PROCESSO PENALE E GIUSTIZIA

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PROCESSO PENALE E GIUSTIZIA Diretta da Adolfo Scalfati 3-2017 Comitato di direzione: Ennio Amodio, Mar Jimeno Bulnes, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb, Sergio Lorusso, Cristina Mauro, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Stephen C. Thaman G. Giappichelli Editore – Torino Processo penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 – Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati La tutela dell’identità informatica nel processo penale The defense of personal identity in criminal trial Indagini difensive e giudizio abbreviato Defence investigations and shortened proceedings L’interesse ad impugnare la sospensione condizionale disposta d’ufficio The interest to appeal the conditional suspension not requested L’acquisizione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento Collection of telephone records concerning Members of Parliament Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio” Obligation to state reasons and reasonable doubt

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PROCESSO PENALE E GIUSTIZIADiretta da Adolfo Scalfati 3-2017

Comitato di direzione:Ennio Amodio, Mar Jimeno Bulnes, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb, Sergio Lorusso, Cristina Mauro, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Stephen C. Thaman

G. Giappichelli Editore – TorinoProcesso penale e Giustizia: Rivista telematica bimestrale pubblicata da G. Giappichelli s.r.l. – Registrazione Tribunale di Torino n. 2/2015 – ISSN 20394527 – Direttore Responsabile Prof. Adolfo Scalfati

La tutela dell’identità informatica nel processo penaleThe defense of personal identity in criminal trial

Indagini difensive e giudizio abbreviato

Defence investigations and shortened proceedings

L’interesse ad impugnare la sospensione condizionale disposta d’uf�cioThe interest to appeal the conditional suspension not requested

L’acquisizione dei tabulati telefonici riferibili a membri del ParlamentoCollection of telephone records concerning Members of Parliament

Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio”Obligation to state reasons and reasonable doubt

Diretta da Adolfo Scalfati 3-2017

G. Giappichelli Editore – Torino

PROCESSOPENALE E GIUSTIZIA

Comitato di direzione:Ennio Amodio, Mar Jimeno Bulnes, Giuseppe Di Chiara, Paolo Ferrua, Giulio Garuti, Luigi Kalb, Sergio Lorusso, Cristina Mauro, Mariano Menna, Gustavo Pansini, Francesco Peroni, Stephen C. Thaman

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Comitato di direzione

Ennio Amodio, professore di procedura penale, Università di Milano StataleMar Jimeno Bulnes, professore ordinario di diritto processuale, Università di BurgosGiuseppe Di Chiara, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo Paolo Ferrua, professore di procedura penale, Università di Torino Giulio Garuti, professore ordinario di procedura penale, Università di Modena e Reggio Emilia Luigi Kalb, professore ordinario di procedura penale, Università di Salerno Sergio Lorusso, professore ordinario di procedura penale, Università di FoggiaCristina Mauro, professore ordinario di Scienze criminali, Università di PoitiersMariano Menna, professore ordinario di procedura penale, Seconda Università di Napoli Gustavo Pansini, professore di procedura penale, Università di Napoli SOB Francesco Peroni, professore ordinario di procedura penale, Università di Trieste♱Giorgio Santacroce, primo presidente della Corte di cassazioneStephen C. Thaman, professore emerito di diritto processuale penale comparato, Università di Saint Louis

Coordinamento delle Sezioni

Teresa Bene, professore associato di procedura penale, Seconda Università di Napoli Maria Elena Catalano, professore associato di procedura penale, Università dell’InsubriaPaola Corvi, professore associato di procedura penale, Università Cattolica di PiacenzaDonatella Curtotti, professore ordinario di procedura penale, Università di FoggiaMitja Gialuz, professore associato di procedura penale, Università di Trieste Vania Maffeo, professore associato di procedura penale, Università di Napoli Federico IICarla Pansini, professore associato di procedura penale, Università di Napoli ParthenopeNicola Triggiani, professore associato di procedura penale, Università di Bari “Aldo Moro”Cristiana Valentini, professore associato di procedura penale, Università di Ferrara Daniela Vigoni, professore associato di procedura penale, Università di Milano Statale

redazione

Gastone Andreazza, magistrato – Fulvio Baldi, magistrato – Antonio Balsamo, magistrato – Giuseppe Biscar-di, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Orietta Bruno, ricercatore di pro-cedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Lucio Camaldo, professore associato di diritto proces-suale penale, Università di Milano Statale – Sonia Campailla, ricercatore di diritto dell’Unione europea, Università di Roma Tor Vergata – Laura Capraro, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Assunta Cocomello, magistrato – Marilena Colamussi, ricercatore di procedura penale, Universi-tà di Bari “Aldo Moro” – Antonio Corbo, magistrato – Gaetano De Amicis, magistrato – Alessandro Diddi, ri-cercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Ada Famiglietti, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Rosa Maria Geraci, ricercatore di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Paola Maggio, ricercatore di procedura penale, Università di Palermo – Antonio Pagliano, ricercatore di procedura penale, Seconda Università di Napoli – Giorgio Piziali, magistrato – Roberto Puglisi, dottore di ricerca in procedura penale, Università di Roma Tor Vergata – Alessia Ester Ricci, assegnista di ricerca in diritto processuale penale, Università di Foggia – Nicola Russo, magistrato – Alessio Scarcella, magistrato – Elena Zanetti, ricercatore di procedura penale, Università di Milano Statale

Peer review

La “revisione dei pari” garantisce il livello qualitativo dei contenuti della Rivista. La valutazione viene compiuta tenendo conto della fisionomia tradizionale dei generi letterari (Articolo e Nota), misurandone la chiarezza espositiva, i profili ricostruttivi, il grado di ricerca, la prospettiva critica e le soluzioni interpretative offerte. La verifica è effettuata a rotazione da due professori ordinari di discipline corrispondenti o affini alle materie oggetto dei lavori, i quali esprimono un giudizio sulla meritevolezza o meno della pubblicazione dei contributi. Nell’ipotesi di valutazioni contrastanti tra i revisori, detto giudizio è rimesso al Direttore della Rivista.Il controllo avviene in forma reciprocamente anonima. I contenuti editi nella Sezione denominata “Scenari” non sono soggetti a revisione.

Peer reviewerS

Enrico Mario Ambrosetti, professore ordinario di diritto penale, Università di Padova Alessandro Bernasconi, professore ordinario di procedura penale, Università di Brescia Piermaria Corso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale Agostino De Caro, professore ordinario di procedura penale, Università del Molise Mariavaleria del Tufo, professore ordinario di diritto penale, Università di Napoli SOB Marzia Ferraioli, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma Tor Vergata Carlo Fiorio, professore straordinario di procedura penale, Università di Perugia Novella Galantini, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Statale Maria Riccarda Marchetti, professore ordinario di procedura penale, Università di Sassari Oliviero Mazza, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Bicocca Paolo Moscarini, professore ordinario di procedura penale, Università di Roma LUISS Angelo Pennisi, professore di procedura penale, Università di Catania Tommaso Rafaraci, professore ordinario di procedura penale, Università di Catania Antonio Scaglione, professore ordinario di procedura penale, Università di Palermo Andrea Scella, professore ordinario di procedura penale, Università di UdineGianluca Varraso, professore ordinario di procedura penale, Università di Milano Cattolica

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SOMMARIO

Sommario

Editoriale | Editorial ANTONELLA MARANDOLA La tutela dell’identità personale (informatica), anche del soggetto coinvolto in un processo penale / The defense of personal identity (computer science), also of the person involved in a criminal trial 371

Scenari | Overviews Novità legislative interne / National legislative news (FEDERICO LUCARIELLO) 381

Novità sovranazionali / Supranational news (MARINA TROGLIA) 386

De jure condendo (DANILA CERTOSINO) 389

Corti europee / European Courts (MARCELLO STELLIN) 391

Corte costituzionale (LAURA CAPRARO) 399

Sezioni Unite (TERESA ALESCI) 403

Decisioni in contrasto (PAOLA CORVI) 412

Avanguardie in giurisprudenza | Cutting Edge Case Law La Corte proscioglie per tenuità del fatto applicando lo jus superveniens

Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 2 dicembre 2016, n. 51615 – Pres. Ippolito; Rel. Bassi 415

La particolare tenuità del fatto nel giudizio di Cassazione / The particular tenuity of the fact in the judgement of the Supreme Court of Cassation (NATALIA ROMBI) 422

È precluso acquisire indagini difensive durante il giudizio abbreviato “incondizionato”

Corte di Cassazione, Sezione IV, sentenza 15 novembre 2016, n. 51950 – Pres. Blaiotta, Rel. Gianniti 433

Il difficile raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato / The difficult question of defence investigations and shortened proceedings (GIUSEPPE TABASCO) 438

Sospensione condizionale della pena nella condanna alla sola ammenda: impugnabilità del beneficio non richiesto

Corte di Cassazione, Sezione III, sentenza 25 febbraio 2016, n. 48569 – Pres. Grillo; Rel. Socci 450

L’interesse ad impugnare la sospensione condizionale disposta d’ufficio: un illuminato arresto della Corte / The interest to appeal the sentence that grants the conditional suspension not requested: an innovative stare decisis of the S.C. (GASPARE DALIA) 453

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SOMMARIO

Consentita in appello la provvisionale alla parte civile non impugnante

Corte di Cassazione, Sezioni Unite, sentenza 15 dicembre 2016, n. 53153 – Pres. Canzio; Rel. Montagni 460

Provvisionale disposta in appello senza gravame della parte civile / A provisional reim-bursement may be granted or amended for the first time from the Court of appeal judge without the notice of objection from civil part (FEDERICA CASASOLE) 470

Alt all’acquisizione di tabulati relativi a colloqui telefonici di parlamentari senza l’assenso della Camera competente

Corte di Cassazione, Sezione VI, sentenza 22 novembre 2016, n. 49538 – Pres. Paoloni; Est. Corbo 476

L’acquisizione e l’elaborazione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento: vecchie questioni di diritto sostanziale e nuove querelles processuali / Collection and ana-lysis of telephone records concerning Members of Parliament: old questions of substantive law and new procedural querelles (DONATELLA CURTOTTI) 494

Dibattiti tra norme e prassi | Debates: Law and Praxis Il d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202: un ulteriore ampliamento della confisca di estrazione eu-ropea, tra le “solite” novità e i mancati adeguamenti / The legislative decree of october 29, 2016, n. 202: another extension of confiscation coming from Europe, between the classics "innova-tions" and missed adaptations (FRANCESCO VERGINE) 504 Interessanti puntualizzazioni in materia di avocazione facoltativa / Interesting clarifications re-garding the rule provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure (MARIA LUCIA DI

BITONTO) 514

Analisi e prospettive | Analysis and Prospects Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio” / Obligation to state reasons and reasonable doubt (PIERPAOLO DELL’ANNO) 522 La prova scientifica nel processo penale spagnolo: un nuovo volto istruttorio / The Scientific Evidence in the Spanish criminal proceedings: a new way to proof (ANA SÁNCHEZ RUBIO) 531

Indici | Index Autori / Authors 540

Provvedimenti / Measures 541

Materie / Topics 542

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EDITORIALE | LA TUTELA DELL’IDENTITÀ PERSONALE (INFORMATICA), ANCHE DEL SOGGETTO COINVOLTO IN UN PROCESSO

Editoriale | Editorial

ANTONELLA MARANDOLA

Professore ordinario di Procedura penale – Università degli Studi L.U.M. Jean Monnet

La tutela dell’identità personale (informatica), anche del soggetto coinvolto in un processo penale The defense of personal identity (computer science), also of the person involved in a criminal trial

È caratteristica principale della nuova era dell’informatizzazione quella di fornire, anche attraverso Internet, delle informazioni immediate, anche giudiziarie, che hanno una diffusività capillare. Non è raro che il fenomeno si estenda anche alle notizie riguardanti una persona che, direttamente o indirettamente, può essere coinvolta in un procedimento penale. Il lavoro cerca di affrontare i problemi che l’ingresso di informazioni di questo tipo, di natura permanente, provoca e individuare una nuova categoria giuridica come quella delle informazioni sull’identità per-sonale, quale “proiezione sociale” in ragione della quale richiedere, quando nocive, se non la rimozione, il loro ag-giornamento e adeguamento. The main feature of the new era of computerization to provide, including through the Internet, the immediate in-formation, including legal ones, which have a capillary diffusivity. It is not uncommon that the phenomenon also extends to news about a person who, directly or indirectly, may be involved in a criminal case. The paper at-tempts to address the problems that the input of information of this kind, of a permanent nature, causes and find a new legal category as that of the information of personal identity, as the projection "social projection" in which reason does not apply if removing, updating and adapting.

LA DIFFUSIVITÀ DELLE INFORMAZIONI, ANCHE GIUDIZIARIE

È tendenza del processual-penalista quella di concentrare la propria attenzione su temi che ineriscono strettamente al processo. Se ciò è del tutto naturale, è altrettanto vero che proprio quest’ultimo vive e risente del tempo nel quale si colloca.

Non v’è dubbio, infatti, che il processo e i soggetti che ne sono coinvolti subiscono, nell’ambito della nuova era globalizzata, anche un coinvolgimento “tecnologico” e non solo mediatico del fenomeno del-lo sviluppo tecnologico.

È fin troppo noto che l’aumento di quest’ultimo ha comportato – parallelamente – un enorme incremen-to dell’informazione, anche giudiziaria. Quest’ultima si realizza, infatti, tanto attraverso una pluralità di strumenti (telefonini, tablet, personal computer), quanto per mezzo della loro capacità di diffusione – po-tendo raggiungere un numero sempre maggiore di destinatari – e per la capacità di conservazione – in un tempo indeterminato – delle notizie data l’ampia diffusione di quanto inserito/raccolto, prospettando così non pochi profili di necessaria tutela e di possibile pregiudizio per la persona alla quale fanno capo e che meritano, soprattutto quando coinvolgono aspetti processuali, un’attenta riflessione.

Al di là della grande eco prodotta dalla recente condanna per diffamazione irrogata dalla Cassazio-ne anche a carico del provider attraverso il quale il reato è stato commesso 1, a convalidare l’assunto ap-

1 V., per tutti, G. Stea, La responsabilità penale dell’internet provider, in Giurisprudenza penale web, 2016, 11, p. 1 ss.

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pena prospettato soccorre, non casualmente, seppur sotto un diverso profilo, l’interrogativo che ha im-pegnato la giurisprudenza di legittimità sul fatto se la sentenza di condanna, che deve essere pubblicata quale pena accessoria ai sensi dell’art. 36 c.p., riveli un risvolto maggiormente pregiudizievole se diffu-sa attraverso un giornale o se inserita in un sito internet. Al riguardo, in relazione alla modifica interve-nuta in materia (d.l. 6 luglio 2011, n. 98, conv. in l. 15 luglio 2011, n. 1111) che ha previsto la pubblica-zione delle sentenze di condanna nel sito internet del Ministero della Giustizia, si è univocamente so-stenuto che quest’ultima costituisce una misura, ancorché più economica, ma maggiormente afflittiva rispetto ad una pubblicazione sul giornale, escludendo, così, la retroattività della nuova disciplina 2, ma facendo emergere il rilievo e l’importanza dell’accennato fenomeno.

Sotto un diverso aspetto, deve constatarsi come non sono poche le vicende giudiziarie che, per varie ragioni, in forza della natura del fatto ovvero della notorietà dei soggetti coinvolti (protagonisti delle vicende politiche o personaggi pubblici, sotto vario profilo), sono destinate a catturare mediaticamente l’attenzione dell’opinione pubblica. I fatti che spesso li coinvolgono, ricevono una attenzione partico-larmente incisiva da parte della stampa e dai media, in generale. Così, fra le differenti vicende che quasi quotidianamente si avvicendano nei diversi mezzi mediatici (giornali, siti web, trasmissioni radiofoni-che), particolare attenzione e interesse ha destato il tragico epilogo della vicenda di Tiziana Cantone che, a causa del diniego alla sospensiva del mantenimento sulla rete di un video hard che la vedeva pro-tagonista e con la quale rivendicava il diritto all’oblio – ma negata dai magistrati in ragione dell’ormai raggiunta diffusività del dato – si è tolta la vita. Il gravoso fatto, com’è noto, ha dato avvio, in sede pe-nale, ad un procedimento per istigazione al suicidio.

Ora, tralasciando i profili più strettamente penali, considerato dal punto di vista dell’impego di que-sti “nuovi” strumenti di conoscenza, il dato relativo all’informazione giudiziaria non assume – in fondo – una significativa differenziazione, se non in relazione all’area di incidenza, per cui diventa difficile di-stinguere le situazioni “nazionali” da quelle locali o ricondotte in ambiti territoriali più ristretti. Certa-mente, queste ultime si caratterizzano anche – ma non sempre – per la loro più circoscritta attenzione nel tempo, ancorché non si possa escludere un loro “recupero” nei contesti più ampi del fenomeno (si pensi, senza carattere esaustivo, ai diffusi fenomeni di stalking, femminicidio, bullismo), ovvero in rela-zione agli sviluppi delle indagini e del processo in sede dibattimentale ovvero all’atto della decisione. Pur con questa precisazione, la questione qui affrontata non pare destinata a subire, poi, differenziazio-ni qualitative, ma solo quantitative, e a coinvolgere aspetti giuridicamente variegati (civili, penali e amministrativi).

Ebbene, se l’impatto informativo della carta stampata è fisiologicamente significativo, l’amplificazio-ne dell’evento attraverso il circuito radiofonico, ma soprattutto quella operata attraverso il mezzo me-diatico e quello televisivo, in particolare, è rilevantissimo, risultando entrambi i casi rafforzati dall’evi-denza (breaking news), dalla capillarità della diffusione, dalla reiterazione della notizia, dall’ordine in cui essa trova spazio nei palinsesti, dal permanere “in prima pagina” per un periodo più o meno significa-tivo, comunque spesso tale da lasciare una traccia marcata nella memoria, in una dimensione soggetti-va ed oggettiva molto diffusa e radicata.

Si tratta, spesso, di immagini che sono frequentemente e insistentemente ripetute nel tempo, attra-verso programmi appositamente predisposti e che, più recentemente, sono accompagnati, da video di atti investigativi connotati dal “logo” (rectius dai marchi dell’autorità di polizia giudiziaria) che ha svol-to le indagini.

È consuetudine, ormai, che vengono diffuse immagini, anche nei differenti portali internet, dei sog-getti coinvolti, delle fotografie dei luoghi e delle situazioni accompagnate da commenti ed interviste (si pensi, da ultimo, a quanto è avvenuto per il tragico evento della valanga caduta sull’hotel di Rigopiano nel quale hanno perso la vita 29 persone).

Si tratta spesso di “spezzoni” che vengono successivamente riproposti – quasi sempre (ossessiva-mente) negli stessi termini, ma anche con una selezione “mirata” – in relazione agli sviluppi delle inda-gini – e che si completano con le successive informazioni e immagini dei protagonisti in relazione a momenti significativi della vicenda (arresti, interviste ai legali in occasione di significativi passaggi pro-cessuali, udienze, momenti decisionali). In alcuni casi, poi, la particolarità del caso dà luogo ad appro-

2 Fra le altre, Cass. Sez. II, 14 aprile 2016, n. 18728, in Dir. e Giust., 6 maggio 2016; Cass. Sez. II, 12 gennaio 2016, n. 4102, in C.E.D. Cass., n. 267285; Cass. Sez. III, 2 luglio 2014, Floris ivi, n. 260979; Cass. Sez. III, 8 maggio 2013, P.G. in proc. Giordano, ivi, n. 257218.

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fondimenti mirati, ricostruzioni dei fatti, interventi delle persona offesa, di avvocati, di psicologi, di criminologi e quant’altro. Si tratta di elementi peraltro noti a tutti, sui quali non appare necessario sof-fermarsi ulteriormente. Le implicazioni di queste situazioni – note come “processo mediatico” – sono anch’esse molto conosciute e sono state, da tempo, approfondite 3, evidenziando le comuni patologie come la diffusione di materiale coperto dal segreto o irrilevante, il condizionamento sociale in ordine alla responsabilità degli indagati, il pregiudizio sugli sviluppi procedimentali (con incrinatura della presunzione di non colpevolezza), il progressivo ridimensionamento del clamore mediatico, rivitalizza-to in occasione dei passaggi processuali rilevanti, la marginalità dell’attenzione man mano che la vi-cenda si avvia al suo epilogo e la caduta di rilievo rispetto alla decisione definitiva di condanna e/o di proscioglimento, salvo alcuni casi particolarmente significativi (si pensi, da ultimo, alla recente con-danna irrogata in via definitiva dalla Cassazione a carico degli autori dell’omicidio di Sara Scazzi).

Già in quest’ultimo aspetto si coglie, come si è visto e salve eccezioni, un deficit di tutela: ampio ap-pare lo scarto tra l’attenzione iniziale (molto forte e aggressiva) e l’esito finale (soprattutto se favorevo-le) ma anche intermedio dell’accertamento penale, spesso relegato a poche righe (in cronaca) senza con-siderare l’assoluta mancanza di strumenti di rimozione o di superamento della vicenda previsti dal si-stema anche a favore dei condannati [casellario/riabilitazione/indulti/estinzione dei reati].

Ad alcune di queste situazioni patologiche dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – porre parziale rimedio l’attuazione della recente direttiva in tema di presunzione di non colpevolezza (Direttiva 2016/343/UE) la quale, con riferimento all’informazione, prescrive agli Stati membri di adottare le mi-sure necessarie per garantire che, nel fornire le notizie ai mass media, le dichiarazioni rilasciate dalle pubbliche autorità e le decisioni giudiziarie, diverse da quelle sulla colpevolezza, non presentino l’in-dagato o l’imputato come colpevole, fino a che la sua responsabilità non sia stata legalmente accertata.

Certamente l’attuazione del testo sovranazionale implicherà un ripensamento della prassi ormai fre-quente di tenere da parte dell’autorità, anche di polizia, delle conferenze stampa non appena conclusa l’operazione che ha assicurato i soggetti coinvolti nel blitz o quelle tenute dai Procuratori della Repub-blica, non sempre rispettose di quanto preteso dall’art. 5 d.lgs. 20 febbraio 2006, n. 106, in tema di rego-lamentazione dei rapporti tra Ufficio del Pubblico Ministero ed organi di stampa.

Sotto tale aspetto, è interessante osservare come tali attività abbiano avuto un intenso sviluppo pro-prio nell’ambito della più recente e tragica vicenda del crollo dell’albergo di Rigopiano, tanto da indur-re non soltanto l’inquirente titolare delle indagini a tenere una conferenza stampa, ma a produrre l’av-vio di metodiche analoghe, vale a dire di carattere “mediatico”, da parte della difesa che, in via “pre-ventiva”, si è vista costretta a convocare la stampa per diffondere l’attività investigativa (difensiva) fi-nora svolta, anche per “neutralizzare” il pregiudizio già subito da alcuni soggetti, coinvolti anche sul piano della (potenziale) responsabilità penale, per quanto – si badi – non ancora ufficialmente indagate.

IL PERMANERE DELLA MEMORIA

Invero, nei tempi passati la vicenda processuale richiedeva una attività di ricerca non agevole: bisogna-va risalire al tempo, ai tempi e al luogo del fatto. Tutto ciò richiedeva – con esclusione per chi svolgeva questa attività per impegno professionale – disponibilità, capacità, determinazione, facoltà di accesso agli strumenti destinati alla conservazione della memoria.

Con l’informatizzazione una tale prassi è radicalmente cambiata. L’episodio pur risalente e remoto, in qualsiasi modo concluso, è suscettibile di rivivere e di essere rivissuto. Spesso rivive ed è rivissuto nelle immagini del passato, anche se è superato dagli sviluppi successivi. In altri termini, il puntum do-lens è che l’episodio resta e resiste nel tempo, ma soprattutto, non necessariamente esso risulta definito in tutti i suoi sviluppi, ma solo nelle premesse e nei suoi passaggi significativi (arresti, udienze, decisioni).

Ebbene gli interrogativi che questa situazione solleva, anche al fine di tutelare colui che – a vario ti-tolo – vi è coinvolto, non sono pochi.

Invero, sul piano processuale non v’è dubbio che molte sono le previsioni endoprocedimentali – non sempre rigorosamente osservate, anzi, troppo spesso violate, nel nome di un malinteso diritto di crona-ca – che tendono a tutelare i protagonisti (e i comprimari) del processo: segreti istruttori, riti camerali,

3 V., per tutti, G. Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989; N. Triggiani, Giustizia penale e informazione. Le pubbli-cazioni di notizie, atti e immagini, Padova, 2012.

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udienze a porte chiuse, diffusioni schermate di immagini, garantite modalità di esecuzione dei provve-dimenti restrittivi (art. 277 c.p.p., in materia cautelare; traduzioni penitenziarie ex art. 42-bis ord. penit. e 32, comma 1, reg. pen. europeo) e divieti di pubblicazione di immagini (art. 114, comma 6-bis c.p.p.), al di là di quanto previsto per i soggetti deboli (minorenni) e vulnerabili (donne), ci ricordano come il te-ma, da sempre, sia stato oggetto di particolare attenzione da parte del legislatore.

Del pari, com’è noto, sono, peraltro, già previsti alcuni strumenti riparativi e risarcitori a favore delle persone “assolte” ed in alcuni casi anche a favore dei condannati (riparazione per l’ingiusta detenzione; riparazione per l’errore giudiziario; rifusione di spese e di danni da parte del querelante per le attività colpose; indennizzi per la durata non ragionevole del processo). Altri rimedi (il rinvio va ad alcune proposte di legge ancora in embrione) compensativi potranno essere predisposti per la rifusione delle spese difensive e sarà possibile prevedere la pubblicazione della sentenza di proscioglimento. A seguito della sentenza della Cedu Torreggiani, nell’ambito della c.d. legislazione svuota carceri, sono stati, inol-tre, previsti significativi rimedi a favore di chi ha subito una condizione restrittiva degradante (sconti di pena; remunerazione monetaria) (v., d.l. n. 92/2014, conv. in l. n. 117/2014). Al riguardo, va considera-to anche quanto previsto nell’art. 35 ter ord. penit. 4 e, infine, il fatto che, a seguito della condanna da parte della Corte Europea Diritti dell’Uomo, anche la violazione delle regole processuali interne può dar luogo ad una equa soddisfazione (art. 41 CEDU).

Ciò premesso, tuttavia, quello che qui si intende portare all’attenzione si colloca, in verità, in una dimensione diversa e più ampia qual è quella del “pregiudizio” derivante a quei soggetti dal punto di vista “informatico”.

Invero, nel passato si affermava che la perdita di rilievo della vicenda avrebbe condotto al definitivo oblio dell’episodio: d’altro canto il diritto alla cancellazione del dato è riconosciuto nell’ambito dello stesso Regolamento Generale sulla Data protection (art. 17) 5. Come ha recentemente affermato il giudice di legittimità (civile) costituisce, infatti, illecito trattamento dei dati personali, il mantenimento on line di un articolo, pubblicato anni prima, che dava conto della sussistenza di un procedimento penale 6. In particolare, l’interessato lamentava il tratto illecito nel «mantenimento del diretto e agevole accesso» al servizio e la Corte ha affermato che la presenza in rete equivale a una costante pubblicazione che de-termina, in breve tempo, il venir meno dell’interesse pubblico nei confronti della vicenda, e il prevalere, dunque, del diritto soggettivo privato, come ha sempre riconosciuto l’attribuzione del diritto all’oblio 7.

Tuttavia, se l’interesse della persona al trattamento può prevalere sull’interesse economico del ge-store del motore di ricerca, si sottolinea come il bilanciamento può dipendere dalla natura dei dati e dall’interesse del pubblico ad accedere a specifiche informazioni: è chiaro che l’interesse pubblico alla non deindicizzazione sarà da tenere in maggiore considerazione nel caso in cui si verte attorno a fatti di carattere processuali, o, ad esempio, l’interessato al trattamento ricopra un ruolo pubblico 8.

Per quel che ci riguarda, deve riscontrarsi, tuttavia, come il tradizionale diritto all’oblio, pare aver progressivamente lasciato il campo ad un diverso aspetto qual è il diritto del soggetto di attivarsi per ottenere una “informazione storicamente corrispondente” [art. 6, lett. c) e d) della Direttiva 95/46 i dati personali devono essere esatti e, se necessario, aggiornati] 9.

DAL DIRITTO ALL’OBLIO AL DIRITTO ALL’INFORMAZIONE “AGGIORNATA”

Una sintetica lettura del fenomeno in esame lascia trasparire, dunque, come, superato il tradizionale concetto del diritto all’oblio, debba essere attribuito alla persona pregiudicata dalla diffusione della no-

4 Sui contorni di questa previsione in relazione anche ai condannati all’ergastolo; da ultimo, C. cost., sent. 21 luglio 2016, n. 204. 5 V., sul punto, A. Pisapia, Per una quantificazione economica della lesione del diritto all’oblio, in Quest. Giust., 2017, f. 1, p. 89. 6 Cass. civ., sez. I, 24 giugno 2016, n. 13161, in Foro it., 2016, I, p. 2734 con nota di R. Pardolesi, Diritto all’oblio, cronaca in

libertà vigilata e memoria storica a rischio soppressione. 7 Quanto alla nozione, v. V. Zeno-Zencovich, Una svolta giurisprudenziale nella tutela della riservatezza, in Dir. dell’informazione e

dell’informatica, 1986, I, p. 934 ss. Quanto alle due diverse “anime” del concetto, quella eurounitaria e quella domestica, conver-genti solo sul piano della centralità del tempo, v., da ultimo, R. Pardolesi, L’ombra del tempo e (il diritto al)l’oblio, in Quest. Giust., 2017, f. 1, p. 76 ss.

8 V., anche, R. Pardolesi, L’ombra del tempo e (il diritto al) l’oblio, cit., p. 79. 9 Trattasi della c.d. “improprietà diacronica sopravvenuta”: così, R. Pardolesi, op. cit., p. 78.

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EDITORIALE | LA TUTELA DELL’IDENTITÀ PERSONALE (INFORMATICA), ANCHE DEL SOGGETTO COINVOLTO IN UN PROCESSO

tizia, il diritto alla derubricazione delle informazioni rinvenibili (anche in internet) che lo riguardano: quello che – data la diffusività dell’informazione – può essere rivendicato è, in altri termini, il suo “ri-dimensionamento”, così da farle assumere il peso che l’episodio può avere nella intera vicenda esisten-ziale di una persona.

Più che la completa dimenticanza o la totale rimozione di un episodio che ha perso la sua attualità, quello che può essere fatto valere è, dunque, la sua corretta collocazione “storica” e la sua completezza.

Così, in un caso risalente in cui l’interessato lamentava la reperibilità di una pagina web contenente informazioni relative ad una vicenda di cronaca risalente al 2006/2007 che lo ha visto imputato per ipo-tesi di reato riguardanti rapporti sessuali con minori, imputazioni dalle quali era stato assolto nel 2009 e per il quale Google riteneva, tuttavia, che tali informazioni fossero ancora di pubblico interesse, il Ga-rante italiano, ritenendo che la diffusione in oggetto riguarda dati personali relativi ad abitudini sessua-li riferite ad una determinata persona identificata o identificabile, ha ritenuto che la diffusione del com-mento contenuto nel link oggetto di reclamo ledesse la sfera privata del reclamante ed ha richiesto a Google Inc. di procedere alla relativa deindicizzazione. È questo, a nostro avviso, il passaggio fonda-mentale a cui si sta assistendo: quello che sembra, infatti, farsi largo, rispetto al tradizionale istituto dell’oblio e del diritto alla privacy, è il differente e autonomo diritto all’“identità personale e morale”, in-teso quale diritto al riconoscimento e alla tutela della corretta rappresentazione dell’immagine sociale e – aggiungiamo – giuridica-mediatica del soggetto nell’ambito di un nuovo spazio del web e dei mezzi informatici a larghissima diffusività 10.

L’IDENTITÀ PERSONALE (MEDIATICA) QUALE “PROIEZIONE SOCIALE” DELL’INDIVIDUO

In altri termini, quello che si avverte è che, anche in questo settore, bisognerebbe assicurare alla perso-na, a sua tutela, un diritto alla sua identità personale, così com’è deducibile dall’art. 2 Cost. (nonché da-gli artt. 3 e 8 Cedu e artt. 2 e 11 d.lgs. n. 196/2003), in ragione del quale, senza rimuovere l’accadimento, lo si collochi correttamente nella complessità della personale vicenda umana. È questo, forse, il diritto che avrebbe dovuto essere considerato dagli organi competenti nel caso di Tiziana Cantone.

Al riguardo va ricordato, infatti, che con un provvedimento del 30 aprile 2015 il Garante nazionale ha parzialmente accolto la richiesta di de-indicizzazione di informazioni di un soggetto, in relazione al noto scandalo del sangue infetto degli anni ‘90, che lo vedevano coinvolto, pur senza che lo stesso ve-nisse mai sottoposto a processo civile, penale o amministrativo.

In questo caso, le informazioni e gli accostamenti avrebbero ingenerato nel pubblico il convincimen-to che l’interessato fosse coinvolto nello scandalo fino a farlo ritenere corresponsabile, per cui il Garan-te, pur riconoscendo la rilevanza pubblica della notizia, nonostante il lungo tempo trascorso, ha, del pa-ri, ritenuto che alcune pagine fossero da de-indecizzare per l’associazione dell’interessato alle vicende, dichiarando, invece, infondato il ricorso per le pagini restanti.

Anche tale provvedimento conferma l’idea che in sede applicativa si sta assistendo, dunque, ad un progressivo mutamento del diritto all’oblio che, da diritto di natura negativa, sta evolvendo a diritto di carattere positivo.

Il difficile rapporto tra diritto all’informazione, privacy e dati personali pare, infatti, trovare un nuo-vo punto di equilibrio nella salvaguardia dell’identità personale del soggetto nella sua proiezione socia-le, che comprende anche la (sua) posizione giuridica (ergo, processuale) lesa dalla permanenza della no-tizia negli archivi on line, a prescindere da un nuovo atto divulgativo e dalla relativa perdita di attualità.

In tale linea prospettica, si colloca un’importante decisione del Garante per la protezione dei dati personali, chiamato a pronunziarsi sulla vexata quaestio dell’aggiornamento delle notizie di cronaca giu-diziaria pubblicate on line. Il ricorso al Garante è stato presentato da un soggetto, ovviamente protetto da anonimato nella motivazione del provvedimento, il quale aveva visto pubblicata sul sito di un noto quotidiano la notizia del proprio coinvolgimento quale indagato in una certa vicenda giudiziaria. Per l’esattezza, ben due articoli, pubblicati il 20 ed il 25 gennaio 2012, parlano dell’indagine e delle eventua-li accuse da formalizzare a carico di un soggetto, con indicazioni di particolari e commenti. Quasi due anni dopo, esattamente il 7 novembre 2013, il g.i.p. archivia, invece, il procedimento ritenendo l’ipotesi di reato del tutto infondata. La notizia della archiviazione viene, però, del tutto ignorata.

10 Cfr., anche, R. Pardolesi, op. ult. cit., p. 85.

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Per i cronisti giudiziari, si sa, la notizia è interessante se racconta la pretesa scoperta di un crimine, per nulla invece se quella “scoperta” viene poi smentita.

Il fatto è che i siti on line conservano nel proprio archivio la notizia originaria, con la conseguenza che i motori di ricerca interrogati sulla persona puntualmente la riproporranno. Il ricorrente aveva per-ciò formalmente intimato l’editore del sito a rimuovere quella notizia, superata dall’accertamento giu-diziario di segno contrario, o comunque ad integrarla con il provvedimento di archiviazione. L’editore provvedeva, però, solo a fronte della condanna del Garante, riportando esclusivamente una postilla, una sorta di nota in calce, agli articoli originari, non rimossi, con cui informava il lettore della interve-nuta archiviazione 11.

Il ricorrente non ritenendo sufficiente tale accorgimento – che non risolve il problema della perma-nente prevalenza della informazione, ormai non più rispettosa della verità di quella vicenda – si rivolge nuovamente al Garante il quale – e sta qui l’importanza della decisione – accoglie il ricorso. Pur con-fermando il diritto del sito a mantenere traccia storica della vicenda, e dunque a non vedersi obbligato alla rimozione degli articoli originari dal proprio archivio, l’autorità ritiene indispensabile conferire piena effettività al diritto del ricorrente a vedere “aggiornata” quella notizia – con l’esito giudiziario a lui favorevole della vicenda – imponendo all’editore di pubblicare la notizia dell’intervenuta archivia-zione con modalità concretamente idonee «a rendere immediatamente visibile, sia nel titolo che nel contenuto delle anteprime delle stesse, la esistenza degli sviluppi successivi della vicenda ivi rappre-sentata».

È interessante osservare come, non casualmente, la soluzione si conforma a quanto impone la giuri-sprudenza di legittimità sul piano della immediata rettifica della notizia (v. art. 4 del codice deontologi-co relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica ai sensi dell’art. 25 l. 31 dicembre 1996, n. 675) che non solo deve essere pubblicata tempestivamente (non oltre 2 giorni da quello in cui è avvenuta la richiesta), ma va collocata nella medesima pagina che ha riportato la notizia cui si riferisce e deve avere le medesime caratteristiche tipografiche dell’articolo contestato.

L’ATTUALITÀ E PERTINENZA DELL’INFORMAZIONE QUALE CONFINE DI GARANZIA

Attualità, analoga rilevanza e “pertinenza” dell’informazione sono i criteri che sembrano, dunque, farsi strada in materia.

La contestualizzazione e l’aggiornamento della notizia di cronaca, anche giudiziaria, già oggetto di informazione e di trattamento, sono, invero, le “nuove” forme di tutela del diritto del soggetto che ven-ga, a vario titolo, coinvolto nel procedimento penale, in ragione del fatto che i dati pertengono alla sua identità personale o morale che hanno, ormai, una loro proiezione sociale “a vasto raggio”; ma, si badi, l’osservanza degli indicati parametri opera anche quale forma di salvaguardia del diritto del cittadino “utente” a ricevere una completa e corretta informazione.

È chiaro che così ritenendo si configura il “nuovo” diritto all’aggiornamento dei dati personali ripor-tati all’interno dei mezzi di comunicazione (anche, se non soprattutto, informatici), da distinguersi dal diritto alla deindicizzazione.

Certamente, in assenza di una chiara e più puntuale legislazione sul punto, spetta al Garante nazio-nale e, come conferma proprio il caso di Tiziana Cantone, all’autorità giudiziaria operare, di volta, in volta, il doveroso bilanciamento tra interessi diversi e, spesso, contrapposti quali sono quelli dell’in-teressato alla de-indicizzazione e quelli pubblici o privati degli altri soggetti interessati a che i dati ri-mangano indicizzati 12.

È questo certamente un primo, delicato, aspetto del tema riguardante le forme di tutela tanto del ter-zo estraneo al processo, quanto di colui che vi è coinvolto.

Non si dubita, peraltro, che nell’effettuare tale valutazione le autorità garanti nazionali dovranno te-nere sistematicamente in considerazione l’interesse del pubblico ad avere accesso alle informazioni di cui si chiede la deindicizzazione.

11 V., Garante protezione dei dati personali, 20 ottobre 2016, n. 430. 12 In analogo senso A. Pisapia, op. cit., p. 91 la quale sottolinea non soltanto l’opportunità di innalzare il livello di tutela garantita

alla tutela dell’identità personale, ma individua anche la necessità di operare il ristoro della lesione derivante dalla lesione al-l’incolumità virtuale dell’identità della persona.

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Ciò premesso, in ogni caso, deve dirsi che la linea interpretativa seguita dall’autorità e qui appena prospettata appare quella più rispondente alle dinamiche dell’attuale società dell’informazione e del carattere che debbono assumere le notizie, anche di carattere processual-penale, riguardanti una perso-na e, segnatamente, la sua “visibilità telematica”.

Una tale impostazione è stata recepita, da ultimo, dal Tribunale di Milano, in relazione ad un ricorso avverso un provvedimento del Garante per la Protezione di dati personali che aveva rigettato una do-manda di rimozione di notizie riguardanti la reputazione di un soggetto il quale rivendicava il fatto che l’interesse pubblico alla loro conoscenza fosse venuto meno.

Nel caso di specie, il giudice milanese si è richiamato, innanzitutto, alla nota decisione della Corte di Giustizia, Grande sezione, 13 maggio 2014, n. 131 (Google Spain e Google Inc. contro Agencia Española de Protección de Datos e Mario Costeja González) 13 nella quale è stato affrontato un analogo episodio.

La rilevante pronuncia della Corte di giustizia ha evidenziato, innanzitutto, come l’attività dei moto-ri di ricerca operanti nel web dia luogo ad un «trattamento di dati personali» (art. 2, lett. b) della Diretti-va 95/46/CE) posto che: “L’attività di un motore di ricerca consistente nel trovare informazioni pubbli-cate o inserite da terzi su Internet, nell’indicizzarle in modo automatico, nel memorizzarle tempora-neamente e, infine, nel metterle a disposizione degli utenti di Internet secondo un determinato ordine di preferenza, deve essere qualificata come «trattamento di dati personali», qualora tali informazioni con-tengano dati personali; in secondo luogo, ha indicato che il gestore del motore di ricerca deve essere considerato come il «responsabile» del trattamento summenzionato (art. 2, lett. d)”; ancora, che “gli artt. 12, lettera b), e 14, primo comma, lettera a), della Direttiva 95/46, devono essere interpretati nel senso che, al fine di rispettare i diritti previsti da tali disposizioni, e sempre che le condizioni da queste fissate siano effettivamente soddisfatte, il gestore di un motore di ricerca è obbligato a sopprimere, dall’elenco di risultati che appare a seguito di una ricerca effettuata a partire dal nome di una persona, dei link verso pagine web pubblicate da terzi e conte-nenti informazioni relative a questa persona, anche nel caso in cui tale nome o tali informazioni non vengano pre-viamente o simultaneamente cancellati dalle pagine web di cui trattasi, e ciò eventualmente anche quando la loro pubblicazione su tali pagine web sia di per sé lecita”. La Corte ha, poi, valorizzato, quanto al legittimo trat-tamento dei dati personali, l’art. 7 della Direttiva 46/1995/UE, il quale consente “il trattamento di dati personali allorché questo è necessario per il perseguimento dell’interesse legittimo del responsabile del trattamento oppure del terzo o dei terzi cui vengono comunicati i dati, a condizione che non prevalgano l’interesse o i diritti e le libertà fondamentali della persona interessata – segnatamente il suo diritto al rispetto della sua vita privata con riguardo al trattamento dei dati personali – i quali richiedono una tutela ai sensi dell’articolo 1, § 1, della menzio-nata Direttiva. L’applicazione del citato articolo 7, lett. f), esige, secondo la Corte di giustizia, una ponderazione dei contrapposti diritti e interessi in gioco, nell’ambito della quale si deve tener conto dell’importanza dei diritti della persona interessata risultanti dagli articoli 7 e 8 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea”. Infine, l’autorità sovranazionale ha evidenziato come i menzionati diritti fondamentali prevalgono, in linea di principio, non soltanto sull’interesse economico del gestore del motore di ricerca, ma anche sull’interesse di tale pubblico a trovare l’informazione suddetta in occasione di una ricerca concernente il nome di questa persona. Tut-tavia, così non sarebbe qualora, oltre al fattore temporale, risultasse, per ragioni particolari, come il ruolo rico-perto da tale persona nella vita pubblica, che l’ingerenza nei suoi diritti fondamentali è giustificata dall’interesse preponderante del pubblico suddetto ad avere accesso, mediante l’inclusione summenzionata, all’informazione».

La Corte di Giustizia – tramite la soluzione interpretativa rappresentata dal fatto di identificare nella gestione di quei dati, l’uso di dati personali – giunge, poi, a riconoscere a qualsivoglia interessato il diritto di presentare al gestore del motore di ricerca le istanze finalizzate ad ottenere l’esclusione dai risultati di ricerca collegati al proprio nome di determinate informazioni presenti in Rete e riguardanti la sua sfera personale, ai sensi degli artt. 12, lett. b), e 14, comma 1, lett. a), Direttiva 95/46. Nell’impalcatura della de-cisione, il primo vaglio di fondatezza dell’istanza è rimesso proprio al gestore del motore di ricerca, chia-mato al difficile compito di identificare il giusto equilibrio tra i diritti fondamentali della persona, deri-vanti dagli artt. 7 e 8 della menzionata Carta, ed il (potenzialmente configgente) legittimo interesse degli utenti di Internet ad avere accesso a quella data informazione. Solo nel caso in cui l’interessato, veda di-sattesa la propria istanza dal gestore del motore di ricerca, può rivolgersi all’autorità di controllo naziona-le in materia di privacy o, in alternativa, all’autorità giudiziaria, affinché queste – quasi a guisa di organi di

13 Corte giust., 13 maggio 2014, causa C-131/12, in Foro it., 2014, IV, p. 295, con nota di R. Perolesi e A. Palmieri, Diritto al-l’oblio: il futuro dietro le spalle.

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secondo grado – verifichino la correttezza della posizione assunta dal responsabile del trattamento ed, eventualmente, ordinino allo stesso l’adozione di misure precise conseguenti.

Sotto tale aspetto non può essere, per concludere, tralasciato il fatto che, come ha affermato la sen-tenza C-131/12 e ha confermato anche il Gruppo di lavoro istituito ai sensi dell’art. 29 della Direttiva 95/46 nelle sue linee guida, la tutela dell’interessato deve essere “effettiva” per cui si fa obbligo al ge-store del motore di ricerca di compiere la deindicizzazione da tutti i domini su cui opera il motore di ricerca, originando così, un obbligo di risultato.

Ebbene, muovendo da tale determinante pronuncia, il giudice milanese ha affermato che ai sensi dell’art. 7 d.lgs. n. 196/2003 il soggetto, a cui il dato personale si riferisce, ha diritto di ottenere a cura del titolare o del responsabile senza ritardo: “a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati; b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono raccolti o successivamente trattati” e di opporsi “per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta” (comma 4, lett. a): poiché nel caso in questione i dati del soggetto che ha prestato l’istanza risultavano non perti-nenti, non completi e non aggiornati, il giudice ne ha ordinato la de-indicizzazione rispetto alla ricerca con le chiavi nominative del soggetto ricorrente.

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Orbene, al di là del rilievo circa la identificazione del diritto alla deindicizzazione quale categoria di-versa e autonoma dal diritto all’oblio ovvero della sua configurazione quale trasformazione di quella situazione giuridica soggettiva 14, ciò che in tale contesto rileva è che, dunque, anche il caso di Tiziana Cantone avrebbe potuto avere, forse, un diverso epilogo. Esso, peraltro, e paradossalmente – vale a dire in maniera antitetica a quella che era la volontà dell’istante, appellatasi, come si è detto, al diritto all’oblio delle immagini e informazioni relative alla sua persona – ha riacceso, nuovamente e negativa-mente, i fari su un episodio così delicato.

Invero, calando il discorso sul piano giuridico, deve riscontrarsi come anche l’ordinamento, nel va-lutare una persona, tiene conto, certamente, dei suoi precedenti penali, ma pure di tutto ciò che è avve-nuto dopo il fatto e il suo accertamento penale, del comportamento tenuto dal soggetto durante e dopo l’espiazione della pena, nonché, in caso di proscioglimento anche del diverso significato dell’episodio delittuoso. Se spesso per l’assolto resta comunque l’appannamento dell’immagine, egli è invitato psico-logicamente a rimuovere, cioè a superare il proprio vissuto, anche attraverso forme di compensazione e, tendenzialmente, di “mediazione”. Quell’elemento vale, a fortiori, per il condannato che deve, inve-ce, riviverlo, anche in senso critico.

Del resto, con riferimento al condannato, sia che si riconosca la funzione retributiva della pena, sia che si attribuiscano alla sanzione la funzione rieducativa, con l’espiazione – fatte salve le ulteriori im-plicazioni previste dalla legge destinate a protrarsi nel tempo (abitualità, professionalità, recidiva, casel-lario giudiziario) – il soggetto ha diritto a vedere “definita” la sua vicenda giudiziaria.

Ciò premesso, un discorso diverso pare, allora, prospettabile, nell’odierna società dell’informazione, dove esiste un diritto ad essere “dimenticati”, tanto che si può vantare la rimozione dell’informazione (diritto all’oblio) o “riconsiderati” (diritto alla de-indecizzazione), ma, la stessa notizia – si badi – po-trebbe successivamente, venir impiegata dandosi luogo alla c.d. ri-attualizzazione dell’informazione. Emerge con forza, quindi, la necessità che sia il legislatore a (ri)bilanciare i diversi e spesso contrastanti interessi che confluiscono in materia, individuando nel “principio di effettività” il limite del diritto di informazione, con riferimento alla stampa e, tenuto conto dell’evoluzione delle tecnologie, agli archivi on line, e, considerata la sua importanza, alla rete.

Com’è chiaramente emerso dalle sommarie considerazioni svolte, quello al quale si fa riferimento non è un diritto assoluto della persona, essendo necessario un adeguato bilanciamento con il diritto col-lettivo di informazione e il fattore temporale.

14 V., oltre a. O. Pollicino, Un digital right to privacy preso (troppo) sul serio dai giudici di Lussemburgo ? Il ruolo degli artt. 7 e 8 della Carta di Nizza nel reasoning di Google Spain, in Dir. dell’informazione e dell’informatica, 2014, pp. 569-589; S. Sica-V. D’Antonio, La procedura di de-indicizzazione, in G. Resta-V. Zeno-Zencovich (a cura di), Il diritto all’oblio su Internet dopo la sentenza Google Spain, RomaTrePress, 2015, p. 150 ss.

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Se proprio quest’ultimo dato costituisce uno degli elementi di maggior importanza, è chiaro che il suo valore aumenta rispetto alle vicende penali: per quest’ultime, infatti, esso potrà favorire o, di con-verso, disincentivare la rimozione o degradazione del dato, tenuto conto anche della gravità del fatto attribuito o commesso.

Quest’ultimo rilievo emerge da una recente decisione di merito del Tribunale civile di Roma (24 no-vembre 2015, n. 23771) che in relazione ad una vicenda giudiziaria recente (8 mesi e ancora in itinere) ha escluso sia l’oblio (vale a dire la cancellazione), ma anche la deindicizzazione della notizia riguar-dante un avvocato (operante in Svizzera) coinvolto in una vicenda giudiziaria. In questo caso, il Garan-te ha dato prevalenza all’essenzialità dell’informazione riguardo fatti di interesse pubblico, alla libertà della manifestazione del pensiero, alla libera ricerca storica e all’informazione, sottolineando, altresì, il breve lasso di tempo trascorso dai fatti e dalla vicenda giudiziaria.

Riprendendo il parallelismo fra il diritto alla deindicizzazione (ed aggiornamento) e la tutela proces-suale appare interessante il caso prospettato da un soggetto che ha invocato la deindicizzazione in rela-zione a una vicenda giudiziaria conclusasi nel 2011 con un patteggiamento, avanzando il fatto che pro-prio nel caso di patteggiamento è esclusa l’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale e che, in particolare, l’art. 445, comma 2, c.p.p., prevede l’estinzione del reato in caso di mancata commissione di ulteriori reati della stessa indole nei cinque anni successivi al patteggiamento. Il Garante accertato il ca-rattere risalente e isolato delle notizie e che l’interesse per l’informazione non è tale da giustificare la sua attuale diffusione tramite i motori di ricerca ha ordinato la richiesta deindicizzazione (provvedi-mento del 25 giugno 2015).

Al di là degli aspetti trattati dal Garante, le diverse decisioni citate mettono in luce, pur nella diversi-tà delle situazioni alle quali si riferiscono, una possibile e adeguata chiave interpretativa per fornire ri-sposta al tema qui prospettato (tenendo conto anche di quanto da ultimo previsto dal Regolamento Eu-ropeo sulla privacy n. 679/2016 e sulla protezione dei dati personali) 15.

Va, infatti, costatato come l’epoca delle nuove tecnologie ha, inevitabilmente, mutato il valore del di-ritto di riservatezza, definibile, quindi, anche come diritto all’oblio, inteso come giusto interesse di ogni persona a non restare indeterminatamente esposta ai danni ulteriori che arreca al suo onore e alla sua reputazione la reiterata pubblicazione di una notizia, in passato legittimamente divulgata. Ma è, altret-tanto, vero che si stanno, del pari, affacciando sempre più i casi in cui un fatto, precedente allontanato, per altri eventi, sopravvenuti, ritorna di attualità e rinasce un nuovo interesse pubblico all’informa-zione, non strettamente legato – tuttavia – alla “sua” contemporaneità (si pensi alla riemersione della vicenda del caso Garlasco a fronte delle indagini difensive svolte dal legale di Stasi, condannato in via definitiva, sul D.N.A. trovato sul luogo del delitto e che, si è affermato, avrebbero potuto condurre ad una revisione del processo, da un lato, o al diniego alla riparazione per l’ingiusta detenzione a favore di Sollecito, assolto in via definitiva, nell’ambito del c.d. caso di Perugia).

Sembra, quindi, che ci sono delle vicende “storiche” che avendo rappresentato – in positivo o in ne-gativo – un momento “topico” nella storia non solo giudiziaria del Paese nel suo complesso o in una più ridotta dimensione territoriale, non possono essere obliterate. Qualche volta, peraltro, l’elemento – inizialmente – negativo, successivamente si trasforma in un dato emblematico e valorialmente positivo (si pensi all’avvenuto arresto di Enzo Tortora).

Un parziale riconoscimento di un diritto all’affievolimento della vicenda è, ad esempio, rappresenta-to dall’indicazione del cognome e nome puntati nelle decisioni della Cassazione, la cui problematicità si annida in questioni diverse da quella della tutela soggettiva qui considerata. In realtà il tema qui espo-sto appare riconducibile alla tutela dell’identità personale.

Del pari, un’indicazione di segno, tuttavia, non conforme a quanto esposto – pur nella diversa finali-tà della previsione – sembra ricavabile dal criterio inserito nella lett. a) dell’art. 13 del delega per la ri-forma del casellario giudiziario, attualmente in discussione al Senato, nella quale si prevede che sarà necessario rivedere i presupposti in tema di eliminazione delle iscrizioni per adeguarli all’attuale dura-ta media della vita umana.

Ebbene, al di là del valore da assegnare a tale opzione, potrebbe essere certamente questa un’oc-casione per una qualche riflessione sul tema affrontato, ancorché da una diversa prospettiva.

15 Sul nuovo Regolamento che entrerà in vigore il 25 maggio 2018 e comporta una disperante “efficacia solo parzialmente differita” v., F. Pizzetti, Privacy ed il diritto europeo alla protezione dei dati. Il regolamento europeo 2016/679, Torino, 2016, II, p. 10.

EDITORIALE | L’OMBRA INQUISITORIA SUL SEQUESTRO PREVENTIVO IN FUNZIONE DI CONFISCA

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017

Scenari

Overviews

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 381

SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE

NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE NATIONAL LEGISLATIVE NEWS

di Federico Lucariello SICUREZZA INTEGRATA E SICUREZZA URBANA

(D.L. 20 FEBBRAIO 2017, N. 14)

È stato pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 febbraio 2017 (G.U. 20 febbraio 2017, n. 42) il decreto legge numero 14 recante «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città».

Pur trattandosi di un provvedimento necessariamente provvisorio e suscettibile di modifiche in sede di conversione in legge, presenta già elementi di grande interesse per l’interprete.

Il decreto si compone di 18 articoli compresi in due capi: il primo concernente la “collaborazione in-teristituzionale per la promozione della sicurezza integrata e della sicurezza urbana” suddiviso a sua volta in due sezioni relative rispettivamente alla sicurezza integrata (artt. 1-3) e alla sicurezza urbana (artt. 4-8); il secondo capo contenente le “disposizioni a tutela della sicurezza delle città e del decoro urbano” (artt. 9-18).

Innanzitutto il provvedimento disciplina la materia della sicurezza integrata e della sicurezza urba-na. In particolare, si intende per sicurezza integrata l’insieme degli interventi assicurati e posti in essere dallo Stato, dalle regioni e dagli enti locali, ovvero da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie attribuzioni e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali (art. 1).

È invece definita sicurezza urbana, il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire attraverso una serie di interventi cui concorrono prioritariamente, anche in forma inte-grata, lo Stato e gli enti territoriali, nel rispetto delle rispettive competenze e funzioni (art. 4). Il legisla-tore si preoccupa altresì di fornire un campionario delle finalità a cui tali interventi possono tendere, individuandoli:

• nella riqualificazione delle aree degradate; • nell’eliminazione dei fattori di esclusione sociale; • nella prevenzione della criminalità; • nella promozione del rispetto della legalità; • nell’affermazione di più elevati standard di coesione sociale e convivenza civile.

Nell’ambito della programmazione e della determinazione delle competenze, il decreto, in ossequi al principio della sussidiarietà, prevede interventi ripartiti tra i vari enti.

1. La predisposizione delle linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata, deve avvenire su proposta del Ministro dell’Interno, con accordo sancito in sede di Conferen-za Unificata (art. 2);

2. In conformità e attuazione di tali linee guida, ai sensi dell’art. 3, lo Stato e le regioni possono poi concludere specifici accordi anche per disciplinare interventi a sostegno della formazione del personale della polizia locale;

3. Ai sensi dell’art. 5, possono essere sottoscritti i c.d. patti per l’attuazione della sicurezza urbana tra il prefetto ed il sindaco, nel rispetto di linee guida adottate con accordo in sede di Conferenza Stato-città su proposta del Ministro dell’interno.

In armonia con i principi richiamati, all’art. 6 è previsto uno specifico organismo a composizione mi-sta per la tutela della sicurezza nelle grandi aree urbane.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 382

SCENARI | NOVITÀ LEGISLATIVE INTERNE

Si tratta del Comitato metropolitano, presieduto dal prefetto e dal sindaco metropolitano, e integrato dal sindaco del comune capoluogo (se diverso da quello metropolitano) e dai sindaci dei comuni inte-ressati, e alle cui riunioni possono essere invitati a partecipare soggetti pubblici o privati dell’ambito territoriale interessato. Esso, nello specifico, è funzionale all’analisi, alla valutazione e al confronto sulle tematiche di sicurezza urbana relative al territorio della città metropolitana (art. 6).

Nell’ambito delle linee guida sulle politiche di sicurezza e dei patti locali per la sicurezza urbana, poi, possono essere individuati obiettivi specifici, destinati all’incremento dei servizi di controllo e va-lorizzazione del territorio. Per garantire il necessario sostegno logistico e strumentale alla realizzazione di tali obiettivi si può utilizzare lo strumento degli accordi territoriali di sicurezza integrata per lo svi-luppo, con l’eventuale coinvolgimento di enti pubblici (economici e non) e soggetti privati (art. 7).

Il decreto inoltre interviene modificando gli artt. 50 e 54 del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali (d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ampliando notevolmente i poteri del sindaco in materia di sicurezza.

Per quanto concerne l’art. 50 si precisa che le ordinanze contingibili e urgenti, originariamente as-sunte dal sindaco quale rappresentante della comunità locale in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale, possono oggi essere assunte anche “in relazione all’urgente necessità di interventi volti a superare situazioni di grave incuria o degrado del territorio o di pregiudi-zio del decoro e della vivibilità urbana, con particolare riferimento alle esigenze di tutela della tranquil-lità e del riposo dei residenti, anche intervenendo in materia di orari di vendita, anche per asporto, e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche”.

Il Sindaco, poi, per assicurare e garantire la tranquillità e il riposo dei residenti in determinate aree delle città particolarmente affollate, eventualmente anche in occasione di specifici eventi, può disporre con ordinanza non contingibile e urgente, per un massimo di sessanta giorni, limitazioni in materia di orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche e superalcoliche.

Quanto ai provvedimenti contingibili e urgenti di cui all’art. 54, comma 4, TUEL emanati al fine di “prevenire e di eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana” già disciplinati, si prevede che gli stessi siano diretti alle “situazioni che favoriscono l’insorgere di fenome-ni criminosi o di illegalità, quali lo spaccio di stupefacenti, lo sfruttamento della prostituzione, l’accat-tonaggio con impiego di minori e disabili, ovvero riguardano fenomeni di abusivismo, quale l’illecita occupazione di spazi pubblici, o di violenza, anche legati all’abuso di alcool o all’uso di sostanze stupe-facenti” (art. 8).

LE DISPOSIZIONI IN MATERIA DI SICUREZZA E DECORO URBANO. IL DASPO URBANO

Al capo II del decreto-legge il legislatore interviene specificamente in materia di sicurezza e decoro ur-bano delle città, mediante la predisposizione di uno specifico impianto sanzionatorio ad afflitività va-riabile.

L’art. 9 punisce in particolare con la sanzione amministrativa da 100 a 300 € le condotte di coloro i quali limitino o ostacolino la libera accessibilità e fruizione di “infrastrutture, fisse e mobili, ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale (...) in violazione dei divieti di stazionamento o di occupazione di spazi ivi previsti”.

In questo caso, nonché per le violazioni degli artt. 688 (ubriachezza) e 726 (atti contrari alla pubblica de-cenza e turpiloquio) c.p., è prevista altresì l’emissione di un ordine di allontanamento dai luoghi indicati.

L’art. 9, al comma 3, stabilisce poi che i regolamenti di polizia urbana possono ampliare l’ambito di applicazione delle misure indicate ad aree urbane specifiche, quali quelle in cui si trovino musei, aree monumentali e archeologiche o ad altri luoghi di cultura interessati da consistenti flussi turistici.

L’art. 10 indica negli organi di controllo in materia di accertamento di un illecito amministrativo (art. 13, l. n. 689/1981) – dunque di massima nella polizia giudiziaria – i soggetti competenti alla irrogazione delle sanzioni.

Sul piano formale l’ordine di allontanamento deve essere redatto per iscritto, e trasmesso con imme-diatezza al questore competente per territorio, esso perde efficacia decorse quarantotto ore dall’ac-certamento.

Il legislatore, come rammentato, predispone un sistema di sanzioni di intensità crescente, su questa scia l’art. 10 prevede che:

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• la violazione dell’ordine di allontanamento comporta una sanzione raddoppiata rispetto alla pre-cedente oscillando tra un minimo di 200 e un massimo di 600 € (comma 1);

• la reiterazione delle condotte illecite, qualora ne possa derivare pericolo per la sicurezza, consente al questore l’adozione di un divieto di accesso ad una o più delle aree espressamente indicate per un massimo di sei mesi.

• è fatto però obbligo di individuare nel provvedimento (motivato) le modalità applicative i modo da garantire esigenze lavorative, si mobilità e di salute del destinatario;

• la durata della misura è maggiore, da sei mesi a due anni, nel caso in cui le condotte di cui all’art. 9, commi 1 e 2 del decreto, siano poste in essere da soggetti condannati per reati contro il patrimonio o la persona con sentenza almeno di appello, emessa negli ultimi 5 anni.

Sempre l’art. 10 contiene due ulteriori importanti precetti, innanzitutto disciplina il caso in cui il re-sponsabile sia soggetto minorenne, prevedendo che in tale ipotesi il questore debba darne notizia al Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni. In secondo luogo statuisce che in caso di condanna per reati contro il patrimonio o contro la persona commessi nei luoghi di cui al precedente art. 9, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena possa essere subordinato al divieto di accedere ad aree o luoghi specificamente indicati.

Un Decreto del Ministero dell’Interno, entro 90 giorni dall’entrata in vigore del decreto legge in ana-lisi, dovrà definire criteri per rafforzare la cooperazione tra le forze di polizia e i corpi di polizia muni-cipale.

La misura del divieto di allontanamento testé descritta presenta delle evidenti affinità con il Daspo nelle manifestazioni sportive di cui alla l. n. 401/1989 tanto che non appare forzato definire lo stesso provvedimento DASPO urbano.

In quest’ottica, allora, ben si spiega il richiamo contenuto nel decreto (in quanto compatibile) all’art. 6, comma 2-bis, 3 e 4 della l. n. 401/1989.

Tale disposizione prevede la possibilità di accompagnare il divieto di accesso con l’ulteriore prescri-zione dell’obbligo di presentarsi personalmente una o più volte negli orari indicati, nell’ufficio o co-mando di polizia del luogo di residenza dell’obbligato o in quello specificamente individuato.

La prescrizione è immediatamente comunicata al Procuratore della Repubblica presso il tribunale, o al Procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni competenti per territorio.

Il Pubblico Ministero, se ritiene che sussistano i presupposti, entro quarantotto ore dalla notifica del provvedimento ne chiede la convalida al giudice per le indagini preliminari che deve provvedere nelle successive 48 ore.

In tal caso l’interessato ha facoltà di presentare, personalmente o a mezzo di difensore, memorie o deduzioni al giudice competente per la convalida del provvedimento.

Il mancato rispetto di uno solo dei termini indicati (48 ore per la richiesta del P.M., 48 ore per la con-valida) o il decreto motivato emesso dal P.M. che non intenda avanzare la richiesta di convalida, de-terminano la inefficacia della sola prescrizione dell’obbligo di presentazione alla Polizia Giudiziaria e non anche del divieto di accesso.

L’ordinanza di convalida è ricorribile per Cassazione ma l’eventuale ricorso non sospende l’ese-cuzione della stessa.

II successivo art. 11, in materia di occupazioni arbitrarie di immobili, concerne i poteri del prefetto “nella determinazione delle modalità esecutive di provvedimenti dell’Autorità giudiziaria” alle stesse relativi.

Si tratta in particolare dei casi in cui il prefetto può mettere a disposizione la forza pubblica per pro-cedere allo sgombero al fine di meglio contemperare le seguenti esigenze:

• la situazione dell’ordine e della sicurezza pubblica nei territori interessati; • i rischi per l’incolumità e la salute pubblica; • i diritti dei proprietari degli immobili; • i livelli assistenziali che regioni ed enti locali possono assicurare agli aventi diritto.

Il decreto interviene anche in materia di orari di vendita e di somministrazione di bevande alcoliche, riconoscendo al questore il potere di sospendere l’attività per un massimo di quindici giorni in caso di reiterata inosservanza delle ordinanze in materia alcoliche ai sensi dell’art. 100 TULPS (art. 12).

Vi è poi una sostanziale modifica relativa ai soggetti minori degli anni diciotto. In tale ipotesi, al di là

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della pena – che resta la sanzione amministrativa pecuniaria da 250 a 1.000 €, ovvero da 500 a 2.000 eu-ro con la sospensione dell’attività per tre mesi per i recidivi – è interessante notare come vi sia un allar-gamento delle condotte sanzionabili, in quanto non si punisce più solo la vendita ma anche la sommini-strazione di alcolici ai minori.

L’art. 13 contiene “ulteriori misure di contrasto dello spaccio di sostanze stupefacenti all’interno o in prossimità di locali pubblici, aperti al pubblico e di pubblici esercizi” ed è costruito in modo speculare rispetto all’art. 10, pur con gli adeguamenti dovuti alla diversa gravità della condotta.

Sono in particolare previste misure inibitorie temporanee di competenza del questore. Questi potrà disporre per motivi di sicurezza il divieto di accesso nei locali pubblici (o aperti al pubblico) o nei pub-blici esercizi per una durata non inferiore ad un anno e non superiore a cinque, nei confronti di chiun-que abbia riportato condanne (anche solo con sentenza di appello) per illeciti in materia di stupefacenti commessi in tali ambienti.

Nei confronti dei medesimi soggetti, nel caso in cui siano già stati condannati con sentenza definiti-va negli ultimi tre anni, il questore può disporre:

• L’obbligo di presentazione almeno due volte a settimana alla Polizia Giudiziaria. • L’obbligo di rientrare nella propria abitazione o in altro luogo di privata dimora entro una deter-

minata ora e di on uscire prima di una certa ora. • Il divieto di allontanarsi dal comune di residenza. • L’obbligo di presentarsi in un ufficio o comando di polizia all’uopo indicato negli orari di entrata e

uscita dagli istituti scolastici.

Anche in questo caso, come al precedente art. 10, vi è il richiamo all’art. 6, commi 2-bis, 3 e 4 della l. n. 401/1989 che, in materia di DASPO nelle manifestazioni sportive, disciplina: la convalida del prov-vedimento che prescrive l’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria; le facoltà difensive ricono-sciute al destinatario del provvedimento; la possibilità di ricorrere per cassazione avverso il provvedi-mento di convalida.

Le misure possono riguardare anche soggetti minori purché ultra-quattordicenni e la violazione del-le stesse è punita, salvo che il fatto sia previsto dalla legge come reato, con la sanzione pecuniaria di-sposta dal prefetto e compresa tra i 10.000 e i 40.000 € nonché la sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno.

Da ultimo, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena in caso di condan-na per reati commessi all’interno o nelle immediate vicinanze di locali pubblici, aperti al pubblico, ov-vero in uno dei pubblici esercizi di cui all’art. 5 l. n. 287/1991 può essere subordinato al divieto di ac-cesso negli stessi.

Assai importante è anche l’art. 15 che contiene modifiche non secondarie alla disciplina delle misure di prevenzione personali contenuta nel Codice antimafia (d.lgs. n. 159/2011).

La prima novità inerisce all’art. 1, comma 1, lett. c) del d.lgs. n. 159/2011, comporta l’allargamento dell’area dei possibili destinatari di misure di prevenzione personali, includendovi anche coloro che abbiano reiteratamente violato la misura del foglio di via obbligatorio ovvero i divieti di frequentazione di determinati luoghi previsti dalla normativa vigente.

La seconda novità è più che altro un adeguamento tecnologico della disciplina delle misure di pre-venzione personali, prevedendo la possibilità di ricorrere alle procedure di controllo mediante l’utilizzo dei mezzi elettronici o degli altri strumenti tecnici di cui all’art. 275-bis c.p.p. nel caso di applicazione della sorveglianza speciale.

Da rimarcare è anche la modifica dell’art. 639 c.p. che punisce il delitto di imbrattamento e deturpa-mento di cose altrui. Con questo intervento normativo il legislatore non interviene sulla cornice edittale della fattispecie, ma nella ipotesi aggravata di cui al secondo comma – e cioè nel caso in cui i beni de-turpati o imbrattati siano beni immobili, mezzi di trasporto pubblici o privati, o ancora cose di interesse storico o artistico – consente al giudice di subordinare l’applicazione della sospensione condizionale della pena all’obbligo di ripristino e ripulitura dei luoghi oggetto dell’illecito. Analoga misura è previ-sta nei confronti dei recidivi.

Viceversa, nel caso in cui la ripulitura e il ripristino non siano più possibili, la concessione del bene-ficio può essere condizionata all’obbligo di pagamento o alla rifusione delle spese nonché, col consenso dell’interessato, alla prestazione di attività non retribuita a favore della collettività.

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Merita infine di essere menzionata anche la disposizione contenuta nell’art. 14 che vuole favorire l’attivazione del numero unico europeo 112 nelle regioni virtuose che abbiano rispettato gli obiettivi di bilancio, consentendo l’assunzione di un contingente massimo di personale proporzionale alla popola-zione residente in ciascuna Regione, e nel rispetto del rapporto di una unità di personale ogni trentami-la residenti.

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NOVITÀ SOVRANAZIONALI SUPRANATIONAL NEWS

di Marina Troglia

IL TRATTATO DI ESTRADIZIONE TRA ITALIA E CILE

Con la l. 3 novembre 2016, n. 211 (pubblicata in G.U., 22 novembre 2016, n. 273), è autorizzata la ratifica del Trattato di estradizione tra la Repubblica italiana e la Repubblica del Cile, sottoscritto a Roma il 27 febbraio 2002, con Protocollo addizionale, fatto a Santiago il 4 ottobre 2012 (nonché dell’Accordo di mu-tua assistenza amministrativa per la prevenzione, l’accertamento e la repressione delle infrazioni doga-nali, firmato a Bruxelles in data 6 dicembre 2005).

Il Trattato di estradizione con il Cile si aggiunge a molte convenzioni bilaterali relative alla coopera-zione in materia penale, già sottoscritte con altri Paesi dell’America Latina, ed in particolare con Argen-tina, Bolivia, Brasile, Costa Rica, Cuba, Messico (cfr. D. Vigoni, I recenti trattati di cooperazione in materia penale con Brasile e Messico, in questa Rivista, 2015, n. 6, p. 13 ss.), Panama (a tal proposito, v. P. Zoerle, I due nuovi trattati in materia di assistenza giudiziaria in materia penale e di estradizione tra Italia e Panama, in questa Rivista, 2016, n. 4, p. 19 ss.), Paraguay, Perù ed Uruguay.

Il Trattato in tema di estradizione tra Italia e Cile si compone di ventuno articoli, è redatto nelle lin-gue italiana e spagnola ed ha durata illimitata (art. 21, § 3), ferma restando la possibilità di denuncia mediante notifica scritta indirizzata per via diplomatica (art. 21, § 4). Entrerà in vigore il primo giorno del secondo mese successivo a quello dello scambio degli strumenti di ratifica, che dovrà avere luogo a Roma (art. 21, §§ 1 e 2).

Le comunicazioni tra i predetti Stati avverranno per via diplomatica (art. 9, § 1). La domanda di estradizione e le altre eventuali informazioni devono essere redatte nella lingua della Parte richiedente, con traduzione ufficiale nella lingua della Parte richiesta (art. 9, § 2).

Secondo le disposizioni del Trattato, le Parti si impegnano a concedere l’estradizione di chi si trovi sul territorio di uno dei due Paesi e sia ricercato dall’autorità giudiziaria dell’altra Parte, sempre che sussista un procedimento penale a carico di tale soggetto o che il medesimo sia stato condannato ad una pena detentiva o comunque restrittiva della libertà personale (art. 1).

I fatti che possono dare luogo ad estradizione sono quelli che, secondo la legge di entrambe le Parti, costituiscono reati punibili con una pena detentiva o restrittiva della libertà personale superiore nel massimo ad un anno o più severa. Qualora l’estradizione sia stata richiesta per eseguire una pena, la durata di quella residua da espiare deve comunque superare almeno i sei mesi. Secondo l’art. 2, laddo-ve la domanda di estradizione riguardi più reati, ma per alcuni di essi non sussistano i limiti edittali sopra indicati, l’estradizione può essere concessa anche per questi ultimi. Si precisa, infine, che l’estra-dizione può avvenire anche qualora i reati in questione siano previsti in Convenzioni multilaterali vi-genti.

Riguardo ai reati fiscali, non è possibile negare l’estradizione in ragione del fatto che la legge della Parte richiesta non imponga lo stesso tipo di tassa o imposta o non preveda la medesima disciplina del-la Parte richiedente (art. 3).

L’art. 4 del Trattato prevede che non possa essere concessa l’estradizione: a) se per il medesimo fatto la persona è sottoposta a procedimento penale o è già stata giudicata dall’autorità giudiziaria della Par-te richiesta; b) in caso di prescrizione della pena o dell’azione penale, secondo la legge di una delle Par-ti, al momento della ricezione della domanda; c) in caso di intervenuta concessione dell’amnistia per il reato sotteso alla domanda; d) in caso di giudizio – già celebrato o da celebrarsi – avanti un Tribunale straordinario; e) in caso di fatto considerato dalla legge della parte richiesta come reato politico; f) in ca-so di sospetto – motivato da ragioni serie – circa eventuali azioni persecutorie o discriminatorie nei con-fronti della persona per motivi di razza, di religione, di sesso, di cittadinanza, di lingua, di opinione po-litica o di condizione personale o sociale, o qualora la situazione personale possa essere aggravata da

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uno di questi elementi; g) se il procedimento cui la persona è stata o sarà sottoposta non rispetta i diritti minimi della difesa, nella cui valutazione non concorre però la celebrazione del procedimento in con-tumacia (su questo tema, v. N. Spagnoli, Estradizione passiva: l’incerto confine tra rispetto e violazione dei diritti umani, in Giur. it., 2013, p. 1407 ss.; P. Zoerle, L’estradizione del condannato in absentia, in Cass. pen., 2015, p. 1629); h) se vi siano fondati motivi per ritenere che la persona richiesta sarà sottoposta a pene o maltrattamenti considerati come violazione dei diritti fondamentali; i) se la persona ricercata, al mo-mento della commissione del reato, era minorenne secondo la legge della Parte richiesta e la legge della Parte richiedente non la considera tale, oppure non prevede per i minorenni un trattamento processuale o sostanziale diretto al reinserimento sociale conforme ai principi fondamentali dell'ordinamento giuri-dico della Parte richiesta; infine j) se il fatto costituisca, secondo la legge della Parte richiesta, un reato esclusivamente militare. Su quest’ultimo punto, si precisa che sono considerati reati esclusivamente mi-litari “i fatti previsti e puniti dalla legge militare e che non costituiscono reati di diritto comune”.

L’art. 5 stabilisce che non può mai essere irrogata o applicata la pena di morte alla persona estradata. Quando per i fatti di cui è richiesta l’estradizione è prevista la pena di morte, questa dovrà essere com-mutata in una pena detentiva o restrittiva della libertà personale prevista dall’ordinamento; l’estra-dizione sarà concessa solo dopo che la pena di morte inflitta sia stata sostituita da una pena detentiva nella misura massima prevista dall’ordinamento della Parte richiedente. La pena capitale, sebbene non più applicata dalla fine degli anni ’80, è stata formalmente abolita in Cile proprio nel 2001, ovvero l’anno precedente la sottoscrizione del Trattato in esame.

Il rifiuto facoltativo di estradizione è consentito nei casi in cui: a) alla data della domanda, la persona da estradare sia cittadina della Parte richiesta, sempre che la cittadinanza non sia stata acquisita proprio allo scopo di impedire l’estradizione (art. 6, § 1); b) il fatto risulti commesso, in tutto o in parte, sul terri-torio della Parte richiesta o in un luogo considerato tale dalla legge di questa stessa Parte. In tali situa-zioni, si prevede che la Parte richiesta, su domanda della richiedente, sottoponga il caso alle proprie au-torità competenti, affinché valutino l’opportunità di procedere all’apertura di un procedimento penale, previa trasmissione di informazioni ed elementi utili. Seguirà, ovviamente, una comunicazione, quanto più rapida possibile, circa la decisione alla Parte richiedente (art. 6, § 3).

Nell’art. 7 è contemplato il principio di specialità: si prevede il divieto di sottoporre la persona estradata a restrizioni o privazioni della libertà personale in esecuzione di una pena o di altre misure per un fatto precedente alla sua consegna, diverso da quello per il quale l’estradizione è stata concessa, salvo che la Parte richiesta vi acconsenta o la persona estradata, pur avendone avuta la possibilità, non abbia lasciato il territorio ove è stata consegnata trascorsi quarantacinque giorni dalla scarcerazione ov-vero, dopo avere lasciato il territorio, vi abbia fatto ritorno volontariamente. La disposizione precisa, altresì, che la persona consegnata “non può essere riestradata ad un terzo Stato per un fatto precedente alla sua consegna, salvo che la Parte richiesta lo consenta o che ricorrano le circostanze previste dal pa-ragrafo 1, lett. b)” (si tratta dei casi di mancato allontanamento o di ritorno nel territorio dello Stato).

L’eventuale periodo di detenzione sofferto dall’estradato nel procedimento di estradizione nel Paese richiesto sarà computato nella pena da scontare nel territorio dello Stato richiedente (art. 8).

Alla domanda di estradizione è necessario, anzitutto, allegare, in originale o in copia certificata, il provvedimento restrittivo della libertà personale o la sentenza irrevocabile di condanna, con indicazio-ne della pena ancora da scontare. A corredo della domanda devono esservi ulteriori documenti, da cui risultino le seguenti indicazioni: a) la descrizione precisa del fatto, della data e del luogo in cui è stato commesso, nonché la sua qualificazione giuridica; b) gli elementi necessari per determinare l’identità, la nazionalità, la residenza della persona richiesta e, possibilmente, la sua fotografia; c) se si tratta di per-sona condannata, anche l’indicazione della pena residua da scontare. Dovrebbe poi essere allegata an-che una copia delle disposizioni di legge della Parte richiedente applicabili al fatto, e di quelle relative alla prescrizione del reato e della pena (art. 10). Laddove le informazioni comunicate si dimostrino in-sufficienti, la Parte richiesta può chiederne di supplementari, con fissazione di un termine (art. 11) che, su richiesta motivata, può essere prorogato

Il Trattato contiene, inoltre, alcune disposizioni che concernono l’arresto provvisorio della persona ricercata, che può avvenire anche prima del ricevimento della domanda di estradizione (art. 12). A tal fine, si prevede che la Parte interessata inoltri apposita richiesta, anche tramite Interpol, da cui risulti l’emissione di un provvedimento restrittivo, la descrizione del fatto, l’indicazione della sua qualifica-zione giuridica, della pena prevista nonché di quella da scontare, e gli elementi necessari per l’identifi-

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cazione e la localizzazione della persona ricercata (art. 12, § 2). A tale istanza deve fare seguito una ri-sposta tempestiva della Parte richiesta, la quale, nel caso in cui nei successivi sessanta giorni da tale comunicazione non riceva la domanda di estradizione e i relativi documenti, dovrà revocare il provve-dimento coercitivo. Qualora la domanda pervenga successivamente, non è impedito un nuovo arresto (art. 12, § 4).

La decisione con cui la Parte richiesta ha rifiutato l’estradizione va comunicata, senza indugio, alla Parte richiedente e, in tal caso, deve contenere adeguata motivazione (art. 13, § 1). Se, invece, l’estra-dizione viene concessa, è necessario che la Parte richiedente sia informata circa il luogo e la data a parti-re dalla quale la consegna può avvenire, e delle relative modalità (art. 13, § 2). Trascorso il periodo di venti giorni dalla data indicata senza che la Parte richiedente abbia preso in carico la persona estradata, quest’ultima è rimessa in libertà e la decisione di estradizione non ha più efficacia. In tal caso, laddove la Parte richiedente presenti una nuova domanda, la Parte richiesta può legittimamente rifiutarla, se fondata sui medesimi fatti (art. 13, § 4). Il Trattato prevede, inoltre, i casi di consegna rimandata (art. 14, §§ 1 e 3) o temporanea (art. 14, § 2).

Concessa l’estradizione, la Parte richiesta può altresì consegnare le cose attraverso le quali è stato commesso il reato, quelle che ne costituiscono il prezzo, il profitto o il prodotto, nonché quelle che pos-sono essere utilizzate come prova (art. 15), facendo salvi i diritti della Parte richiesta o dei terzie preve-dendone la possibile restituzione all’esito del procedimento (art. 15, § 4). Sempre con riferimento a que-st’ultimo, va detto che il Trattato ha previsto un’apposita disciplina anche per l’intervento della Parte richiedente, che può farsi rappresentare da un avvocato abilitato davanti alle autorità giudiziarie com-petenti (art. 19).

Viene, poi, disciplinata l’ipotesi del transito, sul territorio di una delle Parti, di persona estradata da uno Stato terzo verso l’altra Parte: esso è autorizzato senza la necessità di un procedimento ad hoc (art. 16), fermo restando che il transito può essere altresì negato in ragione dei medesimi motivi per i quali può essere rifiutata l’estradizione, nonché, in questo caso, anche per motivi di ordine pubblico (art. 16, § 2).

Sono altresì disciplinate le ipotesi di concorso di domande di estradizione (art. 17), nonché il regime delle spese (art. 18).

Il Trattato prevede anche la possibilità di estradizione semplificata (art. 20) che permette la consegna della persona di cui è domandata l’estradizione senza promuovere il procedimento formale di estradi-zione previsto dall’ordinamento interno, in presenza di talune condizioni: a) deve essere stata presenta-ta domanda di estradizione conformemente alle previsioni di cui all’art. 10 relative ai documenti a so-stegno della domanda; b) deve essere ammessa l’estradizione ex art. 2 del Trattato; c) la persona richie-sta, assistita da un avvocato abilitato, deve aver prestato espresso consenso all’estradizione. Di tale con-senso, che è irrevocabile, nonché delle informazioni di cui la persona ricercata deve essere destinataria, si dà atto in un apposito verbale (art. 20, § 2).

Da ultimo, va ricordato che al Trattato è annesso un Protocollo addizionale, firmato a Santiago il 4 ottobre 2012 e redatto, come il Trattato, nelle lingue italiano e spagnolo, ugualmente facenti fede. Tale Protocollo riguarda la richiesta di estradizione di un soggetto che sia stato condannato in contumacia: in tal caso, l’estradizione è concessa se la Parte richiedente dimostri di possedere, all’interno del proprio ordinamento, istituti che assicurino, in modo idoneo, il diritto all’impugnazione della sentenza di con-danna o il diritto ad un nuovo processo, laddove emerga che l’estradando non abbia avuto conoscenza effettiva del processo (art. 1). Tale Protocollo, che si applicherà anche alle richieste di estradizione anco-ra pendenti, entrerà in vigore il primo giorno del secondo mese successivo a quello dello scambio degli strumenti di ratifica e resterà in vigore fino a quando lo sarà il Trattato di estradizione (art. 2).

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SCENARI | DE JURE CONDENDO

DE JURE CONDENDO di Danila Certosino

L’ABOLIZIONE DEL DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS

Il 16 febbraio 2017 è stato assegnato alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati il d.d.l. C. 4239, recante «Abrogazione del comma 3 dell’articolo 597 del codice di procedura penale, in materia di divieto di reformatio in peius nel processo d’appello in caso di proposizione dell’impugnazione da parte del solo imputa-to», presentato il 20 gennaio 2017 su iniziativa dell’on. Ferrarese ed altri.

Come è noto, l’esigenza di evitare che il giudice d’appello riformi in senso peggiorativo la sentenza impugnata dal solo imputato, è soddisfatta, nel sistema delle impugnazioni, dal c.d. divieto di reforma-tio in peius di cui all’art. 597, comma 3, c.p.p., ai sensi del quale «quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici».

Fatte salve le disposizioni civili della condanna di primo grado, il divieto non riguarda solo l’entità complessiva della pena, ma, sulla scorta di un consolidato orientamento giurisprudenziale (v., per tutte, Cass., sez. un., 27 settembre 2005, n. 40910), tutti gli elementi autonomi che concorrono alla sua deter-minazione, lasciando così al giudice di secondo grado la sola facoltà di dare al fatto una definizione giuridica più grave.

Ripercorrendo la “storia” del divieto di reformatio in peius, appare di immediata evidenza come il raggio di azione si sia ampiamente esteso: rispetto all’art. 515 c.p.p. del 1930, la nuova disciplina esten-de la portata del divieto all’applicazione di misure di sicurezza nuove o più gravi di quelle contenute nella sentenza appellata e al proscioglimento dell’imputato per una causa meno favorevole rispetto alla precedente decisione. Sulla scia, poi, dell’art. 558, comma 3, prog. prel. 1978, l’art. 597, comma 4, c.p.p. statuisce che «se è accolto l’appello dell’imputato relativo a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati per la continuazione, la pena complessivamente irrogata è corrispondentemente diminuita».

La disposizione rappresenta una costante del nostro processo penale e il codice di rito del 1988 non solo ha optato per un atteggiamento conservativo dell’istituto, ma ha dato un impulso notevole alla sua ricostruzione in termini di principio generale che governa le impugnazioni, il cui fondamento giuridico è stato rinvenuto ora nel principio dispositivo, ora nell’interesse ad impugnare, ora nel principio del fa-vor rei.

Muovendo dal presupposto che tale divieto avrebbe contribuito alla proposizione di impugnazioni meramente dilatorie, volte spesso unicamente a differire l’esecutività del provvedimento nell’attesa del-la prescrizione del reato, l’art. 1 della proposta di legge in commento mira ad abolire il divieto de quo, nella convinzione che il giudice d’appello, investito del merito del processo, dovrebbe essere libero di rescindere la precedente pronuncia, sostituendovi la propria, anche in peius. Una scelta che appare a dir poco discutibile, dato che l’appello si pone come grado di giudizio votato al controllo e alla giustizia della decisione, i cui esiti non dovrebbero nuocere all’imputato; il principio del favor rei verrebbe, infat-ti, ad essere gravemente pregiudicato.

Il successivo art. 2, contempla, poi, una disposizione transitoria volta a preservare l’abrogando di-vieto nei riguardi dei provvedimenti giurisdizionali per i quali, alla data di entrata in vigore della leg-ge, abbiano già iniziato a decorrere i termini per proporre l’appello principale o l’appello incidentale ovvero sia già stato proposto l’appello.

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Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 390

SCENARI | DE JURE CONDENDO

LA COSTITUZIONE DI PARTE CIVILE DELLO STATO E DELLE REGIONI NEI PROCEDIMENTI PENALI PER REATI DI ASSOCIAZIONE MAFIOSA

Risulta assegnato in data 15 febbraio 2017 alla Commissione Giustizia della Camera in sede referente il d.d.l. C. 2678, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di costituzione di parte civile dello Stato e delle regioni nei procedimenti penali per reati di associazione mafiosa, nonché disposizioni per la destina-zione delle somme derivanti dalle restituzioni e dal risarcimento del danno», presentato dall’on. Nuti ed altri.

La proposta in commento costituisce un’importantissima innovazione normativa nella lotta contro la criminalità organizzata di tipo mafioso, dato che mira ad estendere a tutte le regioni a controllo crimi-nale del territorio la norma, già approvata dall’Assemblea regionale siciliana, che prevede l’obbligo del-la regione Sicilia di costituirsi parte civile in tutti i processi di mafia e l’impiego di eventuali somme ot-tenute a seguito di tali processi per indennizzare i parenti delle vittime della mafia, finanziare le Forze dell’ordine, istituire corsi di legalità nelle scuole, garantire l’accesso all’istruzione e i servizi essenziali nelle aree più degradate, riconvertire il territorio colpito da abusivismo edilizio e realizzare infrastrut-ture (art. 4, l. reg. 20 novembre 2008, n. 15).

Come si legge nella Relazione di accompagnamento, si tratta di una norma di buonsenso, «in quanto co-loro che si macchiano di delitti di mafia arrecano un enorme danno d’immagine allo Stato e alle sue ar-ticolazioni territoriali, oltre a eventuali danni economico-finanziari, ma soprattutto contribuiscono ad alimentare un sistema che trova la propria ragion d’essere nel continuo tentativo di far collassare il buon funzionamento della democrazia stessa, per sottometterla alla propria volontà criminogena».

Il progetto, composto da cinque articoli, trova la sua ratio nella considerazione che ogniqualvolta un esponente della criminalità organizzata di tipo mafioso compie un reato è l’intera comunità che ne vie-ne colpita, oltre che direttamente, anche nell’immagine percepita all’esterno.

L’art. 1 contempla l’introduzione nell’ambito dell’art. 74 c.p.p. dei commi 1-bis e 1-ter, che discipli-nano rispettivamente la costituzione di parte civile dello Stato e delle regioni «in tutti i processi per i reati di cui agli articoli 416-bis e 416-ter del codice penale, per i reati commessi avvalendosi delle condi-zioni previste dal citato articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché per i reati di cui agli articoli 318, 319, 319-ter e 320 del medesimo codice. In tutti gli altri casi si procede a norma del comma 4 dell’articolo 1 della legge 3 gennaio 1991, n. 3».

Per quanto concerne le regioni, la costituzione è ammessa nell’ipotesi di reati commessi anche solo in parte all’interno del loro territorio; le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano, compatibilmente con i propri statuti di autonomia e con le relative norme di attuazione, do-vranno adeguare la propria legislazione alla nuova disposizione normativa.

Il successivo art. 2 apporta modifiche all’art. 91 c.p.p., rubricandolo come «Diritti e facoltà dello Stato, delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, degli enti e delle associazioni rappresentative di inte-ressi lesi dal reato». Conseguentemente, allo Stato, alle regioni e alle province autonome di Trento e Bol-zano viene riconosciuta la qualità di persona offesa dal reato nei procedimenti aventi ad oggetto i reati previsti dall’art. 74, comma 1-bis, c.p.p.

Attraverso l’aggiunta del comma 4-bis nel corpo dell’art. 429 c.p.p., ad opera dell’art. 3 della propo-sta in commento, viene statuito che i decreti che dispongono il giudizio o i decreti di citazione a giudi-zio contenenti imputazioni per i reati di cui all’art. 74, comma 1-bis, c.p.p. «sono trasmessi all’Av-vocatura dello Stato, che informa gli uffici regionali competenti ai sensi del testo unico di cui al regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, e della legge 3 gennaio 1991, n. 3».

Proseguendo l’analisi del disegno di legge, si evidenzia come l’art. 4 disponga che le eventuali mag-giori entrate derivanti dalla nuova previsione normativa vengano destinate, per quanto riguarda lo Sta-to, all’acquisto di attrezzature e mezzi della polizia di Stato, al Fondo per le vittime della mafia, al Fon-do nazionale per le politiche sociali, al Fondo per piani di recupero per prevenire abbandoni scolastici, al Fondo per il finanziamento dei servizi pubblici di viaggiatori e merci sulla media e lunga percorren-za; per quanto concerne le regioni, le risorse verrebbero destinate alla viabilità stradale e autostradale e all’assistenza sociale.

Viene, infine, delineata dall’art. 5 una disciplina transitoria, secondo cui le nuove disposizioni nor-mative troverebbero applicazione anche nei riguardi dei procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, ovviamente nei limiti e nel rispetto dei termini processuali previsti per la costituzione di parte civile.

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SCENARI | CORTI EUROPEE

CORTI EUROPEE EUROPEAN COURTS

di Marcello Stellin

LIBERTÀ DI MOVIMENTO – EQUO PROCESSO – MISURE DI PREVENZIONE

(Corte e.d.u., Grande Camera, 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia)

La Grande Camera ha ravvisato taluni profili di difformità rispetto al disposto Convenzionale con rife-rimento alla disciplina delle misure di prevenzione personali, all’epoca dei fatti dettata dalla l. 27 di-cembre 1956, n. 1423 (oggi sostituita dal d.lgs. 6 dicembre 2011, n. 159).

Si volga un rapido sguardo alla fattispecie concreta. Con provvedimento datato 11 aprile 2008, il Tribunale di Bari applicava nei confronti dell’odierno ricorrente – già raggiunto dall’avviso orale del questore, ai sensi dell’art. 4 della l. n. 1423/1956 (§ 11) – la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, per una durata pari ad anni due, associata all’obbligo di soggiornare nel comune di residenza, con tutte le prescrizioni enumerate in seno all’art. 5 della summenzionata legge, fra cui si annoverano quelle «di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospet-ti», di non associarsi abitualmente a pregiudicati, ovvero a soggetti sottoposti a misure di sicurezza o di prevenzione, di permanere nella propria abitazione durante le ore notturne di non frequentare deter-minati esercizi pubblici «e di non partecipare a pubbliche riunioni» (§ 17).

Il decreto del Tribunale barese rilevava, infatti, in capo al proposto la sussistenza di «tendenze criminali attive» (§ 14): il giudizio di pericolosità si fondava, peraltro, non soltanto sull’inosservanza del summenzionato avviso orale, bensì anche su plurime violazioni – risalenti all’anno 2007 – di mi-sure praeter delictum già applicate; un’informativa di polizia poneva, inoltre, l’accento sul fatto che l’assenza di una stabile occupazione, oltre all’entità dei precedenti penali, avrebbero dovuto indurre a ritenere che l’odierno ricorrente traesse, per larga parte, i propri mezzi di sussistenza da attività de-littuose (§ 16).

A seguito di ricorso presentato dal proposto, la Corte d’appello barese, in data 28 gennaio 2009, an-nullava la misura applicata (§ 20). Il giudice dell’impugnazione riteneva, infatti, che in capo alla perso-na del ricorrente non potesse essere ravvisata una situazione di pericolosità «attuale» nei confronti della sicurezza pubblica (§§ 21-22). Tra gli episodi criminosi per cui il soggetto era stato condannato si anno-veravano il contrabbando di tabacchi, il porto abusivo d’armi ed il traffico di droga (§ 24): l’attività de-littuosa più recente, concernente gli stupefacenti, risaliva a più di cinque anni prima dell’applicazione della misura; a ciò si aggiungeva un’evasione datata 2004 (§ 25). Le ritenute violazioni delle misure preventive ascritte all’anno 2007 erano, in realtà, imputabili ad un error personae, dovuto ad omonimia. Il giudice di prevenzione aveva, peraltro, omesso di valutare l’impatto riabilitativo della condanna inte-ramente eseguita tra il 2002 ed il 2005; nemmeno il fatto che il proposto fosse stato sorpreso ad intratte-nersi con soggetti pregiudicati appariva rilevante ai fini preventivi, non essendo in quel periodo pen-dente alcun procedimento a carico del Sig. De Tommaso. Nessuno degli elementi sottoposti al visus dell’autorità giudiziaria risultava, in definitiva, suscettibile di fondare l’attualità del suindicato pericu-lum (§§ 23-25), che – giova rammentare – può essere inferito non soltanto sulla scorta di specifici reati, quanto piuttosto alla luce di una complessiva condotta di vita manifestata dal proposto (§ 21).

Adita la Corte e.d.u., l’odierno ricorrente lamentava l’inosservanza degli artt. 5, 6, 13 della Conven-zione europea, nonché dell’art. 2 del quarto Protocollo addizionale alla Convenzione medesima, con-cernente la libertà di circolazione (§ 3).

Il ricorso, inizialmente assegnato alla seconda sezione della Corte, veniva da quest’ultima deferito alla Grande Camera, ai sensi dell’art. 30 della Cedu, che contempla la sussistenza di gravi problemi in-

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terpretativi sottesi alla questione in oggetto, così come il rischio di generare contrasti tra i precedenti della Corte medesima (§ 6).

Ricostruita con dovizia di dettagli la nostrana disciplina delle misure di prevenzione (§§ 30-42), an-che alla luce dei più importanti arresti della giurisprudenza costituzionale (§§ 43-61) e di legittimità (§§ 62-64), la Corte propende – seppur alla luce di un giudizio non unanime – per l’inammissibilità della doglianza concernente l’asserita violazione dell’art. 5 (sotto il profilo dell’arbitrarietà e dell’eccessiva durata del vincolo), in quanto «incompatibile ratione materiae con la Convenzione» [art. 35 §§ 3(a) e 4]: agli occhi dei Giudici alsaziani, le obbligazioni imposte all’odierno ricorrente attraverso la misura pre-ventiva ammontano, infatti, unicamente ad una «restrizione alla libertà di circolazione», ai sensi dell’art. 2 del quarto protocollo addizionale alla Cedu, non ad «una privazione della libertà», così come intesa in forza dell’art. 5 § 1 della Convenzione (§§ 89-90).

Viene, quindi, tracciata un’actio finum regundorum tra le due libertà. La prerogativa di cui all’art. 5 concerne infatti «la libertà fisica della persona»: allo scopo di scevera-

re quale sia la fattispecie astratta di riferimento, chiosa la Corte, occorre analizzare tutte le circostanze del caso concreto, avendo riguardo a «fattori quali il tipo, la durata, gli effetti e le modalità applicative della misura in questione»; giova peraltro rammentare che il discrimen tra il concetto di «privazione» e quello di «restrizione» risiede nel «grado o nell’intensità del vincolo», piuttosto che nella «natura o nel-la sostanza» del medesimo (§ 80).

Atteso, infatti, che misure anche non riconducibili al «paradigma» della detenzione carceraria pos-sono assumere rilevanza ai sensi dell’art. 5, i Giudici europei – richiamando un precedente in materia di misure preventive (Corte e.d.u., 6 novembre 1980, Guzzardi c. Italia) – rammentano l’esigenza di vaglia-re il novero delle prescrizioni imposte nella loro globalità (§ 81). Il suindicato arresto aveva, infatti, ac-certato che al proposto era stato prescritto di risiedere in un’isola (l’Asinara) – la cui superficie, pari a 2,5 kmq, era quasi interamente occupata da un istituto di pena –, sotto la sorveglianza quasi costante dell’autorità di pubblica sicurezza, con obbligo di permanenza notturna presso l’abitazione ed un con-seguente annichilimento della propria socialità: a detta della Corte, quantunque ciascuna misura appa-risse singolarmente inidonea a determinare una privazione della libertà personale, il complesso dei vin-coli applicati risultava, al contrario, suscettibile di generare una situazione di tal fatta (§ 95 della sen-tenza Guzzardi).

Il caso in esame non rivela siffatte peculiarità, apparendo, al contrario, accostabile ad altre ipotesi di sorveglianza speciale – con obbligo di soggiorno in un determinato comune, associato ad ulteriori pre-scrizioni afferenti alla socialità ed alla permanenza domiciliare in determinate fasce orarie – ricondotte dalla Corte nell’alveo della libertà di circolazione [§ 84: il Collegio richiama, a questo proposito, i pre-cedenti Labita c. Italia (Grande Camera, 6 aprile 2000) e Raimondo c. Italia (22 febbraio 1994)].

Contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, i Giudici strasburghesi escludono che il divieto di uscire dalla propria abitazione durante le ore notturne possa essere assimilato agli arresti domiciliari di cui all’art. 284 c.p.p. ed involgere, conseguentemente, l’art. 5 della Convenzione (§§ 86-88): al ricor-rente non erano stati, infatti, posti vincoli quanto alla possibilità di lasciare la propria dimora durante il giorno; contrariamente a quanto riscontrato in seno all’affaire Guzzardi, il proposto aveva, quindi, potuto godere del proprio diritto alla socialità (§§ 85, 88).

Sotto il profilo dell’art. 2 del quarto Protocollo addizionale alla Cedu, l’odierno ricorrente lamentava, fra l’altro, tanto l’eccessiva estensione del potere discrezionale conferito all’autorità giudiziaria ai fini dell’apprezzamento dei requisiti applicativi della misure in esame, quanto la vaghezza delle prescri-zioni imposte (la cui osservanza è presidiata da una sanzione di carattere penale), con particolare ri-guardo agli obblighi «di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti» (§§ 93-94).

La conformità al dettato convenzionale delle misure finalizzate a restringere la libertà di movimento è subordinata alla predeterminazione delle stesse in via legislativa, nonché alla legittimità degli scopi perseguiti [tali possono essere, in forza dell’art. 2 § 3 del Protocollo n. 4, la sicurezza nazionale e pubbli-ca, il mantenimento dell’ordine pubblico, la prevenzione dei reati, la «protezione della salute o della morale» nonché «dei diritti e libertà altrui» (§ 104)].

La previsione dei limiti suddetti ad opera del legislatore implica, peraltro, che le relative norme rive-stano il carattere della «accessibilità», da parte dei consociati, nonché della «prevedibilità» (§ 105). Tale ultimo requisito, chiosano i Giudici europei, risulta soddisfatto unicamente nelle ipotesi in cui il dettato

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normativo sia «formulato con una precisione sufficiente al punto da consentire ai cittadini di regolare la propria condotta; costoro devono essere posti nelle condizioni [...] di prevedere, con un [sufficiente] grado di ragionevolezza, le conseguenze che una determinata azione può implicare» (§ 107): si tratta di un presidio posto a garanzia della libertà dei consociati «avverso le arbitrarie interferenze delle autori-tà». Con riferimento alle fattispecie discrezionali occorre, peraltro, che il legislatore stabilisca la ratio cui dev’essere ispirato il munus conferito al pubblico agente, «quantunque le procedure e le condizioni di dettaglio da osservare» ai fini dell’esercizio del suddetto potere «non debbano essere necessariamente incorporate in norme di diritto sostanziale» (§ 109).

La Corte procede, quindi, al vaglio di «prevedibilità» delle fattispecie di cui alla l. n. 1423/1956, per quel che attiene alle categorie di soggetti cui, ai sensi dell’art. 1, possono essere applicate misure di pre-venzione, con riferimento anche all’esegesi fornita dalla Consulta (§ 115).

I Giudici europei notano, dunque, come – ad eccezione della categoria dei soggetti «proclivi a delin-quere», affetta da un patente difetto di tassatività (§§ 55,116, nonché, C. cost., sent. 22 dicembre 1980, n. 177) – la giurisprudenza costituzionale abbia sempre ravvisato in seno alla disciplina delle misure di prevenzione un sufficiente grado di determinatezza con riferimento tanto all’an quanto al quomodo dei vincoli applicabili.

Sotto il primo profilo, infatti, il Giudice delle leggi ha ritenuto, per un verso, che l’adozione delle mi-sure in esame possa essere legittimamente subordinata «non al verificarsi di fatti singolarmente deter-minati, ma a un complesso di comportamenti che costituiscano una “condotta”, assunta dal legislatore come indice di pericolosità sociale», con la possibilità di basare la fattispecie astratta «anche [su] ele-menti presuntivi, corrispondenti però sempre a comportamenti obiettivamente identificabili. Il che non vuol dire minor rigore, ma diverso rigore nella previsione e nella adozione delle misure di prevenzione, rispetto alla previsione dei reati e alla irrogazione delle pene» (Corte cost., sent. 23 marzo 1964, n. 23). Per altro verso, la Corte costituzionale ha precisato come «l’appartenenza a quelle categorie [di cui all’art. 1 della l. n. 1423/1956] è invero condizione necessaria, ma non sufficiente per la sottoposizione a misure di prevenzione: perché in concreto tali misure possano essere adottate, occorre, infatti, anche un particolare comportamento che dimostri come la pericolosità sia effettiva ed attuale e non meramente potenziale. L’accertamento di questa specifica pericolosità – la quale tra l’altro realizza una differenza tra le persone comprese nelle categorie genericamente ritenute pericolose – si raggiunge necessariamen-te attraverso un apprezzamento di merito» (C. cost., sent. 27 febbraio 1969, n. 32).

Nonostante gli sforzi ermeneutici delle Corti interne, i Giudici europei rilevano come la definizione dei requisiti applicativi delle misure in esame rimanga vincolata al futuro accertamento della giuri-sprudenza di merito: né la legge né la Consulta sono, appunto, riusciti ad identificare con sufficiente chiarezza “gli elementi di fatto” o le fattispecie comportamentali suscettibili d’integrare quel periculum per la società tale da rendere necessaria l’adozione delle misure preventive (§ 117).

La summenzionata declaratoria di parziale illegittimità costituzionale non ha, peraltro, impedito al Tribunale barese di fare riferimento alle “tendenze criminali” del proposto, senza che tale parametro fosse stato integrato da comportamenti specifici e diversi da elementi quali l’assenza di una stabile oc-cupazione, il frequentare soggetti pregiudicati ed i precedenti penali: il legislatore italiano, a detta dei Giudici europei ha, quindi, omesso di circoscrivere con sufficiente precisione i margini d’esercizio del dovere discrezionale attribuito alle giurisdizioni interne, esponendo, dunque, i consociati all’ingerenza dei pubblici poteri, stante l’impossibilità di prevedere l’applicazione delle misure preventive e di con-formare la propria condotta ai dettati normativi.

La Corte alsaziana denuncia, inoltre, il tenore «estremamente vago» di talune prescrizioni scaturenti dalle misure di cui agli artt. 3 e 5 della legge in commento (sorveglianza speciale, divieto/obbligo di soggiorno): rivelano, infatti, una particolare genericità ed indeterminatezza obblighi come quelli di «vi-vere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti» (§ 119). A nulla rileva che la Consulta – chiamata a pronunciarsi sul difetto di tassatività della fattispecie criminosa tesa a presidiare l’osservanza delle prescrizioni summenzionate – abbia precisato, con una sentenza interpretativa di ri-getto (sent. 7 luglio 2010, n. 282, posteriore, dunque, all’applicazione della misura nei riguardi del pro-posto), che il primo obbligo acquisti determinatezza ove letto in combinato disposto con le prescrizioni residue, che analogo principio valga con riferimento al terzo – con particolare riguardo al «divieto po-sto al sorvegliato speciale di non frequentare determinati luoghi o persone» – e che il secondo afferisca, invece, al rispetto di «tutte le norme a contenuto precettivo» anche se prive di carattere penale, la cui

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inosservanza confermi il giudizio di pericolosità [con un implicito rimando, notano i Giudici europei, all’ordinamento italiano complessivamente inteso]: la Corte alsaziana ritiene, infatti, che, anche all’in-domani dell’intervento chiarificatore operato dal Giudice delle leggi, le suddette fattispecie non rag-giungano un sufficiente livello di determinatezza, non potendosi arguire con precisione «il contenuto delle misure preventive che possono essere applicate all’individuo» (§ 122).

Sia sufficiente rammentare, a questo proposito, che la legge sancisce in termini potenzialmente asso-luti il divieto, applicato al proposto, di partecipare a pubbliche riunioni (libertà definita dalla Corte co-me fondamentale), senza predeterminare alcun limite di tipo spazio/temporale, la cui declinazione è, invece, rimessa interamente all’apprezzamento discrezionale del giudicante (§ 123).

La normativa in esame appare, dunque, carente sotto il profilo del canone della prevedibilità, con conseguente violazione dell’art. 2 del quarto Protocollo addizionale (§§ 125-127).

È stata parimenti ravvisata l’inosservanza dell’art. 6 § 1 Cedu, non avendo il ricorrente potuto fruire di un’udienza pubblica. La norma viene considerata sotto il profilo civilistico, stante il carattere non penale della controversia avente ad oggetto l’applicazione della misura preventiva della sorveglianza speciale (§ 143): tale provvedimento involge, al contrario, la limitazione di prerogative suscettibili di as-surgere a diritti della persona, aventi, come tali, una natura di carattere civile (§ 154). Già la Corte euro-pea s’era pronunciata in ordine all’assenza di pubblicità delle udienze finalizzate a decidere sull’ap-plicazione di misure preventive di carattere patrimoniale (Corte e.d.u., 13 novembre 2007, Boccellari e Rizza c. Italia; Corte e.d.u., 8 luglio 2008, Pierre c. Italia; Corte e.d.u., 5 gennaio 2010, Bongiorno c. Italia): con la pronuncia 8 marzo 2010, n. 93, la Corte costituzionale aveva, peraltro, dichiarato l’illegittimità dell’art. 4 della l. n. 1423/1956 nella parte in cui non consentiva che «su istanza degli interessati, il pro-cedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si [svolgesse], davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».

Nonostante il Governo italiano avesse riconosciuto la violazione lamentata (il procedimento era sta-to, infatti, celebrato prima dell’intervento additivo della Corte costituzionale), i Giudici europei riten-gono di esaminare comunque la doglianza, attesa la mancanza di precedenti afferenti alla pubblicità delle udienze in materia di prevenzione personale (§ 138): anche nell’ambito in esame viene, pertanto, sancito il necessario rispetto di tale prerogativa – comunque passibile di deroga con riferimento alla questione deferita al giudice (§ 163) – atteso che una controversia di tal fatta verte su tematiche quali il carattere, il comportamento e la pericolosità del proposto (§ 167).

DIRITTO ALLA VITA – DIVIETO DI TRATTAMENTI INUMANI O DEGRADANTI – OBBLIGHI POSITIVI – VIO-LENZA DOMESTICA

(Corte e.d.u., 2 marzo 2017, Talpis c. Italia)

I Giudici alsaziani hanno ravvisato la responsabilità del nostro Paese con riferimento a quel particolare risvolto di cui agli artt. 2 e 3 della Convenzione europea che sancisce l’obbligo (positivo), in capo agli Stati membri, di reprimere i rischi di condotte poste in essere da privati – lesive dei beni giuridici tute-lati dalle norme suddette – di cui la pubblica autorità abbia avuto (ovvero avrebbe dovuto avere con l’ordinaria diligenza) contezza.

Siffatte categorie di vincoli s’incuneano tra il portato sostanziale e quello procedurale delle sum-menzionate disposizioni: il primo risvolto impone ai pubblici apparati tanto di astenersi dal compro-mettere gli interessi di cui sopra (fatte salve le eccezioni contemplate dalle norme medesime), quanto di approntare un apparato sanzionatorio finalizzato ad assicurare un’efficace tutela alle potenziali vittime; il secondo aspetto implica, invece, un obbligo di pronta reazione, innanzi a qualsivoglia notitia criminis non manifestamente infondata, alla quale deve fare seguito il compimento d’indagini effettive e com-plete, finalizzate a ricostruire il fatto e ad identificarne gli autori.

La vicenda in esame concerne plurimi episodi di violenza domestica posti in essere da un marito ai danni, soprattutto, della di lui consorte, culminati nell’omicidio del figlio e nel tentato omicidio della moglie.

In breve i fatti. La ricorrente, una cittadina moldava, si era stabilita nella provincia di Udine dopo essere giunta in

Italia nel 2011 assieme alla propria famiglia. Il rapporto coniugale non era mai stato sereno: a detta del-

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l’interessata, infatti, il marito aveva posto in essere atti di violenza ai danni di costei già all’indomani del loro matrimonio (§ 8).

Tre erano stati gli episodi criminosi innanzi ai quali l’autorità pubblica era rimasta sostanzialmente inerte; il quarto, concretizzatosi nella condotta omicidiaria, aveva toccato l’apice di quell’incontrastato climax di violenze e prevaricazioni intensificatosi tra l’estate del 2012 e l’autunno del 2013.

Il 2 giugno 2012 la ricorrente aveva, infatti, richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, lamentando un’aggressione da parte del marito ai danni di se medesima oltre che della figlia, intervenuta per soc-correre la madre: recatesi al pronto soccorso, su indicazione degli agenti, le due donne, stanche dell’at-tesa, erano, tuttavia, rincasate senza ricevere alcuna cura; nessuno in quell’occasione aveva reso le vit-time edotte circa la possibilità di presentare denuncia, ovvero di rivolgersi ad un centro antiviolenza (gli interventi del legislatore finalizzati a contrastare il fenomeno della violenza di genere e a tutelare la vittima del reato sono, del resto, databili, rispettivamente, agli anni 2013 e 2015; all’epoca dei fatti era in vigore unicamente l’art. 11 del d.l. n. 11/2009, che impone alle forze dell’ordine di rendere edotta la vit-tima di stalking circa i centri antiviolenza presenti sul territorio).

Impaurita dalla condotta del marito, la ricorrente aveva cominciato a dormire nella cantina dell’ap-partamento in cui viveva (§ 13).

In data 19 agosto 2012, la donna, spaventata per una telefonata minacciosa del coniuge, decideva di allontanarsi da casa; fattovi rientro, aveva trovato la porta della cantina sfondata. Cercata, invano, ospi-talità presso sue conoscenze, la vittima veniva aggredita dal proprio marito con un coltello: l’uomo leimponeva, dunque, di seguirlo per avere dei rapporti sessuali con dei suoi amici: lungo il tragitto la donna chiedeva aiuto ad una pattuglia della polizia (§ 14), cui riferiva le minacce e le violenze subite (§ 15). Gli agenti si limitavano, tuttavia, a redigere un verbale per porto ingiustificato d’armi, a seque-strare il coltello nel cui possesso l’aggressore era stato colto, e ad intimare a costui di allontanarsi dalla moglie: quest’ultima, poco dopo, veniva trasportata al pronto soccorso, ove i sanitari diagnosticavano un trauma cranico e plurime lesioni (§ 16).

Trovato rifugio presso un’associazione che forniva aiuto alle donne maltrattate, la vittima – che nel frattempo veniva raggiunta da plurimi messaggi del marito, dal contenuto offensivo (§ 20) – presentava in data 5 settembre 2012 denuncia contro costui per lesioni, maltrattamenti e minacce, chiedendo, peral-tro, all’autorità giudiziaria di attivarsi allo scopo di adottare misure finalizzate ad impedire al coniuge d’avvicinarsi a lei ed ai figli (§ 21).

La notizia di reato veniva trasmessa il 9 ottobre 2012 (§ 22); con riferimento alla sollecitazione cautela-re, il pubblico ministero, il 15 ottobre dello stesso anno, disponeva in via d’urgenza che la p.g. si attivasse allo scopo di ricercare persone informate sui fatti, ivi compresa la figlia della persona offesa (§ 23).

La vittima veniva ascoltata, tuttavia, sette mesi dopo il deposito della denuncia (§ 30), su sollecita-zione del pubblico ministero, che si era reso conto dell’inosservanza delle proprie disposizioni prece-denti (§ 29): costei, allontanatasi dal rifugio per cercare lavoro (non essendo stato, peraltro, possibile trovare una diversa sistemazione per mancanza di fondi pubblici), dopo varie peregrinazioni si riavvi-cinava, infine, al marito, il quale, nel frattempo, cercava d’indurla a ritrattare (§§ 29, 31).

Ascoltata dalla polizia giudiziaria, la persona offesa ridimensionava, infatti, notevolmente le accuse elevate a carico del coniuge, imputando l’asserito malinteso ad una scarsa padronanza della lingua ita-liana (§ 30). Tale mutamento era, in realtà, ovviamente, ascrivibile alle pressioni esercitate dall’aggres-sore (§ 31).

Vista la contraddittorietà della prospettazione vittimale, oltre alla mancata reiterazione delle condot-te violente, il giudice per le indagini preliminari, in data 1 agosto 2013, disponeva, su richiesta del pub-blico ministero, l’archiviazione delle notitiae criminis afferenti alle fattispecie di maltrattamenti e di mi-nacce: sia consentito, a questo proposito, rammentare come la giurisprudenza della Corte e.d.u. (9 giu-gno 2009, Opuz c. Turchia, § 138) imponga all’autorità di agire con una particolare circospezione nell’ipotesi in cui la persona offesa decida di rimeditare la propria doglianza; la Corte di Cassazione, dal canto suo, per fare fronte al problema della ritrattazione processuale delle dichiarazioni accusatorie – dovuta alla riconciliazione tra vittima ed imputato – ha consentito un recupero del c.d. precedente difforme sulla scorta di una lettura sostanzialmente elusiva dei requisiti di cui all’art. 500, comma 4, c.p.p. (Cass., sez. III, 3 ottobre 2006, n. 38109; Cass., sez. III, 4 marzo 2015, n. 27117).

Per quel che attiene, invece, alle lesioni arrecate alla ricorrente, l’imputato veniva tratto a giudizio innanzi al g.d.p. e condannato ad una pena pecuniaria in data 1° ottobre 2015 (§§ 35, 43).

L’ultima serie di eventi criminosi aveva luogo durante la notte del 25 novembre 2103. In quell’occa-

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sione, la ricorrente allertava, ancora una volta, le forze dell’ordine a causa di un alterco con il marito: a seguito del proprio intervento, la polizia trovava la porta della camera da letto sfondata e numerose bottiglie di alcolici sul pavimento. La donna – raccontate le pregresse vicende – affermava, tuttavia, d’avere necessità solamente d’un supporto sanitario per il marito, che si trovava in preda all’effetto dell’alcool; tanto la vittima quanto i figli rassicuravano, infatti, le forze dell’ordine circa la buona con-dotta di questo soggetto (§ 38).

Non essendo, dunque, ravvisabili segni palesi di violenza, veniva disposto unicamente il trasporto dell’aggressore in ospedale (§ 39): l’uomo, tuttavia, si allontanava dal nosocomio nel cuore della notte; fermato per un controllo dalla polizia – in palese stato d’ebbrezza – costui veniva, ancora una volta, la-sciato andare (§§ 40, 41).

All’alba, il reo faceva ingresso in casa: armato d’un coltello da cucina, egli aggrediva la moglie ed il figlio che aveva tentato di fermarlo. La ricorrente veniva ferita; il giovane decedeva a seguito dei colpi inferti (§ 42).

In data 8 gennaio 2015, a seguito di giudizio abbreviato, il g.u.p. condannava l’imputato alla pena dell’ergastolo per i delitti di omicidio, tentato omicidio, porto abusivo d’armi e maltrattamenti, le cui indagini erano state nel frattempo riaperte (§ 44-46): il giudice – ascoltati in forza dell’art. 441, comma 5, c.p.p., la figlia della vittima ed altri testimoni – ricostruiva il «clima di violenze [... e] vessazioni giorna-liere che la ricorrente subiva» (§ 47). La condanna veniva confermata in appello (§ 48).

Adita la Corte e.d.u., la persona offesa denunciava «l’inerzia» e «l’indifferenza” delle autorità italia-ne, le quali, «avvertite a più riprese della violenza del marito, non [avevano] preso le misure necessarie ed appropriate per proteggere la vita sua e dei suoi figli [né] impedito la commissione del reato»: donde la violazione degli artt. 2, 3 ed 8 Cedu (§ 76).

Esaminata la doglianza sotto il profilo degli artt. 2 e 3 della Cedu, i Giudici alsaziani ricostruiscono il compendio d’implicazioni scaturenti dalle norme in commento: l’obbligo di predisporre un «quadro giuridico» idoneo a prevenire le azioni violente poste in essere da terze persone – id est un dettagliato compendio di norme incriminatrici (§ 100) – rischia di rimanere lettera morta laddove non vengano po-ste in essere, in caso di necessità, «misure d’ordine pratico per proteggere l’individuo la cui vita sia mi-nacciata dall’altrui condotta criminosa»: certamente, siffatte cautele devono essere applicate solamente in caso di un pericolo «reale ed immediato», di cui l’autorità avrebbe dovuto essere a conoscenza. Sus-siste, pertanto, una responsabilità statale nell’ipotesi in cui il pubblico apparato non abbia disposto quelle misure che, «da un punto di vista ragionevole, avrebbero senza dubbio mitigato tale rischio»: l’azione preventiva deve, comunque, atteggiarsi nel pieno rispetto della legalità, oltre che delle garanzie di cui agli artt. 5 ed 8 della Convenzione (§ 101).

Tale obbligo sembrerebbe, appunto, combinare gli aspetti sostanziali con quelli procedurali afferenti alle norme in commento: il dovere «di proteggere l’integrità fisica di un individuo» – chiosa la Corte con particolare riferimento all’art. 3 (spesso richiamato in combinato disposto con l’art. 1) – richiede, in-fatti, il compimento di un’indagine effettiva, condotta con una diligenza ed una celerità ragionevoli (§§ 104-106). Questo vincolo di carattere investigativo – che scaturisce dall’acquisizione della notizia di un crimine già consumato o comunque di un periculum imminente – sembrerebbe finalizzato non soltanto all’applicabilità della legge penale (allo scopo di punire il reo), bensì anche a salvaguardare le vittime, attraverso la verifica dei requisiti cui è subordinata l’emanazione delle necessarie cautele (così, anche, Corte e.d.u., 22 marzo 2016, M.G. c. Turchia, § 85).

Gli episodi di omicidio e di tentato omicidio vengono, dunque, ricondotti nell’alveo dell’art. 2 Cedu: la Corte effettua un vaglio della condotta posta in essere dall’autorità italiana a partire dalla data di pre-sentazione della denuncia (5 settembre 2012). I Giudici europei censurano, in primis, l’omessa applica-zione di una misura atta a proteggere l’incolumità della vittima: tali strumenti, chiosa la Corte, in una fattispecie concreta di violenza domestica si prestano a risolvere una situazione di pericolo con la mag-giore rapidità possibile (§ 114); il lasso di tempo di sette mesi tra la ricezione della notizia di reato ed il primo atto d’indagine ha determinato, per altro verso, un totale misconoscimento «della situazione di precarietà e di vulnerabilità [...] morale, fisica e materiale in cui versava la ricorrente» (§ 115). Siffatta ne-gligenza ha condotto ad un totale diniego di quell’assistenza di cui la vittima necessitava nel caso speci-fico: sebbene in questo lasso di tempo non fossero stati posti in essere, infatti, ulteriori episodi di violen-za fisica, la persona offesa – rammenta la Corte – era stata comunque fatta oggetto di molestie telefoni-che (§ 114), subendo, quindi, notevoli patemi d’animo e, conseguentemente, forme di vittimizzazione tanto primaria, quanto, verrebbe da dire, secondaria, a causa dell’indifferenza dell’autorità pubblica.

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Gli organi giudiziari sembrano, inoltre, essersi limitati a recepire la ritrattazione accusatoria, senza interrogarsi sui rischi di recidiva vittimale cui la persona offesa sarebbe potuta andare incontro (§ 116).

L’atteggiamento dell’autorità giudiziaria ha, insomma, creato «un contesto d’impunità favorevole al-la reiterazione [...] degli atti di violenza» (§ 117).

La Corte rammenta, inoltre, che la sera dell’omicidio le forze dell’ordine erano intervenute in una duplice occasione: nonostante le trascorse vicende di violenza fossero state loro note, non era stata po-sta in essere alcuna iniziativa finalizzata a tutelare la vittima ed i suoi familiari (§§ 119-120). Al netto di qualsivoglia dietrologia, affermano i Giudici, «l’omessa applicazione di misure, che ragionevolmente avrebbero avuto una reale chance di cambiare il corso degli eventi o [quantomeno] di attenuare il pre-giudizio cagionato, è sufficiente a determinare la responsabilità statale» (§ 121).

Atteso, peraltro, che, nell’ambito della violenza domestica i diritti del reo non possono prevalere su quelli della vittima alla vita ed all’integrità fisica o psichica, la Corte ritiene che, nel caso di specie, le autorità (consapevoli della minaccia reale per la moglie ed i figli esercitata dall’aggressore) abbiano fat-to un cattivo governo dei propri poteri (§§ 122-123).

Sono, invece, vagliate con le lenti di cui all’art. 3 tutte quelle condotte che hanno configurato episodi di violenza fisica o morale: tale norma risulta parimenti vulnerata con riferimento tanto al trascorrere di un lasso di tempo pari a sette mesi prima dell’avvio delle indagini, quanto alla durata di tre anni del procedimento conclusosi con la condanna per lesioni (§ 130).

Il trascorrere del tempo, del resto, oltre a trascurare possibili situazioni di pericolo (§ 130), rischia di nuocere all’efficacia delle indagini, aumentando sensibilmente le probabilità di dispersione e di deterio-ramento del compendio probatorio, perpetuando, altresì, l’apparente negligenza del pubblico apparato (§ 128).

Residua la violazione degli artt. 2 e 3, in combinato disposto con l’art. 14, afferente al divieto di di-scriminazione: omettendo di tutelare un soggetto vittima di violenza di genere, lo Stato italiano ha di fatto contravvenuto all’obbligo di assicurare un’eguale tutela del godimento dei diritti sanciti dalla Convenzione. L’inerzia investigativa e la sottostima della gravità dei comportamenti – che la ricorrente aveva subito a causa del sesso d’appartenenza – si sono, infatti, risolte in un sostanziale “condono” dei comportamenti medesimi, creando un’ipotesi discriminatoria contraria all’art. 14 (§§ 141-149).

Resta, invece, assorbita nelle precedenti questioni la doglianza afferente all’art. 8 (§§ 150-151).

DIRITTO AL RISPETTO DELLA VITA PRIVATA E FAMILIARE – ABUSI SU MINORI – RAPPORTI TRA PROCESSO PENALE E CIVILE

(Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, D’Alconzo c. Italia; Corte e.d.u., 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia)

Le pronunce in esame involgono la delicata tematica afferente ai rapporti tra i figli minori ed il genitore accusato di avere posto in essere delitti a sfondo sessuale in danno dei medesimi.

La Corte s’interroga, in particolare, sul rispetto degli obblighi scaturenti dall’art. 8 della Convenzio-ne. Detta norma implica, infatti, la sussistenza, in capo agli Stati, di vincoli aventi carattere sia negativo – in forza dei quali l’autorità pubblica deve astenersi dal porre in essere ingerenze arbitrarie quanto al godimento del diritto al rispetto della vita privata e familiare – sia positivo, tali per cui l’apparato stata-le deve predisporre e, in caso di bisogno, applicare, misure tese alla salvaguardia dei summenzionati valori, anche favorendo la ricostruzione dei rapporti tra genitori e figli d’età minore, avendo riguardo al preminente interesse di questi ultimi (§ 56). Siffatti accorgimenti devono, peraltro, essere adottati con ragionevole celerità, atteso il rischio di «conseguenze irrimediabili» che il decorso del tempo può sortire «sulle relazioni tra il bambino ed il genitore non convivente» (§ 57).

Con riferimento alla prima fattispecie, i Giudici alsaziani hanno ravvisato la violazione dell’art. 8 a causa delle lungaggini che avevano contraddistinto il procedimento penale incardinato nei confronti di un genitore che, nel corso di una burrascosa disgregazione del nucleo familiare, era stato accusato dalla propria partner (già condannata per sottrazione internazionale di minori) di avere posto in essere abusi sessuali ai danni dei figli.

Dopo la prima denuncia (concernente presunte violenze poste in essere nei riguardi di un solo mi-nore), datata 7 marzo 2011 (§ 12), entrambi i genitori venivano sospesi dall’esercizio della responsabilità nei confronti della prole: i figli venivano inizialmente collocati presso i servizi sociali e, poco dopo, re-

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stituiti alla madre (§ 14). In data 20 settembre 2011, un esperto nominato dall’autorità giudiziaria con-statava l’assenza di qualsivoglia indice di violenza sessuale; nel frattempo, la madre aveva comunque presentato un nuovo esposto, concernente, questa volta, l’altro figlio della coppia (§ 17).

Con un provvedimento datato 7 ottobre 2011, il Tribunale dei minori ammetteva il ricorrente all’e-sercizio del diritto di visita, sotto il controllo del servizio sociale: il genitore era stato, tuttavia, in grado di esercitare tale prerogativa solo cinque mesi più tardi e comunque di rado (§§ 19, 20, 23, 26).

Nell’ottobre 2012 il pubblico ministero formulava la richiesta di archiviazione nei confronti delle suindicate accuse, elevate a carico dell’indagato (§ 22); in data 19 aprile 2013 il g.i.p. ordinava, invece, all’organo inquirente dapprima di disporre indagini suppletive, nonché, successivamente, di formulare l’imputazione (§ 27): in data 29 maggio 2013 veniva chiesto, pertanto, il rinvio a giudizio (§ 28); l’u-dienza preliminare veniva fissata per il giorno 17 marzo 2014, con provvedimento emesso il 30 gennaio dello stesso anno (§ 30); l’imputato veniva, quindi, prosciolto dalle accuse in data 5 maggio 2014 (§ 31).

La Corte europea ritiene che non debba essere mossa alcuna censura in ordine alle restrizioni impo-ste al genitore in pendenza del procedimento penale: tali misure (e l’ingerenza statualistica nelle rela-zioni familiari che queste implicavano) apparivano, infatti, giustificate dal bisogno di tutelare i diritti dei minori (§ 62): vero è, tuttavia, rammentano i Giudici strasburghesi, che questi stessi diritti impon-gono che lo Stato si attivi al fine di consentire nuovamente lo sviluppo dei rapporti tra genitori e figli non appena le cautele suddette appaiano non più necessarie (§ 63).

La Corte ritiene, al contrario, assolutamente ingiustificate le tempistiche del procedimento penale (§ 67), ponendo in particolare modo l’accento sul periodo trascorso tra il deposito della consulenza che sostanzialmente scagionava l’indagato e la richiesta di archiviazione (3 mesi); lo stesso dicasi con rife-rimento agli intervalli tra la suindicata domanda e la pronuncia del g.i.p. (sei mesi), nonché tra la ri-chiesta di rinvio a giudizio e la celebrazione dell’udienza preliminare (10 mesi). Giova, peraltro, notare che, solo al termine dell’iter giudiziario criminale, il ricorrente veniva reintegrato nel pieno esercizio dei suoi diritti genitoriali (§§ 32, 67).

La vicenda suddetta – chiosano i Giudici alsaziani – avrebbe dovuto ricevere un «trattamento urgen-te», visti i summenzionati pericoli derivanti dal ritardo nella ricostruzione dei rapporti con i figli in te-nera età (§ 68): se possono, dunque, essere considerate «giustificate» le restrizioni imposte prima della definizione del procedimento penale, altrettanto non può dirsi con riferimento ai tempi di gestione di quest’ultimo (§ 69).

Simile è la vicenda sottesa all’arrêt Solarino. In data 3 ottobre 2007, il ricorrente veniva denunciato dalla moglie per presunti abusi sessuali commessi ai danni della figlia (§ 8); in data 7 maggio 2009 il g.i.p. disponeva l’archiviazione della notizia di reato (§ 13): dopo la conclusione del procedimento pe-nale, gli organi della giustizia civile avevano, tuttavia, riapplicato, fino all’11 novembre 2013, delle re-strizioni al diritto di visita nei confronti, dapprima, del padre e, successivamente, dei nonni paterni. Ta-li misure – nonostante la precedente archiviazione ed un nuovo parere esperto avessero accertato l’infondatezza delle accuse (§ 15) – venivano motivate con riferimento ai «sospetti» d’abuso asseriti dal-la madre (§ 16). Richiamati i principi suesposti (§§ 37-39), i Giudici europei ritengono giustificate le mi-sure applicate dalle giurisdizioni nazionali durante la pendenza del procedimento penale; appaiono, viceversa, destituite di fondamento alcuno le restrizioni disposte tra l’autunno del 2009 e novembre 2013 (§ 53): donde la violazione dell’art. 8 Cedu (§ 54), anche alla luce del pregiudizio subito dalla mi-nore a causa della «alterazione dei rapporti» con il resto della famiglia (§ 49).

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CORTE COSTITUZIONALE di Laura Capraro

INAPPLICABILE L’ART. 192, COMMA 3, C.P.P. ALLE DICHIARAZIONI DEGLI IMPUTATI IN PROCEDIMENTO CONNESSO O PER REATO COLLEGATO, ASSOLTI CON SENTENZA DIVENUTA IRREVOCABILE PERCHÉ “IL FATTO NON SUSSISTE”

(C. cost., sent. 26 gennaio 2017, n. 21)

Con la sent. 26 gennaio 2017, n. 21, la Corte costituzionale ha dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 197-bis, comma 6, c.p.p., per violazione dei principi di ragionevolezza ed uguaglianza, nella parte in cui, per la valutazione delle dichiarazioni rese dalle persone contemplate dal comma 1 dell’art. 197-bis, giudicate in procedimento connesso o per reato collegato, nei cui confronti sia stata pronunciata sen-tenza di assoluzione irrevocabile perché “il fatto non sussiste”, prevede l’applicazione dell’art. 192, comma 3, c.p.p.

Per effetto dell’art. 27 della l. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), con lo stesso provvedimento è stata altresì dichiarata la illegittimità dell’art. 197-bis, comma 3, nella parte in cui, per i medesimi soggetti, è prevista l’assistenza di un difensore.

La questione è stata anzitutto ritenuta rilevante poiché nel giudizio a quo le dichiarazioni del coim-putato per reato connesso erano state poste a fondamento della ipotesi accusatoria e, dunque, l’appli-cabilità o meno della regola di giudizio di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p., avrebbe determinato, rispet-tivamente, l’assoluzione o l’affermazione di responsabilità degli imputati, attesa l’inesistenza, negli atti, di riscontri a tali dichiarazioni.

Il giudice delle leggi ha sostanzialmente fatto rinvio alla ratio sottesa alla decisione già adottata nel 2006 (n. 381), nonché all’apparato argomentativo ivi utilizzato per dichiarare la parziale illegittimità del medesimo art. 197-bis, commi 3 e 6, c.p.p., laddove prevedevano, rispettivamente, l’assistenza di un di-fensore e l’applicazione dell’art. 192, comma 3, anche per le dichiarazioni rese dalle persone, indicate al comma 1 del medesimo art. 197-bis, nei cui confronti fosse stata pronunciata sentenza di assoluzione “per non aver commesso il fatto”, divenuta irrevocabile.

Con la decisione in commento, in particolare, viene confermato che, all’indomani della riforma del giusto processo ad opera della l. n. 63/2001, le categorie delle persone che possono rendere dichiara-zioni nel processo sono molteplici, e che ad ogni categoria corrispondono modalità acquisitive ed effetti differenti.

L’appartenenza all’una o all’altra categoria di soggetti è dettata dal loro diverso “stato di relazione” rispetto ai fatti oggetto del procedimento: partendo dalla situazione di assoluta indifferenza propria del teste ordinario, si giunge fino alla forma di coinvolgimento massimo, rappresentato dal concorso del dichiarante nel medesimo reato.

Così come era apparso irragionevole e in contrasto con l’art. 3 Cost. l’applicazione dell’art. 192, comma 3, c.p.p. e la previsione dell’art. 197-bis, comma 3, c.p.p. relativa all’assistenza del difensore in caso di dichiarazioni rese un testimone assistito assolto “per non aver commesso il fatto” (sent. 21 no-vembre 2006, n. 381), allo stesso modo la Corte ha ritenuto che non sia ragionevole assimilare le dichia-razioni delle persone giudicate in procedimento connesso o per reato collegato, nei cui confronti sia sta-ta pronunciata sentenza di assoluzione perché “il fatto non sussiste”, divenuta irrevocabile, alle altre dichiarazioni previste dal comma 1 dell’art. 197-bis.

A parere della Corte, infatti, non sussiste alcun valido e razionale fondamento nella limitazione del valore probatorio delle dichiarazioni rese da una persona che, pur avendo avuto un rapporto qualifica-to con l’imputato del procedimento a quo, sia stata tuttavia assolta con sentenza divenuta irrevocabile “perché il fatto non sussiste”, posto che tale decisione sancisce la estraneità dell’imputato ai fatti ogget-to del giudizio: ritenendo legittimo il rinvio, contenuto nell’art. 197-bis, comma 6, c.p.p. alla regola di

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giudizio di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p., il giudicato di assoluzione verrebbe ingiustificatamente scal-fito nella sua efficacia.

Come accennato, la Corte ha ravvisato anche la violazione dell’art. 3 Cost. A tale riguardo, il giudice delle leggi ha osservato che la incompatibilità della disciplina positiva con

il parametro costituzionale indicato è riscontrabile sia con riferimento al testimone ordinario, rispetto al quale le persone giudicate in procedimento connesso o per reato collegato, nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di assoluzione perché “il fatto non sussiste”, soffrono una presun-zione di minore credibilità, pur condividendo con tale soggetto una identica condizione di indifferenza rispetto ai fatti di giudizio; sia in relazione alle dichiarazioni rese da imputati in procedimento connesso o per reato collegato: dopo la citata sent. n. 381/2006 e prima della decisione in commento, infatti, il va-lore probatorio di tali contributi conoscitivi riceveva una ingiustificata disparità di trattamento, a se-conda che l’assoluzione fosse stata pronunciata «per non aver commesso il fatto» ovvero «perché il fat-to non sussiste».

Con la decisione in commento il contenuto dell’art. 197-bis c.p.p. viene così a coincidere con il dispo-sto dell’art. 348, comma 3, contenuto nel codice del 1930, che già vietava l’assunzione, come testimoni, degli imputati dello stesso reato o di un reato connesso, anche se erano stati prosciolti o condannati, salvo che il proscioglimento fosse stato «pronunciato in giudizio per non aver commesso il fatto o per-ché il fatto non sussiste».

La dichiarata illegittimità costituzionale del comma 6 dell’art. 197-bis, c.p.p., si estende infine al comma 3, in ragione del fatto che l’assistenza del difensore per l’assunzione della testimonianza del di-chiarante, imputato in un procedimento connesso o di un reato collegato poi assolto «perché il fatto non sussiste», rappresenta una modalità acquisitiva strettamente correlata alla norma di cui viene dichiarata l’illegittimità costituzionale: mantenerne la vigenza lascerebbe parzialmente in vita l’ingiustificata dispa-rità di trattamento alla quale si è voluto porre rimedio.

LEGITTIMO L’ISTITUTO DELLA SOSPENSIONE DEL PROCEDIMENTO CON MESSA ALLA PROVA DISCIPLINATO DALL’ART. 168-BIS C.P.

(C. cost., ord. 11 gennaio 2017, n. 54)

Nel dichiarare la manifesta infondatezza delle questioni sulla legittimità dell’art. 168-bis c.p. (oltre che l’inammissibilità di quelle relative agli artt. 464-bis ss. c.p.p., a causa della generica indicazione delle di-sposizioni censurate e della omessa specificazione delle ragioni poste a fondamento della ritenuta inco-stituzionalità), la Corte fornisce una serie di indicazioni utili alla ricostruzione della fisionomia dell’isti-tuto della sospensione del procedimento con messa alla prova.

Con riguardo alla denunciata violazione dell’art. 3 Cost., derivante, secondo il giudice rimettente, dalla monolitica previsione contenuta nell’art. 168-bis c.p., che contempla la possibilità della messa alla prova per un numero significativo di reati tra loro molto diversi, senza alcuna diversificazione fattispe-cie, il giudice delle leggi chiarisce che ciò non si traduce necessariamente in una identità di trattamento.

La sospensione del procedimento con messa alla prova, infatti, – al pari degli altri procedimenti spe-ciali alternativi al giudizio (sent. 26 novembre 2015, n. 240) – è sì destinato a definire i procedimenti re-lativi ad ampie categorie di reati, ma con l’implicito affidamento in capo al giudice della differenziazio-ne dei singoli casi, come conferma il rinvio dell’art. 464-quater, comma 3, c.p.p. all’art. 133 c.p.

Secondo i giudici costituzionali è l’autorità giudiziaria che – utilizzando i parametri della gravità e della natura del reato; della capacità a delinquere, e della personalità dell’imputato per la valutazione della concreta idoneità del programma (Cass., sez. un., 31 marzo 2016, n. 33216), sotto il profilo sia “af-flittivo” che “rieducativo” – assicura il rispetto dell’art. 3 Cost.

Il giudice a quo riteneva violato, inoltre, l’art. 24 Cost. «perché l’omessa indicazione della durata massima del lavoro di pubblica utilità, dei parametri per determinarla e del soggetto competente a que-sta determinazione impedirebbe all’imputato di conoscere le sanzioni in cui può incorrere».

A giudizio della Corte, non è possibile rilevare alcuna incompatibilità neppure rispetto a tale norma, dal momento che la durata massima della misura può agevolmente essere desunta dall’art. 464-quater, comma 5, c.p.p. Quest’ultima disposizione prevede che la durata della sospensione del procedimento (e quindi la durata della messa alla prova) non può essere: «a) superiore a due anni quando si procede per

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reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria; b) su-periore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria».

Per determinare in concreto la durata della misura, peraltro, il giudice deve tenere conto dei criteri previsti dall’art. 133 c.p., delle caratteristiche e delle modalità che la prestazione lavorativa dovrà rive-stire, considerato che essa può avere luogo in giorni anche non continuativi, con una durata giornaliera da stabilire, nel limite massimo di otto ore, «con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell’imputato» (art. 168-bis, comma 3, c.p.).

Manifestamente infondate, infine, le censure fondate sul preteso contrasto dell’art. 168-bis c.p. con l’art. 27 Cost., che restano assorbite dalla soluzione ermeneutica indicata dalla Corte per negare la in-compatibilità della medesima norma con l’art. 24 Cost.

DISSENSO DELL’IMPUTATO ALLA DEFINIZIONE DEL GIUDIZIO CON SENTENZA DI IMPROCEDIBILITÀ PER “LIEVE ENTITÀ”: UN’OCCASIONE PERSA PER FARE CHIAREZZA

(C. cost., ord. 7 dicembre 2016, n. 46)

Sono state dichiarate manifestamente inammissibili le questioni costituzionali che il Giudice di pace di Matera ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 27 e 111 Cost., e agli artt. 3 e 48 della Carta di Niz-za, dell’art. 131-bis c.p. e dell’art. 4 d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (Disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera m), della legge 28 aprile 2014, n. 67), «nella parte in cui manca la previsione che l’imputato possa esprimere al Giudice, e questi ne debba tener con-to in maniera vincolante, il proprio dissenso in ordine alla definizione del processo con sentenza decla-ratoria di non punibilità per tenuità del fatto; sentenza da cui scaturisce, per dettato normativo, la iscri-zione nel casellario giudiziale».

Le tre diverse ordinanze di rimessione avrebbero potuto essere l’occasione per un chiarimento sulla applicabilità, nei procedimenti che si svolgono dinanzi al giudice di pace, dell’art. 131-bis c.p. Tale ulti-ma previsione, introdotta dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28 (attuativo della l. 28 aprile 2014, n. 67, Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in ma-teria di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili), contempla una ge-nerale causa di esclusione della punibilità, che va ad aggiungersi all’istituto, disciplinato dall’art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, proprio del processo davanti al giudice di pace.

Come noto, la “particolare tenuità del fatto” prevista dal d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) – che può essere dichiarata avendo riguardo, tra l’altro, al grado della colpevolezza, all’occasionalità del fat-to, alla volontà della persona offesa e alle varie esigenze personali e professionali dell’imputato – oltre ad essere riservata ai procedimenti che si svolgono dinanzi al giudice di pace, costituisce una causa di non procedibilità. Pur essendo dunque pacifica la diversa natura degli istituti, non è altrettanto pacifica, tuttavia, la applicabilità dell’art. 131-bis c.p. nei giudizi di competenza del giudice di pace. A tale riguar-do, nella giurisprudenza della Corte di cassazione esistono infatti orientamenti contrastanti (in senso negativo, Cass., sez. V, 15 settembre 2016, n. 47523; Cass., sez. V, 15 settembre 2016, n. 47518; Cass., sez. V, 14 luglio 2016, n. 45996; in senso affermativo, Cass., sez. IV, 19 aprile 2016, n. 40699).

Interessante sarebbe stato, inoltre, un pronunciamento della Corte sulla denunciata questione della mancata previsione del dissenso dell’imputato da un’eventuale sentenza di non doversi procedere “per particolare tenuità”, nonostante questa pronuncia incida negativamente sulla sua sfera giuridica, es-sendo prevista, ad esempio, la sua iscrizione nel casellario giudiziale.

Secondo il giudice rimettente la norma censurata violerebbe il diritto alla difesa (art. 24 Cost.), il di-ritto ad un giusto processo (art. 111 Cost.), il diritto a non essere considerato colpevole fino alla senten-za definitiva di condanna (artt. 27 Cost. e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), il diritto alla tutela della propria onorabilità e reputazione (artt. 2 e 3 Cost. ed art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea), nonché il principio di ragionevolezza in quanto il Giudice «irra-gionevolmente è chiamato ad esprimere una valutazione in ordine alla gravità o tenuità del fatto, rima-nendo tuttavia vincolato in maniera esclusiva alle valutazioni espresse dal P.M. a seguito delle indagini preliminari».

Come si è detto, tali quesiti sono rimasti senza risposta, poiché la Corte è stata costretta a dichiarare

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SCENARI | CORTE COSTITUZIONALE

la manifesta inammissibilità delle questioni proposte: il Giudice rimettente ha omesso sia la descrizione dei fatti oggetto dei procedimenti a quibus, che la esposizione delle ragioni per le quali in tali procedi-menti avrebbe dovuto trovare applicazione l’istituto previsto dall’art. 131-bis c.p. e non l’istituto disci-plinato dall’art. 34 del d.lgs. n. 274/2000, impedendo così il necessario e preliminare controllo da parte della Corte in punto di rilevanza (conformemente ad un consolidato indirizzo: ordinanze 21 settembre 2016, n. 237; 15 giugno 2016, n. 196; 24 febbraio 2016, n. 55; 24 giugno 2015, n. 162).

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SCENARI | SEZIONI UNITE

SEZIONI UNITE di Teresa Alesci

IN SEDE DI APPLICAZIONE DELLA DISCIPLINA DEL REATO CONTINUATO, IL GIUDICE DELL’ESECUZIONE NON PUÒ QUANTIFICARE GLI AUMENTI DI PENA PER I REATI SATELLITE IN MISURA PIÙ’ GRAVOSA

(Cass., sez. un., 10 febbraio 2017, n. 6296)

Le Sezioni Unite sono intervenute per risolvere il contrasto giurisprudenziale sorto circa il potere del giudice dell’esecuzione di quantificare, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, gli aumenti di pena previsti per i reati satellite in misura superiore a quelli inflitti dal giudice della cogni-zione.

Invero, un primo orientamento, di minore rilevanza, esclude la possibilità di rettificare in aumento la pena inflitta per le singole fattispecie criminose minori, valorizzando il principio del favor rei ed il con-seguente divieto di reformatio in peius, valido anche in fase esecutiva (Cass., sez. I, 1° giugno 2016, n. 37618; Cass., sez. I, 7 giugno 2015, n. 31424; Cass., sez. I, 5 giugno 2014, n. 38331).

Secondo una diversa interpretazione, il giudice dell’esecuzione è vincolato all’individuazione del reato più grave ed alla pena per esso stabilita, senza che tale vincolo ricorra quanto al trattamento san-zionatorio relativo ai reati satellite, per i quali, dunque, è possibile rideterminare la pena in maniera su-periore a quella inflitta in sede di merito. La ratio di tale opzione esegetica si rinviene nel dato normati-vo di cui all’art. 671, comma 2, c.p.p. che fa riferimento al solo limite dell’entità complessiva della pena inflitta con il singolo titolo esecutivo dedotto per la continuazione (Cass., sez. I, 19 febbraio 2016, n. 24117; Cass., sez. I, 11 novembre 2015, n. 29941; Cass., sez. I, 29 ottobre 2015, n. 29939).

Preliminarmente le Sezioni Unite analizzano la ratio della disciplina della continuazione del concorso formale. Con l’art. 671 c.p.p., è stata rimessa, in sede esecutiva, la possibilità di recuperare l’operatività del vincolo della continuazione, consentendo l’applicazione di una più mite disciplina rispetto al cumu-lo materiale, nel caso di più condotte passate in giudicato, ma giudicate separatamente. Storicamente, dunque, l’istituto ha la funzione di mitigare il regime sanzionatorio delle sentenze del giudice di meri-to, e di agevolare, senza pregiudizio per le garanzie difensive, lo svolgimento di processi separati, al-lorquando la riunione potrebbe ritardarne la definizione in conformità con il precetto costituzionale di ragionevole durata (C. cost., ord. n. 56/2010; C. cost., sent. n. 183/2013).

In secondo luogo, la stessa natura del giudizio di esecuzione depone in senso contrario alla possibili-tà per il giudice di applicare un trattamento sanzionatorio più grave sebbene limitatamente ai reati sa-tellite. A tal proposito, le Sezioni Unite ritengono doveroso valorizzare il carattere sommario della fase esecutiva, il limitato contraddittorio che lo caratterizza ed i limiti istruttori tipici di questa fase.

Inoltre le Sezioni Unite svolgono alcune considerazioni sul rapporto tra la disciplina ex art. 671 e l’istituto del giudicato, sottolineando come la cedevolezza del giudicato sia sempre stata applicata solo in favore del condannato e mai contro; ne consegue, dunque, che l’interpretazione favorevole alla pos-sibilità di una decisione in peius del giudice dell’esecuzione, circa la determinazione della sanzione del reato satellite, risulta contraria all’attuale fase evolutiva del rapporto tra diritto penale e processuale (Cass., sez. un., 29 maggio 2014, n. 4258; Cass., sez. un., 21 giugno 1986, n. 7682).

Da ultimo, la Suprema Corte nega la possibilità di estendere al caso in esame le conclusioni delle Se-zioni Unite del 2014, secondo cui “non viola il divieto di reformatio in peius previsto dall’art. 597 cod. proc. pen. il giudice dell’impugnazione che, quando muta la struttura del reato continuato (come avviene se la regiudi-canda satellite diventa quella più grave o cambia la qualificazione giuridica di quest’ultima), apporta per uno dei fatti unificati dall’identità del disegno criminoso un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudi-ce, pur non irrogando una pena complessivamente maggiore” (Cass., sez. un., 27 marzo 2014, n. 16208). Se-condo la Corte, invero, le due situazioni non sono sovrapponibili, poiché il principio di diritto sancito nel 2014 riguarda i poteri e le funzioni del giudice di secondo grado, giudice dunque della cognizione,

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SCENARI | SEZIONI UNITE

mentre nel caso di specie, il giudice è quello della fase esecutiva, privo di conoscenze sul fatto e sulla colpevolezza dell’imputato.

In definitiva, dunque, sembrerebbe doppiamente asistematica una interpretazione delle disposizioni che consentono il superamento del giudicato al fine del riconoscimento in sede esecutiva verso un ap-prodo tale da facoltizzare l’applicazione di un trattamento sanzionatorio anche solo pro quota più sfavo-revole.

Le Sezioni Unite, dunque, affermano il seguente principio di diritto: “il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna”.

L’INAMMISSIBILITÀ DEL RICORSO PER UNO DEI CAPI DI UNA SENTENZA CUMULATIVA IMPEDISCE DI RILE-VARE LA PRESCRIZIONE MATURATA DOPO LA SENTENZA DI APPELLO

(Cass., sez. un., 14 febbraio 2017, n. 6903)

La Suprema corte è stata chiamata a pronunciarsi sulla rilevabilità della prescrizione, intervenuta dopo la deliberazione di appello, nel caso di ricorso cumulativo per diversi ed autonomi capi di imputazione, per alcuni dei quali il ricorso è inammissibile.

In relazione ad un ricorso relativo a due capi di imputazione diversi e autonomi ascritti allo stesso imputato, per uno dei quali il ricorso doveva ritenersi parzialmente fondato, la Sesta Sezione, assegna-taria del ricorso, ha evidenziato la sussistenza di un contrasto giurisprudenziale circa la possibilità di dichiarare, nei ricorsi avverso sentenze oggettivamente cumulative, la prescrizione maturata successi-vamente alla sentenza di appello per il reato in relazione al quale i motivi di ricorso risultano affetti da cause di inammissibilità.

In via preliminare, la Suprema Corte ripercorre gli approdi giurisprudenziali sul rapporto tra la de-libazione di inammissibilità del ricorso e l’obbligo di immediata declaratoria di cause di proscioglimen-to ex art. 129 c.p.p., che hanno portato ad una notevole dilatazione dell’area delle cause originarie di inammissibilità rispetto a quelle sopravvenute, fino al superamento di tale distinzione, attraverso l’ela-borazione di una unitaria categoria di inammissibilità dell’impugnazione, comprensiva anche della manifesta infondatezza, preclusiva della rilevabilità delle cause di non punibilità maturate in sede di merito come la prescrizione (Cass., sez. un., 22 novembre 2000, n. 32; Cass., sez. un., 27 giugno 2001, n. 33542; Cass., sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428). Invero, tutte le cause di inammissibilità del ricorso, in-tegrando un vizio intrinseco dell’atto, impediscono la valida costituzione del rapporto processuale, non consentendo, dunque, la rilevabilità d’ufficio ex art. 129 c.p.p. dell’estinzione del reato per prescrizione maturata successivamente alla sentenza d’appello.

Nel caso sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite, però, la questione appare più problematica, poiché la sentenza oggetto di impugnazione riguarda due distinte fattispecie di reato iscritte allo stesso imputato e con il ricorso per cassazione sono stati dedotti plurimi motivi di ricorso aventi ad oggetto entrambi i reati per i quali è stata pronunciata la sentenza di condanna. Il ricorso, però, risulta ammis-sibile in relazione ad uno solo dei reati, risultando infondato per l’altro.

Ad un prevalente orientamento, che ritiene, nel caso di ricorso avverso sentenza plurima o cumula-tiva dal punto di vista oggettivo, autonoma l’azione penale e plurimi i rapporti di impugnazione relati-vi ai diversi reati e ai relativi capi e punti della sentenza impugnata, si contrappone un diverso indiriz-zo giurisprudenziale, invero, costituito solo da due pronunce, secondo cui anche nel caso di sentenza oggettivamente cumulativa, con diversi motivi, il rapporto processuale è validamente costituito per tut-ti i capi impugnati e quindi anche per i reati in relazione ai quali l’impugnazione risulti inammissibile (Cass., sez. II, 5 luglio 2013, n. 31034; Cass., sez. V, 13 gennaio 2014, n. 16375).

Per la soluzione del contrasto, le Sezioni Unite ritengono doveroso ricostruire l’elaborazione giuri-sprudenziale e dottrinale in tema di autonomia dei rapporti processuali di impugnazione relativi ai singoli capi e punti, nel caso di ricorso avverso una sentenza plurima o cumulativa. Già nel 1990, le Se-zioni Unite, con la sentenza n. 373, affermarono che l’annullamento parziale esaurisce il giudizio in rela-zione a tutte le disposizioni contenute nella sentenza impugnata e non comprese in quelle annullate, né ad esse legate da un rapporto di connessione essenziale; successivamente con l’ordinanza n. 20/1996, si specificò il contenuto del principio di autonomia delle statuizioni relative ai diversi ed autonomi capi di

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imputazione nei processi cumulativi. Le Sezioni Unite, inoltre, con la sent. n. 1/2000, chiarivano che il giudicato parziale può formarsi solo con riguardo ai capi e non con riguardo ai punti della decisione.

In caso di sentenza cumulativa relativa a diverse imputazioni, i singoli capi della sentenza sono au-tonomi ad ogni effetto giuridico e anche ai fini dell’impugnazione, stante il principio della pluralità del-le azioni penali. Tale principio di autonomia, già affermato nella vigenza del codice del 1930, è stato ri-badito dalle Sezioni Unite, con la sent. n. 10251/2007. In particolare, si condivideva la definizione di “capo” come atto giuridico completo, tale da poter costituire da solo, anche separatamente, il contenuto di una sentenza con la conseguenza che nel caso di processo relativo ad un solo reato, la sentenza passa in giudicato nella sua interezza, mentre nell’ipotesi di processo cumulativo o complesso, il crisma del giudicato può colpire solo alcuni capi, ed il rapporto processuale può proseguire per altri.

Le Sezioni Unite condividono l’orientamento giurisprudenziale maggioritario, secondo cui, alla luce del principio di autonomia dei rapporti di impugnazione relativi ai singoli capi, nei processi oggetti-vamente cumulativi l’ammissibilità del ricorso relativo ad un capo non si comunica agli altri capi per i quali il ricorso, se preso in esame isolatamente, sarebbe stato dichiarato inammissibile. Secondo la Cor-te, la base normativa del principio in esame si rinviene in particolare nell’art. 581, comma 1, lett. a), c.p.p., che prevede, a pena di inammissibilità, l’enunciazione, nell’atto di impugnazione, tra l’altro, dei “capi o punti della decisione ai quali si riferisce l’impugnazione”.

In conclusione, dunque, viene affermato il seguente principio di diritto: “In caso di ricorso avverso una sentenza di condanna che riguardi più reati ascritti allo stesso imputato (sentenza oggettivamente cumulativa), l’autonomia dell’azione penale e dei rapporti processuali inerenti ai singoli capi di imputazione impedisce che l’am-missibilità dell’impugnazione per uno dei reati possa determinare l’instaurazione di un valido rapporto processuale anche per i reati in relazione ai quali l’impugnazione sia inammissibile e preclude per detti reati, in relazioni ai quali si è formato il giudicato parziale, la possibilità di rilevare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello”.

L’OMESSA NOTIFICA ALL’IMPUTATO DELL’AVVISO DI FISSAZIONE DELL’UDIENZA PRELIMINARE INTEGRA UNA NULLITÀ ASSOLUTA ED INSANABILE

(Cass., sez. un., 17 febbraio 2017, n. 7697)

Le Sezioni Unite sono intervenute in merito al regime giuridico della nullità che investe l’omessa notifi-ca dell’avviso all’imputato di fissazione dell’udienza preliminare.

La Quarta Sezione, assegnataria del ricorso, avendo riscontrato la presenza di un recente indirizzo giurisprudenziale contrario all’orientamento ormai consolidato, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

Se da un lato l’omessa notificazione della citazione equivale all’omessa citazione che, ai sensi del-l’art. 179 c.p.p., determina una nullità assoluta ed insanabile, la questione controversa riguarda la pos-sibilità che l’omesso avviso ex art. 419 c.p.p. equivalga alla omessa citazione.

Preliminarmente le Sezioni Unite ripercorrono gli approdi giurisprudenziali che hanno ricondotto il vizio in esame ad una ipotesi di nullità assoluta ex art. 179 c.p.p., equiparando l’avviso alla citazione. Con la sentenza a Sezioni Unite Ferrara (Cass., sez. un., 9 luglio 2003, n. 35358), è stato riconosciuto al-l’avviso di fissazione dell’udienza preliminare, notificato unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, la natura di citazione, consentendo la partecipazione della parte personalmente all’udienza. Invero la totale equiparazione tra avviso dell’udienza preliminare e citazione, rilevante ai fini dell’individua-zione del regime giuridico della nullità, si rinviene in plurimi argomentazioni. Da un lato, l’art. 419, comma 4, c.p.p. prevede la citazione del responsabile civile e della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria: sarebbe illogico ritenere che si sia voluto distinguere quanto alla vocatio tra la posizio-ne di parti eventuali e quella dell’imputato; dunque anche quest’ultimo risulta destinatario di un atto avente valenza di citazione.

D’altro canto, non si può sottovalutare la mutata natura dell’udienza preliminare a seguito di pluri-me riforme legislative, degli interventi della giurisprudenza di legittimità e della Corte costituzionale, che da mera udienza filtro è diventata un vero e proprio giudizio, seppur con l’applicazione di una re-gola di giudizio diversa dal dibattimento, limitata alla sostenibilità dell’accusa e dell’utilità del dibatti-mento. (Cass., sez. un., 30 ottobre 2002, n. 39915).

Infine, l’assimilazione dell’avviso alla citazione non appare una novità nel panorama giurispruden-

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ziale: nel procedimento cautelare e nel procedimento di esecuzione, l’omessa notifica dell’avviso di fis-sazione dell’udienza camerale integra una nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 c.p.p.

Nonostante l’arresto giurisprudenziale delle Sezioni Unite, secondo cui l’omissione della notifica all’imputato dell’avviso di udienza preliminare costituisce una ipotesi di nullità assoluta, di recente al-cune pronunce della Cassazione hanno recuperato la tesi della natura intermedia di tale invalidità. Tale opzione esegetica si basa sulla funzione meramente di filtro della udienza preliminare (Cass., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 46991) e sulla differenza strutturale e concettuale tra l’avviso e la citazione (Cass., sez. V, 9 ottobre 2013, n. 49473).

Le Sezioni Unite si interrogano sull’effettiva consapevolezza di un mutamento di giurisprudenza, rinvenendosi in una ipotesi di overruling contra reum. Invero, la funzione di nomofilachia affidata dal(l’art. 65 ord. giud. alla Corte di cassazione è stata nel tempo valorizzata, attribuendo sempre maggior rilievo al precedente di legittimità. Di conseguenza, perché una sentenza determini una overruling, deve mo-strare l’intenzione di mutare l’indirizzo giurisprudenziale consolidato e deve essere sostenuta da un apparato argomentativo persuasivo. Secondo la Suprema corte, queste caratteristiche non connotano le sentenze delle Sezioni semplici, causa del presunto contrasto, prive di alcun riferimento alla giurispru-denza delle Sezioni unite e di argomentazioni dirimenti (Cass., sez. VI, 15 aprile 2010, n. 17779).

In conclusione, le Sezioni Unite ribadiscono il seguente principio di diritto: “L’omessa notifica all’im-putato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare configura un’ipotesi di nullità assoluta, insanabile e rile-vabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento, derivante dall’omessa citazione dell’imputato”:

I REQUISITI DI AMMISSIBILITÀ DELL’ATTO DI APPELLO: LA SPECIFICITÀ DEI MOTIVI

(Cass., sez. un., 22 febbraio 2017, n. 8825)

Chiamate a pronunciarsi sulle conseguenze del difetto di specificità dei motivi di appello, in termini di ammissibilità dell’impugnazione, le Sezioni Unite hanno ripercorso gli approdi giurisprudenziali e dot-trinali circa la declaratoria di inammissibilità delle impugnazioni.

In via preliminare, dunque, la Suprema Corte ritiene doveroso richiamare gli orientamenti di legit-timità relativi alle conseguenze derivanti dal mancato o difettoso assolvimento da parte dell’impu-gnante dell’onere di indicare ed enunciare gli elementi di cui all’art. 581 c.p.p.. In primo luogo, l’in-dicazione del provvedimento impugnato, la data del medesimo e del giudice che lo ha emesso non han-no rilievo di per sé, ma solo in quanto può determinare incertezza nell’individuazione dell’atto (Cass., sez. I, 17 maggio 2013, n. 23932). Inoltre, in relazione all’enunciazione dei “capi” e dei “punti” cui si ri-ferisce l’impugnazione, le Sezioni Unite hanno definito la nozione di “capo di sentenza”, in riferimento in particolare alle sentenze cumulative (Cass., sez. un. 14 febbraio 2017, n. 6903). Anche in riferimento alle richieste di cui all’art. 581, lett. b) si registra nella giurisprudenza di legittimità un orientamento non formalistico, essendosi più volte affermato che esse possono anche desumersi implicitamente dai motivi quando da questi emergano in modo inequivoco (Cass., sez. V, 6 maggio 2003, n. 23412; Cass., sez. VI, 18 maggio 2010, n. 29235).

La questione controversa, invero, riguarda il requisito della specificità dei motivi, in relazione alle ragioni di diritto e agli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta; in particolare trattasi di generici-tà estrinseca, ovvero la mancanza di correlazione fra i motivi e le ragioni di fatto o di diritto su cui si basa la sentenza impugnata.

Da un lato, un indirizzo giurisprudenziale distingue la valutazione della specificità dei motivi nell’atto di appello rispetto al ricorso per Cassazione. In particolare, nel caso di appello, bisogna valuta-re il requisito della specificità dei motivi in termini meno stringenti e comunque diversi rispetto al cor-rispondente scrutinio dei motivi di ricorso per cassazione, adducendo in alcuni casi il principio del fa-vor impugnationis (Cass., sez. VI, 14 gennaio 2013, n. 9093; Cass., sez. 3 febbraio 2016, n. 16350), ed in al-tre occasioni la diversa struttura del giudizio di appello rispetto a quello di legittimità (da ultimo si ve-da Cass., sez. III, 13 aprile 2016, n. 30388; Cass., sez. VI, 24 novembre 2015, n. 3721).

Un diverso orientamento invece sostiene la omogeneità della valutazione della specificità estrinseca dei motivi di appello e dei motivi di ricorso. La totale equiparazione tra appello e ricorso per Cassazio-ne trova ragion d’essere nella natura del giudizio di appello, che in quanto strumento di controllo o di censura su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata, deve essere introdotto at-

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traverso una critica specifica, mirata e necessariamente puntuale della decisione impugnata (Cass., sez. VI, 06 febbraio 2003, n. 13621).

Le Sezioni Unite condividono il secondo e più restrittivo orientamento, argomentando su diversi profili. In primo luogo, sul dato normativo: gli artt. 581 e 591 sono collocati nel Titolo I del Libro IX, re-lativo alle disposizioni generali delle impugnazioni; inoltre, se l’appello costituisce una impugnazione a critica libera, non essendo tipizzate le categorie dei motivi di censura che possono essere formulati, il ricorso per Cassazione costituisce un mezzo di impugnazione a critica vincolata, che attribuisce alla Corte di cassazione la cognizione del procedimento limitatamente ai motivi proposti.

Invero la riferibilità della specificità estrinseca anche ai motivi di appello non trova alcun ostacolo nella giurisprudenza della Corte e.d.u., che, se da un lato consente la presenza di requisiti di ammissibi-lità delle impugnazioni (Corte e.d.u., 16 giugno 2015, Mazzoni c. Italia), dall’altro garantisce il doppio grado di giurisdizione, riconoscendo agli Stati contraenti ampio potere discrezionale per decidere le modalità di esercizio del relativo diritto (Corte e.d.u., 20 ottobre 2015, Di Silvio c. Italia).

Nella prospettiva interna, dunque, la tesi della riferibilità della specificità estrinseca all’appello si fonda su solide basi letterali e sistematiche. Dalla lettura combinata del paradigma normativo di cui agli artt. 581, comma 1 lett. c), 591, comma 1 lett. c) e 597 comma 1 c.p.p., si impone l’indicazione speci-fica delle ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta, in relazione ai punti del-la sentenza e dunque in relazione alla motivazione della sentenza che sorregge tali punti. Invero, se-condo la Corte non può essere evocato il principio del favor impugnationis, che deve operare comunque entro i rigorosi limiti rappresentati dalla natura intrinseca del mezzo di impugnazione, delineata non solo dall’art. 597, comma 1, c.p.p. ma anche dall’art. 581, comma 1, lett. c). Sul piano sistematico, invece, la necessità della specificità estrinseca dei motivi di appello trova fondamento nella considerazione che essi non sono diretti all’introduzione di un nuovo giudizio, ma sono diretti all’attivazione di uno stru-mento di controllo, su specifici punti e per specifiche ragioni, della decisione impugnata.

De jure condendo, la Suprema corte evidenzia come tale interpretazione, relativa alla necessaria corre-lazione dei motivi di appello con la sentenza impugnata, si pone in linea con l’attuale indirizzo di ri-forma legislativa, cd. Riforma Orlando, approvata in seconda lettura al Senato il 15 marzo 2017. Que-st’ultimo si muove in una duplice direzione: da un lato, si prevede la costruzione di un modello legale di motivazione in fatto della decisione di merito, che si accorda con l’onere di specificità dei motivi di impugnazione; dall’altro si interviene sui requisiti formali di ammissibilità della impugnazione che ri-sultano coerenti con tale modello.

La Suprema corte non si limita ad affermare la necessità della specificità, anche estrinseca dei motivi di appello, ma ne delinea l’effettiva portata. Il sindacato sull’ammissibilità dell’appello non può ricom-prendere, a differenza del ricorso per Cassazione, la valutazione della manifesta infondatezza dei moti-vi di appello, poiché non è espressamente menzionata quale causa di inammissibilità della impugna-zione. Ne consegue che il giudice d’appello non può fare ricorso alla speciale procedura prevista dall’art. 591, comma 2, c.p.p. in presenza di motivi che siano manifestamente infondati e caratterizzati da specificità intrinseca ed estrinseca.

In conclusione, le Sezioni Unite enunciano il seguente principio di diritto: “L’appello (al pari del ricorso per Cassazione) è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della sentenza impugnata”.

LE CONDIZIONI ED I LIMITI DELLA CONFISCA DEI BENI DOPO LA MORTE DEL SOGGETTO SOCIALMENTE PE-RICOLOSO

(Cass., sez. un., 16 marzo 2017, n. 12621)

Intervenute in tema di misura di prevenzione patrimoniale esercitata dopo la morte del soggetto so-cialmente pericoloso, le Sezioni Unite si sono pronunciate, da un lato, sulla possibilità di estendere l’oggetto dell’azione di prevenzione patrimoniale ai beni fittiziamente trasferiti o intestati in vita dal de cuis, dall’altro sulla necessaria declaratoria di nullità dei relativi atti di disposizione.

Preliminarmente, la Suprema corte ripercorre la disciplina introdotta dal d.lgs. n. 159/2011, che con-sente l’adozione di misure patrimoniali sia quando il soggetto destinatario muore nel corso del proce-dimento di prevenzione, sia nell’ipotesi in cui ciò avvenga prima della sua instaurazione. Nel primo ca-

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so, il procedimento prosegue nei confronti degli eredi e degli aventi causa; nel secondo caso, invece, la proposta di confisca può essere avanzata nei riguardi dei successori a titolo universale o particolare del soggetto nei confronti del quale poteva essere disposta, purché entro il termine di cinque anni dal suo decesso. Invero, la riforma legislativa ha spezzato il nesso di presupposizione tra la misura personale e quella patrimoniale, consentendo l’instaurazione del procedimento di prevenzione patrimoniale “di-sgiuntamente” dalla proposta di misure personali, fermo restando il necessario accertamento incidenta-le della pericolosità del proposto, ancorché non attuale.

In primo luogo, dunque, le Sezioni Unite chiariscono che le nozioni di “erede” e di “successore a ti-tolo universale o particolare”, di cui all’art. 18, commi 2 e 3, d.lgs. n. 159/2011, sono quelle proprie del codice civile, ripudiando la tesi sostenuta in una isolata pronuncia, della possibilità di dare rilievo all’anomala figura di erede o successore “di fatto” (Cass., sez. VI, 16 dicembre 2015, n. 579). Il tessuto normativo non lascia dubbi, poiché il legislatore ha richiamato consapevolmente termini ed istituti che trovano specifica definizione nella disciplina civilistica, che non consentono alcuna interpretazione ana-logica.

Strettamente connesso, inoltre, risulta il tema dell’estensione della confisca ai beni dal de cuis fitti-ziamente intestati in vita a soggetti diversi dagli eredi, nonché ai beni caduti in successione, ma dagli eredi trasferiti a terzi prima della proposizione della misura di prevenzione. Sul punto, la Prima Sezio-ne, assegnataria del ricorso, non condividendo l’interpretazione fornita in una precedente sentenza dal-la Sesta sezione, ha rimesso la questione alle Sezioni Unite.

L’orientamento citato, invero, distingue il profilo dell’individuazione dei soggetti nei confronti dei quali può essere proseguita o intrapresa l’azione di prevenzione patrimoniale da quello inerente la ne-cessità di accertare la reale consistenza del patrimonio ereditario, si dà ricomprendervi quei beni im-propriamente pervenuti a disposizione dei terzi. Nel caso di sopravvenuto accertamento di beni non individuati al momento dell’insaturazione del procedimento, dunque, è necessario esercitare una auto-noma azione patrimoniale soggetta al perentorio termine di cui all’art. 18, comma 3, d.lgs. cit. (Cass., sez. VI, 16 dicembre 2015, n. 579, cit.).

L’ordinanza di rimessione, invece, esalta la dimensione finalistica della norma, rappresentata dalla necessità di assicurare la confisca di tutti i beni che, a seguito di una ricognizione in contraddittorio dei relativi presupposti di legge, siano “ricollegabili” all’agire del soggetto pericoloso. Di conseguenza, la previsione dell’art. 18 cit. non implica un restringimento dell’azione di prevenzione patrimoniale ai be-ni ricevuti dagli eredi, poiché essa deve ritenersi giustificata esclusivamente dalla primaria esigenza di individuare un contraddittore valido sul tema pregiudiziale dell’accertamento della pericolosità del de cuis, senza condizionare il tema del recupero dei beni accumulati in vita, attraverso una prioritaria di-chiarazione di nullità degli atti negoziali, ex art. 26, comma 1, d.lgs. cit. (Cass., sez. VI, ord. 28 maggio 2016, n. 47215).

Le Sezioni Unite condividono l’esegesi fornita nell’ordinanza di rimessione, poiché l’azione patri-moniale deve essere rapportata, in armonia con la nuova disciplina della prevenzione, ai beni indivi-duabili nella disponibilità, anche di fatto, de de cuius al momento del decesso, a chiunque formalmente intestati, con la conseguenza che ove si tratti di terzi rispetto ai successori, sia disposta l’integrazione del contraddittorio nelle forme indicate dall’art. 23 d.lgs. cit. per le “ altre persone interessate”. Per indi-viduare la portata applicativa del concetto di disponibilità, invero, si deve far riferimento non solo alla nozione di disponibilità “a qualsiasi titolo” del bene, sia diretta che indiretta, di cui agli artt. 24, comma 1 e 20, comma 1, d.lgs. cit., ma anche al principio elaborato dalla giurisprudenza circa la generale confi-scabilità dei beni che si trovano nella disponibilità del soggetto pericoloso al momento del decesso, e che, in quanto tali, presentano uno stigma tendenzialmente indissolubile e indipendente dalla persi-stenza in vita del soggetto, potenziale destinatario della misura ablativa (Cass., sez. un., 26 giugno 2014, n. 4880).

Dunque la finalità e l’ampia estensione dei poteri di indagine funzionali all’applicazione delle misu-re di prevenzione patrimoniale di cui all’art. 19 d.lgs. cit., non presuppongono, ai fini della materiale apprensione, del preventivo transito temporaneo dei beni all’interno del patrimonio ereditario, né pos-sono subire limitazioni di ordine soggettivo sul piano della instaurazione del contraddittorio, non es-sendovi alcun rapporto di necessaria identificazione tra i destinatari formali dell’azione e i titolari dei diritti sui beni aggredibili nel procedimento di prevenzione.

Le Sezioni Unite, inoltre, affrontano la connessa questione relativa al significato da attribuire alla de-claratoria di nullità prescritta dall’art. 26 d.lgs. cit., la sua collocazione nel procedimento di prevenzione

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e l’eventuale incidenza sul provvedimento di confisca. Ad avviso della Corte, dunque, manca alcun elemento normativo cui condizionare in senso pregiudiziale la validità dell’ablazione del bene apparen-temente riconducibile al terzo, poiché la disposizione individua nell’accertamento giudiziale della fitti-zietà della intestazione o del trasferimento del bene il presupposto del provvedimento ablativo, conte-stualizzando la dichiarazione di nullità dei relativi atti di disposizione al momento della emissione del decreto di confisca. Dunque, la dichiarazione di nullità dell’atto dispositivo non è una condizione di vali-dità della misura patrimoniale, ma una conseguenza derivante dall’adozione del provvedimento ablativo, preordinata al conseguimento di finalità di certezza pubblica e stabilizzazione dei rapporti giuridici. Del resto, l’omessa declaratoria di nullità è priva di sanzioni processuali ed improduttiva di vizi rilevanti ex art. 177 e ss. c.p.p. (Cass., sez. VI, 18 ottobre 2012, n. 10153), cui può rimediarsi attraverso la procedura per la correzione dell’errore materiale, ex art. 130 c.p.p. (Cass., sez. V, 19 dicembre 2012, n. 18532).

Da ultimo la Suprema Corte delimita l’ambito applicativo delle presunzioni previste dall’art. 26, comma 2, d.lgs. cit., secondo cui si presumono fittizi, fino a prova contraria, i trasferimenti e le intesta-zioni, anche a titolo oneroso, effettuati nei due anni antecedenti alla proposta nei confronti dell’ascen-dente, del discendente, del coniuge o della persona stabilmente convivente, nonché i parenti entro il se-sto grado e degli affini entro il quarto, nonché i trasferimenti e le intestazioni, a titolo gratuito o fiducia-rio, effettuati nei due anni antecedenti la proposta della misura di prevenzione. La presunzione com-porta un’inversione dell’onere della prova a carico del terzo, intestatario formale, che deve dimostrare il carattere reale e non fittizio dell’atto di disposizione. Invero, in mancanza di inequivoche indicazioni letterali, l’estensione delle presunzioni di fittizietà nei confronti del successore della persona indiziata di pericolosità non può discendere dalla ratio della previsione, che impedisce i trasferimenti elusivi del bene della persona pericolosa ad altri soggetti. Di conseguenza, nel caso in cui il successore abbia tra-sferito a terzi i beni dell’asse ereditario, non si applica la regola sulle presunzioni di fittizietà, ma la di-sciplina generale sulla prova della disponibilità indiretta dei beni in capo al soggetto proposto, ovvero proponibile in quanto portatore di pericolosità, ex art. 20 e 24 d.lgs. cit.

Le Sezioni Unite, dunque, enunciano i seguenti principi di diritto:

– le nozioni di erede e di successore a titolo universale o particolare, di cui all’art. 18, commi 2 e 3, d.lgs. 6 set-tembre 2011, n. 159, sono quelle proprie del codice civile;

– nell’ipotesi in cui l’azione di prevenzione patrimoniale prosegua ovvero sia esercitata dopo la morte del sog-getto socialmente pericoloso, la confisca può avere ad oggetto non solo i beni pervenuti a titolo di successione ere-ditaria, ma anche i beni che, al momento del decesso, erano comunque nella disponibilità del de cuius per essere stati fittiziamente intestati o trasferiti a terzi;

– nell’ipotesi in cui il giudice accerti la fittizietà dell’intestazione o del trasferimento di beni a terzi, la declara-toria di nullità prevista dall’art. 26, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011 non è pregiudiziale ai fini della validità della confisca, ma costituisce un obbligo consequenziale all’accertamento della fittizietà, la cui inosservanza da parte del giudice non integra vizi rilevanti ai sensi degli artt. 177 ss. cod. proc. pen., bensì un’omissione rimediabile, anche d’ufficio, con la procedura ex art. 130 cod. proc. pen.;

– le presunzioni di fittizietà previste dall’art. 26, comma 2, d.lgs. cit. si riferiscono esclusivamente agli atti rea-lizzati dal soggetto portatore di pericolosità e non riguardano anche gli atti dei suoi successori.

IL GIUDICE DELL’APPELLO NON PUÒ APPLICARE SANZIONI SOSTITUTIVE SENZA UNA SPECIFICA RICHIESTA

(Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 12872)

Riscontrando un contrasto giurisprudenziale circa l’applicabilità da parte del giudice d’appello delle sanzioni sostitutive in mancanza di specifica doglianza sul punto, la Terza Sezione ha rimesso la que-stione alle Sezioni Unite.

Un primo orientamento risulta favorevole all’applicabilità delle sanzioni sostitutive in appello anche in caso di mancata devoluzione specifica del relativo tema, in assenza di uno specifico divieto normati-vo (Cass., sez. IV, 5 maggio 1995, n. 6526); nella successiva evoluzione giurisprudenziale, inoltre, al principio dell’adeguamento della pena alle connotazioni oggettive e soggettive del caso concreto, legato ad una interpretazione estensiva della deroga all’effetto devolutivo dell’appello, è stato coniugato il ri-chiamo al concetto dell’unitarietà del punto relativo al trattamento sanzionatorio (Cass, sez. VI, 12 di-cembre 2006, n. 786; Cass., sez. III, 5 marzo 2015, n. 26710).

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Un diverso indirizzo, invece, ha valorizzato il carattere eccezionale dell’art. 597, comma 5, c.p.p. che attribuisce poteri ufficiosi al giudice d’appello nei limitati casi tra i quali non è menzionata la sostitu-zione della pena detentiva, consentendo, in deroga al principio devolutivo, l’applicazione della sospen-sione condizionale della pena, della non menzione della condanna, di una o più circostanze attenuanti e la formulazione del giudizio di comparazione. (Cass., sez. V, 17 gennaio 1997, n. 2039; Cass., sez. VI, 22 maggio 2009, n. 35912; Cass., sez. IV, 6 novembre 2013, n. 6750).

Le Sezioni Unite condividono tale ultimo orientamento, escludendo che l’art. 597, comma 5, c.p.p. at-tribuisca al giudice di appello il potere di applicare d’ufficio anche le sanzioni sostitutive qualificate come una sorta di minus rispetto alle ipotesi tassativamente indicate, per le quali è consentita l’applica-zione ex officio. Invero, l’eccezionalità delle deroghe al principio devolutivo è stato valorizzato anche dalle Sezioni Unite per escludere l’attribuzione al giudice dell’appello di un ulteriore potere di ufficio in tema di bilanciamento delle circostanze esercitabile, invece, solo in caso di applicazione, pure di ufficio, di nuove circostanze attenuanti (Cass., sez. un., 16 marzo 1994, n. 7346).

Secondo la Suprema corte, dunque, il divieto di interpretazione estensiva o analogica delle norme eccezionali preclude qualsiasi tentativo di includere l’applicazione delle sanzioni sostitutive nell’elenco, tassativo, dei benefici concedibili ex officio dal giudice di secondo grado. Del resto, appare ingiustificato il richiamo al criterio dell’adeguamento della pena al caso concreto, poiché estendere i poteri officiosi nell’ambito delle statuizioni in tema di trattamento sanzionatorio lato sensu intese determinerebbe una inaccettabile estensione della deroga all’effetto devolutivo, in violazione delle norme sulle formalità delle impugnazioni. A sostegno di tale esegesi, le Sezioni Unite richiamano il principio sancito dalle Se-zioni Unite Galtelli, secondo cui l’appello è inammissibile per difetto di specificità dei motivi, quando non risultino esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici mossi alle ragioni di fatto e di diritto alla base della sentenza impugnata (Cass., sez. un. 27 ottobre 2016, n. 8825).

Inoltre, poiché la sanzione sostitutiva integra una vera e propria pena autonoma (Cass., sez. un., 25 ot-tobre 1995, n. 11397), le Sezioni Unite ritengono che il complesso delle questioni relative alla concessione delle pene sostitutive integra un “ punto” della decisione, e dunque una statuizione suscettibile di auto-noma valutazione e di autonoma impugnazione, diverso da quello relativo al trattamento sanzionatorio.

In conclusione, attribuire carattere onnicomprensivo alla devoluzione del tema del trattamento san-zionatorio – ad avviso della Corte– si porrebbe in contrasto con il paradigma normativo di cui agli artt. 581, comma 1, lett. c), 591, comma 1, lett. c), 597, comma 1, c.p.p.; da tali argomentazioni, ne consegue che: “Il giudice di secondo grado non può applicare le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi nel caso in cui nell’atto di appello non risulti formulata alcuna specifica richiesta con riguardo a tale punto”.

CONTRO LA SENTENZA DELLA CASSAZIONE NEL GIUDIZIO DI REVISIONE È AMMISSIBILE IL RICORSO STRAORDINARIO PER ERRORE MATERIALE O DI FATTO

(Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 13199)

Le Sezioni Unite sono intervenute per dirimere il contrasto giurisprudenziale sorto in merito all’ammis-sibilità del ricorso straordinario per errore materiale o di fatto avverso una ordinanza della Corte di cassazione che abbia dichiarato l’inammissibilità di un ricorso proposto contro un provvedimento di rigetto di una richiesta di revisione.

Un primo e consolidato orientamento, infatti, sostiene l’ammissibilità dell’impugnazione straordina-ria esclusivamente di quei provvedimenti della Corte di cassazione che rendono definitiva una senten-za di condanna (Cass., sez. VI, 22 ottobre 2013, n. 91) o trasformino la condizione giuridica dell’impu-tato in quella di condannato (Cass., sez. VI, 17 settembre 2014, n. 46066); la tassatività della previsione normativa, dunque, ne esclude l’interpretazione analogica (Cass., sez. III, 10 novembre 2011, n. 43697).

A tale indirizzo interpretativo, invece, si è contrapposta una recente pronuncia che ritiene ammissi-bile l’impugnazione straordinaria avverso i provvedimenti emessi nel giudizio di revisione, optando per una interpretazione estensiva del soggetto legittimato, “il condannato”, che è titolare anche della facoltà di introdurre il giudizio di revisione (Cass., sez. I, 29 settembre 2014, n. 1776).

Preliminarmente le Sezioni Unite ripercorrono l’evoluzione giurisprudenziale del rapporto tra l’inoppugnabilità delle sentenze di legittimità ed il valore del giudicato, guidato dal canone della straordinarietà del mezzo di impugnazione. In particolare, lo sforzo interpretativo si è concentrato sul

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concetto di “condannato”, cui si riferisce l’art. 625-bis c.p.p., limitando, dunque, l’ammissibilità del ri-corso alle decisioni che comportano il passaggio in giudicato della sentenza. Sin dalle prime pronunce si è affermato che le disposizioni di cui all’art. 625-bis c.p.p. non sono suscettibili di applicazione analo-gica e non possono essere estese ai casi non espressamente previsti dalla legge (Cass., sez. un., 27 marzo 2002, n. 16103). In applicazione di tali principi, nel tempo è stata negata la ricorribilità per errore di fatto ai provvedimenti emessi in fase cautelare, alle decisioni in materia di misure di prevenzione (Cass., sez. VI, 8 ottobre 2009, n. 2430), a quelli di confisca (Cass., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 9015), nonché alle de-cisioni di consegna per un m.a.e.. ed in generale ai provvedimenti in materia di estradizione (Cass., sez. fer., 2 settembre 2008, n. 34819). In tali ipotesi, invero, manca il presupposto legittimante, posto che il ricorrente non ha acquisito ancora lo status di condannato. Invero, però, la giurisprudenza ha negato l’ammissibilità del ricorso anche in relazione a pronunce emesse dopo la sentenza di cognizione irrevo-cabile, in materia di indennizzo per ingiusta detenzione (Cass., sez. III, 28 gennaio 2004, n. 6835), in te-ma di riabilitazione (Cass., sez. IV, 3 ottobre 2007, n. 42725), ed in materia di esecuzione (Cass., sez. V, 22 ottobre 2010, n. 48103). In tali ipotesi, dunque, non rileva la qualifica soggettiva del ricorrente, che formalmente è giù condannato, quanto la mancanza di decisività della pronuncia della Cassazione alla formazione del giudicato. A tale restrittivo orientamento, le Sezioni Unite riconoscono l’emergere di un indirizzo giurisprudenziale, teso ad allargare i confini del ricorso straordinario. In primis, la sentenza delle Sezioni Unite Marani che ha riconosciuto la legittimazione a proporre il ricorso straordinario an-che in favore del condannato al risarcimento dei danni in favore della parte civile (Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 28719); inoltre, è stata riconosciuta l’ammissibilità del ricorso straordinario avverso i provvedimenti di annullamento con rinvio, limitatamente ai profili relativi al trattamento sanzionatorio (Cass., sez. un., 21 giugno 2012, n. 28717). Del resto, la Corte di cassazione ha ammesso la praticabilità dello strumento del ricorso straordinario anche in favore di soggetti già “condannati”, nel dare attua-zione alle sentenze della Cedu, che accertino la violazioni dei diritti dell’uomo (Cass., sez. VI, 12 no-vembre 2008, n. 45807; Cass., sez. V, 11 febbraio 2010, n. 16507).

Secondo la Corte appare determinate verificare se i provvedimenti della Cassazione suscettibili di ri-corso ex art. 625-bis siano solo quelli in grado di determinare il passaggio in giudicato della sentenza di condanna ovvero se sia sufficiente anche un diverso tipo di nesso con il giudicato sostanziale.

Invero, il legame funzionale tra la decisione della Cassazione ed il giudicato non sussiste solo in rife-rimento ad una sentenza di legittimità da cui derivi, “per la prima volta”, l’effetto del giudicato, man-cando alcuna indicazione di tal tipo nelle disposizioni normative, ma anche quando la decisione della Cassazione contribuisce alla “stabilizzazione” del giudicato, a prescindere dal momento in cui esso si sia formato: lo status di condannato, dunque, deve essere collegato ad una decisione che riaffermi l’ambito del giudicato stesso.

Nel caso di specie relativo ad un giudizio di revisione, la decisione di inammissibilità del ricorso del condannato contribuisce a confermare il giudicato di condanna, opponendosi ad un giudizio di revi-sione con esito favorevole.

Le Sezioni Unite, inoltre, ricavano dalla ratio del giudizio di revisione – garantire i diritti involabili della persona, anche sacrificando il rigore delle forme – l’irragionevolezza di una interpretazione re-strittiva dell’ambito applicativo del ricorso ex art. 625-bis c.p.p.. Invero, secondo le Sezioni Unite, sareb-be paradossale riconoscere al “condannato” la legittimazione alla richiesta di revisione ed, escludere, invece, l’azionabilità del rimedio per errore di fatto. Invero, il giudizio di revisione, a differenza delle procedure incidentali o di quelle esecutive, si caratterizza come lo strumento generale, ancorché straor-dinario, di rimozione degli effetti di una decisione irrevocabile erronea, sicché la decisione della Corte di Cassazione che definisca la procedura, si pone in una condizione assai simile a quelle terminative del giudizio di cognizione, per le quali il ricorso straordinario è pacificamente ammesso.

In conclusione, la Suprema corte enuncia il seguente principio di diritto: “È ammessa, a favore del con-dannato, la richiesta ex art. 625-bis c.p.p., per la correzione dell’errore di fatto contenuto nella sentenza con cui la Corte di cassazione abbia dichiarato inammissibile o rigettato il suo ricorso contro la decisione negativa della corte d’appello pronunciata in sede di revisione”.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 412

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DECISIONI IN CONTRASTO di Paola Corvi

I TEMPI DI PRESENTAZIONE DELLA RICHIESTA DI RESTITUZIONE IN TERMINI, IN CASO DI SPEDIZIONE A MEZZO DEL SERVIZIO POSTALE

(Cass., sez. I, 22 febbraio 2017, n. 8805)

L’art. 175, comma 2-bis, c.p.p. fissa i tempi per la presentazione della richiesta di restituzione nel termi-ne, stabilendo che questa debba essere presentata entro trenta giorni dal momento in cui l’imputato ha avuto effettiva conoscenza del provvedimento: la richiesta sarà considerata tempestiva e quindi ammis-sibile, solo qualora entro tale termine sia pervenuta al giudice che ne è investito. Nell’ipotesi in cui la richiesta di restituzione nel termine sia spedita a mezzo del servizio postale, sorge il problema di come debba essere inteso il riferimento alla presentazione dell’istanza, contenuto nell’art. 175 c.p.p.

Secondo l’orientamento prevalente per verificare la tempestività della richiesta di restituzione nel ter-mine spedita a mezzo del servizio postale si deve considerare la data della ricezione della stessa da parte dell’ufficio. Al caso di specie non è infatti applicabile la disciplina dettata per la proposizione dell’im-pugnazione dall’art. 583, comma 2, c.p.p., secondo il quale, in caso di inoltro a mezzo posta, l’impugna-zione si considera proposta nella data di spedizione della raccomandata o del telegramma. Le due norme fanno riferimento a situazioni differenti: l’art. 583 c.p.p. disciplina la spedizione dell’impugnazione, l’art. 175 c.p.p. prevede la presentazione della richiesta di restituzione nel termine senza contemplare in via al-ternativa o concorrente la facoltà di spedizione dell’atto a mezzo raccomandata, diversamente da quanto previsto in altre circostanze in cui tale forma di inoltro è stata consentita espressamente, come nel caso delle richieste di riesame ex artt. 309 e 324 c.p.p. Secondo questo indirizzo, anche qualora si volesse am-mettere come forma idonea alla proposizione della richiesta di restituzione in termini la spedizione me-diante servizio postale, sarebbe necessario per la tempestività dell’istanza che l’atto spedito giunga alla cancelleria del giudice entro il termine perentorio fissato dall’art. 175 c.p.p. (v., tra le altre, Cass., sez. V, 25 luglio 2016, n. 32148; Cass., sez. I, 12 febbraio 2014, n. 6726; Cass., sez. I, 17 giugno 2009, n. 25185).

Tuttavia, recentemente la Corte di cassazione ha optato per una diversa soluzione esegetica, affer-mando che, se l’istanza è presentata a mezzo del servizio postale, il giudice deve fare riferimento alla data di invio della stessa e non a quella di ricezione dell’atto. L’accezione del termine “presentazione” contenuto nell’art. 175 c.p.p. non giustifica sotto il profilo logico e letterale, un’interpretazione tale da escludere che l’istanza di restituzione nel termine per l’impugnazione possa essere presentata tempe-stivamente nel momento in cui viene affidata al servizio postale per la spedizione. Consentire al propo-nente di avvalersi dell’intero termine previsto dalla legge per presentare la richiesta di restituzione nel termine, strumentale alla proposizione dell’impugnazione, risponde non solo al principio di ragionevo-lezza ma anche alle finalità dell’istituto così come riformulato dalla l. n. 60/2005, in base alla giurispru-denza europea. Al contrario richiedere che entro trenta giorni l’atto pervenga all’ufficio giudiziario, an-che se spedito con raccomandata, sottrae il tempo necessario al recapito e pregiudica la parte proponen-te. Tale interpretazione compromette dunque l’esercizio del diritto riconosciuto al condannato assente e non rinunciante di celebrare un nuovo giudizio in sua presenza e appare pertanto in contrasto con le finalità perseguite con la modifica dell’art. 175 c.p.p. e con il principio del giusto processo (Cass., sez. V, 24 marzo 2016, n. 12529; Cass., sez. II, 11 dicembre 2013, n. 2234).

In considerazione della rilevanza e della delicatezza della questione e dell’incidenza delle diverse soluzioni esegetiche sull’esercizio della facoltà di impugnazione, la prima Sezione della Corte di cassa-zione con l’ordinanza in esame ha dunque rimesso il ricorso atti alle Sezioni Unite, al fine di stabilire se il giudice, chiamato a verificare la tempestività della richiesta di restituzione nel termine a norma del l’art. 175, comma 2-bis, c.p.p., debba fare riferimento alla data di invio o a quella di ricezione dell’atto nel caso in cui l’istanza sia presentata a mezzo del servizio postale.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 413

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RITUALITÀ O INVALIDITÀ DELLE NOTIFICHE EFFETTUATE PRESSO IL DIFENSORE DI FIDUCIA EX ART. 157, COMMA 8-BIS, C.P.P. PUR IN PRESENZA DI ELEZIONE O DICHIARAZIONE DI DOMICILIO.

(Cass., sez. VI, 13 marzo 2017, n. 11954)

La sentenza in esame si inserisce nel consolidato filone giurisprudenziale che afferma la nullità della notificazione eseguita a norma dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato o eletto domicilio per le notificazioni. Secondo questo orientamento si con-figura in tal caso una nullità di ordine generale a regime intermedio che è priva di effetti se non dedotta tempestivamente, essendo soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184, comma 1, alle sanatorie ge-nerali di cui all’art. 183, alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 c.p.p. e che deve ritenersi sanata quando risulti provato che non ha impedito all’impu-tato di conoscere l’esistenza dell’atto e di esercitare il diritto di difesa.

Tale interpretazione avanzata dalle Sezioni Unite (Cass., sez. un., 27 marzo 2008, n. 19602) e succes-sivamente seguita da numerose decisioni delle Sezioni semplici (da ultimo Cass, sez. IV, 1 aprile 2015, n. 18098; Cass., sez. V, 29 dicembre 2015, n. 4828; Cass., sez. III, 19 luglio 2016, n. 47953) sottintende la prevalenza dell’elezione o dichiarazione di domicilio, in quanto la semplificazione procedurale resa possibile dall’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. si ricollega ad un evento, la nomina di difensore, che non li-mita né supera la manifestazione di volontà sottesa alla dichiarazione o elezione di domicilio. La preva-lenza della manifestazione di volontà della parte sulla domiciliazione legale per ogni notifica ad essa successiva è stata peraltro affermata anche nella sentenza 5 maggio 2008, n. 136, dalla Corte costituzio-nale, chiamata a valutare la legittimità costituzionale dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p.

In questo panorama spicca una recente, isolata pronuncia della Sesta Sezione che ritiene valida la notificazione eseguita nelle modalità previste dall’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. anche in presenza di ele-zione o dichiarazione di domicilio. La forma di notificazioni all’imputato non detenuto successive alla prima eseguite mediante consegna al difensore di fiducia deve infatti ritenersi prevalente su ogni altra, a meno che il difensore di fiducia non dichiari immediatamente all’autorità che procede di non accetta-re la notificazione per conto del suo assistito. Perciò è sufficiente che, dopo la prima notificazione al-l’imputato non detenuto, intervenga la nomina di un difensore di fiducia affinché quelle successive possano essere sempre eseguite mediante consegna al difensore nominato, fatta eccezione per il caso in cui quest’ultimo dichiari immediatamente di non accettare notificazioni dirette al proprio assistito. Esclusa questa eventualità, l’assoluta prevalenza riconosciuta alle notificazioni successive alla prima mediante consegna al difensore di fiducia assorbe anche i casi di previa dichiarazione o elezione di domicilio effettuate dall’imputato (Cass., sez. VI, 21 luglio 2016, n. 31569).

La sentenza in esame ribadisce al contrario la nullità della notificazione eseguita a norma dell’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. presso il difensore di fiducia, qualora l’imputato abbia dichiarato o eletto domi-cilio per le notificazioni, precisando peraltro che l’onere di rappresentare al giudice di non aver avuto cognizione dell’atto grava sull’imputato che intenda dedurre la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, diversamente essendo configurabile e ritualmente deducibile la nullità, senza alcun “peso” probatorio a carico dell’istante.

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Processo penale e giustizia n. 3 | 2017

Avanguardie in giurisprudenza

Cutting Edge Case Law

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 415

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA CORTE PROSCIOGLIE PER TENUITÀ DEL FATTO APPLICANDO LO JUS SUPERVENIENS

La Corte proscioglie per tenuità del fatto applicando lo jus superveniens

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 2 DICEMBRE 2016, N. 51615 – PRES. IPPOLITO; REL. BASSI

In tema di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui all’art. 131-bis cod. pen., quando la sen-tenza impugnata è anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giu-dizio di legittimità presuppone che le condizioni di applicabilità dello stesso non siano state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti, nella ricostruzione della fattispecie e nelle valutazioni espresse in sentenza. [Omissis]

RITENUTO IN FATTO

1. Con il provvedimento in epigrafe, in parziale riforma dell’impugnata sentenza del Tribunale di Cagliari del 23 giugno 2012 – in relazione alla coltivazione di piante di cannabis ed alla detenzione di analoga sostanza –, la Corte d’appello del capoluogo sardo ha ridotto la pena inflitta in primo grado a C.R. a mesi sei di reclusione e 1000 Euro di multa, con conferma nel resto della decisione impugnata.

2. Ricorre avverso la sentenza l’Avv. Scarparo Maurizio, difensore di fiducia di C.R., e ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:

2.1. violazione di legge processuale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 125, 192 c.p.p. e art. 546 c.p.p., lett. e), per avere la Corte d’appello eluso l’obbligo di motivare, là dove si è limitata a ripro-durre in copia la motivazione della sentenza di primo grado;

2.2. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 192 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere il Collegio di merito errato nel ritenere configurabile nel-la specie una "coltivazione" penalmente rilevante, trattandosi invece di una semplice coltivazione do-mestica, riportabile alla ampia nozione di detenzione per uso personale;

2.3. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 49 c.p., com-ma 2, e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere la Corte errato nel ritenere punibile il fatto, seb-bene si tratti di una coltivazione domestica priva di offensività in quanto finalizzata al mero uso perso-nale;

2.4. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 110 c.p., art. 192 c.p.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere il giudice d’appello errato nel ritenere punibi-le il fatto, nonostante la coltivazione domestica fosse destinata a fare fronte al fabbisogno giornaliero di un gruppo di persone, con relativa condivisione della responsabilità;

2.5. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 49 c.p., com-ma 2, e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 nonché in relazione all’art. 25 Cost., artt. 2 e 131-bis c.p., sussistendo nella specie i presupposti della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto contestato;

2.6. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione agli artt. 42 e 43 c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, per avere la Corte omesso di motivare in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo;

2.7. violazione di legge penale e processuale e vizio di motivazione in relazione all’art. 62-bis c.p. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 nonché in relazione all’art. 25 Cost., artt. 2 e 131-bis c.p., per avere il

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Collegio del gravame irragionevolmente negato all’imputato il riconoscimento delle circostanze atte-nuanti generiche in considerazione delle modalità del fatto, mentre risulta inverosimile che i coinquilini del C. non condividessero i prodotti della coltivazione della marijuana, visto il forte odore emanato dal-la coltura.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso va accolto per la fondatezza della censura dedotta con il primo motivo, avente natura

processuale e, come tale, assorbente i rilievi enunciati con il secondo e terzo motivo di impugnazione. 2. Nel caso in esame la Corte di Campobasso aveva proceduto in udienza camerale a norma del

combinato disposto degli artt. 443, comma 4, e 599 cod. proc. pen. (atteso che, in primo grado, il proces-so si era svolto col rito abbreviato), il quale a sua volta rinvia alle forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen. Il difensore di fiducia non era intervenuto all’udienza, deducendo un legittimo impedimento do-vuto ad una grave malattia. L’istanza di rinvio, poiché non accompagnata dalla nomina o dall’indi-cazione dei motivi della mancata nomina di un sostituto processuale, considerato un onere dall’organo giudicante, era stata rigettata.

3. Le questioni che le Sezioni Unite devono affrontare sono due. 3.1. In primo luogo si deve esaminare “se, ai fini del rinvio dell’udienza, il difensore abbia l’onere di

nominare un sostituto quando l’assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimento, pron-tamente comunicato al giudice e documentato, derivi da serie ragioni di salute o da altre cause di forza maggiore”.

3.2. In secondo luogo si deve valutare “se il suddetto principio di diritto si applichi anche nel giudi-zio camerale di appello di cui all’art. 599, comma 1, cod. proc. pen.”.

4. Innanzitutto, si deve precisare che l’impedimento ai sensi dell’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. viene qualificato come “legittimo”, cioè conforme alla legge o da questa costituito. Nonostante tale precisazione, il legislatore non ha concretamente individuato le cause idonee ad integrare il legittimo impedimento, necessitando l’intervento suppletivo della giurisprudenza di legittimità. La Corte di cas-sazione, al fine di riempire di contenuto il dettato normativo e dirimere le controversie ad essa sottopo-ste, ha ricercato nei parametri costituzionali le linee guida a cui ispirarsi. Alcune tra le principali cause giustificatrici della legittima impossibilità di comparire sono costituite o da un precedente e concomi-tante impegno professionale ovvero da altra causa che impedisce la presenza del difensore dovuta ad ostacoli di carattere fisico o sanitario o eventi imprevisti. Nel caso di specie l’impedimento a comparire del difensore in udienza era stato indicato nella situazione di malattia in cui quest’ultimo versava.

5. Sul tema della nomina di un sostituto processuale ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., in caso di impossibilità a comparire del difensore per legittimo impedimento, si contrappongono due differenti filoni giurisprudenziali.

6. La giurisprudenza prevalente, in tema di impedimento a comparire del difensore (art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen.), afferma che, ai sensi dell’art. 102 cod. proc. pen., l’onere di nominare un so-stituto processuale o di indicare le ragioni dell’omessa nomina, ricade sul difensore solo nel caso in cui quest’ultimo deduca un impedimento dovuto a concomitanza con altro impegno professionale, non sussistendo invece, in quanto non previsto da alcuna disposizione di legge, quando l’impedimento, non prevedibile e non evitabile, sia costituito da serie ragioni di salute, comunicate all’organo giudicante e debitamente documentate (Sez. 6, n. 7997 del 17/06/2014, dep. 2015, Seck, Rv. 262389; Sez. 5, n. 29914 del 01/07/2008, Trubia, Rv. 240453; Sez. 6, n. 32699 del 11/04/2014, R., Rv. 262074; Sez. 1, n. 47753, del 09/12/2008, Fettah, Rv. 242489).

7. Solo recentemente si è affermato che l’obbligo di nominare un sostituto ex art. 102 cod. proc. pen. sussiste anche quando l’impedimento dedotto sia costituito da serie ragioni di salute dello stesso difen-sore (Sez. F, n. 35263 del 22/07/2014, Gaggiano, Rv. 260152; Sez. 4, n. 49733 del 13/11/2014, Pezzetta, Rv. 261182), così assimilando l’impedimento per concomitante impegno professionale a quello per ma-lattia ed estendendo correlativamente la disciplina del primo al secondo.

8. La Corte di appello di Campobasso, aderendo a questo secondo orientamento, ha rigettato l’istan-za del difensore di fiducia non motivando circa la natura dell’impedimento, serio e tempestivamente dedotto, ma in ragione della mancata indicazione, da parte del difensore di fiducia affetto da grave ma-lattia, dei motivi determinanti l’impossibilità di nominare un sostituto processuale.

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9. Nel vigente codice di rito è prevista la partecipazione dell’accusa e della difesa, su un piano di parità e in ogni stato e grado, al fine di garantire un “processo di parti”. L’intervento del difensore costituisce una attività di “partecipazione” e non di mera “assistenza”, essendo egli impegnato, al pari del pubblico ministero, nella ricerca, individuazione, proposizione e valutazione di tutti gli elementi probatori e nel-l’analisi della fattispecie legale. L’effettività della difesa non può essere pertanto ridotta ad una mera for-male presenza di un tecnico del diritto che, per mancanza di significativi rapporti con le parti o per il ri-dotto tempo a disposizione, non sia in grado di padroneggiare adeguatamente il materiale di causa.

10. Ditalché, la Corte di cassazione, stimando necessario garantire all’imputato il diritto alla difesa e all’effettivo contraddittorio, ha più volte precisato che, quanto al diniego dell’istanza di rinvio, solo in relazione ai casi di impedimento del difensore, ex art. 420-ter cod. proc. pen., determinati da concomi-tanti impegni professionali si rende necessaria l’indicazione della impossibilità, assoluta o relativa, del-la nomina di eventuali sostituti processuali. Le Sezioni Unite condividono questo orientamento e, con-formemente a quanto sostenuto dal Procuratore generale, ritengono che la disciplina del concomitante impegno professionale non possa essere trasposta nel diverso ambito di impedimento per malattia, sal-vo che lo stato patologico sia prevedibile. D’altra parte, tale garanzia viene sottoposta a rigorosi criteri di controllo affinché la tutela del diritto alla salute del difensore non venga strumentalizzata per finalità dilatorie.

11. A sostegno dell’istanza di rinvio per legittimo impedimento, dovuto a malattia, o altro evento imprevedibile, il difensore deve provare con idonea documentazione la sussistenza dell’impedimento, indicandone la patologia ed i profili ostativi alla personale comparizione. L’impedimento deve essere giustificato da circostanze improvvise e assolutamente imprevedibili, tali da impedire anche la tempe-stiva nomina di un sostituto che possa essere sufficientemente edotto circa la vicenda in questione. Re-sta fermo, ai fini del differimento dell’udienza, l’apprezzamento riservato al giudice di merito circa la serietà, l’imprevedibilità e l’attualità del dedotto impedimento, e la relativa valutazione deve essere sorretta da una motivazione adeguata, logica e corretta.

12. Va dunque affermato il seguente principio di diritto: “Il difensore impedito a causa di serie ra-gioni di salute o da altro evento non prevedibile o evitabile non ha l’onere di designare un sostituto processuale o indicare le ragioni dell’omessa nomina”. è quindi illegittimo il provvedimento di rigetto dell’istanza di differimento dell’udienza, presentata per l’impedimento del difensore di fiducia a parte-ciparvi a causa di grave malattia o altro impedimento non prevedibile, dovuto a forza maggiore, se mo-tivato con esclusivo riguardo alla mancata nomina da parte del difensore impedito di un sostituto pro-cessuale o dell’omessa indicazione delle ragioni dell’impossibilità di procedervi.

13. Rilevante nel caso in esame è poi la questione circa l’applicabilità o meno del legittimo impedi-mento di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen. nei procedimenti camerati disciplinati dall’art. 127 cod. proc. pen., compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria. Nel caso in esame, infatti, la Corte di appello ha proceduto in udienza camerale, ex art. 443, comma 4, cod. proc. pen., che rinvia, per le forme dell’appello relativo a giudizio abbreviato, all’art. 599, cod. proc. pen., il quale a sua volta rinvia a quelle previste dall’art. 127 cod. proc. pen.

14. L’art. 420-ter cod. proc. pen., introdotto dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, la quale ha abrogato l’art. 486 cod. proc. pen., sull’impedimento a comparire dell’imputato o del difensore all’udienza dibat-timentale, estende la regola del rinvio per assoluta impossibilità di comparire per legittimo impedimen-to del difensore, purché prontamente comunicato, anche alla fase dell’udienza preliminare. L’art. 486 cod. proc. pen., abrogato, era inserito nel Libro VII “Giudizio”, Titolo II “Dibattimento”. L’art. 420-ter cod. proc. pen. è collocato invece nel Libro V “Indagini Preliminari e udienza preliminare”, Titolo IX “Udienza preliminare”. Con tale modifica, il legislatore ha inteso assicurare, sia nel procedimento ca-merate che nella fase dibattimentale, l’effettività del contraddittorio e il diritto di difesa dell’imputato, in coerenza con il novellato art. 111 Cost.

15. La giurisprudenza maggioritaria di legittimità è orientata nell’escludere l’applicazione della disci-plina del legittimo impedimento nei procedimenti camerali diversi dall’udienza preliminare, anche ove si tratti di procedimenti a contraddittorio necessario, risultando quest’ultimo regolato secondo le speciali caratteristiche della struttura dei singoli procedimenti, appositamente predisposta dal legislatore. Si è affermato, con riferimento ai riti alternativi, che il contraddittorio, che in sede di gravame si svolga in forma meramente cartolare, non vanifica l’esercizio di difesa o lede il principio di eguaglianza, allorché tale possibilità consegua all’opzione, liberamente privilegiata dallo stesso imputato, di consentire l’acce-lerazione del procedimento in cambio di consistenti benefici sostanziali (Sez. 5, n. 9249 del 15/10/2014,

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dep. 2015, Motta, Rv. 263029; Sez. 5, n. 16555 del 06/04/2006, Verbi, Rv. 234451). Sicché si è ritenuta l’inapplicabilità della disposizione di cui all’art. 420-ter, comma 5, cod. proc. pen. ai procedimenti came-rali – che si svolgono con le forme previste dall’art. 127 cod. proc. pen. – ivi compresi quelli per i quali la presenza del difensore è prevista come necessaria (Sez. U, n. 7551 del 08/04/1998, Cerroni, Rv. 210796; Sez. U, n. 15232 del 30/10/2014, Tibo, Rv. 263022). L’art. 443, comma 4, cod. proc. pen. dispone che il giudizio di appello si svolge con le forme previste dall’art. 599 cod. proc. pen., il quale a sua volta ri-chiama l’art. 127 cod. proc. pen. che disciplina il procedimento in camera di consiglio, per il quale il p.m., gli altri destinatari dell’avviso di udienza nonché il difensore sono sentiti solo se compaiono. Sicché, co-me affermato da recenti decisioni (Sez. 5, n. 25501 del 12/05/2015, Corona, Rv. 264066; Sez. 4, n. 25143 del 18/12/2014, dep. 2015, Piperi, Rv. 263852; Sez. 5, n. 9249 del 15/10/2014, dep. 2015, Motta, Rv. 263029; Sez. 1, n. 6907 del 24/11/2011, dep. 2012, Ganceanu, Rv. 252401), una volta espletate le rituali co-municazioni e notifiche, non è prevista, per ragioni di speditezza e concentrazione intrinseche alla natu-ra del procedimento, la partecipazione necessaria del p.m. e del difensore; con la conseguenza che l’e-ventuale impedimento di quest’ultimo non costituisce motivo di rinvio, sempre che non si debba proce-dere a rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. In appello, seguito da giudizio di primo grado svol-tosi nelle forme del rito abbreviato, ciò che rileva sarebbe esclusivamente il legittimo impedimento dell’imputato e non quello del difensore il quale viene ascoltato solo se compare.

16. In contrasto con la giurisprudenza largamente maggioritaria, poc’anzi delineata, una recentissi-ma pronuncia della Sesta Sezione penale (Sez. 6, n. 10157 del 21/10/2015, dep. 2016, Caramia, 266531) afferma l’operatività dell’istituto del legittimo impedimento del difensore, di cui all’art. 420-ter cod. proc. pen., anche nei procedimenti in camera di consiglio e, in particolare, nel giudizio camerale di ap-pello ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado, pena la concreta ed effettiva lesione del diritto di difesa. Trattandosi di fase decisoria in cui si discute del merito e della fondatezza dell’imputazione, appare necessaria un’interpretazione costituzionalmente orientata che estenda la disciplina del legittimo impedimento, già prevista per l’udienza preliminare, anche al proce-dimento camerale, ex art. 599 cod. proc. pen., a seguito di giudizio di primo grado svoltosi con il rito abbreviato. D’altra parte la Corte europea dei diritti umani ha, più volte, sottolineato la necessità di as-sicurare all’imputato, nell’ottica delineata dall’art. 6 CEDU, un processo equo e di garantire il diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, indipendentemente dal modulo procedimentale prescel-to e dalla fase processuale, e, in particolare, nella fase del giudizio, in cui si discute della fondatezza dell’imputazione; e, pertanto, anche nel giudizio abbreviato nel quale si attribuisce al giudice, sia in primo grado che in appello, la piena cognizione del merito dell’accusa, con conseguente necessità di esaminare approfonditamente, sottoponendole ad adeguato vaglio dialettico, nel contraddittorio tra le parti, le risultanze acquisite. Sarebbe altrimenti palese la contraddizione con la disciplina prevista per l’udienza preliminare, la quale, pur avendo natura camerale ed essendo preordinata ad una decisione in rito, è garantita con la partecipazione necessaria del difensore (ex art. 420, comma 1, cod. proc. pen.). Il richiamo effettuato dall’art. 599, comma 1, cod. proc. pen. all’art. 127, comma 3, cod proc. perì, a nor-ma del quale i difensori sono sentiti “se compaiono”, riconosce il diritto del difensore di perseguire la propria strategia difensiva, favorendo l’interpretazione secondo la quale la partecipazione all’udienza del difensore, pur facoltativa, lascia comunque possibilità di scelta se comparire o non. Orbene, la scelta del difensore di comparire all’udienza camerale, aderendo ad una specifica linea difensiva, non può es-sere vanificata da un evento imprevisto e imprevedibile o da forza maggiore che gli impedisca concre-tamente di partecipare all’udienza. In questo caso si avrebbe una limitazione del diritto di difesa e delle garanzie fondamentali dell’imputato, del tutto indipendenti dalla strategia processuale perseguita, non giustificabile con riferimento alle subvalenti esigenze di celerità e snellezza proprie del rito camerale.

17. Le Sezioni Unite, mutando così il precedente orientamento, ritengono che il combinato disposto degli artt. 127, comma 3, 443, comma 4, e 599 cod. proc. pen. implichi, anche nei procedimenti di appel-lo in camera di consiglio (a seguito di rito abbreviato svoltosi in primo grado), la rilevanza del legittimo impedimento del difensore di fiducia, che abbia deciso di parteciparvi ma sia stato impossibilitato a comparire per causa di forza maggiore, evento o malattia imprevisti e imprevedibili.

18. Va dunque enunciato il seguente ulteriore principio di diritto: “È rilevante nel giudizio camerale di appello (conseguente a processo di primo grado celebrato con rito abbreviato) l’impedimento del di-fensore determinato da non prevedibili ragioni di salute”.

19. Nel caso in esame la Corte di appello non ha affatto esaminato la serietà, l’imprevedibilità e l’at-tualità dell’impedimento per ragioni di salute dedotto dal difensore. Ne consegue che la sentenza im-

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pugnata deve essere annullata per nuovo giudizio, con rinvio alla Corte di appello di Salerno, la quale si atterrà ai principi di diritto enunciati.

20. Resta assorbito l’esame degli ulteriori motivi di ricorso. 1. Il ricorso deve essere respinto. 2. È inammissibile per manifesta infondatezza il primo motivo di ricorso col quale il ricorrente de-

nuncia il difetto assoluto di motivazione per avere la Corte d’appello riprodotto nel provvedimento impugnato la sentenza di primo grado (v. punto 2.1 del ritenuto in fatto).

Dalla lettura della decisione in verifica, risulta di tutta evidenza come il Collegio di merito, dopo avere dato conto del compendio argomentativo sviluppato dal Giudice di primo grado nonché dei mo-tivi d’appello, abbia svolto specifiche ed autonome considerazioni in risposta (v. pagine 9 e seguenti della sentenza).

3. Sono privi di fondamento il secondo e terzo motivo, con i quali il ricorrente declina sotto diversa prospettiva la medesima doglianza, lamentando il difetto dei presupposti fattuali della "coltivazione" punita dal D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73 (v. punti 2.2 e 2.3 del ritenuto in fatto).

3.1. Le censure mosse nel ricorso si pongono in evidente disarmonia rispetto al consolidato inse-gnamento di questa Corte, affermato anche dalle Sezioni Unite, alla stregua del quale costituisce con-dotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale, ma spetta al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ovvero l’idoneità della sostanza ricavata a produrre un effetto drogante rilevabile (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2008, Di Salvia, Rv. 239920 e 239921; Sez. U. 24 aprile 2008, Valletta, non massimata).

Detto principio è stato di recente autorevolmente ribadito dalla Corte costituzionale, con la pronun-cia del 9 marzo 2016, n. 109, là dove – nuovamente investita della questione già sollevata in passato – il Giudice delle Leggi ha ribadito l’infondatezza della dedotta incostituzionalità del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 75, con riferimento all’art. 3 Cost., art. 13 Cost., comma 2, art. 25 Cost., comma 2, e art. 27 Cost., comma 3, nella parte in cui, secondo un consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità, non include tra le condotte punibili con sole sanzioni amministrative, ove finalizzate in via esclusiva al-l’uso personale della sostanza stupefacente, anche la coltivazione di piante di cannabis.

A sostegno della decisione, i Giudici della Consulta hanno rilevato, per un verso, come non sussista una disparità di trattamento tra il detentore a fini di consumo personale dello stupefacente "raccolto" e il coltivatore "in atto", poiché entrambi sono chiamati a rispondere penalmente delle loro condotte; per altro verso, come non sia ravvisabile la violazione del principio della necessaria offensività del reato, là dove la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti, presentando l’attitudine ad innescare un mec-canismo di creazione di nuove disponibilità di droga, quantitativamente non predeterminate, rende non irragionevole la valutazione legislativa di pericolosità della condotta considerata per la salute pub-blica – la quale non è che la risultante della sommatoria della salute dei singoli individui – oltre che per la sicurezza pubblica e per l’ordine pubblico. Rimane, dunque, affidata alla discrezionalità del legislato-re la previsione di un trattamento sanzionatorio più rigoroso per la condotta, dotata di maggiore peri-colosità, di coltivazione di stupefacenti rispetto a quella di sola detenzione, in quanto la prima, non solo ha la capacità di accrescere la quantità di stupefacente esistente e circolante, ma – a differenza delle al-tre condotte "produttive" – non richiede neppure la disponibilità di "materie prime" soggette a rigido controllo, ma normalmente soltanto dei semi.

3.2. Di tali coordinate ermeneutiche hanno fatto corretta applicazione i Giudici della cognizione. A tenore di contestazione, nel caso in oggetto, si tratta della coltivazione di sette piantine di cannabis già poste a dimora e di altri diciannove pronte per essere impiantate, mediante utilizzo di micro impianti di irrigazione e di illuminazione, nonché della detenzione, ad evidente fine di spaccio, di complessivi 300 grammi di infiorescenze e foglie di marijuana essiccata, contenuti in diversi barattoli di vetro e con-tenitori. Dalle sostanze si sarebbero potuto ricavare, rispettivamente, 90 dosi medie singole, dalle piante coltivate, e 250 dosi medie singole, dalla sostanza stupefacente essiccata.

Secondo la ricostruzione in fatto compendiata nelle sentenze di merito, le modalità motivazione del-le piantine erano indubbiamente domestiche, ma presentavano un certo grado di organizzazione, in considerazione della predisposizione di due piccole serre attrezzate con l’impianto di irrigazione, ven-tole, lampade, filtri e termometri, così da consentire il mantenimento di un microclima favorevole della crescita delle piantine; inoltre le piante venivano coltivate "a rotazione", modalità in grado di massimiz-zare il prodotto (v. pagine 9 e 10 della sentenza).

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Alla stregua della ricostruzione in fatto della vicenda, ineccepibile si appalesa allora la conclusione cui è pervenuta la Corte in punto di offensività del fatto, trattandosi di una coltivazione – con allesti-mento di due serre domestiche e a rotazione – potenzialmente idonea a produrre nel tempo, ove non interrotta dalle forze dell’ordine, di costanti e significativi quantitativi di sostanza stupefacente di buo-na qualità (v. pagina 11 della sentenza).

4. La deduzione mossa nel quarto motivo (v. punto 2.4 del ritenuto in fatto) non sfugge ad una pre-liminare ed assorbente censura di inammissibilità, posto che essa, per un verso, non si confronta con la compiuta e lineare motivazione svolta dai Giudici della cognizione e, dunque, omette di assolvere la ti-pica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone e altri, Rv. 243838); per altro verso, è volta a sollecitare una rilettura delle emer-genze processuali, non consentita in questa Sede (ex plurimis Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074).

4.1. Del tutto congruamente la Corte ha ritenuto che il fatto che i coinquilini potessero agevolmente rendersi conto della presenza della droga nella stanza del C. non costituisca circostanza di per sé ido-nea a dimostrare il loro concorso nel reato (v. pagina 10 della sentenza).

Secondo i principi generali in tema di concorso di persone nel reato più volti ribaditi da questo Giu-dice di legittimità, la circostanza che taluno sia a conoscenza della circostanza che altri detenga nella medesima abitazione della sostanza stupefacente non è sufficiente a ritenere provato il concorso nel reato – che postula un contributo partecipativo, morale o materiale, alla condotta criminosa altrui, ca-ratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell’evento illecito –, dovendo piuttosto ricondursi, allorché si riduca ad un compor-tamento meramente passivo, alla c.d. connivenza non punibile (ex plurimis Sez. 6, n. 44633 del 31/10/2013, Dioum e altri, Rv. 257810; Sez. 4, n. 4948 del 22/01/2010, Porcheddu e altro, Rv. 246649).

5. Con il quinto motivo il ricorrente si duole della mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. (motivo riassunto sub punto 2.5 del ritenuto in fatto).

5.1. Occorre premettere che detto istituto è stato introdotto nel nostro ordinamento con D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, ed è entrato in vigore il 2 aprile 2015, successivamente alla pronuncia dell’impugnata sentenza.

Come ha chiarito questa Corte pronunciandosi nel suo più ampio consesso, l’istituto della non puni-bilità per particolare tenuità del fatto, previsto dall’art. 131-bis c.p., avendo natura sostanziale, è appli-cabile, per i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, anche ai proce-dimenti pendenti davanti alla Corte di cassazione e per solo questi ultimi la relativa questione, in appli-cazione dell’art. 2 c.p., comma 4, e art. 129 c.p.p., è deducibile e rilevabile d’ufficio ex art. 609 c.p.p., comma 2, anche nel caso di ricorso inammissibile (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266593). Le Sezioni Unite hanno, inoltre, chiarito che, quando la sentenza impugnata è anteriore alla entrata in vigore del D.Lgs. 16 marzo 2015, n. 28, l’applicazione dell’istituto nel giudizio di legittimità va ritenuta o esclusa senza rinvio del processo nella sede di merito e se la Corte di cassazione, sulla base del fatto accertato e valutato nella decisione, riconosce la sussistenza della causa di non punibilità, la dichiara d’ufficio, ex art. 129 c.p.p., annullando senza rinvio la sentenza impugnata, a norma dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266594).

Ne discende che la diretta applicazione dell’istituto da parte di questa Corte presuppone la possibili-tà di riconoscerne i relativi presupposti ("se riconosce la sussistenza della suddetta causa di non punibi-lità") sulla base della ricostruzione dei fatti e delle valutazioni compiute dai giudici della cognizione. Diversamente, la decisione deve essere demandata al giudice di merito, non potendo espletarsi nella sede di legittimità – giusta la specifica natura del sindacato rimesso a questa Corte – apprezzamenti di fatto tesi alla ricostruzione ed alla valutazione dei fatti (in senso conforme alle Sez. U sul punto, Sez. 6, n. 168, del 10/02/2016, Zuccato).

Occorre aggiungere che il riconoscimento della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis c.p. – pur possibile nella sede di legittimità per le ragioni già sopra esposte –, presuppone nondimeno che le condizioni dell’istituto non siano già state escluse dal giudice di merito, in termini espliciti o impliciti nella ricostruzione della fattispecie storico-fattuale e nelle valutazioni espresse in sentenza.

5.2. In applicazione del principio fissato dalle Sezioni Unite, non è revocabile in dubbio che, nel caso sottoposto al vaglio di questo Collegio, non sussistano le condizioni per l’applicazione dell’istituto.

Ed invero, la Corte territoriale, nell’argomentare l’insussistenza dei presupposti per ritenere – in concreto – non offensiva la coltivazione di marijuana e per negare la sostituzione della pena detentiva

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA CORTE PROSCIOGLIE PER TENUITÀ DEL FATTO APPLICANDO LO JUS SUPERVENIENS

con quella pecuniaria, ha congruamente evidenziato una serie di circostanze (modalità organizzative della coltivazione, quantità di sostanza detenuta e particolare ardire nel coltivare in un appartamento abitato anche da altre persone), tutte distoniche con la causa di non punibilità invocata.

6. Del tutto generico e, dunque, inammissibile è il sesto motivo (punto 2.6 del ritenuto in fatto), con il quale il ricorrente denuncia l’omessa motivazione in merito alla integrazione dell’elemento soggettivo, in ogni caso implicitamente motivato in sentenza alla luce della descrizione delle stesse modalità del fatto e dell’espresso richiamo alle dichiarazioni del C., il quale ha ammesso di avere coltivato e detenu-to marijuana nella propria stanza (v. pagina 5 della sentenza).

7. Incensurabili in questa Sede sono anche le considerazioni svolte dal Collegio d’appello in punto di negatoria delle circostanze attenuanti generiche, decisione contestata dal ricorrente col settimo motivo (2.7 del ritenuto in fatto). La Corte ha invero rilevato, per un verso, che si tratta di motivo generico e pertanto inammissibile (con una decisione perfettamente in linea con quanto di recente sancito dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza del 27 ottobre 2016, ric. Galtelli). Per altro verso, che non ricorre alcun concreto elemento positivamente valutabile, non potendosi valorizzare la mera incensura-tezza dell’imputato, in conformità al consolidato insegnamento di questa Corte (ex plurimis Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini e altri, Rv. 260610).

8. Dal rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedi-mento. [Omissis]

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

NATALIA ROMBI

Ricercatore confermato di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Udine

La particolare tenuità del fatto nel giudizio di Cassazione The particular tenuity of the fact in the judgement of the Supreme Court of Cassation

Dopo una disamina delle regole processuali per l’applicazione della speciale causa di non punibilità disciplinata dall’art. 131-bis c.p., l’A. si sofferma sulla possibilità per il giudice di legittimità di riconoscere d’ufficio la particolare tenuità del fatto. La soluzione offerta dalla Cassazione per i processi in corso al momento dell’entrata in vigore del nuovo istituto è l’occasione per verificare quale sia la disciplina da applicare a regime. After an examination of the procedural rules for the application of the special cause of non-punishment governed by art. 131-bis C.P., the author focuses on the ability of the judge of legitimacy to recognize automatically the par-ticular tenuity of the fact. The solution offered by the Supreme Court of Cassation for the ongoing trials when the new institution is coming into force gives the opportunity to verify which legal rule shall apply when in force. L’OGGETTO DELLA PRONUNCIA

Una recente sentenza della Corte di Cassazione offre l’occasione per verificare se e come la particolare causa di non punibilità disciplinata dall’art. 131-bis c.p. possa trovare applicazione nel giudizio di legit-timità.

La pronuncia in esame, pur condividendo l’assunto delle Sezioni Unite secondo cui l’istituto, in ra-gione della sua natura sostanziale, è direttamente applicabile, in ossequio a quanto previsto dall’art. 2, comma 4, c.p., ai procedimenti in corso 1, ha negato l’immediato riconoscimento della speciale causa di non punibilità, precisando che la sua applicazione, pur possibile nella sede di legittimità, esige che la sussistenza degli elementi costitutivi dell’istituto non sia già stata esclusa dal giudice di merito, in ter-mini espliciti o impliciti nella ricostruzione della fattispecie storico-fattuale e nelle valutazioni espresse in sentenza.

Nonostante la fattispecie rientrasse nei limiti di pena indicati dalla nuova disposizione, la Corte ha ritenuto di non poter trascurare i giudizi espressi nella motivazione della sentenza di secondo grado che escludevano la ricorrenza degli ulteriori requisiti per dichiarare la particolare tenuità del fatto.

Invero, la Corte territoriale, aveva espressamente escluso che la condotta potesse ritenersi non offen-siva e negato la sostituzione della pena detentiva con quella pecuniaria in ragione di una serie di circo-stanze (modalità organizzative della coltivazione, quantità di sostanza detenuta e particolare ardire nel coltivare in un appartamento abitato anche da altre persone) da sole sufficienti ad escludere una possi-bile qualificazione in termini di tenuità del fatto contestato.

Ed è proprio sulla base di questa inequivoca ricostruzione, chiaramente indicativa di un apprezza-mento di gravità del fatto, che la Suprema Corte ha rigettato la richiesta di applicazione dell’art. 131-bis c.p. in sede di legittimità.

1 Si veda Cass., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681, in CED Cass., n. 266594; per analogo orientamento v. Cass., sez. III, 8 apri-le 2015, n. 15449, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 22 aprile 2015, con commento, a prima lettura di G.L. Gatta, Note a margine di una prima sentenza della Cassazione in tema di non punibilità per particolare tenuità del fatto (art. 131-bis c.p.) e nota di L. Tavassi, I primi limiti giurisprudenziali alla “particolare tenuità del fatto”, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 8 aprile 2015.

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LE REGOLE PROCESSUALI PER L’APPLICAZIONE DELLA SPECIALE CAUSA DI NON PUNIBILITÀ

L’istituto della particolare tenuità del fatto 2 è stato inserito nel nostro ordinamento dal d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, in attuazione della delega conferita con l. 17 aprile 2014, n. 67 la quale, all’art. 1, comma 1, lett. m), prevedeva la possibilità di «escludere la punibilità di condotte sanzionate con la sola pena pe-cuniaria o con pene detentive non superiori nel massimo a cinque anni, quando risulti la particolare te-nuità dell’offesa e la non abitualità del comportamento, senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione ci-vile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale» 3.

Introdotto con la finalità di deflazionare il carico giudiziario 4, consente la fuoriuscita dal sistema giu-diziario di condotte che, pur integrando gli estremi del fatto tipico antigiuridico e colpevole appaiono non meritevoli di pena 5 «in ragione dei principi generalissimi di proporzione e di economia processuale» 6.

A lungo si era discusso sulla natura giuridica da attribuire al nuovo istituto 7, potendo essere conce-pito come una nuova causa di non punibilità o come una mera causa di improcedibilità, destinata ad operare sul piano processuale.

Alla fine il legislatore ha optato per l’opzione ‘sostanzialistica’ e, quale causa di non punibilità, la speciale tenuità del fatto esclude l’applicazione della pena ma non impedisce l’esistenza del reato e non esclude l’antigiuridicità penale del fatto.

2 Tale istituto non rappresenta una novità nel nostro ordinamento processuale ma trova dei precedenti sia nel processo pena-le minorile (art. 27, d.p.r. 22 settembre 1988, n. 448), sia nel procedimento davanti al giudice di pace (art. 34 d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274). Sulla disciplina dei due istituti v. C. Cesari, Le clausole di irrilevanza del fatto nel sistema processuale penale, Giappichelli, Torino, 2005; S. Quattrocolo, Esiguità del fatto e regole per l’esercizio dell’azione penale, Jovene, Napoli, 2004.

3 Per approfondimenti sull’istituto in generale, si vedano, ex multis: AA.VV., I nuovi epiloghi del procedimento penale per partico-lare tenuità del fatto, a cura di S. Quattrocolo, Giappichelli, Torino, 2015; A. Marandola, I “ragionevoli dubbi” sulla disciplina proces-suale della particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 792; E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo (...ma non impossibile) per l’interprete delle norme processualpenalistiche: alla ricerca di una soluzione ragionevole del rapporto tra accertamenti giudiziali e decla-ratoria di non punibilità ai sensi dell’art. 131-bis c.p., in Arch. pen., 2015, 1, p. 1; S. Quattrocolo, Deflazione e razionalizzazione del siste-ma: la ricetta della particolare tenuità dell’offesa, in Proc. pen. giust., 2015, 4, p. 159 s.

4 L’istituto risponde anche ad una vera e propria «necessità di giustizia» giacché consente la fuoriuscita dal circuito penale di fatti che dati i limiti della tipicità penale comporterebbero l’applicazione di una sanzione. Invero, come scrive F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture, in Riv. it. dir. proc. pen., 2014, p. 1706 «neppure la più sofisticata tecnica di tipizzazio-ne dei reati (che, comunque, non è dei tempi nostri) riuscirà ad escludere dalla fattispecie ‘formale’ fatti del tutto bagatellari». La riforma mira anche a restituire effettività al principio di obbligatorietà dell’azione penale (C.F. Grosso, La non punibilità per parti-colare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 517), anche se, in tale veste, la declaratoria di tenuità può anche operare contro le ragioni dell’economia processuale (così F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. cont., 2015, 2, p. 84 il quale scrive «tutti sanno che molte notitiae criminis concernenti fatti bagatellari vengono oggi delibera-tamente abbandonate sul binario morto della prescrizione, o rese immuni alla regola dell’obbligatorietà mediante un disinvolto impiego del c.d. “modello 45”. Qui il nuovo istituto non permetterà di risparmiare tempo e risorse, perché lo smaltimento della notizia di reato avviene già a costo zero: al contrario dovrà essere spesa ulteriore moneta processuale necessaria per la celebra-zione del rito archiviativo»; meno netta la posizione di R. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, in Dir. pen. proc., 2015, p. 661 secondo il quale «l’obiettivo di deflazione è perseguito in termini secondari, consequenziali e accessori, dipendendo … dalla disciplina processuale, vale a dire dal momento in cui si colloca la sua applicazione»). Secondo R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di ‘particolare tenuità del fatto’, in Cass. pen., 2015, p. 1319 l’istituto svolge anche una specifica funzione di deflazione carceraria.

5 Il fatto tipico, pur di modesta portata lesiva, risulta essere non totalmente inoffensivo, ragione per cui secondo parte della dottrina (T. Padovani, Un intento deflattivo dal possibile effetto boomerang, in Guida dir., 2015, 15, p. 19) sarebbe «privo di senso ri-chiamare una qualche forma di ‘depenalizzazione’ perché il fatto dichiarato tenue è reato, e tale resta, pur se non punibile». In senso contrario R. Bartoli, L’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, cit., p. 661.

6 Cfr. Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, tra-smesso alla Presidenza del Senato il 23 dicembre 2014, in www.ministerodellagiustizia.it. Sul punto v. F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme recenti e prossime venture, cit., p. 1706.

7 Per approfondimenti sul punto, vedi la ricostruzione di F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare te-nuità del fatto, cit., p. 96 ss. il quale sostiene la correttezza della scelta finale operata dal legislatore, peraltro imposta dalla legge delega, sgombrando il campo dai dubbi in ordine alla possibilità, una volta configurato l’istituto come una causa di non punibi-lità, di poter dichiarare la particolare tenuità del fatto con archiviazione. Nello stesso senso C. Scaccianoce, La legge – delega sulla tenuità del fatto nel procedimento ordinario, in N. Triggiani (a cura di), La deflazione giudiziaria. Messa alla prova degli adulti e proscio-glimento per tenuità del fatto, Giappichelli, Torino, 2014, p. 239 il quale scrive «l’esigenza di evitare il processo non necessariamen-te deve tradursi in un ostacolo di natura processuale, potendo il legislatore tradurla, sul piano sostanziale, in una condizione di non punibilità, la cui mancanza determina l’interruzione del processo».

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Le peculiari connotazioni dell’istituto, evidenziate anche dalla collocazione sistematica nel codice penale (art. 131-bis c.p.) 8, avrebbero richiesto maggiore ponderazione nell’adeguamento della disciplina processuale onde rendere chiaro e univoco il trattamento da riservare a tale causa di proscioglimento 9.

Ci si riferisce, per esempio, alla opportunità di inserire, all’interno delle diverse disposizioni codici-stiche, che si occupano di epiloghi processuali, il riferimento alla possibilità di prosciogliere per partico-lare tenuità del fatto 10.

Una tale opzione avrebbe evitato di far sorgere dubbi sull’applicabilità dell’istituto in sede di udien-za preliminare, sulla formula da applicare nel caso in cui la speciale causa di non punibilità debba esse-re dichiarata all’esito del dibattimento 11 e, soprattutto per quanto qui rileva, sulla possibilità per il giu-dice dell’impugnazione di dichiarare ex officio la particolare tenuità del fatto.

Il legislatore ha invece interpolato solo alcune disposizioni, lasciando all’interprete la soluzione di non poche questioni problematiche 12, molte delle quali dovute anche alla mancata previsione di una disciplina transitoria.

In primo luogo è stato introdotto un nuovo motivo di archiviazione collocato nell’art. 411, comma 1, c.p.p. quando risulti che la persona sottoposta alle indagini «non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis» 13.

Si tratta di una ipotesi solo apparentemente incompatibile con la procedura di archiviazione, ben po-tendosi iscrivere nella medesima logica che è quella di evitare un processo superfluo, impedendo l’apertura di un giudizio a fronte di una notizia di reato suscettibile di condurre ad una decisione di proscioglimento.

Vi è da chiedersi se fosse necessario aggiornare il catalogo dei casi di archiviazione o se invece, la speciale causa di non punibilità potesse essere ricondotta al caso dell’infondatezza della notizia di rea-to. L’art. 125 norme att. c.p.p. stabilisce, infatti, che la notizia è infondata quando gli elementi raccolti nel corso delle indagini non consentono di sostenere l’accusa in giudizio ma, a ben vedere, tale parame-tro accomuna tutte le ipotesi di archiviazione 14, compresa quella per particolare tenuità.

Invero, se ricorrono i presupposti previsti dall’art. 131-bis c.p., si può ritenere che l’accusa sia inso-stenibile in quanto le indagini, dimostrando che l’offensività del fatto è trascurabile, fondano una pro-gnosi di probabile declaratoria della tenuità nel giudizio.

Probabilmente alla scelta di tipizzare il caso di archiviazione corrisponde la volontà di delineare uno speciale procedimento.

8 La nuova fattispecie di non punibilità è stata collocata nel Titolo V (ora intitolato “Della non punibilità per particolare te-nuità del fatto”), del Capo I (ora intitolato “Della modificazione, applicazione ed esecuzione della pena”), del libro I del codice penale, anziché nel titolo III, nel quale sono collocate le cause di non punibilità e le cause di giustificazione.

9 Sulle ricadute a livello processuale delle due differenti opzioni si sofferma F. Palazzo, Le deleghe sostanziali: qualcosa si è mos-so tra timidezze e imperfezioni, in C. Conti-A. Marandola-G. Varraso (a cura di), Le nuove norme sulla giustizia penale, Wolters Klu-wer-Cedam, Milano, 2014, p. 149 il quale non manca, al contempo, di sottolineare che «dal punto di vista dogmatico, la soluzio-ne della non punibilità è probabilmente la più corretta, poiché le condizioni di procedibilità sono costituite solitamente da atti o fatti che operano come tali, nella loro realtà fattuale senza implicare valutazioni come, invece, impone l’accertamento della te-nuità dell’offesa ovvero della non abitualità del comportamento».

10 P. Spagnolo, Gli epiloghi processuali della “particolare tenuità del fatto”, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi epiloghi del proce-dimento penale per particolare tenuità del fatto, Giappichelli, Torino, 2015, p. 71.

11 In dottrina vi è chi ritiene che la speciale causa di non punibilità debba essere dichiarata ex art. 530 c.p.p. (R. Aprati, Le re-gole processuali della dichiarazione di ‘particolare tenuità del fatto’, cit., p. 1328; A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: vuoti normativi e ricadute applicative, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 28 maggio 2015, p. 4), è chi, invece, fa riferimento all’applicazione dell’art. 529 c.p.p. (A. Corbo-G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “partico-lare tenuità del fatto”. Relazione Corte di Cassazione. Ufficio del Massimario, n. III/02/2015, 23 aprile 2015, in www.cortedicassazione.it; F. Menditto, Prime linee guida per l’applicazione del decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 3 aprile 2015, p. 22).

12 Sul punto v. A. Marandola, I “ragionevoli dubbi” sulla disciplina processuale della particolare tenuità del fatto, cit., p. 795 la quale, muovendo dalla considerazione che la legge delega era alquanto parca di indicazioni riguardo alla disciplina processuale, defi-nisce ‘laconiche’ le modifiche processuali apportate dal legislatore benché «il processo [sia] la sede nella quale l’istituto [è] ap-plicato e nella quale devono convergere l’efficienza e le garanzie dei soggetti coinvolti»; S. Quattrocolo, Deflazione e razionalizza-zione del sistema: la ricetta della particolare tenuità dell’offesa, cit., p. 165.

13 In merito all’opportunità di introdurre un nuovo art. 408-bis c.p.p. al fine di sottolineare l’‘eccentricità’ della nuova fatti-specie archiviativa, v. A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., cit., p. 4.

14 Nel senso che l’art. 125 norme att. c.p.p. enuncia un principio valido per qualunque caso di archiviazione v. F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, p. 430.

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Si prevede, infatti, che la richiesta di inazione fondata sulla particolare tenuità del fatto sia comuni-cata dal pubblico ministero tanto alla persona offesa (indipendentemente da una previa istanza di es-serne informata) 15, quanto all’indagato, entrambi abilitati, entro il termine ordinario di dieci giorni dal-l’avvenuta comunicazione, a prendere visione degli atti e a presentare opposizione, indicando le ragio-ni del dissenso (art. 411, comma 1-bis, c.p.p.).

Rispetto al regime ordinario il potere di intervento della persona offesa risulta rafforzato e al con-tempo all’indagato è riconosciuto un’inedita facoltà di opposizione che trova la sua probabile ragione d’essere nelle conseguenze che dalla decisione di archiviazione potrebbero derivare nei suoi confronti.

Secondo la prevalente linea interpretativa 16, infatti, i decreti e le ordinanze di archiviazione 17, data la contestuale interpolazione dell’art. 3, comma 1, lett f ), d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313, devono essere iscritti nel casellario giudiziale.

A ben vedere, però, la disposizione citata si riferisce a «provvedimenti definitivi» e il provvedimento di archiviazione «non [assume] mai connotati di autentica definitività» 18 come dimostra il fatto che ad esso non sono connessi gli effetti preclusivi propri di un provvedimento formalmente irrevocabile 19, ben potendo l’azione penale sul medesimo fatto essere esercitata in un secondo momento, eventual-mente a seguito di nuove indagini autorizzate dal giudice ex art. 414 c.p.p. 20.

Anche a ritenere che il provvedimento di archiviazione per tenuità del fatto non debba essere iscritto nel casellario 21, la sua emissione potrebbe comunque essere d’ostacolo ad una successiva applicazione dell’istituto. Infatti, il pubblico ministero può sempre verificare tramite il registro delle notizie di reato

15 Si tratta di soluzione già introdotta per i ‘delitti commessi con violenza alla persona’ (v. art. 2, comma 1, lett. g), d.l. 14 ago-sto 2013, n. 93, conv. in l. 15 ottobre 2013, n. 119 il quale ha stabilito un termine per l’opposizione di venti giorni) che, in ragione di quanto previsto dall’art. 6, § 1, lett a) della Direttiva 2012/29/UE, il quale prevede l’obbligo degli Stati di assicurare che la vittima sia informata del proprio diritto di essere edotta di un’eventuale decisione di non esercitare l’azione penale, di non pro-seguire le indagini o di non perseguire l’autore del reato, avrebbe dovuto essere generalizzata in sede di recepimento della di-sciplina di matrice europea (v. d.lgs. 15 dicembre 2015, n. 212).

16 In questo senso C. F. Grosso, La non punibilità per particolare tenuità del fatto, cit., p. 521; A. Marandola, I “ragionevoli dubbi” sulla disciplina processuale della particolare tenuità del fatto, cit., p. 796; E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo (...ma non impossibile) per l’interprete, cit., p. 8.

17 L’intenzione dei compilatori emerge chiaramente dalla Relazione della Commissione ministeriale presieduta dal Prof. Pa-lazzo che ha redatto il testo dello schema di decreto delegato la quale individua uno stretto collegamento tra archiviazione ‘ga-rantita’, iscrizione nel casellario, realizzazione della causa ostativa. In particolare, per spiegare le facoltà riservate all’indagato nella procedura di archiviazione in essa si afferma, al § 7 «in effetti, posta la necessità di iscrivere nel casellario giudiziale il provvedimento di applicazione del nuovo istituto, ancorché adottato mediante decreto di archiviazione, ne viene che l’indagato potrebbe avere interesse ad evitare tale effetto sfavorevole in quanto preclusivo di una futura fruizione dell’irrilevanza, miran-do invece ad ottenere un risultato pienamente liberatorio» per poi ribadire, al § 9 «come già notato (...) il requisito della non pu-nibilità del comportamento previsto dal primo comma dell’art. 131 bis del codice penale, impone un sistema di registrazione delle decisioni che accertano la particolare tenuità del fatto che comprenda ovviamente anche i provvedimenti di archiviazione adottati per tale causa» (cfr. in www.senato.it).

18 Così F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 100 il quale, pur ritenendo che dall’intenzione dei compilatori emerge chiaramente che i decreti e le ordinanze di archiviazione e le sentenze di non luogo a procedere devono essere iscritti nel casellario giudiziale, sottolinea che a tali provvedimenti non può essere riconosciuta l’efficacia accertativa capace di ostacolare la concessione del beneficio una seconda volta, dovendo in ogni caso la tenuità del fatto essere riaccertata nel pieno rispetto delle garanzie difensive. Non è, infatti, pensabile, scrive l’A. (p. 100), che «un elemento determinante per la punibilità dei fatti seriali successivi – l’abitualità del comportamento – possa ritenersi accertato in virtù de-gli esiti di una procedura nella quale non è pienamente garantito il diritto alla prova»; in termini analoghi M. Daniele, L’archiviazione per tenuità del fatto fra velleità deflattive ed equilibrismi procedimentali, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi epiloghi del procedimento penale per particolare tenuità del fatto, cit., p. 56, il quale, pur ritenendo che il provvedimento di archiviazione debba essere iscritto nel casellario giudiziale, essendo destinato a divenire ‘definitivo’ a seguito della mancata proposizione o del riget-to del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 409, comma 6, c.p.p., sottolinea comunque che «la prognosi di probabile condanna [contenuta nello stesso] (...) non integrerebbe il requisito della precedente “commissione” di un reato tale da comportare auto-maticamente l’abitualità del comportamento ai sensi dell’art. 131 bis comma 3 c.p.».

19 Sul punto v. M. Daniele, L’archiviazione per tenuità del fatto fra velleità deflattive ed equilibrismi procedimentali, cit., p. 64. 20 Dal provvedimento di archiviazione discendono limitati effetti preclusivi: il p.m. non può svolgere nuove indagini, se non

previa autorizzazione giudiziale; il p.m. non può, prima di una formale riapertura delle indagini, chiedere l’applicazione di mi-sure cautelari, le quali postulano la pendenza di un procedimento. Sul punto v. per tutti F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 434.

21 Così R. Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, in www.dirittopenalecontemporaneo.it, 13 settembre 2015, p. 25.

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la sussistenza di precedenti archiviazioni ex art. 131-bis c.p. e può acquisire ex artt. 117 o 371 c.p.p. gli atti di indagine compiuti nell’ambito del procedimento archiviato. È indubbio che le informazioni e gli atti così acquisiti possano incidere sulla valutazione di abitualità del comportamento.

In ogni caso, dunque, il riconoscimento all’indagato della possibilità di opporsi a questa ipotesi di archi-viazione pare trovare fondamento nel potenziale pregiudizio che da tale declaratoria deriva all’interessato, il quale potrebbe avere interesse ad ambire ad un provvedimento più ampiamente liberatorio 22 o, eventual-mente, a non avvalersi del beneficio per ‘non consumare’ la chance della particolare tenuità del fatto 23.

Non sembra, però, che il potere di interlocuzione 24 riconosciuto all’indagato sia idoneo a garantirgli un accertamento più completo dei fatti: da un lato il giudice non è in alcun modo vincolato dall’opposi-zione presentata dall’indagato e può accogliere la richiesta anche in presenza del dissenso dell’in-teressato; dall’altro il provvedimento di archiviazione, disposto senza lo svolgimento di indagini po-tenzialmente idonee a dimostrare l’innocenza dell’interessato o ad ottenere una formula di archiviazio-ne più favorevole, non è in alcun modo impugnabile 25.

A fronte dell’opposizione dell’indagato o della persona offesa, il giudice fissa un’udienza in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 409, comma 2, c.p.p. e, dopo avere sentito le parti, nel caso in cui compaia-no, se accoglie la richiesta del pubblico ministero provvede con ordinanza.

In mancanza di opposizione o nei casi di inammissibilità della stessa, il giudice procede senza for-malità e, se accoglie la richiesta di archiviazione, pronuncia decreto motivato.

Nei casi in cui respinge la richiesta, il giudice restituisce gli atti al pubblico ministero, eventualmente provvedendo ai sensi dell’art. 409, commi 4 e 5, c.p.p.

Quest’ultimo rinvio sembrerebbe escludere, in caso di disaccordo del giudice sulla richiesta del p.m., la fissazione dell’udienza camerale, come invece previsto in via ordinaria nel procedimento di archivia-zione. Considerato però che proprio nei casi di richiesta basata sull’art. 131-bis c.p. l’instaurazione di un contraddittorio tra tutti i soggetti interessati può agevolare la valutazione del giudice, pare preferibile interpretare il rinvio all’art. 409, comma 4 e 5, c.p.p. in modo onnicomprensivo, ossia come riferito alla procedura ivi prevista, la quale postula la celebrazione di una udienza che può sfociare nella indicazio-ne al p.m. di ulteriori indagini da svolgere, o nella richiesta di formulazione coatta dell’imputazione 26.

Diversamente da quanto potrebbe suggerire poi la formulazione della disposizione, pare che il giu-dice in disaccordo con il p.m. sulla richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto non sia vincolato a restituire gli atti all’accusa ma possa, sulla base delle indagini svolte, ritenere sussistenti i presupposti per archiviare anche per ragioni diverse da quelle segnalate dal pubblico ministero 27.

22 F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 100 si chiede, in chiave problemati-ca, se analogo interesse a dimostrare la propria innocenza, non dovrebbe essere riconosciuto anche a chi vede archiviare il suo procedimento perché il fatto non è previsto dalla legge come reato o per una causa di non punibilità diversa dalla tenuità del fatto (es. ex art. 649 c.p.).

23 Così S. Quattrocolo, Deflazione e razionalizzazione, cit., p. 166. 24 In sede di riforma ci si è interrogati a lungo sul come configurare la partecipazione dell’indagato a tale procedimento. Nel-

lo specifico, considerato che per poter qualificare un fatto tenue occorre verificare che sussista, sia stato commesso dall’indagato e costituisca reato, il punto era se, per l’adozione della particolare formula di archiviazione, fosse necessario, da un punto di vi-sta costituzionale, il consenso dell’interessato o sufficiente riconoscere al medesimo la possibilità di contraddire sul punto. Il le-gislatore ha optato per la seconda soluzione, riconoscendo all’indagato il diritto potestativo alla celebrazione di un’udienza ca-merale nella quale esporre le sue ragioni, non già un diritto di veto sulla decisione. Tale scelta trova fondamento nella conside-razione che l’archiviazione per esiguità del fatto non accerta pienamente la responsabilità ma piuttosto l’inutilità del processo data la non necessità, in ossequio al principio di proporzionalità, di punire il fatto. Sul punto v. R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1323 nonché F. Palazzo, Nel dedalo delle riforme, cit., p. 1708. Più in genera-le, la scelta normativa pare trovare fondamento nella considerazione che il contraddittorio probatorio è irrinunciabile (salve le deroghe previste dalla Costituzione) quando si tratta di stabilire se debba essere applicata una pena, non quando si tratti di de-cidere se rinviare a giudizio o archiviare. Si veda, per tutti, sul principio P. Ferrua, La prova nel processo penale, vol. I, Struttura e procedimento, Giappichelli, Torino, 2015, p. 112.

25 Sul punto v. A. Marandola, I “ragionevoli dubbi” sulla disciplina processuale della particolare tenuità del fatto, cit., p. 798, la quale sottolinea che «colpisce l’esclusione di un potere di reclamo da parte dell’indagato che subisce l’archiviazione considerato il suo effetto pregiudizievole (…). L’annotazione, seppure funzionale alla verifica della ricorrenza dell’abitualità quale elemento osta-tivo alla concessione della causa di non punibilità comporta uno “stigma” a carico dell’indagato».

26 Così E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo, cit., p. 9. 27 In generale, sulla possibilità per il giudice di archiviare anche con una formula diversa, v. F. Caprioli, L’archiviazione, Jove-

ne, Napoli, 1994, p. 382 nonché, in giurisprudenza: Cass., sez. VI, 19 ottobre 1990, in Cass. pen., 1991, p. 93; Cass., sez. V, 4 mag-

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 427

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

Se la causa di non punibilità non viene dichiarata all’esito delle indagini preliminari, mediante ar-chiviazione, può essere pronunciata con formula ad hoc nel predibattimento e all’esito di un giudizio di merito ordinario o abbreviato.

Invero, l’art. 469 c.p.p., che in generale disciplina la possibilità di pervenire ad una pronuncia libera-toria in sede predibattimentale, sentiti il pubblico ministero e l’imputato e sempre che questi non si op-pongano 28, si è arricchito di una nuova ipotesi, essendo previsto al comma 1-bis la possibilità di emette-re una sentenza di non doversi procedere anche quando «l’imputato non è punibile ai sensi dell’art. 131-bis c.p. previa audizione in camera di consiglio anche della persona offesa, se compare». Tale previ-sione suscita qualche perplessità in quanto non pare che lo schema astratto della norma, modulato su cause di proscioglimento la cui declaratoria non richiede particolari accertamenti probatori (es. man-canza di una condizione di procedibilità, bis in idem, estinzione del reato rilevabile ictu oculi) 29 possa estendersi alle ipotesi di particolare tenuità del fatto le quali sottendono un’articolata serie di verifiche.

D’altro canto la possibilità che si addivenga ad un proscioglimento predibattimentale ex art. 469, comma 1-bis, c.p.p. pare remota, essendo piuttosto inverosimile che dopo il rinvio a giudizio possano emergere elementi dai quali risulti in modo pressoché inequivocabile che il fatto è particolarmente te-nue e, soprattutto, considerato il limitato orizzonte cognitivo del giudice che, in tale fase, ha la disponi-bilità del solo fascicolo per il dibattimento.

A meno di non ritenere che lo spazio applicativo di tale disposizione, considerati i limiti edittali del-la causa di non punibilità, sia rappresentato essenzialmente dalle ipotesi di citazione diretta a giudizio e sia, dunque, volto a impedire l’inutile svolgimento di un dibattimento nei casi in cui l’azione penale sia stata esercitata nonostante la tenue connotazione del fatto.

Più frequentemente, ove non dichiarata con sentenza di non luogo a procedere all’esito dell’udienza preliminare o con sentenza di proscioglimento predibattimentale, la speciale causa di non punibilità è dichiarata con un provvedimento di assoluzione ex art. 530, commi 1 e 3, c.p.p., al quale è riconosciuta dal nuovo art. 651-bis c.p.p. la medesima efficacia extrapenale delle sentenze penali di condanna 30. Ciò pare essere diretta conseguenza del fatto che, nonostante l’esclusione della punibilità, la sentenza di proscioglimento ex art. 131bis c.p. non è una pronuncia tipicamente assolutoria, ma al contrario, accerta, in via definitiva, che il reato è stato commesso dalla persona dichiarata non punibile 31.

In considerazione di ciò, si sarebbe potuto prevedere la possibilità di prosciogliere per questa specia-le causa di non punibilità in una disposizione ad hoc – art. 529-bis c.p.p.– che ne evidenziasse la singola-rità rispetto sia alle ipotesi previste nell’art. 529 c.p.p. sia a quelle previste dall’art. 530 c.p.p.

Peraltro, a voler tutelare meglio la parte civile, in ossequio alle pur scarne indicazioni della legge de-

gio 1995, in Cass. pen., 1995, p. 3436; Cass., sez. V, 31 novembre 1998, in CED Cass., n. 212509; in senso analogo, in merito all’ipotesi specifica v. E. Marzaduri, L’ennesimo compito arduo, cit., p. 9 nonché M. Daniele, L’archiviazione per tenuità del fatto fra velleità deflattive ed equilibrismi procedimentali, cit., p. 61; in chiave dubitativa, F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento, cit., p. 102 nonché A. Marandola, I “ragionevoli dubbi” sulla disciplina processuale della particolare tenuità del fatto, cit., p. 797 la qua-le, pur riconoscendo che comunemente è consentito al giudice sostituire la formula di archiviazione nel caso in cui ritenga ‘in-sussistente’ il ‘caso’ postulato dal p.m. e sussistenti i presupposti per una archiviazione diversa, ritiene, in ragione della partico-lare natura della nuova ipotesi archiviativa, che «a rigore il giudice non [possa] disporre l’archiviazione per altra causa – salvo che essa non emerga dagli atti, si pensi all’intervenuta prescrizione o all’assenza di una condizione di procedibilità – posto che il p.m., avanzando la domanda di archiviazione per tenuità ha saggiato la sussistenza del fatto di reato, riscontrando il solo difetto di punibilità, sicché egli va rimesso nelle condizioni di rideterminarsi, a pena di abnormità dell’atto emesso dal giudice»; in tal senso, altresì, R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1327; P. Bronzo, L’archiviazio-ne per particolare tenuità del fatto, in G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb (a cura di), Procedura penale. Teoria e pratica del processo, vol. II, Torino, Utet, 2015, p. 965.

28 Tale disciplina trova applicazione anche nel caso di pronuncia ex art. 469, comma 1-bis c.p.p. (così Cass., sez. II, 15 marzo 2016, n. 12305, in Dir. pen. proc., 2016, p. 887; Cass., sez. V, 4 febbraio 2016, n. 28660, in CED Cass., n. 267360).

29 L’ipotesi introdotta al comma 1-bis appare eterogenea rispetto a quelle già previste nell’art. 469 c.p.p. le quali si fondano «su situazioni di oggettiva e incontrovertibile rilevabilità» (così S. Quattrocolo, ‘Tenuità del fatto: genesi e metamorfosi di una rifor-ma a lungo attesa, in M. Daniele-P. P. Paulesu (a cura di), Strategie di deflazione penale e rimodulazione del giudizio in absentia, Giap-pichelli, Torino, 2015, p. 127).

30 Dato il testuale riferimento alla sentenza pronunciata “a seguito di dibattimento”, deve escludersi l’efficacia extrapenale della pronuncia emessa ex art. 469, comma 1-bis c.p.p., il che pare coerente con il limitato orizzonte cognitivo del giudice nella fase predibattimentale.

31 Cfr. Relazione allo schema di decreto legislativo recante disposizioni in materia di non punibilità per particolare tenuità del fatto, cit., p. 8.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 428

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

lega 32, anziché limitarsi a riconoscere efficacia di giudicato al peculiare proscioglimento per tenuità del fatto, si sarebbe dovuto intervenire sia sull’art. 538 c.p.p., spezzando il rigido legame condanna-risarcimento 33, sia sul meccanismo che regola i rapporti tra azione civile e azione penale (art. 75 c.p.p.), autorizzando il danneggiato ad agire in sede civile senza dover attendere l’irrevocabilità della decisione penale sulla tenuità del fatto 34.

Il danneggiato, nonostante la previsione dell’art. 651-bis c.p.p. è, infatti, tenuto a dimostrare, davanti al giudice civile, la sussistenza del nesso di causalità tra condotta e danno e a quantificare quest’ultimo, e va incontro al rischio che le sue aspettative risarcitorie siano deluse, ben potendo, la ritenuta tenuità del fatto desunta, tra l’altro, dall’esiguità del danno, influenzare, pur in assenza di un vincolo giuridi-co 35 – che esiste solo per quanto attiene alla sussistenza del fatto e alla sua attribuibilità al soggetto – le determinazioni del giudice civile in tema di risarcimento.

Meno chiaro, nel silenzio della legge, è se si possa pervenire ad una pronuncia ex art. 131-bis c.p. al termine dell’udienza preliminare.

In senso positivo depone il fatto che l’art. 425 c.p.p. contiene una formula coerente con la causa di esclusione della punibilità, ben potendo rientrare la declaratoria ex art. 131-bis c.p. nell’ipotesi di «per-sona non punibile per qualsiasi causa» 36. A ciò si aggiunga il fatto che l’udienza preliminare si presta ad essere una sede idonea alle verifiche necessarie a tale declaratoria, disponendo il giudice dell’intero fascicolo delle indagini preliminari ed essendo possibili acquisizioni probatorie ulteriori se decisive ai fini della pronuncia della sentenza di non luogo a procedere.

D’altro canto, sebbene non sia prevista espressamente la possibilità per l’imputato e per la persona offesa di interloquire sul punto, la decisione emessa all’esito di tale udienza postula un contraddittorio argomentativo tra le parti e vede potenzialmente coinvolta anche la persona offesa in quanto destinata-ria dell’avviso dell’udienza.

Il non luogo a procedere e l’assoluzione dibattimentale sono, dunque, le pronunce attraverso le quali l’art. 131-bis c.p. può trovare il suo sbocco processuale.

Non pare, invece, possibile pervenire, in difetto di una specifica previsione, al riconoscimento di tale speciale causa di non punibilità in applicazione dell’art. 129 c.p.p. in considerazione del fatto che l’ambito operativo di tale previsione è ontologicamente limitato «alle sole pronunce che possono dav-vero essere adottate con immediatezza in ogni stato e grado del processo» 37. Tra tali pronunce non rien-tra certo quella che dichiara la particolare tenuità del fatto in quanto l’adozione della relativa formula di proscioglimento può avvenire solo dopo l’accertamento della sussistenza, della penale rilevanza e dell’ascrivibilità all’imputato del fatto per cui si procede 38.

Diverse sono le ricadute, sul piano processuale, della scelta di non intervenire sull’art. 129 c.p.p. L’efficacia di tale disposizione non è, infatti, limitata alla fase dibattimentale; al contrario essa inter-

viene a definire l’ambito dei poteri officiosi del giudice, sia qualora investito di un rito speciale deflati-vo, sia in sede di impugnazione.

Non a caso si ritiene che non sia possibile pervenire al proscioglimento immediato per tenuità del fatto nel caso in cui sia stata formulata l’istanza di applicazione della pena su richiesta delle parti o la richiesta di decreto penale di condanna 39. In tali ipotesi, il giudice che ritenga il fatto tenue, può solo re-

32 Si legge all’art. 1, lett. m) della legge delega: «escludere la punibilità (…) senza pregiudizio per l’esercizio dell’azione civile per il risarcimento del danno e adeguando la relativa normativa processuale penale».

33 Così F. Caprioli, Prime considerazioni sul proscioglimento per particolare tenuità del fatto, cit., p. 104. 34 Sul punto v. B. Lavarini, Gli effetti extra-penali del giudicato “di tenuità”, in S. Quattrocolo (a cura di), I nuovi epiloghi del pro-

cedimento penale per particolare tenuità del fatto, cit., p. 101 ss. 35 Sul punto v. D. Vicoli, L’efficacia extrapenale del giudicato, in F. Caprioli-D. Vicoli, Procedura penale dell’esecuzione, Torino,

Giappichelli, 2011, p. 127. 36 In questo senso Cass., sez. V, 12 febbraio 2016, n. 21409, in Arch. n. proc. pen., 2016, 4, p. 372. 37 In questi termini L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema processuale penale, Torino, 2008, p. 85. 38 Così E. Marzaduri, sub art. 129 c.p.p., in Chiavario (coordinato da), Commento al nuovo codice di procedura penale, II, Torino,

Utet, 1990, p. 117. 39 La scelta del legislatore è condivisibile, giacché l’applicazione dell’art. 129 c.p.p., che non prevede alcuna interlocuzione

delle parti, finirebbe per ledere l’apparato negoziale concordato tra le parti e per consentire, contro la volontà dell’imputato, una pronuncia che va iscritta nel casellario e che presuppone l’accertamento della responsabilità (così A. Scalfati, Intervento al Conve-

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

stituire gli atti al p.m.: nel primo caso, facendo leva sul disposto dell’art. 444, comma 2, c.p.p., che con-sente al giudice di respingere l’istanza di patteggiamento qualora la pena proposta dalle parti non sia congrua 40, nell’altro, in applicazione dell’art. 459, comma 3, c.p.p., che attribuisce al giudice un sindaca-to completo sulla richiesta del pubblico ministero 41.

Analogamente nei giudizi di impugnazione la scelta di non inserire nell’art. 129 c.p.p. un esplicito ri-ferimento alla speciale tenuità del fatto, produce degli effetti, facendo quanto meno dubitare della pos-sibilità per il giudice di pronunciarsi ai sensi art. 131-bis c.p. extra petita e oltre i limiti del devolutum.

IL RICONOSCIMENTO DELLA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEI PROCESSI IN CORSO E NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE A REGIME

L’introduzione della particolare causa di non punibilità non è stata accompagnata dalla previsione di una disciplina transitoria.

Si è, dunque, posta subito all’attenzione degli interpreti la questione relativa alla possibilità di di-chiarare il fatto tenue nei giudizi pendenti.

La natura sostanziale dell’istituto, nonché gli effetti favorevoli connessi alla sua applicazione ne hanno suggerito l’immediata operatività nella fase intertemporale a norma dell’art. 2, comma 4, c.p., in tutti i giudizi non ancora definiti con sentenza passata in giudicato 42.

In particolare, si è ritenuto che la tenuità del fatto potesse essere dichiarata, e nei procedimenti pen-denti in primo grado, in applicazione delle diverse norme che disciplinano l’operatività dell’istituto ad ogni snodo processuale 43, e nei giudizi d’impugnazione, anche in difetto di una specifica richiesta di parte.

Nel giudizio d’appello, in forza del principio per cui l’applicazione della legge penale più favorevole rientra tra le questioni rilevabili dal giudice in ogni stato e grado del procedimento 44, nel giudizio di le-gittimità, ai sensi dell’art. 609, comma 2, c.p.p. che consente al giudice di decidere le questioni che non sarebbe stato possibile dedurre in appello 45 o dell’art. 619, comma 3, c.p.p. che, a fronte di norme di fa-vore anche sopravvenute, riconosce all’organo giudicante, oltre che una cognizione extra petita, anche il potere di procedere al giudizio rescissorio 46.

Orbene, mentre l’accertamento della particolare tenuità del fatto non pone problemi nel giudizio di

gno dell’Associazione tra gli studiosi del processo penale “G.D. Pisapia”, Processo penale e pena: nuovi equilibri, Roma, 2 luglio 2015, in www.studiosiprocessopenale.it/locandina-e-materiali.html).

40 Sul punto R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1338; P. Spagnolo, Gli epilo-ghi processuali della “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 93.

41 Sul punto v. C. cost., sent., 12 ottobre 1990, n. 447 in cui si afferma che «né dal tenore letterale [della norma] né da altre di-sposizioni relative al procedimento per decreto, è dato trarre argomenti che possano giustificare la lettura restrittiva fornita dal giudice a quo, secondo cui solamente motivi attinenti all’ammissibilità del rito potrebbero legittimare il mancato accoglimento della richiesta e la conseguente restituzione degli atti al pubblico ministero. Al contrario […] l’art. 459 comma 3 attribuisce al giudice un sindacato completo sulla richiesta del pubblico ministero: egli può quindi rigettarla anche nel caso in cui ritenga non adeguata la misura della pena in essa richiesta».

42 La nuova disciplina ha una efficacia retroattiva e può applicarsi sia ai fatti commessi dopo la sua entrata in vigore (art. 11 norme prel. c.c.), sia a quelli commessi sotto il vigore della disciplina previgente a condizione che non sia già intervenuta una sentenza passata in giudicato. Il giudicato, infatti, può essere modificato solo nei casi di abolitio criminis (art. 2, comma 2, c.p.) e di annullamento da parte della Corte costituzionale di una norma incriminatrice (art. 673 c.p.p. e art. 30, comma 3, l. 11 marzo 1953, n. 87). Sul punto v. A. Mangiaracina, La tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: cit., pp. 9-10 nonché R. Dies, Questioni varie in tema di irrilevanza penale del fatto per particolare tenuità, cit., p. 12. In giurisprudenza, escludono la possibilità per il giudice dell’esecuzione di revocare la sentenza al fine di applicare l’art. 131bis c.p.: Cass., sez. I, 15 settembre 2016, n. 46567, in CED Cass. n. 268069; Cass., sez. VII, 26 febbraio 2016, n. 11833, in CED Cass., n. 266169; Cass., sez. I, 10 novembre 2015, n. 51603, in Guida dir., 2016, 15, p. 82.

43 R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1337. 44 P. Gaeta-A. Macchia, L’appello, in G. Spangher (a cura di) Trattato di procedura penale, vol. V, Impugnazioni, Utet, Torino,

2009, p. 324. 45 Cass., sez. III, 22 aprile 2015, n. 21474, Fantoni, in CED Cass., n. 263693; Cass., sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449, Mazzarotto,

cit. 46 V. R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di ‘particolare tenuità del fatto’, cit., p. 1339; F. Cordero, Codice di procedura

penale, Utet, Torino, 1992, p. 739.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 430

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

appello, data la cognizione e i poteri del giudice, vi è da chiedersi se sia così nel giudizio di Cassazione, essendo precluso a tale giudice un accertamento dei requisiti strutturali del fatto.

La risposta positiva poggia sulla considerazione che alla Cassazione non si chiede di accertare se sussistono gli elementi che consentono di ritenere il fatto ‘tenue’ ma di stabilire se questo, così come emerge dalle risultanze raccolte nella sede di merito, possa o meno essere ‘definito’ di particolare tenui-tà; il che equivale ad un’attività di sussunzione del fatto concreto nella norma astratta, attività propria di ogni giudice, anche di legittimità.

Si tratta, in altri termini, di ‘misurare’ l’offensività del fatto, così come ricostruito nella motivazione della sentenza impugnata, la quale, pur non potendo trattare direttamente la questione, in quanto frutto di uno ius superveniens, può fornire delle indicazioni che consentono di qualificare il reato nella sua componente materiale ‘tenue’ o ‘grave’.

Ecco che, a seconda di quanto emerge dal testo del provvedimento impugnato, gli epiloghi del giu-dizio di Cassazione possono essere diversi: la Corte può annullare la sentenza e, senza rinviare gli atti, riconoscere direttamente la causa di non punibilità ex art. 620 lett. l) c.p.p. 47; può annullare la sentenza con rinvio degli atti al giudice di merito qualora emerga solo una ‘parziale compatibilità’ della fattispe-cie con gli elementi di cui all’art. 131-bis c.p. e, dunque, siano necessari ulteriori accertamenti (art. 623 c.p.p.) 48, infine, come nel caso della sentenza in esame, può rigettare il ricorso se la particolare tenuità del fatto, in termini espliciti o impliciti, è già stata esclusa dal giudice di merito 49.

Nella specie, una serie di circostanze ben evidenziate dal giudice di merito apparivano tutte distoni-che con la causa di non punibilità invocata e, risultando indicative di un apprezzamento di gravità del fatto, hanno condotto la Corte a rigettare la richiesta di applicazione dell’art. 131-bis c.p.

La pronuncia fornisce l’occasione per interrogarsi, più in generale, sulla possibilità di riconoscere e dichiarare la particolare tenuità del fatto nei giudizi di impugnazione a regime.

La scelta di non intervenire sull’art. 129 c.p.p., introducendo una specifica formula per tale causa di non punibilità, seppure opportuna, considerato che l’accertamento della tenuità del fatto non si concilia con le forme dell’immediata declaratoria di non punibilità 50, ha posto il problema della possibilità per il giudice dell’impugnazione di potersi pronunciare ex officio ai sensi dell’art. 131-bis c.p. 51.

Nei giudizi impugnatori, infatti, il proscioglimento immediato non ha tanto una funzione anticipatoria quanto quella di ampliare lo spettro dei poteri decisori esercitabili alla conclusione della relativa fase 52.

Così, mentre non vi è dubbio che nel giudizio di appello la particolare causa di non punibilità possa essere dichiarata se oggetto di uno specifico motivo di impugnazione, meno scontato è che possa essere riconosciuta anche d’ufficio 53. L’art. 597, comma 5, c.p.p., che attribuisce al giudice poteri extra petita

47 Cass., sez. un., 25 febbraio 2016, n. 13681, in Guida dir., 2016, 30, p. 78; Cass., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 46992, in Dir. e giustizia, 2015, 27 novembre 2015; Cass., sez. VI, 16 settembre 2015, n. 45073, in CED Cass., n. 265224; R. Aprati, Le regole proces-suali, cit., p. 1339 osserva che la Corte esercita, in tal caso, un potere analogo a quello di cui essa si avvale quando, per effetto di una norma sopravvenuta di favore, è necessario rideterminare il trattamento sanzionatorio (v. Cass., sez. VI, 20 marzo 2014, n. 15157, in CED Cass. n. 259253).

48 Cass., sez. IV, 12 novembre 2015, n. 46992, cit.; Cass., sez. III, 8 ottobre 2015, n. 50215, in Riv. pen., 2016, 2, p. 130; Cass., sez. fer., 13 agosto 2015, n. 36500, in CED Cass., n. 264703.

49 Cass., sez. II, 30 settembre 2015, n. 41742, in CED Cass. n. 264596; Cass., sez. VI, 23 giugno 2015, n. 39337, in CED Cass., n. 264553; Cass., sez. II, 22 maggio 2015, n. 35901, in Guida dir., 2016, 3, p. 78; Cass., sez. III, 14 maggio 2015, n. 24358, in Guida dir., 2015, 31, p. 95; Cass., sez. IV, 17 aprile 2015, n. 22381, in Cass. pen., 2015, p. 4555.

50 L’ambito operativo di tale previsione è ontologicamente limitato «alle sole pronunce che possono davvero essere adottate con immediatezza in ogni stato e grado del processo» (in questi termini L. Scomparin, Il proscioglimento immediato nel sistema pro-cessuale penale, Torino, 2008, p. 85).

51 Da segnalare che l’art. 129 c.p.p. è stato più volte applicato anche per prosciogliere in ragione della sussistenza di una cau-sa di non punibilità (v. Cass., sez. VI, 8 gennaio 2003, n. 11874, in CED Cass. n. 224259; Cass., sez. VI, 18 febbraio 2014, in CED Cass. n. 259110) sicché si sostiene che esso enunci una regola generale di condotta per il giudice il quale ove ne riscontri la sussi-stenza è tenuto ad adottare la relativa decisione allo stato degli atti senza che possa trovare spazio altra attività (Cass., sez. un. 25 gennaio 2005, in CED Cass. n. 230529). Sul punto v. A. Corbo-G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l’immediata appli-cazione della “particolare tenuità del fatto”. Relazione Corte di Cassazione. Ufficio del Massimario, cit., p. 6.

52 In questo senso L. Scomparin, Il proscioglimento immediato, cit., p. 275; R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1333; P. Spagnolo, Gli epiloghi processuali della “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 91.

53 In questo senso R. Aprati, Le regole processuali della dichiarazione di “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 1329; contra P. Spa-gnolo, Gli epiloghi processuali della “particolare tenuità del fatto”, cit., p. 96.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 431

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

quando vengono in rilievo norme di favore, pare riferirsi esclusivamente a disposizioni che riguardano il trattamento sanzionatorio e in quanto norma che fa eccezione al principio del tantum devolutum quan-tum appellatum dovrebbe essere di stretta interpretazione 54.

Analoga problematica si pone nel giudizio di Cassazione. Chiarito che tale declaratoria non comporta accertamenti non consentiti in sede di legittimità, riducendo-

si ad una attività di mera sussunzione del fatto nella norma o di riqualificazione dello stesso alla luce delle risultanze in atti, essa può essere sicuramente dichiarata se oggetto di uno specifico motivo di ricorso.

In concreto il vizio di motivazione e l’errore di diritto sulla legge penale sono i due motivi attraverso cui la particolare causa di non punibilità può divenire oggetto di cognizione da parte della Cassazione, la quale, ove non rigetti il ricorso o lo dichiari inammissibile 55, annullerà la sentenza con o senza rinvio, a seconda delle risultanze in atti.

Nello specifico pare che, anche in questo caso, ad orientare la Cassazione verso l’uno o l’altro esito sia il criterio della ‘superfluità’ del giudizio di rinvio 56, come enunciato nella lett. l) dell’art. 620 c.p.p., il quale contempera due valori confliggenti: da una parte l’esigenza di economia processuale e dall’altra la necessità di salvaguardare il ruolo di legittimità della Corte.

In applicazione di tale principio, l’annullamento sarà con rinvio (art. 623 c.p.p.) ogni qualvolta l’ac-coglimento del motivo di ricorso implichi accertamenti di fatto o valutazioni proprie del giudice di merito 57.

Pare essere questa l’ipotesi più frequente, spettando al giudice del rinvio, una volta che la Cassazio-ne, accolto il motivo di ricorso, abbia delineato la portata astratta dell’art. 131-bis c.p. o rilevato un erro-re nell’applicazione della norma, rimotivare sul punto, ovvero riqualificare i fatti alla luce delle indica-zioni in diritto fornite dal giudice dell’annullamento.

Non è da escludere, però, che a fronte di una impugnazione che miri ad ottenere il riconoscimento e l’applicazione della speciale causa di non punibilità, facendo valere l’errore di diritto, ovvero la manca-ta sussunzione da parte del giudice di merito dei fatti nella norma corretta, possa aversi anche un an-nullamento senza rinvio ove la ricorrenza della tenuità del fatto risulti già accertata nella sentenza im-pugnata 58.

In difetto di uno specifico motivo di ricorso, deve ritenersi, invece, che la possibilità per la Cassazio-ne di valutare la sussistenza della causa di non punibilità del fatto discenda dal generale principio per la cui la corretta applicazione del diritto 59 è monopolio dell’organo giudicante ex art. 101 Cost.

Sicché, nella misura in cui venga in rilievo un errore di diritto sulla tenuità del fatto, deve ritenersi che la Cassazione abbia cognizione extra petita naturalmente nei limiti in cui il vizio emerga dagli atti.

Resta da chiedersi se questa attività di ‘riqualificazione’ giuridica del fatto, ove effettuata d’ufficio, non esiga un contraddittorio specifico con l’interessato 60, che vada ad integrare gli spazi di dialettica

54 In questo senso: Cass., sez. IV, 10 gennaio 2002, in CED Cass., n. 222313; Cass., sez. I, 26 settembre 1997, Gargano, in Cass. pen., 1998, p. 2945; in dottrina v. G. Spangher, Il giudizio di comparazione tra le circostanze ed i poteri di ufficio del giudice di appello, in Cass. pen., 1992, p. 2387 secondo cui «al di fuori delle specifiche indicazioni, trova operatività il principio consacrato nel tantum devolutum quantum appellatum».

55 Se il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza, non essendosi validamente instaurato il giudizio di impugnazio-ne, la Cassazione non può dichiarare la particolare tenuità del fatto (così Cass., sez. V, 14 aprile 2016, n. 40293, in CED Cass., n. 268077; Cass., sez. IV, 10 dicembre 2015, n. 1035, in Guida dir., 2016, 15, p. 80; Cass., sez. V, 18 agosto 2015, n. 40152, in Riv. pen., 2016, 1, p. 55).

56 Cass., sez. V, 7 ottobre 2015, n. 48020, in CED Cass., n. 265467. 57 Cass., sez. III, 30 marzo 2016, n. 30383, in CED Cass., n. 267588 esclude che il giudice di rinvio possa dichiarare l’estinzione

del reato per intervenuta prescrizione ove questa sia maturata successivamente alla sentenza di annullamento parziale. Sui rap-porti tra prescrizione e declaratoria ex art. 131-bis c.p., v. Cass., sez. III, 8 ottobre 2015, n. 50125, in Riv. pen., 2016, 2, p. 130.

58 Cass., sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44683, in Arch. n. proc. pen., 2016, 1, p. 40. 59 Sul punto v. Cass., sez. V, 2 luglio 2015, n. 5800, in Riv. pen., 2016, 4, p. 324 secondo cui «il giudizio di particolare tenuità

del fatto (...) ascrive una qualificazione giuridica al fatto contestato e può pertanto essere compiuto d’ufficio anche dalla Corte di cassazione sulla base dell’accertamento in fatto compiuto dal giudice del merito (…) infatti l’attività richiesta al giudice di legit-timità non può intendersi verifica di merito, ma piuttosto semplice valutazione della corrispondenza del fatto, nel suo minimum di tipicità, al modello legale di una fattispecie incriminatrice, come la disciplina del nuovo istituto impone nella fase del giudi-zio». Nel caso di specie la Corte ha annullato senza rinvio in applicazione dell’art. 620, comma 1, lett. a), c.p.p. perché «l’azione penale non doveva essere iniziata o proseguita».

60 Sul punto v. A. Corbo-G. Fidelbo, Problematiche processuali riguardanti l’immediata applicazione della “particolare tenuità del fat-to”, cit., p. 6 e 8 i quali si interrogano sulla necessità di garantire l’interlocuzione dei soggetti interessati.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 432

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | LA PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO NEL GIUDIZIO DI CASSAZIONE

pure previsti nel giudizio di Cassazione ove – come è noto – l’imputato, sia pure con la mediazione esclusiva del difensore, può comparire e presentare memorie su ogni questione processuale o di merito rilevante ai fini della decisione (art. 121 c.p.p.) 61.

A suscitare tale riflessione sono gli insegnamenti della Corte di Strasburgo in tema di modifica della qualificazione giuridica del fatto 62. Il giudice europeo ha, infatti, chiarito che all’imputato deve sempre essere consentito interloquire sulla diversa definizione giuridica del fatto e, pertanto, egli deve essere notiziato di una tale eventualità prima della pronuncia della decisione.

Sebbene le due situazioni non siano esattamente speculari, è innegabile che la tutela del diritto di di-fesa postuli l’instaurazione di un contraddittorio sul thema dell’esclusione della punibilità, tanto più in considerazione degli effetti pregiudizievoli che derivano dalla declaratoria ex art. 131-bis c.p., effetti che, non a caso, sono alla base della scelta del legislatore di disciplinare, ove non previsto, un coinvolgimen-to dell’interessato, oltre che della persona offesa, ad ogni snodo processuale in cui è possibile riconosce-re la tenuità del fatto.

In considerazione di ciò, nei casi sicuramente rari in cui la possibilità di applicare la speciale causa di non punibilità dovesse emergere solo in sede di decisione, la Cassazione, pur potendo in astratto procedere al giudizio rescissorio, dovrebbe annullare la sentenza con rinvio degli atti al giudice di merito, onde assicurare all’imputato un pieno esercizio del diritto di difesa sull’applicazione dell’art. 131-bis c.p.

61 Secondo parte della giurisprudenza, fondandosi il giudizio di Cassazione sul principio del contraddittorio, sia pure attra-verso la partecipazione esclusiva dei difensori, non sarebbe necessaria l’adozione di specifiche formalità per consentire alla per-sona offesa una partecipazione ulteriore rispetto a quella già garantita dalla generale facoltà di depositare memorie ex art. 90 c.p.p. (così Cass., sez. V, 2 luglio 2015, n. 5800, cit. nonché Cass., sez. VI, 15 settembre 2015, n. 44683, in Cass. pen., 2016, p. 2083 che esclude anche la sussistenza di un reale interesse della parte civile ad interloquire sul punto giacché l’applicazione dell’art. 131-bis c.p. nella fase processuale non pregiudica gli interessi civili (art. 651-bis c.p.p.). Per il riconoscimento di uno specifico po-tere di interlocuzione pare propendere, invece, Cass., sez. III, 8 aprile 2015, n. 15449, cit.

62 V. Corte e.d.u., 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, nonché Cass., sez. VI, 12 novembre 2008, Drassich, in CED Cass., n. 241754 che nel fornire una interpretazione adeguatrice dell’art. 521 c.p.p. afferma che «l’imputato e il difensore devono e posso-no essere messi in grado di interloquire sulla eventualità di una diversa definizione giuridica del fatto là dove essa importi con-seguenze in qualunque modo deteriori per l’imputato così da configurare un suo concreto interesse a contestarne la fondatez-za»; Cass., sez. VI, 19 febbraio 2010, in CED Cass., n. 247371; le aperture verso un effettivo contraddittorio di tipo argomentativo paiono smentite da altre pronunce (v. Cass., sez. II, 26 febbraio 2010, CED Cass., n. 246922).

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 433

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | È PRECLUSO ACQUISIRE INDAGINI DIFENSIVE DURANTE IL GIUDIZIO ABBREVIATO

È precluso acquisire indagini difensive durante il giudizio abbreviato “incondizionato”

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE IV, SENTENZA 15 NOVEMBRE 2016, N. 51950 – PRES. BLAIOTTA, REL. GIANNITI

In caso di sentenza di condanna relativa a un reato successivamente abrogato e sottoposto a sanzione pecuniaria civile, ai sensi del d.lgs. 15 gennaio 2016, n. 7, il giudice della impugnazione, nel dichiarare che il fatto non è più previsto dalla legge come reato, deve revocare anche i capi della sentenza che concernono gli interessi civili.

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

1. La Corte di appello di Genova con la sentenza impugnata, in punto di affermazione di penale re-sponsabilità, ha confermato la sentenza 3/10/2012 con la quale il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Savona, ad esito di giudizio abbreviato, aveva dichiarato (omissis) responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza (con tasso alcoolemico accertato pari a 1, 33 g/l),

commesso in (omissis) ed aggravato dall’ora notturna; ma, in punto di trattamento sanzionatorio, l’ha parzialmente riformata laddove ha concesso all’imputato (in considerazione della di lui incensura-tezza e dell’assenza di qualsivoglia ragione ostativa) il beneficio della non menzione della condanna

sul certificato del casellario giudiziale. In via preliminare la Corte ha respinto la richiesta difensiva di revoca della ordinanza 18/10/2012

con la quale il giudice di primo grado aveva respinto la richiesta di acquisizione del verbale di assunzione di informazioni in sede di indagine difensiva, os-

servando non solo che detta richiesta era stata articolata dopo la richiesta di giudizio abbreviato (non condizionato) ma anche che l’acquisizione sollecitata

(volta a sostenere l’omesso avviso al (omissis) della facoltà di farsi assistere da un difensore nell’ef-fettuazione dell’alcoltest) era diretta a “smentire il contenuto del verbale di accertamento redatto dagli operanti nell’immediatezza del fatto”, cioè un atto pubblico facente fede fino a querela di falso, nella specie non presentata; ed ha respinto la richiesta di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale argo-mentando sul fatto che la presunzione di completezza dell’indagine dibattimentale di primo grado cede soltanto di fronte alla constatazione dell’impossibilità di decidere allo stato degli atti, constatazione nel-la specie “certamente non riscontrabile”.

Quindi, la Corte ha richiamato le argomentazioni del giudice di primo grado in punto di avvenuto accertamento dello stato di ebbrezza del (omissis) (con riguardo sia alle risultanze del test alcolemico che alle condizioni nelle quali la Polizia Stradale aveva sorpreso l’imputato alla guida della propria auto.

2. Avverso la sentenza della Corte di appello propone personalmente ricorso (omissis), il quale arti-

cola due motivi di doglianza. 2.1. Nel primo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 438 e 391 octies c.p.p., in punto di

mancata acquisizione al fascicolo processuale di un verbale di dichiarazioni assunte dal difensore nella forma prevista dall’art. 391 bis c.p.p.

Al riguardo il ricorrente, in punto di fatto, deduce di aver richiesto l’acquisizione del verbale ancor

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 434

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | È PRECLUSO ACQUISIRE INDAGINI DIFENSIVE DURANTE IL GIUDIZIO ABBREVIATO

prima di essere stato ammesso al rito abbreviato, ma che il Giudice dell’udienza preliminare con ordi-nanza 18/10/2012 si era limitato a fissare udienza camerale (per provvedere sull’istanza di giudizio abbreviato o per procedere al relativo giudizio); deduce ancora di aver ribadito la richiesta di acquisi-zione in sede di atto di appello, chiedendo la revoca della suddetta ordinanza emessa dal giudice di primo grado, ma che la Corte territoriale ha respinto la sua richiesta argomentando sull’erroneo pre-supposto che il verbale in questione era stato prodotto nel giudizio di primo grado dopo che era già sta-to richiesto il rito abbreviato senza che la richiesta fosse subordinata ad alcuna integrazione probatoria. In punto di diritto, il ricorrente sostiene che l’art. 327 bis c.p.p. è applicabile anche nel giudizio abbre-viato, nel senso che, a suo avviso, le indagini difensive possono essere svolte in ogni stato e grado del processo e sono legittimamente producibili anche nel giudizio abbreviato.

2.2. Nel secondo motivo il ricorrente deduce violazione dell’art. 168 bis c.p.p. in punto di mancata sua ammissione all’istituto della messa alla prova.

Al riguardo il ricorrente deduce di aver chiesto alla Corte di appello di essere ammesso alla messa alla prova, ma che la Corte, dopo aver disposto per due volte il rinvio dell’udienza in attesa dell’in-tervento delle Sezioni Unite, all’udienza del 28/10/2015 aveva invitato il suo difensore a concludere senza pronunciarsi sulla richiesta.

3. In vista dell’odierna udienza, tramite difensore di fiducia, deposita memoria il (omissis), nella qua-

le si lamenta del fatto che la Corte di appello di Genova aveva omesso di considerare la particolare te-nuità dell’offesa del fatto di reato per cui si è proceduto e chiede l’applicazione dell’art. 131 bis c.p.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso non è fondato. 1. Non fondato è il primo motivo di ricorso, concernente la mancata acquisizione al fascicolo proces-

suale del verbale di dichiarazioni assunte dal difensore nella forma prevista dall’art. 391 bis c.p.p. 1.1. La questione di diritto sottesa al suddetto motivo di ricorso riguarda il coordinamento del gene-

rale principio della continuità investigativa, valido anche per la parte privata (cfr. Corte cost. sent. nn. 238/1991, 16/1994, nonché ord. n. 245/2005) con l’altrettanto generale principio del giudizio abbreviato come giudizio caratterizzato dalla rinuncia al diritto alla prova.

1.2. In vista della soluzione da darsi al quesito nel caso di specie, occorre tener presente i dati fattua-li, risultanti dagli atti del fascicolo, al quale questa Corte accede a motivo della natura del vizio denun-ciato. Precisamente risulta in atti che:

a) a seguito di richiesta 26-30/09/2011 del PM presso il Tribunale di Savona, il Gip di quel Tribunale ha emesso decreto penale di condanna in data 13/10/2011;

b) il (omissis) in data 8/11/2011 ha personalmente presentato atto di opposizione al decreto penale di condanna, chiedendo il giudizio abbreviato ordinario;

c) il Gip con decreto 23/1/2012, redatto in calce all’istanza, ha fissato udienza in camera di consiglio del 4/4/2012 per provvedere sull’istanza e per l’eventuale giudizio abbreviato;

d) a seguito di richiesta 19/3/2012 del difensore avv. (omissis) (omissis), che deduceva un proprio le-gittimo impedimento, l’udienza è stata rinviata dal 4/4/2012 al 3/10/2012;

e) a detta udienza è comparso lo stesso avv. (omissis) il quale ha preliminarmente chiesto l’acquisi-zione di verbale di assunzione di informazioni in indagine difensiva rese in data 12/1/2012 da (omis-sis);

all’acquisizione si è opposto il Pubblico Ministero sul presupposto che l’imputato era già stato am-messo all’abbreviato; ed il giudice “rilevato che nel caso in esame il giudizio abbreviato segue all’op-posizione a decreto penale proposta ai sensi dell’art. 461 comma 3 c.p.p. e che pertanto, diversamente dalle altre ipotesi, l’imputato che ne abbia fatto richiesta deve ritenersi già ammesso all’abbreviato”, ha ritenuto inammissibile la produzione del verbale.

1.3. Tanto premesso in fatto, in punto di diritto, occorre in primo luogo ricordare che, secondo quan-to prevede l’art. 438 comma 2 c.p.p., l’imputato può presentare richiesta di giudizio abbreviato, in for-ma scritta od orale, fino a quando nell’udienza preliminare non siano state formulate le conclusioni.

La richiesta di giudizio abbreviato, quindi, può essere presentata anche dopo l’eventuale integrazio-ne istruttoria disposta dal giudice dell’udienza preliminare ai sensi degli art. 421 bis o 422 c.p.p.; e, a

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 435

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maggior ragione, anche dopo le produzioni documentali che, secondo quanto prevede l’art. 421 comma 3 c.p.p., il giudice dell`udienza preliminare ammette dopo la costituzione delle parti.

Ne consegue che l’art. 442 c.p.p., comma 1 bis si riferisce anche a tali produzioni e comunque a tutte le prove acquisite nell’udienza preliminare, quando stabilisce che, ai fini della deliberazione, il giudice del giudizio abbreviato utilizza, oltre agli «atti contenuti nel fascicolo di cui all’articolo 416 c.p.p., com-ma 2›› e alla «documentazione di cui all’art. 419 c.p.p., comma 3», anche «le prove assunte ne|l’u-dienza». Tali sono infatti anche i documenti prodotti dalle parti nell’udienza preliminare a norma dell’art. 421 comma 3 c.p.p., perché il riconoscimento all’imputato della facoltà di chiedere il giudizio abbreviato fino alla conclusione dell’udienza preliminare è inteso appunto a permettere l’utilizzazione nel giudizio speciale anche delle prove acquisite nel corso dell’udienza.

In definitiva, come questa Corte ha avuto modo di precisare (Sez. 5, sent. n. 6777 del O9/O2/2006, Paolone, Rv.233829), la produzione di documenti ben può avvenire «prima» della richiesta di giudizio abbreviato.

1.4. Nel caso di specie, tuttavia, come sopra rilevato, la richiesta di produzione di documenti è avve-nuta in sede di preliminari dell’udienza 3/10/2012 e, dunque, «dopo» la richiesta di giudizio abbrevia-to (presentata in data 8/11/2011).

Occorre allora ricordare che il rito abbreviato “ordinario”, disciplinato dall’art. 438 comma 1 c.p.p., è di per sé caratterizzato dalla fisiologica incompatibilità con richieste di ammissione di mezzi di prova, sia orali che documentali, come si evince dal fatto che in tal caso il processo viene definito, secondo la testuale espressione della norma, 2allo stato degli atti” e che solo nel caso del comma 5, richiamato dal comma 1 come evidente eccezione rispetto a tale definibilità allo stato degli atti, è consentita la richiesta di una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione cui il rito stesso viene condizionato.

Ne consegue che, una volta richiesto il rito speciale nella configurazione “secca” del comma 1, nes-suna prova, documentale od orale, può essere acquisita.

In altri termini, come questa Sezione ha già avuto modo di recente di precisare (sent. n. 6969 del 20/11/2012, 2013, Carani e altro, Rv. 254478), la richiesta da parte dell’imputato del rito abbreviato comporta l’accettazione del giudizio “allo stato degli atti”, con la conseguenza che il quadro probatorio già esistente non è suscettibile di modificazioni e con la precisazione che solo in base agli elementi già acquisiti deve formarsi la “res iudicanda”.

1.5. Ovviamente, l’imputato, dopo aver richiesto il giudizio abbreviato, conserva la facoltà, qualora venga ammesso al rito speciale richiesto, di sollecitare l’esercizio, da parte del giudice di primo grado, del potere di assumere ulteriori elementi necessari ai fini della decisione ex art. 441 comma 5 c.p.p., co-me pure di sollecitare l’esercizio, da parte del giudice d’appello, del potere di disporre la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale quando lo ritenga indispensabile ai fini della decisione, ai sensi dell’art. 603 comma 3 c.p.p.

I suddetti poteri, tuttavia, restano poteri officiosi del giudice, che non presuppongono affatto un di-ritto dell’imputato all’assunzione e vanno esercitati

solo quando emerga una esigenza probatoria “assoluta”. Quindi, come già rilevato da questa Corte (cfr. Sez. 5, sent. n. 23706 del 10/04/2006, Cervone ed al-

tro, Rv. 235186) l’imputato che ha chiesto il giudizio abbreviato non condizionato – anche a prescindere dalla valutazione sulla decisività o meno della prova che si lamenta non acquisita – non è di per sé le-gittimato a dolersi della mancata attivazione di tali poteri (ai sensi dell’art. 606 comma 1 lett. d) c.p.p., che garantisce la giustiziabilità del vulnus recato al diritto alla prova).

1.6. Il principio sopra affermato, in base al quale la produzione di documenti deve avvenire «prima» della richiesta di giudizio abbreviato, opera anche nel caso in cui la documentazione che si intenda produrre rappresenti l’esito di investigazioni difensive (come per l’appunto è avvenuto nel caso di spe-cie, nel quale il difensore all’udienza del 3/10/2012 aveva chiesto l’acquisizione di verbale di assunzio-ne delle informazioni in indagine difensiva, che erano state rese il precedente 12/1/2012 – cioè dopo la richiesta di giudizio abbreviato e prima dell’istanza del differimento dell’udienza – da tale Anna Laura Migliorati).

Più precisamente: è indubbio che le indagini difensive sono di per sé compatibili con il giudizio ab-breviato. La Corte costituzionale, fin dalle prime pronunce di poco successive all’entrata in vigore della legge n. 397 del 2000, ha affermato l’utilizzabilità a fini decisori delle indagini difensive nel procedi-mento speciale previsto dagli artt. 438 e seg. c.p.p. (cfr., sent. n. 115 del 2001, nonché le ord. n. 57 e 245 del 2005); d’altra parte, è indubbio che la difesa, in forza dell’art. 391 bis c.p.p., per l’appunto introdotto

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dalla citata legge n. 397 del 2000, ha facoltà di raccogliere in ogni stato e grado del procedimento ele-menti favorevoli all’imputato, per poi produrli davanti al giudice, anche in sede di giudizio abbreviato.

Ferma restando la suddetta compatibilità, dalla lettura coordinata dell’art. 415 bis c.p.p., art. 419 comma 3 c.p.p. e art. 391 octies c.p.p. con il citato art. 321 bis c.p.p. si evince che il difensore ha facoltà di presentare i risultati delle sue investigazioni nel corso dell’udienza preliminare, fino all’inizio della discussione ex art. 421 c.p.p., cioè nel termine coincidente per richiedere il giudizio abbreviato.

Ne consegue che i risultati delle indagini difensive, se presentati prima della richiesta di giudizio abbreviato, possono essere valutati in funzione di tutte le decisioni che il giudice è chiamato ad assu-mere nel corso dell’udienza preliminare, comprese quindi le decisioni e le pronunce che definiscono il procedimento attraverso il modulo alternativo del giudizio abbreviato.

1.7. Resta inteso che, anche in caso di presentazione dei risultati delle indagini difensive prima della richiesta di giudizio abbreviato, come il Giudice delle leggi ha avuto modo di precisare (ord. n. 245 del 2005), a ciascuna delle parti “va comunque assicurato il diritto di esercitare il contraddittorio sulle pro-ve addotte a sorpresa dalla controparte, in modo da contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto alle sin-gole, concrete fattispecie”.

In altri termini, nella lettura adeguatrice offerta dalla Corte costituzionale, il principio di continuità investigativa diventa funzionale all’esercizio del diritto alla controprova, nel senso che la posizione del pubblico ministero va riequilibrata rispetto alle produzioni difensive frutto delle indagini svolte ai sensi della L. n. 397 del 2000.

Così, se il deposito dei risultati dell’investigazione difensiva avviene nel corso delle indagini preli-minari, il pubblico ministero ha la possibilità di riequilibrare il “quadro probatorio” procedendo al ne-cessario supplemento investigativo attraverso l’espletamento delle indagini previste dall’art. 419 com-ma 3 c.p.p.; se, invece, i risultati dell’inchiesta difensiva vengono prodotti all’udienza preliminare, il pubblico ministero ha diritto ad un differimento dell`udienza, in modo che anche in questo caso possa svolgere le indagini suppletive, per bilanciare l’impianto accusatorio rispetto alle novità introdotte dal-la difesa.

In questo modo, come già rilevato da questa Corte (cfr. Sez. 6, sent. n. 31683 del 31/03/2008, P.M. in proc. Reucci, Rv. 240779) non viene messo in crisi né il carattere fondamentale del giudizio abbreviato, che è quello che privilegia l’apporto probatorio unilaterale, e neppure il principio del contraddittorio, proprio perché il PM, a fronte dell’apporto probatorio difensivo, ha sempre la possibilità di allegare nuove indagini in replica a quelle presentate dalla difesa.

1.8. In definitiva, per le ragioni che precedono, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Savona all’udienza del 3/10/2012, non ha affatto violato gli artt. 438 e 391 octies c.p.p. laddove non ha acquisito al fascicolo processuale il verbale di assunzione di informazioni in indagine difensiva rese il precedente 12/1/2012 dalla (omissis), proprio perché la richiesta di produzione di detto verbale è stata fatta «dopo» la presentazione della richiesta di ammissione al giudizio abbreviato.

3. Manifestamente infondato è il secondo motivo di ricorso. Invero, come questa Corte ha avuto più volte modo di precisare (cfr., ad es. Sez. 2, sent. n. 18625 del

16/01/2015, Capardoni e altri, Rv. 263792), nei processi pendenti in grado di appello al momento dell’entrata in vigore della legge 28 aprile 2014, n. 67, l’imputato non può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova ex art. 464-bis cod. proc. pen., non essendo prevista la possibilità di dare ingresso ad una procedura strutturalmente alternativa ad ogni tipo di giudizio su una determinata im-putazione.

Pertanto, la decisione della Corte territoriale è stata ineccepibile laddove, in sede di verbale di udienza 20/10/2015, ha rilevato che «per consolidata giurisprudenza della sezione di questa Corte, non è ammissibile la messa alla prova in grado di appello» ed ha quindi disposto procedersi nel merito.

4. Inammissibile è infine l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 131 bis c.p., sollecitata in sede

di memoria presentata in vista dell’odierna udienza. È indubbio che la questione relativa alla esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto

è astrattamente proponibile anche nel giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 609 comma 2 c.p.p. (allor-quando si tratti di questione che – essendo stato introdotto l’art. 131 bis cod. pen. dall’art. 1, comma 2, d.lgs. 16.3.2005, n. 28 – non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello); e che il giudice di legit-

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | È PRECLUSO ACQUISIRE INDAGINI DIFENSIVE DURANTE IL GIUDIZIO ABBREVIATO

timità, eseguita la preliminare verifica della cornice edittale, è chiamato a verificare la sola sussistenza in astratto delle condizioni di applicabilità del nuovo istituto (reato punito con pena detentiva edittale non superiore nel massimo a cinque anni, anche congiunta a pena pecuniaria; particolare tenuità dell’offesa e non abitualità del comportamento alla luce delle modalità della condotta e dell’esiguità del danno o del pericolo, valutate alla luce dei criteri di cui all’art. 133 comma 1 c.p.p.) basandosi sulle va-lutazioni espresse nella motivazione del provvedimento impugnato (ad es., irrogazione di una pena in misura superiore ai minimo, mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, eventuali valutazioni sulla complessiva gravità del fatto), salvo poi, in caso di valutazione positiva, procedere all’annul-lamento della sentenza impugnata con rinvio, per nuovo esame, al giudice di merito.

Tuttavia, dal verbale di udienza 20 ottobre 2015 risulta che il difensore non aveva chiesto alla Corte territoriale, quale giudice di merito di secondo grado, di applicare l’istituto di nuovo conio, che era en-trato in vigore già dal precedente 2 aprile 2015, e nessuna norma di legge imponeva a detta Corte di va-lutarne l’applicabilità in difetto di una specifica richiesta difensiva.

5. Per le ragioni che precedono il ricorso deve essere rigettato ed il ricorrente deve essere condanna-

to al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 15/11/2016

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIFFICILE RACCORDO FRA INDAGINI DIFENSIVE E GIUDIZIO ABBREVIATO

GIUSEPPE TABASCO

Ricercatore di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Napoli Federico II

Il difficile raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato The difficult question of defence investigations and shortened proceedings

La Suprema Corte è tornata sul tema del raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato, statuendo, nell’ipotesi specifica di richiesta di giudizio abbreviato con atto di opposizione a decreto penale di condanna, che le risultanze dell’investigazione difensiva non siano acquisibili. La decisione appare condivisibile atteso che, nel caso di specie, la richiesta di acquisizione dei dati dell’indagine privata è intervenuta successivamente alla richiesta di giudizio ab-breviato incondizionato. Tuttavia, sembra che permanga il vulnus del diritto di difesa, che indurrebbe ad ipotizzare un dubbio di incostituzionalità. The Supreme Court has returned to the issue of reconciliation between defence investigations and shortened proceedings, ruling, in the specific event of request for shortened proceedings with a file of objection to the crim-inal conviction, that the findings of the defence investigations must not be available. The decision appears ac-ceptable, provided that, in the case in question, the request for the brief from the private investigation takes place successively to the request for unconditional short trial. However, it would seem that violation of the right of de-fence persists, which would raise the question of possible unconstitutionality. L’EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA DEL RITO ABBREVIATO

Con la sentenza che si annota la Corte regolatrice è tornata sul tema del raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato, sebbene nell’ipotesi particolare in cui il rito speciale è stato disposto in seguito a richiesta formulata con l’atto di opposizione a decreto penale di condanna. Occorre, quindi, esaminare preliminarmente l’evoluzione normativa che ha subito sia la disciplina del giudizio abbreviato che quella dell’investigazione difensiva.

Il carattere accusatorio di un sistema processuale impone che all’accertamento della responsabilità dell’imputato si pervenga con il massimo delle garanzie, nel rispetto del principio del contraddittorio nella formazione della prova 1.

Tuttavia, il rispetto delle garanzie implica una maggiore complessità delle forme, nonché un allun-gamento dei tempi di svolgimento del processo. In particolare, del dibattimento, laddove occorre assu-mere le prove dichiarative con il metodo dell’esame incrociato 2. Ne consegue, come dimostrano le lun-

1 P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano, Giuffrè, 2016, p. 790. A. Gaito-G. Spangher-F. Giunchedi-C. Santoriello, Scopi della giustizia penale e politica processuale differenziata, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali, I, Torino, Giappichelli, 2010, p. XXXIII, rilevano che il principio del contraddittorio è completamente assente nel rito ab-breviato, in quanto «l’attività epistemologica del giudice – necessaria ai fini della condanna secondo quanto dispongono gli artt. 442 e 529 c.p.p. – si esplica prevalentemente su dati conoscitivi formati in maniera unilaterale ed in segreto da una sola delle parti, la cui scarsa affidabilità derivante dall’assenza di ogni controllo al momento della loro acquisizione è superata dal consen-so dell’imputato». A parere di P. Ferrua, Contraddittorio e verità nel processo penale, in L. Gianformaggio (a cura di), Le ragioni del garantismo, Torino, Giappichelli, 1993, p. 245, poiché nel rito abbreviato la decisione è assunta in assenza di un contributo delle parti alla formazione della prova, tale rito speciale risulta ancora più deprecabile dello stesso patteggiamento.

2 Osserva A. Bargi, Caratteristiche dei procedimenti speciali nel processo penale, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale differenziata. I procedimenti speciali, cit., p. 37, che «la maggiore incidenza dei poteri probatori dei soggetti processuali nella se-

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ghe esperienze applicative del rito accusatorio nei paesi di common law, che l’amministrazione della giustizia non potrebbe reggere se la maggior parte dei procedimenti penali non venisse definita attra-verso procedure alternative semplificate 3. In altre parole, il processo accusatorio è un meccanismo complesso e particolarmente garantista, che va adoperato con parsimonia 4, nei soli casi nei quali vi sia un serio contrasto tra accusa e difesa 5 e la vicenda non possa concludersi attraverso itinerari processua-li semplificati.

È pur vero che l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge imporrebbe di adottare un unico iter procedurale attraverso cui accertare la responsabilità penale, capace, da un lato, di garantire alla stessa maniera i diritti delle parti; dall’altro, di assicurare sul piano delle stesse forme la correttezza delle deci-sioni 6. Ma l’esigenza di prevedere modelli processuali differenziati, attesa la complessità dei procedi-menti, era palesata dalla stessa Relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale, lad-dove veniva affermato che ai procedimenti speciali «è affidata in gran parte la possibilità del funziona-mento del procedimento ordinario, che prevede meccanismi di formazione della prova particolarmente garantiti, e quindi non suscettibili di applicazione generalizzata» 7. D’altronde, anche nelle codificazioni previgenti era prevista la semplificazione o addirittura l’omissione di taluni adempimenti processuali nell’ipotesi di scarsa gravità del reato da perseguire o evidente fondatezza dell’accusa 8. L’esigenza, quindi, si traduceva nell’introduzione accanto al modello ordinario di una gamma di moduli proces-suali alternativi, variamente congegnati in rapporto a specifiche situazioni normativamente prefissate, onde incentivare l’accesso ad itinerari processuali più adeguati alla vicenda concreta, al fine di realizza-re una decisione celere, l’economicità delle procedure e la maggiore efficienza del sistema penale misu-rata sulla tempestività della risposta sanzionatoria 9.

Tra tali procedimenti alcuni si innestavano sul tronco di schemi procedimentali in parte conosciuti. Viceversa il giudizio abbreviato si presentava privo di retroterra culturale 10, con una connotazione for-temente inquisitoria 11. Infatti, nel testo originario del codice del 1988 l’imputato chiedeva di essere giu-

quenza ordinaria del mutato procedimento probatorio sino alla decisione dibattimentale» implica «inevitabili conseguenze sui tempi propri del rito ordinario, in quanto modellato secondo le cadenze del pieno contraddittorio tra le parti nella formazione della prova per la decisione».

3 E. Zappalà, I procedimenti speciali, in AA.VV., Diritto processuale penale, II, Giuffrè, Milano, 2006, p. 237, il quale ritiene che proprio in virtù di tali esperienze il legislatore del 1988 ha previsto accanto al modello generale di tipo accusatorio varie forme di procedure alternative. Per A. Gaito, Il giudizio direttissimo, Giuffrè, Milano, 1980, p. 8, l’ispirazione ad un’aliqua utilitas, intesa come esigenza di conseguire un quid pluris rispetto al più generale concetto di attuazione della legge, che caratterizza le deroghe al rito ordinario, «ripaga nell’interna logica del sistema, la deviazione dai principi regolatori della giurisdizione».

4 E. Zappalà, I procedimenti speciali, cit., p. 237. 5 P. Tonini, Manuale di procedura penale, cit., p. 790, il quale rileva che in base alla prima legge delega per l’emanazione del

nuovo codice di procedura penale ed al relativo Progetto preliminare del 1978, quasi tutti i processi sarebbero dovuti pervenire alla fase del dibattimento. Ciò avrebbe comportato costi non sostenibili ed il sistema non sarebbe risultato gestibile. A parere dell’Autore questo fu il principale tra i motivi per i quali il Progetto del 1978 non ebbe successo ed il modello di riforma venne abbandonato.

6 R. Orlandi, Procedimenti speciali, in AA.VV. (a cura di), Compendio di procedura penale, Cedam, Padova, 2016, p. 593, che sot-tolinea la recente tendenza ad attuare semplificazioni dello svolgimento ordinario del processo, «promuovendo con incentivi premiali la rinuncia dell’imputato alla fase dibattimentale e all’esercizio di quei diritti di difesa e di prova, che in essa potrebbe-ro trovare spazio».

7 Fonda la differenziazione tra procedimento ordinario e speciali sulla deviazione dal modello “tipo” Gius. Sabatini, Trattato dei procedimenti speciali e complementari nel processo penale, Utet, Torino, 1956; invece, G. Bellavista, Sulla teoria generale dei procedi-menti anomali, in Id., Studi sul processo penale, II, Giuffrè, Milano, 1960, la riconduce ad aspetti oggettivi (ratione materiae) o sogget-tivi (intuitu personae) o anomali che si pongono come eccezionali.

8 Rileva A. Bargi, Caratteristiche dei procedimenti speciali nel processo penale, cit., p. 38, che i nuovi modelli di giustizia differen-ziata si discostano da quelli previsti nel codice di procedura penale abrogato, «anche se per larghi tratti ne condividono la natu-ra della specialità del rito, quale espressione della loro contrapposizione derogatoria alle forme del rito ordinario».

9 E. Zappalà, I procedimenti speciali, cit., p. 238. Sulla necessità di deflazionare il dibattimento cfr. anche P. Tonini, La scelta del rito istruttorio nel processo penale, Giuffrè, Milano, 1974, p. 301 ss.

10 F. Cordero, Struttura d’un codice, in Indice pen., 1989, p. 22, parla di «novità choquante» del codice di procedura penale del 1988.

11 In tali termini A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, in G. Garuti (a cura di), Procedimenti speciali, III (Procedura penale. Teoria e pra-tica del processo, diretto da G. Spangher-A. Marandola-G. Garuti-L. Kalb), Utet, Torino, 2015, p. 4, il quale sottolinea che solo ap-parentemente il giudizio abbreviato è tributario di suggestioni con il modello anglosassone del Summary trial.

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dicato «allo stato degli atti», i quali, in realtà, coincidevano con quelli raccolti dal pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari. Di tal guisa, rinunciava alla formazione della prova in dibattimento. Tuttavia, affinché potesse essere disposto il rito alternativo, occorrevano anche il consenso del pubblico ministero e la valutazione del giudice circa la possibilità di definire il processo «allo stato degli atti», senza alcuna integrazione probatoria. Veniva, così, tratteggiato un modello processuale, che avrebbe avuto vita difficile nella pratica giudiziaria, attesi i profili di criticità che presentava in ordine alle con-dizioni di accesso, ai limiti oggettivi di applicabilità e alla assenza di una propria autonoma fase istrut-toria. Sotto il primo profilo, mette conto di rilevare che il dissenso del pubblico ministero, in merito all’accesso al rito, precludeva all’imputato il diritto ad ottenere uno sconto di pena in caso di condanna, incidendo così anche sugli effetti sostanziali.

Chiamata a pronunciarsi sul punto, la Corte costituzionale affermava che il dissenso del pubblico ministero dovesse essere motivato 12, sulla base dell’unico paradigma utilizzabile, costituito dalla defi-nibilità del processo «allo stato degli atti» 13. In linea con tale prospettiva, non essendo possibile ricono-scere la riduzione di pena in sede propria, atteso il mancato perfezionamento del negozio, la Corte de-mandava il sindacato circa la legittimità del dissenso da parte del pubblico ministero al giudice del di-battimento, che avrebbe concesso lo sconto di pena previsto dall’adozione del rito alternativo, qualora fosse stata accertata la illegittimità del dissenso medesimo 14. Tuttavia, il vincolo della definibilità del giudizio «allo stato degli atti», che precludeva ogni integrazione probatoria, una volta instaurato il rito, costituiva il profilo più problematico del modello processuale in questione. Nella prospettiva del supe-ramento di tale limite si sviluppava la successiva giurisprudenza della Corte costituzionale, che, essen-do consapevole di non poter incidere su una materia contraddistinta da profili di discrezionalità legisla-tiva, più volte invitava il legislatore a ricondurre la normativa sul giudizio abbreviato a piena coerenza con i principi costituzionali 15. In ogni caso, gli interventi della Corte costituzionale, assicurando il dirit-

12 In tali termini, con decisioni dal contenuto pressoché identico, si esprimeva la Corte costituzionale in tre differenti occa-sioni, dichiarando illegittima la disciplina relativa a tre diverse specie di giudizio abbreviato: quello relativo alla fase transitoria previsto dall’art. 247 norme att. c.p.p. (C. cost., sent. 8 febbraio 1990, n. 66, in Giur. cost., 1990, p. 274); quello conseguente alla conversione del giudizio direttissimo e, pertanto, richiesto al giudice del dibattimento (C. cost., sent. 12 aprile 1990, n. 183, in Giur. cost., 1990, p. 1084); quello instaurato in seguito alla richiesta al giudice dell’udienza preliminare (C. cost., sent. 15 febbraio 1991, n. 81, in Giur. cost., 1991, p. 599). In realtà, il Giudice delle leggi riteneva contraria ai canoni di coerenza e ragionevolezza e, pertanto, costituzionalmente illegittima, ex art. 3 Cost., l’originaria disciplina del rito speciale in parola, atteso che il pubblico ministero con «un semplice atto di volontà immotivato e, perciò, incontrollabile», poteva privare l’imputato di un «rilevante vantaggio sostanziale», causando inoltre «la possibilità di un ulteriore squilibrio nel trattamento fra due imputati destinatari di un’identica imputazione e portatori di un’analoga capacità a delinquere, qualora il pubblico ministero adotti un atteggiamento consenziente nei confronti dell’uno e dissenziente nei confronti dell’altro, senza nemmeno dovere esternare le ragioni e vederle sottoposte ad un qualsiasi controllo giurisdizionale».

13 Anche tale criterio, tuttavia, non sfuggì alla censura della Corte costituzionale, che sottolineò come esso, a dispetto della sua apparente oggettività, esponeva gli imputati ad irragionevoli disparità di trattamento, in quanto l’esito della richiesta di ammissione al rito speciale finiva per dipendere dall’impegno profuso nello svolgimento delle indagini preliminari dalla polizia giudiziaria e dal pubblico ministero o dalla strategia investigativa di quest’ultimo. In altre parole, osserva R. Orlandi, Procedi-menti speciali, cit., p. 619, «l’incompletezza dell’indagine fu percepita come l’esito di casuali o volute deficienze investigative: conseguenza di un’indagine mal condotta, di un lavoro forzosamente lasciato a metà per l’incalzare dei termini di scadenza (art. 407), o, addirittura, di una mossa calcolata del titolare dell’accusa, magari incline ad astenersi dall’assumere certi atti di indagi-ne (ad esempio, dichiarazioni di persone informate sui fatti), allo scopo di esibire direttamente e per le prima volta in dibatti-mento il corrispondente mezzo di prova, ritenuto decisivo per il successo della tesi accusatoria».

14 C. cost., sent. 31gennaio 1992, n. 23, in Foro it., 1992, I, c. 1058, con nota di G. Di Chiara, Decidibilità allo stato degli atti e sin-dacato sulla decisione negativa in tema di «abbreviazione» del rito: note a margine della sentenza 23/92 della Corte costituzionale, che di-chiarava l’illegittimità, per contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., del combinato disposto degli artt. 438, 439, 440 e 442, nel testo all’epoca vigente, «nella parte in cui non prevede[va] che il giudice all’esito del dibattimento, ritenendo che il processo pote-va – su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero – essere definito allo stato degli atti dal giudice per le indagini preliminari, possa applicare la riduzione di pena prevista dall’art. 442, secondo comma».

15 A tal proposito C. cost., sent. 9 marzo 1992, n. 92, in Giur. cost., 1992, p. 904, con nota di D. Bianchi, Il giudizio abbreviato nel-la giurisprudenza della Corte costituzionale, statuiva che «Una volta affermato che un mero atto di volontà del p.m. non può condi-zionare l’interesse dell’ordinamento alla semplificazione del rito e quello dell’imputato alla riduzione della pena, deve trarsi il corollario che tale condizionamento non può farsi derivare neanche da un atto di volontà (implicita) concretatasi nello svolgi-mento di indagini insufficienti alla decidibilità con giudizio abbreviato». Infatti, sebbene sia rinvenibile nel sistema un principio di completezza delle indagini e, sussista, in tal senso un correlativo dovere funzionale del pubblico ministero, scopo della com-pletezza non è quello di fornire un supporto di conoscenze che consentano una decisione allo stato degli atti, bensì quello di permettere al pubblico ministero di determinarsi in ordine all’esercizio dell’azione penale. In tale contesto, pur in presenza di inda-

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to dell’imputato allo sconto di pena, a fronte di dinieghi immotivati, avevano ricondotto nei paradigmi della costituzionalità il modello processuale in parola. Ma, l’introduzione di un meccanismo che de-mandava al giudice del dibattimento di verificare se il dissenso del pubblico ministero fosse da ritenere ingiustificato e qualora la verifica si fosse risolta negativamente, di riconoscere all’imputato la riduzio-ne della pena prevista, ex art. 442, comma 2, c.p.p., spezzava «il nesso sinallagmatico tra semplificazio-ne del rito e beneficio» 16, consentendo all’imputato che aveva chiesto la definizione del giudizio allo stato degli atti, di ottenere, in caso di condanna, al termine del dibattimento, uno sconto di pena cui non corrispondeva alcuna effettiva economia di sistema, in quanto il giudizio si era svolto nelle forme ordi-narie 17. Si imponeva, quindi, una profonda revisione normativa del giudizio abbreviato, «divenuto pressoché inservibile come strumento di deflazione dibattimentale, anche a causa delle considerevoli difficoltà interpretative ed applicative provocate dall’impatto» con la disciplina codicistica delle sen-tenze della Corte costituzionale, che ne avevano sconvolto l’impianto originario. La legge 16 dicembre 1999, n. 479 ha assolto tale compito e, nell’ottica di ottemperare ai moniti della Corte costituzionale, ha riforgiato interamente il rito, con l’abbandono delle logiche negoziali su cui si fondava il paradigma originario 18. Anzitutto, viene meno il consenso del pubblico ministero, che, come noto, nella disciplina previgente costituiva requisito essenziale per l’ammissibilità del rito alternativo. Inoltre, viene superato definitivamente il modello di giudizio allo «stato degli atti»: il rito diviene ammissibile sulla base della mera richiesta formulata dall’imputato 19. Sono previsti, infatti, in seguito alla modifica legislativa, due diversi moduli procedurali di accesso al rito, che non hanno più alcuna connotazione di tipo negoziale,

gini complete, poteva accadere che esse non fossero idonee a consentire una decisione nel merito “allo stato degli atti”. A parere del Giudice delle leggi, quindi, era necessario introdurre un congegno che in tali ipotesi consentisse di superare il vincolo dello «stato degli atti» attraverso appositi meccanismi di integrazione probatoria. Successivamente, pur con pronunce che investivano dubbi relativi al rito speciale instaurato a seguito di conversione del giudizio direttissimo, la Corte costituzionale tornava sulle logiche di fondo della definibilità del giudizio allo stato degli atti e invitava il legislatore, «nel quadro di una organica e generale riforma del giudizio abbreviato», a correggere «la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali». In tali termini cfr. C. cost., sent. 23 dicembre 1994, n. 442, in Foro it., 1995, I, c. 2783; nonché, C. cost., sent. 16 febbraio 1993, n. 56, in Giur. cost., 1993, p. 405, con nota di A. Nappi, Giudizio abbreviato e integrazione probatoria.

16 A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 6, il quale sottolinea che «il riconoscimento dell’imputato al suo diritto sostanziale era avvenuto a scapito della funzione deflattiva del rito».

17 In tal senso cfr. G. Canzio, Giudizio abbreviato, in Enc. dir., Aggiornamenti IV, Giuffrè, Milano, 2000, p. 621, il quale osserva che in seguito agli interventi della Corte costituzionale era venuto meno «il nesso finalistico inscindibile nella logica negoziale fra trattamento premiale e funzione deflattiva del giudizio speciale, a favore invece di una nozione del “diritto” dell’imputato allo sconto della pena senza la contropartita dell’effettiva semplificazione della procedura, collocandosi il beneficio premiale non più necessariamente nell’alveo di una procedura alternativa alle garanzie dibattimentali, ma anche eventualmente alla con-clusione del giudizio ordinario, resosi necessario in conseguenza del dissenso manifestato dal pubblico ministero della decisio-ne negativa del giudice dell’udienza preliminare circa le definibilità del processo allo stato degli atti, ovvero dell’astratta punibi-lità con l’ergastolo del delitto contestato nell’imputazione originaria»; nonché, G. Di Chiara, Processo penale e giurisprudenza costi-tuzionale. Itinerari, in Il Foro it., 1996, c. 56.

18 La riforma legislativa ha modificato tanto sia le linee di struttura che ogni altro aspetto morfologico del rito speciale, che, in dottrina, ci si è chiesti se il nuovo giudizio abbreviato abbia mantenuto una identità essenziale con il vecchio oppure si tratti di una mera identità nominale. Cfr. R. Orlandi, Sub art. 27 l. 16 dicembre 1999 n. 479, in Legislazione pen., 2000, p. 438. Nello stesso senso G. Di Chiara, I “nuovi” riti differenziati. L’impatto della “legge Carotti” sul libro VI del codice, Punto grafica, Palermo, 2000, p. 13; D. Negri, Il “nuovo” giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, in F. Pe-roni (a cura di), Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, Cedam, Padova, 2000, p. 448, i quali ritengono che la vecchia e la nuova impalcatura del rito abbiano in comune soltanto il nome con cui i due diversi modelli continuano ad essere appellati.

19 Sul punto mette conto di richiamare la prima importante pronuncia della Corte costituzionale sulla nuova disciplina del rito abbreviato, che ha ritenuto infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 438 c.p.p., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 27, 101, 102 Cost., nella parte in cui non prevede un autonomo potere del giudice di decidere sulla ammissibilità del-la richiesta di giudizio abbreviato. Il Giudice delle leggi, nel disattendere la fondatezza delle censure in riferimento a tutti i pa-rametri evocati, ha sottolineato che la scelta del legislatore di eliminare la valutazione del giudice sull’ammissibilità del giudizio abbreviato, tranne che nell’ipotesi in cui l’imputato abbia esercitato la facoltà di chiedere l’integrazione probatoria, «si innesta nel solco della giurisprudenza costituzionale in materia». Infatti, «raccogliendo i reiterati inviti ad evitare che permanga la più volte constatata distonia dell’istituto con i principi costituzionali (C. cost. n. 442/1994), tra il ventaglio delle soluzioni possibili la l. n. 479/1999 ha operato scelte che si propongono di porre rimedio agli aspetti contraddittori della precedente disciplina, in particolare eliminando sia la valutazione di ammissibilità da parte del giudice (salvo che nell’ipotesi di cui all’art. 438, comma 5), sia la necessità del consenso del p.m.». In merito ad entrambe le soluzioni, «il legislatore ha evidentemente tenuto presenti le considerazioni svolte da questa Corte circa i profili di incostituzionalità derivanti dall’essere la definibilità allo stato degli atti subordinata alla scelta discrezionale del p.m. di svolgere indagini più o meno approfondite» (C. cost., sent. 9 maggio 2001, n. 115, in Giur. cost., 2001, p. 917, con nota di G. Garuti, La Corte costituzionale e la struttura del «nuovo» rito abbreviato).

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costituendo entrambi manifestazione di volontà che promana dalla libera ed esclusiva scelta dell’im-putato. Il primo modulo non è subordinato ad alcun presupposto e, pertanto, una volta che l’imputato abbia formulato la richiesta, il giudice deve disporre il giudizio abbreviato con ordinanza 20. Il secondo modulo, invece, prevede la subordinazione della richiesta ad una integrazione probatoria necessaria ai fini della decisione. In tal caso, il giudice, «tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili», dispone il giudizio abbreviato se l’integrazione probatoria sia davvero «necessaria» per decidere il merito della causa 21 e se l’assunzione delle prove richieste dall’imputato sia «compatibile con le finalità di economia processuale proprie del procedimento» 22. Innovando rispetto alla previgente disciplina, che non forni-va alcuna indicazione circa il materiale che il giudice avrebbe potuto legittimamente porre a fondamen-to della sua decisione, il legislatore del 1999 «ha espressamente indicato gli atti utilizzabili ai fini della decisione destinata a concludere il giudizio abbreviato» 23. Secondo quanto stabilito dall’art. 442, com-ma 1 bis, c.p.p., si tratta degli atti depositati dal pubblico ministero unitamente alla richiesta di rinvio a giudizio, degli atti delle indagini suppletive, ossia le attività investigative espletate in vista dell’udienza preliminare e, infine, delle prove assunte nell’udienza, intendendo riferirsi, con tale espressione, sia all’udienza preliminare che all’udienza destinata allo svolgimento del giudizio abbreviato 24. Tuttavia,

20 A tal proposito la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’acceso al giudizio abbreviato «quando la richiesta non sia subordinata ad un’integrazione probatoria, costituisce un vero e proprio diritto dell’imputato». Cfr. Cass., sez. I, 18 novem-bre 2008, n. 399, in Cass. pen., 2010, p. 1893; Cass., sez. I, 11 dicembre 2000, n. 958/01, in Cass. pen., 2001, p. 2744; Cass., sez. IV, 28 giugno 2000, n. 10738, in Cass. pen., 2001, p. 551.

21 La regola della necessità dell’integrazione probatoria, ai fini della decisione, contenuta nell’art. 438, comma 5, c.p.p., sem-bra avere una lunghezza d’onda diversa rispetto al parametro posto, per il dibattimento, dall’art. 190 del codice di rito penale. Al fine di stabilire un contenuto minimo di tale regola mette conto di prendere in considerazione quanto statuito dalla giuri-sprudenza di legittimità, secondo cui non ci si può avvalere dell’art. 507 c.p.p. «per verificare solo una propria ipotesi ricostrut-tiva sulla base di mezzi di prova non dotati di sicura concludenza» in quanto «è proprio un’attività di questo genere che po-trebbe apparire disarmonica in un processo di parti, non l’assunzione di una prova il cui valore dimostrativo in base agli atti si imponga con evidenza» (Cass., sez. un., 6 novembre 1992, n. 11227, in Foro it., 1993, II, c. 65). La valutazione circa la necessità di integrazione probatoria, ex art. 441, comma 5, c.p.p., non sembra discostarsi da tale lunghezza d’onda. A tale impostazione aderisce anche la dottrina, ritenendo che il giudizio circa la necessità dell’integrazione probatoria si riferisca non alla prova incerta, per la quale si farà ricorso alle regole decisorie stabilite dall’art. 530, comma 2, c.p.p., bensì alla prova suscettibile di completamento. Cfr. G. Di Chiara, I “nuovi” riti differenziati. L’impatto della “legge Carotti” sul libro VI del codice, cit., p. 35; A. Mangiaracina, I limiti al potere di integrazione probatoria in sede di giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2005, pp. 706 e 712; D. Negri, Il “nuovo” giudizio abbreviato: un diritto dell’imputato tra nostalgie inquisitorie e finalità di economia processuale, cit., p. 479. Tuttavia, le Sezioni Unite, tornate sul tema, hanno precisato che un’attenta lettura del quadro normativo segna il «limite naturale delle ulteriori acquisizioni probatorie nel senso che esse debbano essere soltanto integrative, non sostitutive, del materiale già acquisito ed utilizzabile come base cognitiva». Di tal gui-sa «il valore probatorio dell’elemento da acquisire, cui fa riferimento l’art. 438 c. 5, va sussunto piuttosto nell’oggettiva e sicura utili-tà/idoneità del probabile risultato probatorio ad assicurare il completo accertamento dei fatti rilevanti nel giudizio, nell’ambito dell’intero perimetro disegnato per l’oggetto della prova dalla disposizione generale di cui all’art. 187». Pertanto, «la doverosità dell’ammissione della richiesta integrazione probatoria ne riflette il connotato di indispensabilità ai fini della decisione e trova il suo limite nella circostanza che un qualsiasi aspetto di rilievo della regiudicanda non rimanga privo di solido e decisivo supporto logi-co-valutativo» (Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, in Guida dir., 2004, 49, p. 78).

22 Sul punto cfr. C. cost., sent. 9 maggio 2001, n. 115, cit., che sembra aver neutralizzato la portata del requisito allorché ha af-fermato, al riguardo, che «ove si debbano compiere valutazioni in termini di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato va posto a raffronto con l’ordinario giudizio dibattimentale e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina». A parere della Corte, «si deve tener presente, da un lato, che sarebbe incostituzionale […] fare discendere l’impossibilità di accedere al giudizio abbreviato da lacune probatorie non addebitabili all’imputato; dall’altro, che nelle situazioni in cui è oggettivamente necessario procedere ad una anche consistente integrazione probatoria, non importa se chiesta dall’imputato o disposta d’ufficio dal giudice, il giudizio abbreviato si traduce sempre e comunque in una considerevole economia processuale rispetto all’assunzione della prova in dibattimento: chiedendo il giudizio abbreviato e rinunciando, conse-guentemente, all’istruzione dibattimentale, l’imputato accetta che gli atti assunti nel corso delle indagini preliminari vengano uti-lizzati come prova e che gli atti oggetto dell’eventuale integrazione probatoria siano acquisiti mediante le forme previste dall’art. 422 c. 2, 3 e 4, espressamente richiamate dall’art. 441 c. 6, così da evitare la più onerosa formazione della prova in dibattimento; in-fine, presta il consenso ad essere giudicato dal giudice monocratico dell’udienza preliminare». In conclusione, «anche se viene ri-chiesta o disposta una integrazione probatoria, il minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordi-nario continua […] ad essere un carattere essenziale del giudizio abbreviato». In dottrina, A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 20, osserva che «All’intervento del giudice delle leggi non può, tuttavia, essere attribuito un significato di neutralizzazione del parame-tro, per averlo reso del tutto marginale nel procedimento decisorio volto all’ammissione».

23 G. Di Chiara, sub art. 442 c.p.p., in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Codice di procedura penale commentato, II, Ipsoa, Mila-no, 2010, p. 5537.

24 A parere di V. Maffeo, Il giudizio abbreviato, Esi, Napoli, 2004, p. 351 ss., anche l’attività integrativa di indagine può rientra-re nell’ambito del materiale probatorio valutabile dal giudice.

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l’elencazione non è tassativa e, pertanto, il novero degli atti utilizzabili ai fini della decisione va coordi-nato con la l. 7 dicembre 2000, n. 397 25, che ha ampiamente revisionato la normativa avente ad oggetto l’investigazione difensiva. In tal senso, sembra non esservi dubbio che gli atti investigativi formati dalla difesa e messi a disposizione del giudice prima della richiesta di giudizio abbreviato, entrino a far parte del compendio probatorio utilizzabile ai fini della decisione. Sennonché, di tal guisa, la piattaforma co-noscitiva del giudice risulta composta sia da atti di indagine del pubblico ministero che da atti formati attraverso l’investigazione difensiva. Sull’uso di tali atti, in caso di accesso al rito abbreviato nella forma incondizionata, è sorta una accesa disputa.

L’USO DEI RISULTATI DELLE INVESTIGAZIONI DIFENSIVE NEL GIUDIZIO ABBREVIATO INCONDIZIONATO

All’entrata in vigore del codice di rito penale del 1988, l’art. 38 norme att. attribuiva alle parti private la «facoltà di svolgere investigazioni per ricercare e individuare elementi di prova a favore del proprio as-sistito e di conferire con le persone che possano dare informazioni». Tuttavia, la norma non dava indi-cazioni sulle modalità operative e, perciò, si rivelava particolarmente difficoltoso individuare la tipolo-gia degli atti investigativi che il difensore avrebbe potuto compiere, nonché la loro documentazione ed utilizzabilità nelle varie fasi procedimentali.

Tali lacune non venivano colmate neanche dalla l. 8 agosto 1995 n. 332, sebbene, attraverso l’integra-zione dell’art. 38 in parola, da un lato, riconosceva «che la prova e la sua documentazione, ad opera del difensore delle parti private, è legittima anche per la fase delle indagini preliminari, battendo così in brec-cia quell’indirizzo giurisprudenziale che la voleva “canalizzata” attraverso l’ufficio del pubblico mini-stero»; dall’altro, perveniva «al concetto della legittimità (e, quindi, della rilevanza processuale) della documentazione raccolta dal difensore nel corso delle sue investigazioni» 26.

Soltanto con la l. 7 dicembre 2000, n. 397 la materia dell’investigazione difensiva è stata profonda-mente innovata, «con notevoli ripercussioni anche sugli equilibri interni alla disciplina dei procedimen-ti alternativi» 27.

Oggi, infatti, il difensore può svolgere investigazioni in ogni stato e grado del procedimento, ex art. 327 bis c.p.p., e, nei limiti soggettivi ed oggettivi dell’indagine, fissati dal legislatore, ha il potere di for-mare unilateralmente materiale probatorio da utilizzare nell’ambito delle varie fasi procedimentali, ex art. 391 bis e ss. c.p.p. 28. Pertanto, dopo aver raccolto notizie processualmente rilevanti e selezionato i dati favorevoli all’imputato, la difesa può produrre all’udienza preliminare, ex art. 391 octies c.p.p., il proprio fascicolo delle indagini, allo scopo di ottenere un loro impiego e, contestualmente, o in stretta successione temporale, formulare richiesta di giudizio abbreviato.

La dottrina metteva subito in luce come tale meccanismo contenesse in sé il segno di una alterazione della simmetria delle parti voluta dalla Carta fondamentale, ossia lo squilibrio, sul piano dei principi fondamentali e delle coordinate di sistema, derivante dalla potestà riconosciuta all’imputato di far ac-quisire valore probatorio a tutti gli atti della fase preliminare, ivi compresi quelli della propria attività in-vestigativa, in virtù del consenso manifestato unilateralmente alla celebrazione del giudizio abbreviato 29,

25 Così, ancora, G. Di Chiara, sub art. 442, cit., p. 5537. 26 A. Cristiani, Misure cautelari e diritto di difesa, Giappichelli, Torino, 1995, p. 112. 27 Sull’attività di investigazione difensiva, senza pretesa di esaustività, cfr. E. Amodio, Le indagini difensive tra nuovi poteri del

g.i.p. e obblighi di lealtà del p.m., in Cass. pen., 1997, p. 2284; O. Dominioni, Le investigazioni dei difensori, in AA.VV., Il diritto di difesa dalle indagini preliminari ai riti alternativi, Giuffrè, Milano, 1997, p. 91; P. Ferrua, Processo penale, contraddittorio e indagini difensive, in Id., Studi sul processo penale, III, Giappichelli, Torino, 1997, p. 87; L. Filippi (a cura di), Processo penale: il nuovo ruolo del difensore, Cedam, Padova, 2001; P. Gualtieri, Le investigazioni del difensore, Padova, Cedam, 2003; O. Mazza, Fascicolo del difensore e utilizza-bilità delle indagini difensive, in Giur. it., 2002, p. 1759; M. Nobili, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura pena-le?, in Dir. pen. e proc., 2001, p. 12; L. Suraci, Investigazioni difensive, giudizio abbreviato e motivazione della sentenza penale, in Arch. n. proc. pen., 2005, p. 123; N. Triggiani, Le investigazioni difensive, Giuffrè, Milano, 2002.

28 In tali termini F. Zacché, Il giudizio abbreviato, in G. Ubertis-G.P. Voena (a cura di), Trattato di procedura penale, XXXV.2, Giuffrè, Milano, 2004, p. 87.

29 G. Giostra, Prova e contraddittorio. Nota in merito ad una garbata polemica, in Cass. pen., 2002, p. 3290, ritiene costituzionalmen-te illegittima la deroga al rapporto paritetico tra le parti sul piano della formazione della prova, che verrebbe a determinarsi per effetto di una “autopromozione probatoria” degli atti di investigazione difensiva introdotti unilateralmente nel processo, da parte dell’imputato, ai fini della decisione.

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senza che il pubblico ministero potesse manifestare alcuna reciproca volontà in merito all’uso degli atti raccolti dalla parte privata. Di tal guisa, il pubblico ministero, dopo essere stato escluso ex lege dalla scelta del giudizio abbreviato, veniva, anche, privato del diritto di controesaminare la fonte di prova, le cui dichiarazioni siano state allegate dalla difesa quali atti di indagine privata, nonché della facoltà di arti-colare la prova contraria, con conseguente violazione del principio del contraddittorio e della parità tra le parti 30.

Al fine di fugare i dubbi di costituzionalità prospettati, in dottrina, veniva proposto di equiparare le prerogative del pubblico ministero in relazione ad entrambi i moduli procedurali di accesso al rito, di guisa che qualora la difesa indicasse nuove acquisizioni probatorie a discarico, formate attraverso la propria attività investigativa, ma non presentate, ex art. 391 octies c.p.p., anteriormente alla richiesta di rinvio a giudizio, la richiesta di giudizio abbreviato «sarebbe più che ragionevolmente assimilabile alla forma condizionata» e, pertanto, il pubblico ministero recupererebbe il diritto alla prova contraria, ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p. Del pari, qualora gli atti dell’investigazione difensiva venissero de-positati nel corso dell’udienza preliminare e, contestualmente, l’imputato optasse per la definizione del giudizio con rito abbreviato, si potrebbe tentare di superare il vuoto normativo con il ricorso all’a-nalogia. Infatti, opinando che la presentazione dei risultati delle investigazioni difensive anteriormente alla richiesta del rito abbreviato, abbia la medesima ratio della domanda di integrazione probatoria formulata ai sensi dell’art. 438, comma 5, c.p.p., ne consegue che al pubblico ministero va riconosciuto il diritto alla prova contraria secondo quanto previsto per il giudizio abbreviato condizionato 31.

Ma l’impostazione della Corte costituzionale si è rivelata diversa, fugando i dubbi di costituzionalità paventati.

In una prima occasione, messa in dubbio la legittimità costituzionale dell’art. 438 comma 5, c.p.p. nella parte in cui non prevedeva che, in caso di deposito di indagini difensive seguito dalla richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, fosse consentito al pubblico ministero l’esercizio della prova con-traria, così come previsto nell’ipotesi di giudizio abbreviato condizionato 32, il Giudice delle leggi di-chiarava la questione manifestamente infondata, affermando che la rettifica della asimmetria non deve passare necessariamente attraverso una dichiarazione di incostituzionalità della norma, ben potendosi pervenire allo stesso risultato, attraverso una interpretazione costituzionalmente orientata del sistema vigente 33.

30 Secondo G. Ubertis, Sistema di procedura penale, I, II ed., Utet, Torino, 2007, p. 171, «l’accento posto sul solo imputato dalla disposizione costituzionale non potrebbe giustificare una interpretazione che non reputasse doverosa per il legislatore ordinario la scelta di contemplare reciprocamente per il pubblico ministero (nonché per le altre parti) la necessità del consenso, quando la questione concernesse l’inserimento nel patrimonio conoscitivo del giudice di quanto eventualmente procurato dall’attività in-vestigativa della controparte. Accogliere un’esegesi volta a tutelare esclusivamente la posizione del soggetto richiamato dalla lettera normativa significherebbe sia ledere il principio di parità tra le parti sancito dall’art. 111 comma 2 Cost. che negare lo stesso valore epistemologico del contraddittorio, che verrebbe appunto smentito qualora non fosse sempre richiesto il consenso della parte controinteressata per rendere utilizzabile a fini decisori l’atto acquisito dal suo avversario al di fuori del pur instau-rabile confronto dialettico».

31 In tali termini F. Zacché, Il giudizio abbreviato, cit., p. 91, il quale osserva che «Verrebbe così compensata l’impossibilità per l’organo dell’accusa di contrastare le nuove acquisizioni probatorie dedotte dalla difesa prima della richiesta del rito speciale».

32 A parere del giudice remittente in tale situazione sarebbe compromessa «la simmetria imposta dal principio del contrad-dittorio come metodo dialettico di accertamento dei fatti»” e sarebbe “«quindi violato il principio enunciato dall’art. 111, comma secondo, Cost. secondo cui il processo deve svolgersi nel contraddittorio tra le parti, in posizione di parità» In particolare, nel-l’ipotesi in esame ad essere in discussione era soprattutto la formazione unilaterale della prova, la sua introduzione in giudizio e il contestuale “consenso” ad essere giudicato sulla base di tale prova prestato dalla stessa parte che ne ha curato l’assunzione, senza che vi sia stata alcuna verifica critica della parte pubblica (g.u.p. Trib. Modena, ord. 22 maggio 2003, iscritta al n. 586 del registro ordinanze 2003, pubblicata in G.U. n. 34, prima serie speciale, 2003).

33 C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, in Cass. pen., 2006, p. 435, che, a tal proposito, obiettava che il remittente avesse trascu-rato «di considerare che nel nuovo giudizio abbreviato il potere di integrazione probatoria è configurato quale strumento di tu-tela dei valori costituzionali che devono presiedere l’esercizio della funzione giurisdizionale, sicché proprio a tale potere il giu-dice dovrebbe fare ricorso per assicurare il rispetto di quei valori». Viceversa, sotto altro, ma convergente profilo, richiamando propri precedenti in tema di continuità investigativa, con riferimento alla possibilità per la parte privata di produrre gli atti del-le indagini difensive anche nel corso dell’udienza preliminare, osservava come il remittente avesse omesso di motivare circa l’opportunità «di dare attuazione al principio secondo il quale a ciascuna delle parti va comunque assicurato il diritto di eserci-tare il contraddittorio sulle prove addotte “a sorpresa” dalla controparte in modo da “contemperare l’esigenza di celerità con la garanzia dell’effettività del contraddittorio”, anche attraverso differimenti delle udienze congrui rispetto “alle singole, concrete fattispecie”».

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Di tal guisa, veniva indicato chiaramente il percorso costituzionalmente obbligato da seguire. Tutta-via, costituendo il raccordo tra giudizio abbreviato e investigazioni difensive un intreccio tematico di cospicua rilevanza, il tema veniva nuovamente sottoposto al vaglio della Corte costituzionale, sebbene sotto una differente prospettiva.

Questa volta il giudice remittente riteneva che contrastasse con l’art. 111, commi 2 e 4, nonché con l’art. 3 Cost. il meccanismo che consente la utilizzabilità nel giudizio abbreviato delle risultanze delle investigazioni difensive, a seguito del consenso dell’imputato, ossia della parte stessa che ha formato tali atti. Tale meccanismo, a parere del giudice a quo, permetterebbe l’ingresso, nell’alveo del materiale utilizzabile ai fini della decisione, di atti formati da uno degli antagonisti senza che ciò possa ritenersi giustificato dal consenso dell’imputato, giacché esso «potrebbe avere ad oggetto solo gli elementi po-tenzialmente sfavorevoli all’imputato stesso, in quanto raccolti dalle altre parti, e non anche quelli sca-turenti da una propria iniziativa d’indagine». Nel dichiarare l’infondatezza della questione di legittimi-tà la Corte costituzionale ha sottolineato anzitutto che «il principio del contraddittorio nel momento genetico della formazione della prova rappresenta precipuamente – nella volontà del legislatore costi-tuente – uno strumento di salvaguardia del rispetto delle prerogative dell’imputato» e perciò la legge può rendere rinunciabile in via unilaterale l’assunzione dialettica della prova 34. Ovviamente, le dero-ghe autorizzate al contraddittorio per la prova devono attuarsi in termini compatibili con il principio di parità delle parti. In tal senso l’art. 111, comma 2, Cost. ha l’effetto di «impegnare il legislatore ordinario a evitare che i presupposti e le modalità operative del riconoscimento all’imputato della facoltà di ri-nunciare alla formazione della prova in contraddittorio determinino uno squilibrio costituzionalmente intollerabile tra le posizioni dei contendenti o addirittura una alterazione del sistema». Nel giudizio ab-breviato, in particolare, la mancata previsione del consenso vicendevole di ciascuna parte, quale condi-zione necessaria all’uso degli atti formati dall’antagonista, non determina alcuna irragionevole dispari-tà di trattamento se si considera che la fase delle indagini preliminari è «caratterizzata da un marcato squilibrio di partenza fra le posizioni delle parti, correlato alla funzione istituzionale del p.m.», i cui ri-sultati sono oggetto di integrale acquisizione a carico dell’imputato nell’ambito del procedimento spe-ciale, sicché i poteri e i mezzi investigativi di cui dispone il pubblico ministero restano, pur dopo gli in-terventi della legge 7 dicembre 2000, n. 397, in materia di investigazioni difensive, «largamente superio-ri a quelli di cui fruisce la difesa».

Pertanto, «se dopo una fase così congegnata, viene offerto all’imputato uno strumento che, nel qua-dro dell’acquisizione globale dei risultati di tale fase, renda utilizzabili ai fini della decisione anche gli atti di indagine della difesa, non può ravvisarsi alcuna compromissione del principio costituzionale in questione». In altre parole, la facoltà attribuita all’imputato di tramutare in prova i propri atti di inda-gine viene a costituire uno strumento utile a ridurre il notevole divario con la parte pubblica, creatosi nella fase procedimentale anteriore 35.

In conclusione, alla luce della pronuncia della Corte costituzionale, è ormai assodato che i risultati dell’investigazione difensiva, al pari di quelli dell’indagine svolta dal pubblico ministero vengano legit-timamente acquisiti tra gli atti costituenti il compendio probatorio utilizzabile dal giudice ai fini della decisione conclusiva del giudizio abbreviato 36.

Sul tema si è aperto, in dottrina, un dibattito vivace e di grande profilo, con opinioni diametralmente opposte. Da un lato, è stato affermato che, nell’architettura dell’art. 111 Cost., il principio del contrad-dittorio nel suo significato di garanzia oggettiva circa il regime di formazione della prova nel processo penale assume un valore prioritario, rispetto a qualunque manifestazione del contraddittorio quale ga-ranzia soggettiva dei diritti processuali dell’imputato e, quindi, «insuscettibile di essere scalfito dall’in-

34 C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, in Cass. pen., 2009, p. 3691. 35 C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit., secondo cui «l’attribuzione all’imputato della facoltà di subordinare la richiesta

di giudizio abbreviato ad un’integrazione probatoria è coerente con la posizione di tale soggetto processuale, che si trova ad af-frontare il rischio di un giudizio (e di una possibile conseguente condanna) basato sugli atti raccolti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari ed a cui va pertanto riconosciuta la facoltà di chiedere l’acquisizione di nuovi e ulteriori elemen-ti di prova. Diversa è, invece, la posizione del pubblico ministero: tenuto conto del ruolo svolto nelle indagini preliminari, e fermo restando il suo diritto all’ammissione di prova contraria a norma dell’art. 438, comma 5, c.p.p., non è irragionevole la scel-ta legislativa di non riconoscergli il diritto di chiedere l’ammissione di prove a carico dell’imputato solo perché questi ha pre-sentato richiesta di giudizio abbreviato».

36 In tali termini G. Varraso, Indagini difensive, giudizio abbreviato e diritto alla “prova contraria”, in Cass. pen., 2006, p. 131.

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clusione del “consenso dell’imputato” stesso tra le fattispecie derogatorie ammesse dall’art. 111, comma 5, Cost.». Pertanto, atteso il significato che esso assume nella formazione della prova, «“quale metodo di accertamento giudiziale dei fatti” e, dunque quale “connotato epistemologico del processo penale”», solo una lettura miope del dato letterale, «per di più indotta da un approccio di tipo ideologico (secon-do cui il principio del contradditorio in quanto “garanzia soggettiva” dell’imputato, esaurirebbe la sua funzione nella tutela del “precipuo interesse” di quest’ultimo), può ammettere che basti il consenso dell’imputato, in virtù della disposizione contenuta nell’art. 111, comma 5, Cost., «a legittimare la dero-ga all’attuazione del principio del contraddittorio nella sua prevalente dimensione di “garanzia ogget-tiva” della giurisdizione penale». In altri termini, la Corte ha ritenuto configurabile il potere dell’impu-tato di chiedere il giudizio abbreviato come una sorta di diritto potestativo, «di fronte al cui esercizio il pubblico ministero viene a trovarsi in una situazione processuale di totale passività, fino a dover sog-giacere anche all’utilizzabilità come prova», nell’ambito di tale rito, delle risultanze investigative della difesa formate unilateralmente. Tuttavia, che tale meccanismo possa giustificarsi a livello costituzionale come l’effetto di una rinuncia dell’imputato alla garanzia del contraddittorio riconducibile all’ipotesi del consenso cui allude l’art. 111, comma 5, Cost., sembra conclusione viziata da una premessa di sapo-re aprioristico, ossia ritenere «– non ostante la chiara enunciazione della doppia valenza del principio del contraddittorio, risultante dall’art. 111 commi 2, 3, 4 e 5 Cost. – che la relativa garanzia sia disponi-bile dall’imputato, in quanto dettata “precipuamente” a salvaguardia delle sue “prerogative” 37. Dall’altro, ritenuto che «non esiste sul piano costituzionale un autonomo diritto dell’accusa a contribui-re alla formazione della prova», è stato sostenuto che, sebbene «sia corretto rilevare nel contraddittorio ai fini della formazione della prova un interesse dell’ordinamento a far entrare nel processo solo risul-tanze probatorie dotate della massima attendibilità qual è quella che scaturisce da un penetrante esame incrociato condotto dalla difesa», non sembra che vi sia «spazio alcuno per ritagliare dall’art. 111 nuovi poteri probatori dell’accusa tali da impedire all’imputato di avvalersi dei risultati delle indagini difen-sive nel giudizio abbreviato» 38.

Venendo alla dinamica di ingresso nel giudizio abbreviato degli atti formati attraverso l’investiga-zione difensiva mette conto di rilevare che la stessa Corte costituzionale individua la scansione dei pas-saggi procedurali, mettendo ordine nelle confuse ricostruzioni sorte in seguito alla prassi della difesa di produrre i risultati dell’investigazione contestualmente o subito prima della richiesta di giudizio abbre-viato incondizionato.

Qualora la documentazione delle investigazioni difensive venga presentata nel corso delle indagini preliminari, nel caso di esercizio dell’azione penale, essa segue il fascicolo delle indagini che viene de-positato presso la cancelleria del giudice dell’udienza preliminare. In questo momento sia il pubblico

37 In tali termini V. Grevi, Basta il solo «consenso dell’imputato» per utilizzare come prova le investigazioni difensive nel giudizio ab-breviato?, in Cass. pen., 2009, pp. 3675, 3681, 3682 e 3683. L’Autore, tornato sul punto, ribadisce che «se si riconosce nel principio del contraddittorio “per” la formazione della prova – così come enunciato nel quarto comma dell’art. 111 Cost. – il connotato epistemologico della giurisdizione penale, non si riesce a capire perché mai il medesimo principio non dovrebbe trovare attua-zione quanto meno per via implicita, con riferimento ai risultati delle indagini difensive, quando tale giurisdizione si eserciti se-condo il rito del giudizio abbreviato». Pertanto, anche in tale sede occorre acquisire dal pubblico ministero, sotto forma di ade-sione alla richiesta dell’imputato, una manifestazione di rinuncia al controesame della fonte le cui dichiarazioni siano contenute nell’atto dell’investigazione difensiva (cfr. V. Grevi, Ancora su contraddittorio e investigazioni difensive nel giudizio abbreviato, in Cass. pen., 2010, p. 1303). Nello stesso senso G. Lozzi, Il contraddittorio in senso oggettivo e il giudizio abbreviato, in Giur. cost., 2009, p. 61, il quale osserva che la diversa natura della parte pubblica rispetto alla parte privata ed il fatto che il pubblico ministero debba sempre agire avendo come finalità l’osservanza della legge e la pronta e regolare amministrazione della giustizia, implica inevitabilmente che alla parte pubblica siano attribuiti poteri non riconosciuti alla parte privata. Tuttavia, a meno che non siano giustificate dall’interesse pubblico deroghe anche vistose, la parità tra le parti va garantita. Pertanto, non appare ragionevole che l’imputato, che è a conoscenza delle indagini effettuate dal pubblico ministero, «possa contemporaneamente presentare le indagini difensive e chiedere il giudizio abbreviato, senza che il pubblico ministero abbia alcuna possibilità né di opporsi alla richiesta di giudizio abbreviato né di effettuare altre indagini né di rendere possibile l’attuazione del contraddittorio in senso oggettivo sulle indagini dell’imputato». In altre parole, i maggiori poteri conferiti al pubblico ministero «non possono minima-mente giustificare una manovra difensiva furbesca non certo ispirata alla lealtà processuale, in virtù della quale si presentano indagini difensive in un momento in cui il pubblico ministero non può più né indagare né contraddire».

38 E. Amodio, Garanzie oggettive per la pubblica accusa? A proposito di indagini difensive e giudizio abbreviato nel quadro costituzionale, in Cass. pen., 2010, pp. 20-21. Sul punto cfr. anche G. Spangher, Indagini difensive e giudizio abbreviato, in Giur. cost., 2009, p. 2064, il quale osserva che il riconoscimento al pubblico ministero della necessità «del consenso sul materiale oggetto di investigazione di-fensiva, (sia per quello depositato nel corso delle indagini sia per quello prodotto in limine al rito), nel giudizio abbreviato, di fatto, rimetterebbe nelle mani del p.m. l’accesso al rito alternativo ovvero lo trasformerebbe in un preliminare patteggiamento sulle prove».

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 447

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIFFICILE RACCORDO FRA INDAGINI DIFENSIVE E GIUDIZIO ABBREVIATO

ministero che il difensore possono ancora svolgere indagini suppletive. Come noto, entrambe le parti vengono invitate a «trasmettere la documentazione relativa alle indagini eventualmente espletate dopo la richiesta di rinvio a giudizio».

Viceversa, nell’ipotesi che la documentazione delle investigazioni difensive avvenga all’inizio dell’u-dienza preliminare va rimarcato che il giudice dovrà adottare due provvedimenti in successione logica e cronologica.

Il primo è costituito dall’ordinanza con la quale il giudice dell’udienza preliminare ammette e dispone l’acquisizione degli atti presentati dal difensore e si colloca ancora nell’alveo dell’iter ordinario di tale fase prima che la stesa si trasformi in sede di celebrazione del rito abbreviato. Il termine entro il quale va effet-tuato, al più tardi, il deposito è identificato dalla Corte costituzionale nell’attimo che precede l’inizio della discussione a norma dell’art. 421 comma 3, c.p.p. Se, prima che siano formulate le conclusioni nell’u-dienza preliminare, l’imputato formula la richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, il pubblico mi-nistero potrebbe valutare il quadro probatorio non sufficiente per tale rito. In tal caso può chiedere un dif-ferimento dell’udienza che sia congruo rispetto all’esigenza di contemperare la celerità processuale con «il diritto di esercitare il contraddittorio sulle prove addotte “a sorpresa” dalla parte antagonista» 39. Si riapre così uno spazio processuale che può consentire al pubblico ministero di compiere indagini suppletive e di depositare i nuovi atti o documenti onde esercitare il proprio diritto alla controprova 40.

Il secondo provvedimento è costituito dall’ordinanza di ammissione al rito abbreviato, che intervie-ne soltanto una volta che il giudice abbia statuito sulla acquisizione al processo degli atti della difesa. A tal proposito, va rilevato che la giurisprudenza di legittimità, accogliendo l’impostazione della Corte costituzionale, ha statuito che «coincidendo il termine ultimo per la richiesta di giudizio abbreviato con quello per la formulazione delle conclusioni (art. 438 c.p.p., comma 2) il materiale probatorio utilizzabi-le dal giudice per la decisione (art. 442 c.p.p., comma 1-bis) non può che comprendere anche i risultati delle indagini difensive depositati in sede di udienza preliminare» 41.

Infine, quanto al valore da attribuire agli atti dell’investigazione difensiva, va rimarcato che, in dot-trina, accanto a chi ritiene il materiale prodotto dalla difesa equiordinato ontologicamente a quello de-gli atti dell’indagine preliminare compiuta dal pubblico ministero v’è chi, partendo dall’inciso della motivazione della sentenza della Corte costituzionale in questione, secondo cui è «significativamente dissimile» la capacità dimostrativa della dichiarazione assunta unilateralmente dal difensore ai fini di indagine» rispetto a quella della «prova formata in contraddittorio», ritiene che, anche nel giudizio ab-breviato, «la fruizione delle investigazioni difensive sarebbe limitata a un loro uso indiretto, volto alla sola valutazione di attendibilità di fonti e/o mezzi di prova, senza poter essere impiegate dal giudice (direttamente) per la ricostruzione del fatto e l’accertamento della colpevolezza» 42.

RICHIESTA DI GIUDIZIO ABBREVIATO INCONDIZIONATO CON ATTO DI OPPOSIZIONE A DECRETO PENALE DI CONDANNA E ACQUISIBILITÀ DELLE RISULTANZE DELL’INVESTIGAZIONE DIFENSIVA

La disciplina del giudizio abbreviato è dettata per l’ipotesi ordinaria o tipica, ossia quella che prevede la sua celebrazione nella sede naturale individuata nell’udienza preliminare. Tuttavia, il legislatore ha previsto che l’imputato possa chiedere il giudizio abbreviato anche nei casi in cui vengano disposti quei

39 C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit. Tuttavia, mette conto di rilevare che il differimento dell’udienza non può formare oggetto di un diritto del pubblico ministero e, pertanto, la sua mancata concessione non risulta presidiata da alcuna sanzione. Sul punto cfr. G. Lozzi, Il contraddittorio in senso oggettivo e il giudizio abbreviato, cit., p. 2062; e A. Ziroldi, Il giudizio abbreviato, cit., p. 64. A parere di V. Maffeo, Indagini difensive e rito abbreviato innanzi alla Corte costituzionale. Un’occasione mancata, in Giur. cost., 2007, p. 605 e ss., l’ipotesi del rinvio risulta contraria allo spirito della norma, in quanto non può sussistere soluzione di conti-nuità fra richiesta probatoria e accesso al rito abbreviato.

40 A parere di G. Ubertis, Eterogenesi dei fini e dialettica probatoria nel rito abbreviato, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 2080, «do-vrebbe potersi disporre un congruo differimento dell’udienza allo scopo di permettere al pubblico ministero di rispondere con atti effettuabili attraverso le indagini suppletive, attribuendogli una specie di diritto alla prova contraria per così dire “affievoli-ta”, analogo a quello previsto per il giudizio abbreviato condizionato dall’art. 438, comma 5, c.p.p.: senza che si ponga il pro-blema del mancato consenso dell’imputato al loro impiego, assegnando a tali atti unilaterali dell’accusa (come a quelli difensivi “ a sorpresa”) un’efficacia simile a quella regolata dall’art. 500, comma 2, c.p.p.».

41 Cass., sez. V, 13 gennaio 2015, n. 13505, inedita. 42 Così G. Ubertis, Eterogenesi dei fini e dialettica probatoria nel rito abbreviato, cit., p. 2079.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 448

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIFFICILE RACCORDO FRA INDAGINI DIFENSIVE E GIUDIZIO ABBREVIATO

riti speciali che eliminano l’udienza preliminare, ovvero il giudizio direttissimo, il giudizio immediato e il procedimento per decreto 43.

Come anticipato, il caso oggetto della sentenza che si annota inerisce proprio all’ipotesi di giudizio abbreviato richiesto in sede di opposizione a decreto penale di condanna.

Nel procedimento per decreto, come noto, l’opponente può chiedere il giudizio abbreviato al giudice che ha emesso il decreto in parola, il quale, ricevuta la richiesta, fissa con decreto l’udienza in camera di consiglio, dandone avviso almeno cinque giorni prima al pubblico ministero, al difensore, all’imputato e alla persona offesa. Nell’udienza viene valutata soltanto la richiesta. Se accolta si procede a giudizio abbreviato, osservando le norme dell’udienza preliminare, in quanto applicabili.

Qualora l’imputato richieda il giudizio abbreviato incondizionato il giudice, una volta verificata la ri-tualità della richiesta, dovrà necessariamente disporre il rito speciale. La l. 16 dicembre 1999, n. 479, infat-ti, come già esposto, ha radicalmente trasformato l’istituto, che oggi si configura come un vero e proprio diritto dell’imputato, con la conseguenza che una volta formulata la richiesta al giudice non rimarrà che disporlo, salva, ovviamente, la possibilità, ove ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, di assu-mere anche d’ufficio, ex art. 441, comma 5, c.p.p., gli ulteriori elementi necessari ai fini della decisione.

Viceversa, in caso di richiesta di giudizio abbreviato condizionato ad una integrazione probatoria, il giudice verificata la necessarietà delle prove ai fini della decisione e la compatibilità delle stesse con le finalità del rito, pronuncerà l’ordinanza con la quale disporrà l’ammissione delle prove richieste. Anche in tale ipotesi, qualora il giudice non possa decidere allo stato degli atti, può disporre, ex art. 441, com-ma 5, c.p.p., l’acquisizione di ulteriori elementi probatori necessari ai fini della decisione, con possibilità per il pubblico ministero e per l’imputato di richiedere l’ammissione di prova contraria. Gli atti utiliz-zabili ai fini della decisione sono quelli contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, cui vanno ag-giunti i verbali delle prove assunte in udienza, in particolare di quelle assunte in virtù degli artt. 438, comma 5, e 441, comma 5, del codice di rito penale.

Appare evidente che, in caso di richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, essendo fissata l’udienza al solo fine di valutare la richiesta e procedere alla celebrazione del giudizio medesimo, non si apre alcuno spazio processuale in cui la difesa possa chiedere l’ammissione della documentazione delle investigazioni difensive.

A tal fine, l’imputato dovrebbe avanzare una richiesta di abbreviato condizionato, indicando fra le prove di cui chiede l’ammissione la documentazione delle investigazioni difensive. Di tal guisa, se il giudice accoglie la richiesta il materiale istruttorio raccolto dal pubblico ministero nel corso delle inda-gini preliminari verrà implementato proprio dalle risultanze dell’investigazione difensiva.

Viceversa, in caso di richiesta di giudizio abbreviato incondizionato, l’indagine privata potrebbe fare ingresso nel processo soltanto in seguito ad una integrazione probatoria disposta dal giudice, allorché egli, ritenendo di non poter decidere alla stato degli atti, assume su richiesta di parte o d’ufficio gli ele-menti necessari ai fini della decisione. In tal caso, oggetto della richiesta di parte potrebbero essere pro-prio i dati raccolti attraverso l’investigazione difensiva. Del pari, l’imputato ammesso al giudizio ab-breviato potrebbe sollecitare il giudice d’appello ad esercitare il potere di disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale ai fini dell’acquisizione della documentazione dell’indagine privata.

Però, come noto, l’intervento istruttorio ope iudicis non si configura come un diritto dell’imputato bensì come potere officioso meramente residuale il cui esercizio è limitato all’assunzione di quelle pro-ve che risultino assolutamente necessarie per l’accertamento del fatto di reato.

Appare, pertanto, condivisibile, alla luce delle osservazioni svolte, la decisione della suprema Corte di escludere l’acquisibilità dei dati dell’investigazione difensiva nel caso in cui tale richiesta intervenga

43 R. Orlandi, Procedimenti speciali, cit., p. 623, osserva che, essendo tipica espressione del diritto di difesa, la facoltà di richie-dere il giudizio abbreviato va ragionevolmente garantita anche nei giudizi privi di udienza preliminare. A tal proposito, l’Autore richiama due pronunce della Corte costituzionale, che ritiene esprimano chiaramente l’intento di assicurare all’im-putato la chance di chiedere il giudizio abbreviato di fronte a un nuovo giudice: chance nella quale si ravvisa indubbiamente una particolare modalità di esercizio del diritto di difesa. Il riferimento è a C. cost., sent. 11 marzo 1993, n. 76, in Giur. cost., 1993, p. 696, che ha dichiarato l’illegittimità, per contrasto con l’art. 24, comma 2, Cost., l’art. 23, comma 1, c.p.p., nella parte in cui di-spone che, quando il giudice del dibattimento dichiara con sentenza la propria incompetenza per materia, ordina la trasmissio-ne degli atti al giudice competente, anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo; e a C. cost., 5 maggio 1993, n. 214, in Giur. cost., 1993, p. 603, che, sulla base di analoga motivazione, ha dichiarato l’illegittimità, sempre per contrasto con l’art. 24 Cost., dell’art. 24, comma 1, c.p.p. «nella parte in cui dispone che a seguito di annullamento della sentenza di primo grado per incom-petenza per materia gli atti siano trasmessi al giudice ritenuto competente anziché al pubblico ministero presso quest’ultimo».

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 449

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | IL DIFFICILE RACCORDO FRA INDAGINI DIFENSIVE E GIUDIZIO ABBREVIATO

dopo che con l’atto di opposizione a decreto penale di condanna l’imputato abbia avanzato la richiesta di ammissione al giudizio abbreviato incondizionato.

Tuttavia, nel caso di specie, sembra che permanga il vulnus del diritto di difesa. Difatti, nell’ipotesi di fissazione dell’udienza preliminare l’imputato può chiedere l’ammissione di atti e documenti, ivi compresa la documentazione dell’investigazione difensiva. Quindi, prima che siano formulate le con-clusioni, può avanzare richiesta di giudizio abbreviato non condizionato. In tal caso, gli atti di investi-gazione difensiva sono equiparati agli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero, in quanto vi è una rinuncia generalizzata al contraddittorio nella formazione della prova 44. Di tal guisa, l’imputato «si precostituisce le condizioni per essere giudicato allo stato degli atti, garantendosi l’accesso al rito e la tendenziale immutabilità – salvo interventi ex officio del giudice – del quadro probatorio su cui ha fon-dato la scelta della definizione anticipata del processo» 45.

Ovviamente, si pone il problema delle modalità attuative del contraddittorio, in quanto qualora la produzione documentale e la richiesta di giudizio abbreviato si susseguano rapidamente il pubblico ministero potrebbe non disporre del tempo necessario per presentare prove contrarie. La soluzione, fra l’altro più aderente al dato normativo, è stata individuata dalla Corte costituzionale, che, nell’ipotesi in parola, ha ritenuto che il giudice sia tenuto, sicuramente, a concedere un termine al pubblico ministero, sempre che questi lo richieda, per confutare gli elementi probatori acquisiti su richiesta della contropar-te 46. Peraltro, la normativa contenuta nel d.d.l. n. 2067 S, approvato al Senato ed ora di nuovo all’esame della Camera dei deputati, all’art. 41, prevede la sostituzione del comma 4 dell’art. 438 c.p.p. con un nuovo comma, che dispone, nell’ipotesi di richiesta di giudizio abbreviato immediatamente dopo il de-posito dei risultati delle indagini difensive, che il giudice provveda solo dopo che sia decorso il termine non superiore a sessanta giorni, eventualmente richiesto dal pubblico ministero, per lo svolgimento di indagini suppletive limitatamente ai temi introdotti dalla difesa.

Viceversa, come già esposto e come emerge chiaramente nel caso di specie, nell’ipotesi di giudizio abbreviato atipico, ossia disposto a seguito dell’emissione del decreto penale di condanna, affinché l’imputato possa chiedere l’acquisizione della documentazione difensiva sarà necessario che egli avanzi la richiesta di giudizio abbreviato condizionato, giacché in caso di richiesta di abbreviato incondiziona-to non vi sarebbe alcuno spazio per acquisire documentazioni preventive.

Ma, l’integrazione probatoria deve prefigurarsi come «indispensabile ai fini della decisione», cioè oggettivamente idonea ed utile ad assicurare il completo accertamento dei temi rilevanti a norma dell’art. 187 c.p.p. 47 e, pertanto, il giudice può rigettare la richiesta laddove ritenga che non ricorra il re-quisito in parola.

Ne consegue che all’imputato potrebbe comunque essere preclusa la possibilità di far acquisire la documentazione difensiva.

Appare, quindi, evidente la disparità di trattamento delle due fattispecie processuali, che indurrebbe ad ipotizzare un dubbio di incostituzionalità, che non pare risulti superato neanche dalla normativa, innanzi richiamata, contenuta nel d.d.l. n. 2067 S, atteso che essa si limita ad introdurre la disciplina dell’ipotesi inerente alla richiesta di giudizio abbreviato avanzata immediatamente dopo il deposito della documentazione dell’attività investigativa.

44 Cfr. C. cost., sent. 26 giugno 2009, n. 184, cit., secondo cui l’utilizzabilità nel giudizio abbreviato degli atti di investigazione difensiva, compresi quelli a contenuto dichiarativo, non deve ritenersi lesiva del principio di parità delle parti, in quanto espres-sione della più generale valenza probatoria riconosciuta all’intera indagine preliminare. In tema di utilizzabilità dei risultati del-le indagini difensive nel giudizio abbreviato v. pure Cass., sez. V, 13 gennaio 2015, n. 13505, cit., che ha, altresì, affermato che non «può ritenersi che la produzione e quindi l’utilizzabilità del contenuto delle investigazioni difensive operi solo in caso di ri-chiesta di rito abbreviato condizionato ad integrazione probatoria. Tale interpretazione sarebbe, invero, in contrasto con il chia-ro disposto dell’art. 327-bis c.p.p. e art. 438 c.p.p., comma 2. La conferma del resto si ricava dallo stesso art. 438 c.p.p., comma 5, che prevede la possibilità di subordinare la richiesta di rito abbreviato ad integrazione probatoria, ferma restando la utilizzabili-tà ai fini della prova degli atti indicati nell’art. 442, comma 1-bis (e quindi anche delle investigazioni difensive prodotte)»; non-ché, più risalente, Cass., sez. III, 9 aprile 2009, n. 15236, in Arch. n. proc. pen., 2009, p. 625, secondo cui, in tema di giudizio abbre-viato, sono utilizzabili ai fini della decisione i risultati delle indagini difensive prodotti nel corso dell’udienza preliminare, salvo restando il diritto delle controparti di esercitare il contraddittorio sulle prove non oggetto di preventiva discovery.

45 Così G. Della Monica, Opzioni di strategia processuale e scelta del rito, in F. Giunchedi (coordinato da), La giustizia penale diffe-renziata. I procedimenti speciali, cit., p. 171.

46 C. cost., ord. 24 giugno 2005, n. 245, cit., p. 435. 47 Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, cit., p. 78.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 450

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA NELLA CONDANNA ALLA SOLA AMMENDA

Sospensione condizionale della pena nella condanna alla sola ammenda: impugnabilità del beneficio non richiesto

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE III, SENTENZA 25 FEBBRAIO 2016, N. 48569 – PRES. GRILLO; REL. SOCCI

È ammissibile il ricorso per cassazione avverso sentenza di condanna a pena dell’ammenda condizionalmente sospe-sa ex officio, in quanto la concessione costituisce comunque, anche dopo la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 5, comma 2, lett. d) d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313 (che non consentiva la cancellazione dal casellario delle iscrizioni dei provvedimenti giudiziari concernenti la pena dell’ammenda nel caso in cui fossero concessi i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p.), una lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile del condannato, poiché nel computo del-la pena complessiva rilevante ai fini della concedibilità del beneficio per la seconda volta influisce, ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p., anche la pena pecuniaria inflitta e dichiarata sospesa nella prima condanna, ragguagliata a quella de-tentiva. La sospensione può essere eliminata, con annullamento senza rinvio, dalla stessa Corte di legittimità.

[Omissis]

RITENUTO IN FATTO

1. Il tribunale di Enna con sentenza del 30 maggio 2014, condannava C.G. alla pena di Euro 500,00 di ammenda, oltre alle spese, con la sospensione della pena e la non menzione, per il reato di cui all’art. 81 c.p. e art. 279, comma 2, in relazione al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 269, comma 4, lett. B, in (OMISSIS).

2. C.G. propone ricorso per cassazione, a mezzo del difensore, deducendo i motivi di seguito enunciati, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

2. 1. Erronea applicazione della legge penale in relazione agli art. 279, comma 2 e D.Lgs n. 152 del 2006 art. 269, comma 4, lett. B e art. 521 c.p.p. Si è contestato al ricorrente di non aver comunicato con cadenza periodica semestrale i campionamenti per le misurazioni delle emissioni inquinanti. Il comma 4 dell’art. 269, citato, prevede che l’autorizzazione rilasciata al gestore dell’impianto stabilisce la perio-dicità dei controlli di competenza del gestore.

E in effetti l’autorizzazione (DRS n. 154 del 20 febbraio 2004) all’art. 4 prescrive un controllo seme-strale per le emissioni inquinanti. L’obbligo quindi non è quello di comunicare, ma di fare i controlli; manca di analoga scadenza semestrale l’onere della comunicazione.

Inoltre, non essendoci contestazione sul controllo semestrale delle emissioni inquinanti, non è possi-bile la condanna per tale omissione, se non in violazione dell’art. 521 c.p.p., per mancata corrisponden-za tra l’accusa e la condanna.

2. 2. Violazione ed inosservanza dell’art. 163 c.p. Senza richiesta è stata concessa la sospensione condizionale della pena con pregiudizio degli interes-

si dell’imputato, che non può vedere cancellata l’iscrizione perché con pena sospesa (cassazione n. 19452 del 2014).

Ha chiesto pertanto l’annullamento della decisione e comunque di eliminare il beneficio della so-spensione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso è fondato limitatamente alla avvenuta concessione del beneficio della sospensione con-

dizionale della pena, senza richiesta da parte dell’imputato, e la sentenza sul punto deve annullarsi senza rinvio, con eliminazione del beneficio; il ricorso è infondato nel resto.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 451

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA NELLA CONDANNA ALLA SOLA AMMENDA

3. 1. È pacifico che “sussiste l’interesse ad impugnare la decisione con la quale sia stata concessa d’ufficio la sospensione condizionale della pena pecuniaria, qualora siano indicate le ragioni per cui ta-le statuizione sia idonea a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica del condannato e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa, condizione che, tuttavia, non ricorre nel caso in cui l’interesse all’impugnazione sia individuato nella mera circostanza che la detta sospensione afferisca ad una sanzione pecuniaria” (cfr. Cass. pen. sez. 5, n. 41557 del 29.11.2006).

Il ricorrente ha dedotto che la concessione del beneficio della sospensione, disposta dal Tribunale, si risolve in una lesione specifica della sua sfera giuridica (“possibilità di eliminazione della iscrizione dal casellario, qualora non soggetta al beneficio di cui all’art. 163 c.p.”).

Non c’è dubbio che per le contravvenzioni punite con la pena alternativa dell’arresto o dell’am-menda (come è, nel caso di specie, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 269, e D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 279, comma 2, con l’arresto fino ad un anno o con l’ammenda fino ad Euro 1.032,00) sia prevista l’obbli-gatoria iscrizione nel casellario giudiziale: il D.P.R. 14 novembre 2002, art. 3 prevede, infatti, l’iscrizione di tutti i provvedimenti giudiziari di condanna definitivi, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali la legge ammette la definizione in via amministrativa o l’oblazione limitatamente alle ipotesi di cui all’art. 162 c.p. e sempre che non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena.

E le contravvenzioni per le quali è consentita l’oblazione a norma dell’art. 162 c.p. sono solo quelle punite con la pena dell’ammenda. Le contravvenzioni, punite con pena alternativa ed oblabili ai sensi dell’art. 162 bis c.p., vanno, quindi, argomentando “a contrario”, e per esclusione, iscritte nel casellario a prescindere dal fatto che sia stata o meno concessa la sospensione della pena.

La concessione del beneficio della sospensione in relazione a dette contravvenzioni costituisce, co-munque, una lesione di un interesse giuridicamente apprezzabile del condannato. L’art. 5, comma 2, lett. d), D.P.R. cit. prevede, invero, che sono eliminate le iscrizioni relative ai provvedimenti giudiziari di condanna per le contravvenzioni per le quali è stata inflitta la pena dell’ammenda, salvo che sia stato concesso alcuno dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p., trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta. Il ricorrente, pur avendo riportato condanna alla sola pena dell’ammenda, non potrebbe, quindi, beneficiare della cancellazione della iscrizione, stante l’avvenuta concessione della sospensione.

Tali regole normative erano valide, fino alla decisione della Corte costituzionale n. 287 del 2010, che ha eliminato la preclusione rappresentata dalla sospensione della pena (salvo che sia stato concesso al-cuno dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p.).

Infatti ora (secondo un indirizzo di questa Corte Suprema), risulta inammissibile, per difetto di inte-resse, il ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza di condanna a pena dell’ammenda condi-zionalmente sospesa ex officio, in quanto il D.P.R. n. 313 del 2002, art. 5, comma 2, lett. d) che non con-sentiva la cancellazione dal casellario delle iscrizioni dei provvedimenti giudiziari concernenti la pena dell’ammenda nel solo caso in cui fossero concessi i benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p. – è stato di-chiarato costituzionalmente illegittimo, con sentenza n. 287 del 2010, di guisa che tutte le iscrizioni sen-za distinzione alcuna vengono cancellate dal casellario giudiziale se relative a provvedimenti di con-danna alla pena dell’ammenda, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena sia stata eseguita o sia in altro modo estinta. (Sez. 4, n. 18072 del 12/02/2015 – dep. 29/04/2015, Blasco, Rv. 263439).

Ciò precisato, sussiste pur sempre un pregiudizio (rilevante e grave, come si vedrà) in relazione alla concessione della sospensione condizionale non richiesta per le pene pecuniarie (ammenda – multa), nel disposto dell’artt. 163 e 164 c.p. che prevedono, nel computo della pena complessiva rilevante per la sospensione anche le pene pecuniarie.

In tema di sospensione condizionale della pena, ai fini della concedibilità del beneficio per la secon-da volta, deve tenersi conto, nel computo della pena complessiva rilevante ai sensi dell’art. 163 c.p., an-che della pena pecuniaria inflitta e dichiarata sospesa nella prima condanna, ragguagliata a quella de-tentiva. (Fattispecie nella quale la Corte ha ritenuto legittima la revoca della pena sospesa di anni 1 di reclusione, che, sommata alla precedente già dichiarata sospesa di mesi undici di arresto ed Euro 20.000 di ammenda – pari, per effetto del ragguaglio della pena pecuniaria, ad anni uno, mesi uno e giorni venti di arresto – travalicava i limiti dei due anni, fissati dall’art. 163 c.p.). (Sez. 3, n. 45251 del 09/10/2014 – dep. 03/11/2014, Lombardo, Rv. 260970).

In sostanza la sospensione della sola pena pecuniaria potrebbe concretamente rivelarsi pregiudizie-vole, per l’impossibilità – in seguito – della sospensione della pena detentiva, come nel caso analizzato

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 452

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA NELLA CONDANNA ALLA SOLA AMMENDA

dalla citata sentenza della Cassazione (Sez. 3, n. 45251 del 09/10/2014 – dep. 03/11/2014, Lombardo, Rv. 260970).

Può quindi affermarsi il seguente principio di diritto: “La sospensione condizionale della pena senza richiesta nelle ipotesi di condanna alla sola pena pe-

cuniaria lede l’interesse dell’imputato – poiché potrebbe incidere sulla sospensione della pena detentiva agendo la pena pecuniaria ai sensi degli artt. 163 e 164 c.p. nel calcolo della pena complessiva rilevante per la sospensione – che pertanto può ricorrere per l’eliminazione della sospensione; sospensione che può essere eliminata, con annullamento senza rinvio, dalla Corte di legittimità”.

La sentenza impugnata va pertanto annullata sul punto senza necessità di rinvio, potendosi in que-sta sede provvedere ex art. 620 c.p.p., lett. l) alla eliminazione del beneficio della sospensione condizio-nale della pena.

4. Il ricorso è infondato nel resto. Il ricorrente contesta l’obbligo di comunicare, con cadenza periodica semestrale, le misurazioni delle

emissioni inquinanti, poiché l’autorizzazione stabilisce la sola misurazione ma non anche la comunica-zione dei risultati.

La sentenza impugnata, sul punto, è adeguatamente motivata, senza vizi di manifesta illogicità o di contraddizione, laddove individua l’obbligo delle comunicazioni e ne accerta, in fatto, l’inadempimento (inadempimento comunque non contestato dal ricorrente).

Infatti, l’art. 4, della DRS prevede, che: “La ditta dovrà effettuare con periodicità semestrale a far da-ta dalla notifica del presente decreto, la misurazione delle emissioni inquinanti, dandone congruo preavviso ... e dovrà comunicare gli stessi risultati delle analisi”.

Del resto un obbligo di controllo senza comunicazione (come sostenuto dal ricorrente) non avrebbe senso, infatti è prevista, espressamente, anche la comunicazione, come sopra visto.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata senza rinvio limitatamente al concesso beneficio della sospensione

condizionale della pena, beneficio che elimina. Rigetta nel resto il ricorso. [Omissis]

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INTERESSE AD IMPUGNARE LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DISPOSTA D’UFFICIO

GASPARE DALIA

Ricercatore in procedura penale – Università degli Studi di Salerno

L’interesse ad impugnare la sospensione condizionale disposta d’ufficio: un illuminato arresto della Corte The interest to appeal the sentence that grants the conditional suspension not requested: an innovative stare decisis of the S.C.

Con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione rimedita in maniera radicale il concetto di interesse ad im-pugnare, superando l’impostazione propria dei precedenti arresti. In un’ottica di spiccato individualismo processua-le, ben può ammettersi una impugnazione volta ad ottenere la eliminazione di un beneficio come quello della so-spensione condizionale della pena, ove lo stesso, non richiesto, sia idoneo a determinare un pregiudizio nella sfera giuridica dell’interessato, pregiudizio che può anche consistere – e qui sta il profilo di novità della sentenza in commento – nella limitazione della possibilità futura di fruire del beneficio. With the judgment in question, the S.C. reconsiders in radical way the concept of interest to appeal, overcoming the interpretation proper of precedents stare decisis. In an optics of strong trial-individualism, it could be admitted an appeal to eliminate a benefit as the conditional suspension of punishment, where the same, not requested, is fit to cause a prejudice in the juridical sphere of the defendant, prejudice that can also consist – and here’s the profile of novelty of the sentence in comment – in the limitation of the future possibility to enjoy the same benefit. LA QUESTIONE DEVOLUTA: LA VALUTAZIONE DEL PREGIUDIZIO LAMENTATO

Il trait d’union che amalgama l’arresto di legittimità in commento si individua proprio nelle problemati-che sottese alla esatta individuazione dell’interesse ad impugnare. Le questioni applicative che invol-gono la tematica si appalesano sempre nuove e proteiformi e, questa volta, si manifestano nella ammis-sibilità o meno di una impugnazione proposta dall’imputato condannato alla pena dell’ammenda allor-ché la stessa sia stata ex officio iudicis condizionalmente sospesa.

In effetti, è di tutta evidenza che l’interesse ad impugnare un provvedimento giurisdizionale si leghi alla attitudine di quest’ultimo a cagionare un pregiudizio giuridicamente rilevante nella sfera dell’inte-ressato. E, proprio sulla scorta di questa premessa, alla S.C. si chiede di chiarire se di tale predicato pos-sa ammantarsi la situazione del ricorrente.

Due, in astratto, i lamentati profili di pregiudizio. In primo luogo, il ricorrente aveva dedotto che la concessione del beneficio della sospensione, dispo-

sta dal Tribunale, si risolvesse in una lesione specifica della sua sfera giuridica sub specie di (im)pos-sibilità di eliminazione della iscrizione dal casellario, qualora soggetta al beneficio di cui all’art. 163 c.p.

Sicché, argomentava il ricorrente, quando il beneficio della sospensione condizionale sia concesso senza una esplicita manifestazione di opzione dell’interessato in tal senso, esso è idoneo a vulnerare la sua sfera giuridica, in quanto – in via di estrema sintesi – gli impedisce di esercitare una valutazione comparativa “costi-benefici”, sì da poter scegliere se sia più conveniente beneficiare della sospensione condizionale o saldare immediatamente quanto irrogato come pena pecuniaria dal giudice.

Nel primo caso, all’immediato beneficio derivante dalla non esecuzione della pena, fa(rebbe) da con-traltare l’impossibilità di ottenere la cancellazione dell’iscrizione nel casellario giudiziale, ai sensi dell’art. 5, comma 2, lett. d), d.p.r. 14 novembre 2002, n. 313 1, secondo cui la cancellazione delle iscri-

1 Recante Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle san-

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INTERESSE AD IMPUGNARE LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DISPOSTA D’UFFICIO

zioni opera con riguardo «ai provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali è stata in-flitta la pena dell’ammenda, salvo che sia stato concesso alcuno dei benefici di cui agli articoli 163 e 175 del codice penale, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta».

Nel secondo caso, per contro, all’immediato pregiudizio derivante dalla riscossione della sanzione pecuniaria 2 farebbe da contraltare la possibilità di ottenere – trascorsi dieci anni – la cancellazione dell’iscrizione.

Sotto altro punto visuale, poi, il ricorrente lamentava che la concessione ex officio avesse pregiudicato la sua posizione giuridica sotto due diversi ma interconnessi profili. Per un verso, la decisione implica-va la consumazione di una delle due possibilità di ottenere la sospensione condizionale per un reato, tutto sommato, di scarso rilievo. Per altro verso, poi, in ragione della previsione di cui all’art. 135 c.p. 3 la pena pecuniaria irrogatagli avrebbe concorso nel computo dei limiti di pena previsti dall’art. 163 c.p. per poter beneficiare della sospensione, con evidente pregiudizio in considerazione dell’estrema mode-stia dell’ammontare della sanzione da pagare.

L’ITER ARGOMENTATIVO DEL GIUDICE DI LEGITTIMITÀ

La Suprema Corte affronta, in via succinta ma esauriente, entrambe le questioni 4. Rispetto alla prima, in realtà, rileva che trattasi di un falso problema.

La limitazione al diritto di ottenere la cancellazione dell’iscrizione nel casellario giudiziale per il soggetto che abbia riportato una condanna alla sola pena dell’ammenda in caso di concessione dei be-nefici di cui agli artt. 163 o 175 c.p. 5 è stata, infatti, dichiarata incostituzionale dal Giudice delle Leggi con sentenza n. 287/2010. Con quella pronuncia, richiamando alcune modifiche apportate dal legislato-re successivamente all’adozione del d.p.r. n. 313/2002 6, la Consulta ha concluso per l’esistenza di una tendenza emergente ad evitare che una pregressa condanna per un reato di non grave entità possa proiettarsi senza limiti sul futuro, con conseguenze irragionevoli: si pensi, ad esempio, al paradosso di un soggetto che subisca una nuova condanna alla pena dell’ammenda e possa, per tale secondo prov-vedimento, chiedere ed ottenere, trascorsi dieci anni dalla esecuzione o estinzione della pena, la cancel-lazione della relativa iscrizione dal casellario giudiziale, anche se il secondo reato sia stato sanzionato più gravemente del primo (per il quale fosse stata concessa la sospensione condizionale o la non men-zione).

zioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti. Per una compiuta analisi della disciplina, v. in dottrina D. Cimadomo, I casellari e l’anagrafe, in G. Spangher (coordinato da), Trattato di procedura penale, Torino, Utet, 2009, p. 373.

2 Più correttamente, della sola ammenda, atteso che la disposizione in predicato si limita alle contravvenzioni e non può, quindi, in via estensiva essere applicata ai delitti.

3 A mente del quale «quando, per qualsiasi effetto giuridico, si deve eseguire un ragguaglio fra pene pecuniarie e pene detentive, il computo ha luogo calcolando euro 250, o frazione di euro 250, di pena pecuniaria per un giorno di pena detentiva». In proposito occorre pure sottoli-neare che l’attuale criterio di ragguaglio è stato modificato dall’art. 32, comma 62, l. 15 luglio 2009, n. 94. Peraltro i fatti erano conte-stati all’imputato genericamente «fino al 30 dicembre 2011», ma in ogni caso, a prescindere dalla correlata problematica della succes-sione di leggi nel tempo in caso di reato permanente, non avrebbe potuto trovare applicazione se non la formulazione vigente, ov-viamente più favorevole al reo, atteso che quella precedente ragguagliava un giorno di detenzione a “soli” 38 euro.

4 Dichiara viceversa infondato il primo motivo di ricorso, vertente su una asserita falsa applicazione della legge sostanziale (in relazione agli artt. 279, comma 2 e 269, comma 4, lett. b), d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152) e di quella processuale (rispetto all’art. 521 c.p.p.), assumendo che l’obbligo di controllo semestrale imposto alla ditta risulti indefettibilmente connesso a quello di co-municazione degli esiti, essendo viceversa del tutto irrazionale una sfasatura tra i due profili.

5 La cui ratio giustificativa, invero, riposava essenzialmente su una esigenza di carattere solo operativo, giacché essa risultava strumentale a garantire l’operatività dell’art. 164 c.p. il quale, come noto, prevede che il giudice possa disporre la sospensione condizionale della pena non più di una volta (o due, quando il cumulo delle condanne non superi i limiti di cui all’art. 163 c.p.). Ebbene, l’unico strumento dal quale il giudice può attingere informazioni in ordine alle precedenti concessioni del beneficio è costituito dal certificato del casellario giudiziale. Se, dunque, si potesse procedere alla cancellazione delle iscrizioni in via indi-scriminata, un soggetto condannato più volte potrebbe ottenere un numero di sospensioni condizionali della pena superiore a quello consentito dalla legge. In questo senso era orientata, del resto, la prevalente giurisprudenza di legittimità, che aveva evi-denziato come la concessione dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 c.p. fosse di ostacolo all’eliminazione della iscrizione della condanna dal casellario giudiziale, sul rilievo che tale iscrizione non abbia natura di effetto penale della condanna, bensì di atto che assolve a finalità meramente informative, con conseguente ininfluenza delle vicende estintive del reato e degli effetti penali della condanna.

6 Si trattava delle novelle inerenti le pene irrogate con decreto penale o in seguito a patteggiamento, o ancora dal Giudice di Pace.

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Tuttavia, tale primo profilo di pregiudizio lamentato dal ricorrente sembrerebbe essere neutralizza-to, atteso che, in forza della sentenza della Corte costituzionale, anche per le ipotesi di pena dell’am-menda sospesa condizionalmente o per la quale è concesso il beneficio della non menzione nel certifica-to del casellario giudiziale rilasciato a richiesta dei privati è oramai possibile ottenere la cancellazione delle iscrizioni trascorsi dieci anni dal momento in cui la pena si è estinta.

In altri termini, se dopo dodici anni 7 anche le iscrizioni “beneficiate” sono soggette a cancellazione, ecco che non avrebbe alcun interesse il condannato a censurare la concessione officiosa del beneficio, atteso che non gli recherebbe un pregiudizio serio ed apprezzabile.

Non a caso, un consolidato orientamento della Corte di legittimità propende per l’inammissibilità del ricorso per difetto di interesse nel caso di specie, atteso come la norma pregiudizievole (ovverosia l’art. 5, comma 2, lett. d), d.p.r. n. 313/2002) è stata oramai espunta dall’ordinamento e dunque, attual-mente, «tutte le iscrizioni senza distinzione alcuna vengono cancellate dal casellario giudiziale se relative a prov-vedimenti di condanna alla pena dell’ammenda, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena sia stata eseguita o sia in altro modo estinta» 8.

La conclusione sarebbe comunque censurabile, soprattutto se raffrontata alla motivazione espressa dalla Corte Costituzionale, considerato come potrebbe allegarsi l’ingiustificata asimmetria trattamenta-le tra il condannato con prognosi sfavorevole, che vede la propria iscrizione cancellata dopo una deca-de, e quello con prognosi favorevole, che incomprensibilmente dovrà aspettare due anni di più.

La sentenza in commento, in ogni caso, scavalca tale criticità, ritenendo che il proposto gravame – che sarebbe stato da ritenersi inammissibile per carenza di interesse alla stregua dell’orientamento giu-risprudenziale riferito – sia sorretto da adeguata giustificazione introduttiva, considerato che il ricor-rente allega un diverso pregiudizio – che la Corte stima essere “rilevante e grave” – ovverosia quello derivante dal fatto che nel computo della pena ex art. 163 c.p. occorre tener conto anche della pena pe-cuniaria inflitta e dichiarata sospesa, ragguagliata a quella detentiva, di talché «la sospensione della sola pena pecuniaria potrebbe concretamente rivelarsi pregiudizievole, per l’impossibilità – in seguito – della sospen-sione della pena detentiva» 9.

GLI ISTITUTI IN GIOCO: INTERESSE AD IMPUGNARE E SOSPENSIONE CONDIZIONALE DELLA PENA

La pronuncia in esame affronta in via unitaria due problematiche indubbiamente interconnesse, ma con ogni evidenza autonome.

Si tratta, da un lato, di individuare una nozione sufficientemente definita di “interesse ad impugna-re”; dall’altro, di vagliare l’ubi consistam dell’istituto di cui agli artt. 163 e ss. c.p.

Con riferimento al primo profilo, occorre innanzitutto muovere dalla nozione di impugnazione, isti-tuto processuale che può essere definito con efficacia come quel «rimedio che, in casi tassativi, l’ordi-namento appresta a vantaggio delle parti – o a volte di soggetti che parti non sono – affinché possano essere rimossi gli effetti pregiudizievoli derivanti da un provvedimento giurisdizionale che la stessa re-puta ingiusto o illegittimo» 10.

Orbene, mentre l’ingiustizia del provvedimento reso attiene ad una valutazione essenzialmente di merito, l’illegittimità attiene a tutte quelle ipotesi in cui il giudice sia incorso in vere e proprie violazioni di legge. Non è un caso, del resto, che lo stesso discrimen si ripropone al momento della delimitazione dell’ambito di cognizione rimesso alla stessa Corte di Cassazione, dinanzi alla quale, infatti, non po-tranno essere formulate doglianze relative al fatto o al suo apprezzamento da parte del giudice di meri-

7 I dieci richiesti dall’art. 5, d.p.r. 14 novembre 2002, n. 133, più i due occorrenti per l’estinzione del reato contravvenzionale ai sensi dell’art. 163 c.p.

8 Così Cass., sez. IV, 12 dicembre 2015, n. 18072, in CED Cass., n. 263439, nonché in senso pedissequo Cass., sez. III, 25 feb-braio 2014, n. 21753, in CED Cass., n. 259722; Cass., sez. IV, 18 novembre 2014, n. 51574, in CED Cass., n. 261579; Cass., sez. IV, 2 dicembre 2014, n. 15680, in CED Cass., n. 263133.

9 In tal senso, la stessa Cassazione in commento richiama il suo precedente arresto. Cfr. Cass., sez. III, 9 ottobre 2014, n. 45251, in CED Cass., n. 260970, dalla quale dovrebbe trarsi, argomentando a contrario, che siccome della precedente condanna a pena pecuniaria sospesa condizionalmente deve tenersi conto in sede di ragguaglio, la prima è idonea a cagionare un pregiudi-zio processualmente rilevante.

10 In tal senso A. Dalia-M. Ferraioli, Manuale di diritto processuale penale, IX ed., Padova, Cedam, 2016, p. 799.

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to, bensì solo questioni attinenti alla legittimità del provvedimento impugnato. Ed è del resto ben nota la riottosità con la quale la S.C. si ingerisce nel fatto, attesa la querelle relativa alla ammissibilità delle doglianze afferenti il c.d. travisamento del fatto, risolta in modo “pilatesco” con l’ammissione del sin-dacato sul solo travisamento della prova.

Rispetto alla proposizione dell’impugnazione, poi, usualmente si distingue tra legittimazione e inte-resse. Il primo concetto, invero, attiene alla dimensione statica del gravame, ovverosia ad un giudizio soggettivo-oggettivo già compiuto dal legislatore in ordine alla ammissibilità o meno dell’impugnazione.

Il concetto di legittimazione ad impugnare, quindi, rappresenta null’altro che il pendant fenomenico del principio di tassatività delle impugnazioni, nella sua duplice accezione di tassatività dei mezzi e di tassatività dei casi di impugnazione. Attraverso espresse previsioni, quindi, il legislatore precisa quali provvedimenti sono gravabili, ad opera di chi, per quali motivi e con che tipo di rimedio.

Il concetto di interesse ad impugnare, invece, assume portata dinamica: non può infatti essere defini-to da previsioni astratte, come avviene per la legittimazione, per il semplice fatto che attiene alla singola vicenda processuale, considerata nei suoi elementi individualizzanti. In sostanza, si tratta di un requisi-to che assicura – anche per esigenze di economia processuale – che l’impugnazione tenda effettivamen-te «all’eliminazione della lesione di un diritto, non essendo prevista la possibilità di proporre un’impugnazione che miri unicamente all’esattezza giuridica della decisione, senza che ne consegua un vantaggio pratico per il ri-corrente, o addirittura ne consegua un danno» 11. Per contro, l’interesse all’impugnazione sussiste tutte quelle volte in cui «il provvedimento […] sia idoneo a produrre in concreto la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e la sua eliminazione consenta il conseguimento di una situazione giuridica più vantaggiosa» 12.

Per quel che attiene alla sospensione condizionale della pena, invece, si tratta di un istituto non già, come pure si afferma, di mera decarcerizzazione 13, bensì volto ad inverare il principio della extrema ra-tio dell’intervento sanzionatorio custodiale penale. Introdotto in Italia sulla scorta di un’ideologia pro-porzionalistica e retributiva, è concepito come strumento extrapenitenziario di controllo e di sostegno in grado di assecondare il reinserimento del reo. Si tratta, dunque, di un rimedio contro la riconosciuta dannosità delle pene detentive brevi che, da una parte, non consentono un adeguato trattamento peni-tenziario e, dall’altra, determinano il contagio criminale 14.

In altri termini, pur a fronte della commissione di un reato accertato con sentenza definitiva passata in giudicato, il primato della persona 15 è tale che non si fa luogo all’applicazione della sanzione penale irrogata qualora, essendo la stessa contenuta entro determinati limiti ed essendovi una prognosi favo-revole circa la futura astensione del soggetto dalla commissione di ulteriori reati, in ultima istanza la mera minaccia della futura esecuzione sia sufficiente a soddisfare le esigenze di prevenzione speciale. Tuttavia, molto spesso l’istituto si è presentato come «un meccanismo “vuoto”, privo di contenuti di tratta-mento extrapenitenziario, che si configura come una rinunzia condizionata a punire, una risposta sanzionatoria quantitativamente e qualitativamente minore, per reati poco gravi commessi da persone non pericolose» 16. Per quel che attiene specificamente alla sospensione condizionale delle pene pecuniarie, poi, viene in rilievo semplicemente un’esigenza di graduazione repressiva, sicché sarebbe evidentemente irrazionale diffe-

11 Così Cass., sez. I, 24 novembre 2011, n. 47675, in CED Cass., n. 252183. 12 Cass., sez. un, 16 marzo 1994, n. 6563, in CED Cass., n. 197535. In dottrina, v. G. Diotallevi, sub art. 163 c.p., in Lattanzi-

Lupo (coordinato da), Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina, vol. V, Milano, 2010, pp. 350 ss., il quale, nel ricostrui-re compiutamente gli orientamenti sul tema della disponibilità del beneficio, ne sottolinea la natura pubblicistica intesa dalla giurisprudenza, tanto da sostenere che esso sia un potere attribuito esclusivamente al giudice in vista della finalità rieducativa della pena, escludendo sia la necessità di una specifica istanza da parte dell’imputato per la concessione, così come un potere di rinuncia al beneficio (ex multis, Cass., 10 dicembre 1992, in CED Cass., n. 192587; Cass., 24 giugno 1999, in Cass. pen., 2000, p. 2298; pur se si sono registrate anche pronunce di segno contrario, tendenti alla riconsiderazione del pregiudizio che potrebbe comunque patire il condannato. Così Cass., 21 giugno 1993, in Riv. pen. economia, 1996, p. 39).

13 Se così fosse, infatti, non si spiegherebbe la possibilità che vengano sospese condizionalmente le pene pecuniarie espres-samente contemplate dall’art. 163 c.p.

14 In dottrina, si sostiene che la sospensione condizionale della pena, viste le finalità dell’istituto, dovrebbe essere concessa o negata solo in funzione di superiori interessi dell’ordinamento, senza alcuna sindacabilità da parte del reo. Così P. Assumma, La sospensione condizionale della pena, Napoli, Jovene,1984, p. 216.

15 Sub specie di inviolabilità della libertà personale ex art. 13 Cost. e di eccezionalità delle prestazioni patrimoniali imposte ex art. 23 Cost.

16 In questo senso si esprime R. Blaiotta, La sospensione condizionale della pena: ricorrenti incertezze giurisprudenziali e prospettive di riforma, in Cass. pen., 2001, p. 3434.

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renziare l’ambito di operatività dell’istituto a seconda del genus della pena (pena detentiva e pena pe-cuniaria), tanto se si pone mente all’originaria rigida previsione della conversione della sanzione pecu-niaria in quella detentiva dettata dall’art. 136 c.p.

Tant’è vero che, per effetto della sentenza della Consulta 28 aprile 1976, n. 95, il beneficio può essere fruito anche una seconda volta dal condannato, a patto che la pena complessivamente irrogata nei suoi riguardi non superi i limiti stabiliti dall’art. 163 c.p.

PROFILI DI CRITICITÀ DERIVANTI DAI PRECEDENTI ARRESTI: UNA SVOLTA LAICIZZANTE?

Se tali sono i parametri ricostruttivi di riferimento, allora, la sentenza in commento non può che anno-verarsi tra gli arresti illuminati e progressisti della Suprema Corte.

Mette conto di sottolinearsi, infatti, che il Collegio si è trovato al cospetto di una questione essen-zialmente analoga ad altra già vagliata dalle Sezioni Unite oltre vent’anni fa 17. In quella ipotesi, la mas-sima assise della S.C. precisò sì che «sussiste l’interesse ad impugnare e deve pertanto ritenersi ammissibile il gravame nei confronti di provvedimento che sospende condizionalmente la pena dell’ammenda concernente con-travvenzioni …», ma solo perché, in presenza di una iscrizione nel casellario giudiziale, «la concessione del beneficio si risolve in un pregiudizio per l’imputato, stante la maggiore stigmatizzazione della pena irrogata a seguito dell’iscrizione nel casellario (peraltro immediata), molto più grave rispetto al lieve vantaggio rappresenta-to dall’esenzione (condizionata) dal pagamento».

Dunque, la sussistenza dell’interesse ad impugnare veniva ancorata ai pregiudizi derivanti dall’i-scrizione del provvedimento nel casellario giudiziale, essenzialmente nell’ottica di una negativa risul-tanza dell’applicazione del criterio di matrice economica dei “vantaggi compensativi”: in altri termini, l’utilità derivante dalla sospensione condizionale non è tale da superare il pregiudizio derivante dal-l’iscrizione del nominativo nel casellario. Tuttavia, come si è visto, questa soluzione era dettata dalla “perpetuità” dell’iscrizione in presenza della concessione del beneficio condizionale e ben si compren-deva l’argomentazione delle Sezioni Unite.

Sennonché, eliminato lo “scoglio” con la citata sentenza della Consulta del 2010, si sarebbe dovuti pervenire, ragionando a contrario, ad un esito di inammissibilità del ricorso proposto, a meno di voler far leva sull’argomento della differente (e non del tutto giustificabile) estensione temporale della per-manenza dell’iscrizione.

E tutto ciò perché – se la sentenza in commento si fosse accodata alle SS.UU. – sicuramente non sa-rebbe stato possibile spendere il diverso argomento della pregiudizievolezza della pena pecuniaria condizionalmente sospesa nell’ottica di una futura fruizione del beneficio. Sul punto, infatti, l’arrêt del ‘94 era piuttosto netto, affermandosi che, sebbene la sospensione condizionale non potesse risolversi in un pregiudizio per l’imputato in termini di compromissione del carattere personalistico e rieducativo della pena, tale situazione non si verifica nell’ipotesi di concessione officiosa del beneficio rispetto ad una (mera) pena pecuniaria. Il pregiudizio da rimuoversi, infatti, è rilevante a patto che «non attenga a valutazioni meramente soggettive di opportunità e di ordine pratico, ma concerna interessi giuridicamente ap-prezzabili in quanto correlati alla funzione stessa della sospensione condizionale, consistente nella “individualiz-zazione” della pena e nella sua finalizzazione alla reintegrazione sociale del condannato».

Ebbene, proprio ad una “valutazione soggettiva di opportunità e di ordine pratico” veniva ricondot-ta la fattispecie che qui occupa, ovverosia «la mera opportunità, prospettata dal ricorrente, di riservare il be-neficio per eventuali condanne a pene più gravi, perché valutazione di opportunità del tutto soggettiva e per giun-ta eventuale, e comunque in contraddizione con la prognosi di non reiterazione criminale, e quindi di ravvedimen-to, imposta dall’art. 164, comma primo, cod. pen. per la concessione del beneficio medesimo».

Tre, dunque, le ragioni ostative: in primo luogo, il carattere meramente eventuale del danno lamen-tato, in quanto la sua attualizzazione presuppone la considerazione di accadimenti futuribili, come una (ulteriore) condanna; la sua rilevanza solo soggettiva, ovverosia come “mera tattica” processuale; la in-compatibilità della doglianza proposta con il giudizio prognostico favorevole operato dal giudice di merito, con la conseguenza che la impugnazione, basata sulla positiva contemplazione di future azioni criminose da parte dell’agente, integrerebbe quasi una dichiarazione contra se.

17 Cass., sez. un., 16 marzo 1994, n. 6563, cit.

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Peraltro, le Sezioni Unite avevano pure precisato che, nell’ottica di una funzionalizzazione dell’i-stituto al proposito rieducativo, la concessione della sospensione condizionale della pena risulta chiara dimostrazione di un potere di spettanza esclusiva del giudice, con la conseguenza che non sono ipotiz-zabili né la necessità di istanza dell’imputato né il potere della parte di rinunciarvi. Tale impostazione, poi, risultava avallata pure dalla giurisprudenza di legittimità 18, essendosi argomentato che l’assenza di un potere di controllo del giudice sulla congruità della pena può talvolta determinare una situazione di conflitto col principio della funzione rieducativa della pena enunciato dall’art. 27, comma 3, Cost.

Queste le ingombranti impostazioni con cui la sentenza in commento era chiamata a fare i conti. Ebbene, i giudici della terza sezione, pur senza menzionare mai le argomentazioni appena cennate,

dimostrano di discostarsi da esse in maniera netta e recisa. Certo, al fine di risolvere la problematica alla loro attenzione, avrebbero avuto gioco facile a riferirsi

a quel recente approdo con cui la stessa S.C. è ritornata, con esiti opposti rispetto al passato, sul pro-blema della rilevanza delle iscrizioni nel casellario giudiziale. In particolar modo, si è rilevato come «l’imputato condannato a pena pecuniaria, che sia stata condizionalmente sospesa senza sua richiesta, ha interesse ad impugnare tale statuizione onde ottenere la revoca del beneficio da cui deriva la lesione di un interesse giuridi-co qualificato, atteso che dalla condanna consegue l’iscrizione nel casellario giudiziale, che permane finché non siano trascorsi dieci anni dall’esecuzione o dall’estinzione della pena» 19.

Come già in effetti si è detto, la semplice post-datazione della eliminazione dell’iscrizione in dipen-denza dal termine biennale di sospensione condizionale è idonea a determinare un pregiudizio rilevante.

Ma, la questione è di ben più ampia portata. Si tratta, in altre parole, di decodificare la funzione della sospensione condizionale nell’ottica del

moderno sistema penale, dovendosi chiedere, in ultima istanza, se lo stesso sia volto a soddisfare esi-genze individuali o superindividuali e cioè – come del resto avviene in senso più ampio per ogni istitu-to penalistico – quale sia il rapporto tra autorità e libertà.

Se si ritiene, infatti, che la sospensione condizionale sia volta essenzialmente a garantire la società dalle conseguenze indesiderate derivanti dalla commissione di un reato, ben si comprende un’im-postazione quale è quella delle Sezioni Unite. In quest’ottica, del resto, è del tutto chiaro ed inequivoca-bile come la sospensione non sia affatto un “jolly” che il delinquente può pretendere di spendere alla bisogna, ma semplicemente una valutazione rimessa al giudice in ordine alla sufficienza o meno della minaccia della sanzione per evitare ulteriori trasgressioni alle norme assistite da conseguenze penali.

Differentemente a dirsi, invece, se l’istituto è ricostruito in un’ottica reo-centrica nell’ambito della quale, cioè, ferma restando la necessità che sia il giudice a provvedere alla formulazione del giudizio prognostico, imprescindibile sia l’istanza dell’interessato ai fini della concessione della sospensione condizionale. In quest’ottica, infatti, nessun imbarazzo genera l’applicazione del principio di matrice civilistica invito beneficium non datur: in un ordinamento giuridico che accoglie sempre più uno spiccato personalismo, la valutazione delle conseguenze di una determinata condotta ben può – anzi, deve – es-sere ricondotta alla valutazione “opportunistica” dell’agente.

Estremizzando la ricostruzione, infatti, potrà dirsi che così come è libera la scelta dell’agente di de-linquere, così sarà libera la sua scelta di “rifiutare” la possibilità che l’ordinamento gli offre di andare esente da una applicazione “immediata” della pena, preferendone l’espiazione istantanea. Ovviamente, una tale opzione ha dei riflessi sistemici che non possono essere ignorati 20, ma – al di fuori di una im-postazione “eticizzante” del diritto penale, sicuramente incompatibile con il nostro sistema costituzio-nale – non esistono ragioni apprezzabili per sottrarre alla strategia difensiva dell’imputato l’opzione per l’immediata espiazione della pena pecuniaria.

Non a caso, infatti, anche successivamente al riferito approdo delle SS.UU., le sezioni semplici della Suprema Corte 21 si erano determinate pur sempre per la inammissibilità del ricorso, ma non già sulla

18 C. cost., sent. 26 giugno 1990, n. 313, in Foro it., I, 1990, c. 2385, con cui era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 444 c.p.p. nella parte in cui non prevedeva il sindacato del giudice sulla congruità della pena patteggiata.

19 Cass., sez. IV, 29 gennaio 2015, n. 15688, in Riv. pen., 2015, 7-8, p. 629. 20 Sub specie in primis di adeguatezza della pena comminata per quella specifica violazione, in secundis della correttezza della

valutazione prognostica favorevole in termini di futura astensione dalla commissione di reati dell’agente. 21 Cass., sez. I, 11 dicembre 1998, in CED Cass., n. 211300; nello stesso senso, Cass., sez. III, 24 maggio 1994, in CED Cass., n.

199868; Cass., sez. III, 29 gennaio 1998, in CED Cass., n. 210736.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 459

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’INTERESSE AD IMPUGNARE LA SOSPENSIONE CONDIZIONALE DISPOSTA D’UFFICIO

base della distinzione tra interessi giuridicamente rilevanti e interessi meramente opportunistici, consi-derando – non a torto – come tale discrimen in ultima istanza non è dotato di alcun addentellato norma-tivo 22.

Tirando le fila del discorso fin qui articolato, può dirsi condivisibile l’impostazione ermeneutica fatta propria dalla Corte di legittimità, sia per la considerazione – seppur non esplicitata in sentenza – in vir-tù della quale tale soluzione garantisce una più rapida cancellazione dell’iscrizione dal casellario giudi-ziale, sia per il fatto che – in assenza di una esplicita previsione normativa – ben può l’imputato-ricorrente mirare al risultato utilitaristicamente più favorevole pro futuro e, dunque, nella valutazione comparativa tra più condotte processuali perfettamente lecite, preferire non “intaccare”, in presenza di una condanna alla mera pena pecuniaria, sia la soglia biennale di cui all’art. 163 c.p. sia pure pura la (duplice) concedibilità del beneficio di cui all’art. 164, ult. comma, c.p., anche atteso come – quale che sia il criterio di ragguaglio dell’art. 135 c.p. – sia davvero difficile ipotizzare una equivalenza tra una deminutio patrimonii ed una orbatio libertatis.

22 Dell’evoluzione giurisprudenziale dà ben conto R. Blaiotta, La sospensione condizionale della pena: ricorrenti incertezze giuri-sprudenziali e prospettive di riforma, cit., sub nota 16.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONSENTITA IN APPELLO LA PROVVISIONALE ALLA PARTE CIVILE NON IMPUGNANTE

Consentita in appello la provvisionale alla parte civile non impugnante

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONI UNITE, SENTENZA 15 DICEMBRE 2016, N. 53153 – PRES. CANZIO; REL. MONTAGNI

Non viola il principio devolutivo né il divieto di reformatio in peius la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante

RITENUTO IN FATTO

1. C.D., a mezzo del difensore, ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Milano indicata in epigrafe, con la quale è stata parzialmente riformata la sentenza del G.i.p. del Tribunale di Pavia resa all’esito di giudizio abbreviato, di condanna dell’imputato alle pene di giu-stizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, da determinare in separata sede, in riferimento ai reati di cui all’art. 81 c.p., comma 2, artt. 609 bis e 609 quater c.p.. La Corte territoriale ha rideterminato la pena principale e ha disposto, in favore della parte civile, la provvisionale immedia-tamente esecutiva pari ad Euro 30.000.

L’affermazione di responsabilità, che è stata confermata dal giudice di appello, concerne il reiterato compimento di atti sessuali con la figlia minore.

Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione, in relazione alla attendibilità e alla valenza probatoria assegnate alle dichiarazioni accusatorie promananti dalla persona offesa.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di di-niego del riconoscimento della circostanza attenuante della minore gravità del fatto, di cui all’art. 609 quater c.p., comma 4.

Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 597 c.p.p., in relazione al divieto di reformatio in peius, essendo stata concessa una provvisionale in favore della parte civile costituita, in mancanza di impugnazione della stessa, così violando il principio devolutivo, oltre alle regole basilari del processo civile, che disciplinano l’azione risarcitoria che pure venga proposta dal danneggiato in sede penale.

2. Con ordinanza emessa in data 27 aprile 2016 la Terza Sezione penale ha rimesso il ricorso alle Se-zioni Unite rilevando l’esistenza di un contrasto interpretativo rappresentato dal seguente quesito: se violi il divieto di reformatio in peius la sentenza di secondo grado che accolga la domanda di provvi-sionale proposta per la prima volta in grado di appello dalla parte civile non impugnante.

4. Il Primo Presidente, con decreto del 26 luglio 2016, ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite, fis-sando per la trattazione l’odierna udienza pubblica.

5. L’Avvocato generale ha depositato memoria, nella quale, dopo aver richiamato i termini del con-trasto giurisprudenziale in esame, ha osservato che merita condivisione l’orientamento che nega il ca-rattere di “domanda nuova” alla richiesta di provvisionale ex art. 539 c.p.p., comma 2. Al riguardo, vie-ne valorizzato l’insegnamento espresso dalla giurisprudenza civile sulla richiesta di provvisionale pro-spettata per la prima volta in appello, da leggere congiuntamente al principio di immanenza della costi-tuzione di parte civile, elaborato dalla giurisprudenza penale. Esclusa la ricorrenza di una violazione del principio civilistico di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, giacché la provvisionale chiesta in appello si configura come parziale concretizzazione della condanna generica già pronunciata in primo

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONSENTITA IN APPELLO LA PROVVISIONALE ALLA PARTE CIVILE NON IMPUGNANTE

grado, neppure può ritenersi violato il divieto di reformatio in peius, che la giurisprudenza maggiorita-ria non estende alle statuizioni civili della condanna.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. La questione rimessa all’esame delle Sezioni Unite, afferente al terzo motivo di ricorso, può essere riassunta nei termini che seguono:

“Se violi il principio devolutivo e il divieto di reformatio in peius la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non ap-pellante”.

2. Il quesito involge il tema dei poteri decisori devoluti al giudice di secondo grado, in rapporto alle statuizioni assunte nel giudizio di primo grado e al contenuto delle impugnazioni proposte dalle parti.

Il contesto processuale, nella richiamata ipotesi, è così schematizzabile: il giudice di primo grado, nel pronunciare la condanna dell’imputato, decide, ai sensi dell’art. 538 c.p.p., anche sulla domanda risarci-toria proposta dalla costituita parte civile, pronunziando condanna generica ex art. 539 c.p.p., comma 1; la sentenza di condanna viene appellata unicamente dall’imputato, che contesta l’affermazione di re-sponsabilità; la parte civile, non appellante, in corso di giudizio di secondo grado, propone, per la pri-ma volta, in ragione delle sopravvenute difficoltà economiche della persona offesa, la richiesta di una provvisionale ex art. 539 c.p.p., comma 2; il giudice di appello, nel confermare la pronuncia di condan-na, statuisce il pagamento di una provvisionale, che è immediatamente esecutiva ex art. 540 c.p.p., comma 2.

3. In ordine alla questione relativa alla legittimità della statuizione adottata dal giudice di appello di accoglimento della richiesta di una provvisionale proposta, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado dalla parte civile non appellante, non è delineabile, a ben vedere, un contrasto nell’ambito della recente giurisprudenza di legittimità.

Si è affermato che integra il vizio di motivazione l’omesso esame, da parte del giudice di secondo grado, della richiesta di provvisionale proposta per la prima volta in appello; ciò in considerazione del rilievo che la richiesta di provvisionale si inserisce nella domanda risarcitoria validamente esperita dal-la parte civile nel processo penale, di talché il giudice di appello ha il dovere di pronunciarsi sulla ri-chiesta di provvisionale proposta per la prima volta in quella sede, quando in primo grado sia stata pronunciata condanna generica al risarcimento, secondo gli stessi criteri previsti dall’art. 539 c.p.p., comma 2, (Sez. 3, n. 35570 del 09/03/2016, Ardita, non mass.; Sez. 1, n. 17240 del 02/02/2011, Consolo, Rv. 249961). In altra pronunzia si è affermato che, qualora la richiesta di provvisionale non sia stata avanzata nel giudizio di primo grado, la parte civile può utilmente giovarsi della condanna generica al risarcimento e chiedere, per la prima volta, in appello la condanna ad una provvisionale, e si è precisato che non si tratta di domanda nuova e che il divieto di reformatio in peius non si estende alle statuizioni civili (Sez. 3, n. 42684 del 07/05/2015, Pizzo, Rv. 265198).

Anche nell’ambito degli oscillanti orientamenti che si erano registrati nella vigenza del codice Rocco del 1930, emergeva il prevalente rilievo secondo il quale il giudice di appello può concedere la provvi-sionale in favore della parte civile non impugnante, in assenza di una pronuncia, sul punto, da parte del primo giudice (Sez. 4, n. 1111, del 20/10/1981, dep. 1982, Montin, Rv. 152010; Sez. 4, n. 1937 del 26/11/1968, dep. 1969, Martino, Rv. 110321).

3.1. Un contrasto, in seno alla Corte regolatrice, si registra in riferimento ad altre questioni, che si pongono, tuttavia, in stretta correlazione con quella relativa alla legittimità della richiesta di provvisio-nale proposta per la prima volta in appello, oggetto del quesito.

Si tratta: a) della concedibilità della provvisionale, in assenza di apposita richiesta della parte civile, sia da parte del giudice di primo grado che di quello di appello; b) della modificabilità, ad opera del giudice di secondo grado, della somma già liquidata a titolo di provvisionale, in favore della parte civi-le non impugnante.

3.2. In riferimento alla prima questione, relativa alla concedibilità della provvisionale in assenza di richiesta della parte civile, un primo indirizzo si esprime negativamente, evidenziando che l’art. 539 c.p.p., laddove prevede che il giudice che pronunzia condanna generica al risarcimento del danno può, altresì, condannare l’imputato al pagamento di una provvisionale immediatamente esecutiva, stabilisce

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espressamente che ciò avvenga su “richiesta” della parte civile. Sulla scorta di tale rilievo, il giudice che disponga la provvisionale in assenza della predetta richiesta “opera esorbitando dai compiti assegnatigli dalle disposizioni codicistiche e finisce per pronunciarsi ultra petita” (Sez. 5, n. 9779, del 15/02/2006, Du-rante, Rv. 234237); in consonanza con tale indirizzo si è osservato che è illegittima la decisione con cui il giudice di appello dispone l’assegnazione della provvisionale in assenza della richiesta della parte civi-le, atteso che l’art. 539 c.p.p., subordina tale statuizione alla specifica richiesta della parte civile (Sez. 2, n. 47723 del 07/11/2014, Richard, Rv. 260833).

Secondo un diverso orientamento, la provvisionale può essere concessa anche in assenza di apposita richiesta della parte civile ma, qualora essa venga assegnata dal giudice di appello, tale possibilità è condizionata dal fatto che la relativa questione non sia stata prospettata al primo giudice e non abbia formato oggetto di pronuncia esplicita o implicita (Sez. 5, n. 36062 del 19/06/2007, Pellegrinetti, Rv. 237722; Sez. 6, n. 8480 del 21/06/2000, De Gennaro, Rv. 216646; Sez. 1, n. 14583 del 04/11/1999, Cre-paldi, Rv. 216128).

3.3. In relazione alla seconda questione sopra indicata, si registra un indirizzo che nega la possibilità, per il giudice di secondo grado, di modificare la somma già liquidata in primo grado a titolo di provvi-sionale, in favore della parte civile non impugnante: il giudice di appello non può – in assenza di im-pugnazione del pubblico ministero e della parte civile e di richiesta di quest’ultima nel corso del giudi-zio – aumentare l’importo della somma, a titolo di provvisionale, disposta con la condanna in primo grado (Sez. 2, n. 42822 del 17/09/2015, Portolesi, Rv. 265206; Sez. 1, n. 50709 del 30/10/2014, Birri, Rv. 261757; Sez. 4, n. 42134 del 01/10/2008, Federico, Rv. 242185). Si osserva che la decisione con cui il giu-dice d’appello aggravi l’esposizione risarcitoria dell’imputato, in favore della parte civile non impu-gnante, risulta distonica sia con il divieto di reformatio in peius, sia con il principio devolutivo, in base al quale l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti, sia, infine, con i principi basilari del processo civile, che continuano a presidiare l’azione del danneggiato volta a ottenere il risarcimento del danno, anche se esercitata nel processo penale.

Le questioni ora richiamate rilevano anche in riferimento al quesito rimesso all’attenzione delle Se-zioni Unite, giacché la soluzione interpretativa da prescegliere dipende dall’analisi dei temi relativi all’ambito funzionale del principio devolutivo e del divieto di reformatio in peius, sui quali si è svilup-pato il contrasto di cui si è ora dato conto. Ed invero, le diverse opzioni sopra richiamate costituiscono, a loro volta, il precipitato di difformi valutazioni che involgono la ricognizione della portata del princi-pio devolutivo ex art. 597 c.p.p., comma 1, specificamente riferito al contenuto della domanda risarcito-ria esercitata in sede penale, il rispetto del canone civilistico della corrispondenza tra chiesto e pronun-ciato e il perimetro del divieto di reformatio in peius, sancito dall’art. 597 c.p.p., comma 3.

4. Occorre premettere che, nella situazione processuale di interesse, la parte civile non ha proposto alcuna richiesta di provvisionale nel corso del giudizio di primo grado e la sentenza del primo giudice, che contiene una condanna generica al risarcimento del danno, non si sofferma altrimenti sul tema del-la provvisionale.

Il dato è di certo rilievo poiché, nella diversa ipotesi in cui la richiesta, avanzata dalla parte civile, sia stata respinta dal primo giudice, va ribadito che in sede di appello non è consentita la condanna al pa-gamento di una provvisionale, in favore della parte civile che non ha proposto impugnazione. In tal ca-so, infatti, la statuizione di rigetto della richiesta di provvisionale, avanzata dalla parte civile nel corso del giudizio di primo grado, costituisce un punto della sentenza; e l’applicazione del principio devolu-tivo impedisce di attribuire al giudice di secondo grado la cognizione del punto della sentenza relativo all’intervenuto rigetto della richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale, in mancanza di impugnazione della parte civile.

Considerazioni del medesimo tenore si impongono nel caso di omessa pronuncia da parte del giudi-ce di primo grado, a fronte di espressa richiesta di provvisionale formulata dalla parte civile.

Trattasi di valutazioni che si collocano nell’alveo del consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, Rv. 216239), in base al quale la mancata impugna-zione di determinati punti della decisione – nozione che abbraccia tutti i presupposti della pronuncia finale tra i quali, nel caso di condanna, rientrano, ai sensi dell’art. 538 c.p.p., le statuizioni sulle conse-guenze civili del reato – determina il verificarsi di una preclusione, dipendente dall’effetto devolutivo del gravame e dal principio di disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni. Ai punti della

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decisione, infatti, fa espresso riferimento l’art. 597 c.p.p., comma 1, nel porre in correlazione i motivi di impugnazione e l’ambito della cognizione del giudice di appello.

Di talché, quando la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale in favore della parte civile è stata rigettata dal giudice di primo grado ovvero sulla stessa non si è provveduto, il giudice di secondo grado non può pronunciare la condanna al pagamento della provvisionale in mancanza di ap-pello sul punto della parte civile.

5. Occorre ora procedere all’esame della ulteriore questione relativa alla concedibilità d’ufficio della provvisionale.

Stabilisce l’art. 539 c.p.p., comma 2, che “A richiesta della parte civile, l’imputato e il responsabile ci-vile sono condannati al pagamento di una provvisionale nei limiti del danno per cui si ritiene già rag-giunta la prova”.

Il dato letterale della disposizione esclude che il giudice possa condannare l’imputato al pagamento di una provvisionale in assenza di richiesta della parte civile.

La giurisprudenza di legittimità, nella sua massima espressione, ha recentemente ribadito che l’interpretazione letterale della legge costituisce il canone ermeneutico prioritario per l’interprete; con la precisazione che l’ulteriore canone, dato dalla interpretazione logica e sistematica, non consente di tra-valicare il significato letterale della disposizione da interpretare, quando essa sia chiara e precisa (Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru). Orbene, atteso che nel disposto di cui all’art. 539 c.p.p., comma 2, risulta chiaramente indicato che la condanna al pagamento di una provvisionale può essere pronuncia-ta “a richiesta della parte civile”, va rimarcato che la vigente legge processuale non prevede, al riguar-do, poteri esercitabili ex officio. Merita, quindi, condivisione l’indirizzo interpretativo in base al quale il giudice che dispone la provvisionale, in assenza della detta richiesta, opera esorbitando dai compiti as-segnatigli dalle disposizioni codicistiche e si pronuncia ultra petita (Sez. 5, n. 9779, del 15/02/2006, Du-rante, cit.). Del tutto correttamente, tra le argomentazioni poste a fondamento del predetto indirizzo, si è osservato altresì che la previsione della richiesta di parte, dettata dall’art. 539 c.p.p., comma 2, costi-tuisce una innovazione, rispetto alla disciplina contenuta nel codice Rocco del 1930 (art. 489 c.p.p. 1930), ove l’istanza di parte era prevista soltanto per ottenere la provvisoria esecuzione del capo della senten-za che avesse assegnato la provvisionale (art. 489 bis). Nel vigente assetto codicistico, di converso, l’immediata esecutività della provvisionale è prevista ex lege (art. 540 c.p.p., comma 2).

Deve dunque osservarsi: che nessuna influenza può essere assegnata, ai fini di interesse, all’inse-gnamento della giurisprudenza formatasi in relazione al previgente assetto normativo; e che corretta-mente la possibilità di pronunciare condanna al pagamento di una provvisionale, in assenza di richiesta della parte civile, è stata esclusa anche per il giudice di appello (Sez. 2, n. 47723 del 07/11/2014, Ri-chard, cit.), posto che l’art. 598 c.p.p., stabilisce che in grado di appello si osservano, in quanto applica-bili, le disposizioni relative al giudizio di primo grado, tra le quali è ricompresa la disciplina dell’art. 539 c.p.p..

In conclusione, la condanna al pagamento di una provvisionale può essere pronunciata, ai sensi dell’art. 539 c.p.p., comma 2, soltanto a fronte di richiesta proposta dalla parte civile, posto che la vigen-te legge processuale non prevede, al riguardo, poteri esercitabili ex officio.

6. A questo punto giova richiamare la scena processuale, che si è sopra delineata, poiché è dalla spe-cifica configurazione della stessa che emergono i temi di diritto sottoposti a scrutinio: la sentenza di primo grado contiene una condanna generica al risarcimento del danno; la parte civile non ha chiesto in primo grado la condanna ad una provvisionale; avverso tale decisione ha proposto appello unicamente l’imputato, contestando l’affermazione di responsabilità; in sede di conclusioni del giudizio di appello la parte civile, per la prima volta, ha avanzato richiesta di condanna ad una provvisionale in ragione delle sopravvenute difficoltà economiche della persona offesa. E, poiché la sentenza di condanna, og-getto di impugnazione del solo imputato, non contiene alcun punto dedicato alla provvisionale, il fatto che la parte civile non abbia impugnato la sentenza porta ad escludere il verificarsi di un effetto preclu-sivo, nei confronti della medesima parte civile, rispetto alla possibilità di proporre, per la prima volta in appello, la richiesta di provvisionale, in riferimento al disposto di cui all’art. 597 c.p.p., comma 1. Ciò in quanto il principio devolutivo delimita l’ambito della cognizione del giudice di appello, proprio sulla base della correlazione tra i punti contenuti nella decisione ed i relativi motivi di impugnazione.

6.1. Nell’approfondire il tema, occorre soffermarsi sulla statuizione contenuta nella sentenza di pri-mo grado, riguardante la condanna generica al risarcimento dei danni ex art. 539 c.p.p., comma 1.

La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che la condanna generica al risarcimen-

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | CONSENTITA IN APPELLO LA PROVVISIONALE ALLA PARTE CIVILE NON IMPUGNANTE

to dei danni pronunciata in sede penale postula unicamente l’accertamento della potenziale capacità le-siva del fatto dannoso (Sez. 5, n. 45118 del 23/04/2013, Di Fatta, Rv. 257551; Sez. 6, n. 14377 del 26/02/2009, Giorgio, Rv. 243310; Sez. 5. n. 2435 del 19/01/1993, Bonaga, Rv. 193807).

Si è sottolineato: che secondo l’art. 539 c.p.p., comma 1, nel caso di condanna dell’imputato ed af-fermazione della responsabilità agli effetti civili, il giudice, qualora le prove acquisite non consentono la liquidazione del danno, si limita ad una condanna generica, rimettendo le parti davanti al giudice civi-le; che la condanna generica al risarcimento dei danni, contenuta nella sentenza penale, pur presuppo-nendo che il giudice abbia riconosciuto il relativo diritto in capo alla costituita parte civile, non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando sol-tanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto generatore del danno e dell’esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato; che resta impregiudicato l’accertamento della entità del danno, riservato al giudice della liquidazione.

6.2. Va ora verificato se la richiesta di provvisionale possa qualificarsi come domanda nuova rispetto al contenuto della domanda risarcitoria proposta dalla parte civile, sulla quale si è pronunciato il giudi-ce di primo grado con la condanna generica al risarcimento dei danni ex art. 539 c.p.p., comma 1.

La questione impone di richiamare i principi che presiedono all’esercizio dell’azione civile nella sede propria del giudizio civile, con specifico riguardo alle modalità di individuazione della domanda nuo-va ed al rapporto intercorrente tra condanna generica e condanna al pagamento di una provvisionale.

Sotto il primo profilo, la Corte di legittimità ha da tempo evidenziato che si ha domanda nuova sol-tanto se si amplia il petitum o si introduce nel giudizio una pretesa avente presupposti distinti da quelli di fatto della domanda originaria (Sez. U civ., n. 592 del 07/04/1965, Rv. 311098). In applicazione di tale principio, si è espressamente affermato che la richiesta di provvisionale non costituisce una nuova do-manda, in quanto rientrante nell’ambito della originaria domanda di condanna (Sez. 3 civ., n. 1798 del 06/10/1970, Rv. 347770).

Rispetto alla specifica valenza che il citato arresto giurisprudenziale assume nell’ambito del ragio-namento che si viene sviluppando, osserva il Collegio che meritano piena condivisione i rilievi svolti dalla Terza Sezione penale (Sez. 3, n. 42684 del 07/05/2015, Pizzo, cit.), laddove si è osservato che il ci-tato precedente, in cui si esclude la natura di domanda nuova alla richiesta di provvisionale, assume specifica valenza, posto che è stato reso prima che il legislatore attribuisse alle sentenze di condanna in sede civile efficacia provvisoriamente esecutiva.

La formulazione della richiesta di provvisionale, per la prima volta in appello, per quanto detto, non determina alcuna violazione del canone di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, di cui all’art. 112 c.p.c.

6.3. Con riferimento alla valenza da assegnare ai principi civilistici, ove l’azione risarcitoria sia eser-citata nell’ambito del giudizio penale, la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente rilevato (tra le altre, sentenze n. 353 del 1994 e n. 12 del 2016) che l’inserimento dell’azione civile nel processo penale pone in essere una situazione in linea di principio differente rispetto a quella determinata dall’esercizio dell’azione civile in sede propria, con specifico riferimento all’azione di restituzione o di risarcimento dei danni derivanti da reato; e ciò in quanto tale azione assume carattere accessorio e subordinato ri-spetto all’azione penale, sicché è destinata a subire tutte le conseguenze e gli adattamenti derivanti dal-la struttura e dalla funzione del processo penale, cioè dalle esigenze, di interesse pubblico, connesse all’accertamento dei reati e alla rapida definizione dei processi. Si tratta di valutazioni condivise dalla Corte di cassazione penale, nel suo massimo consesso (da ultimo, Sez. U, n. 46688 del 29/09/2016, Schirru, cit.).

Occorre, peraltro, considerare che la Corte costituzionale, nell’esaminare la disciplina inerente ai ri-medi inibitori esperibili avverso la condanna al pagamento della provvisionale, dettati dall’art. 600 c.p.p., comma 3, ha osservato che è “evidente come nessuno di tali profili venga in rilievo nel caso in esame, che concerne un particolare aspetto del regime di esecutività delle disposizioni civili della sen-tenza penale di primo grado”; ed ha, anzi, assunto come tertium comparationis la disposizione di cui all’art. 283 c.p.c., giungendo a rilevare che la diversità di disciplina cui è assoggettata, sotto tale aspetto, l’azione civile di restituzione o di risarcimento del danno derivante da reato, a seconda che l’azione medesima sia esercitata in sede propria o nell’ambito del processo penale, integra la violazione del principio di eguaglianza (Corte cost., sent. n. 353 del 1994, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 600 c.p.p., comma 3, nella parte in cui prevede che il giudice di appello può disporre la sospen-sione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale “quando possa derivarne grave

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e irreparabile danno”, anziché “quando ricorrono gravi motivi”, in aderenza a quanto stabilito dall’art. 283 c.p.c.).

Osservano le Sezioni Unite che, al fine di delineare il rapporto intercorrente tra condanna generica e provvisionale, si deve riconoscere piena operatività ai principi elaborati dalla giurisprudenza civile so-pra richiamati, posto che, anche in riferimento al rapporto funzionale intercorrente tra condanna gene-rica e provvisionale, valgono i rilievi svolti dalla giurisprudenza costituzionale, conducenti ad esclude-re la sussistenza di limitazioni discendenti dall’inserimento dell’azione civile nel processo penale. Con-seguentemente, deve ritenersi che la richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale non co-stituisce una nuova domanda, rispetto a quella originaria, in funzione risarcitoria, spiegata dalla parte civile nel processo penale.

Tale approdo si colloca nell’alveo del prevalente insegnamento espresso dalla giurisprudenza di le-gittimità, in riferimento all’istituto della provvisionale, come delineato dall’art. 539 c.p.p., comma 2, in base al quale l’assegnazione di una provvisionale in sede penale ha carattere meramente delibativo e non acquista efficacia di giudicato in sede civile; con la precisazione che la determinazione dell’ammon-tare della stessa è rimessa alla discrezionalità del giudice del merito che non è tenuto a dare una moti-vazione specifica sul punto (Sez. 2, n. 49016 del 06/11/2014, Petricola, Rv. 261054; Sez. 6, n. 50746 del 14/10/2014, P.C., Rv. 261536; Sez. 4, n. 34791 del 23/06/2010, Mazzamurro, Rv. 248348). La natura provvisoria della liquidazione contenuta nella condanna al pagamento di una provvisionale, insuscetti-bile di passare in giudicato e destinata ad essere travolta in sede di effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento, ha condotto la giurisprudenza a rilevare che il relativo provvedimento non è autonoma-mente ricorribile per cassazione (Sez. U, n. 2246 dl 19/12/1990, dep. 1991, Capelli, Rv. 186722; Sez. 3, n. 18663 del 27/01/2015, D.G., Rv. 263486).

6.4. Osserva ancora il Collegio che la condanna al pagamento di una provvisionale, nei limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova, tenuto conto della natura accessoria della richiesta di cui all’art. 539 c.p.p., comma 2, rispetto alla condanna generica pronunciata ai sensi del comma 1, dell’ar-ticolo ora citato e del carattere incidentale dello strumento, non può essere qualificata come statuizione parziale, definitiva in parte qua. Anzi, la precipua funzione anticipatoria della provvisionale, rispetto alla successiva liquidazione integrale del danno, consente di rilevare che la stessa soggiace alla clausola rebus sic stantibus, in relazione alla dimensione dinamica che deve annettersi alla locuzione normativa, che fa riferimento ai “limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova”. La provvisionale è onto-logicamente funzionale a soddisfare le esigenze di anticipazione della liquidazione del danno, in favore della parte civile, insorte per effetto della durata del processo. Rispetto al delineato ambito funzionale dell’istituto resta estranea la diversa questione, data dalla dispersione delle garanzie delle obbligazioni civili derivanti dal reato, fronteggiabile con lo strumento del sequestro conservativo ex art. 316 c.p.p., comma 2. È, pertanto, l’aggravamento delle condizioni del creditore danneggiato che legittima la parte civile ad avanzare, per la prima volta, nei confronti dell’imputato debitore, la richiesta di provvisionale nel giudizio di appello, avvalendosi dell’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto genera-tore del danno contenuto nella condanna generica pronunciata dal primo giudice; ciò in quanto la clau-sola rebus sic stantibus è permeabile rispetto al verificarsi di fatti nuovi, insorti nella sfera del danneg-giato, in grado di incidere sulla futura liquidazione definitiva del danno.

7. La statuizione resa dal giudice di secondo grado, con la quale venga modificata la somma già li-quidata a titolo di provvisionale, in favore della parte civile non impugnante, non si pone, pertanto, in contrasto con i principi civilistici che presiedono all’esercizio dell’azione civile nel processo penale; mentre, per l’esame del rapporto intercorrente tra tale statuizione ed il divieto peggiorativo si rimanda alle considerazioni che verranno di seguito svolte sul divieto di reformatio in peius.

D’altra parte, la richiesta di modifica della somma liquidata a titolo di provvisionale, rivolta al giu-dice di secondo grado dalla parte civile non appellante, non determina alcuna lesione del diritto di in-terlocuzione dell’imputato. Giova richiamare il principio di immanenza della parte civile, come elabo-rato dal diritto vivente. La giurisprudenza di legittimità ha delineato i rapporti tra azione penale e azione civile nei gradi di impugnazione, sottolineando lo stretto collegamento che sussiste tra le due azioni (Sez. U, n. 30327 del 10/07/2002, Guadalupi, Rv. 222001, ove si è chiarito che il giudice di secon-do grado, che su impugnazione del solo pubblico ministero condanni l’imputato assolto in primo gra-do, deve decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno anche se la parte civile non ha proposto impugnazione). Il percorso argomentativo muove dall’analisi delle seguenti disposi-zioni: l’art. 76 c.p.p., comma 2, ove è stabilito che gli effetti della intervenuta costituzione si producono

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in ogni stato e grado del processo; l’art. 601, comma 4, in base al quale la parte civile deve essere citata anche nel giudizio impugnatorio promosso dal solo imputato; e l’art. 574, comma 4, ove è stabilito che “L’impugnazione dell’imputato contro la pronuncia di condanna penale o di assoluzione estende i suoi effetti alla pronuncia di condanna alle restituzioni, al risarcimento dei danni e alla rifusione delle spese processuali, se questa pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato”. Le Sezioni Unite, nella sen-tenza da ultimo ricordata, hanno evidenziato che l’art. 574, comma 4, estende al capo civile gli effetti dell’impugnazione proposta dall’imputato nei confronti della decisione di condanna; ed hanno affer-mato che la decisione nel giudizio di impugnazione sulla responsabilità penale si riflette sulla decisione relativa alla responsabilità civile “automaticamente”, vale a dire anche in mancanza di impugnazione del capo concernente l’azione civile.

Il principio di immanenza della parte civile, come ora delineato, induce a rilevare che l’impugna-zione proposta dall’imputato, sul punto della responsabilità penale, devolve al giudice di appello anche la cognizione sulla domanda risarcitoria per i danni da reato, resa ai sensi dell’art. 538 c.p.p.; e che la proposizione della richiesta di modifica della somma oggetto della condanna al pagamento della prov-visionale pronunciata dal primo giudice, avanzata nel giudizio di secondo grado dalla parte civile non appellante, avviene nel pieno rispetto del principio del contraddittorio. In riferimento all’ambito fun-zionale della richiesta di modifica della somma liquidata a titolo di provvisionale, è appena il caso di ribadire che la parte civile sottostà al regime di preclusioni proprio della clausola rebus sic stantibus, stante la natura strumentale ed anticipatoria dell’istituto, rispetto alla seguente definitiva liquidazione del danno. Sicché il giudice di appello, sussistendone i presupposti, può aumentare l’importo della provvisionale già liquidata in primo grado, in favore della parte civile non impugnante, stante la natura strumentale ed anticipatoria della condanna al pagamento di una provvisionale.

8. Occorre ora soffermarsi sul contenuto del principio devolutivo e sull’ambito funzionale del divie-to di reformatio in peius, al fine di verificare se la parte civile non impugnante possa chiedere per la prima volta in appello la condanna al pagamento di una provvisionale, a fronte di una condanna gene-rica al risarcimento del danno pronunciata dal primo giudice.

8.1. La statuizione contenuta nella sentenza di primo grado, relativa alla condanna generica ex art. 539 c.p.p., comma 1, riconoscendo il diritto della parte civile al risarcimento dei danni da reato, pur in assenza di un compiuto accertamento della entità degli stessi, comprende anche il diritto del danneg-giato ad ottenere la condanna al pagamento di una provvisionale, in funzione anticipatoria rispetto alla definitiva liquidazione, nei ristretti limiti del danno per cui si ritiene già raggiunta la prova. Deve allora osservarsi che, nel caso in cui la sentenza di primo grado contenga una espressa statuizione di accogli-mento della domanda risarcitoria e sia priva di un punto specificamente dedicato alla provvisionale, in difetto della relativa richiesta, sfugge la stessa configurabilità dell’effetto preclusivo delineato dall’art. 597 c.p.p., comma 1, nei confronti della parte civile non impugnante, rispetto alla possibilità di formula-re, nel giudizio di secondo grado, la richiesta di provvisionale. La parte danneggiata, infatti, è risultata vittoriosa sul punto della decisione comprendente l’an della domanda risarcitoria; e la richiesta di provvisionale, per il suo carattere accessorio ed anticipatorio, non può qualificarsi come domanda nuo-va, rispetto a quella originaria, che ha trovato accoglimento con la condanna generica al risarcimento dei danno. Chiude il ragionamento il rilievo per cui l’estensione delle norme sul giudizio di primo gra-do al giudizio di appello, stabilita dall’art. 598 c.p.p., consente alla corte di appello di procedere legitti-mamente allo scrutinio della richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale, che venga pro-posta nel relativo giudizio di secondo grado.

Pertanto, la sentenza di appello, con la quale l’imputato viene condannato al pagamento di una provvisionale, a fronte di richiesta proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non impugnante, non si pone in contrasto con il principio devolutivo.

8.2. Resta da verificare se tale pronuncia determini la violazione del divieto di reformatio in peius. Al riguardo si registra un indirizzo giurisprudenziale in base al quale l’elemento di novità della do-

manda esclude, di per sé, la violazione del divieto peggiorativo, atteso che il divieto di reformatio in peius postula che la domanda di provvisionale sia stata proposta e respinta nel primo giudizio e che, appellante il solo imputato, la parte civile reiteri la richiesta (Sez. 1, n. 17240 del 02/02/2011, Consolo, Rv. 249961; Sez. 1, n. 13545 del 04/02/2009, Bestetti, Rv. 243132).

Tale teorica impone un chiarimento di ordine dogmatico. Osservano le Sezioni Unite che, in caso di rigetto della richiesta di provvisionale, la sentenza di pri-

mo grado contiene un punto, dedicato alla richiesta che occupa; di talché è l’applicazione del principio

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 467

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devolutivo, di cui all’art. 597 c.p.p., comma 1, e non già il divieto peggiorativo, che impedisce di attri-buire al giudice di secondo grado la cognizione del punto della sentenza relativo all’intervenuto rigetto della richiesta di condanna al pagamento di una provvisionale, in mancanza di impugnazione della parte civile.

Inoltre, rispetto al contenuto del divieto di reformatio in peius, secondo l’indirizzo prevalente nella giurisprudenza di legittimità deve escludersi che la disposizione dettata dall’art. 597 c.p.p., comma 3, abbia portata tale da estendersi alle statuizioni civili, trattandosi di norma che, ponendo un limite alla pretesa punitiva dello Stato, non si applica all’istanza risarcitoria oggetto dell’azione civile (Sez. 3, n. 35570 del 09/03/2016, Ardita, non mass.; Sez. 5., n. 25520 del 18/05/2015, Vincenti Mattioli, Rv. 265147; Sez. 3, n. 42684 del 07/05/2015, Pizzo, Rv. 265198; Sez. 1, n. 17240 del 02/02/2011, Consolo, Rv. 249961; Sez. 6, n. 38976 del 23/09/2009, Ricciotti, Rv. 244558; Sez. 4, n. 3171 del 11/01/1990, Roncalli, Rv. 183572).

Secondo altro indirizzo, invece, il divieto di reformatio in peius si riferisce pure alle statuizioni civili adottate nel precedente grado di giudizio (Sez. 1, n. 2658 del 17/11/2010, Covelli, Rv. 249547; Sez. 1. n. 13545 del 04/02/2009, Capozzi, Rv. 243132; Sez. 4, n. 42134 del 01/10/2008, Federico, Rv. 242185; Sez. 5, n. 36062 del 19/06/2007, Pellegrinetti, cit.).

8.3. Le Sezioni Unite ritengono che meriti condivisione il primo orientamento. Militano in tal senso i seguenti rilievi, di ordine sistematico.

Le considerazioni svolte, in ordine alla portata del principio devolutivo, conducono a rilevare che la proposizione dell’appello, da parte dell’imputato, avverso la statuizione di primo grado affermativa della responsabilità penale, devolve al giudice del gravame di merito la piena cognizione su tutti i pre-supposti della relativa pronuncia. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il capo della sentenza si qualifica come “atto giuridico completo”, in cui si concretizza il contenuto decisorio della sentenza e che il concetto di punto della decisione ha una portata più ristretta, in quanto riguarda tutte le statui-zioni suscettibili di autonoma considerazione, necessarie per ottenere una decisione completa su un ca-po (Sez. U, n. 1 del 19/01/2000, Tuzzolino, cit.). Pertanto, l’impugnazione proposta dall’imputato, av-verso il punto della condanna penale, devolve al giudice di appello la cognizione sull’accertamento del-la responsabilità; e, nell’ambito di tale scrutinio, il giudice di secondo grado procede all’esame degli elementi costitutivi della fattispecie di reato. Dall’applicazione del principio devolutivo consegue che il giudice di appello, a fronte di impugnazione dell’imputato sul punto della responsabilità, ben potrebbe effettuare valutazioni involgenti la gravità del reato, tali da sortire ricadute anche rispetto all’apprezza-mento della conferenza del trattamento sanzionatorio inflitto dal primo giudice.

Il divieto di reformatio in peius risponde ad una specifica funzione limitativa, ab extrinseco, del de-lineato ambito di cognizione del giudice di appello, secondo scelte valoriali adottate dal legislatore.

In termini convergenti, la dottrina ha evidenziato che il divieto peggiorativo si risolve in una regola decisoria, che non consente al giudice dell’impugnazione di infliggere una pena più grave di quella già irrogata; e ciò allo specifico fine di liberare l’imputato dai rischi dell’effetto devolutivo, come discen-dente dalla proposizione dell’atto di appello avverso il punto della responsabilità penale. Con la preci-sazione che l’appello incidentale del pubblico ministero, determinando gli effetti di cui all’art. 597 c.p.p., comma 2, vale a vanificare la portata sostanziale del divieto.

Nel vigente codice di rito, la regola del divieto peggiorativo è dettata dall’art. 597 c.p.p., comma 3, ove è stabilito che “Quando è appellante il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più gra-ve per specie o quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l’imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata né revocare benefici, salva la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado”. Tale regola risulta integrata e rafforza-ta dalla innovativa diposizione, rispetto al codice del 1930, dettata dall’art. 597 c.p.p., comma 4, con la quale si impone al giudice di secondo grado di diminuire corrispondentemente la pena complessiva in-flitta, in caso di accoglimento dell’appello dell’imputato in ordine “a circostanze o a reati concorrenti, anche se unificati dal vincolo della continuazione”. La previsione ora citata garantisce la positiva rica-duta sostanziale, sull’entità del trattamento sanzionatorio, delle valutazioni afferenti ai richiamati punti della decisione.

La giurisprudenza di legittimità, nella sua massima espressione, nel soffermarsi sulla specifica que-stione relativa all’operatività del divieto peggiorativo nel giudizio di rinvio (Sez. U, n. 16208 del 27/03/2014, C., Rv. 258652), ha evidenziato che il divieto di reformatio in peius, già previsto nel codice

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del 1865 (art. 419, comma 3), come pure nel codice Finocchiaro Aprile del 1913 (art. 480, comma 2) ed in quello del 1930 (art. 515, comma 3), si sostanziava nel divieto di aggravamento della decisione appellata dal solo imputato, sulla base di una scelta effettuata dal legislatore.

Dalle indicazioni ora richiamate emergono elementi di sicuro rilievo, anche al fine di risolvere il quesito che occupa. Invero, le ricordate opere di codificazione evidenziano un preciso tratto comune, che caratterizza il divieto di reformatio in peius, nel senso che il divieto peggiorativo, imposto al giudi-ce di appello per il caso di impugnazione proposta dal solo imputato, involge unicamente le statuizioni penali della sentenza.

L’analisi della regola che pone il divieto di reformatio in peius induce a rilevare che la stessa rispon-de ad una sedimentata tradizione codicistica, in forza della quale il giudice di appello, in caso di impu-gnazione del solo imputato, non può aggravare la pena originariamente inflitta.

Del resto, soffermandosi sul contenuto dell’art. 597 c.p.p., comma 3, deve osservarsi che il codificato-re ha dettato prescrizioni volte ad impedire, per il caso di appello del solo imputato, che la sentenza di secondo grado contenga statuizioni che aggravano il trattamento sanzionatorio, anche rispetto ai già concessi benefici o che venga adottata una formula di proscioglimento meno favorevole. Come si vede, nell’ambito del divieto peggiorativo, normativamente definito, si rinvengono diverse ipotesi di pro-nunce a contenuto peggiorativo che involgono, unicamente, le statuizioni penali della decisione.

Pertanto, il divieto di reformatio in peius, come recepito nel vigente codice di rito penale, costituisce un limite legale esterno, imposto al potere cognitivo del giudice di appello, che involge le statuizioni penali della sentenza, sulla base di specifiche scelte compiute dal legislatore, la cui portata non può es-sere estesa, in via interpretativa, ad ipotesi diverse da quelle disciplinate. Conseguentemente, il potere decisorio del giudice di appello, rispetto alle statuizioni civili, non risulta attinto da tale regola limitati-va; di talché il divieto di reformatio in peius non viene in rilievo nell’ambito delle valutazioni condu-centi alla modifica della somma liquidata a titolo di provvisionale dal primo giudice e neppure rispetto alla richiesta di provvisionale, formulata per la prima volta dalla parte civile non appellante, nel giudi-zio di secondo grado.

8.4. Ciò premesso, la risposta allo specifico quesito sottoposto ad esame è la seguente: “Non viola il principio devolutivo né il divieto di reformatio in peius la sentenza di appello che ac-

colga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante”.

9. A completamento dell’analisi, è il caso di svolgere alcune considerazioni afferenti agli strumenti di tutela inibitoria a favore del responsabile civile e dell’imputato, rispetto alla esecuzione delle statui-zioni civili.

9.1. La disciplina dei provvedimenti adottabili dal giudice di appello, in ordine all’esecuzione delle condanne civili, è data dall’art. 600 c.p.p..

La condanna al pagamento di una provvisionale pronunciata dal giudice di primo grado è assistita dalla clausola di immediata esecutività per espressa previsione di legge (art. 540 c.p.p., comma 2). L’art. 600 c.p.p., comma 3, prevede che il responsabile civile e l’imputato possono chiedere al giudice di ap-pello che sia sospesa l’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale, quando ricorrono gravi motivi, secondo la formulazione della norma conseguente all’intervento dalla Corte costituzionale (Corte cost., sent. n. 353 del 1994, cit.).

9.2. Occorre verificare quale sia lo strumento di tutela inibitoria esperibile da parte del responsabile civile e dell’imputato, nel caso in cui la condanna al pagamento di una provvisionale sia stata pronun-ciata dal giudice di appello, su richiesta proposta per la prima volta dalla parte civile in quel giudizio, ipotesi che rientra nell’oggetto del presente scrutinio.

Secondo la giurisprudenza di legittimità il provvedimento con il quale viene condannato l’imputato al pagamento di una provvisionale non è autonomamente ricorribile per cassazione. Al riguardo, si re-gistrano decisioni ove si è chiarito che la condanna al pagamento di una provvisionale non è ricorribile per cassazione, ove la doglianza involga il quantum debeatur; e che tale limitazione non deve ritenersi operativa in presenza di censure che involgono la sussistenza del diritto alla provvisionale (Sez. 5, n. 9779, del 15/02/2006, Durante, non mass. sul punto).

Osservano le Sezioni Unite che anche nel caso in cui la condanna al pagamento di una provvisionale sia stata pronunciata dal giudice di appello, in sede di ricorso per cassazione avverso la statuizione di responsabilità, l’imputato può legittimamente proporre la richiesta di sospensione dell’esecuzione della condanna al pagamento della provvisionale, ai sensi dell’art. 612 c.p.p.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 469

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Tale approdo risulta conferente con la natura accessoria della richiesta di provvisionale di cui all’art. 539 c.p.p., comma 2, rispetto alla condanna generica; e trova conforto nell’insegnamento giurispruden-ziale che, analizzando l’ambito funzionale della tutela inibitoria di cui all’art. 612 c.p.p., ha chiarito che la richiesta di sospensione può avere ad oggetto esclusivamente decisioni dotate di efficacia esecutiva (Sez. 6, n. 40543 del 27/10/2010, Scaduto, Rv. 248749). Come sopra evidenziato, la condanna al paga-mento della provvisionale è immediatamente esecutiva per espressa previsione legislativa, ai sensi del-l’art. 540 c.p., comma 2.

Ne consegue che la sospensione dell’esecuzione della condanna civile prevista dall’art. 612 c.p.p., ri-guarda anche l’istituto della provvisionale.

10. Quanto agli aspetti procedurali inerenti alla richiesta di sospensione dell’esecuzione della con-danna civile, l’art. 612 c.p.p., stabilisce che “La decisione sulla richiesta di sospensione della condanna civile è adottata dalla Corte di cassazione con ordinanza in camera di consiglio”. Il riferimento alla pro-cedura in camera di consiglio, in difetto di specifiche indicazioni offerte dal legislatore, impone di veri-ficare se, nel caso, debba essere adottata la procedura di cui all’art. 127 c.p.p., quella non partecipata di cui all’art. 611 c.p.p., ovvero quella senza avvisi, così detta de plano.

Va esclusa innanzitutto l’operatività del rito camerale ex art. 127 c.p.p., che trova applicazione nei soli casi espressamente stabiliti dalla legge.

Ritengono le Sezioni Unite che la procedura da adottare, per assumere la decisione sulla richiesta di sospensione ex art. 612 cod. proc. pen., sia quella de plano, senza l’introduzione di un contraddittorio preventivo.

Sul piano formale, la lettera dell’art. 612 c.p.p., non contiene alcun espresso riferimento al procedi-mento regolato dall’art. 611; di talché il dettato normativo non è di ostacolo alla celebrazione del rito camerale senza avvisi alle parti, per la decisione dell’istanza di sospensione della condanna civile. E detta procedura pare anzi da privilegiare, poiché l’istanza di sospensione dell’esecuzione della condan-na civile è volta all’ottenimento di un provvedimento interinale, che paralizzi l’esecuzione della con-danna: provvedimento che ha ontologicamente natura cautelare e carattere di assoluta urgenza.

La procedura de plano, che non prevede alcuna rigida scansione temporale per l’effettuazione degli avvisi, ovvero per il deposito di atti o memorie da parte dei soggetti del giudizio, risponde, anche sul piano funzionale, alla natura cautelare ed interinale della decisione sulla richiesta di sospensione della condanna civile.

11. I rilievi sopra svolti conducono ad apprezzare l’infondatezza del terzo motivo di ricorso. La condanna al pagamento di una provvisionale, pronunciata dalla Corte di appello, in accoglimen-

to della richiesta proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non impugnante, non collide con il principio devolutivo e neppure con il divieto di reformatio in peius. La Corte territoriale ha chiarito che la richiesta di provvisionale, mai svolta in precedenza dalla parte civile, discendeva dal-le sopravvenute e gravi difficoltà economiche incontrate dalla persona offesa. La richiesta di provvisio-nale supera dunque le preclusioni discendenti dalla clausola rebus sic stantibus, giacché la proposizio-ne della richiesta, per la prima volta nel giudizio di appello, discendeva da sopravvenute difficoltà eco-nomiche incontrate dalla vittima del reato.

12. Procedendo infine all’esame congiunto delle questioni affidate dal ricorrente al primo ed al se-condo motivo di ricorso, merita condivisione la valutazione espressa dalla Sezione rimettente, in sede di mera delibazione, rispetto all’inammissibilità dei richiamati motivi, in quanto volti ad ottenere, in sede di legittimità, un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate dalla Corte di appello.

Per un verso, si propone una considerazione alternativa del compendio probatorio, con riguardo alla valutazione di attendibilità della narrazione della vittima del reato, effettuata dai giudici di merito con argomentazioni adeguate, logiche e perciò insindacabili in questa sede.

Medesimo ordine di considerazione deve svolgersi in riferimento alle doglianze avverso il diniego della invocata attenuante ex art. 609 quater c.p., comma 4, fondato sull’insindacabile rilievo circa l’en-tità e gli effetti delle reiterate condotte di abuso poste in essere dal prevenuto in danno della figlia mi-nore.

13. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 470

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROVVISIONALE DISPOSTA IN APPELLO SENZA GRAVAME DELLA PARTE CIVILE

FEDERICA CASASOLE

Avvocato

Provvisionale disposta in appello senza gravame della parte civile A provisional reimbursement may be granted or amended for the first time from the Court of appeal judge without the notice of objection from civil part

La sentenza delle Sezioni Unite interviene a fare chiarezza sul contenuto della domanda risarcitoria e sul rapporto tra questa e il processo penale, ripercorrendo gli orientamenti giurisprudenziali che si sono formati su diversi aspetti problematici e fornendo una risposta condivisibile al quesito formulatole, corrispondente ad una lettura si-stematica delle norme penali e civili, fedele il più possibile alla interpretazione letterale della legge. The “Sezioni Unite” sentence allows to clarify the scope of the compensation request and the relationship among that and the legal prosecution, recalling the jurisprudence guidance on the different issues and giving back a re-sponse to the raised query that can be agreed, corresponding to a systematic interpretation of the criminal and civil law close as much as possible to literal interpretation. IL CASO DI SPECIE

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione sono chiamate a pronunciarsi sul seguente quesito: “se violi il principio devolutivo e il divieto di reformatio in peius la sentenza di appello che accolga la richiesta di una provvisionale proposta per la prima volta in quel giudizio dalla parte civile non appellante”.

La questione era stata rimessa dalla Sezione Terza della Corte, rilevato un contrasto interpretativo sull’argomento 1.

Il caso di specie è il seguente: all’esito del giudizio abbreviato il ricorrente era stato condannato – per i reati di cui agli artt. 81, comma 2, 609-bis e quater c.p., per aver “con più condotte in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e con violenza o minaccia a partire dal compimento del sedicesimo anno di età della vittima, compiuto atti sessuali con la propria figlia” – alle pene di giustizia e al risarcimento del danno nei confronti della parte civile, da quantificare in separata sede. In seguito all’appello propo-sto dall’imputato stesso, il Giudice di secondo grado riduceva la pena principale e concedeva alla vitti-ma una provvisionale di trentamila euro, sulla base della richiesta da questa avanzata per sopravvenute difficoltà economiche 2.

Contro la sentenza veniva proposto ricorso per Cassazione, per quanto di nostro interesse, per la presunta violazione dell’art. 597, comma 1, c.p.p., in relazione al divieto di reformatio in peius, del prin-cipio devolutivo e delle basilari norme che regolano l’esercizio dell’azione risarcitoria, essendo stata concessa la provvisionale per la prima volta in appello, in assenza di impugnazione della parte civile costituita.

1 Cass., sez. III, ord. 27 aprile 2016, n. 29398, in www.dirittopenalecontemporaneo.it. 2 In dottrina sulla provvisionale si v. G. Barrocu, Costituzione di parte civile nei successivi gradi di giudizio, in Dir. pen. proc.,

2008, p. 900; R.E. Kostoris, Brevi cenni in tema di condanna generica e provvisionale sui danni, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 982.; D. Manzione, sub art. 539 c.p.p., in M. Chiavario (coordinato da), Commento al c.p.p., Torino, 1992, p. 562; E. Palmieri, Risarcimento del danno e provvisionale nel giudizio penale, Milano, 1985; R.E. Kostoris, Brevi cenni in tema di condanna generica e provvisionale sui danni, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1994, p. 982.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROVVISIONALE DISPOSTA IN APPELLO SENZA GRAVAME DELLA PARTE CIVILE

La Sezione Terza della Suprema Corte, investita della questione, decideva di sottoporre il quesito al-le Sezioni Unite, evidenziando come vi fosse all’interno della giurisprudenza di legittimità un perdu-rante contrasto: il Collegio, infatti, si era pronunciato più volte con decisioni difformi sulla possibilità di concedere per la prima volta la provvisoria esecutività della condanna al risarcimento del danno subito, o di aumentare il quantum del risarcimento, in mancanza di espressa impugnazione della parte civile.

PROVVISIONALE E COGNIZIONE DEL GIUDICE D’APPELLO

Il quesito sottoposto all’attenzione delle Sezioni Unite concerne il tema della cognizione del Giudice d’Appello, in rapporto all’impugnazione della pronuncia di primo grado e alle decisioni assunte in quel giudizio: può il Giudice d’Appello riconoscere una somma a titolo di provvisionale, per la prima volta, alla parte civile che non ha impugnato la sentenza?

La Corte di Cassazione, prima di addentrarsi nella tematica esposta e al fine di rispondere al quesito formulato nell’ordinanza di rimessione, ritiene di doversi soffermare su due questioni a questa stretta-mente correlate.

La prima riguarda la possibilità per il giudice di primo o secondo grado di concedere la provvisiona-le ex officio, senza alcuna richiesta della parte civile; la seconda concerne la possibilità di modificare la somma liquidata a titolo di provvisionale, in favore della parte civile non impugnante.

Secondo la pronuncia in oggetto, le due problematiche rilevate influiscono sul quesito rimesso alla decisione delle Sezioni Unite, in quanto rappresentano “il precipitato di difformi valutazioni” dei temi che queste sono chiamate a trattare per rispondere al quesito sottopostole: la portata del principio devo-lutivo, ex art. 597 c.p.p.; il rispetto del canone civilistico di corrispondenza tra chiesto e pronunciato; l’ambito di applicazione del divieto di reformatio in peius.

Ciò premesso, la Corte si interroga sulla possibilità per il Giudice di concedere ex officio la provvisio-nale.

Il dettato dell’art. 539, comma 2, c.p.p., subordina espressamente la condanna dell’imputato e del re-sponsabile civile al pagamento di una provvisionale “alla richiesta di parte”.

Ciononostante una corrente giurisprudenziale riconosce la possibilità per il Giudice di assegnare la provvisionale anche senza espressa richiesta della parte civile, a condizione che la relativa questione non sia già stata prospettata al Giudice di primo grado e non sia stata oggetto di pronuncia, esplicita o implicita 3.

Le Sezioni Unite dichiarano di non aderire a tale esegesi, richiamando un proprio recentissimo pre-cedente 4, nel quale l’interpretazione letteraria viene riconosciuta come il canone prioritario da seguire 5: il significato letterale di una norma non può essere travalicato da una interpretazione logica-sistema-tica. Inoltre il Collegio afferma che qualora il giudice disponesse una provvisionale in assenza di speci-fica domanda di parte, si pronuncerebbe ultra petita 6.

Negato il potere d’ufficio del giudice nella concessione della liquidazione anticipata del danno, la Corte si addentra nel caso sottoposto alla propria attenzione, chiedendosi se il Giudice d’Appello abbia cognizione sulla domanda formulata nel processo di secondo grado, per le sopravvenute difficoltà eco-nomiche, dalla parte civile non appellante.

Anzitutto, la Corte precisa come nel caso sottoposto al suo esame la parte civile non abbia formulato la richiesta di una provvisionale nel giudizio di primo grado; e come nella relativa sentenza via sia stata una generica condanna al risarcimento del danno, senza alcun riferimento ad una sua liquidazione an-ticipata.

3 Si vedano Cass., sez. V, 19 giugno 2007, n. 36062, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, p. 1396, con nota di G. Marando, Osserva-zioni in tema di impugnazione della parte civile e limiti cognitivi del giudice di secondo grado; Cass., Sez. VI, 21 giugno 2000, n. 8480, in CED Cass., n. 216646; Cass., Sez. I, 4 novembre 1999, n. 14583, ivi n. 216128.

4 Il riferimento è a Cass., sez. un., 29 settembre 2016, n. 46688, in www.ilquotidianogiuridico.it. 5 La Corte evidenzia altresì come non si possa far riferimento a dei precedenti giurisprudenziali relativi al periodo di vigen-

za del Codice Rocco, perché allora la domanda di parte era richiesta solo per la provvisoria esecuzione del capo della sentenza inerente alla concessione della provvisionale. Provvisoria esecutività che, oggi, è già prevista ex lege.

6 In tal senso Cass., sez. V, 15 febbraio 2006, n. 9779, in CED Cass., n. 234237; Cass., Sez. II, 7 novembre 2014, ivi, n. 47723, 2015, n. 260833.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROVVISIONALE DISPOSTA IN APPELLO SENZA GRAVAME DELLA PARTE CIVILE

Le Sezioni Unite ritengono fondamentale questa premessa, ribadendo che nella diversa ipotesi in cui la richiesta di provvisionale fosse stata respinta – o ignorata – dal primo giudice, sarebbe stato necessa-rio l’appello della parte civile. In una simile situazione, infatti, il rigetto o l’omessa pronuncia dell’istan-za avrebbe rappresentato un punto della sentenza, che poteva essere sottoposto alla cognizione del giudice di secondo grado solo in seguito a espressa impugnazione dell’interessato 7, in virtù del princi-pio devolutivo.

In secondo luogo, il supremo Collegio esclude che la mancata proposizione dell’appello abbia com-portato un effetto preclusivo, dal momento che non era stata formulata alcuna richiesta di liquidazione anticipata nel giudizio di primo grado.

Fatte queste premesse la Sezioni Unite si chiedono se la cognizione del Giudice d’Appello includa la richiesta della provvisionale formulata dalla parte civile non appellante. Per rispondere al quesito que-ste analizzano il rapporto esistente tra la condanna generica e la provvisionale, al fine di accertare se siano o meno ontologicamente distinte. Per quanto concerne la prima la Corte ne evidenzia la generici-tà: con la condanna al risarcimento del danno il giudice si limita ad accertare e riconoscere la “potenzia-lità lesiva del fatto dannoso” 8 e l’esistenza del nesso di causalità tra il fatto e il pregiudizio lamentato, senza compiere l’ulteriore indagine in merito alla concreta esistenza di un danno risarcibile, riservata al giudice della liquidazione.

Riguardo alla condanna al pagamento di una somma a titolo di provvisionale, la pronuncia in com-mento ne mette in luce il “carattere accessorio e anticipatorio” rispetto alla condanna definitiva. Conse-gue a ciò che la relativa istanza – proprio per il carattere provvisorio, insuscettibile di passare in giudi-cato 9, e soggetto alla clausola del rebus sic stantibus della provvisionale – non amplia il petitum della do-manda risarcitoria originaria, né introduce una pretesa dai presupposti diversi 10, ma è parte integrante della domanda proposta con la costituzione di parte civile.

Inoltre il principio di immanenza 11 della parte civile nel processo penale implica la possibilità per questa di chiedere la provvisionale anche nel corso del Giudizio d’Appello, a prescindere da una impu-gnazione della sentenza di primo grado: la liquidazione anticipata del risarcimento, infatti, rappresenta un corollario della domanda risarcitoria che, si ribadisce, se ritualmente esperita in primo grado, per-dura all’interno del processo penale

In conclusione la concessione della provvisionale da parte del Giudice di seconda istanza, a fronte di un domanda formulata dalla parte civile non impugnante, non contrasta con il principio devolutivo; né comporta alcuna violazione del canone della corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ai sensi dell’art. 112 c.p.c. 12.

L’IMPORTO DELLA PROVVISIONALE: MODIFICABILE O IMMODIFICABILE?

La seconda questione sopra accennata, che la Corte affronta per giungere alla risposta del quesito sot-topostole, concerne la possibilità del Giudice d’Appello di modificare il quantum della provvisionale. Le

7 Per tutti v. Cass., sez un., 19 gennaio 2000, n. 1, in Cass. pen., 2000, p. 2697. 8 V. Cass., sez. V, 23 aprile 2013, n. 45118, in CED Cass., n. 257551; Cass., Sez. VI, 26 febbraio 2009, n. 14377, ivi, n. 243310;

Cass., Sez. V, 19 gennaio 1993, n. 2435, ivi, n. 193807. 9 Cass., sez. II, 6 novembre 2014, n. 49016, in CED Cass., n. 261054; Cass., sez. VI, 14 ottobre 2014, n. 50746, ivi, n. 261536;

Cass., sez. IV, 23 giugno 2010, n. 34791, in Cass. pen., 2012, p. 1073. 10 Le Sezioni Unite Civili hanno da molto tempo affermato che una domanda è da considerare nuova se amplia il contenuto

della domanda iniziale, o se introduca una richiesta dai presupposti differenti da quella originaria. V. Cass. civ., sez. un., 7 apri-le 1965, n. 592, in CED Cass., n. 311098.

11 Il principio di immanenza, di cui all’art. 76, comma 2, c.p.c. viene interpretato in due modi, una debole e l’altra forte. Se-condo la prima, in virtù del richiamato principio la parte civile può partecipare al processo di secondo grado senza espressa im-pugnazione; secondo quella forte, invece, ne deriverebbe la proposizione della domanda risarcitoria ipso iure. Sull’evoluzione del principio di immanenza v. G. Barrocu, Costituzione di parte civile nei successivi gradi di giudizio, cit., p. 900.

12 Le Sezioni Unite precisano che, proprio perché la domanda della provvisionale si inserisce all’interno dell’istanza risarci-toria validamente esperita nel giudizio di primo grado, integrerebbe il vizio di motivazione della sentenza l’omesso esame dell’istanza formulata dalla parte civile. In merito si veda Cass., Sez. III, 9 marzo 2016, n. 35570, in Guida dir., 2016, n. 38, p. 52 Cass., sez. III, n. 7 maggio 2015, n. 42684, Dir. & Giust., 39, 2015, p. 26, con nota di S. Gentile, Concessione della provvisionale legit-tima anche se richiesta dalla parte civile direttamente in appello; Cass., sez. I, 2 febbraio 2011, n. 17240, in Cass. pen., 2012, p. 1806.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROVVISIONALE DISPOSTA IN APPELLO SENZA GRAVAME DELLA PARTE CIVILE

Sezioni Unite danno atto dell’esistenza di orientamenti opposti all’interno della giurisprudenza di legit-timità.

A fronte di un indirizzo che ritiene legittimo l’aumento dell’importo, in relazione al divieto di cui all’art. 597 c.p.p. – di cui si rimanda la trattazione al paragrafo successivo – se ne è formato uno che ne-ga la possibilità per il Giudice d’Appello di modificare, a favore della parte civile non impugnante, il quantum liquidato nel giudizio di primo grado a titolo di provvisionale. Secondo quest’orientamento, un eventuale aggravio della posizione risarcitoria dell’imputato contrasterebbe sia con il divieto di re-formatio in peius; sia con il principio devolutivo, in base al quale il Giudice d’Appello ha cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione individuati dai motivi indicati nell’atto di appello; sia con i principi base del processo civile, che reggono l’azione volta ad ottenere il risarcimento del danno anche se inserita nel processo penale 13.

Lasciando al paragrafo successivo, come già detto, la problematica inerente il divieto di reformatio in peius, l’esegesi esposta evidenzia come «la possibilità concreta dell’esistenza di un grado del procedi-mento successivo al primo e lo spazio d’intervento del giudice dell’impugnazione sono condizionati dal potere di disposizione sul giudizio d’impugnazione riconosciuto alla parte, nel senso che entrambi non costituiscono esito necessitato ed automatico di ciascun processo, né sono ufficiosi, ma vengono sempre suscitati da un’istanza della parte processuale, la quale può decidere di attivare lo strumento impugna-torio che l’ordinamento le riconosce o di rinunciarvi» 14.

Le Sezioni Unite, dichiarano, tuttavia, di non aderire all’orientamento esposto, non ravvisando alcu-na violazione del principio devolutivo. La Corte richiama l’art. 76, comma 2, c.p.p. il quale garantisce che gli effetti dell’avvenuta costituzione della parte civile si producano in ogni stato e grado del proces-so; l’art. 574, comma 4, c.p.p., il quale estende gli effetti dell’impugnazione della sentenza di primo gra-do alla pronuncia di condanna al risarcimento del danno, se questa dipende dal capo o punto impugna-to 15; e l’art. 601, comma 4, c.p.p. il quale richiede la citazione della parte civile anche nel giudizio d’impugnazione promosso solo dall’imputato.

Il principio di immanenza della parte civile fa sì cha l’impugnazione proposta dall’imputato estenda la cognizione del Giudice di seconda istanza anche alla domanda risarcitoria, all’interno della quale, come già detto, rientra l’eventuale richiesta di una provvisionale e, quindi, di un suo aumento, giustifi-cato da un peggioramento delle condizioni economiche del danneggiato. È proprio la sua funzione an-ticipatoria rispetto alla liquidazione definitiva, ad autorizzare il Giudice d’Appello ad aumentarne il quantum se sono insorti nella sfera economica del danneggiato dei fatti nuovi che lo giustifichino.

In sintesi, le Sezioni Unite affermano che la concessione per la prima volta in appello di una somma a titolo di provvisionale alla parte civile non appellante; o la modifica di quella riconosciuta in primo grado non contrasta con il principio devolutivo, né con quelli che reggono l’esercizio dell’azione di ri-sarcimento dei danni nel processo civile.

PROVVISIONALE E DIVIETO DI REFORMATIO IN PEIUS

Chiarito quanto sopra, le Sezioni Unite devono affrontare l’ulteriore questione relativa ad una eventua-le violazione del divieto di reformatio in peius 16.

Sulla problematica si rilevano due orientamenti giurisprudenziali contrapposti: il primo esclude che il dettato dell’art. 597, comma 3, c.p.p. si estenda alle statuizioni civili, «trattandosi di norma che ponen-

13 In questo senso Cass., sez. II, 17 settembre 2015, n. 42822, in Dir. e giustizia, 2015, p. 47, con nota di L. Piras, Principio devolu-tivo: senza appello niente revisione in peius; Cass., sez. I, 30 ottobre 2014, n. 50709, in Arch. n. proc. pen., 2015, p. 133; Cass., sez. IV, 1 ottobre 2008, n. 42134, in CED Cass., n. 242185 Per l’orientamento contrastante si rimanda alla nota n. 17.

14 Testualmente Cass., sez. II, 17 settembre 2015, n. 42822, cit. 15 Il riferimento è a Cass., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30327, in Dir. & Giust., 2002, n. 38, p. 16., nella quale è stato posto in evi-

denza che nel giudizio di appello, la decisione sulla responsabilità penale coinvolge e si estende automaticamente a quella rela-tiva alla responsabilità civile consentendo, quindi, di modificare l’importo della provvisionale, considerata la “natura strumen-tale ed anticipatoria” di tale istituto rispetto alla liquidazione definitiva.

16 Le Sezioni Unite precisano che, contrariamente ad un indirizzo giurisprudenziale affermatosi, nel caso in cui la richiesta di provvisionale sia stata respinta nel giudizio di primo grado, è il principio devolutivo, e non il divieto di reformatio in peius, ad impedire di attribuire al Giudice d’Appello la cognizione su tale punto della sentenza, in assenza di espressa impugnazione da parte dell’interessato.

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do un limite alla pretesa punitiva dello Stato, non si applica all’istanza risarcitoria oggetto dell’azione civile» 17.

La seconda esegesi, invece, estende il divieto di reformatio in peius anche alle decisioni civili adottate nel giudizio di grado antecedente 18.

Il Supremo Collegio ritiene di dover aderire al primo degli indirizzi esposti, sulla base di osserva-zioni che paiono condivisibili.

Anzitutto, sul piano cognitivo, si evidenzia come l’impugnazione dell’imputato del punto della sen-tenza relativo alla condanna penale devolva al Giudice di grado superiore anche l’accertamento della responsabilità civile, a quello strettamente correlata.

In secondo luogo, si delinea l’ambito di applicazione del divieto di reformatio in peius, il quale limita la cognizione del Giudice d’Appello qualora abbia proposto impugnazione il solo imputato, sulla base di una precisa scelta del legislatore. Tale divieto peggiorativo, però, come emerge dall’esame del dato testuale dell’art. 597, comma 3, c.p.p., concerne unicamente le statuizioni penali della sentenza, costi-tuendo un limite legale esterno ad una eventuale modifica di queste, «la cui portata non può essere estesa, in via interpretativa, ad ipotesi diverse da quelle disciplinate».

Anche le opere di codificazione precedenti all’attuale codice di procedura penale – sottolinea la sen-tenza in commento – evidenziano tutte un preciso tratto comune: il divieto peggiorativo «involge uni-camente le statuizioni penali della sentenza», chiaro indice della precisa scelta politica del legislatore. Consegue alle osservazioni delle Sezioni Unite che non siano soggette al divieto in questione le decisio-ni civili del Giudice d’Appello, tra le quali, per quanto di nostro interesse, la concessione, per la prima volta, di una provvisionale, né la modifica del quantum già riconosciuto nel processo di primo grado.

La Corte di Cassazione, precisa, inoltre, come sussistano i rimedi a favore del responsabile civile e dell’imputato contro l’immediata esecutività, ex art. 540, comma 2, c.p.p., della provvisionale ricono-sciuta dal Giudice: la richiesta di sospensione ai sensi dell’art. 600, comma 3, c.p.p. al Giudice d’Ap-pello, qualora ricorrano “gravi motivi” 19, se avvenuta nel processo di primo grado; ai sensi dell’art. 612 c.p.p., qualora sia stata disposta dal Giudice d’Appello.

Secondo il Collegio, infatti, l’art. 612 include anche la sospensione del pagamento della provvisiona-le, in quanto dotata della formula di immediata esecutività ex art. 540, comma 2, c.p.p.

CONCLUSIONI

La pronuncia in esame interviene a far chiarezza sul delicato rapporto tra azione civile e processo pena-le, attraverso un articolato ed esaustivo esame dei diversi orientamenti giurisprudenziali che hanno trattato singole questioni e quello pertinenti.

Le Sezioni Unite rispondono al quesito formulato dall’ordinanza di rimessione, esaminando in mo-do approfondito le norme civilistiche e penalistiche che delineano e delimitano la richiesta di risarci-mento del danno all’interno del processo penale.

La Cassazione precisa in che cosa consista l’immanenza della costituzione di parte civile, la quale giustifica la richiesta o la modificazione di una provvisionale in appello, senza necessità di impugna-zione, a condizione che la relativa domanda non sia stata già posta al giudice precedente. In questa ipo-tesi, infatti, ci troveremmo di fronte ad una statuizione – o omessa statuizione – conoscibile dal giudice ad quem solo attraverso l’atto di appello.

Inoltre la Corte di legittimità ricorda come la provvisionale sia retta dalla clausola rebus sic stantibus, essendo funzionale a soddisfare le esigenze della parte civile di ottenere una liquidazione anticipata del danno, insorte nel processo per effetto della sua durata.

17 In questo senso Cass., sez. III, 9 marzo 2016, n. 35570, cit.; Cass., sez. V, 18 maggio 2015, n. 25520, in CED Cass., n. 265147; Cass., sez. III, 7 maggio 2015, n. 42684, cit.; Cass., sez. I, 2 febbraio 2011, n. 17240, cit.; Cass., sez. VI, 23 settembre 2009, n. 38976, in CED Cass., n. 244558; Cass., sez. IV, 11 gennaio 1990, n. 3171, ivi, n. 183572.

18 Cass., sez. I, 17 novembre 2010, n. 2658, in CED Cass., n. 249547; Cass., sez. I, 4 febbraio 2009, n. 13545, ivi, n. 243132; Cass., sez. IV, 1 ottobre 2008, n. 42134, ivi, n. 242185; Cass., sez. V, 11 gennaio 1990, n. 36062., ivi, n. 183572.

19 La Corte costituzionale – con la pronuncia n. 353 del 27 luglio 1994, in Giur. it., 1995, I, c. 65 – ha dichiarato illegittimo l’art. 600, comma 3, c.p.p. laddove prevedeva la sospensione dell’esecuzione alla condanna al pagamento della provvisionale quando potesse “derivarne grave e irreparabile danno”, anziché quando ricorressero “gravi motivi”, ai sensi dell’art. 238 c.p.c.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 475

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | PROVVISIONALE DISPOSTA IN APPELLO SENZA GRAVAME DELLA PARTE CIVILE

Infine il Supremo Collegio evidenzia i confini del divieto di reformatio in peius, il quale deve essere ri-ferito esclusivamente alle statuizioni penali e non esteso per analogia alle decisioni civili.

In conclusione, le argomentazioni ed il risultato a cui giunge la sentenza in commento appaiono condivisibili ed in linea con una interpretazione sistematica delle norme, civili e penali, il più possibile fedeli al dato testuale.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 476

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ALT ALL’ACQUISIZIONE DI TABULATI RELATIVI A COLLOQUI TELEFONICI

Alt all’acquisizione di tabulati relativi a colloqui telefonici di parlamentari senza l’assenso della Camera competente

CORTE DI CASSAZIONE, SEZIONE VI, SENTENZA 22 NOVEMBRE 2016, N. 49538 – PRES. PAOLONI; EST. CORBO

È ragionevole ritenere che disporre l’acquisizione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze le quali, alla luce degli atti d’indagini esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili ad un par-lamentare è attività compiuta in violazione di quanto prescrive l’art. 4 della legge n. 140 del 2003 in quanto non preceduto dalla necessaria autorizzazione della camera di appartenenza di quest’ultimo. Di conseguenza deve rite-nersi che la disposizione dell’art. 4 della legge n. 140 del 2003, nel dettare regole da seguire per chiedere l’auto-rizzazione all’Assemblea parlamentare ad acquisire i tabulati di comunicazione presuppone implicitamente, ma ine-quivocabilmente, che questa documentazione in difetto di previo assenso della Camera competente, non possa essere in alcun modo acquisita e quindi nemmeno sottoposta a verifica, analisi o elaborazione da parte dell’Auto-rità giudiziaria o di chi collabora con la stessa.

RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza emessa il 21 ottobre 2015, la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione di condanna pronunciata dal Tribunale di Roma, ha assolto perché il fatto non costituisce reato G.G. e D.M.L. dai reati di abuso di ufficio agli stessi ascritti (Capi A, B, C, D, E, F, G, e H della rubrica), con conseguente caducazione delle statuizioni in favore delle costituite parti civili.

L’accusa mossa ai due imputati è di avere, il D.M. quale sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro, ed il G. quale consulente tecnico del magistrato, agendo in concorso tra loro e nell’ambito di un procedimento in fase di indagini preliminari, acquisito, elaborato e trattato illecitamente i tabulati telefonici relativi ad utenze riconducibili ai parlamentari o ex-parlamentari P.G. (capo A), Go.Sa. (capo B), Pr.Ro. (capo C), M.C. (capo D), Ge.An. (capo E), Mi.Do. (capo F), R.F. (capo G) e Pi.Gi. (capo H), in violazione della disposizione di cui alla L. 20 giugno 2003, n. 140, art. 4, che prescrive la preventiva ri-chiesta di autorizzazione a tal fine alla Camera di appartenenza, intenzionalmente arrecando ai medesimi un ingiusto danno consistente nella conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni in violazione delle garanzie riservate ai membri del Parlamento. I fatti risultano contestati come accertati il (OMISSIS); la Corte distrettuale, tuttavia, ha precisato che gli stessi non possono ritenersi commessi in epoca successiva all’(OMISSIS), poiché in quel mese è stata avocata l’indagine dalla Procura generale del-la Repubblica presso la Corte d’appello di Catanzaro e revocato l’incarico di consulenza al G.

2. Hanno presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l’avvocato Marco Franco, quale difensore di fiducia della parte civile Go., l’avvocato Titta Ma-dia, quale difensore di fiducia della parte civile M., l’avvocato Maria Cristina Calamani, quale difensore di fiducia della parte civile R., e l’avvocato Fabio Repici, quale difensore di fiducia dell’imputato G.

In prossimità dell’udienza, ha presentato motivi aggiunti l’avvocato Fabio Repici, sempre quale di-fensore di fiducia dell’imputato G.

3. Il ricorso presentato dall’avvocato Franco, nell’interesse della parte civile Go., è articolato in due motivi.

3.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, con riguardo all’art. 129 c.p.p., comma 2, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), per avere la Corte d’appello emesso sentenza di assoluzione nel merito, in riferimento al capo B, cui era interessato il Go., nonostante il reato fosse ormai prescritto.

Si deduce che difetta, nella specie, l’evidenza della prova del difetto di dolo, ossia della prova della circostanza posta a fondamento della pronuncia assolutoria.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ALT ALL’ACQUISIZIONE DI TABULATI RELATIVI A COLLOQUI TELEFONICI

Si premette che, in presenza di una causa estintiva del reato, come la prescrizione, la sentenza di as-soluzione, a norma dell’art. 129 c.p.p., può essere pronunciata solo se dagli atti risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che non è previsto dalla legge come reato. Si aggiunge, poi, che la nozione di evidenza della prova implica una totale mancanza di prove a carico o la sussistenza di prove a discarico, sì che sia possibile la pronuncia assolutoria senza approfondita analisi delle risultanze istruttorie. Si rileva, quindi, che la Corte d’ap-pello si è limitata ad offrire una differente interpretazione del materiale istruttorio senza indicare le ra-gioni da cui emerge l’evidenza della prova del difetto dell’elemento soggettivo; la stessa, anzi, ha af-fermato che “la rassegna degli elementi indiziari non appare sufficiente a comprovare il dolo intenzio-nale del danno ingiusto (...)”, che “non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e rubriche del Saladino fossero tutti da ricondur-re a soggetti protetti dal Parlamento”, e che “il dubbio non è risolvibile”.

Si rappresenta, inoltre, ed analiticamente, che, contro questa conclusione, militano molteplici ele-menti.

Invero, come risulta dalla sentenza di primo grado, il G., in occasione del conferimento dell’incarico di consulenza, datato (OMISSIS), aveva preso in consegna l’agenda cartacea ed i telefonini Nokia mo-dello 9300 e modello E61, sequestrati ad S.A., tutti documenti che riportavano le utenze dei parlamenta-ri, ed aveva segnalato al dott. D.M. i tabulati da acquisire: in particolare, sulla base delle indicazioni del G., formulate in apposite “Relazioni”, il D.M., senza chiedere alcuna autorizzazione alla Camera o al Senato, aveva disposto l’acquisizione, in data 31 marzo 2007, tra gli altri, di tabulati relativi ad utenze riferibili al senatore P., e, in data 20 aprile 2007, tra gli altri, di tabulati relativi ad utenze riferibili ai par-lamentari Go.Sa., Pr.Ro., M.C., Ge.An., Mi.Do. e R.F.

Inoltre, già alla data del 20 aprile 2007, il G., nella sua Relazione n. 2, abbinava il numero di una del-le utenze riferibili al Go. con la dicitura “(OMISSIS) (Go.Sa.)”, il numero di una seconda utenza riferibi-le al Go. con la dicitura “in corso di acquisizione (Go.Sa.)”, ed il numero di una terza utenza, sempre ri-feribile al Go., con la dicitura “ GO.SA. (Go.Sa.)”. Ancora, sia la seconda sia la terza delle utenze appena indicate erano registrate nella rubrica del Nokia 9300 sequestrate al S. con l’indicazione “ Go.Sa. – Pres. Comitato Bicamerale sull’immigrazione dell’area Schengen”, ed, anzi, la terza era registrata con presso-ché identica dicitura (“ GO.Sa. – Pres. Comit. Bicamerale sull’immigrazione dell’area Schengen”) nel database rubrica della memory card del medesimo cellulare in sequestro.

Si aggiunge, poi, sempre richiamandosi le motivazioni della sentenza di primo grado, che, in data (OMISSIS), il G. aveva ricevuto una e-mail dal D.M. nella quale si segnalava “ATTENZIONE GO. È DEPUTATO IN CARICA”, e che, ciononostante, in data (OMISSIS), nella Relazione n. 6 del G. si proce-deva all’esame dei contatti tra la prima delle tre utenze riferibili all’onorevole Go. (quella richiesta con la dicitura “(OMISSIS) (Go.Sa.)”) ed una utenza riferita all’onorevole Pr.; inoltre, nel frattempo, in data 15 giugno 2007, erano state consegnate le anagrafiche delle utenze mobili i cui tabulati erano stati ri-chiesti, e dalle quali era possibile apprendere che la terza delle utenze precedentemente indicate era ri-feribile a “On. Go.Sa.” e a “CAMERA DEI DEPUTATI PIAZZA MONTECITORIO SNC” dal (OMISSIS). In linea generale, poi, ed ulteriormente, ancora atteso quanto rilevato dal Tribunale, non va trascurato che, a fronte di oltre 2000 utenze desumibili dai dispositivi sequestrati al S., il G. ha sollecitato l’acquisizione dei tabulati relativi solo a 167 utenze ed a 14 apparati IMEI.

Alla luce di questi elementi, si conclude che correttamente la sentenza di primo grado aveva ritenuto che “il fine principale perseguito NON fosse la ricerca della prova, bensì l’uso strumentale delle tecni-che d’indagine telefonica in danno dei parlamentari ed a fini privati, d’inserimento nel cd. “Archivio G.”, e d’ulteriore trattamento non autorizzato”, che l’attività investigativa fosse stata compiuta “nella consapevolezza ex ante di non poterne validare gli effetti dell’inutilizzabilità patologica che ne sarebbe derivata”, e che, quindi, sussistesse il dolo intenzionale richiesto dalla fattispecie di cui all’art. 323 c.p.

3.2. Nel secondo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riferimento all’affermata insussistenza della fattispecie di abuso di ufficio e, in particolare, del dolo intenzionale.

Si deduce che la sentenza impugnata, dopo aver ammesso la configurabilità (anche) del reato di abuso di ufficio in relazione alla condotta consistente nel costituire una banca dati privata avvalendosi dei dati acquisiti quale consulente di Autorità Giudiziarie, ha ritenuto insufficiente la prova del dolo intenzionale senza confrontarsi con le puntuali indicazioni sul punto contenute nella sentenza di primo grado. Quest’ultima, infatti, aveva valorizzato la circostanza costituita dalla prosecuzione della tratta-

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zione dei dati relativi alle utenze dell’onorevole Go., nonostante l’avvertimento fatto al G. dal D.M. con la e-mail del (OMISSIS), in particolare mediante l’immissione, operata in data 16 giugno 2007, nel si-stema (OMISSIS), formato dal consulente, dei dati concernenti l’apparato identificato con la dicitura “(OMISSIS) (Go.Sa.)”, ed il successivo esame dei contatti tra questa utenza ed altra riferita all’onorevole Pr., esposto nella Relazione n. 6 del (OMISSIS). In particolare, la sentenza di appello ha omesso comple-tamente di valutare la prova costituita dalla citata e-mail del (OMISSIS).

4. Il ricorso presentato dall’avvocato Madia, nell’interesse della parte civile M., è articolato anch’esso in due motivi, preceduti da una premessa, nella quale si sottolinea come, secondo giurisprudenza con-solidata, il giudice di appello è gravato da un obbligo di motivazione rafforzata quando riforma una sentenza di primo grado, anche se mutando l’esito da condanna in assoluzione (si cita Sez. 2, n. 32619 del 24/04/2014).

4.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, con riguardo all’art. 323 c.p. e L. n. 140 del 2003, art. 4, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), per avere la Corte d’appello escluso la sussistenza del dolo richiesta dalla fattispecie di abuso di ufficio, e, in par-ticolare, la consapevolezza degli imputati circa la riconducibilità di una delle utenze, i cui dati sono sta-ti trattati, all’onorevole M.

Si deduce che numerosi sono gli elementi esposti nella sentenza di primo grado dai quali desumere la consapevolezza degli imputati in ordine alla riferibilità di una specifica utenza all’onorevole M. In particolare, nella pronuncia del Tribunale si evidenzia che: a) il numero dell’utenza in questione, nelle memorie dei due telefoni cellulari sequestrati ad S.A., era associato alla persona di M.C.; b) dai tabulati relativi alle utenze del S. emergeva che lo stesso aveva inviato 2 SMS all’utenza di M.C.; c) già in data 12 febbraio 2007, erano pervenute al dott. D.M. trascrizioni di conversazioni intercorse tra il S. ed il M. nel marzo 2006, nelle quali il secondo, denominato “ C.”, risultava contattato su quella stessa utenza, intestata alla Camera dei Deputati, i cui tabulati erano stati oggetto di provvedimento di acquisizione emesso dal D.M. su indicazione del G.; d) in data 20 aprile 2007, quindi prima dell’inoltro del decreto di acquisizione dei tabulati, il G., come da lui ammesso, aveva ricevuto nel suo studio direttamente dal D.M. le trascrizioni cartacee delle intercettazioni, ed aveva inserito i riferimenti di queste nel sistema (OMISSIS); e) il G., prima di redigere la Relazione n. 2 (datata 20 aprile 2007), aveva proceduto all’ascolto delle predette conversazioni intercorse tra il S. ed il M., nelle quali vi erano espliciti riferi-menti alla carica di Ministro ricoperta dal secondo; f) dalle anagrafiche delle utenze, già acquisite al momento della Relazione n. 2, e, quindi, prima dell’invio del decreto di acquisizione dei tabulati, risul-tava che l’utenza in questione era intestata “Camera dei Deputati”, poi “Ministro della Giustizia”, poi ancora “Camera dei Deputati”, quindi infine “Partito Popolari Udeur”.

Si contesta che la sentenza di appello ha escluso rilevanza a questi elementi limitandosi ad osservare laconicamente che alcune schede anagrafiche relative agli intestatari delle utenze non erano ancora pervenute alla data del 20 aprile 2007 e che le intestazioni “Camera dei Deputati” e “Dipartimento am-ministrazione della giustizia” non offrivano una univoca indicazione circa gli utilizzatori degli apparati telefonici. Tuttavia, la prima osservazione è generica, perché non precisa quali siano le anagrafiche non pervenute alla data del 20 aprile 2007, mentre la seconda è compiuta in assenza di qualunque confronto con gli altri elementi indicati nella decisione di prima cura.

Si aggiunge, poi, che i giudici di secondo grado non si sono confrontati nemmeno con gli ulteriori elementi elencati nella memoria depositata dalla parte civile M.C. durante il giudizio di appello.

In particolare, nell’atto di parte, si rappresentava, richiamandosi la richiesta ed il decreto di archi-viazione nei confronti di M.C. nel procedimento cd. “(OMISSIS)”, che l’utenza in uso all’onorevole M. era indicata, nella Relazione n. 2 del G. del 20 aprile 2007, precedente al decreto di acquisizione dei ta-bulati, come riferita ad “intestatario in corso di acquisizione”, nonostante sulla stessa fossero intercorse due conversazioni intercettate tra il S. ed il M., il cui contenuto era a quella data già noto ai due imputa-ti: invero, da un lato, in entrambe dette conversazioni, intercorse il (OMISSIS), uno dei due interlocutori era chiamato “ C.” ed anzi nella prima di esse si era parlato della situazione politica nazionale e regio-nale; dall’altro, le trascrizioni di tali colloqui erano state completate entro il 12 febbraio 2007, immedia-tamente consegnate al D.M., e trasmesse, unitamente a tutta la documentazione di indagine, al G. in data (OMISSIS), all’atto del conferimento dell’incarico. Nel medesimo atto, inoltre, si segnalava, sempre ri-chiamandosi la richiesta ed il decreto di archiviazione nei confronti di M.C. nel procedimento “(OMIS-SIS)”, che, nelle date del 3 aprile 2007 e del 19 aprile 2007, erano pervenute al G. le anagrafiche da cui ri-sultava che l’utenza in questione (ossia quella in uso al M.) era intestata alla Camera dei Deputati, che,

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nelle rubriche dei due cellulari sequestrati al S., e consegnati al G. il (OMISSIS), detta utenza era abbina-ta alle diciture “ M.C.”, “ M.C.” e “ M.”, e che i dati estratti dai cellulari sequestrati al S. erano stati inse-riti, nel corso delle operazioni di consulenza, in un CD di “salvataggio” sotto i files denominati “ s.” e “(OMISSIS) s.”, entrambi creati il (OMISSIS), l’uno alle ore 12,01, l’altro alle ore 15,23. Ancora, nella memoria, si riportavano tra l’altro: a) le risultanze delle indagini del consulente tecnico del P.M. dott. B., dalle quali, in particolare, si evince che l’esame e l’estrapolazione dei dati dai cellulari del S. è stata realizzata dal G. nelle date del 23 e del 24 marzo 2007 ed esposta in una Relazione priva di data, e che il medesimo G. aveva restituito al D.M. i due cellulari sequestrati in data 27 marzo 2007; b) le risultanze della Relazione n. 1 alla Procura della Repubblica di Salerno redatta dal G. in data 4 febbraio 2008, nella quale, tra l’altro, si afferma che i reperti relativi alle conversazioni intercettate intercorse tra il M. ed il S. di cui si è fatto cenno sono stati a lui consegnati nel suo studio direttamente dal dott. D.M. nel pome-riggio (OMISSIS), che le relative risultanze sono state immesse nel sistema (OMISSIS) immediatamente prima di avviare la procedura di acquisizione dei tabulati relativi all’utenza in uso al M., e che, in gene-rale, le acquisizioni sono state disposte sulla base dell’esame delle numerazioni inerite nelle memorie e nelle rubriche dei cellulari sequestrati al S.; c) le dichiarazioni del teste A., colonnello dei Carabinieri, da cui si evince che, quando nella Relazione del (OMISSIS), si indica una certa utenza (risultata in uso all’onorevole Pr.), si impiega la dicitura “utenza rilevata nei dati di traffico dei seguenti codici o utenze, codici Imei o utenze”, che tale dicitura è associata all’indicazione dei codici Imei dei due apparecchi cel-lulari sequestrati al S., che analoga conclusione poteva essere tratta con riferimento ad un’utenza risul-tata nella disponibilità dell’onorevole R.F., e che, in generale, il sistema (OMISSIS) non era completa-mente automatico, esigendo l’intervento umano dell’operatore nella fase di immissione dei dati e di coordinamento degli stessi (sicché anche alla luce di tale deposizione trova conferma l’assunto secondo cui il G., già all’epoca di redigere la precisata Relazione, aveva esaminato i dati e le relative indicazioni desumibili dai dispositivi sequestrati al S.); d) le dichiarazioni del teste Sa., luogotenente dei Carabinie-ri, dalle quali emerge che il G., pur avendo indicato nella Relazione del 25 luglio 2007 la riferibilità dell’utenza al M., aveva utilizzato i dati risultanti dai relativi tabulati per individuare altre utenze in re-lazione alle quali acquisire ulteriori dati; e) le risultanze della Relazione n. 2 del (OMISSIS), a firma del G., laddove esplicitamente si rappresenta che l’utenza relativa ad “intestatario in corso di acquisizio-ne”, ma in realtà riferibile al M., era stata estratta dai cellulari sequestrati al S., dove il numero era asso-ciato al nome di M.C.; f) le dichiarazioni spontanee del G. in data 28 novembre 2012, dalle quali risulta che il medesimo ha ammesso di aver avuto contezza da subito degli abbinamenti presenti nelle rubri-che telefoniche del S. tra numeri e nominativi, pur precisando di non poter fare affidamento sulle stes-se; g) le dichiarazioni rese dal G. nel corso dell’esame dibattimentale, nelle quali si ribadisce sostan-zialmente il contenuto delle spontanee dichiarazioni; h) le dichiarazioni del teste Mu., maresciallo dei Carabinieri, da cui si evince che il D.M. intratteneva costanti contatti con il G. al fine di essere aggiorna-to sull’evoluzione delle sue attività; i) le dichiarazioni rese dal D.M. nel corso dell’esame dibattimenta-le, dalle quali si desume il costante contatto tra i due imputati in ordine all’evoluzione delle indagini.

Si censura, infine, la sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso, ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, la sufficienza del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge.

Ciò in considerazione del fatto che la motivazione dei giudici di secondo grado (p. 108-109) ricono-sce esplicitamente che le indagini furono condotte “accettando consapevolmente il rischio che (...) le utenze (...) fossero effettivamente in uso a soggetti tutelati dalle guarentigie parlamentari, e che la ela-borazione degli stessi dati avrebbe potenzialmente comportato per i parlamentari coinvolti un danno ingiusto”. D’altro canto, la L. n. 140 del 200 impone di richiedere l’autorizzazione della Camera di ap-partenenza anche quando l’utenza sia oggetto di utilizzazione promiscua, discontinua e saltuaria, ed è pertanto erronea l’affermazione dei giudici di appello (a pag. 103 della sentenza impugnata), secondo cui nemmeno la formale intestazione di un’utenza ad un parlamentare sarebbe dirimente, poiché l’utenza potrebbe essere concessa in uso a terzi, collaboratori o familiari.

4.2. Nel secondo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in riferimento all’esclusione della sussistenza del dolo intenzionale di danno.

Si deduce che, anche in relazione a questo profilo, la sentenza di appello offre una motivazione ma-nifestamente illogica e contraddittoria. La sentenza di primo grado aveva affermato che l’espletamento della “attività investigativa nella consapevolezza ex ante di non poterne validare gli effetti dell’inutiliz-zabilità patologica che ne sarebbe derivata – attesta come gli imputati non tendessero al corretto svol-gimento delle indagini, ma alla raccolta di elementi informativi sui parlamentari tout court”. I giudici di

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seconda cura si limitano a contestare che le indagini avessero questo obiettivo, affermando che, verosi-milmente, si era “cercato di colpire specificamente eventuali stretti collaboratori dei parlamentari”, e pretermettono ogni rilievo desumibile, in tema di prova del dolo specifico dell’abuso di ufficio, tanto dalla macroscopicità delle violazioni normative, come invece ritiene costantemente la giurisprudenza, quanto dalla competenza professionale dei due imputati.

5. Il ricorso presentato dall’avvocato Calamani, nell’interesse della parte civile R., è articolato in tre motivi.

5.1. Nel primo motivo, si lamenta vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), con riferimento alla mancata considerazione delle argomentazioni esposte nella sentenza di primo gra-do e nelle memorie difensive depositate dalla parte civile, e nonostante l’obbligo di motivazione cd. “rafforzata”.

Si deduce che la sentenza di appello ha genericamente escluso il dolo richiesto dalla fattispecie in-criminatrice rilevando che: a) per alcune delle utenze, all’atto della richiesta di acquisizione dei tabulati, non era ancora pervenuta la scheda o anagrafica degli intestatari; b) l’intestazione conosciuta o conosci-bile delle utenze non era comunque “compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costitu-zionali”; c) l’individuazione dei soggetti da approfondire era stata determinata proprio dall’interroga-zione del sistema (OMISSIS) effettuata dal G.

Si osserva che, in tal modo, la decisione impugnata ha mostrato di aver completamente trascurato gli elementi addotti nella memoria depositata dalla parte civile R.F. durante il giudizio di appello.

In particolare, l’atto di parte, dopo aver premesso che l’utenza in uso all’onorevole R. era indicata, nella Relazione n. 2 del G. del (OMISSIS), precedente al decreto di acquisizione dei tabulati, come riferi-ta a “La Margherita, Democrazia & Libertà”, ha richiamato: a) le risultanze delle indagini del consulen-te tecnico del P.M. dott. B., dalle quali, in particolare, si evince che l’esame e l’estrapolazione dei dati dai cellulari del S. Nokia 9300 e Nokia E61, da cui sono emersi i riferimenti relativi all’utenza in uso all’onorevole R., è stata realizzata dal G. nelle date del (OMISSIS) ed esposta in una Relazione priva di data, e che il medesimo G. aveva restituito al D.M. i due cellulari sequestrati in data (OMISSIS); b) le ri-sultanze della Relazione n. 1 alla Procura della Repubblica di Salerno redatta dal G. in data 4 febbraio 2008, nella quale, tra l’altro, si dà atto dell’incontro avvenuto presso lo studio di quest’ultimo tra lo stesso ed il D.M., in data (OMISSIS), prima del decreto di acquisizione emesso dal secondo, e si ammet-te che le richieste agli intestatari dirette alle aziende telefoniche a partire dal 16 marzo sono avvenute sulla base delle numerazioni inserite nelle memorie e nelle rubriche dei cellulari sequestrati al S.; c) le dichiarazioni del teste A., colonnello dei Carabinieri, da cui si evince che, quando nella Relazione del (OMISSIS), si indica una certa utenza (risultata in uso all’onorevole Pr.), si impiega la dicitura “utenza rilevata nei dati di traffico dei seguenti codici o utenze, codici Imei o utenze”, che tale dicitura è associa-ta all’indicazione dei codici Imei dei due apparecchi cellulari sequestrati al S., che analoga conclusione poteva essere tratta con riferimento ad un’utenza risultata nella disponibilità dell’onorevole R.F., e che una delle utenze riferibili all’onorevole Go., per la quale era avanzata richiesta di tabulati con la Rela-zione n. 2 del (OMISSIS), non era rilevabile dai dati del traffico telefonico delle utenze del S., ma solo dalla rubrica dell’apparecchio Nokia 9300 sequestrato al S.; d) le dichiarazioni del teste Santoro, luogo-tenente dei Carabinieri, dalle quali emerge che l’utenza in uso al R., nelle rubriche dei cellulari seque-strati al S. era associata anche all’indirizzo mail “francesco.rutelli.margheritaonline.it”; e) la Relazione n. 2 del (OMISSIS), a firma del G., la quale esplicitamente rappresenta che l’utenza relativa a “La Mar-gherita, Democrazia & Libertà”, ma in realtà riferibile al R., era stata estratta dai cellulari seque-strati al S., dove il numero era associato al nome di R.F.; f) le dichiarazioni spontanee del G. in data 28 novembre 2012, dalle quali risulta che il medesimo ha ammesso di aver avuto contezza da subito degli abbinamenti presenti nelle rubriche telefoniche del S. tra numeri e nominativi, pur precisando di non poter fare affidamento sulle stesse; g) le dichiarazioni rese dal G. nel corso dell’esame dibattimentale, nelle quali si ribadisce sostanzialmente il contenuto delle spontanee dichiarazioni.

5.2. Nel secondo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all’art. 323 c.p. e L. n. 140 del 2003, art. 4, nonché vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), con ri-ferimento alla sussistenza del dolo necessario relativamente alla violazione di legge.

Si deduce che la sentenza impugnata pur riconoscendo la sussistenza, in capo agli imputati, del dolo eventuale in ordine alla riconducibilità ai parlamentari delle utenze di cui si chiedeva e disponeva l’ac-quisizione, anche nel momento in cui si provvedeva in tal senso, ha erroneamente affermato che tale for-ma di consapevolezza non sia sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo richiesto dall’art. 323 c.p.

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5.3. Nel terzo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all’art. 323 c.p., e vizio di mo-tivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), con riferimento alla sussistenza del dolo speci-fico di danno.

Il motivo è sostanzialmente identico al secondo motivo del ricorso presentato per la parte civile M. 6. Il ricorso presentato dall’avvocato Repici, nell’interesse dell’imputato G., è articolato in quattro

motivi. 5.1. Nel primo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all’art. 420-ter c.p.p., e vizio

di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento al rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato all’udienza del 17 aprile 2012.

Si deduce che il G. aveva presentato richiesta di rinvio per essere stato diffidato a comparire davanti al Tribunale di Marsala quale consulente tecnico del P.M. in processo penale per sequestro di persona per la mattina del (OMISSIS), alle ore 9,00, nonché convocato presso il reparto di Chirurgia generale e d’urgenza del Policlinico di (OMISSIS) del medesimo giorno per le ore 15,30, al fine di essere sottoposto ad intervento chirurgico per biopsia linfonodale, secondo una prescrizione d’urgenza impartita dal re-parto di Medicina clinica e respiratoria del medesimo Policlinico.

Illegittima, pertanto, è la risposta dei giudici di primo grado e di appello, che hanno escluso la rile-vanza sia dell’impegno a (OMISSIS) sia dell’intervento chirurgico, posto che, da un lato, anche l’im-pegno a partecipare ad un processo quale testimone o consulente costituisce impedimento assoluto, in quanto penalmente sanzionato a norma dell’art. 366 c.p., e, dall’altro, il diritto alla salute, in un caso connotato di serietà, prevale sulle necessità della giustizia. Erronea, inoltre, è l’affermazione dell’inno-cuità del rigetto dell’istanza di rinvio, atteso che all’udienza del 17 aprile le parti erano state costrette a formulare le questioni preliminari ex art. 491 c.p.p., e che, di conseguenza, il Tribunale aveva dichiarato tardive ulteriori eccezioni di incompetenza.

6.2. Nel secondo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo all’art. 25 Cost., comma 1, e artt. 8 e 9 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con rife-rimento al rigetto dell’eccezione di incompetenza per territorio.

Si deduce che i primi dati elaborati, tra quelli indicati nelle imputazioni, furono i dati relativi al sena-tore P., e ciò avvenne nella sede Vodafone di (OMISSIS); inoltre, come documentato agli atti del proce-dimento, tali dati furono ricevuti dal G. e scaricati dallo stesso attraverso connessione internet attivata presso il suo studio in (OMISSIS). Ancora, per l’ipotesi di reato di abuso di ufficio derivante dalla viola-zione della L. n. 140 del 2003, art. 4, gli imputati G. e D.M. erano stati iscritti nel registro degli indagati della Procura di Salerno in data antecedente al 3 febbraio 2009, allorché si era proceduto all’iscrizione del presente procedimento nel registro degli indagati della Procura di Roma. Si rileva, poi, che l’ecce-zione di incompetenza per territorio non può soffrire le preclusioni di cui all’art. 491 c.p.p., pena la vio-lazione del principio costituzionale della intangibilità del giudice naturale.

6.3. Nel terzo motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 323 e 366 c.p., alla L. n. 140 del 2003, art. 4 e all’art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento alla pronuncia di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, an-ziché “perché il fatto non sussiste”, relativamente all’imputazione di cui sub A.

Si deduce che, con riferimento al senatore P., non sono riferibili allo stesso le utenze risultate intesta-te a suo nome, ed i cui dati sono stati acquisiti e trattati dal G., secondo quanto dichiarato dallo stesso senatore P., e che perciò è incomprensibile l’affermazione della violazione delle prerogative parlamen-tari.

6.4. Nel quarto motivo, si lamenta violazione di legge, avendo riguardo agli artt. 323 e 366 c.p., alla L. n. 140 del 2003, art. 4 e all’art. 192 c.p.p., e vizio di motivazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), c) ed e), con riferimento alla pronuncia di assoluzione “perché il fatto non costituisce reato”, an-ziché “perché il fatto non sussiste”, relativamente a tutte le altre imputazioni.

Si deduce che: a) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell’onorevole Go. (capo B), una delle utenze a questi riferibili era intestata e permanentemente utilizzata da I.F., un’altra non era più utilizzata dalla persona offesa già da epoca precedente all’assunzione della carica di parla-mentare, e più in generale, era stata interrotta ogni attività di acquisizione ed elaborazione dei dati rela-tivi a dette utenze una volta accertato lo status di parlamentare del medesimo; b) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell’onorevole Pr. (capo C), l’utenza a questi riferibile era in-testata alla DELTA s.p.a. ed è risultata utilizzata anche (o solo) da soggetti diversi dal medesimo, come Sc.Pi. edSc.Al., entrambi indagati nel procedimento “(OMISSIS)”; c) per quanto attiene al fatto contesta-

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to come commesso in danno dell’onorevole M. (capo D), non vi erano elementi da cui dedurre che l’utenza a questi riferibile fosse in uso al medesimo, tanto più che l’imputato G., quale consulente in al-tro procedimento penale, avesse riscontrato l’esistenza di altre utenze telefoniche in uso al M.; d) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno del senatore Ge. (capo E), non vi erano ele-menti da cui dedurre che l’utenza a questi riferibile fosse in uso al medesimo, tanto più che l’apparato era intestato alla “Camera dei Deputati”, mentre il Ge. non è stato mai deputato; e) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell’onorevole Mi. (capo F), l’utenza a questi riferibile, alla data del (OMISSIS), era stata dismessa da oltre un anno ed intestata alla Otto Telematicss.p.a.; f) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell’onorevole R. (capo G), l’utenza a questi riferibile era intestata al partito “(OMISSIS)”, al quale appartenevano indagati dell’inchiesta “(OMIS-SIS)”, e risultava utilizzata a Roma ed in Calabria, ed inoltre l’imputato G., quale consulente in altro procedimento penale, aveva avuto conoscenza di altre utenze effettivamente utilizzate dal R. ed indica-te in dibattimento dai testi L., Pr. e R. stesso; g) per quanto attiene al fatto contestato come commesso in danno dell’onorevole Pi. (capo H), i dati relativi all’utenza a questi riferibile erano stati acquisiti nel 2005, nell’ambito di indagini per omicidio, su disposizione di altro magistrato, e l’esistenza di essi è sta-ta semplicemente segnalata al dott. D.M., perché valutasse se attivare le procedure necessarie per ac-quisirli.

Si osserva, poi, in sintesi, che, in tutti i casi indicati, era riscontrabile la mancanza dell’elemento psi-cologico di operare contra ius e, conseguentemente, della coscienza e volontà di arrecare un danno in-giusto alle persone offese, che ciò “incideva sulla mancanza dell’elemento materiale del reato di abuso d’ufficio, così come strutturato a seguito della novella legislativa del 1997”, e che si imponeva pertanto l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”.

6.5. Si rileva, ancora, con osservazioni di carattere generale, concernenti tutte le contestazioni, che: a) non vi è stato alcun danno arrecato ai singoli parlamentari o al Parlamento, ed anzi con riferimento alle utenze riferibili al P., al R. ed al Pi., e ad una utenza riferibile al Go. non siano stati mai acquisiti ed ela-borati tabulati di comunicazioni; b) non può dirsi violata la L. n. 140 del 2003, né in linea generale, po-sto che la stessa non prevede in base a quali criteri si possa stabilire quando una utenza non intestata ad un parlamentare debba ritenersi in uso allo stesso, specie quando, come nel caso in esame, la stessa sia intestata ad enti o società o terzi, né specificamente da parte del G., in quanto il dovere di presentare ri-chiesta di autorizzazione alle Camere grava solo sull’Autorità giudiziaria; c) il G. ha agito con la sola finalità di perseguire l’interesse pubblico, stante anche l’assenza di ragioni di rancore, ostilità o inimici-zia nei confronti delle parti civili, come anche dalle stesse ammesso; d) è “stravagante” la qualificazione del danno ingiusto, ossia di quello che nelle contestazioni è indicato come l’evento del reato di abuso di ufficio, in termini di “conoscibilità di dati esterni di traffico relativi alle loro comunicazioni”, atteso che lo stesso non configura né danno patrimoniale, né danno non patrimoniale, difettando il danno conse-guenza, tanto più che la L. n. 140 del 2003 mira a tutelare l’Istituzione parlamentare e non la persona fi-sica parlamentare, né, quindi, la segretezza delle comunicazioni di questa utisingulus.

6.6. Si aggiunge, infine, che l’imputato G. è titolare di interesse a ricorrere perché la formula assolu-toria adottata dalla Corte d’appello potrebbe consentire l’adozione di sanzioni disciplinari nei suoi con-fronti, e potrebbe non essere risolutiva nel procedimento amministrativo determinato dalla contesta-zione di violazioni notificata dal Garante per la protezione dei dati personali in relazione al trattamento dei dati indicati nelle imputazioni del presente procedimento.

7. In data 5 settembre 2016, l’avvocato Repici nell’interesse dell’imputato G., ha presentato motivi nuovi, da valere anche come memoria.

L’atto riproduce la memoria depositata in appello e ripercorre l’intero materiale istruttorio acquisito agli atti del dibattimento, in particolare per sostanziare le affermazioni di fatto indicate nel ricorso pre-sentato subito dopo il deposito della sentenza, e per evidenziare l’inattendibilità o, comunque, la scarsa concludenza degli elementi che le parti civili indicano, nei loro atti di impugnazione, come pretermessi dal giudice di secondo grado nella sua valutazione, ed il cui mancato esame, ad avviso delle stesse, in-tegra il vizio di motivazione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Il ricorso del G. è infondato, mentre i ricorsi proposti dalle parti civili Go., M. e R. sono fondati nei

termini che di seguito si preciseranno.

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1.1. L’esame delle questioni muoverà dalle doglianze formulate nel ricorso dell’imputato G., perché logicamente preliminari a quelle prospettate dalle parti civili: la verifica sulla legittimità dello svolgi-mento del processo nei gradi di merito, sia con riferimento al dedotto impedimento a comparire nella fase delle questioni preliminari, sia con riguardo alla competenza per territorio, e poi la disamina sulla configurabilità del reato di abuso di ufficio, sotto il profilo della violazione di legge e del danno ingiu-sto, precedono necessariamente ogni indagine sulle deduzioni concernenti la sussistenza del dolo ne-cessario ai fini dell’integrazione della medesima fattispecie, ed anzi ne costituiscono presupposto con-dizionante la rilevanza di queste ultime. Per evidenti ragioni di linearità espositiva, la sentenza esami-nerà anteriormente alle questioni sollevate dalle parti civili anche le ulteriori censure dedotte nel ricorso del G., le quali criticano la pronuncia assolutoria “perché il fatto non costituisce reato”, e non “perché il fatto non sussiste”, rilevando, in linea generale, che il difetto del dolo specifico refluisce sullo stesso elemento materiale del reato di abuso di ufficio, e, in relazione all’acquisizione dei dati telefonici riferiti al senatore P., che il delitto è escluso per la impossibilità di riferire a questi i dati relativi alle utenze al medesimo attribuite nell’imputazione.

2. Il ricorso dell’imputato G. è ammissibile, perché contesta una sentenza il cui esito assolutorio è de-terminato esclusivamente dalla affermata insussistenza dell’elemento psicologico e che, avendo ritenu-to accertato il fatto obiettivo di un comportamento commesso in violazione di legge e produttivo di un danno ingiusto, potrebbe determinare in suo danno conseguenze negative: vi è quindi un interesse giu-ridicamente apprezzabile al ricorso (in giurisprudenza, la soluzione dell’ammissibilità dell’impugna-zione, è affermata anche dall’orientamento più rigoroso, per il quale v. Sez. 6, n. 6692 del 16/12/2014, dep. 2015, Rv. 262393, nonché Sez. 4, n. 49710 del 04/11/2014, Di Cuonzo, Rv. 261178, quando l’im-putato deduca che l’accertamento del fatto materiale, oggetto del processo penale, possa pregiudicare le situazioni giuridiche soggettive a lui facenti capo in giudizi civili, amministrativi o disciplinari, anche distinti rispetto a quelli di danno).

Inoltre, il precisato ricorso è ammissibile pure con riferimento alle censure concernenti le dedotte violazioni processuali: l’eventuale accoglimento delle stesse, determinerebbe (meglio: avrebbe determi-nato) la caducazione di entrambe le sentenze di merito, per il principio della nullità derivata, e, quindi, l’improponibilità dei ricorsi delle parti civili, i quali mirano all’annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente all’affermata insussistenza dell’elemento psicologico proprio sul presupposto della validità e della stabilità dell’accertamento giudiziale in ordine ai profili della violazione obiettiva di una norma di legge da parte degli imputati e della configurabilità di un danno ingiusto quale effetto della condotta contra legem commessa dai medesimi.

3. Le questioni processuali dedotte dal G. sono due: una relativa al rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento in relazione all’udienza del 17 aprile 2012; l’altra concernente l’incom-petenza per territorio del Tribunale (e poi della Corte d’appello) di Roma.

4. La prima di esse, formulata nel primo motivo di ricorso, contesta il rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato all’udienza del 17 aprile 2012 nonostante i concomitanti im-pegni dello stesso, nella mattina, come consulente tecnico del P.M. davanti al Tribunale di Marsala, e, nel successivo pomeriggio, per l’asportazione chirurgica di una biopsia presso il Policlinico di (OMIS-SIS).

La doglianza è priva di fondamento. 4.1. Innanzitutto, infatti, deve ritenersi certamente prevalente il diritto di difesa dell’imputato, ri-

spetto al dovere di rendere una deposizione davanti ad altra Autorità giudiziaria come testimone, con-sulente tecnico o perito in un processo nei confronti di altri.

Invero, anche alla luce dell’enunciato dell’art. 24 Cost., comma 2, secondo cui “la difesa è diritto in-violabile in ogni stato e grado del procedimento”, il giudice del procedimento davanti al quale una per-sona deve partecipare quale testimone, perito o consulente tecnico non può non ritenere prevalente l’impegno di quest’ultima a presenziare nel processo a suo carico. Non appropriato, inoltre, è il richia-mo alla fattispecie di cui all’art. 366 c.p., sia perché la disposizione incriminatrice esige, testualmente, una condotta caratterizzata dal ricorso a mezzi fraudolenti o comunque consistente nel rifiuto di dare le proprie generalità o di prestare il giuramento o le funzioni richieste, sia perché, in ogni caso, come os-servato anche in dottrina, la previsione evocata non è applicabile se il rifiuto è dovuto ad impedimenti legittimi. Né, d’altro canto, può essere rimessa alla volontà dell’imputato la decisione su quale dei due processi debba avere la precedenza, trattandosi di scelta che attiene all’interesse sopraindividuale della ordinata amministrazione della giustizia.

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4.2. In secondo luogo, poi, non manifestamente illogica è la valutazione dei giudici di primo e di se-condo grado, i quali concordemente hanno escluso un nocumento per l’imputato, il quale avrebbe po-tuto comunque sottoporsi agli accertamenti indicati subito dopo l’udienza, senza apprezzabile ritardo.

Può aggiungersi, per completezza, che, secondo un principio giurisprudenziale condiviso dal Colle-gio, non costituisce legittimo ed assoluto impedimento a partecipare al processo nemmeno la necessità dell’imputato di sottoporsi ad un accertamento medico certificato come indifferibile a causa delle esi-genze organizzative della struttura sanitaria presso cui deve essere eseguito e non in ragione delle spe-cifiche ed impellenti condizioni di salute del medesimo, perché accedere alla soluzione contraria “signi-ficherebbe affermare il principio generale che le esigenze della struttura sanitaria prevalgono, per sé, sulle esigenze di giustizia”, sebbene queste ultime costituiscano oggetto di immediata tutela costituzio-nale, a differenza di quelle attinenti l’organizzazione dei servizi sanitari (così Sez. 6, n. 45659 del 19/11/2010, Ippoliti, Rv. 249034).

5. La seconda questione, proposta nel secondo motivo di ricorso, attiene alla incompetenza per terri-torio del Tribunale di Roma, perché i primi dati furono elaborati nella sede Vodafone di (OMISSIS), con conseguente competenza dell’Autorità giudiziaria di Napoli, o comunque, perché gli stessi furono rice-vuti e “scaricati” dal G. nel suo studio di (OMISSIS), con conseguente competenza dell’Autorità giudi-ziaria avente sede in detta città, ovvero ancora perché l’iscrizione del procedimento nei confronti del G. e del D.M. per abuso di ufficio derivante dalla violazione della L. n. 140 del 2003, art. 4 nel registro delle notizie di reato della Procura della Repubblica di Salerno era avvenuta in data antecedente a quella eseguita nel corrispondente registro tenuto dalla Procura della Repubblica di Roma.

Anche questa doglianza è priva di fondamento. 5.1. Con riferimento alla asserita competenza dell’Autorità giudiziaria di Napoli, correttamente i

giudici di merito hanno escluso di poter attribuire rilevanza all’elemento, emerso solo nel corso del di-battimento, secondo cui i primi dati furono elaborati nella sede Vodafone di (OMISSIS), in quanto lo stesso è stato acquisito solo dopo l’apertura del dibattimento. Invero, per effetto del principio della perpetuatio iuris dictionis, secondo l’orientamento giurisprudenziale consolidato, che il Collegio con-divide, la competenza va determinata con criterio ex ante, sulla scorta degli elementi disponibili al momento delle cadenze normativamente prefissate per la proponibilità dell’eccezione, sicché non han-no rilievo né eventi processuali, né acquisizioni di elementi di conoscenza in epoca successiva alla con-sumazione dei limiti temporali per dedurre la stessa (così, relativamente agli eventi processuali, v. Sez. 4, n. 14699 del 12/12/2012, dep. 2013, Perez Garcia, Rv. 255498, e Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Batti-stella, Rv. 234350, mentre, in ordine agli elementi conoscitivi, cfr., per tutte, Sez. 2, n. n. 24736 del 26/03/2010, Amato, Rv. 247745), tanto che, anzi, secondo una decisione, non sarebbe possibile neppure formulare argomentazioni ulteriori rispetto a quelle già esaminate, ove si riproponga la questione in sede di impugnazione (così Sez. 2, n. 1415 del 13/12/2013, dep. 2014, Chiodi, Rv. 258149).

Né questa disciplina, che limita la rilevabilità delle questioni di competenza per territorio si pone in contrasto con la garanzia del giudice naturale, poiché costituisce enunciato più volte ribadito dalla giu-risprudenza costituzionale quello secondo cui il legislatore è arbitro, nella sua discrezionalità, di limita-re la rilevanza del criterio di ripartizione della giurisdizione a vantaggio dell’ordine e speditezza del processo, senza che a causa di ciò sia intaccato il principio della naturalità precostituita del giudice (co-sì, Corte cost., n. 521 del 1991, Corte cost., n. 280 del 1994, Corte cost., n. 349 del 2000; per la condivisio-ne di questo approdo ermeneutico nella giurisprudenza di legittimità, cfr. Sez. 2, n. 24736 del 2010, Amato, cit., in motivazione, nonché Sez. 6, n. 8587 del 30/11/2000, dep. 2001, Singh, Rv. 219856).

In ogni caso, poi, come hanno osservati i giudici di primo e secondo grado, il reato può ritenersi perfe-zionato solo quando i dati di traffico telefonico sono conosciuti o resi conoscibili da parte di soggetti terzi rispetto al gestore telefonico, che li conserva e li elabora a richiesta, ed attraverso la decrittazione di essi mediante l’uso della relativa password, sicché l’elemento dell’elaborazione dei primi dati in (OMISSIS) da parte di personale della Vodafone resta irrilevante ai fini della determinazione della competenza.

5.2. Con riferimento alla asserita competenza dell’Autorità giudiziaria di (OMISSIS), la Corte d’appello e prima ancora il Tribunale di Roma hanno escluso di poter individuare il luogo del commes-so reato nello studio di G. in (OMISSIS), evidenziando, con motivazione immune da vizi logici e giuri-dici, che il collegamento al server della posta elettronica alla quale sono pervenuti i dati, poteva essere avvenuto da qualunque terminale, e, quindi da qualsiasi ubicazione. Di conseguenza, corretta è la con-clusione che anche il riferimento spazio-temporale in questione, oggetto di mera allegazione da parte della difesa del G., è ininfluente ai fini della decisione della questione di competenza.

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5.3. In terzo luogo, infine, con riferimento alla asserita competenza dell’Autorità giudiziaria di Sa-lerno, i giudici di merito hanno evidenziato che il procedimento per il quale si è proceduto ad iscrizione a Roma è, rispetto a quello definito dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale campano, non solo più ampio, in ragione del numero di persone offese, ma anche diverso, per la non coincidenza dei fatti, riguardanti anche altre condotte ascritte al D.M., quale sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Catanzaro; sulla base di questa premessa, poi, hanno escluso che il procedimento iscritto a Salerno esercitasse vis attractiva su quello iscritto a Roma. La conclusione è corretta perché, come si osserva nella giurisprudenza di legittimità, ai fini della determinazione della competenza per territorio, l’adempimento dell’iscrizione della notizia di reato richiamato dalla regola suppletiva di cui all’art. 9 c.p.p., comma 3, deve intendersi in senso rigorosamente formale, e deve pertanto essere ap-prezzato in relazione alla specifica ipotesi criminosa oggetto di iscrizione e non anche in relazione all’eventuale più ampio contenuto della denuncia pervenuta all’ufficio del pubblico ministero (così Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, Battistella, Rv. 234349, ma, già in precedenza, per la valorizzazione dei dati formali contenuti nell’iscrizione come elemento decisivo ai fini dell’applicazione del criterio di priorità ex art. 9 c.p.p., comma 3, cfr. Sez. 2, n. 11849 del 11/02/2003, Monnier, Rv. 223833).

Si può anzi aggiungere che le doglianze della difesa sono rimaste, in relazione a tale profilo del mo-tivo di ricorso in esame, prive della specificità richiesta dall’art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c): a fronte del-la convergente risposta dei giudici di merito, non è stato neanche allegato il travisamento del fatto pro-cessuale, né sono stati forniti elementi di alcun tipo per dimostrare l’identicità (sia pure per inclusione) dei fatti iscritti a Salerno e dei fatti iscritti a Roma.

6. Le questioni sostanziali formulate nel ricorso del G. in relazione alla configurabilità dell’elemento oggettivo del reato di abuso di ufficio attengono, innanzitutto, ai profili della sussistenza/insussistenza di una violazione di legge e di un danno ingiusto ascrivibili all’imputato.

7. La prima questione attiene alla configurabilità della violazione di legge con riferimento alla disci-plina in materia di guarentigie per i membri del Parlamento, sia in termini generali, avendo riguardo all’individuazione delle condizioni da cui desumere la trasgressione delle prescrizioni normative, sia in termini relativi, avendo riguardo alla posizione del G. quale consulente tecnico del pubblico ministero.

La questione non è fondata sotto nessuno dei due profili evidenziati. 7.1. Costituisce principio consolidato, nella giurisprudenza di legittimità e nella giurisprudenza co-

stituzionale, quello secondo cui, a norma della L. 20 giugno 2003, n. 140, art. 4, debbono essere preven-tivamente autorizzate le intercettazioni alle quali il parlamentare venga sottoposto non solo quale inda-gato, ma anche quale persona offesa o informata sui fatti, su utenze o in luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (così, specificamente, Sez. 2, n. 8739 del 16/11/2012, dep. 2013, La Mo-nica, Rv. 254548), e ciò anche quando le captazioni vengano effettuate ponendo sotto controllo gli inter-locutori abituali del membro del Parlamento in un contesto tale da far ritenere che le intercettazioni siano indirettamente volte a intercettare le conversazioni del parlamentare (così ancora, Sez. 2, La Mo-nica, cit., nonché Sez. F, n. 34244 del 09/09/2010, Lombardi, Rv. 248216). Invero, come ha evidenziato la giurisprudenza del Giudice delle Leggi, “va infatti osservato che la norma costituzionale vieta di sotto-porre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazio-ni: quello che conta – ai fini dell’operatività del regime dell’autorizzazione preventiva stabilito dall’art. 68 Cost., comma 3, – non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto d’indagine. Se quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parla-mentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a prescindere dal fatto che il procedimento ri-guardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi” (così testualmente, Corte cost., n. 390 del 2007).

Ciò che assume significato dirimente, quindi, è che l’attività di captazione delle conversazioni o, co-me nel caso di specie, di acquisizione dei tabulati sia diretta “ad accedere nella sfera delle comunica-zioni del parlamentare”, indipendentemente dalla titolarità o, addirittura, della disponibilità dell’u-tenza sottoposta a controllo.

Quanto appena segnalato, poi, nella prospettiva non della tutela della riservatezza delle comunica-zioni del parlamentare in quanto persona fisica e come tale soggetto di diritti, bensì della tutela del libe-ro esercizio della funzione parlamentare. In effetti, come osserva la Corte costituzionale: “Destinatari della tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari uti singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto ad indebite invadenze del potere giudiziario (si veda, al ri-

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guardo, con riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del 2004): il che spiega l’irrinunciabilità della garanzia (sentenza n. 9 del 1970). (...) Richiedendo il preventivo assenso della Camera di appartenenza ai fini dell’esecuzione di tale mezzo investigativo, l’art. 68 Cost., comma 3, non mira a salvaguardare la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare in quanto tale. Quest’ultimo diritto trova riconoscimento e tutela, a livello costituzionale, nell’art. 15 Cost., secondo il quale la limi-tazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge.

L’ulteriore garanzia accordata dall’art. 68 Cost., comma 3, è strumentale, per contro, anche in questo caso, alla salvaguardia delle funzioni parlamentari: volendosi impedire che l’ascolto di colloqui riserva-ti da parte dell’autorità giudiziaria possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività. E ciò analogamente a quanto avviene per l’autorizzazione preventiva alle perquisizioni ed ai sequestri di corrispondenza, il cui oggetto ben può consistere anche in documenti a carattere comu-nicativo” (così Corte cost. n. 390 del 2007).

7.2. In coerenza con le riferite indicazioni giurisprudenziali, è ragionevole ritenere che disporre l’acquisizione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze le quali, alla luce de-gli atti di indagine esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili ad un parlamentare è attività compiuta in violazione di quanto prescrive la L. n. 140 del 2003, art. 4, in quanto non preceduto dalla necessaria Camera di appartenenza di quest’ultimo.

D’altro canto, la soluzione alternativa prospettabile, in forza della quale sarebbe possibile procedere all’acquisizione dei tabulati nonostante la preesistente disponibilità negli atti di indagine di elementi indicativi della riferibilità delle utenze interessate ai membri del Parlamento, e, solo all’esito di una ve-rifica sul contenuto delle risultanze acquisite, chiedere un’autorizzazione ex post alla Camera di appar-tenenza, non è sostenibile per un duplice ordine di ragioni. Innanzitutto, ammettere l’acquisibilità dei tabulati ed il controllo dei dati risultanti dagli stessi prima di chiedere l’autorizzazione alla Camera o al Senato, nelle condizioni di fatto indicate, significherebbe rendere ineffettiva l’esigenza di salvaguardare l’esercizio delle funzioni parlamentari da condizionamenti e pressioni, in contrasto con il fondamento della garanzia costituzionale di cui all’art. 68 Cost., comma 3, perché sarebbe comunque incisa la sfera di libertà del deputato o del senatore rispetto ai controlli: l’autorizzazione a posteriori rileverebbe, di fatto, ai soli fini della utilizzabilità processuale degli atti acquisiti. In secondo luogo, poi, l’autorizza-zione ex post prevista dalla L. n. 140 del 2003, art. 6 non è certamente configurabile come provvedimen-to a “sanatoria”:

se così si ritenesse, infatti, si “verrebbe a spostare in sede parlamentare – in una situazione nella qua-le risulterebbe eventualmente attivabile anche il rimedio del conflitto di attribuzioni – un sindacato che trova la sua sede naturale nell’ambito dei rimedi interni al processo. Con il rischio – da taluni paventato – che un siffatto meccanismo possa porsi addirittura in contrasto con la stessa norma costituzionale, at-tribuendo, di fatto, all’Assemblea parlamentare – nel caso di concessione dell’autorizzazione – la facoltà di “sanare”, rendendoli utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra constitutionem” (così ancora Corte cost., n. 390 del 2007).

7.3. La sentenza impugnata, nella vicenda in esame, non ha escluso che le utenze indicate nei capi di imputazione fossero riferibili, al momento della richiesta dei tabulati, e sulla base degli atti acquisiti al fascicolo delle indagini preliminari, ai membri del Parlamento P.G., Go.Sa., Pr.Ro., M.C., Ge.An., Mi.Do., R.F. e Pi.Gi. Più limitatamente, la stessa ha escluso che l’intestazione conosciuta o conoscibile delle utenze in relazione alle quali era disposta l’acquisizione dei tabulati non appariva “compiutamen-te riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali”, di tal ché “non si può sostenere che sia pie-namente provato che i due imputati avessero piena contezza che i numeri rinvenuti nelle agende e ru-briche del S. fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento”.

Resta il fatto che se agli atti di indagine risultavano elementi dai quali desumere la riferibilità delle utenze ai precisati parlamentari, a prescindere dalla “piena contezza” degli imputati, sussisteva, da un punto di vista oggettivo, il dovere di rivolgersi alla Assemblea di appartenenza e chiederne l’autoriz-zazione. Invero, quand’anche fosse accertata l’intestazione formale di una o più utenze a soggetti diver-si dai parlamentari, come adombrato nella vicenda in esame nel terzo motivo di ricorso del G., ciò che rileva è comunque la situazione che si presenta agli inquirenti al momento dell’attività in cui viene di-sposta l’acquisizione dei tabulati, perché è in quel momento che occorre presentare l’istanza di autoriz-zazione alla Camera o al Senato. Nella specie, perciò, di fronte alle risultanze investigative desumibili

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dalle registrazioni rinvenute nelle rubriche e nelle memorie dei cellulari sequestrati al S., le quali abbi-navano le utenze a nomi di parlamentari, e dato il contesto in cui si svolgeva l’indagine, l’autorità giu-diziaria avrebbe dovuto o chiedere l’autorizzazione alle Assemblee competenti per ciascun deputato o senatore oppure compiere accertamenti per escludere affidabilmente l’eventualità dell’accesso nella sfe-ra delle comunicazioni di uno o più membri del Parlamento.

Ma, in ogni caso, non avrebbe potuto disporre l’acquisizione dei tabulati, senza il preventivo per-messo dell’Istituzione, e proprio sul presupposto di quanto appreso dalle perquisizioni effettuate nei confronti del S. In questo senso, del resto, è l’indicazione offerta dalla giurisprudenza costituzionale in tema di perquisizioni domiciliari: di fronte all’allegazione non implausibile che un luogo costituisce domicilio di un parlamentare, divergente dall’esito di precedenti accertamenti, si è ritenuto che l’Auto-rità giudiziaria non avrebbe potuto procedere alla perquisizione, ma avrebbe dovuto o sospendere le attività e chiedere alla Camera di appartenenza la necessaria autorizzazione o comunque compiere spe-cifici accertamenti sulla veridicità dell’allegazione (così Corte cost. n. 58 del 2004).

All’esito di questa precisazione, corretta è la conclusione dei giudici di merito secondo cui le attività dirette all’acquisizione dei tabulati di comunicazioni relativi alle utenze indicate nei capi di imputazio-ne furono compiute in violazione di legge, e precisamente in violazione della L. n. 140 del 2003, art. 4.

7.4. Quanto poi alla ascrivibilità obiettiva al G. della descritta attività svolta in violazione di legge, è sufficiente osservare che i provvedimenti di acquisizione dei tabulati adottati dal D.M. quale Sostituto Procuratore della Repubblica risultano emessi sulla base delle indicazioni, e specificamente delle “Rela-zioni” predisposte dal primo, nella sua veste di consulente tecnico del pubblico ministero.

La condotta del G., quindi, da un punto di vista materiale, e per come ricostruita dai giudici di meri-to, è qualificabile come quella del determinatore, o quanto meno dell’ausiliatore della condotta del ma-gistrato inquirente D.M. nell’aver disposto l’acquisizione dei tabulati dei tabulati riferibili ai membri del Parlamento senza preventiva autorizzazione delle Camere di appartenenza, ed è quindi riconduci-bile, almeno sotto il profilo oggettivo, alla figura del concorrente ex art. 110 c.p.

Deve anzi aggiungersi che, così come contestato nelle imputazioni, una ulteriore condotta in viola-zione di legge attribuibile, almeno sotto il profilo obiettivo, al ricorrente, eventualmente anche in via autonoma rispetto al magistrato, è quella di aver elaborato i tabulati di comunicazioni acquisiti senza autorizzazione e riferibili a parlamentari, quale consulente tecnico del pubblico ministero, e, quindi, quale pubblico ufficiale (cfr., in particolare, sulla qualifica spettante al consulente tecnico del pubblico ministero, Sez. 6, n. 4062 del 07/01/1999, Pizzicaroli, Rv. 214142, nonché Sez. 6, n. 2675 del 05/12/1995, dep. 1996, Tauzilli, Rv. 204516).

In effetti, la garanzia prevista dall’art. 68 Cost., comma 3, come ha rilevato la citata giurisprudenza costituzionale, è strumentale alla salvaguardia delle funzioni parlamentari da “indebite invadenze del potere giudiziario”, e la previsione posta dalla L. n. 140 del 2003, art. 4 ne costituisce disciplina di at-tuazione: essa, pertanto, non ha natura meramente procedimentale, ma finalità di tipo sostanziale; se si vuole, una ulteriore conferma di questa conclusione deriva dalla disciplina posta nell’art. 6 della mede-sima legge che, relativamente alle intercettazioni “casuali” di parlamentari fisiologicamente già effet-tuate, prevede, nel caso di diniego di autorizzazione della Camera competente, non semplicemente l’inutilizzabilità dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di comunicazioni, ma anche l’obbligo di immediata distruzione di essi. Di conseguenza, deve ritenersi che la disposizione di cui alla L. n. 140 del 2003, art. 4, nel dettare le regole da seguire per chiedere l’autorizzazione all’Assemblea parlamenta-re ad acquisire i tabulati di conversazioni (o a compiere ispezioni o perquisizioni o intercettazioni), pre-suppone implicitamente, ma inequivocabilmente, che questa documentazione, in difetto del previo as-senso della Camera competente, non possa essere in alcun modo acquisita, e quindi nemmeno sottopo-sta a verifica, analisi o elaborazione, nell’ambito di un procedimento penale, da parte dell’Autorità giu-diziaria o di chi collabora con la stessa.

8. La seconda questione, concernente la configurabilità del danno ingiusto quale effetto della condot-ta concorrente del G. e del D.M., è anch’essa priva di fondamento.

8.1. È utile premettere che la sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha ritenuto che sono stati acquisiti ed esaminati nell’ambito del procedimento (OMISSIS) dal D.M. quale sostituto pro-curatore della Repubblica titolare del procedimento, e dal G., quale consulente tecnico del magistrato inquirente, i tabulati di comunicazioni riferibili a tutti i parlamentari indicati nelle imputazioni, e quin-di anche quelli indicati con riferimento al P., al R., al Pi. ed al Go., diversamente da quanto contestato nel ricorso del G.

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Per la precisione, la Corte di appello di Roma, alle pag. 101 e 102 della motivazione, evidenzia che: a) i dati riferibili al senatore P. provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema (OMISSIS) elaborato dal G. a partire dal (OMISSIS) e fino al (OMISSIS); b) i dati riferibili al senatore Ge. provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); c) i dati riferibili ai parlamentari Go., Pr., M. e Mi. provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); d) i dati riferibili al deputato R. provenienti dalla TIM furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); e) i dati riferibili al deputa-to Pr. provenienti dalla OMNITEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); f) i dati riferibili ai parlamentari M., Ge. e Mi. provenienti dalla OMNITEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); g) i dati riferibili al deputato R. provenienti dalla OMNI-TEL/VODAFONE furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); h) i dati riferibili al deputato M. provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); i) i dati riferibili al deputa-to Pr. provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); l) i dati riferibili al deputato Mi. provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); m) i dati rife-ribili al deputato R. provenienti dalla WIND furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); n) i da-ti riferibili al deputato Pr. provenienti dalla H3G furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); o) i dati riferibili al deputato R. provenienti dalla H3G furono inseriti nel sistema (OMISSIS) il (OMISSIS); p) i dati riferibili al parlamentare Pi., acquisiti nell’ambito di diverso procedimento, furono elaborati e trattati nel procedimento (OMISSIS), come risulta dalla relazione n. 8 del G. datata (OMISSIS).

A fronte di questa ricostruzione, le critiche formulate nel ricorso del G. non deducono un travisa-mento del fatto, né allegano elementi dai quali tale travisamento potrebbe desumersi.

Di conseguenza, non può essere posta in discussione l’affermazione della Corte di appello che, in li-nea con quanto già ritenuto dal Tribunale, ha reputato avvenuta l’acquisizione agli atti del procedimen-to denominato (OMISSIS), in quel momento nella titolarità del D.M., dei tabulati di comunicazioni rife-ribili a tutti i parlamentari indicati nelle imputazioni, nonché la successiva elaborazione dei dati risul-tanti da tale documentazione.

8.2. Deve quindi essere esaminata la questione se l’acquisizione, elaborazione e trattazione dei tabu-lati di comunicazioni relative alle utenze dei parlamentari indicati abbia prodotto un ingiusto danno per gli stessi; danno che, per la contestazione, sarebbe identificabile nella conoscibilità di dati esterni di traffico telefonico riferibile ai predetti deputati e senatori in assenza di vaglio ed autorizzazione preven-tivi delle Camere di appartenenza.

8.3. Secondo la costante elaborazione della giurisprudenza di legittimità, danno ingiusto rilevante ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio è anche il danno che attiene alla sfera dei diritti o anche solo degli interessi non patrimoniali di un soggetto: più volte, infatti, si è ritenuto che tale ele-mento fosse integrato dall’aggressione ingiusta alla sfera della personalità per come tutelata dai princi-pi costituzionali (cfr.: Sez. 5, n. 32023 del 19/02/2014, Omodeo Zorini, Rv. 261899; Sez. 6, 4945 del 15/01/2004, Ottaviano, Rv. 227281; Sez. 6, n. 11549 del 02/10/1998, Arcidiacono, Rv. 213032). Ciò, in particolare, anche quando detta aggressione fosse derivante dall’esercizio indebito di poteri investiga-tivi (v., specificamente, Sez. 5, cit., nonché Sez. 6, n. 35127 del 26/06/2003, Ippolito, Rv. 226548, e Sez. 6, Arcidiacono, cit.) o coercitivi (v. Sez. 6, n. 9970 del 04/02/2003, Poletti Walter, Rv. 223973, nonché Sez. 5, n. 3684 del 09/02/1999, Cofrancesco, Rv. 213317); in un’occasione, inoltre, il danno ingiusto è stato individuato, quale danno non patrimoniale, nell’impedimento all’esercizio del diritto di accesso a do-cumenti amministrativi al fine dell’eventuale esperimento di iniziative a tutela degli interessi di un candidato ad un incarico dirigenziale nella P.A. (così Sez. 6, n. 729 del 01/12/2003, dep. 2004, Tessitore, Rv. 228269).

Muovendo da questa prospettiva, il danno ingiusto, quale elemento costitutivo del reato di abuso di ufficio, può essere costituito anche dalla lesione delle prerogative parlamentari, compiuta mediante l’adozione di un provvedimento di acquisizione, agli atti di un procedimento penale, di dati ottenuti in violazione delle guarentigie riconosciute al membro del Parlamento, ovvero mediante l’elaborazione di tali dati, illegittimamente acquisiti, da parte del magistrato o di un suo collaboratore.

In particolare, i due eventi appena indicati, pur non comportando un danno patrimoniale, si presen-tano come ingiusti perché immediatamente lesivi della sfera di prerogative attribuite dalla Costituzione al parlamentare non uti singulus, ma quale membro dell’Assemblea, a tutela della sua libertà da inter-ferenze in ordine allo svolgimento del mandato elettivo, e, quindi, da condizionamenti e pressioni inci-denti sulla autonoma esplicazione della sua attività istituzionale che provengano da indebite invadenze del potere giudiziario (la funzione delle garanzie previste dall’art. 68 Cost. quale strumento diretto a

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“preservare la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena au-tonomia decisionale (della Istituzione parlamentare), rispetto ad indebite invadenze del potere giudi-ziario” è sottolineata da Corte cost. n. 390 del 2007).

È indicativo, del resto, che nella giurisprudenza costituzionale, si è ritenuto immediatamente lesivo delle prerogative del parlamentare, quale componente dell’Assemblea, anche “il solo fatto che una per-quisizione sia disposta o eseguita nel domicilio di un parlamentare senza autorizzazione della Camera di appartenenza”, e che tale accadimento sia stato considerato di per sé sufficiente a legittimare la pro-posizione di un conflitto di attribuzioni nei confronti dell’Autorità giudiziaria da parte della Camera cui apparteneva il deputato interessato dall’attività coercitiva indicata (cfr. Corte cost., sent. n. 58 del 2004).

In questa prospettiva, infine, il danno ingiusto evidenziato, costituito dalla lesione delle prerogative parlamentari, conserva una sua autonomia rispetto alla condotta illegittima, ponendosi come l’effetto ed il risultato offensivo di quest’ultima, e, quindi, assume chiaramente natura di evento causalmente determinato dalla seconda, sia pure configurandosi quale evento giuridico. Resta così rispettato anche il requisito della cd. “doppia ingiustizia”, che postula una distinta ed autonoma valutazione della illegali-tà della condotta e della antigiuridicità del danno (o del vantaggio patrimoniale), ma non richiede che quest’ultima derivi da una violazione di legge o di regolamento diversa da quella inficiante la condotta.

9. La terza questione di carattere generale formulata nel ricorso del G., e precisamente nel quarto motivo, attiene alla (non) configurabilità dell’elemento materiale del reato di abuso di ufficio allorché difetti la coscienza e volontà di arrecare un danno ingiusto alle persone offese.

La questione è infondata. La tesi, pure prospettata da qualche voce in dottrina, secondo cui nella fattispecie di abuso di ufficio

vi è una forte compenetrazione tra elemento materiale ed elemento psicologico, sicché di “abuso” non può in alcun modo parlarsi se non emerge una dimensione volitiva dell’agente diretta contra ìus, non evidenzia elementi tali da consentire di distinguere detta fattispecie (ed eventualmente altre fattispecie ad essa assimilabili) da tutte le altre fattispecie incriminatrici da un punto di vista della teoria generale del reato, sì da individuare un’eccezione alla concezione bipartita o tripartita di questo. Si può anzi ag-giungere che proprio il testo vigente dell’art. 323 c.p. non impiega più nemmeno il termine “abuso” nel costruire la fattispecie, ma descrive, con segni linguistici dai contenuti definiti, una condotta ed un evento obiettivamente percepibili indipendentemente dalla componente rappresentativa e volitiva che la deve sorreggere.

9.1. La conclusione appena indicata, ed il contenuto della pronuncia assolutoria emessa dalla Corte d’appello, fondata sulla insussistenza dell’elemento psicologico normativamente richiesto, esimono il Collegio dal dovere di procedere ad un’analisi delle censure di illogicità della motivazione contenute diffusamente nel quarto motivo di ricorso e nella memoria depositata il 5 settembre 2016.

Se, infatti, la sentenza assolutoria ha escluso la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abu-so di ufficio, le censure e le argomentazioni dirette ad evidenziare la mancanza dell’elemento psicologi-co in capo all’imputato di operare contra ius sono irrilevanti, perché non potrebbero implicare una mo-difica della formula assolutoria. Può premettersi, in proposito, che, secondo l’orientamento assoluta-mente maggioritario della giurisprudenza di legittimità, deve escludersi l’interesse dell’imputato ad impugnare una sentenza assolutoria pronunciata a norma dell’art. 530 c.p.p., comma 2, anche perché l’interesse all’impugnazione non può risolversi in una pretesa, meramente teorica ed astratta, all’esat-tezza giuridica della pronuncia o, comunque, tale da non condurre ad alcuna modifica degli effetti del provvedimento (così, tra le più recenti, Sez. 5, n. 49580 del 26/09/2014, Rosa, Rv. 261341, e Sez. 3, n. 23485 del 07/03/2014, U., Rv. 260082, nonché, in precedenza, anche Sez. U, n. 2110 del 23/11/1995, dep. 1996, Fachini, Rv. 203762). È plausibile osservare, di conseguenza, che le ragioni poste a base dell’o-rientamento appena riferito esplicitate da Sez. U, Fachini, cit., nel rilievo secondo cui l’impugnazione si configura come un rimedio a disposizione della parte per la tutela di posizioni soggettive giuridica-mente rilevanti, e non già di interessi di mero fatto, non apprezzabili dall’ordinamento giuridico – pre-sentano una efficacia persuasiva ancora maggiore quando, come nel caso di specie, l’impugnazione non può determinare né il mutamento della formula assolutoria, né il riferimento al comma 1 o al comma 2 dell’art. 530 c.p.p., e si dirige esclusivamente verso la motivazione.

9.2. Ovviamente, però, in considerazione dell’esito di annullamento con rinvio del presente giudizio con riferimento al punto della sussistenza o meno dell’elemento psicologico del reato, gli argomenti esposti nel ricorso e nella memoria del G. per escludere la sua volontà di arrecare un danno ingiusto

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mentre poneva in essere le condotte ascrittegli potranno essere compiutamente ripresentati davanti al giudice di merito ai fini della decisione rimessa alla sua cognizione in sede di rinvio.

10. Infondata, infine, è anche l’ulteriore questione dedotta nel ricorso del G., e precisamente nel terzo motivo, avendo riguardo alla assoluzione con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, invece che con quella “perché il fatto non sussiste” in ordine all’imputazione formulata relativamente all’ac-quisizione delle utenze ritenute riferibili al senatore P., sul rilievo che per queste ultime non vi è prova di tale riferibilità.

Invero, occorre rilevare che l’adozione, da parte di un magistrato inquirente, di un illegittimo prov-vedimento acquisitivo di tabulati di comunicazioni riferibili ad un parlamentare alla luce dei dati esi-stenti in quel momento agli atti di indagine costituisce, di per sé, comportamento idoneo ad integrare, sotto il profilo obiettivo, quanto meno la condotta di tentativo di abuso di ufficio (per la configurabilità del tentativo del reato di cui all’art. 323 c.p., cfr. Sez. 6, n. 26617 del 01/04/2009, Masella, Rv. 244465, nonché Sez. 6, n. 10136 del 24/06/1998, Ottaviano, Rv. 211567). È evidente, infatti, che l’attività in que-stione consiste in un atto di indagine, per ripetere le parole della Corte costituzionale nella sentenza n. 390 del 2007, “volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare”, indi-pendentemente dalla “titolarità o (...) disponibilità dell’utenza captata”, e, quindi, determina la lesione immediata delle prerogative parlamentari nonché l’acquisizione agli atti di un procedimento penale di dati ottenuti in violazione delle guarentigie riconosciute al membro del Parlamento, quale componente dell’Istituzione, anche se eventualmente risultati ex post allo stesso non riferibili.

Nella fattispecie in esame, secondo quanto emerge dalla sentenza di primo grado (cfr. pagg. 9-15), non contrastata sul punto da quella di appello, le utenze in questione erano indicate come riferibili a P.G. nell’agenda cartacea sequestrata al S., ed erano state oggetto della richiesta di acquisizione da par-te del G. al D.M. nella Relazione n. 1 proprio sulla base di queste risultanze documentali; inoltre, il Mi-nistro P.G., agli atti del procedimento cd. “(OMISSIS)”, risultava essere in rapporti con il S., in ragione di conversazioni intercettate intercorse tra quest’ultimo ed il segretario particolare del primo. Di conse-guenza, il provvedimento di acquisizione dei tabulati di comunicazioni relative alle predette utenze, sotto il profilo obiettivo, non poteva essere legittimamente adottato senza preventiva autorizzazione da parte dell’Assemblea di appartenenza del P.

Ne discende, allora, che le attività dirette all’acquisizione delle utenze ritenute riferibili al senatore P., in quanto immediatamente lesive delle prerogative parlamentari, non risultano, sotto il profilo og-gettivo, penalmente irrilevanti, quanto meno in relazione alla fattispecie derivante dalla combinazione tra l’art. 56 c.p. e l’art. 323 c.p., ferma restando la necessità di accertare anche la sussistenza dell’ele-mento psicologico normativamente richiesto per poter ravvisare la compiuta integrazione di tale reato e, quindi, in caso di verifica negativa o insufficiente in ordine a quest’ultimo, la legittimità di una pro-nuncia assolutoria con la formula “perché il fatto non costituisce reato”.

11. I ricorsi delle parti civili Go.Sa., M.C. e R.F. sono fondati nella parte in cui lamentano vizio di mo-tivazione della sentenza impugnata relativamente agli elementi indicati nella decisione di primo grado e nelle memorie da essi ricorrenti presentate nel corso del giudizio di appello.

Sono invece infondati laddove contestano, come nel ricorso presentato dal Go., l’ammissibilità di una decisione assolutoria nel merito in presenza di elementi contraddittori, nonostante il reato fosse già prescritto, o comunque richiedono alcune precisazioni laddove criticano, come nei ricorsi del M. e del R., l’affermazione di insufficienza del dolo eventuale rispetto alla violazione di legge.

12. La questione relativa alla inammissibilità dell’adozione di una sentenza assolutoria nel merito da par-te del giudice di appello, in riforma di diversa pronuncia da parte del giudice di primo grado, quando non ricorrano i presupposti di evidenza della prova di cui all’art. 129 c.p.p., comma 2, sollevata nella prima parte del primo motivo del ricorso del Go., è infondata, perché detto limite ai poteri di cognizione (e di decisione) del giudice, previsto per esigenze di economia processuale, non può operare in danno dell’imputato quando occorre decidere in relazione ai medesimi capi della sentenza ai fini degli effetti civili.

Costituisce, infatti, principio consolidato, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, all’esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, quando, in sede di appello, so-pravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili (così per tutte, Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273, nonché, tra le tante successive, Sez. 6, n. 16155 del 20/03/2013, Ge-lati, Rv. 255666).

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13. La questione relativa alla sufficienza del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge nel rea-to di abuso di ufficio, formulata nella parte finale del primo motivo del ricorso del M. e nel secondo motivo del ricorso del R., è infondata nei termini che si preciseranno, almeno quando, come nella vi-cenda in esame, l’ingiustizia del danno è l’effetto della violazione di legge.

13.1. È doveroso premettere che alcune decisioni della giurisprudenza di legittimità ricostruiscono il dolo, nella fattispecie di abuso di ufficio, come elemento psicologico a struttura articolata, in quanto generico con riferimento alla condotta, e precisamente alla coscienza e volontà di violare norme di leg-ge o di regolamento ovvero di trasgredire l’obbligo di astensione, ed intenzionale rispetto all’evento, e segnatamente al danno o vantaggio patrimoniale ingiusti (così, Sez. 2, n. 23019 del 05/05/2015, Adamo, Rv. 264280, e Sez. 6, n. 34116 del 20/04/2011, Cuffaro, Rv. 250833).

L’affermazione secondo cui la condotta nel reato di abuso di ufficio costituisce oggetto di dolo gene-rico potrebbe costituire la premessa per concludere che, in relazione alla violazione di legge connotante la condotta, sarebbe sufficiente il dolo eventuale.

L’assunto in questione, però, risulta problematico allorché l’ingiustizia del danno (o del vantaggio patrimoniale) si ponga come l’effetto sostanziale della violazione di legge o di regolamento.

Invero, in tanto si può affermare la sussistenza dell’intenzionalità del danno ingiusto (o del vantag-gio patrimoniale ingiusto), in quanto l’agente abbia commesso il fatto nella consapevolezza della con-trarietà all’ordinamento giuridico del risultato cui è finalizzata la sua condotta. Certamente, ciò non si-gnifica attribuire rilevanza all’erroriuris, posto che, secondo un principio consolidato in giurispruden-za, le disposizioni legislative disciplinanti l’operato e i doveri delle varie tipologie di pubblici ufficiali o incaricati di pubblici servizi non hanno natura di norme extrapenali, siccome l’art. 323 c.p., obbligando al rispetto delle leggi e dei regolamenti nell’esercizio del pubblico ufficio, recepisce le regole riguardan-ti l’attività dei singoli pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio (così, Sez. 6, n. 7817 del 18/11/1998, dep. 1999, Benanti, Rv. 214730, e Sez. 6, n. 5117 del 19/12/2000, dep. 2001, Aliberti, Rv. 217862, nonché, in motivazione, Sez. 6, n. 35813 del 21/06/2007, Bensi, Rv. 237767; nello stesso senso, recentemente, per l’affermazione del medesimo principio con riferimento alla fattispecie di omissione di atti di ufficio, v. Sez. 6, n. 25941 del 31/03/2015, Ceppaglia, Rv. 263808). Tuttavia, non può essere in discussione la necessità della conoscenza, da parte dell’agente, nel momento in cui si attiva contra le-gem, dell’esistenza dei presupposti di fatto da cui dipende l’applicazione della norma trasgredita, in quanto indefettibile presupposto dell’intenzione di procurare un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusti. Ed infatti, quando la contrarietà del fatto di danno o di vantaggio ai valori dell’ordinamento giuridico discende dai principi espressi dalla disposizione violata dall’agente con la sua condotta, la si-tuazione di dubbio in ordine all’esistenza dei presupposti fattuali fondanti il dovere giuridico trasgredi-to diventa logicamente incompatibile con l’intenzione di procurare un danno (o un vantaggio patrimo-niale) ingiusto: in questo caso, il dubbio sulla correttezza della condotta si trasferisce sulla “ingiustizia” dell’evento, e, da un punto di vista psicologico prima ancora che normativo, colui che abbia agito nel dubbio se il risultato avuto di mira fosse o non fosse contra ius non può dirsi abbia “intenzionalmente” procurato un danno o un vantaggio patrimoniale ingiusto.

13.2. In applicazione di questi principi, pertanto, nella vicenda in esame, in cui l’evento di danno, e cioè la lesione delle prerogative parlamentari delle parti civili ricorrenti, costituisce l’effetto della viola-zione di legge, ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di abuso di ufficio non è suffi-ciente il dolo eventuale in ordine all’esistenza dei presupposti di fatto da cui deriva l’obbligo giuridico da rispettare al momento della condotta.

Tuttavia, siccome, per quanto evidenziato in precedenza, ai fini della violazione di quanto prescrive la L. n. 140 del 2003, art. 4, non è necessario che il magistrato o il suo collaboratore, allorché dispongono l’acquisizione dei tabulati o elaborano i dati in assenza di autorizzazione dell’Assemblea competente, abbiano la certezza che le utenze siano di pertinenza dei parlamentari, ma più limitatamente che gli stessi, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento della condotta, abbiano la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di deputati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartengano a terzi, oggetto della rappresentazio-ne da parte dei soggetti agenti deve essere questa seconda situazione di fatto.

Resta ferma, ovviamente, ed inoltre, la necessità di accertare l’intenzionalità del danno ingiusto. 14. Tenendo conto di queste precisazioni, i ricorsi delle parti civili Go.Sa., M.C. e R.F. sono fondati

laddove censurano la sentenza impugnata per aver escluso la sussistenza dell’elemento psicologico del reato di abuso di ufficio senza essersi in alcun modo confrontata in motivazione con gli elementi indica-

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ti, innanzitutto, nella decisione di primo grado a supporto dell’affermazione di responsabilità penale degli imputati e, poi anche, nelle memorie da essi ricorrenti presentate nel corso del giudizio di appello.

14.1. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il giu-dice di appello che riformi la decisione di condanna pronunciata in primo grado, pervenendo a una sentenza di assoluzione, deve, sulla base di uno sviluppo argomentativo che si confronti con le ragioni addotte a sostegno del decisum impugnato, metterne in luce le carenze o le aporie, che ne giustificano l’integrale riforma (così, tra le tante, Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327), ed, anzi, non può limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiama-ta, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito, per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (cfr., in particolare, più di recente, Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, dep. 2014, Ricotta, Rv. 258005, e Sez. 4, n. 35922 del 11/07/2012, Ingrassia, Rv. 254617, ma anche, in precedenza, Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, Musumeci, Rv. 191229).

14.2. La sentenza impugnata ha escluso il dolo del G. e del D.M. innanzitutto affermando la necessità di “postulare che entrambi gli imputati fossero già consapevoli della riconducibilità delle utenze ai par-lamentari al momento di richiedere i tabulati delle comunicazioni o al momento della loro elaborazione (Pi.) e che fossero informati (in particolare per l’on. Go.Sa., indicato nominativamente) delle cariche ri-vestite”, atteso che “per talune delle utenze non risultava ancora pervenuta la scheda cd anagrafica de-gli intestatari e in ogni caso l’intestazione conosciuta/conoscibile non appare compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali”.

Già l’affermazione in premessa è errata perché, come si è precedentemente rilevato, non occorreva, per la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, che vi fosse la certezza assoluta in capo agli impu-tati della specifica riferibilità delle utenze ai parlamentari: era sufficiente che, al momento in cui dispo-nevano l’acquisizione dei tabulati o elaboravano i dati in assenza di autorizzazione dell’Assemblea competente, il D.M. ed il G. avessero la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di de-putati o senatori, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardasse terzi o che le utenze sottoposte a controllo appartenessero a terzi.

Inoltre, l’assunto secondo cui difettava, in capo agli imputati, la consapevolezza delle riconducibilità delle utenze, per quanto interessa in questa sede, ai parlamentari Go., M. e R. è il risultato di un’osservazione generica ed indeterminata (“per talune delle utenze non risultava ancora pervenuta la scheda cd anagrafica degli intestatari e in ogni caso l’intestazione conosciuta/conoscibile non appare compiutamente riferibile a soggetti coperti da guarentigie costituzionali”), la quale non si confronta in alcun modo con gli elementi esposti nella sentenza di primo grado. In effetti il Tribunale aveva rag-giunto le sue conclusioni esponendo ed analizzando in modo dettagliato e puntuale gli elementi relativi a ciascun parlamentare interessato, così come evidenziato nella seconda parte del primo motivo del ri-corso del Go., nella prima parte del primo motivo del ricorso del M. e nel primo motivo del ricorso del R., e dei quali si è proceduto a sintesi nel ritenuto in fatto della presente sentenza, rispettivamente, ai p. 3.1., 4.1. e 5.1.

In applicazione dei principi giurisprudenziali precedentemente indicati, pertanto, la Corte d’appello, prima di ritenere indimostrata o dubbia la consapevolezza delle riconducibilità delle utenze ai membri del Parlamento, e, per questa ragione, di riformare la sentenza del Tribunale, avrebbe dovuto procedere ad una puntuale confutazione degli elementi ed argomenti esposti in contrario dal primo giudice con riferimento a ciascuna posizione, e non poteva certo limitarsi ad una sintetica affermazione di carattere globale.

Una specifica evidenziazione della genericità e, quindi, della palese lacunosità delle argomentazioni della sentenza impugnata sul punto è anche direttamente desumibile da affermazioni quali: “non si può sostenere che sia pienamente provato che i due imputati avessero piena contezza che i numeri rin-venuti nelle agende e rubriche del S. fossero tutti da ricondurre a soggetti protetti dal Parlamento”; co-me se oggetto della prova fosse la situazione globale di tutti gli interessati e non la situazione concer-nente ciascun singolo membro del Parlamento, in quanto individualmente titolare delle prerogative di-rette alla salvaguardia del libero esercizio della funzione parlamentare.

D’altro canto, non coerente con le conclusioni raggiunte sul punto in esame appare essere il ricono-scimento sull’affidabilità di quanto ritenuto in ordine al medesimo profilo fattuale dal primo giudice,

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | ALT ALL’ACQUISIZIONE DI TABULATI RELATIVI A COLLOQUI TELEFONICI

evidenziato dalle parole: “Afferma correttamente il tribunale che la visione unitaria degli indizi passati in rassegna comprova l’intesa raggiunta e la messa in atto di una violazione comune e consapevole del-le disposizioni di legge”. Né viene spiegato perché “il procedimento di selezione (delle utenze) sembra aver al contrario cercato di colpire specificamente eventuali stretti collaboratori dei parlamentari stessi” (ferma restando, poi, la non risolutività di questa osservazione, atteso che, per quanto detto in prece-denza, ciò che conta è la consapevolezza di accedere nella sfera di comunicazione di deputati o senato-ri, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposte a controllo ap-partengano a terzi).

14.3. Rilevato il difetto di motivazione circa l’affermazione del dubbio in ordine alla consapevolezza, in capo agli imputati, dei presupposti che imponevano di richiedere alle Camere l’autorizzazione all’acquisizione dei tabulati di comunicazioni relativi alle utenze indicate nei capi di imputazione, viene meno il presupposto sul quale si poggia l’affermazione della insussistenza del dolo intenzionale.

In particolare, se si ritenesse provata, al di là del ragionevole dubbio, la piena consapevolezza degli imputati circa la riconducibilità ad uno solo dei tre ricorrenti di una sola delle utenze indicate nella im-putazioni, nel momento in cui fu disposta l’acquisizione dei tabulati senza autorizzazione della Camera di appartenenza, o nel momento in cui vi fu l’elaborazione dei dati indebitamente appresi, diverse po-trebbero essere le conclusioni del giudice di merito anche in ordine al dolo intenzionale del danno in-giusto, almeno con riferimento ad una singola contestazione.

È doveroso precisare, però, che l’affermazione che precede è compiuta al solo fine di evidenziare la necessità dell’annullamento della sentenza impugnata, in considerazione dei possibili esiti decisori, ma non implica alcun vincolo nella valutazione degli elementi di prova da parte del giudice del rinvio, il quale procederà al giudizio istituzionalmente a lui riservato alla luce di tutto il materiale istruttorio di-sponibile anche con riferimento alla verifica della sussistenza o insussistenza del dolo specifico.

15. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente ai capi B), D) e G) del-la rubrica, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, affinché accerti, agli effetti civili, se sussista l’elemento psicologico dei reati in contestazione, mentre il ricorso del G., per l’infondatezza dei motivi addotti, deve essere rigettato, con condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali.

L’annullamento deve essere disposto con rinvio al giudice civile, atteso il decorso del termine di prescrizione del reato, il cui dies a quo deve essere collocato nel mese di ottobre 2007, conformemente a quanto osservato dalla Corte di appello di Roma, rilevando che in quel mese è stata avocata l’indagine dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Catanzaro e revocato l’incarico di consulenza al G.

L’annullamento con rinvio preclude anche la liquidazione delle spese del presente grado di giudizio in favore delle parti civili: sarà il giudice del rinvio a provvedervi, in considerazione dell’esito della de-cisione che assumerà sul merito della regiudicanda.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata limitatamente ai capi B, D e G della rubrica e rinvia per nuovo giu-

dizio al giudice civile competente per valore in grado di appello. Rigetta il ricorso di G.G. che condanna al pagamento delle spese del procedimento.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ACQUISIZIONE E L’ELABORAZIONE DEI TABULATI TELEFONICI …

DONATELLA CURTOTTI

Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Foggia

L’acquisizione e l’elaborazione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento: vecchie questioni di diritto sostanziale e nuove querelles processuali Collection and analysis of telephone records concerning Members of Parliament: old questions of substantive law and new procedural querelles

Nel caso di acquisizione ed elaborazione di tabulati telefonici relativi ad utenze intestate a membri del Parlamento, il p.m. ed il suo consulente tecnico rispondono in concorso del reato d’abuso d’ufficio se, al momento dell’emis-sione del decreto di acquisizione, la direzione degli atti d’indagine consentiva di ritenere che le utenze fossero rife-ribili a soggetti coperti da tutela costituzionale. L’Autrice sottolinea la coerenza della pronuncia della Corte di cas-sazione rispetto alla giurisprudenza espressasi, sull’argomento, in tema di intercettazioni telefoniche ed evidenzia le caratteristiche processuali, oltre che tecniche, della prova fornita dai tabulati telefonici. According to for the Court of Cassation, failure on the part of the prosecuting judge to ask for authorization from Parliament for the acquisition of telephone records relating to appliances registered in the name of Members of Par-liament or Senators is to be deemed as an abuse of office. The same applies to IT technical consultants who have elaborated the data. Besides these substantive issues, the judgment analysed here deals with new procedural que-stions connected to the use of telephone records. I PRINCIPI DI DIRITTO SOSTANZIALE

L’ultima tappa di una lunga e complessa vicenda processuale (conosciuta dai più per la notorietà dei suoi protagonisti che, in questa sede, si preferisce non richiamare per non spostare l’attenzione dal dato giuridico a quello meta giuridico 1) si conclude con un ripensamento della Corte di cassazione rispetto alla decisione assolutoria dei giudici di secondo grado in merito alla responsabilità per abuso d’ufficio di un p.m. e del suo c.t. informatico che, nell’acquisire i tabulati telefonici di utenze rivelatesi intestate a parlamentari senza avere richiesto l’autorizzazione alle Camere di appartenenza così come imposto dall’art. 4 della l. 20 giugno 2003, n. 140, avevano agito (secondo i giudici d’appello) senza l’intenzione né di violare una disposizione di legge né di cagionare un danno ingiusto.

La Corte di cassazione accoglie il ricorso delle parti civili e rigetta quello dell’imputato riconoscendo il difetto della motivazione impugnata posta la puntuale ricostruzione offerta dalla Corte d’Appello sulla conoscenza pregressa che p.m. e c.t. hanno avuto della appartenenza delle schede a soggetti co-perti da guarentigie costituzionali (art. 68 Cost.). Non potendo rinviare al giudice penale per l’interve-nuta prescrizione del reato, la Corte rinvia al giudice civile «affinché accerti … se sussista l’elemento psicologico del reato in contestazione».

La querelle offre molti spunti di interesse, tanto da aver indotto la stessa Corte di cassazione a rias-sumere in plurime massime i principi di diritto cui è giunta.

1 Il concetto di dato metagiuridico al quale ci si richiama è quello offerto da H. Kelsen, Dottrina generale dello Stato, Milano, Giuffrè, 2013, p. 142, secondo il quale «è quel dato che si colloca, in modo ad esso specifico, al di là del diritto e rispetto al quale il diritto viene in questione solo come un mezzo».

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Intanto, la motivazione si concentra sui profili di diritto sostanziale che, a primo acchito, sono quelli maggiormente coinvolti dal caso di specie.

Vengono additati i due elementi costitutivi della fattispecie del reato di abuso d’ufficio (art. 323 c.p.), ossia la violazione della norme di legge (condotta) ed il danno ingiusto arrecato (evento). In entrambi i casi, la Corte non ha difficoltà a richiamare l’ampia e pacifica giurisprudenza di legittimità espressasi sul punto per, poi, adattarla al fatto contestato ai due imputati, che non ha precedenti nel panorama ermeneutico italiano.

Recuperando il concetto di “doppia ingiustizia” del reato d’abuso d’ufficio 2, i giudici ricordano in motivazione che per integrare la fattispecie in esame occorre dimostrare l’antigiuridicità sia della con-dotta della violazione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio di norme di legge o di regolamento che del danno ingiusto; e che tale concetto postula una distinta ed autonoma va-lutazione dei due elementi costitutivi.

Quanto al primo requisito, non si richiede che il danno derivi da una violazione normativa diversa da quella inficiante la condotta 3. Quanto al danno ingiusto, si richiama l’ampia giurisprudenza di legit-timità secondo cui è rilevante ai fini del reato di abuso d’ufficio anche il danno attinente la sfera dei di-ritti o anche solo degli interessi non patrimoniali di un soggetto, quali ad esempio la sfera della propria personalità per come tutelata dai principi costituzionali 4. Ciò in particolare anche quando detta aggres-sione derivi dall’esercizio di poteri investigativi o coercitivi 5.

Particolare cura è stata messa in motivazione sulla descrizione dell’elemento soggettivo richiesto dall’art. 323 c.p. Non può configurarsi come dolo eventuale, essendo necessario che l’agente, nel mo-mento in cui si attiva “contra legem”, abbia la consapevolezza dell’esistenza dei presupposti di fatto da cui dipende l’applicazione della norma trasgredita, in quanto la situazione di dubbio sulla correttezza della condotta è incompatibile con l’intenzione di procurare un danno o un vantaggio patrimoniale in-giusto 6.

Traslando i principi di diritto sostanziale sul fatto per cui si è proceduto, la Corte statuisce che «in tema di abuso d’ufficio, integrano il requisito della violazione di legge sia l’acquisizione sia la successi-va elaborazione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze che, alla luce degli atti di indagine, risultano riferibili a deputati o senatori, in assenza della preventiva autorizzazione del-la Camera di appartenenza di questi ultimi» 7. In presenza di tali presupposti, il danno ingiusto è confi-gurabile nella «lesione delle prerogative parlamentari» 8.

Entrando ancor più nello specifico, e valicando forse il perimetro della “legittimità”, la Corte pun-tualizza che la condotta contra ius va valutata sulla base del “momento” in cui l’autorità giudiziaria vie-ne a conoscenza del ruolo pubblico ricoperto dagli intestatari delle schede telefoniche analizzate dal c.t. Come si vedrà meglio in seguito, la difficile collocazione temporale di tale “momento” all’interno della

2 Di recente, Cass., sez. VI, 18 marzo 2016, n. 17676, in CED Cass., n. 267171; Cass., sez. VI, 10 marzo 2016, n. 13426, ivi, n. 267271; Cass., sez. VI, 4 novembre 2015, n. 48913, ivi, n. 265473.

3 Nello specifico, «il delitto di abuso d’ufficio è configurabile non solo quando la condotta si ponga in contrasto con il signifi-cato letterale o logico-sistematico di una norma di legge o di regolamento, ma anche quando la stessa contraddica lo specifico fine perseguito dalla norma, concretandosi in uno "svolgimento della funzione o del servizio" che oltrepassi ogni possibile scelta discrezionale attribuita al pubblico ufficiale o all’incaricato di pubblico servizio; tuttavia, deve escludersi la sussistenza del reato qualora si sia in presenza di un quadro normativo disorganico e suscettibile di contrapposte letture interpretative, che impedi-sca di individuare con certezza una condotta violativa del contenuto precettivo di una precisa disposizione di legge o di rego-lamento», così Cass., sez. VI, 13 marzo 2014, n. 32237, in CED Cass., n. 260428.

4 Cass., sez. VI, 7 luglio 2016, n. 39452, in CED Cass., n. 268222; Cass., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 32023, ivi, n. 261899. 5 Cass., sez. VI, 26 giugno 2003, n. 35127, in CED Cass., n. 2266548. In un’occasione, Cass., sez. VI, 1 dicembre 2003, n. 729, ivi,

n. 228269, il danno ingiusto è stato individuato nell’impedimento all’esercizio del diritto di accesso a documenti amministrativi al fine dell’eventuale esperimento di iniziative a tutela degli interessi di un candidato ad un incarico dirigenziale nella Pubblica Amministrazione.

6 Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268425. Sul dolo intenzionale in tema di abuso d’ufficio, la giuri-sprudenza è plurima. V., tra le altre, Cass., sez. VI, 15 aprile 2014, n. 36179, ivi, n. 260233. Sulla prova del dolo intenzionale in tema di abuso d’ufficio, che può «essere desunta anche da una serie di indici fattuali, tra i quali assumono rilievo l’evidenza, reiterazione e gravità delle violazioni, la competenza dell’agente, i rapporti fra agente e soggetto favorito, l’intento di sanare le illegittimità con successive violazioni di legge», Cass., sez. III, 6 aprile 2016, n. 35577, ivi, n. 267633.

7 Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268422. 8 Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268424.

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fase investigativa è agevolata da parametri elaborati dalla giurisprudenza in tema di intercettazioni te-lefoniche. Sulla base di questi parametri, puntualmente richiamati in motivazione, pare emergere che la Cassazione non condivida la soluzione della Corte d’Appello secondo cui la paternità sarebbe stata at-tribuibile solo dopo l’inizio delle attività tecniche condotte sui tabulati telefonici, ben potendo averla desunta sin dal principio sulla scia del quadro probatorio (soggetti, intercettazioni, intestatari di sche-de) entro il quale le indagini si stavano svolgendo.

In questa prospettiva, il p.m. avrebbe dovuto richiedere l’autorizzazione ancor prima di consentire al c.t. di indagare sulle comunicazioni intercorse tra i parlamentari incorrendo, non facendolo, nella vio-lazione dell’art. 4 della l. n. 140/2003.

L’ARTICOLATO ITER PROCESSUALE

Da una prima lettura della motivazione sembra che la decisione tocchi soprattutto nodi critici di diritto sostanziale, sui quali peraltro la dottrina di settore si è già ampiamente espressa con una condivisione quasi unanime della necessità di dotare il reato di abuso d’ufficio della prova del dolo intenzionale e di configurare il danno ingiusto anche nella lesione delle prerogative parlamentari 9.

Meno evidenti, invece, ma altrettanto importanti, sono le questioni di tipo processuale emerse; que-stioni “di ultima generazione”, prodotte dall’ingresso dirompente del progresso tecnico e scientifico nell’accertamento del fatto di reato, che richiedono uno sforzo dell’interprete nell’inquadrarle tra le ca-tegorie classiche del diritto processuale penale. Su queste, si sceglie di fare alcune riflessioni.

Per comprendere appieno i molteplici risvolti della motivazione, è utile ricostruire brevemente l’in-tero procedimento penale dovendo soffermarsi anche sul “fatto” senza il quale l’analisi – soprattutto per i risvolti tecnico-scientifici – sarebbe monca.

Il processo penale al p.m. e al suo c.t. informatico si conclude in primo grado con la sentenza di con-danna a carico di entrambi per essere stati ritenuti colpevoli di concorso in abuso d’ufficio relativamen-te all’acquisizione, elaborazione e trattamento dei tabulati delle utenze telefoniche in uso a otto parla-mentari senza preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza.

Secondo la motivazione della sentenza dei giudici del Tribunale di Roma, tale condotta avrebbe ar-recato agli stessi parlamentari un danno ingiusto consistente nella “conoscibilità di dati esterni di traffi-co relativi alle loro comunicazioni”. Le utenze telefoniche erano intestate a segretari, collaboratori e fa-miliari dei parlamentari o a società ed enti pubblici a cui la procura era risalita attraverso le annotazioni contenute nelle agende – sia digitali che cartacee – del principale soggetto indagato nel famoso proce-dimento “Why Not”, ritenuto responsabile di un sistema illecito dedito all’indebita percezione e gestio-ne di fondi pubblici in Calabria.

L’iniziale ipotesi accusatoria, accolta dai giudici di primo grado, era che i due imputati avessero avuto contezza dell’attribuibilità ai parlamentari delle utenze “tracciate” sin dal momento della richie-sta dei tabulati ai gestori telefonici; così facendo, «avevano proceduto all’acquisizione del materiale pur essendo consapevoli dell’inutilizzabilità processuale di tali risultanze investigative» e, pertanto, aveva-no perpetrato con dolo intenzionale la scelta di rendere noto il traffico telefonico contenuto nei tabulati determinandone un danno ingiusto a carico dei parlamentari.

In particolare, si evince dalla motivazione della sentenza di primo grado che il consulente tecnico – al momento di conferimento dell’incarico da parte del p.m. – avesse preso in consegna l’agenda e i cel-lulari sequestrati all’indagato; da questi avesse estratto le utenze telefoniche segnalando successiva-mente al p.m., con specifiche relazioni, i tabulati da acquisire. L’acquisizione era stata disposta senza preventiva richiesta autorizzativa alla Camera o al Senato, pur essendo facilmente intuibile (sulla scorta di documentazioni fornite dalla difesa delle parti civili) che le utenze telefoniche su cui si stava inda-gando fossero collegate a parlamentari.

La Corte di Appello di Roma, in riforma della decisione di condanna, assolve i due imputati dai reati di abuso di ufficio perché il fatto non costituisce reato, con caducazione delle statuizioni in favore delle

9 Di recente e per tutti, A. Gustapane, L’abuso d’ufficio: tra principi costituzionali e indirizzi giurisprudenziali, Bologna, Bononia University Press, 2015. Sullo specifico caso in esame, A. De Vita, Il caso “De Magistris – Why not”: non convince la configurazione del dolo intenzionale, in Diritto penale contemporaneo; R. Padolesi, Abuso di poteri e violazione dei doveri d’ufficio, abuso d’ufficio, fatti-specie in tema di diritto di accesso di componenti del Csm, in Foro it., 2016, 11, pt. 2, p. 622 s.

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parti civili. Più precisamente, non ritiene configurabile la prova del dolo intenzionale posto che l’autori-tà giudiziaria non ha avuto piena consapevolezza della riconducibilità delle utenze a deputati e senato-ri. Si osserva, ad esempio, che alcune schede anagrafiche relative agli intestatari delle utenze non fosse-ro ancora pervenute al momento della richiesta dei tabulati telefonici, che le intestazioni conosciute o conoscibili delle utenze non fossero comunque «compiutamente riferibili a soggetti coperti da guaren-tigie costituzionali» e, infine, che l’individuazione dei soggetti da approfondire fosse stata determinata proprio dall’interrogazione del sistema TESEO effettuata dal consulente tecnico (sistema di analisi dei tracciati telefonici, programmato in via originale dal consulente tecnico e non in uso nei reparti specia-lizzati della polizia giudiziaria).

La sentenza d’appello non esclude che le indagini furono condotte «accettando consapevolmente il rischio che ... le utenze ... fossero effettivamente in uso a soggetti tutelati dalla guarentigie parlamentari e che l’elaborazione degli stessi dati avrebbe potenzialmente comportato per i parlamentari coinvolti un danno ingiusto». Tuttavia, esclude ai fini della configurabilità del reato di abuso di ufficio, la sufficien-za del dolo eventuale in ordine alla violazione di legge.

La sentenza di seconda istanza viene impugnata sia da alcune delle parti civili che da uno dei due imputati (il consulente tecnico). Le prime, con ricorsi pressoché analoghi, lamentano la violazione dell’art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., con riferimento all’affermata insussistenza della fattispecie di abu-so di ufficio. Ciascuno per il suo, elenca un nutrito numero di elementi probatori – esposti già nella sen-tenza di primo grado – dai quali desumere la consapevolezza degli imputati in ordine alla riferibilità delle singole utenze ai parlamentari impugnanti.

Il ricorso dell’imputato, articolato in tre motivi originari e in motivi aggiunti, può riassumersi nel dolersi del rigetto della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato, dell’eccezione di incompetenza territoriale, e infine nell’essere stato assolto da tutti i capi d’imputazione in grado d’ap-pello con la formula meno favorevole de “il fatto non costituisce reato” anziché “il fatto non sussiste”. Il ricorrente riscontra, in tutti i casi, la mancanza dell’elemento psicologico dell’operare contra ius «e, con-seguentemente, della coscienza e volontà di arrecare un danno ingiusto alle persone offese» incidendo sulla mancanza dell’elemento materiale del reato di abuso d’ufficio, così come strutturato a seguito del-la novella legislativa del 1997 10.

La sesta sezione della Corte di Cassazione ammette tutti i ricorsi, con una specifica motivazione sul-la sussistenza di un interesse giuridicamente apprezzabile dell’imputato (assolto in secondo grado), il quale «contesta una sentenza il cui esito assolutorio è determinato esclusivamente dalla affermata in-sussistenza dell’elemento psicologico e che, avendo ritenuto accertato il fatto di un comportamento commesso in violazione di legge e produttivo di un danno ingiusto, potrebbe determinare in suo danno conseguenze negative» in futuri processi civili, amministrativi o disciplinari 11.

Non si può non approcciarsi alle singole decisioni della Corte senza spiegare – sotto il profilo tecnico e per quanto desumibile dalla lettura delle sole motivazioni – che il consulente tecnico in occasione dell’incarico di consulenza aveva preso in consegna l’agenda cartacea ed i telefonini sequestrati all’im-putato. Dall’ispezione informatica effettuata, il c.t. aveva acquisito un elenco di utenze ritenuti utili alle indagini (circa 2000) formulando richiesta al p.m. di ottenimento dei tabulati telefonici di 167 utenze e 14 apparati IMEI, puntualmente inoltrata ai gestori telefonici. I tabulati, poi, sono stati inseriti dal c.t. in un programma di sua ideazione, c.d. sistema TESEO, col quale sono stati verificati gli “incroci” telefo-nici tra le varie utenze. Dalle motivazioni del Tribunale di Roma, si evince che tanto nelle prime richie-ste del c.t. quanto nello scambio di conversazioni telematiche con il p.m., entrambi fossero già in grado di attribuire le utenze a personalità politiche per le quali sarebbe stato necessario richiedere l’autorizza-zione alle Camere di appartenenza.

LA NORMATIVA DI RIFERIMENTO A TUTELA DELLE PREROGATIVE COSTITUZIONALI DEI MEMBRI DEL PAR-LAMENTO

Se la sentenza in esame rappresenta una novità sul fronte della contestazione del reato di abuso d’uf-ficio per mancata richiesta di autorizzazione ad acta in danno di membri delle Camere, il tema più am-

10 In dottrina, S. Seminara, Il nuovo delitto d’abuso d’ufficio, in Studium iuris, 1997, p. 1258 ss. 11 Cass., sez. VI, 16 dicembre 2014, n. 34598, in CED Cass., n. 262393; Cass., sez. IV, 4 novembre 2016, n. 23444, ivi, n. 261178.

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pio delle intercettazioni a carico di parlamentari è stato esaminato più volte dalla Corte e dalla dottrina, tanto che – allo stato – può dirsi che sussistono alcuni punti fermi dai quali neanche il procedimento in esame sembra discostarsi.

In attuazione dell’art. 68 Cost., così come modificato dalla l. cost. 29 ottobre 1993, n. 3 12, gli artt. 4 e 6 della l. n. 140/2003, prevedono rispettivamente un’autorizzazione preventiva, da richiedersi «quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento (…) intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni» (art. 4), ed un’autorizzazione successiva quando si versi «fuori dalle ipotesi previste dall’articolo 4» e si «ritenga necessario utilizzare le registrazioni formate nel corso di procedimenti riguardanti terzi, alle quali hanno preso parte membri del Parlamento» (art. 6, commi 1 e 2).

La magmaticità delle due previsioni, incomplete rispetto al caso in cui le intercettazioni riguardino un parlamentare non immediatamente identificato, è stato risolta dalla Corte costituzionale nel 2007 nel senso di assegnare all’alveo dell’art. 4 le intercettazioni dirette ed indirette, ossia quelle che hanno di mira il parlamentare, indipendentemente sia dalla immeditata ed univoca attribuibilità allo stesso delle utenze indagate che dalla titolarità del procedimento penale in cui le intercettazioni sono chieste. L’art. 6, invece, copre le cc.dd. “intercettazioni casuali”, ossia quelle in cui la presenza del parlamentare è del tutto imprevedibile 13.

Relativamente all’art. 4, la Corte costituzionale precisa che il criterio discretivo tra le due norme è dato dalla c.d. “direzione dell’atto d’indagine” che, nel primo caso, induce a prevedere la presenza del parlamentare nel flusso di comunicazioni.

Purtroppo, sin da subito la chiarificazione ermeneutica ha destato dubbi 14, vista la difficoltà nella pratica di distinguere agevolmente la prima situazione dalla seconda e riuscire a provare se e quando il p.m. o il giudice acquistino contezza della futura presenza di un parlamentare tra i soggetti captati. Il problema non è di poco conto; non solo per comprendere quale tipo di autorizzazione richiedere, se preventiva o successiva, ma anche per dimostrare un eventuale abuso d’ufficio, come nel caso in esame.

Nel 2010, con due pronunce successive, la Corte costituzionale declina, almeno a titolo esemplificativo, un elenco di indici sintomatici al fine di individuare l’una o l’altra ipotesi. Richiede che si tenga conto del numero delle conversazioni avvenute tra il parlamentare ed il soggetto “terzo”, dei rapporti intercorrenti tra loro (da collegare al tipo di reato per cui si procede), dell’arco di tempo nel quale è avvenuta la capta-zione così come di eventuali proroghe, anche in relazione al sorgere degli indizi a carico del parlamentare. Se la verifica di questi elementi dovesse far accrescere la prospettiva di un coinvolgimento del parlamen-tare nel flusso di comunicazioni intercettate, la captazione diverrebbe “mirata”, cioè non causale, e richie-derebbe l’applicazione dell’art. 4 (C. cost. n. 114). Qualora, invece, tale prospettiva dovesse emergere solo successivamente, anche nelle stesse intercettazioni effettuate, non si potrebbe escludere che, dopo l’inizio delle intercettazioni nei confronti di terzi, vi possa essere stato nell’attività investigativa un mutamento di obiettivi, tali da trasformare le captazioni da causali a mirate (C. cost. n. 113) 15.

Al di là dei dubbi sollevati in dottrina 16 sulla utilità di siffatti criteri a costituire la trama dell’ideale setaccio con cui dovrebbero separarsi le captazioni fortuite da quelle indirette, e sui quali non si ritiene di poter soffermarsi per esigenze di economia espositiva, rimane un punto fermo 17. Per ravvisare la vio-

12 Per tutti, M. Montagna, Autorizzazione a procedere e autorizzazione ac acta, Padova, Cedam, 1999, p. 203 ss.; D. Negri, Proce-dimento a carico dei parlamentari, in R. Orlandi-A. Pugiotto (a cura di), Immunità politiche e giustizia penale, Torino, Giappichelli, 2005, p. 422 ss.

13 C. cost., sent. 23 novembre 2007, n. 390. Vedine i commenti di G. Giostra, La disciplina delle intercettazioni fortuite del parla-mentare è ormai una dead rule walking, in Cass. pen., 2008, p. 63 ss.; V. Grevi, Sui limiti di utilizzabilità delle intercettazioni “indirette” (casuali e non casuali) operate nei confronti di un membro del Parlamento, in Giur. cost., 2007, p. 4394 ss.; C. Martinelli, Intercettazioni “casuali” dei parlamentari; la Corte costituzionale annulla l’obbligo di distruzione integrale del loro contenuto, in Studium Iuris, 2008, p. 653 ss.

14 Tra gli altri, I. Calamandrei, Le intercettazioni dei parlamentari, in Giust. pen., 2006, I, p. 230 ss.; D. Negri, Intonazioni lontane dalla sentenza capostipite, nella coppia di pronunce con cui la Corte costituzionale riprende il tema delle intercettazioni indirette relative a parlamentari, in Giur. cost., 2010, p. 2706 ss.

15 C. cost., sentt. 25 marzo 2010, nn. 113 e 114. Leggine il commento di L. Filippi, La Consulta distingue tra intercettazioni fortuite e mirate nei confronti di parlamentare e ammonisce contro le motivazioni “implausibili”, in Giur. cost., 2010, p. 1270 ss.

16 Sui possibili correttivi, C. Cesari, Un nuovo fronte problematico delle intercettazioni indirette nei confronti di parlamentari: le am-biguità irrisolte dalla l. n. 140 del 2003 all’esame della Corte di cassazione, in Cass. pen., 2011, p. 954 ss.

17 Altro punto fermo è dato dall’insormontabile problema di risolvere la perplessità di fondo legata alla considerazione che

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ACQUISIZIONE E L’ELABORAZIONE DEI TABULATI TELEFONICI …

lazione di legge, gli inquirenti sono chiamati a dimostrare sulla base degli atti d’indagine che dalle cap-tazioni effettuate nell’entourage del parlamentare non si potesse occultare il suo coinvolgimento. Secon-do la Corte di cassazione, tale punto continua a rimanere fermo anche nel caso al nostro esame.

I TABULATI TELEFONICI: PECULIARITÀ PROCESSUALI

Come detto ormai più volte, la vicenda in commento non si discosta dalla giurisprudenza espressasi si-no ad ora su questa tematica. In motivazione, la Suprema Corte è molto chiara nel precisare che «la ga-ranzia prevista dall’art. 4 l. n. 140/2003 trova il suo fondamento nell’art. 68, comma 3, Cost., ed è fun-zionale alla tutela dell’autonoma esplicazione dell’attività istituzionale del parlamentare da indebite invadenze del potere giudiziario e, pertanto, ai fini della sua operatività, ciò che rileva non è la titolarità o la disponibilità dell’utenza monitorata, quanto piuttosto la circostanza che l’atto di indagine sia volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni del parlamentare, a prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze sottoposto a controllo appartengano a terzi» 18.

Al di là del presupposto c.d. soggettivo, però, la vicenda in esame presenta profili di novità rispetto alle precedenti decisioni sul tema.

Intanto, è di tutta evidenza che l’abuso abbia ad oggetto non l’uso delle intercettazioni di comunica-zioni bensì l’acquisizione dei tabulati telefonici 19, ossia documenti ottenuti dai gestori di telefonia, in forma intellegibile, relativi ai flussi informatici dei dati esterni al contenuto delle comunicazioni telefo-niche 20. L’art. 4 della l. n. 140/2003, li contempla esplicitamente nel novero degli atti per cui è necessa-rio acquisire l’autorizzazione: «Quando occorre eseguire nei confronti di un membro del Parlamento perquisizioni personali o domiciliari, ispezioni personali, intercettazioni, in qualsiasi forma, di con-versazioni o comunicazioni, sequestri di corrispondenza, o acquisire tabulati di comunicazioni, ovve-ro, quando occorre procedere al fermo, all’esecuzione di una misura cautelare personale coercitiva o interdittiva ovvero all’esecuzione dell’accompagnamento coattivo, nonché di misure di sicurezza o di prevenzione aventi natura personale e di ogni altro provvedimento privativo della libertà personale, l’autorità competente richiede direttamente l’autorizzazione della Camera alla quale il soggetto ap-partiene».

Facendo una doverosa incursione nel mondo della digital forensics, la Suprema Corte amplifica ancor di più la omogeneità della disciplina offerta dall’art. 4, arrivando a specificare quali siano, per i tabulati telefonici, le attività tecniche coperte da tutela. In via del tutto originale, ed apprezzabile, afferma che: «in tema di abuso d’ufficio, integrano il requisito della violazione di legge sia l’acquisizione, sia la suc-cessiva elaborazione di tabulati relativi a comunicazioni telefoniche intercorse su utenze che, alla luce degli atti di indagine esistenti al momento del provvedimento, risultano riferibili a deputati o senatori, in assenza della preventiva autorizzazione della Camera di appartenenza di questi ultimi» 21. Aver ri-compreso nelle attività legate ai tabulati telefonici per le quali è necessaria l’autorizzazione del Parla-mento tutte le operazioni previste nella c.d. catena di gestione dei dati telefonici (dalla acquisizione alla successiva elaborazione ed analisi) consente di massimizzare la tutela costituzionale accordata dalla l. n. 140/2003, evitando di limitare l’interesse del legislatore al momento iniziale di appropriazione dei dati, la cui invasività nella privacy del parlamentare non è maggiore rispetto all’esame – elettronico e non – degli stessi dati; esame all’interno del quale quasi sempre (come nel caso di specie) si nascondono le vere insidie probatorie, in termini di informazioni ottenibili. In altri termini, bene ha fatto la Corte a

una autorizzazione preventiva collida con la natura “a sorpresa” dell’atto intercettivo e, molto probabilmente, favorisca prassi abusive come quelle in commento. Già prima della riforma, in questo senso, G. Zagrebelsky, La riforma dell’autorizzazione a proce-dere, in Corr. giur., 1994, p. 281 ss. Ma anche V. Grevi, Prove, in G. Conso-V. Grevi (a cura di), Compendio di procedura penale, III ed., Padova, Cedam, 2006, p. 366 ss.

18 Leggine il principio in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, ivi, n. 268422. 19 Più approfonditamente, F.R. Dinacci, Localizzazione mediante celle telefoniche, in A. Scalfati (a cura di), Le indagini atipiche, To-

rino, Giappichelli, 2014, p. 378. Meno di recente, L. Filippi, Il revirement delle Sezioni unite sul tabulato telefonico: un’occasione man-cata per riconoscere una prova incostituzionale, in Cass. pen., 2000, p. 3246 ss.; G. Melillo, L’acquisizione dei tabulati telefonici relativi al traffico telefonico fra limiti normativi ed equivoci giurisprudenziali, ivi, 1999, p. 473 ss.

20 Cass., sez. un., 13 luglio 1998, in CED Cass., n. 211197. 21 Leggine il principio sempre in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, cit.

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sottolineare per i tabulati telefonici la necessità di una valutazione olistica delle attività esperibili nel-l’ambito di una stessa prova tecnico-scientifica che, sempre più spesso, si compone di operazioni plurime e successive che vanno dal repertamento del dato o della traccia alla sua valutazione in laboratorio 22.

A proposito del confronto con le intercettazioni telefoniche a carico di parlamentari, sovvengo altre considerazioni. Per un verso, nel caso dei tabulati telefonici, è meno difficile che l’autorità giudiziaria incorra in un atto in cui la presenza del parlamentare sia casuale e fortuita in ragione della cospicua mole di informazioni che un tabulato contiene. Tale mole aumenta esponenzialmente la possibilità (nonché la prevedibilità) che, nelle maglie dei dati telefonici su cui si investiga, entri anche un soggetto coperto da garanzie costituzionali. Per altro verso, è più alto il rischio di abusi da parte di chi indaga poiché la richiesta di tabulati telefonici non impone l’intervento autorizzativo del giudice ma la sola istanza motivata del pubblico ministero 23. La mancanza di un corredo garantista come quello previsto per le intercettazioni dagli artt. 266 ss. c.p.p. impedisce, di fatto, un “doppio controllo” (p.m. e giudice) sulla natura mirata o casuale del materiale investigativo richiesto 24. Peraltro, il comma 2 dell’art. 4 l. n. 140/2003, non impone che l’autorizzazione alle Camere sia richiesta dal giudice, bensì dalla «autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire».

Si ricordi che la stessa giurisprudenza di legittimità consente che la motivazione del decreto con cui il p.m. fa richiesta dei tabulati telefonici, «stante il modesto livello di intrusione nella sfera di riserva-tezza delle persone, può essere soddisfatto anche con espressioni sintetiche, nelle quali si sottolinei la necessità dell’investigazione, in relazione al proseguimento delle indagini ovvero all’individuazione dei soggetti coinvolti nel reato, o si richiamino, con espressione indicativa della loro condivisione da parte dell’autorità giudiziaria, le ragioni esposte da quella di polizia» 25.

Venendo ad altra questione processuale, la Corte condivide il rigetto da parte del Tribunale di Roma della richiesta di rinvio per legittimo impedimento dell’imputato ad una delle udienze del processo, nonostante sia stato documentato un impegno nello stesso giorno come consulente del p.m. davanti ad altro Tribunale. L’imputato, peraltro, richiama il reato di “Rifiuto di uffici legalmente dovuti” (art. 366 c.p.) in cui sarebbe incorso non presenziando al procedimento nella veste di consulente tecnico.

La posizione dei giudici di legittimità sul punto è categorica 26. Tra i due impegni processuali, come consulente tecnico e imputato, «non può non ritenersi prevalente l’impegno di quest’ultimo a presen-ziare al processo a suo carico … né può essere rimessa alla volontà dell’imputato la decisione su quale dei due processi debba avere la precedenza, trattandosi di scelta che attiene all’interesse sopraindivi-duale della ordinaria amministrazione della giustizia. Il richiamo all’art. 366 c.p. risulta inappropriato perché la previsione incriminatrice non è applicabile se il rifiuto è dovuto ad impedimenti legittimi» 27.

22 Più ampiamente, volendo, D. Curtotti, Rilievi e accertamenti tecnici, Padova, Cedam, 2013, p. 45 ss.; nonché D. Curtotti Nappi, L. Saravo, L’approccio multidisciplinare nella gestione della scena del crimine, in Dir. pen. proc., 2012, p. 878 ss.; D. Curtotti Nappi, L. Saravo, G. Spangher, S. Lorusso, A standardized approach to crime scene in Italy, in 19th World Meeting of the International Association of Forensic Sciences, 2011; D. Curtotti Nappi, L. Saravo, Il volo di Icaro delle investigazioni sulla scena del crimine: il ruolo della polizia giudiziaria, in C. Conti (a cura di), Le scienze e il processo penale, Milano, Giuffrè, 2011, p. 217 ss.

23 Sulla diversità delle discipline che rispettivamente regolano i due istituti, nonché dei diversi elementi di conoscenza alla cui acquisizione sono rispettivamente finalizzati e delle differenti esigenze investigative che mirano a soddisfare, tali da non esigere la specifica garanzia dell’autorizzazione giurisdizionale, prevista per l’intercettazione del contenuto di conversazioni, C. cost., sentt. n. 81/1993 e n. 281/1998.

24 Sull’inapplicabilità degli artt. 266 ss. c.p.p. alla acquisizione dei tabulati telefonici, Cass., sez. I, 26 settembre 2007, n. 46086, in CED Cass., n. 238170.

25 Cass., sez. I, 28 aprile 2014, n. 37212, in CED Cass., n. 260589. Più significativamente, Cass., sez. un., 23 febbraio 2000, n. 6, ivi, n. 215841: «Ai fini dell’acquisizione dei tabulati contenenti i dati esterni identificativi delle comunicazioni telefoniche con-servati in archivi informatici dal gestore del servizio è sufficiente il decreto motivato dell’autorità giudiziaria». Vedine il com-mento di L. Filippi, Il revirement delle Sezioni unite, cit., p. 3246 ss.

Sulla necessità della motivazione, Cass., sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, in CED Cass., n. 234356: «La sanzione dell’inutiliz-zabilità, che segue all’acquisizione dei tabulati concernenti il traffico telefonico in assenza di un provvedimento motivato del-l’autorità giudiziaria, colpisce non il fatto come rappresentazione della realtà in essi documentata, ma la metodologia di acqui-sizione di tali atti». In senso diverso, Cass., sez. IV, 24 febbraio 2005, n. 20558, ivi, n. 231920: «Dalla violazione del dovere di mo-tivazione deriva piuttosto, a mente dell’art. 125 cod. proc. pen., la nullità del provvedimento di acquisizione, la quale, non pre-sentando carattere assoluto, deve essere dedotta prima della pronuncia della sentenza di primo grado».

26 Leggila anche in Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268420. 27 Cass., sez. VI, 19 novembre 2010, n. 45659, in CED Cass., n. 249034.

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AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ACQUISIZIONE E L’ELABORAZIONE DEI TABULATI TELEFONICI …

La questione offre spunti di originalità, non essendo mai stata sollevata in seno alla Corte di cassa-zione. Nel caso di specie, la legittimità dell’impedimento sarebbe riferita, secondo la prospettiva del-l’imputato, all’impegno concorrente e non compatibile dell’esame in altro procedimento in qualità di consulente tecnico; impegno ritenuto, perciò, ostativo sotto il profilo sia materiale che giuridico tanto da far richiamare l’ipotetico reato di Rifiuto di uffici legalmente dovuti.

Si ha ragione di condividere la posizione dei giudici di legittimità. Tutte le volte in cui la giurispru-denza ha riconosciuto il diritto dell’imputato di non comparire all’udienza, determinando la sospensio-ne del procedimento, le situazioni legittimanti sono state ricollegate al riconoscimento di una evidente e irreparabile lesione del suo diritto di essere presente lì dove minato da condizioni «effettive, assolute e legittime» 28 capaci di inficiare la piena esplicazione delle guarentigie difensive 29. Tali condizioni sono state declinate in vario modo dalla Cassazione, come nel caso di contemporanea citazione davanti a più autorità giudiziarie 30, nell’ipotesi di detenzione 31 o di malattia 32. A tale ultimo proposito, la stessa Cor-te in commento rigetta la seconda ipotesi di legittimo impedimento addotta dall’imputato statuendo che «non costituisce legittimo ed assoluto impedimento a partecipare al processo la necessità dell’im-putato di sottoporsi ad un accertamento medico certificato come indifferibile a causa delle esigenze or-ganizzative della struttura sanitaria presso cui deve essere eseguito e non in ragione delle specifiche ed impellenti condizioni di salute del medesimo» 33.

Se è condivisibile la soluzione cui approda la Cassazione, non altrettanto può dirsi per la motivazio-ne addotta nella quale si invoca il prevalente interesse dell’«ordinaria amministrazione della giustizia». Tale interesse, al pari di quello (volendo, anche più “forte”) del buon andamento della giustizia”, è pur sempre un valore di rango costituzionale ma soccombente rispetto a quello insito nel diritto di difesa. Come già ampiamente ribadito 34, la giurisdizione è il luogo di affermazione dei diritti dei singoli e del-le pretese di tutela di beni protetti dalla Costituzione, non il luogo nel quale possono entrare in gioco esigenze organizzative e finanziarie. Bene, perciò, avrebbe fatto la Corte a evidenziare il prevalente di-ritto di difesa, che nel caso di specie non subisce alcuna lesione per la scelta dell’imputato-consulente tecnico di svolgere il proprio incarico professionale e di non presenziare al “suo” processo. La concomi-tante funzione di testimone esperto non integra, in altri termini, una condizione che è tale da inficiare la sua consapevole ed attiva partecipazione alla vicenda giudiziaria e, più in generale, l’esercizio dei suoi diritti processuali 35.

La Corte viene investita anche della individuazione della competenza per territorio. Secondo l’imputato, il criterio di individuazione per il reato di abuso d’ufficio relativo alla mancata

richiesta di autorizzazione di tabulati telefonici collegati a parlamentari potrebbe legarsi al locus com-missi delicti della sede in cui i primi dati telefonici sono stati richiesti ed elaborati (sede Vofafone di Poz-zuoli) o, in subordine, al luogo in cui gli stessi sono stati ricevuti e gestiti (“scaricati”, dice la motivazio-ne) dal consulente tecnico nel suo studio privato di Palermo.

28 Così si è espressa Cass., sez. III, 15 febbraio 2015, n. 10482, in CED Cass., n. 266494. 29 Su tutti, A. Ziroldi, Udienza preliminare: preparazione e svolgimento, G. Spangher (diretto da), Trattato di procedura penale, III,

G. Garuti (a cura di), Indagini preliminari e udienza preliminare, 2009, p. 898. 30 Cfr. Cass., sez. VI, 19 febbraio 2009, n. 14207, in CED Cass., n. 243575. 31 Da ultimo e per tutti, Cass., sez. II, 10 febbraio 2016, n. 8098, in CED Cass., n. 266217: «La detenzione dell’imputato per al-

tra causa, sopravvenuta nel corso del processo e comunicata solo in udienza, integra un’ipotesi di legittimo impedimento a comparire e preclude la celebrazione del giudizio in contumacia, anche quando risulti che l’imputato medesimo avrebbe potuto informare il giudice del sopravvenuto stato di detenzione in tempo utile per la traduzione, in quanto non è configurabile a suo carico alcun onere di tempestiva comunicazione dell’impedimento». V. altresì, tra gli altri, Cass., sez. VI, 14 novembre 2014, n. 47594, ivi, n. 26172.

32 Cass., sez. II, 3 giugno 2016, n. 26263, in CED Cass., n. 267156; Cass., sez. IV, 4 giugno 2015, n. 34301, ivi, n. 264411. In dottrina, E. Mariucci, L’infermità psico-fisica che integra il “legittimo impedimento” dell’imputato a comparire in udienza, in que-

sta Rivista, 2012, 5, p. 72 ss. 33 Cass., sez. VI, 22 settembre 2016, n. 49538, in CED Cass., n. 268421. 34 Si veda G. Leo, La Consulta sulla disciplina dell’impedimento a comparire, di durata non determinabile, che discenda da patolo-

gie fisiche dell’imputato, in Dir. pen. cont. 35 Sul legittimo impedimento per concomitanti impegni istituzionali, interessanti le riflessioni di E. Turco, Legittimo impedi-

mento per “motivi istituzionali” e rispetto del principio bidirezionale di leale collaborazione tra i poteri dello stato, in questa Rivista, 2014, 1, p. 65 ss.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 502

AVANGUARDIE IN GIURISPRUDENZA | L’ACQUISIZIONE E L’ELABORAZIONE DEI TABULATI TELEFONICI …

In riferimento alla asserita competenza del Tribunale di Napoli, si è escluso di dare valore ad un elemento, quello della richiesta inoltrata al gestore di telefonia di Pozzuoli, che è emerso solo nel corso del dibattimento. La Corte, richiamando il principio di perpetuatio iuridictionis, collega il criterio territo-riale di competenza a quello individuato ex ante, sulla scorta degli elementi disponibili al momento del-le cadenze normativamente prefissate per la proponibilità dell’eccezione 36. Ma, al di là di tale rilievo processuale, ritiene ultroneo il richiamo alla sede del gestore telefonico presso cui i dati sono conserva-ti, posto che la conoscibilità degli stessi – determinante ai fini della consumazione del reato – avviene «attraverso la decrittazione di essi mediante l’uso della relativa password», e quindi non nella sede stes-sa del gestore.

Quanto alla richiamata competenza del Tribunale di Palermo, la Corte esclude di poter individuare il luogo di commissione del reato nello studio del c.t. evidenziando «che il collegamento al server della posta elettronica alla quale sono pervenuti i dati, poteva essere avvenuto da qualsiasi terminale, e quindi da qualsiasi ubicazione».

Pur condividendo la conclusione cui perviene la Corte, si ritengono inopportune le riflessioni addot-te. Anche in questo caso, la Corte fa incursione nelle conoscenze di Digital forensics, suggestionata pro-babilmente dalla presenza di una prova tecnica (quale, appunto, i tabulati telefonici) per la quale occor-re impiegare strumenti d’indagine informatica al fine di repertare i dati contenuti in apparati telefonici, elaborarne i risultati in sistemi elettronici che mettono a confronto i dati di traffico per ottenere la prova relativa alla frequenza dei contatti e degli incroci di comunicazioni avvenuti tra le diverse utenze inda-gate.

Tuttavia, stavolta il dato tecnico pare avere indotto in errore i giudici di legittimità, spingendoli a cercare il forum commissi delicti sulla base di regole e parametri diversi da quelli tradizionali. S’intende dire che, nel caso di specie, il locus di consumazione del reato, richiesto dal primo comma dell’art. 8 c.p.p. per la individuazione della competenza per territorio, non subisce “smaterializzazioni” a causa delle modalità digitali di acquisizione dell’oggetto della condotta penalmente rilevante e, di conse-guenza, non richiede l’adozione di criteri diversi da quelli che si applicherebbero a tutti i reati di even-to. Non si è al cospetto di un illecito commesso a mezzo di Internet, né tanto meno di un reato di even-to, come la diffamazione sul web, che si consuma sul web e per il quale è difficile comprendere quale sia il momento ed il luogo di consumazione del reato.

In questo caso, tale luogo non può che essere individuato lì dove si è violata la norma e si è arrecato il danno ingiusto 37, ossia si è lesa la sfera di prerogative attribuite dalla Costituzione al parlamentare, non come singolo, ma quale membro del Parlamento. In un caso e nell’altro, il forum commissi delicti non può che essere Roma, sede istituzionale cui il p.m. avrebbe dovuto chiedere l’autorizzazione e sede di residenza istituzionale dei parlamentari.

36 Cass., sez. IV, 12 dicembre 2012, n. 14699, in CED Cass., n. 255498, e Cass., sez. II, 26 marzo 2010, n. 24736, ivi, n. 247745. 37 In questo senso, Cass., sez. VI, 26 marzo 2015, n. 28117, in CED Cass., n. 263929, nonché Cass., sez. III, 2 aprile 2014, n.

30265, ivi, n. 260236. In entrambe le decisioni il principio in massima è il seguente: «Il momento consumativo del reato di abuso di ufficio da cui decorre il termine di prescrizione coincide, per la sua natura di reato di evento, con la data di avvenuto conse-guimento dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o con la produzione ad altri di un danno ingiusto».

SCENARI | DECISIONI IN CONTRASTO

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017

Dibattiti tra norme e prassi

Debates: Law and Praxis

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 504

DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | IL D.LGS. 29 OTTOBRE 2016, N. 202

FRANCESCO VERGINE

Professore associato di Diritto processuale penale – Università degli Studi L.U.M. Jean Monnet

Il d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202: un ulteriore ampliamento della confisca di estrazione europea, tra le “solite” novità e i mancati adeguamenti The legislative decree of october 29, 2016, n. 202: another extension of confiscation coming from Europe, between the classics "innovations" and missed adaptations

L’Italia, con il d.lgs. n. 202 dello scorso ottobre 2016, si è dotata di una serie di norme – prevalentemente sanzio-natorie – per conformarsi alla Direttiva europea n. 42/2014 su congelamento e confisca dei beni. La tattica legisla-tiva è quella ampiamente sperimentata: percorrendo sentieri già battuti, si sono implementati istituti già previsti, ampliandone le potenzialità applicative con carattere obbligatorio. Le aspettative del provvedimento europeo, però, sono rimaste parzialmente disattese. Nel diritto interno non ha avuto traduzione né – purtroppo – la parte sul con-gelamento dei beni e né – condivisibilmente – la confisca dell’equivalente dei beni strumentali. Italy, with legislative decree n. 202 of last october 2016, has adopted a series of rules – predominantly sanctioning – to conform to European Directive n. 42 of 2014 on freezing and confiscation of goods. The legislative tactic is the widely experimented one: along the usual routes, we have been implemented legal institutions already pre-sent, increasing their application potentialities with compulsory character. The expectations of the European measure, however, have been partially disregarded. Into national law did not have translation – unfortunately – neither the part about freezing of goods and not even – in acceptable way – the confiscation of the equivalent of the strumental goods.

UNO SGUARDO ALLE “FONTI”

Lo scorso 9 novembre 2016 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202, entra-to in vigore il successivo 24 novembre. Esso si pone a valle della Direttiva europea n. 2014/42/UE 1 re-lativa al congelamento ed alla confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato, con previsione dell’obbligo della confisca (anche per equivalente) in una serie di reati.

A monte del decreto legislativo in esame, ed in via mediana rispetto alla citata Direttiva europea, si pone la legge delega 7 ottobre 2014, n. 154.

Il novello provvedimento legislativo attinge il codice penale (in particolare interpolando l’art. 240 ed introducendo l’art. 466-bis, con il quale si è coniata una nuova ipotesi di ablazione), quello civile (im-plementando l’art. 2635 con la creazione di un ultimo comma), arricchendo il noto art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306 (attraverso l’estensione della sua potenzialità ad una ulteriore serie di reati), ag-giungendo un periodo all’art. 55 d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231, e prevedendo delle conseguenze reali sia nella fattispecie di cui all’art. 73 d.p.r. 9 ottobre 1990, n. 309 (in particolare generando una ipotesi di confisca del profitto, del prodotto e dei beni equivalenti) e sia in quella associativa del successivo art. 74

1 Direttiva 3 aprile 2014, n. 42, in G.U.C.E. L 127/39, 29 aprile 2014. Per un approfondimento espositivo e critico dei contenuti della direttiva, si veda A.A. Marandola, Congelamento e confisca dei beni strumentali e dei proventi da reato nell’Unione Europea: la “nuova” direttiva 2014/42/UE, in Arch. pen., 2016, 1, p. 79 ss., nonché A.M. Maugeri, La direttiva 2014/42/UE relativa alla confisca degli strumenti e dei proventi da reato nell’Unione europea tra garanzie ed efficienza: un “work in progress”, in Dir. pen. cont., 2015, 1, p. 300 ss.

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 505

DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | IL D.LGS. 29 OTTOBRE 2016, N. 202

del medesimo provvedimento (reiterando l’idea della ablazione del profitto, del prodotto e delle res di valore equivalente).

Un’analisi, per quanto sommaria, del decreto delegato non può che prendere le mosse da una consi-derazione preliminare: esso si inserisce nel solco della oramai radicata presa d’atto che le misure patri-moniali rappresentano lo strumento più efficace per il contrasto alla criminalità del profitto. Tale con-sapevolezza si è dipanata sia sul versante pretorio (attraverso una continua opera di ridefinizione degli istituti presenti 2) sia su quello legislativo 3. La differenza tra la strada giurisprudenziale e quella norma-tiva risiede nella maggiore veemenza del primo sentiero (segnato da arretramenti delle garanzie) a di-spetto di un approccio più timido del secondo percorso.

Volendo tentare di mappare temporalmente i diversificati piani normativi che rendono labirintica la natura e l’operatività della confisca, può osservarsi che la Direttiva 2014/42/UE del Parlamento e del Consiglio è del 3 aprile 2014. Pochi mesi più tardi, e cioè il 7 ottobre 2014, le Camere approvano la legge delega, alla quale segue – il 29 ottobre 2016 – il decreto legislativo in esame.

Il termine di due anni trascorso tra la direttiva ed il decreto legislativo si lascia notare per la limitata estensione, che diviene decisamente apprezzabile sol che si pensi come, nel medesimo e variegato setto-re del recepimento interno di provvedimenti sovranazionali, sono occorsi – tra alterne vicende – ben nove anni per dare attuazione alla decisione quadro n. 783/2006 4.

A livello strutturale, può notarsi una sostanziale differenza tra le due parti della legge delega: nel mentre essa contiene all’art. 9 una cospicua e dettagliata quantità di indicazioni in tema di mutuo rico-noscimento (due commi, il primo dei quali arricchito di ben 21 lettere, alcune delle quali ulteriormente specificate), nel predicato dell’art. 1, comma 1, si è invece limitato a delegare – senza alcuna precisazio-ne o guidelines – il Governo all’assunzione dei decreti legislativi in relazione alle direttive indicate in due allegati, ivi compresa quella che ha dato i natali al decreto in commento.

Da ciò deriva che il legislatore delegato ha beneficiato di ampi spazi di discrezionalità sia sull’an che sul quomodo dell’attuazione della direttiva, con le ulteriori ripercussioni che tali scelte comportano in termini di sindacato di costituzionalità.

I CONTENUTI DEL DECRETO LEGISLATIVO

Venendo al merito del provvedimento, possiamo osservare che esso ha statuito come la confisca debba essere sempre ordinata in relazione ai beni che rappresentano il profitto o il prodotto dei reati contem-plati nel numero 1-bis del comma 2, dell’art. 240 c.p. (ossia dei delitti di cui agli artt. 615-ter, 615-quater, 615-quinquies c.p., artt. 617-bis, 617-ter, 617-quater, 617-quinquies e 617-sexies c.p., artt. 635-bis, 635-ter, 635-quater, 635-quinquies c.p., artt. 640-ter e 640-quinquies c.p.) o dei beni di un valore equivalente, ove la misura diretta non fosse esperibile. La novità risiede nell’aver inserito nel perimetro dell’ablazione sia il profitto che il prodotto (o il loro equivalente), accanto alla primigenia indicazione dei beni e degli stru-menti informatici o telematici utilizzati per la commissione dei reati in precedenza indicati.

Ciò che si pone subito in evidenza è la perpetuazione del problema semantico: il legislatore interno prosegue con la previsione del trinomio prezzo-profitto-prodotto (continuando, spesso, ad optare per un paio di lemmi per volta), in luogo di quello insiemistico di provento, di cui alla direttiva europea.

Al fine di comprendere la portata del problema, basti richiamare l’art. 2 della Direttiva, rubricato “definizioni”.

2 Solo per citarne alcune, tra le più recenti, Cass., sez. un., 17 dicembre 2015, n. 51207, in CED Cass., n. 265112 (sul rito non partecipato nel grado cautelare di legittimità), Cass., sez. un., 21 luglio 2015, n. 31617, in CED Cass., n. 264434 (sulla individua-zione del discrimine tra confisca diretta e per equivalente, con un incremento della prima a svantaggio della seconda); Cass., sez. un., 31 marzo 2016, n. 18954 con nota di G. Spangher, Quel “pasticciaccio brutto” di piazza Cavour. Le Sezioni Unite sul riformato riesame cautelare reale, in www.ilpenalista.it, 12 aprile 2016 (sui termini del riesame reale); Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561 in Cass. pen., 2014, p. 2797, con nota di G. Varraso, Punti fermi, disorientamenti interpretativi e motivazioni inespresse delle sezioni uni-te in tema di sequestro a fini di confisca e reati tributari (sulla sequestrabilità dei beni della persona giuridica nei processi per reati tributari).

3 A mero titolo esemplificativo, si pensi al d.lgs. 7 agosto 2015, n. 137, generato sempre dalla stessa legge delega n. 154/2014, che ha inteso applicare la decisione quadro n. 783/2006.

4 Si veda M. Montagna, Il d.lgs. 7 agosto 2015, n. 137: il principio del mutuo riconoscimento per le decisioni di confisca, in questa Ri-vista, 2016, 1, p. 110 ss.

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In base ad esso, per “provento” si intende ogni vantaggio economico, derivato direttamente o indi-rettamente da reati, e può consistere in qualsiasi bene, includendo ogni successivo reinvestimento o tra-sformazione di proventi diretti e qualsiasi vantaggio economicamente valutabile.

Come noto, l’ambito contenutistico del profitto è stato individuato in quel vantaggio economico de-rivante direttamente ed immediatamente dalla commissione del reato, quello del prezzo nelle cose, nel denaro o nelle altre utilità date o promesse per la commissione del reato, mentre quello del prodotto nelle cose create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato.

In effetti, il provento sovranazionale appare potenzialmente più ampio rispetto alla somma delle tre soluzioni interne, ed anzi giunge a lambire il punto iniziale della confisca per equivalente, ossia di quel-la misura che aggredisce beni che non hanno un rapporto eziologico con il reato.

L’analisi critica evidenzia come molte delle fattispecie enucleate nel numero 1-bis del comma 2 dell’art. 240 c.p. non contemplano un profitto, e difficilmente potrebbero realizzarlo. Si pensi all’ipotesi dell’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico ex art. 615-ter c.p. o alle ipotesi descritte ne-gli artt. 617-quater e 617-quinquies c.p. In relazione ad esse, la novella appare di scarsissimo impatto. Inoltre, non avendo la norma menzionato il prezzo del reato, lascia scoperta la possibilità di aggredire eventuali somme di denaro corrisposte per l’esecuzione del reato. Detta pecunia non rappresenterebbe una forma di profitto, giacché essa non deriva dalla commissione del reato, ma sorge prima di esso ed è riconosciuta per la perpetrazione dell’illecito.

Peraltro, resta nelle mani dell’interprete il quesito inerente la possibile sovrapposizione dei termini profitto e vantaggio. Problema di fondamentale rilevanza, giacché alcune delle ipotesi delittuose sono in grado di generare un vantaggio (che, anzi, in taluni casi rappresenta un elemento della fattispecie), come nel caso dell’art. 617 sexies c.p. (falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comu-nicazioni informatiche o telematiche).

Scegliendo un canone ermeneutico che privilegi le ambizioni della direttiva (come detto, in quella sede si auspicava una dimensione ampia del provento), occorrerebbe valorizzare il termine “vantaggio” al fine di riconoscergli un ruolo all’interno della nozione di “profitto”.

Viceversa, optando per una soluzione autonomistica, dovremmo reputare che il “vantaggio” è cosa diversa rispetto al “profitto” e che, semmai, eventuali sovrapposizioni si potrebbero realizzare soltanto nei casi in cui il vantaggio fosse aggettivato economicamente.

Nessuna delle due soluzioni appare esente da profili critici. La prima imporrebbe l’obbligo, per il giudice, di determinare economicamente il vantaggio conse-

guito, anche laddove detto vantaggio non abbia generato nulla di valutabile, portando con sé difficoltà operative, ampie discrezionalità ed assenza di parametri certi.

La seconda avrebbe l’effetto di legittimare ulteriormente le strettoie dell’impostazione nazionale e rischierebbe di rendere del tutto evanescente il contenuto della novità legislativa.

IL “PASTICCIO” DELLA FRODE INFORMATICA

Una menzione merita il “caso” della frode informatica ex art. 640-ter c.p. Detto delitto è espressamente previsto nel richiamato n. 1-bis del comma 2 dell’art. 240 c.p., di talché,

in esito al d.lgs. n. 202/2016, sarà confiscabile il profitto o il prodotto del reato (o beni di valore equiva-lente).

A ben guardare, però, l’art. 640-quater c.p. rende applicabile proprio all’ipotesi delittuosa dell’art. 640-ter c.p. i contenuti dell’art. 322-ter c.p., che, come noto, rappresenta una delle due (insieme all’art. 240 c.p.) norme cardine in tema di confisca, nonché il punto di riferimento della misura per equivalente.

Sembrerebbe, a prima vista, una sorta di duplicazione, essendo prevista la confisca sia dall’art. 240 (che richiama il 640-ter) e sia dall’art. 640-quater (giacché anch’esso richiama la frode informatica). Tut-tavia, è solo un’illusione ottica che cela un disordine da superficialità legislativa.

In effetti, l’art. 640-quater dispone un richiamo alla confisca dell’art. 322-ter solo nel caso in cui la frode informatica sia quella contemplata da una parte del secondo comma dell’art. 640-ter 5, per cui vi

5 Ossia quando ricorre una delle circostanze previste dal numero 1) del secondo comma dell’art. 640 e cioè se il fatto è com-messo a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno da servizio militare. Ancorché il comma 2 dell’art. 640-ter contempli un aggravamento della pena anche nel caso in cui il fatto venga commesso con abuso della

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sarebbe una sovrapposizione solo parziale in quanto l’art. 240 si applicherebbe a tutte le ipotesi (sono tre, distribuite in altrettanti commi), mentre il 322-ter colpirebbe soltanto la condotta di cui al comma 2 dell’art. 640-ter.

I possibili effetti che deriverebbero dal decreto sono due, alternativi. Può ritenersi che il decreto legislativo, in quanto postumo, prevalga e, dunque, sarà confiscabile, per

tutte e tre le ipotesi di frode informatica, il profitto o il prodotto del reato (o i beni equivalenti). Tuttavia, è sostenibile una tesi differente, e cioè quella secondo la quale la norma (art. 640-quater) che

rende applicabile l’art. 322-ter al solo secondo comma dell’art. 640-ter c.p., essendo speciale, prevalga, e detta prevalenza resista all’innovazione legislativa (che, in effetti, non ne ha disposto il deperimento). In conseguenza di ciò, il quadro sarebbe molto composito ed a tratti incomprensibile: per le ipotesi di cui al primo ed al terzo comma dell’art. 640-ter c.p., si potrebbe (rectius, dovrebbe) confiscare il profitto o il prodotto (dunque, non il prezzo) o, in caso di impossibilità, valori equivalenti. Per il solo caso del secondo comma della frode informatica, si dovrebbe confiscare il prezzo o il profitto (dunque, non il prodotto) o beni di pari valore.

LA NUOVA IPOTESI DI CONFISCA NEL “FALSO NUMMARIO”

Sempre nell’ambito delle novità che hanno integrato il codice penale, va annoverata l’introduzione dell’art. 466-bis c.p. Con esso si è prevista una ulteriore ipotesi di confisca obbligatoria, nei casi di con-danna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per uno dei delitti previsti dagli artt. 453, 454, 455, 460 e 461 c.p. Si tratta, a titolo esemplificativo, di alcune ipotesi di falsità in monete o di alterazione, di spendita nonché di contraffazione di carta filigranata e di fabbricazione o detenzione di quest’ultima o di strumenti destinati alla falsificazione di monete e di valori di bollo.

La ragione di tale esigenza si coglie nell’analisi numerica dei reati commessi. Nel 2012 vi sono stati ben 531.000 casi di falso nummario, cresciuti sino agli 838.000 casi del 2014 6. La tendenziale crescita del-le condotte criminose, nonché l’oggettiva rilevanza in termini assoluti dei citati numeri, unitamente alla classica strategia che vede nella confisca uno strumento di deterrenza, ne ha segnato le sorti genetiche.

La norma è plasmata su paradigmi noti e già sperimentati, giacché parifica la sentenza di condanna a quella di patteggiamento, prevede l’ablazione del profitto, del prezzo o del prodotto, oltreché delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato. Si prevede il limite operativo della appar-tenenza al terzo 7 di tali cose (che impedirebbe la confisca) e si dispone, in termini sussidiari, l’appren-sione di beni nella disponibilità del condannato aventi valore equivalente al prezzo, al prodotto o al profitto.

Il punto di debolezza della previsione può, forse, essere colto nella difficoltà di determinare con suf-ficiente affidabilità l’entità del profitto, posto che esso potrebbe essere parametrato – solo per fare un esempio – al valore intrinseco della banconota contraffatta, al suo valore di mercato (ossia al vantaggio economico derivante dalla cessione a chi curerà l’immissione in circolazione) piuttosto che al valore fi-nale che avrebbe rappresentato. La soluzione quantitativa è, tuttavia, rimessa alla valutazione del giu-dice il quale, per espresso richiamo al terzo comma dell’art. 322-ter c.p. (effettuato dall’ultima parte dell’art. 466-bis c.p.) dovrà, con la sentenza di condanna, determinare le somme di denaro o individuare

qualità di operatore di sistema, detta parte del citato comma è espressamente esclusa dall’art. 640-quarter c.p., nel rimando che esso opera all’art. 322-ter c.p. Anche qui può notarsi una scelta del legislatore criticabilmente barocca nel momento in cui effet-tua una serie di richiami che rendono il quadro normativo particolarmente frazionato e di lettura pesante.

6 Secondo i dati forniti dalla Banca d’Italia e riportati da G. Gambogi, Il d.lgs. 202/2016: la confisca europea dei beni strumentali e dei proventi da reato trova ingresso nel nostro ordinamento, in Il penalista, 10 novembre 2016, nel primo semestre del 2012 sono state riconosciute false e ritirate dalla circolazione n. 251.000 banconote, 280.000 nel secondo semestre dello stesso anno. Nel 2013, 317.000 nel primo semestre che giungono a 353.000 nel secondo semestre. Il 2014 ha visto ritirare n. 331.000 banconote false nel primo semestre e n. 507.000 nel secondo semestre. Nel primo semestre del 2015 siamo a quota 454.000.

7 La nozione di terzo o, più precisamente, di persona estranea al reato è abbastanza contesa. Ad una soluzione dottrinale tradizionale, secondo la quale tale deve ritenersi colui il quale non è autore né ha concorso nel reato per il quale si procede o in altro reato ad esso intimamente legato (valorizzando, tra l’altro, come indice dimostrativo la non iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p.) si contrappone un approccio giurisprudenziale più sostanzialista, in virtù del quale va ritenuto estraneo solo colui che non abbia alcun collegamento, diretto o indiretto, con la consumazione del reato (cfr., tra le tante, Cass., sez. IV, 22 maggio 2009, n. 26438, in Guida dir., 2009, 39, p. 85).

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i beni assoggettati a confisca in quanto costituenti il profitto o il prezzo del reato, ovvero in quanto di valore corrispondente al profitto o al prezzo del reato.

Come emerge dalla lettura congiunta delle due disposizioni, resterebbe esclusa da tale determina-zione la somma costituente il prodotto, giacché l’art. 466-bis c.p. prevede la confisca anche di tale faccia del provento, ma il terzo comma dell’art. 322-ter c.p. limita l’intervento del giudice ai soli prezzo e pro-fitto. Ancora una volta si è in presenza di evidenti disarmonie. Difatti, o il richiamo è ultroneo, appa-rendo ovvio che dovrà essere il giudice, in sede di sentenza di condanna, a determinare le somme o ad individuare i beni da confiscare (anche per l’accertamento del valore corrispondente) o, laddove si vo-lesse valorizzare detto rinvio, si creerebbe una situazione paradossale poiché il giudice non potrebbe provvedere a determinare le somme di denaro o individuare i beni assoggettati a confisca in relazione al prodotto del reato, giacché il terzo comma dell’art. 322-ter limita il suo raggio di azione ai soli profit-to e prezzo.

IL MINIMO QUANTITATIVO NELLA CORRUZIONE TRA PRIVATI DEL CODICE CIVILE

Anche il codice civile, come si diceva, è stato oggetto di attenzione da parte del legislatore delegato; la norma arricchita è quella di cui all’art. 2635. Siamo all’interno della fattispecie della corruzione tra pri-vati, già oggetto di numerosi interventi nel corso degli ultimi anni 8. Con la novella legislativa, si è pro-ceduto ad inserire un ultimo comma (precisamente il sesto), nel quale viene introdotto un limite mini-mo alla determinazione quantitativa della confisca per equivalente, che non potrà essere inferiore al va-lore delle utilità date o promesse. Peraltro, la norma lascia intatto il disposto dell’art. 2641 che disciplina la confisca prevista per i reati contemplati dal codice civile ed inerenti le società e i consorzi. Con quest’ultima fattispecie si prevede la confisca diretta del prodotto o del profitto del reato, nonché dei beni utilizzati per commetterlo e la misura per equivalente, quale forma di aggressione vicaria. L’introduzione da parte del decreto legislativo dell’ultimo comma all’art. 2635 c.c. appare decisamente opportuna, perché rende omogenea la confisca “societaria” a quella prevista dall’art. 322-ter c.p., pur se suscita la medesima perplessità in precedenza menzionata e relativa alla possibile difficoltà nella de-terminazione quantitativa della utilità, allorquando essa non è costituita dal denaro. Ciò, poiché i pre-cedenti commi 1 e 3 espressamente sanzionano il ricevente ed il datore di denaro e di altre utilità, in tal modo prevedendo che detta utilità possa avere un perimetro differente 9.

L’IMPLEMENTAZIONE DELLA CONFISCA PER SPROPORZIONE DELL’ART. 12-SEXIES DEL D.L. N. 306/1992

La confisca c.d. allargata prevista dall’art. 12-sexies d.l. n. 306/1992, ha visto aumentare le sue potenzia-lità applicative, essendo stata estesa la sua portata deflagrante. La novità corre lungo tre diramazioni.

In primo luogo, nel novero dei reati che legittimano la misura per sproporzione, sono stati inseriti, in un’ottica di linearità rispetto all’implementazione avvenuta nel codice penale, anche le fattispecie di falso monetario (ex artt. 453, 454, 455, 460 e 461 c.p.) seppur nella loro veste di reati fine di una associa-zione a delinquere. Il risultato è che detta speciale forma di confisca sarà adottabile anche nel caso in cui vi sia una sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per il reato di associazione per delinquere finalizzato alla commissione di uno dei delitti di falsità in monete appena indicati, ricorrendo una sproporzione patrimoniale nei limiti segnati dalla disposizione vigente. Se-guendo la stessa logica, l’insieme dei reati è stato arricchito attraverso la nuova figura dell’autorici-claggio (art. 648-ter.1 c.p.), della corruzione tra privati (dianzi richiamata, art. 2635 c.c.) e dell’art. 55, comma 9 10, d.lgs. n. 231/2007 11.

8 L’articolo fu prima riscritto dal d.lgs. n. 61/2002; poi fu modificato ad opera della l. n. 262/2005, per poi essere attinto dal d.lgs. n. 39/2010 ed infine sostituito dalla l. n. 190/2012.

9 A titolo di esempio, si potrebbe pensare alla promessa di una promozione in ambito societario o di un trasferimento (che non produce alcun accrescimento di ricchezza nel patrimonio del corrotto).

10 Si tratta della seguente fattispecie: «Chiunque, al fine di trarne profitto per sé o per altri, indebitamente utilizza, non essendone tito-lare, carte di credito o di pagamento, ovvero qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, è punito con la reclusione da uno a cinque anni e con la multa da 310 a 1.550 euro. Alla stessa pena soggiace chi,

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La seconda parte dell’intervento sull’istituto del 12-sexies concerne il successivo periodo del primo comma, ove si è ritenuto di ampliare la portata specificando che le finalità di terrorismo rilevano anche nel caso in cui esso sia internazionale 12. Trattasi di specificazione forse superflua ed anzi potenzialmen-te dannosa, giacché rischierebbe di far passare l’opzione esegetica secondo la quale, prima della modifi-ca in esame, la norma non poteva essere interpretata nel senso che il termine “terrorismo” inglobasse anche quello internazionale, e dunque una eventuale condanna per reati commessi per finalità di terro-rismo internazionale non avrebbe potuto fondare una confisca per sproporzione.

Da ultimo, la norma è stata accresciuta attraverso un ulteriore periodo posto in calce al primo com-ma. Con esso si impone la confisca nel caso di condanna o di applicazione su richiesta delle parti per una serie di reati aventi in comune programmi o comunicazioni informatiche o telematiche 13, purché le condotte in essi descritte riguardino tre o più sistemi.

LE CONFISCHE SPECIALI SULL’INDEBITO UTILIZZO DELLE CARTE DI CREDITO ED IN TEMA DI STUPEFACENTI

Come accennato, si è creato anche un ultimo comma (precisamente il 9-bis) all’art. 55 d.lgs. n. 231/2007, in base al quale si prevede una speciale ipotesi di confisca applicabile in caso di condanna o di patteg-giamento per il delitto previsto dal precedente comma 9 ed inerente, in termini generali, l’indebito uti-lizzo di carte di credito 14. Detta forma di confisca ricalca la struttura delle precedenti e si applica in re-lazione alle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato, nonché il profitto o il prodotto. Anche in essa si fanno salvi i diritti dei terzi, nel senso che la misura non potrà operare nel caso in cui le res appartengano a persona estranea al reato. La norma si chiude con la previsione, in termini sussidia-ri, perché condizionata alla impossibile esecuzione della confisca diretta, della misura per equivalente in relazione ai beni nella disponibilità del reo, di valore pari al profitto o al prodotto. La ricostruzione esegetica offerta dalla prassi degli istituti aventi contenuti analoghi certamente detterà le cadenze inter-pretative anche di tale forma di confisca.

Infine, è stato altresì oggetto di intervento l’articolato normativo sugli stupefacenti – d.p.r. n. 309/1990. In particolare, sia l’art. 73 che l’art. 74 hanno visto ampliarsi il proprio contenuto, attraverso l’aggiunta di un comma (in particolare, il 7-bis per entrambe le norme).

Nel primo caso, si stabilisce che la sentenza di condanna, o quella ex art. 444 c.p.p., rappresentano il presupposto per una obbligatoria applicazione della confisca di ciò che rappresenta il profitto o il pro-

al fine di trarne profitto per sé o per altri, falsifica o altera carte di credito o di pagamento o qualsiasi altro documento analogo che abiliti al prelievo di denaro contante o all’acquisto di beni o alla prestazione di servizi, ovvero possiede, cede o acquisisce tali carte o documenti di pro-venienza illecita o comunque falsificati o alterati, nonché ordini di pagamento prodotti con essi».

11 Si può scorgere una certa coerenza dell’intervento giacché anche l’art. 55 è stato oggetto di intervento diretto da parte del decreto legislativo in commento, come meglio si dirà nel prosieguo.

12 Può ricordarsi che la l. n. 153/2016 ha introdotto nel codice penale l’art. 270-septies, in virtù del quale «Nel caso di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale per taluno dei delitti commessi con finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies è sempre disposta la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne costituiscono il prezzo, il prodotto o il profitto, salvo che appartengano a persona estranea al reato, ovvero, quando essa non è possibile, la confisca di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente a tale prezzo, prodotto o profitto». Alla luce di tanto, l’interpolazione in esame si pone come una sorta di completamento degli strumenti ablatori.

13 Vengono richiamati i seguenti delitti: installazione di apparecchiature atte ad intercettare, impedire o interrompere comu-nicazioni informatiche o telematiche (art. 617-quinquies c.p.); falsificazione, alterazione o soppressione del contenuto di comuni-cazioni informatiche o telematiche (art. 617-sexies c.p.); danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici (art. 635-bis c.p.); danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici utilizzati dallo Stato o da altro ente pubblico o comun-que di pubblica utilità (art. 635-ter c.p.); danneggiamento di sistemi informatici o telematici (art. 635-quater c.p.); danneggiamen-to di sistemi informatici o telematici di pubblica utilità (art. 635-quinquies c.p.).

14 La fattispecie potrebbe porsi in termini di contiguità o alternatività con quella prevista dall’art. 640-ter c.p., con sovrappo-sizione anche delle conseguenze ablatorie. Sul rapporto tra le due ipotesi delittuose, la Corte di legittimità ha osservato che «l’elemento specializzante, rappresentato dall’utilizzazione “fraudolenta” del sistema informatico, costituisce presupposto “assorbente” ri-spetto alla “generica” indebita utilizzazione dei codici d’accesso disciplinata dal decreto legislativo 231 del 2007, art. 55, comma 9, approdo ermeneutico che si pone “in linea con l’esigenza (...) di procedere ad una applicazione del principio di specialità secondo un approccio strut-turale, che non trascuri l’utilizzo dei normali criteri di interpretazione concernenti la ratio delle norme, le loro finalità e il loro inserimento sistematico, al fine di ottenere che il risultato interpretativo sia conforme ad una ragionevole prevedibilità, come intesa dalla giurisprudenza della Corte EDU», Cass., sez. II, 13 ottobre 2015, n. 50140, in Riv. pen., 2016, 7-8, p. 675.

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dotto, con il ricorrente limite della appartenenza a soggetti estranei al reato. Con esclusione della ipote-si meno grave del comma 5 dell’art. 73, si potrà procedere – ove risulti impossibile aggredire diretta-mente il profitto o il prodotto – anche alla confisca di beni aventi valore equivalente al profitto o al pro-dotto.

Sul punto occorre richiamare lo stato della giurisprudenza sull’estensione del termine profitto, in particolar modo relativo alle differenti azioni che la norma incriminatrice prevede e parifica ai fini san-zionatori (ma, come si dirà, non per gli scopi ablativi).

La fattispecie può dirsi consumata allorquando l’agente coltivi, produca, fabbrichi, estragga, raffini, venda, offra o metta in vendita, ceda, distribuisca, commerci, trasporti, procuri ad altri, invii, passi o spedisca in transito, consegni per qualunque scopo (comma 1) o importi, esporti, acquisti, riceva o co-munque illecitamente detenga sostanze stupefacenti (comma 1-bis).

Come è stato più volte affermato 15, il denaro rinvenuto nel possesso dell’agente non può essere sot-toposto a confisca facoltativa ai sensi dell’art. 240, comma 1, c.p., non potendo lo stesso essere conside-rato profitto del reato, allorquando si contesti esclusivamente il delitto di detenzione di sostanze stupe-facenti 16.

La Corte ha avuto occasione di precisare che la citata confisca facoltativa è legittima quando sia di-mostrata una relazione di asservimento tra cosa e reato, dovendo la prima essere collegata al secondo non da un rapporto di mera occasionalità, ma da uno stretto nesso strumentale, rivelatore dell’effettiva probabilità del ripetersi di un’attività punibile 17.

La Cassazione ha altresì osservato che non si pone in contrasto con il principio di diritto appena ri-chiamato la recente affermazione in base alla quale, in tema di patteggiamento per il delitto di cui all’art. 73, comma 5, giudice può, con adeguata motivazione, sottoporre a confisca facoltativa il denaro che rappresenta il profitto ricavato dalla cessione di sostanze stupefacenti, trattandosi di cose riferibili direttamente al reato, la cui ablazione deve essere giustificata con l’esistenza di un nesso pertinenziale con l’illecito, che impone la sottrazione di beni alla disponibilità del colpevole per impedire l’agevola-zione di nuovi fatti criminosi 18. Difatti, si è argomentato che, a norma dell’art. 240, comma 1, c.p., sono suscettibili di confisca facoltativa solo le cose che abbiano una speciale qualità (i c.d. mezzi di esecuzio-ne del reato ossia le cose servite o destinate a commettere il reato e quelle che costituiscono il prodotto o il profitto del reato). Deve cioè trattarsi di cose che siano direttamente riferibili al fatto di reato, potendo essere oggetto di confisca solo quelle che siano eziologicamente collegate, in maniera diretta ed essen-ziale, con il reato commesso, fermo restando che il giudice deve dare conto, nella confisca facoltativa, dell’uso del potere discrezionale che va esercitato in vista di considerazioni di prevenzione speciale, fondate sull’esigenza di prevenire la commissione di altri reati, sottraendo alla disponibilità del colpe-vole cose connesse al reato che potrebbero costituire stimolo alla perpetrazione di nuovi reati 19.

E con specifico riferimento al denaro, si è precisato che, in caso di condanna o di applicazione della pena per il delitto di cui al comma 5 dell’art. 73, può costituire oggetto di confisca ex art. 240 c.p. solo la somma di denaro che il giudice accerti essere stata ricavata dalla cessione della sostanza stupefacente, vertendosi in un’ipotesi di confisca facoltativa e non obbligatoria per costituire il denaro il profitto e non il prezzo del reato.

Sulla base di tale assetto della giurisprudenza, può notarsi come la speciale forma di confisca intro-dotta dal decreto in esame abbia trasformato la misura da facoltativa in obbligatoria – con tutte le natu-rali ricadute anche in tema di onere motivazionale – ed abbia previsto l’ablazione sia del prodotto che del profitto (ma non del prezzo, facendo, così, conservare attualità alle citate osservazioni esegetiche di legittimità). Peraltro, mentre la confisca diretta potrà (rectius, dovrà) essere applicata in tutte le ipotesi contemplate dall’intero art. 73, la misura vicaria per equivalente non potrà essere eseguita allorquando ricorra la fattispecie di cui al comma 5.

Come si diceva, anche l’art. 74 d.p.r. n. 309/1990 si è arricchito di un nuovo comma, e precisamente il 7-bis.

15 Cass., sez II, 30 settembre 2015, n. 41778, in Cass. pen., 2016, p. 3009, con nota di M. De Andreis. 16 Cass., sez. III, 23 gennaio 2013, n. 7078, in CED Cass., n. 253768. 17 Cass., sez. VI, 4 marzo 2013, n. 10153, in CED Cass., n. 254881. 18 Cass., sez. III, 23 ottobre 2014, n. 2444, in CED Cass., n. 262399. 19 Cass., sez. III, 14 febbraio 2007, n. 11982, in CED Cass., n. 236282.

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L’estensione di esso è solo parzialmente sovrapponibile a quella inserita nell’art. 73; manca il riferi-mento al patteggiamento (strada alternativa non percorribile per un divieto normativo); non compare – ovviamente – l’esclusione della ipotesi meno grave contemplata dal comma 5 dell’art. 73; si prevede la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato. Al pari di quella del prece-dente articolo, si contempla non solo il limite della appartenenza al terzo dei beni da apprendere ma soprattutto la possibilità di ricorrere alla forma vicaria della confisca per equivalente laddove quella di-retta dovesse risultare impossibile 20.

Si tratta, anche in questa sede, di una forma di confisca obbligatoria che rappresenta, unitamente alla previsione della possibilità di ricorrere alla misura di valore, l’inserimento di maggiore pregnanza e spessore.

UNO SGUARDO DI INSIEME TRA NOVITÀ GIÀ SPERIMENTATE E MANCATI ADEGUAMENTI: LA CONFISCA PER EQUIVALENTE DEGLI STRUMENTI DEL REATO

L’analisi del decreto legislativo consente di formulare alcune osservazioni. In primo luogo, un corretto approccio non può prescindere dall’effettuare un esame comparativo

con la direttiva cui esso fa seguito, seppur con la formale mediazione di una legge delega dai limitati contenuti specifici già evidenziati.

La Direttiva 2014/42/UE prevedeva molto di più e qualcosa di diverso; dunque, occorre accertare cosa manchi.

L’art. 4 della citata direttiva prevedeva che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per poter pro-cedere alla confisca, totale o parziale, di beni strumentali e proventi da reato, o di beni di valore corrispondente a detti beni strumentali o proventi, in base a una condanna penale definitiva, che può essere pronunciata a seguito di un procedimento in contumacia».

Come può osservarsi, l’aspettativa europea era quella di stimolare gli Stati a dotarsi dello strumento della confisca di cose di valore equivalente ai beni strumentali, e dunque non solo al profitto, chiarendo (al precedente art. 2) che per bene strumentale andrebbe inteso «qualsiasi bene utilizzato o destinato ad es-sere utilizzato, in qualsiasi modo, in tutto o in parte, per commettere uno o più reati».

La misura di valore recepita, invece, è legata al solo provento (ed anzi, per quanto detto, al profitto, al prezzo o al prodotto), secondo schemi classici già ampiamente utilizzati, seppur oggetto di sperimen-tazioni in vitro effettuate negli anni nei laboratori pretori, con scarsi apporti legislativi in relazione alla natura ed al funzionamento degli strumenti ablatori. Non vi è stato un vero e proprio adeguamento agli input derivanti dal provvedimento europeo, essendosi limitati a rafforzare, solo sul versante numerico, le modalità operative della confisca, che ha mantenuto i suoi tratti storici (nelle diverse forme in cui es-sa si manifesta, ossia quella di cui all’art. 240, quella per sproporzione ex art. 12-sexies d.l. n. 306/1992) con tutte le conseguenti disarmonie ed i successivi disorientamenti.

Si diceva che il decreto non ha accolto la sollecitazione consistente nella previsione della confisca equivalente agli strumenti del reato. Tale scelta merita un duplice commento. Il primo è che, effettiva-mente, sul piano formale, l’Italia ha deciso di non recepire quella parte della direttiva. La seconda è che la confisca su beni di valore pari agli strumenti del reato avrebbe rappresentato un istituto del tutto nuovo e dalla inaudita aggressività. Il senso di confiscare direttamente gli strumenti è estremamente chiaro e riposa – sul punto appare condivisibile ed indicativa la natura assegnata a tale misura dall’art. 240 c.p. – sulla necessità di evitare il pericolo di possibile reiterazione di attività criminose. Dunque, dette res non sono derivate dal reato ma certamente lo precedono e la loro rilevanza risiede nella perico-losità che può derivare o dal rapporto con il soggetto agente o perché intrinsecamente tali.

20 Con la ricorrente precisazione giurisprudenziale secondo la quale l’impossibilità di procedere alla confisca diretta, quale condizione per eseguirne una per equivalente (il ragionamento sorge, in verità, prevalentemente in relazione al sequestro pre-ventivo che la anticipa, nel cui contesto la Corte ha ripetutamente osservato che: «Il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per equivalente può essere disposto anche quando l’impossibilità del reperimento dei beni, costituenti il profitto del reato, sia transitoria e rever-sibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell’adozione della misura, non essendo necessaria la loro preventiva ricerca generaliz-zata», cfr. Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, in Cass. pen., 2014, p. 2797) ha valenza relativa, nel senso che rileva anche una oggettiva difficoltà di reperimento, una impossibilità transitoria o qualunque causa che renda non aggredibili i beni eziologica-mente legati alla condotta criminosa.

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Per di più, la nozione di strumento, come detto, ingloba sia le cose che servirono a commettere il rea-to – ossia ciò che effettivamente è stato utilizzato per la consumazione del reato – e sia quelle che furo-no semplicemente destinate al raggiungimento del fine illecito. In tale ultima categoria rientrano le cose che sono state predisposte per la commissione del reato, ma concretamente non utilizzate dall’agente. Ne discenderebbe che, non potendo aggredire direttamente dette cose (ad esempio, perché non di pro-prietà dell’agente 21), si dovrebbero confiscare beni di valore equivalente anche a res che realmente non hanno apportato alcun vantaggio nell’esecuzione dell’iter criminoso.

Una misura di tal genere muterebbe completamente natura, risulterebbe del tutto sganciata dai pro-fili di pericolosità che connotano la confisca diretta e diventerebbe un’ulteriore sanzione che andrebbe ad affiancarsi a tutte quelle espressamente previste quali conseguenze del reato, sommandosi senza porsi in termini di alternatività, altresì, alla confisca diretta o per equivalente del provento del reato. Il carico sanzionatorio appare obiettivamente eccessivo.

Peraltro, alla luce della possibile combinazione tra i decreti legislativi 22 che, pur trovando causa nel-la medesima legge delega, derivano da provvedimenti europei differenti, si potrebbe avere in Italia l’esecuzione di una confisca di beni equivalenti agli strumenti del reato, nel caso in cui lo Stato richie-dente contempli nel proprio diritto interno quella forma di ablazione.

Effettivamente, secondo la previsione di cui all’art. 1, comma 3, lett. d), d.lgs. 7 agosto 2015, n. 137, la decisione di confisca che, assunta in altro Paese, può essere eseguita in Italia, è rappresentata da «un provvedimento emesso da un’autorità giudiziaria nell’ambito di un procedimento penale, che consiste nel privare definitivamente di un bene un soggetto».

Si è optato per una definizione inclusiva ed estesa dell’oggetto su cui far ricadere quel mutuo rico-noscimento dei provvedimenti di confisca descritto dalla decisione quadro 2006/783/GAI, alla luce della quale (in particolare richiamando il comma 2 dell’art. 3 d.lgs. n. 137/2015) l’esecuzione è consenti-ta per uno dei reati elencati nel comma appena citato quando nello Stato di emissione sia prevista una pena detentiva non inferiore nel massimo a tre anni, a prescindere dalla doppia incriminazione 23, indi-pendentemente dal tipo di confisca applicata nel provvedimento “estero”, e tenuto conto che i tassativi motivi di rifiuto 24 non contemplano la mancata previsione da parte dell’ordinamento interno di quella particolare ablazione.

Pertanto, ciò che non ha trovato ingresso dalla porta della legislazione interna potrebbe ugualmente accedere attraverso la finestra del mutuo riconoscimento.

(SEGUE) E IL CONGELAMENTO DEI BENI

L’art. 7 della Direttiva n. 2014/42/UE stabilisce che «Gli Stati membri adottano le misure necessarie per con-sentire il congelamento dei beni in vista di un’eventuale conseguente confisca. Tali misure, disposte da un’autorità competente, includono azioni urgenti da intraprendere, se necessario, al fine di conservare i beni».

Il precedente art. 2 offre la definizione di tale originale (almeno per la legislazione italiana) istituto, descrivendolo come il «divieto temporaneo di trasferire, distruggere, convertire, eliminare o far circolare un be-ne o di assumerne temporaneamente la custodia o il controllo».

Sul versante interno, evidentemente reputando che l’assetto processuale, contenendo già la figura del sequestro finalizzato alla confisca, fosse conforme, non si è ritenuto di tradurre positivamente l’indicazione europea. E, tuttavia, il congelamento sembra rappresentare qualcosa di diverso e meno coercitivo rispetto al sequestro preventivo o, quantomeno, rispetto al quomodo in cui viene normalmente applicata la misura cautelare reale. A ben guardare, l’istituto di cui all’art. 7 non prevede lo spossessa-mento, limitandosi ad esigere il divieto di “dispersione” (sia fattuale che giuridica) e lasciando il bene

21 Si pensi al caso di due automobili rubate per effettuare un trasporto di stupefacenti, una delle quali effettivamente utilizza-ta. Quest’ultima sarebbe la “cosa” utilizzata per commettere il reato mentre quella non usata sarebbe la “cosa” destinata a com-mettere il reato. Nell’impossibilità – ovvia – di disporre la confisca dei due mezzi, si dovrebbe determinare il valore dei veicoli e procedere alla confisca di beni equivalenti.

22 Ci si riferisce a quello in esame ed a quello sul mutuo riconoscimento delle decisioni di confisca n. 137 del 7 agosto 2015, teso a conformare il diritto interno alla decisione quadro 2006/783/GAI del 6 ottobre 2006.

23 M. Montagna, Il d.lgs. 7 agosto 2015, n. 137: il principio del mutuo riconoscimento per le decisioni di confisca, cit., p. 115. 24 Previsti dall’art. 6 d.lgs. n. 137/2015.

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nelle mani del detentore. Sembrerebbe una forma preliminare più blanda, che avrebbe potuto indurre il legislatore italiano a meditare sulla utilità di una sua introduzione, anziché riversare il congelamento nelle maglie – decisamente più fittamente articolate – del sequestro.

UN’ANALISI CONCLUSIVA

Come detto, il decreto in esame ha dato esecuzione alla direttiva europea limitandosi ad implementare istituti già presenti attraverso due modalità: ha accresciuto i contenuti delle confische già esistenti (cfr. art. 240 c.p. e art. 12-sexies d.l. n. 306/1992) ed ha coniato ulteriori (ma identiche) e speciali ipotesi abla-torie.

Non ha congegnato nuovi istituti e non ha dato completa esecuzione ai contenuti della direttiva. Ciò ha, però, lasciato irrisolti diversi problemi. In primo luogo, nulla è stato detto in ordine al perimetro, alla natura ed alle modalità di funziona-

mento della confisca per equivalente (e del sequestro che l’anticipa), perdendo una ulteriore occasione di dare seguito alle indicazioni contenute nella legge delega 25 febbraio 2008, n. 34 25, rimasta su tale aspetto del tutto disattesa, e cagionando la necessità che dette caratteristiche venissero accertate in via giurisprudenziale, con tutti i conseguenti limiti.

In secondo luogo, l’intervento si caratterizza per la consueta frammentarietà e per l’assenza di una presa di posizione idonea a fornire delle coordinate univoche e razionali su tutte le forme di confisca presenti nel codice penale, civile e nelle leggi complementari, esimendosi dal fornire una soluzione ri-costruttiva sistematica e senza sovrapposizione di piani.

In terzo luogo, il legislatore delegato non è intervenuto nel delicato tema della misura diretta e di va-lore nei reati tributari contestati al legale rappresentante di una società. Come noto, i delitti tributari non sono stati elevati a reati presupposto ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 (provvedimento neppure sfiora-to dal decreto in esame). Da tanto ne deriva che la società, effettiva beneficiaria del provento illecito, difficilmente si vedrà privare dei beni propri – fatte salve le “creative” precisazioni delle menzionate sentenze Lucci 26 e Gubert 27 – a discapito del patrimonio del legale rappresentante, il quale risponderà per il reato anche con le conseguenze patrimoniali.

Molto di più si sarebbe potuto fare. Ma talvolta – come questa – la scelta di non fare (e cioè di non dare esecuzione alla introduzione del-

la confisca dell’equivalente per gli strumenti del reato) merita deciso apprezzamento.

25 Pubblicata in Gazz. Uff., 6 marzo 2008, n. 56, suppl. ord. n. 54, e recante disposizioni per l’adempimento di obblighi deri-vanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee, c.d. legge comunitaria 2007, in cui si disponeva, all’art. 31, l’indi-viduazione di una disciplina generale della confisca per equivalente.

26 Cass., sez. un., 21 luglio 2015, n. 31617, in CED Cass., n. 264434. 27 Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561, in Cass. pen., 2014, p. 2797.

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DIBATTITI TRA NORME E PRASSI | INTERESSANTI PUNTUALIZZAZIONI IN MATERIA DI AVOCAZIONE FACOLTATIVA

MARIA LUCIA DI BITONTO

Professore associato di Procedura penale – Università degli Studi di Camerino

Interessanti puntualizzazioni in materia di avocazione facoltativa Interesting clarifications regarding the rule provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure

L’autore esamina una interessante decisione adottata dalla Procura generale presso la Corte di cassazione in tema di avocazione facoltativa ex art. 412 c.p.p. Dopo aver ripercorso i passaggi essenziali del provvedimento, si osser-va come questa decisione ponga un punto fermo nel dibattito dottrinale concernente i presupposti legittimanti tale ipotesi di avocazione, manifestando una netta preferenza per una delle diverse posizioni esegetiche in campo. Op-zione che l’Autore ritiene particolarmente apprezzabile in quanto espressiva di una ben precisa e aggiornata con-cezione del principio di obbligatorietà dell’azione penale. The Author deals with an interesting decision adopted by Public Prosecutor Office to the Italian Supreme Court, regarding the rule provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure. She emphasizes that the ex-amined decision could be considered as a landmark into the long-standing debate concerning the requirements provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure, showing a clear preference for one of the two doctrines outlined by the law science. Outcome, openly appreciated by the Author, which is considered to be ex-pressive of a modern and well recognizable conception of mandatory prosecution principle.

PREMESSA

Di grande interesse la decisione adottata nello scorso ottobre dalla Procura generale presso la Corte di cassazione, in tema di avocazione facoltativa 1 ex art. 412, comma 2, c.p.p.

L’occasione è stata la definizione del reclamo presentato ai sensi dell’art. 70, comma 6-bis, ord. giud. dal pubblico ministero di primo grado istituito presso il Tribunale di Milano avverso il provvedimento di avocazione adottato dal procuratore generale presso la relativa Corte di appello.

Per confutare la sussistenza dei presupposti legittimanti la sostituzione del pubblico ministero pro-cedente con quello istituito presso il giudice di secondo grado si escludeva, in primo luogo, che il pro-curatore generale presso la Corte di appello, successivamente all’avvenuta fissazione dell’udienza ca-merale di controllo sull’inazione ed alla ricezione del relativo avviso, potesse disporre l’avocazione per ragioni “squisitamente di merito”. In secondo luogo, si censuravano gli stessi presupposti di merito su cui era fondata l’iniziativa del procuratore generale, denunciando l’asserita incongruenza delle deter-minazioni dell’organo avocante con le risultanze probatorie già emerse in esito all’attività d’indagine.

Al di là dei profili concreti relativi alla vicenda da cui ha preso origine la querelle, il provvedimento che si annota risulta di notevole importanza poiché le ragioni del contendere erano tutte imperniate su una regola centrale della giustizia penale e del nostro assetto politico-istituzionale. Per la soluzione del-le questioni esposte nel reclamo, infatti, era dirimente prendere posizione su come l’obbligatorietà dell’azione penale sancita nell’art. 112 Cost. conformi la fisionomia del potere di avocazione.

È noto il generale ostracismo che da tempo si indirizza verso ogni dibattito sui profili problematici dell’attuale assetto dell’azione penale nel nostro ordinamento, nonostante l’assoluta ineffettività pratica

1 Sulla distinzione tra avocazione obbligatoria e facoltativa v. M.L. Di Bitonto, Avocazione, in Enc. dir., Annali, III, Milano, Giuffrè, p. 114 s.

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del principio di obbligatorietà 2 e la sua controversa costruzione dogmatica. Ben vengano, quindi, le puntualizzazioni del massimo organo requirente, non solo perché offrono lo spunto per discutere di un argomento cruciale; ma anche perché paiono fondare l’esegesi su una concezione dell’obbligatorietà dell’azione penale senz’altro apprezzabile e da condividere.

LA POSIZIONE DELLA PROCURA DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI MILANO

La parte pubblica procedente, che ha presentato richiesta di archiviazione e si è vista avocare le indagi-ni dopo la fissazione dell’udienza di cui all’art. 409 c.p.p., contesta il provvedimento della Procura ge-nerale presso la Corte d’appello, osservando che quest’ultima non sarebbe titolare del potere di sinda-care nel merito le determinazioni del pubblico ministero originariamente procedente. Secondo questa prospettazione, l’avocazione adottata sulla base del sindacato di merito delle determinazioni assunte dal primo pubblico ministero qualificherebbe tale atto come un controllo gerarchico, in quanto tale vie-tato dall’art. 112 Cost.: quet’ultima previsione, infatti, nel fissare la norma cardine dell’indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere dello Stato, escluderebbe qualsivoglia relazione di tipo ge-rarchico fra gli uffici della Procura della Repubblica e quelli della Procura generale presso la Corte d’appello 3.

Inoltre, consentire al pubblico ministero d’appello di sindacare nel merito le determinazioni della Procura della Repubblica presso il Tribunale circa il mancato esercizio dell’azione penale contrastereb-be con la scelta legislativa di affidare soltanto al giudice per le indagini preliminari il potere di vagliare la richiesta di archiviazione, in esito al procedimento in contraddittorio fissato in caso di mancato acco-glimento della richiesta con decreto de plano, oppure in caso di presentazione di opposizione ammissibi-le da parte della persona offesa.

Poste tali premesse, si sostiene che l’avocazione di cui all’art. 412, comma 2, c.p.p. sarebbe esperibile solo quando il pubblico ministero originariamente procedente sia rimasto inerte, omettendo il compi-mento degli atti d’indagine indispensabili per orientare correttamente le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale. Detto in altri termini, secondo l’ufficio del pubblico ministero che ha presentato reclamo, l’avocazione delle indagini preliminari nel procedimento di archiviazione risulte-rebbe esperibile solo quale rimedio per contrastare l’inazione nei casi in cui essa appaia censurabile sul piano disciplinare e determinata da omissioni e/o negligenze dell’organo procedente. In mancanza di tali “vizi” l’organo dell’accusa di primo grado sarebbe l’unico ufficio titolare del potere di decidere se agire oppure no, senza che vi sia spazio alcuno per coinvolgimenti del procuratore generale presso la Corte d’appello volti a sindacare le scelte del pubblico ministero che abbia ritenuto infondata la notizia di reato. In tale quadro, l’unico organo deputato a vagliare la legittimità della richiesta di archiviazione resterebbe il giudice per le indagini preliminari, cui si aggiungerebbe il procuratore generale presso la Corte d’appello esclusivamente nel caso in cui l’indagine effettuata prima di assumere tale determina-zione risultasse carente e lacunosa, o comunque non correttamente condotta.

LA POSIZIONE DELLA PROCURA GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE

Il supremo organo requirente contesta in toto l’impostazione esegetica illustrata nel reclamo e tratteggia una fisionomia dell’avocazione facoltativa profondamente diversa da quella delineata dal pubblico mi-nistero “avocato”, maggiormente in linea con l’architettura del codice di procedura penale e con i carat-teri dell’azione penale fissati dal Costituente.

L’idea di fondo da cui si dipana l’iter argomentativo è che l’intervento sostitutivo dell’organo avo-

2 Si parla, al riguardo di “bugia convenzionale”: così R.E. Kostoris, Obbligatorietà dell’azione penale, esigenze di deflazione e «irrilevanza del fatto», in AA.VV., I nuovi binari del processo penale tra giurisprudenza costituzionale e riforme, Milano, Giuffrè, 1996, p. 212. In effetti, «di fronte all’inesigibilità dell’obbligo di procedere per tutte le notizie di reato, prescritto dall’art. 112 Cost. con una formula così rigida e perentoria da rappresentare un ottimo alibi per non ottemperarvi, essi (i pubblici ministeri, n.d.s.) hanno … sistematicamente operato delle selezioni che, proprio perché non dichiarate e ufficiose, hanno dato luogo a iniziative del tutto soggettive, arbitrarie, casuali e soprattutto incontrollate e incontrollabili»: così ancora R.E. Kostoris, Criteri di selezione e moduli deflattivi nelle prospettive di riforma, in AA.VV., Il giudice unico nel processo penale, Milano, Giuffrè, 2001, p. 44 s.

3 Su tali aspetti si rinvia a M.L. Di Bitonto, L’avocazione facoltativa, Torino, Giappichelli, 2006, p. 22 ss.

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cante disciplinato nell’art. 412, comma 2, c.p.p. trova il suo unico fondamento legittimante nel mero da-to fattuale della fissazione dell’udienza destinata a sindacare la legittimità dell’inazione. Sulla scia di risalenti precedenti del giudice di legittimità e della Corte costituzionale 4, la Procura generale presso la Corte di cassazione precisa che l’inerzia cui collegare l’esercizio del potere di avocazione esperibile nel procedimento di archiviazione sia da riferire al mancato esercizio dell’azione penale in quanto tale e non riguarda esclusivamente le ipotesi di totale o parziale inattività del pubblico ministero, risultanti da eventuali lacune investigative. Una simile accezione dell’inerzia è giustificata sul piano sistematico qualificando l’avocazione come un istituto di controllo sull’inazione distinto da quello giurisdizionale e concorrente con esso, nel quadro generale di un assetto processuale che intende presidiare l’obbliga-torietà dell’azione penale attraverso una molteplicità di controlli.

Quest’ultimo passaggio è da considerare il punto chiave del provvedimento in esame: si afferma a chiare lettere che l’obbligatorietà dell’azione penale evoca ed implica la necessità di un variegato insie-me di controlli volti a saggiarne l’effettività e che, in tale ambito, un ruolo preminente deve essere gio-cato proprio dalla Procura generale presso la Corte di appello, grazie alla sua prerogativa di esercitare l’avocazione in caso di presentazione della richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero di primo grado.

La sostituzione del pubblico ministero avocante a quello originariamente procedente è considerato come un’occasione di verifica importante di per sé, proprio perché l’obbligatorietà dell’azione penale giustifica una pluralità di controlli esercitati sia in sede giurisdizionale, da un organo privo di poteri in-vestigativi; sia da un diverso ufficio del pubblico ministero, che invece può svolgere attività d’indagine. A conferma della natura di mero controllo propria dell’avocazione, si evidenzia che il coinvolgimento del procuratore generale presso la Corte d’appello non è necessariamente destinato a ribaltare le de-terminazioni inizialmente assunte dall’altro pubblico ministero. In effetti, l’avocazione non produce ipso facto la caducazione della richiesta di archiviazione inizialmente presentata 5, in quanto il procuratore generale potrebbe soltanto mirare a seguire personalmente gli sviluppi del contraddittorio camerale nell’udienza fissata dal giudice per le indagini preliminari 6. L’intervento del pubblico ministero di secon-do grado, dunque, comporta soltanto la sostituzione automatica dell’avocante nei compiti dell’avvocato 7, ma non preclude al primo di insistere nella richiesta di archiviazione già formulata 8. E il riconoscimento in capo all’organo avocante del potere di formulare nuovamente la richiesta di archiviazione appare la più evidente riprova del fatto che funzione primaria dell’avocazione delle indagini disciplinata nell’art. 412, comma 2, c.p.p. è quella di consentire un vaglio più approfondito sui diversi aspetti della vicenda in relazione alla quale il pubblico ministero inizialmente procedente aveva optato per l’inazione.

4 Cass., sez. III, 15 giugno 1990, Pretura, in CED Cass., n. 185218; Cass., sez. V, 11 gennaio 1991, Agnolucci, in Cass. pen., 1991, p. 251 ss; C. cost., ord. 6 giugno 1991 n. 253, in Giur. cost., 1991, p. 2069 ss.

5 V. in argomento M.L. Di Bitonto, L’avocazione facoltativa, cit., p. 69 s. 6 Nel senso che la richiesta di archiviazione possa rimaner ferma pure dopo avvenuta l’avocazione V. Grevi, Archiviazione per

«inidoneità probatoria» ed obbligatorietà dell’azione penale, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalla codificazione all’attuazione, Milano, Giuffrè, 1991, p. 83; F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Milano, Giuffrè, 2012, p. 431. Analogamente G. Giostra, L’archiviazione. Lineamenti sistematici e questioni interpretative, Torino, Giappichelli, 1994, p. 67 s., nota 38, secondo il quale l’avocazione facolta-tiva del procuratore generale non determina, di per sé, la caducazione dell’originaria richiesta del procuratore della Repubblica, a meno che non si sia espresso in tal senso l’inequivocabile contegno processuale del pubblico ministero di appello.

7 L. Carli, Le indagini preliminari nel sistema processuale penale. Soluzioni e proposte interpretative nei dibattiti della dottrina e della giurisprudenza, Milano, Giuffrè, 1999, p. 602; S. Sau, Avocazione, in Enc. Giur. Treccani, vol. IV, Roma, 2001, p. 6; A. Marandola, Osservazioni a Cass. pen., sez. VI, 3 febbraio 2000, Chiappa e Maxia, in Studium juris, 2001, p. 91; B. Nacar, Indagini preliminari (avocazione delle), in Dig. pen., Agg. II, Torino, Utet, 2004, p. 398. V. anche C. cost., ord. 15 aprile 1992, n. 182, in Giur. cost., 1992, p. 1327 s. Nella giurisprudenza di legittimità v. Cass., sez. V, 11 gennaio 1991, Agnolucci, cit., p. 251; Cass., sez. V, 8 gennaio 1992, Savant, in Cass. pen., 1992, p. 1556; Cass., sez. I, 28 febbraio 1992, Negato, ivi, 1993, p. 2065; Cass., sez. VI, 9 marzo 2000, Tibello, ivi, 2001, p. 2400.

Occorre segnalare, tuttavia, la risalente e discutibile prassi – avallata dalla deliberazione 16 luglio 1997, prot. P-97-13519 del Consiglio Superiore della Magistratura – in forza della quale il procuratore generale avocante può delegare quale proprio sosti-tuto nella conduzione delle indagini avocate un magistrato della procura della Repubblica inizialmente titolare del procedi-mento: in termini critici v. P. Miceli, Avocazione delle indagini preliminari da parte del procuratore generale presso la Corte d’appello, in Giur. Merito, 1999, p. 939 s.

8 C. Morselli, Archiviazione, in Dig. pen., XI, Torino, Utet, 1996, p. 389; L. Padula, L’avocazione delle indagini preliminari per mancato esercizio dell’azione penale, in Dir. pen. proc., 1997, p. 986; A. Cassiani, Sul potere di avocazione ai sensi del combinato disposto degli artt. 409 comma 3 e 412 comma 2 c.p.p., in Cass. pen., 2004, p. 2079.

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LE POSIZIONI DELLA DOTTRINA

Le differenti prospettazioni della Procura della Repubblica e degli uffici della Procura generale presso la Corte di appello e presso la Suprema corte sono mutuate dalle diverse posizioni elaborate dalla dot-trina in materia di avocazione. Parte di essa, infatti, ha generalmente collegato la prerogativa di cui al-l’art. 412, comma 2, c.p.p. all’emersione di incompletezze investigative riferibili alla conduzione delle indagini da parte dell’organo inizialmente procedente 9. Alla stregua di tale posizione, la comunicazio-ne dell’avvenuta fissazione dell’udienza camerale ex art. 409 c.p.p. non sarebbe sufficiente a far emerge-re una condotta inerte del rappresentante dell’accusa 10. Occorrerebbe, invece, una diagnosi su eventuali lacune operative nello svolgimento delle indagini, accompagnata da una prognosi sui possibili sviluppi procedurali successivi al contenzioso camerale sull’inazione 11; o almeno una valutazione circa la non infondatezza della notitia criminis derivante da un diverso inquadramento giuridico del fatto o desumi-bile sulla scorta degli atti già acquisiti 12.

Discostandosi da queste ricostruzioni, altra dottrina ha posto in rilievo come sul piano squisitamente testuale, l’unico presupposto codificato del potere di avocazione disciplinato nell’art. 412, comma 2, c.p.p. è il contesto procedimentale in cui è previsto l’eventuale coinvolgimento del procuratore genera-le 13. In effetti, tale previsione stabilisce che il pubblico ministero di secondo grado «può disporre l’avo-cazione a seguito della comunicazione prevista dall’articolo 409 comma 3» e, così facendo, descrive una fatti-specie normativa incompleta, in cui l’opzione circa l’an dell’esercizio della prerogativa del procuratore generale è rimessa esclusivamente alle valutazioni di tale organo, senza che risultino normativamente formulati i criteri cui quest’ultimo debba conformare la propria scelta. Di conseguenza – si osserva 14 – il procuratore generale presso la Corte d’appello integra con le proprie determinazioni il lacunoso quadro legale delle condizioni di esercizio del suo potere, ma ciò equivale a dire che questi dispone dei più ampi margini di scelta in ordine al proprio intervento, proprio perché la legge non stabilisce i criteri alla cui stregua decidere se avocare oppure no. Secondo questa diversa ricostruzione, il procuratore genera-le potrebbe decidere di avocare le indagini sulla base di un giudizio di non infondatezza della notitia criminis desumibile sulla scorta degli atti già acquisiti e non solo in caso di diversa opinione sull’inqua-dramento giuridico del fatto; o ancora quando, senza rilevare deficit investigativi riconducibili al pub-blico ministero procedente, sia comunque possibile sviluppare un differente e più proficuo vaglio inve-stigativo; perfino sulla base di valutazioni di mera opportunità, motivate dall’elevato allarme sociale suscitato dal fatto di reato oggetto del procedimento, ovvero in ragione del particolare clamore da esso provocato 15.

9 In questo senso v. Relazione ministeriale al progetto preliminare del codice di procedura penale, in G.U., Suppl. ord. n. 2, Serie generale, 24 ottobre 1988, n. 250, p. 188; V. Grevi, Archiviazione per «inidoneità probatoria», cit., p. 82; G. Giostra, L’archiviazione, cit., p. 67, nota 36; F. Caprioli, L’archiviazione, Napoli, Jovene, 1994, p. 579, nota 129; A.A. Sammarco, La richiesta di archiviazione, Milano, Giuffrè, 1993, p. 278; R. Garofoli, Avocazione delle indagini: profili costituzionali e aspetti problematici, in Giur. cost., 1996, p. 1351; L. Padula, L’avocazione delle indagini preliminari, cit., p. 984; P. Miceli, Avocazione delle indagini, cit., p. 935; A. Palumbo, Sui poteri del procuratore generale in caso di avocazione delle indagini, in Giur. it., 2001, p. 1474.

10 B. Nacar, Indagini preliminari, cit., p. 388. 11 S. Sau, Avocazione, cit., p. 5; G. Dean, in G. Dean-V. Seghetti, Avocazione delle indagini preliminari, in Dig. pen., VI, Torino,

Utet, 1992, p. 479; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo sull’esercizio dell’azione penale, Padova, Cedam, 1994, p. 210 s. 12 S. Sau, loc. ult. cit.; G. Conti-A. Macchia, Il nuovo processo penale, Roma, Buffetti editore, 1989, p. 99. Secondo A.A. Sam-

marco, La richiesta di archiviazione, cit., p. 278 s., l’intervento ex art. 412, comma 2, c.p.p. non potrebbe fondarsi sulla «semplice convinzione di inopportunità della richiesta di archiviazione», né tantomeno sulla base della mera rivalutazione degli elementi già acquisiti. V. anche P. Miceli, Avocazione delle indagini, cit., p. 935.

13 R.E. Kostoris, Art. 410-413, in A. Giarda (a cura di), Codice di procedura penale. Commentario, Milano, Ipsoa, p. 5, secondo il quale l’avocazione di cui all’art. 412, comma 2, c.p.p. non presupporrebbe una situazione di “inerzia investigativa”. Nel senso che «nella fattispecie prevista dal 2° comma dell’art. 412 il potere di avocazione delle indagini preliminari può essere esercitato, a seguito della comunicazione prevista dall’art. 409 comma 3°, in tutti i casi in cui il giudice non accolga de plano la richiesta di archiviazione e fissi, conseguentemente, l’udienza camerale» v. L. Giuliani, Indagini preliminari e udienza preliminare, in G. Conso-V. Grevi-M. Bargis (a cura di), Compendio di procedura penale, VIII ed., Padova, Cedam, 2016, p. 564. Diffusamente, in argomento, si rinvia a M.L. Di Bitonto, L’avocazione facoltativa, cit., p. 67 ss.

14 M.L. Di Bitonto, L’avocazione facoltativa, cit., p. 45. 15 M.L. Di Bitonto, op. ult cit., p. 59.

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AVOCAZIONE E OBBLIGATORIETÀ DELL’AZIONE PENALE

Il tenore del provvedimento della Procura generale presso la Corte di cassazione aderisce alla seconda delle due posizioni emerse in dottrina, sul presupposto che il conseguente ampliamento dell’ambito di applicazione dell’avocazione sia maggiormente congeniale al principio di obbligatorietà dell’azione pe-nale. L’idea di fondo è che l’obbligatorietà dell’azione penale sancita in Costituzione evochi e imponga la necessità di controlli sul mancato esercizio dell’azione e che, a fronte di un dubbio esegetico relativo all’alternativa azione-inazione, debba essere preferita la soluzione interpretativa che renda il sindacato sull’inazione più esteso ed efficace.

Questo assunto, più di ogni altro, pare essere l’aspetto da porre in risalto e su cui riflettere. Non di rado, infatti, nel nostro sistema si è fatto leva sull’obbligatorietà dell’azione per teorizzare e

giustificare ampliamenti delle prerogative del pubblico ministero 16. Del resto, non paiono estranei a questa logica nemmeno gli argomenti posti a base del reclamo presentato dalla Procura della Repubbli-ca milanese. Che spetti solo al pubblico ministero procedente stabilire se agire oppure no e che questo potere sia tendenzialmente insindacabile, fatti salvi gli esigui spazi del controllo giurisdizionale, sem-bra implicare una funzione di accusa espressione di una concezione dell’obbligatorietà dell’azione qua-le fonte di prerogative prima che di limiti all’esercizio del potere.

Al contrario, il supremo organo requirente offre indicazioni di tutt’altro segno circa contenuti e valo-re dell’art. 112 Cost.: tale regola implica controlli e le norme del codice di procedura penale vanno in-terpretate in maniera tale da massimizzare l’incisività dei controlli previsti.

Invero, la necessità di sottoporre ad efficaci sindacati la decisione sulla mancata instaurazione del processo, per renderla il più possibile oggettiva e trasparente 17, costituisce un aspetto qualificante dei sistemi processuali che conformano l’agire della parte pubblica al principio di legalità 18. È affermazione indiscussa e risalente che l’art. 112 Cost. non delinei alcun automatismo tra ricezione della notitia crimi-nis ed esercizio dell’azione, puntando a circoscrivere l’area dell’archiviazione ai casi in cui l’instaura-zione del processo si palesi come oggettivamente superflua 19. L’unica cosa vietata dall’art. 112 Cost. è che il processo possa essere evitato sulla base di ragioni di mera opportunità 20, così com’è consentito nei sistemi in cui l’azione penale è discrezionale e gli uffici del pubblico ministero sono responsabili sul piano politico delle scelte di opportunità adottate. Non di rado, però, «il confine tra la “superfluità” del processo e l’“inopportunità” del medesimo è quantomeno labile» posto che la valutazione sulla superfluità è sempre influenzabile da propensioni personali e da pressioni esterne 21. Per questo, nella prospettiva di salvaguardare e attuare l’art. 112 Cost., assume rilievo decisivo il tema dei controlli sull’inazione.

16 M. Nobili, Un «quarto potere»?, in M. Tirelli (a cura di), Recenti orientamenti in tema di pubblico ministero ed esercizio dell’azione penale, Milano, Giuffrè, 1998, p. 37.

17 M. Chiavario, Azione penale e archiviazione: quali controlli, in M. Chiavario (a cura di) L’azione penale tra diritto e politica, Padova, Cedam, 1995, p. 76 s.

18 Più in generale, nel senso che l’inevitabile presenza della discrezionalità tecnica nell’esercizio della funzione di accusa renda necessaria la previsione di adeguati meccanismi di controllo v. L.M. Diez-Picazo, Il problema della discrezionalità nell’eserci-zio dell’azione penale, in Riv. trim. dir. pubbl., 1995, p. 939.

19 La superfluità del processo è il limite implicito del principio di obbligatorietà dell’azione penale, costituendo una sorta di valvola di sicurezza del sistema, cui fare ricorso in tutti i casi in cui l’esercizio dell’azione penale ed il conseguente passaggio alla fase processuale si palesi come epilogo del tutto inutile. In questo senso v. M. Chiavario, La fisionomia del titolare dell’azione penale, tema essenziale di dibattito per la cultura del processo, in AA.VV., Pubblico ministero e riforma dell’ordinamento giudiziario, Milano, Giuffrè, 2006, p. 16; V. Grevi, Archiviazione per «inidoneità probatoria», cit., p. 75; G. Lozzi, L’udienza preliminare nel sistema del nuovo processo penale, in AA.VV., L’udienza preliminare, Milano, Giuffrè, 1992, p. 29; G. Giostra, L’archiviazione, cit., p. 4; F. Caprioli, L’archiviazione, cit., p. 354; A.A. Sammarco, La richiesta di archiviazione, cit., p. 130; A. Macchia, La richiesta di archiviazione: presupposti, eventuale procedimento in contraddittorio e provvedimenti giudiziali di rigetto, in Cass. pen., 1998, p. 2744. Analogamente, con riferimento al codice abrogato, G. Conso, Il provvedimento di archiviazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 1950, p. 323; F. Cordero, Archiviazione, in Enc. dir., II, Milano, Giuffrè, 1958, p. 1025; Id., Procedura penale, IX ed., Milano, Giuffrè, 1987, p. 63; M. Chiavario, Riflessioni sul principio di obbligatorietà dell’azione penale, in AA.VV., Aspetti e tendenze del diritto costituzionale. Scritti in onore di Costantino Mortati, vol. IV, Le garanzie giurisdizionali e non giurisdizionali del diritto obiettivo, Milano, Giuffrè, 1977, p. 107.

20 M. Chiavario, La fisionomia del titolare dell’azione, loc. cit. 21 M. Chiavario, Riflessioni sul principio di obbligatorietà, cit., p. 109. Peraltro, già sotto la vigenza del codice di procedura pe-

nale del 1930 si era denunciato il cospicuo “filtraggio” delle notitiae criminis ad opera del pubblico ministero, evidenziando l’in-fluenza inevitabilmente esercitata su tali opzioni da parte della pubblica opinione: in questo senso v. M. Chiavario, Il pubblico ministero organo di giustizia?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, p. 729. V. anche M. Nobili, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzio-nale, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, Bologna, Zanichelli, 1979, p. 121.

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Anche se la norma costituzionale nasce per rispondere alla preoccupazione dei costituenti di rendere il pubblico ministero indipendente da ogni altro potere dello Stato, sul piano strettamente esegetico l’art. 112 Cost. colloca l’organo dell’accusa in una posizione di totale e necessaria soggezione alla legge, in simmetrico pendant con quanto sancito per il giudice nell’art. 101, comma 2, Cost. 22. Di conseguenza, la supremazia della legge di cui è espressione la necessaria legalità del procedere del pubblico ministe-ro, prima che garantire il pubblico ministero nei confronti dell’esecutivo, traduce in chiave normativa, al livello più alto del sistema delle fonti, due insopprimibili istanze dell’ordinamento democratico: da un lato, l’esigenza di ricondurre entro i limitati confini stabiliti dalla legge ogni potere, anche quello di persecuzione penale del pubblico ministero; dall’altro, la necessità che siano banditi arbitri ed inegua-glianze nell’attivazione della giustizia penale 23.

Su tali basi non può che essere apprezzato il metodo esegetico seguito dalla Procura generale presso la Corte di cassazione: privilegiare l’interpretazione che assicuri ambiti più ampi al controllo sull’ina-zione rappresenta la via maestra dell’interprete, l’unico criterio alla cui stregua vagliare la plausibilità delle diverse opzioni.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE

Quanto fin qui esposto evidenzia la fisionomia “costituzionalmente orientata” dell’avocazione che, in esito ad una plurisecolare metamorfosi, da espressione del costume politico-giudiziario dell’ancien régi-me è divenuta, nella prima codificazione repubblicana, presidio della legalità del procedere del pubbli-co ministero sancita dalla Carta fondamentale 24.

Nel nuovo codice di procedura penale il potere di avocazione del procuratore generale presso la Corte d’appello ha perso l’originaria natura di strumento di sottrazione degli affari più delicati da parte dell’organo superiore ed è configurato come un intervento in funzione vicaria, non solo per rimediare ad eventuali deficienze o inefficienze, ma più in generale per vagliare la correttezza delle determina-zioni e delle attività della parte pubblica. Abbandonata la matrice autoritaria e gerarchica dell’avoca-zione, è significativamente aumentato il numero dei casi codificati in cui tale potere risulta esperibile: si delinea così una sorta di “concorso di competenze” tra pubblici ministeri di primo e secondo grado, le cui prerogative sono esercitate in prima battuta dalla Procura della Repubblica, cui si sostituisce il pro-curatore generale in presenza dei presupposti indicati tassativamente dalla legge, al fine di contrastare l’inerzia del primo ufficio mediante il coinvolgimento di quello istituito presso la Corte d’appello, tra i cui compiti istituzionali rientra il controllo sull’efficienza investigativa dei magistrati requirenti di pri-mo grado, in funzione del corretto e uniforme esercizio dell’azione penale.

In tale quadro generale, l’avocazione facoltativa nel procedimento di archiviazione assume peculia-rità del tutto originali. L’art. 412, comma 2, c.p.p. sottopone al vaglio del pubblico ministero di secondo grado – anche su sollecitazione della persona offesa 25 – le ragioni sottese alla richiesta di archiviazione, sul presupposto che il suo mancato accoglimento de plano possa esser sintomatico di un contesto proce-dimentale in cui l’originaria determinazione a favore dell’inazione presenti profili di opinabilità tali da far sospettare l’annidarsi di inerzie non consentite. Si configura così un sistema di sorveglianza a presi-

22 Si tratta di un’asserzione pacifica e radicata da lungo tempo: per tutti si rinvia a V. Zagrebelsky, L’obbligatorietà dell’azione penale: riflessi sulle garanzie, sull’organizzazione degli uffici, sui poteri del pubblico ministero, in AA.VV., La riforma del pubblico mini-stero, Milano, Giuffrè, 1974, p. 191; M. Nobili, Accusa e burocrazia, cit., p. 120, nota 102; G. Ubertis, Azione (azione penale), in Enc. giur. Treccani, vol. IV, Roma, 1988, p. 4.

23 M. Chiavario, Obbligatorietà dell’azione penale: il principio e la realtà, in AA.VV., Il pubblico ministero oggi, Milano, Giuffrè, 1994, p. 70.

24 Sulle origini storiche e le successive evoluzioni dell’avocazione v. G. Bellantoni, Note e spunti su un recente caso di avocazione, in Dir. pen. proc., 2008, p. 1012 s.; nonché, volendo, M.L. Di Bitonto, L’avocazione facoltativa, cit., p. 7 ss.

25 Nel senso che, a fronte di un’opposizione ammissibile dell’offeso, il procuratore generale può determinarsi nel senso del-l’avocazione proprio allo scopo di compiere le «investigazioni suppletive» dallo stesso suggerite V. Grevi, Archiviazione «inidoneità probatoria», cit., p. 82. Conformemente F. Cintioli, Linee sistematiche dell’istituto dell’avocazione, in Giust. pen., 1994, III, p. 59; R. Garofoli, Avocazione delle indagini, cit., p. 1348; S. Sau, Avocazione, cit., p. 5; G. Dean, in G. Dean-V. Seghetti, Avocazione delle indagini preliminari, cit., p. 479; V. Seghetti, ibidem, p. 482; P. Miceli, Avocazione delle indagini preliminari, cit., p. 935; C. Valentini Reuter, Le forme di controllo, cit., p. 198; F. Cordero, Procedura penale, cit., p. 401; L. Padula, L’avocazione delle indagini, cit., p. 985; A. Palumbo, Sui poteri del procuratore generale, cit., p. 1474.

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dio dell’obbligatorietà dell’azione penale che affida la responsabilità di vigilare sulle possibili inadem-pienze non solo al giudice, ma anche al pubblico ministero di secondo grado 26 ed ai privati legittimati ad opporsi alla richiesta di archiviazione.

In effetti, a fronte di una richiesta di archiviazione, il controllo del procuratore generale si caratteriz-za per un’intensità ed un’estensione diversa rispetto a quello esperibile dal giudice. Il giudice per le in-dagini preliminari è organo privo di poteri d’inchiesta analoghi a quelli di cui disponeva il giudice istruttore nel codice di procedura penale del 1930; di conseguenza, prevedere che l’unico organo legit-timato ad effettuare il controllo sull’inazione fosse il giudice, avrebbe delineato un controllo di esten-sione ed intensità limitate.

Per sua natura, il controllo giurisdizionale è un controllo “minimo”: il giudice potrebbe difettare del-la sensibilità investigativa necessaria ad individuare eventuali défaillances nel procedere del pubblico ministero 27, poiché il suo vaglio è stato configurato dal legislatore in maniera tale da evitare il riprodur-si di una figura giudiziale dai tratti inquisitori come quella del giudice istruttore.

Nel nuovo codice il giudice ripercorre «ex actis l’itinerario già percorso dal pubblico ministero al fine delle proprie determinazioni» 28, senza mai interferire sul concreto svolgimento della funzione di accusa 29. L’organo avocante, invece, assicura un approccio più aderente agli sviluppi operativi delle proprie scel-te, valorizzando ogni spunto investigativo in chiave persecutoria, alla stregua della differente mentalità che contraddistingue il pubblico ministero rispetto al giudice; con il risultato di spingere l’organo di primo grado a conformare la propria attività secondo standard di efficienza superiori a quelli necessari a superare il vaglio giurisdizionale, tanto più alla luce della possibile valenza disciplinare dell’avo-cazione.

In conclusione, il legislatore ha escluso l’esistenza di un “monopolio giurisdizionale” in materia di controllo sull’inazione, ma ha preferito moltiplicare i soggetti preposti a tale sorveglianza, suddividen-do tra giudice, pubblico ministero e privati la responsabilità di presidiare efficacemente l’attuazione del precetto sancito nell’art. 112 Cost. Ed è apprezzabile registrare che la Procura generale presso la Corte di cassazione abbia inteso manifestare il massimo ossequio nei confronti di questo disegno legislativo.

26 Nel senso che il coinvolgimento del procuratore generale nelle dinamiche relative all’inazione costituisca «un ulteriore ba-luardo rispetto ad elusioni dell’obbligo di procedere» v. L. Giuliani, Indagini preliminari, cit., p. 563.

27 Secondo F. Caprioli, L’archiviazione, cit., p. 569, tale caratteristica costituisce l’«autentico punto debole» della nuova proce-dura di archiviazione.

28 V. Grevi, Archiviazione «inidoneità probatoria», cit., p. 80. 29 V. Perchinunno, Il giudice per le indagini preliminari e le scelte relative all’azione penale, in AA.VV., Il giudice per le indagini

preliminari dopo cinque anni di sperimentazione, Milano, Giuffrè, 1996, p. 77.

ANALISI E PROSPETTIVE | OBBLIGO DI MOTIVAZIONE E “RAGIONEVOLE DUBBIO”

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017

Analisi e prospettive

Analysis and Prospects

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 522

ANALISI E PROSPETTIVE | OBBLIGO DI MOTIVAZIONE E “RAGIONEVOLE DUBBIO”

PIERPAOLO DELL’ANNO

Professore ordinario di Procedura penale – Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale

Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio” Obligation to state reasons and reasonable doubt Con il passare del tempo, l’intramontabile tema dell’obbligo di motivazione del provvedimento decisorio e del rela-tivo controllo affidato al giudice di legittimità si arricchisce di contenuti. L’analisi dell’Autore transita inevitabilmente attraverso il sentiero tracciato nel 2006 dalla legge Pecorella, quello del “ragionevole dubbio”, il quale costituisce irrinunciabile punto di riferimento e di orientamento in materia ed ap-proda alla introduzione di una inedita ipotesi di rinnovazione voluta dai giudici “strasburghesi”, e sostanzialmente accolta dalla nostra giurisprudenza di legittimità, in caso di affermazione di responsabilità dell’imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del pubblico ministero, in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive. The Authorbeginsfrom the introduction of the “beyond any reasonable doubt” principle in 2006 until the renewal of the trial evidentiary hearing stated by the European Court of Human Rights in the circumstance where the judge of the appeal holds that the evidence provided for the accused acquittal can prove the defandant guilty. IL RUOLO CHIAVE DELLA MOTIVAZIONE NEL NOSTRO SISTEMA PROCESSUALE

Il complesso tema della motivazione 1 dei provvedimenti giurisdizionali costituisce una sorta di “muro maestro” attorno al quale orbita l’intera materia della prova e, non è un caso, che la più importante del-le fonti giuridiche del nostro ordinamento riservi a tale istituto due disposizioni funzionalmente inter-dipendenti tra loro, significativamente collocate nei commi 6 e 7 dell’art. 111 Cost. 2.

Mentre nella prima si afferma che «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati», nella seconda è previsto che «contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, pro-nunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, è sempre ammesso ricorso per cassazione per violazione di legge» 3.

Dalla lettura della prima delle citate disposizioni si evince, senza alcuna pretesa di esaustività e ai fini del presente lavoro, come ogni provvedimento del giudice debba essere supportato da un doveroso apparato argomentativo, ovverosia da una estrinsecazione degli argomenti sottesi alla decisione o, più

1 La letteratura sull’argomento è vastissima e quindi si rinvia, ex multis, ad E. Amodio, «Motivazione della sentenza penale», in Enc. dir., XXVII, Milano, Giuffrè, 1977, p. 181; M. Bargi, Il ricorso per cassazione, in A. Gaito (a cura di), Le impugnazioni penali, Torino, Utet, 1998; M. Bove, Il sindacato della Corte di cassazione: contenuto e limiti, Milano, Giuffrè, 1993; A. Capone, «La Corte di cassazione non giudica nel merito». Nuovi sviluppi di un antico adagio, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, p. 1616; G. Della Monica, Con-tributo allo studio della motivazione, Padova, Cedam, 2002; L. Ferrajoli, Diritto e ragione, Bari, Laterza, 2000; R.E. Kostoris, «Giudizio (dir. proc. pen.)», in Enc. giur., Agg., XV, Roma, 1989, 1997, p. 3; F.M. Iacoviello, «Motivazione della sentenza penale», in Enc. dir., Agg., IV, Milano, Giuffrè, 2000, p. 760; M. Menna, La motivazione del giudizio penale, Napoli, Jovene, 2000, p. 16; Id., «Motivazione della sentenza penale», in Enc. giur., XX, Roma, 1990; A. Nappi, Il sindacato di legittimità nei giudizi civili e penali di Cassazione, To-rino, Utet, 2006; S. Satta, «Corte di cassazione (dir. proc. civ.)», in Enc. dir., X, Milano, 1962; M. Taruffo, «Motivazione (dir. proc. civ.)», in Enc. giur., XX, Roma, 1990.

2 Per una visione d’insieme sulle varie forme di patologia che possono investire la motivazione, sia consentito un rinvio a P. Dell’Anno, Vizi di motivazione e controllo della cassazione penale, Padova, Cedam, 2015, p. 1 ss.

3 Appare abbastanza chiaro che, oltre a costituire un indiscusso principio di civiltà giuridica del nostro ordinamento, la necessità normativa, costituzionalmente imposta, di motivare le decisioni giurisdizionali implica indubbiamente la necessità di un successivo controllo processuale della motivazione, non avendo senso – altrimenti – obbligare il giudice a motivare se non fosse anche previsto un controllo sulla argomentazione giustificativa dal medesimo posta a fondamento della sua decisione.

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semplicemente, da una esposizione delle ragioni di un convincimento 4. Ciò implica, in altri termini, la previsione quale dovere giurisdizionale, costituzionalmente imposto, di un vero e proprio intento di giustificazione.

Peraltro, accanto a tale obbligo, si scorge anche e soprattutto, una disciplina della motivazione fun-zionale allo svolgimento tecnico del processo, che necessita della giustificazione della decisione per ren-dere possibile l’impugnazione, ossia il controllo in seconda istanza, così specificandosi in Costituzione, alla stregua della seconda citata previsione, un duplice significato dell’obbligo: non solo quale principio ideologico ma, anche, presupposto per lo sviluppo di una indubitabile funzione endoprocessuale, ri-chiedendo la Carta fondamentale un controllo sull’esattezza e sulla legittimità di tutte le decisioni del giudice sia all’interno che all’esterno del processo.

Una motivazione che, quindi, ancor più in campo penale, come per buona parte doverosamente con-fermato dalle previsioni del codice di rito, per essere tale deve essere “completa”, nel senso che il di-scorso giustificativo deve coprire l’intera area del deciso e “pubblica”, ovverosia deve essere reso noto a tutti il suo contenuto 5. In tale prospettiva, è innegabile che la motivazione serva anzitutto, tanto al giu-dice per convincere della fondatezza della sua decisione, quanto agli altri soggetti – evidentemente di-versi dall’organo decidente – chiamati a valutare se l’esposizione dei motivi della decisione sia idonea al raggiungimento di tale scopo.

In secondo luogo, ampliandosi notevolmente la effettiva funzione dell’obbligo costituzionale, nel nostro ordinamento la motivazione costituisce anche un indispensabile strumento di “garanzia”, e più precisamente di controllo sul possibile abuso di potere dell’organo giurisdizionale. Non è infatti possi-bile, in ragione della struttura e della fisionomia del nostro impianto processuale, lasciare a colui che decide il potere di assolvere, di condannare o di applicare un provvedimento restrittivo della libertà personale, senza fornire alcuna spiegazione delle ragioni che lo hanno spinto verso quella decisione oppure che si accontenti di una motivazione sommaria o, per così dire, di facciata.

Ne deriva, che la logica della giustificazione non possa non ritenersi profondamente diversa da quel-la della decisione, dal momento che con quest’ultima il giudice effettua una scelta mentre con la moti-vazione fornisce spiegazione delle ragioni della propria scelta. La prima attività, quindi, sembra sfuggi-re alla possibilità di analitico inquadramento giuridico, correlandosi ad aspetti di carattere psicologico non enucleabili secondo i parametri dello studio normativo 6.

Al riguardo, è stato infatti correttamente evidenziato che la «decisione che esprime il contenuto del giudicato deve essere necessariamente fondata su un ragionamento pratico, la cui formulazione non può avvenire unicamente nel sottosuolo emozionale della volontà soggettiva, ma deve formarsi anche a mezzo del confronto con altre opinioni, e deve essere in grado – una volta elaborata – di rispondere a critiche, obiezioni, repliche, giustificando il suo contenuto rispetto al modello di razionalità accettato nell’ambiente sociale in cui la decisione è destinata a trovare esecuzione» 7.

Alla stregua di tali brevi ma necessarie premesse, si comprende che la predisposizione di una moti-vazione esente dai vizi diviene, per l’effetto, condicio sine qua non per l’effettiva, oltre che corretta, som-ministrazione di una “giustizia giusta”. E quanto affermato è ancor più vero in un sistema processuale che, da un lato, conosce solo due giudizi di merito e, dall’altro, concepisce il giudizio di secondo grado quasi esclusivamente come “cartolare”, là dove le ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale sono del tutto eccezionali e, soprattutto, vincolate al verificarsi delle condizioni di cui all’art. 603 c.p.p.

4 L’essenzialità della motivazione emerge con grande limpidità da un recentissimo contributo dottrinario: «Come insegna addirittura la storia del diritto romano, l’appello nasce quando dalla decisione del popolo, inappellabile, e correggibile solo dall’imperatore, si passa al giudizio dei magistrati pubblici. Invero, se non si può impugnare una decisione del “popolo”, una decisione emessa in suo nome, ben può essere riscontrata da altri giudici. Questo dato chiarisce anche la differenza tra verdetti immotivati e sentenze con obbligo di motivazione: fatto salvo il rifacimento del giudizio, il controllo della società, condotto at-traverso la motivazione, viene affidato ai soggetti del processo, titolari degli interessi che in quella sede si confrontano» (te-stualmente G. Spangher, Considerazioni sul processo “criminale” italiano, Torino, Giappichelli, 2015, p. 120).

5 Va segnalato che mentre nessuna difficoltà si riscontra per l’attuazione della pubblicità all’interno del processo, dal momento che la sentenza viene depositata in cancelleria e messa a disposizione delle parti, diverso discorso si profila per l’attuazione della pubblicità all’esterno necessaria per rendere concreto il controllo della collettività.

6 Sul punto, in questo senso, soprattutto, E. Amodio, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir. XXVII, Milano, 1977, p. 214. Analogamente, P. Comanducci, La motivazione in fatto, in G. Ubertis (a cura di), La conoscenza del fatto nel processo penale, Milano, Giuffrè, 1992, p. 220.

7 Così testualmente C. Santoriello, Motivazione (controlli), in Dig. pen., 2008, p. 595 ss.

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IL SUPERAMENTO DEL “RAGIONEVOLE DUBBIO” IMPOSTO DALLA LEGGE PECORELLA E PRIMA ANCORA DALLA L. N. 232/1999

La l. 20 febbraio 2006, n. 46 8 recante “Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappella-bilità delle sentenze di proscioglimento”, nota anche come legge Pecorella, ha rivisitato il primo comma dell’art. 533 c.p.p. circoscrivendo le ipotesi di condanna solo ai casi in cui la colpevolezza dell’imputato risulti provata “al di là di ogni ragionevole dubbio” 9.

Si tratta di una regola probatoria e di giudizio che consente al giudice di pronunciare sentenza di condanna nei confronti dell’imputato solo quando il compendio probatorio legittimamente acquisito sia tale da poter affermare positivamente che l’imputato è colpevole del reato ascrittogli, tenendo presente che il riferimento alla colpevolezza vale ad includere nel giudizio anche gli aspetti concernenti l’im-putabilità, l’assenza di scriminanti e quant’altro. Anche il riferimento al reato contestato ha una portata più ampia, posto che al suo interno vi confluiscono anche le nuove ipotesi di contestazione, fermo re-stando il potere riconosciuto ex art. 521 c.p.p. al giudice di dare al fatto storico una diversa qualificazio-ne giuridica nei limiti sanciti dalla medesima norma.

In chiave generale, l’approccio del giudice alle prove deve operare su due piani cronologicamente e logicamente ordinati: prima il vaglio di ciascuna di esse (credibilità della fonte ed attendibilità dell’ele-mento di prova), poi valutazione, e quindi l’utilizzo combinato dell’intero patrimonio conoscitivo ac-cumulato 10. Il giudice è libero di esprimere il proprio libero convincimento ma è obbligato a motivare razionalmente e tale obbligo lo costringe a rendere conto della razionalità dell’itinerario mentale segui-to per giungere alla decisione, ponendo le premesse per il controllo successivo sulle linee di formazione del suo convincimento 11.

Come affermato dalla cassazione, riunita nella sua più autorevole composizione, l’onere del giudice non può considerarsi adempiuto se il giudice si limita ad una mera considerazione del valore autono-mo dei singoli elementi probatori senza pervenire a quella valutazione unitaria che è principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni dettati dalla norma stessa; il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possono essere ordinati in una ricostruzione logica, armonica e consonante che consenta di attingere la verità processuale 12.

La predetta operazione diviene molto più complessa nel caso in cui il giudice decida di condannare l’imputato ed il medesimo discorso vale per il corrispettivo obbligo “costituzionalmente imposto” di motivare la decisione assunta. La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, infatti, è una regola proba-toria e di giudizio indispensabile per assicurare la protezione degli innocenti ed il rispetto dei principi costituzionali 13.

8 Sull’argomento la letteratura è molto vasta. Si consigliano M.G. Aimonetto, Disfunzioni ed incongruenze in tema di impu-gnazioni della parte civile, in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, a cura di M. Bargis-F. Caprioli, Torino, Giappichelli, 2007, p. 155; M. Bargis, Il «ritocco» all’art. 580 c.p.p. e le sue poliformi ricadute, in Impugnazioni e regole di giudizio nella legge di riforma del 2006, cit., p. 227; F. Caprioli, I nuovi limiti all’appellabilità delle sentenze di proscioglimento tra diritti dell’individuo e «parità delle armi», in Giur. it., 2007, p. 257; C. Fiorio, Profili sovranazionali e costituzionali della facoltà di impugnare, in A. Gaito (a cura di), La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la «legge Pecorella», Torino, Giappichelli, 2006, p. 106; A. Gaito, Gli scrupoli del legislatore per l’effettività dei controlli sulla correttezza del metodo probatorio, in A. Gaito (a cura di) La nuova disciplina delle impugna-zioni dopo la «legge Pecorella», Torino, Giappichelli, 2006, p. 265; G. Garuti-G. Dean, I nuovi ambiti soggettivi della facoltà di impugna-re, in La nuova disciplina delle impugnazioni dopo la «legge Pecorella», a cura di A. Gaito, Torino, Giappichelli, 2006, p. 131; A. Giar-da, Rimodellato il sistema della impugnazioni penali tra presunzione di innocenza e durata ragionevole del processo, in A. Scalfati (a cura di) Novità su impugnazioni penali e regole di giudizio, Milano, Giuffrè, 2006, p. 13; G. Ranaldi, Voce, Impugnazioni (in generale), in Dig. pen., 2008.

9 Per un approfondimento sul quadro precedente e successivo alla citata novella si vedano G. Canzio, L’oltre il ragionevole dubbio come regola probatoria e di giudizio nel processo penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2004, p. 307 ss. e A. Paliero, Il “ragionevole dubbio” diventa criterio, Guida dir., 2006, 10, p. 73 ss.

10 In tale senso e per eventuali approfondimenti anche sulle regole previste dall’art. 192 c.p.p., si veda D. Nigro, Sub art. 192, in A. Giarda-G. Spangher (a cura di), Commento al c.p.p., I, Milano, Giuffrè, 2010, p. 1853 ss.

11 Così, V. Grevi, Le prove, in G. Conso – V. Grevi (a cura di), Compendio di procedura penale, Padova, Cedam, 2010, p. 317. 12 Cfr. Cass., sez. un., 12 luglio 2005, X., in Cass. pen., 2005, p. 3732. 13 In tal modo, F. Stella, Giustizia e modernità, Milano, Giuffrè, 2003, p. 111 ss.

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Secondo parte della dottrina, il ragionevole dubbio rappresenta, in questa ottica, un vero e proprio argine epistemico al principio del libero convincimento del giudice: uno sbarramento ermeneutico per evitare la caduta nel libero arbitrio nel momento decisionale. L’ingresso di tale principio costituirebbe, conseguentemente, una scelta di civiltà dell’ordinamento italiano, una rivoluzione copernicana nella modalità di accertamento del fatto storico all’interno della cornice processuale 14.

L’esatto significato della formula “al di là di ogni ragionevole dubbio” è stato fornito dalla giuri-sprudenza la quale ha precisato che al di là dell’apparente innovazione normativa, è possibile pronun-ciare sentenza di condanna se il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum natura ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali, po-nendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana 15.

È infine opportuno ricordare come questo principio, già prima della l. n. 46/2006, fosse stato norma-tivamente recepito nell’ordinamento processulapenalistico attraverso la l. n. 232/1999 di ratifica ed ese-cuzione dello Statuto istitutivo della Corte penale internazionale adottato dalla Conferenza diplomatica delle Nazioni Unite a Roma nel luglio 1998 16.

Del resto, in uno Stato in cui la sovranità appartiene al popolo e la giustizia è amministrata in nome del popolo, il diritto penale non può che attestarsi sul principio che è molto peggio condannare un in-nocente piuttosto che lasciare libero un colpevole 17.

LE “NUOVE REGOLE” PROBATORIE PREVISTE IN CASO DI RIBALTAMENTO DELLA SENTENZA DI ASSOLUZIONE

La regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio e l’obbligo di motivazione con il relativo vaglio affidato al-la corte di cassazione, devono essere necessariamente analizzati anche e, preliminarmente, in relazione alle numerose pronunce della Corte di Strasburgo – peraltro integralmente recepite nei loro principi dalla nostra giurisprudenza di legittimità – che dettano le condizioni per ribaltare le sentenze di assolu-zione in un grado di giudizio, quello di appello, avente natura cartolare.

Tra queste pronunce, va sicuramente ricordata, quale emblematica di un “nuovo corso” espressione di effettiva attuazione delle regole probatorie fondanti in tema di “giusto processo” la Dan c. Molda-via 18, alla quale va riconosciuto il merito di aver affermato il principio secondo cui qualora un giudice d’appello sia chiamato ad esaminare un caso in relazione ai fatti di causa e alla legge, e a fare una valu-tazione completa della questione relativa alla colpevolezza o all’innocenza del ricorrente, non può, proprio alla stregua del necessario rispetto delle regole sul giusto processo, adeguatamente decidere senza una valutazione diretta delle prove; ciò perché coloro che hanno la responsabilità di decidere la colpevolezza o l’innocenza di un imputato devono, in linea di principio, poter udire i testimoni perso-nalmente e valutare la loro attendibilità. Conseguentemente, la possibilità per l’imputato di confrontar-si con un testimone, in presenza del giudice chiamato a decidere in ultima istanza sul merito dell’accusa, è ineludibile garanzia di un processo equo 19.

14 Cfr. A. Paliero, Il ragionevole dubbio diventa criterio, in Guida dir., 2006, 10, p. 73. 15 In tal senso, Cass., 11 maggio 2010, n. 17921, in www.iusexplorer.it. 16 Nell’art. 66 di tale Statuto, infatti, è stabilito che chiunque è presunto innocente fino a quando la sua colpevolezza non

viene dimostrata dinnanzi alla corte; che al procuratore spetta l’onere di provare la colpevolezza dell’imputato e, infine, che per condannarlo la corte deve accertare la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio.

17 A. Dershowitz, Why terrorism works: Understanding the threat responding to the challenge, Cumberland (USA), Yale University Press, 2002, Trad. it., Terrorismo, 2003, Roma, p. 25. In realtà, occorre segnalare che anche la giurisprudenza aveva – prima della novella del 2006 – elaborato la regola del ragionevole dubbio. Si pensi emblematicamente alla celebre sentenza Franzese (Cass., sez. un., 10 luglio 2002, n. 30328, in Cass. pen., 2002, p. 3643 ss.) secondo cui il ragionevole dubbio è l’insufficienza, la contrad-dittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale (primaria fenomenologia del dubbio ra-gionevole) in base all’evidenza disponibile, che comporta la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito asso-lutorio del giudizio.

18 Corte e.d.u., sez. III, 5 luglio 2011, Dan c. Moldavia, si consiglia A. Gaito, Verso una crisi evolutiva per giudizio di appello. L’Europa impone la riassunzione delle prove dichiarative quando il p.m. impugna l’assoluzione, in Arch. pen., Rivista web, 2012, n. 2.

19 Alla medesima conclusione anche Corte e.d.u., sez. III, 4 giugno 2013, Hanu c. Romania, ric. 10890/04. Con tale pronuncia è stata significativamente ribadita l’incompatibilità con le garanzie convenzionali dello stravolgimento della sentenza di assolu-zione fondato su una mera rivalutazione delle testimonianze assunte in primo grado, laddove non si sia proceduto alla nuova

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Tale indirizzo strasburghese, coniugato alla regola decisoria del ragionevole dubbio, hanno spinto i nostri giudici a riflettere sull’intensità dell’onere motivazionale che consente di superare tale situazione per così dire intrinseca alla stessa situazione di contrasto fra opposte decisioni in due diversi gradi di merito. In questa prospettiva, conseguentemente, la nostra cassazione 20, allineandosi al dictum europeo, ha affermato che è illegittima la sentenza che, emessa in sede di appello, rovesci il giudizio di assolu-zione emesso in prime cure, senza che i testimoni escussi in primo grado siano stati chiamati a spiegare le imprecisioni e i contrasti di cui vengono rimproverati in secondo grado e senza che siano stati richie-sti di chiarire i punti che la Corte di appello ha ritenuto controversi, là dove, così facendo, infatti, il giu-dice di appello finisce per limitare inammissibilmente il diritto di difesa dell’imputato.

Sempre nella medesima ottica, ulteriori interessanti argomenti di riflessione sono recentemente giunti dalle Sezioni Unite 21, le quali hanno stabilito che l’affermazione di responsabilità dell’imputato pronunciata dal giudice di appello su impugnazione del pubblico ministero, in riforma di una sentenza assolutoria fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, delle quali non sia stata di-sposta la rinnovazione ai sensi dell’art. 603, comma 3, c.p.p. integra di per sé un vizio di motivazione della sentenza di appello, ex art. 606, comma 1, lett. e), per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio” di cui all’art. 533, comma 1, c.p.p.

In altri termini, in questo caso, al di fuori delle ipotesi di inammissibilità del ricorso, qualora il ricor-rente abbia impugnato la sentenza di appello censurando la mancanza, la contraddittorietà e la manife-sta illogicità della motivazione con riguardo alla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, pur senza fare specifico riferimento al principio contenuto nell’art. 6, par. 3, lett. d), della C.e.d.u., la cassazione deve annullare con rinvio la sentenza impugnata.

Occorre peraltro evidenziare come le sezioni unite, nel confermare quel filone giurisprudenziale azionato dalla sentenza Dan c. Moldavia (consistente appunto nella previsione di un inedito obbligo di rinnovazione), abbiano anche significativamente affermato la rilevabilità d’ufficio della violazione con-venzionale.

In chiave sistemica e come condivisibilmente sostenuto in dottrina, tale principio «risponde all’or-mai sbiadito presupposto del processo accusatorio e del giusto processo, costituito dall’immediatezza che impone al giudice di cogliere, al di là di quello che risulta dai protocolli di causa, quegli aspetti che sono la diretta conseguenza di un processo fondato sull’oralità» 22.

Occorre però sottolineare come la inedita ipotesi di rinnovazione, è però imposta solo in presenza di prove “decisive”, da intendersi queste ultime non solo come quelle in grado di confutare gli elementi a carico ma anche quelle che, in una lettura dell’intero panorama probatorio, siano in grado trasfondere il “ragionevole dubbio” 23.

Inoltre, la rinnovazione investe esclusivamente la prova dichiarativa ed, ancora più specificamente, la dichiarazione decisiva da cui si prospetti la rivalutazione dell’attendibilità intrinseca del teste. Ne de-riva, esemplificativamente come non scatti per il giudice di appello alcun obbligo di rinnovare la prova qualora decida di disattendere le conclusioni di una perizia, non essendo in discussione la attendibilità di un testimone ma la tenuta logica delle valutazioni scientifiche proposte 24.

In ultima analisi, nella richiamata prospettiva giurisprudenziale, il consolidamento della regola

audizione dei testi. E questo anche se la nuova audizione non sia stata richiesta dall’imputato, dovendo in tali casi il giudice di appello provvedervi d’ufficio. Giova rilevare che la Corte ha evidenziato come l’osservazione diretta del comportamento del teste e la conseguente valutazione della sua attendibilità assume, in relazione alla essenzialità del contraddittorio nell’ambito del procedimento probatorio, conseguenze decisive per l’accusato.

20 Si veda, Cass., sez. III, 9 luglio 2013, n. 42344, con nota di A. Cignacco, Condanna in appello e giusto processo: tra indicazioni europee e incertezze italiane, in Dir. pen. proc., 2014, n. 5, p. 539.

21 Così, Cass., sez. un., ud. 28 aprile 2016, in www.iusexplorer.it. 22 F. Giunchedi, Ulisse approda ad Itaca. Le Sezioni Unite impongono la rilevabilità d’ufficio dell’omessa rinnovazione dell’istruttoria

dibattimentale, in Arch. pen., 2016, n. 2, pp. 23 In questo senso, Id., Ulisse approda ad Itaca, cit. 24 In tal senso, S. Recchione, Diritto al controllo e canoni per la riforma della sentenza di assoluzione, in A. Gaito (a cura di), I

principi europei del processo penale, Roma, 2016, p. 463 ss. È pacifico, infatti, che il testimone tecnico è sottoposto all’obbligo di verità – ed alla conseguente verifica di attendibilità tipica delle prove dichiarative – solo se fornisce al processo dati acquisiti in via percettiva. Nel caso in cui, come quasi sempre accade, riferisce contenuti tecnici non è sottoposto ad alcun vaglio di attendibilità ma solo al vaglio critico tipico della prova scientifica.

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dell’oltre ogni ragionevole dubbio e la natura cartolare del giudizio di appello, impongono al giudice di seconde cure, proiettato a condannare l’imputato assolto in primo grado, di fornire una motivazione dotata di una maggiore forza persuasiva 25.

Conseguentemente si è espressamente evidenziato come debba essere strutturata la motivazione della sentenza di condanna che ribalti la decisione assolutoria di primo grado, dovendo essere confuta-te in via specifica tutte le ragioni poste a sostegno della decisione assolutoria di primo grado, “dimo-strando puntualmente l’insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi con-tenuti”; questo perché la motivazione, sovrapponendosi a quella della sentenza riformata, non può non dare compiuta ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati 26.

Ex adverso, se tale onere non dovesse essere adeguatamente soddisfatto, risulterebbe arduo giustifi-care, sul piano logico così come imposto dalla Costituzione e dal codice di rito, lo stravolgimento della decisione assunta da chi ha assistito all’intero svolgimento dell’istruttoria dibattimentale.

Non si può quindi correre il rischio che la struttura cartolare del giudizio di appello e la eccezionali-tà del ricorso alla rinnovazione delle prove possano dar luogo ad accertamenti di responsabilità fondati sulla rivalutazione di compendi probatori paradossalmente deprivati rispetto a quelli disponibili in primo grado 27.

IL CONSEGUENTE “DINAMICO” CONTROLLO SULLA MOTIVAZIONE AD OPERA DELLA CORTE DI CASSAZIONE

Sulla scorta di quanto sin qui evidenziato, è possibile quindi affermare che l’obbligo di motivare debba necessariamente assumere, nel sistema, una importante funzione per così dire “preventiva”, di-retta cioè a ridurre il rischio di errore, se è vero che l’obbligo in questione costringe il giudice ad una decisione il più possibile razionale, così da potere la medesima affrontare i previsti controlli di carattere giudiziario e anche sociale 28. Non a caso, il controllo “giudiziario” sulla motivazione è appunto, per come già in precedenza evidenziato, attribuito dalla Carta fondamentale alla Suprema Corte di cassa-zione, la quale è investita del compito di censurare le eventuali violazioni di legge che abbiano a ri-guardare le sentenze e i provvedimenti giurisdizionali in tema di libertà personale.

In questa prospettiva, l’ampiezza dei poteri di verifica e di controllo è indubbiamente delimitata dall’art. 546 c.p.p. che «traccia le linee guida del disegno ideale che il giudice del merito è obbligato a seguire per motivare correttamente, ma segna anche i confini del controllo esigibile dal giudice di legit-timità, potendosi affermare in una dimensione palesemente formalistica che “se la parte motiva della sentenza non mostra lacune argomentative rispetto al disegno ideale, la decisione di merito, seppur in-giusta, è destinata dall’ordinamento a rimanere intatta» 29.

Peraltro, come già evidenziato in precedenza, la modifica operata dalla legge Pecorella in punto di motivazione ha eretto la dialettica del dubbio a strumento di valutazione delle prove e delle ipotesi sul fatto e, ne è conseguito, che le prove devono essere valutate come se l’imputato fosse innocente, dubi-tando cioè di esse e cercando di falsificarle 30. Ciò significa che la tesi accusatoria deve essere sottoposta, in sede di valutazione, a reiterati e sistematici tentativi di confutazione, concretizzandosi lo strumento della confutazione nel dubbio e residuando legittima e possibile l’affermazione di responsabilità quan-do l’ipotesi in questione abbia resistito ai tentativi operati 31.

25 Del medesimo avviso, S. Recchione, Diritto al controllo e canoni per la riforma della sentenza di assoluzione, cit., p. 463 ss. 26 Si vedano, per tutte, Cass., sez. V, 17 ottobre-11 novembre 2008, n. 42033, in CED Cass. n. 242330, P. 27 Per una panoramica sui diritti fondamentali, in generale ed in ambito sovranazionale si consigliano A. Gaito (a cura di), I

principi europei del processo penale, Roma, Dike, 2016, p. 1 ss.; A. Balsamo, Il contenuto dei diritti fondamentali, in R.E. Kostoris (a cura di), Il manuale di procedura penale europea, II ed., Milano, Giuffrè, 2015, p. 109 ss.; R.E. Kostoris, La tutela dei diritti fondamen-tali, in Il manuale di procedura penale europea, cit., p. 77 ss.

28 F.M. Iacoviello, Motivazione della sentenza penale, (controllo della), in Enc. dir., Agg. IV, Milano, Giuffrè, 2000, p. 760, secondo tale autore, attraverso la motivazione si limita la possibilità del giudice di affidarsi a intuizioni, sensazioni, emozioni.

29 C. Valentini, Ricorso per cassazione, in Dig. pen., VI Agg. Torino, Utet, 2011, p. 526 ss. 30 F.M. Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, in Cass. pen., 2006, p.

3857 ss. 31 Osserva F.M. Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, cit., 3857 ss.

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Conseguentemente, una interpretazione della questione costituzionalmente orientata ai valori della Carta fondamentale, ed in particolare alla presunzione di non colpevolezza, non può che prendere le distanze dalla eventualità che una sentenza che affermi la penale responsabilità dell’imputato alla stre-gua della mera plausibilità della ipotesi accusatoria, disinteressandosi, prima nella fase valutativa del procedimento probatorio e, poi, nella esposizione delle argomentazioni giustificative in sede motiva-zionale di elementi probatori che appaiano rilevantemente di segno contrario.

In altri termini, rispetto a una regola codicistica, indubbiamente attuazione primaria di principio fondamentale e immanente all’intero sistema processualpenalistico, quale quello della presunzione di non colpevolezza, a fronte di una verifica della sua attuazione, significativamente limitata, dinanzi alla corte di cassazione, al controllo di effettività della motivazione, sarebbe assurdo e francamente inaccet-tabile ulteriormente ed immotivatamente ridurre la effettiva portata di tale controllo 32.

Se infatti l’inosservanza della regola in questione non ha una propria autonomia, essendo collegata al vizio di motivazione, la sentenza che non motivi completamente sul rispetto della regola in questione deve dirsi certamente illegittima anche e soprattutto in quanto inadempiente rispetto a un fondamenta-le principio costituzionale.

È anche peraltro evidente come, in una prospettiva nella quale spetta alla cassazione verificare la sussistenza di una motivazione piena e razionale in punto di colpevolezza, pur dovendosi escludere che la cassazione possa sindacare il merito del quadro probatorio posto a fondamento della decisione, la evocata previsione normativa si caratterizza, rispetto alla verifica motivazionale attribuita al giudice di legittimità, come ulteriormente accrescente i confini e gli ambiti contenutistici di tale verifica, doven-do sotto tale profilo ritenere il dubbio inversamente proporzionale alla razionalità e completezza del-l’argomentazione motivazionale sulla colpevolezza dell’imputato 33.

Ciò posto, appare quindi confermato che l’evocato dato normativo influisca in maniera rilevante in punto di contenuto del controllo della motivazione, là dove, in costanza di plurime ricostruzioni alter-native rispetto alla ipotesi da processualmente accertare, la motivazione della sentenza potrà dirsi completa solo quando il giudice dia conto, analiticamente prima, e complessivamente poi di tutte tali ipotesi, illustrando coerentemente le ragioni di assoluta preferibilità dell’una rispetto alle altre 34.

È anche peraltro non seriamente contestabile, sempre in questa prospettiva, come si caratterizzi qua-le questione non rilevante, quella in ordine alla ritenuta non controllabilità della misura della prova ri-chiesta per la emissione della sentenza di condanna, trattandosi, assai diversamente, di verificare oltre alla più volte evocata necessità di un apparato giustificativo circa il rispetto della regola di giudizio in questione, la rispondenza a logicità delle affermazioni nelle quali si sostanzia tale apparato, essendo quindi in altri termini necessario che la motivazione risulti effettiva, oltre perché completa, anche in quanto non manifestamente illogica e, come tale, censurabile, sotto tale peculiare profilo, attraverso il ricorso per cassazione 35.

Non si tratta, cioè, di stabilire se il livello di prove raggiunto risulti nel merito idoneo a giustificare la

come il dubbio possa essere di due tipi: interno o esterno all’ipotesi accusatoria. Il primo rivela sostanzialmente l’autocon-traddittorietà dell’ipotesi (l’ipotesi è intrinsecamente incoerente) o la sua incapacità esplicativa (l’ipotesi dell’accusa spiega solo alcuni fatti, non tutti i fatti necessari per un giudizio di colpevolezza), mentre quello esterno “contrappone all’ipotesi dell’accusa un’ipotesi alternativa, che abbia non il carattere della mera possibilità logica (la congetturalità dell’ipotesi), ma in carattere della razionalità pratica (la plausibilità empirica: «è possibile che le cose siano andate così”).

32 Osserva acutamente C. Valentini, Ricorso per cassazione, cit., p. 526, come la regola in questione è a rischio talmente alto di svuotamento nella prassi del giudizio di merito che meritano sicuro plauso ed esplicito riconoscimento recenti decisioni della Cassazione inclini a sviluppare metodicamente i rapporti tra il vizio di mancanza di motivazione e la regola di giudizio di cui all’articolo 533, comma 1, c.p.p. In punto di mancata osservanza della regola alla stregua di una non corretta applicazione del principio del libero convincimento, M. Nobili, Storia d’una illustre formula: il “libero convincimento negli ultimi trenta anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, p. 71.

33 Secondo E. Rubiola, Mancanza, contraddittorietà manifesta illogicità; il controllo della corte di cassazione sul vizio di motivazione, in Dir. pen. proc., 2012, 5, p. 603 ss., dovendosi escludere che la cassazione possa valutare il quadro probatorio, “il controllo sul ragionevole dubbio non si differenzia, ma rende più rigoroso il controllo sulla motivazione”. In altri termini, la sentenza che ”lascia spazio al dubbio è quella che non motiva pienamente e razionalmente la colpevolezza”.

34 Sul punto in giurisprudenza, espressamente, Cass., sez. IV, 12 novembre 2009, n. 48320, in Cass. pen., 2010, 11, p. 3942. Sul tema si vedano anche Cass., sez. un., 11 maggio 2005 n. 33748, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. I, 3 marzo 2010 n. 17921, in www.iusexplorer.it; Cass., sez. V, 19 febbraio 2014, n. 18999, in www.iusexplorer.it.

35 Cfr., al riguardo, la parte del lavoro in tema motivazione manifestamente illogica.

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ANALISI E PROSPETTIVE | OBBLIGO DI MOTIVAZIONE E “RAGIONEVOLE DUBBIO”

condanna ma, semplicemente, alla stregua del dato normativo ordinario, di verificare se l’affermazione di responsabilità sia effettivamente e coerentemente motivata.

Alla stregua di tali considerazioni, può dirsi che la riforma del sistema delle impugnazioni determi-natasi in ragione della entrata in vigore della l. 20 febbraio 2006, n. 46, se da un lato elimina una eviden-te irragionevole limitazione nella verifica del rispetto dell’obbligo costituzionalmente imposto della motivazione dei provvedimenti decisori, dall’altro, non ha mutato la natura effettiva del controllo in questione, trattandosi sempre non di stabilire la rispondenza a giustizia della decisone di merito ma, semplicemente, di stabilire se l’argomentazione giustificativa sia rispondente contenutisticamente ai canoni normativi che ne delineano l’archetipo.

La corte, quindi, continua ad esercitare un controllo sull’argomentazione per verificarne l’esistenza in termini di contenuto e sotto un profilo quantitativo, alla stregua del rispetto dei criteri in punto di esistenza e, qualitativo, sub specie dell’utilizzazione di criteri inferenziali che non siano universalmente e sicuramente rifiutati o, comunque manifestamente inaccettabili, o palesemente contraddetti da cono-scenze tecniche e scientifiche.

In altri termini, il ragionevole dubbio è il criterio di giudizio della motivazione della sentenza impugna-ta. Con la conseguenza, per la quale, se dalla motivazione di una sentenza di condanna emerge un tale dubbio sulla colpevolezza dell’imputato, la sentenza deve essere annullata, potendosi quindi affermare sul punto, che esso fonda un metodo legale di giudizio, la cui violazione rende affatto inaccettabile la mo-tivazione 36.

Nella delineata ottica, la evocata metodologia attribuisce al giudice di cassazione un compito di pun-tuale verifica che non può certamente limitarsi al controllo della coerenza intrinseca e della congruità dell’argomentazione relativa ai fatti e all’ipotesi dell’accusa, ma deve, soprattutto, necessariamente pren-dere in considerazione la contrapposta ricostruzione operata dal contraddittore 37, rendendosi peraltro evidentemente necessario correlarsi alla regola de qua, nel senso appena precisato, anche nel caso in cui, in concreto, non sia offerta alcuna ipotesi ricostruttiva alternativa. In tale evenienza, infatti, l’ipotesi dell’accusa deve essere comunque argomentativamente sostenuta da prove che rappresentino tutti gli elementi della fattispecie penale, così da escludere in tale peculiare ottica il dubbio ragionevole 38.

Ciò posto giova evidenziare che, per come in precedenza già accennato, le Sezioni Unite hanno ulte-riormente allargato le maglie dei poteri di controllo del giudice di legittimità in punto di motivazione, il quale in caso di ribaltamento della sentenza di assoluzione emessa in primo grado, dovrà rilevare d’ufficio l’eventuale vizio. In particolare, la cassazione dovrà effettuare le seguenti verifiche: 1) se nella motivazione della sentenza impugnata vi sia stata una valutazione contra reum delle fonti dichiarative che in primo grado aveva portato alla pronuncia di assoluzione; 2) la decisività di questa valutazione sull’epilogo del giudizio; 3) se la prova decisiva sia stata assunta senza procedere alla rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; 4) che il ricorso sia ammissibile.

Ci troviamo, a ben riflettere, al cospetto di una vera e propria ipotesi di “rinnovazione coatta” di ma-trice giurisprudenziale che si affianca ai casi di rinnovazione contenuti nell’art. 603 c.p.p.: facoltativa del primo comma, obbligatoria del secondo comma e, infine, officiosa del terzo comma.

Tale inedita fattispecie di rinnovazione, imposta dall’Europa e recepita nel nostro sistema processua-le, apre le porte del giudizio di appello al principio di immediatezza, seppur con riferimento alle sole “prove dichiarative decisive”.

Si tratta di uno strumento necessario per salvaguardare la regola che vuole il superamento del ra-gionevole dubbio quale conditio sine qua non per la emissione di una sentenza di condanna; regola – a sua volta – introdotta per rendere concreta ed effettiva la presunzione costituzionale di non colpevolez-za 39. Più precisamente, la violazione del contraddittorio – convenzionalmente imposto ai fini di una re-

36 Così, F.M. Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, cit., p. 3862 ss. Secondo l’autore, trattandosi appunto di metodo legale di giudizio, analogamente, se dalla motivazione di una sentenza di assoluzione emerge che il dubbio sulla colpevolezza non è ragionevole, la sentenza deve essere ugualmente annullata.

37 In questo senso, F.M. Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, cit., p. 3862 ss. criticandosi ad opera del medesimo la giurisprudenza contraria.

38 Così, F.M. Iacoviello, Lo standard probatorio al di là di ogni ragionevole dubbio e il suo controllo in cassazione, cit., p. 3862 ss. 39 Per una visione d’insieme sul tema, si consiglia L. Filippi, Vincoli probatori e regole di esclusione, in A. Gaito (a cura di), I

principi europei del processo penale, Roma, Dike, 2016, p. 463 ss.

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formatio in peius della prima sentenza – si traduce nell’infrazione della regola decisoria che presidia la presunzione d’innocenza. Una condanna, basata sulla rivisitazione del giudizio di attendibilità della te-stimonianza effettuata senza la percezione diretta dell’evento dichiarativo da parte de giudice d’ap-pello, deve essere valutata come iniqua secondo l’art. 6 Cedu in quanto non garantisce una affidabile valutazione della prova decisiva.

È così maturata la consapevolezza che l’unica strada in grado di consentire un ribaltamento di una sentenza di assoluzione emessa all’esito di un lungo dibattimento carico di solide garanzie previste in ordine alle modalità di ammissione, assunzione e valutazione della prova, sia costituita dal recupero del contatto diretto tra giudicante e fonti dichiarative. È solo in questo modo che un giudice (quello di appello) – abituato ad esprimere, attraverso una mera lettura degli atti contenuti in un fascicolo proces-suale, un convincimento sulla responsabilità dell’imputato – può rivalutare in modo differente rispetto al giudice che lo ha preceduto una o più prove dichiarative che sono state considerate “decisive” per raggiungimento del verdetto assolutorio in primo grado.

Giudizio di appello, infatti, che per tradizione segue la logica del controllo più che quella del novum iudicium e si svolge regolarmente sulla base della relazione della causa e all’esito della mera lettura dell’istruttoria del grado precedente, con possibilità di rinnovazione probatoria relegate in ambiti deci-samente marginali 40.

Conseguentemente, la mancanza di un contatto diretto tra giudicante e fonte dichiarativa rende in-discutibilmente più problematica la verifica della genuinità o, se si preferisce, dell’attendibilità del di-chiarante ed è innegabile che dal confronto dialettico è possibile estrapolare non solo i momenti di co-noscenza del fatto, ma anche tutti i dati utili a verificare la genuinità e l’attendibilità della stessa fonte. Ne consegue che il sacrificio dei fondamentali principi di oralità e immediatezza impedisce al giudice di avere a disposizione i migliori punti di orientamento per individuare la possibilità di confluenza tra verità processuale e realtà storica.

In quest’ottica, deve essere, quindi, anche ricordata la pronuncia n. 317/2009 della Corte costituzio-nale con la quale è stato precisato che un processo non giusto, perché carente sotto il profilo delle ga-ranzie, non è conforme al modello costituzionale e, nel caso di specie, la mancata riassunzione della prova decisiva è senz’altro incompatibile con il nucleo fondativo di garanzie minime inderogabili in peius nel contesto dell’accertamento processualpenalistico.

Occorre riconoscere che l’intervento esegetico della giurisprudenza di Strasburgo ha messo in luce seri problemi di compatibilità del nostro sistema delle impugnazioni penali in generale, e dell’appello in particolare, con i principi ormai granitici del giusto processo (effettività del doppio grado di giuri-sdizione di merito, diritto alla prova, contradittorio, oralità e immediatezza) 41. L’auspicio è che in futu-ro il legislatore, facendo tesoro delle linee guida consolidate dalla Corte europea, riesca, questa volta, a porre rimedio con una riforma ben articolata che tuteli i principi fondamentali del processo “giusto” senza sacrificarne altri di pari rango come è avvenuto in passato con l’esperienza fallimentare della leg-ge Pecorella.

40 Come noto, infatti, l’art. 602, comma 3, c.p.p. prevede che la piattaforma cognitiva in base alla quale il giudice deve valuta-re la fondatezza delle doglianze proposte nei motivi d’appello venga formata attraverso la lettura dei verbali delle attività diret-tamente espletate nel dibattimento di primo grado, nonché dei verbali degli atti compiuti nelle fasi precedenti, mai assoggettati a cross examination, inseriti nel fascicolo del dibattimento e acquisiti al giudizio di prime cure secondo quanto previsto dagli artt. 511 ss. c.p.p.

41 Tale modello di disciplina giuridica, infatti, è da tempo inequivocabilmente riconosciuto, nella comunità internazionale, quale irrinunciabile diritto soggettivo fondamentale dell’uomo. La garanzia del doppio grado di giurisdizione di merito è sancita espressamente a livello sovranazionale sia dall’art. 14, par. 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici, sia dall’art. 2 del VII Protocollo addizionale della Cedu, che riconosce il diritto di “ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza o la condanna da una giurisdizione superiore”. E nella sentenza n. 2689/65 Delcourt v. Belgio del 1970, la Corte di Strasburgo aveva affermato che “quando un sistema nazionale prevede un diritto d’appello, l’art. 6 debba applicarsi anche ai procedimenti di secondo grado”.

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ANALISI E PROSPETTIVE | LA PROVA SCIENTIFICA NEL PROCESSO PENALE SPAGNOLO: UN NUOVO VOLTO ISTRUTTORIO

ANA SÁNCHEZ RUBIO

Dottore di ricerca in Diritto Processuale – Università Pablo de Olavide di Siviglia

La prova scientifica nel processo penale spagnolo: un nuovo volto istruttorio The Scientific Evidence in the Spanish criminal proceedings: a new way to proof Il crescente ricorso alla scienza per la risoluzione delle controversie legali ha acquisito un ruolo di primo piano ai nostri giorni. Ciò ha comportato che nel sistema giuridico spagnolo, come è avvenuto in altri, è emerso un nuovo concetto di prova, che va oltre la tradizionale perizia e che non corrisponde né al concetto di fonte, né a quello di mezzo di prova: la prova scientifica. Questo scritto cerca di fare il punto sugli elementi che caratterizzano quest’ul-tima, dal momento che essa ha rivoluzionato le basi del catalogo probatorio spagnolo. A tal fine, si procederà ad una comparazione dei caratteri che la distinguono della tradizionale perizia. The progressive use of the science in the resolution of judicial disputes has taken a leading role today. This has raised in the Spanish legal order, like in others around it, the emergence of a new evidential institution which cor-responds to a new concept of evidence going beyond the traditional expert testimony and that is not equal to a source or a means of evidence. We refer to the conception of the modern scientific evidence. This paper intends to shed the definition of scientific evidence that has revolutionized the bases of the Spanish evidentiary catalogue. To this end, we will start distinguishing it to the conventional expertise until arriving its specific characters. RILIEVI INTRODUTTIVI

Diversi autori affermano che la prova scientifica costituisca un mezzo di prova che si aggiunge al resto degli strumenti probatori previsti dal catalogo legale 1. Tuttavia è noto, ma non sempre riconosciuto, che la prova scientifica ha acquisito una maggiore indipendenza tanto pratica quanto terminologica, tanto che nel sistema probatorio spagnolo essa costituisce un nuovo istituto probatorio 2. In tal senso, la giurisprudenza spagnola utilizza il termine «prova scientifica» quando un’attività probatoria, quasi sempre una perizia, si sia realizzata impiegando tecnologie che consentono di pervenire a risultati alta-mente attendibili 3. L’uso abituale di questo concetto ha comportato un allargamento dei confini della

1 Va chiarito che in Spagna l’istituto della perizia non corrisponde a quello italiano. In Italia, la perizia equivale ad una sorta di consulenza tecnica d’ufficio, laddove la consulenza tecnica di parte, pur sostanziandosi in una attività peritale, non viene denominata “perizia”: indipendentemente dal fatto che l’attività probatoria sia proposta d’ufficio o su istanza di parte, viene sempre qualificata come perizia. Per tal motivo, nel prosieguo del lavoro, il termine perizia sarà posto in corsivo, per indicare che ci si riferisce all’ordinamento spagnolo.

2 In questo senso J. Montero Aroca, La prueba en el proceso civil, Madrid, 1986, p. 178, «le conoscenze scientifiche, artistiche e pratiche sono tanto più necessarie quanto più complesse e tecnicizzate sono le relazioni giuridiche. Così è molto sintomatico che nelle Partidas non si facesse praticamente riferimento alla perizia, mentre oggi esistono molte leggi i cui presupposti di fatto sono impossibili da comprendere se non si posseggono conoscenze specializzate”. V. anche V. Pardo Iranzo, Ciencia y proceso. De la pericial científica con privilegio jurisprudencial a la pericial científica con privilegio legal, in Revista de Derecho Penal, 2013, n. 38, Valladolid, p. 3.

3 Una copiosa giurisprudenza allude al termine «prova scientifica» senza menzionare la perizia, anche se utilizza l’aggettivo «peritale» per la descrizione delle relazioni apportate nella pratica da questo tipo di prove. Ex multis: Trib. sup., sez. I, 2 giugno 2010, n. 513; Trib. sup., sez. I, 2 dicembre 2012, n. 1069; Trib. sup., sez. I, 8 novembre 2012, n. 925; Trib. sup., sez. I, 6 marzo 2013, n. 191. In altre occasioni, non si è nemmeno alluso al termine perizia, prova peritale, relazione peritale durante il testo, facendosi riferimento solo al termine «prova scientifica»: Trib. sup., sez. I, 11 febbraio 2009, n. 128; Trib. sup., sez. I, 28 ottobre 2010, n. 922;

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prova scientifica in una duplice prospettiva; da un lato, rispetto alle possibilità di utilizzazione della pe-rizia, che aumentano proporzionalmente all’acquisizione delle nuove conoscenze scientifiche. Dall’altro lato, rispetto all’ambito di applicazione, che si amplia parallelamente alla elaborazione di nuovi metodi utilizzabili 4.

Come conseguenza del progresso scientifico-tecnologico e dell’associazione di questi nuovi metodi scientifici con la perizia, è derivata una certa confusione tra il concetto di prova scientifica e prova peri-tale tradizionale. In questo scritto si cercherà di offrire lo stato dell’arte in Spagna in merito alla prova scientifica, che è stato in grande parte influenzato dalla riflessione svolta in materia dalla dottrina ita-liana. A tal fine, si inizierà esaminando le differenze con la tradizionale perizia, per poi concentrarsi sul-le caratteristiche che qualificano la prova scientifica, tentando di fornire una definizione dalla stessa.

IL RAPPORTO TRA PROVA SCIENTIFICA E PERIZIA

Nonostante si tratti di figure probatorie distinte 5, è necessario fin da subito osservare che la perizia co-stituisce il mezzo più comune per introdurre nel processo la prova scientifica.

Si potrebbe dunque individuare non solo una differenza sostanziale tra perizia e prova scientifica, ma anche fra perizia scientifica e perizia non scientifica 6.

AFFINITÀ E DIFFORMITÀ

Secondo parte della dottrina, la perizia, da un punto di vista generale, è «sapere, pratica o abilità specia-lizzata in un determinato campo della scienza, arte o tecnica» 7. Ciò vuol dire che la perizia si caratteriz-za essenzialmente per il fatto di introdurre nel processo una conoscenza specializzata attraverso la figu-ra di un esperto, denominato «perito» o consulente tecnico. La finalità di questo contributo è quella di completare il sapere del giudice perché, sommando alle sue massime di esperienza le conoscenze spe-cializzate dei periti, possa accertare i fatti controversi con il minor grado di incertezza possibile 8.

Peraltro la perizia non funziona soltanto come mezzo di prova che introduce nel processo una cono-scenza che sfugge al sapere del giudice 9, ma può operare anche come attività di indagine. Quando la perizia opera come attività di indagine, come è noto, non ha valore probatorio, anche se la sua realizza-zione si porta a termine in maniera simile a come avviene quando è mezzo di prova. Il perito o il consu-lente tecnico elaborano per il giudice una relazione peritale in cui offrono al giudice, grazie alle loro competenze tecniche, pratiche, artistiche o scientifiche, un’interpretazione sul come, quando o perché è accaduto un fatto rilevante per la causa che si indaga 10.

Questi tratti generali della perizia trovano la propria origine nel testo del codice di procedura penale spagnolo del 1882 che, nel suo art. 456, stabiliva che «il giudice disporrà la perizia quando, per conosce-re o apprezzare qualche fatto circostanza importante della fase di investigazione, fossero necessarie o convenienti conoscenze scientifiche o artistiche». Sulla stessa linea, anche se in maniera un po’ più det-

Trib. sup., sez. I, 1° luglio 2014, n. 540. E non si tratta solo di un fenomeno relegato all’ambito penale. Così, nella giurisdizione civile va citata la sentenza dell’Audiencia Provicincial di Barcellona (sez. XIV) 14 settembre 2007, n. 463, nel cui primo punto in diritto viene stabilito che «L’esposizione del perito X non si accompagna con prove scientifiche e dati oggettivi». Di tenore simile è la sentenza dell’Audiencia Provicincial di Cadice (sez. VIII) 57/2008, secondo la quale: «La parte appellante ha allegato che la relazione emessa da Peritaciones P. manca di solidità poiché non è stata realizzata alcuna prova scientifica”.

4 E. Falcón, La prueba científica, in Tratado de la prueba, Astrea, Buenos Aires, 2007, p. 228. 5 M. Sebastián Midón, Procesal Civil: Alexander Rioja Bermúdez, cit. 6 C. Vázquez-Rojas, Sobre la cientificidad de la prueba científica en el proceso judicial, in Anuario de Psicología Jurídica, 2014, p. 65. 7 I. Flores Prada, La prueba pericial de parte en el proceso civil, Tirant lo Blanch, Valencia, 2010, p. 127. Sulla perizia come prova

anticipata, dello stesso autore, La prueba anticipada en el proceso penal italiano, Tirant lo Blanch, Valencia, 2011, pp. 175-177. 8 J. Montero Aroca, La prueba, cit., pp. 334-337. 9 «In generale una scienza al di sopra di quelle culture medie cui, a seconda del luogo e del tempo del processo, appartiene il

sapere del giudice»: J. Guasp, Comentarios a la Ley de Enjuiciamiento Civil, vol. II, Aguilar, Madrid, 1943, p. 619. 10 Sulla perizia nella fase della istruzione cfr., in particolare, E. Font Serra, Aportaciones del profesor Font Serra a la doctrina

jurídica, Ministerio de Justicia, Madrid, 2004, pp. 266-271.

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tagliata in un’epoca più recente, l’art. 335 del codice di procedura civile spagnolo come modificato dalla l. 7 gennaio 2000, n. 1, stabilisce che «quando siano necessarie delle conoscenze scientifiche, artistiche, tecniche e pratiche per valutare i fatti e circostanze rilevanti per la causa o acquisire certezza su di essi, le parti potranno produrre nel processo la relazione di periti che posseggano le conoscenze corrispon-denti o richiedere, nei casi previsti dalla legge, la disposizione di una perizia con un esperto designato dal tribunale».

Analogamente, l’art. 220 c.p.p. italiano, stabilisce che «la perizia è ammessa quando occorre svolgere indagini o acquisire dati che richiedono specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». Se-condo la norma citata il giudice può avvalersi della figura di un perito o di un consulente tecnico d’ufficio quando la ricostruzione probatoria dei fatti sia talmente complessa da non rendere sufficienti le «nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza» (art. 115, comma 2, c.p.c.).

Alla luce delle definizioni menzionate, si può dunque affermare che il perito è la lente attraverso cui il giudice percepisce certi fatti, a cui la sua visione non giunge 11. In questo senso, la perizia consiste in definitiva in «quella prova consistente in un’attività diretta a convincere il giudice della certezza positi-va o negativa di un fatto affermato, che si concretizza nella dichiarazione della persona, distinta dalle parti e dal giudice, che apporta al processo conoscenze specializzate in materia non giuridica, le cui competenze risultano necessarie per valutare quel fatto» 12. In altre parole, la perizia rappresenta un mezzo probatorio attraverso cui persone estranee alle parti, che posseggono conoscenze settoriali in qualche scienza, arte o professione, percepiscono o verificano fatti che mettono a disposizione del giu-dice ai fini della formazione del suo convincimento 13.

Date queste definizioni, possono estrinsecarsi tre caratteristiche essenziali della perizia, condivise con la prova scientifica. In primo luogo, entrambe consistono in attività a richiesta poiché si fondano sul presupposto della mancata conoscenza, dubbio o ignoranza altrui, che determina l’intervento dell’e-sperto 14. In secondo luogo, entrambe posseggono una natura consultiva o strumentale, perché l’esperto – o altro mezzo in caso di prova scientifica – deve fornire un’opinione, un’informazione fondata sulle sue conoscenze specializzate, nel senso che egli non deve decidere, né risolvere, ma piuttosto pronun-ciarsi conformemente al suo bagaglio intellettuale 15. In terzo ed ultimo luogo, entrambe le categorie probatorie costituiscono un mezzo indiretto di prova, perché il giudice accede al materiale di conoscen-za solo attraverso la percezione e l’opinione di un esperto o di un altro mezzo probatorio, anche indiret-to, nel caso della prova scientifica 16.

Come si è già anticipato, finalità essenziale della perizia così come della prova scientifica, è l’intro-duzione nel processo di un sapere estraneo alle conoscenze del giudice. Tuttavia, mentre la perizia in-troduce nel processo qualsiasi conoscenza non giuridica – scientifica, artistica, tecnica o pratica 17 –, la prova scientifica attiene esclusivamente a conoscenze scientifiche fondate su un metodo approvato dal-la comunità scientifica di riferimento: il livello di scientificità esatto dalla prova scientifica supera in modo decisivo quello richiesto dalla perizia. Da questo punto di vista l’ambito della prova scientifica è

11 Bonnier, Tratado Teórico-Práctico de las Pruebas en Derecho Civil y Penal, Tomo I, Madrid, 1869. Traducción (con arreglo al De-recho español) de José Vicente y Caravantes, p. 472.

12 J. Banacloche, Los medios de prueba II, Tribunales de Justicia, n. 6, 2000, p. 701. 13 C.A. Carbone, Derecho Procesal Penal. Conflictos Modernos, Nova Tesis, Rosario, 2006, p. 41. 14 Secondo P.M. Garciandía González, «il contributo al giudizio di tali specifiche conoscenze permette inoltre che, con un

elevato grado di sicurezza ed efficacia, si ottengano risultati che non possono essere raggiunti tramite la scienza stessa che li porta», P.M. Garciandía González, La peritación como medio de prueba en el proceso civil español, Aranzadi, Pamplona, 1999, p. 67.

15 I. Flores Prada, La prueba pericial, cit., pp. 128-129. 16 M. Serra Domínguez, De la prueba de peritos, en Comentarios al Código Civil, tomo XVI, vol. II, V-lex, p. 4. 17 Tra questi tipi di conoscenza – scientifica, artistica, tecnica e practica – distingue E. Font Serra, La prueba de peritos en el

proceso civil español, Hispano Europea, Barcelona, 1975, p. 2, precisando che si ci trova di fronte a conoscenza scientifica «quando si tratta di un insieme di conoscenza delle cose in ragione dei principi e cause. Il concetto di scienza è ampio, comprese le scienze fisiche, matematiche, naturali, ecc.»; la conoscenza è artistica, quando si tratta di «sapere su alcuna delle arti, che hanno lo scopo di esprimere la bellezza: pittura, scultura, architettura, musica, letteratura, ecc.»; la conoscenza è practica o tecnica se i saperi in questione «consentono di utilizzare le procedure e i mezzi che la scienza usa. Quando è il risultato di una semplice ripetizione di atti, che non necessitano di particolari studi, la conoscenza è “pratica” in senso stretto. Quando è stata necessaria una formazione molto specifica – lo studio delle procedure di applicazione della scienza –, tale conoscenza è chiamata, invece, “tecnica”».

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molto più ridotto di quello della perizia, giacché si limita al sapere scientifico altamente specializzato, pur operando la prima con riguardo a segmenti procedimentali più ampi rispetto alla seconda, e cioè a dire fin dalla ricerca della fonte di prova durante le indagini e fino alla valutazione del risultato proba-torio nel processo penale vero e proprio.

Atteso che la prova scientifica introduce, come si è detto, una conoscenza scientifica specializzata, l’elemento probatorio, a differenza di quanto accade per la perizia comune, deve essere sostenuto da uno standard scientifico particolarmente rigoroso. Da ciò consegue che non tutti i professionisti posso-no fornire questo tipo di apporto al processo, ma anzi, al contrario, la raccolta, il trattamento, la conser-vazione, l’utilizzo e la validità delle fonti di prova, oggetto di queste metodologie scientifiche avanzate, sono attività che devono essere effettuate da centri adeguatamente verificati 18. Quando ci troviamo di fronte alla prova scientifica, la complessità dei metodi impone di ricorrere a strumenti materiali d’avan-guardia e risorse umane altamente qualificate. Pertanto, la responsabilità di realizzare tali operazioni non graverà su periti esperti della materia – per esempio antiquari; guardie forestali esperte del com-portamento degli animali; persone con esperienza nella gestione delle macchine o di gru; meccanici, etc. – come avviene nella perizia, ma piuttosto su professionisti o istituzioni affidabili che riuniscano le co-noscenze e le condizioni tecniche adeguate – ambientali, di strumentazione, di sicurezza, etc. – per ef-fettuare i compiti richiesti 19.

Forse quanto fin qui detto può risultare più chiaro con un esempio. Supponiamo che abbiamo acqui-stato un quadro d’autore, attribuito all’epoca contemporanea e successivamente si avanzino dubbi sulla sua autenticità. Richiediamo, quindi, l’opinione di un perito conoscitore dell’autore, della sua opera, della sua pennellata, dei soggetti che abitualmente dipinge e degli altri elementi di giudizio per stabilire se il quadro in questione è autentico o se è un falso. La conclusione dell’esperto che il quadro fu dipin-to, ad esempio, da Modigliani, sulla base dello stile della pittura, non può essere verificata, giacché ciò non è suscettibile di replica e non genera ipotesi verificabili. Questo non vuol dire che non sia necessa-rio e estremamente utile per il processo ricorrere a questo tipo di esperti e periti, ma che semplicemente questi metodi non sono scientifici 20.

Ora, immaginiamo che l’autenticità di questa stessa opera si studi attraverso altre tecniche, come può essere il ricorso ai raggi X per svelare una firma occulta, alla luce di Wood, al microscopio stereo-scopico o alla riflessologia infrarossa per studiare la possibile imitazione di una firma 21. Nella prima ipotesi, quella che studia l’autenticità dell’opera attraverso una valutazione unicamente stilistica, ci tro-viamo di fronte a una perizia “corrente” del sapere, in questo caso, artistico; nella seconda, che analizza la pittura attraverso metodi scientifici strumentali, ci troviamo di fronte ad un’autentica «prova scienti-fica». Oltretutto, anche se la firma è leggibile con totale chiarezza attraverso i raggi X, potrebbe anche non essere necessario l’intervento di un esperto 22.

CORRISPONDENZA BIUNIVOCA

Vista l’affinità tra le due figure esaminate, perizia – atto di indagine o mezzo di prova – e prova scienti-fica – metodo probatorio – e il radicamento di cui gode la prima categoria probatoria rispetto alla se-conda, nell’ordinamento giuridico spagnolo vi è chi definisce quest’ultima come una variante della pe-rizia, caratterizzata dal fatto che l’esperto, per l’espletamento del suo incarico, ricorre alle nuove cono-scenze scientifiche e tecnologiche 23. Nello stesso ordine di idee, alcuni autori definiscono la prova scien-

18 J. Pérez Gil, El conocimiento científico en el proceso civil. Ciencia y tecnología en tela de juicio, Tirant lo Blanch, Valencia, 2010, p. 42 ss.

19 V. Denti, Scientificità della prova, cit., p. 420. J.W. Peyrano, Sobre la prueba científica, L. L. 03/05/07. 20 Questo tipo di perizia fu ammessa nella sentenza del Trib. sup. n. 1120/2008, del 3 gennaio (RG 2008\818) in cui il direttore

del Museo Sorolla, sulla base della sua specializzazione nella materia, affermava la falsità di un’opera d’arte che fu venduta proclamando che ne era autore Mirò. Nelle parole del perito trascritte nella sentenza si dice che «Vidi il quadro personalmente a istanza del giudice. Mi portarono il quadro a Madrid, al museo Sorolla. Un profano può essere ingannato, ma a uno specialista no».

21 Queste tecniche scientifiche furono utilizzate dalla polizia nazionale per l’accertamento sull’autenticità di una firma di opere d’arte falsificate. In tema si veda la sentenza dell’Audiencia Provincial di Madrid n. 74/2006, 22 di febbraio (ARP 2006\364).

22 J.W. Peyrano, Sobre la prueba científica, vol. 2, n. 8, ottobre-dicembre, 2012. 23 M. Midón, Pericias biológicas, Mendoza, 2005, Ediciones Jurídicas Cuyo, p. 35.

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tifica come quella perizia in cui le conoscenze scientifiche necessarie sono innovative e complesse: la pe-rizia che, per via del progresso scientifico sviluppato in un dato momento, si considera specialmente so-fisticata o specializzata, atteso che richiede la partecipazione di vari esperti in forma congiunta o la rea-lizzazione di studi od operazioni tecniche che solo alcune istituzioni possono realizzare 24 integrerebbe la “prova scientifica”. La prova scientifica si presenterebbe, così, come una species del genus della perizia. In questo senso, è stata qualificata anche come «perizia scientifica» 25.

I citati approcci definitori, pur contribuendo a chiarire il significato della “prova scientifica”, dise-gnano tuttavia questa nuova categoria probatoria sempre all’interno della perizia. Ma, come si è visto, né la perizia è sempre prova scientifica – giacché l’ambito applicativo della perizia, sotto il profilo delle conoscenze che introduce nel processo, è molto più ampio di quello della prova scientifica poiché con-templa saperi artistici o pratici, tra i tanti 26 – né ogni prova scientifica è perizia.

Proprio quest’ultima affermazione rompe gli schemi che considerano la prova scientifica come una subcategoria della perizia. Se è certo, infatti, che la via di accesso al processo della prova scientifica si ri-duce praticamente alla perizia, l’attività dei periti non esaurisce in assoluto le possibilità in cui può con-cepirsi l’entrata della scienza nel processo 27. Inoltre, in alcune occasioni, nemmeno la perizia sarà un meccanismo idoneo o proporzionato a tale fine e, in altre, rivestirà solo un carattere strumentale o di ausilio in relazione ad altri mezzi di prova 28.

Il fatto che non sempre il metodo scientifico praticato durante l’attività probatoria venga introdotto nel processo attraverso la perizia è dimostrato dal fatto che i restanti mezzi di prova disponibili nella nostra legislazione sono stati anche essi, e continuano ad essere, veicoli idonei per apportare al processo la conoscenza scientifica. A tale scopo può essere utilizzata (e, di fatto, è il ricorso ad essa è sempre più frequente) 29 anche una prova documentale (come consente l’art. 788.2.II del codice di procedura penale, in casi di relazioni ufficiali relative a sostanze stupefacenti 30).

Oltre al mezzo documentale, il metodo scientifico può entrare nel processo, nonostante non sia il modo più comune, anche attraverso l’intervento della figura probatoria del testimone-perito 31. Si tratta di un mezzo il cui utilizzo nel processo penale, anche se non contemplato dal codice di procedura pena-le spagnolo, è totalmente legittimo poiché così dispone per integrazione l’art. 4 del codice di procedura civile spagnolo 32, e nello stesso senso è orientata una consolidata giurisprudenza 33. Va sottolineato in

24 Per tutti, E.M. Falcón, Código Procesal Civil y Comercial de la Nación, tomo II, Astrea, Buenos Aires, pp. 223-224. 25 Sul punto va rammentata l’opera di J. Dolz Lago-C. Figueroa Navarro, La prueba pericial científica. 26 Sulla necessità di differenziare questi saperi e in merito al rigore che caratterizza quello scientifico, Aristotele, intorno al-

l’anno 350 a.C., affermava che «dal momento che la scienza è conoscenza delle cose universali e necessarie, e ci sono alcuni principi per la dimostrabilità di tutta la scienza (poiché la scienza è razionale), il principio scientifico non può essere né pratico né l’arte, né la prudenza; perché la scienza è dimostrabile”. Aristóteles, Ética a Nicómaco, VI, 6, 1140b.

27 J. Pérez Gil, El conocimiento científico, cit., p. 48. 28 In questo caso la dottrina italiana si riferisce ad esso come «superperizia», O. Dominioni, La prova penale scientifica. Gli

strumenti scientifico-tecnici nuovi o controversi e di elevata specializzazione, Milano, Giuffrè, 2005, p. 72 ss. 29 «In accordo con l’opinione di alcuni esperti dei laboratori ufficiali del Commissariato Centrale di Polizia Scientifica del

Corpo Nazionale di Polizia, del Servizio di Criminalistica della Guardia Civile e dell’Istituto Nazionale di Tossicologia e Scienze Forensi, potrebbero essere apportate nel processo penale, con carattere documentale le seguenti perizie derivate dall’opera di laboratori ufficiali, in considerazione del carattere categorico delle conclusioni a cui giungono e dello standard scientifico co-munemente accettato nella loro elaborazione secondo lo stato attuale della nostra scienza: balistica e tracce strumentali, dattilo-scopia, pitture; pavimenti, flora e fauna; residui di spari; droghe tossiche; incendi – acceleratori della combustione –; biologia – DNA –; grafologia/documentoscopia – non in manoscritti – entomologia forense». Così, M.M. Robledo, La aportación de la prueba pericial científica en el proceso penal, in Gaceta Internacional de Ciencias Forenses, n. 15, aprile-giugno, 2015, p. 5-6.

30 In termini letterali: «Nell’ambito di questo procedimento, avranno carattere di prova documentale, le relazioni emesse da laboratori ufficiali sulla natura, quantità e purezza delle sostanze stupefacenti quando in essi consti che si sono realizzate seguendo i protocolli scientifici approvati dalle norme corrispondenti»

31 J.Pérez Gil, El conocimiento científico, cit., p. 54. 32 Il tenore di quest’articolo stabilisce che: «In difetto di disposizioni presenti nelle leggi che regolano i processi penali, con-

tenzioso-amministrativi, del lavoro e militari, saranno applicati, a tutti questi, i precetti della presente legge». 33 Tra le tante, sentenza della Audiencia Nacional (sezione penale), 65/2007, 31 ottobre e Trib. sup. (sez. I), 553/2008, 18 set-

tembre, il cui quarto punto in diritto dispone che «Sia come sia, la figura del testimone-perito non è estranea al nostro sistema giuridico. Questa sezione lo ha ammesso in modo espresso [cfr. Trib. Sup. 423/2007, 23 maggio (RG 2007, 5612), 119/2007, 16 febbraio (RG 2007, 1930), 1393/1999, 6 ottobre (RG 1999, 6645) e 1742/1994, 29 settembre (RG 1994, 7319)], essendo una figura

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relazione a questo mezzo di prova che, nonostante nella sua denominazione si inserisca la parola «peri-to», tale figura possiede una indiscutibile natura testimoniale 34. Molto chiaramente si riferisce ad essa la sentenza della sez. II del Tribunale Supremo 29 settembre 1994, n. 1742: «accade con questa figura come con la persona che è presente a un investimento o ad un’aggressione e che, per la sua qualità di medico, presta al ferito i primi soccorsi e, in questi casi non c’è nessun ostacolo perché la sua dichiarazione pos-sa, da una parte, descrivere ciò che vide dell’incidente automobilistico, e dall’altro riferire come esperto perito medico, sulle condizioni del ferito».

Proprio queste alternative alla perizia confermano che siamo di fronte a categorie probatorie differen-ti, nonostante la prova scientifica sia stata frequentemente comparata, e confusa con la tanto utilizzata perizia. La natura giuridica di una prova prodotta in virtù dell’applicazione di un metodo scientifico durante l’attività probatoria non è quella della perizia, ma quella della «prova scientifica»:, che è una ve-ra e propria nuova categoria probatoria. Si tratta di una categoria che non coincide con i tradizionali concetti che esistono all’interno del campo probatorio, ma risponde unicamente al fatto di essere stata formata attraverso l’utilizzo del metodo scientifico.

Sulla base di quanto detto, può concludersi che il perito è – anche se non sempre – uno strumento in più di cui ci si può servire in caso di ricorso alla prova scientifica. In questo modo emerge la possibilità di distinguere le due categorie probatorie, con la conseguenza che per l’una e l’altra sono necessarie re-gole di acquisizione diverse. Oltretutto, l’importanza di distinguere fra prova come mezzo – perizia – e prova come metodo – prova scientifica – aumenta ogni giorno, poiché la scienza avanza con sempre maggiore rapidità mettendo a disposizione dei contendenti e dei giudici strumenti più sofisticati e complessi per poter ricostruire i fatti di una causa. Per questo, in favore della sicurezza giuridica, con-sideriamo raccomandabile porre le basi di questo nuovo istituto processuale, senza equipararlo ad altri che già esistono. Ciò prima che l’ordinamento giuridico sia invaso da questa nuova categoria probatoria a cui non sa dare risposta.

PROVA SCIENTIFICA “COME METODO”

La prova scientifica, come si è detto, configura una nuova categoria probatoria che non rientra nella tradizionale classificazione delle tipologie di prova, e nemmeno si identifica come fonte di prova, mez-zo di prova o risultato probatorio. La prova scientifica riguarda, quindi, operazioni probatorie che, al momento del suo ottenimento, trattamento, controllo, conservazione, ammissione, pratica e valutazio-ne, utilizzano strumenti di conoscenza propri della scienza e della tecnica, cioè, principi e metodologie scientifico tecnologiche e apparati tecnici il cui uso richiede la competenza di un esperto 35. La caratteri-stica essenziale della prova scientifica, che la distingue dalle altre prove, è il ricorso ad un metodo scientifico durante tutta la sua formazione 36.

Quando allora parliamo di prova scientifica, l’applicazione del metodo scientifico all’attività proba-toria entra nell’ingranaggio di tutta una serie di momenti pertinenti al sistema probatorio: la ricerca di

usuale nell’ambito del procedimento civile, in cui si permette che quando il testimone possegga conoscenze scientifiche, tecni-che, artistiche o pratiche sulla materia a cui si riferiscono i fatti, il tribunale possa ammettere le manifestazioni che, in virtù di tali conoscenze associ il testimone alle sue risposte sui fatti [cfr. art. 370.4 del codice di procedura civile (RCL 2000, 34, 962 e RCL 2001, 1892)]».

34 Attraverso la figura del testimone-perito si potrebbero aggirare le rigorose regole previste in tema di perizia, facendo prevalere la sua natura testimoniale. Il testimone può definirsi in principio come un conoscitore occasionale simultaneo dei fatti in relazione ai quali è chiamato a deporre. Tuttavia, bisogna ricordare che la relazione peritale, come regola generale, deve essere accompagnata dalla domanda e risposta; nel caso in cui non sia così, si disporrà di un termine di cinque giorni per il suo contributo prima del dibattimento. La prova testimoniale di questi soggetti (testimoni-periti) apporta al processo un valore aggiunto, poiché alla percezione diretta dei fatti deve sommarsi la valutazione tecnico-scientifica consentita dalla sua particolare qualificazione tecnica. Si tratta di una prova testimoniale in cui la conoscenza dei fatti è trasmessa al giudice sulla base di una percezione basata in un insieme di conoscenze tecniche che possiede il testimone. Si veda C. Belhadj Ben Gómez, El testigo perito, proposición y práctica de prueba. Distinción con el perito, in Revista Aranzadi Doctrinal, 2014, n. 2, parte studio, Pamplona.

35 O. Dominioni, La prova penale scientifica, Milano, Giuffrè, 2005, p. 12. 36 La metodologia scientifica è considerata come l’unico rimedio adatto a costruire una conoscenza attendibile e, pertanto,

pilone fondamentale di qualsiasi disciplina che seriamente tenti di comprendere il mondo attraverso l’indagine sistematica dei fenomeni empirici che lo compongono. D.L. Faigman-D.H. Kate-M.J. Saks-J. Sanders, Modern scientific evidence. The Law and Science of Expert Testimony, West Publishing Co., St. Paul, Minn., 2002, p. 121.

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dati e campioni, la catalogazione, l’analisi, la conservazione, il controllo, sino alla formulazione delle conclusioni. Il metodo scientifico, quindi, interviene dal momento in cui si apre l’indagine, visto che comincia ad applicarsi nello sviluppo della fase d’istruzione – o indagine preliminare se ci fosse –, ma non si esaurisce in esso. Piuttosto, come si è appena segnalato, si prolunga fino a che la prova è stata va-lutata dal giudice nel giudizio orale visto che questa nuova categoria di prova, data la sua natura scien-tifica, presenta alcune peculiarità sul piano della ammissibilità e della valutazione 37. Per questo, non è possibile tracciare una linea di demarcazione netta fra la prova scientifica della fase di indagini e quella che si introduce in sede dibattimentale, giacché la seconda è una conseguenza diretta della prima.

Da un altro lato, in relazione al metodo scientifico che dà vita a questa nuova categoria probatoria si deve segnalare che non si tratta di qualsiasi insieme di operazioni. Al contrario, deve essere un proce-dimento che risponda parametri della conoscenza scientifico-tecnologica e che utilizzi nel suo sviluppo tecniche di elevata complessità per i profani della materia 38. Per questo deve essere realizzato da per-sonale altamente qualificato formato da istituti di ricerca riconosciuti, poiché il ricorso a questo tipo di metodologie significa, effettivamente, svolgere un’attività che solo un esperto è in grado di realizzare 39.

Inoltre, deve essere un metodo che si avvalga di standard scientifici oggettivamente attendibili, cioè che riunisca le qualità di razionale, sistematico, esatto, verificabile, fallibile, e la cui tecnica di produzio-ne offra un’alta percentuale statistica sulla certezza del procedimento impiegato 40. Tuttavia, in relazio-ne a quest’ultimo, si deve tener presente che tale percentuale statistica, per quanto elevata possa essere, unicamente trasmette informazioni in termini probabilistici, tale per cui esse siano idonee a consentire, attraverso la ricostruzione dei fatti, di pervenire ad una verità giudiziaria soltanto formale 41, anche se maggiiormente oggettiva, diversamente da quanto accade, per esempio, con la prova testimoniale.

SUL CONCETTO DI PROVA SCIENTIFICA NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO SPAGNOLO

La definizione di prova scientifica risulta complessa nella misura in cui non esiste uniformità nel lin-guaggio impiegato, motivo per cui sorgono certe ambiguità, e da cui nascono alcune discussioni senza fondamento. Così, secondo alcuni Autori, l’espressione «prova scientifica» riguarda tutte le ipotesi in cui si impiegano metodologie scientifiche per giudicare la verità di un fatto rilevante per la decisione di un caso 42. Altri qualificano genericamente “prova scientifica” qualsiasi tipo di prova per esperti che ab-bia una complessità maggiore rispetto alla comune prova peritale 43.

Secondo un’altra opinione, è “scientifica” la prova che impiega strumenti tecnici inediti, al di fuori di quelli considerati “comuni” 44, come può essere il ricorso alla neuroscienza 45, alla ricostruzione dei

37 In questo caso «si tratta di vere e proprie prove, in quanto il giudice non si limita a trarre dalla consulenza elementi di valutazione di prove offerte dalle parti, ma si avvale della stessa, sul piano probatorio, per acquisire la diretta conoscenza di un fatto biologico, rilevabile unicamente attraverso sofisticate indagini da svolgere nell’ambito di complesse strutture laborato-ristiche”; così, M. Villani, Prova scientifica e istruttoria nel processo ordinario, nel procedimento cautelare e nei procedimenti speciali, Re-lazione all’incontro di studio sul tema “La prova scientifica”, Roma, 15-17 marzo 2004, dattil., 4.

38 L. Giannin, La prueba científica (relato general), transcripción del XXIV Congreso Nacional de Derecho Procesal, Mar del Plata, Argentina, novembre 2007, p. 8.

39 All’esperto può esser chiesto di: “individuare leggi scientifico-tecniche valide a inferire un fatto da un altro e metterle a disposizione delle parti e del giudice perché questi svolgano tale inferenza; operare egli stesso tale inferenza sulla base di dati fattuali già introdotti nel processo con altro mezzo di prova (testimonianza, documento) ovvero sulla base di dati reperiti da lui stesso con una propria precedente indagine o ricavati dal patrimonio delle conoscenze scientifiche; svolgere la medesima inferenza da dati fattuali non costituenti elementi di prova acquisiti al processo né estraibili da una conoscenza specialistica, ma solo postulati”; cfr. O. Dominioni, La prova penale scientifica, cit., p. 40.

40 M. Bunge, La ciencia, su método y su filosofía, Laetoli, 2013, p. 31. 41 C. Intrieri, L’euristica scientifica. Bouna e cattiva scienza nel proceso penale, cit., p. 47. 42 M. Taruffo, Prova, in Dig. disc. priv., Torino, Utet, 1990, tomo XVI, pp. 22-23. Simile posizione assume in La prova dei fatti

giuridici, Milano, Giuffrè, 1992, p. 468, dove si riferisce alla prova scientifica come «quella che richiede l’utilizzo di metodologie scientifiche».

43 C.H. Cwik-H.E. Witt, Scientific Evidence Review: Current Issues at the Crossroads of Science, Technology and Law, American Bar Association, 2006, p. 28.

44 O. Dominioni, Prova scientifica e regole probatorie del processo penale, in M. Cucci-G. Gennari-A. Gentilono (a cura di), L’uso della prova scientifica nel processo penale, San Marino, Maggioli, 2012, p. 79.

45 Su queste metodologie di indagine nel processo penale si veda, per esempio, B. Garland, Neuroscience and the Law. Brain,

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fatti attraverso un programma informatico 46 (cioè ogni prova basata su una nuova tecnica scientifica) 47. Altri ancora ritengono che è “prova scientifica” quella che deriva dalla conoscenza scientifica – una co-noscenza forense che ha finalità processuali –, indipendentemente dal fatto che la tecnica impiegata per la sua realizzazione sia di ultima generazione o no 48.

Questa complessità terminologica si deve, principalmente, al fatto che l’espressione “prova scientifi-ca” 49 è un termine situato in una zona che si colloca tra la scienza e il processo e che richiede che la sua definizione abbia elementi, da un lato, della nozione polisemica di prova e, dall’altro, della difficoltà di tracciare una linea di demarcazione netta tra ciò che realmente è scienza da ciò che si professa come ta-le, senza esserlo.

LA PLURALITÀ DI PROVE SCIENTIFICHE

Al di là della contraddittorietà terminologica appena esposta, per tentare di elaborare una nozione di prova scientifica, sembra opportuno chiarire che non ci si riferisce ad un’unica prova, ma piuttosto ad una categoria probatoria che ingloba numerose classi di prove, che rimandano ad un numero elevatis-simo ed in continua espansione di scienze e di metodi scientifici 50. Ciò vuol dire, come si è indicato in precedenza, che con l’espressione prova scientifica si designano molteplici presupposti che utilizzano differenti tipi di scienze 51 (l’informatica, la fisica, la biologia, la neurologia etc.). In tale prospettiva, co-stituiscono prove scientifiche «tutte quelle indagini che richiedono per la loro conclusione il ricorso a una conoscenza tecnico-scientifica, che offre un risultato il cui grado di probabilità è considerevolmente alto» 52.

Per questo sarebbe più corretto parlare non tanto di prova scientifica quanto di metodi scientifici 53, poiché ogni scienza possiede i propri concetti generali ed i propri criteri di validità che saranno utiliz-zati nell’una e nell’altra fase del procedimento a seconda delle esigenze. Non è quindi possibile unifica-re in maniera omogenea tutti i paradigmi delle distinte scienze 54 poiché nel processo non entra un solo tipo di scienza né un solo tipo di metodo scientifico 55. Ciò che è possibile fare è raggruppare tutti questi elementi di convincimento, che sono il frutto del progresso tecnologico e dei più recenti sviluppi nel campo sperimentale, in una categoria unica distinta dalle altre per il fatto che segue una metodologia retta da principi propri e di stretto rigore scientifico, i cui risultati riconoscono una certezza maggiore rispetto a quella comune delle prove e che sono ottenuti attraverso pareri o opinioni di enti o istituzioni tecnicamente specializzate 56.

Mind and the Scales of Justice, Dana Press, Washington, 2004; R.W. Uttal, Neuroscience in the Courtroom: What Every Lawyer Should Know About the Mind and the Brain, Lawyers & Judges Publishing, Tucson, 2008; D. Jacobs, Analyzing criminal minds: forensic inve-stigative science for the 21st century, ABC-CLIO, California, 2011.

46 Sull’uso del computer come strumento nel processo cfr. F. Sbisà, «La computer generated evidence da strumento a prova scientifico-tecnica nel processo penale statunitense», in C. Conti, Scienza e processo penale. Nouve frontiere e vecchi pregiudizi, Mila-no, Giuffrè, 2011, p. 423 ss.

47 K.R. Foster-P. W. Huber, Judging Science: Scientific Knowledge and the Federal Courts, MIT Press, Massachussetts, 1999, p. 87. 48 In questo senso cfr., T.F. Kiely, Forensic Evidence: Science and the Criminal Law, CRC, New York, 2006, p. 21. 49 E. Florian, Delle prove penali, Milano, Giuffrè, 1961, p. 4 ss. 50 R. Valli, Le indagini scientifiche nel procedimento penale, Milano, Giuffrè, 2013, pp. 4-5. 51 M. Taruffo, La prova dei fatti giuridici, cit., p. 277. 52 J.C. Quirós Fernández, Congresos Nacionales de Derecho Procesal. Conclusiones, Rubinzal Culzoni, Santa Fe, 1999, p. 268. 53 M. Taruffo, Conoscenza scientifica e decisione giudiziaria: profili generali, in Decisione giudiziaria e verità scientifica, Milano, Giuf-

frè, 2005, p. 10. 54 M. Taruffo, Conoscenza scientifica e decisione giudiziaria: profili generali, in AA.VV., Decisione giudiziaria e verità scientifica, Mi-

lano, Giuffrè, 2005, p. 5. È dello stesso avviso, F. Caprioli, La scienza “cattiva maestra”: le insidie della prova scientifica nel processo penale, in Cass. pen., 2009, p. 3520.

55 F. Caprioli, La scienza “cattiva maestra”: le insidie della prova scientifica nel processo penale, in Cass. pen., 2008, p. 3523. 56 M.S. Midón, «Pericias biológicas. Enigmas que se le plantean al hombre de Derecho», Ed. Jurídicas Cuyo, Mendoza, 2005, p. 29;

dello stesso autore Interrogantes y soluciones en materia de prueba científica, in Libro de ponencias generales y trabajos selecciona-dos, XXIII Congreso Nacional de Derecho Procesal, Mendoza, 2005 p. 922; dello stesso Autore, Pruebas biológicas y cosa juzgada ¿El desarrollo de nuevos estudios genéticos o el perfeccionamiento de los ya existentes, habilita la revisión de la cosa juzgada formada sobre la base de metodologías superadas?, in Revista de Derecho Procesal, 2005, n. 1, prova 1, Rubinzal Culzoni, Santa Fe, 2005, p. 264.

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PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA “PROVA SCIENTIFICA”

Nella ricerca della delimitazione del concetto di prova scientifica, si considera conveniente sottolineare alcuni tratti che permettono di individuarla come una categoria unica, distinta dal resto delle prove. Questa attività diretta a determinare quando un modello probatorio acquisisce una serie di caratteristi-che che lo trasformano in un qualcosa di indipendente, è un’attività particolarmente complessa, e svol-gere tale compito con riguardo alla prova scientifica lo è ancora di più. Tuttavia, risulta essenziale far risaltare alcuni requisiti che possono essere indicativi del momento in cui tale modello va considerato in modo differente rispetto all’insieme delle prove tradizionali; molti di questi requisiti coincidono con quelli che definiscono il metodo scientifico. Per individuare la nozione di prova scientifica nel quadro della teoria generale della prova si segnalano di seguito le note distintive che consentono che tale attivi-tà probatoria possa identificarsi come scientifica.

Perché una prova sia scientifica: (i) deve consistere in un esperimento che si realizzi su una fonte particolare, specifica, in cui si registra il fatto; (ii) deve esistere una legge scientifica o teoria scientifica accettata dalla comunità di riferimento che avalli il menzionato esperimento; (iii) deve ricorrersi ad elementi complessi o di alta tecnologia per realizzare gli esperimenti necessari per ottenere l’infor-mazione cercata; (iv) la sua analisi e valutazione devono superare il livello medio della conoscenza; (v) nella sua produzione deve predominare una metodologia retta da principi propri e rigore scientifico 57; (vi) deve esservi l’intervento di professionisti altamente qualificati e specializzati per la comprensione del fenomeno e per l’applicazione di criteri 58; (vii) la sua produzione deve avvenire nel rigoroso rispet-to del contraddittorio – soprattutto quando si tratta di analisi irripetibili –; (vii) i risultati conseguiti de-vono apportare un’elevata percentuale di certezza; (ix) i risultati probatori devono essere valutati in modo particolarmente rigoroso, perché, per potersi allontanare dalle conclusioni ottenute con queste prove, il giudice deve poter riconoscere ad altre prove un peso equivalente a quello apportato da quelle scientifiche 59.

A tali caratteristiche bisogna aggiungere che non siamo di fronte ad un numerus clausus, ma piutto-sto di fronte ad una categoria in espansione permanente.

BREVI RILIEVI CONCLUSIVI

Alla luce dell’analisi svolta, si può affermare che la prova scientifica è quella prova che si forma attra-verso l’utilizzo del metodo scientifico durante tutta l’attività probatoria – ottenimento, trattamento, conservazione, ammissibilità, pratica e valutazione – che richiede conoscenze settoriali specializzate che sfuggono al sapere del giudice, e che è svolta mediante il ricorso a leggi e principi scientifici, ad équipe e procedimenti complessi di elevato livello tecnologico, che richiedono personale qualificato per giun-gere a produrre dei risultati di altissima probabilità, le cui conclusioni sono, oltretutto, suscettibili di verifica e controllo.

57 A.M. Morello, La prueba científica, L. L. 1999-C-897. 58 E. Falcón, La prueba científica, cit. 59 F. Verbic, La Prueba científica en el proceso judicial. Identificación de la noción en el marco de la teoría general de la prueba. proble-

mas de admisibilidad y atendibilidad, Rubinzal Culzoni, 2008, p. 40 ss.

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AUTORI / AUTHORS

Teresa Alesci Sezioni Unite 403 Laura Capraro Corte costituzionale 399 Federica Casasole Provvisionale disposta in appello senza gravame della parte civile /A provisional reimbursement may be granted or amended for the first time from the Court of appeal judge without the notice of objec-tion from civil part 470 Danila Certosino De jure condendo 389 Paola Corvi Decisioni in contrasto 412 Donatella Curtotti L’acquisizione e l’elaborazione dei tabulati telefonici riferibili a membri del Parlamento: vec-chie questioni di diritto sostanziale e nuove querelles processuali /Collection and analysis of tele-phone records concerning Members of Parliament: old questions of substantive law and new procedural querelles 494 Gaspare Dalia L’interesse ad impugnare la sospensione condizionale disposta d’ufficio: un illuminato arresto della Corte /The interest to appeal the sentence that grants the conditional suspension not requested: an innovative stare decisis of the S.C. 453 Pierpaolo Dell’Anno Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio” / Obligation to state reasons and reasonable doubt 522 Maria Lucia Di Bitonto Interessanti puntualizzazioni in materia di avocazione facoltativa /Interesting clarifications re-garding the rule provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure 514 Federico Lucariello Novità legislative interne/National legislative news 381 Antonella Marandola La tutela dell’identità personale (informatica), anche del soggetto coinvolto in un processo pe-nale/The defense of personal identity (computer science), also of the person involved in a criminal trial 371 Natalia Rombi La particolare tenuità del fatto nel giudizio di Cassazione/The particular tenuity of the fact in the judgement of the Supreme Court of Cassation 422

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 541

INDICI

Ana Sánchez Rubio La prova scientifica nel processo penale spagnolo: un nuovo volto istruttorio / The Scientific Evidence in the Spanish criminal proceedings: a new way to proof 531 Marcello Stellin Corti europee/European Courts 391 Giuseppe Tabasco Il difficile raccordo fra indagini difensive e giudizio abbreviato/The difficult question of defence investigations and shortened proceedings 438 Marina Troglia Novità sovranazionali/Supranational news 386 Francesco Vergine Il d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202: un ulteriore ampliamento della confisca di estrazione europea, tra le “solite” novità e i mancati adeguamenti / The legislative decree of october 29, 2016, n. 202: another extension of confiscation coming from Europe, between the classics "innovations" and missed adaptations 504

PROVVEDIMENTI / MEASURES

Corte costituzionale C. cost., ord. 7 dicembre 2016, n. 46 401 C. cost., ord. 11 gennaio 2017, n. 54 400 C. cost., sent. 26 gennaio 2017, n. 21 399

Corte di cassazione – Sezioni Unite penali sentenza 15 dicembre 2016, n. 53153 460 sentenza 10 febbraio 2017, n. 6296 403 sentenza 14 febbraio 2017, n. 6903 404 sentenza 17 febbraio 2017, n. 7697 405 sentenza 22 febbraio 2017, n. 8825 406 sentenza 16 marzo 2017, n. 12621 407 sentenza 17 marzo 2017, n. 12872 409 sentenza 17 marzo 2017, n. 13199 410

Corte di Cassazione – Sezioni semplici Sezione VI, 22 sentenza novembre 2016, n. 49538 476 Sezione VI, sentenza 2 dicembre 2016, n. 51615 415 Sezione IV, sentenza 15 novembre 2016, n. 51950 433 Sezione III, sentenza 25 febbraio 2016, n. 48569 450

Decisioni in contrasto Sezione I, 22 febbraio 2017, n. 8805 412 Sezione VI, 13 marzo 2017, n. 11954 413

Corte europea dei diritti dell’uomo Corte e.d.u., 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia 397 Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, D’Alconzo c. Italia 397 Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, De Tommaso c. Italia 391 Corte e.d.u., 2 marzo 2017, Talpis c. Italia 394

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 542

INDICI

Atti sovranazionali Legge 3 novembre 2016, n. 211 «Ratifica del Trattato di estradizione tra Repubblica italiana e la Repubblica del Cile, sottoscritto a Roma il 27 febbraio 2002, con Protocollo addizionale, fatto a Santiago il 4 ottobre 2012 (nonché dell’Accordo di mutua assistenza amministrativa per la prevenzione, l’accertamento e la repressione delle infrazioni doganali, firmato a Bruxelles in da-ta 6 dicembre 2005» 386

Norme interne Decreto legge 20 febbraio 2017, n. 14 «Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città» 381

De jure condendo Disegno di legge C. 4239 «Abrogazione del comma 3 dell’articolo 597 del codice di procedura pe-nale, in materia di divieto di reformatio in pejus nel processo d’appello in caso di proposizione dell’impugnazione da parte del solo imputato» 389 Disegno di legge 2678 «Modifiche al codice di procedura penale in materia di costituzione di parte civile dello Stato e delle regioni nei procedimenti penali per i reati di associazione mafiosa, nonché disposizioni per la destinazione delle somme derivanti dalle restituzioni e dal risarcimento del dan-no» 390

MATERIE / TOPICS

Appello Consentita in appello la provvisionale alla parte civile non impugnante (Cass., sez. un., 15

dicembre 2016, n. 53153), con nota di Federica Casasole 460

- motivi I requisiti di ammissibilità dell’atto di appello: la specificità dei motivi (Cass., sez. un., 22

febbraio 2017, n. 8825) 406 Il giudice dell’appello non può applicare sanzioni sostitutive senza una specifica richiesta

(Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 12872) 409

Avocazione

- facoltativa Interessanti puntualizzazioni in materia di avocazione facoltativa /Interesting clarifications

regarding the rule provided by article 412 of the Italian Code of Criminal Procedure, di Maria Lu-cia Di Bitonto 514

Confisca Il d.lgs. 29 ottobre 2016, n. 202: un ulteriore ampliamento della confisca di estrazione euro-

pea, tra le “solite” novità e i mancati adeguamenti / The legislative decree of october 29, 2016, n. 202: another extension of confiscation coming from Europe, between the classics "innovations" and missed adaptations, di Francesco Vergine 504

Le condizioni ed i limiti della confisca dei beni dopo la morte del soggetto socialmente pe-ricoloso (Cass., sez. un., 16 marzo 2017, n. 12621) 407

Difesa e difensore Ritualità o invalidità delle notifiche effettuate presso il difensore di fiducia ex art. 157,

comma 8-bis, c.p.p. pur in presenza di elezione o dichiarazione di domicilio (Cass., sez. VI, 13 marzo 2017, n. 11954) 413

Diritti fondamentali (tutela dei) Diritto al rispetto della vita privata e familiare – abusi sui minori – rapporti tra processo

penale e civile (Corte e.d.u., 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia; Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, D’Alconzo c. Italia) 397

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 543

INDICI

Diritto alla vita – Divieto di trattamenti inumani o degradanti – obblighi positivi – violenza domestica (Corte e.d.u., 2 marzo 2017, Talpis c. Italia) 394

La tutela dell’identità personale (informatica), anche del soggetto coinvolto in un processo penale/The defense of personal identity (computer science), also of the person involved in a crimi-nal trial, di Antonella Marandola 371

Libertà di movimento – equo processo – misure di prevenzione (Corte e.d.u., 23 febbaio 2017, De Tommaso c. Italia) 391

Divieto di reformatio in peius L’abolizione del divieto di reformatio in peius (D.d.l. C. 4239 «Abrogazione del comma 3

dell’articolo 597 del codice di procedura penale, in materia di divieto di reformatio in pejus nel processo d’appello in caso di proposizione dell’impugnazione da parte del solo imputato» 386

Estradizione Il trattato di estradizione tra Italia e Cile (L. 3 novembre 2016, n. 211 «Ratifica del Trattato di

estradizione tra Repubblica italiana e la Repubblica del Cile, sottoscritto a Roma il 27 febbraio 2002, con Protocollo addizionale, fatto a Santiago il 4 ottobre 2012 nonché dell’Accordo di mutua assisten-za amministrativa per la prevenzione, l’accertamento e la repressione delle infrazioni doganali, fir-mato a Bruxelles in data 6 dicembre 2005») 386

Giudice

- esecuzione penale In sede di applicazione della disciplina del reato continuato, il giudice dell’esecuzione non

può quantificare gli aumenti di pena per i reati satellite in misura più gravosa (Cass., sez. un., 10 febbraio 2017, n. 6296) 403

Impugnazioni Consentita in appello la provvisionale alla parte civile non impugnante (Cass., sez. un., 15

dicembre 2016, n. 53153), con nota di Federica Casasole 460

- principio devolutivo Sospensione condizionale della pena nella condanna alla sola ammenda: impugnabilità del

beneficio non richiesto (Cass., sez. III, 25 febbraio 2016, n. 48569), con nota di Gaspare Dalia 450

Indagini preliminari

- difensive È precluso acquisire indagini difensive durante il giudizio abbreviato “incondizionato”

(Cass., sez. IV, 15 novembre 2016, n. 51950), con nota di Giuseppe Tabasco 433

Invalidità

- nullità L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare integra

una nullità assoluta ed insanabile (Cass., sez. un., 17 febbraio 2017, n. 7697) 405

Messa alla prova Legittimo l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova disciplinato

dall’art. 168-bis c.p. (C. cost., ord. 11 gennaio 2017, n. 54) 400

Minori Diritto al rispetto della vita privata e familiare – abusi sui minori – rapporti tra processo

penale e civile (Corte e.d.u., 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia; Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, D’Alconzo c. Italia) 397

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 544

INDICI

Misure di prevenzione Libertà di movimento – equo processo – misure di prevenzione (Corte e.d.u., 23 febbaio 2017, De

Tommaso c. Italia) 391

Motivazione Obbligo di motivazione e “ragionevole dubbio” / Obligation to state reasons and reasonable

doubt, di PierPaolo Dell’Anno 522

Parti eventuali

- parte civile Consentita in appello la provvisionale alla parte civile non impugnante (Cass., sez. un., 15

dicembre 2016, n. 53153), con nota di Federica Casasole 460 D.d.l. 2678 «Modifiche al codice di procedura penale in materia di costituzione di parte civile dello

Stato e delle regioni nei procedimenti penali per i reati di associazione mafiosa, nonché disposizioni per la destinazione delle somme derivanti dalle restituzioni e dal risarcimento del danno» 390

Prescrizione L’inammissibilità del ricorso per uno dei capi di una sentenza cumulativa impedisce di ri-

levare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Cass., sez. un., 14 febbraio 2017, n. 6903) 404

Processo penale

- civile (rapporti con il) Diritto al rispetto della vita privata e familiare – abusi sui minori – rapporti tra processo

penale e civile (Corte e.d.u., 9 febbraio 2017, Solarino c. Italia; Corte e.d.u., 23 febbraio 2017, D’Alconzo c. Italia) 397

- spagnolo La prova scientifica nel processo penale spagnolo: un nuovo volto istruttorio / The Scientific

Evidence in the Spanish criminal proceedings: a new way to proof, di Ana Sánchez Rubio 531

Prova

- scientifica La prova scientifica nel processo penale spagnolo: un nuovo volto istruttorio / The Scientific

Evidence in the Spanish criminal proceedings: a new way to proof, di Ana Sánchez Rubio 531

- valutazione della (art. 192, comma 3, c.p.p.)

- dichiarazioni rese dall’imputato in procedimento connesso o per reato collegato Inapplicabile l’art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni degli imputati in procedimento

connesso o per reato collegato, assolti con sentenza divenuta irrevocabile perché “il fatto non sussiste” (C. cost., sent. 26 gennaio 2017, n. 21) 531

Revisione Contro la sentenza della Cassazione nel giudizio di revisione è ammissibile il ricorso

straordinario per errore materiale o di fatto (Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 13199) 410

Ricorso straordinario per errore materiale o di fatto Contro la sentenza della Cassazione nel giudizio di revisione è ammissibile il ricorso

straordinario per errore materiale o di fatto (Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 13199) 410

Sanzioni sostitutive Il giudice dell’appello non può applicare sanzioni sostitutive senza una specifica richiesta

(Cass., sez. un., 17 marzo 2017, n. 12872) 409

Processo penale e giustizia n. 3 | 2017 545

INDICI

Sentenza

- improcedibilità Dissenso dell’imputato alla definizione del giudizio con sentenza di improcedibilità per

“lieve entità”: un’occasione persa per fare chiarezza (C. cost., ord. 7 dicembre 2016, n. 46) 401 L’inammissibilità del ricorso per uno dei capi di una sentenza cumulativa impedisce di ri-

levare la prescrizione maturata dopo la sentenza di appello (Cass., sez. un., 14 febbraio 2017, n. 6903) 404

Sicurezza pubblica Sicurezza integrata e sicurezza urbana (D.l. 20 febbraio 2017, n. 14 «Disposizioni urgenti in ma-

teria di sicurezza delle città») 381

Sospensione condizionale della pena Sospensione condizionale della pena nella condanna alla sola ammenda: impugnabilità del

beneficio non richiesto (Cass., sez. III, 25 febbraio 2016, n. 48569), con nota di Gaspare Dalia 450

Tabulati telefonici/telematici Alt all’acquisizione di tabulati relativi a colloqui telefonici di parlamentari senza l’assenso

della Camera competente (Cass., sez. VI, 22 novembre 2016, n. 49538), con nota di Donatella Curtotti 476

Tenuità del fatto La Corte proscioglie per tenuità del fatto applicando lo jus superveniens (Cass., sez. VI, 2 di-

cembre 2016, n. 51615), con nota di Natalia Rombi 415

Termini

- restituzione in I tempi di presentazione della richiesta di restituzione in termini, in caso di spedizione a

mezzo del servizio postale (Cass., sez. I, 22 febbraio 2017, n. 8805) 412

Udienza preliminare L’omessa notifica all’imputato dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare integra

una nullità assoluta ed insanabile (Cass., sez. un., 17 febbraio 2017, n. 7697) 405