendenti al me-desimo scopo, rendono manifesta al popolo l’intenzione, ed esso non può non accorgersi di ciò a cui è esposto o non vedere dove sta andando, non è meraviglia se allora si riscuote e tenta di porre il governo nelle mani di chi gli garantisca i fini per cui il governo era stato in principio istituito, e senza di cui nomi antichi e forme solenni sono così lontani dall’esser migliori dello stato di natura o della pura anarchia, che, anzi, ne sono assai peggiori, dal momento che gl’inconvenienti sono tutti altrettanto gravi e incombenti, ma i rimedi più lontani e difficili […].Se coloro, che dicono che ciò getta il fondamento della ribellione, vogliono dire che può dare occasione a guerre civili o disordini intestini il dire al popolo ch’esso è sciolto dall’obbedienza quando si perpetrano attentati illegali contro le sue libertà e proprietà e può opporsi alla violenza illegittima dei suoi magistrati istituiti, quando essi vio-lino le sue proprietà contro la fiducia posta in loro, e che perciò questa dottrina, essendo così esiziale per la pace del mondo, non dev’essere ammessa, per la stessa ragione essi potrebbero parimenti dire che uomini onesti non possono opporsi a briganti e pirati, per il fatto che ciò può dar occasione a disordini o versamenti di sangue. Se in tali casi avviene qualche male, esso non dev’esser imputato a chi difende il proprio diritto, ma a chi viola il diritto dei vicini. Se l’uomo innocente e onesto deve, per amor di pace, cedere passivamente tutto ciò che possiede a colui che vi attenta con la violenza, vorrei che si pensasse che razza di pace vi sarebbe al mondo, se la pace non consi-stesse che in violenza e rapine, e non dovesse esser conservata che per il vantaggio di briganti e oppressori […].Il fine del governo è il bene degli uomini: e che cosa è meglio per l’umanità: che il popolo si trovi sempre esposto all’illimitata volontà della tirannide o che i governanti si trovino talvolta esposti all’opposizione, quando diventino eccessivi nell’uso del loro potere e lo impieghino per la distruzione e non per la conservazione delle proprietà del popolo? […].Che ai sudditi o agli stranieri che attentino con la forza alle proprietà di un popolo si possa opporre resistenza con la forza, è generalmente ammesso. Ma che ai magistrati che si comportino nello stesso modo si possa opporre re-sistenza, si è recentemente negato, come se coloro, che hanno dalla legge i massimi privilegi e vantaggi, abbiano con ciò il potere di trasgredire quelle leggi, da cui soltanto sono stati collocati in un posto migliore che i loro fra-telli; mentre invece la loro offesa è tanto più grave, sia perché sono ingrati della parte maggiore che hanno dalla legge, sia perché violano quella fiducia che i loro fratelli hanno posto in loro.

J. Locke, Saggio sul governo civile, in Id., Trattati sul governo, a cura di L. Pareyson, UTET, Torino 1969

Boston contro le importazioni inglesiL’accordo concluso il 1° agosto 1768 tra i negozianti e i mercanti di Boston in difesa dei propri interessi e contro l’importazione di merci inglesi è uno dei principali avvenimenti che determineranno nel 1773 lo scoppio della rivoluzione americana.

I negozianti e i mercanti della città di Boston, avendo preso in esame la deplorevole situazione dei traffici e le molte difficoltà in cui si dibattono a causa della scarsità di circolante […] sia per mancanza di altre rimesse con

cui saldare i debiti in Gran Bretagna, sia per le ingenti somme di danaro riscosse dagli ufficiali di dogana per dazi sulle merci d’importazione; considerando altresì le forti tasse imposte per far fronte ai debiti contratti dal governo nell’ultima guerra, gli ostacoli e le restrizioni frapposti agli scambi da alcune recenti leggi del Parlamento […] po-nendoci di conseguenza nell’impossibilità di saldare i debiti che abbiamo verso i mercanti della Gran Bretagna, e di continuare ad importare merci da loro.Noi sottoscritti, al fine di alleviare il disagio dei traffici […] ci impegniamo tra noi come segue:Non richiederemo né importeremo dalla Gran Bretagna nel prossimo autunno sia per conto nostro che su commis-sione, merci che non siano già state ordinate per i rifornimenti d’autunno.Non richiederemo né importeremo alcun genere di merci dalla Gran Bretagna, per conto nostro o su commissione o in altra forma, a partire dal 1° gennaio 1769 fino al 1° gennaio 1770 […].Non acquisteremo da alcun agente, né da altri, nessun genere di merci importate dalla Gran Bretagna […].

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L a c o n q u i s t a d e l l a l i b e r t à

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Non importeremo, né per conto nostro né su commissione, da nessun’altra colonia d’America […] né acquisteremo da alcuno che abbia introdotto da un’altra colonia d’America, tè, vetro, carta o altre merci generalmente importate dalla Gran Bretagna.Non importeremo […] tè, carta, vetro o colori, fino a che le leggi che impongono dazi su questi articoli non siano state revocate.

Boston, 1° agosto 1768

in A. Saitta, Memoria dei popoli, vol. 4, Sansoni, Firenze 1965

Richard Price e Marie Jean de Caritat de Condorcet, La rivoluzione americana vista dall’EuropaDue giudizi favorevoli pronunciati da osservatori europei nei riguardi della rivoluzione americana: l’inglese Richard Price (1785) la definisce «un evento in grado di diventare strumento di liberazione dell’umanità»; l’illuminista francese Condorcet (1795) mostra il suo legame con gli eventi seguiti all’Ottantanove in Francia.

L’inizio di una nuova era

Con sincera soddisfazione vedo la rivoluzione a favore della libertà universale che ha avuto luogo in America, una rivoluzione che apre nuovi orizzonti agli affari degli uomini e segna l’inizio di una nuova era nella storia del

genere umano […] Non mi spingo forse troppo lontano quando dico che, dopo l’avvento del Cristianesimo, la rivo-luzione americana può rivelarsi come il passo più importante nel corso progressivo dei miglioramenti del genere umano. È un evento che può produrre la diffusione generale dei principi di umanità e diventare strumento di libe-razione dell’umanità dalle catene della superstizione e della tirannia.

Un parere ammirato

La rivoluzione americana doveva dunque estendersi ben presto in Europa; e se vi esisteva un popolo presso il quale l’interesse per la causa degli americani ne avesse propagato più che altrove i loro scritti e i loro princìpi;

che fosse al tempo stesso il paese più illuminato e uno dei meno liberi; quello in cui i filosofi possedessero maggior copia di veri lumi, e il governo un’ignoranza più insolente e più profonda; un popolo le cui leggi fossero abbastan-za inferiori allo spirito pubblico perché nessun orgoglio nazionale, nessun pregiudizio, lo legasse alle sue antiche istituzioni; non era questo popolo destinato, dalla natura stessa delle cose, a imprimere il primo movimento a quel-la rivoluzione, che gli amici dell’umanità attendevano con tanta speranza e impazienza? Essa doveva dunque inco-minciare dalla Francia.

in G. Abbattista, La rivoluzione americana, Laterza, Roma-Bari 1998

Emmanuel-Joseph Sieyes, Che cos’è il Terzo Stato?Nel suo principale opuscolo politico Che cos’è il Terzo Stato? (1789), l’abate Emmanuel-Joseph Sieyes, in seguito ambasciatore, membro del direttorio e collaboratore di Napoleone, dopo aver fornito una famosa definizione di “terzo stato” sostiene la necessità della sua affermazione tramite l’eliminazione dell’ordine privilegiato.

1. Che cosa è il Terzo Stato? – Tutto.2. Che cosa ha rappresentato fino ad ora nell’ordinamento politico? – Nulla.3. Che cosa chiede? – Di diventare qualcosa [...].Che cosa occorre perché una nazione viva e prosperi? Occupazione privata e funzioni pubbliche [...].Chi li sostiene? Il Terzo Stato [...].Il Terzo Stato [...] è l’uomo forte e robusto che ha un braccio ancora incatenato. Se si eliminasse l’ordine privilegia-to la nazione non ne risulterebbe sminuita, anzi avrebbe qualcosa di più. Ma che cosa è dunque il Terzo? Tutto, ma

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un tutto impastoiato e oppresso. Che cosa sarebbe senza l’ordine privilegiato? Tutto, ma un tutto libero e fiorente [...]. È impossibile trovare, in ognuna delle parti elementari di una nazione, un posto ove collocare la casta dei no-bili [...]. Lo Stato peggio ordinato tra tutti risulterebbe quello in cui non solo dei singoli individui, ma una intera classe di cittadini ponesse la propria gloria nel restare immobile nell’attività generale e consumasse la parte miglio-re del prodotto senza aver minimamente concorso a produrla. Una tale classe è sicuramente estranea alla nazione per la sua fannullaggine.L’ordine dei nobili non è meno estraneo tra noi per le sue prerogative civili e pubbliche.Che cosa è una nazione? Un corpo vivente di associati sotto una legge comune e rappresentato dalla medesima legislazione.Non è forse vero che l’ordine dei nobili ha privilegi, dispense e diritti separati dai diritti del grande corpo dei citta-dini? Perciò stesso esso esce dall’ordine comune, dalla legge comune. Così i suoi diritti civili ne fanno già un popo-lo per sé stante rispetto alla nazione. È un autentico imperium in imperio.Per quanto riguarda i suoi diritti politici, anche questi li esercita a parte, ha i suoi propri rappresentanti che non hanno ricevuto il mandato dei popoli. Il corpo dei suoi deputati siede a parte e quand’anche si riunisse in una medesima sala con i deputati dei semplici cittadini, non è meno vero che la sua rappresentanza è essenzialmente distinta e separata: essa è estranea alla nazione per suo stesso principio, perché la sua missione non viene dal po-polo e perché il suo obiettivo non è quello di difendere l’interesse generale, ma il proprio interesse particolare.Il Terzo Stato abbraccia dunque tutto ciò che appartiene alla nazione; e tutto ciò che non è il Terzo non può esse-re considerato come appartenente alla nazione. Che cosa è il Terzo? Tutto.

E.-J. Sieyes, Che cos’è il Terzo Stato, Editori Riuniti, Roma 1992

Maximilien Robespierre, Il governo rivoluzionarioMaximilien Robespierre in un discorso pronunciato alla Convenzione il 25 dicembre 1793 definisce le differenze tra “governo rivoluzionario” e “governo costituzionale”: la necessità «di difendere il potere pubblico dalle fazioni che lo attaccano» giustifica «l’origine e la natura delle leggi che chiamiamo rivoluzionarie».

C’è davanti a noi un’impresa […] difficile, quella di sventare con costante energia gli intrighi incessanti di tutti i nemici della nostra libertà e di far trionfare i princìpi sui quali deve fondarsi la prosperità pubblica [...].

Sono questi i primi doveri che avete imposto al vostro comitato di salute pubblica.La funzione del governo è di dirigere le forze morali e fisiche della nazione verso lo scopo della sua istituzione.Lo scopo del governo costituzionale è di conservare la repubblica; quello del governo rivoluzionario è di fondarla.La rivoluzione è la guerra della libertà contro i suoi nemici; la costituzione è il regime della libertà ormai vittoriosa e pacifica.Il governo rivoluzionario ha bisogno di un’attività straordinaria proprio per il fatto che è in guerra. Esso è soggetto a regole meno uniformi e meno rigorose perché le circostanze in cui si trova sono mobili e tempestose e soprattut-to perché è costretto ad impiegare continuamente mezzi nuovi e rapidi per affrontare pericoli nuovi ed urgenti.Il governo costituzionale si occupa principalmente della libertà civile, il governo rivoluzionario principalmente del-la libertà pubblica. Sotto il regime costituzionale è pressoché sufficiente proteggere gli individui contro gli abusi del potere pubblico; sotto il regime rivoluzionario il potere pubblico stesso è obbligato a difendersi contro tutte le fa-zioni che l’attaccano.Il governo rivoluzionario deve dare ai buoni cittadini tutta la protezione nazionale, deve dare ai nemici del popolo soltanto la morte.Queste nozioni bastano a spiegare l’origine e la natura delle leggi che chiamiamo rivoluzionarie [...].Se il governo rivoluzionario deve essere più attivo nella sua marcia e più libero nei suoi movimenti di quanto sia il governo ordinario, è forse per questo meno giusto e legittimo? No; esso è fondato sulla più santa di tutte le leggi, la salute del popolo, sul più irrefragabile di tutti i titoli, la necessità.Anch’esso ha le sue regole tutte fondate sulla giustizia e sull’ordine pubblico. Esso non ha niente di comune con l’arbitrio. Non le passioni particolari devono dirigerlo, ma l’interesse pubblico.

in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1992

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Edmund Burke, Giudizio contro la rivoluzioneL’irlandese Edmund Burke, uno tra i maggiori oppositori della rivoluzione francese, esprime le sue considerazioni nel famoso pamphlet Riflessioni sulla rivoluzione francese (1790).

È questa incapacità ad affrontare la lotta contro le difficoltà che ha obbligato l’arbitraria Assemblea di Francia ad iniziare i propri piani di riforma con una abolizione radicale di tutto. Ma è forse in un’opera di distruzione e di

sovvertimento che si manifesta la sapienza? Il vostro polpaccio potrebbe fare ciò altrettanto bene quanto la vostra Assemblea. L’intelletto più ottuso e la mente più rozza sono più che sufficienti a conseguire questo scopo. […] In-vece sapere al tempo stesso preservare le forme esistenti innovandole in ciò che è necessario costituisce impresa ben diversa […]. Otterremo più con la sapienza che con la forza. Se mi è lecito fare appello a ciò che ora a Parigi sembra essere completamente caduto in disuso, vale a dire all’esperienza, vi dirò che nel corso della mia vita […] non ho ancora visto attuare alcun piano di riforma il quale non sia stato sottoposto alle osservazioni di coloro che erano molto inferiori (quanto a capacità di intendimenti) alle persone stesse che intraprendevano l’esecuzione del proget-to. Con una progressione lenta ma continua venivano controllati gli effetti di ogni nuovo piano compiuto; e secon-do che il primo dava un esito buono o cattivo, si procedeva al secondo; per tal modo, seguono un ordine illumina-to e razionale, tutta la serie progressiva è stata condotta al sicuro fine. Noi ci preoccupiamo che i singoli elementi di un sistema non si urtino tra loro. Man mano che si palesano dei mali insiti nella attuazione del progetto meglio promettente, si provvede ad eliminarli. Si cerca di sacrificare quanto meno possibile un vantaggio e un altro van-taggio. Siamo soliti fare opera di conciliazione di compensazione, contemporaneamente. Siamo capaci di unificare in una coesistenza unitaria le diverse anomalie e i contrastanti princìpi che si manifestano nella coscienza degli uomini e nelle loro attività. Sorge da tutte queste circostanze, non già un capolavoro di semplicismo, ma un lavoro di complessità, il che vale assai meglio. […]. Procedere in questo modo […] significa secondo me seguire un criterio di profonda saggezza. Al contrario ciò che i vostri politicanti credono sia la caratteristica di una ardita e baldanzo-sa genialità è soltanto prova di deplorevole mancanza di capacità. La loro precipitazione violenta e il misconosci-mento di ogni processo naturale fanno sì che essi cadono ciecamente in balia di tutti gli avventurieri, di tutti i fa-citori di progetti, di tutti i ciarlatani empirici.

E. Burke, Riflessioni sulla rivoluzione francese, in Il problema storico-politico nel pensiero contemporaneo, a cura di F. Tonon, D’Anna, Messina-Firenze 1974

Alexis de Tocqueville, Gli scopi della rivoluzioneAlexis de Tocqueville valuta gli scopi della rivoluzione nel volume L’antico regime e la rivoluzione (1856), un’opera che lo rese famoso e diede un contributo fondamentale all’interpretazione della rivoluzione francese.

La Rivoluzione non è stata fatta, come si è creduto, per distruggere il potere della fede religiosa; ad onta delle apparenze, è stata una rivoluzione essenzialmente sociale e politica; e, nell’ambito di tali istituzioni, si è propo-

sta non già di perpetuare il disordine, di renderlo in certo modo stabile e di fare dell’anarchia un sistema, come diceva uno dei suoi principali avversari, bensì di accrescere il potere e i diritti dell’autorità pubblica. Essa non dove-va cambiare il carattere che la nostra civiltà aveva avuto fino ad allora, come altri hanno pensato, né arrestarne i progressi, e nemmeno alterare nella sua essenza alcuna delle leggi fondamentali su cui poggiano le società umane dell’Occidente. Quando la separiamo da quegli incidenti che ne mutarono per breve tempo la fisionomia nei diver-si tempi e nei diversi paesi, per considerarla in sé stessa, si vede chiaramente che risultato di questa Rivoluzione fu l’abolizione degli istituti politici che, durante parecchi secoli, avevano regnato in modo esclusivo sulla maggior parte dei popoli europei e che ordinariamente si definiscono come istituti feudali, per sostituirvi un ordine sociale e politico più uniforme e semplice, basato sull’eguaglianza delle condizioni.Bastava questo per provocare un’immensa rivoluzione; quelle istituzioni antiche, infatti, non soltanto erano ancora mescolate, e come intrecciate a quasi tutte le leggi religiose e politiche d’Europa, ma avevano anche suggerito una quantità di idee, sentimenti, abitudini, costumi che, ad esse aderivano. Fu necessaria una spaventosa convulsione per distruggere ed estrarre di colpo, dal corpo sociale, una parte a cui si collegavano così tutti i suoi organi. Perciò la Rivoluzione parve più grande che non fosse; sembrava che distruggesse tutto, perché quanto distruggeva aveva rapporto con ogni cosa e, in certo modo, faceva corpo con tutto.

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Per quanto sia stata radicale, la Rivoluzione ha tuttavia innovato meno di quanto si suppone in genere: dimostrerò in seguito che è stata molto meno novatrice di quanto si crede. È vero invece che essa ha distrutto interamente, o è in via di distruggere (perché dura ancora), tutto quanto nell’antica società derivava dalle istituzioni aristocratiche e feudali, tutto quanto vi si riallacciava in qualche modo tutto quanto ne portava, fosse pure minima, l’impronta. Del vecchio mondo, ha conservato soltanto quanto a tali istituzioni era estraneo, o poteva esistere senza di esse. Perché la Rivoluzione è stata tutt’altro che un avvenimento fortuito. Ha colto il mondo alla sprovvista, è vero; ma è il compimento di un lungo lavorio, la conclusione improvvisa e violenta di un’opera, alla quale avevano lavorato dieci generazioni di uomini. Se non fosse avvenuta, il vecchio edificio sociale sarebbe egualmente caduto, qui più presto, là più tardi; soltanto, avrebbe continuato a cadere pezzo a pezzo, invece di sprofondare di colpo. La Rivo-luzione ha compiuto bruscamente, con uno sforzo convulso e doloroso, senza transizione, senza precauzioni né riguardi, quanto si sarebbe compiuto a poco a poco, da sé e in molto tempo. Fu questa, la sua azione.

A. de Tocqueville, L’antico regime e la rivoluzione, Rizzoli, Milano 1981

John Fitzgerald Kennedy, Discorso di BerlinoQuesto secondo discorso, tenuto il 26 giugno 1963 nella Rudolph Wilde Platz di Berlino durante una storica visita, è stato reso celebre soprattutto dalla frase «Ich bin ein Berliner» (io sono un berlinese) con la quale Kennedy illustrò le ragioni dello scontro tra democrazia e comunismo.

Sono venuto in questa città come ospite del vostro illustre sindaco [Willy Brandt, n.d.r.], che ha simboleggiato nel mondo lo spirito combattivo di Berlino-ovest. E sono fiero di visitare la Repubblica Federale con il vostro illustre

Cancelliere [Konrad Adenauer, n.d.r.], che da tanti anni impegna la Germania per la democrazia, la libertà e il pro-gresso, e di trovarmi qui in compagnia del mio compatriota generale Clay, che è stato in questa città nei grandi momenti di crisi ch’essa ha attraversato [organizzando il ponte aereo durante la crisi del 1948, n.d.r.], e vi ritorne-rà, se mai ve ne sarà bisogno. Duemila anni fa il maggior vanto era questo: Civis romanus sum. Oggi, nel mondo della libertà, il maggior vanto è poter dire: Ich bin ein Berliner. C’è molta gente al mondo che realmente non com-prende – o dice di non comprendere – quale sia il gran problema che divide il mondo libero dal mondo comunista. Vengano a Berlino. Ci sono taluni i quali dicono che il comunismo rappresenta l’ondata del futuro. Che vengano a Berlino. E ci sono poi alcuni che dicono, in Europa e altrove, che si potrebbe lavorare con i comunisti. E vengano anche questi a Berlino. E ci sono persino alcuni, pochi, i quali dicono che è vero, sì, che il comunismo è un cattivo sistema, ma esso consente di realizzare il progresso economico. Lass’ Sie nach Berlin kommen [Fateli venire a Ber-lino, n.d.r.]. La libertà ha molte difficoltà e la democrazia non è perfetta; ma noi non abbiamo mai dovuto erigere un muro per chiudervi dentro la nostra gente e impedirle di lasciarci.Desidero dire a nome dei miei concittadini, che vivono molte miglia lontano, al di là dell’Atlantico – e sono remoti da voi – che per loro è motivo di massima fierezza il fatto di aver potuto condividere con voi, sia pure a distanza, la storia degli ultimi diciotto anni. Non so di alcuna città che, contesa per diciotto anni, conservi ancora la vitalità, la forza, la speranza e la risolutezza della città di Berlino-ovest. Sebbene il muro rappresenti la più ovvia e lampante dimostrazio-ne degli insuccessi del sistema comunista dinanzi agli occhi del mondo intero, non ne possiamo trarre soddisfazione. Esso rappresenta infatti, come ha detto il vostro sindaco, un’offesa non solo alla storia ma all’umanità, perché divide le famiglie, divide i mariti dalle mogli e i fratelli dalle sorelle, e divide gli uni dagli altri i cittadini che vorrebbero vivere insieme. Ciò che vale per questa città, vale per la Germania. Una pace veramente durevole in Europa non potrà essere assicurata finché a un tedesco su quattro si negherà il diritto elementare dell’uomo libero, e cioè quello della libera scelta. In diciotto anni di pace e di buona fede, questa generazione tedesca si è guadagnata il diritto di essere libera e con esso il diritto di unire le famiglie e la nazione in pace durevole e in buona volontà verso tutti i popoli. Voi vivete in un’isola fortificata della libertà, ma la vostra vita è parte della vita del mondo libero. Vorrei quindi chiedervi, conclu-dendo, di levare il vostro sguardo al di là dei pericoli di oggi e verso la speranza di domani, al di là della semplice liber-tà di questa città di Berlino o della vostra patria tedesca e verso il progresso della libertà dovunque, al di là del muro e verso il giorno della pace con giustizia, al di là di voi stessi e di noi, verso l’umanità tutta. La libertà è indivisibile, e quando un uomo è in schiavitù, nessun altro è libero. Quando tutti saranno liberi, allora potremo guardare il giorno in cui questa città sarà riunita – e così questo paese e questo grande continente europeo – in un mondo pacifico e ricco di speranza. Quando questo giorno infine verrà – e verrà – la popolazione di Berlino-ovest potrà avere motivo di mi-surata soddisfazione per il fatto di essersi trovata sulla linea del fronte per quasi due decenni. Tutti gli uomini liberi, ovunque si trovino, sono cittadini di Berlino. Come uomo libero, quindi, mi vanto di dire: Ich bin ein Berliner.

J.F. Kennedy, Ai berlinesi, in La nuova frontiera, Manifestolibri, Roma 1997

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Martin Luther King, Io ho un sognoLe celebri parole (1963) di Martin Luther King sono una grande testimonianza delle tensioni sociali e razziali che caratterizzarono la presidenza Kennedy e più in generale tutti gli anni Sessanta. Il pastore e leader del movimento per i diritti civili dei neri, che nel 1968 verrà assassinato a Memphis, illustra gli obiettivi raggiunti e da raggiungere per una piena uguaglianza e integrazione.

Siamo venuti qui, oggi, per rappresentare la nostra condizione vergognosa. In un certo senso siamo venuti alla capitale del paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della repubblica scrissero le sublimi parole

della Costituzione e la Dichiarazione d’Indipendenza, firmarono un «pagherò» del quale ogni americano sareb be diventato erede. Questo «pagherò» permetteva che tutti gli uomini, sì, i negri tanto quanto i bianchi avrebbero goduto dei princìpi inalienabili della vita, della libertà e del perseguimento della felicità. È ovvio, oggi, che l’Ame-rica è venuta meno a questo «pagherò» per ciò che riguarda i suoi cittadini di colore. Invece di onorare questo suo sacro obbligo, l’America ha consegnato ai negri un assegno fasullo; un assegno che si trova compilato con la frase: «fondi insufficienti». Noi ci rifiutiamo di credere che i fondi siano insufficienti nei grandi caveau delle opportunità offerte da questo paese. E quindi siamo venuti per incassare questo assegno, un assegno che ci darà, a presenta-zione, le ricchezze della libertà e della garanzia di giustizia […]. Coloro che sperano che i negri abbiano bisogno di sfogare un poco le loro tensioni e poi se ne staranno appagati, avranno un rude risveglio, se il paese riprenderà a funzionare come se niente fosse successo. Non ci sarà in America né riposo né tranquillità fino a quando ai negri non saranno concessi i loro diritti di cittadini. I turbini della rivolta continueranno a scuotere le fondamenta della nostra nazione fino a quando non sarà sorto il giorno luminoso della giustizia […] In questo nostro procedere verso la giusta meta non dobbiamo macchiarci di azioni ingiuste […]. Non dovremo permettere che la nostra protesta creativa degeneri in violenza fisica […]. Questa meravigliosa nuova mili-tanza che ha interessato la comunità negra non dovrà condurci a una mancanza di fiducia in tutta la comunità bianca […]. Non possiamo camminare da soli. E mentre avanziamo, dovremo impegnarci a marciare per sempre in avanti. Non possiamo tornare indietro. Ci sono quelli che chiedono a coloro che chiedono i diritti civili: «Quando vi riterrete soddisfatti?» […]. Non potremo mai essere soddisfatti finché i nostri figli saranno privati della loro dignità da cartelli che dicono: «Riservato ai bianchi». Non potremo mai essere soddisfatti finché i negri del Mississippi non po-tranno votare e i negri di New York crederanno di non avere nulla per cui votare. No, non siamo ancora soddisfatti, e non lo saremo finché la giustizia non scorrerà come l’acqua e il diritto come un fiume possente […]. E perciò, amici miei, vi dico che, anche se dovrete affrontare le asperità di oggi e di domani, io ho sempre davanti a me un sogno. È un sogno profondamente radicato nel sogno americano, che un giorno questa nazione si leverà in piedi e vivrà fino in fondo il senso delle sue convinzioni: noi riteniamo ovvia questa verità, che tutti gli uomini sono creati uguali. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno sulle rosse colline della Georgia i figli di coloro che un tempo furono schia vi e i figli di coloro che un tempo possedettero schiavi, sapranno sedere insieme al tavolo della fratellanza. Io ho davanti a me un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, uno stato colmo dell’arroganza dell’ingiustizia, colmo dell’arroganza dell’oppressione, si trasformerà in un’oasi di libertà e giustizia. Io ho davanti a me un sogno, che i miei quattro figli piccoli vivranno un giorno in una nazione nella quale non saranno giudicati per il colore della loro pelle, ma per le qualità del loro carattere. Ho davanti a me un sogno, oggi!

M.L. King, Io ho un sogno. Scritti e discorsi che hanno cambiato il mondo, SEI, Torino 1993

Patrice Lumumba e Leopold Sedar Senghor, Due leader per l’indipendenza dell’AfricaDue testi significativi per la storia dell’Africa: il leader congolese Patrice Lumumba pronuncia un discorso a Leopoldville il 30 giugno 1960, un anno prima del suo assassinio; segue un brano del leader senegalese Leopold Sedar Senghor, poeta, sostenitore del “socialismo africano” e dell’idea di “negrità”, presidente della repubblica del proprio Paese dal 1960 al 1980.

Il Congo

Le nostre ferite sono ancora troppo recenti e troppo dolorose perché possiamo cancellarle dalla nostra memoria, perché possiamo dimenticare quale fu il nostro destino in 80 anni di regime coloniale. Abbiamo conosciuto il

lavoro spossante […], le ironie, gli insulti, i colpi che dovevamo subire […] perché eravamo dei negri […]. Siamo

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stati spogliati delle nostre terre […], abbiamo conosciuto le sofferenze atroci dei reietti […]: chi dimenticherà le sparatorie durante le quali morirono tanti nostri fratelli, o le prigioni dove furono brutalmente gettati coloro che non volevano sottomettersi a un regime di ingiustizia, di oppressione e di sfruttamento […]? Tutto ciò è finito. La Repubblica del Congo è stata proclamata e il nostro caro paese è ora nelle mani dei suoi propri figli. Insieme, fra-telli, inizieremo una nuova lotta, una lotta sublime che condurrà il nostro paese alla pace, alla prosperità e alla grandezza. Insieme stabiliremo la giustizia sociale […]. Mostreremo al mondo ciò che può fare l’uomo di colore quando lavora nella libertà e faremo del Congo il centro che irradia la luce su tutta l’Africa […]. Elimineremo defi-nitivamente ogni discriminazione […], faremo regnare non la pace dei fucili e delle baionette, ma la pace dei cuori e della buona volontà. E per tutto ciò […] potremo contare non soltanto sulle nostre grandi forze e sulle nostre immense ricchezze, ma anche sull’assistenza di numerosi paesi stranieri di cui accetteremo la collaborazione ogni qualvolta sarà leale e non cercherà di imporci una determinata politica […]. Ma per raggiungere senza ritardi questo obiettivo, chiedo a tutti voi legislatori e cittadini congolesi, di aiutarmi con tutte le vostre forze. Vi chiedo di di-menticare le rivalità tribali che ci esauriscono e che rischiano di farci disprezzare all’estero. Chiedo alla minoranza parlamentare di aiutare il mio governo […] e di restare entro i limiti legali e democratici. Chiedo a tutti di non in-dietreggiare dinanzi ad alcun sacrificio per garantire il successo della nostra grande impresa […]. L’indipendenza del Congo segna un passo decisivo verso la liberazione di tutto il continente africano […]. Il nostro forte governo na-zionale popolare sarà la salvezza del paese. Invito tutti i cittadini congolesi, uomini, donne e giovani, a porsi deci-samente al lavoro al fine di creare un’economia nazionale per costruire la nostra indipendenza economica. Onore ai combattenti della libertà nazionale. Viva l’indipendenza e l’unità africana! Viva il Congo indipendente e sovrano!

Il Senegal

Il “socialismo” si definisce ormai, per noi, come il metodo che mette la ricerca e le tecniche – politiche, economiche, sociali, culturali – al servizio della socializzazione […], della civiltà universale. È l’umanesimo dei tempi contempo-

ranei. La Negrità, da negativa, si fa positiva. Resta sempre l’insieme dei valori – politici, morali, sociali, culturali – del mondo nero, ma ormai si fonda non sulla sola razza, ma anche sulla geografia e sulla storia […]. Dobbiamo deporre il complesso d’inferiorità […], dobbiamo enumerare i nostri valori e coltivarli. È quello che abbiamo fatto da 30 anni in qua […]. Dopo la seconda guerra mondiale sono sorte circa 25 nazioni africane in aggiunta alle due esistenti. Dal-la loro entrata sulla scena politica, esse sono state ammesse all’Organizzazione delle Nazioni Unite, dove fanno sen-tire il messaggio politico dell’Africa. Tale messaggio si può riassumere nella formula: cooperazione mediante il dialo-go. In Africa è con il dialogo […] che si risolvono tutte le divergenze […]. Ma la negrità […] non deve respingere gli apporti stranieri, deve soltanto operarvi una scelta […]. Per questa ragione abbiamo respinto l’ateismo e la violenza del socialismo scientifico, fondamentalmente contrari al nostro genio, e abbiamo adottato la ricerca e la tecnica, di cui difettiamo perché poco colti. Abbiamo sviluppato soprattutto la cooperazione, non collettivista, ma comunitaria. Poiché la cooperazione – familiare, contadina, tribale – è stata in ogni tempo tenuta in considerazione in Africa nera.

in G. Calchi Novati, La decolonizzazione, Loescher, Torino 1983

Oscar Arnulfo Romero, Dalla parte dei più deboliOscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador, fu assassinato dagli squadroni della morte il 24 marzo 1980 durante la celebrazione dell’eucarestia. Diventato arcivescovo con il favore delle classi dirigenti, che pensavano di avere in lui un docile sostenitore della loro politica di oppressione, Romero si fece invece difensore dei diritti dei più deboli, come testimoniano questi brani tratti dal suo diario. Per questo motivo egli subì violente intimidazioni, di fronte alla quali non accettò di piegarsi.

Alla fine della messa ho ricevuto una telefonata dalla casa presidenziale. Volevano che andassi perché avevano bisogno di un consiglio; ma li ho pregati di venire loro da me, dato che la mia presenza nella casa presidenzia-

le poteva essere mal interpretata […]. Sono venuti all’ospedale della Divina Provvidenza […] con grande sfoggio di guardie del corpo e di ispettori di polizia, uno spiegamento piuttosto fastidioso nel clima di semplicità dell’ospeda-le […]. Erano preoccupati per la critica che la nostra radio YSAX aveva fatto alla nomina del direttore della scuola militare […]. L’emittente cattolica l’ha criticato per il suo operato, nel regime anteriore […]. Egli è infatti il respon-sabile nella distorsione delle notizie, delle campagne calunniose contro la Chiesa, delle falsità e delle menzogne che venivano diffuse dalla casa presidenziale. Essi hanno cercato di difenderlo. Noi abbiamo mantenuto la nostra posi-zione: abbiamo ribadito che, se non ci sarà un’azione più drastica nel cambiare l’immagine militare nel paese, questo colpo di stato non darà risultati e il popolo soffrirà un’altra sconfitta. Abbiamo anche criticato il modo in

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cui è stato nominato il ministro della difesa, che era presente, nominato soltanto dai militari, mentre ancora non c’erano civili nella giunta di governo […]. Ho anche approfittato per denunciare le offese che la Chiesa sta riceven-do anche sotto questo nuovo regime e il senso di repressione che il popolo continua a sentire a causa delle azioni militari […].

La messa è stata celebrata nella basilica. C’era molta aspettativa perché volevano sentire l’opinione della Chiesa e la sua posizione di fronte al nuovo governo […]. Ho chiesto di assumere un atteggiamento prudente e di non attac-care il nuovo governo prima di averlo potuto giudicare bene. Ho elevato però una protesta verso i membri della giunta per la serie di episodi violenti, di sopraffazioni militari […] e per la lentezza nel realizzare i propositi di dife-sa dei diritti umani: ho insistito soprattutto sul fatto che bisogna rendere conto degli scomparsi e processare tutti i colpevoli.

O.A. Romero, Diario, La Meridiana, Molfetta 1990

Rigoberta Menchú, In difesa dei popoli indigeniRigoberta Menchú, india guatemalteca, premio Nobel per la pace (1992) e ambasciatrice dell’UNESCO nel mondo in difesa dei diritti dei popoli indigeni, in un’intervista a un quotidiano esprime un appello appassionato in favore dei popoli indigeni: «Ai paesi ricchi noi chiediamo per prima cosa di dare opportunità ai popoli di partecipare, di parlare, di esprimere le proprie idee. C’è un popolo disperso nel mondo che, ovunque, non ha voce».

Negli ultimi vent’anni sono stata in tutti i paesi dove ci sono popoli indigeni. E dovunque ho riscontrato la stes-sa realtà: nessuno vuole darci voce. Tra gli indios ci sono tecnici, funzionari, scienziati che sono emarginati nei

loro paesi […]. Ai paesi ricchi, noi chiediamo per prima cosa di dare opportunità ai popoli di partecipare, di parlare, di esprimere le proprie idee. C’è un popolo disperso nel mondo che, ovunque, non ha voce […]. Ci sono troppi che vogliono parlare al nostro posto […]: anche questa, in fondo, è una forma di razzismo. Si discute da vent’anni di una dichiarazione comune dei popoli indigeni all’ONU: non si è ancora arrivati a niente. E troppo spesso, mentre […] si discuteva […] in quei paesi, come il mio Guatemala, si consumava il genocidio, la deportazione, la distruzio-ne di un popolo […]. Noi chiediamo soprattutto rispetto. Rispetto per i dirigenti dei movimenti indigeni, uomini o donne che siano; persone che sono riuscite a trionfare sulle difficoltà che hanno incontrato, che sono riuscite a sopravvivere a genocidi ed ecocidi […].Noi stiamo chiedendo rispetto per la natura, che per i popoli indigeni è un luogo sacro: perché è l’insieme della natura ad essere sacro, per noi e per la nostra identità. Chiediamo rispetto per i diritti umani. Perché la globalizza-zione non è mai arrivata ad occuparsene: si occupa di economia, soprattutto, di politica, ma non guarda alla dif-fusione dei diritti delle persone. Io vengo da un continente a cui non manca nulla, è profondamente ricco, profon-damente diseguale, e la maggior parte della popolazione non avrà nulla anche dallo sfruttamento delle materie prime. E dove c’è povertà, è sempre forte il rischio delle dittature. Per questo chiediamo spazi di democrazia, di dialogo. Perché si deve pensare che altrimenti possono tornare le dittature, quando non si dà voce ai problemi di chi vive in quelle terre […]. Troppo spesso i paesi ricchi e potenti danno la colpa all’ONU di non saper risolvere le crisi locali, quando loro stes-si impediscono alle Nazioni Unite di mettere fine a queste dittature. Nessun paese che ha interessi economici e geopolitici di grande respiro può sfuggire all’obbligo di occuparsi dei diritti umani […]. È necessario un lavoro per-manente per proporre soluzioni, disegnare modelli […]: le manifestazioni non devono restare fini a se stesse. Ad esempio, si chiede la cancellazione del debito: sono favorevole alla cancellazione totale, ma chiedo anche che ci sia un controllo internazionale su come verranno utilizzati i soldi che non vengono restituiti alla Banca Mondiale. Perché c’è il rischio che governi totalitari di paesi poveri continuino a rubare, a vivere nella corruzione: e non è detto che i soldi non usati per pagare il debito vadano allo sviluppo […]. Tutti i popoli indigeni […] chiedono voce e rispetto, a viso aperto […]: gli indios hanno diritto di essere ascoltati a viso aperto, senza dover ricorrere alle mar-ce e ai passamontagna.

R. Menchú, Il mondo che cancella gli indigeni, in «la Repubblica», 8 luglio 2001

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D o c u m e n t i

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Enzo Bianchi, Accogliere lo stranieroEnzo Bianchi è priore della comunità monastica di Bose, fondata alla metà degli anni Sessanta proprio all’indomani della conclusione del Concilio Vaticano II. Con particolare riguardo allo sviluppo storico delle tre “grandi religioni” monoteiste, ebraismo, cristianesimo e islam, pone l’accoglienza dello straniero come punto nodale per un dialogo autenticamente umano e religioso.

Secondo la Bibbia, il primo omicidio è avvenuto nei pressi di un altare, dopo un sacrificio offerto a Dio, e si trat-tava di un fratricidio. Ed è innegabile che nella storia il monoteismo sia a più riprese divenuto motivo di violen-

ze e guerre. Soprattutto quando il “monoteismo” singolare è stato declinato al plurale come “monoteismi”, indi-cando con ciò le tre grandi religioni ebraica, cristiana e islamica. Non si può nemmeno tacere che nella storia cristiana è avvenuta la demonizzazione dell’altro: il pagano, l’eretico, l’ebreo, il musulmano, sono alcuni dei visi storici in cui il cristianesimo ha incarnato il Nemico, l’Anticristo […]. In un tempo in cui il cristianesimo sembra trovare un assetto minoritario nelle società occidentali, forse è più realizzabile il compito di rompere con identifi-cazioni nazionali, sempre fomentatrici di violenza. Il cristianesimo dovrebbe riscoprire la categoria della […] “stra-nierità”, essenziale alla rivelazione cristiana […]. È proprio questa condizione di stranierità che può costituire la base di partenza per un riconoscimento dell’altro e un incontro con lui. È così che si può evitare ogni rischio di fare dell’altro un nemico, cosa che l’evangelo interdice al cristiano, mentre gli chiede di amare colui che si fa suo nemi-co […]. In ogni caso, ogni religione dovrebbe sempre saper guardare all’altro uomo e soprattutto all’uomo sofferen-te e nel dolore: il dolore è di tale estensione universale che nessuna cultura e nessuna religione può pretendere di detenerne il segreto. La sofferenza dell’altro uomo è appello alla responsabilità e alla solidarietà e memoria della fratellanza. Ma ogni incontro esige preliminarmente la conoscenza, e questa esige la volontà positiva di dare del tempo all’altro, di ascoltarlo e di condividere con lui ciò che si ha di più prezioso. L’incontro dei monoteismi richie-de che si sappia ascoltare le “storie sacre” gli uni degli altri, non solo nel senso di ascoltare le Scritture che essi considerano sacre, ma anche di ascoltare i racconti delle esperienze e delle tradizioni spirituali degli altri. E questo implica il riconoscimento dell’intervento divino nelle religioni degli altri […]. Si tratta di uscire da sé, di andare in-contro all’Altro, di dare all’altro il proprio tempo per ascoltarlo e giungere a conoscerlo […]. Il dialogo, come ogni comunicazione, è un rischio. E un dialogo serio e condotto in verità non lascia immutati, ma trasforma. Questo rischio del dialogo, della rinuncia alla propria autosufficienza, all’isolamento superbo e miope, deve essere corso da chi oggi vuole costruire un mondo più conviviale, più pacifico, più fraterno, e vuole andare più a fondo dell’espe-rienza spirituale.

E. Bianchi, Fratello, Ti amo perché sei mio nemico, in «La Stampa», 27 settembre 2002

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L a c o n q u i s t a d e l l a l i b e r t à

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La rivolta napoletana capeggiata da Masaniello nel 1647 ebbe limiti importanti, nonostante la notevole eco nella cronachistica contemporanea e nella storiografi a successiva. Il carattere estremamente composito del moto di rivolta non ne costituì un elemento di forza; al contrario, non permise che esso si radicasse all’interno della capitale del regno e neppure che si collegasse solidamente con le rivolte delle province.

La rivolta fu la manifestazione esplosiva di forze nuove o ma-ture, espressione di sviluppi più moderni e avanzati, urgenti

nella società napoletana e decise ad assumerne la guida, se non a conquistarne l’egemonia, in base alla spinta di concreti interessi o di esigenze di vario ordine (religioso, autonomistico, etnico…)? Per quanto l’indagine storica sia andata avanti come si è detto, la risposta tuttora più persuasiva appare quella ne-gativa. Certo, il panorama sociale della rivolta […] non è più quello scheletrico e rigido che ne vedeva al centro una popula-ce senza cultura e senza ragione. La presenza di elementi diffe-renziati, di grande rilievo sociale, dai «togati» agli artigiani, appare ormai evidente, e sull’elemento sociale da riconoscere fra le dimensioni essenziali della vicenda abbiamo già insistito. Ma le componenti sociali di significato «moderno» ravvisabili nei moti, in tutte le loro fasi, appaiono troppo disperse, preca-rie, a rimorchio più spesso che alla guida degli even ti, perché si possa persuasivamente e attendibilmente riportarne ad esse il centro motore, l’iniziativa, la nota caratterizzante. Tra l’altro, è da curare che l’acquisita consapevolezza di ciò che abbiamo indicato come preistoria e retroterra storico della rivolta non pregiudichi la piena percezione dello spontaneismo, da cui essa fu largamente caratterizzata nel suo insorgere e nei suoi svi-luppi. Nella sua spontaneità risiede, infatti, una chiave di lettu-ra importante per intenderne labilità e incertezze altrimenti difficili a spiegarsi. Non si trattò, insomma, nelle sue parti più cospicue e condizionanti, di un mondo di avanguardia o di una

realtà storica alternativa, un movimento per scuotere un’op-pressione che faceva da remora al suo affermarsi. Era – nei momenti di maggiore complessità – un coacervo di forze diver-se, con componenti e note anche «moderne», ma essenzial-mente polarizzato sulla salvaguardia di posizioni «tradiziona-li», sulla ripulsa di pressioni strutturali rese sempre meno so-stenibili da una loro purtroppo prolungata accentuazione con-giunturale sulla ricerca di spazi meno angusti di quelli che l’ordine costituito aveva finito col riservare ai gruppi sociali in esso meno favoriti. Che poi lo schieramento contrapposto a quello rivoltoso – e per lo meno altrettanto composito – non sia neppur esso caratterizzabile, nella sua essenza e nelle sue più forti componenti, in termini di istanze e di prospettive decisa-mente «moderne», è giudizio che l’analisi storica non consente di evitare, ma che non sorprende nel quadro delle tendenze no-toriamente caratterizzanti della storia napoletana nell’età mo-derna. Per gli stessi «togati» e, in genere, forensi è pur sempre da risolvere il problema della misura, a mio avviso assai rile-vante, in cui si trattava di élites senza dubbio del massimo rilie-vo e protagoniste di un ruolo centrale, ma senza collegamenti davvero radicati e determinanti con la dialettica sociale di fon-do del paese. Anzi, il fatto che sussistessero tensioni istituzio-nali e politiche così forti, pur in tanta sostanziale omogeneità, per non dire identità, sociale dell’apparato di governo e di po-tere e in tanta frequente coincidenza e ricorrere in esso di uomi-ni e di famiglie, deve essere considerato come sintomo di una crisi di carattere decisamente strutturale e come indicazione di un vizio di fondo del sistema: crisi e vizio non superabili senza rimescolamenti di forze e di rapporti di fondo rispetto a quel quadro sociale. Quel sistema, però, non solo non contemplava un tale genere di rimescolamenti, ma non era neppure in grado di offrirne. E anche questo è un tratto per cui i problemi napole-tani dell’epoca hanno un interesse tutt’altro che locale e si le-gano a quelli generali dell’ancien régime in Europa.

G. Galasso, Prefazione, in A. Musi, La rivolta di Masaniello nella scena politica barocca, Guida, Napoli 1989

Giuseppe Galasso, I limiti della rivolta napoletana del 1647

S T O R I O G R A F I A

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Il signifi cato dei due documenti più importanti della rivoluzione dal carattere incruento, la Declaration of Rights e il Bill of Rights, risiede nell’esercizio congiunto del potere, e nei limiti a esso imposto, da parte del sovrano e del parlamento.

Quella che è stata definita la Gloriosa Rivoluzione non co-stituì una rottura o un rivolgimento veri e propri né nel

campo sociale né in quello religioso ed ancora meno nelle sfe-

re della politica e dell’economia. Essa pone in pieno la que-stione della possibilità di una rivoluzione senza urti sanguino-si e senza traumi civili. Tutto porta a credere […] che simile processo non solo effettivamente si verificò ma era largamen-te auspicabile. Gli Inglesi, nella loro storia compresa tra la metà del secolo XV e la metà del XVII, avevano già saputo percorrere in modo più o meno improduttivo le strade della ferocia civile o della contestazione politica radicale. Essi die-dero alla fine del secolo XVII la prova assai più rara ed ecce-zionalmente costruttiva di uno scontro incruento, e non meno decisivo per questo, su problemi di notevolissimo rilievo. Tale

Alberto Tenenti, L’eredità della gloriosa rivoluzione17

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Tra la fi ne del Seicento e l’inizio del Settecento, l’evoluzione delle due formazioni politiche rivali protagoniste della vita parlamentare inglese – i whigs e i tories – viene tracciata alla luce della specifi cità del sistema politico inglese.

Dopo la restaurazione del 1660, […] il Parlamento […] si affermò come l’istituzione principale dell’equilibrio bri-

tannico: lo spazio in cui le opposte parti politiche furono co-strette ad incontrarsi, e quindi a legittimarsi a vicenda. […] Il Parlamento […] diventò l’arbitro del diritto di governare, il luogo dal quale si cominciò a controllare il potere esecutivo. Il centro della diarchia si spostò in direzione del Parlamento, là dove si determinava l’equilibrio politico fra le forze che gestivano il paese.Due nomi: whigs e tories, designarono i partiti contrapposti. Furono i nomignoli dispregiativi usati, ciascuno dei due, dalla parte avversa. Tories erano gli insorti cattolici irlandesi, e indicavano quanti, secondo i loro avversari, inclinavano verso il «papismo» e l’assolutismo monarchico. Per chi difendeva i valori della rivoluzione – la libertà di coscienza, il dissenso religioso – il pericolo era rappresentato da quanti volevano

riportare l’Inghilterra sotto il tallone dell’assolutismo filo-cattolico; erano nemici stranieri (irlandesi) ignoranti e rozzi: i tories, appunto. Whigs erano invece briganti scozzesi, così tenacemente attaccati alla tradizione tribale e presbiteriana, da non volerne sapere di integrarsi nella cultura anglicana. Per quelli che consideravano indispensabile riportare l’In-ghilterra sotto l’ordine monarchico, il pericolo veniva da altri rozzi stranieri che seminavano la divisione e il disordine, scozzesi, in questo caso: i whigs. Ciascuno dei due termini denunciava dunque l’eccesso, la barbarie in cui la parte av-versa rischiava di far cadere il paese agli occhi dei propri av-versari politici. […]I tories e i whigs […] erano due schieramenti politico-ideolo-gici, due stratificazioni di fedeltà, clientele ed appartenenze, come ce n’erano altrove in Europa. È vero però che la ricchez-za e la complessità ideale dei loro dibattiti erano senza con-fronto, e che il loro radicamento nella società permetteva loro, meglio che in qualunque altro paese, di esprimere esi-genze e contrasti sociali. […]Dal punto di vista tory, solo il re, legittimo depositario della sovranità, rappresenta l’unità del paese e garantisce dalla tragedia della ribellione, della guerra civile. I sudditi gli de-vono obbedienza, e il Parlamento esiste per permettere ai loro rappresentanti di dialogare con il sovrano, non di gover-

Adriano Prosperi e Paolo Viola, Rivoluzione e parlamento: whigs e tories18

svolta positiva fu resa possibile anche dalla sostanziale omo-geneità dello strato sociale che ne costituì il supporto ed in-sieme l’elemento direttivo. Whig e tory che apertamente si affrontavano erano entrambi un’emanazione della grande ari-stocrazia e della piccola nobiltà di campagna oltre che di gruppi economici di successo […]. Succeduto a Carlo II, Giaco-mo II intese e credette continuare nell’assolutismo cui il pre-decessore si era ispirato soprattutto dopo il 1680 […]. Prese grande rilievo l’iniziativa del monarca di sospendere – con la Dichiarazione d’Indulgenza del 1687 […] – l’applicazione delle leggi penali contro i dissidenti, compresi i cattolici. La misura comportò altresì la sospensione dell’obbligo di presta-re giuramento di fedeltà da parte di chi era destinato a ricopri-re cariche ufficiali […]. L’atto di supremazia del re […] aveva […] sollevato un conflitto politico di fondo. Anglicani e no ri-tennero che una Dichiarazione regia non poteva avere la forza di un atto emanato con il consenso del Parlamento […]. Fra l’11 dicembre 1688 ed il 22 gennaio successivo le due Camere riunite in forma di Convention si attribuirono un diritto di sup-plenza come se mancasse un re legittimo […].Di fatto, in quella fase di rapido e largamente consensuale trapasso, si verificò un vero e proprio accordo tra la dirigen-za whig e quella tory, ambedue esponenti delle classi pro-prietarie. In un certo senso si volle impedire ancora che il corso degli eventi prescindesse dalla volontà delle famiglie latifondiste rappresentate in Parlamento […]. Così la rivolu-zione, invece di essere violenta e traumatica, poté risultare elaborata politicamente e pacifica oltre che sostanzialmente funzionale. Essa approdò a due essenziali tappe costituzio-

nali: quella Declaration of Rights, nel febbraio del 1689, e quella del Bill of Rights nell’autunno successivo. La prima creò una monarchia limitata, offrendo la corona a Maria e a Guglielmo d’Orange in quanto suo consorte (23 febbraio). Il secondo proclamò l’illegalità del mantenimento di un eser-cizio stanziale del regno in tempo di pace senza il consenso del Parlamento. Contemporaneamente abolì il diritto del sovrano a dispensa-re dall’applicazione delle leggi senza il Consenso delle Ca-mere. Il Bill of Rights segnò il passaggio ad una monarchia costituzionale […], sancì ufficialmente il diritto alla libertà d’espressione per i membri del parlamento e costituì un testo enunciante con prudenza idee molto avanzate che lasciavano spazio alla giurisprudenza successiva […]. Sempre nel 1689 – il 24 maggio – intervenne […] un Atto di Tolleranza. Esso liberò dalle penalità imposte chi non faceva parte della Chie-sa Anglicana, purché prestasse i dovuti giuramenti di fedeltà alla Corona […]. Pur con le sue misure restrittive, questo atto permise in pratica molte libertà. I pastori non conformisti po-tevano officiare i loro culti, a condizione di sottoscrivere la maggior parte degli articoli di fede della confessione anglica-na. Certo queste clausole non si estendevano ai cattolici ro-mani, agli atei, agli ebrei e agli unitariani. Per di più i dissi-denti protestanti erano esclusi dalla vita pubblica se non erano disposti a comunicarsi nella Chiesa di Stato almeno una volta l’anno.

A. Tenenti, Dalle rivolte alle rivoluzioni, il Mulino, Bologna 1997

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nare al suo posto. Secondo la visione whig invece, il monarca può regnare soltanto a partire da un contratto stipulato con i sudditi, i quali concorrono dunque pienamente alla realizza-zione dell’equilibrio e della pace fra le parti. Il Parlamento è il luogo in cui questo contratto è stato negoziato, si garanti-sce e viene fatto rispettare. Per i tories, il Parlamento è uno spazio di mediazione dei contrasti, ma il centro del paese è il re. Per i whigs, il re è a capo della nazione, ma il suo centro è il Parlamento.[…] Per decenni, dopo la «Gloriosa», i whigs mantennero l’egemonia della politica inglese, sperimentando un originale modello misto fra monarchia e repubblica, che affascinò Mon-tesquieu e Voltaire, e finì poi per creare il prototipo del costi-tuzionalismo parlamentare […].Su due aspetti fondamentali, il sistema istituzionale inglese evolveva in un senso molto diverso da quello degli altri pae-si europei: introduceva il governo di un primo ministro espresso dalla maggioranza parlamentare, e manteneva nel-

le mani dell’aristocrazia il controllo periferico, anziché affi-darlo ad una burocrazia statale, professionista e stipendiata. La grande innovazione era nel sistema politico centrale, al vertice; mentre alla base si lasciava che la società fosse go-vernata dai suoi signori tradizionali, aristocratici e proprieta-ri terrieri. In tutto il resto dell’Europa si partiva dalla legitti-mità di diritto divino per innovare e razionalizzare i meccani-smi periferici delle tasse, della giustizia, dell’istruzione, dell’amministrazione, mirando alla costruzione della felicità pubblica. In Inghilterra invece si partiva dalle libertà politi-che della classe dirigente, per lasciare che le gerarchie so-ciali amministrassero e giudicassero come meglio credeva-no. Altrove si conservava il sistema politico per migliorare la società, a Londra si migliorava il sistema politico per conser-vare la società.

A. Prosperi - P. Viola, Dalla rivoluzione inglese alla rivoluzione francese, Einaudi, Torino 2000

L’elemento fondamentale del processo di indipendenza delle colonie americane fu lo spirito di libertà che animava i coloni: l’idea stessa della libertà fu «grido di coesione, metro con cui giudicare le istituzioni esistenti e giustifi cazione per il loro rovesciamento».

Con la sua vasta distribuzione di proprietà (e quindi con un’ampia partecipazione alla vita politica), un potere ari-

stocratico debole e una Chiesa organizzata, di gran lunga meno potente che in Gran Bretagna, l’America coloniale era una società con un profondo potenziale democratico. Ma ci volle la battaglia per l’indipendenza per trasformarla non solo in un sistema repubblicano ma anche in una nazione che custodiva uguaglianza e opportunità come sue ragioni d’es-sere e si proclamava con orgoglio asilo della libertà per tutto il genere umano. La rivoluzione diede il via libera ai dibattiti pubblici e alle battaglie politiche e sociali che democratizza-rono il concetto di libertà.La rivoluzione americana fu combattuta in nome della libertà. Sulla strada per l’indipendenza, non ci fu parola invocata più di frequente, benché raramente ricevesse una precisa defini-zione. C’erano gli «alberi della libertà», i «pali della libertà», i «Figli e Figlie della Libertà», e una sfilza infinita di opuscoli dai titoli come Un carro pieno di Libertà e Orazione sulle Bel-lezze della Libertà […]. Da un capo all’altro delle colonie, le

misure britanniche come la Stamp Act del 1765, venivano sa-lutate con finte esequie della libertà, spettacoli dall’accurata coreografia in cui si trasportava una bara fino al cimitero per far poi resuscitare miracolosamente l’occupante all’ultimo momento […]. La libertà era più di un’idea per coloro che resi-stevano all’autorità britannica: era una passione [...].Libera dalle istituzioni – monarchia, aristocrazia, privilegi ereditari – che opprimevano i popoli del Vecchio Mondo, l’America, e l’America sola, era il luogo in cui il principio della libertà universale poteva attecchire. […] La Dichiarazio-ne d’indipendenza avrebbe legittimato la ribellione america-na non limitandosi a evocare i tentativi dell’Inghilterra per stabilire una «tirannia assoluta» sulle colonie, ma facendo riferimento ai diritti naturali inalienabili del genere umano, tra i quali la libertà era seconda solo alla vita stessa. Nella Dichiarazione, erano «le Leggi e la Natura e il Dio della Na-tura» e non la Costituzione inglese o l’eredità dell’inglese nato libero a giustificare l’indipendenza. L’idea della libertà […] divenne un rivoluzionario grido di coesione, un metro con cui giudicare le istituzioni esistenti e una giustificazione per il loro rovesciamento. Non più un insieme di diritti specifici, non più un privilegio goduto da una società costitutiva e da alcune persone in particolari situazioni sociali. La libertà era divenuta un diritto universale, senza limiti.

E. Foner, Storia della libertà americana, Donzelli, Roma 2000

Eric Foner, Una rivoluzione per la libertà19

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Il compito principale della Costituzione americana, defi nita il «vero sovrano» della rivoluzione, fu limitare il potere legislativo, vincolato alla non modifi cabilità di ciascuno dei suoi emendamenti e al controllo esercitato dalla Corte suprema.

L’esigenza avanzata da James Otis nel 1761, secondo la qua-le «una legge contraria alla costituzione è nulla» […], ci

mise […] tempo ad affermarsi sul piano istituzionale, anche se era in piena sintonia con tutto l’orientamento politico della rivol-ta delle Colonie americane contro l’onnipotenza del Parlamento inglese. Ma era un’esigenza che andava soddisfatta, al più pre-sto, sul piano istituzionale, per un duplice ordine di motivi: da un lato le costituzioni americane prevedevano tutta una serie di di-ritti dei cittadini, ma non prevedevano alcun rimedio legale, e cioè efficace, nel caso le Assemblee li avessero violati […]; dall’altro lato la Costituzione federale non prevedeva modi con cui dirimere il sempre possibile conflitto fra Stati e Stato federa-le, dato che si erano divisi la sovranità sullo stesso popolo. Biso-gnava, così, trovare un regolatore, sia per limitare il legislativo, sia per questa nuova forma di divisione di poteri fra le assemblee statali e le assemblee federali capace di garantire piena effica-cia alle norme della Costituzione, le quali attribuivano diritti e doveri sia ai singoli Stati, sia allo Stato federale [...]: come, con-tro l’onnipotenza del Parlamento, si esaltò la funzione delle Corti giudiziarie di «mettere in disuso» le leggi anticostituziona-li, così, contro il pericolo di un abuso di potere da parte delle diverse assemblee coesistenti su uno stesso territorio, si attribuì ancora al potere giudiziario il compito di garantire ai singoli Sta-ti, come allo Stato federale, l’esercizio dei diritti loro assegnati

dalla Costituzione. Le due linee s’incontrano e si congiungono nello stesso risultato [...]. L’assolutismo europeo, che aveva vi-sto il sovrano sciolto dalle leggi, risulta così sconfitto: […] in America il vero sovrano era la legge, e cioè la Costituzione. Que-sto ruolo, affidato al potere giudiziario per un retto funziona-mento del sistema costituzionale, era ben chiaro agli Americani che redassero la Costituzione, ma la Costituzione degli Stati Uni-ti non prevedeva espressamente lo judical review, la revisione delle leggi attraverso il giudizio [...]. È stata la stessa giurispru-denza della Corte suprema a dare corpo e realtà a questo princi-pio; e il merito va ascritto al suo presidente John Marshall, che per ben 34 anni, dal 1801 al 1835 […] ne diresse i lavori, e le cui sentenze formano un corpus imponente, che ebbe grande in-fluenza nello svolgimento del diritto americano. […] Marshall affermò il dovere della Corte Suprema di sindacare le leggi del Congresso: negli Stati Uniti «i poteri del legislativo sono definiti e limitati; e, affinché questi limiti non possano essere male inter-pretati o dimenticati, la Costituzione è scritta. È espresso compi-to e dovere del potere giudiziario dire quale è la legge. Coloro che applicano la regola ai casi particolari devono necessaria-mente esporre e interpretare questa regola. Se due leggi sono in contrasto fra loro, la Corte deve determinare il campo di applica-zione di ciascuna. Così, se una legge è in contrasto con la Costi-tuzione, la Corte deve determinare quale di queste regole in contrasto governa il caso [...]. La Costituzione degli Stati Uniti conferma e rafforza il principio [...] che una legge contraria alla costituzione è nulla, e che le Corti, come gli altri rami del gover-no, sono vincolate da questo strumento». La revisione delle leg-gi attraverso il giudizio si è così definitivamente affermata.

N. Matteucci, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, il Mulino, Bologna 1987

Nicola Matteucci, Rivoluzione americana e costituzione20

Durante la guerra d’indipendenza americana, le colonie subirono la distruzione di intere città e un elevato numero di morti; inoltre, la popolazione civile si trovò in miseria. In queste condizioni, furono superati i tradizionali ruoli di genere: le donne, animate da spirito patriottico, contribuirono ad alleviare le sofferenze dei malati e sostituirono i mariti nei lavori delle campagne o nelle fabbriche. Infi ne, soprattutto nelle città, esse parteciparono animatamente alle manifestazioni di protesta contro l’infl azione e la mancanza di generi di prima necessità.

Anche se brevi, le battaglie facevano molte vittime. Dei due milioni e mezzo della popolazione totale, quasi quat-

trocentomila uomini, in un periodo o nell’altro, servirono

nell’esercito continentale e nelle milizie di stato, senza conta-re i soldati irregolari o i corsari in mare. Perciò la guerra espo-se al pericolo un’altissima percentuale di uomini in età di com-battere. I contemporanei pensavano che il numero delle vitti-me fosse alto e ritenevano che la malattia uccidesse dieci uo-mini per ciascuno morto di ferite di spada o di proiettile. […]Centinaia di donne accompagnavano l’esercito: alcune mogli, altre prostitute, altre ancora governanti e casalinghe. Questa schiera disordinata andava al seguito delle truppe e se alcu-ne di loro si curavano delle passioni degli uomini, altre assol-vevano a necessità domestiche più prosaiche in qualità di in-fermiere, lavandaie o cuoche. Una scorta simile accompagna-va le forze nemiche. Orde di donne a piedi nudi e avvolte in stracci sudici marciavano, come animali da soma, con i mer-cenari, piegate in due dalle ceste sulla schiena, cariche di bambini e di utensili da cucina.La rivoluzione modificò anche i tradizionali ruoli femminili. Ragazze animate da spirito patriottico decisero di collaborare

Oscar Handlin e Lilian Handlin, La guerra d’indipendenza americana21

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al massimo cucendo uniformi, confezionando berretti e lavo-rando calze con i ferri, attività che procuravano un reddito extra e la soddisfazione di aiutare i combattenti. Nelle picco-le industrie domestiche, che producevano nitrato di potassio e cartucce, le donne lavoravano al fianco dei propri mariti. La partenza del marito-padre elevava la moglie-madre ad una posizione di autorità, all’interno della famiglia: era lei ora che prendeva le decisioni, curava la fattoria o la bottega arti-gianale, o svolgeva il commercio del capofamiglia assente. Era impegnata a fondo non solo nel gestire gli affari con so-brietà e parsimonia, ma anche nel trovare il tempo per prepa-rare un vestito tessuto in casa per il giorno in cui il marito sarebbe ritornato. «Dobbiamo studiare come trarre il massi-mo vantaggio dal risparmio, o saremo costretti a morire di fame», spiegava una donna che desiderava imparare a colti-vare il lino e a sbiancare il tessuto. Sara Bache ed Esther Reed organizzarono dei comitati per raccogliere del denaro e cucire camicie per l’esercito.In precedenza le donne erano state diffidenti e restie ad inse-rirsi nelle discussioni politiche che non erano di loro compe-tenza e creavano solo sensazioni sgradevoli. Ora le mogli di lealisti [americani fedeli al re e contrari all’indipendenza, n.d.r.] fuggiaschi, rimaste a salvaguardare le loro proprietà, cambiavano bandiera; altre, i cui mariti si trovavano nell’eser-cito dei patrioti, facevano pressione affinché disertassero e tornassero a casa. La responsabilità le obbligava a parlare chiaro e a riflettere a fondo, persino a cominciare a chiedersi perché non dovessero avere un’istruzione uguale a quella degli uomini. Il bisogno e la disponibilità a tentare l’ignoto stimolarono questo allonta-namento esitante e sperimentale dalle usanze e dalle abitu-dini costituite. […]La rivoluzione interruppe tutte le attività consuete. Gli uomini che se ne erano andati in uniforme non potevano curare le loro fattorie e la carenza di manodopera agricola creò delle difficoltà per le famiglie che si erano lasciati alle spalle. La carestia colpì i centri urbani e si estese poi alla campagna. Improvvisamente si verificò una mancanza di carta, persino di carta da scrivere, o di zucchero, caffè o tè, e gli artigiani non riuscivano a procurarsi i materiali essenziali. […] La farina divenne irreperibile, quando il governo ne mantenne basso il

prezzo, ma i clienti pronti a pagare una cifra maggiore riusci-vano sempre a procurarsene un po’. Il mercato nero prosperò quando i mercanti impararono che avrebbero decuplicato i loro guadagni violando la legge e trattenendo le merci in pre-visione di aumenti futuri.In quell’epoca i danneggiati sapevano come restare padroni della situazione: signore contrarie al consumo di tè, mercan-ti favorevoli alla non-importazione e artigiani boicottati ave-vano, nel 1776, già un decennio di esperienza di azione di-retta. I consumatori frustrati si scagliavano contro l’interme-diario avido che, secondo loro, era responsabile degli alti prezzi. Nell’autunno del 1776, nel Maryland scoppiarono dei tumulti per il sale. Nel 1777, quando Thomas Poylston di Boston si rifiutò di vendere a prezzi ragionevoli, una folla di donne del quartiere North-End prese con la forza ciò di cui aveva bisogno, mentre un assembramento di uomini sbalor-diti rimase spettatore silenzioso di tutta l’operazione, poiché queste non erano «rozze popolane, ma donne rispettabili e dignitose». […]Poi l’inflazione sfuggì di mano. Infatti, l’ostinazione britanni-ca aveva impedito lo sviluppo di una produzione monetaria americana locale, negando ai coloni il diritto di stampare un proprio mezzo circolante. La guerra diede agli americani la possibilità di rimediare a questa lacuna. Una volta che le presse entrarono in azione, in ogni colonia e in nome del Congresso Continentale, fu sforna-ta una marea di cartamoneta. Poi il valore delle banconote calò, costantemente e precipito-samente. Per ogni scambio la gente consultava le scale di svalutazione che venivano pubblicate, per poter giudicare il valore della moneta. Nel 1779 il dollaro continentale crollò, per essere rivalutato, un anno più tardi, con un rapporto di uno a quaranta. Per tutta la guerra non si riuscì ad arrestare la svalutazione della moneta, e, persino la vittoria di York-town non ne sostenne il valore. Il flusso incessante di carta-moneta aumentò ulteriormente i prezzi e obbligò a ritornare al baratto.

O. Handlin - L. Handlin, Gli americani nell’età della rivoluzione 1770-1787,

il Mulino, Bologna 1984

La Costituzione degli Stati Uniti volle porre precisi limiti al potere legislativo, per impedirgli di trasformarsi in tirannide. Essa, innanzi tutto, si presentò come Costituzione rigida, non modifi cabile da una legge ordinaria. Inoltre, con il tempo si affermò il principio secondo cui il Congresso non poteva emanare leggi contrarie alla Legge fondamentale: il compito di sorvegliare sulla costituzionalità delle leggi venne affi dato al potere giudiziario, ovvero alla Corte Suprema.

L’esigenza avanzata da James Otis nel 1761, secondo la quale «una legge contraria alla costituzione è nulla», e

poi ribadita in numerosi pamphlets e nella Circular letter del Massachusetts (1768), ci mise [...] tempo ad affermarsi sul piano istituzionale, anche se era in piena sintonia con tutto l’orientamento politico della rivolta delle Colonie americane contro l’onnipotenza del Parlamento inglese: la Rivoluzione americana, sul piano costituzionale, rappresentò infatti il conflitto fra due diverse concezioni del potere legislativo, fra quella propugnata dal Coke e dal Locke, del legislativo limitato, e quella, teorizzata dall’Hobbes e dal Blackstone, del legislativo legibus solutus [non tenuto al rispetto delle

Nicola Matteucci, La Costituzione come vero sovrano22

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leggi, n.d.r.]; o, se si vuole, fra la medievale teoria della supremazia della legge e la moderna teoria della sovranità. Ma era un’esigenza che andava soddisfatta, al più presto, sul piano istituzionale, per un duplice ordine di motivi: da un lato le costituzioni americane prevedevano tutta una serie di diritti dei cittadini, ma non prevedevano alcun rimedio lega-le, e cioè efficace, nel caso le Assemblee li avessero violati (solo in Pennsylvania c’era un disarmato Consiglio dei cen-sori); dall’altro lato la Costituzione federale non prevedeva modi con cui dirimere il sempre possibile conflitto fra Stati e Stato federale, dato che si erano divisi la sovranità sullo stesso popolo.Bisognava, così, trovare un regolatore, sia per limitare il le-gislativo, sia per questa nuova forma di divisione di poteri fra le assemblee statali e le assemblee federali, capace di ga-rantire piena efficacia alle norme della Costituzione, le quali attribuivano diritti e doveri sia ai singoli Stati, sia allo Stato federale. Ed è proprio alla ricerca di questo regolatore che le due linee del costituzionalismo americano s’incontrano: co-me, contro l’onnipotenza del Parlamento, si esaltò la funzio-ne delle Corti giudiziarie di «mettere in disuso» le leggi anti-costituzionali, così, contro il pericolo di un abuso di potere da parte delle diverse assemblee coesistenti su uno stesso terri-torio, si attribuì ancora al potere giudiziario il compito di ga-rantire ai singoli Stati, come allo Stato federale, l’esercizio dei diritti loro assegnati dalla Costituzione. Le due linee s’in-contrano e si congiungono nello stesso risultato: il rafforza-mento del potere giudiziario, quale custode e interprete della Costituzione. L’assolutismo europeo, che aveva visto il sovra-no sciolto dalle leggi, risulta così sconfitto: come aveva scrit-to Paine, in America il vero sovrano era la legge, e cioè la Costituzione.Questo ruolo, affidato al potere giudiziario per un retto fun-zionamento del sistema costituzionale, era ben chiaro agli Americani che redassero la Costituzione, ma la Costituzione degli Stati Uniti non prevedeva espressamente lo judical re-

view, la revisione delle leggi attraverso il giudizio, anche se l’art. 3, sez. II, e l’art. 6, sez. II, ne costituiscono il necessario presupposto.È stata la stessa giurisprudenza della Corte Suprema a dare corpo e realtà a questo principio; e il merito va ascritto al suo presidente, John Marshall, che per ben 34 anni, dal 1801 al 1835, con mano ferma ne diresse i lavori, e le cui sentenze formano un corpus imponente, che ebbe grande influenza nello svolgimento del diritto americano. Nella causa Marbury contro Madison del 1803, Marshall affermò il dovere della Corte Suprema di sindacare le leggi del Congresso: negli Sta-ti Uniti «i poteri del legislativo sono definiti e limitati; e, af-finché questi limiti non possano essere male interpretati o dimenticati, la Costituzione è scritta. È espresso compito e dovere del potere giudiziario dire quale è la legge. Coloro che applicano la regola ai casi particolari devono necessariamen-te esporre e interpretare questa regola. Se due leggi sono in contrasto fra loro, la Corte deve determinare il campo di ap-plicazione di ciascuna. Così, se una legge è in contrasto con la Costituzione, la Corte deve determinare quale di queste regole in contrasto governa il caso. Questa è la vera essenza della funzione giudiziaria. Se il potere legislativo cambiasse una norma costituzionale, il principio costituzionale dovreb-be cedere all’atto legislativo?Così la particolare fraseologia della Costituzione degli Stati Uniti conferma e rafforza il principio, che si suppone sia es-senziale a tutte le costituzioni scritte, che una legge contraria alla costituzione è nulla, e che le Corti, come gli altri rami del governo, sono vincolate da questo strumento». La revisione delle leggi attraverso il giudizio si è così definitivamente af-fermata; e si era affermata come l’elemento essenziale di una Costituzione scritta, le cui norme erano superiori a quelle emanate dal potere legislativo.

N. Matteucci, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, il Mulino, Bologna 1987

Il quadro generale del dibattito storiografi co sulla Rivoluzione francese si sviluppa intorno alle interpretazioni della scuola di ispirazione marxista (Lefebvre e Soboul), degli storici cosiddetti “revisionisti” (Cobban e Furet) e di quella più “defi lata” di uno storico liberale dell’Ottocento come Alexis de Tocqueville.

L’interpretazione marxista della Rivoluzione è stata pe-santemente attaccata negli ultimi anni, in parte perché si

tratta della spiegazione più elaborata teoricamente. Marx era appassionato della storia della Rivoluzione francese [...]. In tutte le sue opere storiche la Rivoluzione è servita [...] come pietra di paragone; essa ha promosso lo sviluppo del capita-lismo spezzando la stretta mortale che il regime feudale im-

poneva alla produzione, ha portato al potere la borghesia come classe. Questi due elementi inscindibili – la costituzio-ne di un contesto legale adatto allo sviluppo capitalistico e la lotta di classe vinta dalla borghesia – hanno sempre caratte-rizzato le interpretazioni della storiografia marxista della Rivoluzione [...]. Albert Soboul, sosteneva che la Rivoluzione avesse segnato «la comparsa, la crescita e il trionfo finale della borghesia».Secondo gli storici marxisti, la Rivoluzione fu borghese per-ché ebbe origini e conseguenze borghesi. Fanno risalire le origini della Rivoluzione all’autoaffermazione aggressiva della borghesia contro la reazione aristocratica degli anni 1780, e giudicano che lo sbocco sia il trionfo inequivocabil-mente borghese del modo di produzione capitalistico. La va-riabile che sta in mezzo – l’esperienza rivoluzionaria – viene letta dal punto di vista del suo contributo a questo quadro. La borghesia si dovette alleare con le classi popolari per poter

Lynn Hunt, Il dibattito storiografico sulla Rivoluzione francese23

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Tra le principali cause che contribuirono allo scoppio della rivoluzione, particolare attenzione va posta ai fattori di crisi economica, a più riprese determinante, e alle matrici culturali dell’Illuminismo, che «prepararono il terreno» agli avvenimenti successivi.

Negli ultimi anni dell’ancien régime la diffusa ricchezza dell’agricoltura andava arrestandosi e una prolungata

depressione stava prendendo il suo posto. Questa si sviluppò in due fasi principali. Dopo il 1778, l’anno in cui la Francia entrò nella guerra americana, vi fu una recessione il risultato della quale fu la caduta dei prezzi, graduale per quanto ri-

guarda la maggior parte dei prodotti industriali e agricoli, ma che raggiunse proporzioni critiche [...] nei prodotti tessili [...]. Quindi, sopraggiunse e si sovrappose a questa depres-sione ciclica l’improvvisa catastrofe economica del 1787-1789, nella forma di pessimi raccolti e carestie, col prezzo del grano che raddoppiò nel giro di due anni nelle principali regioni produttive del nord e raggiunse livelli record in 27 delle 32 généralités a metà estate del 1789. La crisi colpì la massa dei contadini sia come produttori che come consuma-tori; come proprietari, affittuari, mezzadri o braccianti; come viticoltori, caseari o coltivatori di frumento. Dall’agricoltura si allargò all’industria; e la disoccupazione […] raggiunse proporzioni disastrose. Naturalmente, non bastavano le diffi-coltà economiche, il malcontento sociale e la frustrazione

George Rudé, Le cause della rivoluzione24

spezzare la resistenza dell’aristocrazia feudale; dovette rom-pere con le classi popolari quando il sistema del Terrore ri-schiò di diventare incontrollabile; e dovette allearsi con Na-poleone per assicurarsi il consolidamento di ciò che aveva ottenuto nel campo della proprietà e della riforma legale. La conseguenza (l’egemonia economica e sociale borghese) era derivata dalle origini (il conflitto di classe tra borghesia e aristocrazia) in maniera apparentemente inesorabile.L’indirizzo «revisionista» mette in discussione l’interpreta-zione marxista praticamente su tutti i fronti [...]. Nel primo attacco in grande stile sferrato all’ortodossia marxista, Al-fred Cobban ha affermato che la Rivoluzione non fu compiuta dalla borghesia nell’interesse dello sviluppo capitalistico, ma da detentori di uffici venali e professionisti le cui fortune erano in declino. Alla fine il loro operato andò a vantaggio dei proprietari terrieri in generale; l’esperienza rivoluziona-ria avrebbe addirittura ritardato lo sviluppo del capitalismo in Francia. La spiegazione marxista, quella che Cobban defi-niva l’«interpretazione sociale», aveva sbagliato sia a pro-posito delle origini che a proposito delle conseguenze del decennio rivoluzionario.Nella stessa direzione, altri critici hanno sostenuto che non esistesse un conflitto di classe consapevole tra borghesia e aristocrazia prima della Rivoluzione. Gli aristocratici non erano di ostacolo alla borghesia; anzi, i due gruppi avevano molti interessi economici, sociali e politici in comune. Sareb-be dunque stata l’aristocrazia liberale, e non una borghesia frustrata, a dare inizio alla rivoluzione contro il dispotismo monarchico [...]. La posizione revisionista è stata riassunta nella maniera più incisiva da François Furet e da Colin Lucas. Entrambi sostengono che si debbano cercare le origini della Rivoluzione in una crisi della mobilità sociale e di angoscia intorno alla posizione sociale scoppiata all’interno di un’élite integrata fatta di nobili e borghesi. La crescita demografica ed economica del diciottesimo secolo non era stata associata a un ampliamento dei canali della promozione sociale; di conseguenza aumentarono le frizioni nelle varie «zone cal-de» sociali interne all’élite. Questa tensione sfociò nella ri-voluzione quando il Parlamento di Parigi si ostinò a preten-

dere che gli Stati Generali appena convocati mantenessero le procedure stabilite nel 1614. Questa decisione fatale avrebbe fatto precipitare una rottura comprensibile, ma non necessa-ria, tra la parte nobile dell’élite e quella borghese.La visione implicita in questa spiegazione delle origini è che la conseguenza più importante della Rivoluzione non sia stata il capitalismo, ma la creazione di un’élite di notabili più omoge-nea, che si definiva in primo luogo sulla base della proprietà terriera. Quando nobili da una parte e borghesi dall’altra eb-bero compreso il prezzo dei loro malintesi e delle loro valuta-zioni sbagliate, poterono riunirsi facendo leva su interessi es-senzialmente comuni in una società di privilegio che concede-va la promozione sociale alla ricchezza e agli uffici. Nella in-terpretazione revisionista la Rivoluzione perde il suo determi-nismo, perché appare come una specie di incidente [...].Ai margini del dibattito sull’interpretazione sociale si trova Alexis de Tocqueville, con l’interpretazione basata sull’idea dell’ammodernamento. Tocqueville non negava l’importanza delle tensioni sociali, ma collocava il conflitto sociale in un contesto essenzialmente politico: per lui la Rivoluzione rap-presentava l’esaltazione del potere e dell’accentramento statali più che il trionfo del capitalismo. Nessuna classe ave-va vinto come tale questo scontro. I francesi erano soltanto diventati più eguali nella loro involontaria schiavitù verso un governo autoritario. Tocqueville faceva risalire le origini del-la Rivoluzione (e delle tensioni sociali del settecento) alla politica della monarchia assoluta. Per aumentare il potere dello stato la monarchia aveva distrutto i poteri politici dei nobili, rendendo così intollerabili agli altri gruppi sociali le pretese di superiorità sociale dell’aristocrazia. Pur credendo di combattere il governo monarchico, i rivoluzionari avrebbe-ro finito per creare uno stato ancor più forte, modellato pro-prio su quella monarchia assoluta: anche per Tocqueville quindi la Rivoluzione era soltanto un anello della catena tra origini ed esiti; l’esperienza rivoluzionaria aveva facilitato involontariamente la transizione da Luigi XIV a Napoleone.

L. Hunt, La rivoluzione francese. Politica, cultura, classi sociali, il Mulino, Bologna 1989

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delle ambizioni politiche e sociali a fare una rivoluzione. Per dare coesione alle insoddisfazioni e alle aspirazioni di classi sociali tanto diverse si rendeva necessario un corpo unifican-te di idee, un comune vocabolario della speranza e della pro-testa [...]. Il terreno fu preparato, in primo luogo, dagli scrit-tori dell’Illuminismo [...]. Le idee di Montesquieu, Voltaire e Rousseau, e quelle di molti altri furono [...] disseminate este-samente e assorbite da un impaziente pubblico di lettori, sia aristocratico che della classe media.Ma non furono essi, né gli stessi philosophes, né la società alla moda e i letterati dei salotti, che li portarono a livello della strada e tradussero le astratte speculazioni in slogan popolari e in appelli di adunata per l’azione politica. Questo fu in parte il lavoro svolto dagli autori di pamphlets del Terzo

stato nel 1788 e 1789; ma, molto tempo prima di ciò, il ter-reno era stato bene e realmente preparato dagli opuscoli e dalle proteste pubblicate dai Parlements che, nel loro pro-lungato duello dagli anni 1750 in poi col «dispotismo» mini-steriale, citavano liberamente e quasi indiscriminatamente dagli scritti dei philosophes [...]. Ciò che c’era di nuovo in tutto ciò era il fatto che i Parlements non si limitavano a scri-ve livelli politici, come avevano fatto i philosophes prima di loro, ma affermavano deliberatamente di influenzare l’opi-nione pubblica e di schierare un attivo sostegno pubblico nel-le loro lotte con la Corona.

G. Rudé, L’Europa rivoluzionaria 1783-1815, il Mulino, Bologna 1985

La mentalità rivoluzionaria è «in gran parte una novità e una creazione istantanea, più che un’eredità». I protagonisti della rivoluzione, di cui si riportano diverse testimonianze, si spinsero molto più in là delle elaborazioni degli illuministi.

È bene […] lasciare la parola a coloro che hanno vissuto e agito la Rivoluzione, nel tentativo di capire come l’abbiano

intesa. «La felicità è un’idea nuova in Europa», dichiara Saint-Just il 3 marzo 1794; è proprio questa la “buona novel-la” racchiusa nel cuore della speranza rivoluzionaria […]. Come scrive Marat, «era riservata ai francesi la pretesa di ro-vesciare tutte le istituzioni politiche e di stabilire un nuovo ordine attraverso la sola forza della filosofia». Ma già a par-tire dal 1789 Sieyes aveva proclamato, sotto forma di una ri-vendicazione apparentemente modesta ma di fatto profonda-mente sovversiva: «Che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Che cosa è stato finora nell’ordine politico? Nulla. Che cosa vuole? Di-ventare qualche cosa». Colpiti dalla novità dell’avventura collettiva che stanno vivendo, i protagonisti ne sottolinea no la rapidità […].Saint-Just proclama: «La nostra Libertà sarà passata come un uragano e il suo trionfo sarà stato come uno scoppio di tuono». Ma la coscienza della subitaneità […] di questo cam-biamento radicale si accompagna alla sicurezza […] che si tratta di uno sconvolgimento irreversibile […]. Diventa volon-tà deliberata in Hebert […]: «La Rivoluzione deve essere por-tata a termine, un solo passo indietro sarebbe la fine della Repubblica» […]. Una tale fiducia poggia sulla convinzione di essere invincibili […]. Camille Desmoulins aveva invocato nel 1789 nella France libre […]: «Questa Rivoluzione fortunata e questa rigenerazione stanno per compiersi, nessuna potenza sulla terra è in grado di impedirlo» […]. Già da allora, Marat, nell’Ami du Peuple non dubitava dell’«infallibilità dell’inte-

ra avventura»: «La Rivoluzione si realizzerà infallibilmente, e nessuna forza umana potrà opporvisi» […].La sensibilità rivoluzionaria […] appare in gran parte una no-vità e una creazione istantanea, più che un’eredità […]. L’ap-porto dei Lumi, eredità immediata se non dell’intero Sette-cento almeno della sua seconda metà, finisce insieme per essere assimilato e digerito, fino a diventare per certi aspetti irriconoscibile. I vecchi storici conservatori si erano ironica-mente chiesti cosa avrebbero pensato Voltaire o Rousseau, se fossero capitati nel cuore dell’uragano. E, effettivamente, gli eredi diretti della filosofia illuminista presi nel cuore della Rivoluzione, come Condorcet, sono chia-ri esempi del drammatico confronto tra mutamento sognato e mutamento vissuto. Ma gli stessi protagonisti principali della Rivoluzione l’hanno esplicitato: Robespierre […], si preoccu-pa di distinguersi dall’ambigua eredità della filosofia illumi-nistica, cui non aderisce per parte sua che con beneficio d’in-ventario. Non ne dobbiamo brutalmente dedurre che l’eredità dei Lumi è stata quasi tradita dalla Rivoluzione; semplice-mente, come ha scritto Saint-Just in una frase celebre, «la forza delle cose ci può portare a risultati ai quali non aveva-mo affatto pensato» […]. L’argomento […] di Saint-Just, è stato il primo ad essere addotto dagli stessi testimoni diretti. Se si cerca di puntualizzarlo, rinvia a realtà […] come il peso della guerra o della pressione esterna a partire dal 1792, o quello della necessità della lotta sul fronte della controrivo-luzione interna, molto tempo prima; in una parola, si richia-ma a quelle esigenze del momento che si andranno a incarna-re nella teoria della Salute pubblica […]. La spontaneità si organizza […]: la stampa, la propaganda, le feste rivoluzio-narie e la pedagogia vanno a formare un’autentica rivoluzio-ne culturale […]. Il trauma rivoluzionario è sentito come irre-versibile.

M. Vovelle, La mentalità rivoluzionaria, Laterza, Roma-Bari 1992

Michel Vovelle, La mentalità rivoluzionaria25

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François Furet, in polemica con le interpretazioni degli storici marxisti sulla Rivoluzione francese, spiega i motivi per “revisionare” le loro conclusioni e procedere oltre nella ricerca, nella necessità di considerare una pluralità di elementi, non soltanto economici e sociali, per un’autentica critica storica degli avvenimenti.

L’immenso privilegio dell’idea di rivoluzione, il suo essere cioè al di sopra di qualsiasi critica interna, sta [...] per-

dendo il suo valore di dogma. La storiografia universitaria [...] sulle tradizioni non scherza. Ma, aggrappandosi sempre

più ostinatamente al breve periodo, come a un patrimonio sociale, non solo è travolta dalla svalutazione concettuale di tale patrimonio fra gli intellettuali, ma stenta [...] addirittura a concepire le mutazioni intellettuali indispensabili al pro-gresso della storiografia rivoluzionaria. In realtà, ciò che questa storiografia dovrebbe dichiarare non è più il suo gioco, bensì i suoi concetti. La storia, in generale, non è più quella scienza in cui i «fatti» parlano da soli, pur-ché siano accertati a dovere, ma deve dire qual è il problema che cerca di analizzare, quali dati utilizza, quali sono le sue ipotesi di lavoro e le conclusioni cui arriva. Che la storia del-la Rivoluzione abbia imboccato per ultima la strada dell’esplicito non dipende soltanto da tutto ciò che, di gene-razione in generazione, la riporta verso la narrazione delle

François Furet, “Revisionare” la rivoluzione27

I caratteri principali e la strategia politica dei principali gruppi impegnati nella Convenzione nazionale – girondini, montagnardi e giacobini – vengono delineati con particolare attenzione alle loro relazioni con le classi popolari.

Nella Convenzione, ch’era stata eletta da una minoranza risoluta a salvare la Rivoluzione e il paese, non figurava

alcun realista fautore dell’Antico Regime o della monarchia costituzionale. Nemmeno i sanculotti, artefici delle giornate rivoluzionarie e fautori di misure economiche e sociali che facilitassero l’esistenza popolare, vi erano rappresentati [...]. Nella Convenzione non ci furono partiti organizzati, ma piuttosto gruppi dai confini imprecisati, che seguivano due stati maggiori, i girotondini e i montagnardi; ciò che essen-zialmente li oppose gli uni gli altri furono interessi di classe.A destra la Gironda, partito della legalità [...], rappresentava la borghesia possidente, commerciale e industriale, che in-tendeva difendere la proprietà e la libertà economica contro le limitazioni richieste dai sanculotti. In campo politico, la Gironda restava ostile a ogni misura eccezionale richiesta dalla salute pubblica; aveva scatenato la guerra, ma rifiutava i mezzi necessari per vincerla. Contro la concentrazione del potere e la rigida subordinazione delle amministrazioni, la Gironda invocava l’appoggio delle autorità locali, fra le quali dominava la borghesia moderata. In campo economico, la Gi-ronda, legata com’era alla borghesia commerciale e piena di diffidenza per il popolo, fu appassionatamente attaccata alla libertà economica, alla libera intrapresa e al libero profitto; fu avversa alla regolamentazione, al calmiere, alla requisi-zione, al corso forzoso dell’assegnato, misure di cui erano invece fautori i sanculotti. Pieni di rispetto per le gerarchie sociali che volevano salvaguardare e rafforzare, consideran-do il diritto di proprietà un diritto naturale intangibile, spo-

sando interamente gli interessi della bor ghesia proprietaria, i girotondini provavano per il popolo una repulsione istintiva, poiché lo sti mavano incapace di governare. Riservavano il monopolio del governo alla loro classe.A sinistra, la Montagna rappresentava la borghesia media e le classi popolari, artigiani, bottegai, consumatori che sop-portavano il peso della guerra e delle sue conseguenze: caro-vita, disoccupazione, insufficienza dei salari. Di origine bor-ghese, i montagnardi compresero tuttavia che la situazione critica della Francia esigeva soluzioni straordinarie che sol-tanto l’appoggio popolare avrebbe potuto rendere efficaci; fecero perciò lega con i sanculotti che avevano rovesciato il trono ed erano giunti alla vita politica attraverso l’insurrezio-ne. Politici realisti perché più vicini al popolo e alle sue ne-cessità, si preoccupavano meno delle teorie e sapevano ante-porre l’interesse pubblico, agli interessi privati: nell’interes-se del popolo, unico sostegno leale della Rivoluzione, erano pronti a ricorrere a limitazioni della proprietà privata e della libertà individuale [...]. Il centro della Convenzione, infine, era formato da una massa ondeggiante di repubblicani sinceri, risoluti a difendere la Rivoluzione: la «Pianura» o «Palude». Rappresentanti della borghesia, fautori della libertà economica, questi uomini nel loro intimo temevano le classi popolari. Ma, repubblicani sin-ceri, apparve loro inconcepibile, finché la Rivoluzione fu in pericolo, la rottura con il popolo che aveva fatto il 14 luglio e il 10 agosto; finirono con l’accettare le misure che esso recla-mava, ma a titolo temporaneo e fino alla vittoria. In un primo tempo mostrarono propensione per la Gironda: ma poi se ne allontanarono [...]. Alcuni [...] si unirono alla Montagna e al-la sua politica di salute pubblica. La massa formò quel «terzo partito» i cui contorni si delinearono nel novembre 1792 e che accettò alla fine la direzione della Montagna, la sola ca-pace d’assicurare la salvezza della Rivoluzione.

A. Soboul, La Rivoluzione francese, Laterza, Bari 1966

Albert Soboul, Gli orientamenti politici in seno alla Convenzione26

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origini, ma anche dal fatto che tale narrazione è stata investi-ta e canonizzata da una razionalizzazione «marxista» che tutto sommato non ne cambia il carattere, e che anzi, dandole una parvenza di elaborazione concettuale, consolida la forza elementare conferitale dalla sua funzione di avvento.[...] questa razionalizzazione non esiste nelle opere di Marx, che non comportano un’interpretazione sistematica della Ri-voluzione francese; essa è il risultato di un’ibrida mescolanza di bolscevismo e giacobinismo alimentata da una concezione lineare del progresso umano, scandito da queste due succes-sive «liberazioni» chiuse una dentro l’altra come scatole ci-nesi. Ciò che v’è di irrimediabilmente confuso, nella vulgata «marxista» della Rivoluzione francese, è la giustapposizione della vecchia idea dell’avvento di un’era nuova – idea costi-tutiva della Rivoluzione appunto – e di una dilatazione del campo storico tipica del marxismo. Il marxismo, infatti – o per meglio dire quel marxismo che si annette [...] la storia della Rivoluzione –, sposta il centro di gravità del problema della Rivoluzione sull’economico e il sociale, e nel suo tentativo di attribuire allo sviluppo del capitalismo l’apoteosi dell’89 e la graduale promozione del Terzo stato, cara alla storiografia della Restaurazione, allarga il mito della rottura rivoluziona-ria anche alla vita economica e al sociale tutto: prima, il feu-dalesimo e la nobiltà, dopo il capitalismo e la borghesia. Ma poiché queste proposizioni non sono dimostrabili, né verosi-mili [...] e comunque esorbitano dal quadro cronologico cano-nico, il marxismo si limita a giustapporre un’analisi di carat-tere economico e sociale delle cause a una storia di carattere politico e ideologico dei fatti.Quest’incoerenza ha comunque il vantaggio di sottolineare uno dei problemi fondamentali della storiografia rivoluzio-naria, quello cioè della connessione fra le tesi interpretative

e la cronologia dell’evento. Se si vuole sostenere a ogni co-sto l’idea di una rottura obiettiva nel tempo storico, facendo di tale rottura l’alfa e l’omega della storia della Rivoluzione, si finisce col dire delle assurdità, qualunque sia l’interpreta-zione proposta. Ma queste assurdità sono tanto più necessa-rie quanto più l’interpretazione è ambiziosa e quanti più li-velli concerne. Si può dire, ad esempio, che fra l’89 e il ’94 tutto il sistema politico francese si è bruscamente trasfor-mato perché la vecchia normativa è scomparsa, ma l’idea che, fra queste due stesse date, il tessuto sociale o economi-co della nazione si sia rinnovato da cima a fondo, è ovvia-mente molto meno verosimile: la «Rivoluzione» è un concet-to che non ha molto senso, rispetto ad affermazioni di questo genere, anche se le sue cause non sono tutte di natura poli-tica o intellettuale.In altre parole, qualunque concettualizzazione della storia rivoluzionaria non può prescindere da una critica dell’idea di Rivoluzione quale la vissero i suoi attori e la tramandarono i loro eredi, ovvero come una radicale trasformazione e l’origi-ne di un’era nuova. Finché in una storia della Rivoluzione mancherà questa critica, la sovrapposizione di un’interpreta-zione di carattere più economico o più sociale a un’altra pu-ramente politica non cambierà affatto ciò che accomuna tutte queste storie, ovvero la loro fedeltà al vissuto rivoluzionario del XVIII e del XX secolo. La sovrastruttura economica e so-ciale aggiuntavi dal marxismo ha forse l’unico merito di far emergere chiaramente, con la sua assurdità, le aporie di qua-lunque storia della Rivoluzione fondata esclusivamente sul vissuto interiore dei suoi attori.

F. Furet, Critica della rivoluzione francese, Laterza, Roma-Bari 1995

La rivoluzione del 1848 esplose a Parigi ma, in pochissimo tempo, si propagò a gran parte dell’Europa. Nel complesso, però, i risultati di quella improvvisa crisi rivoluzionaria furono minimi: in pratica, l’unica novità signifi cativa fu l’abolizione della servitù della gleba nell’Impero austriaco.

La storia del mondo moderno aveva conosciuto molte rivo-luzioni di maggior portata, e molte di maggior successo.

Nessuna però si diffuse più rapidamente e in un raggio più vasto, correndo come un fuoco di sterpaglia al di sopra di frontiere, paesi e perfino oceani. In Francia, centro naturale e detonatore delle rivoluzioni europee, la proclamazione della repubblica avvenne il 24 febbraio: il 2 marzo la rivoluzione aveva già guadagnato la Germania di sud-ovest, il 6 la Bavie-ra, l’11 Berlino, il 13 Vienna e subito dopo l’Ungheria, il 18 Milano e quindi l’Italia (dove un’insurrezione indipendente aveva già investito la Sicilia). All’epoca, il più veloce servizio d’informazioni disponibile a chiunque (quello della banca

Rothschild) non poteva portare le notizie da Parigi a Vienna in meno di cinque giorni. Nel giro di una settimana, nessun governo restava in piedi, in una superficie dell’Europa ora occupata in tutto o in parte da dieci Stati – prescindendo da ripercussioni minori in un certo numero d’altri paesi. Il 1848 fu inoltre la prima rivoluzione potenzialmente estesa a tutto il globo, di cui si può discernere l’influenza nell’insurrezione del 1848 a Pernambuco nel Brasile e, qualche anno dopo, nella remota Colombia. In un certo senso, fu il paradigma [il modello di riferimento, n.d.r.] del tipo di «rivoluzione mon-diale» che da allora dovevano sognare i ribelli, e che in rari istanti, come all’indomani di grandi guerre, dovevano credere di poter riconoscere. In realtà, il fenomeno di esplosioni con-tinentali o mondiali simultanee è estremamente raro.In Europa, quella del 1848 è la sola che abbia inciso sia sul-le aree «sviluppate» sia su quelle arretrate del continente. Fu insieme la più estesa e la meno fortunata di questo genere di rivoluzioni: a sei mesi dal suo scoppio, se ne poteva tran-quillamente prevedere la sconfitta su tutta la linea; a diciot-to, i regimi da essi abbattuti, salvo uno, erano tutti restaurati, e l’eccezione (la Repubblica francese) prendeva il più possi-

Eric J. Hobsbawm, Il 1848 in Europa28

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bile le distanze dal moto insurrezionale cui doveva la propria esistenza. [...] Un mutamento costituzionale di portata mag-giore v’era stato, ma uno solo: l’abolizione della servitù della gleba nell’impero asburgico. Eccetto quest’unica conquista, certo importante, il 1848 ci appare come la sola rivoluzione nella storia moderna che alle maggiori promesse, al più vasto orizzonte e al successo più immediato, unisca la disfatta più rapida e completa. [...]Tutte le rivoluzioni ebbero in comune qualcos’altro, che spie-ga in larga misura il loro fallimento. Furono, nel fatto o nell’anticipazione immediata, rivoluzioni sociali degli operai comuni. Perciò spaventarono i liberali moderati che avevano spinto al potere e in posizioni di prestigio – e perfino dei po-litici più radicali – almeno quanto i sostenitori dei vecchi re-gimi. Il conte di Cavour, futuro architetto dell’Italia unita, aveva messo il dito su questo punto debole alcuni anni prima (1846): «Se l’ordine sociale fosse davvero minacciato, se i grandi princìpi sui quali riposa, corressero davvero un perico-lo reale, si vedrebbero – ne siamo persuasi – molti fra gli oppositori più determinati, fra i repubblicani più esaltati, pre-sentarsi per primi nelle file del partito conservatore.»Ora, quelli che avevano fatto la rivoluzione erano indiscuti-bilmente i «poveri che lavorano» (labouring poor). Erano stati essi a morire sulle barricate; a Berlino, fra le trecento vittime degli scontri di marzo v’erano stati appena quindici rappresentanti delle classi colte e circa trenta maestri arti-giani; a Milano, fra i 350 morti delle Cinque Giornate, solo dodici studenti, impiegati o proprietari fondiari. [...] La rivo-

luzione di febbraio [...] fu una rivoluzione sociale cosciente, il cui obiettivo non era una repubblica come che sia, ma la «repubblica democratica e sociale». I suoi leader erano so-cialisti e comunisti; del suo governo provvisorio faceva parte un operaio autentico, un meccanico noto come Albert; e, per qualche giorno, rimase incerto se la sua bandiera sarebbe stata il tricolore o la bandiera rossa della rivolta sociale. [...] Trascinati nel vortice della rivoluzione dalle forze dei poveri e/o dall’esempio di Parigi, i moderati cercarono naturalmen-te di trarre il massimo profitto da una situazione che non si erano aspettati fosse tanto favorevole.Ma, in ultima analisi, e spesso fin dall’inizio, si preoccuparono assai più della minaccia da sinistra, che dei vecchi governi. Il fallimento del Quarantotto trasse origine dal fatto che lo scontro decisivo non fu, in ultima analisi, fra i poteri costituiti e le «forze del progresso», ma fra l’«ordine» e la «rivoluzio-ne sociale». La sua battaglia cruciale non fu quella del feb-braio [1848, n.d.r.], ma quella del giugno a Parigi, quando gli operai lanciatisi in una insurrezione isolata vennero sconfitti e massacrati: combatterono duramente, e duramente morirono. I caduti nelle battaglie di strada furono circa 1500 – due terzi o poco meno da parte governativa –; ma è tipico della ferocia dell’odio dei ricchi per i poveri che circa tremila insorti venne-ro passati per le armi dopo la sconfitta, altri dodicimila arre-stati, e i più deportati in campi di lavoro in Algeria.

E.J. Hobsbawm, Il trionfo della borghesia 1848-1875, Laterza, Bari 1979

La rivoluzione industriale fu un processo che caratterizzò l’Europa con tempi e caratteristiche estremamente varie da paese a paese: in Russia, per esempio, paese per larga parte agricolo, l’abolizione della servitù della gleba fu decisa dallo zar Alessandro II soltanto nel 1861. I principali cambiamenti innescati da questa riforma vengono esaminati con particolare attenzione alle nuove condizioni di vita dei contadini.

Alessandro II firmò il 3 marzo 1861 (19 febbraio secondo il Vecchio Sistema) il proclama relativo all’emancipazione

[...]. Da quel giorno il lavoro servile doveva scomparire dalla vita russa. Va però osservato [...] che la riforma mancò di conferire ai contadini uno stato pari a quello di altre classi sociali: essi dovevano pagare una tassa pro capite, erano le-gati alla comunità rurale e venivano giudicati in base al dirit-to consuetudinario. Oltre che ai servi dei proprietari terrieri, la nuova libertà fu estesa ai contadini delle terre appartenen-ti alla famiglia imperiale e alla vasta e complessa categoria dei contadini di Stato.Insieme con la libertà, i servi che avevano sempre lavorato nei campi ricevettero un’assegnazione di terra, mentre ne ri-masero esclusi i cosiddetti “domestici”. Mentre le norme re-

lative all’assetto terriero erano estremamente complicate nei particolari, e diverse da zona a zona, i contadini finirono con l’ottenere circa metà della terra, la parte cioè che già coltiva-vano per sé, mentre l’altra metà rimaneva ai proprietari. Essi dovevano però compensare i latifondisti della terra ricevuta, e poiché ben pochi avevano di che pagare, il governo inden-nizzava i proprietari in Buoni del Tesoro. A loro volta gli ex servi della gleba dovevano rimborsare lo Stato con i paga-menti dei riscatti, distribuiti su un periodo di quarantanove anni. Oppure potevano prendere solo un quarto della porzio-ne di terra loro spettante, l’«appezzamento del povero» cui abbiamo già accennato, e così non pagare nulla. Tranne che in Ucraina e in qualche altra zona, la terra non venne data ai singoli contadini, bensì a una comunità rurale chiamata ob-scina o mir (il secondo termine si riferiva all’assemblea co-munitaria in cui si riunivano i contadini per sistemare le loro questioni), che divideva la terra fra i suoi membri ed era re-sponsabile delle tasse, del servizio militare e di altri obblighi verso lo Stato. [...]La riforma dell’emancipazione non va esente da critiche. La terra assegnata agli ex servi della gleba risultò insufficiente [...]. Nel processo di distribuzione, poi, spesso gli ex servi non riuscirono a ottenere zone boscose o l’accesso a un fiume, col risultato che dovettero assumersi ulteriori impegni verso gli ex padroni per far fronte alle loro necessità [...].

Nicholas V. Rjasanovskij, L’abolizione della servitù della gleba in Russia29

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Lo storico Gustavo Beyhaut ricostruisce i tratti principali del processo d’indipendenza vissuto dall’America latina. L’autore ne spiega i caratteri culturali, politico-sociali, economici e geografi ci, sottolineando in particolare la forte frammentazione territoriale che il continente dovette subire alla sua conclusione.

Nella rivoluzione [sudamericana, n.d.r.] emersero due for-me di radicalismo; una di origine intellettuale e una che

nasceva dall’azione stessa. Sul radicalismo di tipo intellet-tuale aveva influito la Rivoluzione francese, e alcuni dei suoi rappresentanti potrebbero definirsi veri assertori del terrore [...]. Nell’altro caso il radicalismo nacque dalle lotte popola-ri. Esprimeva le aspirazioni di coloro secondo i quali la rivo-luzione doveva arrivare più in là di quanto desiderassero i commercianti e i proprietari terrieri. Questo radicalismo fu il puro e semplice risultato della lotta stessa, essendo entrati man mano in esso vari strati della po-polazione, che in un modo o nell’altro portavano il peso dei loro interessi. In qualche momento questo radicalismo si ca-ratterizzò mediante le promesse alle razze soggette, in spe-cial modo quando si desiderava la loro collaborazione alla guerra, ovvero concedendo una partecipazione alla spartizio-ne del bottino o altri benefici, anche se proprio questi aspetti determinarono malcontento nei ceti più potenti. Questa ten-denza radicalizzante si manifestò in prestiti forzosi, confische di bestiame, divisione di terre: un esempio potrebbe essere la cosiddetta riforma agraria di Bolívar, che intendeva favorire i soldati, ma in realtà fu sfruttata soltanto dagli ufficiali di gra-do elevato.Un altro aspetto interessante è quello della formazione degli eserciti. L’attività militare e politica acquistò l’attrattiva d’una vera carriera, un cursus honorum che permise l’ascesa sociale, superando i pregiudizi di classe e di casta. Perciò, nonostante la sconfitta delle tendenze radicalizzanti, è ine-satto dire che la rivoluzione non ebbe conseguenze sociali; poiché – anche se non provocò grandi trasformazioni di strut-tura – fu importante per la mobilità sociale che creò, aprendo possibilità impreviste ai quadri coloniali. Questo è uno dei motivi per cui la guerra si prolungò tanto e per cui, alla fine del conflitto, si ricorse a vari pretesti per continuare la lotta militare nelle interminabili guerre civili nel XIX secolo [...].

Tra i risultati più generali della lotta per l’indipendenza sono l’abolizione dell’Inquisizione, la soppressione parziale del tributo indigeno, le misure restrittive contro la schiavitù, l’annullamento – più d’ordine giuridico che sociale – delle norme di casta, e le leggi sulla libertà del commercio, per creare condizioni favorevoli all’immigrazione. Questi cam-biamenti, però, non incisero profondamente sulle condizioni delle classi sfruttate; in alcuni casi, anzi, non fecero che peg-giorarle. La rivoluzione lasciò intatti molti privilegi sociali feudali, e, anche se si preoccupò d’imitare le forme politiche del capita-lismo liberale, in piena fioritura nel mondo occidentale, il trapianto si fece in modo superficiale e apparente, senza mo-dificare le basi economiche e sociali del regime coloniale. È perciò gioco forza ammettere che l’indipendenza si ebbe sen-za una reale decolonizzazione, e che la rivoluzione fu in pre-valenza un movimento dei coloni contro lo stato metropolita-no senza grandi benefici per le razze colonizzate [...].Si è osservato che l’interruzione delle normali vie commer-ciali e di comunicazione ebbe serie ripercussioni sull’econo-mia di vari paesi. Il Nord e l’Est dell’Argentina soffrirono per la cessazione del commercio normale con l’Alto Perú duran-te la guerra; Montevideo perse, finché restò in mano ai rea-listi, il suo legame naturale con gli altri centri del Rio de la Plata; la guerriglia della Nuova Spagna costrinse a tenere le comunicazioni e i trasporti per mezzo di convogli armati; le esigenze dei governi rivoluzionari crearono spesso confusio-ne: si persero grandi capitali investiti nelle miniere e grandi quantità di bestiame furono consumate dalle truppe rivolu-zionarie, mentre crebbe l’abitudine all’abigeato [furto di bestiame, n.d.r.].L’apertura dei porti, auspicata dalle classi superiori, non an-dò a vantaggio della popolazione in generale, contribuendo anzi alla rovina delle attività artigianali locali e accentuando la dipendenza economica dall’Europa.Altra conseguenza dell’indipendenza sarà la notevole fram-mentazione politica [...].Poco a poco si accentuò la tendenza allo smembramento. La Grande Colombia si divise in tre Stati: Colombia, Venezuela ed Ecuador. Dal Messico si staccò la Confederazione Centroamericana, che subito dopo si spezzettò in El Salvador, Guatemala, Hon-duras, Nicaragua e Costarica. Nel Sud la Bolivia e il Paraguay rimasero ridotti alle dimensioni di Stati minori, e sorse l’Uru-guay, sul Rio de la Plata, tra l’Argentina e il Brasile. Tutti questi Stati, d’altra parte, mancavano dell’unità dei loro mo-

I provvedimenti finanziari si dimostrarono antirealistici e di impossibile attuazione. Per quanto i servi liberati facessero del loro meglio per far fronte ai gravosi pagamenti del riscat-to, che non erano proporzionati ai loro redditi attuali, gli ar-retrati continuarono ad aumentare. Al tempo in cui finalmen-te i riscatti vennero aboliti (nel 1905), gli ex servi della gle-ba avevano pagato, interessi compresi, un miliardo e mezzo

di rubli per la terra inizialmente valutata meno di un miliardo. Va notato che mentre ufficialmente i servi dovevano riscatta-re solamente la terra, e non le loro persone, in realtà i paga-menti comprendevano un tacito indennizzo per la perdita del lavoro servile.

N.V. Rjasanovskij, Storia della Russia, Bompiani, Milano 1992

Gustavo Beyhaut, L’indipendenza del Sud America30

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delli europei e per lungo tempo furono turbati da lotte interne e dalle contese dei capi militari locali, che ritenevano conti-nuamente necessario ricorrere al comodo espediente della guerra civile per risolvere i loro contrasti.Una pesante eredità del periodo dell’emancipazione, aggra-vata dal carattere ininterrotto delle guerre civili, fu la parte

importante sostenuta dai militari nella società latino-ameri-cana, fattore che ancor oggi continua a pesare sulla vita po-litica, benché siano mutate le sue caratteristiche.

G. Beyhaut, America Centrale e Meridionale, vol. 2, Feltrinelli, Milano 1968

Lo specialista di storia dell’Africa Basil Davidson descrive i problemi dei paesi africani, e i tentativi di trovarvi delle soluzioni, negli anni Sessanta e Settanta, all’indomani della conclusione del processo di decolonizzazione e della conquista dell’indipendenza nazionale. Tra continuità e rotture con il sistema di dominazione europeo, alcuni punti fermi (la “riproduzione” di un sistema a partito unico, la proliferazione della burocrazia ecc.) spiegano la crisi di un continente, che tutt’oggi appare senza via di uscita.

I benefici dell’indipendenza erano reali e furono molti, die-dero alla storia nuova vita e contenuto e continuarono ad

aumentare o addirittura a svilupparsi negli anni successivi. Dal punto di vista africano, questi furono anni caratterizzati da uno spiegamento di idee e di iniziative che si cimentarono con nuove opportunità, sfruttarono nuove responsabilità, lot-tarono con realtà anch’esse nuove, nel senso che prima di allora il potere coloniale le aveva celate […]. Ricominciando di nuovo a sviluppare i propri processi interni, la storia dell’Africa rivelò le proprie peculiarità. Le tensioni irrisolte del periodo coloniale, le cause di una miriade di rancori che la “pacificazione” aveva composto furono ora rigettate nell’arena infra-africana. I bordi seghettati dei rapporti di un mosaico di comunità e di nazionalità, che il dominio coloniale aveva coperto, salirono violentemente alla superficie. Rag-gruppate all’interno dello stato nazionale, che era ancora lo stato coloniale, difficoltà e ambizioni vecchie e meno vecchie scrollarono e scossero le sue fragili strutture e fecero appari-re assurde le sue certezze propugnate […]. Tuttavia ciò che è realmente interessante, del periodo suc-cessivo all’indipendenza, non è il fallimento politico del mo-dello adottato, dal momento che questo era un fallimento prevedibile come in seguito sarebbe stato evidente. L’inte-resse storico è altrove: nel confronto tra l’eredità coloniale e

quella precoloniale […]. L’intera eredità precoloniale doveva essere messa a parte, ad eccezione del folklore e del senti-mento, come numerosi nazionalisti di prestigio avevano so-stenuto per molto tempo pensando che la civiltà dovesse ar-rivare in Africa dall’esterno […]? Al contrario, il modello importato non poteva ora essere rimpiazzato con un ritorno a valori, credenze, istituzioni precoloniali […]? Oppure si pote-va trovare una sintesi creativa tra vecchio e nuovo, fra “tradi-zionale” e “moderno” saldandoli tra di loro? Molta della storia di questi anni riguarda gli sforzi effettuati per raggiun-gere una sintesi attuabile fra vecchio e nuovo, non cambiando le strutture del modello importato, ma rimodellandole e rin-novandole. Più tardi altri si convincono sempre di più che il modello importato non può essere riformato in maniera profi-cua; costoro iniziano la rivoluzione. Piene di confusione e duramente contrastate, queste tendenze di pensiero e di azio-ne danno al periodo successivo all’indipendenza il suo dina-mismo irrequieto e la sua ansiosa carica ideologica. Un’im-pressione comune tra i contemporanei, che cioè gli Africani avessero acquisito improvvisamente i mezzi per realizzare un progresso armonioso, garantito dai sistemi parlamentari e dai “consolidati valori occidentali”, e che poi altrettanto im-provvisamente li avessero sperperati o perduti per incompe-tenza o per corruzione, lasciando soltanto uno sterile caos, era lontana dal vero […]. In generale, tuttavia, i regimi in-staurati dopo l’indipendenza subirono ben presto sconvolgi-menti e agitazioni. Lottando per contenerli, i sistemi parla-mentari multipartito lasciarono sempre più spesso il posto, in teoria o in pratica, a sistemi a partito unico. In questa fase la maggior parte di questi sistemi a partito unico, forse tutti, decaddero trasformandosi in sistemi apartitici a misura che il potere al loro interno si andava burocratizzando completa-mente. La politica era finita; la semplice amministrazione prese il suo posto riproducendo l’autocrazia coloniale, men-tre i nuovi “beneficiari” prendevano a loro volta il posto dei vecchi governanti.

B. Davidson, L’Africa nel mondo contemporaneo. Alla ricerca di una nuova società, SEI, Torino 1987

Basil Davidson, La decolonizzazione in Africa31

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Pur essendo diversissimi sotto il profi lo ideologico, il comunismo sovietico e il nazionalsocialismo ebbero in comune il sistematico rifi uto di ogni critica e di ogni opposizione. In entrambi i regimi, il campo di concentramento divenne lo strumento privilegiato per la repressione di tutti i nemici e gli avversari politici.

L’affievolirsi dello Stato di diritto nello Stato nazista e la sua totale scomparsa nei paesi da questo occupati e in

URSS sono stati accompagnati da un enorme sviluppo dei rispettivi sistemi concentrazionari; si trattò, anzi, in gran parte di un unico processo. È lecito quindi affermare che to-talitarismo e campi di concentramento siano due facce dello

stesso fenomeno: la totale negazione dei diritti dell’uomo. [...] In uno Stato di diritto, infatti, il momento che fa scattare contro una persona le sanzioni giuridicamente definite è una violazione del diritto da essa compiuta, accertabile e accer-tata in modo incontrovertibile secondo le regole procedurali dell’accertamento della verità. In un sistema politico-statale che si serve dei campi di concentramento nel proprio paese come mezzo di terrore (chiamiamolo in breve un sistema sta-tale concentrazionario), i campi non sono soltanto un mezzo puramente tecnico-poliziesco per privare dei propri diritti alcuni cittadini del paese (ovvero coloro che in quel momen-to sono imprigionati nei Lager), ma sono un mezzo politico generale per privare dei diritti tutti i cittadini. Questa priva-zione dei diritti consiste non nel fatto che un cittadino in un dato momento venga arrestato e inviato in un campo di con-

Andrei J. Kaminski, Il totalitarismo e i diritti dell’uomo33

Di fronte a conquiste che richiedono molto tempo per essere conseguite e attuate, permangono almeno tre ordini di fattori sempre in grado di ostacolarne l’affermazione: l’insuffi cienza o la corruzione degli organismi internazionali, la presenza di Stati autoritari, le manchevolezze dei Paesi democratici.

Il tentativo di realizzare i diritti umani è continuamente ri-messo in discussione […]. Le forze che si oppongono alla

loro realizzazione sono numerose: i regimi autoritari, le strut-ture governative soverchianti e onnicomprensive, i gruppi pri-vati che usano la violenza contro persone innocenti e indifese […]. Contro tutti questi “nemici” i diritti umani stentano a le-vare la voce. Che fare dunque? Per rispondere […] bisogna avere chiaro in mente che la protezione dei diritti umani […] richiede un arco di tempo assai vasto […]. I diritti umani ope-rano assai lentamente anche se […] non si dispiegano da sé, ma solo con il concorso di migliaia di persone, di organizza-zioni non governative e di Stati. Si tratta, soprattutto, di un processo che non è lineare ma è continuamente spezzato da ricadute, imbarbarimenti, ritorni all’antico, ristagni, silenzi lunghissimi […]. In una zona del mondo – nell’Europa […] – i tempi lunghi hanno già portato a risultati notevolissimi, ed unici: la creazione di un sistema internazionale di garanzie, che ha prodotto un relativo abbassamento del “tasso” di abu-si e violazioni, e comunque costituisce una solida diga contro autoritarismi e soprusi […]. L’istituzione di organi internazio-nali incaricati di vegliare efficacemente sull’assenza di devia-zioni ed arbitri ha senza dubbio contribuito, col passare degli anni, a rafforzare la tutela dei diritti umani in Europa […].Quali sono quelle forze che, nella comunità internazionale, si oppongono, consapevolmente o meno, ai diritti umani […]? Si possono individuare, grosso modo, tre ordini di fattori […]. Il

primo […]: gli enti che dovrebbero assicurare il rispetto di quei diritti umani sono gli Stati sovrani, e cioè proprio quelli che più o meno quotidianamente li calpestano […]. Il secondo […]: esistono Stati […] che perseguono, in certi campi, politi-che oppressive (discriminatorie o razziste, ad esempio), o hanno strutture autoritarie, e quindi per effetto del loro stes-so assetto e modo di funzionamento conculcano le libertà degli individui e dei gruppi […]. Anche Stati dotati di strutture aperte o pluralistiche, o ispirate ai modelli della democrazia parlamentare, sono ormai talmente complessi da non poter più risolvere correttamente e con la necessaria speditezza la miriade di problemi che devono affrontare […]. In certi Stati che posseggono un assetto tendenzialmente democratico, le autorità centrali non sono in grado di assicurare il godimento dei diritti e delle libertà fondamentali […]. Terzo […]: gli Sta-ti occidentali, pur se in linea di massima tendono a riconosce-re i diritti umani (almeno quelli civili e politici), non sono immuni da gravi manchevolezze […]. La Cina popolare e gli altri Paesi socialisti, a loro volta […], costituiscono ancora strutture burocratiche altamente autoritarie, in cui la dialet-tica tra gruppi sociali è quasi inesistente […] e la macchina statale rimane onnipresente ed oppressiva […]. Quanto ai Pae si del Terzo Mondo […] il quadro […] è scoraggiante: pre-valgono, come si sa, regimi militari e strutture dispotiche, se non si sconfina in vere e proprie dittature. I diritti degli indi-vidui e dei gruppi, anzi di intere popolazioni, risultano troppo spesso avviliti o ignorati […]. Sono realtà di cui bisogna tener conto, nel valutare le pro-spettive realistiche di un progressivo miglioramento dei dirit-ti umani nel mondo. Quelle realtà rappresentano e continue-ranno a rappresentare impedimenti obiettivi alla piena attua-zione di quei diritti.

A. Cassese, I diritti umani nel mondo contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 1994

Antonio Cassese, Il cammino dei diritti umani32

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Il nesso principale del legame tra il concetto di “democrazia” e quello di “diritti umani” sta nella loro universalità: «il tipo di sistema politico all’interno di un paese è lungi dall’essere irrilevante per lo standard di diritti umani goduti dai suoi cittadini».

Storicamente la democrazia e i diritti umani sono stati con-siderati come fenomeni distinti, relativi ad aree differenti

della vita politica: la democrazia come una questione di orga-nizzazione del governo, i diritti umani come un problema re-lativo ai diritti individuali e alla loro tutela. Quando parliamo di democrazia, abbiamo imparato a pensa-re a dispositivi istituzionali quali la competizione elettorale, il pluripartitismo, la separazione dei poteri e così via. Si tratta essenzialmente di questioni di ordine costituzionale e di organizzazione del potere pubblico. I diritti umani, d’altra parte, assumono l’individuo come punto di riferimento, e so-no volti a garantire ai singoli le condizioni minime necessa-

rie per conseguire una vita specificamente umana. Inoltre, come implica il termine “uma no”, l’applicazione di tali dirit-ti è sempre stata intesa in senso universale ed è andata sog-getta a definizione e regolamentazione internazionali, men-tre gli accordi costituzionali dei governi sono stati tradizio-nalmente considerati come una questione del tutto interna a ogni stato […]. Oggi questa separazione non è più sostenibi-le, se mai lo è stata. Il crollo dei regimi comunisti sotto la pressione popolare ha rivelato che la democrazia, insieme ai diritti umani, è un’aspirazione universale, piuttosto che una forma di governo meramente locale. E i dati sulle violazioni dei diritti umani perpetrate sotto i regimi dittatoriali, tanto di sinistra che di destra, hanno mostrato che il tipo di sistema politico all’interno di un paese è lungi dall’essere irrilevante per lo standard di diritti umani goduti dai suoi cittadini. La democrazia e i diritti umani, riconosciamo adesso, sono sal-damente connessi.

D. Archibugi - D. Beetham, Diritti umani e democrazia cosmopolitica, Feltrinelli, Milano 1998

centramento, ma nel fatto che ciò possa accadere a ogni cit-tadino in ogni momento; tutti i cittadini sono quindi sempre privi di diritti.Il momento dell’accensione, grazie al quale questa generale mancanza di diritti presente in un sistema statale concentra-zionario viene fatta esplodere contro una persona concreta, è la stigmatizzazione di quella persona come «nemico» [quella persona è percepita come un «nemico» e viene trattata di conseguenza, n.d.r.]. A parte il caso dei lunghi anni della «grande purga» sovietica, quando perse ogni significato e serviva come etichetta a posteriori per chi veniva arrestato nel modo più arbitrario, questa parola [«nemico», n.d.r.] aveva nel nazismo e ha fino ad oggi [l’autore scriveva nel 1982, n.d.r.] nel comunismo sovietico un significato preciso e ben riconoscibile, anche se non corrispondente all’uso con-sueto. In uno Stato totalitario, infatti, un «nemico» non è soltanto e nemmeno in primo luogo un risoluto e dichiarato avversario ideologico o politico. [...] Nemici sono soprattutto e senza eccezione [...], per usare una formula estremamente sintetica, persone che hanno un’opinione diversa. Dal punto di vista dell’ideologia totalitaria essi sono, nel comunismo, nemici dell’«unità politico-morale della nazione» da questa perseguita e ufficialmente già raggiunta e incrollabile, la cui espressione esteriore è il «Fronte nazionale» [la nazione, nel suo complesso, segue compatta e convinta la via indicata dal Partito comunista, avanguardia della classe operaia e della nazione stessa, n.d.r.]; nel nazionalsocialismo, e in modo analogo in altri fascismi, nemici della «comunità di stirpe»

riassunta nello slogan Ein Volk, ein Reich, ein Fü hrer [un po-polo, un impero, un capo, n.d.r.], il cui vero contenuto è co-stituito dal terzo termine. Chi ha idee diverse, chi non accetta di essere «uniformato» dal punto di vista organizzativo e so-prattutto da quello ideologico, è una negazione vivente e quindi anche una minaccia di quella «unità», di quel totale monopolio del potere su uomini, idee e cose, e in fondo sulla realtà stessa, che costituisce l’essenza del totalitarismo.Nel suo discorso tenuto a Hagen nel 1975 in occasione della «giornata del lutto nazionale» [la ricorrenza ufficiale con cui, nella Germania Federale, dal 1952 si commemorano i morti delle due guerre mondiali e le vittime del nazismo, n.d.r.] Christian Graf von Krockow ha così commentato questi sforzi di «unità»: «Poiché nelle condizioni della moderna so-cietà industriale la totale armonia e mancanza di conflitti è di per sé un’illusione che contraddice radicalmente la realtà, l’idillio della comunità di stirpe trova il suo necessario e ine-vitabile completamento nel campo di concentramento e nella guerra. [...] Chi si oppone alla salvezza dell’umanità si presta ad essere riconosciuto come nemico dell’umanità, e deve quindi essere convertito o annientato. Così nascono logica-mente gli schemi dualistici “amico/nemico”; non vi sono che giusti e ingiusti, figli della luce e figli delle tenebre, e di con-seguenza anche la lotta per la futura totale armonia sfocia nella lotta totale».

A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 ad oggi, Bollati Boringhieri, Torino 1997

Daniele Archibugi e David Beetham, Democrazia e diritti umani34

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Scienza, tecnologia e ambiente

Progetta sempre una cosa considerandola nel suo più grande contesto, una sedia in una stanza, una stanza in una casa, una casa nell’ambiente, l’ambiente nel progetto di una città.

Eliel Saarinen

Non si conosce a fondo una scienza finché non se ne conosce la storia.

Auguste Comte

La cosa più bella con cui possiamo entrare in contatto è il mistero. È la sorgente di tutta la vera arte e di tutta la vera scienza.

Albert Einstein

La scienza è conoscenza organizzata. La saggezza è vita organizzata. Immanuel Kant

La tecnologia: l’abilità di organizzare il mondo in modo tale che non siamo costretti a farne l’esperienza.

Max Frisch

La scienza è sempre imperfetta. Ogni volta che risolve un problema, ne crea almeno dieci nuovi.

George Bernard Shaw

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Isaac Newton, Le tre leggi della meccanicaLe tre leggi fondamentali della meccanica vengono spiegate da Isaac Newton nel suo testo Principia Mathematica Philosophiae Naturalis (1686). I princìpi della fisica newtoniana, punto fondamentale nella storia della scienza, avrebbero influenzato e determinato la ricerca per quasi due secoli, fino alla “rivoluzione della fisica” che caratterizzò il primo trentennio del Novecento.

Legge ICiascun corpo persevera nel proprio stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, eccetto che sia costretto a

mutare quello stato da forze impresse.I proiettili perseverano nei propri moti salvo che siano rallentati dalla resistenza dell’aria, e sono attratti verso il basso dalla forza di gravità. Una trottola, le cui parti, a causa della coesione, di continuo si deviano l’un l’altra dal movimen-to rettilineo, non cessa di ruotare, salvo che venga rallentata dalla resistenza dell’aria. I corpi più grandi dei pianeti e delle comete conservano più a lungo i propri moti sia progressivi che circolari effettuati in spazi meno resistenti.Legge IIIl cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, ed avviene lungo la linea retta secondo la quale la forza è stata impressa.Posto che una qualche forza generi un movimento qualsiasi, una forza doppia ne produrrà uno doppio, e una tripla uno triplo, sia che sia stata impressa di colpo e in una sola volta, sia gradatamente ed in tempi successivi. E questo moto (poiché è sempre determinato lungo la stessa direzione della forza generatrice) se è concorde e se il corpo era già mosso, viene aggiunto al moto di quello; sottratto se contrario, oppure aggiunto solo in parte se obliquo, così da produrre un nuovo movimento composto dalla determinazione di entrambi.Legge IIIAd ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: ossia, le azioni di due corpi sono sempre uguali fra loro e dirette verso parti opposte.Qualunque cosa pressi o tiri un’altra cosa, è pressata e tirata da essa nella stessa misura. Se qualcuno preme una pietra col dito, anche il suo dito viene premuto dalla pietra. Se un cavallo tira una pietra legata ad una fune, anche il cavallo è tirato ugualmente (se così posso dire) verso la pietra: infatti la fune distesa tra le due parti, per lo stesso tentativo di allentarsi, spingerà il cavallo verso la pietra e la pietra verso il cavallo; e di tanto impedirà l’avanzare dell’uno in quanto promuoverà l’avanzare dell’altro.

I. Newton, Principia Mathematica Philosophiae Naturalis, UTET, Torino 1965

H. Homer e Arthur Young, Pro e contro la nuova rete viaria ingleseDue giudizi opposti circa i lavori di miglioramento e di potenziamento approntati alla rete viaria inglese all’epoca della rivoluzione industriale: il primo testo, un’inchiesta del 1767, magnifica i progressi e il risparmio di tempo dovuti alle trasformazioni operate nel campo dei trasporti. Il secondo, posteriore di un anno, lamenta viceversa i limiti e le difficoltà di viaggio lungo strade che, nonostante l’introduzione del pedaggio, sono lontane dal garantire velocità ed efficienza.

“Tutto ha l’aspetto della celerità”

Non si è mai verificata nell’organizzazione interna di un paese, una rivoluzione più stupefacente di quella avve-nuta in Inghilterra, nell’arco di pochi anni. Il trasporto dei cereali, del carbone, delle merci, ecc., viene di solito

effettuato con poco più della metà dei cavalli che erano impiegati in passato. Le spedizioni commerciali vengono effettuate con una celerità più che doppia. I progressi nel campo agricolo vanno di pari passo con quelli del com-mercio. Tutto ha l’aspetto della celerità, ogni articolo della nostra produzione viene valorizzato ed il cardine su cui ruotano tutti questi mutamenti è la riforma del nostro sistema stradale.

Evitare le strade come il diavolo

Che cosa dire delle strade di questo paese? Strade a pedaggio come hanno la presunzione di chiamarle e il corag-gio di farle pagare! Da Chepstow alla stazione di posta fra Newport e Cardiff si trasformano in sentieri sassosi,

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interrotti da enormi massi, grossi come un cavallo, e da detestabili buche [...] La strada da Witney a North Leach, è, credo, la peggiore strada a pedaggio che abbia mai percorso: tanto cattiva che è una vergogna per il paese [...] Di tutte le strade maledette che afflissero il Regno, nei tempi della più autentica barbarie, nessuna eguagliò quella che va da Billericay al King’s Head a Tilbury. Per circa dodici miglia è tanto stretta che un topo non può passare vicino ad una carrozza. Ho visto un uomo strisciare sotto il suo carro, per vedere se poteva aiutarmi a sollevare la mia portantina oltre una barriera [...]Non conosco [...] termini sufficientemente espressivi per descrivere questa strada infernale... Consiglio a tutti i viag-giatori [...] di evitarla come farebbero con il diavolo [...]

in G. Solfaroli Camillocci, La rivoluzione industriale, SEI, Torino 1973

Friedrich Harkort, I vantaggi delle ferrovieFriedrich Harkort fu uno tra i primi industriali a comprendere i vantaggi e le possibilità offerte da una rete ferroviaria efficiente, impegnandosi direttamente nella sua costruzione. Nel 1825, non ancora trentenne, traccia un parallelo tra l’efficienza e la velocità dei trasporti inglesi e la lentezza di quelli tedeschi, auspicando una rapida modernizzazione del paese, affinché «il carro trionfale dell’attività produttiva, tirato da fumanti colossi, si possa fare strada nell’opinione pubblica».

Il benessere di un Paese viene notevolmente aumentato dal trasporto rapido ed economico delle merci, che è reso possibile in misura sufficiente da canali, corsi d’acqua navigabili e buone strade.

Per questa ragione lo Stato non dovrebbe considerare i pedaggi come una fonte di finanziamento, ma come mezzo per potere coprire le spese per una ottima manutenzione delle vie d’ogni sorta.Le ferrovie sembrano offrire vantaggi maggiori dei mezzi di trasporto finora disponibili.In Inghilterra per questa voce sono già stati destinati più di 500 milioni di talleri prussiani: è questa una dimostra-zione che la opinione pubblica è in larga misura favorevole a queste imprese.Anche in Germania si comincia almeno a parlare di queste cose [...].La ferrovia occidentale da Londra a Falmouth avrà una lunghezza di 400 miglia inglesi.Tra Manchester e Liverpool, benché già esiste un canale navigabile, è stata proposta una nuova ferrovia di 32 miglia inglesi.Tutte le fucine della Ruhr, attraverso la costruzione di una ferrovia, avrebbero il grande vantaggio di un trasporto rapido e regolare e con grande risparmio nelle spese.In 10 ore 1000 quintali potrebbero essere trasportati da Duisburg ad Arnheim; i barconi stanno fermi 8 giorni solo per le operazioni di carico.Le ferrovie porteranno alcune profonde trasformazioni nel commercio. Si uniscano Elberfeld, Colonia e Duisburg con Brema o Emden e si eviteranno le dogane olandesi!La Compagnia Renana delle Indie Occidentali potrà prendere in considerazione Elberfeld come porto quando un quintale di merci potrà essere trasportato in Brema in 2 giorni mediante una nave al pezzo di 10 soldi d’argento.A questo prezzo sarà impossibile per gli olandesi assumere il trasporto anche ricorrendo a battelli a vapore.Con una simile linea di trasporto verso il mare quale magnifico sviluppo potranno avere le attività produttive della Renania e della Vestfalia!Possa anche per la nostra Patria venire presto il tempo in cui il carro trionfale dell’attività produttiva, tirato da fu-manti colossi, si possa fare strada nell’opinione pubblica!Wetter, marzo 1825.

in F. Klemm, Storia della tecnica, Feltrinelli, Milano 1959

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François Dominique Arago e Charles Baudelaire, Due giudizi opposti sulla fotografiaIl primo giudizio è tratto dal discorso che l’astronomo e accademico di Francia François Dominique Arago pronunciò il 19 agosto 1839 in difesa dell’invenzione, e delle possibili applicazioni, di Jacques Daguerre. Il secondo, sprezzante, fu espresso nel 1859 da Charles Baudelaire: per il poeta francese l’industria fotografica è «il rifugio di tutti i pittori mancati» e rischia di distruggere l’arte ed il senso artistico.

La fotografia avvantaggia l’economia

Ci si chiede [...] se l’arte considerata in se stessa debba aspettarsi qualche progresso dall’esame, dallo studio di queste immagini disegnate, da ciò che la natura offre di più sottile, di più fine, cioè i raggi luminosi.

Tra le domande che ci siamo poste, figura inevitabilmente quella di sapere se potranno i metodi fotografici diven-tare di uso comune [...]. Siamo in grado di dire che i quadri sui quali la luce genera gli stupendi disegni del Signor Daguerre sono tavole placcate, cioè tavole di rame ricoperte su una facciata di uno strato sottile di argento. Certo per la comodità dei viaggiatori nonché dal punto di vista economico, sarebbe stato preferibile potersi servire di carta. Difatti, la carta imbevuta di cloruro o di nitrato d’argento fu la prima sostanza scelta dal Signor Daguerre; ma la mancanza di sensibilità, la confusione delle immagini, i risultati poco sicuri, gli incidenti che spesso avveni-vano nell’operazione destinata a trasformare i chiari in neri e i neri in chiari, non potevano mancare di scoraggiare un sì abile artista [...]. Le Camere non se ne sarebbero di certo occupate. Del resto, se tre o quattro franchi, costo di ognuna delle lastre usate dal Signor Daguerre, sembrano un prezzo troppo alto, bisogna pur dire che la stessa lastra può ricevere successivamente cento disegni differenti [...]. Non c’è nel dagherrotipo una sola manipolazione che non sia alla portata di tutti. Non necessita la conoscenza del disegno né richiede abilità manuale. Rispettando punto per punto certe regole semplicissime e poco numerose, non v’è alcuno che non debba riuscire così bene e così sicuramente come il Signor Daguerre stesso.

La Fotografia distrugge l’arte

Essendo l’industria fotografica il rifugio di tutti i pittori mancati, troppo poco dotati o troppo pigri per comple-tare i loro studi, questo universale esagerato entusiasmo, aveva non soltanto il carattere della cecità e dell’im-

becillità, ma anche il tono d’una vendetta [...].Sono convinto che i progressi male applicati della fotografia hanno molto contribuito, come d’altronde tutti i pro-gressi puramente materiali, all’immiserimento del genio artistico francese, già tanto raro [...]. Ciò significa che l’industria, facendo irruzione nell’arte, ne diviene la più mortale nemica, e che la confusione delle funzioni impedi-sce che alcuna sia ben soddisfatta. La poesia e il progresso sono due ambiziosi che si odiano di un rancore istintivo, e, quando si incontrano sul medesimo cammino, bisogna che uno dei due serva l’altro. Se si permette alla fotogra-fia di sostituire l’arte in qualcuna delle sue funzioni, essa l’avrà ben presto soppiantata o corrotta completamente, grazie alla naturale alleanza che troverà nella scempiaggine della moltitudine. Bisogna dunque che essa ritorni al suo vero compito, che è d’essere la serva delle scienze e delle arti, ma la più umile serva, come la stampa e la ste-nografia, che non hanno né creato né sostituito la letteratura. Che arricchisca essa rapidamente l’album del viag-giatore e restituisca ai suoi occhi la precisione che potrebbe mancare alla sua memoria, che essa abbellisca la biblio-teca del naturalista, ingrandisca gli animali microscopici, rafforzi con qualche informazione le ipotesi dell’astronomo; che essa sia infine il segretario e il taccuino di chiunque ha necessità nella sua professione d’una assoluta esattezza materiale, fin qui nulla di meglio. Che salvi dall’oblio le rovine cadenti, i libri, le stampe e i manoscritti che il tempo divora, le cose preziose di cui va sparendo la forma e che chiedono un posto negli archivi della nostra memoria, essa sarà ringraziata e applaudita. Ma se le si permette di invadere il dominio dell’impalpabile e dell’immaginario, so-prattutto ciò che vale perché l’uomo vi ha aggiunto qualcosa della sua anima, allora sventurati noi!

in I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Roma-Bari 1984

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Alan M. Turing, L’intelligenza artificialeIl matematico inglese Alan M. Turing, uno dei padri dell’informatica, in due conferenze del 1945 e del 1947 illustra quali dovrebbero essere la natura di una delle prime macchine calcolatrici e le possibilità offerte dalla sua “intelligenza artificiale”. Il confronto avviene soprattutto tra le caratteristiche della macchina, velocità, minore fallibilità, maggior complessità, e i limiti del lavoro umano.

Le macchine calcolatrici sono state progettate in passato per eseguire in maniera accurata e moderatamente ve-loce piccole parti di calcoli che ricorrono di frequente. I quattro processi di addizione, sottrazione, moltiplicazio-

ne e divisione […] esauriscono tutto quello che poteva essere fatto fino a pochissimo tempo fa […]. Il calcolatore elettronico […] dovrebbe essere qualcosa di diverso, in quanto sarà in grado di affrontare e risolvere problemi nella loro interezza. Invece di servirsi ripetutamente del lavoro umano per estrarre materiale dalla macchina e reinserirlo al momento giusto, di tutto questo si prenderà cura la macchina stessa. Questa soluzione ha moltissimi vantaggi:1) La velocità della macchina non sarà più limitata alla velocità dell’operatore umano.2) L’elemento umano di fallibilità sarà eliminato, benché in qualche misura possa essere sostituito dalla fallibilità meccanica.3) Si potrebbero eseguire processi molto più complicati di quelli che potrebbero essere facilmente trattati con il lavoro umano.Una volta rimosso il freno umano, l’aumento di velocità è enorme [...]. È evidente che se la macchina deve esegui-re tutto quello che normalmente è fatto dall’operatore umano, deve essere fornita di disponibilità analoghe; tre in particolare: la carta su cui il calcolatore umano riporta i risultati e scrive le sue elaborazioni intermedie provvisorie; secondo, le istruzioni relative a quali processi devono essere eseguiti […]; terzo, le tavole delle funzioni usate dal calcolatore devono essere disponibili in forma appropriata alla macchina. Tutti questi requisiti richiedono un imma-gazzinamento di informazione, o una memoria meccanica […]. La memoria deve essere davvero molto grande […]. Se si riesce a risolvere il problema della memoria, tutto il resto è relativamente agevole.Si potrebbe sostenere che c’è una contraddizione di fondo nell’idea di una macchina intelligente. È certamente vero che “agire come una macchina” è diventato sinonimo di mancanza di adattabilità […]: le macchine, nel passato, hanno sempre avuto pochissima memoria, e nessuno ha mai pensato che potessero avere discernimento. Per esem-pio è stato mostrato che, usando alcuni sistemi logici, non può esistere una macchina in grado di distinguere le formule dimostrabili del sistema da quelle non dimostrabili, cioè non esiste alcun criterio applicabile alla macchina che divida con certezza le proposizioni in queste due classi. Così se una macchina è costruita con questo obiettivo deve, in certi casi, fallire. D’altra parte se un matematico fosse messo di fronte a un tale problema egli si guarde-rebbe intorno e cercherebbe nuovi metodi di prova […]. Contro questa argomentazione io sostengo che la macchi-na deve esser trattata in modo equo e leale. Invece di avere una situazione in cui la macchina a volte non dà rispo-ste, potremmo aggiustare le cose in modo che essa dia ogni tanto risposte sbagliate. Anche il matematico umano prende qualche cantonata quando sperimenta nuove tecniche. È facile per noi considerare queste sviste come non rilevanti e dare al ricercatore un’altra possibilità, ma alla macchina non viene riservata alcuna pietà. In altre parole, se si aspetta che la macchina sia infallibile, allora essa non può essere anche intelligente.

A.M. Turing, Intelligenza meccanica, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Roald Amundsen, L’era del voloRoald Amundsen (1872-1928), conquistatore nel 1911 del Polo Sud, nel 1925 riflette sul futuro e sulle possibilità offerte all’uomo da un mezzo di trasporto come l’aeroplano, a poco più di vent’anni dalla sua invenzione. L’esploratore norvegese, tre anni più tardi, precipitò con l’aereo durante il tentativo di salvataggio dell’equipaggio del dirigibile Italia comandato da Umberto Nobile, che si era schiantato nell’Artico.

Il giorno in cui i fratelli Wright s’innalzarono e volarono, una nuova era si schiuse per l’umanità. Molti furono, certamente, coloro che subito intravidero i grandi risultati che da questo fatto sarebbe stato possibile conseguire,

e per l’umanità in generale e per la loro opera in particolare; ma pochi, credo, come l’esploratore polare, furono quelli che capirono come questi possibili grandi risultati avrebbero portato una vera e propria rivoluzione nel loro lavoro. Ciò che per anni l’esploratore aveva lavorato per ottenere, ora, forse, avrebbe potuto raggiungere in un

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tempo incredibilmente breve. Per secoli egli s’era servito dei suoi primitivi mezzi: la slitta e il cane; impiegando per giorni e giorni tutte le sue forze, tutta la sua intelligenza, tutta la sua volontà, aveva potuto spingersi appena poche miglia innanzi nell’infinito deserto dei ghiacci. Quale coraggio, quale perseveranza non ha egli dovuto avere in questa lotta contro il freddo, la fame, le fatiche? Quale luminoso esempio di abnegazione, di sacrificio non è egli stato? Rinchiuso per anni in una piccola nave, circondato sempre dai medesimi uomini, equipaggiato con il solo stretto necessario, aveva finora lavorato attraverso alle maggiori difficoltà, attraverso le prove più ardue, il freddo e l’oscurità. Ed ora d’un colpo tutto, forse si sarebbe cambiato: il freddo e l’oscurità sarebbero stati vinti dalla luce e dal calore, i viaggi faticosi, da un rapido volo. Non più razioni di vitto, non più fame e sete, ma soltanto un breve volo. Le speranze erano invero molto grandi. Come un sogno, una lontana possibilità balenò, una piccola scintilla s’accese un giorno, destinata a sviluppare un portentoso incendio e, nel corso di pochi anni, l’aviazione s’impose come uno dei più importanti mezzi di locomozione.

R. Amundsen, Il mio volo polare fino a 88° lat. Nord, Mondadori, Milano 1926

Jurij Gagarin, Il primo volo spazialeQuattro anni dopo il lancio del satellite Sputnik, l’astronauta russo Jurij Gagarin il 12 aprile 1961 a bordo del modulo spaziale Vostok 1 compì un’intera orbita intorno alla superficie terrestre in 1 ora e 48 minuti. Per una piccola serie di guasti, taciuti nel testo, il suo atterraggio avvenne con un paracadute a circa 100 km di distanza dal punto previsto, a fianco di una contadina, di sua figlia e di un vitellino al pascolo.

Il mio sguardo cadde sul quadrante del cronometro: le lancette segnavano le 9 e sette minuti, ora di Mosca. Udii un sibilo, poi un rombo sempre più alto, sentii che il missile gigante vibrava da cima a fondo violentemente e che

lentamente, molto lentamente, si staccava dalla rampa di lancio […]. Una forza irresistibile mi appiattiva contro la poltrona, inclinata con un certo angolo per ridurre il peso enorme che mi schiacciava. Ma anche così, m’era impos-sibile muovere un braccio o una gamba […]. Quando il missile ebbe superati gli strati densi dell’atmosfera, il cono protettivo che ne ricopriva la testa fu espulso automaticamente e dagli oblò mi apparve, lontanissima, la Terra […]. La nave cosmica aveva raggiunto la sua orbita nella larga strada del cosmo e adesso […] mi trovavo nello stadio di imponderabilità […]: staccato dal sedile, mi trovai sospeso tra il soffitto e il pavimento della cabina. Tutti i miei gesti erano facili. Non sentivo né braccia, né gambe, né corpo perché non avevano più alcun peso. Non ero né se-duto né sdraiato: letteralmente, galleggiavo all’interno della cabina assieme a tutti gli oggetti che non erano stati fissati in precedenza […]. Dagli oblò vedevo le nuvole e le loro ombre leggere […]. Le stelle, brillanti e pure, mi fa-cevano pensare a chicchi di grano. Anche il sole aveva un suo straordinario splendore e non si poteva guardare a occhio nudo […]. Guardando verso l’orizzonte ero colpito da un violento contrasto tra la superficie chiara della Terra e la nera profondità del cielo […]. Il passaggio dalla luce alle tenebre fu improvviso. In un attimo mi trovai a volare al buio. Alle 9.51 entrò in funzione il sistema di orientamento automatico […]. Del resto, avevo a disposizio-ne le leve per il comando a mano della nave cosmica. Mi bastava innestare un certo contatto perché la direzione del volo e dell’atterraggio del Vostok passasse nelle mie mani […]. Per quella volta non sarebbe stato necessario […]. Alle 10.15 […] le apparecchiature automatiche a programma trasmisero agli strumenti di bordo il comando per l’accensione dei motori di frenaggio […]. Alle 10.25 i motori frenanti entrarono automaticamente in azione […]. Il Vostok […] cominciò a rallentare […]. La sua superficie si scaldava rapidamente. Attraverso gli schermi protettivi degli oblò vedevo il minaccioso riflesso delle fiamme che danzavano attorno all’astronave. Mi trovavo insomma all’interno di una sfera infuocata che precipitava verso la Terra, ma nella cabina la temperatura non superva i venti gradi […]. Alle 10.55, dopo aver fatto un giro del nostro pianeta, il Vostok si posò senza danni, nella zona prevista.

J. Gagarin, La via del cosmo, Editori Riuniti, Roma 1961

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Albert Einstein e Henry Truman, Sul nucleareIn una lettera del 1939 lo scienziato e padre della teoria della relatività Albert Einstein con notevole pessimismo mette l’amministrazione Roosevelt in guardia contro i possibili pericoli insiti nella sperimentazione nucleare. Di seguito, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman, all’indomani dello sgancio della prima bomba atomica, rilascia una dichiarazione ottimistica, nutrita dalla convinzione che l’energia atomica possa costituire «un potente elemento d’influenza per il mantenimento della pace mondiale».

Signore:un recentissimo lavoro di E. Fermi e L. Szilard, che mi è stato trasmesso in manoscritto, mi dà motivo di ritenere

per certo che l’elemento uranio nell’immediato futuro possa essere trasformato in una nuova ed importante fonte di energia. Certi aspetti della situazione che è sorta sembrano render necessarie da parte dell’Amministrazione vigi-lanza e, all’occorrenza, rapida azione. Credo perciò che sia mio dovere di portare a Sua conoscenza i seguenti fatti e raccomandazioni.Nel corso dei quattro mesi passati […] è stato reso possibile produrre una reazione nucleare a catena in una grande quantità di uranio, con la quale verrebbero generate forti quantità di energia e un gran numero di nuovi elementi simili al radio […]. Questo nuovo fenomeno porterebbe anche alla costruzione di bombe, ed è pensabile […] che in questa maniera si possano costruire bombe di nuovo tipo straordinariamente potenti. Una sola bomba di questo tipo, che fosse trasportata con nave ed esplodesse in un porto, potrebbe benissimo distruggere il porto intero insie-me con la zona ad esso circostante […]. Data questa situazione Ella potrebbe ritenere augurabile di mantenere continui contatti tra l’Amministrazione e il gruppo di fisici che in America lavorano alla reazione a catena.

A. Einstein, Lettera a Roosevelt, 2 agosto 1939

Sedici ore fa un aeroplano americano ha lanciato una bomba sopra Hiroshima, un’importante base militare giap-ponese. Questa bomba aveva una potenza di più di 20000 tnt [tonnellate di dinamite, n.d.r.]. La potenza della

sua onda di pressione è stata di duemila volte più grande della bomba inglese “Grande Slam”, la più grossa che sia mai stata impiegata nella storia bellica. Si tratta della bomba atomica. Si tratta dell’utilizzazione delle forze primi-genie dell’Universo. La potenza, dalla quale il sole deriva la sua forza, è stata sganciata contro coloro che hanno portato la guerra nell’Estremo Oriente […].Quello che è stato fatto è l’opera più grande di scienza organizzata nella storia. Il fatto che possiamo sprigionare l’energia atomica dà inizio ad una nuova era nella conoscenza delle forze della natura da parte dell’umanità. L’ener-gia atomica si aggiungerà nel futuro alle energie che oggi sono ricavate dal carbone, dal petrolio e dall’energia idraulica. Non è mai stato costume degli scienziati di questo paese, né è mai stata politica di questo governo, di privare il mondo del sapere scientifico. Quindi di norma dovrebbe esser pubblicato tutto sul lavoro intorno all’ener-gia atomica. Ma nelle circostanze presenti non esiste lo scopo di render noti i procedimenti tecnici di produzione o tutte le possibilità d’impiego militari durante l’esame di ulteriori possibili metodi per proteggere noi e il mondo ri-manente dal pericolo di un’improvvisa distruzione. Per quanto mi riguarda, avvierò la riflessione su come l’energia atomica possa divenire un potente elemento d’influenza per il mantenimento della pace mondiale.

H. Truman, Comunicazione ufficiale del Presidente degli Stati Uniti sul lancio della bomba atomica su Hiroshima, 6 agosto 1945

in H. Jaenecke, L’apocalisse atomica. Da Hiroshima a Chernobyl, Cultura della Pace, Fiesole 1991

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Testimonianze di superstiti della bomba atomica Tra le testimonianze degli hibakusha (in giapponese, “vittime della bomba atomica”) superstiti della città di Hiroshima, emerge l’ultima: riguarda l’incontro avvenuto nel 1980 tra il generale in pensione Paul W. Tibbets, comandante dell’equipaggio dell’Enola Gay, e Akihiro Takahashi, uno dei superstiti, direttore del Museo Memoriale di Hiroshima.

Nell’agosto 1945 frequentavo la prima elementare. La mia casa era a circa 1800 metri dall’epicentro […]. Attra-verso il lucernario, notai due piccoli aerei nell’azzurro del cielo estivo. Li guardavo affascinato quando vidi

qualcosa di bianco staccarsi da uno di essi; subito dopo rimasi accecato da un lampo di enorme luminosità. Dopo cinque secondi si sentì una tremenda esplosione, sembrava fosse scoppiata la terra […]. Eravamo immersi nell’oscu-rità […]. Se non fossimo riusciti a scappare saremmo bruciati vivi intrappolati dalle fiamme delle case vicine.

Katsuyoshi Yoshimura, Hiroshima

I feriti erano collocati ovunque ci fosse spazio, nei corridoi o sul cemento del pavimento dell’atrio, tanto che qua-si non rimase più spazio per camminare. La maggior parte era gravemente ustionata e in un attimo la scorta di

medicinali si esaurì. Tutto ciò che potevamo fare era girare con una bottiglia d’olio d’oliva e un pennello per unge-re le ustioni e le ferite […]. Andammo in fretta a cercare acqua per coloro che ce la chiedevano, ma molto spesso tornavamo in ritardo: molte persone erano già morte e non avevano più bisogno di aiuto. Impossibile descrivere la scena. Posso solo paragonarla all’inferno.

Sakae Hosaka, infermiera ad Hiroshima

Come potevo capire ciò che ora avevo davanti agli occhi? Non si trattava soltanto di un gruppo di feriti. Non era nemmeno una processione di cadaveri o di spettri. Da queste figure non usciva un suono, parevano esseri finiti.

Provocavano una indescrivibile compassione. Continuavano a passare in un silenzio di morte. Era possibile descri-verli? La forza dell’esplosione aveva strappato i vestiti dai loro corpi ustionati dallo spaventoso calore. Alcuni com-pletamente nudi, altri solo con la camicia appiccicata sulla pelle. Particolarmente ripugnanti erano le ferite che devastavano il loro volto. Io, illeso e con i vestiti intatti, mi sentivo un intruso. Era come se il normale e l’anormale si fossero rovesciati.

Hiroshi Shibayama, Hiroshima

Nel giugno 1980 […] ebbi l’opportunità di incontrare il generale di brigata aerea in pensione Paul W. Tibbets, pilota dell’Enola Gay, il B-29 che sganciò la bomba atomica su Hiroshima […]. Era un gentile, occhialuto, an-

ziano gentiluomo […]. Tesi la mia mano destra coperta di cheloidi: «È stata la bomba?» mi chiese il generale Tibbets. «Sì», risposi. Fece una smorfia. Ruppi l’imbarazzo […]: «Voi avete agito secondo gli ordini. Il problema è con loro che hanno dato gli ordini. Noi sopravvissuti, ve lo dico francamente, odiamo sia i capi del Giappone che hanno cominciato la guerra, sia i capi dell’America che hanno dato l’ordine di lanciare la bomba, ma io credo che come esseri umani dobbiamo superare l’odio. Soltanto passando al di là di ogni odio, di ogni dolore, di ogni tristezza, possiamo giungere ad una vera pace» […]. Aggiunsi: «Oggi, basta premere un bottone per distruggere tutto. È per questo motivo che i sopravvissuti della bomba atomica vogliono un disarmo nucleare totale». Il generale Tibbets rispose: «Se ci fosse un’altra guerra, e se mi fosse comandato, farei la stessa cosa. Questa è la logica della guerra. Ecco perché è importante non permettere che ci sia la guerra».

Akihiro Takahashi, direttore del Museo memoriale e della Fondazione culturale per la pace di Hiroshima

in Hiroshima-Nagasaki. I superstiti, Queriniana, Brescia 1987

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Grigorij Medvedev, ChernobylNel libro-inchiesta sulla catastrofe umana e ambientale di Chernobyl, la cui pubblicazione fu a lungo ostacolata e poté realizzarsi soltanto nel 1989, tre anni dopo la tragedia, l’ingegnere nucleare russo Grigorij Medvedev interroga il lettore e si pone una domanda difficilmente eludibile: «Riuscite a immaginare quello che ne sarebbe del pianeta se le sue centrali nucleari venissero bombardate, anche con armi classiche, prive di carica nucleare?».

La principale lezione di Chernobyl è […] di avere taciuto il nostro sentimento di vulnerabilità e di fragilità della vita umana. L’incidente di Chernobyl ha dimostrato che l’uomo è al tempo stesso onnipotente e impotente, e

l’ha messo in guardia: che non si inebri della propria potenza, che non giochi con essa, che non cerchi beni, piace-ri o lampi di gloria futili. Che posi uno sguardo attento e responsabile su se stesso e sulla sua creazione. Perché egli ne è l’origine ma anche la fine. Ogni sua creazione deve tendere a un avvenire di felicità infinita che succederà ad anni difficili. I morti e le mutilazioni di Chernobyl sono solo ciò che colpisce maggiormente. In fin dei conti, sono più sconvolgenti la rottura delle catene cromosomiche e le operazioni genetiche. Queste lasceranno sul futuro la loro impronta. Ormai sfuggono a ogni controllo. Un giorno, altri uomini ci faranno i conti. Questa è la lezione più orribile di Chernobyl […]. Ecco, i nucleocrati […] si mettono a cantare le lodi di un atomo assolutamente pacifico, senza dimenticare neanche per l’occasione di nascondere la verità. In effetti, non è possibile incensare l’atomo pacifico senza nascondere al contempo la verità […].Desidero concludere questa cronaca con le parole di uno scienziato sovietico di primo piano, membro dell’Accade-mia di medicina dell’URSS, eminente specialista del trattamento delle leucemie, Andrej Ivanovic Vorobiev. Ecco ciò che ha detto a proposito della catastrofe di Chernobyl: «Riuscite a immaginare quello che ne sarebbe del pianeta se le sue centrali nucleari venissero bombardate, anche con armi classiche, prive di carica nucleare? Nessun uomo ci-vilizzato può tollerare l’idea di un’umanità così orribilmente mutilata. Ora che questo incidente è avvenuto […] molte cose devono essere riconsiderate. Anche se hanno provocato un numero limitato di morti, e le loro vittime sono per la maggior parte ancora in vita, e in via di guarigione, gli avvenimenti di Chernobyl hanno mostrato l’am-piezza che una catastrofe poteva avere. Alla luce di questi nuovi fatti, occorre riformare completamente la nostra mentalità, senza guardare se si è operai o scienziati. In effetti gli incidenti non succedono mai per caso, e il nuclea-re esige la stessa precisione dei calcoli delle traiettorie dei missili. Il nostro secolo nucleare non può privilegiare unicamente il nucleare. È molto importante comprendere che al grande pubblico oggi i cromosomi non devono essere più misteriosi del motore a quattro tempi. L’umanità non potrà fare a meno di queste conoscenze e, se vuo-le vivere in un secolo nucleare, occorre che sappia creare una nuova cultura».

G. Medvedev, Chernobyl, SugarCo, Milano 1990

Manifesto dell’acquaIl Manifesto dell’acqua, redatto in Spagna nel 1998 dal Comitato internazionale per il contratto mondiale sull’acqua, propone alcune misure per affrontare uno dei maggiori problemi del mondo contemporaneo: la cattiva gestione delle risorse idriche.

L’ acqua « fonte di vita » è un bene comune che appartiene a tutti gli abitanti della Terra. In quanto fonte di vita insostituibile per l’ecosistema, l’acqua è un bene vitale che appartiene a tutti gli abitanti della Terra in comune

[…]. L’acqua è patrimonio dell’umanità […]. Non è paragonabile a nessun’altra risorsa: non può essere oggetto di scambio commerciale di tipo lucrativo. Il diritto all’acqua è un diritto inalienabile individuale e collettivo […]. Il diritto all’acqua è una parte dell’etica di base di una buona società e di una buona economia. È compito della società, nel suo complesso e ai diversi livelli di organizzazione sociale, garantire il diritto di accesso, secondo il doppio principio di corresponsabilità e sussidia-rietà, senza discriminazioni di razza, sesso, religione, reddito o classe sociale. L’acqua deve contribuire al rafforzamento della solidarietà fra i popoli, le comunità, i paesi, i generi, le generazioni […]. Sul nostro pianeta ci sono ancora troppe guerre legate all’acqua perché molti stati continuano a usare l’acqua come strumento a supporto dei loro interessi strategici di tipo geo-economico, al fine di acquisire un potere ege-monico sulla regione circostante. È necessario e possibile liberare l’acqua dall’influenza degli stati orientati egemo-nicamente. L’acqua è “res publica”.

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L’accesso all’acqua necessariamente avviene tramite partnership […]. Sosteniamo una vera partnership pubblica/privata a livello locale/nazionale/mondiale. Una gestione dell’acqua sostenibile nell’interesse generale non solo può, ma deve essere fondata sul rispetto delle diversità culturali e sul pluralismo socio-economico. Crediamo che la responsabilità finanziaria per l’acqua debba essere collettiva e individuale secondo i princìpi di responsabilità e di utilità […].Proposte. Allo scopo di far diventare i princìpi elencati una realtà […] proponiamo che vengano prese e realizzate le seguenti misure, parti integranti di un “World Water Contract” […]: La creazione di una rete di parlamenti per l’acqua. È nei parlamenti, principali organi della rappresentanza politica nelle società occidentalizzate, e in simili istituzioni in altre civiltà, che cade la responsabilità di modificare l’esisten-te legislazione […]. La priorità è quella di definire un “trattato mondiale sull’acqua” che legalizzi l’acqua come bene patrimoniale vitale, comune a tutta l’umanità […]; Promozione di campagne d’informazione, di sensibilizzazione e di mobilitazione. 1. Sviluppo (o modernizzazione) dei sistemi di distribuzione e sanitarizzazione dell’acqua per le […] città […] e paesi […] che avranno più di un mi-lione di abitanti nell’anno 2020 e i cui acquedotti (sistemi) sono già oggi obsoleti, inadeguati o inesistenti; 2. La lotta contro nuove fonti di inquinamento dell’acqua nelle città del Nord America, Europa occidentale e Giappone […]. Queste azioni rispondono all’obiettivo di “3 miliardi di rubinetti” […]. A questi scopi, deve essere data priorità a: 1. La riforma strutturale dei sistemi di irrigazione nell’agricoltura indu-striale intensiva […]. 2. Una moratoria di 10-15 anni per la costruzione di nuove grandi dighe che hanno finora creato problemi considerevoli di breve e lungo periodo all’ambiente, alle popolazioni locali e alla possibilità di una gestione dell’acqua integrata e sostenibile. La costituzione di un Osservatorio Mondiale per i diritti dell’acqua […]. L’osservatorio deve diventare uno dei punti di riferimento mondiali per le informazioni sui diritti dell’acqua, a supporto delle più efficienti forme di partnership e solidarietà per l’acqua.

Comitato internazionale per il Contratto mondiale sull’acqua, Lisbona (Valencia), 1998

Protocollo di KyotoLa tabella riportata qui di seguito riproduce parte del Protocollo di Kyoto, documento approvato il 11 dicembre 1997 dalla Convenzione quadro sui cambiamenti climatici, relativo alla riduzione e limitazione nelle emissioni di gas inquinanti da parte dei paesi firmatari.

Paesi Obiettivi Paesi ObiettiviAustralia 108 Paesi Bassi 92Canada 94 Portogallo 92Danimarca 92 Regno Unito e Irlanda del Nord 92Federazione russa 100 Spagna 92Finlandia 92 Stati Uniti d’America 93Francia 92 Svezia 92Germania 92 Svizzera 92Giappone 94 Ucraina 100Grecia 92 Ungheria 94Italia 92Norvegia 101 Unione Europea 92

Il protocollo di Kyoto stabilisce la riduzione percentuale delle emissioni di gas che ciascun paese deve operare, ri-spetto ai livelli del 1990, entro il quadriennio 2008-2012.

Secondo questo intendimento, la tabella che riportiamo deve essere letta nel modo seguente: posto a 100 il livello di produzione di gas del 1990, l’Unione Europea deve ridurre le emissioni di una percentuale pari all’8% (produzio-ne del 1990: 100; emissione del periodo 2008-2012: 92; differenza in termini percentuali: 100-92=8%).Federazione russa e Ucraina hanno l’obiettivo minimo del mantenimento degli attuali livelli in quanto paesi ancora alle prese con il processo di transizione verso un’economia di mercato, mentre Australia e Norvegia hanno già una ridotta quantità di emissioni, tale da rendere possibile un limitato aumento.

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Nel presentare il complesso quadro delle cause e conseguenze delle principali innovazioni tecnico-scientifi che del Seicento, l’economista Carlo Maria Cipolla osserva: «Una delle caratteristiche fondamentali della Rivoluzione Scientifi ca del secolo XVII fu quella di distogliere la speculazione umana da problemi irrisolvibili e assurdi e indirizzarla invece verso problemi che potevano avere una risposta».

Il secolo XVII vide svolgersi un’acre, violenta battaglia in-tellettuale tra gli «antichi» e i «moderni», tra chi sostene-

va il dogma dell’autorità e la onniscienza dei classici e chi opponeva al dogma la ricerca critica e sperimentale e poneva in rilievo gli errori e le assurdità degli scrittori antichi [...].Una delle caratteristiche fondamentali della Rivoluzione Scientifica del secolo XVII fu quella di distogliere la specu-lazione umana da problemi irrisolvibili ed assurdi [...], e indirizzarla invece verso problemi che potevano avere una risposta. La Rivoluzione Scientifica non consistette soltanto nell’adozione sistematica del metodo sperimentale ma an-che nel rinnovamento radicale della problematica e nell’adeguamento dell’una cosa all’altra [...]. Una volta impostata bene la problematica è fatale che la ri-sposta approssimata od esatta finisca con l’essere trovata. La statistica e la demografia moderne nacquero praticamen-te allora e le informazioni quantitative sulla popolazione, la produzione, il commercio, la moneta si fecero progressiva-mente sempre più numerose e più attendibili. D’altra parte la nuova problematica era a sua volta frutto di un nuovo at-teggiamento mentale che faceva più posto al razionale che all’irrazionale, che anteponeva il pragmatismo all’ideolo-gia, che metteva l’accento sulla praticità attuale anziché sull’escatologia [...].Sul piano delle relazioni umane si preparò il terreno alla tol-leranza dell’Illuminismo. Sul piano tecnologico ci si basò sempre più sulla sperimentazione per la soluzione dei pro-blemi concreti dell’economia e della società.Tutto questo grandioso movimento di idee ebbe notevole im-portanza anche per un altro verso. Nel Medioevo, per una tradizione culturale ereditata dall’antichità, scienza e tecnica erano rimaste due cose separate e distinte [...]. Il Rinasci-mento, con il suo culto incondizionato per i valori dell’anti-chità classica, accentuò questa dicotomia [...].

I «moderni» del secolo XVII, nella loro reazione contro i va-lori tradizionali e nel loro sforzo di imporre il metodo speri-mentale, si batterono accanitamente per rivalutare l’opera tecnica degli artigiani. Francis Bacon sottolineò a più riprese la necessità della collaborazione tra scienziati e artigiani. Galileo nel suo famoso Dialogo mise in bocca all’immaginario Sagredo l’affermazione che il conversare con gli artigiani dell’Arsenale di Venezia l’aveva molto aiutato nello studio di parecchi e difficili problemi. La Royal Society di Londra inca-ricò alcuni suoi membri di compilare una storia dei mestieri e delle tecniche artigiani: un’idea che sarà poi adottata in pie-no dai redattori dell’Encyclopédie.Mentre tutto ciò accadeva nel campo della «scienza», svilup-pi convergenti prendevano corpo nel campo della «tecnica». Anzitutto va tenuto conto del fatto che le varie parti di una società per quanto distinte o divise soggiacciono pur sempre a stimoli culturali comuni. Di più: il protestantesimo, con la sua incondizionata bibliolatria, fu un poderoso fattore di dif-fusione dell’alfabetismo. Nei Paesi della Riforma la propor-zione di artigiani che sapevano leggere e scrivere aumentò notevolmente nel corso del secolo XVII. Per via di emulazione qualcosa di analogo, anche se in proporzioni di gran lunga minori, occorse nei Paesi cattolici durante la Controriforma. La diffusione dell’alfabetismo significò la vittoria del libro sul proverbio, del testo sull’immagine, dell’informazione ra-gionata sulla ripetizione pedissequa, il che a sua volta signi-ficò il progressivo abbandono di atteggiamenti consuetudina-ri e tradizionalistici a favore di atteggiamenti più razionali e sperimentali. Last but not least, gli sviluppi della navigazio-ne oceanica, dell’industria orologiera e della stessa scienza sperimentale favorirono la formazione di un gruppo sempre più folto di fabbricanti di strumenti di precisione. Costoro vennero a rappresentare un tipo di tecnico superiore più che mai in grado di conversare con gli scienziati del tempo. Non è un caso che all’origine della Rivoluzione industriale vi sia la macchina a vapore e che l’inventore della macchina a vapore fosse uno di questi fabbricanti di strumenti di precisione.Fino alla fine del secolo XVIII i contributi della «scienza» alla «tecnologia» furono del tutto occasionali e di ben scarso ri-lievo. Ma gli sviluppi culturali del secolo XVII avvicinarono le due branche e crearono le condizioni per quella collaborazio-ne che è alla base ed è l’essenza dello sviluppo industriale.

C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa preindustriale, il Mulino, Bologna 1974

Carlo Maria Cipolla, La rivoluzione scientifica

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I caratteri e i ritmi quotidiani della vita contadina nella campagna francese di fi ne Settecento e inizio Ottocento mettono in rilievo come di fronte alle novità e ai cambiamenti molte realtà continuino a misurarsi con una concezione tradizionale del tempo.

Nelle campagne, «la stragrande maggioranza della popo-lazione vive al di fuori del tempo misurato e diviso in ore.

I tre scampanii bastano a ritmare il lavoro, l’angelus del mat-

tino e della sera servono da punti di riferimento fondamenta-li». L’orologio è un oggetto raro, riservato alla gente di città; comincia a diffondersi nel mobilio dei contadini quello a mu-ro, ma le meridiane restano le più usate. Ci si serve anche di orologi idraulici: «Queste clessidre consistono in una scatola rotonda di stagno, suddivisa in sette scomparti, le cui pareti divisorie presentano un foro, da cui si fa uscire l’acqua a goc-cia a goccia. La caduta successiva dell’acqua da un comparti-mento all’altro fa scendere gradatamente la scatola tra due montanti, lungo i quali sono incise le ore che, appunto, essa indica progressivamente».

Jean Tulard, Tra Settecento e Ottocento: il tempo delle campagne15

Lo storico francese Daniel Roche pone in evidenza i caratteri del “viaggio” così come inteso nel Settecento: «il viaggio e la mobilità si fondano su un tempo altro rispetto al corso normale della vita, costituiscono una rottura della quotidianità che conferisce al minimo spostamento fuori dal territorio il sapore dell’eccezionalità e il valore della scoperta».

L’Europa è in movimento e i viaggiatori e i racconti di viaggio disseminano le idee e la scoperta degli altri. Ovunque dalla

stabilità si passa al movimento, gli italiani riprendono a viaggia-re, i tedeschi, che viaggiavano di padre in figlio, visitano ogni parte d’Europa, gli inglesi adepti del Grand Tour estendono i loro circuiti, allungano i loro itinerari; gli olandesi, gli svizzeri, i russi si mettono in cammino. Una passione comune travolge i viaggia-tori e l’industria delle guide e degli itinerari, l’amore dei nuovi orizzonti, la scoperta del mondo accanto al focolare, l’evasione vera e i turbamenti delle coscienze a causa dell’espansione ge-neralizzata fino ai limiti dell’universo conosciuto [...]. La società europea del XVII secolo vede se stessa come un insieme di comu-nità. Per la maggior parte degli uomini, l’orizzonte consueto è immobile, è quello del villaggio, della parrocchia, del Comune, oltre i quali cominciano i territori sconosciuti. La città è il luogo della confusione. Lasciare il proprio villaggio implica già una certa fiducia in se stessi che le virtù del viaggio e il proprio inte-resse spingono oltre l’ordinario mercato delle attività o delle idee. Il viaggio è portatore di speranze materiali, sociali, spiri-tuali che provocano la rottura, la partenza. Qui sta la differenza con il vagabondare che ammette la casualità e spesso rivela l’emarginazione, dei poveri e dei mendicanti, e l’esistenza di lo-giche diverse; più spesso l’orientamento è essenziale e il viaggio presuppone uno scopo [...]. Il viaggio e la mobilità formano un capitolo della storia del nostro rapporto con il tempo. Si fondano su un tempo altro rispetto al corso normale della vita, costitui-scono una rottura della quotidianità, che conferisce al minimo spostamento fuori dal territorio il sapore dell’eccezionalità e il valore della scoperta. Ecco perché il viaggio viene sempre pre-

sentato come un buon rimedio contro la noia. Cambiando i ritmi del tempo banale, esso spezza la routine e il carattere circolare dei tragitti rurali e cittadini. Il viaggio è come la festa [...]. La diligenza del comune viaggiatore, la vettura del principe, la car-rozza dei touristes, il cavallo del militare o del funzionario, il passo del viandante munito di bisaccia sono altrettanti tipi di esperienze e di ritmi temporali, di velocità che si avviano in modo diverso, destinati alla conquista dello spazio [...]. Il viaggio co-stituisce sempre un momento compreso tra un passato e un av-venire, una partenza e un ritorno, in cui si opera la trasformazio-ne del viaggiatore. Ecco la chiave dei Grands Tours riusciti. La dinamica è spesso caratterizzata dalla ripetizione, che può esse-re stagionale, annuale, pluriennale: i calendari guidano lo spo-stamento dell’emigrante, del negoziante, del pellegrino. La for-za di alcuni viaggi sta invece nel fatto che non si ripeteranno mai più: vedi Roma, Napoli, Parigi, Londra [...]! Al ritorno cominciano i ricordi e la memoria del viaggio, che diventano imperativi che spingono a scrivere [...]. Rispetto alla vita di tutti i giorni e qua-lunque sia la situazione sociale degli individui, la mobilità crea nuove condizioni che non sono conformi a quelle che regnano abitualmente e pesano quotidianamente sugli uomini. Laddove contano fortemente le gerarchie organiche, la famiglia, i corpi, la Chiesa, la virtù della stabilità e della chiusura [...], vediamo im-porsi momentaneamente i valori dell’abilità nel sapersela cava-re, il senso dell’improvvisazione, il mescolarsi, i vantaggi del commercio e dell’abbattimento delle barriere [...]. Il fascino che esercitano le soste e le locande nei romanzi picareschi come nei racconti di viaggio illustra, in parte, l’ultima e decisiva funzione attribuita ai viaggi e a qualunque spostamento: le opportunità di acculturazione, la possibilità di cambiamenti personali e collet-tivi. Il circuito europeo dell’informazione si basa sulla fitta rete di stazioni di posta e di alberghi che vanno aumentando in tutte le città e lungo le strade principali. La scena della tappa nella locanda, occasione di conversazione e di scambio di racconti, simboleggia questa capacità di passare da un mondo all’altro, dal luogo in cui si abita al vasto teatro dell’universo.

in L’illuminismo. Dizionario storico, a cura di V. Ferrone - D. Roche, Laterza, Roma-Bari 1997

Daniel Roche, Spazio, tempo e mentalità del viaggio14

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Ai ritmi naturali dei giorni e delle stagioni si aggiunge quello delle settimane. Nel complesso, il riposo domenicale è accu-ratamente rispettato [...]. La domenica è giorno di riposo, quello dei giochi e dei balli, in cui si fanno conoscenze di fat-toria in fattoria, di villaggio in villaggio. Il rispetto delle festi-vità religiose non è intaccato dalla scristianizzazione e costi-tuisce un indispensabile momento di respiro, di cui nella sua saggezza la Chiesa aveva compreso la necessità. Anche le fie-re sono occasioni per brevi momenti di distrazione: la loro importanza è consacrata dal posto che riservano loro alma-nacchi e fogli regionali. La giornata lavorativa comincia con il sorgere del sole. Secondo alcune indagini, l’usanza vuole che i lavoratori agricoli si sveglino prima che faccia giorno per battere i cereali nel granaio. Il lavoro dei campi termina per-lopiù quando scende la sera, dopo una pausa verso mezzo-giorno. Certo, l’inverno comporta un rallentamento delle atti-

vità, anche se la piccola industria rurale, soprattutto quella tessile, interviene a fornire risorse supplementari. Comunque, nel periodo della mietitura o in quello delle vendemmie, la durata della giornata lavorativa risulta eccessiva [...]. Mezza-dri e fittavoli debbono compensare col loro lavoro la routine delle tecniche. Se l’uomo non è mai disoccupato, non bisogna dimenticare la donna, la quale aggiunge al lavoro dei campi l’attività di casalinga (anche se meno gravosa che in città). La scarsità di dipendenti agricoli, dovuta alla crescente richiesta di soldati, costringe infatti la donna ad aiutare il marito nelle incombenze più dure. Anche i bambini, fin dalla più tenera età, vengono utilizzati per custodire gli armenti, per dar da man-giare al pollame e per altre attività minori.

J. Tulard, La vita quotidiana in Francia ai tempi di Napoleone, Rizzoli, Milano 1984

Nel testo che segue, Chiara Ottaviano ricostruisce le tappe della nascita e della diffusione del telegrafo, che segnò una rottura rispetto ai precedenti mezzi di comunicazione, soffermandosi sui diversi modelli (Chappe 1793, Morse 1838). L’intento è di restituire la complessità storica di tale innovazione, illustrando le fi nalità economiche e politiche del suo utilizzo, e di spiegare le ragioni del suo rapido imporsi come «agente unifi cante».

Il telegrafo dell’americano Samuel Morse, brevettato in America nel 1838, non fu il primo telegrafo elettrico [...]. Il

primo strumento noto con questo nome risale infatti al 1793, quando l’Assemblea francese decise di adottare il progetto dei fratelli Chappe per la trasmissione a distanza di messaggi (per i quali fu coniato il termine di telegramma) in codice lungo fili o attraverso le onde radio. Esso si fondava sulla possibilità di trasmettere dei messaggi attraverso un partico-lare sistema di segnali creati dal movimento di due bracci mobili, attaccati a un’asta verticale posta in cima a una torre. I segnali rispondevano a un codice articolato in più di ottomi-la parole. Con un cannocchiale essi erano percepiti visiva-mente da coloro che si trovavano nella torre più vicina; que-sti, a loro volta, ripetevano i segnali alla torre successiva e così via fino alla postazione di destinazione.Quel sistema di comunicazione [...] fu accolto con entusiasmo dall’Assemblea francese, perché apparve uno strumento idea le per dare disposizioni dalla capitale e ricevere messag-gi dai fronti delle guerre ancora in corso. Non è quindi un caso che il primo dispaccio telegrafico ricordato dalla storia, tra-smesso da Lille a Parigi il 19 luglio 1794, riguardò un avve-nimento militare: la conquista francese di Landrecies e di Condé-sur-Escout, tolte all’esercito austriaco. Nel giro di po-chi anni, la Francia si dotò di una vera e propria rete di torri

dislocate lungo cinque linee principali secondo una configu-razione a stella. La rete, i cui raggi raggiungevano le provin-ce e i luoghi strategici dei confini fino alle principali città dei Paesi amici, aveva per centro la capitale [...].L’uso delle ferrovie [...] non implicò alcuna perdita di valore della comunicazione telegrafica. Anzi [...], l’effetto fu con-trario: la maggiore velocità del trasporto rese ancor più ne-cessaria e indispensabile l’immediatezza e la sicurezza di una comunicazione istantanea a distanza.Il sistema Chappe, che si era significativamente diffuso in In-ghilterra, Danimarca, Prussia, Russia, Spagna ed anche nel nuovo mondo, si rivelò allora del tutto inadeguato non poten-do offrire sufficienti garanzie: non era immediato e non era utilizzabile di notte né quando il cattivo tempo rendeva scar-se le condizioni di visibilità [...].In Inghilterra, i telegrafi ottici, denominati semafori (e cioè portatori di segnali), furono già alla fine del Settecento, per volere della marina britannica, immediatamente importati e copiati dal modello francese [...]. Lo sviluppo e la diffusione del telegrafo elettrico si deve invece all’iniziativa privata. Il brevetto di Cooke e Wheatstone del 1837 venne per la prima volta sfruttato, per coprire una distanza di venti chilometri tra Paddington e West Drayton, dalla compagnia ferroviaria pri-vata GWR, che incitò sin dall’inizio il pubblico a servirsi del proprio servizio telegrafico [...]. Anche la posa dei cavi sotto-marini, così determinanti nella costituzione dell’Impero bri-tannico [...], fu dovuta a società private [...].Negli Stati Uniti i telegrafi ottici furono, sin dal momento del-la prima installazione, utilizzati per scopi commerciali [...].Nel 1837 [...] Samuel Morse, proclamò di aver inventato un sistema di telegrafia elettrica che avrebbe reso del tutto ob-soleto il telegrafo a semafori [...]. Nel maggio 1844 venne inaugurata la prima linea telegrafica Washington Baltimora, che copriva una distanza di circa 70 chilometri.Quella prima linea Morse nel 1847 fu ceduta ai privati; nel 1851 esistevano già cinquanta società telegrafiche, buona parte delle quali confluì nel 1856 nella Western Union Com-

Chiara Ottaviano, Nascita e uso del telegrafo16

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Anche la ferrovia, come il telegrafo, può essere considerata uno dei simboli del progresso ottocentesco. Eric J. Hobsbawm spiega le ragioni economiche del suo impiego e mette in luce le tappe principali attraverso le quali l’utilizzo della «strada ferrata con i suoi enormi serpenti impennacchiati di fumo», dall’Inghilterra, si impose rapidamente negli Stati Uniti e in tutta Europa.

Nel 1809 la produzione di carbone in Gran Bretagna dovet-te aggirarsi sui dieci milioni di tonnellate, cioè circa il 90

per cento della produzione mondiale. [...] Questa immensa industria [...] era abbastanza grande da stimolare l’invenzio-ne fondamentale che avrebbe trasformato le industrie delle materie prime: la ferrovia. Perché le miniere non solo aveva-no bisogno di macchine a vapore in grande numero e di gran-de potenza, ma [...] anche [...] di mezzi adeguati per traspor-tare le enormità quantità di carbone dal fronte carbonifero ai pozzi e dai pozzi ai punti di imbarco. Una soluzione semplice era la «tramvia» o la «strada ferra-ta» su cui far scorrere le ruote dei carrelli; per trainare questi carrelli, le macchine fisse erano una soluzione allettante, e anche quelle mobili sembravano abbastanza pratiche. Infine, il costo dei trasporti terrestri di merci era così alto che ai pro-prietari di terreni carboniferi lontani dalla costa dovette pro-babilmente balenare l’idea che l’uso di quei mezzi di traspor-to a carattere locale potesse estendersi con profitto per il traino a lunga distanza. La prima ferrovia moderna fu infatti quella che unì la miniera di Durham, nell’entroterra, alla costa (la linea Stockton-Darligton, 1825). La ferrovia è figlia della miniera, e in par-ticolare della miniera di carbone dell’Inghilterra settentrio-nale [...].Non passò molto tempo, dacché le ferrovie si erano dimostra-te tecnicamente realizzabili e vantaggiose in Inghilterra (1825-30), perché nella maggior parte del mondo occiden-tale se ne progettasse la costruzione, benché qualche tempo dovesse ancora trascorrere prima che tali progetti venissero messi in atto.

Le prime linee, di breve percorso, furono aperte negli Stati Uniti d’America nel 1827, in Francia nel 1828 e nel 1835, in Germania e in Belgio nel 1835, e nel 1837 anche in Russia. La ragione di questo era [...] il fatto che nessun’altra inven-zione era capace di rivelare al profano la potenza e la rapidi-tà della nuova era; una rivelazione resa ancor più sensazio-nale dalla notevole maturità tecnica presentata dalle ferrovie sin nei primissimi esemplari. (Nel 1830 si potevano già rag-giungere facilmente velocità dell’ordine di 100 km all’ora, e queste prestazioni non vennero sostanzialmente migliorate nei treni a vapore di epoca più recente). La strada ferrata con i suoi enormi serpenti impennachiati di fumo che sfrecciavano alla velocità del vento attraverso pae-si e continenti, con i suoi terrapieni e le sue trincee, i suoi ponti e le sue stazioni, che formavano un complesso di opere pubbliche [...] era il vero simbolo del trionfo dell’uomo e del-la tecnica.Da un punto di vista economico, le spese rilevanti necessarie per la sua realizzazione costituivano [...] il suo vantaggio principale. [...] Perché appunto veniva a crearsi quella mas-siccia domanda che era indispensabile se si voleva attuare nelle industrie produttrici di materie prime una trasformazio-ne profonda [...]. Nei primi due decenni di esistenza delle ferrovie (1830-1850) la produzione di ferro in Gran Breta-gna venne triplicata. La produzione di carbone venne anch’es-sa triplicata [...]. Questo aumento spettacoloso fu dovuto principalmente alle ferrovie, poiché solo per le rotaie ogni miglio di linea richie-deva in media 300 tonnellate di ferro [...].Nel 1830 vi erano in tutto il mondo solo poche dozzine di miglia di strade ferrate, rappresentate in massima parte dalla linea Liverpool-Manchester. Nel 1840 ve ne erano già più di 4500 miglia; nel 1850 oltre 23500. La maggior parte di esse furono il prodotto di quelle crisi di frenesia speculativa che chiamiamo «manie ferroviarie» del 1835-37 e specialmente nel 1844-47; moltissime vennero costruite in gran parte con capitali, ferro, macchinisti e spe-cialisti britannici.

E.J. Hobsbawm, Le rivoluzioni borghesi 1789-1848, Il Saggiatore, Milano 1963

pany che nel 1861 riuscì a collegare il Paese da costa a costa, ben otto anni prima che la rete ferroviaria raggiungesse lo stesso obiettivo [...]. Nell’Italia non ancora unita il primo Sta-to a dotarsi del telegrafo elettrico fu il Granducato di Toscana nel 1848, seguito dalla Lombardia nel 1850, dagli Stati Sardi e dal Regno di Napoli nel 1852, dagli Stati pontifici nel 1853.Le prime interconnessioni fra Stati [...] avvennero in territori di lingua tedesca. Nel 1849 Prussia e Austria siglarono l’ac-cordo per il collegamento diretto fra Berlino e Vienna; l’anno successivo nuovi accordi con la Sassonia e la Baviera porta-rono alla nascita dell’Unione telegrafica austro-tedesca. Nel 1855 fu fondata l’Unione telegrafica europea occidentale a

cui aderirono Francia, Belgio, Svizzera, Spagna e Stati Sardi. L’atto di nascita dell’Unione telegrafica internazionale, a cui aderirono venti Stati, fu siglato a Parigi nel 1865 [...].I confini fra gli Stati erano allora quanto mai saldi. In tempi di così fiero nazionalismo i mezzi di comunicazione e di traspor-to, annullando o diminuendo le distanze, incominciavano a modificare [...]. In altre parole le nuove tecnologie di comuni-cazione e trasporto cominciarono a svolgere una funzione di “agenti unificanti”.

C. Ottaviano, Mezzi per comunicare. Storia, società e affari dal telegrafo al modem, Paravia, Torino 1997

Eric J. Hobsbawm, La ferrovia17

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Il nome dell’inventore della fotografi a, Jacques Daguerre, e la data dell’invenzione, 7 gennaio 1839, devono essere inseriti in un processo più ampio e di lungo periodo, caratteristico di ogni innovazione tecnica e della sua successiva applicazione.

Louis-Jacques-Mandé Daguerre (1787-1851) aveva inizia-to a fare ricerche sulle sostanze fotosensibili sin dal 1825,

dopo essersi occupato di pittura e di scenografia [...]. Queste esperienze lo sollecitarono a realizzare [...] uno spettacolo [...], che chiama diorama e con cui ottiene subito un notevole successo di pubblico.Il diorama, la cui inaugurazione avvenne l’11 luglio 1822, consisteva nell’allestimento di gigantesche scenografie [...], realizzate con tele semitrasparenti dipinte con prospettive di luoghi e edifici famosi, cercando di ricostruire suggestioni di spazi reali, con artifizi di luce e di effetti ottici [...].I diorama diedero grande notorietà a Daguerre e si diffusero in varie città europee.Daguerre, tra un diorama e l’altro, si era occupato con impe-gno ed entusiasmo nelle ricerche sulle sostanze fotosensibili, in continua corrispondenza con Niépce, tra il 1829 ed il 1833 [...], ma è nel 1837 che ottiene il primo dagherrotipo.Daguerre [...] deciderà [...] di cedere la «sua» invenzione al-lo Stato, con la mediazione dell’amico Jean-François-Domi-nique Arago (1786-1853), illustre astronomo, che da allora sarà il suo padrino, anche a dispetto di altri inventori della fotografia, come il parigino Hippolyte Bayard, trascurato se non ignorato, proprio per favorire Daguerre. Il 6 gennaio 1839, sulla «Gazette de France», a firma H. Gaucherant, era

comparso il primo annuncio dell’invenzione di Daguerre, mentre il giorno successivo Arago [...] ne aveva data comuni-cazione ufficiale all’Accademia delle Scienze di Parigi, pre-sentando anche alcuni dagherrotipi [...].Era il 7 gennaio 1839, data che tuttora è considerata come quella ufficiale della nascita della fotografia [...].Il 19 agosto Arago finalmente presenta «al mondo» la stupe-facente invenzione, che aveva da tempo destato ovunque un’eccezionale curiosità, richiamando a Parigi scienziati da tutto il mondo, tra cui Samuel Morse [...]. Morse, assieme al collega americano Draper, fu così il primo a introdurre la da-gherrotipia nell’America del Nord [...].In Italia la notizia dell’invenzione della dagherrotipia venne diffusa immediatamente e ripetutamente, tramite le «Gazzet-te» e i «Messaggeri», ma furono dati inoltre resoconti più esaurienti in riviste, opuscoli, atti di accademie e istituti scientifici, consentendo a molti di eseguire i primi esperimen-ti di dagherrotipia e avviando artisti e scienziati a una nuova professione, che doveva rapidamente espandersi con succes-so [...].Mentre Daguerre proponeva l’invenzione che assieme a Niépce aveva faticosamente realizzato, veniva presentata un’altra tecnica per eseguire, ancor più facilmente, immagini «senza saper disegnare»; un procedimento che, nonostante abbia inizialmente ottenuto minor successo del dagherrotipo, si diffuse egualmente [...]. Inventore di questa tecnica di fo-tografia su carta, o più propriamente del disegno fotogenico, in seguito perfezionato nella calotipia (o talbotipia), fu l’in-glese William Henry Fox Talbot (1800-77).

I. Zannier, Storia e tecnica della fotografia, Laterza, Roma-Bari 1984

Italo Zannier, La nascita della fotografia18

Il concetto di tempo inteso come elemento da “apprendere” socialmente e la possibilità della sua misurazione variano a seconda delle culture. Anche nel mondo occidentale, la nozione e la percezione di uno strumento oggi dato per scontato, quale è il calendario, hanno subito una lunga evoluzione prima di essere pienamente assimilate.

Un bambino che cresce in una delle società statuali alta-mente industrializzate e regolate sul tempo del XX seco-

lo ha bisogno da sette a nove anni per “apprendere il tempo”, cioè per leggere e capire esattamente il complesso sistema simbolico degli orologi e dei calendari e regolare di conse-guenza la propria sensibilità e il proprio comportamento. Quando però i membri di tali società si sono lasciati alle spal-le questo processo di apprendimento, sembra che dimentichi-

no di aver dovuto apprendere il “tempo”[…]. È difficile rico-noscere che la determinazione del tempo deve essere appre-sa. E l’odierna coscienza del tem po, una volta acquisita, è così imperativa da apparire a chi la possiede come parte del proprio equipaggiamento naturale […]. L’esperienza di uomi-ni che appartengono a società strettamente regolate sul tem-po è uno dei molti esempi di quelle strutture della personali-tà […] che pure sono acquisite socialmente. Con ciò si spiega l’aspettativa apparentemente ovvia dei membri delle società altamente differenziate che ritengono la propria esperienza del tempo un dono universale di tutti gli uomini e spesso rea-giscono con incredulità o sorpresa ogni qualvolta […] si im-battono in uomini di altre società che non hanno il loro stesso modo di regolare il proprio comportamento rispetto al tempo.Oggigiorno è quasi dappertutto utilizzato il medesimo calen-dario […]. Come strumento per determinare il tempo che ser-ve da quadro di riferimento per una pluralità di attività uma-ne, il calendario odierno assolve così bene alla sua funzione

Norbert Elias, “Apprendere” e “misurare” il tempo19

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che di solito ci si dimentica che potrebbe anche essere diver-so. Ci si dimentica che per secoli i calendari utilizzati dagli uomini si sono ripetutamente scontrati con delle difficoltà; li si è dovuti più volte riformare e migliorare prima che uno di essi assumesse la forma quasi perfetta raggiunta dal calen-dario europeo con la sua ultima riforma […]. Oggi il calenda-rio non è più oggetto di interesse pubblico […]. Giunto al suo ultimo stadio […], lascia ora trasparire i segni di una crescen-te separazione tra i simboli della determinazione temporale e ciò che un tempo essa ha simbolizzato, vale a dire “il corso della natura”, i movimenti del sole, della luna e delle stelle. Grazie alle fonti di luce che gli uomini hanno creato, la notte è divenuta una parte del giorno. Di rado ci ricordiamo oggi che un’unità di tempo come il mese era una volta strettamen-

te collegata all’ingrandirsi e all’assottigliarsi della luna […]. Pochi tengono conto del fatto che i nostri anni sono in relazio-ne con il movimento del sole […]. Gli strumenti simbolici crea ti dagli uomini, come i calendari e gli orologi, sono ora più idonei a regolare le relazioni umane in base al tempo di quanto non fossero i complicati movimenti della terra e della luna attorno al sole […]. Gli uomini hanno una vita più salda-mente integrata di una volta nel mondo dei simboli da loro stessi creato […]. E poiché i calendari hanno cessato di creare difficoltà, gli uomini hanno finito per cancellare dalla loro memoria il tempo in cui ancora ne creavano.

N. Elias, Saggio sul tempo, il Mulino, Bologna 1986

Il nuovo mezzo di comunicazione tra Ottocento e Novecento dimostra una progressiva capacità di “disaggregare” le distanze spazio-temporali, poiché «dà la parola a soggetti sociali tradizionalmente esclusi dalla sfera pubblica, attraversa la barriera delle pareti domestiche, crea un nuovo immaginario e una nuova forma di relazione sociale».

Il 1895 è stato contemporaneamente l’anno dell’Affare Dreyfus, della scoperta dei raggi X e della nascita del cine-

ma. Il filosofo Ernst Junger, nato proprio in quell’anno, così ha ricordato quegli eventi: «L’Affare Dreyfus è per me l’atto di nascita della società moderna dell’opinione pubblica, del-la comunicazione e della democrazia di massa. La scoperta dei raggi X dà la possibilità di scrutare una nuova dimensione della materia. Quanto al cinema, esso diventa il simbolo di un potere quasi magico che l’uomo conquista, quello di creare una nuova realtà dall’immaginario e di darle vita» […]. Il te-lefono condivide qualcosa con ciascuno dei tre fatti ricordati da Junger: dà la parola a soggetti sociali come donne e bam-bini tradizionalmente esclusi dalla sfera pubblica, attraversa come i raggi X la barriera delle pareti domestiche, crea come il cinema un nuovo immaginario e una nuova forma di relazio-ne sociale […]. Nel 1877 William Orton, presidente della po-tente compagnia dei telegrafi americana Western Union, ri-fiutò di spendere centomila dollari per acquistare il brevetto del telefono di Alexander Graham Bell, liquidando l’apparec-chio telefonico come un ingegnoso ma inutile “giocattolo elettrico”. Ma la nemesi storica ha voluto che nel giro di pochi anni questo inutile giocattolo elettrico fosse diventato un af-fare dalle dimensioni economiche così gigantesche che l’ATT, l’impresa che Bell aveva fondato, si poté permettere nel 1909 addirittura di assorbire la Western Union […].

Prima dell’avvento delle reti di telecomunicazione la distan-za spaziale incideva in modo determinante sui tempi, e quindi sui costi delle interazioni umane. Quando i messaggi erano trasportati fisicamente da uomini o animali, era ovvio che vi fosse una sensibile differenza tra comunicare a una persona distante cento chilometri e comunicare a una lontana mille. Per coprire cento chilometri un messaggero aveva bisogno, poniamo, di una giornata di viaggio, e per coprirne mille di dieci. I costi di vitto, alloggio e usura dei materiali crescevano in proporzione diretta con la distanza da coprire. E dunque la distanza spaziale costituiva comprensibilmente un ostacolo importante per le comunicazioni. Ebbene, la più importante conseguenza dell’avvento delle reti di telecomunicazione è il fatto che, grazie a esse, la di-stanza non costituisce più tendenzialmente una barriera alle interazioni umane. Dal punto di vista tecnico, infatti, i costi della telecomunicazione sono pressoché indifferenti alla di-stanza […]. Fino al telegrafo […] comunicare era sempre stato sinonimo di trasportare cose o persone nello spazio, mentre da allora fu possibile per la prima volta scambiare informa-zioni con persone lontane facendo a meno di spostare fisica-mente nello spazio i supporti materiali che le recavano im-presse, con grandi vantaggi in termini di velocità e di sicurez-za per le comunicazioni. A partire dal momento in cui le infor-mazioni incominciarono a viaggiare senza lo spostamento fi-sico dei loro supporti, si verificò un processo di disaggrega-zione dello spazio dal tempo, nel senso che la distanza spa-ziale tra gli individui cessò di costituire anche un fattore di dilazione temporale nei loro scambi comunicativi. Grazie ai mezzi di telecomunicazione le interazioni umane potevano avvenire a distanze sempre maggiori e in tempi sempre più contratti.

in Il filo dei discorsi. Teoria e storia sociale del telefono, a cura di D. Borrelli, Sossella, Roma 2000

Davide Borrelli, Tra Ottocento e Novecento: il telefono e le comunicazioni20

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Un nesso importante esiste tra l’invenzione della radio in sé e la mentalità imprenditoriale che ne accompagnò e guidò la nascita e i primi sviluppi in Inghilterra e negli Stati Uniti. A poco più di vent’anni dalla sua invenzione il mezzo radiofonico si era ormai imposto a un pubblico di massa.

L’invenzione della radio coincide […] con l’affermarsi nel mondo occidentale, agli inizi del XX secolo, di un tipo di

capitalismo sempre più fondato sulla produzione – in dimen-sioni inimmaginabili – di beni di uso quotidiano, di beni di consumo durevoli, di servizi […]. La radio è il primo risultato di quella tecnologia che via via si è sviluppata a grandissima velocità ben oltre le aspettative dei suoi fondatori, e che può ben essere presa ad esempio per illustrare le caratteristiche peculiari del moderno progresso tecnologico, frutto di creati-vità ma anche di organizzazione, di genio inventivo ma anche di standardizzazione produttiva, di felice fantasia individuale ma anche di capacità imprenditoriale collettiva […]. Va notato che nei primi anni del secolo l’idea di un servizio radiofonico quale noi lo conosciamo era […] ancora estranea, cultural-mente e tecnologicamente, alla mentalità dell’epoca […]. La nascente industria delle comunicazioni aveva altri obiettivi. Il suo scopo principale era la “telefonia” senza fili, poiché quel-lo era il settore d’impresa che più interessava i governi e il mondo degli affari. Questa industria nascente […] rafforza le proprie posizioni nel corso del primo conflitto mondiale […]. Insieme al telefono, la radio fu una delle poche industrie a trarre enormi vantaggi dalla guerra. In tutti i paesi diretta-mente coinvolti nel conflitto la radio – ancora un telefono senza fili – si sviluppa come mezzo bellico e da lì inizia la sua trasformazione. Verso la fine del secondo decennio del seco-lo, con il passaggio dallo sfruttamento commerciale della “radiotelegrafia” alla creazione delle prime società di “radio-diffusione” si delineano i due sistemi antitetici di organizza-zione radiofonica nazionale, che da allora in poi saranno con-siderati i modelli classici del servizio radiofonico: il monopo-lio pubblico del broadcasting, in Gran Bretagna, Germania,

Francia e Italia; il sistema privato del network in America […]. Dalla Gran Bretagna […] la stazione Marconi di Chelmsford in Cornovaglia […] il 23 febbraio 1920 […] trasmise il primo regolare servizio radiofonico della storia, per due ore conse-cutive al giorno, per un periodo di due settimane […]. L’anno successivo una Radio Society of Great Britain raccoglieva de-cine di club di radioamatori, e le richieste di licenza e di auto-rizzazioni a trasmettere diventavano sempre più numerose. Il fenomeno – al quale erano interessati non solo i radioamato-ri, ma soprattutto il pubblico e le industrie – divenne inarre-stabile […]. In questo quadro, scartata l’ipotesi del finanzia-mento pubblicitario, vennero poste le premesse per la nascita del monopolio pubblico della British Broadcasting Company, ufficialmente costituita il 18 ottobre 1922 dall’unione di al-cune fra le maggiori compagnie industriali britanniche […]. Diversamente dalla Gran Bretagna, e da tutti gli altri paesi europei, dove la scarsità delle frequenze imponeva di porre comunque dei limiti per non causare dannose interferenze nell’etere, negli Stati Uniti l’enorme estensione territoriale consentiva uno sfruttamento più ampio delle bande […]. Con un territorio vastissimo ma compatto, con una concezione li-berista dell’economia, si creò subito un rapporto assai stretto fra potere legislativo, governo e mondo degli affari, condizio-nando le scelte e orientandole al soddisfacimento di interessi privati. Il 16 ottobre 1920 la Westinghouse chiese e ottenne una licenza di trasmissione speciale per il servizio broadcast. La stazione, chiamata in codice KDKA, iniziò a trasmettere il 3 novembre 1920 […]. Il successo della KDKA aveva convinto la RCA […]. Nacque così la WJY, che il 2 luglio 1921 trasmise in diretta l’incontro di pugilato Dempsey-Carpenter […]. Fra l’ottobre e il dicembre altre 21 stazioni furono autorizzate a trasmettere; fra gennaio e marzo del 1922 se ne aggiunsero ancora 67, che salirono nel maggio a 187. In tutti gli Stati Uniti, verso la fine di quell’anno, i ricevitori funzionanti ave-vano raggiunto l’incredibile cifra di 750 mila. La “grande strada dell’etere” era stata per sempre tracciata.

F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia. Società, politica, strategie, programmi 1922-1992,

Marsilio, Venezia 1992

Franco Monteleone, L’alba della radio21

La televisione si è diffusa con una straordinaria capillarità. Attraverso grandi tappe è divenuta il principale mezzo di comunicazione di massa: «nessun altro fra i mass media raggiunge una platea così vasta; né il cinema, né altre forme di spettacolo dal vivo o riprodotto; né i giornali quotidiani o settimanali, né altri consumi culturali, compresi i nuovi media, dai videogiochi a Internet».

Nel mondo, ci sono oggi [dati aggiornati all’anno 2000, n.d.r.] 1 miliardo e 96 milioni di apparecchi televisivi;

300 milioni in Europa, 25 milioni in Italia. Ciò significa che per ogni mille abitanti del pianeta si contano 195 televisori, con punte massime di 817 per mille abitanti negli Stati Uniti […]. In 7 case su 10, nel mondo, c’è un televisore […]. Almeno un miliardo di esseri umani vede la televisione ogni giorno. Il pubblico televisivo è composto di circa due miliardi di spetta-tori […]. Le dimensioni raggiunte dal fenomeno televisivo sono dunque imponenti. Solo la radio può vantare un numero superiore di apparecchi, ma con un numero di ascoltatori in-

Enrico Menduni, La televisione22

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A partire dagli apparecchi degli anni Quaranta, il computer si trasforma attraverso le successive evoluzioni tecnologiche, fi no alla comparsa delle moderne reti informatiche e di Internet, tramite l’accesso WWW (World Wide Web, cioè rete mondiale): «una sorta di immensa enciclopedia, un vastissimo ipertesto multimediale cui si può attingere per ricavare, da banche dati di ogni dimensione, informazioni sugli argomenti più disparati».

Durante la seconda guerra mondiale, l’esigenza di sveltire i calcoli balistici portò a sostituire i rotismi meccanici con

relè elettrici, già usati da tempo in telefonia come elementi di commutazione. Nella prima di queste macchine (ASCC: Auto-matic Sequenze Controlled Calculator, ultimata nel 1944 ne-gli Stati Uniti) i dati venivano inseriti mediante schede perfo-rate […] e le istruzioni mediante nastro perforato. L’ASCC era una macchina di complessità incredibile (oltre 750000 pezzi) e molto lenta: per eseguire una divisione le occorrevano fino a una dozzina di secondi; ma funzionava e fu usata per oltre quindici anni […]. La grande svolta si ebbe nel 1948, quando

fu inventato il transistor, un dispositivo a semiconduttore più piccolo e rapido delle valvole, che assorbiva poca potenza e offriva affidamento maggiore. Le prime macchine a transistor, costruite verso la fine degli anni cinquanta, contenevano un gran numero di questi elementi, con resistori e altri componen-ti, tra loro separati, disposti su un pannello e collegati da fili. In seguito fu messa a punto una tecnologia che consentiva di costruire parecchi componenti diversi (compresi i transistor), e i collegamenti, in un’unica tappa e su una stessa piastrina ba-se, spesso di silicio. L’evoluzione di questi circuiti integrati procedette rapida: integrazione su grande scale (LSI, Large Scale Integration), poi su grandissima scala (VLSI, Very Large Scale Integration) e su scala ultragrande (ULSI, Ultra Large Scale Integration), caratterizzate da una densità sempre mag-giore di componenti per unità di superficie e poi di spazio. La tecnologia microelettrica ha subito uno sviluppo impressio-nante e permette oggi di collocare su piastrine di pochi milli-metri di diametro centinaia di migliaia di componenti. Ciò ha portato a una riduzione delle dimensioni e dei costi e a un au-mento delle prestazioni di tutti i dispositivi microelettronici, in particolare dei calcolatori. Era inevitabile che prima o poi le due grandi tecnologie dell’informazione, i calcolatori e le tele-comunicazioni, si incontrassero: ciò avvenne negli anni settan-ta e la tecnologia integrata si chiamò telematica […].

Giuseppe O. Longo, L’evoluzione del computer23

feriore nei paesi sviluppati. Nessun altro fra i mass-media […] raggiunge una platea così vasta; né il cinema, né altre forme di spettacolo dal vivo o riprodotto, né i giornali quotidiani o settimanali, né altri consumi culturali, compresi i “nuovi me-dia”, dai videogiochi a Internet.La televisione è un fenomeno recente, che si colloca tutto nella seconda metà del nostro secolo […]. Alla fine degli anni ’40 la televisione esisteva solo in quattro paesi al mondo, Stati Uniti, Inghilterra, Francia e Unione Sovietica, le potenze vincitrici della seconda guerra mondiale […]. Prima del 1960 la TV era già arrivata in 56 paesi: 24 in Europa, fra cui l’Ita-lia, 3 in America del Nord, 9 in America Centrale, 7 in Ame-rica del Sud, 10 in Asia, 1 in Oceania e 2 in Africa. In Italia le trasmissioni ufficiali iniziarono nel 1954; nel 1957, nono-stante l’orografia tormentata del paese, oltre il 90% degli italiani era in grado di ricevere il segnale televisivo. Prima del 1965, gran parte degli stati europei disponeva anche di un secondo canale televisivo (in Italia, dal 1961). Nel 1970 i paesi con il televisore erano raddoppiati: ben 104, cioè tutta l’Europa, l’Oceania e le tre Americhe, quasi tutta l’Asia […] e più di metà dell’Africa. I televisori erano allora 298 milioni in tutto il mondo. Nei paesi sviluppati, intanto, si diffondeva la televisione a colori.Nel decennio successivo la copertura del pianeta diventa quasi completa; gli apparecchi erano diventati 561 milioni; il numero dei canali si moltiplica. Poi queste statistiche perdo-no gran parte del loro senso. Infatti con la diffusione dei video registratori e dei satelliti di telecomunicazione non c’è più bisogno di avere una stazione televisiva nazionale nel

proprio paese per vedere la televisione: si può ricorrere a un fiorente commercio di videocassette, o captare i segnali di molte stazioni internazionali con antenne paraboliche le cui dimensioni sono ormai inferiori ai 50 centimetri di diametro.Quando parliamo di pubblico televisivo mondiale non dimen-tichiamo le differenze tra un paese e l’altro per quanto ri-guarda l’ampiezza dell’offerta, il livello qualitativo dei pro-grammi e il grado di libertà di espressione sia di chi li produ-ce sia di chi li riceve; né le diverse caratteristiche culturali e sociali del contesto in cui giunge il programma televisivo, e delle singole persone […]. Il gran numero di stazioni televisi-ve non è di per sé un indice sufficiente di autonomia culturale e produttiva; molte stazioni in tutto il mondo, Europa compre-sa, ripetono quasi gli stessi programmi, siano cartoni animati giapponesi, telefilm americani o telenovelas brasiliane, che vengono venduti anche a prezzi molto bassi perché i loro costi sono già stati remunerati dai precedenti passaggi di quel pro-dotto in patria o in altri paesi. Le conseguenze sul piano cul-turale e geopolitico di questo “scambio ineguale” tra paesi diversi sono rilevanti. Con tutte queste distinzioni e differen-ze, tuttavia, qualcosa accomuna l’esperienza televisiva in contesti così vari: la capacità di questo mezzo di modificare ovunque abitudini e stili di vita personali e familiari, di susci-tare attenzione intorno a sé e di proporre modelli di compor-tamento, di rappresentare una forma significativa di uso quo-tidiano del tempo, e di costituire un punto di riferimento per coloro che la guardano.

E. Menduni, La televisione, il Mulino, Bologna 2001

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S t o r i o g r a f i a

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Nell’“era atomica” gli esseri umani possono essere defi niti come «quelli-che-esistono-ancora». Considerate le minacce implicitamente contenute in questa nostra età, è necessario un impegno rivolto al futuro, opposto alla logica di quanti pensano: «Se siamo disperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!».

Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata un nuo-va era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque mo-

mento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti in modo negativo; ma po-tendo essere distrutti a ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti. Indipendente-mente dalla sua lunghezza e dalla sua durata, quest’epoca è l’ultima: poiché la sua differenza specifica, la possibilità dell’autodistruzione del genere umano, non può aver fine – che con la fine stessa […]. La nostra vita si definisce quindi come «dilazione»; siamo quelli-che-esistono-ancora. Questo fatto ha trasformato il problema morale fondamentale: alla domanda «Come dob-biamo vivere?» si è sostituita quella: «Vivremo ancora?» […]. Ciò contro cui lottiamo, non è questo o quell’avversario che potrebbe essere attaccato o liquidato con mezzi atomici, ma la situazione atomica in sé. Poiché questo nemico è nemi-co di tutti gli uomini […]. Ciò che può colpire chiunque riguar-da chiunque. Le nubi radioattive non badano alle pietre milia-ri, ai confini nazionali o alle “cortine”. Così, nell’età finale, non ci sono più distanze. Ognuno può colpire chiunque ed essere colpito da chiunque. Se non vo-gliamo restare moralmente indietro agli effetti dei nostri pro-dotti (che non ci procurerebbe solo ignominia mortale, ma

morte ignominiosa), dobbiamo fare in modo che l’orizzonte di ciò che ci riguarda, e cioè l’orizzonte della nostra responsa-bilità, coincida con l’orizzonte entro il quale possiamo colpire o essere colpiti; e cioè che diventi anch’esso globale. Non ci sono più che “vicini” […].Ciò che si tratta di ampliare, non è solo l’orizzonte spaziale della responsabilità per i nostri vicini, ma anche quello temporale. Poiché le nostre azioni odierne, per esempio le esplosioni sperimentali, toccano le generazioni venture, anch’esse rientrano nell’ambito del nostro presente. Tutto ciò che è “venturo” è già qui, presso di noi, poiché dipende da noi. C’è, oggi, un’“internazionale delle generazioni”, a cui appartengono già anche i nostri nipoti. Sono i nostri vi-cini nel tempo. Se diamo fuoco alla nostra casa odierna, il fuoco si appicca anche al futuro, e con la nostra cadono anche le case non ancora costruite di quelli che non sono ancora nati. E anche i nostri antenati appartengono a questa “internazionale”: poi-ché con la nostra fine perirebbero anch’essi, per la seconda volta (se così si può dire) e definitivamente. Anche adesso sono “solo stati”; ma con questa seconda morte sarebbero stati solo come se non fossero mai stati [….].Siamo incapaci di farci un’immagine di ciò che noi stessi ab-biamo fatto. In questo senso siamo “utopisti a rovescio”: mentre gli utopisti non sanno produrre ciò che concepiscono, noi non sappiamo immaginare ciò che abbiamo prodotto […]. Si può forse immaginare, sentire, o ci si può assumere la re-sponsabilità, dell’uccisione di una persona singola; ma non di quella di centomila. Quanto più grande è l’effetto possibile dell’agire, e tanto più è difficile concepirlo, sentirlo e poterne rispondere; quanto più grande lo “scarto”, tanto più debole il meccanismo inibitorio. Liquidare centomila persone premen-do un tasto, è infinitamente più facile che ammazzare una sola persona […].

Günther Anders, L’età atomica24

I progressi della tecnologia (software e hardware) hanno poi consentito una moltiplicazione degli usi dei calcolatori. I co-muni calcolatori da tavolo (personali) si possono collegare con grande facilità tra loro, con le potenti macchine dei cen-tri di calcolo e con piccoli e grandi depositi di dati (banche), consentendo anche ai privati l’uso di risorse di elaborazione e l’accesso a informazioni un tempo riservate a pochi. Oggi il termine telematica è desueto e si parla soprattutto di reti. Sulle reti, costituite da linee di trasmissione di tipo telefoni-co e da nodi costituiti da calcolatori, viaggiano dati di ogni tipo. Le varie reti, a livello locale, regionale e nazionale, si stanno via via collegando per formare un unico grande reti-colo che si avvia a ricoprire tutto il globo: è la famosa Inter-net (interconnected network). Nata negli Stati Uniti alla fine degli anni sessanta per esi-genze militari (arpanet), ceduta in seguita alla National Science Foundation e trasformata in strumento di comunica-zione scientifica, Internet è diventata con gli anni una rete globale e si è svincolata dai suoi usi specifici iniziali. Uno

dei servizi più diffusi svolti da Internet è quello di posta elet-tronica, che consente, grazie a opportune tecniche di com-mutazione e inoltro, di scambiare con grande rapidità mes-saggi tra tutti i terminali collegati. Verso il 1989 nasce la WWW (World Wide Web), una sorta di immensa enciclopedia, un vastissimo ipertesto multime-diale cui si può attingere tramite Internet per ricavare, da banche dati di ogni dimensione, informazioni sugli argo-menti più disparati. Inoltre ciascuno può costruirsi un sito (home page), raggiun-gibile da chiunque altro, in cui esporre la propria mercanzia informazionale. Nascono così i siti di musei, biblioteche, uni-versità, aziende, quotidiani, scrittori, pervertiti e imbonitori, in una tumultuosa fiera attraverso le cui bancarelle più o meno scintillanti i patiti della rete vanno “navigando” alla ricerca di meraviglie.

G.O. Longo, Il nuovo Golem. Come il computer cambia la nostra cultura, Laterza, Roma-Bari 1999

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S c i e n z a , t e c n o l o g i a e a m b i e n t e

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Un problema più “pubblico” dell’attuale decisione sulla no-stra sopravvivenza non c’è mai stato e non ci sarà mai. Rinun-ciando a “immischiarci”, mancheremmo anche al nostro do-vere democratico. A quelli che, paralizzati dalla fosca probabilità della cata-strofe, si perdono di coraggio, non resta altro che seguire,

per amore degli uomini, la massima cinica: «Se siamo di-sperati, che ce ne importa? Continuiamo come se non lo fossimo!».

G. Anders, Essere o non essere: Diario di Hiroshima e Nagasaki, Einaudi, Torino 1961

Durante gli anni della guerra fredda si avviano e si sviluppano i programmi di esplorazione spaziale da parte degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Attualmente «per descrivere l’attività scientifi ca che si svolge nello spazio si può tentare la seguente classifi cazione: piccoli satelliti scientifi ci, ricerche di fi sica fondamentale, missioni astronomiche, sonde spaziali, ricerche di scienze dell’ingegneria e dei materiali, missione verso il Pianeta Terra».

Il 4 ottobre 1957 un oggetto costruito dall’uomo lasciò la superficie del nostro pianeta ed entrò in orbita, divenendo il

primo satellite artificiale della Terra. Si trattava di una picco-la sfera metallica, pesante poco meno di 84 chili, e le era stato dato il nome di Sputnik, compagno di viaggio. La notizia si diffuse immediatamente e, benché non inattesa, riempì le pagine dei giornali e fu ripetuta infinite volte alla radio: era parecchio tempo che si parlava, anche con ironia, dei tentati-vi americani di mettere in orbita un satellite per l’anno geofi-sico internazionale e in occidente si guardava con preoccupa-zione alla possibilità che i sovietici li precedessero. Tra le preoccupazioni e gli entusiasmi politici e ideologici, che in quel clima di guerra fredda dominavano i commenti e le cro-nache, vi fu chi seppe guardare con sufficiente distacco all’avvenimento e parlò dell’inizio di una nuova era, l’era spaziale […]. Il lancio scatenò una vera e propria corsa allo spazio. Meno di un mese dopo, il 3 novembre, i sovietici ripe-tevano il successo con un nuovo satellite, lo Sputnik 2, più grande (la sua massa era di ben 508 kg), con addirittura un animale, la cagnetta Laika a bordo. Nel giro di tre anni e mez-zo si raggiunsero obiettivi strabilianti: la prima sonda sulla Luna (Lunik 2, 1959), le prime immagini della faccia nasco-sta della Luna (Lunik 3, 1959), il primo satellite meteorolo-gico (Tiros, 1960), la prima sonda verso Venere (Venusik, 1961), il primo uomo in orbita (Yuri Gagarin, su Vostok, 12 aprile 1961). Quasi tutti questi successi erano stati consegui-ti dai sovietici. Il presidente americano John Kennedy, in un suo discorso del 25 maggio 1961, dichiarò che gli Stati Uniti

si impegnavano a far scendere un uomo sulla Luna entro la fine del decennio, impegno che sarebbe stato pienamente ri-spettato. Si mise così in moto una macchina organizzativa e industriale che […] non aveva precedenti, e non sarà più eguagliata in seguito. Questo enorme sforzo permise agli Stati Uniti di recuperare il pesante ritardo che si era accumu-lato nei confronti dell’Unione Sovietica, non solo rispettando l’impegno relativo all’esplorazione lunare, ma conseguendo, alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70, una serie di risultati nel campo dei vettori di lancio, dei satelliti di ogni tipo e dell’esplorazione mediante sonde dell’intero sistema solare che solo un decennio prima erano impensabili […]. La ricerca scientifica è stata indubbiamente una delle molle che ha spinto l’uomo nello spazio e, ancora oggi, moltissime missioni spaziali sono dedicate totalmente o parzialmente a obiettivi scientifici […]. Per descrivere l’attività scientifica che si svolge nello spazio si può tentare la seguente classifi-cazione: piccoli satelliti scientifici, ricerche di fisica fonda-mentale, missioni astronomiche, sonde spaziali, ricerche di scienze dell’ingegneria e dei materiali, missione verso il Pia-neta Terra […]. Non è possibile elencare i tipi di esperimenti scientifici che sono stati portati a termine mediante piccoli satelliti: si va dalla fisica fondamentale alla biologia, dall’astronomia alla geodesia toccando praticamente tutte le scienze […]; l’astro-nomia è una delle scienze che ha più beneficiato delle possi-bilità offerte dall’esplorazione spaziale. Poter sistemare un telescopio fuori dall’atmosfera permette di compiere osser-vazioni assolutamente impensabili dalla Terra […]; le sonde spaziali hanno ormai raggiunto tutti i pianeti del nostro siste-ma […], permettendo di paragonare l’evoluzione dei vari pia-neti […], ottenendo risultati di importanza fondamentale per la conoscenza della stessa Terra […]. Con il termine generico di missione verso il Pianeta Terra si indica tutto un complesso di missioni volte a studiare il nostro pianeta in modo nuovo […] con l’ottica con cui si può studiare un nuovo pianeta raggiunto da sonde spaziali o da una spedi-zione scientifica.

G. Genta, La culla troppo stretta. Le frontiere naturali dello spazio, Paravia, Torino 2000

Giancarlo Genta, L’era spaziale25

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I diversi settori economici, quello agricolo, quello industriale e quello energetico, operano oggi un deciso impatto ambientale; nel contempo, si verifi cano fenomeni di natura globale molto problematici come l’effetto serra, la deforestazione, il buco nell’ozono, le piogge acide.

Presentare […] lo stato dell’ambiente del pianeta è un’im-presa molto difficile […]. I diversi settori che compong ono

un’economia hanno differenti impatti sull’ambiente e assai ri-levanti sono le differenze connesse al livello di industrializza-zione […]. Il settore agricolo ha un rilevante impatto ambienta-le […]. I maggiori problemi del settore riguardano l’erosione dei suoli, la salinizzazione e l’inquinamento causati da pestici-di e fertilizzanti, nonché l’inquinamento delle falde acquifere […]. L’attività industriale ha effetti su tutti i media ambientali: acqua, aria, produzione di rifiuti, rumore […]. L’impatto am-bientale del processo di industrializzazione in atto è potenzial-mente molto elevato, sia in termini di inquinamento, sia in termini di esaurimento di risorse naturali non rinnovabili. L’en-tità di tale impatto dipende dalle tecnologie di processo impie-gate e dalla specializzazione. Se non verranno adottate tecno-logie pulite ed efficienti, la continua crescita di settori indu-striali basati sull’uso di risorse naturali, insieme all’alto impat-to in termini di inquinamento […] determineranno una crescen-te pressione sull’ambiente sia locale sia globale […]. Il settore energetico rappresenta una vasta categoria di attività econo-miche in cui l’energia è tanto fattore di produzione quanto pro-dotto finale. Sia la fase di produzione, sia quella di consumo di energia hanno un elevato impatto ambientale, potenzialmente anche molto elevato. I più importanti inquinanti derivano dai processi di combustione delle forze energetiche […]. Il caso più studiato di fenomeno ambientale globale è quello relativo ai cambiamenti climatici o, come viene chiamato, effetto serra […]. L’attività economica, e specialmente l’uso delle fonti di energia, hanno aumentato nel corso degli ultimi due secoli i

tassi di emissione e di concentrazione dei gas di serra, quelli cioè che agiscono per “intrappolare” calore all’interno della nostra atmosfera, e che sono la causa di un aumento della tem-peratura media del pianeta. L’uomo, con la propria attività di consumo e produzione, ha modificato un bilancio naturale al-trimenti in perfetto equilibrio […]. Un secondo tema rilevante fra i problemi ambientali globali è quello relativo alla perdita della diversità biologica e alla deforestazione […]. Con il ter-mine deforestazione si intende in generale un taglio di alberi che superi il processo di rigenerazione […]. Negli ultimi decen-ni il fenomeno ha assunto proporzioni preoccupanti […]. Una prima importante causa di deforestazione va ricercata nella crescente domanda di legname pregiato […]. Un altro grave elemento riguarda le pratiche di deforestazione collegate all’allargamento delle terre coltivabili […]. Le conseguenze […] sono molteplici […]. La prima è l’impoverimento genetico, ovvero la perdita della biodiversità. Attualmente le aree espo-ste al rischio di deforestazione sono in particolare aree tropica-li molto ricche e complesse da un punto di vista naturalistico e biologico sia per le specie vegetali, sia per quelle animali. Un secondo importante aspetto è collegato ai rischi idrogeologici associati alla perdita di foresta […]. La mancanza di coperture forestali […] modifica la velocità di scorrimento delle acque superficiali, incrementa l’erosione, sbilancia i bacini idrici. Le conseguenze […] degli effetti della deforestazione sono stret-tamente legate ai cambiamenti climatici […]. Un ulteriore pro-blema di natura globale […] è quello relativo all’assottiglia-mento dello strato di ozono presente in atmosfera […]. La peri-colosità dell’assottigliamento è legata agli effetti sulla salute umana dell’accresciuta esposizione al sole che, in particolare, è causa dell’incidenza di varie forme di tumore della pelle […]. Con i si intendono genericamente le precipitazioni di agenti in-quinanti come biossido di zolfo o ossidi di azoto. La trasforma-zione in acido si realizza in atmosfera e la pioggia acida dan-neggia edifici, alberi, raccolti, falde acquifere e […] anche la salute dell’uomo e dell’ecosistema.

A. Lanza, Lo sviluppo sostenibile, il Mulino, Bologna 1997

Alessandro Lanza, Il problema dell’ambiente26

Un problema caratteristico della civiltà industriale è quello della produzione e dello smaltimento dei rifi uti. Il percorso di un qualsiasi prodotto dal momento del suo acquisto a ben oltre il suo fi nire nella pattumiera è un processo del quale il consumatore raramente è consapevole.

Siamo circondati. Troviamo or mai i rifiuti dappertutto: per le vie della città e lungo le strade, le autostrade, le ferro-

vie che attraversano le campagne; nelle aree industriali come

nei quartieri residenziali; sulle cime delle montagne e nei bo-schi; nei prati e sulle spiagge. Galleggiano sulla superficie dei mari e dei laghi e si depositano sui loro fondali; nelle schiume che ricoprono i fiumi trasformati in cloache a cielo aperto come nelle dense nubi di fuliggine che oscurano e ap-pestano l’aria […]. Tutto ciò è soltanto la parte visibile e tan-gibile di un oceano di materiali scartati dall’uomo. Un’altra parte, altrettanto importante, ma invisibile e intangibile, è costituita dai microinquinanti che avvelenano le falde da cui proviene l’acqua che beviamo, i suoli su cui crescono gli ali-menti che mangiamo, l’aria che respiriamo, gli strati alti dell’atmosfera, che dovrebbero filtrare le radiazioni che col-

Guido Viale, Impatto ambientale e rifiuti27

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piscono il nostro pianeta. Infine, ci sono le scorie radioattive, che nessuna pattumiera del pianeta è in grado di accogliere, perché sono incompatibili con qualsiasi forma di vita e hanno tempi di decadimento incommensurabili con quelli della stes-sa storia umana. Poiché rappresentano un problema insolubile, il loro destino ultimo è quello di venir nascoste, attraverso stratagemmi in-fami, facendo finta che non esistano. Tutti questi rifiuti non sono altro che residui della produzione industriale che fanno la loro comparsa quando le merci cessano di avere una utilità per chi le ha acquistate, o quando questa non sembra più suf-ficiente a giustificarne il possesso o la compravendita. Poiché prima o poi tutte le merci prodotte sono destinate a trasfor-marsi in rifiuto, la quantità di rifiuti che si accumulano nel mondo rischia di superare, se già non è avvenuto, la quantità delle merci in circolazione […].Osserviamo un rifiuto nel momento in cui si forma tra le no-stre mani. Per esempio, apriamo una confezione di pomodori in scatola, versiamone il contenuto in un tegame e gettiamo nel secchio dell’immondizia la lattina vuota, che diventa così un rifiuto. La nostra lattina ha subìto alcune trasformazioni su cui vale la pena riflettere: in primo luogo era pulita e im-provvisamente ce la ritroviamo tra le mani sporca; in secondo luogo, aveva una funzione e un’utilità, e adesso non ne ha più alcuna; in terzo luogo, l’abbiamo portata da un negozio fino a casa nostra e ora il problema per noi è quello di “allontanar-la” di nuovo dalla nostra abitazione; infine, aveva un valore e un prezzo e adesso non vale più niente […].

Così, una volta al giorno chiudiamo il sacchetto in cui abbia-mo raccolto i nostri rifiuti (l’“immondizia”) e lo portiamo nei luoghi deputati al suo allontanamento da casa: il sacco co-mune fissato sul trespolo del cortile, il cassonetto nella stra-da o, nella migliore delle ipotesi, la campana destinata alle raccolte differenziate. Questo atto salva la nostra casa dalla contaminazione. Ma nulla si crea e nulla si distrugge. Come i prodotti che abbiamo acquistato facendo la spesa non sono venuti al mondo sugli scaffali del supermercato, ma hanno dietro di sé una lunga storia fatta di idee, di lavoro, di sfrut-tamento dell’uomo e della natura, di viaggi e di passaggi di mano, di scambi e di profitti, così i rifiuti che “conferiamo” ai punti di raccolta della nettezza urbana hanno davanti a sé una serie di passaggi e di manipolazioni quasi altrettanto complesse prima di arrivare a destinazione. Dove potranno dissolvere nel nulla l’enorme quantità di lavoro in essi incor-porata: ma anche intasare, con la forma materiale della loro ultima incarnazione, che potrà essere uno stato solido, liqui-do o gassoso, quello stesso ambiente – il nostro! – da cui sono stati prelevati i materiali che li costituiscono. Di questo secondo percorso siamo per lo più indotti a non tenere conto […]: poche cattedre di impiantistica e di chimica dell’ambien-te, qualche rivista specializzata […], un po’ di statistiche am-bientali […], un angolino nei corsi di economia dell’ambiente. E basta.

G. Viale, Un mondo usa e getta. La civiltà dei rifiuti e i rifiuti della civiltà, Feltrinelli, Milano 1995

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P e r c o r s o 9

Guerra e pace

Chi vede come noi uomini siamo fatti e pensa che la guerra è bella o che valga più della pace è storpio di mente.

Cartesio

Migliore e più sicura una pace certa che una vittoria sperata.Tito Livio

Non c’è mai stata una guerra buona o una pace cattiva. Benjamin Franklin

b ona o na pace cattiva

Non ho idea di quali armi serviranno per combattere la terza Guerra Mondiale, ma la quarta sarà combattuta coi bastoni e con le pietre.

Albert Einstein

La guerra più terribile è quella che deriva dall’egoismo, e dall’odio naturale verso altrui, rivolto non più verso lo straniero, ma verso il concittadino, il compagno.

Giacomo Leopardi

La guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari.Georges Clemenceau

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G u e r r a e p a c e

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D O C U M E N T I

Tommaso Basin, La battaglia di AzincourtIl conflitto franco-inglese dei Cent’anni segna il lento tramonto del sistema di reclutamento feudale, con il ruolo assolutamente preminente affidato alla cavalleria. Uno dei momenti in cui l’organizzazione francese segnò maggiormente il passo fu la battaglia di Azincourt, dove i ben più numerosi francesi vennero sbaragliati dai più efficienti e motivati inglesi. Nella descrizione fatta dal contemporaneo Tommaso Basin si pone in rilievo la scarsa coesione delle forze francesi, nonché la tracotanza dei nobili. Basin riporta anche una delle versioni del discorso tenuto da Enrico Valle alle sue truppe prima della battaglia: oltre la retorica, si colga il concreto riferimento alla triste sorte che aspettava arcieri e fanti, per i quali non era prevista la possibilità del riscatto in caso di sconfitta.

I principi e i grandi di Francia ritenevano una gran vergogna permettere che il nemico dopo aver distrutto e sac-cheggiato vasti territori si ritirasse comodamente, carico di bottino e trascinandosi dietro anche molti prigionieri.

Per questo con i nobili e gli scudieri di tutto il regno misero insieme un grande esercito, che per numero superava quello inglese più di quattro volte; per gli Inglesi valeva però il verso di Virgilio: «Pochi ma valorosi in battaglia». I Francesi invece, benché fortissimi, conoscitori di armi e coraggiosi, non erano più abituati a rispettare l’ordine e la disciplina militare e, dopo il lungo periodo di pace, non erano più avvezzi all’uso delle armi. Riuscirono a mettere insieme dai più disperati angoli del regno un imponente numero di principi, importanti e meno importanti, di duchi, conti, liberi signori, cavalieri e nobili e decisero di affrontare il re inglese ed il suo esercito e di impedirgli così l’avan-zata. E proprio così fecero, costringendo quindi il re alla battaglia. Alcuni sostengono – ma non abbiamo abbastanza elementi per stabilire se è vero – che il re inglese, avendo sapu-to dell’avvicinarsi di questo esercito grande e forte, avesse offerto ai condottieri francesi la città di Calais e inoltre di pagare un’ingente somma di danaro, a patto che l’avessero lasciato ritornar tranquillamente nel suo regno, sen-za arrecar danno né a sé né ai suoi uomini. Secondo questa versione però questa proposta fu rifiutata, cosicché questi, vistosi costretto, si preparò alla battaglia ed al giudizio delle armi.Quando dunque si fu avvicinato il giorno in cui si sarebbe dovuta dar battaglia furono approntati gli eserciti dei due schieramenti. Sembra che il re inglese tenesse al suo esercito un discorso più o meno simile a questo: «Miei bravi e coraggiosi compagni d’armi, giunge ora quell’ora in cui dovrete lottare, non per l’onore o la gloria del vostro nome, ma per la vostra vita. E infatti abbiamo avuto sufficienti occasioni per conoscere la mentalità dei Francesi a questo proposito e sappiamo bene che non faranno salva la vita a nessuno di quanti perderanno il controllo di sé per paura o per viltà. Uccideranno tutti allo stesso modo, popolo minuto o nobili, come le vacche al macello. Io stesso e i principi del mio sangue non dovremo temere questo destino, ma solo perché in caso di vittoria i nemici spereranno di ricavare da noi un grosso riscatto e preferiranno risparmiarci piuttosto che ucciderci. Se dunque volete scampare a questo pericolo, liberate il vostro cuor dalla paura e non sperate che questi nemici vi grazino per barattare la vostra vita con del denaro; infatti essi nutrono contro il nostro popolo un odio antico e acerrimo. Se allora preferite vivere e non morire, ricordatevi da uomini impavidi della vostra antica nobiltà e della fama militare, carica di onori, di cui godono gli Inglesi e lottate da uomini, con coraggio e abilità, per la vostra vita!»Queste parole del re accrebbero il coraggio degli Inglesi in misura strabiliante, poiché questi riconobbero che avreb-bero messo in pericolo la loro stssa vita se non avessero lottato arditamente e sconfitto i loro nemici. Così alzarono spaventevoli grida e cominciarono a tendere gli archi con quanta forza avevano in corpo e a tirare contro il nemico così tante frecce che queste oscurarono il cielo come una nuvola, tante che si sarebbe potuto credere che sul cam-po di battaglia fosse cresciuta una messe di quelle frecce. Infine cominciarono ad avanzar ferendo molti cavalli montati dai Francesi e anche uomini, di cui ne ammazzarono molti. Per questo i Francesi, prima ancora d’avanzare al centro dello scontro, si diedero alla fuga e nella baraonda generale si uccisero persino tra di loro. Senza molti sforzi e quasi senza perdite gli Inglesi ne uscirono vincitori. Era un triste spettacolo vedere come l’ordine fosse svanito tra le file dell’esercito francese in fuga, come dieci inglesi inseguissero cento francesi e uno solo ne inse-guisse dieci.

in A. Borst, Forme di vita nel Medioevo, Guida, Napoli 1988

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D o c u m e n t i

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Niccolò Machiavelli, Le ragioni della potenza franceseLa crisi militare francese si andò risolvendo nel corso del XV secolo e l’organizzazione militare cominciò a divenire esemplare: questo è il quadro che vuole proporre Niccolò Machiavelli nel 1510. Nelle sue pagine l’unità e l’efficienza militare francese trovano un implicito contraltare nella situazione italiana: la guerra dei Cent’anni aveva segnato il declino dei grandi principati francesi e sembrava anche offrire al sovrano una situazione interna di decisa stabilità.

La corona e gli re di Francia sono oggi più gagliardi, ricchi e più potenti che mai fussino, per le infrascritte ragioni.La corona, andando per successione del sangue, è diventata ricca; perché non avendo il re qualche volta figlioli

né chi gli succedessi nella eredità propria, le sustanze e stati e beni proprii sono rimasti alla corona. [...]Una altra ragione ci è potentissima della gagliardia di quello re: che è che pe ’l passato la Francia non era unita, per li potenti baroni che ardivano e li bastava loro l’animo a pigliare ogni impresa contro [si ribellavano, n.d.r.] al re, come era uno duca di Ghienna, di Borbone etc., è quali oggi sono tutti ossequentissimi; e però [perciò, n.d.r.] vie-ne a essere più gagliardo.Ècci una altra ragione: che a ogni altro principe circunvicino bastava l’animo assaltare el reame di Francia, e questo, perché sempre aveva o uno duca di Brettagna o vero uno duca di Ghienna o di Borgogna o di Fiandra che li faceva scala [sosteneva, n.d.r.] e davagli il passo e ricettavalo [gli dava rifugio, n.d.r.]: come interveniva quando li Inghile-si avevano guerra con Francia, che sempre per mezzo d’un duca di Brettagna davano che far al re; e così uno duca di Borgogna d’uno duca di Borbone etc. Ora essendo la Brettagna, la Ghienna, il Borbonese e la maggior parte di Borgogna, suddita e ossequentissima a Francia, non solo mancano a tali principi questi mezzi di potere infestare el reame di Francia, ma li hanno oggi inimici [...].Spende poco in guardare [tenere sotto controllo, n.d.r.] terre, perché li sudditi li sono ossequentissimi, e fortezze non usa fare guardare per il regno. E a’ confinin, dove sarebbe qualche bisogno di spendere, standovi le guernigio-ni della gente d’arme, manca di quella spesa perché da uno assalto grande si ha tempo a ripararvi perché vuole tempo a potere essere fatto e messo insieme.Sono e’ popoli di Francia umili e ubbidientissimi, e hanno in grande venerazione el loro re. Vivono con pochissima spesa per la abbundanzia grande delle grasce [dei generi alimentari, n.d.r.]; e anche ognuno ha qualche cosa stabi-le [beni immobili, n.d.r.] da per sé. [...]L’autorità de’ baroni sopra e sudditi loro è mera. L’entrata loro è pane, vino, carne, ut supra, e tanto per fuoco lo anno [...]. Taglie e preste [tasse, n.d.r.] non possono porre absque consensu regis [senza il consenso del re, n.d.r.], e questo raro si consente.La corona non trae di loro altra utilità che l’entrata del sale né mai li taglieggia se non in grandissima necessità.

N. Machiavelli, Ritratto di cose di Francia, in Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Sansoni, Firenze 1971

Alessandro VI, La conquista spagnola del nuovo mondoGli spagnoli, subito dopo l’inizio delle esplorazioni di Colombo, nel 1493 sentirono il bisogno di porre il consenso di papa Alessandro VI sulle loro, ben probabili, conquiste. La bolla Inter cetera andò incontro ai desideri degli spagnoli salvaguardando i diritti di espansione che erano stati concessi ai portoghesi: è questo il senso del limite posto agli spagnoli lungo la linea delle isole Azzorre.

Tra tutte le opere ben accette alla Divina Maestà e desiderate dal nostro cuore ce n’è una che risalta certamente in maniera particolare, e cioè che la fede cattolica, la religione cristiana, sia esaltata specialmente in questi nostri

tempi, e si estenda e si diffonda in ogni luogo, e che si procuri la salvezza delle anime e che i popoli barbari siano vinti e condotti alla fede. Ben sappiamo come voi da tempo avevate l’intenzione di cercare e di trovare isole e terre remote e sconosciute e da altri finora non scoperte, al fine di indurre i loro abitanti al culto del nostro Redentore e alla professione della fede cattolica, e come profondamente impegnati nella guerra e nella conquista del regno di Granata, non avevate potuto portare al desiderato compimento un così tanto e lodevole proposito. Finalmente, come a Dio piacque, recuperato quel regno, per realizzare quel desiderio, avete inviato Cristoforo Colombo nostro diletto figlio, uomo certamente degno e assai lodevole e adatto a tanta impresa, con uomini e navi allestite ade-guatamente, non senza grandissime fatiche e pericoli, affinché facesse diligente ricerca di terre e isole remote e sconosciute, facendo rotta attraverso il mare finora mai navigato.

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Essi, fatta accurata ricerca, col divino aiuto, navigando per il Mare Oceano, trovarono isole remotissime e anche terre da altri finora non scoperte, dove abitano numerose popolazioni, che vivono pacificamente e a quanto si dice non portano vestiti e non si cibano di carni. Queste stesse genti delle isole e delle terre suddette, per quanto pos-sono capire i vostri inviati, credono nella esistenza in cielo di un solo Dio creatore e sembrano abbastanza capaci di abbracciare la fede cattolica e di farsi educare ai buoni costumi e, se verranno istruiti, c’è speranza che il nome del salvatore e signor Gesù Cristo sia invocato nelle terre e isole predette. Nelle isole e terre già scoperte si trovano oro, spezie e moltissime altre cose preziose e di vario genere e qualità. Perciò, dopo aver ben considerato tutto e tenen-do presente in maniera particolare lo scopo del trionfo della fede cattolica (come è giusto che facciano re e princi-pi cattolici), secondo il costume degli illustrissimi vostri predecessori, vi siete proposti di assoggettare col favore della divina clemenza le terre e isole suddette e i loro abitanti; e di ricondurli alla fede cattolica. Noi dunque, elo-giando moltissimo nel Signore questo vostro santo e lodevole proposito, e desiderando che giunga a debito fine e che il nome del nostro Salvatore venga diffuso in quelle parti, vi esortiamo quanto in nome del Signore affinché voglia indurre i popoli abitanti in quelle isole e terre ad accogliere la religione cristiana, né vi spaventino mai i pe-ricoli e le fatiche, con la ferma speranza e fiducia che Dio onnipotente porti a felice successo i vostri sforzi.E affinché, muniti dei doni abbondanti dell’apostolica grazia, vi assumiate un compito così importante più libera-mente e con maggior impulso, di nostra iniziativa, non dietro richiesta vostra o di altri per voi, per nostra pura li-beralità, con sicura conoscenza e con la pienezza dell’autorità apostolica, doniamo e assegniamo in perpetuo, se-condo il tenore della presente, a voi e a i vostri eredi e successori (re di Castiglia e di León), per l’autorità di Dio onnipotente a noi concessa nella persona di San Pietro e per quella di vicario di Gesù Cristo che ricopriamo sulla terra, tutte le isole e le terre trovate e da trovare, scoperte e da scoprire, nella parte verso occidente e mezzogiorno delimitata da una linea tracciata partendo dal Polo Artico, o settentrionale o da trovare siano dalle parti dell’India sia che siano da qualunque altra parte. E la suddetta linea disti da ciascuna delle isole che volgarmente si chiama-no delle Azzorre e Capo Verde cento leghe in direzione di occidente e mezzogiorno. [Tale concessione vale] purché dette isole e terre non siano sotto l’attuale possesso di altro re o principe cristiano fino al giorno della natività di nostro signore Gesù Cristo di recente trascorso: giorno dal quale comincia il presente anno 1493, nel quale furono trovate dai vostri inviati alcune delle predette isole. [Ve le doniamo] con tutti i loro domìni, città, castelli, luoghi e ville, diritti, giurisdizioni e pertinenze. Facciamo, stabiliamo e deputiamo voi e gli eredi e successori predetti signo-ri di quelle isole e terre con piena, libera e completa potestà, autorità e giurisdizione.

in R. Comba, Le fonti della storia medioevale, Loescher, Torino 1992

Giovan Antonio Menavino, L’esercito multietnico turcoSe l’Occidente europeo si interrogava sulle possibili soluzioni per l’arruolamento e il mantenimento degli eserciti, si profilava sempre più concreto il confronto con il sistema turco, un sistema che stava offrendo ottimi e terribili risultati. Giovan Antonio Menavino tratteggia nel 1548 il sistema di reclutamento dei giannizzeri, basato sulla sottrazione di bambini dalle popolazioni sottomesse. Nell’insieme si trattava di un sistema militare efficiente, ma che molta della sua efficienza doveva anche alla capacità di conseguire sempre nuove conquiste e quindi forme di autofinanziamento per gli eserciti; esaurita la spinta propulsiva, anche il sistema turco avrebbe poi mostrato i suoi limiti.

Appresso al Gran Turco sono tre suoi schiavi, chiamati bascia: questi sono i principali uomini della sua corte, sì di ricchezze come di autorità, ed eglino sono quelli coi quali il Signore tanto in cose di guerra quanto in ogni

altra cosa che e’ voglia fare si consiglia. Hanno questi di provisione mille aspri al giorno: oltre ciò, hanno castella, cittadi, terreni di gran valore, dalle quali cavano grandissime rendite. [...]Dopo i tre bascia è un capitano di nazione bosna, il quale ha sotto di sé diecimila uomini, ed è chiamato ianizera-gasi, cioè capitano di Gianizeri: i quali ha il Gran Turco facendogli tòrre ai loro proprii padri e madri, nella Grecia, nella Valacchia e nella Bosna, come se gli venissero per decima; conciosiaché un padre che avesse tre figliuoli, il Gran Turco ne fa prendere uno a sua scelta. E a fare questo ufficio de tòrre queste genti sono più di dugento uo-mini salariati, i quali vanno visitando questi luoghi se vi fossero uomini di sovrechio per mandargli in Costantino-poli. [...] Sotto questo [capitano] sono dieci capitani che hanno mille Gianizeri per uomo, e ciascuno di questi dieci ha dieci altri capitani che hanno cento uomini per uomo; e poi altri capi di squadra, secondo che l’ordine della milizia ricerca. [...]Mille uomini, chiamati spai con il capitano loro detto spaioglandargasi sono ancora salariati nella corte del Gran Turco, tutti suoi schiavi; i quali, andando il Signore in campo, vanno per sua guardia dalla banda destra, bene in

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ordine d’armi e di cavalli. [...] Dalla banda sinistra, quando cavalca il Re, passa un capitano chiamato suluftar bascia, con mille e cinquecento uomini, schiavi del re [...]. La maggior parte di questi suluftar sono cristiani rinnegati, e la loro provisione, è da dieci infino a quindici apri al giorno, de’ quali fanno le spese a se stessi ed a’ suoi cavalli. Questi uomini sono deputati a fare la guardia un giorno e una notte, quando il Gran Turco dorme fuori di Costan-tinopoli, e ad andare ogni anno a rescuotere le intrade della Grecia e della Natolia. [...].Il gebigi bascia è un capitano, schiavo del Gran Turco, con provisione di settanta aspri al giorno, ha sotto di sé trecento uomini, schiavi del Re, i quali sono salariati da cinque infino a sei aspri, il cui ufficio è menare i cameli carichi d’armature in campo, che sono casse piene di camicie di maglie, d’archi, di saette, e di schioppetti, di broc-chieri, di coperte da cavalli di pelo d’orso, e di tavole grosse per far ripari: le quali hanno due punte di ferro lunghe, che le ficcano in terra e si mettono dietro per cagione delle saette e degli schioppetti; delle armi bianche e corazze ne hanno poco, se non alcune che tolgono sopra le navi de’ cristiani. [...]

G.A. Menavino, I cinque libri della legge, religione et vita de’ Turchi et della corte et d’alcune guerre del Gran Turco..., Vincenzo Valgrisi, Venezia 1548

Federico il Grande e Ulrich Bräker, L’esercito prussianoLa realtà dell’esercito prussiano agli ordini di Federico il Grande viene esaminata da due punti di vista diversi. Il primo è quello dell’imperatore, in un discorso pronunciato il 3 dicembre 1757 ai suoi ufficiali, alla vigilia della battaglia di Leuthen. Il secondo è tratto dai ricordi autobiografici di Ulrich Bräker, soldato dell’esercito prussiano, e offre dall’interno un’immagine del rigore e della disciplina che vi regnavano.

I prussiani combattono così

Contro tutte le regole dell’arte attaccherò un nemico quasi due volte più numeroso, e trincerato su alture. Devo farlo, o tutto è perduto. Noi dobbiamo battere il nemico o farci tutti seppellire davanti alle sue batterie. Così io

penso, e così farò. Se c’è qualcuno tra loro che non la pensa così chieda qui subito il suo congedo. Io glielo conce-derò senza il minimo rimprovero. [...] Vadano al campo e dicano ai loro reggimenti che osserverò attentamente ciascuno di essi. Il reggimento di cavalle-ria che, appena sarà ordinato, non si lancerà à corps perdu sul nemico, subito dopo la battaglia lo farò appiedare, e lo trasformerò in un reggimento di guarnigione. Il battaglione di fanteria che, si trovi dovunque vuole, comince-rà anche solo a vacillare, perderà le bandiere e le sciabole, e io gli farò tagliare i fregi dall’uniforme. Ora stiano bene, Signori: domani a quest’ora noi avremo battuto il nemico, o non ci rivedremo mai più.

3 dicembre 1757

La vita del soldato

Sulla piazza d’armi [...] non c’era fine all’imprecare al frustare di giovani nobilotti pronti a far uso del bastone, e al lamentarsi dei percossi. [...] Ci faceva male nell’animo vedere altri trattati per ogni piccolezza in questo modo,

senza alcuna misericordia, e noi stessi per tutto il tempo così maltrattati: a dover stare spesso per cinque ore intere, stretti nella nostra uniforme come avvitati, a marciare diritti come pali in tutte le direzioni, e a fare ininterrottamen-te manovre rapide come il lampo, e tutto ciò agli ordini di un ufficiale che stava davanti a noi col viso furioso e col bastone alzato, e che minacciava tutti i momenti di colpire come sopra cavoli. Con un simile trattamento anche il tipo più robusto doveva diventare mezzo azzoppato, e il più paziente eccitabile. Quando poi ce ne andavamo stan-chi morti in caserma, si andava di nuovo a rompicollo a pulire il nostro bucato, e a togliere ogni macchiolina, poiché la nostra uniforme era bianca ad eccezione della giubba azzurra. Fucile, giberna, berretto, ogni bottone dell’uniforme, tutto doveva essere lustrato come uno specchio. Se in uno di questi pezzi si mostrava la più piccola improprietà e un capello non stava a posto nella pettinatura, quando si veniva sulla piazza il primo saluto era un grosso colpo di bastone...

in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e Testimonianze, Principato, Milano 1969

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François Marie Arouet de Voltaire, L’assurdità della guerraNella voce Guerra, compilata nel 1764 per il Dizionario filosofico, Voltaire osserva con arguzia la futilità dei motivi alla base dei conflitti.

È senza dubbio una bellissima arte, questa che devasta i campi, distrugge le case, e fa morire, in media ogni anno, quarantamila uomini su centomila. [...]

Uno studioso di genealogie dimostra a un principe che egli discende in linea retta da un conte, i cui parenti tre o quattro secoli fa avevano fatto un «patto di famiglia» con una casata di cui non sussiste neppur la memoria; e questa casata aveva delle lontane pretese su una certa regione il cui ultimo possessore è morto di apoplessia. Allo-ra il principe e il suo Consiglio concludono senza difficoltà che quella provincia appartiene a lui per diritto divino. La provincia in questione, che è a qualche centinaio di leghe di distanza, ha un bel protestare che non lo conosce, che non ha alcun desiderio di essere governata da lui, che per dar legge ad un popolo bisogna almeno avere il suo consenso: questi discorsi non arrivano nemmeno alle orecchie del principe, saldo nel suo buon diritto. Egli trova immantinente un gran numero d’uomini che non ha niente da perdere: li veste d’un grosso panno blu a cento soldi il metro, orla i loro berretti con un bel filetto bianco o dorato, insegna loro a voltare a destra e sinistra e mar-cia con essi alla gloria.Gli altri principi che senton parlare di questa bella impresa, subito vi prendono parte, ciascuno secondo il suo po-tere, e ricoprono così una piccola parte del globo di tanti assassini mercenari quanti non ne ebbero mai al loro seguito Gengis Khan, Tamerlano o Bajazet [condottiero turco vissuto nel XV secolo, n.d.r.]. Altri popoli, lontani, sentendo dire che si sta per battersi, e che ci sono cinque o sei soldi al giorno da guadagnare per quelli che voglio-no partecipare alla festa, si dividono subito in bande, come i mietitori, e vanno ad offrire i loro servigi a chiunque voglia assoldarli. E tutte queste moltitudini si accaniscono le une contro le altre, non solo senza aver nessun inte-resse nella faccenda, ma senza neppur sapere di che si tratta. Talvolta vi sono cinque o sei potenze belligeranti tutte insieme: tre contro tre, o due contro quattro, o una contro cinque, che si detestano ugualmente le une e le altre, si uniscono e si attaccano volta a volta, e sono tutte d’accordo in una sola cosa: di fare il maggior male che si può. [...] Tutti i vizi di tutte le età e di tutti i paesi del globo riuniti assieme non uguaglieranno mai i peccati che provoca una sola campagna di guerra.

in Dizionario filosofico, Feltrinelli, Milano 1950

Immanuel Kant, La pace perpetuaImmanuel Kant propone l’instaurazione di una «federazione di popoli»: potrebbe anche essere chiamata «federazione di pace» e «si differenzierebbe dal trattato di pace per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre per sempre».

I popoli, in quanto Stati, possono essere giudicati come singoli uomini che si fanno reciprocamente ingiustizia già solo per il fatto di essere l’uno vicino all’altro nel loro stato di natura (ossia nell’indipendenza da leggi esterne);

e ciascuno di essi può e deve esigere dall’altro di entrare con lui in una costituzione simile a quella civile, nella quale a ciascuno sia garantito il suo diritto. Questo costituirebbe una federazione di popoli, che tuttavia non do-vrebbe essere uno Stato di popoli. Questa sarebbe una contraddizione perché ogni Stato ha dentro di sé il rapporto di un superiore (il legislatore) con un inferiore (che obbedisce, il popolo cioè); molti popoli però in uno Stato fareb-bero solamente un popolo che (dato che noi qui dobbiamo valutare i reciproci diritti dei popoli, in quanto devono costituire esattamente Stati differenti, e non fondersi in uno Stato) contraddice la premessa.Ora, così come noi consideriamo con profondo disprezzo l’attaccamento dei selvaggi alla loro sfrenata libertà, che consiste nell’essere continuamente in lotta tra loro invece che sottoporsi a una costrizione legale stabilita da loro stessi, e a preferire quindi una libertà folle a una libertà ragionevole, e la giudichiamo come una rozzezza, una bru-talità e una degradazione animalesca dell’umanità, verrebbe spontaneo di pensare che i popoli civili (ognuno dei quali riunito a sé in uno Stato) dovrebbero affrettarsi per uscire al più presto possibile da una condizione così abbiet-ta, al contrario invece ogni Stato ripone la sua maestà (infatti la maestà popolare è un’espressione senza senso) proprio nel fatto di non essere soggetto a nessuna costrizione legale, e lo splendore del suo capo supremo sta nel fatto che, senza che egli si esponga a nessun pericolo, sotto il suo comando stanno molte migliaia di uomini che sono costretti a sacrificare la loro vita per una cosa che non li riguarda, e la differenza tra i selvaggi dell’Europa e quelli

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americani consiste principalmente in questo: in America molte tribú sono state interamente divorate dai loro nemici, gli europei invece sanno utilizzare meglio i loro sconfitti che mangiarli, e preferiscono accrescere attraverso di loro il numero dei loro sudditi, e quindi anche la quantità degli strumenti da utilizzare per guerra ancora più grandi […].D’altra parte, per gli Stati non può valere secondo il diritto internazionale proprio ciò che vale secondo il diritto naturale per gli uomini che sono nello stato della mancanza di leggi, cioè «il dovere di uscire da questo stato» (poi-ché essi come Stati hanno già al loro interno una costituzione legale e quindi sfuggono alla costrizione degli altri Stati che secondo le loro idee del diritto volessero portarli sotto una costituzione giuridica allargata); nondimeno la ragione, dall’alto del trono del supremo potere che dà le leggi morali, condanna assolutamente la guerra come procedimento giuridico e fa invece dello stato di pace un dovere immediato, che però senza un patto reciproco tra gli Stati non può essere fondato o garantito: così deve necessariamente esserci una federazione di tipo particolare, che si può chiamare federazione di pace (foedus pacificum), che si differenzierebbe dal trattato di pace (pactum pacis) per il fatto che questo cerca di porre fine semplicemente a una guerra, quella invece a tutte le guerre per sempre. Questa federazione non si propone la costruzione di una potenza politica, ma semplicemente la conserva-zione e la garanzia della libertà di uno Stato preso a sé e contemporaneamente degli altri Stati federati, senza che questi si sottomettano (come gli individui nello stato di natura) a leggi pubbliche e alla costrizione da esse eserci-tata. Non è cosa impossibile immaginarci la realizzabilità (la realtà oggettiva) di questa idea di federazione, che si deve estendere progressivamente a tutti gli Stati e che conduce così alla pace perpetua.

I. Kant, Per la pace perpetua, Feltrinelli, Milano 1991

Karl von Clausewitz, Che cos’è la guerraIl generale prussiano Karl von Clausewitz, protagonista delle guerre napoleoniche, analizza il carattere e le motivazioni della guerra, che, a suo parere, «non è solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi».

La guerra non è solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi [...] qualunque sia la sua reazione sui disegni politici, essa non

può andare al di là di una semplice modificazione dei medesimi, poiché il disegno politico è lo scopo, la guerra è il mezzo, ed un mezzo senza scopo non può mai concepirsi.Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astrat-ta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare, e la guerra sembra allontanarsi tanto più dalla politica, quanto maggiore è il suo carattere puramente bellico.Per converso, quanto più deboli sono i motivi e le tensioni, tanto meno la tendenza naturale dell’elemento guerra, e cioè la violenza, collimerà colla linea fondamentale indicata dalla politica: la guerra dovrà deviare dalla propria direzione naturale, lo scopo politico si allontanerà dall’obiettivo di una guerra ideale, ed il carattere della guerra tenderà a divenire puramente politico. [...]Se è vero che in una determinata specie di guerra la politica sembra scomparire completamente, mentre in un’altra essa diviene preponderante, si può tuttavia affermare che in entrambi i casi la guerra costituisce un atto politico. [...] Si vede dunque, anzitutto, che in ogni caso la guerra deve essere concepita non come cosa a sé stante, ma come strumento politico. E solo partendo da questa concezione è possibile non cadere in contrasto con tutta la storia militare.

K. von Clausewitz, Della guerra, Mondadori, Milano 1970, vol. 1

Nachman di Breslavia, Metti pace nel tuo popoloSiamo negli ultimi anni del Settecento: nella preghiera di Nachman di Breslavia, ebreo polacco appartenente al movimento chassidico, l’uomo invoca Dio affinché «metta pace nel suo popolo».

Ti sia gradito, Signore Dio nostro e Dio dei nostri padri, / Signore della pace, re cui la pace appartiene, / di porre pace nel tuo popolo. / E la pace si moltiplichi fino a penetrare / In tutti quelli che vengono al mondo. / E non

ci siano più né gelosie, né rivalità / Né motivi di discordia fra gli uomini, / ma ci siano solo amore e pace fra tutti.

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/ E ognuno conosca l’amore del suo prossimo, / in quanto il suo prossimo cerca il suo bene / e desidera il suo amore / e anela al suo costante successo, / al fine di potersi incontrare con lui / e unirsi a lui, / per parlare insieme e dirsi l’uno all’altro / la verità / in questo mondo. / Mondo che passa come un batter d’occhi, / come un’ombra. / Non come l’ombra di una palma o di un muro, / ma come l’ombra dell’uccello che vola.

in Il libro delle preghiere, Einaudi, Torino 1997

Napoleone Bonaparte e Philippe-Paul de Ségur, Gloria e disfatta della grande armata di NapoleoneLa vita e le battaglie combattute dall’armata napoleonica vengono qui descritte in tre passaggi significativi: un discorso che Bonaparte pronunciò a conclusione della vittoriosa battaglia di Austerlitz (3 dicembre 1805); due descrizioni, una dello stesso Napoleone, l’altra del generale Ségur, della disastrosa ritirata che concluse la campagna di Russia intrapresa dai francesi nel 1812.

Napoleone: ecco i miei valorosi

Soldati, io stesso dirigerò tutti i vostri battaglioni; io mi terrò lontano dal fuoco se, col vostro consueto valore, porterete il disordine e la confusione nelle file nemiche; ma se per un momento la vittoria fosse incerta voi ve-

dreste il vostro imperatore esporsi ai primi colpi, perché la vittoria non può esser dubbia, in questa giornata soprat-tutto in cui ne va dell’onore della fanteria francese, che importa tanto all’onore di tutta la nazione. [...]Soldati, io sono contento di voi. Nella giornata di Austerlitz voi avete giustificato tutto ciò che mi attendevo dalla vostra intrepidezza; voi avete decorato le vostre aquile di una gloria immortale. [...] Questa giornata, resterà celebre per sempre. [...] Soldati, quando tutto ciò che è necessario per assicurare la felicità e la prosperità della nostra patria sarà compiuto, io vi ricondurrò in Francia; là voi sarete l’oggetto delle mie più tenere sollecitudini. Il mio popolo vi rivedrà con gioia, e vi basterà dire Io ero alla battaglia di Austerlitz, perché si risponda, Ecco un valoroso.

in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Milano 1969

Bonaparte e la ritirata di Russia

La nostra posizione è peggiorata. Quasi tutti i nostri cavalli – 30000 capi – sono morti per il freddo sceso a 16° sotto zero. Abbiamo dovuto abbandonare più di 300 cannoni e un gran numero di carri di munizioni. I rigori del

clima hanno fatto aumentare il numero degli sbandati. I cosacchi, approfittando della nostra mancanza di cavalle-ria e della quasi totale assenza di artiglieria, ci hanno ripetutamente assalito e hanno interrotto le vie di comunica-zione [...]. Il nemico ha una cosa che a noi manca: è abituato a spostarsi sul terreno gelato, il che gli dà un immen-so vantaggio. Un cannone o un carro di munizioni che noi non potremmo tirar fuori da un modesto avvallamento senza rimetterci 12 o 15 cavalli e impiegandoci 12 o 15 ore, loro lo spostano con slitte o altre attrezzature adatte allo scopo con la stessa rapidità con cui si muoverebbero se non ci fosse il ghiaccio.

in N. Nicolson, Napoleone in Russia, Rizzoli, Milano 1987

De Ségur testimone alla Beresina

Correvano in tutte le direzioni. Si accalcavano lungo la riva. In un istante una massa enorme di uomini, cavalli, carri assediò le strette vie d’accesso ai ponti. Quelli davanti venivano spinti da quelli dietro, per poi venir respin-

ti dalle guardie e dai genieri, o costretti a fermarsi dalle acque, o buttati a terra, o calpestati, o gettati nel fiume gelido. Da questa terribile e immane folla si levavano lamenti orrendi, talvolta un sordo mormorio, talaltra un urlo acuto, inframmezzati da gemiti e da terribili imprecazioni [...] Alcun facevano largo ai loro carri a colpi di sciabola. Altri crollavano, piangendo disperati. Altri ancora, costretti ad allontanarsi dagli accessi ai ponti, cercavano di ar-rampicarsi sui pali di sostegno ma per lo più finivano nel fiume. Donne coi bambini in braccio venivano trasporta-te dalla corrente reggendo in alto i loro piccoli. Poi il ponte destinato all’artiglieria crollò. Chi lo stava attraversando cercò di ritirarsi; quelli dietro, ignari del crollo, continuarono a spingere in avanti finendo nel fiume insieme a chi li precedeva. A quel punto sciamarono verso l’altro ponte. Si sentivano sicuri appena messo piede sul ponte ma ba-stava un cavallo caduto o un asse mancante a interrompere il flusso. Sulla sponda opposta le paludi ostacolavano il passaggio. Sul ponte stesso, privo di ringhiera, molti perdevano l’equilibrio e cadevano nel fiume.

in N. Nicolson, Napoleone in Russia, Rizzoli, Milano 1987

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Robert E. Lee ed Edwin Stanton, Testimonianze della guerra di secessione americana

I tentativi “propagandistici” e i mezzi “tecnici” utilizzati da nordisti e sudisti per vincere la guerra sono l’oggetto di queste due testimonianze: una lettera (11 gennaio 1865) con la quale il generale Robert E. Lee, comandante delle truppe confederate, invitò Andrew Hunter, deputato al Congresso degli Stati confederati, all’utilizzo militare di truppe formate da neri, promettendo loro la libertà; una relazione del ministro della guerra Edwin Stanton (novembre 1866) che testimonia la capacità di produzione bellica delle industrie del Nord, essenziale per assicurarsi la vittoria.

I negri devono combattere per il Sud

Caro signore […], è nostro dovere provvedere per la continuazione della guerra […] e io temo che ciò sia impossibile senza pretendere troppo dalle possibilità della nostra popolazione bianca. Se la guerra continuerà nelle presenti

circostanze, il nemico potrà nel volger del tempo penetrare nel nostro paese e ottenere accesso ad una vasta parte della nostra popolazione negra. La sua politica apertamente dichiarata consiste nel trasformare quelli di essi che siano uomini validi, in soldati, ed emanciparli tutti […]. Il nemico otterrà un ampio incremento delle sue forze. Il suo progres-so aumenterà così il suo numero e nello stesso tempo distruggerà la schiavitù nel modo più nocivo al benessere del nostro popolo […]. Qualunque sia l’effetto dell’uso di truppe negre da parte nostra, esso non potrà mai essere altret-tanto nocivo […]. La mia personale opinione è che noi dovremmo usarli senza ulteriore ritardo […]. Ci sono stati formi-dabili eserciti formati da uomini che non avevano altro interesse nella causa per cui combattevano eccetto la paga o il bottino […]. Noi possiamo interessare […] i nostri negri dando immediatamente la libertà a tutti coloro che si arruolano, e la libertà alla fine della guerra alle famiglie di coloro che avranno servito con fedeltà […]. Noi non possiamo atten-derci che gli schiavi combattano per una liberà futura, quando possono garantirsela immediatamente passando al nemico […]. Qualsiasi misura debba essere adottata, lo sia subito. Ogni giorno di ritardo aumenta le difficoltà. Ci vorrà molto tempo per organizzare e disciplinare gli uomini, e l’azione potrà essere differita sino a che sarà troppo tardi.

Il Nord e le cifre della guerra

Signor Presidente, il numero delle forze volontarie che dovevano venir poste in congedo era, al 1° maggio 1865, di 1 034 064 uomini. La riduzione dell’esercito è stata seguita da una corrispondente riduzione del materiale e

diminuzione delle spese. Dal 1° maggio 1865 al 2 agosto 1866 sono stati venduti oltre 207 000 cavalli e muli […]. Circa 4400 caserme, ospedali e altri edifici sono stati venduti […]. La flotta di 590 trasporti oceanici in servizio al 1° luglio 1865 […] fu ridotta, entro il 30 giugno 1866, a 53 navi […] e da tale momento molti di questi sono stati smobilitati, il traffico oceanico essendo ormai quasi interamente condotto da linee di vapori commerciali privati […]. Le ferrovie militari che erano state condotte durante la guerra […] e che secondo dati ufficiali avevano raggiunto una estensione di miglia 2630,5, possedendo 433 locomotive e 6605 vagoni, sono state tutte trasferite a compagnie private o ad uffici dei lavori pubblici […]. Le truppe in servizio sono state regolarmente pagate […]. Dal 1° gennaio 1861 al 30 giugno 1866, il Servizio di Artiglieria ha fornito 7892 cannoni, 11 787 affusti, 4 022 130 armi indivi-duali, 2 362 546 serie complete di fornimenti per fanteria e cavalleria, 1 022 176 474 cartucce per armi individua-li, 1 220 555 435 capsule a percussione, 2 862 177 proiettili per artiglieria, 26 440 054 libbre di polvere, 6 395 152 libbre di nitrato e 90 416 295 libbre di piombo.

in Gli Stati Uniti nell’età della guerra civile, a cura di R. Luraghi, Le Monnier, Firenze 1978

Giovanni Papini, Amiamo la guerraLo scrittore Giovanni Papini, in un articolo pubblicato nell’ottobre del 1914 sulla rivista “Lacerba”, illustra i vantaggi della guerra: al di là del tono violento che impressiona il lettore di oggi, lo scritto rappresenta bene la posizione interventista degli intellettuali nazionalisti alla vigilia del primo conflitto mondiale.

Finalmente è arrivato il giorno dell’ira dopo i lunghi crepuscoli della paura. Finalmente stanno pagando la decima dell’anime per la ripulitura della terra. Ci voleva, alla fine, un caldo bagno di sangue nero dopo tanti umidicci e

tiepidumi di latte materno e di lacrime fraterne. Ci voleva una bella innaffiatura di sangue per l’arsura dell’agosto;

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e una rossa svinatura per le vendemmie di settembre; e una muraglia di svampate per i freschi di settembre. È fini-ta la siesta della vigliaccheria, della diplomazia, dell’ipocrisia e della pacioseria. I fratelli sono sempre buoni ad ammazzare i fratelli! I civili son pronti a tornar selvaggi, gli uomini non rinnegano le madri belve. Non si conten-tano più dell’omicidio al minuto. Siamo troppi. La guerra è una operazione malthusiana. C’è un di troppo di qua e un di troppo di là che si premono. La guerra rimette in pari le partite. Fa il vuoto perché si respiri meglio. Lascia meno bocche intorno alla stessa tavola. E leva di torno un’infinità di uomini che vivevano perché erano nati; che mangiavano per vivere, che lavoravano per mangiare e maledicevano il lavoro senza il coraggio di rifiutar la vita. Fra le tante migliaia di carogne abbracciate nella morte e non più diverse che nel colore dei panni, quanti saranno, non dico da piangere, ma da rammentare? Ci metterei la testa che non arrivano ai diti delle mani e dei piedi messi in-sieme. E codesta perdita, se non fosse anche un guadagno per la memoria, sarebbe a mille doppi compensata dalle tante centinaia di migliaia di antipatici, farabutti, idioti, odiosi, sfruttatori, disutili, bestioni e disgraziati che si son levati dal mondo in maniera spiccia, nobile, eroica e forse, per chi resta, vantaggiosa. Non si rinfaccino, a uso di perorazione, le lacrime delle mamme. A cosa possono servire le madri, dopo una certa età, se non a piangere. E quando furono ingravidate non piansero: bisogna pagare anche il piacere. E chissà che qualcuna di quelle madri lacrimose non abbia maltrattato e maledetto il figliolo prima che i manifesti lo chiamassero al campo. Lasciamole piangere: dopo aver pianto si sta meglio. Chi odia l’umanità – e come si può non odiarla anche compiangendola? – si trova in questi tempi nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola. “Avevo ragione di non stimare gli uomini, e perciò son contento che ne spariscano parecchi”. La guerra, infine, giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’al-tra spesa di concio. Che bei cavoli mangeranno i francesi dove s’ammucchiarono i fanti tedeschi e che grasse pata-te si caveranno in Galizia quest’altro anno! E il fuoco degli scorridori e il dirutamento dei mortai fanno piazza pulita fra le vecchie case e le vecchie cose. Quei villaggi sudici che i soldatacci incendiarono saranno rifatti più belli e più igienici. E rimarranno anche troppe cattedrali gotiche e troppe chiese e troppe biblioteche e troppi ca-stelli per gli abbrutimenti e i rapimenti e i rompimenti dei viaggiatori e dei professori. Dopo il passo dei barbari nasce un’arte nuova fra le rovine e ogni guerra di sterminio mette capo a una moda diversa. Ci sarà sempre da fare per tutti se la voglia di creare verrà, come sempre, eccitata e ringagliardita dalla distruzione. Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spaventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribile e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi.

G. Papini, Amiamo la guerra, in «Lacerba», 1° ottobre 1914

Luigi Einaudi, È possibile la società delle nazioni?In un intervento sul «Corriere della Sera« del 5 gennaio 1918 Luigi Einaudi, economista liberale e futuro presidente della Repubblica, mette in evidenza due differenti modi di intendere la nascente società delle nazioni. Alla «fine miseranda dei tentativi sinora compiuti» per creare una «“società delle nazioni” intesa nel senso di confederazione di stati sovrani» Einaudi contrappone «il successo magnifico di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella trasformazione dei preesistenti stati sovrani in province di un unico più ampio stato sovrano».

I più, quando discorrono di «società delle nazioni», pensano ad una specie di perpetua alleanza o confederazione di stati, la quale abbia per iscopo di mantenere la concordia fra gli stati associati, difenderli contro le aggressio-

ni straniere e raggiungere alcuni scopi comuni di incivilimento materiale e morale. Tutti implicitamente ammet-tono che gli stati alleati o confederati debbono rimanere pienamente sovrani ed indipendenti; che non si debba costruire un vero superstato fornito di una sovranità diretta sui cittadini dei vari stati, con diritto di stabilire im-poste proprie, mantenere un esercito super-nazionale, distinto dagli eserciti nazionali, padrone di una amministra-zione sua diversa dalle amministrazioni nazionali. I più non pensano a questa seconda specie di “società delle nazioni” perché non a torto ritengono che questa non sarebbe una “società” di nazioni ugualmente sovrane, ma un unico stato sovrano di cui le nazioni attuali diventerebbero semplici province. Si vogliono, sì, gli Stati uniti d’Europa, ma ogni stato deve essere indipendente, sicché la Francia non sopraffaccia l’Italia, od ambedue, insieme con l’Austria e la Russia, non diventino province dell’Inghilterra o della Germania, o, anche, degli Stati uniti d’America, se il nuovo ente politico dovesse comprendere il continente americano. Ora, se l’esperienza storica dovesse essere davvero la maestra della vita, tutti i discorsi sulla “società delle nazioni” fatti in questi ultimi mesi di guerra sarebbero senz’altro apparsi vani, quando si fosse ricordata la fine miseranda dei tentativi sinora com-piuti e durati talvolta per pochi anni e tal’altra per secoli di “società delle nazioni” intesa nel senso, che oggi ap-

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pare unicamente possibile e desiderabile, di confederazione di stati sovrani, ed il successo magnifico di quell’altro tipo di società delle nazioni, il quale culmina nella trasformazione dei preesistenti stati sovrani in province di un unico più ampio stato sovrano […].Vogliamo noi combattere per un nome o per una realtà? Ammettasi che la realtà di uno stato europeo o anche solo di uno stato composto di tutti o parecchi degli attuali alleati sia difficilissima a raggiungersi. Tuttavia gli sforzi fatti per costruire uno stato vivo di vita propria, con indipendente diritto di ripartire imposte sui suoi cittadini sen-za dipendere dal beneplacito di altri stati sovrani, fornito di un esercizio proprio, atto a mantenere la pace interna e a difendere il territorio contro le oppressioni straniere, dotato di una amministrazione sua doganale, postale, ferroviaria, sarebbero almeno sforzi compiuti per raggiungere uno scopo concreto, pensabile, se pure oggi irrag-giungibile. Mentre invece gli sforzi fatti per creare una società di nazioni, rimaste sovrane, servirebbero solo a crea-re il nulla, l’impensabile, ad aumentare ed invelenire le ragioni di discordia e di guerra. Alle cause esistenti di lotta cruenta si aggiungerebbero le gelosie per la ripartizione delle spese comuni, le ire contro gli stati morosi e recalci-tranti […]. Non so se converrebbe per ora limitarci ad immaginare creazioni di stati latini, germanici, slavi d’ordine più elevato dei piccoli stati europei, che tutto fa presumere destinati a diventare stelle di seconda o terza grandez-za, se la società delle nazioni britannica saprà trasformarsi […] in un vero stato, se gli Stati uniti sostituiranno alla dottrina di Monroe l’estensione dell’unità federale alle alte parti dell’America e se i giapponesi diventeranno il fer-mento organizzatore del mondo cinese. La guerra presente è la condanna dell’unità europea imposta colla forza da un impero ambizioso; ma è anche lo sforzo cruento per elaborare una forma politica di ordine superiore.

L. Einaudi, La società delle nazioni è un ideale possibile?, ora in Id., La guerra e l’unità europea, il Mulino, Bologna 1986

Emilio Lussu, L’ottusità dei comandiNel romanzo Un anno sull’altipiano, scritto negli anni 1936-1937, il militante antifascista Emilio Lussu, all’epoca giovane ufficiale della Brigata Sassari, descrive un conflitto “sommerso”, quello tra l’obbligo di obbedire agli ordini dei superiori e la necessità di salvarsi la vita. In un episodio a metà fra il tragico e il grottesco, contrappone l’assurdità dei comandi impartiti dal generale e le loro tristi conseguenze per i soldati.

Avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza essere visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie, al coperto. Il generale guardò alle feritoie, ma non

fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto, e vi montò sopra, il binocolo agli occhi. Così dritto, egli restava scoperto dal petto alla testa.«Signor generale, – dissi io, – gli austriaci hanno degli ottimi tiratori ed è pericoloso scoprirsi così».Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binocolo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai primi, e una palla sfiorò la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un’in-differenza arrogante […].La vedetta, che era di servizio a qualche passo da lui, continuava a guardare alla feritoia, e non si occupava del generale. Ma dei soldati e un caporale della 12a compagnia che erano in linea, attratti dall’eccezionale spettacolo, s’erano fermati in crocchio, nella trincea, a fianco del generale, e guardavano, più diffidenti che ammirati. Essi trovavano certamente in quell’atteggiamento troppo intrepido del comandante di divisione ragioni sufficienti per considerare con una certa quale apprensione, la loro stessa sorte. Il generale contemplò i suoi spettatori con soddi-sfazione.«Se non hai paura, – disse rivolto al caporale, – fa quello che ha fatto il tuo generale».«Signor sì» rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, montò sul mucchio di sassi.Istintivamente, io presi il caporale per il braccio e l’obbligai a ridiscendere.«Gli austriaci, ora, sono avvertiti, – dissi io, – e non sbaglieranno certo il tiro».Il generale, con uno sguardo terribile, mi ricordò la distanza gerarchica che mi separava da lui. Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi più una parola.«Ma non è niente» disse il caporale, e risalì sul mucchio.Si era appena affacciato che fu accolto da una salva di fucileria. Gli austriaci, richiamati dalla precedente apparizio-ne, attendevano coi fucili puntati. Il caporale rimase incolume. Impassibile, le braccia appoggiate sul parapetto, il petto scoperto, continuava a guardare di fronte.

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«Bravo! – gridò il generale. – Ora, puoi scendere».Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte. Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava:«Non è niente, signor tenente».Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio.«È un eroe, – commentò il generale. – Un vero eroe».Quando egli si drizzò, i suoi occhi, nuovamente si incontrarono coi miei. Fu un attimo. In quell’istante, mi ricordai d’aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale.«È un eroe autentico», continuò il generale.Egli cercò il borsellino e ne trasse una lira d’argento.«Tieni, – disse, – ti berrai un bicchiere di vino, alla prima occasione».Il ferito, con la testa, fece un gesto di rifiuto e nascose le mani. Il generale rimase con la lira fra le dita, e, dopo un’esitazione, la lasciò cadere sul caporale. Nessuno di noi la raccolse.

E. Lussu, Un anno sull’altipiano, Einaudi, Torino 1989

Mario Rigoni Stern, La ritirata dal fronte russoUno tra i romanzi di guerra più famosi, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern, è stato scritto in un campo di prigionia tedesco nel 1944 e pubblicato nel 1953. Giovane militare allora impegnato sul fronte russo, l’autore racconta il dramma di un gruppo di alpini italiani, tra cui egli stesso, impegnati in un lungo itinerario compreso tra il fiume Don e il fiume Donetz nel tentativo di tornare in patria durante l’inverno 1942-1943.

Il sole nel cielo limpido ci riscalda le membra indolenzite e si continua a camminare. Che giorno è oggi? E dove siamo? Non esistono date né nomi. Solo noi che si cammina. Passando per un villaggio vediamo dei cadaveri

davanti agli usci delle isbe. Sono donne e ragazzi. Forse sorpresi così nel sonno perché sono in camicia. Le gambe e le braccia nude sono più bianche della neve, sembrano gigli su un altare. Una donna è nuda sulla neve, più bian-ca della neve e vicino la neve è rossa. Non voglio guardare, ma loro ci sono anche se io non guardo. Una giovane è con le braccia aperte, e ha sul viso un lino bianco. Ma perché questo? Chi è stato? E si continua a camminare.Passiamo per una valletta stretta e deserta. Cammino con angoscia, vorrei che se ne fosse già fuori; mi sembra di soffocare. Guardo da tutte le parti con apprensione. Ascolto e trattengo il fiato. Vorrei correre. Mi aspetto di veder comparire da un momento all’altro le torrette dei carri armati e di sentire la raffica delle mitragliatrici. Ma passiamo. Ho fame. Quando ho mangiato l’ultima volta? Non ricordo. La colonna passa tra due villaggi distanti tra loro pochi chilometri. Lì ci sarà certamente qualcosa da mangiare. Dalla colonna si staccano dei gruppetti che vanno verso i villaggi in cerca di cibo. Gli ufficiali gridano, dicono che potrebbero esservi dei partigiani o delle pattuglie russe. Soldati del mio plotone vanno anch’essi in cerca di cibo. Durante una breve sosta ci fermiamo a bere ad un pozzo e poi vado a un’isba che mi sembra la più vicina. Ma è una delle più vistose ed è stata già visitata da molti […]. Si cammina e viene ancora la notte. È freddo: più freddo di sempre, forse quaranta gradi. Il fiato si gela sulla barba e sui baffi; con la coperta tirata sulla testa si cammina in silenzio. Ci si ferma, non c’è niente. Non alberi, non case, neve e stelle e noi. Mi butto sulla neve. Chiudo gli occhi sul niente. Forse sarà così la morte o forse dormo. Sono in una nuvola bianca. Ma chi mi chiama? Chi mi dà questi scossoni? Lasciatemi stare. «Rigoni. Rigoni. Rigoni! In piedi. La colonna è partita. Svegliati, Rigoni». È il tenente Mosconi che mi chiama quasi con angoscia e aprendo gli occhi lo vedo cur-vo su di me. Mi dà un paio di scossoni e vedo bene il suo viso ora, e i due occhi scuri che mi fissano, la barba dura e lucente di brina, la coperta sopra la testa. «Rigoni, prendi, – dice. E mi dà due piccole pastiglie. – Inghiotti, fatti forza, avanti». Mi alzo, cammino con lui e a poco a poco raggiungiamo la compagnia e capisco tutto… Ma quanti che si sono buttati nella neve non si alzeranno più? Cenci e Mosconi mi fanno salire su un cavallo. Ma è peggio che cammina-re; temo di congelarmi, ridiscendo e cammino. Cenci mi dà una sigaretta e fumiamo. «Dì Rigoni, che cosa deside-reresti adesso?» Sorrido, sorridono anche loro. La sanno la risposta, perché altre volte l’ho detta camminando nella notte. «Entrare in una casa, in una casa come le nostre, spogliarmi nudo, senza scarpe, senza giberne, senza coper-te sulla testa; fare un bagno e poi mettermi una camicia di lino, bere una tazza di caffè-latte e poi buttarmi in un

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letto, ma un letto vero con materassi e lenzuola, e grande il letto e la stanza tiepida con un fuoco vivo e dormire, dormire e dormire ancora. Svegliarmi, poi, e sentire il suono delle campane e trovare la tavola imbandita: vino, pastasciutta, frutta: uva, ciliege, fichi e poi tornare a dormire e sentire una bella musica». Cenci ride, Antonelli ride e anche i miei compagni ridono. «Eppure lo voglio fare, se ci ritorno, – dice Cenci, – e poi, – aggiunge, – un mese di mare alla spiaggia, sulla sabbia tutto nudo, con il sole che brucia». Intanto camminiamo e Cenci vede il mare verde e io ho un letto. Ma Mosconi è serio, è il più consapevole tra noi, ha i piedi nella neve e vede steppa, alpini, muli e neve.

M. Rigoni Stern, Il sergente nella neve, Einaudi, Torino 1998

Mohandàs Karamchand Gandhi, Lettera a HitlerIn una lettera indirizzata a Hitler al principio degli anni Quaranta, Gandhi spiega i princìpi nonviolenti che guidano la sua azione, invitando il Führer a una politica di pace.

Caro amico, se vi chiamo amico, non è per formalismo. Io non ho nemici. Il lavoro della mia vita da più di tren-tacinque anni è stato quello di assicurarmi l’amicizia di tutta l’umanità, senza distinzione di razza, di colore o

di credo. Spero che avrete il tempo e la voglia di sapere come una parte importante dell’umanità che vive sotto l’influenza di questa dottrina di amicizia universale considera le vostre azioni. Non dubitiamo della vostra bravura e dell’amore che nutrite per la vostra patria e non crediamo che siate il mostro descritto dai vostri avversari. Ma i vostri scritti e le vostre dichiarazioni, come quelli dei vostri amici e ammiratori, non permettono di dubitare che molti dei vostri atti siano mostruosi e che attentino alla dignità umana, soprattutto nel giudizio di chi, come me, crede all’amicizia universale. È stato così con la vostra umiliazione della Cecoslovacchia, con l’occupazione della Polonia e l’assorbimento della Danimarca. Sono consapevole del fatto che, secondo la vostra concezione della vita, quelle spoliazioni sono atti lodevoli. Ma noi abbiamo imparato sin dall’infanzia a considerarli come atti che degradano l’umanità. In tal modo non possiamo augurarci il successo delle vostre armi. Ma la nostra posizione è unica. Noi resistiamo all’imperialismo britannico quanto al nazismo. Se vi è una differenza, è una differenza di grado. Un quinto della razza umana è stato posto sotto lo stivale britannico con mezzi inaccettabili. La nostra resistenza a questa oppressione non signi-fica che noi vogliamo del male al popolo britannico. Noi cerchiamo di convertirlo, non di batterlo sul campo di battaglia. La nostra rivolta contro il dominio britannico è fatta senza armi. Ma che noi si riesca a convertire o meno i britannici, siamo comunque decisi a rendere il loro dominio impossibile con la non cooperazione non violenta. Si tratta di un metodo invincibile per sua natura. Si basa sul fatto che nessun sfruttatore potrà mai raggiungere il suo scopo senza un minimo di collaborazione, volontaria o forzata, da parte della vittima. I nostri padroni possono possedere le nostre terre e i nostri corpi, ma non le nostre anime. Essi non possono possedere queste ultime che sterminando tutti gli indiani, uomini, donne e bambini. È vero che tutti non possono elevarsi a tale grado di eroismo e che la forza può disperdere la rivolta, ma non è questa la questione. Perché se sarà possibile trovare in India un numero conveniente di uomini e di donne pronti, senza alcuna animosità verso gli sfruttatori a sacrificare la loro vita piuttosto che piegare il ginocchio di fronte a loro, queste persone avranno mostrato il cammino che porta alla liberazione dalla tirannia violenta. Vi prego di credermi quando affermo che in India trovereste un numero inaspettato di uomini e donne simili. Essi hanno rice-vuto questa formazione da più di vent’anni. Con la tecnica della non violenza, come ho detto, la sconfitta non esiste. Si tratta di un “agire o morire senza uccidere né ferire”. Essa può essere utilizzata praticamente senza denaro e senza l’aiuto di quella scienza della distruzione che voi avete portato a un tale grado di perfezione. Io sono stu-pito dal fatto che voi non vediate come questa non sia monopolio di nessuno. Se non saranno i britannici, sarà qualche altra potenza a migliorare il vostro metodo e a battervi con le vostre stesse armi. Non lascerete al vostro popolo un’eredità di cui potrà andare fiero. Non potrà andare orgoglioso raccontando atti crudeli, anche se abil-mente preparati. Vi chiedo dunque in nome dell’umanità di cessare la guerra. In questa stagione in cui i cuori dei popoli d’Europa implorano la pace, noi abbiamo sospeso anche la nostra stessa lotta pacifica. Non è troppo chie-dervi di fare uno sforzo per la pace in un momento che forse non significherà nulla per voi, ma che deve significa-re molto per i milioni di europei di cui io sento il muto clamore per la pace, perché le mie orecchie sono abituate a sentire le masse silenziose.

in R. Payne, Gandhi, Seuil, Parigi 1972

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Mohandàs Karamchand Gandhi, Il digiuno contro la violenzaAll’ondata di violenze tra indù e musulmani seguita alla fine del dominio inglese e alla divisione del paese in due Stati (India e Pakistan) il Mahatma Gandhi reagì, in un discorso pronunciato il 12 gennaio 1948, pochi mesi prima d’essere assassinato, annunciando la propria volontà di intraprendere un digiuno fino alla morte se gli scontri interreligiosi non fossero cessati.

Quando, il 9 settembre, sono tornato a Delhi da Calcutta […], la gaia Delhi pareva una città di morti. Come smon-tai dal treno, vidi la tristezza dipinta su ogni faccia che mi si parava davanti […]. Sardar […] non perse tempo a

darmi le tristi nuove dei disordini che avevano avuto luogo nella capitale dell’Unione. Mi resi subito conto che do-vevo restare a Delhi e “agire o morire”. Il pronto intervento dei militari e della polizia ha ormai ristabilito una calma apparente. Ma c’è tempesta nei cuori. Può esplodere ogni giorno. Non è così che si realizza il voto dell’“agire” […]. Io anelo a una sincera amicizia tra indostani, sikhs e musulmani. L’altro giorno tale amicizia esisteva. Oggi non c’è più. È uno stato che nessun patriota indiano degno di questo nome può contemplare con rassegnazione […]. Di-giunare è la sua ultima risorsa al posto della spada, sua o di chiunque […]. Nessun uomo, se è puro, ha nulla di più prezioso della vita da offrire. Io spero e prego di avere in me la purezza che può giustificare il mio passo […]. Il periodo è indefinito […]. Terminerà quando e se potrò verificare che si sarà arrivati, senza alcuna pressione esterna, ma con un ridestato senso del dovere, all’unità dei cuori di tutte le comunità. Il premio sarà costituito dal recupero del declinante prestigio dell’India e della sua autorità sempre più incerta nel cuore dell’Asia e quindi nel mondo intero. Mi illudo di credere che la perdita dell’anima dell’India significherà la perdita della speranza del mondo sofferente, scosso dalla tempesta e affamato […]. Se tutta l’India risponderà o se almeno lo farà Delhi, il digiuno potrà terminare presto […]. Digiuno perché devo. Quindi, invito tutti a considerare spassionatamente il fine e la-sciarmi morire, se così è scritto, nella pace che mi verrà assicurata. La morte, per me, sarà una splendida liberazione, se in alternativa dovessi assistere impotente alla distruzione dell’India, dell’Induismo, del Sikkismo e dell’Islam. Quella distruzione è certa, se il Pakistan non assicurerà uno stato di equità e di sicurezza di vita e di proprietà a tutti coloro che professano le varie fedi del mondo, e se l’India non lo imiterà. Solo che, in tal caso, l’Islam mori-rebbe nelle due Indie, non nel mondo. Ma l’Induismo e il Sikkismo non hanno mondo fuori dall’India. Onorerò chi diverge da me per la sua opposizione, per implacabile che possa essere. Che il mio digiuno ravvivi le coscienze, anziché assopirle. Contemplate solo il marciume che sta sommergendo l’amata India e vi rallegrerete al pensiero che vi è un suo umile figlio abbastanza forte e magari abbastanza puro per intraprendere il felice passo. Se nemmeno lui lo è, è un peso per la terra. Prima sparirà e libererà l’atmosfera indiana del proprio peso, meglio sarà per lui e per tutti gli interessati. Vorrei chiedere a tutti gli amici di non […] cercare di dissuadermi, né di stare in ansia per me. Sono nelle mani di Dio. Piuttosto, dovrebbero rivolgere i riflettori dentro di sé, perché questo è essenzialmente un tempo di prova per tutti noi. Quelli che rimarranno al proprio posto ed eseguiranno con diligenza e scrupolo il proprio dovere, adesso a maggior ragione di prima, aiuteranno me e la causa nel modo migliore.

M.K. Gandhi, Discorso alla vigilia dell’ultimo digiuno, in Id., La voce della verità, Newton Compton, Roma 1991

Bertrand Russell, Lettera ai potenti della terraIl filosofo Bertrand Russell, impegnato in numerose iniziative a favore della pace, nel 1957 indirizza una lettera ai leader di Stati Uniti e Unione Sovietica: di fronte alla possibilità di una proliferazione di armamenti e conflitti, manifesta la necessità di procedere a un disarmo nucleare su scala mondiale.

Potentissimi signori,mi rivolgo a Voi come ai rispettivi capi delle due nazioni più potenti del mondo. Coloro che guidano la politica

di questi paesi detengono un potere, per il bene o per il male, quale nessun uomo o gruppo di uomini ha mai fi-nora posseduto […]. Io sono persuaso che Voi, da uomini lungimiranti e intelligenti, dovete aver compreso come le questioni in cui gli interessi della Russia e dell’America coincidono siano assai più importanti di quelle in cui essi vengono ritenuti contrastanti […].1. La suprema preoccupazione degli uomini d’ogni tendenza dev’essere oggi quella di assicurare alla razza umana la possibilità di continuare ad esistere. La sopravvivenza della specie è già, infatti, minacciata dalla ostilità tra Orien-te e Occidente […]. Una guerra mondiale porterebbe non già alla vittoria dell’uno o dell’altro contendente, ma allo sterminio di entrambi. Nessuno di essi può auspicare un tale cataclisma […]. 2. Lo stato di anarchia internazionale,

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cui inevitabilmente darà luogo la diffusione illimitata delle armi nucleari, non giova agli interessi né della Russia né dell’America. Ci fu un tempo in cui soltanto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica possedevano tali armi. Oggi solo gli Stati Uniti, l’Unione Sovietica e l’Inghilterra le possiedono. È evidente che, se non si prendono provvedimenti, la Francia e la Germania saranno in grado tra breve di costruire queste armi. Né si può ritenere probabile che la Cina tardi molto a mettersi alla pari. Non v’è dubbio che la fabbricazione di strumenti di distruzione di massa è destina-ta, nel giro di pochi anni, a diventare più economica e più facile. Egitto e Israele saranno allora in grado di seguire l’esempio delle grandi potenze. La stessa cosa faranno gli stati dell’America del Sud. È un processo che non avrà fine finché tutti indistintamente gli stati sovrani non saranno in condizioni di dire al resto del mondo: «Se non cedi alle mie richieste ti farò perire» […]. 3. Finché la paura di un conflitto mondiale domina la scena politica e l’unico deterrente è la minaccia di uno ster-minio universale, non sarà possibile porre fine allo spreco di beni materiali e di umane energie che l’apprestamento di ordigni di distruzione comporta […]. Se questi due paesi non trovano il modo di attenuare l’ostilità che oggi li divide, la paura reciproca li spingerà sempre più avanti nella corsa agli armamenti, finché, a parte questi, nulla re-sterà alle popolazioni di ciascuna nazione oltre al minimo indispensabile per vivere […]. Una simile prospettiva si-gnifica la morte delle speranze condivise da quanti hanno fede ancor oggi in quelle aspirazioni su cui il progresso umano, fin dagli albori della storia, si è sempre fondato […]. 4. Occorre una cosa sola per disperdere le tenebre e far rivivere il mondo nella luce radiosa della speranza. L’unica condizione necessaria è che Oriente e Occidente ricono-scano i loro rispettivi diritti, e si risolvano, per diffondere le loro rispettive ideologie, a ricorrere, invece che alla forza, alla persuasione. Non occorre che l’una o l’altra parte abbandoni il proprio credo. Occorre soltanto che ab-bandoni il tentativo di diffonderlo con la forza delle armi. Ciò che propongo, signori, è che Vi incontriate per di-scutere con franchezza le condizioni della coesistenza, senza più tentare di assicurare alla Vostra parte questo o quel vantaggio, più o meno fraudolento, ma adoperandoVi invece per raggiungere quegli accordi e quelle sistemazioni internazionali capaci di diminuire la possibilità di futuri attriti.

B. Russell, Lettera ai potenti della terra, Einaudi, Torino 1958

John Fitzgerald Kennedy, La nuova frontieraNel discorso di presentazione alle Camere del 30 gennaio 1961 Kennedy, tra continuità e rotture con le precedenti amministrazioni, espone il suo programma preannunciando una politica di “distensione” della quale, pur tra alcune contraddizioni, si renderà protagonista.

Il più grande compito che ci si pone è ora rappresentato dal mondo che sta al di là della guerra fredda, ma il pri-mo grande ostacolo è tuttora costituito dalle nostre relazioni con l’Unione Sovietica e la Cina comunista. Non

dobbiamo mai lasciarci indurre a credere che l’una o l’altra potenza abbia rinunciato alle sue ambizioni che esse hanno vigorosamente riaffermato solo pochi giorni fa. Al contrario, il nostro compito è convincerle che l’aggressio-ne e la sovversione non rappresentano metodi vantaggiosi per perseguire tali fini. Tutt’altra cosa è una aperta e pacifica competizione: per il prestigio, per i mercati mondiali, per il progresso scientifico, financo per conquistare la mente degli uomini. Che, se la libertà e il comunismo si trovassero a gareggiare tra loro per conquistarsi la fedel-tà degli uomini in un mondo di pace, guarderei al futuro con sempre crescente fiducia [...].In primo luogo dobbiamo rafforzare i nostri strumenti militari [...]. In secondo luogo, dobbiamo migliorare i nostri strumenti economici. La nostra funzione è essenziale e inevitabile nella costruzione di una economia sana ed espan-siva in tutto il mondo non comunista, aiutando le altre nazioni a creare la forza necessaria per risolvere i loro pro-blemi, per soddisfare le loro aspirazioni e superare i pericoli che le minacciano. I problemi cui ci troviamo di fronte nel perseguire tale obiettivo sono giganteschi e senza precedenti: anche la risposta deve essere gigantesca e senza precedenti, così come negli anni scorsi lo furono il programma “affitti e prestiti” e il piano Marshall [...]. In terzo luogo, dobbiamo perfezionare i nostri strumenti politici e diplomatici: quei mezzi di collaborazione e di accordo sui quali deve in definitiva poggiare un ordine mondiale veramente sicuro.A) Ho già intrapreso passi per coordinare e ampliare il nostro sforzo per il disarmo, per incrementare i nostri pro-grammi di ricerca e di studio e per fare del controllo degli armamenti un obiettivo centrale della nostra politica nazionale, sotto la mia personale direzione. La micidiale corsa agli armamenti, e le vaste risorse che essa assorbe hanno per troppo tempo messo in ombra tutte le altre cose che noi facciamo. Dobbiamo impedire che la corsa agli armamenti si estenda a nuove nazioni, a nuove potenze nucleari e alle regioni dello spazio […]. B) Dobbiamo aumentare il nostro appoggio alle Nazioni Unite come strumento per porre fine alla guerra fredda, e non già come arena in cui combatterla. In riconoscimento della loro crescente importanza e del raddoppiamento

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del numero dei loro membri stiamo allargando e rafforzando la nostra delegazione alle Nazioni Unite; contribuire-mo ad assicurare che esse siano adeguatamente finanziate; ci adopereremo per far sì che venga mantenuta l’inte-grità delle funzioni del segretario generale. Inoltre, io vorrei indirizzare alle piccole nazioni del mondo uno speciale appello perché si uniscano a noi nel potenziare questa organizzazione, che è assai più essenziale per la loro sicu-rezza che per la nostra […]. C) Infine, questa amministrazione intende esplorare con sollecitudine tutti i possibili settori di collaborazione con l’Unione Sovietica e le altre nazioni, al fine di “suscitare i prodigi anziché gli orrori della scienza” […]. Oggi il nostro paese è all’avanguardia nella scienza e nella tecnologia dello spazio, mentre l’Unione Sovietica è all’avanguardia nella capacità di collocare in orbita grandi vettori spaziali. Entrambe le nazioni farebbero il proprio interesse, oltre che quello degli altri paesi, se affrancassero queste imprese dall’aspra e dispendiosa competizione della guerra fred-da […]. Là dove la natura fa di noi tutti dei naturali alleati, possiamo dimostrare che relazioni benefiche sono pos-sibili anche con coloro dai quali più profondamente dissentiamo: e questa dovrà essere presto o tardi la base della pace e della legge nel mondo.

J.F. Kennedy, Programma alle Camere, in Id., La nuova frontiera, Manifestolibri, Roma 1997

Artem Borovik, I russi in AfghanistanNel diario di guerra redatto negli ultimi mesi della guerra in Afghanistan (1979-1989), il giornalista russo Artem Borovik riflette sulla capacità generale degli eventi bellici di cambiare l’uomo e sulla particolare influenza di quella guerra sulle giovani generazioni sovietiche.

È difficile individuare precisamente cosa noi sovietici siamo riusciti a insegnare all’Afghanistan, mentre è assai più facile stabilire il grado dell’influsso che l’Afghanistan ha esercitato sui sovietici che hanno combattuto e lavora-

to laggiù […]. Il tempo passava e noi assomigliavamo sempre più a dei cercatori d’oro che, pur sapendo per certo che non c’è nessun filone lì dove stanno scavando, continuano a scavare con ancor maggiore accanimento. La guerra è durata nove lunghi anni, il che equivale a quasi un ottavo della storia dell’Unione Sovietica. Nel 1980 i soldati della Quarantesima armata avevano la mia stessa età: la maggior parte di essi non aveva ancora compiuto vent’anni. Ma l’ultima volta che sono stato in Afghanistan, mi sono accorto […] che i soldati della Quarantesima erano più giovani di me di dieci anni. Una generazione di giovani russi era entrata in Afghanistan nel 1979, e la generazione che l’ha abbandonato era un’altra, completamente diversa. Stando alle statistiche ufficiali, durante questa guerra abbiamo perduto […] circa quindicimila uomini, e ne sono stati feriti trentamila […]. Il volontarismo politico ci è costato circa sessanta miliardi di rubli. E queste perdite non si possono nemmeno paragonare a ciò che in Afghanistan abbiamo perduto dal punto di vista morale […]. In Afghanistan noi abbiamo bombardato non tanto i reparti o le carovane degli insorti, quanto piuttosto i nostri ideali. Questa guerra è divenuta, per noi, un’amara occasione per riesaminare tutti quanti i nostri valori etici. Proprio in Afghanistan i fondamenti morali della nostra nazione sono entrati in stridente contraddizione con gli interessi dello stato, che si rivelavano diametralmente op-posti agli interessi del popolo. Come ha osservato un generale nonché studioso di storia […], a tutte le guerre che la Russia ha perduto han fatto seguito, nel paese, innovazioni progressiste, mentre a tutte quelle che la Russia ha vinto, ha fatto seguito un rin-saldarsi del totalitarismo […]. M’è capitato spesso di incontrare persone che cercavano un aspetto positivo di questa guerra. Uno mi disse: «Non tutto il male viene per nuocere. Se non avessimo mandato qua l’esercito, l’avremmo mandato di sicuro in Polonia. E sarebbe stata un catastrofe ancora peggiore». Altri sostengono che in Afghanistan abbiamo almeno potuto sperimentare e perfezionare molte armi di tipo nuovo e tutta quanta la nostra tecnica di combattimento. Ma costoro non sono molti […] e d’altronde non è stata soltanto la guerra a danneggiare la nostra morale. Ma anche le menzogne ufficiali che i giornali hanno continuato a diffondere per anni in merito a questa guerra. Non voglio dar la colpa ai giornalisti. Ogni volta che uno di noi tentava di scrivere la verità, la censura mi-litare riusciva subito, e con notevole maestria, a trasformare le sue parole in menzogna.Ogni uomo a cui sia toccato di trascorrere un periodo di tempo prolungato in Afghanistan, o di venirci regolarmen-te, è passato attraverso quattro fasi di comprensione di quel che avveniva laggiù. Prima fase (durata media: fino a tre mesi, a seconda della perspicacia o del dogmatismo del soggetto): «La guerra sta andando benino, basta che mandino qua altri venti o trentamila soldati e la finiamo una volta per tutte». Seconda fase (durata media: cinque mesi): «Bè, dato che ormai siamo dentro fino al collo in quest’impresa pazzesca, la miglior cosa è finire la guerra il prima possibile. Trentamila uomini non basteranno, mi sa. Per proteggere sul serio il nostro confine, qua ci vuole almeno un’altra armata». Terza fase (altri sei mesi): «No, ragazzi, qui c’è qualcosa che non va per niente. Ma guar-

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da in che razza di guaio ci siamo andati a cacciare!». Quarta fase: «Gente, qua bisogna tagliar la corda. E prima è meglio è». Attraverso queste quattro fasi sono passato anch’io […] durante il mio invio in Afghanistan […] durante il quale ho avuto modo di assistere alla fase conclusiva del ritiro delle truppe sovietiche […]. È il racconto […] di ciò che l’uomo fa in guerra. E di ciò che la guerra fa all’uomo.

A. Borovik, Afghanistan. La guerra nascosta, Leonardo, Milano 1990

Roberto Cavalieri, Una guerra uguale all’altraLa realtà autentica delle guerre combattute nel continente africano viene spesso ignorata dai media. L’opinione pubblica è spesso incapace di affrontare ciascuna singola “realtà di guerra” abbandonando gli stereotipi a favore di una riflessione più profonda e specifica.

Le valanghe di massacri, fughe di persone, bambini di strada, stupri ci aggrediscono e ci fanno perdere l’orienta-mento. Nessuna sostanziale differenza, è il risultato, tra una guerra in Rwanda o in Burundi, tra una Liberia in

fiamme e una Somalia in mano ai signori della guerra. I nostri ricettori cerebrali si abituano a classificare tutti que-sti avvenimenti nel medesimo modo. E la reazione naturale diventa un ragionevole allontanamento dagli stessi. È il trionfo in mondovisione della giustificazione etnica e del suo volto più rozzo, il tribalismo. Riuscire a ragionare attorno alle crisi che avvolgono cronicamente l’Africa dei Grandi Laghi, il Sud del mondo dopo Berlino, significa saper comprendere il contesto mondiale nel quale viviamo. Un contesto in perenne e velocissima evoluzione. La globalizzazione delle finanze, delle comunicazioni, dello sviluppo è forse il prodotto dagli effetti più devastanti del nuovo mondo post-comunista.«Se l’Africa scomparisse come Atlantide sotto l’oceano, il mondo non se ne accorgerebbe, poiché rappresenta solo il 2 per cento del commercio mondiale», scriveva «The Economist» nel 1991. Un cinico adagio specifica ancor meglio il ruolo marginale dell’Africa: «I paesi africani consumano quello che non producono e producono quello che non consumano». Africa dunque “fuori” da questo sistema globale. Oppure dentro solo nelle vesti di continente disca-rica, dove esportare eccedenze, rifiuti tossici, armi insieme alle nostre certezze postcoloniali, umanitarie o liberali che siano. La scelta di rappresentare le vicende africane sotto la maledizione dell’odio etnico e della miseria, mo-strando al mondo soltanto le sfaccettature negative, non è certo innocente, istilla una mentalità fatalista, l’idea di spreco enorme dell’elemento umano e finanziario: insomma, un costo esorbitante per il mondo.Il dramma non compreso della crisi dei Grandi Laghi sta nella miopia dell’informazione, e di conseguenza della paralisi della politica internazionale. Non solo i grandi media fanno il gioco dei belligeranti, lasciandosi usare per diffondere l’idea etnica dei conflitti, ma non sapranno nemmeno contestualizzare gli avvenimenti. Nessuna lettura economica o finanziaria è stata presa in considerazione in tre anni di disordini che hanno generato un milione di morti e tre milioni di profughi. Mentre il mondo mutava i suoi assetti politici ed economici dopo la caduta del muro di Berlino, l’Africa riceveva un’ulteriore spinta verso la deriva, considerato come continente dalle risorse economiche scadenti.Negli ultimi sette anni, una cinquantina di conflitti armati sono continuati a esistere in questo nostro mondo, dal-lo Sri Lanka al Sudan, dal Chiapas a Timor Est, dalla Sierra Leone ai chakma del Bangladesh. Guerre geograficamen-te lontane, presentano una medesima caratteristica: si combatte all’interno del paese. Un fatto non da poco che rende ancora più intricate le ragioni degli scontri e la necessità, per comprenderli, di calarsi nelle singole realtà lo-cali. Per il giornalismo questo particolare non conta. Così branchi di reporter che si muovono per il mondo all’inse-guimento del massacro fotogenico tratteranno le guerre tutte allo stesso modo. Non solo non esistono differenze tra un massacro in Rwanda e uno in Sri Lanka, ma il loro dolore sarà compresso in un servizio televisivo di trenta secondi o in un articolo di sessanta righe.

R. Cavalieri, Balcani d’Africa. Burundi, Rwanda, Zaire: oltre la guerra etnica, Edizioni Gruppo Abele, Torino 1997

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Bilijana Srbljanovic, Verità e regimeIl diario che la dissidente del regime serbo di Milosevic Bilijana Srbljanovic tenne sul quotidiano «la Repubblica» tra l’aprile e l’agosto 1999, durante la guerra del Kosovo, è particolarmente significativo perché costituisce una riflessione “dall’interno” sulle particolari capacità di una dittatura di manipolare e gestire l’informazione a proprio vantaggio.

Belgrado (18 maggio). Oggi dal fornaio, mentre stavo in fila per comprare il pane, si sentivano le notizie dalla radio. Le notizie ufficiali, le informazioni di regime, lette da un annunciatore concitato, che si potevano conden-

sare in una frase: «Stiamo vincendo su tutti i fronti!». Nessuno che abbia un po’ di buonsenso prende sul serio que-sti notiziari, composti da cliché e frasi fatte che vengono ripetuti solennemente come se questo potesse trasformare le falsità in realtà. Appena è arrivato il mio turno per comprare i panini (intanto tutti gli altri tipi di pane erano stati venduti) dalla stessa radio ho sentito la conosciutissima sigla di Radio B92: Notizie, ascolta con attenzione! B92 era la più famosa stazione radio indipendente, alla cui chiusura abbiamo assistito in diretta la notte del primo bombar-damento, quando è arrivata la polizia, ha arrestato l’editore e sequestrato tutto ciò che ha trovato. La chiusura di questo mezzo di comunicazione della Serbia indipendente, forse il più importante, ha dato il via a una censura spie-tata e al terrore di regime esercitato su tutti i media. Pochi giorni dopo, tutta la gente (giovane, intelligente e labo-riosa) che lavorava a B92 veniva licenziata, e il regime – come se ciò fosse del tutto legale e consentito – imponeva un nuovo direttore, un nuovo editore e nuovi impiegati ubbidienti. La radio ha continuato le sue trasmissioni – ma con nuovi programmi – con la vecchia struttura. Le sigle, gli spot e tutti i segni noti della radio sono rimasti identici. È “solo” cambiata la sostanza. Adesso ascoltiamo “con attenzione” le notizie false, dei giornalisti falsi che non cre-dono nemmeno a loro stessi quando pronunciano tutte quelle stupidaggini. Il furto d’identità di un’altra persona, il mimetismo, la trasformazione camaleontica della gente che sta in stretti rapporti con il regime, sono già conosciute da tanto tempo in questo paese […]. Quando il nuovo direttore è entrato a Radio B92, l’unica cosa che ha cambiato è stata la redazione. Così è cambiato il profilo dei media in Serbia seminando confusione tra i più ingenui. Molti tra quelli che erano abituati a credere ciecamente in questa radio, sbagliavano, credendo acriticamente alle notizie fal-sificate che si sentono sulla stessa frequenza e sulla stessa onda. Quel famoso Ascolta con attenzione! si è trasferito in una nuova dimensione: permanente, ascoltiamo con attenzione, ma non dobbiamo credere a tutto ciò che potreb-be assomigliare alla verità, a prescindere da come ci viene presentata. Il nuovo direttore si è trovato subito bene nelle nuove condizioni. Ha conquistato l’ufficio dell’uomo che ha cacciato via […] ma dai muri non ha tolto i tanti riconoscimenti internazionali che questa radio ha vinto per anni, e sui quali campeggiano i nomi della gente caccia-ta via. Ha preso la sua matita dal cassetto, ha preso il suo blocco per appunti e a lettere nere ha scritto il suo nome sul nostro oscuro presente. Mentre camminavo verso casa con i miei panini pensavo: che razza di gente è questa? Chi sono, questi ladri delle nostre vite, questi che come una massa viscida si introducono dentro i nostri corpi, nei modelli di cultura che noi abbiamo creato? Che specie di uomo è quello che in una mattina decide che tutto quello che vede gli appartiene, e quando il suo sguardo si distende sulle vite, case e territori degli altri, comincia a credere in se stesso e nelle sue bugie, e con violenza inizia a sequestrare tutto? E a cosa gli serve tutto questo? Come può essere felice, come può dormire tranquillo, come sopporta se stesso, l’ultimo testimone dei suoi misfatti? Oggi ero particolarmente arrabbiata con il ladro della nostra libertà. Se per caso l’avessi incontrato, gli avrei tirato addosso quei panini duri come la pietra, e lo avrei colpito, sicuramente. Poi mi sono seduta e ho mangiato i panini. Chissà, forse con questa mia colazione mi sono lasciata sfuggire l’occasione di cambiare il corso della storia.

B. Srbljanovic, Diario da Belgrado, Baldini & Castoldi, Milano 2000

Dalai Lama, La necessità della paceIn un discorso tenuto nel 1989 in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, il XIV Dalai Lama Tenzin Ghiatzo, massima autorità del buddismo, ripercorre le principali tappe della propria vita e sottolinea la discriminazione di cui il popolo tibetano è vittima fin dal 1949, a seguito dell’invasione e dell’occupazione cinese.

L’assegnazione […] del premio Nobel a me, un semplice monaco originario del lontano Tibet, riempie di speranza i tibetani […]. Da quarant’anni il Tibet è sotto l’occupazione straniera […]. Durante questo lungo periodo, i tibe-

tani sono stati privati dei loro diritti umani più fondamentali, compreso il diritto alla vita e alle libertà di movimento,

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di espressione e di culto […]. Più di un sesto dei sei milioni della popolazione del Tibet è morto come risultato diret-to dell’invasione e occupazione cinese. Ancor prima che iniziasse la Rivoluzione culturale, molti monasteri, templi ed edifici storici del Tibet furono distrutti. Quasi tutti quelli restanti sono stati distrutti durante la Rivoluzione culturale […]. Malgrado la limitata libertà accordata dopo il 1979 di ricostruire parti di alcuni monasteri e altri segni di libera-lizzazione di questo tipo, i diritti umani fondamentali del popolo tibetano sono tuttora sistematicamente violati […]. Se non fosse per la nostra comunità in esilio, così generosamente ospitata e sostenuta dal governo e dal popolo dell’India e aiutata da organizzazioni e individui di molte parti del mondo, la nostra nazione sarebbe soltanto poco più dei resti frantumati di un popolo. La nostra cultura, la nostra religione e la nostra identità nazionale sarebbero state eliminate del tutto […]. Un problema che risulta di massima urgenza […] è il massiccio afflusso di coloni cinesi nel Tibet. Nonostante nei primi decenni dell’occupazione un notevole numero di cinesi si sia trasferito nelle parti orientali del Tibet […] dal 1983 un numero senza precedenti di cinesi è stato incoraggiato dal loro governo a immi-grare in tutte le parti del Tibet, compreso il Tibet centrale e occidentale […]. I tibetani sono stati rapidamente ridot-ti a un’insignificante minoranza nella loro stessa patria […]. Il mio sogno è trasformare l’intero altopiano tibetano in un libero rifugio in cui la specie umana e la natura possano vivere in pace e in armonioso equilibrio. Un luogo in cui le persone, provenienti da tutte le parti del mondo, potrebbero andare e cercare il vero significato della pace dentro se stessi, lontano dalle tensioni e dalle pressioni presenti nella maggior parte del resto del mondo. Il Tibet potrebbe veramente diventare un centro creativo per la promozione e lo sviluppo della pace. Finché durerà la spazio, e finché rimarranno degli esseri umani, fino ad allora possa rimanere anch’io a scacciare la sofferenza dal mondo.

Dalai Lama, Discorso in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, 1989

11 settembre 2001: i commenti della stampaQui di seguito viene proposta una breve rassegna stampa dei principali quotidiani statunitensi del 12 settembre 2001, all’indomani del clamoroso attacco suicida alle torri gemelle di New York, la più grande aggressione al mondo occidentale compiuta da gruppi terroristi islamici.

Il terrorismo non è una novità, ma l’escalation attuale rende chiaro che le usuali strategie difensive non sono più sufficienti, occorre rivederle completamente […]. Se a colpire le Twin Towers sono stati terroristi che si sono ap-

propriati di normali voli di linea USA, è obbligatorio domandarsi nuovamente se lo scudo stellare deve continuare a essere una priorità per l’amministrazione […]. Il Presidente e il Congresso devono attentamente bilanciare il biso-gno di aumentare la sicurezza e quello di difendere i diritti civili del popolo che include gli americani di origine islamica che non devono diventare il facile obiettivo di un nuovo periodo xenofobo. Il terrorismo è un fenomeno globale. Parte della sfida per gli Stati Uniti sta nel riconoscere che le radici del terrorismo nascono dai problemi economici e politici in una larga parte del mondo.

The National Defense (La difesa nazionale), in «The New York Times», 12 settembre 2001

La nazione deve rispondere, non facendosi prendere dal panico ma con ferrea determinazione nel difendere se stessa e punire i colpevoli. L’amministrazione Bush deve muoversi aggressivamente, come ha fatto ieri, per difen-

dere il paese da possibili altri attacchi. Con sobrietà e determinazione la nazione deve prepararsi a combattere la prima guerra del nuovo millennio, che deve cominciare con la punizione degli autori diretti ma che deve poi con-tinuare colpendo chi finanzia e protegge il terrorismo […]. Sebbene il nemico sia elusivo, l’attacco di ieri non dove-va, e non avrebbe dovuto essere, così inaspettato come lo fu Pearl Harbor. Vi erano dei segnali. Ci sono state larghe falle nella nostra organizzazione difensiva che andranno accuratamente individuate e rimediate.

America must reply (L’America deve rispondere), in «Washington Post», 12 settembre 2001

Il male attacca, la gente resiste all’assalto. L’America sotto pressione è sempre unita. Le giovani generazioni stanno vivendo la loro Pearl Harbor, il loro assassinio di Kennedy. Sicuramente gli adulti sentono salire quelle vecchie

paure. Ma, in tutta la nazione, abbracciano i bambini e condividono con loro la saggezza antica di quelle tragedie del passato. – Sì, sei appena stato testimone del male – dicono agli innocenti – ma fatti forza, il mondo sopravvi-verà –. Finora l’America era stata fortunata, a parte la guerra civile, tutte le battaglie della nostra storia si erano svolte altrove. Questo è il giorno che ha cambiato l’America.

Buildings collapsed, Democracy stands (I palazzi crollano, la democrazia resta in piedi), in «Los Angeles Times», 12 settembre 2001

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Una delle componenti essenziali nella nostra immagine del Medioevo è rappresentata dalla cavalleria, con i suoi rituali, le sue crudeltà e soprattutto i suoi vincoli morali e culturali. In alcuni casi e in alcuni periodi cavalleria e nobiltà sembrano presentarsi quasi come sinonimi. Jean Flori, uno dei massimi studiosi della cavalleria e dell’arte militare, si sofferma proprio su questo aspetto: in particolare, pone in rilievo il momento della chiusura della cavalleria al mondo esterno, tra i secoli XII e XIII, cercando di spiegarne i rapporti con i concomitanti processi di chiusura della aristocrazia.

L’accesso alla cavalleria rimane relativamente aperto fino alla fine del XII secolo. Tende tuttavia a chiudersi ai non

nobili e, nel XIII secolo, si assiste alla comparsa di limitazio-ni giuridiche sempre più precise nelle regioni in cui il potere politico è maggiormente consolidato e dove cominciano a na-scere le strutture di uno Stato. [...]A partire dalla metà del XIII secolo [...] non si può entrare nella cavalleria se non per nascita o per decisione regia o principesca.Che cosa stanno a significare queste restrizioni? Rinnovando la tesi di Marc Bloch, Alessandro Barbero rifiuta di vedervi la traduzione in norma giuridica di consuetudini accettate, quanto piuttosto quella di una volontà di limitare l’ascesa sociale, di sottrarla ai potenti. Di fatto, è questo il significato delle prerogative regie di ec-cezione. Con l’adoubement, aggiunge Barbero, si accede alla nobiltà per mezzo di una specie di cooptazione; così la caval-leria si trasforma in nobiltà: ormai, è nobile chi, armato cava-liere, discende da antenati cavalieri, o chi viene riconosciuto come tale dal principe. Ma è qui, ancora, la confusione fra nobiltà e cavalleria. L’adoubement, con l’eccezione delle di-spense dei sovrani, è ormai riservato ai figli dei nobili: è la prova che in questo momento la cavalleria diventa sinonimo di nobiltà, senza che sia vero il contrario; di fatto, l’esistenza di antenati nobili è sufficiente a stabilire lo statuto giuridico e sociale dei «nobili non armati cavalieri», che chiameremo «donzelli». La nobiltà diventa così con chiarezza uno statuto giuridico, dotato di privilegi ereditari acquisiti per diritto di nascita, in-dipendentemente dall’adoubement, che continua a definire l’ingresso nella cavalleria. Nel XIII secolo, tuttavia, l’aristo-crazia riserva ai propri figli questa funzione militare di guer-riero d’élite che [...] è più che mai divenuto un onore. Fino a

questo momento, la totalità dei cavalieri era lungi dall’esse-re nobile, e la cavalleria poteva, in certi casi, portare alla nobiltà. Ormai, nella maggior parte delle regioni dell’Europa occidentale, i cavalieri sono figli di nobili, fatte salve le ecce-zioni decretate dal principe, che d’altra parte diventano sem-pre più frequenti, ma, all’inverso, non tutti i nobili si fanno armare cavalieri ed entrano nella cavalleria.La metà del XIII secolo segna così il momento di equilibrio in cui nobiltà e cavalleria si sono confuse, [...].La cavalleria, nobile corporazione di guerrieri d’élite nei se-coli XI e XII, nel XIII si trasforma in corporazione di guerrieri nobili.Dopo il 1300, questo meccanismo si accentua: il numero dei cavalieri diminuisce, perché l’adoubement è costoso, fastoso, e gli oneri militari che toccano ai cavalieri sono tanto più pe-santi da sopportare in quanto la paga, fino a quel momento assai favorevole per i cavalieri, tende ad assumere lo stesso livello per tutti gli uomini d’arme. Secondo Philippe Contamine, fra il 1300 e il 1500 la propor-zione dei nobili armati cavalieri sarebbe così passata da un terzo a un ventesimo. Da quel momento, malgrado le pressio-ni e i regolamenti, numerosi nobili, anche dediti alla carriera delle armi, non si fanno più armar cavalieri e restano scudie-ri. Per coloro che vengono fatti cavalieri, l’adoubement inter-viene non per segnare l’ingresso nella carriera delle armi, ma per indicare un’onorificenza nel corso di tale carriera. Lo si pratica più spesso dopo, piuttosto che prima di una battaglia. La cavalleria diventa così una promozione decorativa che conferisce come ricompensa dei servigi resi o per ragioni di-plomatiche; dal momento che la nobiltà è sempre un requisito fisso per diventare cavalieri, ecco apparire, verso il 1300, le prime lettere di nobilitazione, privilegio regale. Non per que-sto la nobiltà si confonde con la cavalleria, ma ne costituisce ormai la base necessaria. Soltanto il re può nobilitare un ple-beo che, divenuto così nobile, potrà essere armato cavaliere da un altro cavaliere. [...]Alla fine del Medioevo, la cavalleria non è più, come nel XII secolo, la nobile corporazione di guerrieri d’élite a cavallo; non è più, come nel XIII secolo, la corporazione d’élite dei cavalieri nobili; si trasforma in confraternita d’élite della no-biltà, quella dei nobili armati cavalieri. Gli aspetti culturali e ideologici hanno vinto sugli aspetti fun-zionali. Gli ordini cavallereschi, dando il cambio alla cavalle-ria «ordinaria» che giudicano carente, accentuano ancora di più questi aspetti.La cavalleria diventa un’istituzione e, ben presto, un mito.

J. Flori, Cavalieri e cavalleria nel Medioevo, Einaudi, Torino 1999

Jean Flori, Cavalleria e nobiltàS T O R I O G R A F I A

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La cavalleria e il sistema di reclutamento feudale costituirono gli elementi di debolezza dell’apparato militare francese che sicuramente favorirono il perdurare del lungo confl itto dei Cent’anni con l’Inghilterra. Giovanni II il Buono tentò di risolvere alcuni degli inconvenienti posti dal reclutamento dell’esercito: la via segnata non era errata, ma Giovanni non ebbe la capacità di insistere e l’esito terribile della battaglia di Poitiers per la Francia testimonia il suo fallimento e l’imporsi delle compagnie di mercenari.

Il primo atto amministrativo importante di Giovanni [Giovan-ni II il Buono, n.d.r.] fu un serio tentativo di riorganizzazione

militare. Stava diventando evidente che il diritto baronale di ritirarsi per libera scelta dalla battaglia e di rispondere nega-tivamente alle mobilitazioni regie ostacolava un consistente impegno militare. L’esercito del Trecento, mezzo feudale, mezzo mercenario, non ancora nazionale, adunato di volta in volta per l’occasione, era troppo esposto agli interessi priva-ti dei suoi componenti per costituire uno strumento fidato. L’ordinanza reale dell’aprile 1351 rappresentava un tentativo di introdurre, per quanto consentito dai canoni della cavalle-ria, i principi di obbligo e di obbedienza.Rialzando le paghe per andare incontro all’inflazione deter-minata dalla peste nera, l’ordinanza confermò il fatto che la

funzione del guerriero, per i cavalieri più poveri se non anche per i grandi nobili, era diventata un mestiere. Con l’ordinanza le nuove paghe vennero fissate a 40 soldi (2 livres) al giorno per un banderese, 20 soldi per un cavaliere, 10 per un genti-luomo, 5 per un valletto, 3 per un soldato a piedi, 2 e mezzo per i vari attendenti. Più significativo fu un provvedimento inteso a corregger un’usanza pregiudizievole alla battaglia medioevale, vale a dire il diritto di ritirarsi autonomamente dal conflitto. Il nuovo ordinamento prevedeva che ogni singo-lo combattente fosse subordinato a un comandante e che ognuno giurasse «di non abbandonare il proprio comandan-te» senza un ordine, vale a dire che non poteva più tirarsi indietro a volontà. A indicare quanto fragile fosse l’affida-mento che un comandante poteva fare sulle forze che ritene-va di poter spiegare, l’ordinanza obbligava inoltre i coman-danti delle compagnie a notificare al capo del battaglione la loro presenza a una battaglia imminente.L’ordinanza si rivelò priva di efficacia principalmente perché mancavano entrate sicure con cui organizzare un esercito. Ai salari andava aggiunto il costo degli approvvigionamenti. Le diverse zone rurali fornivano solamente, vuoi dietro paga-mento vuoi grazie ai saccheggi, sia cibo che foraggio per i cavalli; ma una spedizione di grosse proporzioni, un assedio o una flotta in mare richiedevano un rifornimento ben pianifi-cato di gallette, carne e pesce affumicati o sotto sale, vino, olio, nonché avena e fieno per i cavalli.

B.W. Tuchman, Uno specchio lontano. Un secolo di avventure e di calamità. Il Trecento, Mondadori, Milano 1978

Barbara W. Tuchman, I tentativi di riforma militare nel Trecento26

La soluzione di affi dare le campagne militari ai mercenari presentava aspetti contrastanti: sicuramente le compagnie di ventura non furono una manna per le popolazioni civili, ma neppure furono in assoluto colpevoli delle barbarie che lo stato di guerra portava comunque con sé. Non bisogna dimenticare che la scelta di affi darsi alle armi dei mercenari fu del tutto funzionale alla organizzazione sociale che l’Italia dei secoli XV e XVI si era data.

Le compagnie andavano ingaggiate, e a caro prezzo, se si voleva combattere; ma, d’altro canto, esse avevano tutto

l’interesse a tirare la guerra per le lunghe e a ridurne gli ef-fetti distruttivi sul piano militare. [...]La guerra condotta da professionisti, che oltretutto passava-no con una discreta disinvoltura da un cliente all’altro secon-do chi fosse il maggior offerente, tendeva a cronicizzarsi, a trasformarsi in una malattia endemica a far le spese della

quale non erano tanto gli eserciti quanto le popolazioni. I venturieri, se non erano un gran pericolo per i loro colleghi che contingentemente si trovavano sul fronte nemico, erano in cambio un flagello per le popolazioni civili dei territori che essi attraversavano; e difatti spesso gli «stipendi» che i vari governi corrispondevano loro erano in verità dei pagamenti tesi a evitar che essi attraversassero i loro territori, procuran-dovi guasti disordini. La pace, in queste condizioni, poteva davvero costituire un rimedio peggiore del male. I venturieri erano molto più pericolosi da disoccupati che quando eserci-tavano il loro mestiere ufficiale.Bisogna dire che, per noi moderni, l’aver prestato un po’ trop-pa fede al Petrarca e, dopo di lui, al Machiavelli, ha finito con il costituire un ostacolo alla comprensione della verità stori-ca. [...]Esempio-limite resta l’«incruen ta» battaglia d’Anghiari, combattuta nel 1440 fra lo Sforza e il Piccinino, dove degli undicimila uomini in campo fra cavalieri e fanti ne sarebbe caduto secondo il Machiavelli soltanto uno, mentre – secondo la ben più attendibile stima di Flavio Biondo –, vi sarebbero stati una sessantina di morti e circa quattrocento feriti. È co-

Franco Cardini, I chiaroscuri del mercenario27

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munque ovvio che le compagnie non avessero interesse alcu-no a impegnarsi in scontri troppo cruenti, suscettibili di ab-breviare i conflitti e tale da porre in pericolo dei capitali in uomini e in armi. Era, oltretutto, una questione di economia.Del resto questo tipo di guerra, se distruggeva della ricchez-za, contribuiva [...] anche a concentrarla e a trasferirla. Ar-ricchitisi grazie alla loro carriera di «imprenditori militari», i condottieri reinvestivano i loro proventi, magari sotto forma di lavori pubblici e d’opera d’arte. C’è un profondo nesso, nell’Italia dell’umanesimo, fra guerra mercenaria, organizza-zione degli stati territoriali, ristrutturazione urbanistica, nuo-ve scuole artistiche e intellettuali.Contro le compagnie furono addirittura bandite delle crocia-te, così come si pensò ad assoldarle proprio quali truppe cro-ciate per inviarle in Asia Minore e nei Balcani a combattere i turchi, in modo da liberare l’Europa dalla loro presenza. Ma il

fatto che tali progetti – qualunque ne fosse il grado di adesio-ne rispetto alla realtà – restassero sulla carta dimostra che le compagnie continuarono a costituire un indispensabile stru-mento militare, finché gli stati moderni non ebbero elaborato delle forme alternative di mercenariato o di forze armate per-manenti. E, intendiamoci, non vogliamo con ciò sostenere che esse non fossero un fastidio per la società del loro tempo. Di più: fare il venturiero non era, comunque una troppo brillante sistemazione. Non dobbiamo pensare soltanto agli Sforza, ai Malatesta, ai Montefeltro, insomma ai grandi principi-im-prenditori, alle primedonne del mercenariato. C’era anche, al di sotto di essi, una selva di poveracci che si guadagnavano la vita con le unghie e con i denti.

F. Cardini, Quell’antica festa crudele, Mondadori, Milano 1995

La conquista di Granada, l’ultimo Stato musulmano in terra spagnola, vide la fusione di elementi medievali con altri moderni. La mentalità dei cavalieri castigliani era certamente ancora tradizionale; tuttavia, la presenza di cannoni e di libri stampati all’interno dell’esercito stava a indicare l’inizio di una nuova epoca.

È difficile stabilire con esattezza quanti fossero i soldati riu-niti a Santa Fe nel 1491 per la battaglia finale contro

l’islam di Spagna: forse vi erano tra i 6000 e i 10 000 cava-lieri e tra i 10 000 e i 16 000 fanti, inquadrati in un esercito che contava probabilmente circa 80 000 uomini. Come co-mandante in capo Ferdinando aveva dato prova di una certa prudenza, caratteristica che aveva già rivelato in precedenza, nelle campagne contro il Portogallo e i castigliani rivoltosi. La distruzione di Tájara, l’assedio di Malaga, la conquista di Ronda, apparentemente inespugnabile, quella di centri più piccoli, come Setenil – dove suo nonno Ferdinando era stato sconfitto – e Alora – «tu, città cinta da fortimura, al di là del fiume» – erano stati per lui trionfi personali, nonché occasio-ni per imparare a improvvisare in circostanze avverse. Nei suoi preparativi a Cordoba nel 1484, così come durante l’as-sedio di Burgos, anche la regina si era rivelata un’abile so-vrintendente militare, fondando tra l’altro ospedali da campo e provvedendo ai rifornimenti di artiglieria, cibo, cavalli e uo-mini. Vi era bisogno di ingegneri, costruttori di strade, fabbri, animali da tiro, e provvedere a tutto non era cosa semplice, se solo si considera, per esempio, che l’esercito di Castiglia consumava ogni giorno circa 15 000 chilogrammi di grano e orzo. […]L’esercito era organizzato in gruppi, noti con il nome di bat-tallas, la cui avanguardia era solitamente capeggiata dal Gran Maestro dell’Ordine di Santiago e la retroguardia o dal conestabile di Castiglia (Pedro Fernandez de Velasco) o da Diego Fernandez de Cordoba, maresciallo dei paggi di corte

(fratello maggiore di Ponzalo, il Gran Capitan). Il re era soli-to cavalcare immediatamente innanzi alla retroguardia, af-fiancato da due compagnie di soldati che le autorità avevano reclutato a Siviglia e a Cordoba. Un migliaio di carri di arti-glieria viaggiava al suo seguito. Il riferimento all’artiglieria ricorda che i cristiani combattevano questa guerra come se si trovassero contemporaneamente in due mondi distinti. Gli ordini cavallereschi, con il loro senso religioso della fratel-lanza, richiamavano alla mente l’Alto Medioevo, al pari delle pesanti lance, azze, alabarde e picche, nonché degli archi e delle balestre. I castigliani possedevano inoltre ordigni me-dievali per l’assedio: bastidas che permettevano agli attac-canti di raggiungere la cima delle mura, scale reali grazie alle quali i fanti potevano essere sollevati da pulegge fino ai bastioni dei difensori, macchine rivestite di cuoio che permet-tevano ai castigliani di raggiungere protetti la base delle mu-ra, grandi catapulte. E potevano anche chiedere ai minatori delle Asturie di scavare gallerie sotto le mura delle città as-sediate.Ma i carri di artiglieria suggerivano l’avvento di una nuova era. Le nuove armi comprendevano gli archibugi, inventati intorno al 1470, i quali, per la prima volta nella storia, dota-vano il singolo soldato di un’arma da fuoco. I mortai, detti anche lombardi, erano ancora più innovativi: si trattava di cannoni di ferro o di bronzo spessi cinque centimetri, lunghi circa sei metri, tenuti assieme da anelli di ferro, in grado di lanciare fino a centoquaranta palle di pietra al giorno, di un diametro massimo di trenta centimetri e di un peso massimo di ottanta chilogrammi. Sparavano inoltre palle di fuoco co-stituite da materiale infiammabile mescolato a polvere da sparo. Ronda sarebbe mai caduta senza i lombardi, sarebbe caduta Alcalá el Real? La guerra era quindi stata un conflitto moderno, in cui gli assedi avevano avuto successo grazie all’artiglieria. Quest’ultimo aveva infatti permesso ai casti-gliani di sferrare attacchi a una città dopo l’altra, come se stessero cogliendo a uno a uno i grani di una melograna, la cui traduzione spagnola è, per l’appunto, granada.

Hugh Thomas, La conquista di Granada28

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Alcune delle nuove armi, come i duecento pezzi di artiglieria, fabbricate per lo più a Ècija, tra Cordoba e Siviglia, necessi-tavano non solo di polvere da sparo esplosiva, ma anche di uomini provenienti, a caro prezzo, dalla Borgogna, dalla Ger-mania o dalla Francia in grado di azionarle. Comunque, Fran-cisco Ramirez, uno degli uomini migliori fra i nuovi soldati, che aveva inflitto un duro colpo al nemico facendo saltare le mura di Malaga, veniva da Madrid, mentre molte delle palle da cannone provenivano dalla Sierra Morena, in particolare dalla città di Constantina. Vi era un altro segnale di modernità fra i capi dell’esercito castigliano-aragonese, qualcosa che faceva sì che gli uomini e le donne alla corte di Ferdinando e Isabella si distingues-sero dai loro predecessori: l’abitudine alla lettura. Molti di loro erano infatti lettori e alcuni possedevano dei libri, que-

sti nuovi oggetti dorati realizzati per la prima volta nel 1450 da Gutenberg, in Germania, e dopo il 1470 anche da tipogra-fi di Spagna, principalmente a Siviglia, Valencia e Segovia (la prima tipografia pare sia stata quella aperta a Segovia da John Parix di Heidelberg). Molti di loro erano tedeschi, risultato del crescente commercio con la Germania, ove la capitale della stampa, Norimberga, aveva un ruolo di primo piano, anche se la Castiglia importava inoltre da quelle re-gioni manufatti di metallo, lino e fustagno. A quell’epoca erano pochi i libri di svago: si privilegiavano infatti le pub-blicazioni erudite e le edizioni dei classici, e presto sarebbe-ro nate le incisioni.

H. Thomas, I fiumi dell’oro. L’ascesa dell’impero spagnolo, Mondadori, Milano 2006

L’espansione degli ottomani provocò in Europa un’ondata di panico e vari papi rilanciarono l’idea di una crociata contro il sultano turco. Tuttavia, l’idea di una spedizione congiunta di tutta la cristianità era ormai rifi utata da molti principi, mentre a livello popolare, prima e durante la Riforma, da più parti si negò che il papato avesse l’autorità e il diritto di guidare il mondo cristiano.

Le incursioni turche dell’ultimo Quattrocento in Friuli furo-no cinque, nel 1472, 1477, 1478, 1479, 1499, quasi il

frangersi dell’onda che, dopo Costantinopoli, aveva travolto gli interi Balcani. Protagonisti furono veloci distaccamenti di cavalleria bosniaca, gli akinci o razziatori, che si affacciaro-no dalla frontiera della Carniola (più o meno l’attuale Slove-nia) e dilagarono fino a lambire Treviso e Mestre. […] Le for-tezze di Gradisca (la maggiore) e di Fogliano erano i capisal-di di una lunga linea trincerata. Composta da terrapieni e tronchi d’albero, la linea risaliva dalla foce dell’Isonzo sino a Gorizia. Le due fortezze furono apprestate da Venezia nel 1474, dopo la prima incursione, nel punto dove il guado del fiume era più agevole; rafforzate nel 1481 e nel 1497, pur resistendo all’assedio non furono in grado di impedire che i turchi dilagassero dopo averle aggirate. […]Nel 1459, papa Pio II convocò a Mantova una dieta [un’assem-blea, n.d.r.] con l’intento di organizzare una crociata contro i turchi. Dai principi cristiani lì riuniti ricevette un’adesione di facciata, piena di distinguo e tutt’altro che entusiastica; for-malmente fu comunque la nona crociata. In compenso, il po-polo diede chiari segni di insofferenza. Una testimonianza preziosa ci viene da un cronista bolognese di nome Fileno dal-la Tuata. Il cronista si scaglia contro ogni risvolto del progetto papale. Critica l’obbligo di versare un trentesimo del reddito per finanziare la guerra, pena l’esclusione dai sacramenti: «per la qual cosa multi non se confessorio quello anno». Iro-nizza sulle assoluzioni facili che si impartivano per l’occasio-

ne: «pure che dinari vegnano, solvono de casi inauditi, li vivi e li morti». E rivela che spuntarono molti profittatori («manza-duri», mangiatori), così che i denari del popolo, «colti per andare contra i turchi, restarono a ingrassare lupi e porci». Sotto il velo dell’ufficialità, l’unanimità non era affatto garan-tita e il malumore trapelava. […] Quanto al papato, Giulio II progettò ovviamente una crociata contro i turchi, bellicoso com’era. Ma poi preferì suscitare una Lega Santa contro Vene-zia e quasi annientarla ad Agnadello nel 1509. In quei giorni drammatici alcuni senatori veneziani, i più giovani e pragma-tici, proposero di chiamare i turchi in Italia come alleati. Qui non si ha a che fare con sospetti, come ai tempi di Otranto, ma con prove, certificate da votazioni e da atti ufficiali. Nemica del papa, la repubblica, e quindi amica del sultano?Poi Venezia non fece il passo definitivo perché non osò, non si fidò; ma certo non rifiutò i rifornimenti di grano e cavalli offer-ti dai turchi. Vulnerabile in Oriente, Venezia si limitò ad assu-mere atteggiamenti sempre più ambigui e spregiudicati in ambito politico, militare, commerciale, persino culturale. S’infuriassero pure gli spagnoli, la chiamassero pure concubi-na o mantenuta (amancebada) del sultano. Navi e discorsi crociati dalla laguna non ne partivano più. Incapace di fron-teggiare i turchi in campo aperto, Venezia tese soltanto a ral-lentarne l’avanzata. Non cessò però di sorvegliare l’ingom-brante vicino con lo spionaggio e la diplomazia. Per due seco-li buoni, le relazioni degli ambasciatori veneti a Costantinopo-li (i baili) fornirono le basi all’opinione europea sui turchi. Anche potenze maggiori di Venezia, come la Spagna, consul-tavano avidamente queste scritture corpose e sistematiche.Nel maggio del 1521 Niccolò Machiavelli, scrivendo a France-sco Guicciardini, stilava il seguente elenco di chiacchiere oziose: «sul diluvio che debbe venire, o sul Turco che debbe passare, et se fosse bene fare la crociata in questi tempi, et simili novelle da pancaccie». Parlare di crociata era ormai una prerogativa degli sfaccendati che consumavano le pan-che delle osterie. Era il tipo di discorsi con cui Machiavelli stesso si pavoneggiava senza fatica, quando era ambasciato-re di Firenze a Carpi, una città che gli piaceva poco («questi

Giovanni Ricci, La definitiva crisi dell’idea di crociata29

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Lo storico George C. Vaillant sottolinea un aspetto che distinse la colonizzazione dell’America centrale e meridionale, rispetto a quella settentrionale: la maggiore persistenza numerica delle popolazioni autoctone e soprattutto la creazione di un gruppo ampio di meticci, attraverso i quali si resero più attivi gli scambi culturali.

L’antica cultura morì lentamente. Nelle città indie, per evi-tare contestazioni, le registrazioni civili furono scritte

tanto in spagnolo che nell’antico sistema pittografico azteco. I costumi conservarono le fogge tradizionali, sebbene i mona-ci insistessero nel far mettere i calzoni agli uomini. La ricca agricoltura riuscì di grande vantaggio ai conquistatori, che poco la modificarono introducendo solo alcuni alberi da frutto ed il grano. Gli utensili domestici, come il vasellame, presen-tarono una piacevole sintesi di temi spagnoli ed indi; gl’indi-geni si entusiasmarono per lo smalto che applicarono anche alle forme più autoctone. In alcune deliziose figurine si vedo-no gli antichi dèi e dee travestiti da santi assai finemente.Gl’Indi erano abituati a costruire templi, e parve loro del tutto naturale dover lavorare in massa per lunghe ore ad innalzare edifici in onore dei nuovi dèi. Le conversioni furono talmente numerose che le chiese divennero troppo piccole per acco-gliere i fedeli.Questo periodo di fusione durò quasi un secolo. Nel frattempo i veri e propri conquistatori ed i loro discendenti, come i sus-seguenti immigrati nella nuova colonia, si erano sempre più incrociati con gli indigeni. Lo sviluppo dell’industria minera-

ria assorbì migliaia d’Indi, adescati al lavoro con un salario di fame, in condizioni micidiali che causavano malattie e perfino la morte. L’uso delle encomiendas, transazioni per cui si ave-va il diritto al lavoro degl’indigeni in cambio della protezione e dell’istruzione religiosa loro assicurate, portò a gravi abusi e gli sventurati Indi furono ridotti in schiavitù. Inoltre, malat-tie europee come il vaiolo, la rosolia e la tubercolosi stermi-narono gran parte della popolazione, priva di resistenza ere-ditaria a tali mali. […]La maggior parte degli Indi perse i campi e lavorò nelle ha-ciendas o nelle miniere. Alcune comunità, come Tlaxcala, avendo compiuto notevoli servizi in favore della Corona du-rante la Conquista, pur avendo perduto il loro stato sociale, poterono conservare le proprie terre. Altri gruppi, come le popolazioni lacustri di Xochimilco e Calco, occuparono ter-ritori che gli Spagnoli consideravano non convenienti ai propri scopi. Un quarto gruppo visse relativamente indisturbato in piccoli villaggi primitivi nascosti sulle montagne, dove si era rifugia-to non solo a causa dei conquistatori bianchi, ma anche per fuggire le crescenti potenze indie nei secoli anteriori alla Conquista. In questi piccoli borghi, i cui abitanti sono appena sfiorati dal cristianesimo, si conservano innumerevoli dialetti e linguaggi originari già parlati nel Messico.Ciò che oggi resta della cultura india è in gran parte un amal-gama delle antiche pratiche indigene con gli insegnamenti dei monaci del secolo XVI, anche se il tipo fisico ed i linguag-gi hanno resistito per quattro secoli all’assorbimento.Ciononostante non c’è quasi nessun gruppo etnico che sia ri-masto completamente indio, come alcune tribù dell’America settentrionale, che però furono conquistate e messe entro ri-

deserti di Arabia, dove non è se non frati»). Una persona di genio come lui distingueva d’intuito fra la ragione politico-militare, che consigliava la prudenza davanti al Turco, e gli elementi arcaici del corredo della specie umana, che attivano comportamenti regressivi destinati a sfociare nella violenza. Ma Machiavelli non cascava nella trappola, e forse la sua vi-sione andrebbe proposta ancora come esempio. […] D’altron-de, Machiavelli e Guicciardini non erano i soli a diffidare della crociata a quel tempo. Abbiamo letto l’ironia con cui il bolo-gnese Fileno dalla Tuata guardava all’impresa di Pio II; non tanto all’azione del papa in sé, quanto al sottobosco umano che ne approfittava. Era un uomo di modesta cultura, Fileno, eppure dava voce a un peculiare anticlericalismo popolare, intriso di familiarità con la Chiesa e di irrisione, che era radicato nell’Italia del primo Rinascimento. «Vorrai più tosto el governo del Turco che quello di preti», dichiarava al governatore papale di Bo-logna un rivoltoso, prima di essere impiccato nel 1508. «Ben avea rason, ma non dirlo a lui», commentò giudiziosamente Fileno. Il quale nel 1518 vide giungere nella sua città tre car-dinali con l’annuncio che «el Turco volea venire in Italia». Era la mobilitazione finanziaria e spirituale che papa Leone X

stava suscitando, messo in allarme da segnali molto eteroge-nei: prodigi, apparizioni e dispacci riservati giunti da Costan-tinopoli via Ragusa. Una volta di più, le raccolte di fondi par-vero a Fileno «trappole da dinari». La lontananza dalla fron-tiera e dal pericolo diretto acuiva lo spirito mordace del cro-nista – e forse non solo il suo.Innestata sul forte spirito municipale, la tradizione delle in-vettive contro la corruzione clericale e pontificia offriva un alveo al discorso del fiero rivoltoso bolognese. Nello stesso tempo, però, sembra quasi che egli ragionasse come i cristia-ni d’Oriente, che erano soliti dire, più o meno: «Meglio il tur-bante del sultano della tiara del papa». Attestato, con va-rianti evolutive, dai giorni dell’assedio di Costantinopoli, il detto potrebbe essere parafrasato in questo modo: è meglio essere governati dai turchi, disposti a concedere uno statuto legale agli infedeli in cambio di tributi, che dai latini, abitua-ti a vessare col fiscalismo e il proselitismo i cosiddetti sci-smatici. L’irrigidirsi del cattolicesimo postridentino non poté che peggiorare lo stato delle cose.

G. Ricci, I turchi alle porte, il Mulino, Bologna 2008

George C. Vaillant, Quel che resta degli indios30

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serve solo durante le ultime tre generazioni. Quelle che pri-me entrarono in contatto con i bianchi furono sterminate pa-recchi anni fa.Gli Indi del Messico hanno resistito sopportando il peso di tut-te le fatiche per più di quattro secoli. Hanno visto i bianchi lottare per acquistare il diritto di consumare i frutti del loro lavoro e probabilmente non comprendono ancora che il nu-cleo di puro sangue bianco della classe dominante sta diven-tando più esiguo ogni generazione, riducendosi nell’ultimo secolo dal tredici al sette per cento della popolazione totale.Individui come Benito Juarez il Liberatore e Porfirio Diaz, il maggior dittatore messicano, si fecero largo fra l’anonima massa india per dirigere il paese e rendere moderna la sua cultura. Gli uomini della Rivoluzione avevano sangue indio nelle vene ed uno di essi, l’ex presidente Labaro Cardenas, ha compiuto sforzi sovrumani per strappare gl’Indi dalla schiavi-tù e farli partecipare alla vita pratica e politica del paese.

Le arti del Messico sono il risultato dell’attività india. Gli umi-li artigiani si sono tramandati di generazione in generazione l’amore dell’antico passato, le forme ed i modelli tradizionali.È prossimo il momento in cui l’arte messicana sarà tecnicamen-te una derivazione di quella europea; però, socialmente ed emotivamente, è una delle quattro arti veramente nazionali.Il visitatore del Messico sente fortemente la presenza dello spirito indio. Talvolta è agghiacciato dall’apatia d’un popolo che fu oppresso per tanti anni e vide le sue organizzazioni politiche e i suoi templi distrutti per creare le fondamenta di una nuova società. Ma oggi che il mondo americano ha assunto per noi un mag-gior significato, possiamo riflettere meglio su quei primi co-lonizzatori venuti da un altro continente per costruire, come noi, una nuova civiltà.

G.C. Vaillant, La civiltà azteca, Einaudi, Torino 1970

L’introduzione dell’artiglieria e della polvere da sparo viene considerata sia da un punto di vista generale di innovazione tecnica (perché di invenzione e innovazione si trattò), sia per le ricadute che essa ebbe, per esempio nell’impianto delle fortifi cazioni: nel XVI secolo una fetta consistente dei bilanci cittadini fu devoluta per fi nanziare la costruzione di nuove e massicce mura.

Nel loro luogo d’origine le nuove tecniche si insediano tan-to lentamente che i vicini hanno il tempo di meravigliarse-

ne e di informarsene. L’artiglieria, in Occidente, fa la sua comparsa, all’incirca, a Crécy, o meglio davanti a Calais nel 1347; ma non diventerà un elemento importante delle guerre europee prima della spedizione di Carlo VIII in Italia nel set-tembre 1494, ossia dopo un secolo e mezzo di gestazione, di esperienze, di chiacchiere. [...]Un nazionalismo «occidentale» spinge gli storici della scien-za e delle tecniche a negare o a minimizzare i prestiti ricevuti dalla Cina in Europa.[...] La scoperta della polvere da sparo da parte dei cinesi non è «una leggenda». Fin dal secolo IX essi la fabbricano con salnitro, zolfo e carbone di legna in polvere. Egualmente ci-nesi, le prime armi da fuoco sarebbero del secolo XI, ma il primo cannone cinese datato è solo del 1356.C’è forse una scoperta concomitante in Occidente? Si volle attribuire senza prove l’invenzione della polvere da sparo al grande Bacone (1214-93). La polvere compare sicuramente verso il 1314 o il 1319 nelle Fiandre; a Metz, nel 1324; a Fi-renze, nel 1326; in Inghilterra, nel 1327; nel 1331, all’asse-dio di Cividale nel Friuli; forse sul campo di battaglia di Crécy (1346), dove – come afferma Froissart – i «bombardieri» inglesi fecero soltanto «stupire» i francesi di Filippo VI di Valois. Più certo è che Edoardo III li abbia impiegati l’anno

dopo davanti a Calais. [...] Tuttavia questa cronologia: Calais 1347, Cina 1356, ecc., non stabilisce la priorità di una parte o dell’altra per quello che concerne l’invenzione del canno-ne. Carlo Cipolla pensa tuttavia che agli inizi del secolo XV il cannone cinese arriverebbe a essere superiore a quello euro-peo, mentre alla fine del secolo l’artiglieria europea sarebbe assai superiore a tutto ciò che possa aver fabbricato l’Asia. Di qui la sorpresa terrificante che produce la comparsa dei can-noni europei in Estremo Oriente nel Cinquecento. Insomma, l’artiglieria cinese non ha saputo o potuto svilupparsi, adat-tarsi alle esigenze della guerra. Verso il 1630 un viaggiatore osserva che nei sobborghi delle città cinesi «si fondono can-noni, ma non c’è l’esperienza e l’abilità per maneggiarli».Al principio i pezzi di artiglieria sono armi leggere, corte, avaramente caricate a polvere (che essendo rara, costa ca-ra). Né si sa sempre con precisione che cosa si debba inten-dere sotto i vari nomi che le designano. Così il ribauequin doveva designare un insieme di canne (analoghe alle canne degli archibugi) unite insieme, tanto che si è parlato addirit-tura di mitragliatrice.Poi i pezzi di artiglieria ingrandiscono, da 136 a 272 chilo-grammi in media, sotto il regno di Riccardo II (1376-1400), secondo i campioni conservati alla Torre di Londra. Nel Quat-trocento si tratta talvolta di enormi bombarde, come i Don-nerbuschsen tedeschi, mostruosi tubi di bronzo sdraiati su culle di legno, i cui spostamenti ponevano problemi quasi in-solubili.[...] era nata un’artiglieria di calibro importante, relativa-mente mobile, capace di seguire gli spostamenti delle trup-pe: così l’artiglieria dei fratelli Bureau, strumento delle vit-torie di Carlo VII a Formigny (1450) e a Castillon (1453). In Italia esiste un’artiglieria mobile, tirata da buoi [...]. Ma il cannone montato su affusto, con attacchi di cavalli vigorosi, non fa il suo ingresso in Italia, per il terrore dei sacchi, che con Carlo VIII nel settembre 1494. Lancia palle di ferro, il cui uso si generalizza rapidamente, e non più di pietra, e

Ferdinand Braudel, Rivoluzioni e ritardi tecnici31

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questi proiettili non prendono più di mira le sole case, ma anche le mura della città assediata. Nessuna città fortificata – la cui funzione consisteva fino allora nella difesa o nella consegna delle proprie porte – resistette a questi bombarda-menti a bruciapelo. I pezzi venivano infatti portati ai piedi delle mura, sulla sponda esterna del fossato e subito erano messi al riparo, «sotto capanne», come dice Jean d’Auton, il cronista di Luigi XII.La loro violenza provocò per oltre trent’anni la debolezza cronica delle città fortificate, le cui mura rollavano come quinte di teatro. Ma a poco a poco venne organizzata la rispo-

sta: le fragili mura di pietra cedettero il posto a spesse mura-glie di terra, poco elevate, nelle quali le palle affondavano in pura perdita, e sulle piattaforme più alte – i «cavalieri» – veniva collocata l’artiglieria di difesa. Mercurino Gattinara, il cancelliere di Carlo V, affermava nel 1520 che venti pezzi d’artiglieria bastavano per metter Milano (e dietro la grande città, il dominio in Italia dell’imperatore) al riparo dai france-si. E aveva ragione.

F. Braudel, Capitalismo e civiltà materiale, (secoli XV-XVIII), Einaudi, Torino 1977

Dopo la conclusione della guerra dei Trent’anni si affermarono progressivamente gli eserciti permanenti: tutti i maggiori Stati europei se ne dotarono e ne fecero largo utilizzo nel corso del Settecento.

La diffusione degli eserciti permanenti fu soprattutto il frut-to di una corsa europea agli armamenti guidata dalle

grandi monarchie, una gara che allargò, in modo evidente, la faglia, che separava dagli Stati di secondo e terzo piano il sempre più ristretto gruppo di testa (che nel corso del Sette-cento registrò sì l’ingresso a pieno titolo della Russia e della Prussia, ma anche l’estromissione, più o meno drastica, di potenze terrestri e/o navali che, nel secolo precedente, era-no state di tutto rispetto come la Spagna, l’Olanda, la Svezia, la Danimarca, la Polonia e Venezia), così come, più in gene-rale, cacciò dal circuito della guerra molti degli “attori” mi-nori, che avevano potuto recitare una parte di rilievo nella guerra dei Trent’anni. […]Gli eserciti permanenti innalzarono in misura significativa il tasso di militarizzazione dell’Europa non soltanto perché ri-dussero di parecchio il divario tra le forze armate in tempo di guerra e quelle mantenute in tempo di pace, ma soprattutto perché molti Stati, pur continuando a ricorrere al mercato in-ternazionale della guerra per il reclutamento, oltre che degli ufficiali, anche dei soldati (ad esempio, a metà Settecento le truppe straniere erano superiori a un quinto nell’esercito francese, a un quarto in quello spagnolo e ai due quinti in quello prussiano), ritennero necessario imitare, più o meno

da vicino, l’esempio della Svezia (dove nel 1682 il sistema di reclutamento, l’Indelningsverket, fu esteso e consolidato in modo da sostenere un esercito di più di quarantamila uomini) e, quindi, alimentare l’esercito permanente con forme più o meno mediate di coscrizione. […] Non stupisce, quindi, che gli eserciti moltiplicassero i loro effettivi nel corso del secondo Seicento e del Settecento, lasciandosi alle spalle i primati raggiunti all’epoca della guerra dei Trent’anni. I circa settecentomila soldati, che nel 1632 erano a disposi-zione – in parte soltanto sulla carta – di quelle che erano all’epoca o che sarebbero diventate, nel secolo successivo, le grandi potenze militari (Impero, Spagna, Svezia, Olanda, Francia, Inghilterra, Russia e Prussia), salirono nel 1710 pa-recchio al di sopra del milione e nel 1756 superarono il milio-ne e trecentomila. […]Nell’età degli eserciti permanenti e, in modo particolare, nel Settecento la maggior disciplina di truppe pagate con una certa regolarità, direttamente dipendenti dai sovrani e sem-pre più isolate da una società civile, che si riteneva che do-vesse rimanere il più possibile estranea alla guerra, una logi-stica che faceva perno sui magazzini e limitava, quindi, le estorsioni dei militari a danno del territorio, l’affermazione di un codice comportamentale bellico di regola rispettoso dei cerimoniali aristocratici […] e la recessione delle grandi epi-demie di peste furono le cause principali, che favorirono una – moderata ma evidente – limitazione degli effetti negativi dei conflitti.

P. del Negro, Guerra ed eserciti da Machiavelli a Napoleone, Laterza, Roma-Bari 2001

Piero del Negro, L’età degli eserciti permanenti32

Nella supremazia militare e strategica degli eserciti del vecchio continente e nelle differenti modalità e fi nalità di combattimento dei popoli indigeni dell’America, dell’Africa e dell’Asia risiedono le cause decisive della vittoria degli occidentali nelle guerre tra XVII e XVIII secolo.

Nel 1650 l’Occidente aveva già conseguito la supremazia militare in quattro distinte zone geografiche: l’America

centrale e nordorientale, la Siberia, alcune zone costiere dell’Africa sub-sahariana e le isole del Sud-Est asiatico. Per quanto fossero indubbiamente differenti queste regioni e i loro abitanti, la loro esperienza di fronte agli invasori europei fu, in un aspetto cruciale, identica: l’uomo bianco, essi ben

Geoffrey Parker, Le guerre fuori d’Europa33

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presto scoprirono, combatteva slealmente e (quel che peg-gio) combatteva per uccidere. Gli indiani Narragansett della Nuova Inghilterra disapprovarono vivamente il modo di fare la guerra dei coloni. «È troppo violento» disse un guerriero a un capitano inglese nel 1638 «e si ammazzano troppi uomi-ni». Il capitano non poté negarlo: «Gli indiani possono com-battere per sette anni senza uccidere sette uomini». Roger Williams, un governatore coloniale del periodo ammise pari-menti che i combattimenti fra indiani erano «di gran lunga meno sanguinosi e rovinosi delle crudeli guerre europee». Nel frattempo, sull’altra faccia della terra, le popolazioni dell’Indonesia rimasero egualmente inorridite dalla furia an-nientatrice degli europei in guerra. Gli uomini di Giava, ad esempio, «se potevano scegliere», erano «molto restii a combattere». Secondo Edmund Scott, che visse fra di loro dal 1603 al 1606, il motivo era semplice: «dicono [...] che la loro ricchezza sta interamente negli schiavi, cosicché i loro schiavi rimanessero uccisi, essi sarebbero ridotti in miseria».Scott aveva colto una caratteristica fondamentale ed insolita di organizzazione militare del Sud-Est asiatico che [...] era condi-visa dalle popolazioni dell’America e dell’Africa sub-saharia-na: in queste regioni le guerre indigene erano quasi sempre combattute non tanto per sterminare i nemici, quanto per ridur-li in schiavitù. In Guinea, secondo un inglese che visitò l’isola nel 1788, i capi tribù ammisero liberamente «che l’unico obiettivo delle loro guerre era quello di procurarsi degli schia-vi, in quanto senza schiavi non potevano ottenere merci euro-pee e non potevano prendere degli schiavi senza combattere per averli». Lo stesso tipo di ostilità era stato osservato quasi tre secoli prima sulla Costa degli Schiavi e sulla Costa d’Oro: le guerre venivano combattute per il controllo della manodopera, non della terra; per ottenere uomini, non territorio. [...]In America [...], la mancanza di città fortificate facilitò natu-ralmente all’inizio la conquista, perché gli indigeni erano privi di basi difendibili su cui ritirarsi, ma ne complicò il con-

solidamento. Come ebbe a lamentarsi nel 1675 Increase Ma-ther, della Nuova Inghilterra, «ogni palude è per loro un ca-stello; essi sanno bene come trovarci, ma noi non sappiamo come trovarli!». Esistono poi esempi innumerevoli di soldati coloniali in marcia al rullo dei tamburi e a bandiere spiegate per distruggere una «città» indiana, solo per scoprire che era scomparsa. La logica della superiorità occidentale negli scontri tradizionali era stata completamente assimilata dagli indiani: dopo le prime sconfitte sanguinose, essi badarono scrupolosamente ad evitare le battaglie campali – con gran disappunto degli europei – perché le perdevano sempre. «Compiono degli atti ostili senza dichiarare guerra; non si mostrano allo scoperto sul campo per sfidarci a battaglia», era questo il lamento di un altro pastore della Nuova Inghil-terra. Solo gradualmente gli europei si accorsero che l’unico modo per sconfiggere gli indiani era di adottare i loro stessi metodi di guerriglia. La grave sollevazione indiana del 1675 nella Nuova Inghilterra, nota come la «Guerra di Re Filippo», fu soffocata solo quando i coloni seguirono il consiglio del capitano Benjamin Church e combatterono in piccole unità, equipaggiate oltre che di armi da fuoco, di asce, cani e coltel-li, operanti in ordine sparso anziché in file o in colonne.Ma anche gli indiani della Nuova Inghilterra fecero presto ad imparare. Dal 1640 essi riuscirono ad ottenere un adeguato rifornimento di armi da fuoco dai francesi, inglesi e dagli olandesi [...].Alla fine i «pellirosse» persero terreno non tanto perché in-feriori tecnicamente, quanto perché durante tutto il Seicento il loro numero diminuì per lo più a causa della diffusione del-le malattie infettive degli europei, mentre il numero degli occidentali crebbe inesorabilmente, grazie in gran parte all’immigrazione.

G. Parker, La rivoluzione militare. Le innovazioni militari e il sorgere dell’Occidente, il Mulino, Bologna 1990

La guerra nel Settecento è caratterizzata da condizioni economiche particolari, dalla provenienza sociale dei soldati impegnati in battaglia, dalle novità e dalle innovazioni tecniche che contribuiscono a rivoluzionare le tattiche di combattimento.

C’è scarso posto, in questa Europa del primo Settecento, per quella specie umana tanto poco comoda e ragione-

vole che sono gli eroi. Ogni Stato, si capisce, continua ad avere il proprio esercito e questo esercito, anzi, è di solito molto meglio equipaggiato, disciplinato ed armato che in altri tempi. Però ogni Stato si guarda bene dallo sprecare in guer-re i propri artigiani, i propri borghesi, i propri agricoltori. Per l’esercito vanno bene i rifiuti della società, racimolati per le taverne dagli arruolatori, che approfittano di una sbornia per strappare la firma ad un contratto che trasformerà la recluta

in uno schiavo in uniforme per la maggior parte della sua vita. Oppure vanno bene il puro e semplice sequestro di persona, come si usa nella civilissima Inghilterra ogni volta che sua maestà ha bisogno di equipaggi per le sue navi, od il commer-cio della carne da cannone, che praticano i principi tedeschi, vendendo i propri sudditi al miglior offerente, al modo dei reucci negri del Congo.Dove sono più i señores soldados di altri tempi, con la loro guardatura tracotante e la loro spada sempre pronta al duel-lo? Perfino nell’aspetto esteriore il soldato del Settecento è il servo in livrea di un padrone aristocratico, che lo tiene a catena con una disciplina formale dura fino alla crudeltà, lo tratta a bastonate alla minima mancanza, e lo obbliga a mar-ciare a passo cadenzato come un automa, perché la proprietà privata era alla mercé dei saccheggi della soldatesca. Oggi il soldato non è che l’esecutore passivo dei voleri della proprie-tà dinastica o borghese. Del resto, perché saccheggiare e devastare ormai? Chiunque intraprende una guerra, mira a

Giorgio Spini, Il Settecento e la guerra34

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conquistare una provincia, e quindi si guarda bene dal sac-cheggiarla, per non intaccare le sue rendite di domani. Né questa classe dirigente europea, cosmopolitica per mentalità e per origini, stretta da un capo all’altro del continente da cento vincoli di sangue, d’interessi, di viaggi, di comune edu-cazione, ha certo voglia di macchiarsi del proprio sangue.La guerra di successione spagnola ha imposto sul campo di battaglia il binomio fucile-baionetta, facendo passare nel museo dei ferrivecchi i quadrati di picche e le armature pe-santi, e lasciando come ipnotizzati i generali davanti all’effi-cacia del fuoco di fucileria. Col fucile, infatti, il soldato può sparare almeno un colpo al minuto e più tardi l’introduzione della cartuccia e l’addestramento alla prussiana gli rende-

ranno possibile un fuoco ancora più celere. Anziché una mu-raglia di picche, i comandanti stendono così sul proprio fronte una muraglia di fucileria, per coprire l’avversario di una me-todica tempesta di proiettili. Onde mantenere intatto tale sbarramento di fuoco, essi hanno bisogno di stendere in ran-ghi paralleli i propri soldati e di addestrarli a non rompere questa catena ed a scaricare in cadenza i propri fucili. Di qui la necessità del passo cadenzato e di quelle evoluzioni in or-dine chiuso, in cui eccellerà la disciplinatissima fanteria prussiana.

G. Spini, Storia dell’età moderna, Einaudi, Torino 1965

La Rivoluzione francese apportò alla vita militare notevoli innovazioni, specie per ciò che riguarda la composizione sociale dell’esercito. Le ragioni della vittoria dell’esercito rivoluzionario stanno, infatti, anche nella «combinazione della professionalità degli eserciti dell’ancien régime con l’entusiasmo di una nazione in armi».

La natura delle guerre del Settecento era stata così intima-mente connessa con la natura della società impegnata a

condurle, che la rivoluzione all’interno dell’una ne provocava una analoga nell’altra. Lo stato non era più considerato «proprietà» dei principi dinastici, anche se si trattava di la-voratori instancabili che avevano consacrato le proprie ener-gie agli interessi dei loro popoli; divenne invece lo strumento di forze possenti, ispirate a concezioni astratte come Libertà, Nazionalità, Rivoluzione. Queste consentirono a larghi strati della popolazione di vedere nello stato la personificazione di un Bene assoluto a cui tutto si doveva sacrificare e per il qua-le nessun prezzo era troppo alto; di colpo le «moderate e non decisive battaglie» dell’epoca rococò erano diventate assur-di anacronismi. [...]Quando la Rivoluzione fu costretta a difendersi nel 1792 con-tro gli eserciti d’invasione dei propri nemici, c’era ben poca possibilità di applicare dottrine militari. Soltanto una parte dell’antico esercito monarchico era rimasta fedele al governo rivoluzionario e quella parte non veniva considerata sicura. Fanteria addestrata e disciplinata non ce n’era più in quantità sufficiente per applicare le formazioni tattiche in vigore du-rante l’ancien régime. I vuoti nei ranghi erano stati colmati con volontari che non avevano nessuna intenzione di accettare la disciplina tradi-zionale, supponendo che vi fosse stato il tempo necessario per applicarla. Quindi gli eserciti rivoluzionari fecero di necessità virtù, voltando decisamente le spalle agli artifizi dell’ordine anti-co. Essi combattevano da uomini liberi per difendere la li-bertà; e per gli uomini liberi il modo più naturale di combat-

tere è un miscuglio di scaramucce individuali e una colonna di attacco in massa al grido à la baionette! Naturalmente questo era l’unico modo possibile per impiegare uomini che avevano maneggiato il moschetto non più di due o tre volte prima della battaglia; e bisogna dire che non funzionò affat-to male. Non si deve dimenticare che gli eserciti rivoluzionari, erano irrobustiti da una consistente intelaiatura di militari regola-ri, sottufficiali e giovani ufficiali, ben lieti di avere respon-sabilità e opportunità che l’antico ordine aveva loro negato. [...] L’anno seguente l’esercito francese fu ricostituito come un formale amalgame del vecchio ordine con il nuovo [...]. Il segreto del successo dei nuovi eserciti francesi sarebbe consistito nella combinazione della professionalità degli eserciti dell’ancien régime con l’entusiasmo di una nazione di armi.Queste unità non [...] sarebbero riuscite a sopravvivere du-rante i primi anni delle guerre rivoluzionarie – né tanto meno a sopravvivere vittoriose – se non fossero state in condizione di contrapporre una grande superiorità numerica alla effi-cienza professionale dei loro avversari. [...] Alla fine del 1794 Lazare Carnot, l’organizzatore degli eserciti francesi rivoluzionari, aveva oltre un milione di uomini sotto le armi, e li impiegava per ottenere una superiorità numerica schiac-ciante su ogni campo di battaglia. Agir toujours en masse!, agire sempre in massa, era la sua parola d’ordine: «Basta con le manovre, basta con l’arte militare; occorrono soltanto fuoco, acciaio e patriottismo!». Quella componente di assoluta ferocia che si era quasi del tutto perduta di vista nel Settecento, divenne ora predomi-nante. «La guerra è violenta di per sé – scriveva Carnot – Bisogna condurla a oltranza o tornarsene a casa». Finché il terrore era all’ordine del giorno nel paese, a fortiori avrebbe dovuto regnare sovrano sul campo di battaglia. «Il nostro scopo è lo sterminio – tale era il suo incitamento – lo stermi-nio fino alle estreme conseguenze». Le guerre non erano più moderate e non decisive.

M. Howard, La guerra e le armi nella storia d’Europa, Laterza, Roma-Bari 1978

Michael Howard, Le guerre della rivoluzione35

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L’esercito napoleonico presentò evidenti novità rispetto a quello prerivoluzionario dal punto di vista della composizione sociale: le ragioni del suo successo vengono qui spiegate riassumendone sinteticamente le campagne e le principali vittorie.

Dopo il luglio 1792 [...] nasceva un esercito di tipo comple-tamente nuovo [...]. Nel 1780 più del 90 per cento degli

ufficiali erano nobili [...], nel 1794 ne restava solo il 3 per cento. I posti vacanti furono occupati da civili o più spesso da ex sottufficiali dei reggimenti reali a cui la rivoluzione offrì effettivamente una «carriera aperta al talento»: dei 26 ma-rescialli di Napoleone, Augereau, Lefebvre, Ney e Soult pri-ma del 1789 erano sergenti. Ancor più significativo è che Victor aveva militato nella banda musicale e altri tre, Jour-dan, Oudinot e Bernadotte (che [...] concluse la carriera come re di Svezia), erano ex soldati semplici. Si trattava di uomini di notevoli capacità a cui il vecchio esercito non aveva con-cesso nessuna opportunità; ancora nel 1782, si era decretato che i brevetti di ufficiale fossero limitati esclusivamente ai candidati i cui bisnonni erano nobili. Addestrati alle armi, es-si attinsero alla fiducia in sé nata dalla liberazione sociale del 1789 per diventare comandanti illustri.Eppure tra i marescialli di Napoleone c’erano anche uomini che avevano ottenuto il brevetto di ufficiale prima del 1789. Marmont, come lo stesso Napoleone, era un diplomato della scuola di artiglieria di Metz di Luigi XIV [...]. «Apertura al talento» significava ragionevolmente il talento degli ufficiali reali disposti a servire la rivoluzione, anche quelli emigrati che ci avevano ripensato. Nel 1796, quando Bonaparte iniziò a brandire la sua terribile, fulminea spada contro i territori degli Asburgo in Italia, l’esercito repubblicano era un amal-game nel senso più ampio del termine: non solo di ex soldati regolari ed ex membri della Guardia Nazionale, ma anche di ufficiali provenienti da molte altre tradizioni, uniti nel servire una Francia nuova ma anche avidamente consapevoli delle ricompense che una carriera di successo sotto le armi poteva

procurare, tra cui le promozioni e i saccheggi, che non sareb-bero affatto mancati nei vent’anni seguenti. [...]Il successo scaturì in primo luogo dalla qualità superiore del-le stesse armate rivoluzionarie che, perlomeno all’inizio, erano composte da uomini che erano davvero soldati volonta-ri, seguaci di uno Stato «nazionale» [...] e guidati da ufficiali di notevoli qualità personali. [...] Quando venivano condotte in battaglia, le unità «amalgamate» si rivelavano semplice-mente superiori ai loro nemici, che restavano prigionieri dell’abitudine all’ubbidienza cieca e di tattiche stereotipate di cui i francesi si erano liberati.Nel 1800 la rivoluzione era stata salvata dai nemici esterni e salvaguardata in patria dalla reazione conservatrice. Il gio-vane Bonaparte aveva superato tutti i suoi rivali quanto a vittorie all’estero, infliggendo per giunta un colpo decisivo all’estremismo interno con il colpo di stato di brumaio, ovve-ro novembre, del 1799. Il potere politico e militare finì nelle sue mani [...] e tra il 1802 e il 1803 egli strinse una difficile pace con i nemici della Francia – Austria, Prussia, Russia, Gran Bretagna – per poi guidare di nuovo le armate in altri dodici anni di ancor più estese conquiste lampo: contro l’Au-stria nel 1805 e 1809, la Prussia nel 1806 e infine, con esiti disastrosi, contro la Russia nel 1812. Napoleone subì uno scacco netto soltanto in Spagna, dove nel 1809-14 i suoi ma-rescialli dovettero battersi contro un corpo di spedizione bri-tannico [...] al comando di Wellington, appoggiato da un’atti-vità di guerriglia in tutto il paese e rifornito dalla Royal Navy (che dopo la vittoria di Trafalgar nel 1805 era totalmente padrona dei mari). La sua grande Armée non era l’esercito della rivoluzione: quantunque molti ufficiali e parte dei sol-dati fossero i superstiti delle campagne epiche del 1793-96, era diventata uno strumento del potere statale anziché dell’ideologia. Tuttavia conservava una quantità sufficiente di ethos rivoluzionario perché le grandi vittorie napoleoniche – Austerlitz (1805), Jena (1806), Wagram (1809) – appa-rissero un prolungamento di quella tradizione travolgente.

J. Keegan, La grande storia della guerra, Mondadori, Milano 1984

John Keegan, Tra Settecento e Ottocento: l’esercito di Napoleone36

Una rifl essione sugli scopi per i quali ciascuna delle maggiori potenze europee, Inghilterra, Francia, Austria, Prussia e Russia, partecipò alla guerra di Crimea e sulle ripercussioni che la sua conclusione determinò nell’equilibrio geopolitico europeo.

La guerra di Crimea è [...] la più singolare di tutte le guerre del XIX secolo! Guerra mondiale repressa, guerra stretta-

mente localizzata, gioco diplomatico imbrogliato, accentuato

da battaglie occasionali mai conclusive. Guerra per le cause più profonde, segrete, per le occasioni più banali, scopi di guerra fantastici o assolutamente inesistenti.L’Inghilterra e la Francia fanno la guerra con la scusa di sal-vare l’impero turco e di sloggiare la Russia dai territori del Danubio e dalla Romania. Per l’Inghilterra si tratta d’equili-brio, di limitare la potenza espansiva russa. Al contrario Lui-gi Napoleone ha un desiderio di turbare l’equilibrio, di scate-nare una guerra civile contro la potenza dello zar, di nuove possibilità d’azione, dopo le quali la Francia potrebbe fare causa comune con la Russia indebolita ed allarmante. Le po-

Golo Mann, La guerra “diplomatica”37

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tenze tedesche si trovano in mezzo ai belligeranti. Questa è la situazione dell’Austria: essa non può accettare ad alcun prezzo l’avanzamento della Russia nel Danubio inferiore, ma teme la guerra con la Russia, nella quale dovrebbe sopporta-re l’onere principale in Galizia, mentre nel frattempo la Prus-sia potrebbe fare in Germania quel che vuole; teme d’altra parte di contrariare la Francia, perché contro la sua volontà non potrebbe conservare la sua sovranità nell’Italia setten-trionale. L’Austria ha troppe posizioni in pericolo da sorve-gliare, in Italia, in Germania, nel sud-est. [...]La Prussia appare incerta, agitata, quasi inesistente, durante la guerra di Crimea. Ma senza parteciparvi essa guadagna più dalla guerra di Crimea delle potenze vittoriose. È liberata dalla tutela russa. Non è più il terzo l’ultimo esponente nella

«Santa Alleanza» delle potenze orientali, tramontata ormai per sempre. La debolezza della Russia, industriale, militare, morale, si è rivelata a tutti durante la guerra [...].Questa è la conseguenza più importante della guerra di Cri-mea, grazie ad essa sono possibili in Europa ulteriori sviluppi finora repressi dalla semplice presenza minacciosa della Russia [...].Cinque anni solo dopo lo scacco della rivoluzione europea del 1848, la guerra di Crimea procura spazio e respiro per nuove trasformazioni, svelando il declino della grande potenza più reazionaria.

G. Mann, Storia della Germania moderna, 1789-1958, Garzanti, Milano 1978

La guerra di secessione americana fu caratterizzata da innovazioni militari (trincee, fi lo spinato, fucili a ripetizione e a canna rigata, mine, corazzate), tecniche (ferrovia e telegrafo) e tattiche (coinvolgimento della popolazione civile) che ne fecero l’anticamera della prima guerra mondiale.

Due delle caratteristiche tattiche più notevoli della guerra furono: 1. l’inutilità degli attacchi frontali, e 2. la neces-

sità di ricorrere alle trincee: ed entrambe furono conseguenze del fucile ad anima rigata. In tutte le occasioni un assalto frontale contro un nemico ancor fermo portò a costosi falli-menti. [...]L’intera guerra [...] divenne sempre più la campagna del fuci-le rigato, finché, nel 1864, ogni battaglia combattuta tra Grant e Lee [...] in Virginia fu condotta al riparo delle trincee, e quando Grant si avvicinò a Petersburg e a Richmond, en-trambe le parti avevano costruito sistemi di trincee così vasti che la guerra divenne un assedio il quale durò quasi dieci mesi. [...] Fu il fucile rigato insieme con la zappa che fecero della difesa la forma più forte di guerra [...].La guerra combattuta da Grant e Lee, Sherman e Johnston e tutti gli altri generali fu una guerra di fucili rigati e di trincee, di feritoie abbattute ed anche di reticolati [...]. Fu una guerra di sbalorditiva modernità – di mortai da trincea in legno rin-forzati con filo di ferro, di bombe a mano e bombarde, di raz-zi e di diversi tipi di mine antiuomo. Furono introdotte mitra-gliatrici [...], e fu adottato un fucile a serbatoio a ripetizione, lo Spencer. Mine terrestri e marittime, sommergibili, il tele-grafo da campo e i segnali ottici vi ebbero il loro collaudo. [...] Sono citate pallottole esplosive, perfino un lanciafiam-me, e nel giugno del 1864 il generale W. N. Pendleton chiese al Direttore di Artiglieria a Richmond se poteva inviargli gra-nate asfissianti che avrebbero emesso «gas micidiali» e cau-

sato «effetti di soffocazione». La risposta che ricevette fu: «Niente granate asfissianti; non ne teniamo; le produrremo se richiesti». Né la modernità si arrestò qui, perché la guerra navale fu completamente rivoluzionata dalle corazzate [...]. Un sommergibile fu costruito [...] lungo venti piedi, alto cin-que e largo tre e mezzo, spinto da un’elica attivata nell’inter-no da sette o otto uomini. Il 17 febbraio 1864 esso colò a picco l’incrociatore degli Stati Uniti Housatonic [...] al largo di Charleston e affondò con esso.Mentre la difensiva diventava sempre più forte, la guerra più dura e indecisa e l’esito si allontanava, più intenso diventava il rancore [...]. Finché Grant e Sherman non ebbero iniziato la loro duplice campagna nel 1864, la violenza [...] era stata limitata [...] contro le forze armate della Confederazione; ma ora essa sarebbe stata diretta contro il fronte interno [...], la popolazione civile del Sud. [...] Sherman fu il principale esponente di questo ritorno alla bar-barie. Egli abbandonò le convenzioni della guerra nel dician-novesimo secolo [...]. Dopo violenti combattimenti, il 1° set-tembre 1864 egli prese Atlanta, «la porta del Sud»; e deciso a non lasciarsi dietro nemici, ne espulse l’intera popolazione. Egli spiegò in una lettera al generale Halleck, Capo di Stato Maggiore a Washington: «Se la gente leverà grida contro la mia barbarie e crudeltà, risponderò che guerra è guerra [...] Se vogliono la pace, essi e i loro parenti devono smettere di combattere».Per il diciannovesimo secolo questa era una nuova concezio-ne, perché significava che il fattore decisivo della guerra – il potere cioè di chiedere la pace – era trasferito dal governo al popolo [...]. Sherman [...] fece di questo nuovo concetto della guerra il suo principio guida, e guerreggiò contro il popolo del Sud altrettanto quanto contro le sue forze armate.

J.F.C. Fuller, La rivoluzione industriale e la guerra civile americana, in La guerra civile americana,

a cura di R. Luraghi, il Mulino, Bologna 1978

John F.C. Fuller, Le novità della guerra civile americana38

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Lo storico Maldwyn A. Jones, rispetto all’analisi di Fuller, tende a ridurre i caratteri di “modernità” della guerra civile americana.

Da qualunque punto di vista la si esamini, la guerra di se-cessione americana è stata una delle più importanti della

storia, senza dubbio la maggiore nel periodo tra le guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale. Prolungatasi per oltre quattro anni, essa provocò più di un milione di vittime, di cui 650000 morti. È stata definita «la prima guerra mo-derna», e con ogni ragione. Anzitutto fu il primo conflitto a mandare in campo eserciti formati arruolando cittadini di ogni classe sociale e non soldati di professione. In secondo luogo, rispetto alle guerre del passato, scaturì da un insanabile con-trasto di ideologie, divenendo quindi un conflitto con obiettivi illimitati. Se la si confronta con le guerre del Settecento, si scopre che non era possibile trovare una soluzione di compro-messo per risolvere la contesa: sia l’Unione sia la Confedera-zione sarebbero state soddisfatte solo con una vittoria senza ombre. Non si trattò di una guerra totale nel senso in cui oggi si intende tale espressione, perché non provocò una trasfor-mazione globale della struttura economica finalizzata alle esigenze belliche: tuttavia, in ultima analisi, la vittoria pre-miò chi aveva alle spalle un potenziale industriale maggiore. In tale contesto la tradizionale distinzione tra militari e civili finì per diventare evanescente. I generali dell’Unione, e in particolare Sherman e Sheridan, ampliarono il concetto di obiettivo militare includendovi qualsiasi cosa potesse contri-buire allo sforzo bellico del nemico. Forse fu proprio questo uno degli aspetti in cui apparve più evidente il superamento dei vecchi schemi.Comunque non è neppure il caso di sopravvalutare le caratte-ristiche di modernità del conflitto. Le innovazioni tecnologiche furono assai meno numerose di quanto si è scritto. Per la pri-

ma volta si fece un largo uso della ferrovia e del telegrafo per operazioni militari, ma le capacità di movimento dei vari eser-citi rimasero condizionate dai cavalli, sia per i trasporti sia per le staffette portaordini. Nel 1862 entrarono in scena le grandi corazzate, ma le squadre navali dell’Unione incaricate di im-pedire i rifornimenti agli stati del Sud erano costituite quasi completamente da navi in legno, per la maggior parte velieri. Nessuna delle due parti trasse un vantaggio decisivo da nuove invenzioni come il fucile a retrocarica; il moschetto ad avanca-rica, dotato peraltro di canna rigida che ne aumentava sensi-bilmente gittata e precisione di tiro, rimase l’arma principale della fanteria. Durante la guerra di secessione si sperimenta-rono anche vari prototipi di armi come la mitragliatrice, il sot-tomarino e la mina subacquea, ma in forme troppo rudimenta-li per avere un peso sull’andamento del conflitto.Inoltre durante la guerra di secessione furono abbastanza ra-ri gli episodi di ferocia e crudeltà che caratterizzarono invece le guerre del XX secolo. Non mancano rappresaglie che ca-ratterizzarono la selvaggia guerriglia lungo il confine tra Kansas e Missouri, o il terrificante numero di morti nella pri-gione militare confederata di Andensonville (dovuto però più al sovraffollamento che non a maltrattamenti premeditati). Si trattò comunque di casi eccezionali. In genere fu una guer-ra tra gentiluomini, condotta da entrambe le parti in modo civile o addirittura cavalleresco. Assedi e rese rispettarono le regole; ci furono prigionieri scambiati o rilasciati sulla paro-la, specialmente nella prima fase del conflitto. Anche se in tutta l’Unione si continuò a parlare di “ribelli” e di “ribellio-ne”, i soldati della Confederazione catturati vennero conside-rati a tutti gli effetti prigionieri di guerra. Da parte sua, la Confederazione non attuò in concreto la minaccia di uccidere tutti i soldati negri presi prigionieri.

M.A. Jones, Storia degli Stati Uniti, Bompiani, Milano 1994

Maldwyn A. Jones, La guerra di secessione prima guerra moderna?39

Due tra i più notevoli storici del Novecento, Isnenghi e Rochat, mettono a fuoco la dimensione di “rottura” rappresentata nella storia europea dalla Grande guerra. In polemica con chi tende a sottolineare le “continuità” tra il primo e il secondo confl itto mondiale parlando di una «guerra dei trent’anni», emergono profonde differenze tra i due fenomeni.

La prima guerra mondiale divenne una frattura epocale a tutti i livelli. Le serene certezze della civiltà liberale nau-

fragarono nell’orrore delle trincee. E le democrazie parla-

mentari di Francia e Inghilterra, emerse vittoriose e dominan-ti dal conflitto, dovettero subire l’assalto dei partiti e regimi nazifascisti e comunisti, che da opposti versanti negavano radicalmente quella civiltà, mentre gli equilibri raggiunti nel 1919 venivano messi in discussione dalla riscossa tedesca, dall’avvento dell’Unione Sovietica e infine dalla nuova ege-monia degli Stati Uniti e dalla crisi degli imperi coloniali.«Guerra dei trent’anni»: con questa definizione una corrente di pensiero storico-politico intende evidenziare la sostanziale continuità della storia europea sotto il segno della competi-zione per l’egemonia tra stati nazionali attraverso due guerre mondiali e vent’anni di pace […]. Riteniamo tuttavia che il concetto di «guerra dei trent’anni», pur stimolante, sia da

Mario Isnenghi e Giorgio Rochat, La Grande guerra momento di frattura nella storia europea

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respingere come interpretazione complessiva per più ragioni. La prima è il suo carattere eurocentrico: si può considerare la prima guerra mondiale come un conflitto essenzialmente eu-ropeo, anche se il contributo degli imperi coloniali e soprat-tutto degli Stati Uniti non fu secondario. La seconda guerra mondiale è però davvero mondiale, non soltanto perché combattuta nel Pacifico, in Asia, in Africa, con la partecipazione del Giappone, della Cina e di altri pae-si, ma perché ebbe come posta l’egemonia non solo a livello europeo ma appunto mondiale. Un’ulteriore ragione è che la seconda guerra mondiale ebbe carattere più complesso: guerra tra stati nazionali, ma anche tra regimi quanto mai diversi come ideologia, strutture politiche e organizzazione economica. Per fare un solo esempio, l’impero tedesco del 1914 e il Terzo Reich di Hitler sono comparabili come ambizioni di potenza, ma non certo come civiltà; la politica nazista di terrore e ge-nocidio, con metodi industriali e dimensioni di massa, rappre-senta un tragico salto di qualità rispetto alla guerra del 1914-

1918. Inoltre la seconda guerra mondiale non fu condotta soltanto fra stati, ma conobbe pure lo sviluppo di conflitti ci-vili, di classe e di liberazione nazionale, di dimensioni e con-seguenze tutt’altro che trascurabili.Infine, ridurre la prima guerra mondiale a prima fase della guerra dei trent’anni porta a sottovalutare la sua natura di rottura epocale. All’inizio del Novecento, l’Europa era in cre-scita sotto ogni profilo, dall’economia alle scienze, dalla de-mocrazia interna allo sviluppo civile, dalla cultura alle con-dizioni di vita. Questa straordinaria ricchezza di energie fu bruscamente distorta dalle esigenze di una guerra mortale e fratricida, condotta in nome dei più alti valori della civiltà li-berale. Una svolta disastrosa per il ruolo dell’Europa, che uscì dal conflitto logorata e diminuita, e ancor più per la grande civiltà liberale, che alle prospettive di progresso pre-ferì le trincee di Verdun e del Carso.

M. Isnenghi - G. Rochat, La Grande guerra 1914-1918, La Nuova Italia, Milano 2000

La Grande guerra è un confl itto capace di mutare radicalmente e in profondità la vita sociale, le strutture materiali e le abitudini di un intero paese. Secondo la categoria di «guerra totale», seppure con profonde diversità rispetto al secondo confl itto mondiale, vengono sottolineate in maniera particolare le caratteristiche della «mobilitazione» del fronte interno, a livello lavorativo, di consumi, di propaganda, determinata dagli eventi bellici e destinata ad avere un ruolo importante anche dopo la conclusione della guerra. Sul piano intellettuale e propagandistico, sia lo schieramento interventista sia quello neutralista furono estremamente variegati e ricchi di distinzioni al loro interno.

Il 24 maggio del 1915 cominciava quella che può essere considerata a tutti gli effetti come la prima, grande espe-

rienza collettiva degli italiani: esperienza collettiva nel sen-so che tutti, non solo gli uomini in età militare e quindi i com-battenti, ne furono in qualche modo coinvolti. Perciò si parla della prima guerra mondiale come di una “guerra totale”, anche se bisogna intendersi sul significato dell’espressione. Solo la seconda guerra mondiale fu infatti totale in senso proprio, con la caduta della distinzione tra fronte e fronte in-terno a causa dei bombardamenti aerei, dello sconvolgimento dell’intero territorio, della deportazione di popolazioni, sic-ché davvero tutti, compresi i vecchi, i bambini e le donne ne videro coi propri occhi gli effetti, ne subirono direttamente le conseguenze e talvolta – con l’esplosione della guerra civi-le – vi presero parte attiva. Ciò non accadde nel corso della

Grande Guerra, che non investì il territorio della penisola se non nel caso limitato dell’occupazione austro-tedesca del Veneto dopo l’autunno del 1917. Chi rimase a casa non poté rendersi conto appieno di cosa fossero gli assalti e i bombardamenti, non conobbe diretta-mente gli scenari della trincea e della morte di massa, ma dovette limitarsi a immaginarli sulla base dei racconti altrui. Su questo punto si creò anzi una profonda frattura psicologi-ca tra chi aveva fatto personalmente la guerra – sopportan-done materialmente gli effetti più duri – e chi non l’aveva fatta, ossia vista e vissuta, frattura che generò un risentimen-to dei combattenti verso tutto il paese e fu poi un ingrediente essenziale dello spirito reducistico. La prima guerra mondia-le fu dunque una guerra totale solo nel senso che tutte le energie economiche, sociali e intellettuali furono mobilitate per sostenerne il peso e la vita di tutti ricevette dalla guerra in corso un’impronta molto forte.Gli operai delle fabbriche, quando non vennero direttamente arruolati e non finirono anch’essi nelle trincee, furono sotto-posti alle nuove forme di organizzazione del lavoro e al nuo-vo regime disciplinare dettato dalla guerra, che comportò tra l’altro la sospensione del diritto di sciopero. Le donne a loro volta vissero per tempi lunghi separate dagli uomini, e questa era di per sé una novità densa di conseguenze. Inoltre li af-fiancarono talvolta nelle occupazioni tradizionali riservate ai maschi (come spazzine o conduttrici di tram, ma anche come operaie nelle fabbriche metalmeccaniche), videro moltipli-carsi i loro compiti e le loro responsabilità nel lavoro dei campi e nelle aziende domestiche, si arruolarono come vo-lontarie nelle associazioni di assistenza come la Croce Rossa. In tutti i casi guadagnarono un livello di presenza pubblica e di “visibilità” sociale prima sconosciuto. Anche i bambini sentirono in un modo o nell’altro l’influenza di quanto stava accadendo: i loro padri e fratelli più grandi erano partiti e

Antonio Gibelli, Una guerra “totale”41

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Il critico Alberto Asor Rosa esamina le convinzioni e i comportamenti di alcuni protagonisti e movimenti interni al campo bellicista: i riferimenti sono soprattutto a Filippo Tommaso Marinetti, e per esteso a tutta la corrente futurista, e agli articoli di Giovanni Papini La vita non è sacra e Amiamo la guerra! [vedi sopra a pag. 231] pubblicati sulla rivista “Lacerba”, tra le più favorevoli all’intervento.

La crisi europea del luglio 1914 estremizza le posizioni e fa precipitare gli eventi […]. “Le due Italie” si ritrovano a

drammatico confronto […]. Da una parte c’è l’Italia del blocco giolittiano: Giolitti e giolittiani, socialisti, con l’appendice (ma amorfa, passiva) di una larga parte del mondo cattolico, soprattutto proletario e contadino; dall’altra c’è l’Italia del blocco antigiolittiano: conservatori, liberali nazionali, nazio-nalisti, democratici, mazziniani, anarcosindacalisti, anarchi-ci. I primi sono neutralisti; i secondi interventisti. La cultura, intimamente collegata con il blocco antigiolittiano, è, nella grandissima maggioranza, interventista. Il disegno comune, anche se diversificato in molte prospettive diverse, è di ab-battere, attraverso la guerra, l’Italia giolittiana […]. I futuri-sti sono tra i primi e i più violenti animatori delle manifesta-zioni di piazza interventiste. Marinetti, in un proclama agli studenti italiani, afferma (ri-prendendo, consapevole o inconsapevole che ne fosse, una vecchia parola d’ordine nazionalista) che «oggi più che mai la parola Italia deve dominare sulla parola Libertà», e riba-disce la perfetta identificazione tra la guerra e il programma futurista: «Guerra è la sintesi culminante e perfetta del pro-gresso (velocità aggressiva + semplificazione violenta degli sforzi verso il benessere). La Guerra è un’imposizione fulminea di coraggio, di energia e d’intelligenza a tutti. Scuola obbligatoria d’ambizione e d’eroismo; pienezza di vita e massima libertà nella dedizione

alla patria». Non manca la sentenza nazional-proletaria, di-ventata ormai luogo comune per tutto lo schieramento inter-ventista: «Per una nazione povera e prolifica la guerra è un affare; acquistare colla sovrabbondanza del proprio sangue la terra che manca». «Lacerba» è in prima linea nella cam-pagna interventista, alla quale, da un certo momento in poi, dedica tutte le sue forze […]. Tutto il vecchio spirito leonar-diano [relativo alla rivista «Leonardo», n.d.r.] rigurgita da-gli scritti di Papini in onore della guerra: «Il sangue è il vino dei popoli forti; il sangue è l’olio di cui hanno bisogno le ruo-te di questa macchina enorme che vola dal passato al futuro – perché il futuro diventi più presto passato»; «La civiltà in-dustriale, come quella guerresca, si nutre di carogne. Carne da cannone e carne da macchina. Sangue sul campo e sangue sulla strada; sangue sotto la tenda e sangue nell’officina. La vita non sale che gettando dietro di sé, come zavorra, una parte di se stessa»; «In verità siamo troppi nel mon do. A di-spetto del malthusianismo la marmaglia trabocca e gli imbe-cilli si moltiplicano […] per diminuire il numero di codeste bocche dannose qualunque cosa è buona: eruzioni, convul-sioni di terre, pestilenze. E siccome tali fortune son rare e non bastano ben venga l’assassinio generale e collettivo»; «Chi odia l’umanità – e come si può non odiarla anche compian-gendola? – si trova in questi tempi nel suo centro di felicità. La guerra, colla sua ferocia, nello stesso tempo giustifica l’odio e lo consola»; «La guerra […] giova all’agricoltura e alla modernità. I campi di battaglia rendono, per molti anni, assai più di prima senz’altra spesa di concio […] e il fuoco degli scorridori e il dirutarnento dei mortai fanno piazza puli-ta fra le vecchie case e le vecchie cose»; «Amiamo la guerra ed assaporiamola da buongustai finché dura. La guerra è spa-ventosa – e appunto perché spaventosa e tremenda e terribi-le e distruggitrice dobbiamo amarla con tutto il nostro cuore di maschi».

A. Asor Rosa, La grande guerra (1914-1918), in Storia d’Italia dall’Unità a oggi,vol. 4, tomo II,

La cultura, Einaudi, Torino 1975

qualche volta morivano, i giornalini a loro destinati e le let-ture scolastiche parlavano sempre di guerra, i loro consumi alimentari – come quelli della maggioranza delle persone – subirono una contrazione. Tutti i cittadini furono inoltre “bombardati” di messaggi che parlavano della guerra: anche i passanti più distratti che percorrevano le vie delle città non potevano fare a meno di guardare i manifesti in serie che tap-

pezzavano i muri invitando a unirsi agli sforzi comuni per la patria e a sottoscrivere i prestiti nazionali. La vicenda della guerra comportò insomma esperienze nuove non solo per i combattenti, ma per l’intera popolazione.

A. Gibelli, La Grande guerra degli italiani. 1915-1918, Sansoni, Milano 1999

Alberto Asor Rosa, Intellettuali e interventismo42

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Uno dei protagonisti principali del confl itto è il campo di battaglia. Nella ricostruzione del signifi cato storico, geografi co e ideale della “zona di guerra” le innovazioni tecniche introdotte dalla Grande guerra, in parte già eredi della guerra civile americana e del confl itto russo-giapponese del 1904, anticipano e applicano quei princìpi di «morte anonima a distanza» caratteristici dell’epoca industriale e di tutto il Novecento.

La Grande Guerra è stata una guerra di “posizione”. Per più di quattro anni, una fascia territoriale di larghezza

variabile tra pochi metri e qualche chilometro ha spezzato in due il continente europeo. È la “terra di nessuno”: quella che si estende fra le punte avanzate dei due schieramenti e che avanza o arretra di pochissimo, restando in definitiva quasi sempre fissata sulla stessa minima posizione di terre-no. Nella percezione dei milioni di soldati al fronte (tra i quali, come è notissimo, i protagonisti del totalitarismo in-terbellico), si tratta di un territorio all’interno del quale non solo sono sospesi i diritti elementari degli individui, ma in cui persino la natura è stata costretta dall’uomo – dalla vio-lenza delle sue macchine, dei suoi artificiali congegni di morte e distruzione – a sospendere le proprie leggi universa-li, a invertire cicli millenari, a far mancare all’uomo i codici di riferimento basilari.Più che un luogo la terra di nessuno è un “non-luogo” – una piega (e una piaga) entro il continuum spazio-temporale: in cui tutto può accadere e tutto appare estraneo, ostile all’uma-nità. No man’s land, appunto. Un’aberrazione topologica nel tessuto del reale geograficamente rappresentabile, una con-dizione astratta ed estraniata (snaturata dal braccio metalli-co della tecnologia più avanzata). Che si allarga alla fascia circostante, quello che abbraccia l’universo orrendo dei due

sistemi di trincee contrapposti e, ancora oltre, le retrovie con il loro carico di sofferenza e di angoscia: quanto cioè viene definito Zona di Guerra. Chi vi si trova incluso perde la pro-pria coscienza locale, si deterritorializza (quando scrivevano a casa i soldati, non potendo per motivi di sicurezza indicare il luogo in cui si trovavano realmente, erano costretti a loca-lizzarsi mentalmente in una regione segreta e convenzionale: la “Zona di Guerra”, appunto). Il secolo sul quale la Grande Guerra ha impresso il suo marchio di fuoco è un secolo abbre-viato in spazi convulsi e lancinanti. Nel cuore del Novecento si apre una parentesi funerea, dai colori lividi e minacciosi, la Zona di Guerra: una mutilazione non rimarginabile, una zona morta […]. La Zona di Guerra è infatti il primo spazio di vio-lenza della modernità. Il campo di battaglia tecnologico pre-vede una violenza legittimata non più come eccezione ma precisamente come norma (e come tale sanzionata da appo-site decorazioni, celebrata da apposite retoriche). La Zona di Guerra, poi, è il regno della distanza: per la prima volta la tecnologia bellica non solo permette ma impone una condotta dei combattimenti a distanza, cioè senza che l’avversario sia visibile. (Il fucile della Grande Guerra è mortale sino a quasi duemila metri di distanza, mentre l’artiglieria spara in genere a una distanza di cinque chilometri circa dall’obiettivo. I co-mandanti in capo dirigono le operazioni ben distanti dal fron-te, in quartier generali collegati telefonicamente alle prime linee, e nei quali è possibile tenere sotto controllo i campi di battaglia mediante informazioni desunte dalle ricognizioni aeree e aerostatiche). Con la Grande Guerra inizia quel pro-cesso di smaterializzazione dell’avversario, di “sottrazione del corpo”, che culminerà nel conflitto seguente con l’uso del radar (e prosegue ancor oggi con la guerra “intelligente” condotta all’infrarosso, via telecamere mobili e armi teleco-mandate).

A. Cortellassa, Fra le parentesi della storia, in Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra

mondiale, Mondadori, Milano 1998

Andrea Cortellassa, La zona di guerra43

Tra la conclusione della prima guerra mondiale e lo scoppio della seconda, e in particolare alla metà degli anni Trenta, altri confl itti segnarono il contesto europeo e internazionale. La guerra d’Etiopia, intrapresa nel 1935 dal regime fascista, e la guerra civile spagnola del 1936 costituirono, insieme alla crescente aggressività del Reich hitleriano, due eventi fondamentali di quella crisi che avrebbe di fatto portato, nel 1939, allo scoppio della seconda guerra mondiale. A proposito della guerra d’Etiopia, vengono illustrate alcune

modalità della guerra coloniale e delle operazioni militari intraprese dal governo italiano sul territorio africano.

Firmataria a Ginevra, il 17 giugno 1925, con altri 25 Stati, di un trattato internazionale che proibisce ogni utilizzazio-

ne delle armi chimiche e batteriologiche, neppure tre anni dopo l’Italia viola il solenne impegno usando gas asfissianti (fosgene) per distruggere la tribù ribelle dei Mogarba er Rae-dat, che agisce nella Sirtica […]. Accertata l’efficacia distrut-tiva ma anche terrorizzante dell’arma chimica, il governatore

Angelo Del Boca, Le guerre coloniali44

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I due confl itti mondiali del 1914-1918 e del 1939-1945 differiscono sotto vari aspetti: tecnico (staticità contro movimento), geografi co (fronti ben defi niti contro fronti estremamente mobili e inaspettati), strategico (generalmente programmazione contro improvvisazione), militare (impiego di nuove armi), politico-sociale (guerra per l’egemonia tra Stati sovrani la prima, guerra ideologica la seconda) e dei protagonisti (militari contro leader politici).

La prima guerra mondiale fu combattuta dall’inizio alla fine pressoché negli stessi modi e negli stessi luoghi […]. Anche le

tecniche belliche continuarono a essere pressoché le stesse […]. La seconda guerra mondiale, benché anch’essa prevista, cambiò ripetutamente sia carattere sia teatri decisivi man mano che esau-riva il suo corso. Uno storico svizzero l’ha definita «una delle più grandi improvvisazioni della storia, di gran lunga al di sopra dei termini normali». Soltanto l’alto comando della RAF aveva pro-grammato in anticipo la propria strategia, strategia che finì per rivelarsi irrilevante, giacché la Royal Air Force fu per lungo tempo

incapace di attuarla. Per il resto, ogni campagna fu montata fret-tolosamente mentre la guerra era in corso. Chi l’avrebbe mai det-to che le battaglie decisive della seconda guerra mondiale si sa-rebbero combattute a Stalingrado e a Midway, a El Alamein e a Caen? Non furono parimenti previste le armi decisive: le portaerei eclissarono le corazzate; i bombardamenti aerei, dai quali ci si aspettava miracoli, apportarono soltanto un contributo marginale all’esito finale; furono definitivamente più importanti i mezzi da sbarco e le jeep – mezzi che comunque nessuno aveva contem-plato come armi belliche. Certamente i carri armati recitarono un ruolo di primo piano, ma furono pochi a pronosticare che con l’av-vento del cannone anticarro, la fanteria sarebbe entrata in azione prima dei mezzi corazzati e non viceversa. La guerra finì con l’esplosione di due bombe atomiche. Prima del conflitto pratica-mente nessuno credeva che la fissione nucleare avrebbe mai avu-to un’applicazione pratica. È facile definire la natura della prima guerra mondiale. Fu un conflitto fra due alleanze, o blocchi di potenze – la Triplice Intesa […] da una parte e le Potenze centra-li […] dall’altra. La guerra scoppiò all’interno di un’unica società, i sistemi sociali e politici dei belligeranti erano simili […], nono-stante i tentativi di reperire delle profonde questioni morali […] la guerra fu combattuta per vincerla, il suo scopo fu un aggiusta-mento dell’equilibrio delle forze non già la supremazia mon diale

della Libia, Badoglio, autorizza il 31 luglio 1930 un bombar-damento all’iprite dell’oasi di Taizerbo, dove si sospetta ab-biano trovato rifugio nuclei di ribelli fuggiti dalla Tripolitania […]. Dell’impiego dei gas nelle operazioni per la riconquista della Libia, in Italia non giunge alcuna eco, tanto è fitta la griglia della censura. Non è così, invece, per il mondo arabo, che è subito informato di questa e di altre infamie. Ma il regi-me fascista non sembra preoccuparsi troppo per le campagne di stampa anti-italiane e per la minaccia avanzata da alcune organizzazioni arabe di boicottare merci e istituzioni italiane. Anche quando, nel 1935, viene decisa l’aggressione dell’Etio-pia, Roma sembra disinteressarsi delle possibili reazioni dell’opinione pubblica internazionale e non ha alcuna esita-zione nell’inviare in Eritrea e in Somalia forti quantitativi di aggressivi chimici, i quali non passano inosservati durante il transito delle navi nel canale di Suez. Tra l’agosto del 1935 e il maggio del 1936 vengono stoccati nei depositi di Sorodocò, Adigrat e Adua 617 tonnellate di materiali per il servizio chi-mico. In Somalia, alla fine del settembre 1935, risultano sbarcate 36 tonnellate di iprite. Se in Libia […] il ricorso all’impiego di gas è molto limitato sia per la frequenza degli attacchi che per il quantitativo di aggressivi usati, in Etiopia la guerra chimica assume invece un ruolo di primo piano, an-che se non sarà determinante per le sorti del conflitto. Si può anzi sostenere che Badoglio e Graziani avrebbero comunque vinto la guerra anche senza ricorrere ai gas, vista la superio-rità schiacciante del loro esercito. E questo rende ancora più pesante la responsabilità di Mussolini […]. Mussolini autoriz-za Badoglio e Graziani […] all’uso sistematico dei gas. Dal 22 dicembre 1935 al 29 marzo 1936 la sola aviazione effettua il

lancio di 972 bombe C500.T22 […] per complessive 272 ton-nellate di iprite […]. Badoglio ricorre anche alle artiglierie per gasare gli etiopi […]. Secondo i calcoli di Giorgio Rochat […] la sola aviazione avrebbe sganciato durante il conflitto italo-etiopico 1597 bombe a gas, in gran parte del tipo C500.T, per un totale complessivo di 317 tonnellate […]. Ma lo stesso autore e anche altri storici che hanno studiato il pro-blema sono esitanti nel riferire le cifre definitive delle bombe lanciate […]. Se questa tragica contabilità appare ancora in-completa, si può comunque ritenere che dal 1935 al 1938 sono state lanciate sui soldati e sui civili etiopici non meno di 500 tonnellate di aggressivi chimici […].Il regime fascista ha sempre respinto le accuse del governo etiopico di aver fatto ricorso ai gas. «La guerra chimica – fa rilevare Rochat – fu infatti cancellata dalla stampa, dalla produzione documentaria e memorialistica e dalla coscienza popolare con un’efficacia che ha pochi precedenti». Ancora nel dopoguerra e sino a pochissimi anni fa era impossibile affrontare l’argomento in sede storiografica senza essere in-colpati di falso e di vilipendio delle forze armate. Da qualche tempo, però, anche se con un ritardo di mezzo secolo, la veri-tà si sta facendo strada e il segreto sui gas, così gelosamente custodito dal fascismo e, nel dopoguerra, dalla lobby colo-nialista, cade in frantumi. Anche i superstiti protagonisti di quella guerra spietata, sino a ieri intimiditi dall’atmosfera di diffusa omertà, trovano oggi il coraggio di fornire le loro te-stimonianze.

A. Del Boca, I crimini del colonialismo fascista, in Le guerre coloniali del fascismo, Laterza, Roma-Bari 1991

Alan J.P. Taylor, I caratteri della seconda guerra mondiale45

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[…]. La seconda guerra mondiale, al pari della prima, fu chiara-mente una guerra fra stati sovrani e il patriottismo puro e sempli-ce fu per molti l’unico motivo e per molti altri il predominante […]. Ciononostante la guerra fu anche un conflitto di fedi contrappo-ste. I tedeschi combatterono consciamente per il nazionalsociali-smo […]. Gli avversari della Germania combatterono meno consa-pevolmente per sconfiggere tutto ciò che sosteneva il nazismo. Partendo dall’obiettivo della liberazione nazionale, essi passaro-no inevitabilmente anche alla restaurazione della democrazia, sebbene i russi interpretassero questa parola in maniera molto diversa da come veniva intesa in Occidente. Col procedere della guerra, la coalizione antitedesca finì semplicemente per battersi a favore della causa dell’umanità […], per fare della seconda guerra mondiale un qualcosa di molto raro: una guerra giusta […]. La prima guerra mondiale era stata definita come una guerra di masse. Ciò è vero nel senso che milioni di uomini divennero com-battenti. Ma il “fronte” rimase pur sempre lontano da “casa” e i

civili cambiarono “occupazione” più che stile di vita […]. Nel se-condo conflitto mondiale tutti furono coinvolti. La distinzione fra “fronte” e “casa” scomparve praticamente, sotto l’impatto di bombardamenti aerei indiscriminati […]. Nel 1914 l’opinione pub-blica, in preda all’esaltazione, spinse i governi verso la guerra e lo sciovinismo demagogico esercitò in seguito un potente influsso sulla strategia militare. Prima e durante il secondo conflitto mon-diale, furono gli statisti a condurre il gioco e i popoli a seguire […]. Gli statisti sostennero un ruolo decisamente più importante nella seconda guerra mondiale che non nella prima […]. I generali furo-no degli amministratori […]: fondamentalmente contavano sol-tanto i politici […]. Non è affatto un’esagerazione affermare che quattro uomini – Hitler, Churchill, Roosevelt e Stalin – presero personalmente ogni decisione importante della guerra.

A.J.P. Taylor, Storia della seconda guerra mondiale, il Mulino, Bologna 1990

È possibile dare una defi nizione della Resistenza? La Resistenza fu contemporaneamente, a seconda dei soggetti che vi furono impegnati, «guerra civile» (poiché combattuta tra italiani), «guerra patriottica» (poiché combattuta per la liberazione della patria) e «guerra di classe» (poiché combattuta in nome di interessi di classe). L’uso dell’espressione «guerra civile», originariamente impiegata solo «dai vinti fascisti», ma poi adottata da autori di altre scuole storiografi che, è legittimo e necessario per cercare di defi nire una realtà estremamente complessa senza ricorrere a fuorvianti semplifi cazioni.

L’interpretazione della lotta fra la Resistenza e la Repub-blica sociale italiana come guerra civile ha incontrato da

parte degli antifascisti […] ostilità e reticenza, tanto che l’espressione ha finito con l’essere usata quasi soltanto dai vinti fascisti, che l’hanno provocatoriamente agitata contro i vincitori […]. Affermare che la Resistenza è anche una guerra civile […] significa sforzarsi di comprendere come i tre aspetti della lot-ta – patriottica, civile, di classe – analiticamente distinguibi-li, abbiano spesso convissuto negli stessi soggetti individuali o collettivi.Subito dopo la liberazione, come durante la lotta stessa […] il tabù contro la guerra civile era stato meno forte. Emilio Sereni, nel rapporto tenuto il 6 agosto 1945 al primo con-gresso dei CLN della provincia di Milano, aveva parlato ripe-tutamente dei «due anni di guerra civile» […]. Nel 1947 Car-lo Galante Garrone non aveva avuto remore ad affermate che era stata combattuta una «sanguinosa guerra civile» […]. Ancora […] negli anni sessanta Francesco Scotti sostenne che

la Resistenza era stata «anche una guerra civile contro il fa-scismo» […] e anche Paolo Spriano usa l’espressione «guer-ra civile» frammista a quella «guerra di liberazione». Ma nel volume delle Opere di Togliatti relativo agli anni 1944-1955 le parole «guerra civile» non compaiono mai […]. Questa esi-genza collimava con la propensione largamente diffusa a occultare il dato elementare che «anche i fascisti, nonostante tutto, erano italiani» […]. Il primo modo di esorcizzare quan-to di regressivo e di pauroso c’è nella rottura dell’unità dello Stato nazionale sta nel negare la comune nazionalità di chi quella rottura compie. I fascisti avevano sempre chiamato “antinazionali” i loro avversari; e questi li hanno ricambiati espellendoli in idea – almeno quelli della RSI – dalla storia d’Italia, se non addirittura dall’umanità. Giustamente Franco Calamandrei definì «esorcistica» la formula «uomini e no» che Vittorini diede come titolo al suo brutto romanzo di argo-mento resistenziale. È non è un caso che Giorgio Bocca, uno dei pochi scrittori non fascisti che abbia senza reticenza parlato di guerra civile, sia stato recensito sotto il titolo Anche Salò è storia nostra. As-serzioni come quella di Corrieri, «guerra civile non ci fu» sono in effetti il meccanico corollario di altre quali «il fasci-smo repubblicano non trovò nessuna rispondenza nella co-scienza popolare». La verità di fondo di questa affermazione non elimina il problema dei fascisti che […] si affiancarono ai tedeschi. La qualifica di servi dello straniero data ai fascisti non è sufficiente a cancellare in loro quella di italiani, né autoriz-za a eludere la riflessione sui nessi, non nuovi ma in questo caso strettissimi, fra guerra esterna e guerra interna. Nem-meno si può sorvolare sugli italiani, notevolmente più nu-merosi dei fascisti militanti, che di fatto accettarono il go-verno della RSI.

C. Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1994

Claudio Pavone, Definire la Resistenza46

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Nel contesto di contrapposizione frontale tra USA e URSS scatenare la guerra contro la superpotenza avversaria, o anche vincerla, signifi ca per la fi losofa tedesca la fi ne per entrambe.

Lo sviluppo tecnico degli strumenti della violenza ha ora raggiunto il punto in cui nessun obiettivo politico potrebbe

ragionevolmente corrispondere al loro potenziale distruttivo o giustificarne l’impiego effettivo in un conflitto armato. Per-ciò la guerra – da tempo immemorabile spietato arbitro finale delle dispute internazionali – ha perso gran parte della sua efficacia e quasi tutto il suo fascino. L’“apocalittica” partita

a scacchi fra le superpotenze [USA e URSS, n.d.r.], cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civil-tà, si gioca secondo la regola per cui «se uno dei due “vince” è la fine per entrambi»; è un gioco che non somiglia a nessu-no dei giochi di guerra che lo hanno preceduto. Il suo scopo “razionale” è la deterrenza, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, che non è più una preparazione alla guerra, può essere giustificata soltanto in base alla tesi che un potenziale di deterrente sempre maggiore è la migliore garanzia di pace. Alla domanda se e come saremo mai in grado di districarci dall’ovvia insania di questa posizione, non c’è risposta. Dato che la violenza […] ha sempre bisogno di strumenti […], la rivoluzione tecnologica, una rivoluzione nella fabbricazione degli strumenti, è stata particolarmente marcata in campo

Hannah Arendt, La violenza nel XX secolo48

L’interpretazione dello storico e giornalista Giorgio Bocca, partigiano di Giustizia e Libertà durante il confl itto, si contrappone a quella dello storico Roberto Vivarelli che, quattordicenne, militò nella Repubblica di Salò. Bocca mette in luce i caratteri peculiari della Resistenza, Vivarelli, a molti anni di distanza, difende invece la legittimità della propria scelta.

Quarantacinquemila partigiani caduti, ventimila mutilati o invalidi, il più forte movimento di resistenza dell’Europa

occidentale, i riconoscimenti alleati, l’insurrezione naziona-le: la guerra di liberazione c’è, il suo scopo è incontestabil-mente raggiunto, ma la Resistenza non è solo questo. Le masse operaie e contadine legate, per la prima volta, a una guerra popolare, i CLN come prefigurazione di una democra-zia diretta, i Consigli di gestione, la legislazione del CLNAI, scritta sul tamburo, la crosta sociale spezzata, uomini e forze nuove sollevati, imposti: un principio di rivoluzione, una pre-messa alla rivoluzione ci sono, ma la Resistenza rivoluzione non è […]. La Resistenza è semplicemente […] una guerra po-litica, la cruenta, penata gestazione di un’Italia diversa […], difficile, in parte deludente, promozione politica e civile di una nazione […]. La Resistenza ha avuto fra i suoi fondamen-tali caratteri quello di essere guerra al fascismo, guerra a una politica; guerra di liberazione dallo straniero, sì, ma an-che a quello straniero di casa che è il fascismo. Guerra politi-ca, inedita nella storia nazionale. Erede sì, di esperienze e di lotte politiche precedenti, ma con il suo inconfondibile segno […], riscatto, coagulo, incontro delle forze democratiche di un Paese che non sarebbe quello che è, nel bene e nel male, senza di essa.

G. Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943 - Maggio 1945, Euroclub, Milano 1980

A qualcuno che oggi mi chiedesse se sono “pentito” di ave-re combattuto nelle file della disprezzata Repubblica di

Salò, risponderei che non soltanto non sono pentito, ma ne sono a mio modo orgoglioso, pur essendo oggi consapevole che la causa era moralmente e storicamente ingiusta. […]. Non sono pentito, e anzi rifarei quello che ho fatto, semplice-mente perché la mia personale storia non mi consentiva altra scelta. Avrei potuto, naturalmente, rimanere a casa tranquil-lo; era quanto, del resto, avrebbe suggerito l’età. Ma ciò si opponeva al mio spirito per così dire interventista, e di ciò non mi dolgo affatto. Credo, anzi, che in Italia la vera divisio-ne, almeno sul piano morale, non sia tanto tra chi ha combat-tuto in buona fede da una parte della barricata, e chi dall’al-tra; bensì tra coloro i quali, una minoranza, sia pure in base a convinzioni diverse […] hanno comunque messo a repentaglio allora la loro vita, e coloro i quali, invece, la maggioranza, hanno preferito stare alla finestra e vedere come andava a finire. Volendo partecipare, in un momento cruciale della sua storia, alle vicende del mio paese, volendo mettere in gioco la mia vita in una partita che si presentava comunque decisi-va, la mia situazione personale, in quel momento, non mi consentiva scelta diversa da quella che feci […]. Gli esseri umani sono, sempre, solo relativamente liberi, per-ché non sta a noi scegliere quando, come e dove si nasce, quando, come e dove si muore. Le situazioni nelle quali ci veniamo a trovare dipendono, il più delle volte, da circostan-ze di cui noi non siamo responsabili, ed è all’interno di queste circostanze che ci è concesso di offrire la nostra opera, cioè di fare la nostra parte. Nello svolgere quest’opera, ciascuno è responsabile della propria condotta, e in ciò siamo effettiva-mente liberi […]. Allora, dopo l’8 settembre 1943, io feci semplicemente quello che ritenevo il mio dovere, e credo che basti.

R. Vivarelli, La fine di una stagione. Memoria 1943-1945, il Mulino, Bologna 2000

Giorgio Bocca e Roberto Vivarelli, I caratteri della guerra 1943-194547

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militare […]. Il fatto stesso che coloro che sono impegnati nel perfezionamento dei mezzi di distruzione hanno alla fine rag-giunto un livello tecnico per cui il loro scopo, vale a dire la guerra, è sul punto di scomparire del tutto per virtù dei mezzi a disposizione, è come un ironico richiamo a questa onnipre-sente imprevedibilità che incontriamo nel momento in cui ci avviciniamo al regno della violenza. La ragione principale per cui la guerra c’è ancora non sta né in un segreto desiderio di morte della specie umana, né in un insopprimibile istinto di

aggressione, né, infine e più plausibilmente, nei seri pericoli economici e sociali che il disarmo comporta, ma nel semplice fatto che sulla scena politica non è ancora comparso nessun mezzo in grado di sostituire questo arbitro definitivo degli affari internazionali.

H. Arendt, Sulla violenza, in Violenza o nonviolenza (1878-1987), Linea d’Ombra, Milano 1991

L’evoluzione del movimento pacifi sta tra la fi ne della seconda guerra mondiale e il crollo del muro di Berlino può essere distinto in tre fasi. Vero punto centrale di confronto, al suo interno, è la questione atomica con i suoi complessi sviluppi.

Si può dire, schematizzando e semplificando, che fino alla caduta del muro di Berlino (1989), simbolo delle mutate

condizioni di forza del rapporto tra superpotenze, i movimen-ti pacifisti fossero soprattutto […] interessati alla questione atomica, la quale […] rimaneva prioritaria. Dopo la caduta del muro, l’interesse per la questione ato mica e per le inizia-tive volte a contrastare la politica della deterrenza [cioè la capacità di impedire un attacco atomico da parte o verso i nemici per timore di un’identica rappresaglia, n.d.r.] hanno lasciato spazio a una visione più complessa […]. Fino al ter-mine degli anni Ottanta la questione “epocale” rimane quella atomica, e il movimento pacifista si confronta con la politica della deterrenza delle superpotenze, nella quale si possono distinguere […] almeno tre tappe fondamentali. La prima, che si svolge più o meno tra il 1945 e il 1960, mira non più, come nella tradizionale deterrenza pre-atomica, a far fallire un at-tacco nemico, bensì a punire il suo successo […]. Tale model-lo di deterrenza contemplava la possibilità, in caso di un suo fallimento, della distruzione completa […]. La seconda tappa della deterrenza, che si svolge tra il 1960 e il 1974, si svilup-pa in relazione all’accrescersi della potenzialità atomica dell’Unione Sovietica, che rendeva sempre meno credibile la risposta nucleare a un qualsiasi attacco convenzionale. Si sviluppano perciò le strategie […] di controllo degli arma-menti (arms control) […]. Vengono stipulati accordi rilevanti, quali la rinuncia ai test atomici in superficie, nel 1963; il trat-tato di non-proliferazione nucleare del 1968; l’accordo Anti-balistic missiles del 1972, diretto a limitare il sistema anti-missili; il SALT 1 (Strategic Arms Limitation Talks), sempre del 1972, per la limitazione delle armi strategiche. La secon-da fase della deterrenza segna insomma il passaggio da una

politica di semplice confronto armato a una politica coopera-tiva. La terza tappa inizia verso il 1974, ed è soprattutto de-terminata dall’aumento del numero degli stati dotati di arma-mento atomico. Numerosi stati del Terzo mondo sono ormai in procinto di dotarsi di armi nucleari, aprendo situazioni di dif-ficile controllabilità […]. Allo smarrimento […] del senso di relativa stabilità proprio della politica di deterrenza, corri-sponde la mobilitazione del movimento pacifista, che tende ad assumere, in alcuni casi, connotazioni di massa […].Potremmo dividere, ad esempio, i movimenti per la pace in tre gruppi fondamentali: quelli che lottano contro tutte le guerre; quelli che lottano contro un tipo particolare di guerra (ad esempio il Vietnam); quelli che lottano contro un aspetto particolare delle guerre (ad esempio le armi atomiche). Op-pure potremmo distinguere le principali tradizioni e i corri-spondenti fini ideali e così individuare differenti movimenti: pacifismo religioso (obiezione di coscienza); internazionali-smo liberale; anti-coscrizionismo (lotta per la salvaguardia delle libertà civili); resistenza alla guerra di tradizione socia-lista (anti-militarismo); internazionalismo socialista; anti-militarismo femminista; pacifismo radicale (non violenza gandhiana), cominternazionalismo (pacifismo filosovietico); pacifismo nucleare (disarmo unilaterale nucleare). Si tratta, com’è evidente, di classificazioni di comodo, che mirano a stabilire un relativo ordine in una galassia che va dal pacifi-smo generico alla non violenza radicale. Oltre al problema dell’ampiezza, il movimento pacifista pre-senta ovviamente una varietà di obiettivi prioritari a seconda delle emergenze politiche e della collocazione geografica […]. Un insieme così complesso di ispirazioni ha ricevuto, tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta, un’unità di fon-do almeno apparente dal tema di fondo più urgente, l’opposi-zione alla politica di deterrenza […]. Certamente tale unità lascia irrisolta la profonda diversità dei singoli gruppi che rende più problematica l’azione collettiva di massa su tempi più lunghi.

R. Diodato, Pacifismo, Editrice Bibliografica, Milano 1995

Roberto Diodato, “Deterrenza” e movimenti pacifisti49

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S t o r i o g r a f i a

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La guerra in Iraq si è rivelata un colossale errore militare e strategico. Di conseguenza, i costi del confl itto stanno diventando esorbitanti, per l’amministrazione americana. Rispetto ad altri confl itti, oltre tutto, la medicina è in grado di salvare moltissime vite, ma numerosi soldati – che in precedenza sarebbero

morti sul campo o negli ospedali militari – graveranno per anni sul bilancio statale come mutilati e invalidi.

Kenneth Sargent, veterano dei marines, ha una lesione ce-rebrale, inflitta dai proiettili di un cecchino a Najaf. Marie-

la Mason, ex autista dell’esercito, sposata e con una bambina

Marco Valsania, Il dramma nascosto dei feriti di guerra in Iraq51

Nel 1999, due colonnelli cinesi pubblicarono un libro in cui intuivano che, dopo la fi ne della guerra fredda, le modalità di concepire e attuare la guerra sarebbero completamente cambiate. La prima guerra del Golfo aveva messo in chiaro che l’esercito americano era invincibile, sul campo di battaglia. Consapevoli di questo invalicabile gap – profetizzarono i due uffi ciali – i nemici degli Stati Uniti li avrebbero colpiti con altri mezzi, capaci di mettere in diffi coltà persino la potenza militare più forte del pianeta.

Nell’epoca dell’integrazione tecnologica e della globaliz-zazione, la guerra non può essere più definita propria-

mente dall’uso delle armi e, a partire da questo nuovo dato di fatto, il rapporto tra armi e guerra cambia, mentre la compar-sa di armi di nuova concezione, e soprattutto i nuovi modi di concepire le armi, hanno gradualmente offuscato la fisiono-mia della guerra. L’attacco di un singolo hacker dev’essere considerato un atto ostile o no? Il ricorso a strumenti finan-ziari per distruggere l’economia di un paese può essere equi-parato a una battaglia? Le immagini di un soldato americano lungo una strada di Mogadiscio, trasmesse dalla CNN, minano la determinazione degli Stati Uniti ad agire come gendarmi mondiali, modificando in tal modo la situazione strategica internazionale? La valutazione delle azioni militari deve te-ner conto dei mezzi o dei risultati? Ovviamente, se concepia-mo la guerra nel modo tradizionale, non possiamo fornire alcuna risposta a queste domande. Quando però ci rendiamo conto all’improvviso che tutte queste azioni non belliche pos-sono prefigurare i conflitti futuri, dobbiamo allora trovare un nuovo nome a questo nuovo tipo di guerra. Una guerra che trascende tutti i limiti e i confini: una guerra illimitata, dun-que. Se adottiamo questo nuovo termine, ciò significa che in questo tipo di conflitti verranno usati tutti i mezzi a disposi-zione, che l’informazione sarà onnipresente, e il campo di battaglia si estenderà ovunque. Significa che tutte le armi e le tecnologie potranno essere utilizzate contemporaneamen-te, che tutti i confini tra la guerra e la non guerra, la sfera militare e quella non militare, verranno cancellati, che anche molte delle attuali concezioni della guerra cambieranno e

che persino le sue regole dovranno forse essere riscritte. […] Dove combattere? L’epoca dei militi forti e coraggiosi, eroici difensori della patria è tramontata. In un mondo in cui la guerra nucleare sembra destinata a diventare un’espressione desueta, è probabile che un gracile studioso con le lenti spes-se sia più adatto a divenire un moderno soldato rispetto a un giovane nerboruto dalla fronte bassa. La migliore dimostra-zione di ciò è la storia, che circola negli ambienti militari oc-cidentali, di un tenente di vascello che usava il modem per tenere sotto controllo un’intera divisione navale. Il contrasto fra i militari di oggi e quelli di ieri è evidente quanto quello che abbiamo già osservato fra le armi moderne e quelle pre-cedenti. […] I sistemi d’arma moderni hanno consentito loro di restare lontani da qualsiasi campo di battaglia tradizionale e di attaccare il nemico da luoghi al di fuori del suo raggio visivo dove non debbono necessariamente trovarsi al cospet-to di spargimenti di sangue. Tutto questo ha trasformato cia-scun soldato in un gentleman appartato che non assiste a spettacoli cruenti. Il combattente digitale sta sostituendo il guerriero che affrontava di petto il nemico: un ruolo che per secoli è rimasto invariato. […]Ancor più micidiali – e più minacciose nella realtà dei fatti – sono le organizzazioni non statali, che mettono i brividi all’Occidente solo a parlarne. Tutte hanno in varia misura un carattere militare, e sono generalmente motivate da un credo fanatico, come quelle islamiche che combattono per la guerra santa; le milizie caucasiche; la setta giapponese di Aum Shinrikyo; e, più di recente, reti terroristiche come quella di Osama bin Laden, responsabile degli attentati contro le am-basciate americane in Kenya e in Tanzania. Le varie azioni distruttive, folli e mostruose, di questi gruppi tendono ad es-sere fattori scatenanti di guerre contemporanee più del com-portamento di singoli hacker solitari. Inoltre, quando uno Stato o un esercito nazionale (che rispettano alcune regole e fanno soltanto un uso limitato della forza per raggiungere obiettivi circoscritti) deve affrontare un’organizzazione di questo tipo (che non osserva invece alcuna regola e non teme di scatenare una guerra illimitata usando qualsiasi mezzo), avrà spesso molte difficoltà ad ottenere il sopravvento.

Qiao Liang, Wang Xiangsui, Guerra senza limiti, in Nel mondo di Bin Laden, “I quaderni speciali di Limes.

Rivista italiana di geopolitica”, 2001

Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti50

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di tre anni, in due anni di cure è uscita dal coma ma ancora cerca faticosamente di riprendersi. Un proiettile ha rubato a Colin Smith, 19 anni, parole e movimenti. Le ferite di Jona-than Schulze e Timothy Bowman erano meno visibili ma al-trettanto profonde: pochi mesi dopo il ritorno dall’Iraq, a po-co più di vent’anni si sono suicidati. In gergo, post traumatic stress disorder, sindrome da stress post-traumatico. Kevin Felty, smessa l’uniforme, non ha trovato lavoro ed è stato arruolato nelle schiere degli homeless, i senza casa, con la moglie incinta.I loro volti, alcuni dei tanti che ogni giorno filtrano sui mass media americani, sono quelli del grande dramma nascosto della guerra in Iraq e Afghanistan. Il volto degli oltre 50 000 feriti già tornati in patria, per il 95% dalle prime linee irache-ne. Soldati il cui sacrificio incute rispetto e strappa medaglie, ma che è anche una spina nel fianco della Washington ufficia-le. Perché se è vero che Iraq e Afghanistan hanno riguardato un esercito di professionisti e non di leva, coinvolgendo diret-tamente solo mezzo punto percentuale della popolazione con-tro il 2% del Vietnam, simili cifre traggono in inganno. I ranghi di chi non può dimenticare o superare le conseguenze del con-flitto si sono ormai gonfiati a dismisura, tra militari e contrac-tor civili.Almeno un milione e mezzo di americani ha finora servito in Iraq o in Afghanistan, a volte su entrambi i fronti. Quasi 25 000 sono stati colpiti in combattimento, altri 28 000 han-no dovuto essere evacuati per ferite o malattie. Un soldato di ritorno su cinque è almeno parzialmente menomato, fisica-mente o psicologicamente. Forse non una generazione perdu-ta, come in Vietnam. Ma il conto per gli Stati Uniti, ha avverti-to Steve Robinson dell’associazione Veterans for America, «richiederà decenni per essere pagato». Secondo lui oltre 750 000 veterani avranno bisogno di cure.Il numero e la gravità dei feriti per l’America è diventato il grande shock della nuova guerra al terrorismo. Dall’Iraq oggi tornano sedici feriti per ogni soldato ucciso, contro i meno di

tre del Vietnam e della Corea e i meno di due delle guerre mondiali. Risultato di equipaggiamenti migliori, da elmetti in kevlar a giubbotti protettivi con piastre di ceramica. E di inno-vazioni mediche e chirurgiche, quali le polveri per arrestare le emorragie. Ben il 96% dei militari che arriva in vita ad un ospedale da campo viene salvato. Questa realtà, però, molti-plica anche le sfide: i sopravvissuti si portano sovente dietro ferite gravi e la durata della missione in Iraq, con ripetuti turni al fronte delle stesse truppe, crea problemi tanto fisici, per la protratta esposizione a sostanze tossiche, che mentali. Il 33% dei veterani che chiede assistenza medica ha disturbi psichici. Oltre metà dei feriti è stata colpita da ordigni, un quinto da colpi di mortaio, cecchini o razzi, con lesioni cerebrali e alla colonna vertebrale o amputazioni.«Il costo della guerra – dice Scott Wallsten, economista della conservatrice Progress and Freedom Foundation – è molto più elevato di quanto possa rivelare qualunque budget. E uno de-gli aspetti più complessi da valutare è quello dei feriti. È diffi-cile anche solo reperire i dati e in molti casi si tratta di ferite particolarmente gravi, danni cerebrali e perdite di arti». Wall-sten ha provato a misurare le risorse necessarie alle cure, im-mediate e future: una seria ferita al capo può richiedere tra i 600 000 e i 4,3 milioni di dollari. E si è cimentato anche con gli interrogativi sulle conseguenze economiche della perdita di benessere e attività delle vittime, considerando che una vita statistica, in media, vale 6,5 milioni di dollari. Ha concluso provvisoriamente che i feriti oggi rappresentano una perdita economica tra i 14 e i 43 miliardi di dollari. Linda Bilmes, ex alto funzionario dell’amministrazione Clinton ora a Harvard, ha pubblicato uno studio sui feriti di ritorno ben più drammati-co: solo guardando alle risorse necessarie per prendersi cura di loro, nell’arco di 40 anni, assistenza medica e compensi di invalidità potrebbero variare tra i 350 e i 700 miliardi.

M. Valsania, I feriti, dramma nascosto della guerra in Iraq, in “Il Sole 24ore”, 4 marzo 2007

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P e r c o r s o 1 0

Cultura e arte

La cultura rende un popolo facile da governare, ma impossibile a ridursi in schiavitù.

Henry Peter Brougham

Cultura è quella cosa che i più ricevono, molti trasmettono e pochi hanno.

Karl Kraus

L’arte non consiste nel rappresentare cose nuove, bensì nel rappresentare con novità.

Ugo Foscolo

L’arte è la menzogna che ci permette di conoscere la verità.Pablo Picasso

Creatività è permettersi di fare degli sbagli. Arte è sapere quali di questi sono da tenere.

Henri Adams

L’arte non riproduce ciò che è visibile, ma rende visibile ciò che non sempre lo è.

Paul Klee

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D O C U M E N T I

Poggio Bracciolini, I classici ritrovatiIn una celebre epistola del 1416 Poggio Bracciolini annuncia a Guarino Guarini il ritrovamento delle Istituzioni oratorie di Quintiliano: il rinnovato rapporto con i classici come punto di partenza dell’umanesimo è colto in tutta la sua entusiastica fase iniziale.

Solo il discorso è quello per cui perveniamo ad esprimere la virtù dell’animo, distinguendoci dagli altri animali. Bi-sogna quindi essere sommamente grati sia agli inventori delle altre arti liberali, sia soprattutto a coloro che, con le

loro ricerche e con la loro cura, ci tramandarono i precetti del dire e una norma per esprimerci con perfezione. Fecero infatti in modo che, proprio in ciò in cui gli uomini sovrastano specialmente gli altri esseri animati, noi fossimo ca-paci di oltrepassare gli stessi limiti umani. E, molti essendo stati gli autori latini, come sai, egregi nell’arte di perfezio-nare e adornare il discorso, fra tutti illustre ed eccellente fu M. Fabio Quintiliano, il quale così chiaramente e compiu-tamente, con diligenza somma, espone le doti necessarie a formare un oratore perfetto, che non mi sembra gli manchi cosa alcuna, a mio giudizio, per raggiungere una somma dottrina o una singolare eloquenza. Se egli solo rimanesse, anche se mancasse il padre dell’eloquenza Cicerone, raggiungeremmo una scienza perfetta nell’arte del dire. Me egli presso di noi italiani era così lacerato, così mutilato, per colpa, io credo, dei tempi, che in lui non si ri-conosceva più aspetto alcuno, abito alcuno d’uomo. […] Era penoso, e a mala pena sopportabile, che noi avessimo, nella mutilazione di un uomo sì grande, tanta rovina dell’arte oratoria; ma quanto più grave era il dolore e la pena di saperlo mutilato, tanto più grande è ora la gioia, poiché la nostra diligenza gli ha restituito l’antico abito e l’antica dignità, l’antica bellezza e la perfetta salute. Ché se Marco Tullio si rallegrava tanto per il ritorno di Marcello dall’esi-lio, e in un tempo in cui a Roma di Marcelli ce n’erano tanti, ugualmente egregi ed eccellenti in pace e in guerra, che devono fare i dotti, e soprattutto gli studiosi di eloquenza, ora che noi abbiamo richiamato, non dall’esilio, ma qua-si dalla morte stessa, tanto era lacero e irriconoscibile, questo singolare ed unico splendore del nome romano, estinto il quale restava solo Cicerone? E infatti, per Ercole, se non gli avessi recato aiuto, era ormai necessariamente vicino al giorno della morte. Poiché non c’è dubbio che quell’uomo splendido, accurato, elegante, pieno di qualità, pieno di arguzia, non avrebbe più potuto sopportare quel turpe carcere, lo squallore del luogo, la crudeltà dei custodi. Era infatti triste e sordido come solevano essere i condannati a morte, con la barba squallida e i capelli pieni di polvere, sicché con l’aspetto medesimo e con l’abito mostrava di essere destinato a un’ingiusta condanna. Sembrava tendere le mani, implorare la fede dei Quiriti, che lo proteggessero da un ingiusto giudizio; e indegnamente colui che una volta col suo soccorso, con la sua eloquenza, aveva salvato tanti, soffriva ora, senza trovare neppur un difensore che avesse pietà della sua sventura, che si adoperasse per la sua salvezza, che gli impedisse di venire trascinato a un in-giusto supplizio. Ma, come dice il nostro Terenzio, quanto inopinatamente avvengono spesso le cose che non osere-sti sperare! Un caso fortunato per lui, e soprattutto per noi, volle che, mentre ero ozioso a Costanza, mi venisse il desiderio di andar a visitare il luogo dove egli era tenuto recluso. V’è infatti, vicino a quella città, il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia. Perciò mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran massa di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere. Quei libri infatti non stavano nella biblioteca, come richiedeva la loro dignità, ma quasi in un tristissimo ed oscuro carcere, nel fondo di una torre, in cui non si caccerebbero nep-pure dei condannati a morte. Ed io son certo che chi per amore dei padri andasse esplorando con cura gli ergastoli in cui questi grandi son chiusi, troverebbe che una sorte uguale è capitata a molti dei quali ormai si dispera.

P. Bracciolini, Lettera a Guarino Guarini, Costanza, 15 dicembre 1416 (Epistolario, libro I, 5)

Leonardo da Vinci, Scienza ed esperienzaIl nuovo approccio nei confronti delle arti umane costringe a riformulare una definizione teoretica della scienza che riveda i suoi rapporti con il campo concreto dell’esperienza: è quanto fa Leonardo da Vinci in uno dei suoi Pensieri, dove addirittura le scienze mentali sono definite “bugiarde” proprio perché non possono essere verificate al vaglio sicuro dell’esperienza «madre di ogni certezza».

Dicono quella cognizione esser meccanica, la quale è partorita dall’esperienza, e quella esser scientifica, che nasce e finisce nella mente, e quella esser semimeccanica, che nasce dalla scienza e finisce nella operazione

manuale. Ma a me pare che quelle scienze sieno vane e piene di orrori, le quali non sono nate dall’esperienza, ma-

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dre di ogni certezza, e che non terminano in nota esperienza, cioè che la loro origine o mezzo o fine non passa per nessuno de’ cinque sensi.E se noi dubitiamo di ciascuna cosa, che passa per li sensi, quanto maggiormente dobbiamo noi dubitare delle cose ribelli a essi sensi, come dell’essenza di Dio e dell’anima e simili, per le quali sempre si disputa e contende? E vera-mente accade che sempre, dove manca la ragione, supplisce le grida [alla ragione si sostituisce la polemica, n.d.r.] la qual cosa non accade nelle cose certe. Per questo diremo che dove si grida non è vera scienza, perché la verità ha un sol termine [la verità è unica, n.d.r.] il quale essendo pubblicato, il litigio resta in eterno distrutto; e s’esso litigio risorge, è bugiarda e confusa scienza e non certezza rinata.Ma le vere scienze son quelle che la esperienza ha fatto penetrare per li sensi e posto silenzio alla lingua de’ litigan-ti, e che non pasce di sogno li suoi investigatori, ma sempre sopra li primi veri e noti principi procede successiva-mente e con vere seguenze insino al fine; come si dinota nelle prime matematiche, cioè numero e misura, dette Aritmetica e Geometria, che trattano con somma verità della quantità discontinua e continua.Qui non si arguirà che due tre facciano piú o men che sei, né che un triangolo abbia li suoi angoli minori di due angoli retti; ma con eterno silenzio resta distrutta ogni arguizione, e con pace sono finite dalli loro devoti, il che far non possono le bugiarde scienze mentali.

L. da Vinci, Pensieri, Edizioni paoline, Bari 1962

Galileo Galilei, I progressi del pensieroCon Galileo “il libro della natura” viene esplicitamente anteposto ai libri degli uomini e le opinioni dei moderni a quelle degli antichi, in nome di una nuova fiducia nel progresso che ci pone di fronte a una vera e propria rivoluzione culturale.

È improbabile che le opinioni piú antiche sieno le migliori

Il dire che le opinioni piú antiche ed inveterate sieno le migliori, è improbabile: perché siccome d’un uomo parti-colare l’ultime determinazioni pare che sieno le piú prudenti, e che con gli anni cresca il giudizio; cosí dell’uni-

versalità degli uomini pare ragionevole che l’ultime determinazioni sieno le piú vere.

Del cercare i segreti della natura nei libri, piuttosto che nelle opere di quella

Fannosi liti e dispute sopra l’interpretazione d’alcune parole d’un testamento d’un tale, perché il testatore è mor-to: che se fusse vivo, sarebbe pazzia il ricorrere ad altri che a lui medesimo per la determinazione del senso di

quanto egli avea scritto. Ed in simil guisa è semplicità l’andar cercando i sensi delle cose della natura nelle carte di questo o di quel filosofo piú che nell’opere della natura, la quale vive sempre, ed operante ci sta presente avanti agli occhi, veridica ed immutabile in tutte le cose sue.

G. Galilei, Pensieri, motti e sentenze, Barbera, Firenze 1910

Baldassar Castiglione, La riscossa delle arti belleNel Quattrocento le cosiddette “arti belle” (pittura, scultura e architettura) venivano ancora accostate a ben più umili attività artigianali come le «varie tessiture dei lanaioli e dei setaioli»: nel brano che segue, invece, la pittura viene esplicitamente citata come disciplina fondamentale per chiunque voglia diventare un perfetto uomo di corte, dimostrando come il Rinascimento cinquecentesco abbia restituito a queste manifestazioni artistiche una superiore dignità estetica. Il riferimento alla pittura nella civiltà greco-romana conferisce legittimità alla rivalutazione delle belle arti, in nome di quell’autorità classica che rappresentava un irrinunciabile punto di riferimento nel passato per la rivoluzione culturale del Rinascimento.

Allora il Conte, «Prima che a questo proposito entriamo, voglio,» disse, «ragionar d’un’altra cosa, la quale io, perciò che di molta importanza la estimo, penso che dal nostro cortegiano per alcun modo non debba essere

lasciata addietro: e questo è il saper disegnare ed aver cognizion dell’arte propria del dipingere. Né vi meravigliate

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s’io desidero questa parte, la qual oggidì forsi per mecanica [pare un’abilità tecnica, n.d.r.] e poco conveniente a gentiluomo; ché ricordomi aver letto che gli antichi, massimamente per tutta Grecia, voleano che i fanciulli nobili nelle scole alla pittura dessero opera come a cosa onesta e necessaria, e fu questa ricevuta nel primo grado dell’ar-ti liberali [cioè le sette arti degne dell’uomo libero, n.d.r.] poi per pubblico editto vetato che ai servi non s’insegnas-se. Presso ai Romani ancor s’ebbe in onor grandissimo; e da questa trasse il cognome la casa mobilissima de’ Fabii, ché il primo Fabio fu cognominato Pittore, per esser in effetto eccellentissimo pittore e tanto dedito alla pittura, che avendo dipinto le mura del tempio della Salute, gli inscrisse il nome suo; parendogli che, benché fosse nato in una famiglia così chiara ed onorata di tanti tituli di consulati, di trionfi e d’altre dignità e fosse letterato e perito nelle leggi e numerato tra gli oratori, potesse ancor accrescere splendore ed ornamento alla fama sua lassando memoria d’esser stato pittore. Non mancarono ancor molti altri di chiare famiglie celebrati in quest’arte; della qual, oltra che in sé mobilissima e degna sia, si traggono molte utilità, e massimamente nella guerra, per disegnar paesi, siti, fiumi, ponti, ròcche, fortezze e tai cose; le quali, se ben nella memoria si servassero, il che però è assai difficile, altrui mostrar non si possono. E veramente chi non estima questa arte che molto sia dalla ragione alieno; ché la macchina del mondo, che noi veggiamo coll’amplo cielo di chiare stelle tanto splendido e nel mezzo la terra dai mari cinti, di monti, valli e fiumi variata e di sì diversi alberi e vaghi fiori e d’erbe ornata, dir si po che una nobile e gran pittura sia, per man della natura e di Dio composta; la qual chi po imitare parmi esser di gran laude degno; né a questo pervenir si po senza la cognizion di molte cose, come ben sa chi lo prova. Però gli antichi e l’arte e gli artìfici avevano in grandissimo pregio, onde pervenne in colmo di summa eccellenza; e di ciò assai certo argomen-to pigliar si po dalle statue antiche di marmo e di bronzo, che ancor si veggono. E benché diversia sia la pittura dalla statuaria [scultura, n.d.r.] per l’una e l’altra da un medesimo fonte, che è il bon disegno, nasce. Però, come le statue sono divine, così ancor creder si po che le pitture fossero; e tanto più, quanto che di maggior artificio capa-ci sono».

B. Castiglione, Il libro del Cortegiano, Rizzoli, Milano 20004, I, 49

Pedro Calderón de la Barca e Molière, Il secolo d’oro del teatroIl Seicento è stato definito da diversi critici «il secolo d’oro del teatro», perché segnato da alcune tra le opere e gli autori, specialmente spagnoli e francesi, più importanti nella storia della letteratura. In La vita è sogno (1635), del drammaturgo spagnolo Pedro Calderón de la Barca il monologo del protagonista Sigismondo esprime la concezione della «vita come sogno», significativa testimonianza del modo di vivere e sentire dell’eroe barocco. Nel Tartufo (1664) del francese Molière, che suscitò lo sdegno di diversi aristocratici della corte di Luigi XIV e venne perciò proibito, viene messa in scena l’ipocrisia che domina i rapporti sociali: Tartufo, dopo essere stato denunciato da Damide per aver tradito la fiducia del proprio protettore Orgone, riesce a riconquistarne i favori con un discorso di finta umiltà.

Tra vita e sogno

SIGISMONDO (tra sé) [...] Son dunque tanto simili ai sogni le glorie, che quelle reali son considerate false, e quelle simultate, vere? Così poca differenza c’è tra le une e le altre, che si debba discutere per sapere se ciò che si vede

e si gode è verità o menzogna? È tanto simile la copia all’originale, che si debba dubitare se sia proprio lei? [...] Ma se così è, e si deve vedere svanire tra le ombre la grandezza e la potenza, la maestà e la pompa, sappiamo almeno profittare di questo istante che ci tocca in sorte, poiché nella realtà si gode soltanto di ciò di cui si gode nel sogno! Rosaura [amante del protagonista, n.d.r.] è nelle mie mani, e l’animo mio adora la sua bellezza […] Profittiamo dunque dell’occasione: l’amore infranga le leggi del valore e della fiducia che l’hanno condotta a prostrarsi ai miei piedi! Tutto questo è sogno; e poiché è tale, cerchiamo di sognare adesso la felicità che poi, purtroppo, si trasfor-merà in dolore […] Ma i miei stessi ragionamenti non bastano a convincermi! […] Se è sogno, se è vana gloria, chi per vana gloria umana perde una gloria divina? C’è un bene goduto che non sembri un sogno? Chi mai ha gustato un’immensa felicità, che non dica poi tra sé, quando se la richiama alla memoria: «Indubbiamente è stato un sogno, tutto quel che ho veduto»? Ma, se questo suscita la mia delusione, se so che il piacere non è che una bella fiam-mata che si converte in cenere al soffio d’un qualsiasi vento, pensiamo alle cose eterne, alla fama perenne, nella quale non dorme la felicità né riposa la grandezza.

P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, Rizzoli, Milano 1957

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Il trionfo dell’ipocrita

ORGONE Dio mio, devo proprio credere a quello che hanno detto?TARTUFO Sì, fratello mio, sono un malvagio, un colpevole, uno sciagurato peccatore pieno di cattiveria, il più

grande mascalzone che sia mai esistito. Ogni attimo della mia vita è carico di bassezze. La mia esistenza è un cu-mulo di delitti e di vergogne; e vedo che il Cielo, per punirmi, vuole ora confondermi. Qualunque sia il misfatto di cui vogliono accusarmi, non avrò la presunzione di difendermi. Credete a quello che vi hanno detto; con tutto il vostro sdegno cacciatemi di casa vostra come un delinquente. Non mi coprirete mai abbastanza di vergogna!ORGONE (a suo figlio) Ah, vigliacco, tu osi macchiare la purezza della sua virtù con queste calunnie?DAMIDE Come? La falsa condiscendenza di quest’ipocrita vi farebbe dubitare?ORGONE Taci, peste maledetta!TARTUFO Ma lasciatelo parlare: voi l’accusate ingiustamente e fareste meglio a credere alle sue accuse. Perché volete difendermi? E poi, sapete di che cosa io sia capace? Vi fidate, fratello mio, del mio aspetto? E mi credete un uomo superiore per le virtù che dimostro? No, no, vi lasciate ingannare dalle apparenze! Sono diverso da come immagi-nate; tutti mi considerano una persona onesta, ma in realtà io non lo sono.(Rivolgendosi a Damide). Sì, mio caro ragazzo, parlate; trattatemi come un malvagio, un infame, un’anima persa, un ladro, un omicida; copritemi di titoli ancora più infami; non vi darò torto, me li merito. Voglio ricevere in ginocchio questo disonore, come una vergogna meritata per i miei delitti. (S’inginocchia).ORGONE (a Tartufo) Fratello mio, questo è troppo!(A suo figlio). E tu non ti commuovi, vigliacco?DAMIDE E vi lascerete incantare dalle sue parole fino al punto…ORGONE (a suo figlio) Taci, lazzarone! (A Tartufo) Fratello, alzatevi, vi prego. (A suo figlio) Farabutto! […]ORGONE Conosco il motivo che ti spinge a combatterlo. Voi tutti lo odiate, e devo vedere oggi scatenati contro di lui mia moglie, i figli, i servi! Si ricorre spudoratamente a qualsiasi mezzo per allontanare dalla mia casa questo sant’uomo! Ma più cercherete di farlo cacciare via, più io lotterò per trattenerlo.

Molière, Tartufo, Bompiani, Milano 1958

Il filosofo secondo l’EnciclopediaLa definizione che segue è tratta dalla voce Filosofo dell’ Enciclopedia, la monumentale opera degli illuministi francesi: «la ragione determina il filosofo. Gli altri uomini ... procedono nelle tenebre; il filosofo ... avanza nella notte, ma una fiaccola lo precede».

F ilosofo. […] del filosofo bisogna farsi un’idea esatta; ecco la fisionomia che noi gli diamo.Gli altri uomini sono determinati ad agire, senza che si sappiano render conto delle cause che li inducono a

muoversi, senza neppure pensare che ve ne siano. Il filosofo invece [...] chiarisce le cause, spesso perfino la perviene, vi si abbandona con cognizione piena: è un orologio [...] che a volte si carica da sé. Così evita tutto ciò che può causare sentimenti sconvenienti sia al suo benessere, sia alla sua condizione di essere ragionevole, e ricerca tutto ciò che può suscitare in lui affetti sconvenienti al suo stato. La ragione, rispetto al filosofo, è ciò che la grazia è rispetto al cristiano. La grazia determina il cristiano ad agire; la ragione determina il filosofo.Gli altri uomini sono trascinati dalle passioni senza che i loro atti siano preceduti da riflessione: sono uomini che procedono nelle tenebre; mentre il filosofo, anche nelle passioni, agisce soltanto dopo aver riflettuto; avanza nella notte, ma una fiaccola lo precede.Il filosofo modella i suoi princìpi in base ad un’infinità di osservazioni particolari. Il popolo adotta il principio sen-za pensare alle osservazioni donde è scaturito; pensa che la massima esista, per così dire, di per sé; ma il filosofo attinge la massima alla fonte; ne indaga l’origine; valuta il suo peculiare valore e ne fa l’uso più conveniente […].Lo spirito filosofico è dunque uno spirito di osservazione e di precisione, che riporta tutto ai suoi veri princìpi; ma non è questo soltanto lo spirito che il filosofo coltiva, egli spinge più oltre la sua attenzione e le sue cure.L’uomo non è un mostro che debba vivere negli abissi del mare o nel folto di una foresta: le stesse necessità della vita gli rendono necessario il commercio con gli altri; e in qualunque stato egli si possa trovare, i suoi bisogni e il suo benessere lo inducono a vivere in società. Così la ragione esige da lui che conosca, che studi, che si impegni ad acquisire qualità sociali.Il nostro filosofo non si crede in esilio in questo mondo; non crede di trovarsi in un paese nemico; vuole godere da saggio economo i beni che la natura gli offre; vuole ricavare piacere dalla compagnia degli altri, e poiché per aver-ne bisogna darne, cerca di trovarsi d’accordo con coloro con cui il caso o la sua propria scelta lo fanno vivere; e trova nello stesso tempo ciò che gli conviene; è un galantuomo che vuol piacere e rendersi utile [...].

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Tanto i sentimenti di probità quanto i lumi dello spirito fanno parte della costituzione meccanica del filosofo [...]. Il temperamento del filosofo consiste nell’agire con il gusto dell’ordine o della retta ragione; poiché ama all’estremo la società, a cui più che a tutti gli altri uomini sta a cuore di far sì che essa produca soltanto effetti che si adeguino all’idea del galantuomo [...]. Il filosofo è dunque un galantuomo che agisce in ogni cosa secondo ragione, e che unisce al gusto della riflessione e del retto giudizio i buoni costumi e le qualità socievoli. Innestate un sovrano su un filosofo di tal tempra, e avrete un sovrano perfetto.

in Enciclopedia, a cura di P. Casini, Laterza, Bari 1968

Cesare Beccaria, Mitezza e sicurezza delle peneL’opera più conosciuta di Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene (1764), è destinata a esercitare grande influenza nel panorama politico e culturale europeo.

Uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigi-lanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accom-

pagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando sono certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accor-dano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di più per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano più delitti, per fuggir la pena di uno solo. I paesi e i tempi dei più atroci supplicii furon sempre quelli delle più sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava lo spirito del legislatore, reggeva quello del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. A mi-sura che i supplicii diventano più crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico […]. Due altre funeste conse-guenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sì facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’ delitti più dannosi e più atroci pena mag-giore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sì nel bene che nel male, ed uno spettacolo trop-po atroce per l’umanità non può essere che un passeggero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime.

C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, Feltrinelli 1991

Luigi Pirandello e Eugène Ionesco, Il teatro del NovecentoIl primo dei due brani che seguono, tratto da Sei personaggi in cerca di autore (1921) di Luigi Pirandello, riferisce un dialogo tra Il capocomico e uno dei sei personaggi, il padre, e contiene molti temi caratteristici del teatro di Pirandello. Il secondo è un dialogo serrato tra coniugi, tratto dalla commedia La cantatrice calva (1950), opera che segnò il debutto di Eugène Ionesco, uno dei principali esponenti del teatro dell’assurdo. Le battute dei protagonisti hanno il tipico carattere grottesco ricorrente nei lavori del drammaturgo francese.

IL CAPOCOMICO: Ma mi facciano il piacere d’andar via, che non abbiamo tempo da perdere coi pazzi!IL PADRE: Oh signore, lei sa bene che la vita è piena d’infinite assurdità, le quali sfacciatamente non han neppure

bisogno di parer verosimili; perché sono vere.

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IL CAPOCOMICO: Ma che diavolo dice?IL PADRE: Dico che può stimarsi realmente una pazzia, sissignore, sforzarsi di fare il contrario; cioè, di crearne di verosimili, perché pajano vere. Ma mi permetta di farle osservare che, se pazzia è, questa è pur l’unica ragione del loro mestiere […].IL CAPOCOMICO: Ah sì? Le sembra un mestiere da pazzi, il nostro?IL PADRE: Eh, far parer vero quello che non è; senza bisogno, signore: per giuoco... Non è loro ufficio dar vita sulla scena a personaggi fantasticati […]?IL CAPOCOMICO: Sta bene, sta bene. Ma che cosa vuol concludere con questo?IL PADRE: Niente, signore. Dimostrarle che si nasce alla vita in tanti modi, in tante forme: albero o sasso, acqua o farfalla... o donna. E che si nasce anche personaggi!IL CAPOCOMICO: E lei, con codesti signori attorno, è nato personaggio?IL PADRE: Appunto, signore. E vivi, come ci vede. Il capocomico e gli Attori scoppieranno a ridere, come per una burla […]. IL PADRE: Io mi faccio maraviglia della loro incredulità! Non sono forse abituati lor signori a vedere balzar vivi quas-sù, uno di fronte all’altro, i personaggi creati da un autore? Forse perché non c’è là (indicherà la buca del Suggeri-tore) un copione che ci contenga […]? Nel senso, veda, che l’autore che ci creò, vivi, non volle poi, o non poté materialmente, metterci al mondo dell’arte. E fu un vero delitto, signore, perché chi ha la ventura di nascere perso-naggio vivo, può ridersi anche della morte. Non muore più! Morrà l’uomo, lo scrittore, strumento della creazione; la creatura non muore più! E per vivere eterna non ha neanche bisogno di straordinarie doti o di compiere prodigi. Chi era Sancho Panza? Chi era don Abbondio? Eppure vivono eterni, perché – vivi germi – ebbero la ventura di trovare una matrice feconda, una fantasia che li seppe allevare e nutrire, far vivere per l’eternità!

L. Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore, Newton Compton, Roma 1993

SIGNOR SMITH: (Col giornale) Guarda un po’, c’è scritto che Bobby Watson è morto.SIGNORA SMITH: Dio mio, poveretto, quando è morto?

SIGNOR SMITH: Perché ti stupisci? Lo sai benissimo. È morto due anni fa. Siamo andati ai suoi funerali, ricordi? Un anno e mezzo fa.SIGNORA SMITH: Certo che me ne ricordo. Me ne sono ricordata subito, ma non capisco perché tu ti sia stupito veden-dolo sul giornale.SIGNOR SMITH: Sul giornale non c’è. Sono già tre anni che s’è parlato del suo decesso. Me ne sono ricordato per as-sociazione di idee.SIGNORA SMITH: Peccato! Era così ben conservato.SIGNOR SMITH: Era il più bel cadavere di Gran Bretagna. Non dimostrava la sua età. Povero Bobby, erano quattro anni che era morto ed era ancora caldo. Un vero cadavere vivente. E com’era allegro.SIGNORA SMITH: Povera Bobby.SIGNOR SMITH: Vuoi dire Povero Bobby.SIGNORA SMITH: No, penso a sua moglie. Lei sia chiamava come lui, Bobby, Bobby Watson. Siccome avevano lo stesso nome, non si riusciva a distinguerli l’uno dall’altra quando li si vedeva assieme. È stato solo dopo la morte di lui che si è potuto sapere con precisione chi fosse l’uno e chi fosse l’altra. Tuttavia, ancora oggi, c’è gente che la scambia per il morto e le fa le condoglianze. Tu la conosci?SIGNOR SMITH: Non l’ho vista che una volta, per caso, al funerale di Bobby.SIGNORA SMITH: Io non l’ho mai vista. […].SIGNOR SMITH: È ancora giovane. Può benissimo risposarsi. Il lutto le sta così bene!SIGNORA SMITH: Ma chi si prenderà cura dei figli? Lo sai che hanno un bambino e una bambina.SIGNOR SMITH: Come si chiamano?SIGNORA SMITH: Bobby e Bobby, come i loro genitori.

E. Ionesco, La cantatrice calva, Einaudi, Torino 1958

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Franz Kafka e James Joyce, Il romanzo del NovecentoFranz Kafka è forse l’autore che più d’ogni altro ha saputo dare voce all’angoscia dell’uomo contemporaneo: nel racconto Davanti alla porta narra un surreale episodio di ingiustizia e di sopruso. Segue la pagina conclusiva del complesso romanzo di James Joyce Ulisse (1922): chiude un monologo di circa settanta pagine che si svolge nella coscienza della protagonista Molly, da cui la definizione letteraria di “flusso di coscienza” per indicare la tipica modalità narrativa di questo autore.

Davanti alla legge c’è un guardiano. Davanti a lui viene un uomo di campagna e chiede di entrare nella legge. Ma il guardiano dice che ora non gli può concedere di entrare. L’uomo riflette e chiede se almeno potrà entra-

re più tardi. «Può darsi – risponde il guardiano, – ma per ora no». Siccome la porta che conduce alla legge è aperta come sempre e il custode si fa da parte, l’uomo si china per dare un’occhiata, dalla porta, nell’interno. Quando se ne accorge, il guardiano si mette a ridere: «Se ne hai tanta voglia prova pure a entrare nonostante la mia proibizio-ne. Bada, però: io sono potente, e sono soltanto l’infimo dei guardiani. Davanti a ogni sala sta un guardiano, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo non riesco a sopportarla nemmeno io». L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, pensa, dovrebbe pur essere accessibile a tutti e sempre, ma a guardar bene il guar-diano avvolto nel cappotto di pelliccia, il suo lungo naso a punta, la lunga barba tartara, nera e rada, decide di attendere piuttosto finché non abbia ottenuto il permesso di entrare. Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sede-re di fianco alla porta. Là rimane seduto per giorni e anni […]. Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardia-no quasi senza interruzione. Dimentica gli altri guardiani e solo il primo gli sembra l’unico ostacolo all’ingresso nella legge. Egli maledice il caso disgraziato, nei primi anni ad alta voce, poi quando invecchia si limita a bronto-lare tra sé. Rimbambisce e siccome studiando per anni il guardiano conosce ormai anche le pulci del suo bavero di pelliccia, implora anche queste di aiutarlo e di far cambiare opinione al guardiano. Infine il lume degli occhi gli si indebolisce ed egli non sa se veramente fa più buio intorno a lui o se soltanto gli occhi lo ingannano. Ma ancora distingue nell’oscurità uno splendore che erompe inestinguibile dalla porta della legge. Ormai non vive più a lungo. Prima di morire tutte le esperienze di quel tempo si condensano nella sua testa in una domanda che finora non ha rivolto al guardiano. Gli fa un cenno poiché non può ergere il corpo che si sta irrigidendo. Il guardiano è costretto a piegarsi profondamente verso di lui, poiché la differenza di statura è mutata molto a sfavore dell’uomo di cam-pagna. «Che cosa vuoi sapere ancora? – chiede il guardiano, – sei insaziabile». L’uomo risponde: «Tutti tendono verso la legge, come mai in tutti questi anni nessun altro ha chiesto di entrare?». Il guardiano si rende conto che l’uomo è giunto alla fine e per farsi intendere ancora da quelle orecchie che stanno per diventare insensibili, grida: «Nessun altro poteva entrare qui perché questo ingresso era destinato soltanto a te. Ora vado a chiuderlo».

F. Kafka, Davanti alla porta, in I racconti, Longanesi, Milano 1983

Il sole splende per te disse lui quel giorno che eravamo stesi tra i rododendri sul promontorio di Howth con quel suo vestito di tweed grigio e la paglietta il giorno che gli feci fare la dichiarazione sì prima gli passai in bocca quel

pezzetto di biscotto all’anice ed era un anno bisestile come ora sì 16 anni fa Dio mio dopo quel bacio così lungo non avevo più fiato sì disse che ero un fior di montagna sì siamo tutti fiori allora un corpo di donna sì è stata una delle poche cose giuste che ha detto in vita sua e il sole splende per te oggi sì perciò mi piacque sì perché vidi che capiva o almeno sentiva cos’è una donna e io sapevo che me lo sarei rigirato come volevo e gli detti quanto più piacere potevo per portarlo a quel punto finché non mi chiese di dir di sì e io dapprincipio non volevo rispondere guardavo solo in giro il cielo e il mare e pensavo a tante cose che lui non sapeva di Mulvey e Mr Stanthope e Hester e papà e il vecchio capitano Groves e i marinai che giocavano al piattello e alla cavallina come dicevan loro sul molo e la sentinella davanti alla casa del governatore con quella cosa attorno all’elmetto bianco povero diavolo mezzo arrostito e le ragazze spagnole che ridevano nei loro scialli e quei pettini alti e le aste la mattina i Greci e gli ebrei e gli Arabi e il diavolo chi sa altro da tutte le parti d’Europa e Duke street e il mercato del pollame un gran pigolio davanti a Larby Sharon e i poveri ciuchini che inciampavano mezzi addormentati e gli uomini avvolti nei loro man-telli addormentati all’ombra sugli scalini e le grandi ruote dei carri dei tori e il vecchio castello e vecchio di mill’an-ni sì e quei bei Mori tutti in bianco e turbanti come re che ti chiedevano di metterti a sedere in quei loro buchi di botteghe e Ronda con le vecchie finestre delle posadas fulgidi occhi celava l’inferriata perché il suo amante bacias-se le sbarre e le gargotte mezzo aperte la notte e le nacchere e la notte che perdemmo il battello ad Algesiras il sereno che faceva il suo giro con la sua lampada e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stra-dine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e gerani e i cactus e Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una

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rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’ lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le brac-cia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batte-va come impazzito e sì dissi sì voglio Sì.

J. Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano 1989

Albert Speer, L’architettura dei cerimonialiAlbert Speer dal 1933 fu architetto personale di Hitler, per il quale edificò la Cancelleria del Reich, e poi ministro per gli Armamenti e la Produzione bellica. Nei suoi ricordi illustra gli aspetti interni dell’organizzazione del consenso del regime, tramite la partecipazione delle masse a manifestazioni di grande impatto emotivo e scenografico come quella qui descritta.

La cerimonia si sarebbe svolta la sera. Migliaia di bandiere, appartenenti alle sezioni locali si sarebbero concen-trate, in attesa […]. Ad un comando dato, queste bandiere si sarebbero ordinate su dieci colonne, e avrebbero

invaso il campo procedendo su altrettante corsie, attraverso la massa dei gerarchi inquadrati. Dieci potenti riflet-tori avrebbero investito con i loro fasci di luce le bandiere e le scintillanti aquile dei puntali, creando un effetto fantasmagorico. Ma tutto ciò non mi sembrava bastare. Mi attraversavano la mente i fasci di luce che avevo visto proiettati a grandissima distanza dai nuovi riflettori della nostra difesa antiaerea, e non fui soddisfatto finché non ebbi chiesto a Hitler di mettermene a disposizione centotrenta. Goering, sulle prime, fece resistenza, perché cen-totrenta riflettori rappresentavano buona parte della sua riserva strategica, ma Hitler riuscì a convincerlo dicendo-gli: «Se ne impieghiamo tanti in un’unica manifestazione, all’estero si penserà che nuotiamo nei riflettori». L’ef-fetto superò di gran lunga la mia aspettativa. I centotrenta fasci di luce, disposti tutt’attorno al campo a non più di una dozzina di metri l’uno dall’altro, saettavano netti e nitidi fino a sei-otto chilometri di altezza, formando in alto una specie di volta luminosa. Si aveva l’impressione di essere in un immenso ambiente, sorretto da pilastri di luce altissimi e ponderosi. Di tanto in tanto una nuvola attraversava questo cerchio di luce, conferendo alla scena, di per se stessa grandiosa, un tocco di surrealismo. Credo di aver creato, con questa superba “cupola luminosa”, la prima struttura architettonica di luce. Essa rimane per me non soltanto la più bella ma anche la più durevole del-le mie idee. «Bella e solenne a un tempo, pareva d’essere in una cattedrale di ghiaccio» scrisse l’ambasciatore britannico Henderson. I notabili, però, i ministri del Reich, i Reichsleiter e i Gauleiter del partito, non potevano […] essere relegati nel buio, sebbene anch’essi fossero tutt’altro che decorativi. Si faceva sempre una gran fatica a tenerli in riga. Del resto, erano diventati più o meno delle comparse, e si piegavano docilmente alle istruzioni degli impazienti organizzatori. Quando appariva Hitler, squillava il comando di attenti e tutti stendevano il braccio destro nel saluto nazionalsocialista.

A. Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, Milano 1997

Charlie Chaplin, Come nacque Il grande dittatoreUno tra i maggiori registi e attori del secolo, Charlie Chaplin, nelle sue memorie ricorda la contrastata genesi del suo film Il grande dittatore (1940), celeberrima parodia di Hitler. Nel brano è riportato il discorso pronunciato del barbiere ebreo, protagonista e sosia di Hitler, che conclude il film.

Nel 1937 Alexander Korda [critico e produttore cinematografico, n.d.r.] mi aveva suggerito un film su Hitler, giocato su uno scambio di identità dovuto al fatto che il vagabondo [uno dei personaggi di Chaplin, n.d.r.]

aveva i baffi uguali ai suoi […]. Ma certo! Nei panni di Hitler avrei potuto arringare la folla usando un gergo incom-prensibile o dicendo tutto quello che volevo. E in quelli del vagabondo potevo tacere quasi completamente. Un film su Hitler era l’ideale per una parodia e una pantomima […]. Mi misi a scrivere il soggetto. Occorsero due anni per portarlo a termine […]. Mentre ero a metà del Dittatore cominciai a ricevere allarmanti comunicazioni da parte della United Artists […]. Stavo per cacciarmi nei guai […]. Erano molto preoccupati all’idea di girare un film anti-hitleriano e dubitavano che lo si potesse proiettare in Gran Bre tagna. Ma io ero deciso a tirare avanti, perché Hitler doveva essere messo alla berlina. Se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei

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potuto fare Il dittatore; non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti. Ma ero ben deciso a mettere in ridicolo le loro mistiche scemenze sulla purezza del sangue e della razza […]. Lettere preoccupatissime mi furono spedite dall’ufficio di New York, per implorarmi di non fare il film, dichiarando che non sarebbe mai stato proiettato né in Inghilterra né in America. Ma io ero ben deciso a portarlo a termine, avessi anche dovuto noleggiare personalmente le sale da proiezione. Prima della fine del Dittatore l’Inghilterra dichiarò guerra ai nazisti.

Il messaggio finale del film

«Mi dispiace ma io non voglio fare l’Imperatore, non è il mio mestiere, non voglio governare e conquistare nessuno, vorrei aiutare tutti, ebrei, ariani, uomini neri e bianchi, tutti noi dovremmo aiutarci sempre, do-

vremmo soltanto godere della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi, la vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca a fare le cose più abbiette, abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbon-danza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformato in cimici, l’avidità ci ha resi duri e cattivi, pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza, senza queste qua-lità la vita è violenza e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà nell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne e bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente. A coloro che mi odono, io dico, non disperate! L’avidità che ci comanda è solo un male passeggero, l’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano. L’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori e il potere che hanno tolto al popolo ritornerà al popolo e qual-siasi mezzo usino la libertà non può essere soppressa».

C. Chaplin, La mia autobiografia, Mondadori, Milano 1964

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Nel corso del XV secolo, l’Italia centro-settentrionale assiste al fi orire dell’urbanistica, cioè della pianifi cazione dello spazio urbano. L’edifi cazione di palazzi, chiese e strade non è più lasciato al caso, ma rispetta le esigenze del signore, le necessità difensive e quelle abitative della corte.

Gli edifici – la loro genesi, conformazione e sito – costitui-scono uno dei più eloquenti documenti di una società ed

una sua eccellente base di lettura e di interpretazione. Tra le varie forme di creazione artistica, quella architettonica è senz’altro – con quella teatrale – una di quelle dotate di più densi significati collettivi. Né sembra dubbio che la delibera-ta utilizzazione degli edifici a scopo di prestigio privato e pubblico abbia avuto nella Penisola un incremento rinnovato e molto rilevante nel corso del XV secolo.Non è questa la sede per valutare in modo adeguato se la gerarchia dei vari tipi di costruzione sia stata più accentuata nel periodo comunale o in quello dei principati. È certo co-munque che nel Quattrocento essa è stata perseguita e rea-lizzata in maniera manifesta ed intenzionale, al punto da potersi sostenere che essa abbia rappresentato uno dei modi di concretare un processo di aristocratizzazione in atto su va-ri altri piani [la struttura degli edifici e l’impianto urbanistico diventano lo specchio evidente del fatto che il potere non è più nelle mani del popolo, ma di un pugno di aristocratici: i signori e i principi, n.d.r.]. Se cioè il contesto costituito dalla comunità cittadina rimaneva lo sfondo di riferimento, su di esso si tendeva a far campeggiare sempre meglio e sempre di più la presenza di attori singoli. […]In altri termini il dominio politico si manifestò – certo in gradi diversi e nelle forme più svariate da una città all’altra – e si tradusse regolarmente ed in larga misura sul piano urbanisti-co ed architettonico. I centri che furono maggiormente inve-stiti da tale fenomeno furono innanzitutto quelli ove risiede-vano i signori e i principi, cioè in genere le capitali degli Stati, oltre a quelli ove il potere centrale intendeva proiettare l’immagine e segnare l’impronta della propria supremazia.A Milano ed in varie altre città lombarde i Visconti avevano impresso già nel secolo XIV le tracce visibili del loro dominio: basterebbe citare in merito il castello di Pavia. Alla morte dell’ultimo loro duca, Filippo Maria, i milanesi cercarono di realizzare il sogno di restaurare il precedente regime munici-pale. Molto breve fu nondimeno la stagione della loro Repub-blica ambrosiana [di sant’Ambrogio, patrono di Milano, n.d.r.] (1447- 1450), che dovettero capitolare di fronte alle milizie del condottiero Francesco Sforza. Quest’ultimo operò subito in modo da ridurre alla soggezione i suoi nuovi sudditi proprio intervenendo in modo decisivo sul tessuto urbano della metropoli milanese [Milano è chiamata metropoli in quanto (come Venezia e Napoli) aveva circa 200 000 abi-

tanti, in un momento storico in cui Genova e Firenze ne ave-vano 60 000, Bologna e Palermo 55 000, Roma appena 25 000, n.d.r.]. Per fissarvi la propria residenza egli scelse – come già avevano fatto i Visconti – un sito al margine del centro abitato, alla cerniera fra la zona popolosa dell’agglo-merato ed il suburbio circostante. Vari signori d’Italia e di altri paesi avevano già optato per una soluzione del genere ed a metà del Quattrocento, nel suo trattato De re aedificato-ria [Sulle modalità del costruire, n.d.r.], Leon Battista Alber-ti consigliava al principe proprio questo tipo di residenza. Resta il fatto che la colossale mole del Castello sforzesco, innestata nella cerchia delle mura milanesi, corrispose pres-soché perfettamente alle esigenze del nuovo duca e dei suoi successori. Con le sue possenti strutture e le sue vaste di-mensioni si rivelò adatta a svolgere tanto la funzione di citta-della che quella di fastosa struttura. […]L’azione degli Estensi a Ferrara fu in certo modo più origina-le, per quanto anch’essi si fossero fatti costruire verso la fine del Trecento la propria sede in un castello che rimase al mar-gine della città per quasi tutto il secolo XV. Nel 1492, nondi-meno, il duca Ercole I diede inizio alla più grande operazione urbanistica cui si assistette nella Penisola a quell’epoca. Quel principe decise un ingrandimento tale della superficie di Ferrara che essa ne risultò quasi triplicata. Il suo castello si venne allora a trovare pressoché nella parte centrale dell’abitato, fra il nucleo medioevale ed il nuovo spazio crea-to dall’ampliata cerchia delle mura.Questo ampliamento prese il nome di Addizione erculea e risultò improntato a caratteristiche inabituali, rese possibili anche dalla pressoché completa libertà di cui godé Biagio Rossetti di tracciarvi arterie rettilinee e di ritmarlo con piaz-ze adeguate. Il criterio al quale l’architetto s’ispirò fu di col-legare la zona della residenza ducale ai nuovi quartieri a settentrione per mezzo di vie larghe e diritte, punteggiate da dimore dai vasti cortili interni. La più notevole toccò ad un membro della famiglia estense, Sigismondo, e fu detta Pa-lazzo dei diamanti per il singolare rivestimento decorativo a cuspidi della facciata. […] Fra le nuove arterie, una delle più importanti fu proprio quella che collegava il giardino del ca-stello ad una residenza esterna di sollazzo posta all’estre-mità dell’Addizione. Questo permetteva al duca di sfilare in mezzo ai propri sudditi ogniqualvolta intraprendeva quel percorso.Di non minore spicco fu l’intervento dei nuovi signori di Urbi-no, i Montefeltro, e particolarmente di Federico (morto nel 1484) che vi governò per circa un quarantennio. Condottiero come Francesco Sforza, egli era titolare di una signoria limi-tata in quanto il suo territorio era subordinato alla sovranità dello Stato pontificio. Il carattere singolare dell’iniziativa che egli prese verso la metà del Quattrocento consistette nella struttura del tutto diversa ch’egli volle dare alla sua residen-za: non più un castello e tanto meno una cittadella (anche se vi erano annessi di possibile impiego militare) ma un palaz-

AlbertoTenenti, Urbanistica e potere nell’Italia del Quattrocento

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Anche il Medioevo leggeva i classici. La differenza qualitativa della lettura umanistica, la novità epocale di questa straordinaria stagione culturale, risiede nella capacità fi lologica di storicizzare il messaggio dei classici: un momento fondamentale per l’acquisizione di una moderna consapevolezza di sé.

La stessa preferenza per Platone, così costante nelle posi-zioni umanistiche, significò, certo, anche un moto polemi-

co di rivolta, e fu, spesso, un’insegna di partito. Ma in profon-dità indicò una direzione verso un mondo aperto, discontinuo e contraddittorio, dai volti innumerevoli e cangianti, ribelle ad ogni sistemazione, a cui ci si deve avvicinare in una ricerca perenne, che non ha paura delle incoerenze apparenti, ma che è mobile sottile e varia fino a poter rispecchiare l’infinita varietà delle cose; che rifiuta le articolazioni rigide di una logica statica inetta a cogliere la plastica mobilità dell’esse-re, eppure le fa sue, quando convenga, per sottolineare la pigrizia di ogni stato. Platone conciliante, pacificatore con la sua possibilità di interpretazioni divergenti, non indicò una debolezza speculativa, ma la consapevolezza che i termini di ogni alternativa si escludono nella misura stessa in cui si in-vocano. Le parventi contraddizioni dei dialoghi svelavano quanto l’occhio acuto di Pla tone «divino» avesse afferrato le contraddizioni della realtà.Proprio perché filosofia di tutte le aperture e di tutte le con-vergenze, meditazione morale di una vita percorsa dalla spe-ranza, eppur guardinga sui confini del mito, piuttosto umano dialogo che non trattato, esasperazione problematica erosiva

di ogni sistema; anche se comprensiva delle sistemazioni; per tutto questo la filosofia di Platone fu al centro di una cultura che rifiutava le antiche sicurezze, che respingeva un mondo chiuso, ordinato, fisso; che si trovava in una crisi storica ove le venerande unità andavano in frantumi, il mondo e i rappor-ti umani cambiavano. […]Proprio l’atteggiamento assunto di fronte alla cultura del pas-sato, al passato, definisce chiaramente l’essenza dell’Uma-nesimo. E la peculiarità di tale atteggiamento non va colloca-ta in un singolare moto d’ammirazione o d’affetto, né in una conoscenza più larga, ma in una ben definita coscienza stori-ca. I «barbari» non furono tali per avere ignorato i classici, ma per non averli compresi nella verità della loro situazione storica. Gli umanisti scoprono i classici perché li distaccano da sé, tentando di definirli senza confondere col proprio il loro latino. Perciò l’Umanesimo ha veramente scoperto gli antichi, siano essi Virgilio o Aristotele pur notissimi nel Medioevo: perché ha restituito Virgilio al suo tempo e al suo mondo, e ha cercato di spiegare Aristotele nell’ambito di problemi e delle conoscenze dell’Atene del quarto secolo avanti Cristo. Onde non può né deve distinguersi nell’Umanesimo la scoperta del mondo antico e la scoperta dell’uomo, perché furon tutt’uno; perché scoprir l’antico come tale fu commisurare sé ad esso, e staccarsene, e porsi in rapporto con esso. Significò tempo e memoria, e senso della creazione umana e dell’opera terrena e della responsabilità. Chè non a caso i grandi umanisti furono in gran numero uomini di Stato, uomini attivi, usi al libero operare nella vita pubblica del tempo loro.

E. Garin, L’umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Bari 1952

Sulla scorta di uno dei più fortunati manuali di pedagogia del Quattrocento (De ingenuis moribus et liberalibus studiis, di Pier Paolo Vergerio), il perno della nuova cultura viene individuato nella storia, nell’etica e nell’eloquenza. La prospettiva laica che emerge dalla esaltazione di queste tre discipline non può non riconoscere nella storia il campo terreno dell’agire umano e delle sue concrete realizzazioni.

Agli albori del ‘400, Pier Paolo Vergerio, nel trattato pe-dagogico che inaugura l’Umanesimo, propone al giovane

studioso una particolare gerarchia del sapere. Prima di deli-neare il quadro delle consuete sette arti liberali, egli pro-spetta le tre discipline che reputa fondamentali: la storia, l’etica, l’eloquenza.È una scelta tipica e caratterizzante, che replica il modello petrarchesco e che, a sua volta, si porrà a modello – sia pure con le opportune varianti – per le generazioni successive: al vertice del sapere l’Umanesimo quattrocentesco colloca le discipline morali e civili, la retorica che regola l’uso della

Eugenio Garin, Il dialogo con i classici

Mariangela Regoliosi, Gli umanisti e la storia

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zo. Le imponenti strutture di quest’ultimo sposarono in modo felice la conformazione topografica ed il sito seducente. Il palazzo costituì il centro di gravitazione di un vero e proprio quartiere che, oltre alla cattedrale, comprendeva delle scu-derie modello, una piazza d’armi contigua e dei sotterranei abilmente sistemati. Questo insieme urbanistico, completato

da una vicina arteria fiancheggiata da dimore per funzionari e cortigiani, venne a costituire una delle realizzazioni più alte e riuscite del Quattrocento italiano.

A. Tenenti, L’Italia del Quattrocento. Economia e società, Laterza, Roma-Bari 1996

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parola, strumento principe della comunicazione, della civile convivenza, della reciproca persuasione, dell’insegnamento; la filosofia del « bene vivere », che orienta l’uomo e la socie-tà sulla via della virtù in base a ben regolati precetti; e la conoscenza del passato, luogo di utili, concreti, esemplari modelli di comportamento.Tra le sue peculiari novità l’Umanesimo annovera dunque an-che una specifica e rinnovata attenzione per la « historiae notizia». Ciò spiega l’impegno di molti umanisti a scrivere storia e, in-sieme, a interrogarsi sulla sua definizione, le sue funzioni, il

suo rapporto con le altre arti, le sue modalità costruttive. Una storia non più governata dai ritmi della Provvidenza, né orientata verso un approdo ultraterreno, ma luogo esclusiva-mente laico, in cui le capacità di ogni uomo prendono forma e si realizzano, costruendo, in una costante dialettica virtù (gloria) e fortuna, la civiltà terrena: e quindi incommensura-bile deposito della esperienza e moralità collettiva e sede della memoria e sopravvivenza del singolo.

M. Regoliosi, Riflessioni umanistiche sullo scrivere storia, in «Rinascimento», II serie, v. XXXI (1991)

Il libro è il grande protagonista che si è imposto sulla scena culturale europea dell’età umanistica. Nella storia della sua nascita è fondamentale il passaggio da una stampa umanistica, appassionatamente dedita al testo e alla sua fi lologia, ai librai della controriforma, che, per sopravvivere in un mercato in parte saturo, fi niscono spesso con il ristampare solo le opere più facilmente smerciabili, come quelle religiose.

Stampare le proprie opere con i propri torchi, sorvegliare l’esattezza e l’eleganza dell’edizione, organizzarne so-

prattutto la diffusione esercitando così un’azione diretta sul pubblico: questa era e rimarrà sempre l’ambizione di molti uomini di lettere e di scienza, soprattutto nei periodi in cui i conflitti d’idee e le crisi di coscienza determinano il sorgere di una letteratura impegnata. L’azione di questi uomini però non esercitò mai un influsso tanto profondo come all’inizio del secolo XVI, quando uno dei compiti principali della stam-pa consisteva nel far conoscere gli antichi testi restituiti alla purezza primitiva: missione nella quale la filologia regnava sovrana. Molti studiosi e scrittori s’impegnano come corretto-ri presso gli editori, e parecchi naturalmente sono indotti a farsi a loro volta stampatori e librai. Uomini d’azione e in pari tempo umanisti, vivendo in un’età di straordinaria pro-sperità economica, appoggiati da editori e finanziatori che ne sanno riconoscere i meriti, conseguono spesso uno splendido risultato nel mettere i loro torchi al ser vizio dell’Umanesimo, contribuendo così al trionfo della causa cui sono dedicati.

Verso la fine del secolo XVI, tuttavia, la mentalità di stampa-tori e librai si trasforma; mentre cambiano natura le relazioni tra autori ed editori. Nella tormentata fase degli ultimi anni del secolo XVI le grandi generazioni di stampatori umanisti sono scomparse. La stampa, che durante il primo secolo di vita aveva goduto d’un periodo d’eccezionale prosperità, co-nosce una crisi. I libri pubblicati in un secolo saturano il mer-cato, mentre la crisi economica impedisce agli editori di tro-vare i capitali necessari e provoca tra gli operai stampatori agitazioni sociali e scioperi. Sopravvivere: questo l’obiettivo primo delle case editrici, soprattutto in Francia. Poi, mentre i paesi germanici, meno colpiti dalla crisi, sono devastati dalla guerra dei Trent’anni, nel resto d’Europa, ai primi del secolo XVII il lavoro a poco a poco riprende. Ma dalla prova il mondo del libro esce impoverito e diminuito. Fatto caratteristico: ti-pografi e librai fanno ormai parte di corporazioni, e un uomo di studio non può più aprire una nuova officina. Troppo nume-rosi, sopravvivendo con difficoltà, con un tenore di vita spes-so miserabile, i maestri stampatori sono ormai dei poveri diavoli. I librai editori, da parte loro, non si preoccupano più di rendere un servizio al mondo dello spirito, ma di pubblica-re opere che potranno sicuramente vendere. I più ricchi si preoccupano di ripubblicare vecchi libri di smercio sicuro, i libri religiosi soprattutto e particolarmente le opere dei Padri della Chiesa. È il tempo dei grandi librai della Controriforma, grossi mercanti e umili servitori della politica dei Gesuiti, de-votissimi alla Compagnia.

L. Febvre - H.-J. Martin, La nascita del libro, Laterza, Roma-Bari 1995

Lucien Febvre e Henri-Jean Martin, Dallo stampatore umanista al libraio della controriforma

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«Ricco di promesse senza pari», il ventennio compreso tra il 1660 e il 1680 fu «il più splendido periodo della letteratura francese». Lo storico Georges Duby ne traccia un resoconto riconoscendo anche i meriti di Luigi XIV.

Luigi XIV era salito al trono in un momento in cui la con-giuntura economica era decisamente sfavorevole, ma in

cui il movimento letterario, artistico e scientifico era ricco di promesse senza pari. E ben sapendo che la sua gloria, basata sui successi militari, ne avrebbe ricevuto nuovo lustro [...].

Georges Duby, Arte e cultura nella Francia del Re Sole16

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Gli autori offrono una sintesi effi cace dei nessi tra architettura, scultura e teatro e i problemi politico-sociali del tempo, descrivono il rapporto dell’«uomo barocco» con il vissuto e l’immaginario quotidiano: «essere e apparire, fasto e ascesi, potere e impotenza sono i costanti antagonisti di questo tempo. In un mondo sconvolto da confl itti sociali, guerre e lotte di religione, la gigantesca messa in scena forniva un appiglio sicuro».

Nessuno quanto il poeta spagnolo Calderón de la Barca ha caratterizzato il barocco in maniera altrettanto compiuta. Nella sua rappresentazione teatrale allegorica El Gran Tea-tro del Mundo (Il grande teatro del mondo), messo in scena per la prima volta nel 1645, egli applica alla sua epoca l’an-tico tópos della «vita come messa in scena»: di fronte a Dio padre e alla sua corte celeste gli uomini agiscono come atto-ri; lo spettacolo che essi rappresentano è la loro esistenza e il palcoscenico è il mondo. La metafora del “Teatro del mondo” attraversa l’intera età barocca […], un’epoca contrassegnata da forti contrasti che si svolgono davanti e dietro il sipario. Essere e apparire, fasto e ascesi, potere e impotenza sono i costanti antagonisti di que-sto tempo. In un mondo sconvolto da conflitti sociali, guerre e lotte di religione, la gigantesca messa in scena forniva un appiglio sicuro; la rappresentazione di sé dei signori baroc-chi, tanto papi che re, era al tempo stesso un programma po-

litico. Al centro di questo “Teatro del mondo” il cerimoniale, le indicazioni di regia, diventano lo specchio di un presunto ordine superiore di natura divina.Le arti, quelle figurative quanto le plastiche, svolgevano un doppio ruolo: servivano ad impressionare o, addirittura, ad “abbagliare” i sudditi e contemporaneamente come “veico-lo” di contenuti ideologici. Esse costituivano le quinte del teatro e creavano l’illusione di un mondo perfettamente or-dinato. Nulla può illustrare meglio questo concetto delle pitture prospettiche dei soffitti nelle chiese e nei palazzi: in esse lo spazio della finzione si apre sullo spazio reale e concede uno sguardo all’interno delle sfere celesti. Non sempre era pos-sibile allontanare le avversità della vita quotidiana; così l’arte dell’età barocca assume sovente forme complesse. Al più esagerato sfoggio materiale si contrappone la gravità di una fede profonda, la più disinibita voluttà di fronte alla co-scienza dell’inevitabile morte. In età barocca il motto me-mento mori (ricorda che devi morire), diventa il leitmotiv di una società turbata dalle opprimenti difficoltà dell’esisten-za. Non a caso, all’interno di rigogliose nature morte del tempo, sovente si cela un richiamo alla caducità, magari sot-to forma di un verme, di un acino guasto o di un pezzo di pane morsicato […]. Nel corso della rappresentazione “il mondo” affida a ciascun attore, tanto re che mendicante, gli attributi della propria condizione. Ogni attore accede al palcoscenico attraverso una porta, “la culla”, e lo lascia attraverso una seconda, “la tomba”. È questo il momento in cui agli “attori” vengono ri-prese le loro insegne e in cui essi devono riconoscere di aver

Del resto, il re amava le feste sontuose e gli ambienti magni-fici. Tra la folla di talenti che vennero alla luce, Colbert si sforzò di discernere quelli che potevano essere utilizzati a favore del prestigio regale [...].Colbert [...] si trasformò in ministro delle arti, delle lettere e delle scienze. Personalmente, aveva una cultura alquanto sommaria, e tuttavia sapeva circondarsi di consiglieri che, all’epoca, potevano essere giudicati tra i più sicuri. Jean-Baptiste Lully cioè l’italiano Giovan Battista Lulli, sovrinten-dente della musica del re dal 1661 al 1687, venne nominato direttore di tutti i teatri, accademie e conservatori musicali. Charles Le Brun, primo pittore del re fino al 1690, esercitò sul mondo degli artisti una sorta di dittatura [...] dirigeva tut-to, tutto sorvegliava [...]. Colbert scelse come consulente letterario Chapelain [...]; in-fine, Charles Perrault, il futuro autore delle celebri fiabe, venne direttamente impiegato alla realizzazione dei due pri-mi progetti concepiti dal ministro per onorare e attirare i ta-lenti: la distribuzione di gratifiche e la riorganizzazione delle accademie. Le ricompense in denaro non venivano prodigate soltanto in Francia ma anche all’estero, dal momento che Colbert, [...] tentava di sottrarre ai paesi stranieri gli uomini di cultura e gli artisti di valore eccezionale. [...] Le Accade-

mie, società di specialisti, erano in grado sia di fornire utili informazioni in caso di necessità, sia di cooperare alla gloria del re. Quelle già esistenti furono sottoposte a una più rigida tutela regia [...]. Inoltre Colbert organizzò e plasmò a proprio piacimento le nuove Accademie da lui fondate: delle iscrizio-ni e belle lettere (1663), delle scienze (1666), d’architettu-ra (1671), di musica (1672) [...].Un potente influsso venne dato anche a un’arte monarchica di cui Versailles costituì la principale ma non unica realizzazio-ne. Parigi deve al Grand Siècle alcuni dei suoi volti più carat-teristici; i suoi boulevard vennero allora trasformati in pro-menades, ornati di archi di trionfo: le porte Saint-Denis e Saint-Martin destinate a celebrare le vittorie del re [...]. Tra il 1660 e il 1680 videro la luce, in un clima di legittima fie-rezza nazionale, i grandi capolavori di Racine e di Molière, parecchie delle più belle orazioni funebri di Bossuet, quasi tutte le Favole di La Fontaine, un gran numero di Lettere di Madame de Sévigné, l’Art Poétique di Boileau, le Massime di La Rochefoucauld, nonché il bellissimo romanzo di Madame de la Fayette. Quei vent’anni furono il più splendido periodo della letteratura francese.

G. Duby, Storia della Francia, Bompiani, Milano 1993

Barbara Borngaesser e Rolf Toman, La “rappresentazione” barocca17

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Nel mondo della musica tra la conclusione della guerra dei Trent’anni e la metà del Settecento si verifi carono mutamenti signifi cativi: un ruolo fondamentale ebbero le grandi città, soprattutto europee, come agenti fondamentali per la circolazione della musica e il contatto tra musicisti.

Si prepara nella seconda metà del Settecento un grande mutamento nella geografia musicale europea: l’Italia

[...], il paese che dalla fine della guerra dei Trent’anni aveva invaso quasi tutta l’Europa divenendo la terra dei canti e dei suoni per antonomasia, si appresta a perdere il suo primato, a entrare in un periodo di eclisse [...]. Lo si vedrà bene alla fine del secolo: i maestri di prima grandezza non sono italia-ni; i maggiori italiani sono all’estero, assumono maniere estranee a quelle del paese d’origine; in Italia si affermano maestri stranieri; la musica strumentale diventa il settore guida, l’asse di novità e trasformazioni, ma l’Italia ha esauri-to le sue riserve secolari in questo campo.[...] Continua il fiorente commercio di musiche e maestri ita-liani oltre le Alpi, ma altri centri assumono importanza, altre linee di forza si intersecano sotto la spinta di situazioni nuo-ve. In [...] Francia, Parigi con i suoi teatri, i pubblici concerti, gli editori di musica, i costruttori di strumenti, dà lavoro a una quantità incalcolabile di musicisti; diventa un polo d’attrazio-ne unico, un centro amplificatore: la Serva padrona di Pergo-lesi, le sinfonie dei maestri di Mannheim, le opere francesi di Gluck sono tutti fenomeni che da Parigi crescono a dimensio-ne europea [...].Al predominio culturale francese si sta però affiancando quello inglese [...]. Nell’importanza assunta da Parigi e Lon-dra [...] non è, come in passato, la scuola musicale del posto

che conta, accentrata su una personalità emergente, bensì l’anonimo e laborioso tessuto organizzativo, la vivacità e lo sviluppo su scala internazionale di una circolazione di musi-che e musicisti molto più agevole che in altre sedi. [...] Il cuo-re musicale dell’Europa centrale è sempre a Vienna, la capi-tale dell’impero, fedele alla sua missione cosmopolita: attrae a sé musicisti dall’Italia [...], dagli stati tedeschi, dal Burgen-land austriaco, dalla Boemia [...]. Anche Salisburgo è una sede di rilievo per la diffusione della musica [...]. Al Nord comincia a brillare Berlino [...]. Ma Vienna e Berlino non esauriscono certo il quadro, ché il secolare particolarismo politico e culturale dell’impero ha come risvolto positivo una quantità di centri autonomi dove la musica strumentale gareggia ad armi pari con quella teatrale [...]. Si possono ancora indicare alcuni punti della carta mu-sicale europea. Nella penisola iberica spiccano Lisbona e Madrid [...], Amsterdam [...], Varsavia [...], Copenaghen e Stoccolma [...], Pietroburgo [...], Mosca.Infine la carta europea non basta più: oltre oceano a Boston, New York, Philadelphia, Charleston, nasce una vita concerti-stica, si importano musiche e strumenti da Parigi a Londra [...]; non lontano da Philadelphia, la setta dei Fratelli Moravi in Betlemme, formata da emigrati tedeschi, boemi, olandesi, fin dal 1744 possiede un Collegium musicum che più tardi eseguirà i sinfonisti di Mannheim, Johann Christian Bach, Haydn, Mozart mentre questi maestri sono ancora vivi in Eu-ropa. Per la prima volta nella storia della musica l’ambito pubblico di un pezzo di musica può coincidere con l’intero mondo civile, e un lavoro scritto a Vienna, a Mannheim o a Milano può essere eseguito contemporaneamente a Londra, a Parigi e in America.

G. Pestelli, L’età di Mozart e di Beethoven, in Storia della musica, EDT, Torino 1991, vol. 7

o meno adem piuto al loro ruolo […]. Per Calderón solo il mendicante e il saggio non soccombevano di fronte alla su-perbia e alla vanità. Essi sono gli unici che comprendono la lezione morale della rappresentazione e che quindi sfuggono alla condanna. Quando il sipario è calato restano ancora solo le «quattro cose ultime», la morte, il giudizio, il paradiso e

l’inferno. La loro rappresentazione allegorica ha occupato l’intera epoca barocca e ha fornito il “concetto” per le più toccanti opere d’arte.

in Il barocco. Architettura, Scultura, Pittura, Colonia, Koenemann 1999

Giorgio Pestelli, La geografia musicale di metà Settecento18

Negli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento un grande fermento culturale animò la Francia. Il gruppo intellettuale impegnato nella redazione dell’Enciclopedia infl uenzò in modo speciale il resto dell’Europa: «Per un decennio i lumi e l’Enciclopedia tenderanno a coincidere».

Noi dovremo guardare all’Europa dei lumi nel suo assieme, cercando di coglierne il ritmo e di fissarne i confini [...].

Con gli anni ’40 [del XVIII secolo n.d.r.] se avviciniamo gli occhi alla pittura, se esaminiamo da vicino e in dettaglio la situazione in Spagna, in Italia, a Vienna, a Berlino e a Parigi, dovremo [...] concludere [...] che la circolazione delle idee è più intensa di quello che avremmo potuto sospettare, che le

Franco Venturi, La cultura dei lumi: l’Enciclopedia19

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speranze e le aspettative si volgono verso una medesima di-rezione, che effettivamente assistiamo all’emergere dell’Eu-ropa dei lumi. Non siamo più di fronte alla crisi della coscien-za europea dell’inizio del secolo [...].Al centro del quadro sta Parigi negli anni in cui si va prepa-rando l’Enciclopedia. È un ambiente già cosmopolita [...]. È una nuova generazione, ed è anche un ambiente sociale del tutto diverso da quello di un Fontenelle, di un Montesquieu, d’un Voltaire, per non nominare che gli uomini che dominano allora l’orizzonte intellettuale della Francia. È un mondo straordinario vivace di bohèmes, di traduttori, di gente che vive della propria penna e per le proprie idee. Negli anni in cui Voltaire cerca d’avvicinarsi alla corte e all’accademia e in cui riesce in modo sorprendente a stabilire un modus vivendi perfino col papa Benedetto XIV, quando Montesquieu tratta e discute quasi come una potenza con il governo francese e con la chiesa della politica del suo tempo – irrigidendosi e conce-dendo a seconda dei casi, vero giudice e gran signore, stacca-to e geniale –, questo gruppo di giovani è sorvegliato da vici-no dalla polizia, rischia di finire nel castello di Vincennes [prigione in cui nel Settecento furono rinchiusi molti intellet-tuali, n.d.r.] come Diderot nel 1748, al momento d’una gene-rale repressione degli elementi eterodossi. Quando il paese sta uscendo finalmente dalla guerra, questi giovani sono in continua guerra con la censura, con le regole corporative del-la librairie, magari con la propria famiglia, e con l’ambiente da cui essi derivano. È un gruppo straordinariamente libero, all’interno e all’esterno. Diderot, che ne è l’anima, d’Alem-bert, che lo segue riluttando, Rousseau, che interpreta a mo-do suo le idee e gli entusiasmi del gruppo, ricusano per l’En-ciclopedia nascente ogni protezione, così come ogni rigida

organizzazione interna. Né stato né accademia, ma un gruppo di liberi filosofi. Un po’ ovunque in Europa quel che dicono e fanno gli enciclopedisti a Parigi tra la fine degli anni ’40 e il principio degli anni ’50, tra la preparazione e la prima crisi dell’Enciclopedia, nel 1752, è seguito con una curiosità e un interesse che crescono rapidamente [...]. Malgrado tutto que-sto interesse, anche fuori dei confini della Francia, per quel che si sta pensando e dicendo a Parigi [...], è pur evidente che quella libertà, quella spregiudicatezza che regna nel gruppo dei giovani philosophes è troppo grande, troppo intensa per essere accolta dall’Europa nella metà del Settecento [...].Eppure, proprio l’Enciclopedia getta i ponti e permette il pas-saggio tra il pensiero del gruppo parigino e il resto d’Europa. Il fatto stesso che si tratti d’un dizionario delle scienze e del-le arti crea la possibilità della diffusione delle nuove idee, anche là dove certo non avrebbero potuto giungere diretta-mente. La cultura tecnica viene collegata alle concezioni che Diderot era venuto facendosi del lavoro, delle macchine, del rapporto stesso tra la philosophie e l’utile, tra le idee e la società. La scienza non viene soltanto esposta ma, dal Di-scours préliminaire agli articoli di metodologia di d’Alem-bert, vien vista nella prospettiva storica della formazione e del trionfo della moderna civiltà. La politica, il diritto vengono continuamente rimessi in que-stione dai problemi più vasti, filosofici e morali, che Diderot e i suoi collaboratori non cessano di porre e riporre ai loro let-tori. [...] Per un decennio i lumi e l’Enciclopedia tenderanno a coincidere.

F. Venturi, Utopia e riforma nell’Illuminismo, Einaudi, Torino 1970

Nell’esame dei caratteri fondamentali della cultura europea durante l’età della Restaurazione, si distinguono due «tipi di intellettuale» che segnano, in parallelo, i diversi ambiti artistici dell’età romantica: il primo è favorevole al programma di «stabilizzazione conservatrice» seguito al Congresso di Vienna, il secondo, al contrario, ribelle e ostile a tali valori.

Il crollo dell’impero napoleonico ed il ritorno dei vecchi so-vrani avrebbero dovuto, nelle intenzioni dei reazionari,

aprire la via alla restaurazione dell’antico regime.Il programma di stabilizzazione conservatrice aveva il con-senso e l’appoggio di una parte della cultura romantica. Teo-rici di una nuova teocrazia, come Bonald e De Maistre, vede-vano nella subordinazione delle monarchie alla Chiesa la garanzia principale dell’ordine restaurato e riesumavano nei termini più consunti perfino la polemica antiprotestante. La scienza giuridica, per opera di Savigny, Gustav Hugo, Puchta, idealizzava il mondo feudale e vi cercava la giustificazione del regime oppressivo e poliziesco nuovamente imposto ai

popoli. Alcuni tra i maggiori scrittori romantici consideravano la restaurazione assolutistica come la base della ripresa di autentici valori religiosi, morali, civili. L’apologia della Chie-sa di Roma, del Medioevo e della tradizione, del sentimento «cavalleresco» di fedeltà e del principio di autorità divenne di moda. L’interesse per il Medioevo, ravvivato dai romanzi di Walter Scott o dagli scritti di Novalis e Friedrich Schlegel, aveva evidentemente un contenuto politico conservatore, che si sovrapponeva a quella riscoperta della storia e del valore della tradizione, che pure era un merito del movimento ro-mantico nel suo complesso. Lo stesso sviluppo economico venne preso di mira e condannato in quanto se ne vedevano gli effetti sconvolgenti e rivoluzionari nella vita politica, nei rapporti sociali e nel costume.Ma fin dal momento in cui cominciò ad essere applicato, il programma di restaurazione, concertato dai fautori dell’an-cien régime tornati in auge dopo la sconfitta di Napoleone, rivelò il suo contrasto con la realtà. Nessun’altra epoca stori-ca, infatti, aveva visto fino allora trasformazioni sociali così rapide e pro fonde come quelle del periodo comprendente la nascita dell’industria moderna e la rivoluzione francese; tra-sformazioni irreversibili, che non potevano restare senza con-

Rosario Villari, La cultura nell’età della Restaurazione20

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seguenze sul piano politico. Così il periodo dal 1815 alla metà del secolo fu percorso da una intensa febbre rivoluzio-naria, dalla quale la borghesia moderata, malgrado la paura del Terrore e del giacobinismo, fu largamente contagiata.Nella cultura, la moda del romanticismo medievaleggiante e conservatore non durò a lungo o almeno non mantenne il pre-dominio assoluto. Già intorno al 1820, la tendenza si era ro-vesciata e la figura dell’intellettuale romantico cominciò ad identificarsi piuttosto con quella del ribelle che del portavoce della reazione. Il caso Byron, che morì combattendo per la libertà in Grecia, può essere considerato esemplare; ed il suo esempio ebbe larghissima influenza tra gli intellettuali euro-pei. La giovane letteratura francese, che contava tra i suoi esponenti Victor Hugo, Lamartine, Mérimée, non aveva più nulla a che vedere con i miti conservatori del primo romanti-cismo; allo stesso modo Shelley, Keats, Byron, Puskin, Mi-ckiewicz, il giovane Leopardi proponevano e sostenevano valori etici e politici ben diversi da quelli della cultura uffi-ciale della restaurazione.Le arti figurative e la musica non mancarono all’appuntamen-to con quella passione di libertà e di critica, con questa ricer-ca di novità e di superamento dei limiti: Delacroix, Chopin, Berlioz vissero della stessa tensione spirituale, che, per l’ar-te musicale, risaliva all’impetuosa fonte beethoveniana. Nel-la maggior parte dei casi questi «ribelli» erano indifferenti o decisamente ostili anche ai valori che la borghesia propugna-va ed al nuovo ordine della ricchezza e della produttività che essa si sforzava di affermare. Lo stesso filone tendenzialmen-

te realista della narrativa romantica, impegnato nell’analisi della nuo va società che si veniva costituendo, quando non prese posizione per i diseredati, come nel caso di Charles Di-ckens, non dimostrò certamente simpatia per i nuovi eroi del capitalismo: Balzac, politicamente conservatore, ne fece in certo modo i protagonisti negativi della sua grandiosa co-médie humaine.Pur non coincidendo se non parzialmente con le linee fonda-mentali di svolgimento della rivoluzione borghese, la lette-ratura e le arti contribuirono a dissipare il pesante clima di oppressione e di passatismo che le forze della restaurazione cercarono di imporre all’Europa, e dimostrarono che, al di là di tutti i divieti, la ricerca del nuovo e l’aspirazione al muta-mento rompevano prepotentemente, anche a costo di morta-li sofferenze (fu l’epoca in cui il suicidio diventò una sorta di malattia professionale dei letterati e degli artisti!) ed anche attraverso bizzarrie, eccentricità ed esteriori stravaganze. Anche in queste forme, alle quali si accompagnò tuttavia una solidissima e profonda rielaborazione culturale che die-de vita alle grandi opere sistematiche del pensiero ottocen-tesco, il ribellismo romantico partecipò alla lotta contro la restaurazione, intrecciandosi con il movimento di opposizio-ne politica ed allargando la sua influenza fino a permeare di sé, tra il 1840 ed il 1848, una parte notevole, e senza dub-bio quella che ebbe maggiore risonanza, della letteratura e delle arti.

R. Villari, L’Europa contemporanea, Laterza, Bari 1972

Due termini ampiamente dibattuti quali “classicismo” e “romanticismo”, nel periodo compreso tra il 1750 e il 1850, non costituirono fasi artistico-culturali contrapposte, bensì profondamente intrecciate tra loro.

Trattando dell’arte che si è sviluppata in Europa, nel corso del XIX ricorreranno spesso i termini di «classico» e «ro-

mantico»: la cultura artistica moderna appare infatti imper-niata sulla relazione dialettica di questi due concetti. Essi si riferiscono a due grandi fasi della storia dell’arte: il «classi-co» all’arte del mondo antico, greco-romano, ed a quella che si considera la sua rinascita nell’umanesimo del XV e XVI se-colo; il «romantico» all’arte cristiana del Medioevo, più preci-samente al Romanico e al Gotico, cioè alle culture romanze.[...] Teorizzare un periodo storico significa trasporlo dall’or-dine dei fatti a quello delle idee, costituirlo a modello: è in-fatti a partire dalla metà del XVIII secolo che si forma una fi-losofia dell’arte (estetica). È allora che si produce una pro-fonda cesura nella tradizione artistica e ha inizio il nuovo ci-clo storico dell’arte: quello che si chiama moderno o contem-poraneo e si sviluppa fino ai nostri giorni. [...] Il periodo che va dal 1750 c. al 1850 c. viene generalmente suddiviso così:

1) una prima fase preromantica con la poetica inglese del «sublime» e l’affine poetica tedesca dello Sturm und Drang; 2) una fase neo-classica coincidente all’incirca con la rivolu-zione francese e l’impero napoleonico; 3) una reazione ro-mantica coincidente con l’opposizione borghese alle restau-razioni monarchiche e con i moti per le indipendenze naziona-li tra il 1820 c. ed il 1850 c. Questa periodizzazione non regge per vari motivi: 1) già verso la metà del Settecento il termine «romantico» viene impie-gato come equivalente di «pittoresco» e riferito al giardinag-gio inglese, cioè ad un’arte che non imita e rappresenta, ma modifica la natura adattandola ai sentimenti umani e alle op-portunità della vita sociale, e cioè ponendola come ambiente della vita; 2) la poetica del «sublime» e quella dello Sturm und Drang, benché di poco posteriori alla poetica del «pitto-resco», non vi si oppongono, ma semplicemente riflettono un diverso atteggiamento dell’individuo verso la realtà: per il «pittoresco» la natura è un ambiente accogliente e propizio, che sviluppa nell’individuo i sentimenti sociali; per il «subli-me» è un ambiente duro ed ostile, che sviluppa nella persona il senso della propria individualità, della propria solitudine, della fondamentale tragicità dell’esistere; 3) le poetiche del «sublime» e dello Sturm und Drang, benché concordemente riconosciute come preromantiche, indicano come supremi modelli le forme classiche e costituiscono dunque uno dei

Giulio Carlo Argan, Classicismo e romanticismo artistico21

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Tra le pubblicazioni culturali sorte nei diversi Stati italiani alla metà dell’Ottocento, l’«Antologia» di Firenze e il «Politecnico» di Milano, in particolare, ereditano gli intenti del «Conciliatore», ponendosi l’obiettivo di mediare tra «la cultura alta e il pubblico medio dei lettori».

La densità e diversità di suggestioni culturali che avevano trovato espressione nei numeri del foglio azzurro [il «Con-

ciliatore», nato a Milano nel 1818 e soppresso nel 1819 dalle autorità austriache, n.d.r.] erano però destinate a fermentare nel movimento romantico e non è un caso che nella letteratu-ra giornalistica dei decenni successivi riaffioreranno alcuni nodi problematici toccati dal «Conciliatore»: dalla formazio-ne di una pubblica opinione attraverso «i giornali, il teatro e i buoni romanzi», al raffronto tra l’Italia e le nazioni più avan-zate del resto d’Europa, sino alla concezione del giornale co-me mediazione tra la cultu ra alta e il pubblico medio dei let-tori. La stessa esperienza dell’«Antologia», la rivista fonda-ta nel 1820 da Giampietro Viessieux nel granducato di Tosca-na e da lui diretta fino alla soppressione nel 1833, sembra riprendere, pur trasportandolo su un versante di più moderato e cauto liberalismo, il progetto del «Conciliatore». Dopo i primi numeri dedicati quasi esclusivamente a traduzioni dai maggiori giornali europei, l’«Antologia» assunse una sua fi-sionomia peculiare in cui gli articoli di statistica, di storia e di economia prevalevano rispetto a quelli letterari. L’attenzione della rivista ai problemi della mezzadria toscana, dell’educa-zione agraria, la proposta di riforme per la trasformazione in senso capitalistico dell’agricoltura, fecero dell’«Antologia» il punto di incontro tra il liberalismo moderato toscano e un ceto proprietario consapevole dei propri compiti di classe di-rigente […]. Al modello dell’«Antologia» si ispirò «Il Pro-gresso delle scienze, delle lettere e delle arti» fondato a

Napoli nel 1832 da Giuseppe Ricciardi e proseguito sotto vari direttori fino al 1846. Tra tutti i giornali nati nel napoletano nel periodo tra il 1830 e il 1840, in coincidenza con la poli-tica più aperta di Ferdinando II di Borbone, «Il Progresso» fu l’unico a discostarsi dal giornalismo di intrattenimento e di costume per proporsi come giornale scientifico-letterario con un programma riformistico di matrice liberale […]. Il tentativo di incidere in maniera organica sulla formazione di una classe dirigente è […] un segnale importante della mutata funzione che i periodici di cultura si propongono a partire dagli anni trenta dell’Ottocento, soprattutto in area lombarda, che si configura […] come osservatorio privilegiato di questo pro-cesso che trova la sua più interessante concretizzazione negli «Annali universitari di Statistica» stampati dal 1824 […] si-no al 1870. L’impostazione economica e tecnica voluta da Gian Domenico Romagnosi […] fece degli «Annali» una rivi-sta che si rivolgeva a un pubblico di lettori parzialmente di-verso da quello umanistico dei periodici di cultura del primo Ottocento. La ripresa degli «Annali» in termini di conoscenza concretamente socioeconomica delle battaglie culturali di inizio secolo mirava esplicitamente alla formazione di un’opi-nione pubblica capace di costituire il nucleo della futura clas-se dirigente nazionale […]. Si venne così formando nella re-dazione una generazione di giornalisti e intellettuali capaci di leggere in una prospettiva culturale unificante ricerca scientifica e storia civile, innovazione tecnica e mutamento sociale […]. La nascita nel 1839 del «Politecnico» di Carlo Cattaneo ebbe un peso determinante per la successiva proli-ferazione di giornali militanti negli anni cinquanta e costituì un modello d’integrazione tra cultura scientifica e cultura let-teraria di grande suggestione per la cultura democratica fino a tutto il Novecento.

U.M. Olivieri, Le riviste, in Manuale della letteratura italiana. Storia per generi e problemi, vol. 3, Dalla metà del Settecento

all’Unità d’Italia, Bollati Boringhieri, Torino 1995

Ugo M. Olivieri, Cultura e periodici di metà Ottocento22

fondamenti del Neo-classicismo: gli artisti neo-classici assu-mono di fatto, nei confronti dell’arte classica, un atteggia-mento nettamente romantico. Si può dunque affermare che il Neo-classicismo storico non è altro che una fase della conce-zione romantica dell’arte. [...]Con la rivoluzione francese il modello classico assume un ca-rattere etico-ideologico, identificandosi con la soluzione idea le del conflitto di libertà e necessità o dovere; e, ponen-dosi come valore assoluto e universale, trascende ed annien-ta le tradizioni o le storie nazionali. Questo universalismo storico culmina e si diffonde in tutta l’Europa con l’impero napoleonico. La crisi che si determina con la fine dell’impero

apre, anche nella cultura e nell’arte, una problematica nuo-va: esclu sa e quindi aspramente avversata l’antistorica re-staurazione monarchica, le nazioni debbono trovare in sé, nella propria storia, le ragioni della propria autonomia, ed in una radice ideale comune, il cristianesimo, le ragioni della loro civile coesistenza. Nasce così, nell’ambito di un più vasto romanticismo che comprende anche la tendenza neo-classica, il romanticismo storico.

G.C. Argan, L’arte moderna. 1770-1970, Sansoni, Firenze 1970

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S t o r i o g r a f i a

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Il compositore tedesco Richard Wagner fu una tra le fi gure maggiormente simboliche del panorama musicale dell’Ottocento. Il ritratto che ne traccia Fritz Martini è quello di un uomo che «riassunse tutta la ricchezza del retaggio di tradizioni del secolo XIX, fu insieme un tardo epigono e un audace innovatore, chiudendo in sé tutta la problematica del secolo in cui visse».

Nessuna figura della storia ideale tedesca del secolo XIX prima di Nietzsche è geniale e discorde come quella di

Wagner, così ricca di qualità e di contrasti, né fu altrettanto ammirata ed esecrata, irrisa e glorificata. L’opera wagne-riana, sino ad oggi, ha conquistato il mondo intero: il suo autore sembra addirittura, nella valutazione internaziona-le, il rappresentante del carattere germanico. Ma la sua opera e la sua figura sono, al tempo stesso, profondamente problematiche […]. Ancora oggi si direbbe che nei suoi con-fronti non ci sia altro atteggiamento che un’accettazione totale o un netto rifiuto. Egli riassunse tutta la ricchezza del retaggio di tradizioni del secolo XIX, fu insieme un tardo epigono e un audace innovatore, chiudendo in sé tutta la problematica del secolo in cui visse. Genio e istrione, dottri-nario, speculatore, trasognato mistico del sentimento e al tempo stesso artista consapevole e calcolatore all’estremo, romantico e intellettuale, creatore di miti ed esteta, rivolu-zionario e conservatore, antiquato e raffinatamente moder-no […] tali antitesi, in lui, sono continue. Non c’è alcuna

formula in cui la sua personalità si lasci imprigionare, nes-suna definizione che lo rispecchi senza residui. Grava su di lui una pesante ipoteca: le ripercussioni di Wagner naziona-lista, antisemita, profeta della missione germanica nel mondo, atteggiamenti che gli valsero largo favore in seno al nazismo. Ma anche questo non è che un lato della sua esi-stenza: egli fu al tempo stesso, l’unico artista dell’Ottocen-to tedesco a conquistare il mondo intero grazie al linguag-gio sopranazionale della musica, attingendo così un livello internazionale. [...] Wagner voleva realizzare la possibilità della vera tragedia (quale l’avevano posseduta i Greci) at-traverso la musica, l’opera musicale, e volle darle, come contenuto, un mito che, radicato nell’anima tedesca, fosse in grado d’istruire un nuovo rapporto tra popolo e arte, tra società e teatro, provocando una rigenerazione della civiltà tedesca, della nazione intera. Il mito doveva sostituire la religione perduta; il teatro doveva divenire la forza che pro-duce la comunità del popolo. Sulla scena doveva essere rappresentato, tutto romantico incantamento, tutto sacrale solennità, fastoso e sensuoso, mistico e colorito, un mondo superiore che facesse dimenticare la grigia, quotidiana re-altà borghese e la sua vuota «civiltà» tecnica. La musica doveva assurgere a simbolo della suprema unità dell’esse-re, doveva aprire le porte dell’assoluto, delle prime, comu-ni radici di cui germoglia ogni forma di vita e il popolo stes-so. C’era, in questo, molta eredità del Romanticismo. La tragedia musicale doveva redimere un’età senza Dio.

F. Martini, Storia della letteratura tedesca, Il Saggiatore, Milano 1982

Fritz Martini, Il XIX secolo e la musica di Wagner23

I punti principali della “rivoluzione intellettuale” che coinvolse tutte le scienze negli ultimi decenni del XIX e nei primi del XX secolo possono essere individuati nello studio della coscienza, nel dibattito sulla natura della conoscenza e nel mutamento delle concezioni politico-razionaliste.

Vi sono periodi nella storia in cui un gruppo di pensatori all’avanguardia, che operano di solito indipendentemente

l’uno dall’altro, propone delle idee sulla condotta dell’uomo così diverse da quelle comunemente accettate e, insieme, co-sì manifestamente legate fra loro, che esse sembrano costi-tuire, nel loro complesso, una rivoluzione intellettuale. L’ul-timo decennio dell’Ottocento è uno di questi periodi. In quegli anni, infatti, e nei dieci anni successivi, gli assunti fondamen-tali del pensiero sociale del XVIII e XIX secolo furono sotto-posti a una revisione critica dalla quale sarebbero sorte le nuove concezioni caratteristiche del nostro tempo […]. Pos-

siamo delineare in modo schematico le principali idee formu-late nell’ultimo decennio del secolo scorso [l’Ottocento, n.d.r.], prima che esse fossero ulteriormente elaborate nei primi anni del Novecento. 1) Fondamentale, e chiave di ogni altro, fu l’interesse nuovo per il problema della coscienza, e per il ruolo dell’inconscio. Era il problema stesso implicito nel primo libro di Bergson, Essai sur les donnes immediates de la conscience (Saggio sui dati immediati della coscienza, 1899) […]. Freud cominciò a realizzare il programma che Bergson aveva delineato. La prima grande opera di Freud, Die Traumdeutung (L’interpretazione dei sogni, 1900), costruì su un “vigoroso sforzo” di autoanalisi una teoria della moti-vazione inconscia di cui la chiave era costituita dalla vita dei sogni. 2) Stret tamente connessa con il problema della co-scienza era la questione circa il significato del tempo e della durata in psicologia, filosofia, letteratura e storia […]. Era […] il dilemma che ossessionò i romanzieri del primo venten-nio del nuovo secolo, Alain-Fournier, Proust, Thomas Mann: il tormentoso problema della possibilità di riafferrare l’im-mediatezza delle esperienze passate […]. 3) Oltre ai proble-

Henry Stuart Hughes, Tra Ottocento e Novecento: la rivoluzione intellettuale24

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C u l t u r a e a r t e

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mi della coscienza e del tempo, si faceva luce il problema della natura della conoscenza in quelle che Wilhelm Dilthey aveva chiamato «le scienze dello spirito» […]. 4) Se la cono-scenza dei fatti umani poggiava […] su fondamenti […] ipote-tici, l’intera base della discussione politica veniva radical-mente modificata. Non ci si poteva più accontentare delle fa-

cili assicurazioni delle ideologie razionalistiche, ereditate dai centocinquant’anni precedenti, liberali, democratiche o so-cialiste che fossero.

H.S. Hughes, Coscienza e società, storia delle idee in Europa dal 1890 al 1930, Einaudi, Torino 1967

Il fascismo fece in genere un uso politico della cultura, in fasi diverse e passando anche attraverso signifi cativi mutamenti d’indirizzo nel proprio rapporto con gli intellettuali.

Pur non essendo mia intenzione sovraccaricare il discorso di questioni generali o troppo particolari, una almeno non mi

sembra eludibile: è esistita effettivamente una politica fasci-sta (che cioè non si limitasse solo ad isolare, mettere la sor-dina e, in certi casi, far tacere le voci troppo dichiaratamente antifasciste o che, comunque, erano troppo dissonanti rispet-to a taluni aspetti della politica del governo) volta ad influire sugli atteggiamenti dell’alta cultura […]? Composto essen-zialmente da uomini di formazione umanistica (sia pure so-vente di tipo giornalistico e autodidattico) […] il gruppo diri-gente fascista non era certo indifferente alla cultura storica e la considerava anzi un elemento importantissimo per la ricer-ca del consenso, per l’edificazione dello “stato nuovo” e la formazione dell’“uomo nuovo” fascista. Almeno in un primo tempo, nella logica semplificatrice ed attenta soprattutto ai rapidi risultati del fascismo (e dovendo tener conto degli equilibri interni del regime così come esso andava prendendo corpo), tutto ciò, più che attraverso l’apporto dell’alta cultu-ra, doveva e poteva essere conseguito attraverso l’apporto della cultura di tipo scolastico e di massa. L’alta cultura ser-viva assai meno: tutto sommato era sufficiente poterne pre-sentare, all’interno e all’estero, alcuni nomi più prestigiosi come quelli di buoni fascisti, espressione dei più genuini valo-ri della stirpe italica […]. Alla lunga, questa concezione della cultura avrebbe mostrato la corda e avrebbe trovato in Bottai il più consapevole ed abile avversario e il più deciso sosteni-tore della necessità di agire su tutta la cultura e, dunque, an-che quella ai livelli scientifici più alti. Ma questo sarebbe av-venuto dopo la guerra d’Etiopia, quando il processo di totali-tarizzazione del regime subì una drastica accelerazione. Per tutti gli anni venti il problema dell’alta cultura […] si può dire che fu – salvo casi particolari, come quello di Salvemini,

nei quali il discorso culturale era tutt’uno con quello politi-co – assai poco sentito dal regime in quanto tale, che, più che ad avere una vera e propria politica verso di essa, mirò a neu-tralizzare gli antifascisti più intransigenti (in questa logica, oltre che in quella del prestigio, vedrei l’istituzione dell’Ac-cademia d’Italia, volta a mettere in ombra quella dei Lincei nella quale, appunto, gli antifascisti erano numerosi) e a rias sorbire con “magnanimità” e lusinghe gli altri; tipico è a questo proposito l’atteggiamento verso molti fir matari del “manifesto Croce”, tant’è che esso non mancò di suscitare le ire dei fascisti più intransigenti. Mussolini (che, oltre tutto, amava civettare con la cultura e atteggiarsi a suo protettore) per parte sua, non ancora del tutto dimentico di certe […] aspirazioni ad un “governo degli intellettuali”, in questi anni ne lasciò completamente la ge-stione ad alcuni uomini di spicco come Volpe, Mario Orso Cor-bino e soprattutto Giovanni Gentile, del quale avallò quasi sempre il programma di valorizzare, senza rigide pregiudizia-li per le idee politiche, le capacità scientifiche e le competen-ze tecniche di tutti coloro che erano disposti a collaborare con lui purché non pretendessero di fare attraverso esse dell’antifascismo. Tipica in questo senso […] è la vicenda dell’Enciclopedia Italiana. Verso la fine degli anni venti e l’inizio degli anni trenta […] fu iniziata una progressiva azio-ne tesa ad estendere “l’azione disciplinatrice del regime” a tutti i settori della cultura e in particolare dell’alta cultura che sino ad allora era stata meno toccata dal “rinnovamento” fascista e nella quale forti e talvolta predominanti erano an-cora le “sacche” antifasciste o afasciste. Nulla di paragonabile, certo, ancora con quanto sarebbe sta-to fatto da De Vecchi (con piglio militaresco e risultati tutto sommato controproducenti) e da Bottai (con ben altra abilità e intelligenza) negli anni successivi, ma pur sempre abba-stanza (è della fine del ’31 l’imposizione del giuramento ai professori universitari) per segnare una prima, significativa, svolta.

R. De Felice, Intellettuali di fronte al fascismo. Saggi e note documentarie, Bonacci, Roma 1985

Renzo De Felice, Aspetti della politica culturale del fascismo25

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Norberto Bobbio, uno tra i maggiori studiosi italiani della seconda metà del XX secolo, sostanzialmente nega l’esistenza di una “cultura fascista” propriamente detta. Poche sono le iniziative di autentico spessore culturale del regime, e anche i suoi intellettuali più prestigiosi, Gentile, Rocco e Volpe, si sono formati in un’altra generazione e prima dell’avvento del fascismo.

La ragione per cui, nonostante i cedimenti individuali, la cultura non fu del tutto fascistizzata, è da ricercarsi nel

fatto che una cultura fascista nel duplice senso di fatta da fascisti dichiarati o a contenuto fascista non è mai realmente esistita, o almeno non riuscì mai, per quanti sforzi potessero essere compiuti, a prender forma in iniziative o imprese dura-ture e storicamente rilevanti. L’unico gruppo che tentò di ela-borare una dottrina originale e cercò di non perdere i contatti col resto del mondo, fu quello dei giovani gentiliani che si raccolsero attorno a Bottai nella scuola di scienze corporati-ve dell’Università di Pisa. Ma durò poco. Il loro quarto d’ora storico fu il convegno di studi corporativi svoltosi a Ferrara nel maggio 1932, in cui Spirito fece la proposta, destinata a sollevare un vero e proprio “putiferio”, della corporazione proprietaria, proposta che fu interpretata come cripto-comu-nistica e subito subissata dai custodi ormai anch’essi in cami-cia nera dell’ordine costituito. Un’iniziativa come quella di pubblicare una nuova edizione dei classici del liberalismo e del socialismo non andò oltre al secondo volume […].Per il resto gli intellettuali integralmente fascisti – dico “in-tegralmente” per distinguerli da tutti coloro che erano fasci-sti soltanto in quel quarto d’ora in cui scrivevano su una rivi-sta fascista o facevano una dichiarazione di omaggio al duce, insomma dagli opportunisti, da quelli con fede “a comando”, e furono la stragrande maggioranza – erano per la maggior parte intellettuali di mezza tacca […]. Nessuno li prendeva

sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti delle loro dotte elucubrazioni. Buona parte della letteratura fascista era già morta prima di nascere. Ora è diventata ciarpame che può incuriosire lo storico del costume o della follia umana più che quello delle patrie lettere. Un bel numero di quegli auto-ri improvvisati di quei libri sono scomparsi nella notte da cui erano sorti senza lasciar alcuna traccia: vecchi peccatori che avevano qualche imprudenza da farsi perdonare; i soliti arri-visti cui sembrava di aver trovato la strada giusta per far car-riera; i conformisti cronici; i fanatici facili all’entusiasmo; giovani cresciuti nel culto del duce; e naturalmente teste de-boli, confuse, superficiali come se ne trovano a tutte le età.I grandi intellettuali del fascismo, di cui tre, mi pare, spicca-no su tutti gli altri per vigore intellettuale e per l’influenza reale che esercitarono sul regime e sulla cultura fascisti, Gentile, Alfredo Rocco e Volpe (tutti e tre coetanei, essendo nati i primi due nel 1875, il terzo nel 1876) si erano formati prima del fascismo: nel 1925 avevano cinquant’anni, cioè un’età in cui generalmente uno comincia a ripetere se stesso. Le loro maggiori opere le avevano ormai alle spalle. Senza contare che anche un uomo, come Gentile, di cui non si può non riconoscere la natura di grande intellettuale, quando scriveva da “fascista”, diventava gonfio, retorico. Riempiva di parole altisonanti il vuoto dei concetti, assumeva di fronte agli avversari l’atteggiamento di Giove tonante, e, costretto a fare discorsi ufficiali nelle più diverse occasioni, esibiva con parole che diventavano sempre più consunte non tanto la sua fede quanto la sua volontà di credere. L’unica opera che sal-verei di questi scrittori, per una sua certa severità di linguag-gio e per la forza di convinzione che ne promana, è L’Italia in cammino di Volpe, che è del 1927. I vecchi intellettuali che il fascismo schiumò da tutti i partiti e da tutti i movimenti cultu-rali dei decenni precedenti, una volta approdati al porto sicu-ro del regime, scrissero i libri più brutti della loro vita.

N. Bobbio, La cultura e il fascismo, in Fascismo e società italiana, a cura di G. Quazza, Einaudi, Torino 1973

Norberto Bobbio, È possibile parlare di cultura fascista?26

Il grattacielo è il simbolo dell’ambiente urbano del XX secolo: nella sua storia emerge il legame che intercorre tra i simboli architettonici e i mutamenti sociali ed economici di cui essi sono al contempo frutto e testimonianza.

Chi cercasse un equivalente contemporaneo delle sette meraviglie del mondo antico, farebbe bene a guardare ad

alcuni dei grandi edifici che troneggiano nel cielo di tante cit-tà metropolitane del nostro pianeta. Non soltanto sono ormai divenuti simboli dell’Occidente nel ventesimo secolo, incar-

nazioni dei suoi valori ed espressioni della sua ricchezza; sono anche strutture monumentali che dominano la città e rivaleggiano con le costruzioni colossali dell’antichità: pira-midi, templi, palazzi. Una mezza dozzina di tali strutture ven-gono subito in mente: la Tour Montparnasse a Parigi, la Nat West Tower a Londra, la Sears Tower a Chicago, il Trade Cen-ter a New York [distrutto da un attacco terroristico l’11 set-tembre 2001, n.d.r.] la Bank of Hong Kong. Non era mai suc-cesso che singoli edifici racchiudessero una tale concentra-zione di risorse e la loro altezza fa ormai parte di una contesa per il prestigio […]. Questi complessi, occupati da interi bloc-chi di uffici, sono anche in parte il risultato di un ulteriore mutamento strutturale delle attività economiche nelle socie-

Emrys Jones, Architettura urbana e grattacieli27

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tà urbane avanzate: il passaggio dalle attività produttive alle industrie dei servizi […].La prima “torre” […] fece la sua comparsa a New York nel 1895, con l’edificio della American Surety, alto 22 piani e 95 metri. Nel 1909 la Metropolitan Tower raggiunse il livello di 52 piani e 214 metri: era finalmente un vero grattacielo. Ad esso fecero seguito i profili conosciuti e i nomi famosi degli edifici che si contesero il primato dell’altezza: il grattacielo Woolworth (1913), quello Chrysler (1929-1930) e l’Empire State Building (1931). Quest’ultimo era alto 102 piani e più di 381 metri, ma la crescita verso il cielo di New York ha poi rag-giunto l’apice con le due torri gemelle del World Trade Center alte 412 metri (1970). Chicago ha fatto ancora meglio con la Sears Tower, alta 443 metri […]. In confronto, i tentativi pro-dotti in Europa sono molto ridotti. Il Nat West di Londra è alto solo 183 metri e la Post Office Tower la supera di poco con 188 metri. La Tour Montparnasse di Parigi ed è alta 200 metri […].

Non si tratta di semplici contenitori di individui. Fin dall’inizio i grattacieli hanno avuto tutti i requisiti di ricchezza tipici dei grandi monumenti. Nel 1893 un resoconto dell’«Harper Maga-zine» di New York descrive uno di questi nuovi edifici: «pavi-menti ricoperti di fini mosaici, pareti di onice e marmo, balconi di rame, lampade artistiche ed eleganti rivestimenti elettrici, tutti questi elementi strappano riconoscimenti e lodi». E per tale scopo erano stati realizzati. Erano infatti l’espressione tangibile del progresso e della prosperità […]. «Un emblema della fiducia nelle aspirazioni e nella democrazia che fondano la società americana. Sono veri status-symbol», sostiene un altro commentatore. «Sono macchine per fare soldi. Sfruttano la terra fino al punto da renderla invivibile, – osserva uno scrittore contemporaneo – ma funzionano».

E. Jones, Metropoli. Le più grandi città del mondo, Donzelli, Roma 1993

Preceduta dall’impressionismo pittorico, affi ancata da altre scoperte in grado di “riprodurre il reale” o il passato, potenzialmente in grado di offrirsi a un pubblico di massa, l’invenzione dei fratelli Lumière ebbe la possibilità di imporsi rapidamente come un’arte vera e propria.

Nasce il cinema.

I Lumière e Méliès [gli inventori del cinema e il loro impresa-rio, n.d.r.] ne incarnano insieme lo spirito, perché con i loro

filmetti rudimentali ma sorprendenti (la sorpresa nel mondo fu enorme) nasce nella psicologia dei singoli e delle masse – termini subito inscindibili – una nuova dimensione dello spazio e del tempo, entità strettamente interconnesse […]. Importante, per definire il percorso che il cinema si accinge a compiere, è la nuova sensibilità di cui la letteratura – e le arti in genere – si vanno facendo vieppiù interpreti. Ai furori delle rivolte e delle repressioni, ai tur bamenti che angustiano gli in di vidui delle classi al potere, si affiancano quelle sottili e inedite esperienze psicologiche alle quali il cinema offrirà […] ospitalità ed espressione. Il veicolo più importante di una simile temperie artistica è stato, prima del cinema e al suo fianco negli anni dell’esordio fra i due secoli, l’impressioni-smo. Una pittura costruita sui fremiti degli istanti irripetibili, sull’aria, sui gesti quotidiani, sull’atmosfera che avvolge uo-mini, cose e paesaggi. Una pittura che evoca il movimento, che contiene dentro di sé il fluire, come se ogni immagine – ogni pennellata, ogni macchia – nascondesse fra le sue mor-

bide volute il germe della inevitabile instabilità, condizione obbligata dell’uomo contemporaneo […]. Non si può rivivere la vita che abbiamo consumato con l’uso, ma possiamo ricor-darla rivivendola nell’immaginazione, più vera della realtà vissuta. Precisamente, la magia del cinema. Nell’epoca delle grandi scoperte scientifiche (dai raggi X alla teoria dei quan-ti, dalla radio alla valvola termoionica, alle conquiste della medicina e della chirurgia) la “vita ricreata” acquista un si-gnificato emblematico: il caos politico e sociale, spia di un malessere profondo e insolubile, sarà tramandato ai posteri nella sua realtà vivente, come mai accaduto prima nella sto-ria dell’uomo. Le conseguenze saranno macroscopiche. Lo si vedrà nei decenni successivi, a partire soprattutto dal primo dopoguerra, e lo si constaterà appieno dopo l’avvento della televisione negli anni Cinquanta. Cambierà il rapporto dell’uomo con il mondo e la rappresentazione del mondo, con i propri simili e con se stesso. Quella che sarà chiamata “co-municazione di massa” tenderà progressivamente a sostituire il contatto e l’informazione personali, crean do intorno agli individui una gabbia formata da una realtà artificiale o, come si dirà, virtuale. Il cinema vi contribuirà, per così dire, in se-condo piano, dopo esserne stato agli inizi, quando la televi-sione era di là da venire, il promotore: solo nel 1982 una se-quenza di immagini realizzate con la computer graphics [tec-nica di composizione al computer, n.d.r.] farà la sua appari-zione sullo schermo cinematografico.

F. Di Giammatteo, Cinema, società, storia, in Eredità del Novecento, Istituto della Enciclopedia Italiana,

Roma 2001, vol. 2

Fernaldo Di Giammatteo, L’arte cinematografica28

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P e r c o r s o 1 1

L’Italia e l’Europa

Penso che tra popoli che geograficamente sono raggruppati, come i popoli d’Europa, dovrebbe esserci una sorta di legame federale; questi popoli

dovrebbero avere in ogni momento la possibilità di entrare in contatto, di discutere i loro interessi, di prendere risoluzioni comuni e di stabilire tra loro un legame di solidarietà, che li renda in grado, se necessario, di far

fronte a qualunque grave emergenza che possa intervenire. Aristide Briand

La situazione politica in Italia è grave ma non è seria.Ennio Flaiano

L’unica trasgressione possibile nel nostro paese è l’obbedienza alle regole.

Pino Caruso

La federazione europea non si proponeva di colorare in questo o quel modo un potere esistente. Era la sobria proposta di creare un potere democratico europeo.

Altiero Spinelli

L’Italia è un paese pronto a piegarsi ai peggiori governi. È un paese dove tutto funziona male, come si sa.

È un paese dove regna il disordine, il cinismo, l’incompetenza, la confusione. E tuttavia, per le strade, si sente circolare

l’intelligenza, come un vivido sangue.Natalia Ginzburg

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L ’ I t a l i a e L ’ E u r o p a

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D O C U M E N T I

Giuseppe Mazzini, Manifesto della Giovine ItaliaNel passo del Manifesto della Giovine Italia (1831) Giuseppe Mazzini, favorevole a un ordinamento unitario e repubblicano, spiega le ragioni del suo movimento e il concetto di «religione del martirio», consapevole che per formare gli italiani agli ideali di libertà sia necessaria una lunga preparazione.

Le grandi rivoluzioni si compiono più coi principii, che colle baionette; dapprima nell’ordine morale, poi nel ma-teriale. Le baionette non valgono, se non quando rivendicano, o tutelano un diritto: e diritti e doveri nella so-

cietà emergono tutti da una coscienza profonda, radicata ne’ più; la cieca forza può generare vittime e martiri e trionfatori; ma il trionfo, collochi la sua corona sulla testa d’un re o d’un tribuno, quand’osta al volere dei più, rovina pur sempre in tirannide. I soli principii diffusi e propagati per via di sviluppo intellettuale nell’anime mani-festano ne’ popoli il diritto alla libertà, e creandone il bisogno, danno vigore e giustizia di legge alla forza. Quindi la urgenza dell’istruzione. La verità è una sola. I principii che la compongono sono pochi: enunciati per la più par-te. Bensì le applicazioni, le deduzioni, le conseguenze de’ principii sono molteplici; né intelletto umano può affer-rarle tutte ad un tratto, né, afferrate, comprenderle intelligibili e coordinate, in un quadro limitato, e assoluto. I potenti d’ingegno e di cuore, cacciano i semi d’un grado di progresso nel mondo; ma non fruttano, che per lavoro di molti uomini, ed anni. La umanità non s’educa a slanci: ma per via d’applicazioni lunghe e minute, scendendo a particolari e paragonando fatti, e cagioni, impara le sue credenze [...].Questo sa la Giovine Italia e s’intende l’altezza della sua missione, e l’adempirà, noi lo giuriamo per le mille vittime che si succedono instancabili da dieci anni a provare, che colle persecuzioni non si spengono, bensì si ritemprano le opinioni: lo giuriamo per lo spirito, che insegna il progresso, pei giovani combattenti di Rimini, pel sangue dei martiri Modenesi. V’è tutta una religione in quel sangue; nessuna forza può soffocare la semenza di libertà, però ch’essa ha germogliato nel sangue dei forti. Oggi ancora la nostra è la religione del martirio: domani sarà la religio-ne della vittoria.

G. Mazzini, Manifesto della Giovine Italia, in Grande Antologia Filosofica, Marzorati, Milano l971, XX

Vincenzo Gioberti, «Perché scrissi il Primato»In una lettera indirizzata a Terenzio Mamiani il 13 agosto 1843 Vincenzo Gioberti, autore de Il primato morale e civile degli italiani, pubblicato nel medesimo anno, spiega all’amico le ragioni per le quali è sostenitore dell’idea di una confederazione di Stati posti sotto la presidenza del papa.

Lettera a Terenzio Mamiani, 13 agosto 1843

Io mi proposi adunque di scrivere per forma che il mio libro fosse almen tollerato dai governi italiani, e potesse giungere facilmente alle mani di tutti e principalmente dei giovani studiosi e dei chierici sì regolari che secolari;

le quali due classi debbono concorrere ancor più delle altre alla bramata concordia che sarà sempre un sogno finché chi studia avrà in odio la fede, e chi crede a sospetto l’umana cultura. Per rendere tollerabili le critiche indirette che io feci dei governi italiani, lodai direttamente alcuni di essi, dissimulando il male e commentando il bene che mi par di vedervi, con quella larghezza rettorica che è conceduta a chi loda; e credetti di poterlo fare senza taccia di adu-lazione, atteso il fine che mi son proposto e le condizioni personali in cui mi trovo [...].Per incarnare poi i miei pensieri e collocarli, per così dire, in un quadro, esposi l’utopia dell’arbitrato pontificale e della confederazione italiana. Intendo, sotto nome di utopia, l’effettuazione perfetta di un’idea; giacché le idee non si possono mai mettere in atto compitamente [...].Se dico di sperare nella conclusione dell’opera, la mia fiducia si riferisce a un remoto e indeterminato avvenire; perché certo il risorgimento d’Italia e del cattolicismo appartiene agli ordini divini del mondo; e anche su questo articolo la mia persuasione è interissima. Quanto alla monarchia rappresentativa io la credo anche impossibile a stabilire in Italia, nei termini attuali di Europa, onde per non far inutilmente proibire il mio libro, ne tacqui e mi contentai di parlare della monarchia consultativa, che da una parte fa meno paura ai governi e dall’altra parte sa-rebbe attissima a migliorare le cose nostre [...]. Voi mi parete far più fondamento nelle instituzioni che negli uomi-ni, ed essere inclinato a credere che una riforma radicale nella monarchia basterebbe a felicitare l’Italia. Stimo anch’io le buone instituzioni, ma credo che esse non provano, se la materia non è buona; e che quando questa è

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cattiva, esse tornano dannose od almeno inutili. Che, se esse valgono solo tanto quanto gli uomini a cui sono ap-plicate, io non vegga che qualunque forma di governo ci possa far gran pro, finché gl’italiani continuano a essere quel che sono, cioè il popolo più inerte e imbelle di Europa.

in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Bologna 1968

Carlo Cattaneo, Le ragioni del federalismoCarlo Cattaneo espone le ragioni di quella «federazione di repubbliche» che egli considera il migliore ordinamento per l’Italia: «le provincie esistono; e l’accentramento non esiste».

Negli Stati Romani, in Sardegna, in Sicilia, in Corsica sopravvivono molte tradizioni del medio evo, la Toscana in molte cose, la Lombardia in alcune altre, sono veramente all’avanguardia del progresso. Il Piemonte, afferrando

l’egemonia militare, doveva porsi in grado di precedere anche coll’egemonia civile [...]. Ma il Piemonte, anche ad-densando in sei mesi i progressi d’un secolo, si trovò inferiore in diritto penale alla Toscana, di diritto civile a Parma, in ordini comunali alla Lombardia; ebbe la disgrazia d’apportare ai popoli, come un beneficio, nuove leggi ch’essi accolsero come un disturbo e un danno [...].Le provincie esistono; e l’accentramento non esiste; ed è ancora sogno di fantasie che vedono nella futura Italia una Francia, anzi una China [Cina, n.d.r.] ove ogni cosa ragionevole debba piovere sull’armento dei popoli da un unico Olimpo, giù giù fino alla nomina del sindaco dei villaggi di cento anime [...]. Se v’è in Italia un ente sociale che si chiama la provincia di Pisa o di Cremona, v’è anche un altro ente più grande o non meno reale, che si chiama la Toscana, la Lombardia, la Sicilia. E ognuno di codesti stati o regni uniti non è un corpo meramente amministrativo, ma comprende un intero edificio legislativo [...].Né crediamo che sarebbe lecito il togliere ad alcuno di codesti stati quel massimo grado di progresso che già in alcuna cosa avesse raggiunto, pel mero pretesto di rendere uniforme per tutti una legge meno ragionevole o meno civile. Né crediamo che, se in uno di questi stati le influenze retrograde fossero più tenaci e imperiose, esso avesse il diritto di costringere tutti li altri regni a portare in pace il medesimo danno. E viviamo in tempi di rivoluzione e d’ardenti e precipitosi affetti, e perciò è somma temerità l’imporre, in nome dei pregiudizi e del regresso e della servilità, quei sacrifici che popoli intelligenti e generosi possono sopportare solamente nel nome della ragione del progresso e della gloria nazionale.

in F. Gaeta - P. Villani, Documenti e testimonianze, Principato, Bologna 1968

Camillo Benso di Cavour, Sulla libertà di cultoCamillo Benso di Cavour sul giornale “Risorgimento” il 18 maggio 1848 invita implicitamente il clero a sostenere il «riscatto della patria», a cui coniuga l’idea di «libertà religiosa»: l’uomo politico piemontese si dice convinto dell’adesione del «clero illuminato» a quei princìpi di libertà di coscienza e di culto già in parte sanciti dallo Statuto albertino.

Fra le maggiori, le più importanti conquiste della civiltà moderna è certamente da annoverarsi la libertà di co-scienza, e quindi la libertà dei culti che ne deriva qual logica conseguenza. Questo gran principio tuttavia non

venne proclamato nel nostro Statuto [...].Non dubitiamo d’asserire che quando l’epoca [...] in cui la desiderata fusione di varie parti della penisola coi nostri Stati renderà opportuno il promuovere quelle mutazioni nelle leggi che valgono a far grandeggiare i destini della patria, in allora non si ometterà più [...] di dichiarare nel modo il più esplicito essere ogni coscienza un santuario inviolabile, e doversi accordare a tutti i culti una intera libertà.Questa modificazione [...] del nostro Statuto, non verrà certamente contrastata da nessun uomo illuminato e ze-lante per le cose religiose. In Italia, al Dio mercé, il clero cattolico, se non unanimemente, almeno in una grande maggioranza che ne racchiude la parte la più eletta, ha abbracciato sinceramente la causa della libertà, consideran-dola strettamente congiunta con quella stessa della religione. Quindi non può che far plauso ad una disposizione che fa parte oramai della costituzione di tutti i popoli liberi e civili. Quelle libertà che il clero chiede con tanta energia e ragione nei paesi in cui domina il principio acattolico, non vorrà niegarla in tutta la sua pienezza agli

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acattolici nei paesi in cui esercita una sì giusta influenza. Se il clero italiano cadesse in tale contraddizione, se, non dando retta alla voce del grande Gioberti, tentasse ritenere nei nostri codici politici e civili alcune tracce del dispo-tismo religioso dei secoli andati, esso cagionerebbe al cattolicismo danno maggiore di quello che cagionare gli possono i suoi più fieri persecutori. Col dare argomento a sospettare della sincerità della proclamata sua alleanza colla causa della libertà, scemerebbe l’autorità che esso ha riacquistata sui popoli, porgerebbe armi terribili a chi ancora lo combatte, avanti a quel tribunale che oramai decide di tutte le quistioni, quello dell’opinione pubblica.Sicuri dell’adesione del clero illuminato, delle simpatie di tutti gli uomini di progresso, di tutti coloro che congiun-gono nei loro affetti la causa della religione con quella della libertà, siamo certi che basterà pronunziare nel primo Parlamento dell’alta Italia, il gran principio della libertà dei culti, onde esso venga acclamato qual legge fondamen-tale della redenta nostra patria.

in Gli scritti del conte di Cavour, a cura di D. Zanichelli, Zanichelli, Bologna 1892

Marco Minghetti, La “questione romana”In un’annotazione del 21 febbraio 1861 concernente la soluzione della “questione romana”, all’indomani dell’Unità, il ministro degli Interni Marco Minghetti è convinto della necessità che il papa debba rinunciare al potere temporale, in cambio dell’offerta «delle più ampie guarentigie di completa indipendenza nell’esercizio del potere spirituale».

Il popolo italiano è profondamente cattolico. La storia dimostra che niun scisma poté mai metter vaste radici in Italia, e il numero degli acattolici nella penisola è così infimo, che l’art. I° dello Statuto proclama una verità di

fatto. L’affluenza, con cui il popolo continua a accorrere ai templi e ad assistere al divino servizio, prova gl’italiani non cessano d’essere sinceramente devoti al culto de’ loro padri, anche quando combattono per l’indipendenza del loro paese e decidono col loro voto delle sue sorti avvenire.Questa perfetta omogeneità delle popolazioni italiane sotto il rapporto religioso dimostra che, quando venisse a cessare in Italia il funesto dissidio esistente fra la Chiesa e lo Stato, il clero non avrebbe a temere che alcuna rivali-tà, alcuna influenza opposta alla religione cattolica combattesse o limitasse l’esercizio legittimo dell’azione, che naturalmente gli compete. L’Italia è quindi la terra in cui la libertà produrrebbe effetti più favorevoli agli interessi della Chiesa, il campo destinato dalla provvidenza all’applicazione del principio libera Chiesa in libero Stato.Rivendicare la completa indipendenza della Chiesa dallo Stato nella sfera delle cose spirituali, è senza dubbio la più nobile ed elevata missione che papa Pio IX possa assumere [...].L’Italia è il solo paese cattolico in cui lo Stato possa consentire ad agevolare al pontefice l’adempimento di quella sua gloriosa missione, e re Vittorio Emanuele è il solo che possa dar l’esempio agli altri principi di rinunciare a franchigie, la cui gelosa custodia fu finora uno de’ cardini della politica europea [...].Non v’ha dunque che un modo di fondare sopra solide basi l’indipendenza completa ed effettiva del papato e del-la Chiesa: è il rinunciare al potere temporale e dichiarare col Vangelo, che il regno della S. Sede non è circoscritto da condizioni di tempo né di spazio. Parimenti non v’ha che un governo, quello di re Vittorio Emanuele, il quale possa e voglia farsi strumento di questa gloriosa trasformazione del papato. Gli altri governi europei non accorde-ranno mai alla Chiesa quella completa libertà d’azione cui essa ha diritto: non avendo alcun compenso a chiederle, alcun vantaggio ad ottenere da questo atto di giustizia, essi non s’indurranno a rinunciare a privilegi, di cui si mo-strano finora gelosissimi difensori. Re Vittorio Emanuele per contro si glorierebbe d’inaugurare per primo da Roma il sistema della completa indipendenza della Chiesa; e, solo quando egli ne avesse dato l’esempio, gli altri principi sarebbero costretti dalla pubblica opinione a smettere ogni egoistica preoccupazione, ed a lasciare alla Chiesa quell’impero dell’anima che alla Chiesa si compete.Queste considerazioni inducono il governo di S. M. a proporre, come base di negoziati puramente officiosi, da un lato la rinuncia al potere temporale, dall’alto l’offerta delle più ampie guarentigie di completa indipendenza nell’esercizio del potere spirituale.

in G. D’Amelio, Stato e Chiesa. La legislazione ecclesiastica fino al 1867, Giuffrè, Milano 1961

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Stefano Jacini, Il governo dell’uno per centoL’economista e politico Stefano Jacini, più volte ministro durante i governi della Destra storica, prende in esame il problema dell’ordinamento di governo alla base del neonato Stato italiano e osserva che il sistema censitario garantisce la partecipazione alla vita pubblica di circa 250.000 persone, cioè «meno dell’uno per cento della popolazione».

Il regno d’Italia [...] dovrebbe essere lo Stato il più felice e il più contento d’Europa. Eppure non lo è. Sebbene non minacciato da alcun pericolo esteriore, e dotato di un organismo robusto, nondimeno lo vediamo afflitto da una

indefinibile e terribile malattia, la quale ne consuma sempre più le forze, da una malattia che ha tutte le apparenze della tabe senile. Stranissima anomalia in un’esistenza che data da ieri!Questa malattia ha essa per sede tutte le parti dell’organismo? No. Si esaminino pure attentamente i diversi sintomi di essa, e si troverà che tutti fanno capo esclusivamente ad una sola delle funzioni dell’organismo, al sistema di governo [...].In Italia, nel Regno creato dal suffragio universale e che conta 25 527 000 abitanti, non sono investite dei diritti politici più di 504 263 persone, ossia all’incirca 20 per ogni mila abitanti, mentre per pari quantità d’abitanti ve ne sono 52 in Inghilterra, 208 nella Confederazione del Nord, 238 in Isvizzera, 267 in Francia. Quando si pensa che giammai meno della metà, ma spesso i due terzi, e più ancora degli elettori inscritti [...] suol astenersi dall’urna elet-torale, cosicché vi è un gran numero di deputati al Parlamento i quali, sebbene rappresentanti di Collegi popolati da 50 000 anime, pure non furono eletti che da 80 o da 100 voti; quando si pensa che il maggior numero degli addet-ti al potere esecutivo è compreso fra gli elettori, e che non v’è, generalmente parlando, alcuno di coloro che si occu-pano di politica nella stampa, il quale non abbia diritto di voto politico, si può concludere che in Italia nel fatto, non partecipano al sistema di governo più di 250 000 persone, ossia meno dell’uno per cento della popolazione.Ciò premesso, siccome nessuno vorrà negare che il restante 99 per cento degli abitanti è composto di persone e non di cose; che in quel numero vi sono tutti i maschi adulti i quali concorsero, per mezzo dei plebisciti, a creare lo Stato; che vi sono coloro i quali lo alimentano coi propri sudori, e la maggior parte di quelli che lo hanno difeso col proprio sangue; così spero non mi sarà vietato di tener conto, parlando alla nazione italiana, anche di quella grandissima maggioranza la quale non partecipa legalmente al sistema vigente di governo, sebbene sia esposta anch’essa a sentire il contraccolpo degli errori del medesimo. Spero si vorrà ammettere con me che, se tutti i sinto-mi del male da cui è travagliata l’Italia hanno la loro sede esclusivamente nel sistema attuale di governo, egli è all’uno per cento, o tutt’al più al due per cento degli abitanti (se si contano anche tutti coloro che hanno diritti politici, ma non ne fanno uso) che incombe l’obbligo di porvi rimedio finché vige il sistema medesimo. Spero, inol-tre, non mi si vorrà accagionare di inesattezza se terrò distinta, politicamente parlando, l’Italia reale che è il tutto, dall’Italia legale, che non ne è che una così piccola parte.

S. Jacini, La riforma dello Stato e il problema regionale, Morcelliana, Brescia 1968

Leopoldo Franchetti, La mafia sicilianaUno tra i maggiori problemi che la classe dirigente liberale dovette affrontare, all’indomani dell’Unità, fu quello dello squilibrio tra nord e sud del paese. A tale proposito Leopoldo Franchetti, nel 1876 autore dell’inchiesta Sulle condizioni politiche e amministrative della Sicilia insieme a Sidney Sonnino, descrive quel sistema di relazioni sociali e clientele tramite il quale sull’isola prosperava la mafia.

Nella Società siciliana, tutte le relazioni si fondano sul concetto degl’interessi individuali e dei doveri fra indivi-duo e individuo, ad esclusione di qualunque interesse sociale e pubblico.

Una siffatta forma di società non è nuova nella storia, e se ne manifestano in Sicilia tutti i sintomi belli e brutti. Da un lato, una fedeltà, una energia nelle amicizie fra uguali e nella devozione da inferiore e superiore, che non conosce limiti, scrupoli o rimorsi. Ma dall’altro, il sistema della clientela spinto alle sue ultime conseguenze. I singoli individui si raggruppano gradatamente intorno ad uno od alcuni più potenti, qualunque sia la cagione di questa potenza: la maggior ricchezza ed energia di carattere o l’astuzia od altro. Gl’interessi loro vanno gradatamente accomunandosi. I più potenti adoperano a vantaggio degli altri la loro forza e la loro influenza, gli altri mettono al servizio di quelli i mezzi di azione meno poderosi di cui dispongono. Ogni persona che abbia bisogno di aiuto per qualunque ogget-to, per far rispettare un suo diritto come per commettere una prepotenza è un nuovo cliente. I principali di ogni

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clientela non potendo concepire un interesse d’indole collettiva all’infuori di quelli della clientela stessa, cercano di arruolare a vantaggio di questa tutte le forze, senza distinzione, che trovano esistenti, e fra le quali nessun concetto d’interesse sociale generale pone una distinzione nella loro mente. Cercano in conseguenza, così l’alleanza dei mal-fattori come quella dei rappresentanti del potere giudiziario e politico. E per acquistare ciascuna di queste alleanze impiegano i mezzi più adatti. Aiutano il malfattore a sfuggire alle ricerche della giustizia, ne procurano l’evasione se è in carcere, l’assoluzione (e ognuno immagini con quali mezzi) se è sotto processo e non può evadere. Il malfattore per tal modo salvato diventa un cliente se già non lo era. Il suo braccio è al servizio di quel gruppo di persone, ed in compenso è assicurato della loro protezione. Per procurarsi l’alleanza delle autorità giudiziarie e politiche impiegano la corruzione, l’inganno, l’intimidazione. Se questi mezzi non riescono, trovan modo di far credere alla loro clientela e al volgo che sono riesciti, oppure che hanno trovato nelle sfere superiori del governo gl’istrumenti per punire il funzionario ricalcitrante. Preme troppo ad essi che la loro influenza sia considerata come invincibile e infallibile. Così, quando un Prefetto rifiuti a uno di loro un favore, se poco dopo vien traslocato per una cagione qualunque, affer-mano a tutti che essi colle loro influenze al ministero lo hanno fatto traslocare in vendetta del favore rifiutato, ed ognuno li crede. Perfino le leggi rigidamente applicate servono talvolta ad accrescere siffatte autorità private. Chi ha ottenuto all’infuori di qualunque intercessione dai tribunali o da qualche amministrazione pubblica la giustizia do-vutagli, se ha invocato l’aiuto di qualche protettore, rimane convinto d’esser debitore di ciò che ha ottenuto unica-mente all’intervento di quello. Così nasce un’infinità di associazioni che non possiamo chiamare che clientele, giac-ché non hanno della associazione né la determinazione dei requisiti per farne parte, poiché ogni giorno vi sono membri che escono o entrano, né la stabilità delle regole e statuti, poiché le relazioni fra i loro membri sono varie quanto possono esserlo quelle fra due privati qualunque. Naturalmente, queste clientele si suddividono in clientele minori. Vi sarà quella fra malfattori, e i principali di questa saranno clienti di persone influenti spesso investite di cariche pubbliche, alle quali fanno capo d’altra parte altre unioni di persone meno influenti, e così di seguito. Così si formano quelle vaste unioni di persone d’ogni grado, d’ogni professione, d’ogni specie, che senza aver nessun lega-me apparente, continuo e regolare, si trovano sempre unite per promuovere il reciproco interesse, astrazione fatta da qualunque considerazione di legge, di giustizia e di ordine pubblico: abbiamo descritto la mafia.

L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Vallecchi, Firenze 1925

Edmondo de Amicis, Cuore e il mito del RisorgimentoLa pagina del romanzo Cuore (1886), dello scrittore e giornalista Edmondo de Amicis, è dedicata al ricordo di Vittorio Emanuele II e alla celebrazione retorica del Risorgimento. Vi si coglie l’intento della classe dirigente liberale di educare le giovani generazioni del Regno d’Italia a valori quali la disciplina, l’educazione e l’amor patrio.

Quest’oggi alle due, appena entrato nella scuola, il maestro chiamò Derossi [uno dei ragazzi protagonisti del libro, indicato sempre come “il primo della classe”, n.d.r.], il quale s’andò a mettere accanto al tavolino, in faccia a noi, e

cominciò a dire col suo accento vibrato, alzando via via la voce limpida e colorandosi in viso: «Quattro anni sono, in questo giorno, a quest’ora, giungeva davanti al Pantheon, a Roma, il carro funebre che portava il cadavere di Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia, morto dopo ventinove anni di regno, durante i quali la grande patria italiana, spezzata in sette Stati e oppressa da stranieri e da tiranni, era risorta in uno Stato solo, indipendente e libero, dopo un regno di ventinove anni, ch’egli aveva fatto illustre e benefico col valore, con la lealtà, con l’ardimento nei pericoli, con la sag-gezza nei trionfi, con la costanza nelle sventure. Giungeva il carro funebre, carico di corone, dopo aver percorso Roma sotto una pioggia di fiori, tra il silenzio di una immensa moltitudine addolorata, accorsa da ogni parte d’Italia, prece-duto da una legione di generali e da una folla di ministri e di principi, seguito da un corteo di mutilati, da una selva di bandiere, dagli inviati di trecento città, da tutto ciò che rappresenta la potenza e la gloria d’un popolo, giungeva dinan-zi al tempio augusto dove l’aspettava la tomba. In questo momento dodici corazzieri levavano il feretro dal carro. In questo momento l’Italia dava l’ultimo addio al suo re morto, al suo vecchio re, che l’aveva tanto amata, l’ultimo addio al suo soldato, al padre suo, ai ventinove anni più fortunati e più benedetti della sua storia. Fu un momento grande e solenne. Lo sguardo, l’anima di tutti trepidava tra il feretro e le bandiere abbrunate degli ottanta reggimenti dell’eserci-to d’Italia, portate da ottanta ufficiali, schierati sul suo passaggio; poiché l’Italia era là, in quegli ottanta segnacoli, che ricordavano le migliaia di morti, i torrenti di sangue, le nostre più sacre glorie, i nostri più santi sacrifici, i nostri più tremendi dolori. Il feretro, portato dai corazzieri, passò, e allora si chinarono tutte insieme in atto di saluto, le bandiere dei nuovi reggimenti, le vecchie bandiere lacere di Goito, di Pastrengo, di Santa Lucia, di Novara, di Crimea, di Palestro, di San Martino, di Castelfidardo, ottanta veli neri caddero, cento medaglie urtarono contro la cassa, e quello strepito

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sonoro e confuso, che rimescolò il sangue di tutti, fu come il suono di mille voci umane che dicessero tutte insieme: “Addio, buon re, prode re, leale re! Tu vivrai nel cuore del tuo popolo finché splenderà il sole sopra l’Italia”. Dopo di che le bandiere si rialzarono alteramente verso il cielo, e re Vittorio entrò nella gloria immortale della tomba».

E. de Amicis, Cuore, Garzanti, Milano 1963

Alcide De Gasperi, Le idee ricostruttive della Democrazia CristianaAlcide De Gasperi, futuro presidente del consiglio (per sette volte tra il 1945 e il 1953), insieme agli uomini più rappresentativi del partito quali Gonella, Gronchi e Scelba, tra il 1942 e il 1943 preparò lo schema programmatico Idee ricostruttive della Democrazia cristiana, che fu diffuso clandestinamente tra il 1943 e il 1945. Di seguito è riportata la parte relativa ai «valori morali e di libertà» e ai «princìpi della giustizia sociale».

Consapevoli che un libero regime sarà saldo solo se fondato sui valori morali, lo Stato democratico tutelerà la mora-lità, proteggerà l’integrità della famiglia e coadiuverà i genitori nella loro missione di educare cristianamente le

nuove generazioni. Questa stessa nostra tremenda esperienza conferma che solo lo spirito di fraternità portato e ali-mentato dal Vangelo può salvare i popoli dalla catastrofe a cui li conducono i miti totalitari. È quindi particolare inte-resse della democrazia che tale lievito cristiano fermenti in tutta la sua vita sociale, che la missione spirituale della Chiesa Cattolica si svolga in piena libertà, e che la voce del Romano Pontefice, levatasi così spesso in difesa della digni-tà umana, possa risuonare liberamente in Italia e nel mondo. Contro ogni intolleranza di razza e di religione, il regime democratico serberà il più riguardoso rispetto per la libertà delle coscienze. È in nome di essa, oltreché per le tradizio-ni del popolo italiano, che lo Stato riconosce efficacia giuridica al matrimonio religioso e assicura la libertà della scuo-la che può essere mortificante strumento di partito. Oggi, in mezzo a tante rovine, si impone ineluttabile il pensiero che dovendosi ricostruire un mondo nuovo, il massimo sforzo sociale debba essere diretto ad assicurare a tutti non solo il pane e il lavoro, ma altresì l’accesso alla proprietà. Bandito per sempre, utilizzando tutte le forze sociali e le risorse economiche disponibili, lo spettro della disoccupazione, estese le assicurazioni sociali, semplificato il loro organismo e decentrata la loro gestione che va affidata alle categorie interessate, la mèta che si deve raggiungere è la soppressione del proletariato. A tal fine importanti riforme si imporranno nell’industria, nell’agricoltura, nel regime tributario. a) Nell’industria Sarà attuata la partecipazione con titolo giuridico dei lavoratori agli utili, alla gestione e al capita-le d’impresa. Le forme concrete di questa partecipazione e cooperazione dovranno essere realizzate salvaguardan-dosi la necessaria unità direttiva dell’Azienda e riducendo rischi e sperequazioni fra le varie categorie degli operai con provvedimenti di solidarietà e di compensazione […]. b) Nell’agricoltura Una prima mèta si impone: la gradua-le trasformazione dei braccianti in mezzadri e proprietari, ovvero, quando ragioni tecniche lo esigano, in associati alla gestione di imprese agricole a tipo industriale […]. c) Nel regime tributario Una migliore distribuzione della ricchezza dovrà essere favorita anche da una riforma del sistema fiscale. Unificate le imposte e semplificato il siste-ma di accertamento, il criterio della progressività, coll’esenzione delle quote minime, costituirà il perno fondamen-tale del sistema tributario, e uno dei mezzi per impedire la esorbitante concentrazione della ricchezza.

a cura dell’Ufficio SPES, Reggio Emilia 1962

Palmiro Togliatti, La politica di unità nazionalePalmiro Togliatti nel 1944 tenne un discorso ai quadri del Partito comunista di Napoli, in cui evidenziava la nuova strategia abbracciata dal partito all’indomani della “svolta di Salerno” e portata avanti nei primi anni del dopoguerra. Il leader del PCI propone la formazione e il mantenimento di un governo di unità nazionale, del quale facciano parte tutte le forze politiche, che rimandi la risoluzione del problema monarchico e quello di libere consultazioni elettorali al termine del conflitto.

Il problema monarchico non ha potuto essere risolto finora per la situazione stessa in cui ci troviamo, ed è un fatto che se ci ostinassimo a volerne fare il perno intorno al quale dovesse muoversi tutta la vita del paese […] ci

sarebbe impossibile formare un governo di guerra e realizzare quella unità nazionale senza la quale uno sforzo di

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guerra ordinato e potente non è possibile. Prima di tutto oggi il paese non è tutto libero e non è quindi possibile consultarlo. In secondo luogo esiste un impegno delle tre grandi potenze democratiche, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Stati Uniti, secondo il quale la questione istituzionale potrà essere risolta liberamente dal popolo sola-mente dopo la fine delle ostilità […]. Noi comunisti, che non possiamo essere da nessuno sospettati di simpatie per nessuna istituzione di tipo monarchico, diciamo […]: ignoriamo, oggi questo problema, e passiamo a risolvere il compito vero della situazione presente, la creazione di un governo il quale faccia convergere tutta la sua opera nel porre termine al più presto alla invasione straniera e nel liquidare tutti i residui del regime fascista. Questa nostra posizione, che può aver sorpreso qualcuno nel momento in cui l’abbiamo presa, è la sola corrispondente in pari tempo all’interesse dell’Italia e a quello delle grandi nazioni democratiche alleate […]. Alla costituzione di un nuovo governo democratico, di guerra e di unità nazionale, noi abbiamo posto, però, tre condizioni. La prima è che non si rompa l’unità delle forze democratiche e liberali antifasciste, che questa unità, anzi, si estenda e si rafforzi, essendo essa la più grande conquista realizzata dal popolo italiano dopo il crollo del regime mussoliniano, nella lotta per la propria liberazione […]. In secondo luogo noi desideriamo che al popolo italiano venga garantito nel modo più solenne che, liberato il paese, una Assemblea nazionale costituente, eletta a suffragio universale, libero, diretto e segreto da tutti i cittadini, deciderà delle sorti del paese e della forma delle sue istituzio-ni. Questa posizione è democraticamente la più corretta. Essa non fa violenza a nessuno e non esclude dalla vita nazionale nessuno, all’infuori dei traditori fascisti. Ai monarchici sinceri ed onesti, dovrà essere data la possibilità di presentarsi al popolo, di difendere le loro posizioni e di presentarsi all’Assemblea costituente nella misura del seguito ch’essi avranno […]. La terza condizione che noi poniamo è che il governo democratico che si deve formare sulla base dei partiti di massa, abbia un chiaro, netto, preciso programma di guerra e di sollievo delle miserie del popolo e che impegni tutte le forze per la sua realizzazione. A queste condizioni, siamo disposti a ignorare tutti gli altri problemi o a rinviarli; sulla base di queste condizioni infatti, ci sembra che possa essere realizzata la più ampia unità di forze nazionali per la guerra, per lo schiacciamento degli invasori e per la liquidazione del fascismo, per la liberazione e per la vittoria, cioè per l’adempimento di quei compiti a cui aspirano tutte le forme sane della nazione.

P. Togliatti, La politica di unità nazionale dei comunisti, 11 aprile 1944, in Id., Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1977

Aldo Moro, Resistenza e democraziaIn un discorso pronunciato a Bari il 21 dicembre 1975 il dirigente democristiano, tra i maggiori sostenitori del centrosinistra e, a certe condizioni, della necessità del dialogo con il PCI, mostra le differenze tra lo Stato prefascista e quello nato dalla Resistenza, sottolineandone le conquiste democratiche.

Si è […] talvolta affermato che la Resistenza sarebbe stata tradita nel suo significato più autentico e che il gra-duale ritorno alle vecchie strutture dello stato prefascista avrebbe sancito una continuità statale di vecchio tipo

[…]. Credo possa apparire evidente a tutti il grande salto di qualità che si è compiuto passando dallo stato prefasci-sta a quello nato dalla Resistenza sotto il profilo sia della struttura sia dei fini istituzionali. Non sono differenze di superficie, ma di sostanza, che riguardano anzitutto il processo di formazione e articolazione della volontà politica nazionale attraverso i partiti di massa, la consistenza democratica di base dello Stato, il suo ruolo di propulsione e di guida nella vita economica e sociale. Se vi furono aspetti di restaurazione, se vi furono remore e momenti anche di arresto della realizzazione delle premesse ideali della Resistenza, ciò non può farci dimenticare il progresso com-piuto e il senso storico-culturale della opzione politica in favore della democrazia che fu alle origini della fondazio-ne del nuovo Stato […]. La Resistenza fu indubbiamente molto di più di una operazione patriottico-militare. Essa agì in profondità nella vita politica del nostro Paese, dando una nuova dimensione allo Stato, arricchendo la vita democratica e creando una originale mentalità antifascista […]. Lo Stato al quale i partiti democratici hanno dato vita è lo Stato che lo spirito della Resistenza, e le circostanze oggettive hanno reso possibile in una valutazione globale di tutti gli interessi del Paese, interessi nazionali ed internazionali, immediati e in prospettiva […]. Via via, nel corso di questi trent’anni, un sempre maggior numero di cittadini e di gruppi sociali, attraverso la mediazione dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa […] ha accettato lo Stato nato dalla Resistenza […]. Certo, l’acqui-sizione della democrazia non è qualcosa di fermo e di stabile che si possa considerare raggiunta una volta per tutte. Bisogna garantirla e difenderla […]. Il nostro antifascismo non è dunque solo una nobilissima affermazione ideale, ma un indirizzo di vita, un principio di comportamenti coerenti […]; è componente essenziale della nostra intuizione politica, destinata a stabilire il confine tra ciò che costituisce novità e progresso e ciò che significa, sul terreno sociale come su quello politico, conservazione e reazione.

A. Moro, L’intelligenza e gli avvenimenti. Testi 1959-1978, Garzanti, Milano 1979

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Enrico Berlinguer, La questione moraleIn un’intervista rilasciata nel 1981 Enrico Berlinguer, segretario del PCI, lancia un grido d’allarme riguardante la progressiva degenerazione del sistema dei partiti, i quali «gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune».

«I partiti non fanno più politica», dice Enrico Berlinguer. «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei ma-lanni d’Italia».

La passione è finita?[…] I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestisco-no interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organiz-zativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuo-vono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss” […]. Lei mi ha detto poco fa che la degenerazione dei partiti è il punto essenziale della crisi italiana […]. Per quale motivo?I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la RAI TV, alcuni grandi giorna-li […]. Insomma, tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire. E il risultato è drammatico. Tutte le “operazioni” che le diverse istituzioni e i loro attuali dirigenti sono chiamati a compiere vengono viste prevalentemente in funzione dell’interesse del partito o della corrente o del clan cui si deve la carica. Un credito bancario viene concesso se è utile a questo fine, se procura vantaggi e rapporti di clientela; un’autorizzazione amministrativa viene data, un appalto viene aggiudicato, una cattedra viene assegnata, un’attrezzatura di laboratorio viene finanziata, se i beneficiari fanno atto di fedeltà al partito che procura quei vantaggi, anche quando si tratta soltanto di riconoscimenti dovuti […]. Lei ha detto varie volte che la questione morale oggi è al centro della questione italiana. Perché?La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione mora-le, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche. […] Quel che deve interessare veramente è la sorte del paese. Se si continua in questo modo, in Italia la democrazia rischia di restringersi, non di allargarsi e svilupparsi; ri-schia di soffocare in una palude.

I partiti sono diventati macchine di potere, in «la Repubblica», 28 luglio 1981

Gaetano Vinciguerra, Gli scopi dell’eversione neraGaetano Vinciguerra, membro di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, rese una confessione al processo per la strage di Peteano del 1972, in cui persero la vita tre carabinieri: oltre a spiegare i motivi del proprio gesto, l’estremista di destra illustra la logica in base alla quale agirono i responsabili delle “stragi nere”.

Il fine politico che attraverso le stragi si è cercato di raggiungere è molto chiaro: attraverso gravi “provocazioni” innescare una risposta popolare di rabbia da utilizzare poi per una successiva repressione. In ultima analisi il fine

massimo era quello di giungere alla promulgazione di leggi eccezionali o alla dichiarazione dello stato di emergen-za. In tal modo si sarebbe realizzata quell’operazione di rafforzamento del potere che di volta in volta sentiva va-cillare il proprio dominio. Il tutto, ovviamente inserito in un contesto internazionale nel quadro dell’inserimento italiano nel sistema delle alleanze occidentali.

in F. Ferraresi, Minacce alla democrazia, Feltrinelli, Milano 1995

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Brigate Rosse, Imperialismo e guerra di classeDalla “Risoluzione strategica” (1978) delle Brigate Rosse emerge la convinzione che per i brigatisti il sistema «imperialistico» e «borghese» sia in crisi, e che il loro compito sia quello di accelerarne violentemente la caduta, tramite un urto frontale rivoluzionario.

L’attuale crisi economica che coinvolge il sistema imperialistico nel suo complesso è crisi di sovrapproduzione assoluta di capitale rispetto all’intera area capitalistica occidentale. Il mezzo con cui l’imperialismo ha sempre

storicamente risolto le sue periodiche crisi di sovrapproduzione è stata la guerra. Infatti la guerra permette innanzi tutto alle potenze imperialiste vincitrici di allargare la loro base produttiva a scapito di quelle sconfitte, ma soprat-tutto guerra significa distruzione di capitali, merci, e forza lavoro, quindi possibilità di ripresa del ciclo economico per un periodo di tempo abbastanza lungo. All’imperialismo in questa fase si ripropone […] il dramma ricorrente della produzione capitalistica: ampliare la sua area per poter ampliare la sua base produttiva. Infatti rimanere an-cora “ristretto” nell’area occidentale, significa per l’imperialismo accumulare contraddizioni sempre più laceranti: la concentrazione dei capitali cresce in modo accelerato, il saggio di profitto raggiunge valori bassissimi, la base pro-duttiva diviene sempre più ristretta, la disoccupazione aumenta paurosamente […]. È questa quindi la prospettiva storica che il capitale monopolistico multinazionale pone in questa fase a se stesso e al movimento rivoluzionario. All’interno di questa prospettiva storica la posizione del proletariato non può che oggettivamente porsi come urto frontale e decisivo con il dominio imperialista e la sua diretta tattica non può che essere fissata da questa stessa prospettiva storica: o guerra di classe nella metropoli imperialista o terza guerra imperialista mondiale. Le varie potenze imperialiste infatti non possono farsi guerra se non hanno il proprio retroterra “pacificato e solidale” per poter così sostenere la durezza dello scontro […]. La crisi infatti genera contraddizioni sociali fortissime che deter-minano uno scontro di classe violentissimo, e nella misura in cui questo scontro di classe si approfondisce e si sviluppa trasformandosi in Guerra di Classe, la borghesia non può porsi sul terreno della guerra imperialista: la crisi diviene così irreversibile, acuendo contemporaneamente ancor più il processo di guerra civile in atto. È questa la dialettica che potrà inchiodare lo sviluppo capitalistico. Possiamo perciò formulare la seguente generalizzazione: nella crisi la parola d’ordine della borghesia è «bloccare il processo di guerra civile trasformandolo in guerra impe-rialista e sconfiggere così la rivoluzione»; quella dei comunisti deve necessariamente essere: «sviluppare il processo di guerra civile in atto ed impedire così la guerra imperialista».

Brigate Rosse, “Risoluzione strategica”, n. 2, 1978

Giovanni Falcone, Cose di Cosa NostraIl libro scritto dal giudice Giovanni Falcone (1939-1992) insieme alla giornalista Marcelle Padovani, Cose di Cosa Nostra, è insieme una riflessione sui metodi e le possibilità della lotta alla mafia e una lucida testimonianza di come l’autore avesse previsto le circostanze della propria tragica fine. Assassinato in un attentato a Capaci, nei pressi di Palermo (la sua automobile venne fatta saltare in aria lungo l’autostrada con 500 chili di tritolo), insieme alla moglie e a tre agenti di scorta il 23 maggio 1992, il giudice scrive: «si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno».

Anche con il nostro arsenale legislativo complesso e spesso contraddittorio si può impostare una vera e propria azione repressiva in presenza di delitti senza autore e di indagini senza prove. Possiamo sempre fare qualcosa:

massima che andrebbe scolpita sullo scranno di ogni magistrato e di ogni poliziotto. Per evitare di rifugiarsi nei facili luoghi comuni, per cui la mafia, essendo in prima istanza un fenomeno socioeconomico – il che è vero –, non può venire repressa senza un radicale mutamento della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo. Riba-disco, al contrario, che senza la repressione non si ricostruiranno le condizioni per un ordinato sviluppo. E […] oc-corre sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze. Non attardiamoci, quindi, con rasse-gnazione, in attesa di una lontana, molto lontana crescita culturale, economica e sociale che dovrebbe creare le condizioni per la lotta contro la mafia. Sarebbe un comodo alibi offerto a coloro che cercano di persuaderci che non ci sia niente da fare.

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Certo dovremo ancora per lungo tempo confrontarci con la criminalità organizzata di stampo mafioso. Per lungo tempo, non per l’eternità: perché la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine […].Credo che Cosa Nostra sia coinvolta in tutti gli avvenimenti importanti della vita siciliana, a cominciare dallo sbar-co alleato in Sicilia durante la seconda guerra mondiale e dalla nomina di sindaci mafiosi dopo la Liberazione. Non pretendo di avventurarmi in analisi politiche, ma non mi si vorrà far credere che alcuni gruppi politici non si siano alleati a Cosa Nostra – per un’evidente convergenza d’interessi – nel tentativo di condizionare la nostra democrazia, ancora immatura, eliminando personaggi scomodi per entrambi.Parlando di mafia con uomini politici siciliani, mi sono più volte meravigliato della loro ignoranza in materia. Alcu-ni forse erano in malafede, ma in ogni caso nessuno aveva ben chiaro che certe dichiarazioni apparentemente in-nocue, certi comportamenti, che nel resto d’Italia fanno parte del gioco politico normale, in Sicilia acquistano una valenza specifica. Niente è ritenuto innocente in Sicilia, né far visita al direttore di una banca per chiedere un pre-stito perfettamente legittimo, né un alterco tra deputati né un contrasto ideologico all’interno di un partito. Acca-de quindi che alcuni politici a un certo momento si trovino isolati nel loro stesso contesto. Essi allora diventano vulnerabili e si trasformano inconsapevolmente in vittime potenziali. Al di là delle specifiche cause della loro elimi-nazione, credo sia incontestabile che Mattarella, Reina, La Torre erano rimasti isolati a causa delle battaglie politiche in cui erano impegnati. Il condizionamento dell’ambiente siciliano, l’atmosfera globale hanno grande rilevanza nei delitti politici: certe dichiarazioni, certi comportamenti valgono a individuare la futura vittima senza che la stessa se ne renda nemmeno conto.Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno.In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere.

G. Falcone - M. Padovani, Cose di Cosa Nostra, Rizzoli, Milano 1993

Alcide De Gasperi, Costruire l’EuropaIl leader democristiano, riflettendo sulla tragedia della seconda guerra mondiale e sulle necessità di ricostruzione materiale e morale, parla di «un’Italia nuova, un’Italia che ha saputo chinarsi sulle dure esperienze della sua lunga storia e che si è raddrizzata cosciente delle necessità dell’ora, pronta a imporsi tutte le restrizioni volontarie della sovranità che la renderanno attiva collaboratrice di un’Europa unita nella libertà e nella democrazia».

Se per disgrazia il ricorso alle armi diventasse una realtà, esso avrebbe un carattere universale. Non vi sarebbero più frontiere né terrestri né marittime né aeree. Anche oggi, benché non vi sia una guerra aperta, gli stessi peri-

coli minacciano i nostri paesi, senza distinzione di frontiere. Per questo occorre ad ogni costo fare appello alle forze di ricostruzione di tutti, alla energia unitaria dell’Europa. Creiamo questa solidarietà della ragione e del sen-timento, della libertà e della giustizia. L’Europa non troverà la sua salvezza che in questo spirito eroico di libertà e di sacrificio che è stato sempre decisivo nelle ore della storia. Ecco il nostro primo compito, il nostro compito per tutti. Lo spirito di solidarietà europea potrà creare, in settori differenti, strumenti diversi di sicurezza e di difesa, ma la prima difesa della pace risiede in uno sforzo unitario che comprenda anche la Germania, in modo da eliminare così anche il pericolo di una guerra di rivincita. La propaganda dell’odio ideologico si infrangerà contro la solida-rietà dell’Europa libera ed i popoli vedranno rinascere la certezza della pace e di un avvenire democratico fondato sulle forze dello spirito, della libertà e del lavoro […]. Noi avremmo […] dovuto soccombere sotto la disgregazione economica, se la grande democrazia americana non avesse avuto fiducia nelle nostre capacità di rinascita […].Altri popoli, vicini e lontani, ci hanno teso la mano. Nella nostra disgrazia noi abbiamo ripreso coscienza più che mai, della nostra comune civiltà e del nostro comune destino. Abbiamo girato il nostro sguardo verso il Belgio che camminava innanzi a noi sulla strada della ricostruzione e dell’unione con i popoli vicini. La Nazione che segue il vostro esempio è un’Italia nuova, un’Italia che ha saputo chinarsi sulle dure esperienze della sua lunga storia e che si è raddrizzata cosciente delle necessità dell’ora, pronta a imporsi tutte le restrizioni volontarie della sovranità che la renderanno attiva collaboratrice di un’Europa unita nella libertà e nella democrazia. Come abbiamo imparato a respingere quelle che si sogliono chiamare le sottigliezze della tattica machiavellica, per abbandonarci interamente alle linee maestre di una politica di civiltà rischiarata dai valori umani e cristiani, parimenti ci auguriamo con tutto il cuore che gli altri popoli sentano anche essi i legami di una solidarietà rinnovatrice e abbandonino quegli egoismi che derivano da tradizioni ormai spente […]. È un compito difficile quello di difendere la democrazia con il metodo

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della libertà, ma è un compito magnifico e merita di essere compiuto sino in fondo. Non possiamo abbandonarci; non rappresentiamo né un partito né una nazione, noi siamo una civiltà in cammino. E le ragioni della civiltà non tollerano né arresti né abdicazioni. Nessuno ha il diritto di mettere in dubbio la nostra fermezza e l’apporto che può donare un popolo di 45 milioni di abitanti alla causa della pace e della civiltà che è la causa di coloro che cercano la libertà e che hanno sete di giustizia.

A. De Gasperi, Le basi morali della democrazia, in Id., Scritti e discorsi di politica internazionale, a cura di G. Allara - A. Gatti, Cinque Lune, Roma 1990

Slavenka Drakulic, Che cos’è l’Europa?La scrittrice e giornalista croata Slavenka Drakulic riflette sulla percezione del concetto di “Europa” nell’Est europeo, all’indomani della dissoluzione dei regimi comunisti e del progressivo allargamento dei confini dell’Unione.

Quando si usa un nome come “Europa” si dà per scontato che tutti sappiano cosa si intende per Europa. Una cosa è certa: non è più il nome di un continente. Ne descrive solo una parte, quella occidentale, in senso geo-

grafico, culturale, storico e politico. L’Europa è stata divisa dal diverso sviluppo storico delle parti che la compren-devano, dal comunismo e soprattutto dalla povertà. Alcuni paesi che facevano parte dell’Europa occidentale, come la Cecoslovacchia e l’Ungheria, si sono trovati nel blocco dell’Est. Adesso si ha l’impressione che tutti i paesi ex comunisti dell’Europa orientale abbiano lo stesso manifesto desiderio: spostare quella linea di separazione il più a est possibile, cosicché un giorno l’Europa possa essere un continente senza divisioni. Tuttavia, è proprio questo desiderio a creare il confine oggi esistente. L’Europa occidentale non sente la necessità di appartenere (vi appartie-ne di diritto) all’Europa, o quella di permettere di entrare ai paesi che sono lì ad aspettare davanti alla soglia. È in attesa di accogliere quei fortunati paesi che soddisfino i requisiti per entrare nell’Unione Europea, nella NATO o in qualche altra sua istituzione.Allora cosa significa Europa nella fantasia dell’Europa dell’Est? Certamente non è una questione geografica, perché se così fosse saremmo già in Europa e non avremmo bisogno di sforzi per raggiungerla. È invece qualcosa di distan-te, da conquistarsi, da meritarsi. È anche qualcosa di costoso, di raffinato: i bei vestiti, l’aspetto sicuro e l’odore di chi vi appartiene. L’Europa è l’abbondanza: cibo, automobili, luce, tante cose. È una specie di festa dei colori, del-la diversità, dell’opulenza, della bellezza. Permette di scegliere: dallo shampoo ai partiti politici. Rappresenta la li-bertà di esprimersi. È una nuova terra promessa, un’utopia, un lecca-lecca. E, attraverso la televisione, quell’Europa è proprio lì, a casa propria, spesso con colori troppo sgargianti per essere veri. E tuttavia questo ancora non ci aiu-ta a darne una definizione; ne spiega soltanto il desiderio. L’approccio al negativo è forse il più utile: l’Europa è l’opposto di ciò che abbiamo noi, e di ciò di cui vogliamo liberarci, è l’assenza del comunismo, della paura, delle privazioni.Qualcuno, oggi, è in grado di dire dove comincia e dove finisce l’Europa, e tutto quello che essa rappresenta? La nuova realtà politica ne richiede una definizione più ampia? Forse l’idea che un paese dell’Europa dell’Est debba meritarsi l’Europa, che debba in un certo modo prepararsi per poterci entrare, è un’idea troppo conservatrice. Do-potutto negli Stati Uniti, un secolo fa, i neri erano esclusi a priori dalla definizione di quel continente. Oggi l’ap-porto dato dal popolo afroamericano al paese non può considerarsi disgiunto dall’idea stessa di America. Forse c’è la possibilità che i paesi dell’Europa dell’Est possano apportare un contributo positivo e prezioso all’Europa di oggi. Può essere l’arte, la pluralità delle culture, la diversità in generale. O forse il modello della moralità della politica rappresentato da Václav Havel? Oppure l’abilità umana più importante di tutte: quella di saper sopravvivere in condizioni impossibili? L’Europa non è una madre che deve qualcosa ai suoi figli a lungo trascurati, né una princi-pessa da corteggiare. Non è un cavaliere mandato a liberarci, né una mela o una torta da gustare; non è un vestito di seta né la parola magica “democrazia”. Probabilmente, l’Europa è quello che noi, paesi, popoli, individui, voglia-mo che sia.

S. Drakulic, Caffè Europa, Il Saggiatore, Milano 1997

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Con particolare attenzione all’episodio della guerra di Crimea e alla politica perseguita da Cavour, il processo risorgimentale italiano viene inserito nel più generale contesto europeo e nel gioco politico e diplomatico delle grandi potenze.

[Cavour] capì [...] che il progetto del nuovo padrone della Francia [Napoleone III, n.d.r.] era un revisionismo [...]

relativamente all’assetto europeo [...].Non fu la Francia, però, a fare la prima mossa che doveva portare alla rottura del lungo equilibrio uscito dal Congresso di Vienna del 1815. Fu la Russia. Il fallimento delle rivoluzio-ni del Quarantotto in Europa pareva avesse rafforzato le po-tenze della vecchia Santa Alleanza e, conseguentemente, le cerniere della «Europa dei gendarmi». Ma, in realtà [...], il Quarantotto aveva modificato irrimediabilmente gli equilibri interni esistenti fra quelle potenze, il loro peso relativo, e quelle «cerniere» [...] ne uscivano paradossalmente logora-te. La Russia, che aveva salvato l’Austria, intervenendo essa a sedare la rivoluzione ungherese, si sentì in posizione inter-nazionalmente rafforzata e ritenne di poter affrontare ag-gressivamente una vecchia questione rimasta in sospeso, la «questione d’Oriente». La «questione d’Oriente» era l’intri-cata matassa di problemi che fra Balcani, Mar Nero e Mediter-raneo si trascinava da tempo a causa della lunga e inesorabi-le crisi dell’impero turco, alla sostituzione della cui egemo-nia in quell’area l’impero russo da lungo tempo tendeva. L’avanzata russa nei Balcani e verso il Mediterraneo conflig-geva, però, con gli interessi obiettivi dell’impero austrounga-rico da un lato e con gli interessi dell’Inghilterra dall’altro; e questo era un freno per i russi. Ma adesso l’impero au-

stroungarico era diplomaticamente indebitato con quello za-rista [...] perché l’intervento russo nel ’48 continuava ad avere un valore di garanzia per i problemi interni austrounga-rici. E anche perché il rafforzamento della Prussia nella Con-federazione germanica consigliava a Vienna di mantenere un buon rapporto con lo zar [...]. I russi ci provarono: occuparono i principati danubiani di Moldavia e Valacchia, vassalli dei turchi, e distrussero la flotta ottomana. Crearono così la si-tuazione da cui derivò la «guerra di Crimea», la vicenda che doveva far saltare definitivamente il sistema di relazioni in-ternazionali nato nel 1815 e aprire il varco per la riapertura della questione italiana.L’Inghilterra, nella sua opposizione alla avanzata russa ver-so il Mediterraneo, non rimase però sola [...]. La nuova Fran-cia imperiale [...] puntava proprio su una buona alleanza con l’Inghilterra, per modificare gli equilibri europei. A que-sto punto, visto il putiferio che si stava scatenando nell’Eu-ropa occidentale, lo zar sarebbe stato pure disposto a fare qualche passo indietro. Ma si era messa ormai in moto una macchina infernale, nella quale avevano parte principale interessi diversi da quelli che erano incautamente andati a toccare le fragili rotelle del vecchio meccanismo dell’equili-brio europeo.[Dopo la guerra di Crimea, n.d.r.] Il Piemonte, nel congresso per la pace che si tenne a Parigi (febbraio-aprile 1856), non ebbe nulla di nulla [...], neanche un qualche riconoscimento formale per la «questione italiana» [...]. Però, a Parigi, Ca-vour entrò ufficialmente nel vertice degli stati europei collo-quianti fra loro. E si capì che il Piemonte si stava facendo ormai portavoce della questione italiana, e non solo ponendo problemi di proprio ingrandimento territoriale.

L. Cafagna, Cavour, il Mulino, Bologna 1999

Luciano Cafagna, Il Risorgimento nel mutare del contesto europeo

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Lo storico liberale Rosario Romeo contraddice la visione di Gramsci, secondo cui il Risorgimento sarebbe stato una «rivoluzione agraria mancata», sostenendo l’impossibilità di una tale «rivoluzione» e la sua dannosità per il tessuto sociale e civile dell’Italia: «il paese avrebbe subito un colpo d’arresto nella sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica».

In un paese come l’Italia del secolo XIX, dove già la borghe-sia aveva posto le mani su buona parte della proprietà ec-

clesiastica nell’età napoleonica [...] e dove l’introduzione del codice di Napoleone aveva già cancellato ogni differenza

giuridica tra proprietà feudale e proprietà borghese; una ri-voluzione contadina mirante alla conquista della terra avrebbe inevitabilmente colpito dovunque avesse potuto consolidarsi e dunque, si può presumere, specialmente nel Nord e nel Centro della penisola – anche le forme di più avanzata economia agraria, liquidando gli elementi capitali-stici dell’agricoltura italiana per sostituirvi un regime di pic-cola proprietà indipendente, e imprimendo all’Italia agricola una fisionomia, appunto, di democrazia rurale. A tutto ciò si sarebbe certo accompagnata la liquidazione dei residui feu-dali; fatto, questo, grandemente positivo nel quadro dei rap-porti agrari italiani. Ma nel processo generale dello sviluppo capitalistico in Italia questa rivoluzione avrebbe avuto un valore assai diverso: e basta guardare alle conseguenze della Rivoluzione nelle

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Nella rassegna delle posizioni politiche e ideali dei tre principali gruppi nazionali protagonisti sulla scena italiana tra il 1849 e il 1860, «moderati federalisti, democratici centralisti e democratici federalisti», Salvemini osserva in particolare lo scarto esistente tra le elaborazioni teoriche di tale minoranza e la realtà vissuta dalla «grande maggioranza della popolazione italiana... favorevole agli antichi regimi».

Fra il 1849 e il 1860, i gruppi nazionali italiani si divideva-no [...] in tre scuole fondamentali: moderati federalisti,

democratici centralisti e democratici federalisti. I moderati federalisti volevano che i vecchi governi regionali si confede-rassero per la comune difesa contro ogni minaccia straniera, ma conservassero le loro dinastie, le loro capitali, i loro ordi-namenti locali [...].Le amministrazioni comunali dovevano godere di una larga autonomia dalle burocrazie governative regionali, che dove-vano trattare solamente gli affari di interesse regionale. I governi delle amministrazioni, tanto locali, quanto regionali, e il governo federale, dovevano essere eletti e manovrati dal-le classi proprietarie; i moderati non ammettevano il suffra-gio universale. Insomma i moderati erano censitari nel problema elettorale; monarchici e costituzionali nel problema istituzionale; auto-nomisti per le amministrazioni comunali e regionali; federali-sti nel problema nazionale.I democratici centralisti, educati dall’insegnamento di Maz-zini, volevano, in opposizione ai moderati, non solamente l’unità politica nel problema nazionale, non solo la repub-blica nel problema amministrativo, e il suffragio universale nel problema elettorale. Il nuovo ordinamento amministrati-vo dell’Italia, Mazzini, se lo immaginava creato da una Costi-tuente centrale rivoluzionaria: cioè il “popolo”, creata la repubblica, avrebbe eletto a suffragio universale una Costi-tuente, che si sarebbe riunita a Roma; e la Costituente avrebbe organizzato “ex novo” l’ordinamento amministrati-

vo nazionale, come aveva fatto la Costituente francese nel 1789 [...]. I democratici federalisti, seguaci di Carlo Catta-neo, accettavano la repubblica e il suffragio universale; ma rifiutavano l’accentramento amministrativo e rivendicavano le autonomie regionali e comunali. Cattaneo non riusciva a concepire una costituente mazziniana, che facesse “tabula rasa” di tutto il passato e si mettesse a costruire, per mezzo di nuove leggi, un nuovo mondo. Le istituzioni – pensava Cattaneo, e in questo era d’accordo coi moderati – sono state create, nei secoli, dalla esperienza delle popolazioni, a cui debbono servire; e sono continua-mente trasformate via via che mutano i bisogni e la volontà degli interessati. I governi locali italiani erano il prodotto di una lunga evoluzione storica. Non erano stati creati “a priori” da nessuna costituente; non potevano essere cancellati “a priori” da nessuna costituente [...].Fra il federalismo censitario dei moderati, il centralismo de-mocratico di Mazzini, e il federalismo democratico di Catta-neo, il federalismo censitario dei moderati sembrava nel 1859 destinato a trionfare. Il programma cavouriano nel 1859 era quello di una federa-zione di monarchie costituzionali nelle quali i singoli gover-ni regionali dovevano essere controllati dalle classi pro-prietarie, attraverso leggi elettorali, analoghe alla legge piemontese del 1848, la quale dava il diritto di voto a quei soli cittadini che pagassero non meno di 40 lire di imposte dirette [...].Le discussioni fra accentratori e autonomisti [...] passarono in prima linea col trionfo delle idee unitarie. Problema im-mediato e vitale della politica interna diventò quello dell’or-dinamento amministrativo da dare all’Italia politicamente unificata.Nel risolvere questo problema, i gruppi nazionali dovevano tener conto non solamente delle loro preferenze teoriche, ma anche delle condizioni pratiche in cui dovevano operare. La fondamentale di queste era che i gruppi nazionali, scac-ciate tutte le vecchie dinastie, meno la sabauda, sfasciate tutte le vecchie burocrazie regionali, meno la piemontese, sentivano di essere, nel paese e specialmente nell’Italia

Gaetano Salvemini, Il dibattito sull’ordinamento dell’Italia20

campagne francesi per rendersene conto. Se infatti essa mi-gliorò le condizioni di larghi strati di contadini [...] è un fatto incontestabile ch’essa bloccò in pari tempo lo sviluppo del capitalismo nelle campagne francesi. […]Una volta liquidato dalla rivoluzione contadina il più pro-gredito capitalismo agrario, e nella generale debolezza in-dustriale e mobiliare, il paese avrebbe subito un colpo d’ar-resto nella sua evoluzione a paese moderno, e non solo sul piano della vita economica, ma in genere dei rapporti civili e sociali. […]Certo, la tesi del Gramsci ha una portata che va ben oltre i dati economici e strutturali, per investire l’interpretazione di tutta la storia d’Italia. Allo scrittore sardo la rivoluzione agraria si presentava come la grande istanza risolutiva dei

contrasti profondi della storia del paese, come un potente strumento unificatore di tutta la società italiana, che avreb-be creato un rapporto più profondo tra lo Stato e le forze «nazionali-popolari» della cultura e della società. Ma, in-tanto, una simile rivoluzione non poteva realizzarsi, nel secolo XIX, come forza avversa all’espansione dei moderni rapporti capitalistici; ma solo in quanto fosse riuscita a pro-muoverli e, in certo modo, a identificarsi con essi (e non certo facendo dell’Italia un paese di contadini e di artigiani, conforme agli ideali della democrazia piccolo-borghese del primo Ottocento).

R. Romeo, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1959

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meridionale, una minoranza. Questo fatto urta con la figu-razione tradizionale, che noi ci facciamo del Risorgimento, quando leggiamo che «il popolo italiano» ardeva di amor patrio, che «tutta l’Italia» «sorse in piedi» e così di segui-to. La realtà fu ben diversa [...]. La grande maggioranza della popolazione italiana – cioè i contadini – era assente

dalla vita pubblica; e se avesse dovuto manifestare un’opi-nione, questa opinione sarebbe stata favorevole agli antichi regimi.

G. Salvemini, Scritti sul Risorgimento, Feltrinelli, Milano 1973

Tra i numerosi problemi che si presentavano nella gestione di un paese “diviso” tra nord e sud, quello del brigantaggio, fenomeno tipico dell’Italia meridionale, emerge per gravità. Con particolare riferimento al quinquennio 1860-1865, vengono ricostruiti i tratti principali del «dramma dell’incontro violento di due diverse Italie... profondamente differenti tra loro, nonostante l’uso di un comune linguaggio».

Già nell’agosto del 1860 quando non si era ancora vittorio-samente conclusa l’impresa garibaldina [...], le plebi lo-

cali insorsero contro i “galantuomini” liberali e le formazioni garibaldine, nel nome della Monarchia borbonica e con l’ap-poggio del clero [...].Queste iniziative ebbero un successo travolgente, e portarono alla rapida riconquista, da parte dei Borboni, di vaste zone del territorio di Terra di Lavoro, del Molise e del Sannio [...]. Aveva così storicamente inizio quel moto popolare chiamato brigan-taggio, che afflisse le regioni del sud per tutto il corso decen-nio, postunitario [...]. Gli insorti avevano iniziato le ostilità dall’autunno del 1860, e nel febbraio dell’anno dopo, con la caduta di Gaeta e del regime borbonico, un’enorme folla di sol-dati smobilitati dall’esercito napoletano andarono a ingrossare le fila delle bande, che diventarono sempre più aggressive [...].Dal 1861 al 1870, il decennio del brigantaggio, operarono nell’Italia meridionale circa 388 bande, di varie dimensioni, composte da alcune decine di persone, fino a diverse centi-naia . Le perdite degli insorti si calcolarono in 5212 morti in combattimento o per esecuzione sommaria, in 5044 arresta-ti, e in 3597 consegnatisi spontaneamente alle autorità pie-montesi, per un totale di 13853 persone poste fuori combat-timento [...]. Le truppe impegnate nell’opera di repressione passarono da 22000 uomini nel 1861, a 105200 nell’inverno 1862-63, più i servizi e gli agenti civili della polizia e della

pubblica amministrazione e le formazioni civili ausiliarie mi-litarizzate [...]. Finalmente nell’agosto del 1863 venne ema-nata una legge organica per la repressione del brigantaggio, la cosiddetta Legge Pica [...]. La legge, più volte prorogata, venne applicata con spietata durezza fino al 1865. [...] Da questo momento il fenomeno venne attenuandosi e si ridusse entro limiti sempre più modesti, fino praticamente ad estin-guersi alla fine del primo decennio postunitario [...].Il brigantaggio non è certo un fenomeno di facile e semplice interpretazione. A darvi inizio non furono solo le istanze le-gittimiste ma vi concorsero diversi elementi, fra cui la crisi finanziaria che colpì l’amministrazione subito dopo l’occupa-zione piemontese, per il venir meno degli introiti di ogni ge-nere di tributi, prima riscossi dall’amministrazione borboni-ca, per cui si dovettero sospendere tutte le spese ordinarie dei lavori a carico dei comuni e delle province, e non si pote-rono in un primo momento nemmeno pagare gli stipendi agli impiegati pubblici. A questa crisi si aggiunse il problema del demanio, la cui ripartizione promessa non venne mai attuata seriamente, ciò che fu causa legittima di tumulti e proteste. Il fatto che il moto unitario fosse stato appoggiato unicamente da settori circoscritti della borghesia proprietaria, unitamen-te all’oggettivo disagio delle masse popolari, fece sì che il brigantaggio assumesse anche il carattere di una lotta socia-le, alla quale i moderati del sud seppero solo suggerire una risposta in termini di repressione [...].Ma tutto questo costituisce, per il fenomeno del brigantaggio, solo una sequenza di cause concomitanti di una causa più ra-dicale e di fondo, data dal dramma dell’incontro violento di due diverse Italie, diverse in ragione delle loro caratteristiche culturali, economiche e sociali, profondamente differenti fra di loro, nonostante l’uso di un comune linguaggio.

C.T. Altan, La nostra Italia. Arretratezza socio-culturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dell’Unità a oggi,

Feltrinelli, Milano 1986

Il fi losofo e storico liberale Benedetto Croce ricostruisce le cause che portarono alla caduta della destra: tale passaggio non signifi cò un venir meno «dell’idea liberale», ma a fu un «trapasso dallo straordinario all’ordinario».

Una sembianza di realtà, non certo senza perturbazioni, ebbe l’ideale della Destra nel decennio del compimento

dell’unità, quando l’istintiva assennatezza rendeva accorti a non distrarre la volontà dal duplice fine dell’acquisto di Ve-nezia e di Roma; e ne primi anni dopo il settanta, quando in-combeva pur sempre lo spettro del fallimento, e la stessa

Carlo Tullio Altan, Il brigantaggio

Benedetto Croce, «Dallo straordinario all’ordinario»

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assennatezza, anche degli avversari, faceva che si lasciasse alla Destra, pur contrastandola, il compito di tassare feroce-mente per raggiungere il pareggio. Ma, risolto il problema di Roma, raggiunto il pareggio, quel-le che erano state avvisaglie nelle elezioni del 1865 e del 1874 con l’avvento alla Camera dei cosiddetti «uomini nuo-vi» e l’esclusione di molti vecchi patrioti, dovevano prende-re forma più intensa e conclusiva; la sollevazione degli inte-ressi offesi, specie nelle provincie meridionali, non poteva più frenarsi; il «paese reale» sobbolliva contro l’«Italia le-gale»; e, alla prima scaramuccia parlamentare, la Destra cadde. Cadde cioè, non semplicemente come partito che lasci il go-verno per ripigliarlo in altra vicenda, rinfrescate le sue forze mercé l’opposizione; ma nella sua stessa idea, come quella

pretesa di perfezione, che riteneva dell’astrattezza [...]. An-che quella caduta fu non una decadenza della vita politica italiana, ma un trapasso dallo straordinario all’ordinario. Né per ciò si perse l’idea liberale, che sopravvisse non solo in quegli uomini di Destra che ancora parteciparono alla vita pubblica e talvolta operarono da freno e talaltra aiutarono al trionfo di buone leggi; ma nei loro antichi oppositori, costret-ti, ora che avevano la responsabilità del governo, a tener fisso l’occhio a quell’ago polare; sicché di volta in volta essa fu fatta valere per ripigliare negli urti e scosse della lotta politica l’equilibrio che sempre si squilibra e sempre si rie-quilibra.

B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928

Giampiero Carocci esprime un giudizio opposto rispetto a quello crociano: «Il passaggio dai governi di destra a quelli di sinistra costituì un progresso fondamentale e, insieme, una involuzione». All’allargamento della base della classe dirigente nazionale non corrispose un’importante crescita culturale e civile dei gruppi d’élite.

Il passaggio dai governi di destra a quelli di sinistra costituì un progresso fondamentale e, insieme, una involuzione. Fu

il passaggio da governi che esprimevano una ristretta élite a governi che esprimevano ampie frazioni della classe dirigen-te: e questo fu un progresso fondamentale. Ma fu anche una involuzione, perché la borghesia, nel suo complesso, era lun-gi dal raggiungere i livelli civili morali culturali che erano stati ed erano tuttora propri della élite moderata, nella cui matrice si formarono uomini come Sonnino e Fortunato, desti-nati ad affermarsi dopo il 1876. Con la caduta della destra iniziò il divorzio tra potere e cultura, divorzio che l’élite mo-derata aveva sanato.

Nel 1870-1876 la destra aveva rappresentato, nei suoi ele-menti migliori, ora una ideologia più avanzata della sua base reale, ora talune punte più moderne della borghesia, partico-larmente a Milano. La sinistra invece era rappresentativa soprattutto degli ele-menti meno moderni, cioè degli elementi tipici e più diffusi in una borghesia come l’italiana. Ma l’uso che la destra aveva fatto dello stato, inteso come strumento di propulsione e di mediazione, come pressione dall’alto sulla società, era più positivo per affrontare i problemi dello sviluppo economico e della efficienza che non per affrontare i problemi dello svi-luppo civile e della libertà. Personalmente i moderati aveva-no un senso della libertà forse più alto ancora dei membri della sinistra. Ma il fatto di privilegiare l’azione dello stato, per esempio nell’esercizio delle ferrovie, faceva coagulare intorno a loro le simpatie di quanti erano rimasti particolar-mente legati all’ideale settecentesco dello stato amministra-tivo e alle istanze conservatrici, dalla burocrazia dei ministe-ri ai membri più autorevoli dal senato.

G. Carocci, Storia d’Italia dall’Unità ad oggi, Feltrinelli, Milano 1975

Giampiero Carocci, Dalla Destra alla Sinistra storica23

Pietro Scoppola rifl ette sul concetto di democrazia e sulle diffi coltà vissute dall’Italia del secondo dopoguerra, durante la fase di “costruzione” del proprio sistema democratico. Con riferimento al “vissuto” ed alla cultura specifi ca dei nuovi partiti emersi sulla scena politica, analizza le diffi coltà materiali e ideali poste sulla via del processo democratico, in particolare per ciò che riguarda le due forze dominanti, quella marxista e quella cattolica.

La democrazia da un lato è ancorata a un ideale mai compi-tamente realizzato e realizzabile che è quello di una piena

espressione della dignità dell’uomo in tutti i suoi aspetti e della sua autodeterminazione, dall’altro si muove sul terreno realistico della continua verifica del processo verso questo ideale. La democrazia coniuga mezzi e fini: si propone un fine etico di portata universale, ma rifiuta di chiudersi nella con-templazione autosufficiente del fine, e rifiuta perciò l’indiffe-renza del mezzo. La democrazia è un processo […].All’indomani del secondo conflitto mondiale l’eredità della “cultura della rivoluzione” è presente e operante nei partiti

Pietro Scoppola, La ricostruzione della democrazia24

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della sinistra italiana: non solo […] nei partiti della sinistra marxista, socialista e comunista, ma anche, in forma diversa, nella proposta azionista proprio in ragione della radicale di-scontinuità da essa invocata […] nel processo di ricostruzione democratica. Il problema invece della fondazione della de-mocrazia era ed è costantemente quello di uscire dalla cultu-ra della rivoluzione, di superare cioè l’idea di un’ora X, di un evento straordinario o di un inizio destinato ad aprire una vol-ta per tutte una storia nuova e un regno della libertà, per accettare invece la logica aspra e realistica del “farsi” pro-gressivo e conflittuale della libertà e della giustizia attraver-so un processo del quale la democrazia garantisce le condi-zioni; la democrazia come processo e non come ordine defini-to era il passaggio culturale necessario per la rinascita de-mocratica. Questo passaggio culturale è stato il più grande problema che le diverse culture politiche hanno dovuto af-frontare: esso è stato difficilissimo per la cultura marxista; ma non è stato scontato neppure per la cultura laica costan-temente tentata di scavalcare il momento di un libero con-senso popolare in favore di una guida illuminata di tipo gia-cobino. La rivoluzione dunque è un mito fuorviante per la democrazia, che ne rende più difficile il processo; ma questo mito rivoluzionario è presente e operante alle origini della democrazia italiana del secondo dopoguerra. Un problema diverso ma per certi aspetti analogo si pone anche per la cul-tura cattolica: quale rapporto è possibile fra l’ordine oggetti-vo di verità alla quale il pensiero cattolico in varie forme fa riferimento e la dialettica propria della democrazia fondata sul riconoscimento dei diritti soggettivi, sul confronto libero

delle idee e sul principio di maggioranza […]? La dimensione entro la quale si muove il magistero di Pio XII […] è sostan-zialmente – come in tutta la dottrina sociale precedente – atemporale, l’ordine naturale che esso propone è definito per via di ragione oggettiva fuori dalle tensioni della storia […]. Il rapporto stesso con la democrazia ne risulta alla fine incrina-to in quanto la democrazia stessa non può assumere che una funzione strumentale rispetto a un ordine già definito e non può diventare essa stessa, attraverso la dialettica e il conflit-to delle diverse forze e realtà sociali, la via della scoperta e della verifica di nuove dimensioni di umanità […]. Limiti – difficilmente superabili del resto per la cultura cattolica del tempo – che in anni successivi e alla luce di una diversa ec-clesiologia riappariranno in piena evidenza […].Dunque in tutte le aree culturali e politiche il problema della democrazia non era scontato: la democrazia italiana rinasce senza potersi rifare a un sicuro patrimonio di esperienze e di valori culturali comuni. Da un lato la speranza della rivolu-zione e dall’altro di un ordine oggettivo di verità e di giustizia introducono nella nascente democrazia italiana forti tensioni utopiche che danno calore alla vita politica e creano forti mo-tivi di appartenenza e di mobilitazione, ma rendono anche più difficile e incerto il funzionamento dei meccanismi della de-mocrazia. La democrazia italiana rinasce per così dire squili-brata verso il suo elemento utopico a danno dell’elemento funzionale.

P. Scoppola, La repubblica dei partiti. Profilo storico della democrazia in Italia, il Mulino, Bologna 1991

L’Italia negli anni Cinquanta e Sessanta fu protagonista del fenomeno chiamato “miracolo economico”, durante il quale l’immigrazione meridionale verso le città del Nord pose molti problemi. Il giornalista e saggista Eugenio Scalfari analizza in particolare il fenomeno della trasformazione del paesaggio urbano e dell’esplosione delle periferie, con la proliferazione di insediamenti abusivi, le cosiddette “coree”.

Il primo problema dell’immigrante appena arrivato è l’allog-gio e poi, immediatamente dopo, il lavoro. L’affollamento,

nelle zone e nei quartieri dove si concentra l’ondata, è inim-maginabile, gli espedienti e le capacità di adattamento illimi-tati […]. A Torino un’inchiesta compiuta per iniziativa del Comune agli inizi degli anni ’60 afferma che quarantaseimila persone abitano in soffitte e cantine o vecchie case destinate alla demolizione, novantottomila in alloggi sovraffollati […]. A Milano […] l’ondata d’immigrazione dilaga nei cascinotti di campagna circostante, nei comuni della cintura, nascono le prime costruzioni mono-camera e, in brevissimo tempo, le

“coree”, che diventano per tutto l’arco degli anni ’50 un trat-to costante del panorama della periferia milanese. Le coree sono villaggi spontanei, costruiti mattone su matto-ne e manciata di calce su manciata da un popolo di muratori. Coi primi soldi risparmiati, l’immigrato compra un duecento metri quadrati di terra fuori città, nell’area di qualcuno dei comuni circondariali, quelli meglio ubicati rispetto alle possi-bilità di lavoro e più ospitali per quanto riguarda l’iscrizione alle liste anagrafiche e l’ottenimento del libretto di lavoro. Non bisogna infatti dimenticare che per tutto il decennio degli anni ’50 l’emigrazione continua ad essere, dal punto di vista legale, un fenomeno in gran parte clandestino, governato dalle leggi fasciste sull’urbanesimo che negano il libretto di lavoro a chi non risiede nel comune e negano l’iscrizione all’anagrafe a chi non ha il libretto di lavoro. Questo popolo di muratori clandestini, una volta acquistato il suolo, comincia a costruire. Ammucchia calce e mattoni e la-stre di eternit e vecchi infissi e tegole smozzicate. Ci lavora tutta la famiglia, di solito la sera, dopo dieci ore di lavoro in cantiere […].La casa non è soltanto il tetto sotto cui ripararsi, ma è al tempo stesso una fonte di reddito. Infatti viene subito messa a frutto: perché la famiglia, a tetto coperto, dormirà nella ca-mera dove anche si cucina e si mangia, e la cantina verrà af-

Eugenio Scalfari, Il miracolo economico25

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fittata. Poi, messi insieme altri risparmi e altra fatica, si tire-rà su il primo piano, e verrà affittato anch’esso. Infine verrà venduta l’area del tetto-terrazzo, sulla quale un nuovo arri-vato costruirà la sua cameretta. Nascono e si propagano, le coree, ai bordi dei vecchi insedia-menti. Il prezzo delle aree sale rapidamente. I più svelti e i primi arrivati lasciano dopo poco la cazzuola del muratore e la carriola del manovale e s’improvvisano commercianti di aree. I messi comunali girano per i nuovi vicoli pieni di polve-re e di pozzanghere per distribuire multe e divieti alle costru-zioni abusive. Di tanto in tanto arriva l’ordine di sgomberare

e poi i “buldozer” che spianano la terra e centinaia di ore di fatica e decine di migliaia di lire. Ma la corea rinasce poco più in là, finché il Comune lascia correre, porta il primo filo di corrente elettrica, scava la prima fognatura. A quel punto, e solo allora, gli immigrati sono diventati cittadini di pieno di-ritto, e cominciano ad accorgersi di quante cose ancora gli mancano, la fontana, il tram, la scuola. E a questo punto le finanze comunali cominciano a saltare.

E. Scalfari, L’autunno della Repubblica. La mappa del potere in Italia, Etas Kompass, Milano 1969

La transizione, dominata dall’incertezza, tra le cosiddette “prima” e “seconda” repubblica presentò alcuni elementi di continuità e di rottura nel sistema politico. La morte del vecchio sistema ha determinato sia una serie di novità (ricambio del personale politico, scomparsa dei partiti storici), sia una serie di problemi (frammentazione negli schieramenti, instabilità, necessità di revisione del patto costituzionale) diffi cilmente eludibili per un corretto funzionamento della democrazia.

I risultati delle elezioni del ’94 segnano la morte definitiva del vecchio sistema politico che era nato quarantotto anni prima, nel 1946. I partiti che avevano fatto parte dell’Assem-blea costituente e poi dei Parlamenti, eletti a partire dal 1948, non sopravvivono a quest’ultima consultazione eletto-rale; anzi, nelle loro liste non compaiono più neppure simbo-li e nomi della maggior parte delle tradizionali forze politi-che. Sotto questo profilo, la rottura della continuità non po-trebbe essere più netta, così come vistoso appare il ricambio dei rappresentanti, più del 75% tra deputati e senatori che per la prima volta varcano il portone di Montecitorio e di pa-lazzo Madama. Le novità non si fermano qui: per la prima volta nella storia della Repubblica, la nuova Italia elettorale appare marcata-mente divisa in tre aree politiche, il Nord dove dominano la Lega e FI, il Centro a maggioranza pidiessino, il Sud in cui la destra di AN è diventata il maggior partito. È un elemento destinato a pesare in negativo nella dodicesima legislatura che, come la precedente, finisce anticipatamente, nel feb-braio 1996, dopo solo due anni dall’inizio. In realtà, a parti-

re dall’undicesima legislatura ’92-’94, si è aperta una fase di transizione difficile e confusa che il voto del ’94 ha contri-buito a chiarire solo in apparenza. La riforma elettorale maggioritaria che doveva servire a semplificare il sistema politico prefigurando due schieramenti alternativi l’uno all’altro, produce una frammentazione ancora più esaspera-ta di prima […].La legge di riforma elettorale del ’93 non è sufficiente da sola né a garantire un quadro politico stabile, né, soprattutto, a risolvere il problema della permanente fragilità degli ese-cutivi. Per di più, la comparsa sulla scena di nuovi partiti e di insoliti protagonisti politici richiede una revisione complessi-va delle regole che tenga conto anche dell’importanza ormai determinante dei media e della commistione politica-impren-ditoria, entrambe questioni ineludibili dopo la discesa in campo di Berlusconi. Rinegoziare un patto sui fondamenti non appare, comunque, un compito facile in un quadro politi-co dominato da un’accesa conflittualità di tutti contro tutti. Cinquant’anni fa, nel ’46, l’Assemblea costituente era nata grazie al senso di responsabilità del ceto politico antifasci-sta, deciso, dopo un ventennio dittatoriale, a dare alla nuova Repubblica solide fondamenta democratiche. Le divisioni tra le forze politiche apparivano allora assai più profonde delle attuali in un’Italia che era stata lacerata da una guerra civile e in un mondo spaccato in due e sul punto di precipitare in un terzo conflitto mondiale. Se, in quelle drammatiche circo-stanze, i partiti antifascisti erano riusciti a scrivere tutti insie-me la Carta costituzionale, nel clima di oggi non è dunque impossibile il dialogo, tanto più che tutte le forze politiche rivendicano con determinazione la loro natura democratica e la loro lealtà alla democrazia.

S. Colarizi, Storia dei partiti nell’Italia repubblicana, Laterza, Roma-Bari 1997

Simona Colarizi, Dalla prima alla seconda repubblica26

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L’azione terroristica delle Brigate Rosse subì un’escalation nel biennio 1977-1978, culminando con il rapimento e l’uccisione del segretario democristiano Aldo Moro. Secondo Ginsborg, «è generalmente riconosciuto che la crisi del terrorismo italiano prese l’avvio dall’uccisione di Moro».

La […] fase dell’attività delle BR, che sarebbe durata per gli anni 1977-78, fu soprannominata “strategia di annienta-

mento”. Venivano annunciate azioni indiscriminate, miranti a colpire professionisti e “servi” dello stato, con l’obiettivo di terrorizzare interi settori delle classi dominanti e dei loro fau-tori, in modo da impedire il regolare funzionamento dello Sta-to. Quanto ai partiti politici, la DC restava il principale obiet-

Viene tracciato un profi lo dei due principali gruppi di estrema destra: Ordine Nuovo (ON), più estesamente, e Avanguardia Nazionale (AN), più sinteticamente. In particolare, si sottolinea il “doppio livello” sul quale tali organizzazioni si mossero fi no allo scioglimento, coprendo con l’uffi cialità dei circoli una serie di attività illegali e clandestine.

Ordine Nuovo […] fu fondato da Pino Rauti nel 1954 come “Centro Studi” all’interno del MSI. Dopo un periodo di

tensioni e contrasti, in occasione del quinto congresso del MSI (Milano, dicembre 1956) il Centro decide di rompere con il partito rendendosi autonomo […]. La storia successiva di ON si divide fondamentalmente in due periodi. Il primo giunge fino al 1969, quando il Centro rientra nel MSI […], il secondo va dal 1969 al 1973. In realtà, una profonda continuità ideologi-ca e personale caratterizza i due periodi e consente di discu-tere di ON come di un’esperienza politica unitaria […]. Nel 1969 parte della dirigenza di ON, guidata dallo stesso Rauti […] si convinse che era giunto il tempo di ricongiungere le forze con il MSI. Qui […] Almirante era tornato alla segreteria e dava nuovo impulso al partito, con una strategia rivolta sia alla componente radicale sia a quella moderata («manganel-lo e doppio petto») […]. L’ala più radicale di ON, guidata da Clemente Graziani, riba-diva con dura enfasi il carattere irriducibilmente rivoluzio-nario del movimento, e respingeva «l’operazione MSI». Ap-parentemente essi ruppero con Rauti (ma di fatto i legami politici e personali fra i militanti rimasero molto stretti) e per “continuare la battaglia” diedero vita al Movimento Po-litico Ordine Nuovo. Il MPON visse un’esistenza semilegale fino al 1973, quando fu sciolto da una sentenza del Tribunale di Roma, e molti suoi membri entrarono in clandestinità, orientandosi verso prati-che terroristiche e di lotta armata […]. Una ricostruzione completa delle attività militanti di ON non è agevole perché per larga parte della sua storia il gruppo ha combinato inizia-tive legali e illegali, comprendendo fra queste ultime sia la violenza di strada sia attività eversive e terroristiche. Sono gli stessi militanti ad ammettere che, in diversi momenti, il movimento fu organizzato su due livelli: il primo, attivo sul

piano dell’ufficialità, era culturale e politico e operava attra-verso i circoli; l’altro era clan destino e militarizzato […]. Non occorre dire che le attività co spirative e violente del gruppo sono difficili da documentare. I protagonisti sono natural-mente reticenti e nessuna indagine complessiva a riguardo è stata condotta da organi dello Stato […]. Alcune esperienze tuttavia possono essere ricostruite sulla base delle indagini relative a gruppi ed episodi specifici, co-me quelle di Udine relative alla strage di Peteano del 1972, o quelle sul gruppo toscano coinvolto negli attentati del bien-nio 1974-1975 […]. In altre parole, vi sono pochi dubbi che, lungo tutta la sua storia e in entrambe le incarnazioni, sia come Centro che co-me Movimento, ON sia stato uno dei maggiori protagonisti della violenza politica italiana nel dopoguerra. Insieme ad AN [Avanguardia Nazionale, n.d.r.] e ad altre formazioni ne-ofasciste ha occupato un ruolo di primo piano nella maggior parte degli episodi di squadrismo, violenza di piazza, antise-mitismo del periodo. Un volume di attività di questa ampiezza e durata, anche considerando il solo periodo “legale” (1956-1973) non avrebbe potuto essere dispiegato senza il soste-gno, o quantomeno la tolleranza, di organi istituzionali e di altre forze […]. È stato dimostrato che nei primi anni Sessanta il SIFAR [Ser-vizio informazioni forze armate, n.d.r.] sovvenzionò Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, così come altre organizza-zioni di estrema destra. Il SID (nuovo nome del Servizio dopo le riforme del 1965) continuò la pratica di finanziamento […]. Frammenti probatori emersi altrove rivelano altri non chiari canali di finanziamento, come il traffico internaziona-le d’armi e le ambigue sponsorizzazioni da parte di alcuni gruppi industriali.L’altro gruppo storico della Destra rivoluzionaria fu Avan-guardia Nazionale, fondata nel dicembre del 1959 come Avanguardia Nazionale Giovanile da un gruppo di apparte-nenti a ON guidati da Stefano delle Chiaie, in apparenza au-toscioltasi nel 1965, rifondata nel 1970. Rinviata a giudizio e processata per ricostituzione del partito fascista, fu definiti-vamente sciolta nel 1976.

F. Ferraresi, Minacce alla democrazia. La Destra radicale e la strategia della tensione in Italia nel dopoguerra,

Feltrinelli, Milano 1995

Paul Ginsborg, L’azione delle Brigate Rosse

Franco Ferraresi, L’estremismo di destra

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tivo, anche se alcuni volantini delle BR ammonirono che il pericolo principale non era più costituito dal “gollismo”, ma dalla “socialdemocrazia”, cioè dal PCI. Nel 1976 le Brigate Rosse ed altri gruppi terroristici di sinistra uccisero otto perso-ne e ne ferirono seriamente altre sedici; nel 1977 sette furono gli assassinati e quaranta i feriti. Oltre a poliziotti e magistra-ti, un bersaglio privilegiato delle BR furono i giornalisti: nel giugno 1977 fu ferito alle gambe Indro Montanelli, direttore del «Giornale Nuovo», e nel novembre dello stesso anno fu colpito mortalmente Carlo Casalegno, vicedirettore de «La Stampa». All’inizio del 1978 erano cinque le colonne delle Brigate Rosse in funzione a Milano, a Torino, a Genova, a Ro-ma e nel Veneto. Nulla, comunque, faceva presagire l’azione intrapresa la mattina del 16 marzo di quell’anno […]. Alle no-ve e un quarto del mattino la macchina di Moro [in quel mo-mento presidente della DC, n.d.r.] e quella della sua scorta, caddero in un’imboscata mentre erano diretti in Parlamento: i poliziotti della scorta e l’autista dell’auto vennero uccisi, mentre Moro incolume fu trasportato su un’altra vettura in at-tesa, dileguandosi nel traffico di Roma […]. Sono ancora pa-

recchi i misteri che circondano il rapimento Moro. Per cinquan-taquattro giorni le BR, sotto la direzione di Mario Moretti, tennero Moro prigioniero in un nascondiglio segreto. Per tutto questo periodo il mondo politico italiano e la stessa opinione pubblica furono tormentati da un terribile dilemma: era giusto che lo Stato trattasse con i rapitori per salvare la vita di Moro, o bisognava scegliere invece la via della fermezza, rifiutando ogni patteggiamento con le BR […]? Aldo Moro fu ucciso dalle Brigate Rosse il 9 maggio 1978. I suoi assassini abbandonaro-no il cadavere nel bagagliaio di un’auto proprio nel centro di Roma, in una strada – via Castani – a metà tra la direzione della DC e quella del PCI. I brigatisti si erano mostrati risoluti ed efficienti, ma la loro non fu una vittoria. La decisione di uccidere Moro creò gravi dissensi al loro interno, mentre all’esterno si diffuse un profondo sentimento di ripulsa per quanto avevano fatto. È generalmente riconosciuto che la crisi del terrorismo italiano prese l’avvio dall’uccisione di Moro.

P. Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica 1943-1988, Einaudi, Torino 1989

I principali “mercati di consenso” tramite i quali si esercitano l’attività e il potere di attrazione della criminalità organizzata sono l’ineffi cienza della giustizia civile, la corruzione e la protezione dei traffi ci dei beni illegali: «L’illegalità esclude i traffi ci di merci illegali dalla protezione dello Stato. Quando non esiste un’industria specializzata a proteggere, i traffi canti cercano di farsi giustizia da sé; ma se ci sono mafi osi disponibili i delinquenti saranno ineluttabilmente portati a diventarne clienti».

La domanda per i servizi offerti da Cosa Nostra non proviene solo dalla politica, ma da tre diversi settori che potrebbero

continuare a giovarsi della protezione mafiosa. Il vero nodo della questione nel lungo periodo, al di là della repressione, è diminuire le occasioni in cui i cittadini possono sentire la ne-cessità di ricorrere alla protezione privata. Il primo di questi mercati riguarda l’inefficienza della giustizia civile. Nell’Italia meridionale si riscontra una litigiosità molto elevata e il nume-ro di dispute che finiscono in tribunale è altissimo. Questo è un indicatore indiretto del fatto che la domanda di arbitrato in Mezzogiorno è molto intensa, così intensa da alimentare ben più di un unico Stato! Inoltre, come è noto, i tribunali sono len-ti, e i processi impiegano anni prima di essere risolti. Il costo di un’azione giudiziaria è alto e i benefici remoti. Ciò aumenta la convenienza di affidarsi a “Don Peppe” che sbriga la questione in breve tempo, e incute il timore necessario a far sì che i con-tendenti rispettino le sue decisioni […]. Senza interventi rapidi, la domanda di protezione da parte della gente comune per comporre le controversie ordinarie rischia di continuare ad ali-

mentare il mercato della protezione mafiosa […]. Il secondo mercato per la protezione illegale è costituito dalla corruzione, in particolar modo da quella connessa alla assegnazione dei pubblici appalti. Nonostante si continui a confonderli, corruzio-ne e mafia sono fenomeni del tutto differenti che possono be-nissimo esistere separatamente […]. Nonostante le differenze, però, spesso i fragili accordi che corrotti e collusi stipulano fra loro – e che non possono certo valersi della protezione delle leggi dello Stato – possono all’occasione giovarsi anche della protezione mafiosa che riduce i rischi di tradimenti e “soffiate”, e permette patti più ampi e robusti nel tempo. Tali accordi of-frono uno sbocco efficace all’arbitrato illegale praticato dalla mafia. Ne consegue che combattere la corruzione economica e sostenere la libera concorrenza […] sottrae domanda potenzia-le ai servizi mafiosi. Per stroncare la domanda di protezione privata sarà cruciale tanto mettere in atto politiche antimono-polistiche efficaci, quanto garantire la correttezza dei concorsi pubblici. Il terzo mercato della protezione mafiosa, il più appe-tibile e pericoloso, riguarda la protezione dei traffici dei beni illegali, soprattutto i narcotici. I trafficanti di merci illegali so-no grandi consumatori di protezione: un criminale derubato o “bidonato” dai suoi compari non saprebbe a chi rivolgersi per ottenere “giustizia”. L’illegalità esclude questi traffici dalla protezione dello Stato. Quando non esiste un’industria specia-lizzata a proteggere, i trafficanti cercano di farsi giustizia da sé; ma se ci sono mafiosi disponibili […] i delinquenti saranno ineluttabilmente portati a diventarne clienti. Per chi opera nei mercati illegali il problema della protezione è cruciale; non solo: poter contare sulla protezione mafiosa offre una ragione in più per intraprendere questi traffici.

D. Gambetta, La mafia siciliana. Un’industria della protezione privata, Einaudi, Torino 1994

Diego Gambetta, Mafia e protezione29

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In una serie di lezioni universitarie tenute negli anni Quaranta e pubblicate nel 1961, lo storico Federico Chabod scrive: «Quel che importa è il fattore spirito, “volontà”; è l’elemento morale che predomina. […] Si vuole, si deve però affermare recisamente, che quel che importa è la forma mentis, e che essa […] è soprattutto opera della storia, cioè della volontà degli uomini, la quale ha, nei secoli, impresso il suo durevole suggello sulle generazioni, che si sono susseguite e si susseguono nel continente chiamato Europa».

Si pone il problema di come sia sorto il concetto istesso d’Europa. Non dal punto di vista geografico, ben inteso;

non riguardo all’Europa fisica: sì riguardo all’Europa politica, all’Europa culturale e morale, all’Europa che noi abbiamo sentita distinta dalle altre parti del globo per certe determi-nate caratteristiche del modo di pensare e di agire, dei siste-mi filosofici e politici, di tradizioni, memorie, speranza; all’Europa come individualità storica e morale […]. Dell’Eu-ropa che forma un quid a sé […], dell’Europa come individua-lità storica, che ha una sua tradizione, che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato,

nei secoli, una impronta incancellabile. Quando noi diciamo «Europa», oggi, intendiamo alludere non soltanto a una cer-ta estensione di terre, bagnata da certi mari, solcata da certe catene montuose, sottoposte ad un certo clima ecc; intendia-mo, assai più, alludere a una certa forma di civiltà, ad un “modo di essere” che contraddistingue di primo acchito l’“Europeo” dall’uomo di altri continenti. L’“Europeo” è as-sai più che il “bianco” (uomini di razza bianca abitano, oggi, anche altre parti del mondo, che pur appaiono dotate di alcu-ne, almeno, caratteristiche diverse): è, soprattutto, un certo abito civile, un certo modo di pensare e di sentire, a lui pro-prio e diverso, ben diverso, da tradizioni, memorie e speranze di Indiani, Cinesi, Giapponesi, Etiopi ecc.Anche qui, insomma, quel che importa è il fattore spirito, “volontà”; è l’elemento morale che predomina di gran lunga su quello fisico. Non si vuole con ciò negare che il fatto di avere, per millenni, abitato queste terre, fisicamente confor-mate in certo modo, abbia influito sullo sviluppo di una certa forma mentis. Si vuole, si deve però affermare recisamente, che quel che importa è la forma mentis, e che essa può esse-re sì, in parte il risultato dell’acclimatamento in determinato ambiente geografico, ma è soprattutto opera della storia, cioè della volontà degli uomini, la quale ha, nei secoli, im-presso il suo durevole suggello sulle generazioni, che si sono susseguite e si susseguono nel continente chiamato Europa. È l’eredità dei padri, antica ormai di millenni, che noi rechiamo

Federico Chabod, L’Europa della storia31

Giovanni Sabbatucci delinea la genesi e l’adozione della formula del “doppio Stato” da parte di alcuni settori della storiografi a contemporanea e ne mostra i caratteri peculiari, negandone alla fi ne la validità e l’applicabilità.

A partire dagli anni Settanta, espressioni come “potere invi-sibile”, “poteri occulti”, “Stato nello Stato”, “Stato pa-

rallelo” entrano […] stabilmente nel lessico e nel senso comu-ne […] come chiave esplicativa della storia recente, per essere poi assorbite e riassunte in una nuova formula di particolare successo: quella del “doppio Stato”. A introdurla nel dibattito […] fu un saggio di Franco de Felice apparso nel 1989 […] in-titolato appunto Doppia lealtà e doppio Stato […]. In quel sag-gio l’autore si stacca dai toni pamphlettistici della letteratura d’inchiesta prendendo nettamente le distanze dai teorici del complotto permanente e dell’unico “partito del golpe” ope-rante nella storia dell’Italia repubblicana […]. È accaduto pe-rò che nella vulgata raccolta dalla pubblicistica successiva […] l’espressione “doppio Stato” sia stata per lo più usata di-sinvoltamente come sinonimo di “potere occulto” o di “cen-trale golpista” […]: sia assunta insomma a chiave universale

capace di collegare tra loro trame e misteri e di spiegarli in un’ottica monocausale, ma anche di trasformare le congetture in certezze, le ricostruzioni ipotetiche in dati di fatto […].Nel continuo mutare degli scenari in cui prende forma la teo-ria del grande complotto un punto resta comunque fermo: che stragi e delitti siano funzionali al mantenimento del potere da parte di una classe dirigente moderata altrimenti destinata alla sconfitta; e che essi servano a bloccare i progressi elet-torali del PCI o a respingere la sua ascesa al potere, altri-menti inevitabile […]. Eppure non c’è bisogno d’essere esper-ti in trame e stragi per capire che nel modello vi sono troppi elementi che non reggono […]. All’ipotesi dell’unico grande complotto manca […] un credibile movente. Ma mancano an-che, e la cosa è ancora più grave, i presunti colpevoli, i man-danti riconoscibili […]. Non resta allora, se si vuole far stare in piedi il teorema, che rifugiarsi nelle formule generiche, far riferimento a “entità” più o meno misteriose, a “élite istitu-zionali e politiche” dietro le quali non si riesce mai a scorge-re né un nome né un volto. La conclusione più plausibile è che il grande complotto non sia mai esistito.

G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio stato, in G. Belardelli - L. Cafagna - E. Galli della Loggia - G. Sabbatucci, Miti e storia

dell’Italia unita, il Mulino, Bologna 1999

Giovanni Sabbatucci, È possibile parlare di “doppio Stato”?30

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in noi, sin dal nostro nascere; e che a nostra volta arricchiamo e facciamo sempre più complessa con la nostra esperienza, i nostri pensieri, i nostri affetti, per tramandarla ai figli e ai nipoti […]. Quando gli uomini abitanti in terra europea cominciarono a pensare se stessi e con sé la propria terra, come un qualcosa di essenzialmente diverso, per costumi, sentimenti, pensieri, degli uomini abitanti in altre terre al di là del Mediterraneo, sulla costa africana, per esempio, o al di là dell’Egeo e del Mar Nero in terra asiatica? Quando, cioè, il nome Europa co-minciò a designare non solo un complesso geografico, sì anche un complesso storico; non solo un determinato fattore

fisico, sì anche un determinato fattore morale, politico, reli-gioso, artistico della vita dell’umanità? E quali furono le caratteristiche con cui l’Europa si discoprì, moralmente, ai suoi figli; quali, cioè, i lineamenti che le furono attribuiti, come propri di essa e di essa sola? Questo è il problema […]. Dalla ricerca dei “fatti”, passiamo alla ricerca della “co-scienza” di tali fatti; quel che cerchiamo è quando siffatte caratteristiche siano state consapevolmente avvertite per tali dagli Europei?

F. Chabod, Storia dell’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari 1984

La memoria storica è il fondamento della rappresentazione dell’Europa, una volta venuta meno la sua divisione in due blocchi contrapposti, legati ciascuno alla propria ideologia: «La memoria collettiva è la memoria della storia. Ciò è vero, direi, come segno distintivo, per la memoria storica europea. Fuori di essa l’Europa non esiste. L’Europa non ha altro mezzo per riconoscersi».

È convinzione comune che gli eventi ai quali abbiamo assi-stito e partecipato negli ultimi tempi segnino per l’Europa

il momento, atteso e sperato, di un ricongiungimento. Quello che è accaduto è come il disvelamento di una fratellanza, il prorompere dal sottosuolo di una identità rimasta troppo a lungo celata o repressa. Nessuna parte dell’Europa potrà più essere, d’ora in avanti, com’era prima. L’immagine di un’Eu-ropa che ha ritrovato la propria compiutezza, rende desueti, in maniera più o meno marcata, i fattori intorno ai quali si erano venute aggregando e organizzando le due parti rimaste divise dalla tragica eredità della seconda guerra mondiale. Il “mercato” e l’“ideologia”, per più di quarant’anni, hanno, in un certo modo, surrogato, al di qua e al di là di un’assurda barriera, la più profonda e comune identità europea […]. Pen-so, comunque stiano le cose, che un ciclo storico si sia chiuso, o almeno si stia chiudendo: il ciclo quasi secolare della “guerra civile europea”. Vedo il ritorno a un punto perso nel

tempo, eppure mai del tutto smarrito: il ritorno, ricco di futu-ro, al senso di una comune memoria come all’unica autentica ragione che consente all’Europa di pronunciare il proprio no-me. La voce dell’Europa è in realtà, prima di tutto, la voce della sua memoria: una voce che viene dalle sue viscere, ma che è anche una promessa e una sfida.La memoria collettiva è la memoria della storia. Ciò è vero, direi, come segno distintivo, per la memoria storica europea. Fuori di essa l’Europa non esiste. L’Europa non ha altro mez-zo per riconoscersi. Non vi sono fattori naturali che la indivi-duino. Dal punto di vista geografico essa è l’appendice di un continente molto più vasto. Dal punto di vista etnico, essa è un crogiolo inestricabile di stirpi e di popoli diversi, spesso sovrapposti e mescolati. Dal punto di vista linguistico, è il trionfo di una varietà totalmente dispiegata. Non vi sono ele-menti che ne disegnino il profilo in maniera deterministica. Scriveva, nel secolo scorso, un grande spirito europeo, Jules Michelet, che «non vi è nulla di meno semplice, di meno na-turale, di più artificiale, vale a dire di meno fatale, di più umano e di più libero al mondo dell’Europa». L’Europa è da sempre un’immagine che si autorealizza, è una creazione del-la cultura umana: per questo essa attinge le proprie ragioni più profonde alla fonte della memoria storica. In un certo senso, la fisionomia dell’Europa è ritagliata sul profilo della sua autorappresentazione.

F. Traniello, La memoria storica, voce dell’Europa, in «Studium», n. 6, 1990

Francesco Traniello, La memoria storica europea32

L’esperta inglese di migrazioni Sarah Collinson traccia un quadro cronologico delle politiche migratorie europee tra il secondo dopoguerra e gli anni Novanta, distinguendo al suo interno tre momenti differenti: un primo periodo (1945-1973), caratterizzato da «politiche tese a facilitare o incoraggiare

l’immigrazione di forza lavoro su larga scala»; un secondo periodo (1973 - primi anni Ottanta), in cui si varano «politiche miranti a bloccare ogni ulteriore immigrazione di forza lavoro»; un terzo periodo (anni Ottanta-Novanta), nel quale si rafforzano tali «politiche migratorie restrittive».

Sarah Collinson, Le politiche europee dal dopoguerra agli anni Novanta33

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L’attuazione del Piano Marshall fu seguita nell’Europa del dopoguerra da una rapida ripresa economica e da più di

due decenni di continua crescita economica in tutti gli stati più industrializzati dell’Europa nord-occidentale. Questo fa-vorì una trasformazione della struttura dei modelli migratori interregionali e internazionali, poiché questi stati ampliarono progressivamente il raggio dei loro mercati del lavoro per sostenere la ricostruzione e lo sviluppo economico. Il model-lo di migrazione internazionale del lavoro che sorse in Europa durante gli anni cinquanta e sessanta può essere visto, per certi versi, come una ripresa e un’espansione dei modelli di migrazione di manodopera del periodo precedente la prima guerra mondiale. Ma mentre i flussi migratori di forza lavoro europei della fine dell’Ottocento e degli inizi del Novecento erano in larga misura limitati a regioni localizzate e a movi-menti tra paesi confinanti, i flussi del periodo postbellico in-teressarono fasce sempre più ampie – da riserve di manodo-pera contigue fino a paesi più lontani, come quelli che si af-facciano sul Mediterraneo e le antiche colonie.Agli inizi degli anni sessanta tutti i paesi altamente industria-lizzati dell’Europa nord-occidentale avvertivano ormai una carenza di forza lavoro in alcuni settori ed erano diventati importatori di manodopera. Anche se la forma, la dinamica e la logica dell’immigrazione differivano da un paese di acco-glienza all’altro, si possono tuttavia identificare alcune ten-denze comuni nei quattro decenni e mezzo che sono trascorsi dalla fine della guerra. Questo periodo si può a grandi linee suddividere in tre fasi in base all’orientamento generale delle politiche immigratorie predominanti: 1) dal 1945 al 1973, politiche tese a facilitare o incoraggiare l’immigrazione di forza lavoro su larga scala; 2) dal 1973 ai primi anni ottanta, introduzione di politiche miranti a bloccare ogni ulteriore im-migrazione di forza lavoro; 3) negli anni ottanta e novanta, rafforzamento di politiche migratorie restrittive e crescente preoccupazione per l’immigrazione illegale e per i flussi d’asilo. Gli ultimi dieci anni sono stati anche testimoni di nuo-

vi tentativi di raggiungere un certo grado di armonizzazione tra le politiche immigratorie dei paesi dell’Europa occidenta-le […].Benché negli anni 1945-1973 i fattori soggiacenti responsa-bili degli elevati livelli di immigrazione siano stati nel com-plesso simili in tutti gli stati di accoglienza europei, fu forse in questo periodo che le particolari politiche perseguite da ciascun paese manifestarono la maggiore diversità. Ciò che i vari stati avevano in comune era la domanda di manodopera, inizialmente connessa alla spinta verso la ripresa economica dagli anni dell’immediato dopoguerra, e in seguito legata al-le carenze settoriali di forza lavoro causate dalla rapida cre-scita economica. A mano a mano che le economie dell’Europa nord-occidentale si riprendevano e si espandevano, gli im-prenditori […] trovarono sempre più difficile attirare forza lavoro locale. Il riconoscimento esplicito dell’esistenza di questa domanda da parte dei governi e delle autorità statali […] si tradusse in politiche destinate a facilitare e incoraggia-re l’immigrazione di lavoratori provenienti da paesi meno sviluppati con un’eccedenza di manodopera […]. La crisi pe-trolifera del 1973 segnò una svolta nelle politiche immigra-torie del dopoguerra in Europa. Con il sopraggiungere della recessione economica, gli stati europei importatori di forza lavoro introdussero, ad uno ad uno, misure volte a chiudere le porte ad ogni ulteriore afflusso di lavoratori provenienti da territori esterni ai loro raggruppamenti economici regionali (Comunità economica europea, Associazione europea di libe-ro scambio). In quegli anni gli stranieri costituivano ormai almeno il 16% della popolazione totale in Svizzera, il 5% nella Repubblica federale tedesca, il 6,5% in Francia, il 7,5% in Gran Bretagna […], il 7% in Belgio e il 2% in Olanda. In ciascun caso una proporzione significativa di queste popo-lazioni immigrate proveniva da paesi extraeuropei.

S. Collinson, Le migrazioni internazionali e l’Europa, il Mulino, Bologna 1994

Uno studio statistico del 1979 mette in luce le caratteristiche quantitative dei fl ussi migratori tra gli anni Cinqu anta e gli anni Settanta, in particolare per quanto riguarda il continente europeo.

A partire dal 1950 si sono verificati importanti cambiamen-ti nella struttura delle migrazioni internazionali. Le tradi-

zionali migrazioni transoceaniche dall’Europa verso l’Ameri-ca del nord e del sud sono continuate, ma dal 1960 circa in poi, con la ripresa economica dell’Europa occidentale, le principali direzioni dei flussi migratori sono cambiate, riguar-dando ora movimenti dai paesi meno sviluppati verso quelli industrializzati. Queste recenti tendenze sono in larga misura un prodotto delle condizioni economiche e demografiche dif-ferenziate tra le nazioni più o meno sviluppate.

Si è stimato che a metà del 1974 circa 9,5 milioni di immi-granti provenienti dalle regioni meno sviluppate del mondo – Africa, Asia (ad esclusione del Giappone) ed America Latina – vivevano nei paesi industrializzati dell’Europa settentrionale ed occidentale, dell’America settentrionale e dell’Oceania. Nel 1960 ve ne erano soltanto 3,2 milioni circa; l’incremento attesta la rapida accelerazione di questo tipo di migrazione negli anni recenti […]. Inoltre si dovrebbe ricordare che tali stime sono senza dubbio prudenziali, perché non tengono in alcun conto gli immigrati illegali che sfuggono alle statistiche ufficiali […]. Un po’ più della metà (circa 5,3 milioni) di colo-ro che sono emigrati da regioni meno sviluppate verso regioni industrializzate risiedono nei paesi del Nuovo Mondo, in Ame-rica settentrionale ed Oceania. Sebbene la popolazione immi-grata di questi paesi sia ancora in prevalenza europea, fatto che riflette il carattere di passate migrazioni, recentemente la percentuale di immigranti dai paesi in via di sviluppo è in rapi-

Kingsley Davis, Dall’Europa dei migranti all’Europa degli immigrati34

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do aumento. Tale tendenza è stata più evidente in Canada e negli Stati Uniti che in Australia ed in Nuova Zelanda. Negli Stati Uniti, che hanno continuato ad ammettere più immigran-ti (in cifre assolute) di qualunque altro paese del mondo, la maggioranza degli immigranti proviene ora dall’America Lati-na e dall’Asia piuttosto che dall’Europa. Nel 1970-1974, il 70 per cento degli immigranti negli Stati uniti proveniva dalle re-gioni meno sviluppate; la cifra relativa al Canada era quasi del 40 per cento. Questo cambiamento della struttura delle mi-grazioni è in parte il risultato di un indebolimento delle barrie-re razziali e del maggior rilievo dato dai paesi di immigrazione ai requisiti professionali necessari all’ammissione piuttosto che alle origini nazionali.All’interno dell’Europa, si è sviluppato un grande volume di migrazioni a corto raggio ed in certa misura temporanee. Ciò consente ai paesi dell’Europa meridionale di esportare il loro surplus di manodopera nei paesi più industrializzati dell’Eu-ropa occidentale e settentrionale, dove si registra di norma una carenza di manodopera. Si è stimato che 5,5 milioni di immigranti provenienti dall’Europa meridionale vivevano nell’Europa occidentale e settentrionale nel 1974. Questi im-migrati provenivano soprattutto dalla vicina Turchia e dall’Africa settentrionale; tuttavia, più di un milione di quelli

residenti nel Regno Unito era originario di paesi del Common-wealth. Le migrazioni in Europa settentrionale ed occidentale dall’Europa meridionale e da altri continenti sono il larga mi-sura un fenomeno recente; stime relative al 1960 registrava-no la presenza di soli due milioni di immigrati dall’Europa meridionale e di un milione da regioni in via di sviluppo, qua-si tutti residenti in Francia e nel Regno Unito.In seguito alla diminuzione dell’emigrazione europea oltreo-ceano ed all’arrivo nel vecchio continente di un gran numero di immigranti dai paesi meno sviluppati, l’Europa ha abban-donato il suo ruolo tradizionale di esportatore netto di popo-lazione dopo il 1960. Mentre nel decennio 1950-1960 l’emi-grazione netta dall’Europa ammontava a circa 3 milioni di unità, negli anni Sessanta il saldo negativo fu virtualmente eliminato ed entro i primi anni Settanta i dati statistici indica-vano che si era volto in positivo. Durante gli anni Sessanta su tale bilancio influì il rimpatrio di circa un milione di europei, avvenuto quando le ex colonie africane ed asiatiche ottenne-ro l’indipendenza.

K. Davis, Andamento e caratteri delle migrazioni internazionali dal 1950, in Le migrazioni internazionali,

a cura di O. Arango, Teda, Castrovillari 1991

Giuseppe Mammarella e Paolo Cacace illustrano alcune diffi coltà e mutamenti “interni” vissuti dal progetto europeo negli anni Ottanta. In particolare, i due studiosi fanno riferimento alla politica antieuropeista della Gran Bretagna, alle prime elezioni del parlamento europeo del 1979 e al progressivo ingresso di nuovi membri.

I primi anni Ottanta sono rimasti nella cronaca come quelli dell’“europessimismo”. La definizione è giustificata se si

guarda alle realizzazioni, poche e di scarso rilievo, nella po-litica europeista e nello stato d’animo di chi ne aveva a cuore la causa. Diversa è la valutazione se si guarda a quegli anni in prospettiva, ponendo attenzione alle idee e ai fermenti che li caratterizzarono. Essi, più che a una fase di stagnazione e immobilismo, fanno pensare a un periodo di transizione tra la lunga crisi degli anni Settanta e il fervore di iniziative che, dalla seconda metà degli anni Ottanta, si estenderà a tutto l’ultimo decennio del secolo. Almeno fino al 1984 […] gran parte dell’attenzione della Comunità fu assorbita dal nego-ziato sul contributo finanziario della Gran Bretagna […]. «I want my money back» (“Rivoglio i miei quattrini”), aveva esordito Margaret Thatcher, arrivata alla guida del governo con la vittoria conservatrice del 4 maggio 1979. Eletta con un programma improntato al più rigoroso liberismo e ostile a ogni forma di statalismo, Lady Thatcher aveva subito manife-stato profonda diffidenza per le istituzioni europee. Lo scopo dichiarato del suo governo e della sua politica era quello di

restituire vitalità e prestigio al Regno Unito […]. Per il rag-giungimento di tale obiettivo il governo di Sua Maestà non avrebbe tollerato interferenze e condizionamenti: meno che mai dagli organismi della Comunità europea. Convinta che la Gran Bretagna pagasse un conto troppo salato per la sua par-tecipazione alla Comunità […] la Thatcher pose sul tappeto, alquanto brutalmente, la questione del contributo britannico al bilancio della CEE […].Un ulteriore motivo di paralisi in questa fase tormentata del-la vita della Comunità fu costituito da un avvenimento che, per altri aspetti, rappresentò invece una tappa storica nella lunga marcia verso l’unità europea: le prime elezioni a suf-fragio universale diretto del Parlamento di Strasburgo, svol-tesi il 7-10 giugno 1979 […]. Come tutti i Parlamenti, anche quello europeo si organizzava in gruppi […] ma le analogie con i Parlamenti nazionali erano più formali che sostanziali. Il Parlamento europeo nasceva senza una precisa caratteriz-zazione e una delle costanti della sua iniziativa fu la defini-zione di una propria identità e una graduale estensione dei propri poteri […]. Si trattava di trasferire a livello europeo le varie esperienze politiche, di amalgamarle in modo da costi-tuire gruppi e schieramenti in grado di rappresentare interes-si e programmi […] omogenei […]. Gli anni Ottanta videro l’ingresso di nuovi membri, della Grecia il 1° gennaio 1981, della Spagna e del Portogallo il 1° gennaio 1986, e una vera e propria proliferazione delle candidature: Turchia, Malta, Cipro, Austria […]. Complessi negoziati venivano condotti con la Spagna e il Portogallo, di particolare valore e significato sia per la posizione geografica dei due paesi sia per le loro vicende politiche. L’Europa comunitaria si estendeva a sud e

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attraverso la penisola iberica acquistava un ponte verso le nazioni dell’Africa settentrionale […]. Inoltre, i due paesi ibe-rici avrebbero potuto riequilibrare a sud il baricentro della Comunità, fino ad allora decisamente spostato verso il Nord dell’Europa […]. Sul piano politico, la Spagna e il Portogallo […] entravano nella comunità delle nazioni democratiche.Un periodo iniziato nel segno del più cupo pessimismo […], che aveva visto la cittadella della Comunità sottoposta al duplice

assalto delle contestazioni esterne, per opera del “ciclone Thatcher”, e interne per la proliferazione e la litigiosità della burocrazia di Bruxelles, si stava concludendo con indicazioni […] incoraggianti, legate alla nascita dell’“Europa dei Dodici”, un’entità, anche geograficamente, omogenea e coesa.

G. Mammarella - P. Cacace, Storia e politica dell’Unione Europea, Laterza, Roma-Bari 1998

In questo brano Francesco Privitera rifl ette sulla questione del risorgere dei nazionalismi nell’Est europeo, legandone la soluzione a un “autentico” processo di integrazione tra tali Paesi e le democrazie occidentali.

Il fenomeno del nazionalismo […] è ben presente, seppur in forme differenti, in tutte le realtà dell’Est europeo […]. Per-

ché dopo le grandi speranze dell’89 di una ricomposizione dell’Europa, questa sembra invece frantumarsi sotto il peso di odii quasi primordiali? Che cosa ha provocato il riemerge-re, in modo così prepotente, del nazionalismo? E come si può riportare la convivenza interetnica in aree come l’Europa centro-orientale e i Balcani […]? Molti studiosi […] hanno fi-nito per focalizzare la propria attenzione proprio sull’analisi del fenomeno “nazionalismo”, ricollegandolo ai mutamenti politici ed economico-sociali che tanto stanno incidendo sulla “transizione” all’Est e, al tempo stesso, ricercandone le ma-trici culturali. Ed è proprio quest’ultimo […] l’aspetto più […] inquietante […], perché mostra una carica in grado di propa-garsi alle società occidentali rendendole fragili di fronte a fenomeni quali […] la xenofobia e il separatismo violento. Ritrovare le origini culturali del nazionalismo all’Est, signifi-ca […] ripercorrere le diverse esperienze storiche di questi popoli […]. Diviene allora difficile sostenere ancora la tesi del “vaso di Pandora” (ossia che tutti i fenomeni attualmente in corso all’Est sono il risultato di una sorta di “disgelo” dopo la “glaciazione” comunista che li aveva inibiti). Al contrario […] esiste uno stretto legame fra il comunismo così come si è caratterizzato nelle singole realtà dell’Est […]. Le guerre che

stanno sconvolgendo alcuni dei paesi ex comunisti sono in-nanzitutto “guerre del ricordo”, ossia sono il […] tentativo (vano) di recuperare una storia nazionale depurata da qual-siasi “contaminazione esterna” […]. I popoli dell’Est stanno compiendo […] questa operazione di “pulizia storica”, dimen-ticando volutamente il loro passato comunista, per creare una nuova “eredità storica” veramente “autentica”: quella nazionale […]. È necessario […] ritornare a una visione com-plessiva del passato […] anche per educare i cittadini dell’Ovest a pensare e a immaginare l’Europa come qualcosa di più vasto che non la semplice Comunità Europea […].Il modello europeo occidentale del benessere non ha sempli-cemente una valenza economica, ma anche culturale. Inte-grarsi nell’Europa – secondo questo modello – significa tra-sformarsi da nazioni arretrate in nazioni ricche e civili […]: questo termine implica l’acquisizione di un grado di civiltà superiore che si ritiene posseduto solo dall’Occidente. Signi-fica […] potersi trasformare in realtà democratiche (in quanto democrazia è sinonimo di civiltà e viceversa). Uno dei luoghi comuni più diffusi nell’Est europeo è che fino a quando non ci sarà benessere non ci sarà nemmeno democrazia, quasi che la democrazia sia un lusso da paesi ricchi […]. Da parte sua il nazionalismo si presenta come una forza in grado di possede-re le necessarie credenziali per guidare questa rincorsa alla modernizzazione e all’Europa […]. Tocca anche all’Occidente intervenire se non si vuole che i vari nazionalismi […] finiscano per prendere definitivamente il sopravvento.

F. Privitera, Le crisi dell’Est viste dall’Est, in L’Europa orientale e la rinascita dei nazionalismi, a cura di F. Privitera,

Guerini e Associati, Milano 1994

Francesco Privitera, I nazionalismi dell’Est, problema europeo36

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